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• Nella I parte della prima unità si affrontano le tematiche alla base della "rivoluzione della fisica"
iniziata a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, con specifica attenzione ad aspetti fondamentali di
relatività ristretta ed alle scoperte sperimentali che misero in crisi l'apparato formale della meccanica
classica. Verranno dunque considerati i vari modelli atomici, della radiazione e/m e dell'interazione
con la materia per giungere alla descrizione matematica della meccanica quantistica/ondulatoria.
• Nella II parte della prima unità si affrontano i modelli e le applicazioni più importanti della fisica
atomica e molecolare, degli studi spettroscopici associati e, per un'analisi appropriata di sistemi a
moltissimi corpi, si affrontano i fondamenti di statistica fisica, sia di tipo classico (Maxwell-
Boltzmann) che di tipo quantistico (Fermi-Dirac e Bose-Einstein).
• Nella I parte della seconda unità si considerano gli aspetti centrali della struttura della materia. Da un
lato, si affrontano i problemi più importanti della fisica dello stato solido, ossia la modellizzazione di
materia per quanto riguarda la spiegazione e la classificazione di proprietà conduttive (termiche ed
elettriche), la semiconduzione e la teoria delle bande energetiche. Da un altro lato, si considera la fisica
nucleare, sia per quanto riguarda i modelli spettroscopici per lo studio dei livelli di energia nucleare,
sia relativamente alla dinamica delle reazioni nucleari (radioattività fissione, fusione).
• Nella II parte della seconda unità si affrontano gli aspetti di base delle teorie subnucleari, che
interessano la rilevazione, la classificazione e la descrizione di particelle elementari. Si studiano anche
aspetti fondamentali di astrofisica, cosmologia e relatività generale.
I UNITA'
Parte II: Struttura della materia: spettroscopia atomica e molecolare, fisica statistica
II UNITA'
Tra la fine del secolo diciannovesimo e l’inizio del ventesimo si evidenzia la necessità di superare
rappresentazioni e modelli sviluppati e messi alla prova fino a quel tempo e di giungere ad una
nuova visione dell’universo fisico, come richiesto dall’insorgenza di dati sperimentali difficilmente
interpretabili e di insolubili disaccordi logici fra teorie di vario genere.
Fra le altre grandi rivoluzioni del tempo, particolare considerazione merita la teoria della relatività
speciale, ad opera di Einstein. Per inquadrare propriamente l’argomento si deve richiamare il
significato operativo di relatività (in senso generale, eventualmente classico), ovvero lo studio di
fenomeni fisici (ossia dare forma e sostanza a leggi fisiche) da parte di osservatori (reali o non) in
differenti sistemi di riferimento. A tale scopo sono necessarie leggi di trasformazione per le
coordinate rilevanti alla descrizione del fenomeno fisico espresse in diversi riferimenti. Si affronta
quindi lo studio delle trasformazioni che conducono all’invarianza (o, per meglio dire, covarianza)
delle leggi della dinamica di Newton.
Di centrale importanza è l’osservatore inerziale, secondo il quale un corpo che non subisce l’azione
netta di una forza si muove di moto rettilineo uniforme. Tutti i riferimenti inerziali si trovano in
condizioni di moto relativo rettilineo uniforme e per tali riferimenti le leggi della meccanica di
Newton sono valide ed esprimibili allo stesso modo. Le leggi di trasformazione corrispondenti sono
quelle di Galileo: non comportano accelerazioni fittizie (non inerziali) nelle trasformazioni delle
coordinate. Per una singola coordinata la trasformazione di Galileo è del tipo x’=x−ut, per cui
v’=v−u ed a’=a. Si postula inoltre che il tempo è assoluto in una trasformazione classica, t’=t.
Una domanda centrale è ora quella relativa alla possibilità che altri leggi fisiche siano in accordo
con il principio di relatività classica, ossia se conducano ad un’invarianza della forma della legge
(covarianza) in seguito ad una trasformazione di Galileo. In particolare, si ripercorre lo studio
condotto nel XIX secolo da Maxwell sulla natura della radiazione, che conduce alla descrizione
della luce ed alla definizione della sua velocità nel vuoto, c=299,792,458 m/s. Si considera un
raggio luminoso emesso da un sistema di riferimento che si avvicina ad un altro osservatore:
quest’ultimo, secondo le trasformazioni di Galileo, deve rilevare un segnale che si propaga nella sua
direzione a velocità c aumentata della velocità relativa tra i due riferimenti. Viene postulata
l’esistenza di un mezzo (l’etere) nel quale la luce propaga con velocità c, rilevabile
sperimentalmente misurando la velocità della luce in condizioni relative di moto differenti e legate
da trasformazioni di Galileo. Un modo efficace per visualizzare e comprendere la chiave di lettura
dei moti relativi di un segnale luminoso richiede di adottare un’analogia: la luce è sostituita da una
barca che ha velocità c rispetto l’acqua nella quale naviga (“etere”). Si hanno due possibilità
rilevanti:
la barca si muove rispetto alla corrente con velocità ±c e rispetto al suolo con velocità v±c; il tempo
per il tragitto di andata e ritorno AB-BC è dunque calcolato secondo l’espressione
L L 2L 1
t par = + = . A v+c
c+v c−v c 1− v2 / c2
B v
Moto perpendicolare alla corrente: C c–v
la barca, che mantiene velocità c rispetto l’acqua,
per contrastare la corrente verso destra e
raggiungere il punto B deve deviare verso sinistra facendo rotta verso il punto B’. La velocità
Relatività speciale - 1
efficace è ridotta a (c2–v2)1/2. Lo stesso discorso vale per il tragitto di ritorno, nel quale la barca deve
deviare verso il punto C’ per raggiungere il punto C. La velocità efficace è calcolata come
nell’andata, per cui il tempo totale di percorrenza
B’ B risulta pari a
2L 2L 1
t perp = = .
c −v
2 2 c 1− v2 / c2
v
E’ stato effettuato un esperimento dedicato alla
rilevazione del mezzo di propagazione della luce
C’ A C (l’etere) ed all’individuazione di un sistema di
riferimento privilegiato nel quale la luce stessa ha
velocità c. Michelson e Morley (1887) realizzano un “attraversamento di corrente” per un raggio di
luce. La corrente è quella dell’etere causata dal moto orbitale della terra attorno al sole.
Una misura diretta della velocità relativa terra/etere e determinazione del sistema di riferimento
“privilegiato” nel quale la luce propaga con velocità c dovrebbe quindi essere possibile.
L’idea è quella di ottenere con precisione molto elevata
eventuali differenze di tempi di percorrenza della luce nei
due percorsi. A tale scopo, una rotazione dell’apparato di 90° R
esclude che le variazioni di percorso siano imputabili alle
differenze delle lunghezze fisiche dei due bracci
perpendicolari dell’apparato.
La luce impiega gli stessi tempi a percorrere i due bracci S M1 M3
ovvero non è possibile determinare tramite misure di
interferometria la velocità relativa della terra nell’etere. La
vera risposta è da collocarsi in un apparato teorico
M2
completamente nuovo che intacca i fondamenti logici e di
sostanza della meccanica classica.
(a) Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziale;
(b) La velocità della luce nel vuoto è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Le conseguenze del postulato (b) sono decisamente al di fuori del senso comune (come sarà facile
vedere analizzando situazioni anche molto semplici), ma tale postulato è richiesto per conciliare il
primo con le leggi dell’elettromagnetismo e con i risultati dell’esperimento di Michelson e Morley:
la luce si propaga sempre con velocità c sia quando è parallela al moto relativo della terra, sia
quando si propaga perpendicolarmente ad esso. Possiamo eliminare l’etere: non è possibile pensare
ad un riferimento privilegiato nel quale la luce ha velocità c: essa ha questa velocità in tutti i
riferimenti inerziali. Si parla di relatività “speciale” o “ristretta”: la teoria è applicabile solamente
alle trasformazioni che connettono sistemi di riferimento inerziali.
Einstein nel 1916 pubblica una teoria di relatività “generale” che affronta i casi di riferimenti non
inerziali, e che dunque chiama esplicitamente in causa l’azione del campo gravitazionale.
Consideriamo ora un po’ più in dettaglio le conseguenze dirette dei postulati di Einstein per quanto
riguarda gli effetti sulle misure e nozioni di tempo e spazio.
Relatività speciale - 2
Relatività del tempo
secondo la τ0=2L0/c.
τ0
τ= .
1− v2 / c2
Si utilizza ora un orologio a luce collocato parallelamente alla direzione di moto relativo fra O ed
O’. Per O (rispetto il quale l’orologio solidale con O’
viaggia verso destra con velocità v) la luce raggiunge lo
L0 specchio nel tempo τ1, cτ1=L+ vτ1; la luce torna al
rivelatore nel tempo τ2, cτ2=L− vτ2. Dunque il tempo totale
per O è dato da
L L 2L 1
τ = τ1 + τ 2 = + = .
c−v c+v c 1− v2 / c2
vτ1
Per la dilatazione temporale è anche
τ0 2 L0 1
v τ2 τ= = ;
1− v2 / c2 c 1− v2 / c2
sostituendo si ottiene
L = L0 1 − v 2 / c 2 .
E’ una contrazione della lunghezza (misura di O della lunghezza contratta rispetto O’ che assegna
una sua lunghezza propria L0).
Relatività speciale - 3
Esempio: decadimento di particelle elementari (muoni) nell’atmosfera terrestre.
I muoni hanno vita (tempo proprio) τ0=2.2 µs. Viaggiano attraverso l’atmosfera con velocità tale
che v/c=0.99998. Rispetto l’osservatore terrestre il tempo si dilata al valore τ=330 µs. Questo
corrisponde al tempo richiesto per percorrere una distanza di circa 100 km. Per il muone la distanza
è contratta al valore L0=660 m, che percorre nel suo tempo di vita.
Notare la connessione indissolubile fra dilatazione del tempo e contrazione delle lunghezze.
Si considera un proiettile lanciato con velocità v da un riferimento O’ che si muove con velocità u
rispetto O. La misura della velocità del proiettile per O è classicamente v+u. Se il proiettile ha
velocità c la composizione classica non può essere valida per i postulati di relatività di Einstein, in
quanto il proiettile (luce) deve avere velocità c rispetto tutti i riferimenti inerziali.
τO =
L
+
L
.
O
v−u c+u L
Si utilizzano ora le relazioni di dilatazione temporale e
τ O'
contrazione delle lunghezze (per porre in relazione τO, τO’ e L0, L secondo le τ O = e
1− u2 / c2
L = L0 1 − u 2 / c 2 . Eliminando tempi e lunghezze dalle quattro relazioni disponibili si arriva alla
relazione che lega v, v’ ed u:
v'+u
v= .
uv'
1+ 2
c
Notare bene i seguenti fatti, che sono conseguenza diretta dell’espressione appena scritta: la
trasformazione si riduce alla legge classica di relatività per velocità molto minori di c; la velocità
trasformata non può mai essere maggiore di c; infine, se il proiettile ha velocità c nel riferimento
O’, la relazione stabilisce che esso ha velocità c anche nel riferimento O.
Relatività speciale - 4
ct2’=L’/2+ut1’, dove si sono introdotte le lughezze contratte L’ di O’ rispetto le lunghezze proprie L
di O. Si ottiene che
L/2 L/2
Lu / c 2
t ' 2 −t '1 = .
1− u2 / c2
2 1 u
Si noti che gli eventi ai rivelatori sono ora intervallati di una
quantità che è funzione, oltre che della velocità relativa tra O ed
O’, anche della distanza propria che separa gli eventi stessi. Non si tratta di dilatazione temporale:
entrambe gli orologi scandiscono tempi diversi, e diversi tra di loro.
E’ dunque impossibile (senza significato fisico alcuno) definire un “adesso” per eventi separati
spazialmente in un dato riferimento inerziale.
x − ut t − ux / c 2
x' = , y ' = y, z ' = z, t ' = .
1− u2 / c2 1− u2 / c2
4. Dinamica relativistica
La relatività speciale richiede una nuova lettura dei concetti cinematici fondamentali e della logica
applicativa. Quali le conseguenze sui concetti della dinamica? Sono ancora operativamente
significative le grandezze quantità di moto ed energia cinetica? I principi di conservazione
corrispondenti sono ancora validi? La legge della dinamica di Newton prevede che una forza
costante conduca ad un aumento illimitato della velocità. Come conciliare questo punto con i
postulati di Einstein? Risposte essenziali anche se molto rapide a queste domande possono essere
date considerando il fenomeno di un urto fra particelle.
mc 2
T= − mc 2 .
1− v / c
2 2
Si scrive inoltre T=E−E0, nella quale E0=mc2 è l’energia a riposo mentre E è l’energia totale
relativistica, costante per un sistema isolato di particelle.
Altri aspetti energetici notevoli riguardano la conversione energia cinetica/energia a riposo in
fenomeni di reazione di vario genere. La massa relativistica è m/(1−v2/c2)1/2, ed m è detta massa a
Relatività speciale - 6
riposo. Si osserva che per velocità crescenti la massa aumenta in modo che la velocità tende a c e
non ad infinto.
mc 2 mv
Dalle E = , p= si ricava E 2 − p 2 c 2 = m 2 c 4 , ovvero E = ( pc) 2 + E 02 .
1− v / c
2 2
1− v / c 2 2
Rappresentazioni quadrivettoriali
Vi sono analogie importanti fra i 4-vettori spazio tempo (r,ct) e momento-energia (p,E/c),
soprattutto nella scrittura delle corrispondenti trasformazioni di Lorentz.
ossia esprimere il momento in unità di energia/c. Nel caso del protone con v/c=0.8 risulta subito
pc=4mc2/3=1250 MeV, dunque p=1250 MeV/c.
Calcoliamo anche l’energia cinetica e totale per questa particella:
dalla E = ( pc) 2 + E 02 , con pc=1250MeV ed E0=938MeV risulta E=[(1250)2+(938)2]1/2 MeV
=1536 MeV e T=E−E0=624 MeV.
Calcolo di v e p per un elettrone (m=0.511 MeV/c2) con energia cinetica T=10 MeV.
1
Dalla definizione T / mc 2 = − 1 si ricava
1− v2 / c2
Relatività speciale - 7
1 1
v / c = 1− ≈ 1− = 1 − 5 × 10 −11
(1 + T / mc )
2 2
(
2 1 + T / mc )
2 2
Vale la pena fare delle osservazioni generali sui “gedanken experiment” di Einstein.
Si immagina il viaggio ad alta velocità (es. 0.8c) di una persona su un pianeta distante (es. 20 anni
luce) dalla terra e ritorno. Un fratello gemello lo attende ed al ritorno è più vecchio del fratello che
ha viaggiato, perché quest’ultimo si è mosso rapidamente ed il tempo relativo ad esso è scorso più
lentamente. Però lo stesso può essere detto dalla persona viaggiante, che vede il fratello a terra
allontanarsi rapidamente. Invecchiano in modo diverso?
No, non c’è paradosso: il fratello viaggiante per tornare deve cambiare sistema di riferimento,
subisce forze ed è distinguibile (non semplicemente “relativo”) dal fratello a terra, che
effettivamente invecchia di più. Con i dati proposti si ricava che la persona a terra attende per 50
anni il ritorno del fratello, il quale vede invece un percorso contratto di lunghezza pari a solo 12
anni luce (andata o ritorno). Con la sua velocità impiega (tempo proprio) 30 anni a tornare sulla
terra.
5. ESERCIZI
a. Una navicella spaziale si allontana con velocità v=0.8c dalla terra. Ad un dato istante spara un
missile parallelo alla sua direzione di moto. La velocità del missile relativa alla navicella è
0.6c. Qual è la velocità del missile relativa alla terra?
b.Alla distanza pari al raggio dell’orbita della terra attorno al sole (1.5×1011 m), la radiazione
solare ha un flusso energetico pari a 1.4×103 W/m2. Calcolare la rapidità con la quale la massa
del sole diminuisce. Per quanto tempo durerà ancora il sole, se la sua massa è di 2×1030 kg?
c. Ottenere i valori numerici per il “paradosso” dei gemelli nel caso in cui il viaggio è percorso a
velocità 0.6c e la distanza tra la terra ed il pianeta destinazione è pari a 12 anni luce.
d.A quale velocità deve muoversi un oggetto perché la sua lunghezza appaia dimezzata rispetto
quella propria?
e. La vita propria di una particella è 100 ns. Quanto a lungo vive nel riferimento del laboratorio se
si muove alla velocità 0.96c? Che distanza percorre nel laboratorio durante la sua vita? Che
distanza percorre durante la sua vita secondo un osservatore solidale con essa?
Letture consigliate:
Relatività speciale - 8
Lezione 2 – Fondamenti della meccanica quantistica
In questo paragrafo si richiamano le informazioni ed i risultati più importanti ottenuti a partire dalle
equazioni dell’elettromagnetismo classico di Maxwell che, ricordiamo, conducono alla
caratterizzazione rigorosa di onde elettromagnetiche che propagano nel vuoto con velocità c e con
lunghezze d’onda/frequenze distribuite con continuità secondo lo schema qui riprodotto:
10 103 105 107 109 1011 1013 1015 1017 1019 1021 1023 1025
frequenza ν (Hz)
Più in dettaglio, si parla di onde piane (sferiche) viaggianti nel vuoto a velocità c. I vettori di campo
piani sono E=E0sin(kz−ωt), B=B0sin(kz−ωt). Il numero d’onda (numero di periodi spaziali in 2π
unità di lunghezza) è k=2π/λ, così come ω=2π/T nel dominio temporale. La lunghezza d’onda, la
frequenza e la velocità di propagazione c sono legate dalla λν=c. Vale dunque la ω/k=c.
Esperimento di Hertz (1887): metalli illuminati da radiazione e/m emettono una corrente di elettroni
(detti fotoelettroni). Nel vuoto un metallo (emettitore) è illuminato ed un elettrodo (collettore) è
posto ad una differenza di potenziale variabile rispetto
l’emettitore. Si misura una corrente in funzione di vari tipi di
illuminamento (intensità e frequenza) ed in funzione della
E C
differenza di potenziale applicata. e
La possibile descrizione classica del fenomeno prevede che
(a) gli elettroni possiedono un’energia (cinetica)
proporzionale all’intensità della radiazione luminosa i
(che viene loro ceduta per interazione con il campo V
elettrico medio). Questa energia è misurabile
variando la tensione applicata al collettore;
(b) gli elettroni vengono emessi per qualunque frequenza (“colore”) della luce (l’intensità della
radiazione non dipende dalla frequenza);
(c) l’effetto di emissione inizia dopo un tempo abbastanza lungo (dell’ordine del secondo)
perché l’interazione con ciascun elettrone del metallo avviene in un’area molto piccola e
l’energia trasferita è corrispondentemente piccola.
In pratica si assiste al fallimento completo della previsione classica, basata sulla natura ondulatoria
della radiazione luminosa. Anche se nel 1900 Planck aveva discusso aspetti simili che affrontiamo
nel paragrafo seguente, ora seguiamo la generalizzazione proposta da Einstein nel 1905 a supporto
di queste evidenze sperimentali: la luce è costituita da “pacchetti di energia”, detti fotoni, con
energia data da
E=hν ν=hc/λλ
dove h è la costante detta di Planck e vale 6.6260755×10−34 J s e ν è la frequenza della radiazione.
Per i fotoni (vedi sez. precedente) E=pc e dunque il loro momento si può scrivere come
p=h/λλ.
i fotoelettrica
L’effetto fotoelettrico, in questa ipotesi, avviene per cessione I3
(immediata) di quanti di energia dipendenti solo dalla I2
frequenza (interazione elettrone-fotone). L’energia massima I1
acquistata da un fotoelettrone si può scrivere come Tmax=hν−φ, int. luce ↑
dove φ è il “potenziale d’estrazione” del metallo (energia per VS VC
strappare l’elettrone) e dunque non dipende dall’intensità della
radiazione ma solo dalla sua frequenza. Se il potenziale VS +
ritardante al collettore è abbastanza negativo (VS), il +
fotoelettrone si ferma e hν=φ. Sotto una frequenza di soglia
+ +
non c’è corrente fotoelettrica.
Questi risultati sono in pieno accordo con l’esperimento. ν
Si considera l’interazione fra luce (fotoni) e materia (elettroni debolmente legati ad atomi). L’esito
sperimentale non è supportato da una trattazione ondulatoria, per cui si considera una descrizione
puramente corpuscolare, di urto fra particelle (fotoni ed elettroni).
Si applicano le regole consuete di conservazione (energia e quantità di moto).
La conservazione dell’energia viene scritta
E+mc2=E’+Ee,
dove E, E’ sono le energie cinetiche del fotone prima e dopo l’urto (E=hν=hc/λ ed E’=hν’=hc/λ’),
mc2 è l’energia (a riposo) dell’elettrone prima dell’urto ed Ee la
sua energia (relativistica) dopo l’urto. La conservazione della
quantità di moto è data da hν’, p’
hν, p
p = p’cosθ + pecosφ (lungo x) θ
0 = p’sinθ − pesinφ (lungo y), φ
λ−λ’=λC(1−cosθ),
L. De Broglie nel 1924 ipotizza che il dualismo onda/particella stabilito per la radiazione
elettromagnetica va esteso ad ogni forma di materia.
Si associa ad ogni particella con momento p un’onda di lunghezza λ=h/p, e λ è detta lunghezza
d’onda di De Broglie.
