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I CANTI POPOLARI E I RITI DI SAN GIOVANNI BATTISTA NELLA LETTERATURA

Quando si pensa alle Tradizioni Popolari nella Letteratura è immediato il Binomio Deledda-
Tradizioni Popolari. I suoi romanzi offrono uno spaccato della vita quotidiana in Sardegna
raccontandoci personaggi sempre sospesi tra un desiderio di fuga verso la modernità da un mondo
chiuso e per certi versi barbaro, e la paura di lasciarlo; per la paura di perdere quella sicurezza data
proprio da quella ritualità dei gesti quotidiani legati alla tradizione che seppur non rappresentavano
mai una novità davano però una certezza, una sicurezza contro l’ignoto.
Quando Grazia Deledda, più di un secolo fa, raccolse le tradizioni popolari della sua Nuoro e della
sua Barbagia forse non sapeva che servizio rendeva e avrebbe reso alla sua comunità. Allora Nuoro
era una comunità rurale e pastorale, ma in poco tempo divenne capoluogo di provincia (1926) e la
popolazione si trasformò appunto da rurale in impiegatizia, moderna. Divenne una ridente cittadina
arroccata ai piedi dell’Orthobene, testimone dei suoi numerosissimi romanzi. Tutte le notizie,
contos, canzoni, poesie che ella raccolse nascevano spontaneamente nella quotidianità delle sue
giornate. Bastava voltarsi intorno, andare nelle campagne, entrare nell’intimità delle famiglie; e
quelle che oggi sono tradizioni allora erano consuetudini. Probabilmente se allora avesse previsto
che il suo mondo sarebbe cambiato così velocemente avrebbe approfondito la sua ricerca. Nei suoi
romanzi ricorre la presenza quasi costante dei canti improvvisati, delle poesie, de su Sonette, che
rallegravano le serate di festa o accompagnavano le malinconie dei personaggi. E sembra di sentirlo
suonare su sonette ed immaginarlo in bocca ad un bambino inesperto o a un pastore che
accompagna il gregge nel suo rientro a casa, al tramonto.
Il mondo che lei racconta è un mondo diviso, pastori contro i contadini, che in poche occasioni si
incontravano perché maggiori erano i motivi di scontro. Basti pensare agli sconfinamenti degli
animali, all'origine di tante lotte. Ci si incontrava per le feste sacre e profane, in occasione delle
quali le divisioni venivano messe da parte, e si assisteva ad un appiattimento sociale e culturale non
nel senso negativo del termine ma nel senso di un equilibrio sociale, senza divergenze e senza
differenze. La Deledda unisce questa passione per le tradizioni della sua terra alla sua passione per
la scrittura, e gli usi e i costumi rivivono e si perpetuano nelle vite dei suoi personaggi.
Abbiamo visto in Colombi e Sparvieri come ricorreva la presenza del canto, della musicalità in tutte
le sue sfaccettature tanto cara alla tradizione sarda. Il canto fa parte della storia culturale popolare.
Per secoli ha segnato le varie tappe della vita: la nascita, il matrimonio, le veglie funebri;
accompagnava il ciclo produttivo e tutti quei momenti lavorativi in cui la comunità si ritrovava
riunita, come per la mietitura o la vendemmia. In quelle occasioni, si ripetevano le storie di vita
peculiari del luogo, miti e leggende, e il canto segnava la continuità della tradizione. E questi
diversi tipi di canto si rincorrono nei sui romanzi: dalle ninnananne a is atitidus, dalla nascita alla
morte. Una delle forme di canto a cui spesso si fa riferimento e nella narrativa di Costa e in quella
della Deledda è la Poesia improvvisata. La gara poetica segnava un momento particolare per la
comunità. Attirava gli scrittori per le dinamiche, la varietà dei metri impiegati, la difficoltà degli
argomenti e poi perché occupava un posto di rilievo nella cultura isolana ed era espressione
fortemente comunicativa del popolo sardo. Ne Il muto di Gallura Costa fa riferimento alla poesia
improvvisata in accostamento proprio a questa naturale inclinazione del popolo sardo
all’improvvisazione poetica. Siamo in occasione del rito dell’abbraccio che suggellava la proposta
di matrimonio. Quale occasione migliore per coronare questo giorno di festa? Così scrive:

“Ricambiati i doni un giovane pastore si alzò in piedi ed improvvisò una bella poesia, dove si descrivevano le rare doti
dei due sposi e la solennità del rito. Era una vera poesia ricca di immagini, e di similitudini, come sanno improvvisarla
quei popoli entusiasti e di fervida immaginazione.” 1

Più avanti, invece, fa riferimento a una lamentazione funebre e la descrive in maniera dettagliata
riportandone però la traduzione in italiano. Ecco se la Deledda in un suo romanzo fa riferimento a
un atitidu lo racconta e basta. Lo da come un dato acquisito. Il suo atteggiamento non è quello
demologico di chi vuole descrivere con rigore quasi scientifico una pratica o un rito, ma è
l’atteggiamento di chi vuole rendere partecipe raccontando le emozioni e la pratica in maniera
spontanea e diretta. Sentite la curiosa differenza nelle descrizioni:

“Non dimenticherò mai la triste scena. Rimasi ore ed ore impietrito in un angolo guardando mio padre morto e le donne
ululanti. Avrei voluto cacciarle fuori ma non osavo perché la presenza del cadavere con quel viso violetto che pareva
sogghignasse di dolore e di beffe mi imponeva rispetto. D'altronde quei gridi funebri scomposti, d'un dolore folle, mi
sembravano talvolta i gridi stessi del mio cuore. Tacevo, ma tutto gridava entro di me. Portato via il cadavere mi scossi
dal mio dolore. Alcune donne continuavano ad ululare mentre le prefiche di mestiere ricevevano già il compenso: una
misura di frumento e una libbra di formaggio. La vedova batteva la testa contro il giaciglio dal quale era stato portato
via il cadavere. Io mi alzai e dissi: 'Adesso basta: tutto è finito". […] Mi alzai una seconda volta e dissi con forza:
"Donne, adesso basta. Andatevene, se no vi caccio via per forza'”.2

L’altra è questa:
“Con le braccia conserte sul petto egli fissò più volte il suo figliuolo, che parea dormisse; indi si mise a passeggiare da
un capo all’altro della stanza, in preda ad una smania febbrile. Invano gli astanti cercavano di consolarlo: egli non
ascoltava nessuno. Dava un rapido sguardo a quel volto color di cera e a quelle membra irrigidite dalla morte, e
continuava a passeggiare in mezzo ai pianti e alle grida dei parenti e delle comari che ingombravano la sua casa. Ad un
certo punto, una giovinetta diciottenne, ch’era stata taciturna in un angolo della stanza, uscì nelle seguenti lamentazioni,
con un linguaggio orientale, biblico. Era una specie di nenia (attititu) che molto spesso spesso si pronuncia nei funerali ,
da persone anche della famiglia.” 3

1
E. Costa, Il muto di Gallura, Nuoro, Ilisso, 1998, p. 62.
2
G. Deledda, Colombi e spervieri, Milano, Mondadori, 1941, p. 208.
3
E. Costa, op. cit. p. 80.
Segue la nota:

La prefica improvvisatrice soleva essere d’ordinario la più giovane; essa tesseva le lodi dell’estinto, e talvolta eccitava i
parenti alla vendetta. Questa usanza molto in voga nella prima metà del secolo, andò man mano decadendo, ed oggi è
quasi cessata. Ecc...

Facile intuire quale possa essere il testo della Deledda e quello del Costa. Costa descrive, Deledda
racconta e coinvolge.
La Deledda contrariamente a quello che si potrebbe pensare aveva una visione particolare della
poesia popolare sarda. Mentre, come già aveva notato E. Costa, i sardi prediligevano quella
improvvisata, semicolta, la nostra scrittrice si rivela contro tendenza in barba anche alla sua
formazione culturale; rifiutò il punto di vista interno della sua comunità, prediligendo quello esterno
degli studiosi delle altre regioni che snobbavano la poesia semidotta in favore di quella popolare,
che secondo loro rappresentava l’anima di un popolo. Nei suoi romanzi, infatti, troviamo solo
accenni a questo genere poetico, allorché sia necessario per la ricostruzione di una ambiente o una
situazione particolari. I contenuti vengono accennati raramente riportati. Uno di questi casi è in
Canne al vento in cui si descrive un momento di grande festa e la gara poetica così come la morra e
i canti corali non potevano che esserne espressione:

“Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata dai gridi dei rivenditori, dall'urlo dei giocatori di morra, dai canti
corali o dai versi dei poeti estemporanei.
Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un
idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di Libia: eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si
accalcavano uomini e ragazzi: di tanto in tanto qualcuno si curvava per prendere di terra un bicchiere di vino.
“Bibe, diauu!”
“Salute!”
“Che possiamo conoscerla cento anni di seguito, questa festa, sani e allegri.”
“Bibe , forca!”
Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco e vestito come un eroe di Omero, cantava:
Su turcu non si cheret reduire,
Anzis pro gherrare est animosu,
S'arabu inferocidu est coraggiosu,
Si parat prontu né cheret fuire...

I bicchieri passavano da una mano all'altra; qualche donna s'affacciava timidamente alla porta.
E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte e due
le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi singhiozzando come una prèfica:
Basta, non poto pius relatare,
Discurro su chi poto insa memoria,
Chi àppana in dogni passu sa vittoria.
De poder tottu l'Africa acquistare;
Tranquillos e sanos a torrare,
Los assistansos Santos de sa Gloria,
E cun bona memoria e vertude
Torren a dom'issoro chin salude!”4

4
G. Deledda, Canne al vento, Firenze, Giunti, 2006, p. 84.
Diversa è il discorso per la poesia popolare: mutos, anninnias, battorine ecc. Nell’opera
deleddiana compaiono moltissime battorine, preghiere popolari, ninnananne. Certamente il loro
utilizzo era facilitato dalla ricerca svolta dalla scrittrice ma nella scelta di questa forme popolari
denota anche un interesse particolare, mentre la poesia estemporanea rimaneva in secondo piano.
Va sottolineato che comunque anche nell’individuazione delle poesie popolari qualche errore lo
commise. Piuttosto si fece coinvolgere dalla polemica romantica che nacque in seno alla poesia
popolare sarda. I maggiori studiosi del periodo parlavano addirittura, come il Valle, di “cattivo
gusto locale” proprio per la predilezione che i sardi avevano per la gara poetica.
Sebastiano Satta (1867-1914), al contrario, nell’opera postuma I canti del salto e della Tanca,
riserva un’ampia sezione a un’interpretazione in lingua italiana dei Mutos, e dedica una poesia ai
rapsodi sardi paragonandoli agli aedi dell’antica Grecia, e descrivendone il ruolo fondamentale
nella cultura sarda:

O gioja in rimirarvi alti rapiti


Sulla festosa folla che vi abbraccia
Rinfiammandovi in cuor gli estri sopiti,
Col suo palpito immenso! Ecco, un’ebrezza
Visibile v’inebria: arde la faccia
Alla sùbita febbre, e la lietezza
Dell’anima trabocca in inni e in canti
Meravigliosi. Ed è come stillante
Favo la vostra bocca, dei fragranti
Favi il più colmo e ambrosio: e il vostro cuore
È un montanello sulla onduleggiante
Vetta del pioppo, quando il giorno muore,
E ridon d’oro i colli e vien la sera
Silenzïosa, e dalla rosea rama

[…] Oh gioja udirvi allora, quando piena


Vi sale l’onda delle rime al labbro
Grazïoso! Da quale ignota vena
Tanta dolcezza? Il mesto che vi ascolta
Si rallegra: gli par che un ventilabro
D’oro nel cuor gli ventoli una folta
Messe di speme incognita.[...]

La vostra musa ingenua, a cui l’antico


Idïoma del forte Logudoro
Cinge doppia corona: una d’alloro,
L’altra di rose e d’olivastro aprico.
O sacro idioma, nato tra nuraghi
E tombe e selve in cuore alla pianura,
Lieta di messi d’opre e branchi vaghi:
Maschio eloquio fiorito perché i padri
Ti parlassero gravi sull’altura
Quali profeti, puro a che le madri
Ninniassero i figli, o uccisi o morti
[..]5

5
S. Satta, Canti, Nuoro, Ilisso, 1996, pp. 252-253.
In questi versi l’ammirazione per i poeti, per la loro straordinaria abilità, per la funzione
consolatrice della poesia sarda e l’esaltazione dell’idioma utilizzato. C’è da dire che comunque pur
sottolineando l’importanza dei poeti estemporanei Sebastiano Satta era consapevole che già allora i
tempi stavano cambiavano ed urgeva la concezione di una poesia sarda di impegno politico e civile.

Diverse sono le tradizioni legate alle celebrazioni delle feste che vengono riproposte nei romanzi
sardi. Quella che ha attirato la mia attenzione è il rito legato a San Giovanni Battista, che tanto ha
animato i romanzi di autori sardi e non, basti pensare alla Luna e i falò di Cesare Pavese.
Pavese si chiede il perché del perdurare di uno dei riti più antichi della tradizione popolare. La sua
origine si perde nella notte dei tempi, bisogna andare ben oltre la tradizione cristiana. Con San
Giovanni acquista la sua veste cristiana ma le sue origini vanno cercate altrove.
La festa di san Giovanni Battista è certamente una delle feste che per la ricchezza di cerimoniali e di
riti che la caratterizzano, tra le più affascinanti e interessanti. La sua celebrazione è legata a quella
del solstizio d'estate, che avviene pochi giorni prima. Un misto di sacro e profano, di magia e
religiosità la cui rievocazione ancora accompagna le comunità cattoliche di tutto il mondo. Cade nei
giorni solstiziali, che segnano l'ingresso di una nuova stagione e in un periodo in cui si pensava
avvenissero prodigi di ogni genere, scatenando forze benefiche che coinvolgevano i quattro
elementi: terra, aria, acqua e fuoco. Il solstizio è un punto di svolta dell'anno, lentamente il sole
inizia a declinare, per l'uomo primitivo è il momento di ricorrere a riti magici con cui arrestarne il
declino, o quanto meno garantire la rinascita della vita delle piante. Il falò deve servire a sostenere
l'astro, ad aiutarlo a mantenere la sua potenza, allontanando le forze avverse Un rito quindi che
permette di espellere o tenere lontano tutto ciò che può essere dannoso a uomini, luoghi, piante,
animali. Un rito di purificazione (che fa appello al carattere purificatore del fuoco, e, come
vedremo, anche dell'acqua). Un rito di morte e resurrezione e dunque di fertilità Questa festa aveva,
e ha, una forte incidenza nella vita quotidiana, di intenso valore sociale; sia perché tutta la comunità
partecipa all'organizzazione di questo evento, sia perché tra i riti legati alla celebrazione di questa
festa è presente quello del comparatico, un vincolo che sul piano morale equivaleva a una parentela
di sangue e che comportava l'attuazione di un complesso di diritti e doveri che impegnava le
persone che lo contraevano, per tutta la vita. Oltre al rito del comparatico sono noti altri riti quali
quelli dei fuochi (accesi di notte nei vari vicinati per tenere lontane le tenebre fino al sorgere del
sole), la raccolta delle erbe (che avevano particolari poteri benefici e propiziatori), il culto
dell'acqua (che si pensava avesse virtù taumaturgiche oltre che di purificazione spirituale). Senza
addentrarmi nell'analisi dei riti che compete uno studioso di tradizioni popolari, sarà interessante
vedere quanto sia presente nella letteratura sarda questo rito, e in che termini viene riproposto.
Abbiamo già parlato del fatto che Grazia Deledda, nota soprattutto per la sue opere di narrativa,
fosse anche fine studiosa di tradizioni popolari. Amava inserire nelle sue narrazioni usanze tipiche
della Sardegna, riflesso della cultura agro-pastorale a cui rimase legata anche dopo il suo
trasferimento a Roma.
In una delle sue opere più note, Cenere san Giovanni diventa testimone di un convegno amoroso. I
due protagonisti utilizzano l’espediente della ricerca delle erbe per potersi incontrare. Olì le segna
con dei nastri, vale a dire le lega con un nastro affinché nessuno le tocchi:

[…] Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull'orlo dello stradale che da Nuoro
conduce a Mamojada, e s'avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini,
glauchi e un po' obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due
ciliegie. […] Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i
fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d'asfodelo da cogliere l'indomani all'alba per farne
medicinali ed amuleti. D'altronde Olì pensava che anche non segnando i cespugli che voleva cogliere, nessuno glieli
avrebbe toccati: i campi intorno alla cantoniera dove ella viveva col padre ed i fratellini, erano completamente deserti.
[…] Il cuore le balzava forte, d'ansia, di timore e di gioia. La notte fragrante invitava all'amore e Olì amava, Olì aveva
6
quindici anni e con la scusa di segnare i fiori di San Giovanni andava ad un convegno amoroso .