Il salto concettuale è enorme: si tratta di accettare che la materia, in determinate circostanze,
presenta le caratteristiche tipiche delle onde, ovvero può dare luogo ad effetti interferenziali, si
delocalizza nello spazio e nel tempo, vi sono diffrazioni, riflessioni parziali, e così via. Sarà anche
essenziale prepararsi ad affrontare argomentazioni di natura tipicamente statistica, se si vorranno
conciliare in modo consistente i due estremi del dualismo di questa teoria.
La lughezza d’onda di De Broglie non è sperimentalmente accessibile per sistemi macroscopici a
causa della piccolezza di h: una particella di polvere (m=10−9 g) che viaggia a 1 cm/s conduce a
λ=7×10−20 m. Un elettrone di energia 1 eV ha λ=1.2 nm, cioè sperimentalmente accessibile.
Una prima riposta può essere: l’onda di De Broglie è quella che si manifesta ogni volta che
effettuiamo su una particella un’esperimento che ne possa rilevare la sua natura ondulatoria. Visti i
valori sopra citati, l’esperimento in questione dovrà riguardare oggetti submicroscopici:
nell’esperienza di Young ci si aspettano massimi di interferenza spaziati come λD/d: siccome D/d è
dell’ordine di al più 103-104, non sarà possibile osservare interferenza di De Broglie per
un’automobile o per qualcosa comunque “meno ondulatorio” di un atomo.
L’ipotesi di De Broglie va estesa comunque a tutte le particelle (non solo gli elettroni). Le difficoltà
per la realizzazione sperimentale di misure di interferenza da fenditura doppia sono state superate
solo di recente. Ora si osservano interferenze di neutroni, atomi, ecc. e lo studio della diffrazione di
particelle di varia natura è tecnica assestata di indagine della materia atomica e subatomica.
In un’onda piana la lunghezza d’onda (o il numero d’onda, k) sono perfettamente definiti, e l’onda è
totalmente delocalizzata nello spazio. Non sembra dunque
adatta a “descrivere” una particella nel senso di De Broglie. 2
-0. 5
“localizzarsi” in corrispondenza delle interferenze
-1
costruttive. Aggiungendo altre lunghezze d’onda la
-1. 5
2
viceversa. Lo stesso discorso è fattibile nel dominio del 0
-10
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
Se si “prepara” un sistema fisico in un certo modo, potremo misurare grandezze rilevanti entro la
loro indeterminazione. Ripetendo la misura si otterranno valori differenti, anche se lo stato iniziale
del sistema è lo stesso. Si evidenziano dunque forti connessioni con la teoria della probabilità e
statistica: è impossibile prevedere il singolo evento, ma con tante misure (o con tanti sistemi eguali)
si giunge ad una distribuzione di probabilità. La meccanica quantistica fornisce l’apparato
matematico per calcolare tali distribuzioni.
C’è una differenza critica fra statistica e meccanica quantistica: nella prima l’indeterminismo è
causato dalla incompleta conoscenza del sistema all’inizio, nella seconda l’indeterminismo è
intrinseco alla natura, insuperabile.
L’ampiezza dell’onda di De Broglie è collegata alla probabilità di trovare la particella: così come
la probabilità di trovare il fotone di Planck è proporzionale al modulo quadro dell’ampiezza del
campo elettrico dell’onda, la probabilità quantistica è proporzionale al modulo quadro
dell’ampiezza d’onda di De Broglie.
(a) Calcolare l’energia ed il momento di un fotone “rosso”, con lunghezza d’onda λ=650 nm e
calcolare la lunghezza d’onda di un fotone con energia pari a 2.0 eV
(b) Sapendo che il potenziale d’estrazione del tungsteno è φ=4.52 eV, determinare la frequenza
di taglio fotoelettrica per questo metallo, la massima energia cinetica dei fotoelettroni
quando la radiazione ha lughezza d’onda di 200 nm ed il potenziale frenante in questo caso.
(c) Utilizzando la legge di Wien, calcolare la lunghezza d’onda alla quale un oggetto a
temperatura ambiente (T=20°C) emette la massima radiazione termica e stabilire fino a
quale temperatura va riscaldato l’oggetto perché si presenti di colore rosso (λ=650 nm).
(e) Raggi X di lunghezza d’onda 0.24 nm sono diffusi secondo la relazione di Compton e il
fascio diffuso è osservato ad un angolo di 60° rispetto la direzione di incidenza. Calcolare la
lunghezza d’onda dei raggi X diffusi, l’energia dei fotoni X diffusi, l’energia degli elettroni
diffusi e la loro direzione rispetto quella d’incidenza.
(f) Stimare le lunghezze d’onda di De Broglie per (a) un’automobile dal peso di 1000 kg che
viaggia a 100 km/h e (b) un protone con energia di 150 MeV.
(g) Una palla da biliardo di massa m=100 g è “ferma” su un piano entro la lunghezza di 1 m.
Per il principio di indeterminazione possiamo ammettere che in realtà la biglia abbia una
piccola velocità. Calcolarne il valore e commentare il risultato.
Letture consigliate
Lo studio delle proprietà di un sistema fisico nell’ambito di una trattazione ondulatoria è in un certo
senso avvicinabile a quello operato nello schema classico, con delle differenze concettuali e di
sostanza comunque essenziali. Nella visione classica l’interesse è rivolto alla relazione fra causa
(forze agenti sul sistema) ed effetto (moti del sistema, traiettorie). Lo strumento utilizzato è la
formulazione dinamica (leggi di Newton) o lagrangiana (equazioni di Hamilton e Lagrange). Nella
visione quantistica ovvero ondulatoria i concetti di traiettoria perdono sostanza (in virtù del
principio di indeterminazione) ed è dunque necessario costruire un nuovo apparato che consenta
invece di ottenere informazioni sull’ampiezza di probabilità, ossia sull’onda di De Broglie
associata al sistema fisico. Tale onda permette di calcolare la probabilità di ottenere determinati
valori di grandezze fisiche di interesse (variabili osservabili). Come discusso prima, l’onda di De
Broglie – d’ora in avanti chiamata (impropriamente) funzione d’onda del sistema, è collegabile alla
densità di probabilità semplicemente prendendone il modulo quadrato,
P(x)=|ϕ(x)|2.
La probabilità di osservare il sistema nell’intervallo spaziale dx è dunque dP(x)=|ϕ(x)|2dx. La
probabilità di osservare il sistema nell’intervallo di valori della coordinata compresi fra x1 e x2 è
quindi data da
x2
P( x1 < x < x 2 ) = ∫ ϕ( x)
2
dx ,
x1
con l’unica avvertenza di aver adottato una normalizzazione appropriata per la densità di
probabilità, ossia
+∞
∫ ϕ( x) dx = 1 .
2
−∞
Le estensioni in spazi a 2 o 3 dimensioni è immediata.
Come le equazioni di Newton e Maxwell, l’equazione che permetterà la trattazione quantistica non
sarà derivabile da principi primi, ma dovrà sottostare a verifiche sperimentali, leggi di
conservazione, considerazioni di simmetria e teoriche di varia natura.
Nel 1926 E. Schroedinger introduce l’equazione per l’onda di materia (che prende il suo nome).
L’idea di base consiste nella sequenza di passi qui elencati:
(a) L’energia (non-relativistica) dev’essere conservata, E=T+U
(b) vi dev’essere consistenza con l’ipotesi di De Broglie, per cui ad una particella libera dovrà
venire associata un onda piana con lunghezza h/p. Questo permette di scrivere la sua energia
(cinetica) come E=T=p2/(2m)=ħ2k2/(2m);
(c) ci si aspettano delle condizioni matematiche di regolarità dell’onda: la funzione dovrà
essere continua (anche nelle derivate prime), ad un solo valore e presentare comportamento
lineare in accordo con il principio di sovrapposizione.
Seguendo questi principi di riferimento, possiamo costruire l’equazione guida nel caso di una
particella libera ed estendere (con generalizzazione in questa sede gratuita) l’equazione così
ottenuta a casi più generali.
Per una particella libera dobbiamo ottenere un’onda di materia di tipo viaggiante e piana nella
forma consueta, ψ(x,t)=Asin(kx−ωt). Consideriamo un’istantanea al tempo t=0 (che verrà
reintrodotto in seguito) e concentriamo l’attenzione sull’onda ϕ(x)= ψ(x,0)=A sin(kx).
Osserviamo che
Equazione di Schroedinger - 1
d 2ϕ 2m
= − k 2 A sin (kx ) = −k 2 ϕ = − 2 Tϕ ,
dx 2
!
con T=E−U, per cui
! 2 d 2ϕ
− + Uϕ = Eϕ .
2m dx 2
Questa equazione, che è evidentemente consistente con (a) la conservazione dell’energia, (b) le
richieste di linearità ed unicità del valore e (c) fornisce l’onda piana di De Broglie per la particella
libera (U=0), è l’equazione di Schroedinger indipendente dal tempo in una dimensione. Non è
stata “dimostrata” (né è possibile farlo), ma solo “giustificata” sulla base della logica di consistenza
sopra schematizzata. Si assume inoltre che possa venire applicata quando la particella non è libera.
Sarà lo studio di qualche caso rilevante a fornire conferme a posteriori della validità della procedura
qui delineata.
In pratica, la risoluzione dell’equazione d’onda per un problema fisico assegnato può essere così
schematizzata:
(a) assegnazione del problema in termini dell’interazione fisica: l’energia potenziale U è data;
(b) la funzione d’onda ϕ viene ricavata con tecniche standard di risoluzione di equazioni
differenziali. L’equazione d’onda è una equazione agli autovalori, in quanto sia la funzione
d’onda che l’energia possono essere considerate (in determinate situazioni) incognite del
problema: data l’energia potenziale si vogliono determinare lo stato sistema (l’onda
associata) e l’energia o le energie permesse per tali stati (autovalori ed autofunzioni);
(c) vengono applicate le condizioni al contorno (ove possibile);
(d) vengono soddisfatte (se richiesto da eventuali discontinuità dell’energia potenziale)
condizioni di continuità per ϕ e dϕ/dx;
(e) la soluzione così particolareggiata è utilizzata per calcolare probabilità di grandezze fisiche
di interesse per il sistema in esame. A tale scopo si utilizza il significato operativo di
ampiezza di probabilità (si ricordi sempre l’impossibilità di definire una misura singola con
precisione illimitata di una grandezza fisica a prescindere da altre grandezze fisiche) e si
opera secondo la definizione standard di valore di attesa probabilistico. Così, il valore atteso
per la posizione di una particella con funzione d’onda ϕ(x) è dato da
+∞
< x >= ∫ x ϕ( x)
2
dx ,
−∞
e quello di una grandezza generica f(x) è dato da
+∞
< f ( x) >= ∫ f ( x) ϕ( x)
2
dx ,
−∞
dove si considerano funzioni d’onda normalizzate all’unità.
3. Applicazioni
L’equazione di Schroedinger è
! 2 d 2ϕ
− = Eϕ
2m dx 2
Possiamo anche scrivere
d 2ϕ
= −k 2 ϕ
dx 2
dove k2=2mE/ħ2, ossia otteniamo l’equazione differenziale per un’onda piana con periodo
spaziale dato da λ=h/p. La soluzione è del tipo
Equazione di Schroedinger - 2
ϕ(x)=a sin(kx) + b cos (kx)
2 2
con energia data da E= ħ k /(2m) (tutti i valori sono ammessi con continuità, a seconda della
quantità di moto della particella – o del suo numero d’onda), ovvero l’energia non è quantizzata,
a valori discreti. E’ possibile (e conveniente) scrivere la funzione d’onda in forma equivalente
complessa,
ϕ(x)=A e+ikx + B e−ikx,
perché in questo modo la soluzione è “naturalmente” nella forma di sovrapposizione di due
onde che, in una trattazione nella quale il tempo è esplicitamente inserito (qui non è necessario
vista la stazionarietà temporale dell’onda), risultano viaggianti nelle direzioni positiva (termine
A) e negativa (termine B) dell’asse x. In questo primo esempio i coefficienti dell’onda (A e B)
non possono venire determinati per normalizzazione, e questo è in pieno accordo con il fatto che
l’onda è completamente delocalizzata spazialmente (la quantità di moto della particella è
perfettamente definita in termini della lunghezza d’onda) e dunque non ha significato porsi la
domanda di stabilire la probabilità di collocare spazialmente la particella.
E’ un’importante estensione del caso precedente. Ora la particella è vincolata da una barriera di
energia infinita a rimanere in un piano xy (ad esempio quadrato di lato L). La soluzione
dell’equazione di Schroedinger segue la stessa strategia delineata nel caso in una dimensione,
anche se ora si tratta di estendere lo schema ad un problema di due variabili:
! 2 ∂ 2 ϕ( x, y ) ∂ 2 ϕ( x, y )
− + + U ( x, y )ϕ( x, y ) = Eϕ( x, y ) ,
2m ∂x 2 ∂y 2
U(x,y)=0 per 0<x<L, 0<y<L, ∞ altrove.
La soluzione di quest’equazione richiede opportune tecniche di separazione delle variabili. Il
buon senso ci suggerisce comunque di ammettere che la densità di probabilità fuori dalla buca
sia identicamente nulla [ϕ(x,y)=0]. All’interno si usa come soluzione “di prova” una funzione
d’onda fattorizzata, ϕ(x,y)=f(x)g(y), dove f e g sono funzioni esattamente del tipo ottenuto nel
caso in una dimensione:
f(x)=Ax sin kxx + Bx cos kxy,
g(y)=Ay sin kyy + By cos kyy,
dove i numeri d’onda kx, ky sono ora richiesti separatamente perché la soluzione di prova sia
accettabile. Applicando le condizioni di continuità ai bordi, ϕ(0,y)= ϕ(x,0)= ϕ(L,y)= ϕ(x,L)=0 si
ottiene ancora una situazione di stazionarietà di onde in due dimensioni (analogamente al caso
della vibrazione di una membrana piana vincolata ai bordi, come la pelle di un tamburo). In
corrispondenza i numeri d’onda k risultano limitati a valori multipli di interi, e l’energia è
ancora quantizzata ed assegnabile in funzione di due numeri quantici. La funzione d’onda
normalizzata che si ottiene è
ϕ(x,y)=(2/L) sin (nxπx/L) sin (nyπy/L)
e l’energia
E =E(nx,ny)=ħ2π2( nx2+ ny2)/(2mL2)= E0( nx2+ ny2).
Osserviamo che vi sono coppie di numeri quantici differenti (dunque differenti funzioni d’onda)
che danno la stessa energia. I valori (nx,ny)=(2,1) e (nx,ny)=(1,2) danno entrambi E=5E0. Questo
è un primo esempio di degenerazione quantistica. Il caso appena citato è tutto sommato
Equazione di Schroedinger - 4
accettabile in quanto le due coppie di numeri quantici corrispondono ad uno scambio degli assi
x ed y. In realtà la situazione può essere più complessa: le
(nx,ny)=(1,7) coppie (nx,ny)=(1,7)
e (nx,ny)=(5,5)
corrispondono alla (nx,ny)=(5,5)
stessa energia, 50E0.
Ma le funzioni
d’onda (il loro
modulo quadrato),
qui rappresentate,
sono di natura
sostanzialmente
differente. La degenerazione è tipica di sistemi a più
dimensioni (in realtà esistono affascinanti connessioni fra la simmetria di un sistema fisico e le
possibili degenerazioni quantistiche).
Oscillatore armonico
Una situazione molto comune nei modelli fisici sia classici che quantistici è basata su forze di
natura elastica, per la quale il moto è di tipo oscillatorio armonico (per piccoli angoli di
oscillazione). L’utilità di proporre la soluzione quantistica per questo caso è che esso costituisce
un valido punto di partenza per la modellizzazione di sistemi fisici di interesse reale (per piccoli
spostamenti dall’equilibrio ogni energia potenziale ha andamento quadratico, U(x)=kx2/2). La
soluzione dell’equazione di Schroedinger per questo potenziale è piuttosto complessa (ha
andamento regolato da polinomi e da esponenziali), ma l’energia è quantizzata ed assegnata in
termini di un unico numero quantico secondo la semplice relazione
E=E(n)=(n+1/2) ħω, dove ω=(k/m)1/2 e n=0,1,2,… .
La sequenza di livelli energetici (lo spettro del sistema) è ora equispaziata (cosa che non accade
per la particella in una scatola di energia infinita). Notare il minimo energetico per n=0: il valore
risulta ovviamente compatibile con l’indeterminazione spazio-momento di Heisenberg.
Senza entrare nel dettaglio della trattazione, ci limitiamo ad affermare che la dipendenza temporale
può essere introdotta nella trattazione ondulatoria partendo dalla funzione d’onda indipendente dal
tempo, ϕ(x), moltiplicata per il fattore complesso e−iωt, dove ω=E/ ħ, ovvero la frequenza ω è data
dalla relazione di De Broglie:
ψ(x,t)= ϕ(x)e−iωt.
Così facendo è possibile giungere ad una versione dell’equazione di Schroedinger dipendente dal
tempo, nella forma
! 2 ∂ 2 Ψ ( x, t ) ∂Ψ ( x, t )
− + U ( x ) Ψ ( x , t ) = i! .
2m ∂x 2
∂t
Il fattore temporale ad esponente complesso è conveniente nella rappresentazione del verso di moto
dell’onda di materia: la funzione d’onda indipendente dal tempo
ϕ(x)=A e+ikx + B e−ikx
diventa
ψ(x,t)=A e+i (kx−ωt) + B e−i(kx+ωt),
per cui l’onda viaggiante nel verso delle x positive ha intensità v|A|2 e quella nel verso delle x
negative ha intensità v’|B|2, con v=p/m= ħk/m.
Equazione di Schroedinger - 5
5. Barriere di potenziale, effetto tunnel: un nuovo aspetto “anticlassico” della meccanica
quantistica
Equazione di Schroedinger - 6
! 2 d 2ϕ
− = ( E − U 0 )ϕ ,
2m dx 2
e dunque la soluzione deve prevedere esponenziali reali, ossia
2m(U 0 − E )
ϕII(x)=A’’ ek’’x + B’’ e−k’’x, con k ' ' =
!
.
Per impedire alla funzione d’onda di divergere per x crescenti imponiamo A’’=0 ed applichiamo le
condizioni di continuità in x=0. Il risultato è che
nella zona I l’onda di materia è stazionaria con
numero d’onda k, come previsto, senza fenomeni
particolari di bilancio (la particella è riflessa dalla
U0 barriera di potenziale). Ma la soluzione per la zona
E II, con un esponenziale decrescente, evidenzia che
la particella penetra per un tratto nella zona
“proibita”. E’ proibita dalla meccanica classica
(l’energia cinetica è negativa), e contravviene al
principio di conservazione dell’energia. Questo
fenomeno è reale (anche se è impossibile osservare
la particella nella zona II) ed è consentito dal principio di indeterminazione tempo-energia:
affinché la particella possa penetrare per un certo tratto nella zona ad energia cinetica negativa, essa
deve “prendere in prestito” energia sufficiente (che deve in realtà creare) per superare la barriera di
potenziale. Se tale “prestito” avviene entro un tempo breve tanto da soddisfare la relazione
∆t∼ħ/∆E, l’osservatore non potrà misurare il fenomeno in contrasto con il principio di
conservazione dell’energia.
Il fenomeno di penetrazione nella zona classicamente proibita è causa di una serie di fenomeni che
non trovano spiegazione al di fuori dello schema quantistico. Si consideri, a tale scopo, il caso di
una particella che subisce l’effetto (sempre in una dimensione) di una barriera di potenziale di
larghezza ed altezza finite ed assegnate. Se l’energia della particella è minore dell’altezza della
barriera, la descrizione classica prevede solamente un fenomeno di inversione del moto (riflessione
totale). Dal punto di vista quantistico, il fatto che la barriera
abbia larghezza finita e che la particella possa penetrare tale
barriera per un piccolo tratto fa sì che vi sia probabilità non
nulla di attraversamento della barriera: una particella
proveniente dal lato delle x negative potrà presentarsi (con
onda di materia di lunghezza invariata, nell’esempio
considerato) oltre la barriera di potenziale, ossia la barriera presenta una trasmissione puramente
quantistica non nulla. Il risultato può essere dimostrato 1
0.3
emissione) di particelle, che infatti vengono rilasciate con probabilità in ottimo accordo con lo
schema di attraversamento di barriera, detto effetto tunnel. Il microscopio a scansione tunnel
recentemente realizzato è anche basato su questo fenomeno.
Equazione di Schroedinger - 7
In generale dovrebbe essere ora chiaro che la forma esplicita
dell’energia potenziale (come accade nel caso classico) è sufficiente
a fare previsioni sull’andamento della funzione d’onda della
particella. Tipicamente, si potranno avere due situazioni generali, a
seconda del segno dell’energia totale del sistema. Per energie
positive, ossia particella “sopra barriera/buca di potenziale”, sarà
sufficiente fissare un parametro arbitrario della funzione d’onda che
presenterà caratteristiche di onda viaggiante, eventualmente
“sfasata” (ossia parzialmente riflessa/trasmessa) da variazioni
dell’energia potenziale, con possibili effetti di penetrazione quantistica in corrispondenza dei punti
di inversione classica del moto. L’energia della particella non è quantizzata. Per energie negative,
ossia “nella buca di potenziale”, l’equazione di Schroedinger obbliga a fissare due parametri, il che
equivale a vincolare l’energia a valori discreti. Essa è dunque quantizzata.
Il formalismo della meccanica quantistica è stato sviluppato (da Schroedinger ed Heinsenberg) in
dettaglio e seguendo regole e principi solidi e che vanno oltre le semplici considerazioni qui
discusse. Vale almeno la pena citare che l’equazione di Schroedinger nella forma canonica viene
scritta Hϕ=Eϕ, dove H è l’operatore hamiltoniano definito in uno spazio di Hilbert di funzioni
d’onda ϕ. Nei casi sopra considerati H si riconduce alla forma −ħ2/(2m)(d2/dx2)+U(x). L’equazione
conduce ad autovalori (osservabili, necessariamente reali e dunque gli operatori devono essere
hermitiani) con autovettori (rappresentazione degli stati fisici del sistema). Per la dipendenza dal
tempo è possibile estendere la trattazione includendo fenomeni di transizione (ad esempio radiative,
ossia con scambi di fotoni), nelle quali il sistema non è stazionario, ossia evolve nel tempo. E’
possibile calcolare esplicitamente le probabilità di evoluzione di questi fenomeni.
6. ESERCIZI
(b) Dimostrare che in una buca quadrata di potenziale a pareti infinitamente alte ed in
due dimensioni l’energia è quantizzata e dipende da due numeri quantici secondo la
E=E0(nx+ny)2.
(c) Calcolare l’intensità di riflessione per una particella che incide contro un gradino di
potenziale di altezza U0 con energia cinetica pari a E=aU0, con a>1. Quant’è
l’intensità di riflessione nel caso classico?
(e) Dimostrare che il valore atteso per x2 in una buca di energia infinita e larghezza L in
una dimensione è dato da L2[1/3-1/(2n2π2)]. Qual è la differenza più importante fra
questo risultato ed il valore atteso per x?
Equazione di Schroedinger - 8
Lezione 4 – Modelli atomici ed atomo di idrogeno quantistico
Alla fine del secolo XIX si è in grado di stabilire le seguenti evidenze sperimentali:
(a) la materia è composta da atomi di dimensioni molto piccole. Proprietà fisico-chimiche di
varie forme di aggregazione della materia permettono di stimare un diametro medio
dell’ordine di 10−10 m;
(b) gli atomi sono stabili, ossia non si rompono spontaneamente in frammenti più piccoli:
perché ciò si realizzi le forze di coesione interna agli atomi devono essere in equilibrio;
(c) gli atomi sono composti da cariche elettriche di segno opposto in numero eguale, ossia gli
atomi nello stato ordinario sono elettricamente neutri. L’esistenza degli elettroni è
evidenziata dall’effetto Compton e da quello fotoelettrico. Gli elettroni non possono
compenetrare il nucleo senza violare il principio di indeterminazione;
(d) gli atomi emettono ed assorbono radiazione elettromagnetica in uno spettro estremamente
ampio, microonde, infrarossi, visibile, ultravioletto, raggi X compresi. Esistono
sostanzialmente due classi di esperimenti che utilizzano la radiazione elettromagnetica per
studiare la struttura atomica: spettroscopia in emissione e per assorbimento. Con il termine
spettroscopia si intende indicare lo studio sistematico della radiazione emessa o assorbita da
un determinato atomo (intensità ed energia o frequenza). Distingueremo di seguito le
modalità in emissione ed assorbimento.
Studiamo ora l’evoluzione storica della modellizzazione dell’atomo che ha permesso di
caratterizzare con precisione sempre maggiore il comportamento dettagliato del mondo
submicroscopico e verificare l’applicabilità delle leggi della meccanica quantistica (sia relativistica
che non, anche se in questa sede ci limiteremo a considerare condizioni non relativistiche).
2. Modello di Thompson
Il primo modello di atomo prevede una struttura sferica omogenea di carica positiva, all’interno
della quale si trovano distribuiti uniformemente gli elettroni, cariche negative puntiformi. La massa
atomica è distribuita su tutta la sfera. Una semplice applicazione del teorema di Gauss permette di
calcolare la forza di Coulomb subita dagli elettroni che risulta di tipo elastico, per cui gli elettroni
oscillano e dunque emettono o assorbono in modo risonante radiazione elettromagnetica. Il calcolo
però dà frequenze in disaccordo con quelle osservate. Il problema più grave di questo modello è
comunque che esso non riesce a riprodurre le osservazioni ottenute in esperimenti di collisione con
particelle cariche pesanti (particelle α, ossia nuclei di elio). Secondo il modello di Thompson, la
carica positiva distribuita su tutto il volume atomico deve produrre una piccola deviazione ad ogni
collisione. In un foglio di materiale di spessore piccolo ma finito, vi sono moltissimi centri diffusori
(gli atomi, infatti) e conseguentemente il fenomeno diffusivo dei proiettili va trattato in senso
statistico. I risultati sperimentali indicano che vi è una probabilità relativamente elevata di
osservare proiettili diffusi ad angoli elevati (fino a 180°). La trattazione statistica della diffusione
multipla conduce invece ad una probabilità pressoché trascurabile per tali eventi. Evidentemente il
modello a massa diffusa su tutto il volume è da rivedere.
3. Modello di Rutherford
La correzione più rilevante riguarda proprio la distrubuzione della massa atomica, che ora è
immaginata concentrata in un piccolo volume carico positivamente (il nucleo) immerso in una sfera
leggera ed uniformemente carica negativamente (gli elettroni). Gli elettroni diffondono in modo
elastico con gli atomi (senza perdita di energia cinetica). Si ricava che il numero di elettroni diffusi
secondo l’angolo θ nell’ipotesi di Rutherford è dato dalla legge omonima
4. Spettri atomici
Oltre a spettri continui in emissione (come quello osservato nella radianza di un corpo riscaldato)
esistono spettri a linee sia in emissione che in assorbimento. La classificazione è fatta in base al tipo
di esperimento effettuato. Provocando scariche
elettriche in un gas viene fornita energia (tramite
la corrente elettronica) agli atomi del gas che
emettono solamente determinate frequenze
(radiazioni di colore caratteristico per il gas –
GAS
GAS
5. Modello di Bohr
Nel 1913 N. Bohr estende il modello nucleare di Rutherford per spiegare gli spettri osservati di
atomi “idrogenoidi”, ossia con un solo elettrone. L’idea principale del modello consiste nel
descrivere l’elettrone come satellite del nucleo in orbite “stazionarie”, ossia quantizzate nelle loro
dimensioni. L’elettrone è vincolato al nucleo positivo tramite la forza di Coulomb che fornisce
l’accelerazione centripeta necessaria. Tale forza, data da
−e
F=Ze2/(4πε0r2)=mv2/r, assieme all’energia elettrostatica rdel
sistema nucleo/elettrone data da U=− Ze2/(4πε0r), ci permette di F v
2 2
calcolare l’energia cinetica, T=mv /2= Ze /(8πε0r) e quella totale
dell’elettrone: +Ze
E= −Ze2/(8πε0r). r
Il punto fondamentale è che il modello “planetario” non può
giustificare la stabilità dell’atomo: l’elettrone orbitante è accelerato
e dunque deve emettere radiazione elettromagnetica e perdere
gradualmente energia, fino a collassare sul nucleo. Gli stati stazionari di Bohr prevedono invece
che l’elettrone mantenga la sua orbita senza irradiare energia, e che questo sia possibile grazie ad un
fenomeno di quantizzazione del momento angolare orbitale, che può possedere solo valori multipli
interi di ħ, L=nħ, n=1,2, … . Si tenga presente che il modello di Bohr è antecedente l’ipotesi
ondulatoria di De Broglie e l’intero apparato della meccanica quantistica, per cui l’idea della
quantizzazione del momento angolare e della stazionarietà degli stati è decisamente rivoluzionaria e
degna di attenzione, soprattutto in quanto essa permette una descrizione molto accurata degli spettri
osservati (benché la visione di un elettrone orbitante secondo valori definiti di velocità e raggio
orbitale non sia ammissibile alla luce dell’indeterminazione quantistica e della natura ondulatoria
dell’elettrone stesso su queste scale submicroscopiche).
La quantizzazione del momento angolare conduce immediatamente alla quantizzazione dei raggi
orbitali e delle energie elettroniche: essendo L=mvr= nħ, dalla T=mv2/2= Ze2/(8πε0r)= n2ħ2/(2mr2) si
ottiene r=rn= 4πε0n2ħ2/(Zme2)=a0n2/Z, dove
a0=4πε0ħ2/(me2)=0.0529 nm
è detto raggio di Bohr. Per quanto riguarda l’energia totale dell’elettrone ricaviamo E=En=−Z2E0/n2,
dove
E0=me4/(32π2ε02ħ2)=2.18×10−18 J=13.6 eV.
Questo valore corrisponde all’energia necessaria per “costruire” un atomo di idrogeno (Z=1) nello
stato stazionario più “basso” (n=1) a partire da un elettrone e da un nucleo positivo a distanza
infinita, ovvero è l’energia da fornire all’atomo ionizzarlo, ossia togliere l’elettrone dal campo
E’ ora importante riconsiderare almeno a grandi linee la “risposta ondulatoria” al modello di Bohr
dell’atomo di idrogeno. Si tratta applicare l’equazione di Schroedinger al sistema elettrone/protone
e di ottenere energie e funzioni d’onda. Ci si aspetta, viste le premesse, una descrizione
“delocalizzata” dei moti elettronici, visto che ora possiamo ottenere solo distribuzioni di probabilità.
Vedremo anche che la meccanica quantistica (in realtà solamente quella relativistica) propone una
descrizione efficace di strutture “fini” dello spettro atomico non accessibili al modello ad orbite
stazionarie di Bohr.
L’equazione di Schroedinger per l’idrogeno atomico fa uso dell’energia potenziale centrale di
Coulomb, U(r)=−e2/(4πε0r2). La derivata seconda rispetto le coordinate cartesiane che realizza
l’energia cinetica nell’equazione di Schroedinger è di fatto un laplaciano,
!2 ∂2 ∂2 ∂2 !2
T =− + + =− ∆,
2m ∂x 2 ∂y 2 ∂z 2 2m
che, in coordinate sferiche (le più appropriate per questo studio) conduce alla seguente forma
dell’equazione di Schroedinger per la funzione d’onda ϕ=ϕ(r,θ,φ):
! 2 ∂ 2 ϕ 2 ∂ϕ 1 ∂ ∂ϕ 1 ∂ 2ϕ
− 2 + + sin θ + + U (r )ϕ = Eϕ .
2m ∂r r ∂r r sin θ ∂θ ∂θ r 2 sin 2 θ ∂φ 2
Si applica la separabilità di ϕ(r,θ,φ)= R(r)Θ(θ)Φ(φ) nelle parti radiale, R(r), polare, Θ(θ), ed
azimutale, Φ(φ). La soluzione dell’equazione conduce ad una dipendenza da 3 numeri quantici per
la classificazione completa del sistema. Tali numeri, detti principale (o radiale) n, di momento
angolare orbitale l e magnetico ml, vengono associati alle funzioni d’onda secondo la scrittura
ϕn,l,ml(r,θ,φ)= Rnl(r)Θlml(θ)Φml(φ) e con regole di “conteggio” date da n=1,2,3, …, l=0,1,2, … , n-1,
ml=0,±1,±2, … ,±l. L’energia risulta dipendere (in prima approssimazione) soltanto dal numero
quantico principale o radiale, n e risulta eguale a quella ottenuta nel modello di Bohr,
1 me 4
E = E ( n) = − 2 .
n 32π 2 ε 02 ! 2
In base a questi risultati, osserviamo che ciascun livello energetico discreto è fissato da n ed è n2
volte degenere. Tale degenerazione è importante per vari motivi. Anzitutto, modelli più sofisticati in
parte rimuovono la degenerazione in certi livelli. Campi esterni (elettrici o magnetici) sono anche in
grado di rimuovere la degenerazione dando così rilievo fisico specifico ad altri numeri quantici oltre
ad n. Il fatto che la degenerazione sia elevata non impedisce comunque una grande differenziazione
fra stati del sistema nonché, in una trattazione in grado di apprezzare accoppiamenti specifici,
diversi stati degeneri conducono a linee spettrali di intensità molto differenziate (o addirittura
all’assenza di talune transizioni).
La differenza fondamentale fra modello atomico di Bohr e la trattazione quantistica è, come già
detto, da rinvenirsi nella descrizione probabilistica della collocazione degli elettroni attorno al
1 r
R20 (r ) = 2 − e − r / a0 ,
2 2 (a 0 ) a0
3/ 2
1
R21 (r ) = re − r / a0 .
2 6 (a 0 )
3/ 2
0.6
valori di l, ma questo non modifica molto la
n,l=2,1 loro localizzazione spaziale. Esistono invece
0.4
n,l=2,0 differenze peculiari per quanto riguarda il
0.2 dettaglio delle distribuzioni spaziali di tali
0
stati con n=2: lo stato con l=0 presenta un
0 1 2 3
r
4 5 6 7
piccolo massimo relativamente vicino al
nucleo che lo stato con l=1 non possiede.
Questa caratteristica può essere compresa solamente studiando il significato fisico del numero
quantico di momento angolare orbitale (e di quello “magnetico”, ml).
Partiamo dall’analogo classico di orbite chiuse in campi di forze
centrali, cioè ellissi di diversa eccentricità. L’energia della particella Lmax
può essere fissata, mentre al variare dell’eccentricità varia il momento
angolare. Più l’elisse è schiacciata, minore è il momento angolare del
sistema, e viceversa. Un’elisse pronunciata presenta variazioni relative
di distanza radiale altrettanto nette, che tendono ad annullarsi per Lmin
orbite via via più circolari. Dunque in meccanica classica esiste
corrispondenza fra piccoli valori del momento angolare e l’esistenza di
due posizioni distinte di massimo e minimo avvicinamento radiale
(afelio e perielio).
La versione quantistica, seppure sostanzialmente differente da molti punti di vista, presenta delle
corrispondenze almeno in questo senso e ciò giustifica le differenze fra le due densità radiali per
n=2. La trattazione completa del momento angolare in meccanica quantistica prevede un nuovo
aspetto – ancora una volta che esula dagli schemi classici – noto come quantizzazione spaziale. Il
momento angolare è quantizzato, non come aveva ipotizzato Bohr (L=nħ), bensì secondo uno
schema di proiezione discreta: il suo modulo vale
L=[l(l+1)]1/2ħ,
8. ESERCIZI
(a) Nell’atomo di idrogeno, considerare la serie di Paschen, con n0=3 e λLIM=820.1 nm.
Ottenere le tre massime lunghezze d’onda per questa serie.
(b) Dimostrare che la massima lunghezza d’onda della serie di Balmer e che le due massime
lunghezze d’onda della serie di Lyman soddisfano il principio di Ritz.
(c) Calcolare lunghezze d’onda , frequenze ed energie (in eV) per le transizioni 3→2 e 4→2 nel
modello di Bohr dell’atomo di idrogeno. In che regioni dello spettro e/m si trovano?
(d) Sapendo che gli elettroni atomici possiedono energie dell’ordine dell’eV, verificare che il
principio di indeterminazione permette agli elettroni di restare confinati entro le dimensioni
di un atomo (0.1 nm).
(e) Utilizzando le espressioni per le funzioni d’onda radiali elettroniche dell’idrogeno, calcolare
i valori di attesa dei raggi orbitali e confrontare i risultati con il modello di Bohr.
(f) Quali sono i valori permessi per la componente z del vettore L in uno stato di momento
angolare l=3? A quali angoli si dispone il vettore secondo lo schema di quantizzazione
spaziale?
Letture consigliate
Per un approfondimento: Quantum Mechanics, Pauling e Wilson
Alonso-Finn, Fisica per l’Università,Vol. III
D. Sivuchin, Corso di Fisica Generale, Vol. V
Fisica di Berkely, Meccanica Quantistica
La trattazione basata sull’equazione di Schroedinger per gli atomi idrogenoidi (con un elettrone)
non è esportabile a sistemi più complessi, atomi contenenti due o più elettroni. Di fatto, la
meccanica quantistica non permette la soluzione esatta di problemi fisici con più di due corpi
interagenti. E’ necessario adottare tecniche di tipo approssimato che comunque conducono a
modelli estremamente precisi ed in eccellente accordo con i dati osservati sperimentalmente. Fra
queste tecniche vanno citati gli approcci di tipo “variazionale” e “perturbativo”. Nei primi, si
richiede che l’operatore Hamiltoniano conduca ad una situazione di minima energia del sistema
fisico. A tale scopo, si adottano funzioni d’onda “di prova” che contengono uno o più parametri
variabili a piacimento. La soluzione viene fissata dai valori dei parametri che minimizzano l’energia
del sistema. Nei metodi perturbativi, il problema è tale da permettere una trattazione in termini di un
modello “esatto”, di riferimento, al quale viene applicata una perturbazione, un piccolo termine di
interazione, che descrive più correttamente la situazione realistica. Tecniche matematiche opportune
permettono di ottenere la soluzione “perturbata” a partire da quella “di riferimento” (nota) in
termini di espressioni semplici e convenienti. In ogni caso, l’applicazione di tecniche approssimate
in meccanica quantistica richiede la conoscenza dei fenomeni alla base del comportamento
ondulatorio dei sistemi a molti corpi considerati. Nel caso di atomi con due o più elettroni, la sola
interazione elettrostatica fra le varie cariche atomiche non è sufficiente a descrivere il
comportamento del sistema. Si potrebbe infatti pensare, ad esempio per l’atomo di elio neutro (due
elettroni e due protoni, più due neutroni nel nucleo), che il sistema si comporti secondo una
semplice estensione del modello idrogenoide: il secondo elettrone subisce l’attrazione da parte dei
protoni nucleari secondo un’interazione coulombiana schermata dalla presenza del primo elettrone.
Un bilancio grezzo di carica ci conduce a considerare che il secondo elettrone “sente” una carica
positiva efficace data da Zeff=Z−1=1. E’ pur vero che i due elettroni si respingono, e questo fa sì che
lo spettro energetico del primo elettrone viene distorto rispetto lo schema idrogenoide iniziale. In
certa misura, ci aspettiamo comunque che, secondo questo ragionamento, l’atomo di elio debba
avere uno spettro simile alla “somma” di due spettri idrogenoidi, il primo con Z=2, il secondo con
Z=1. Entrambe gli elettroni devono stare nello stato fondamentale 1s, e questo deve valere anche
per elementi con numero elettronico (atomico) via via crescente. Ragionando in questo modo ci si
aspetta che le proprietà dei vari elementi cambino in modo molto graduale al variare del numero
atomico. La situazione in natura è completamente diversa. Se si prende, ad esempio, l’atomo di
fluoro (Z=9) e quello di neon (Z=10), nonostante essi differiscano solo (oltre che nella massa) di un
elettrone, le loro proprietà chimiche sono radicalmente diverse. Il fluoro è uno degli elementi
naturali più reattivi, il neon è pressoché inerte. Altre nette differenze fra elementi vicini nel numero
atomico sono sistematicamente osservate, ed è dunque necessario chiamare in causa altre
spiegazioni per queste differenze.
La soluzione è proposta da W. Pauli nel 1925, secondo il principio che prende il suo nome e che
dice “in un singolo atomo non possono esistere due elettroni che occupino lo stesso stato”.
Tradotto in termini che ricalcano la trattazione quantistica, il princpio afferma che due elettroni
qualunque nello stesso sistema fisico devono possedere diversi numeri quantici. Per l’atomo di
elio, i due elettroni con più bassa energia possono stare nel livello “fondamentale” (1s) purché
differiscano (almeno) nel numero quantico della proiezione di spin. Richiamando la notazione
precedentemente introdotta per i livelli idrogenoidi, (nlmlms), gli elettroni sono etichettati dai
numeri quantici (100+1/2) e (100−1/2). Notiamo che per entrambe gli elettroni i numeri quantici
principale, n ed angolare, l, sono gli stessi. Anche la proiezione del momento angolare (ml) è
conseguentemente la stessa (essendo l=0 deve essere ml=0). Resta la proiezione dello spin, che può
assumere solo i valori +1/2 e −1/2. Per il principio di Pauli, i due elettroni si “sistemano” con
proiezioni di spin differenti. E’ anche consuetudine affermare (con intenti più che altro figurativi)
La tabella periodica è suddivisa in gruppi (colonne) e periodi (righe). Elementi appartenenti allo
stesso gruppo presentano simili proprietà chimiche, mentre i periodi, ordinati secondo la massa
atomica dell’elemento, ripercorrono la sequenza di riempimento dei livelli elettronici. Nel primo
periodo (H e He) si riempiono i livelli 1s, nel secondo periodo si hanno le due sequenze (Li , Be e Z
da 5 a 10) associate rispettivamente ai livelli 2s e 2p. Nel terzo periodo vengono riempiti i
sottogusci 3s e 3p. Nel quarto periodo si osservano i sottogusci 4s (Z=19,20), 3d (Z=21, …, 30) e 4p
(Z=31, …, 36), e così via. Si noti che a partire dal sesto periodo la tabella prevede, dopo il
sottoguscio 6s (Cs e Ba), la serie di elementi detti lantadini (terre rare) associati al riempimento del
La regolarità ottenuta con il metodo di riempimento dei livelli elettronici, ovvero in base alle
proprietà fisico-chimiche basate sulla classificazione di Mendeleev (1859), sono visualizzabili in
vario modo. Di seguito si considerano alcuni fra i molti parametri che evidenziano detta regolarità.