Olì era contrastata in questo suo amore dal padre che scoprì che il giovane servo di cui era
innamorata la figlia mentì sul nome e sulla sua storia: era infatti sposato. Ma a Olì non importava:
egli le giurava eterno amore e che appena sua moglie sarebbe morta, essendo anziana, lui sarebbe
corso tra le sue braccia e l’avrebbe portata via con se. A Olì bastava questo; ogni parola di Anania
suonava come una dolce musica da cui si faceva cullare.
Anche Anania doveva cercare delle scuse per poter incontrare Olì. Quale scusa migliore se non
quella di dire di dover cercare le erbe magiche per proteggere gli animali in previsione della notte di
San Giovanni.
Anania, invece, coglie il pulegio e l’alloro, da mettere intorno all’ovile per proteggerlo dai rapaci:

«Olì!», chiamò la voce di Anania, dietro una macchia.


Olì tremò, avanzò cauta, cadde fra le braccia del giovine. Sedettero sull'erba ancora tiepida, accanto ad un fascio di
puleggi e d'alloro selvatico che esalava un forte profumo.
«Quasi quasi non venivo», disse il giovine. «La padrona deve sgravarsi stanotte, e mia moglie, che sta ad assisterla,
voleva che io restassi in casa. "No", le dissi, "stanotte devo cogliere il puleggio e l'alloro; non sai che è San Giovanni?"
E son venuto. Ecco». Si frugava in seno, mentre Olì toccava l'alloro chiedendo a che serviva. «Non lo sai, dunque?
L'alloro colto stanotte serve per medicina e per tante altre cose: se, per esempio, tu spargi le foglie di quest'alloro qua e
là sui muri intorno ad una vigna o ad un ovile, gli animali rapaci non potranno penetrarvi, né rosicchiar l'uva, né rapire
gli agnelli».
«Ma tu non sei pastore».
«Io però guarderò la vigna del padrone: poi queste foglie le metterò anche intorno all'aia, perché le formiche non rubino
7
il grano. Verrai tu, quando io batterò il grano? Ci sarà molta gente; faremo festa e alla notte canteremo.»[…]» .

6
G. Deledda, Cenere, Milano, Mondadori, 1955, pp. 3-4.
7
G. Deledda, op. cit. p. 9.
Olì è però ossessionata dalla presenza della moglie del suo amato e mostra al giovane tutta la sua
insicurezza e il suo timore. Lui però riusciva ad incantarla con vane parole a cui la giovane
sventurata credeva:

Olì ascoltava e tremava. Intorno era profondo silenzio; le stelle brillavano sempre più perlate, come occhi sorridenti
d'amore, e sempre più dolci erravano nell'aria i profumi delle erbe aromatiche.
«Mia moglie morrà presto, Olì, cuoricino mio! Sì, che fanno i vecchi sulla terra? Chissà? Fra un anno, forse, noi saremo
sposi.»
«San Giovanni lo voglia!», sospirò Olì. «Ma non bisogna desiderare la morte di nessuno. Ed ora lasciami andare.»
«Rimani ancora un po'», egli supplicò con voce infantile, «perché vuoi andartene così presto? Che farò io senza di te?»
Ma ella si alzò tutta vibrante.
«Forse ci rivedremo domani mattina, perché coglierò le erbe prima che sorga il sole: ti farò un amuleto contro le
tentazioni...»8

Il diverso utilizzo delle erbe è legato evidentemente al distinto ruolo sociale dei personaggi. Se Olì
ne fa un uso propiziatorio e scaramantico, riti che riguardano maggiormente l'entourage femminile,
per Anania la raccolta e la scelta delle erbe sono legate all'ambito agro-pastorale.
Olì quella notte concepirà un figlio. Sola e abbandonata dal suo Anania che tornerà dalla moglie,
ripenserà spesso alla notte di San Giovanni. E quando il figlio crebbe prima di mandarlo alla ricerca
del padre gli consegnerà l’amuleto fatto con le erbe, glielo appenderà al collo. Il giovane lo porterà
con se anche da adulto quando si ritroverà a dover cercare la madre che lo abbandonò in tenera età.