Deve risultare chiaro che non c’è nulla di “magico” nella costruzione della tabella e delle proprietà
chimiche e fisiche associate ai vari elementi: queste ultime sono sempre il risultato di una
particolare configurazione elettronica, l’unica responsabile (almeno per gli atomi isolati, come in un
gas rarefatto, ma spesso anche in stati di materia condensata) del comportamento della specie
atomica. In generale, vale il fatto che i sottogusci elettronici riempiti sono stabili (non cedono né
acquistano facilmente elettroni). Parimenti, sottogusci con pochi elettroni sono più propensi a
cederne a specie con pochi elettroni mancanti al completamento del sottoguscio. Ciò sarà alla base
di molti meccanismi di formazione di legami
chimici fra elementi diversi. Inoltre, nella
maggior parte dei fenomeni di interesse chimico-
fisico, sono gli elettroni esterni (di valenza) a
dettare legge, mentre i sottogusci interni non
giocano un ruolo interessante.
Nel caso del raggio atomico (calcolato),
osserviamo una regolarità lungo i vari gruppi (il
raggio aumenta con la massa della specie)
mentre, in un dato periodo, all’aumentare del
numero atomico il raggio diminuisce, ciò
denotando un più efficace “impacchettamento”
degli elettroni al crescere di Z. E’ importante
comunque sottolineare che il raggio atomico è una proprietà di difficile definizione, in quanto la
specie non si presenta quasi mai isolata ma in
legame con altre specie o in strutture solide o
liquide, per cui le dimensioni effettive dell’atomo
possono risultare molto diverse da quelle calcolate
sulla base di modelli atomici isolati, non interagenti.
Si può poi considerare l’energia richiesta per
strappare un elettrone all’atomo singolo, detta
energia di (prima) ionizzazione. Si possono
ovviamente considerare energie di successiva
(seconda, terza, …) ionizzazione per atomi con
sufficienti elettroni. L’atomo di idrogeno ha solo
energia di I ionizzazione (13.6 eV), mentre quello di
elio ha energie di I ionizzazione (24.6 eV) e di II
ionizzazione (54.4 eV, che corrisponde alla I ionizzazione dell’idrogenoide – singolo elettrone –
(a) i gas rari o inerti hanno subshell complete e sono dunque in generale molto restii a combinarsi
con altri elementi, hanno energie di ionizzazione elevate e punto di ebollizione molto basso;
(b) gli elementi alogeni (gruppo 17, con configurazione np5) reagiscono facilmente con specie
chimiche disposte a fornire un singolo elettrone per completare il sottoguscio. Muovendosi nel
periodo lungo il quale il sottoguscio np si riempie, si osserva una diminuzione del raggio
atomico causata dall’effetto attrattivo del nucleo. Per lo stesso motivo l’energia di I ionizzazione
aumenta;
(c) gli alcalini e le terre alcaline (configurazioni ns1 ed ns2) sono elementi molto reattivi perché gli
elettroni s (anche se appaiati nel caso delle terre alcaline) sono relativamente poco legati al
nucleo. Sono dunque elementi anche buoni conduttori di calore ed elettricità;
(d) gli elementi associati alle serie nd, metalli di transizione, sono piuttosto simili in molte loro
proprietà, a parte anomalie già citate nella conducibilità termica/elettrica e nelle proprietà
magnetiche (fra i metalli vi sono quelli ferromagnetici);
(e) nelle terre rare (serie nf) si trovano ancora molte similitudini (riempimento di elettroni nei
sottogusci “interni” mentre rimane l’elettrone spaiato ns). L’elevato numero di elettroni
comporta altresì proprietà paramagnetiche (opposte al diamagnetismo naturale) ancora più
pronunciate che nei metalli di transizione. La maggior parte degli elementi ad elevato numero
atomico (attinidi) è radioattivo e non si trova in natura, per cui molte proprietà non sono note o
non possono essere semplicemente misurate.
6. Esercizi
(a) Sapendo che vale la relazione hν=3hcR∞(Z−1)2/3, calcolare l’energia della transizione Kα del
sodio (Z=11).
(b) Applicare la regola di Hund per stabilire i numeri quantici del livello fondamentale elettronico
dell’atomo di azoto.
(c) Stabilire i valori di L ed S del fondamentale elettronico dell’ossigeno atomico.
(d) Un laser (He-Ne) emette sulla lunghezza d’onda di 632.8 nm un fascio di diametro pari a 2 mm
con una potenza media di 4 mW. Quanti fotoni sono emessi al secondo dal laser? Qual è
l’ampiezza del campo elettrico associato all’onda elettromagnetica? Si confronti il risultato con
quelli ottenuti per una lampada ad incandescenza da 100 W alla distanza di 1m.
Letture consigliate
1. Lo ione-molecola di idrogeno
Ci interessiamo ora alle modalità secondo le quali due o più atomi si combinano fra loro per
formare molecole. Le evidenze sperimentali sono tali che la maggior parte delle molecole sono
stabili e l’interazione legante fra gli atomi è dovuta a forze di natura elettrica. In particolare, viste le
energie in gioco e le spaziature fra gli atomi, sono gli elettroni con le loro densità di carica che
forniscono la chiave di lettura di questo problema. Ancora una volta, la soluzione esatta, diretta
dell’equazione di Schroedinger risulta spesso un’impresa disperata, visto il numero di variabili
coinvolte. E’ comunque possibile giungere a risultati numerici con approssimazione eccellente in
accordo con le osservazioni sperimentali. La prima molecola che consideriamo è la più semplice: un
atomo di idrogeno nel livello fondamentale di energia che si associa ad un protone (nucleo di un
altro atomo di idrogeno) per formare uno “ione molecolare” (una molecola elettricamente carica).
Nonostante la sua (relativa) semplicità, questa molecola permette di comprendere le basi concettuali
e pratiche della formazione e della sostanza del legame atomico nelle molecole più complesse.
Il sistema costituito da due protoni e da un elettrone può risultare
“legato” (ossia stabile rispetto la dissociazione) solamente se si chiama −
in causa l’azione appunto “legante” dell’elettrone. L’atomo di
idrogeno è elettricamente neutro, per cui, di per sé, non può esercitare
forze nette sul secondo protone. Immaginando però di avvicinare il
secondo protone all’idrogeno neutro da una distanza molto grande,
possiamo pensare che le forze coulombiane fra le tre cariche agiscano + R +
nel senso di provocare una ridistribuzione della densità di carica (la
probabilità di trovare cioè le particelle). I due protoni, che pur si respingono, possono trovare
“giovamento energetico” (ossia diminuire l’energia totale del sistema) se l’elettrone si trova
“condiviso” (sempre nel senso probabilistico del termine, ossia della meccanica ondulatoria) fra di
essi. Può comunque anche capitare che il sistema sia compatibile con le leggi che ne governano il
funzionamento quando l’elettrone favorisce la repulsione tra i protoni, anche se in questo caso non
si potrebbe avere una molecola stabile. In ogni caso, dobbiamo riuscire a ricostruire questo schema
adottando una descrizione quantistica.
A tale scopo, consideriamo il sistema dato dai due
ϕG ϕU protoni e dall’elettrone secondo uno schema di
sovrapposizione ondulatoria. Ammettendo che
−ϕB l’elettrone possa venire descritto come un’onda di
materia localizzata nei pressi o di uno o dell’altro dei
ϕA ϕB ϕ A due protoni, e decidendo di scrivere queste due
situazioni (compatibili) secondo le funzioni d’onda
ϕA e ϕB, la funzione d’onda della molecola si dovrà
PG PU scrivere come combinazione lineare del tipo ϕA±ϕB.
In quest’espressione, il doppio segno indica la
possibilità di “sfasamento quantistico” che è
assolutamente proprio della descrizione ondulatoria
del sistema fisico. Stiamo utilizzando l’equazione di
Schroedinger che è lineare nella soluzione
ondulatoria, e dunque se abbiamo due (o più)
soluzioni, anche le loro combinazioni lineari devono essere ammesse come soluzioni. Le soluzioni
“singole” A e B rappresentano localizzazioni complete della carica negativa attorno ad uno dei due
protoni. La loro combinazione lineare rappresenterà la condivisione della carica messa in opera
dall’interazione coulombiana con i protoni. In pratica, si dovrebbe procedere con lo studio formale
fornito da un operatore hamiltoniano nella forma H=TA+ TB+ Te+ UeA+ UeB+ UAB, dove sono
Avvicinando due atomi di idrogeno si può ottenere una molecola secondo lo schema appena
descritto per lo ione-molecola. In particolare, a partire da grandi distanze fra gli atomi, con
un’energia totale pari a 2×(−13.6 eV)=−27.2 eV, l’avvicinamento conduce ad un mescolamento
delle nubi elettroniche, ovvero ad una sovrapposizione lineare delle rispettive funzioni d’onda,
secondo modalità simmetriche o antisimmetriche: anche in questo caso è possibile considerare
combinazioni leganti o antileganti, nelle quali gli elettroni (ora sono due) tendono a concentrarsi fra
i protoni ovvero a delocalizzarsi esternamente ad essi. L’unica, fondamentale differenza è che ora
dobbiamo tenere conto dell’universalmente valido principio di esclusione, per il quale nello stato
molecolare elettronico gli elettroni non possono avere lo stesso insieme di numeri quantici. Di
conseguenza i loro spin dovranno risultare antiparalleli (diverso numero di proiezione di spin). Ciò
stabilito, si osserva che la molecola può esistere
in uno stato stabile, ossia con energia totale più
negativa della somma delle energie dei due atomi
separati, purché la combinazione delle funzioni
d’onda atomiche sia simmetrica o pari, insomma
concentrata tra i due nuclei. Il caso
antisimmetrico o dispari non dà luogo ad una
molecola stabile. Questo è il primo caso di
legame covalente: quando i due atomi sono
eguali, il modo secondo il quale essi si legano in
una molecola è di “democratica condivisione”
degli elettroni, che vengono appunto “utilizzati”
da entrambe gli atomi, senza preferenze, per
costruire la “colla” che li tiene uniti. Dalla figura
si vede che, rispetto il caso dello ione-molecola, la molecola di idrogeno è più strettamente legata
(minore è la distanza di equilibrio e più grande l’energia di legame, pari a
−27.2 eV−(−31.7 eV)=4.5 eV). Questo è spiegabile in quanto ora gli elettroni (la “colla”) sono due.
E’ anche maggiore il contributo repulsivo dovuto al fatto che ora due cariche negative si
fronteggiano, ma lo fanno rispettando l’esclusione quantistica di Pauli, fatto che comunque contiene
l’effetto repulsivo complessivo. E’ anche importante notare che, nel caso ad esempio di due atomi
di elio (configurazione atomica 1s2), la molecola covalente non esiste. Questo perché ora vi sono
quattro elettroni nell’orbitale molecolare, e due di essi si dispongono nell’orbitale legante (di più
non è permesso dal principio di esclusione), e gli altri due nell’unico altro orbitale a disposizione,
quello antilegante. Il risultato netto è a sfavore di una configurazione stabile. Il caso dello ione-
molecola He2+ è invece stabile, in quanto due elettroni vivono nell’orbitale legante ed il terzo in
quello antilegante.
Non solo gli orbitali s conducono alla formazione di orbitali molecolari. E’ possibile ovviamente
considerare la struttura molecolare di sistemi
che prevedono la combinazione lineare di px px py py
orbitali atomici di momento angolare non nullo
(p, d, f). La situazione è più complessa in quanto
tali orbitali hanno particolari orientazioni
spaziali e sono degeneri. La sovrapposizione di
orbitali p, ad esempio, è tale che esistono due πx πy
differenti possibilità di legame lungo l’asse
Le molecole omonucleari, cioè formate da atomi eguali, sono unite da legami covalenti, nei quali gli
elettroni non “appartengono” ad uno o all’altro atomo, ma sono egualmente condivisi da entrambi.
Se gli atomi sono differenti è però possibile che, a seconda del bilancio di cariche in gioco, gli
elettroni tendano a concentrarsi più in prossimità di un atomo che dell’altro. In casi come questi si
parla di legame ionico. Si consideri ad esempio la costruzione della molecola di NaCl. Il sodio è un
A differenza degli atomi, le molecole possono interagire con la radiazione elettromagnetica in virtù
di gradi di libertà interni oltre a quelli elettronici. Si tratta di considerare le possibilità di moti
relativi degli atomi rispetto le loro posizioni di equilibrio: tali moti sono rotazioni e vibrazioni
atomiche, che risultano ancora una volta quantizzate, per cui ci si aspettano spettri discreti per
assorbimento o emissione di radiazione in seguito all’eccitazione o diseccitazione di questi modi.
Anche se in questi appunti ci limitiamo a considerare i casi più semplici, è fin d’ora importante
sottolineare che la spettroscopia molecolare che coinvolge modi di vibrazione e rotazione permette
l’analisi quantitativa e strutturale di molecole con strutture estremamente complesse. In molti casi, è
addirittura possibile ottenere informazioni esaustive sulla geometria molecolare unicamente
dall’analisi di spettri rotazionali e vibrazionali.
Per quanto riguarda le vibrazioni, consideriamo il caso più semplice di una molecola biatomica. E'
possibile e conveniente separare il moto traslazionale del centro di massa dal moto di vibrazione
E(v)= ħω(v+1/2)+x(v+1/2)2+y(v+1/2)3+ …,
dove i termini x, y, … tengono conto infatti di correzioni di ordine superiore alla sequenza armonica
di livelli. La regola di selezione armonica sopra introdotta viene
rilasciata per transizioni anarmoniche, quando si tenga conto di
fenomeni di “anarmonicità elettrica”: la distribuzione di carica
responsabile degli scambi energetici con l’onda elettromagnetica
incidente (o emessa) può giustificare
transizioni fra livelli che distano per più
di un singolo salto quantico. Quando la
molecola è poliatomica (nel senso che è
formata da più di tre atomi), la
situazione diventa molto complessa, ed è necessario affrontare il problema
caso per caso, a seconda della particolare geometria molecolare coinvolta.
Una tecnica generale per inquadrare la situazione prevede l’introduzione di
modi normali di vibrazione, in termini dei quali le complesse vibrazioni
molecolari vengono riscritte come sovrapposizioni lineari di modi armonici
in fase con frequenze diverse. Già una molecola triatomica come l’acqua
presenta tre modalità di vibrazione. In una molecola quadriatomica (come
l’ammoniaca, NH3) le vibrazioni diventano 6 e la situazione si complica rapidamente.
Un discorso analogo può essere fatto per le rotazioni di una molecola. Prendendo ancora una volta il
caso più semplice di un diatomo, la rotazione può essere descritta a partire dalla dinamica del corpo
E(l)=l(l+1)ħ2/(2mReq2).
Osserviamo anzitutto che la spaziatura dei livelli rotazionali di energia non è uniforme, come nel
caso armonico vibrazionale. Tale spaziatura è stimata a partire dai valori tipici delle grandezze
coinvolte e si ottengono livelli rotazionali dell’ordine di
centesimi di eV, ossia nella zona del lontano infrarosso e delle
L=4
microonde dello spettro elettromagnetico. Come accennato nel
caso delle vibrazioni, anche per le rotazioni la situazione si
complica notevolmente non appena si considerano molecole L=3
con più di due atomi. Una molecola diatomica possiede due
modi rotazionali associati agli assi perpendicolari alla linea L=2
congiungente gli atomi (la rotazione attorno all’asse L=1
molecolare non dà contributi energetici rilevanti in quanto,
rispetto questo asse, il momento d’inerzia è molto piccolo). La L=0
molecola di acqua possiede tre gradi di libertà rotazionali (rispetto i tre assi principali di inerzia). Le
molecole lineari sono ancora più complesse, in quanto per esse certi gradi di libertà rotazionali e
vibrazionali sono indissolubilmente mescolati. Per i modi rotazionali è possibile giungere a regole
di selezione analoghe a quelle accennate nel caso delle vibrazioni. Più in dettaglio, è possibile
verificare che in un rotatore quantistico vengono scambiati quanti di energia collegati dalla regola
∆l=±1. Uno spettro rotazionale realistico come quello riportato presenta delle differenze rispetto il
modello ora introdotto. In particolare,
si osservano variazioni di intensità dei
picchi di assorbimento, causate dal
fatto che i livelli rotazionali coinvolti
non sono tutti egualmente popolati e
dunque egualmente efficaci nel
contribuire alle transizioni. Sarà lo
studio statistico della popolazione a
fornire un modello quantitativo da
questo punto di vista. Anche la
spaziatura dei livelli non è esattamente
quella prevista dal modello semplice introdotto. Quando le rotazioni sono molto rapide, nasce un
effetto centrifugo che aumenta il momento d’inerzia della molecola, causando così un infittimento
della spaziatura dei livelli energetici rotazionali. Le “doppie punte” evidenti nello spettro riportato
sono dovute alla presenza di due specie isotopiche (masse diverse degli atomi).
Riassumendo, la spettroscopia molecolare è il risultato di un assieme di transizioni che coinvolgono
interazioni a livello elettronico (energie da pochi eV a molte migliaia di eV, se si considerano gli
elettroni atomici più interni) e nucleare – vibrazioni e rotazioni (energie dell’ordine degli eV o di
frazioni di eV). Una transizione in generale può coinvolgere simultaneamente cambi di stato
elettronico, vibrazionale e rotazionale, sempre in osservanza delle regole di selezione discusse.
(a) Utilizzando una tabella periodica degli elementi che riporti i valori di
elettronegatività, stimare la prevalenza di carattere ionico o covalente di legame delle
specie molecolari diatomiche LiF, HF, HCl, BrCl, AlF, KI, AgCl.
(b) Sapendo che la costante elastica equivalente della molecola di idrogeno vale
k=3.6×1021 eV/m2, calcolare la frequenza e l’energia del fotone di transizione
armonica vibrazionale per questa molecola. Per il calcolo è necessario utilizzare il
valore della massa dell’atomo di idrogeno.
(c) Calcolare i primi livelli rotazionali della molecola di idrogeno sapendo che la
coordinata relativa di equilibrio per questa molecola è pari a 0.075 nm.
Letture consigliate
N!
W=
n1!n2 !! nk !
Questo semplice risultato è molto importante: esso fornisce la molteplicità (o probabilità della
statistica fisica) di un macrostato del sistema. Si intende con tale termine indicare un assieme di
microstati, ossia di configurazioni accessibili al sistema, e tutte egualmente probabili per quanto
riguarda la loro occupazione da parte delle particelle. Un macrostato, con molteplicità W, è un
insieme di W microstati egualmente probabili. Per questa centralissima assunzione, maggiore è W
Statistica Classica - 1
per un dato macrostato, maggiore è la probabilità che, spontaneamente, il sistema lo occupi. Per
chiarire questo punto, utilizziamo numeri piccoli e vediamo esplicitamente cosa accade in termini di
occupazione. Prendiamo a tale scopo N=4 particelle che occupano un sistema a k=3 livelli (con
energie E1, E2, E3). A seconda di quante particelle si dispongono in questi 3 stati (vincolati alla
conservazione sia dell’energia, n1E1+n2E2+n3E3=ETOT, che del numero di particelle totale,
n1+n2+n3=N), otterremo differenti macrostati con differente molteplicità, ossia numero di microstati.
I possibili macrostati si ottengono semplicemente come partizioni intere di N vincolate alla
conservazione dell’energia totale. Se, ad esempio, l’energia totale è pari a “2” unità appropriate, e
ciascuna particella può assumere valori interi dell’energia, i macrostati ammessi sono quelli che
soddisfano alla n2+2n3=2, in quanto l’energia del primo livello (con popolazione n1) è nulla.
Dovendo risultare n1+n2+n3=4, i macrostati permessi sono [n1n2n3]=[301] e [220], ossia,
rispettivamente, 3 particelle nel I livello ed 1 nel terzo ovvero 2 sia nel I che nel II livello. Si
sottolinea che, in questo modo, vi sono in tutto 4 particelle con energia totale eguale a 2 unità
appropriate. Questi due macrostati hanno molteplicità diverse, ossia sono dati in termini di un
numero corrispondentemente diverso di microstati. Il calcolo fa uso della relazione sopra ottenuta.
Per il I macrostato, [301], si ottiene W[301]=4!/(3!0!1!)=4, per il II macrostato, [220], si ottiene
W[220]=4!/(2!2!0!)=6. In altri termini, esistono 4 microstati associati al macrostato [301] e 6 al
macrostato [220]. Questi sono facilmente individuabili in termini di disposizioni ammesse di
particelle, ad esempio, con 3 possibilità nel I livello ed 1 nel III. Se denotiamo con abcd le particelle
(ricordiamo che sono eguali ma distinguibili), le 4 configurazioni sono date da abc+d, abd+c, bcd+a
e acd+b. Non dobbiamo contare come diversi i microstati abc+d e, ad esempio, acb+d. Da un punto
di vista più fisico, la costruzione svolta fino a questo punto spiega, almeno nei suoi tratti essenziali,
l’evoluzione spontanea di sistemi realistici che possono “scegliere” fra vari macrostati a loro
disposizione: “automaticamente” il sistema disporrà le particelle nella configurazione che
massimizza il numero di microstati, ciò a causa della natura “casuale” dell’evoluzione dei sistemi a
moltissime particelle. Se la descrizione appena citata ad esempio si riferisse alle configurazioni di
un “gas” a 4 particelle, essendo tutti i 10 microstati con energia eguale a “2” egualmente probabili,
cioè accessibili alle particelle, sarà il macrostato più popoloso di microstati (dunque il [220] rispetto
il [301]) ad essere “scelto”, sempre statisticamente parlando. In altre parole ancora, se il sistema
viene preparato inizialmente nello stato [220] non si assisterà a un riassestamento spontaneo verso
lo stato [301], che pure ha la stessa energia, perché ciò richiederebbe una “concentrazione di
informazione” che il sistema non può permettersi di ottenere senza apporti esterni (eventualmente
energetici). Al contrario, a partire dallo stato [301] il sistema evolverà spontaneamente verso lo
stato [220] perché ciò massimizza il numero di microstati occupati. Se non fosse ancora chiaro,
stiamo riproponendo in veste probabilistica il II principio della termodinamica. Si potrà osservare
che esiste una precisa relazione che lega la statistica di occupazione dei livelli energetici con la
statistica di popolazione appena discussa.