In Colombi e sparvieri, romanzo che narra la storia di un amore contrastato; di colombi e sparvieri,
di buoni e cattivi; di Jorgj, giovane che viene accusato ingiustamente di furto dal nonno della
fidanzata e che si ammalerà dal dispiacere, ritroviamo un diverso riferimento all’alloro, rispetto
all'indicazione che troviamo in Cenere.
Jorgj è a casa, a letto. Attende con ansia una missiva. Arriva il vetturale che cerca di rianimarlo un
po’ consegnandogli la missiva tanto attesa e cercando di coinvolgerlo nella magia della festa di san
Giovanni:
“Jorgj aveva già sentito il passo e palpitava ansioso: i suoi occhi si fecero grandi e luminosi, il suo braccio scarno parve
allungarsi straordinariamente per prender con maggior rapidità la lettera che il vetturale porgeva. «Ebbene, come
andiamo, Jorgeddu? Ancora a letto? A quest'ora? Alzati, su, poltrone, stanotte è San Giovanni; andremo a coglier l'alloro
per metterlo sui muri onde i ladri e le volpi non li possano saltare... »”.9

Sia in Cenere che in Colombi e sparvieri la Deledda riporta la consuetudine assai diffusa di
raccogliere determinate erbe la notte di san Giovanni per proteggersi dai predatori, animali o esseri
umani. La raccolta delle erbe aromatiche non doveva servire solo a proteggere ovili e case ma ad
alcune di esse la tradizione ha assegnato proprietà magiche e soprattutto taumaturgiche. L’autrice
riporta nelle sue opere quelle tradizioni a lei più familiari. Si mostra attenta conoscitrice
dell’ambiente agro-pastorale e di tutti quei saperi legati a questo mondo e miranti, in un certo senso,

8
Deledda, op. cit. p. 10.
9
Deledda, Colombi e sparvieri, p. 357.
alla sua salvaguardia. Infatti non si limita a utilizzare il rito della raccolta delle erbe per dare vita ai
suoi romanzi, per rendere reali e familiari i suoi personaggi. La Deledda mostra di conoscere molto
bene la complessa ritualità legata alla celebrazione della festa e inserisce nella fitta trama del suo
romanzo riferimenti ad altri due riti: quello dell’acqua e quello del comparatico. La credenza che le
acque raccolte la notte di san Giovanni avessero poteri miracolosi, era molto radicata e diffusa in
Sardegna10, così come in tutta l’area del Mediterraneo. Se è vero che la festa di san Giovanni è il
risultato di una quasi perfetta fusione tra sacro e profano, è anche vero che soprattutto per ciò che
concerne la ritualità dell’acqua il sapore sacro, la simbologia cristiana in un certo senso prevalgono;
forse perchè tra tutti i riti quello dell’acqua è certamente quello legato maggiormente al santo
celebrato. Sempre in Colombi e sparvieri viene sottolineata questa delicata linea di confine:

«Sai una cosa che fa bene, ma a chi crede in Dio? L'acqua di sorgente, ma attinta proprio dove sgorga e a mezzanotte,
stanotte. Sì, l'acqua di San Giovanni, bello mio; non c'è altro, per i paralitici, ma solo per quelli che credono in Dio... »
«Sì, me lo disse anche zia Martina Appeddu. Eppoi un'altra cosa; ma non ve la voglio dire... Ebbene, sì, ve la dico lo
stesso, una medicina che zia Appeddu farà stasera, al sorgere della luna, e che io dovrò... Ah, ma no, non devo dirlo;
11
altrimenti non riesce...» .

Conditio sine qua non l’acqua abbia poteri taumaturgici è che il malato sia credente. Riflesso di
una cultura legata profondamente alla terra, ai suoi segnali, ai suoi misteri ma senza mai
abbandonare la fede in Dio, che rimane il supremo giudice, colui che controlla il destino dei suoi
figli. La ritualità pagana è, in questo caso, percepita come asservita a quella cristiana che prevale,
domina. I riferimenti all’acqua della sorgente ricorrono in quest’opera della Deledda e evidenziano
la forza purificatrice dell’acqua nella credenza popolare:
La notte di San Giovanni era la notte dei prodigi e tutto poteva accadere, bastava crederci.
Anche chi non era malato, quindi, attendeva la notte magica per purificarsi alla sorgente, rito che
ricorda il Battesimo di Cristo ma che ha origini antichissime e certamente anteriori al cristianesimo.
In quest’ultima citazione l’autrice fa riferimento ad un altro rito legato ai festeggiamenti di san
Giovanni: il comparatico.
Il comparatico di san Giovanni chiamato anche dei compari di fiori (santuannis de froris) lega due
persone e le obbliga a forme di rispetto e di amicizia. Una sorta di parentela spirituale spesso più
coinvolgente della parentela di sangue.12 Esistevano diversi modi di contrarre questo legame ma
quello forse più caro o noto alla Deledda era legato all’utilizzo di un fazzoletto a cui venivano poi
praticati dei nodi:

10
G. Bottiglioni, Leggende e tradizioni in Sardegna, a cura di G. Lupinu, Nuoro, Ilisso, 2003.
11
Deledda, Colmbi e sparvieri, p. 355.
12
G. Angioni, La cultura tradizionale: Folklore sardo e folklore mediterraneo, il comparatico di San Giovanni, in M.
Brigaglia (a cura di), La Sardegna, vol. II (sezione La cultura popolare, l’economia, l’autonomia), Cagliari, Della
Torre, pp. 25-26).
“Quando Jorgj riprese coscienza della realtà era quasi notte. S'udivano i gridi dei bimbi, le voci delle donne che si
giuravano amicizia stringendo i nodi del comparatico di San Giovanni; ed egli si rivide ragazzetto, poscia adolescente:
rivide le valli inondate dal chiarore azzurro della luna, i sentieri gialli attraverso il bosco ero dell'altipiano e le greggie
vaganti e il mare lontano... Il desiderio di alzarsi e di correre attraverso il mondo lo faceva rabbrividire. Gli pareva
d'essere ancora ragazzetto, sotto la tirannia della matrigna, e meditava il modo di scappare, come allora...S'udivano i
gridi dei bimbi, le voci delle donne che si giuravano amicizia stringendo i nodi del comparatico di San Giovanni;[...]
Pretu rientrò e gli disse:
«Mangiate, ziu Jò, io poi andrò a cogliere l'alloro e i fiori di San Giovanni ed a bagnarmi i piedi nella sorgente. Vi
porterò un po' d'acqua: su, mangiate, ripasserò prima di andare al bosco; su, sorge la luna lucente e bella come un viso
di sposa. Ecco la vostra zuppa».
E andò via di corsa, diretto alla casa di Martina Appeddu. Nella straducola le donnicciuole, Banna, la serva, i ragazzi,
parlavano di andar alla sorgente per bagnarsi, e stringevano fra loro il comparatico di San Giovanni annodando e
snodando sette volte le cocche d'un fazzoletto”.13

Questo riferimento è presente in un altro romanzo della Deledda La chiesa della solitudine (1936),
ultimo romanzo della Deledda la cui protagonista, Maria Concezione, malata di tumore (come la
scrittrice) rinuncia al grande amore. Per quanto in questo romanzo la scrittrice lasci poco spazio alla
tradizione e alla cultura della sua terra per lasciarsi andare ad un’analisi psicologica e certamente
autobiografica, frutto di un dolore fisico e interiore di impotenza di fronte alla morte, tuttavia
appare, come anticipato, un piccolo riferimento al rito del comparatico che assume un significato
quasi consolatorio di un ricordo che sopraggiunge ad alleviare delle sofferenze diventate
insopportabili:

“Concezione, ancora a letto, aveva sentito l'irruzione della comare di sua madre, - comari di San Giovanni, poiché
s'erano incontrate, spose e in viaggio di nozze, ad una festa campestre, e, mentre i relativi mariti bevevano e giuocavano
alla morra, si erano legate di amicizia scambiandosi i fazzoletti sette volte annodati, - e se ne rallegrava, per il diversivo
14
che l'ospite portava nella piccola dimora”.

Il ricordo di quei riti antichi giunge come magra consolazione in un momento di gran dolore e
prostrazione. È il ricordo della comunione e dell’unione. Un sodalizio e un legame più forte di
qualsiasi unione, che porta le persone a incontrarsi nel momento del bisogno come se ci fosse un
richiamo ancestrale ad unirle. Il comparatico come impegno della vita che ritroviamo anche in un
altro racconto deleddiano, Il ciclamino (racconto 1908, oggi in Ferro e fuoco, Nuoro, Il Maestrale,
1992, pp. 121-128) dove appunto viene sottolineato questo legame e viene sottolineata l’importanza
del comparatico in relazione all’impegno per la vita; l’idea di fratellanza legata a questo vincolo,
che dovrebbe venire prima di ogni cosa e che dovrebbe portare un compare a liberare o a chiudere
un occhio sull’altro accusato di furto.
Punto di vista di un ciclamino (tenuto in mano da una dei personaggi che lo ha colto) che dona al
racconto un alone di irrealtà:

13
Deledda, Colombi e sparvieri, p. 362.
14
G. Deledda, La chiesa della solitudine, Nuoro, Ilisso, 2008, p. 65.
“Il prigioniero lo guardò e disse una parola: – Ricordatevi! L’altro stette immobile e muto. Il ladro ripeté: – Ricordatevi!
Una volta, nella notte di San Giovanni, due ragazzi di diversi paesi pascolavano il gregge sotto la luna. Si volevano
bene come fratelli. Il maggiore disse: «Vogliamo diventar compari di San Giovanni?» E giurarono di essere fratelli, per
la vita e per la morte, e specialmente nell’ora del pericolo. Poi diventarono grandi e ciascuno andò per la sua via. E una
volta il maggiore andò a rubare e fu preso e dato in custodia al giovane che per caso s’era trovato nell’ovile. E bastò che
il prigioniero dicesse: «Ricordati!», perché l’altro, senza badare al danno che gliene sarebbe venuto, lo slegasse e lo
15
liberasse. Ricordatevi!”

Subito il lettore deduce che i personaggi in questione sono compari e che il compare-ladro cerca di
ricordare al suo carceriere-compare l’impegno preso:

“Il pastore rispose, sfuggendo lo sguardo del prigioniero: – Era altra cosa, compare! Voi non eravate servo come lo sono
io. Prima del compare è il padrone!
16
– Prima del padrone è il fratello: e il compare di S. Giovanni è un fratello”.

L'affermazione finale sottolinea il modo in cui la catena di obblighi creatasi attraverso il


comparatico diventa un vincolo riconosciuto dal sistema comunitario di cui un individuo fa parte e
dal quale non si può prescindere.
Come ricorda in un altro romanzo Marianna Sirca:
“Ricordati che ci siamo giurati fede la notte di San Giovanni; e il compare di SanGiovanni, quale io sono per te e tu per
me, è più che la sposa, più che l'amante, più che il fratello, più ancora del figlio. Non c'è che il padre e
la madre a superarlo”. 17