Per puntualizzare ulteriormente (a costo di sembrare eccessivi), la connessione fra macrostati,
microstati e statistica può trovare un valido paragone nel gioco delle carte, ad esempio il poker. In
questo gioco si possono contare 2598960 mani distinte, ossia combinazioni di 5 carte che possono
capitare. Sono tutte equiprobabili, ossia sono circa due milioni e mezzo di microstati accessibili per
questo “sistema”. Tra questo numero grandissimo di microstati, esistono dei macrostati tanto più
ambiti dai giocatori quanto meno popolosi, ossia improbabili. La scala reale (sequenza dal 10
all’asso di un dato seme) è fatta da solo quattro microstati fra tutti quelli possibili (le combinazioni
di scala per i quattro semi). Ovviamente questo spiega il “valore” di questa mano. Ma una
qualunque altra mano, ad esempio 4C-5Q-JP-3F-2F, è altrettanto probabile quanto la scala reale o
un poker. E’ il fatto di non attribuire punteggio alla mano qualunque scritta sopra che ne annulla il
valore. Ma la sua probabilità è la stessa della scala reale (anzi, è quattro volte più piccola perché di
scale reali ne esistono quattro!).
Statistica Classica - 2
2. Partizione più probabile: distribuzione di Maxwell-Boltzmann
Ora è importante stabilire, in base ai semplici risultati ottenuti, quale sia la configurazione più
probabile da un punto di vista quantitativo: si è già capito che, qualitativamente, questa verrà
raggiunta in corrispondenza dell’occupazione del macrostato con massimo numero di microstati
disponibili compatibilmente con la conservazione dell’energia del sistema. Per eseguire il calcolo
modifichiamo il risultato prima ottenuto da due punti di vista. Anzitutto, riconosciamo che i livelli
energetici potrebbero avere pesi statistici differenti (come accade ad esempio quando delle energie
sono degeneri in meccanica quantistica). Chiamando gi il peso dello stato i-esimo, quando ni
particelle occupano lo stato, la probabilità di occupazione va moltiplicata per gini. Poi rimuoviamo
la distinguibilità delle particelle, per cui il risultato finale va diviso per N! e si scrive
1 N! k
g ni
W= g1n1 g 2n2 ! g knk = ∏ i
N ! n1!n2 !! nk ! i =1 ni !
k
ln W = ∑ (ni ln g i − ln ni !) ;
i
k
ln W = N − ∑ ni ln(ni / g i ) .
i
Per trovare il massimo differenziamo questa relazione, includendo la conservazione del numero di
particelle, per la quale Σidni=dN=0; rimane la dW=0 equivalente alla
∑ dn ln(n / g ) = 0 .
i
i i i
∑ dn [ln(n / g ) + α + βE ] = 0 ,
i
i i i i
ni = g i exp[−(α + β Ei )] .
Statistica Classica - 3
E’ ora possibile applicare questo risultato ad un caso pratico per comprendere meglio il significato
della distribuzione. Consideriamo il caso in cui un numero abbastanza grande di particelle
(N=4000) ha a disposizione tre livelli equispaziati (per semplificare il calcolo) di energia, ossia
E1=0, E2=e, E3=2e, tutti con la stessa probabilità di occupazione (gi=1). Scegliamo arbitrariamente
di collocare le 4000 particelle secondo la distribuzione data da n1=2000, n2=1700 e n3=300, e
confrontiamo le probabilità della configurazione assegnata con quella nella quale una singola
particella passa dal livello intermedio a quello inferiore ed una a quello superiore, in osservanza
della conservazione dell’energia. Utilizzando direttamente la W=1/(n1!n2!n3!) (essendo le gi=1), le
probabilità per le due configurazioni stanno nel rapporto
Ciò significa che la probabilità di modificare (su una popolazione di 4000 particelle) la
configurazione di due sole collocazioni energetiche (la particella che passa dal livello intermedio a
quelli superiore ed inferiore) varia di quasi cinque volte. Il risultato implica che il sistema è ben
lontano da una configurazione stabile, di equilibrio. Il fatto è che, dalla distribuzione di Maxwell-
Boltzmann, ci si aspetta una popolazione che decresce esponenzialmente con l’aumentare
dell’energia. La configurazione assegnata in questo esempio ha troppe particelle nei livelli eccitati
rispetto il fondamentale d’energia. Per calcolare quale sia la configurazione alla quale il sistema
tende spontaneamente, utilizziamo direttamente la legge di Maxwell-Boltzmann, data la
configurazione iniziale di popolazione, n1+n2+n3=4000, e di energia, E1n1+E2n2+E3n3=2300e,
nonché n1=(N/Z), n2=(N/Z)exp(−βe), n3=(N/Z)exp(−2βe). Posto x= exp(−βe), si può facilmente
ricondurre il sistema di due equazioni ad una singola equazione per x che risolta dà x=0.50. I valori
corrispondenti per le popolazioni sono n1=2277, n2=1146, n3=577. Utilizzando questi nuovi numeri
per un confronto di probabilità come quello fatto sopra per la transizione di una singola particella
fra livelli adiacenti porterebbe a mostrare che il sistema è effettivamente in una configurazione
stabile (le probabilità delle due configurazioni risultano essenzialmente le stesse).
Come vedremo nel prossimo capitolo, dedicato alla meccanica quantistica, vi sono casi nei quali la
distribuzione di Maxwell-Boltzmann non è adatta alla descrizione di molte situazioni di rilevanza
fisica notevole, come la conduzione termica/elettrica in un solido, il comportamento degli elettroni
in un metallo, la radiazione termica. In queste situazioni bisogna tenere conto esplicitamente della
natura quantistica delle particelle coinvolte. In particolare, gli schemi di occupazione discussi fino a
questo punto vanno modificati da due punti di vista: anzitutto le particelle della meccanica
quantistica sono indistinguibili. La conseguenza immediata di questo fatto (legato al principio di
indeterminazione, che impone limiti precisi all’osservabilità di determinati dettagli di un sistema) è
che la molteplicità di tutti i macrostati diventa unitaria. Bisognerà poi tenere conto, nel caso di
elettroni o di altre particelle a spin semiintero, del principio di esclusione di Pauli. In questo caso,
due elettroni non potranno occupare lo stesso microstato perché ciò richiederebbe l’eguaglianza dei
loro numeri quantici.
Ci interessiamo ora di un caso particolare di distribuzione statistica, che rientra nello schema di
conteggio di popolazione di grandi numeri di particelle prima descritta, ma che ha anche autonomia
logica e concettuale. Parliamo della distribuzione delle velocità (e dell’energia) di un gas classico di
molecole non interagenti (gas ideale). La distribuzione può essere derivata a partire da
considerazioni specifiche sulla teoria cinetica e statistica, ma trova anche giustificazione abbastanza
rigorosa a partire da ipotesi generali di isotropia dello spazio nel quale le particelle del gas si
muovono. Ci si pone il problema di determinare, per un dato gas (cioè una data massa) ad una data
temperatura (o altre coordinate termodinamiche rilevanti) il numero di molecole per unità di volume
Statistica Classica - 4
che posseggono una data velocità o, meglio, la cui velocità (intesa per ora vettorialmente) è
compresa in un dato intervallo di valori (è la natura intrinsecamente statistica del problema che
privilegia lo studio di intervalli di velocità piuttosto che valori perfettamente definiti).
Considerando l’equivalenza fra le particelle di gas e l’isotropia tridimensionale dello spazio la
distribuzione di una qualunque componente cartesiana della velocità dovrà avere distribuzione
centrata attorno al valore nullo e simmetricamente disposta attorno ad esso. Esistono validi motivi
(che qui non approfondiamo) per assegnare a tale distribuzione una legge di tipo gaussiano, che
scriviamo dunque nel modo seguente:
1 −bvi2
f (vi )dvi =
e dvi , i = x, y, z .
Ai
Con tale espressione si indica il numero di particelle per unità di volume che possiedono velocità
con componente i=x, y, z compresa nell’intervallo di valori [vi, vi+ dvi]. Per ottenere la distribuzione
del modulo della velocità v, si estende l’ipotesi di distribuzione sopra scritta in tre dimensioni:
1 − bv 2 1
f (v x , v y , v z )dv x dv y dv z = e −bv x e y e −bv z dv x dv y dv z = e −bv dv x dv y dv z .
2 2 2
Ax Ay Az A
z dv Vogliamo determinare ora la f(v)dv, con v=(vx2+ vy2+ vz2)1/2. A tale scopo
v osserviamo che l’elemento di volume dvx dvy dvz può essere ricondotto al
y volume del guscio sferico di raggio dv e superficie 4πv2dv. Vale dunque la
x relazione seguente per la distribuzione di velocità (distribuzione di Maxwell-
Boltzmann per il gas rarefatto):
4π −bv 2 2
f (v)dv = e v dv.
A
Statistica Classica - 5
La determinazione dei parametri A e b è ottenuta a partire da due condizioni indipendenti sulla
natura del sistema descritto. Il parametro A è una costante di normalizzazione che si fissa
richiedendo che
∫ f (v)dv = n ,
0
dove n è il numero di particelle per unità di volume (a prescindere dalle velocità che esse
posseggono). Il parametro b si determina chiamando in causa un aspetto fondamentale della teoria
cinetica dei gas perfetti, ossia che l’energia cinetica media delle molecole è legata alla temperatura
assoluta tramite la relazione <Ek>=3kBT/2, con kB costante di Boltzmann. L’energia cinetica media
si calcola a partire dalla
∞
1 1 2 3
< E k >= ∫ mv f (v)dv = k B T .
n02 2
3/ 2 mv 2
m −
f (v) = 4πn v 2 e 2 k BT .
2πk B T
Osserviamo che la distribuzione di velocità dipende sia dalla massa delle particelle che dalla
temperatura del gas. Il grafico riportato ci
evidenzia che con l’aumentare della
temperatura la distribuzione si “sparpaglia”
attorno al centro di massima probabilità, che
a sua volta si sposta verso valori di velocità
sempre più grande, in accordo con quanto ci
si può aspettare in base alla teoria cinetica
dei gas.
E’ anche possibile passare allo studio della
distribuzione in energia, sempre a partire
dalla legge di Maxwell-Boltzmann. Essendo
E=mv2/2, possiamo scrivere dE=mvdv per
cui dv=dE/(mv)=dE/(2mE)1/2. Sostituendo
nella distribuzione per le velocità otteniamo
subito la relazione cercata:
E
−
E
f ( E )dE = 2n e k BT
dE .
πk B3 T 3
Notiamo che, a differenza del caso delle velocità, questa distribuzione non dipende dalla massa
delle particelle: per una data temperatura tutti i gas possiedono la stessa distribuzione statistica di
energia cinetica.
Questo risultato, di ovvia importanza, non è comunque di generalità sufficientemente ampia da
poterlo applicare ad altri casi di interesse alla statistica classica: le particolari ipotesi fatte sulla
relazione fra velocità ed energia (solo cinetica in questo caso) devono essere riviste se il tipo di
interazione da studiare nel sistema è di natura diversa. La generalità del risultato si limita a potere
prevedere per qualunque tipo di energia considerata un andamento esponenziale secondo la
relazione data da
Statistica Classica - 6
E
1 −
f MB ( E ) = e k BT ,
A
mentre la natura specifica dell’energia in gioco condurrà ad una densità di stati, g(E), per la quale la
distribuzione di probabilità per l’energia è del tipo
W(E)=g(E) fMB(E).
Abbiamo già visto il caso in cui la densità degli stati (definita come molteplicità propria dei livelli)
gioca un ruolo essenziale nella determinazione della distribuzione di popolazione dei livelli. Questo
modo di procedere va esteso nello stesso spirito alla determinazione della densità di stati in una
distribuzione di Maxwell-Boltzmann. Possiamo ad esempio calcolare la popolazione relativa in un
gas di idrogeno atomico a temperatura ambiente (293 K) del I livello eccitato (n=2, E=10.2 eV). A
tale scopo è necessario calcolare il fattore di densità g(E) ricordando che, per l’idrogeno atomico, la
degenerazione è data da 2n2 (il fattore 2 viene dai sottolivelli di spin). Dunque g=2 per il
fondamentale e g=8 per il I livello elettronico eccitato. Le costanti di normalizzazione sono le stesse
per i due stati, per cui il rapporto di probabilità di occupazione è semplicemente dato da
( E 2 − E1 )
W ( E2 ) g ( E2 ) −
= e k BT
= 0.6 × 10 −175 .
W ( E1 ) g ( E1 )
4. Esercizi
Letture consigliate
Statistica Classica - 7
Lezione 8 – Statistica quantistica
Come accennato nel precedente capitolo, al cospetto di fenomeni che richiedono una trattazione
quantistica, le procedure di conteggio di molte particelle definite nel caso classico devono essere
riviste. Ciò è richiesto da due aspetti peculiari del comportamento quantistico della materia: le
particelle sono indistinguibili (oltre che identiche) e possono essere soggette ai vincoli del principio
di esclusione di Pauli. Questo va applicato al caso di particelle dette fermioni, ossia dotate di spin
semi-intero, come elettroni e protoni. Le particelle che hanno spin intero (come fotoni, nuclei
atomici “pari”, ossia con numero pari di nucleoni di entrambe le specie) sono dette invece bosoni.
Non sono soggette ai limiti imposti dal principio di esclusione e si comportano in modo
sostanzialmente diverso dai fermioni, come discutiamo nel paragrafo successivo. Anticipiamo solo
che le statistiche per casi classici o quantistici (sia bosonici che fermionici) convergono allo stesso
risultato quando le temperature sono elevate e le densità di particelle sufficientemente basse.
Se si considera ora un insieme di fermioni, particelle eguali, indistinguibili e soggette al principio di
esclusione di Pauli (nessuna particella può avere lo stesso insieme di numeri quantici di un’altra
particella), la tecnica di conteggio per una partizione di N fermioni su k stati di energie Ei è
facilmente ripresa ed adattata dal caso classico. Nel caso quantistico, come già accennato, è
essenziale trattare la probabilità intrinseca (gi) di ogni stato come degenerazione del livello, nel
senso puramente quantistico del termine: nel caso di elettroni nel campo di un nucleo atomico, ad
esempio, la degenerazione intrinseca (minima) è sempre gi=2; nel caso di un particella in campo
centrale di forze con momento angolare quantizzato da l, la degenerazione intrinseca è data da
gi=2l+1, e così via. La procedura di partizione (conteggio delle ni particelle nello stato Ei) è ora
vincolata alla richiesta che ni≤gi, causa il principio di esclusione: nel livello assegnato non possono
venire collocate più particelle della degenerazione intrinseca del livello stesso. E’ dunque possibile
collocare in questo livello il numero di particelle dato da gi(gi−1) (gi−2) … (gi−ni+1)=gi!/(gi−ni)!. Le
particelle sono indistinguibili, per cui dobbiamo dividere questo numero per ni!, e la configurazione
complessiva (tenendo conto di k livelli) ha molteplicità data dal prodotto delle molteplicità dei
singoli livelli, per cui
k
gi!
W =∏ .
i =1 ni !( g i − ni )!
A questo punto si procede come già fatto per il caso classico, ossia si determina la massima
probabilità di occupazione del sistema, annullando la derivata del logaritmo naturale di W soggetto
ai vincoli di conservazione del numero totale di particelle e dell’energia. Il risultato è
g
ni = i
A+ bEi
,
e +1
nella quale il parametro b ha lo stesso significato del corrispondente termine classico, b=1/(kBT)
mentre A si determina a partire dalla normalizzazione sul numero totale di particelle, Σini=N. Si usa
però introdurre una notazione speciale per A, ponendo εF=−AkBT, dove εF è detta energia di Fermi.
In base a questa definizione, la distribuzione risultante, detta di Fermi-Dirac, è data da
g
ni = i
( Ei − ε F ) / k B T
.
e +1
Statistica Quantistica - 1
L’energia di Fermi è una grandezza per lo più positiva e dipende molto debolmente dalla
temperatura. L’andamento di questa distribuzione è molto particolare e necessita di qualche
commento. Siccome il termine esponenziale a denominatore ha diversi limiti per T→0 a seconda
che risulti Ei maggiore o minore di εF, ci si aspetta che tale energia di Fermi giochi un ruolo
distintivo nell’andamento della distribuzione. Fisicamente, il principio di esclusione preclude in
ogni caso un “sovraffollamento” degli stati ai
fermioni: la distribuzione di Maxwell-Boltzmann
prevede che per basse temperature sia lo stato a
minore energia ad essere popolato sempre più in
gi proporzione ai livelli eccitati. Nel caso dei
fermioni, la massima popolazione sarà sempre e
comunque data dalla degenerazione quantistica
dei livelli, gi. Dunque, nel limite di temperatura
tendente a zero, ci aspettiamo che le particelle
riempiano tutti i livelli ad energia minima
compatibilmente con il principio di esclusione.
εF Ne consegue un riempimento di stati ad energia
comunque crescente (fino ad avere esaurito le particelle a T=0 T bassa T alta
disposizione). Ciò avviene in corrispondenza dell’energia di
Fermi, come peraltro è ben evidenziato dal grafico che
riporta la popolazione di Fermi-Dirac per T=0. Per
temperature non nulle, si assisterà alla promozione di un
certo numero di fermioni a livelli eccitati vicini all’energia di
Fermi: sono questi gli unici che possono essere promossi εF
senza causare riassestamenti dispendiosi di energia dei livelli
più bassi, lontani dall’energia di Fermi. Come si può intuire
dal grafico, il riassestamento energetico a temperature non
nulle è comunque limitato a piccoli effetti se non si chiamano
in causa temperature tipicamente molto elevate. Nel disegno
è schematizzata la situazione per elettroni (gi=2), e si osserva
come i livelli (coppie di elettroni) possono essere eccitati vicino all’energia di Fermi. Vedremo in
seguito come applicare questo risultato ad una situazione di interesse fisico concreto.
Consideriamo ora il problema della popolazione di livelli energetici per particelle identiche,
indistinguibili ma non soggette al principio di esclusione di Pauli. Il calcolo della molteplicità dei
macrostati è ancora una volta riconducibile alle tecniche già utilizzate nei casi classici e della
statistica di Fermi-Dirac. In particolare, la degenerazione dei livelli, o probabilità intrinseca, non è
più tale da limitare superiormente la popolazione dei livelli stessi (l’esclusione non si applica). Vi
sono, per ogni stato con energia Ei, ni particelle da collocare distribuendole (sono indistinguibili) sui
gi stati degeneri. Ad esempio, con n=1 e g=3, la particella può occupare uno qualunque dei tre stati
degeneri. Con n=2, le particelle a, b possono essere collocate secondo lo schema di occupazione
[ab| | ], [ |ab| ], [ | |ab], [a| |b], [a|b| ], [ |a|b]. Non includiamo ovviamente le permutazioni fra a
e b perché le particelle sono identiche. In generale, si hanno (ni+gi−1)! modi associati alle
permutazioni di ni particelle in gi−1 configurazioni, che vanno ridotti di ni! modi perché le particelle
sono identiche e di (gi−1)! modi per tenere conto della degenerazione del livello. Restano dunque
(ni+gi−1)!/[ni!(gi−1)!] modi di disporre le particelle nello stato i-esimo. La molteplicità totale,
ancora una volta, è dato dal prodotto delle molteplicità dei singoli livelli, per cui
Statistica Quantistica - 2
k
( g i + ni − 1)!
W =∏ .
i =1 ni !( g i − 1)!
Applicando le tecniche di massimizzazione vincolate già discusse prima si giunge alla forma della
distribuzione della popolazione di livelli bosonici, detta distribuzione di Bose-Einstein data da
g
ni = i
A+ bEi
,
e −1
dove ancora il parametro b è collegato alla temperatura assoluta del sistema ed A è legato alla
conservazione del numero totale delle particelle. E’ consuetudine assegnare la distribuzione di
Bose-Einstein nella forma
g
ni = i
.
Ae Ei / k B T
−1
Consideriamo ora, come specifica applicazione della distribuzione statistica per particelle
bosoniche, lo studio di un “gas di fotoni”, ossia un volume di spazio nel quale onde
elettromagnetiche sono in equilibrio termico con le pareti del contenitore: si tratta di una
rappresentazione classica del sistema fisico che ha condotto alla “catastrofe ultravioletta” per
l’andamento della densità di radiazione emessa da un corpo nero e risolto dalle ipotesi di
quantizzazione di Planck ed Einstein. In questo esempio, consideriamo la radiazione quantizzata,
ossia descritta come un numero variabile di fotoni (variabile in quanto essi vengono continuamente
creati/distrutti per interazione con gli atomi del contenitore). Siccome i fotoni sono con spin intero,
applichiamo la statistica di Bose-Einstein. Il parametro A non è rilevante in questo caso, in quanto
esso è legato alla densità del sistema che, viste le creazioni/distruzioni, di fotoni, non è costante. Più
importante è la determinazione del termine di densità di stati, g(E). I fotoni, trattati come particelle
quantistiche, rappresentano le onde elettromagnetiche che, per soddisfare le condizioni al contorno
con le pareti conduttrici del contenitore, devono venire associate con onde di materia che si
annullano ai bordi. Ciò conduce, come già stabilito in precedenza, a delle regole di quantizzazione
periodiche per il numero d’onda – e dunque la quantità di moto – dei fotoni. Dalle condizioni di
quantizzazione ka=πna/L, a=x, y, z, essendo pa=ħka, a=x, y, z, si ottiene che
h
p= p x2 + p y2 + p z2 = ! k x2 + k y2 + k z2 = n x2 + n y2 + n z2 ,
2L
Statistica Quantistica - 3
ed, essendo per i fotoni E=pc, si ha che
hc
E= n x2 + n y2 + n z2 .
2L
Ci interessa ora ottenere la densità degli stati, g(E). A tale scopo, consideriamo uno spazio
tridimensionale con coordinate cartesiane nx, ny, nz>0, raggio n x2 + n y2 + n z2 , elemento di volume
(sferico) 4πn2dn. Ci si deve limitare ad un ottante di sfera, si considerano 2 modi di polarizzazione
distinti, per cui la densità si scrive g(n)dn=2×(1/8)×4πn2dn. Dalla E=hcn/(2L), ossia dE=(hc/2L)dn,
si ha che g(E)dE=8πL3E2dE/(h3c3). La distribuzione (di Bose-Einstein, appunto) deve essere scritta
nella forma g(E)fBE(E), ossia
8πL3 E2
W (E) = .
h 3 c 3 e E / k BT − 1
1
E / mole = 3 N A !ω !ω / k B T
;
e −1
8πL3
g (E) = 2m 3 E ,
h 3
8πL3 1
W (E) = 2m 3 E ( E − ε F ) / k BT
.
h3 e +1
Questa distribuzione, riportata nel disegno, spiega perché gli elettroni di conduzione non giocano un
ruolo importante nella definizione del calore specifico di un solido, per cui solo i moti del reticolo
atomico sono rilevanti: aggiungendo energia (termica) ad un metallo, apportiamo un contributo
dell’ordine di kBT, per il quale solo gli elettroni vicini all’energia di Fermi vengono eccitati, ed in
piccola proporzione, a livelli ad energia più grande. Gli altri elettroni (la maggior parte) non
contribuiscono all’eccitazione del sistema. Possiamo stimare il valore di εF imponendo il numero
totale di elettroni nel solido:
Statistica Quantistica - 5
∞
N = ∫ W ( E )dE .
0
Per temperature non troppo elevate utilizziamo la forma a gradino della distribuzione di Fermi-
Dirac, per cui l’integrale si riduce alla
8πL3 εF
N= 2m 3 ∫ E dE ,
h3 0
dalla quale
2
h 2 3N 3
εF = .
2m 8πL3
6. Esercizi
(a) Si consideri una miscela di due gas con masse molecolari m1 ed m2. La mistura è all’equilibrio
termico con temperatura T. In quale modo le distribuzioni di velocità e di energia dei due gas
differiscono?
(b) Si stimi l’energia cinetica media degli elettroni “liberi” in un metallo quand’essi soddisfino una
statistica di Maxwell-Boltzmann. Di quanto e perché tale stima differisce da quella ottenuta
nella distribuzione di Fermi-Dirac?
Statistica Quantistica - 6
Lezione 1 – Introduzione alla fisica dello stato solido
In questo capitolo si affrontano gli aspetti essenziali delle teorie e delle osservazioni sperimentali
rivolti allo studio della materia allo stato solido. In questo campo di ricerca, estremamente vasto ed
articolato, vengono messi alla prova i modelli e le predizioni della meccanica quantistica al cospetto
di insiemi grandissimi di particelle (atomi, ioni, molecole) legate fra loro per costituire i materiali
che quotidianamente osserviamo ed utilizziamo in innumerevoli occasioni. Benché tali materiali
siano pressoché illimitati nelle loro differenze di aspetto, sostanza, proprietà, caratteristiche
chimiche, fisiche, meccaniche, e così via, l’approccio tecnico della scienza fisica consente una
classificazione relativamente semplice e schematica di sostanze solide in termini di poche e bene
definite proprietà generali. C’è una prima, piuttosto ovvia distinzione fra sostanze allo stato gassoso
(nelle quali le interazioni fra i costituenti “elementari” sono trascurabili o comunque piccole), allo
stato liquido (per le quali la teoria, benché consolidata sul fronte della simulazione numerica, sia
ancora insoddisfacente da punti di vista più fondamentali), e sostanze solide. Queste ultime possono
essere differenziate in due grandi famiglie. Da un lato, vi sono i solidi cristallini, per i quali è
possibile considerare una struttura regolare, ordinata, basata su un “reticolo” di particelle (atomi,
ioni, molecole) che, oltre ad obbedire alle leggi della meccanica quantistica nelle loro interazioni,
presentano una caratteristica di sistematica previdibilità nella collocazione spaziale. Un po’ come
pensare ad una costruzione di mattoni disposti secondo una sequenza ordinata ed egualmente
ripetuta in tutto lo spazio a disposizione. Dall’altro lato, esistono sostanze amorfe, nelle quali i
“mattoni” non sono più collocati in modo ordinato ma “ammucchiati” senza regole di ordine
spaziale di alcun genere. Benché molti sistemi solidi di interesse fondamentale ed applicativo
ricadano in questa categoria (basti pensare ai vetri), la loro descrizione è molto complessa e non
verrà affrontata in questo corso. Ci interessiamo dunque solo di solidi cristallini, per i quali, come
già detto, è possibile parlare di un reticolo, ossia di un ordinamento spaziale che si può pensare
esteso indefinitamente, in corrispondenza del quale si collocano i “mattoni” che costruiscono il
solido in esame. Tali mattoni (come già detto, atomi, ioni o molecole) non vanno pensati come
entità statiche, immobili, puntiformi, bensì come unità strutturate nonché in moto più o meno
pronunciato a seconda delle situazioni, interagenti con altre unità vicine o prossime. Ciononostante,
l’idea di avere tali entità di materia disposte secondo una struttura “in media” ordinata, consente
semplificazioni e previsioni molto efficaci del comportamento fisico-chimico della sostanza
considerata. Vedremo come le proprietà “esterne” (colore, risposta meccanica) e quelle “interne”
(elettriche, magnetiche, termiche) delle sostanze a struttura ordinata siano ottenibili nel linguaggio
della meccanica quantistica in termini relativamente semplici. Un altro aspetto importante dello
studio di strutture solide cristalline è che per esse esistono tecniche di indagine sperimentale
(essenzialmente studi di diffrazione di raggi X e di neutroni) che, sfruttando interamente proprio la
regolarità del reticolo di queste sostanze, consentono di ottenere informazioni dettagliate ed
attendibili sulle proprietà della materia considerata.
2. Solidi ionici
Nello studio delle molecole, si sono considerati legami di tipo ionico, che si instaurano in presenza
di atomi differenti i quali, a causa di uno sbilancio di carica indotto e rafforzato tra di essi, si
attirano reciprocamente. Una situazione del tutto simile esiste in quella classe di solidi cristallini i
cui componenti sono atomi con forti differenze di elettronegatività e sono disposti secondo strutture
spaziali che ottimizzano lo “impacchettamento” degli atomi stessi. Una delle strutture di base più
ricorrenti è quella cubica, con atomi (ioni) collocati ai vertici di un reticolo di cubi. A seconda del
tipo di atomi coinvolti, l’impacchettamento può condurre a due strutture distinte, quella a corpo
centrato (bcc, body-centered cubic) e quella a facce centrate (fcc, face-centered cubic). Come
e2 6 12 8 e2
UC = − − + − + ! = −α ,
4πε 0 R R 2 R 3 4πε 0 R
in cui la costante α, detta costante di Madelung, dipende dalla struttura del reticolo e per NaCl vale
1.748, mentre per CsCl (reticolo bcc) vale 1.763. Dobbiamo ovviamente aggiungere a quest’energia
anche la repulsione quantistica/elettrostatica sopra citata. Un modello
ragionevole e semplice suggerisce di adottare un termine
del tipo A/Rn, con A ed n da determinare a seconda del
solido considerato. L’energia totale di uno ione è dunque
data dalla somma di UC e del termine repulsivo. Ci si
aspetta dunque di ottenere una dimensione reticolare di
NaCl minima energia, semplicemente calcolando la derivata CsCl
dell’energia ionica rispetto la coordinata reticolare R. Il
risultato è solitamente assegnato esprimendo il parametro A dell’energia repulsiva in funzione delle
altre grandezze coinvolte. L’esponente n è infatti determinabile in modo indiretto a partire da
misure di proprietà meccaniche legate alla compressibilità del cristallo. Si ottiene in definitiva che
l’energia di legame dello ione minima è data da
e2 1
E B = − E ( Rmin ) = α 1 − .
4πε 0 R0 n
L’energia di coesione del solido (l’energia richiesta per separarlo in tutti i suoi costituenti ionici,
ovvero l’energia richiesta per costruire l’intero cristallo) è data dall’energia di legame di ciascuno
ione moltiplicata per il numero totale di ioni. EB rappresenta infatti l’energia di legame di un singolo
3. Solidi covalenti
In totale analogia con il caso delle singole molecole covalenti, è possibile osservare solidi cristallini
i cui costituenti sono impegnati in legami con completa condivisione degli elettroni nei livelli
disponibili, ossia senza bisogno di chiamare in causa interazioni di natura elettrostatica. In questo
limite, si parla di solidi o cristalli covalenti, caratterizzati (come nel caso delle molecole
corrispondenti) da legami fortemente direzionali (basti pensare
alle ibridizzazioni sp dei composti del
carbonio). A tale proposito, una
struttura reticolare molto conosciuta è
quella del carbonio nella forma di
diamante, nella quale il reticolo ripete
una singola cella tetraedrica nello
spazio, come raffigurato. I solidi
cella tetraedrica del covalenti presentano caratteristiche
carbonio
spesso molto differenti da quelle dei
solidi ionici, essendo ovviamente altrettanto differente la loro
reticolo del diamante
composizione. E’ peraltro più difficile definire un insieme di
proprietà comuni per i solidi covalenti, che presentano spesso
differenze notevoli di comportamento chimico fisico. Il diamante è trasparente e compatto per
l’elevata energia di legame, mentre germanio e silicio (sempre covalenti) sono opachi alla
radiazione visibili e riflettenti. Il diamante fonde a temperature molto elevate, germanio e silicio a
temperature relativamente più basse. Anche le proprietà elettriche sono estremamente differenti,
come avremo occasione di riprendere in seguito parlando di semiconduttori.
4. Solidi molecolari
Nei solidi ionici e covalenti non è possibile parlare di molecole, in quanto la loro identità è del tutto
dissolta nella struttura reticolare del sistema. Esistono però in natura sostanze solide nelle quali le
La maggior parte delle proprietà dei solidi può essere compresa, o quantomeno inquadrata con
proprietà, nell’ambito di una teoria che esplicitamente tenga conto del
modo in cui i livelli energetici a disposizione degli elettroni in un
solido si modificano in virtù del grandissimo numero di particelle
3s interagenti. Si consideri, ad esempio, l’interazione fra due atomi di
sodio, ciascuno portatore di un elettrone spaiato nel livello 3s. Come
precedentemente studiato, gli atomi eguali, a partire da distanza molto
grande, combinano i livelli inizialmente degeneri (con eguale energia)
in due livelli con funzioni d’onda che sono combinazioni diverse
degli stati atomici separati. Il risultato è che si ottengono due energie
3s associate a configurazioni leganti e non-leganti dei due atomi. Se il
numero degli atomi di sodio aumenta, la procedura qui delineata è
essenzialmente immutata, con l’unica ed importante differenza che
ora aumenta corrispondentemente il numero di livelli energetici resi
disponibili dall’aumentato numero di singoli stati atomici interagenti.
3s Se si considera un numero elevatissimo di atomi (come capita di fatto
in un solido), l’idea qui descritta conduce alla formazione di un “quasi
continuo” di livelli energetici, una cosiddetta banda di energia, che è
semplicemente un susseguirsi fittissimo di stati energetici a disposizione per gli elettroni di tipo 3s
assecondando la distribuzione di
Fermi-Dirac, con energia di Fermi
conduttore isolante semiconduttore
collocata nel gap energetico, si
comprende che questo solido non
La teoria delle bande di energia per gli elettroni in un solido può essere ottenuta a partire da
considerazioni relativamente semplici basate sul comportamento quantistico degli elettroni in
interazione con i centri reticolari. Si consideri, per semplicità, un “reticolo” unidimensionale, ossia
una catena di ioni immobili ed equispaziati alla distanza d. Un elettrone che viaggia con una data
energia lungo questa catena può comportarsi in due modi: è libero di propagare nel solido in quanto
la sua lunghezza d’onda è tale da escludere interazioni apprezzabili con gli ioni (detto in altro
modo, l’onda elettronica rimane essenzialmente piana e fuori fase rispetto la catena degli ioni),
oppure l’elettrone subisce collisioni con la catena di ioni. Ciò avviene in corrispondenza di
7. Esercizi
(a) Sapendo che l’energia di coesione del cristallo NaCl è pari a 769×103 J/mol,
determinare l’energia di legame di una coppia di ioni nel solido.
(b) Sapendo che il passo reticolare di NaCl è pari a 0.281 nm ed n=9 (l’esponente nel
potenziale ionico repulsivo), confrontare il risultato dell’esercizio precedente con il
valore ottenuto dall’espressione per l’energia di legame ionico riportata nel testo.
(c) Calcolare l’energia richiesta per atomo neutro richiesta per separare nelle sue
componenti un cristallo NaCl.
(d) Utilizzando le espressioni date nel testo, ed assumendo che la forza fra ioni sia di
natura elastica (imponendo piccoli spostamenti dalla coordinata di equilibrio),
verificare che un cristallo di NaCl è un buon assorbitore nell’infrarosso.
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Lezione 3 – Struttura del Nucleo Atomico
1. La materia nucleare
In questo capitolo si affrontano gli aspetti fondamentali relativi allo studio del nucleo degli atomi. Il
nucleo atomico può essere trattato come una massa carica e puntiforme quando si considerano
meccanismi fisici su scala atomica e molecolare. In realtà il nucleo è un’entità complessa,
strutturata che, seppure di dimensioni molto minori dell’atomo, necessita di una modellizzazione
dedicata e dettagliata. Vi sono aspetti di similitudine – almeno in prima istanza – con gli studi
spettroscopici descritti nei capitoli precedenti e relativi alla fisica dell’atomo, delle molecole e dei
cristalli. Il nucleo atomico viene infatti inquadrato in schemi descrittivi (sia teorici che sperimentali)
corrispondenti a meccanismi di eccitazione energetica e di collisione con altre particelle tenendo
rigorosamente conto degli aspetti specifici della meccanica quantistica. Ci si aspetta dunque di
potere recuperare almeno in parte il formalismo e le idee utilizzate in altre situazioni anche per il
nucleo atomico. Le similitudini però non vanno troppo lontane. Il nucleo atomico è un aggregato di
dimensioni dell’ordine di una frazione 10−15 del volume dell’atomo (raggio dell’ordine di 10−15 m,
detto fermi, fm), composto da un numero variabile di particelle (nucleoni) di massa molto simile e
carica positiva (protoni, di massa mp=1.007276u, si ricorda che 1 u= 1.6605402×10−27kg =
931.4943MeV/c2, ed energia a riposo 938.28 MeV) o senza carica (neutroni, di massa mn=1.008665
u ed energia a riposo 939.57 MeV). La presenza di altri tipi di particelle nel nucleo non è permessa
(in modo stabile) in base a considerazioni sul momento angolare del nucleo ed anche in
considerazione del fatto che un elettrone, ad esempio, per convivere con i protoni del nucleo
atomico dovrebbe possedere un’energia elevata a sufficienza da contraddire il principio di
indeterminazione di Heisenberg. I nucleoni sono fermioni (hanno spin ½). Contrariamente a quanto
succede nell’atomo, non si può parlare per il nucleo di un centro di massa “interessante”, in quanto i
costituenti nucleari sono tutti di massa essenzialmente eguale. Ci si aspetta quindi che una
descrizione più efficace del nucleo come assieme di particelle ricordi quella adottata nella fisica
dello stato solido che non quella della fisica atomica. Un’altra distinzione fondamentale riguarda il
fatto che nel nucleo la forza di Coulomb non può essere l’unica responsabile della coesione del
sistema, in quanto in esso esistono solamente cariche positive. L’interazione in gioco deve essere di
natura completamente diversa ed, in particolare, dovrà supplire un’energia sufficiente a vincere la
repulsione elettrica fra i protoni del nucleo, energia di gran lunga maggiore delle energie tipiche per
la fisica dell’atomo. Per verificare questo fatto, basta stimare l’intensità della repulsione elettrica di
una carica positiva in prossimità del nucleo atomico, ovvero calcolare l’energia elettrostatica per
due cariche e a distanza di 1 fm, che risulta pari a circa 20 MeV (sei ordini di grandezza in più
dell’energia di legame elettronico in un atomo).
Esiste una nomenclatura specifica da adottare nel conteggio dei costituenti di un nucleo atomico. Il
numero di neutroni è indicato con N, quello di protoni con Z (detto numero atomico, pari al numero
di elettroni nel corrispondente atomo neutro), quello di nucleoni (protoni e neutroni) con A=N+Z,
detto numero di massa (da non confondersi con la massa vera e propria, come vedremo più avanti).
I nuclei con lo stesso valore di Z sono detti isotopi e sono caratterizzati dal fatto che essi
appartengono ad atomi con eguali caratteristiche chimiche (eguale numero di elettroni). I nuclei con
eguali valori di numero di massa A sono invece detti isobari (hanno la stessa massa, ma possono
riferirsi a specie chimiche differenti). Un nucleo viene di solito denotato con il simbolo ZA X N , in cui
X è il nome dell’elemento chimico corrispondente. Ovviamente la notazione è ridondante, e si
preferisce ottenere il valore di Z a partire dal simbolo X e specificare solamente il numero di massa
A. Dunque il nucleo 42 He 2 (Z=2 protoni, A=4 nucleoni, N=2 neutroni) è più semplicemente indicato
con 2He, mentre i nuclei isotopici dell’atomo di idrogeno (Z=1 e N=0,1,2 rispettivamente, detti
idrogeno, deuterio e trizio) sono denotati con 1H, 2H, 3H.
R=R0 A1/3,
Ricordiamo che nella “costruzione” di un atomo, l’energia viene messa a bilancio tenendo conto sia
del contributo dei singoli costituenti (le loro energie a riposo) che del contributo dell’energia di
legame fra i costituenti stessi. Nell’atomo di idrogeno, ad esempio, l’energia a riposo dell’atomo
quand’esso si trova al minimo livello elettronico è data da Ee+Ep−13.6 eV=mHc2, con Ee=mec2 e
Ep=mpc2. Si scrive anche, con notazione più efficace, che Ee+Ep− EH= EB, volendo con ciò indicare
il ruolo dell’energia di legame, EB=13.6 eV, nel bilancio complessivo. Il caso di un nucleo atomico
è trattato in modo simile. Si consideri il nucleo composto più semplice (dopo il singolo protone,
nucleo dell’idrogeno), 2H, costituito da un protone e da un neutrone (deuterone, d, nucleo
dell’atomo di deuterio). Per questo nucleo il bilancio energetico è dato da
Notiamo che l’energia del sistema è necessariamente maggiore della somma dell’energia delle sue
parti proprio per l’ammontare pari all’energia di legame, se vogliamo ottenere un sistema
energeticamente stabile. Per il calcolo di quest’espressione, è molto importante ricordare che i
valori delle masse sono le masse nucleari. Nelle tabelle sono riportate invece le masse atomiche,
che dalle prime differiscono per due contributi: l’energia a riposo degli elettroni e l’interazione
elettroni-nucleo. Per un atomo con Z elettroni possiamo scrivere
In quest’espressione, l’energia a riposo nel nucleo è dell’ordine delle centinaia di MeV, quella degli
elettroni dell’ordine decine di MeV (l’energia a riposo dell’elettrone è 511 keV), quella di legame
atomico dell’ordine al più delle decine di keV. Possiamo dunque trascurare quest’ultimo termine nel
bilancio e scrivere che mnucleo≈ matomo−Zme. Nel caso del deuterone (nucleo d dell’atomo di deuterio
D) si ha che EB/c2=mn+(mH−me)−(mD−me)=mn+mH−mD. Il contributo me si semplifica e possiamo
utilizzare direttamente le masse atomiche per il calcolo dell’energia di legame. Questo risultato è
generalizzabile ad un qualunque nucleo, per il quale l’energia di legame si scrive come
Questo esempio ci illustra una proprietà interessante: benché l’energia totale di legame dell’uranio
sia quasi quadrupla rispetto quella del ferro, l’energia di legame per nucleone è leggermente
maggiore nel ferro che nell’uranio, ovvero in quest’ultimo i nucleoni sono leggermente meno
“saldamente” legati fra di loro all’interno del nucleo. Possiamo anche dire che, a partire da un
numero appropriato di nucleoni, è energeticamente più conveniente utilizzarli nella “costruzione” di
un nucleo di ferro che di un nucleo di uranio. Il
calcolo sopra esposto può essere esteso a tutta la
“tabella” dei nuclei (sono in totale circa 1500, di cui EB/A, MeV/nucleone
circa 400 naturali e 1100 artificiali, la maggior parte
dei quali non è stabile, come discuteremo più in 35
Cl
62
Ni 110
Cd
dettaglio nel seguito). L’andamento dell’energia di
legame per nucleone in funzione del numero di massa 238
U
12
è molto regolare e schematizzata nella figura. Si C
scopre che i nuclei, da questo punto di vista, sono
6
raggruppabili in due sole famiglie. Da un lato, per 5 MeV Li
A<62, l’energia di legame per nucleone aumenta con
A, e piuttosto rapidamente all’inizio, mentre per A>62
questa energia diminuisce lentamente ma
costantemente con A. Il massimo è ottenuto in
corrispondenza del nucleo 62Ni, con un’energia per 2
H
nucleone pari a 8.795 MeV. I motivi di questo
andamento sono vari. Anzitutto ci si aspetta che, se
assumiamo che l’interazione fra i nucleoni sia
A
efficace su coppie di essi (come discuteremo fra
poco), vi sia un numero costante di nucleoni
interessati all’interazione stessa, a prescindere da A. Questo spiegherebbe un valore costante
dell’energia di legame per nucleone. Un nucleo piccolo ha relativamente molti nucleoni di
superficie rispetto un nucleo massivo. Questo spiega la diminuzione dell’energia di legame per
3. Interazione nucleare
Non tutti i nuclei sono stabili: alcuni (in realtà, una gran parte di essi) tendono spontaneamente a
trasformarsi in altre specie nucleari secondo tre modalità di processi che vanno sotto il nome di
decadimenti radioattivi di tipo alfa, beta e gamma. I decadimenti alfa e beta conducono a
trasformazioni del nucleo originario in altre specie, ossia con variazioni dei numeri di massa e
atomico, A e Z. Nel decadimento gamma (emissione di fotoni energetici) si assiste alla transizione
del nucleo fra differenti stati interni di energia, senza variazione dei numeri nucleari. La maggior
parte dei nuclei è tale che per una data specie con A assegnato esistono almeno due nuclei (nuclidi)
con diverse caratteristiche di stabilità (una sola specie è stabile, l’altra o le altre non lo sono). I
nuclei leggeri sono per lo più stabili.