I legami di comparatico si configurano come dei rapporti di amicizia basati sulla fiducia reciproca.
Si tratta di un sistema di alleanza che probabilmente avevano come scopo una migliore
organizzazione sociale, che permetteva la diffusione di rapporti di solidarietà all’interno della
comunità che lo metteva in pratica. Perciò erano legami indissolubili e più forti dei legami di
sangue. Il tutto nasceva da una leggenda secondo la quale San Giovanni era inflessibile nei
confronti di chi tradiva la fiducia degli amici.
Il rito di San Giovanni viene rappresentato in letteratura nelle sue diverse manifestazioni legate alla
terra all’acqua e al fuoco.
Chi invece si sofferma sui fuochi e sul loro affascinante significato simbolico è Bachisio Zizi
(1925). Scrittore contemporaneo, vivente. Nel suo romanzo del “ritorno a casa”, Erthole, il
protagonista ritorna appunto nei luoghi della memoria, dell’infanzia, per rivedere le sopravvivenze
del suo passato. La speranza è quella di una rinascita, come se questa fosse possibile solo con il
ricongiungimento con un tempo che fu. In questo presente, del passato sopravvivono anche le
tradizioni che vengono rivissute dal protagonista con la stessa gioia e trepidazione di quando era
ragazzo. La preparazione del fuoco di san Giovanni crea nel protagonista un senso di disagio

15
G. Deledda, Il ciclamino in Ferro e fuoco, Nuoro, Il Maestrale, 1992, pp. 121-128.
16
Idem
17
G. Deledda, Marianna Sirca, Milano Mondadori, 1957, p. 785.
iniziale, in quanto legge nel suo atteggiamento solo il forte desiderio di rievocare le sensazioni
provate nell’infanzia:
“Salirono a San Giovanni di pomeriggio, contente entrambe, anche se per ragioni diverse; era Paschedda a contare i
giorni ora, la sua partenza era stata fissata per luglio. Maddalena, invece, trepidava per su punteddu, l’arbusto coperto di
foglie d’asfodelo secche che doveva bruciare al crepuscolo.
– Dov’è? – mi chiedeva ansiosa. Mi finsi sorpreso di quella sua domanda.
– Sento che l’avete già preparato, indovino anche il luogo… andiamo.
Dissi che non sapevo niente, e lei mi condusse sulla radura dove era su punteddu: una montagnola d’asfodelo votata al
fuoco, allestita con su Mudu e Luca.
– Chi l’ha scelto il posto? – mi chiese sempre più impaziente d’arrivare. Proposi di tornare indietro, ormai aveva
indovinato.
– Lo voglio vedere alla luce del sole, insieme a voi… Eccolo, è grande… – esclamò
Gli asfodeli avevano riverberi rossicci. Piaceva anche a me la montagnola, ora. Quando l’avevo preparata, insieme agli
amici, ero rimasto indifferente; avevo provato anche disagio, come se le mie insistenze con su Mudu fossero dettate da
18
un capriccio per richiamare i ricordi di quando, ragazzo, attendevo anch’io i fuochi.”

Ma la vista de su punteddu (una montagnola di asfodelo destinata al fuoco) scatena una serie di
emozioni che stringe il gruppo che lo ha preparato in un abbraccio di trepida attesa. Vengono
ripercorse le diverse tappe che partono dal momento dell’accensione del fuoco, a s’inghiriu (il
girotondo), per arrivare allo spegnimento del fuoco:

“– I fuochi! –. Mio padre, al rientro in paese, me li mostrava da lontano e li contava insieme ai rioni d’appartenenza.
Forse nel mio assecondare l’infantile desiderio di Maddalena, si celava un inconfessato tentativo di recuperare ciò che
la cava m’aveva tolto. […] vedevo i fuochi dai quali ero stato escluso, grandi e senza fumo, con le fiamme più alte delle
case e vedevo anche la gente che vi girava intorno cantando la filastrocca che anch’io conoscevo:

A inghiriare, a inghiriare
su punteddu ’e Santu Jubanne.

(Girando attorno, girando attorno / al fuoco di San Giovanni.)”19

E ancora:

“I fuochi partirono, deboli e incerti all’inizio, impetuosi poi, come cavalli in fuga. Gli asfodeli bruciavano crepitando e
le ceneri salivano sospinte dal turbinio delle fiamme; dall’interno di su punteddu provenivano scoppi, ma non di festa.
– S’inghiriu, – gridò qualcuno strappandoci da quella contemplazione. Ci disponemmo in cerchio e iniziammo il
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girotondo, arretrando per evitare le fiamme che si staccavano dalla montagnola”.

A questi momenti di forte coinvolgimento emotivo seguì il forte turbamento del protagonista che
dopo avere rivissuto questa esperienza che definisce meditativa, ha come la sensazione di aver
mutato il suo rapporto con il mondo. I mondo non era più lo stesso, lui non era più lo stesso:

“Ero entrato anch’io nella meditazione di Santu Jubanne e dicevo mentalmente sos berbos di s’inghiriu. Nelle cadenze
di quella lingua arcana i fatti della mia esistenza e il mio rapporto col mondo uscivano stravolti, come se tutto fosse
stato ripensato e risentito. Il fuoco era quasi spento, restavano le braci dell’arbusto riarso e le ceneri degli asfodeli sotto
le quali covavano ancora deboli fiamme. Ci fermammo. […] Tacevamo ricurvi su quei deboli riverberi , ultimi di un
fuoco ch’era parso grande nella notte di Erthole. Cercavo lo sguardo di Luca, isolato all’altra estremità del focolare. Era
18
B. Zixi, Erthole, Nuoro, Ilisso, 2003, p. 125.
19
Ivi, pp. 125-126.
20
Ivi, p. 129
lontano come non mai. Non la sua distanza fisica m’appariva irraggiungibile, ma ciò ch’egli pensava e sentiva: la sua
mutata esistenza nela quale non riuscivo più ad entrare. […]
- Bè custos granos... - disse Paschedda per rompere il silenzio, presa dalle ansie che la portavano lontano da noi e da
Erthole. Con un rametto rivoltò le ceneri per aprire lo spazio al suo gioco:
- Luch’e mortos... - disse ancora, indicando i fuochi fatui che si sollevavano insieme alle ceneri con un ultimo guizzo.
Slegò il fazzoletto che custodiva il grano e chiese quale destino doveva leggere per primo.
- Il tuo, - le risposi, convinto che volesse così anche lei. Io non avevo niente da chiedere, i segni del mio destino li
avevo colti nei sentieri invisibili di Erthole; né avevo alcuna curiosità per quella innocente divinazione alla quale, in un
altro tempo, una mia zia sfortunata, affidava le sue dolorose attese. Allora ogni cosa aveva un senso: adesso pareva
un’assurdità che a proporre questo gioco fosse Paschedda, così follemente in fuga da tutto, quasi non fosse più possibile
vivere senza negare e senza dimenticare; ma al di là dei mutamenti che toccavano la quotidianità, visibili anche in
quest’adolescenza turbata, affioravano gli echi di ciò ch’era stato vissuto nelle insondabili profondità del tempo.” 21

Per concludere uno dei romanzi più significativi del panorama letterario sardo: La Bella di Cabras
(1887) di Enrico Costa (1841-1909). Storia di una bellissima ragazza, di nome Rosa, costretta dalla
miseria a lasciare la sua famiglia per andare a servizio di una nobile casata di Oristano. Sedotta e
abbandonata da un giovine, dal quale avrà un bambino, dovrà affrontare un dramma interiore che la
riporterà a casa. Questo romanzo contiene tutta una serie di riferimenti alle tradizioni e alla storia
soprattutto di Oristano che, però, non rallentano il normale sviluppo della trama. Anzi
l’arricchiscono pagina dopo pagina di nuovi e interessanti elementi.
Anche qui troviamo riferimenti alla vigilia di san Giovanni e soprattutto al nenniri, chicchi di grano,
di orzo o anche di legumi, sistemati in un piatto nel cui fondo è stato steso uno strato di bambagia
umida. Anche qui il rito è legato al pronostico per la storia d’amore a cui Rosa, protagonista del
romanzo, anelava:
“Rosa pensava sempre a lui, al suo giovane compaesano, assai più bello e più buono dei giovani oristanesi.
La vigilia di San Giovanni-il 23 giugno- non aveva mancato di divertirsi (insieme alle altre serve del vicinato) a trarre
l’oroscopo.
A Oristano – come in tutti i paesi cristiani- le veglie di San Giovanni sono aspettate con impazienza dalle ragazze. Nel
campidano è molto i uso il Nenneri, il fascio dei germi che diedero la semente dell’orzo e del frumento.
Da Rosa e dalle compagne si era consultato ogni mezzo per poter strappare il segrteo del loro futuro matrimonio. Esse
avevano gettato nell’acqua il piombo liquefatto, per conoscere qual mestiere avrebbe esercitato il futuro sposo; e
ciascuna, negli stessi scherzi del piombo, leggeva ciò che meglio le conveniva. Rosa, per esempio, vedeva le reti del
pescatore, dove le altre vedevano le scarpe del calzolaio, la pialla del falegname […]. Non contente del piombo le serve
fecero la prova delle due foglie di ulivo. Queste foglie dopo essere state battezzate mentalmente con il nome di lui e di
lei, vengono poste sulla cenere calda, per conoscere dal loro crepitio e dal loro avvicinarsi il grado di benevolenza e
d’attaccamento per i due futuri sposi.”22

Che li si analizzi da un punto di vista letterario o da un punto di vista antropologico, questi riti sono
espressione di una sopravvivenza di antichi culti agrari legati al ciclo della vita e alla stagione
agraria. Ricchi di magia e di religiosità; vari quanto varie sono le comunità che ancora li celebrano.
Espressione di una collettività che sente fortemente un desiderio di comunione con se stessa e con il
mondo; che attende la vigilia di san Giovanni come si attende un momento di aggregazione e
socializzazione; reso ancora più bramato dall’alone di magia e di mistero che lo contraddistingue,
per i suoi riti e per la forza che sembrano acquistare la terra e l’aria la notte della veglia.
21
Ivi, 129.
22
E. Costa, La Bella di Cabras, Cagliari, Tip. Edit. Dell'Avvenire, 1887, 154
Anche i canti, le poesie, in ogni loro dimensione affascinano gli scrittori perché espressioni, come le
feste e le pratiche liturgiche ed extra-liturgiche, del desiderio di unione di una collettività. Che
seppur poteva essere disunita nella quotidianità, nei momenti di festa si ritrovava abbandonando
antichi dissapori. Nella letteratura sarda difficilmente mancano riferimenti di questo tipo, c’è
sempre un legame con la tradizione e con il passato: se non lo si vive lo si ricerca, come nel caso di
Ertole. Queste opere testimoniano che gli scrittori sardi hanno tratto dalle tradizioni popolari
l’humus, il sistema per ricreare paesaggi scomparsi. Si rendono conto, ma forse è anche una loro
esigenza, che per far presa sui lettori è necessario far trovare in questi testi la familiarità,
rassicuranti abitudini. La continua ricerca di una identità, la paura di perdere le proprie radici
storiche e culturali, porta inevitabilmente alla ricerca di un legame con quel che rimane di quel
passato per consentire perlomeno un rifugio che faccia sentire il calore della propria storia.

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