Con l’aumentare del numero di massa
aumenta anche la repulsione
coulombiana (cresce come Z2) e dunque
il numero di neutroni richiesto per
aumentare corrispondentemente
l’attrazione nucleare deve crescere. Per
questo motivo i nuclei pesanti sono
caratterizzati dalla condizione N>Z.
Questo fatto è visualizzato in modo
molto chiaro dal grafico riportato, nel
quale si osserva la relativa abbondanza
di nuclidi instabili (area grigia) rispetto
quelli stabili (quadratini neri) come pure
la tendenza dei nuclidi ad avere abbondanza di neutroni rispetto ai neutroni al crescere del numero
di massa.
Prima di entrare nel dettaglio degli specifici modi di decadimento o trasformazione nucleare,
prendiamo in considerazione gli aspetti basilari per la misura dell’attività di un nucleo instabile,
ossia la misura del numero di trasformazioni di un certo tipo che accadono nell’unità di tempo.
L’unità di misura è la trasformazione per secondo, detta Becquerel (Bq). Questa unità ha sostituito
con il Sistema Internazionale di misura il Curie (Ci), originariamente definito come l’attività di un
grammo di radio, e di seguito fissato al valore di riferimento pari a 3.7×1010 trasformazioni al
secondo (dunque 1 Ci= 3.7×1010 Bq). Sono ovviamente particolarmente utilizzati i sottomultipli del
curie (mCi, µCi, nCi, pCi). Se si considera una mole di sostanza nucleare instabile (radioattiva),
un’attività di 1 Ci implica che ogni atomo (nucleo) ha la probabilità di decadere pari a
3.7×1010/6.2×1023≈5×10−14 ogni secondo. Tale quantità, la probabilità di decadimento per nucleo
per secondo, è detta costante di decadimento (λ). Si assume che questa grandezza sia piccola ed
indipendente dalla vita del campione radioattivo (si noti che stiamo gettando le basi per la
costruzione di una distribuzione statistica di tipo poissoniano). L’attività A dipende dal numero N di
nuclei e dalla costante di decadimento λ secondo la A=Nλ. Allo stesso tempo, possiamo dire che
l’attività del campione deve variare con il tempo in quanto, se λ è costante e N diminuisce, anche
l’attività decresce. Per una variazione elevata del numero di nuclei nell’unità di tempo ci si aspetta
Struttura del nucleo atomico - 5
una grande attività, e viceversa. Dunque possiamo anche scrivere che A=−dN/dt, con un segno
negativo in quanto il numero di nuclei originari diminuisce e vogliamo che l’attività sia un numero
positivo. In definitiva arriviamo all’equazione differenziale per N
dN/dt=−Nλ,
la cui soluzione (per λ costante) è del tipo esponenziale, N=N0e−λt. Il parametro N0 rappresenta il
numero iniziale di nuclei. Questa è la legge del decadimento radioattivo esponenziale, che è di
solito riscritta in funzione dell’attività (una grandezza facilmente misurabile con metodi di
conteggio, mentre N non lo è, almeno direttamente):
A=A0e−λt,
in cui A0 è l’attività originale del campione. Si definisce la semivita del campione, t1/2, come il
tempo richiesto perché l’attività si dimezzi. Dalla relazione precedente si ricava subito che
t1/2=ln2/λ=0.693/λ. La vita media τ è definita invece
secondo la τ=1/λ. Per t=τ risulta A=A0/e=0.37A0.
A(t)
Per comprendere meglio queste grandezze consideriamo un
198
esempio numerico. Il nucleo di oro, Au, ha una semivita
di 2.7 giorni. Dunque la sua costante di decadimento
(probabilità di trasformazione per nucleo per secondo) è
data da λ=0.693/t1/2=3×10−6 sec−1 [la probabilità di avere A0/2
una trasformazione al secondo si ha a partire da t
1/(3×10−6)=3.3×105 nuclei]. Possiamo poi calcolare
t1/2
l’attività di una data quantità di oro, diciamo 1 µg, a partire
dal fatto che in 1 µg di oro vi sono N=mNA/M=10−6g×(6.02×1023 atomi/mole)/(198 g/mole)
=3.04×1015 atomi. Essendo A=λN, ricaviamo subito che A =9.03×109 decadimenti/sec, ossia A
=9.03×109 Bq ≈ 0.24 Ci. La rapidità di variazione dell’attività è regolata dalla legge esponenziale
sopra descritta. Supponendo di attendere una settimana, l’attività si riduce dal valore iniziale al
valore A= A0e−λt, con t=7 giorni, dunque A=1.5×109 decadimenti/sec ≈ 0.04 Ci.
Lo studio sistematico dei processi di decadimento radioattivo evidenziano il fatto che essi
sottostanno ad un insieme di leggi di conservazione che ne stabiliscono e ne regolano le modalità
precise di svolgimento. Tali leggi sono le seguenti.
(a) Conservazione dell’energia: ci indica quali trasformazioni sono permesse e ci permette di
calcolare le energie dei prodotti del decadimento. La trasformazione generica del nucleo X nel
nucleo più leggero Y con emissione di un certo insieme di particelle complessivamente denotate
come y, può avvenire solamente se l’energia a riposo di X è maggiore della somma delle energie a
riposo di Y e y. L’energia rimanente è detta parametro Q per il processo (la variazione relativistica
dell’energia cinetica nel processo) e soddisfa all’equazione Q=EX−EY−Ey=(mX−mY−my)c2.
(b) Conservazione della quantità di moto: prendendo il nucleo inizialmente a riposo in un
opportuno riferimento, la somma delle quantità di moto dei prodotti di decadimento deve essere
vettorialmente nulla, pY+py=0. Se, come spesso accade, le particelle emesse y sono molto meno
pesanti del nucleo residuo Y, quest’ultimo possiede un’energia cinetica di rinculo molto piccola.
E’ anche frequente il caso di decadimenti con più di un prodotto di reazione radioattiva. In questo
caso le equazioni di conservazione non sono sufficienti a determinare in maniera univoca una
soluzione unica per il problema dinamico e, conseguentemente, le velocità delle particelle
prodotto possono assumere valori variabili con continuità entro un dato intervallo permesso.
(c) Conservazione del momento angolare: lo spin iniziale (momento angolare intrinseco) del
nucleo prima del decadimento e la somma degli spin dell’atomo trasformato, delle particelle
emesse e dei rispettivi momenti angolari devono eguagliarsi. Questo fatto consente di escludere
Studiamo le caratteristiche essenziali dei tre tipi di trasformazioni radioattive che coinvolgono un
nucleo atomico.
Nel decadimento alfa, un nucleo instabile si trasforma in un nucleo più leggero ed un nucleo di elio,
4
He, detto appunto particella alfa, secondo la reazione
A
Z X N → ZA−− 42 X' N − 2 + 42 He 2 ,
il cui bilancio energetico è regolato dalla Q=(mX−mX’−mHe)c2. Questa energia in eccesso si ritrova
come energia cinetica dei frammenti, Q=KX’+Kα. Partendo da un riferimento in cui X è a riposo vale
anche la pX’=pα per la conservazione del momento. E’ un semplice esercizio di meccanica classica
(approssimazione valida per energie dei prodotti del
Isotopo Kα (MeV) semivita decadimento non troppo elevate rispetto le corrispondenti
232 10
Th 4.01 1.4×10 a energie a riposo, ovviamente) ricavare che la particella alfa
238
U 4.19 4.5×109 a ha un’energia cinetica data da Kα=Q(1−4/A). Nella tabella
230 4
Th 4.69 8.0×10 a sono riportate i valori delle energie e delle semivite per
241
Am 5.64 433 a decadimenti alfa di varie specie nucleari. Quello che appare
230 piuttosto sorprendente è che, mentre le energie della
U 5.89 20.8 g
210 particella alfa variano di circa un fattore 2, le semivite
Rn 6.16 2.4 h
220 cambiano di 24 ordini di grandezza! Un modello appropriato
Rn 6.29 56 s
222
Ac 7.01 5s deve essere in grado di accordarsi una simile sensibilità del
215
Po 7.53 1.8 ms parametro temporale dal
218
Th 9.85 0.11 µs termine energetico. La
spiegazione è puramente
quanto-meccanica e si
basa sul fatto che la “costruzione” e la successiva emissione di
una particella alfa da un nucleo instabile può essere vista –
ovviamente in termini puramente probabilistici – considerando
l’eventualità che i 4 nucleoni che si legano a formare la particella
alfa riescano a “fuggire” dalla barriera energetica ad essi imposta dalle forze nucleari. Essendo
carica, la particella alfa deve risentire di un potenziale repulsivo immediatamente all’esterno del
nucleo, il che spiega l’esistenza di una forma complessiva di interazione del tipo “buca-barriera” di
spessore finito e dunque di probabilità di “tunneling” corrispondentemente finita. Utilizzando gli
appropriati valori per le dimensioni della buca, è possibile ottenere un accordo molto ragionevole
con i valori sperimentali riportati nella tabella.
Nel decadimento beta si osserva la trasformazione di un neutrone del nucleo in un protone ed un
elettrone, più una terza particella, come diremo fra poco. Si può anche avere la trasformazione di un
protone in un neutrone ed in un elettrone positivo (un positrone) con ancora una terza particella.
L’elettrone emesso non è un elettrone atomico, ma è generato all’interno del nucleo. Il fatto di
dovere chiamare in causa un terza particella è legato a due osservazioni che richiesero non pochi
sforzi ai fisici per interpretare correttamente questi tipi di processi. Da un lato il decadimento del
neutrone (spin ½) in un protone ed un elettrone (entrambe spin ½) contraddice la conservazione del
Struttura del nucleo atomico - 7
momento angolare. Allo stesso tempo, si osserva che lo spettro energetico dell’elettrone emesso dal
nucleo è distribuito su un intervallo continuo di valori, il che è ancora in disaccordo con un modello
che preveda il decadimento a due corpi. I contributi di W. Pauli ed E. Fermi furono decisivi in
questo contesto. L’interpretazione corretta (che peraltro richiede l’introduzione di un nuovo tipo di
forza, intimamente legata all’interazione elettromagnetica e detta forza “debole”) prevede che il
neutrone, oltre che in un protone ed un elettrone, decada anche in un antineutrino, una particella di
massa essenzialmente nulla, carica nulla e spin ½, secondo la notazione n→p+e+ν. Il protone
decade in un neutrone, un positrone ed un neutrino. Una trattazione approfondita di questo modello
conduce ad un ottimo accordo con le osservazioni sperimentali. Esiste anche una trasformazione
beta inversa, detta cattura elettronica, per la quale un protone interagisce nel nucleo con un
elettrone (proveniente eventualmente dai livelli più interni dell’atomo) per decadere in un neutrone
ed un neutrino.
Nei decadimenti gamma, infine, si osservano fotoni di energie nell’intervallo 100 keV – 10 MeV
associati alle transizioni nucleari che connettono livelli eccitati, in totale analogia con lo schema
spettroscopico di un atomo o di una molecola. In queste trasformazioni non si hanno ovviamente
variazioni dei numeri nucleari o di massa, ma è possibile che raggi gamma vengano emessi in
corrispondenza di decadimenti alfa o beta che coinvolgono stati nucleari energeticamente instabili
(eccitati) con vite medie piuttosto brevi (dell’ordine del nsec-psec). La spettroscopia nucleare
gamma è molto importante in svariate applicazioni, in quanto le tecniche di misura sono
estremamente precise e consentono uno studio altrettanto dettagliato della struttura nucleare.
6. Esercizi
(a) Calcolare i raggi nucleari approssimati del carbonio (A=12), germanio (A=70) e
bismuto (A=209).
(b) Calcolare l’energia di legame per nucleone di cloro, astato, azoto ed oro. Quali di
questi elementi libera energia in processi di fusione e quali in processi di fissione
nucleare?
(c) La semivita di 235U è pari a 704 milioni di anni. Un campione di roccia che si è
solidificata 4.5 miliardi di anni fa contiene N atomi di 235U. Quanti atomi conteneva
questa roccia al momento della sua formazione?
(d) Si esegua il bilancio energetico (calcolo di Q e dell’energia di α) nel decadimento α
del nucleo di 226Ra. I dati necessari sono m(226Ra)=226.025403u,
m(222Rn)=222.017571u, m(4He)=4.002603u.
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Lezione 5 – Costituenti elementari della materia!
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Lezione 6 – Numeri quantici, quark, modello standard
p+pp+p+p+ p,
p+pp+p+ n
p + p p + n + +,
p + p p + p + 0,
p + p p + n + 0 + +,
p + p p + p + + + ,
Il grande fisico R.P. Feynman una volta disse che lo studio delle particelle subatomiche con
esperimenti di collisione era paragonabile all’azione di scagliare due orologi svizzeri uno contro
l’altro e di cercare di comprenderne il funzionamento studiando i frammenti rimasti dopo l’urto. In
un certo senso la situazione è esattamente questa: atomi e molecole possono essere facilmente scissi
per determinarne la struttura ed il comportamento. I nuclei e, peggio ancora, i costituenti
sub-nucleari sono fortemente legati e necessitano di interventi violenti (in termini energetici) per
accedere alle informazioni richieste. Lo schema sperimentale tipico è comunque quello di
approntare un fascio ad energia opportuna di proiettili che collidono sul bersaglio designato: per
ottenere urti fra particelle stabili che interagiscono fortemente, con densità elevate, si può pensare
fin dall’inizio a fasci di protoni su idrogeno liquido (protoni densi). Questa scelta rende possibile
l’utilizzo di campi elettromagnetici per l’accelerazione del proiettile (carico, infatti) ed inoltre sia il
proiettile che il bersaglio sono stabili nel tempo e rendono di fatto possibile l’esperimento e la
misura di determinate proprietà fisiche. Nel caso siano richiesti altri tipi di proiettili al posto del
protone, si può pensare ad un esperimento a due passi, nel primo dei quali si producono i proiettili
desiderati in seguito ad una collisione iniziale di protoni su un bersaglio fisso. I proiettili così
prodotti possono venire selezionati e lanciati sul bersaglio finale da appositi sistemi di
focalizzazione e trasporto. Il fatto che i proiettili secondari possano avere vite estremamente brevi
(frazioni di milionesimi di secondo) potrebbe rendere effettivamente irrealizzabile questo tipo di
esperimento: il proiettile
decade prima di giungere
al bersaglio. In realtà è
possibile utilizzare
proiettili con vite
proprie brevi fino a
frazioni di miliardesimo
di secondo in quanto la
loro energia (velocità) è
in regime relativistico e
fa sì che la vita nel
riferimento in moto sia
dilatata di svariati ordini
di grandezza (come
accade nei muoni
prodotti nell’alta
atmosfera dai raggi
cosmici).
m1 + m2 m3 + m4 + m5 + … ,
un valore positivo di Q implica che la somma delle energie a riposo delle particelle interagenti (m1,
m2) viene convertita in energia cinetica dei prodotti. Possiamo così calcolare il Q della reazione
+pK0+0, Q=[m+mp(mK0+m0)]c2=536 MeV. Il valore negativo implica che è necessario
fornire energia (in forma cinetica) per ottenere sufficiente energia (a riposo) delle particelle
prodotto. Si parla in questo caso della richiesta di raggiungere un’energia cinetica di soglia per
attivare la reazione: tale energia dovrà superare (nettamente) il Q di reazione, altrimenti si
ottengono particelle prodotto in quiete, fatto impedito dalla conservazione della quantità di moto.
Nella reazione K+p0+0, invece, si ottiene che Q=+181 MeV. Ciò implica che la reazione mette
a disposizione delle masse prodotto energia sufficiente (anche per la conservazione del momento
lineare). Non è dunque necessario chiamare in causa un valore di soglia per l’energia cinetica di
reazione. E’ infine possibile dimostrare che il modo più efficiente di produrre particelle in seguito
ad esperimenti di collisione (nel senso di limitare lo “spreco” energetico dovuto alla richiesta di
conservare simultaneamente anche il momento lineare del sistema) è quello di adottare collisioni fra
particelle entrambe in moto, una contro l’altra, invece di collisioni di proiettili su bersagli immobili
nel laboratorio.
L’apparente disordine e disorganizzazione nello “zoo” delle particelle scoperte nell’arco di qualche
decennio può essere ricondotto a più semplici e prevedibili strutture chiamando in causa un modello
che, anche se con grandi difficoltà, si è assestato a standard nella
descrizione della struttura sub-nucleare. L’idea inizia con lo studio
sistematico della dipendenza della stranezza dalla carica elettrica di
mesoni e barioni di vario tipo. Le figure riportano tali andamenti
per mesoni leggeri (a spin nullo) e per barioni a spin ½ e 3/2. Nel
1964 Gell-Mann e Zweig
(indipendentemente) riconoscono
negli andamenti sunnominati un
segno di organizzazione più
generale ed astratta associabile
all’esistenza di costituenti elementari su scala sub-mesonica e sub-
barionica. Più precisamente, viene ipotizzata l’esistenza di tre nuove
particelle, dette quark di tipo su (up, u), giù (down, d) e strano
(strange, s). Sono fermioni (spin ½), hanno numero barionico
Se si considera una qualunque porzione di materia nel nostro universo, troviamo che per descriverla
è necessario chiamare in causa solamente quattro particelle elementari distinte, più le rispettive
antiparticelle. Il nucleo atomico è composto da neutroni e protoni, che contengono solamente quark
u e d. L’atomo contiene elettroni, ed i decadimenti nucleari di tipo beta sono spiegati aggiungendo
massa numeri
tipo simbolo carica (e) spin (ħ) numero B (MeV) quantici
CSTB
al sistema neutrini di tipo elettronico. Dunque si utilizzano due quark e due leptoni, (u,d),(e,e). E’
solamente provocando artificialmente reazioni ad energia crescente che si manifestano nuovi tipi di
6. Esercizi
1. Principio di equivalenza
In questi ultimi capitoli ci si interessa di problemi su scala spaziale estremamente vasta. Nonostante
ciò, sarà possibile trovare importanti ed utili connessioni con le idee, le tecniche ed i modelli
sviluppati per la comprensione dell’universo fisico su scala submicroscopica, come fatto nei
precedenti capitoli. Il lavoro di Einstein dedicato alla relatività speciale e discusso all’inizio di
questo corso viene ripreso ed esteso al caso di sistemi di riferimento generali, ossia non solamente
inerziali ma anche accelerati. Vedremo come l’estensione del principio di relatività a questi casi
conduca ad una profonda revisione delle idee e delle teorie alla base della comprensione dei
concetti di spazio e tempo che ora, oltre ad essere indissolubilmente intrecciati nello schema
relativistico speciale, chiamano in causa l’azione della forza gravitazionale, la massa e l’energia in
un quadro ad amplissimo respiro. La teoria gravitazionale di Newton viene completamente
rivoluzionata: Einstein dedicò le sue fatiche a cercare di superare le difficoltà dovute alla finitezza
della velocità massima universale, quella della luce, e l’apparente istantaneità di trasmissione di
forza, ossia di informazione, prevista dalla teoria gravitazionale classica. La nuova teoria generale
della relatività, che prende ispirazione dal principio di equivalenza di seguito descritto, riesce infatti
nell’intento, a costo però di operare una revisione drastica dei concetti stessi di spazio e tempo. Non
solo questi sono entità mescolate in modo totale e profondo, ma risultano ora addirittura legati a
rappresentazioni geometriche distorte in funzione delle interazioni gravitazionali o, per meglio dire,
tempo e spazio con le loro distorsioni sono la gravità stessa.
Il principio di equivalenza è la
conseguenza di una serie di
ragionamenti e di esperimenti ideali
proposti da Einstein al fine di spiegare
meglio la natura di un campo
gravitazionale. In particolare, Einstein
si accorge che un’accelerazione è in g
grado di cancellare esattamente a
l’effetto della gravità, ovvero che è
possibile sostituire ad un campo di
gravità un’accelerazione opportuna. E’
famoso a tale scopo il cosiddetto
ascensore di Einstein: le due situazioni
raffigurate, nelle quali si ha la caduta
libera della cabina a causa della forza
gravitazionale ovvero la totale assenza di gravità nello spazio intergalattico, sono esattamente
equivalenti per un osservatore interno alla cabina stessa. Per tale osservatore è impossibile
distinguere le due situazioni, anche se esse sono riconducibili a realtà fisiche ben distinte. In modo
del tutto corrispondente, è possibile considerare degli esperimenti di vario genere (al fine di
“campionare” le risposte fisiche dell’ambiente) in due cabine, la prima immersa in un campo
omogeneo di gravità g, la seconda in assenza di gravità ma spinta verso “l’alto” da un motore che le
impartisce un’accelerazione costante a=g. I risultati degli esperimenti effettuati nelle due cabine
sono rigorosamente eguali: non è possibile ideare un esperimento capace di rivelare la diversa
natura delle due situazioni che caratterizzano le cabine. Questo conduce Einstein ad introdurre il
principio di equivalenza nella forma che non esistono esperimenti realizzati localmente che possano
distinguere gli effetti di un campo gravitazionale uniforme in un sistema di riferimento inerziale da
quelli di un sistema di riferimento uniformemente accelerato e dunque non inerziale. In una forma
molto più circoscritta (e debole) il principio di equivalenza è riportato in termini di equivalenza fra
massa inerziale e massa gravitazionale. Un punto di fondamentale rilevanza è che nella forma più
La teoria speciale o ristretta della relatività stabilisce l’equivalenza o non privilegio di tutti i sistemi
di riferimento inerziali per quanto riguarda la descrizione delle leggi fisiche. Nel 1916 Einstein,
basandosi sul fatto che il principio di equivalenza rimuove qualunque valenza peculiare dalla
gravità nella determinazione di un riferimento privilegiato, estende la possibilità di considerare
come equivalenti tutti i sistemi di riferimento, inclusi quelli accelerati. Einstein cerca di costruire
una teoria che permetta la descrizione della gravità andando oltre lo schema newtoniano, che era
intrappolato nel vizio insormontabile della simultaneità, in palese disaccordo con i postulati della
relatività ristretta. Einstein riesce a giungere ad una descrizione geometrica della gravità, per la
quale questa grandezza si manifesta in termini di distorsioni spazio-temporali, che si manifestano e
si propagano in piena osservanza dei postulati della relatività
speciale e che rispettano le richieste del principio di
equivalenza. A tale scopo, Einstein produce una serie di
esperimenti ideali che permettono anzitutto di sostituire
l’azione della gravità con campi accelerati opportuni (nella
logica del principio di equivalenza). Illustra poi come tali
riferimenti non inerziali di fatto siano consistenti con una
descrizione geometrica di distorsioni dello spazio entro il
quale i fenomeni avvengono (nonché distorsioni temporali,
grazie al legame indissolubile fra spazio e tempo). Una
Vi sono delle situazioni sperimentali molto famose che hanno permesso la verifica diretta delle
conseguenze e della validità della teoria della relatività generale. Si noti, comunque, che ci si
devono aspettare effetti piccoli (e dunque difficili da rivelare o da distinguere da altri effetti) in
quanto, ad esempio, il contributo relativistico alla curvatura spaziale in prossimità della terra è
dell’ordine di una parte su cento milioni. Ancora sul sole l’effetto è cento volte maggiore, dunque
pur limitato ad una parte su un milione.
Probabilmente la più famosa verifica della relatività generale fu fatta ancora nel 1919 in occasione
stella di una eclissi totale di sole: grazie ad essa è possibile osservare la
deviazione apparente di stelle molto vicine al bordo del disco solare.
Un conto “classico” dell’ammontare di tale deviazione (basato
sull’attrazione gravitazionale newtoniana fra sole e fotoni di massa
sole equivalente pari a m=E/c2) conduce ad un risultato che è =0.87”. Il
fatto è che l’osservazione sperimentale fornisce un valore vicino al
doppio (1.7”) per la deviazione del raggio luminoso. Nella teoria
terra einsteniana si ammette che la deviazione è causata dal percorso curvo
che il raggio deve fare in uno spazio curvo. In base a questa
descrizione, la formula per la deviazione fornisce un valore
esattamente doppio rispetto quello calcolato nella teoria newtoniana (anche se comprensiva della
relatività ristretta), per cui in eccellente accordo con l’osservazione sperimentale.
Una seconda evidenza sperimentale della relatività generale presa a prestito dall’astronomia o dalle
scienze spaziali è basata sul ritardo di segnali elettrici (radar, o satellitari) fra due pianeti (terra e
venere, ad esempio) che si trovano su lati opposti del sole. Il ritardo è causato dalla “valle” nella
geometria spazio-tempo causata dal sole e che allunga il percorso dei segnali fra i due pianeti. Tale
In questo e nei seguenti paragrafi affrontiamo, alla luce delle possibilità descrittive offerte dai
modelli microscopici della fisica moderna, il problema della descrizione di una possibile storia
dell’universo, del cosmo che ci circonda. Uno dei punti di arrivo della scienza fisica è proprio
quello di fornire una chiave di lettura dell’evoluzione cosmica. Anche se gli aspetti cronologici,
legati peraltro alla comprensione della struttura subnucleare, verranno descritti nel prossimo
capitolo, è ora possibile discutere in termini a buon punto quantitativi il perché la materia cosmica
(stelle e galassie di stelle, essenzialmente) sia composta in un certo modo e sembri manifestare una
storia evolutiva di un certo tipo. Resta di eccezionale importanza il fatto che gli strumenti per la
descrizione quantistica (se non relativistica, in determinati casi) di porzioni estremamente piccole di
materia siano direttamente esportabili ad un ambiente di lavoro completamente (almeno
apparentemente) differente e, questo è sicuro, non accessibile ad osservazioni sperimentali dirette,
nel senso tipicamente assegnato. Anche se la fusione è sembrata fin dall’inizio il tipo di processo
più facilmente e direttamente assegnabile al possibile schema evolutivo di una stella, molto presto
ci si accorge che i meccanismi operativi alla base dell’evoluzione cosmica sono molto più
complessi. Tanto per iniziare, le reazioni nucleari studiate qualche capitolo fa si riferiscono ad
energie vicine ai MeV: le temperature stellari non superano le decine di milioni di gradi Kelvin, il
che significa energie dell’ordine dei keV, che non ci sono troppo famigliari almeno relativamente ai
processi nucleari. Poi, la materia nucleare in una stella non è di certo distribuita con densità costante
ma varia anche di qualche ordine di grandezza passando dal nucleo (temperature di 10 7 K) alla
superficie esterna (temperature da 103 a 104 K). Iniziamo, nonostante queste difficoltà, a parlare di
una “stella tipo” che evolve a partire da una nube di idrogeno atomico, grande e fredda, che
potrebbe essere una rappresentazione sensata del nostro universo una volta che le fasi di
trasformazioni catastrofiche siano terminate. Gli atomi, elettricamente neutri, risentono solamente
dell’attrazione gravitazionale fra di essi e, conseguentemente, iniziano a collassare, ossia la nube
diviene più piccola e compatta, densa: piuttosto banalmente, si tratta di tracciare un bilancio
energetico fra energia potenziale gravitazionale della nube (che diminuisce – non in valore
assoluto – al diminuire della dimensione della nube stessa) e fra energia cinetica degli atomi.
Quando una stella giunge allo stadio di esaurimento del combustibile primario, l’idrogeno, la
pressione di radiazione spinge gli strati esterni della stella ad espandersi fino ad occupare un
volume molto grande (il sole, in queste condizioni, potrebbe “inghiottire” le orbite di mercurio e di
venere). L’energia per unità di area diminuisce fintantoché la stella assume una colorazione
rossastra (si parla di gigante rossa per questo tipo di stella). I processi di combustione nella stella
continuano fintantoché tutti gli elementi sono stati convertiti in ferro o stanno per essere convertiti
in questo elemento. Da questo punto in poi non vi sarà più emissione di radiazione e la stella
comincerà a subire, non ulteriormente contrastata, l’azione collassante della gravità. Come
conseguenza possibile, la stella aumenta densità fino a divenire una stella catalogata come “nana
bianca”, caratterizzata da temperature vicine a 104 K (in superficie) e densità medie di 109 kg/m3.
Da questo punto in poi, la stella può continuare ad emettere energia fino a raffreddarsi del tutto per
lasciare un residuo opaco, non emittente, di materia pesante condensata. E’ peraltro interessante
E=(ħ2/2me)(32Ne/V)2/3(3GM 2)/(5R)+3NAkT/2+Erad.
Si può verificare (su basi numeriche) che gli ultimi due termini (contributi termico e radiante) sono
trascurabili rispetto i primi due (cinetico e gravitazionale). L’energia così semplificata è utilizzabile
per ottenere una stima del raggio di equilibrio (annullando la derivata dell’energia). Si ottiene
Req=(9)2/3 ħ2/(8Gmemn2N1/3).
E’ proprio l’utilizzo di questa classi di espressioni che permette di sostenere la validità di tutte le
considerazioni ed i modelli adottati per la descrizione di questi stati di materia tanto straordinari. E’
importante realizzare che stiamo adottando gli schemi della meccanica quantistica microscopica per
la descrizione di situazioni su scale completamente nuove e diverse.
Il destino di una stella nana bianca può essere ulteriormente spinto verso situazioni estreme nel caso
in cui la massa originaria sia maggiore di un valore critico (detto massa di Chandrasekhar, pari a
circa 1.5 masse solari). In tal caso, si calcola (con l’espressione sopra scritta) un energia di Fermi
pari a circa 0.3 MeV. Attenzione: questo implica che a tale energia la funzione di distribuzione vale
0.5. Vi sono elettroni nella “coda” statistica con energia maggiore e che sono disponibili per la
reazione e+pn+e, per cui nella stella si instaura un progressivo impoverimento di elettroni, che
rendono meno efficace la repulsione quantistica di Pauli, per cui aumenta la densità di materia. Di
conseguenza aumenta anche l’energia di Fermi, e gli elettroni nella coda ad “alta” energia
aumentano, rendendo ancora più efficace il processo di addensamento e di spopolamento elettronico
a favore di quello neutronico. In pratica la situazione diverge e la stella si trasforma in un unico,
enorme nucleo di neutroni, che sono pure sottoposti alla repulsione quantistica (in quanto fermioni)
ma rendono giustizia a numeri molto differenti rispetto la nana bianca: il raggio di una stella di
neutroni di massa pari a quella di Chandrasekhar è di circa 10 km per una densità di circa
1017 kg/m3. E’ notevole il fatto che tali forme di materia straordinariamente condensata siano state
rilevate sperimentalmente, almeno in modo indiretto. Quello che accade è che il collasso
dimensionale del corpo celeste provoca (per banali motivi meccanici) un aumento notevole della
sua velocità rotazionale. Il campo magnetico associato a questo oggetto è in grado di intrappolare
particelle cariche accelerandole ad energie elevate, particolarmente in prossimità dei poli di
rotazione, in corrispondenza dei quali avviene emissione di energia in forma di radiazione X o
gamma con frequenze elevate e periodi molto stabili (dell’ordine del secondo). Oggetti di questo
genere, detti pulsar, sono stati osservati a partire dal 1967 e messi in relazione precisa con le
caratteristiche fisiche ipotizzate per le stelle di neutroni. Si pensa che i meccanismi alla base della
transizione fra stella “ordinaria” e stella di neutroni diano origine alle esplosioni sconvolgenti su
scala cosmica note con il nome di supernova.
La stella di neutroni non è l’ultimo stadio nella sequenza di possibili trasformazioni di una stella a
crescente densità. A partire da stelle di almeno 2 o 3 masse solari, la stella di neutroni è destinata a
collassare ulteriormente, vincendo anche la repulsione quantistica fra neutroni. La spiegazione di
6. Esercizi
(a) Calcolare l’energia massima di un neutrino nella reazione del ciclo protone/protone
p+p2H+e++e (a tale scopo si consideri che il neutrino ha energia massima quando
il positrone ha energia nulla).
(b) Si stimi il raggio di Schwarzschild e la densità di buco nero per oggetti di massa
varia, quali un nucleo atomico, un oggetto di uso quotidiano, la terra, la nostra
galassia.
(c) I neutroni in una stella neutronica hanno energia sufficiente per creare mesoni nella
reazione n+nn+n+?
In questo ultimo capitolo vengono affrontate le tematiche più salienti dello studio fisico del nostro
universo, dal punto di vista della sua possibile nascita, evoluzione e destino finale. Questo tipo di
studio è detto cosmologia: da tempi lunghissimi essa è una scienza centrale in molte culture. Il fatto
forse più saliente è comunque che la cosmologia, nell’arco di relativamente pochi anni (qualche
secolo) ha condotto l’uomo da una visione antropocentrica assoluta dell’universo ad un punto di
vista nel quale la terra è un grano di residuo roccioso prossima ad una fra centinaia di miliardi di
stelle collocata perifericamente in una fra centinaia di miliardi di galassie, tutte contenenti centinaia
di miliardi di stelle. Nessun punto di vista nell’universo è privilegiato: da qualunque parte si osservi
ed in qualunque direzione il panorama cosmico è immutato. Si tratta del cosiddetto principio
cosmico, che si riferisce a proprietà di omogeneità ed isotropia su scala globale.
Vi sono tre scoperte sperimentali fondamentali che permettono di trarre conclusioni di una certa
validità generale sulla natura e la dinamica del cosmo. Anzitutto, il nostro universo non è statico ma
in espansione. L’universo è poi completamente “riempito” o permeato di radiazione
elettromagnetica di caratteristiche note con elevata precisione. Infine, la maggior parte della massa
di cui il nostro universo è costituito è invisibile ai nostri sensi, per cui non se ne conosce con
certezza né l’ammontare né la natura.
Per quanto riguarda l’espansione dell’universo, si tratta di utilizzare la legge fisica a supporto del
fenomeno di spostamento Doppler nel caso di corpi celesti osservabili dalla terra. La radiazione
(visibile o comunque elettromagnetica) emessa dalle galassie ovvero dalle stelle, inizialmente
caratterizzata da spettro continuo, contiene delle righe oscurate dovute dai fenomeni di
assorbimento operati dai gas dei quali la stella è costituita. Conoscendo la lunghezza d’onda o
frequenza di queste righe di assorbimento (che sono eguali a quelle osservate sulla terra per gli
stessi elementi atomici) è possibile calcolare la velocità relativa delle stelle in base allo spostamento
delle righe spettrali. Il risultato di queste misure (condotte su un numero elevatissimo di corpi
celesti) è molto chiaro e semplice: anche se le galassie o le stelle a noi prossime manifestano moti
relativi indifferentemente di allontanamento o di avvicinamento (con velocità dell’ordine di 10
km/sec), le galassie a distanze medie o elevate, con sistematicità totale evidenziano moti di
allontanamento con velocità crescenti con la loro distanza. E’ possibile rilevare una soddisfacente
legge di proporzionalità diretta fra queste due grandezze, secondo l’espressione dovuta a E. Hubble,
v=Hd, nella quale la velocità di allontanamento relativo v (spostamento Doppler verso il rosso) e la
distanza d dell’oggetto dalla terra sono collegate dalla costante di Hubble H≈67 (km/s)/Mpc.
L’unità di misura cosmologica della distanza è il (mega)parsec, (M)pc. Un parsec indica un
“parallasse secondo”, ossia la distanza che sottende un arco di un secondo a partire dalla terra, ed è
dunque dato da 2R/(2α), R=raggio orbitale terrestre attorno al sole, α=1”, per cui si ottiene che
1 pc=3.26 anni luce=3.08×1016m. Come vedremo più avanti, la costante di Hubble è collegabile alla
vita dell’universo. E’ ora possibile collegare il fenomeno di allontanamento delle galassie con l’idea
che l’universo si espanda. A tale scopo, supponiamo che l’universo sia in espansione secondo un
modello “a reticolo di coordinate spaziali” in distorsione lineare semplicemente data da xi’=kxi,
nella quale si introduce il parametro di distorsione k: nel tempo t tutte le coordinate xi aumentano
del fattore k. Dunque la galassia che ad un dato istante dista dalla terra d, all’istante dato più t
secondi disterà dalla terra d’=kd. Questo implica che la sua velocità di recessione è data dal suo
allontanamento d’−d riferito al tempo t, v=(d’−d)/t=d(k−1)/t. Confrontando le velocità di recessione
di due galassie si ha subito che v1/v2=d1/d2, che è esattamente la legge di Hubble, ossia che la
velocità di recessione è proporzionale alla distanza dell’oggetto cosmico. E’ anche consuetudine
rappresentare il nostro universo in espansione come un panettone (lo spazio) nel quale le uvette (le
galassie) si allontanano reciprocamente mentre il panettone lievita o si espande.
Cosmologia - 1
Se è vero che l’universo si espande, vi sono comunque due possibili interpretazione della sua
evoluzione. Secondo la prima, la densità del cosmo è in continua diminuzione perché esso si
espande da un evento iniziale a densità infinita (teoria del big bang, “scuola” di G.Gamow). Nella
seconda ipotesi, la densità è costante perché l’universo viene continuamente, anche se tenuemente,
alimentato di materia creata ovunque. In questo caso l’universo è stazionario, come la sua densità, e
non c’è bisogno di chiamare in causa eventi di creazione iniziale (“scuola” di F.Hoyle). Nel
paragrafo seguente si presenta il fatto sperimentale che depone a favore della teoria “esplosiva”
nella genesi cosmica.
Nel 1965, i ricercatori Penzias e Wilson scoprono che da ogni parte si “ascolti” il nostro cielo è
percepibile un rumore (un “soffio”) di fondo nell’intervallo delle microonde elettromagnetiche
(lunghezze d’onda da qualche decimo di mm a qualche decina di cm). La distribuzione della densità
di energia elettromagnetica di questo “rumore”, ottenuta con elevatissima precisione negli ultimi
anni con sonde collocate in orbita (COBE, Cosmic Background Explorer), segue rigorosamente la
legge di corpo nero di Planck già descritta e discussa all’inizio di questo corso. La spiegazione di
questo fenomeno è, di fatto, piuttosto clamorosa: si tratta del “residuo”, del “fossile
elettromagnetico” dell’esplosione iniziale dalla quale è nato il cosmo, l’evento di big bang. Questa
affermazione è facilmente sostenibile ammettendo una dinamica di raffreddamento (adiabatico)
dell’universo dopo la sua nascita: da densità di radiazione/energia illimitata all’inizio si deve avere,
per espansione, un raffreddamento della mistura di particelle di materia e di fotoni. Le particelle
possono essere decadute se instabili, oppure accoppiate ad altre per formare stati differenti di
materia stabile. I fotoni sono rimasti, ma le loro lunghezze d’onda sono via via aumentate (le
energie diminuite) a causa della continua espansione. Ora questi fotoni, che ancora riempiono
l’universo, sono stati rivelati nell’esperimento di cui si parla e sono dunque evidenza chiara di
questo evento iniziale. Modelli statistici a vari livelli di sofisticazione permettono di stimare che i
fotoni del big bang debbano possedere una temperatura dell’ordine di qualche grado kelvin (energia
dell’ordine dei meV, lunghezza d’onda millimetrica). La legge di corpo nero di Planck può essere
facilmente elaborata per fornire, fra l’altro, le
seguenti grandezze o proprietà: si ottiene la R(λ)
legge dello spostamento di Wien (collocazione
del picco di massima densità di energia in T3
lunghezza d’onda, λmaxT=2.9×10−3 m⋅K; la
legge di Stefan per la densità d’energia
elettromagnetica radiante totale, U=4(σ/c)T4,
dove σ=5.67×10−8 W/(m2⋅K4). Se in seguito al T2
big bang la lunghezza d’onda della radiazione
aumenta, si deduce che la densità d’energia
diminuisce come la quarta potenza del rapporto T1
di aumento di lunghezza d’onda, la temperatura
cala dello stesso rapporto, la distribuzione resta λ
con la stessa forma di legge di corpo nero. Dei
rapidi calcoli conducono infine al valore del numero totale di fotoni per unità di volume in funzione
della temperatura, N≈(2×107fotoni/m3⋅K3)T 3, per cui la densità di energia radiante si scrive (nella
legge di Stefan) come U=(4.73×107eV/m3⋅K4)T 4, e l’energia media per fotone, sempre in funzione
della temperatura, è data da Em=U/N≈(2.33×10−4eV/K)T. L’adattamento di queste formule ai dati di
misurazione di radiazione micrometrica di fondo conduce all’identificazione di fotoni alla
temperatura di 2.735 K, per la quale si hanno circa 4×108 fotoni per metro cubo, ciascuno con
energia media di circa 0.6 meV, per un totale di densità di energia di circa 250 keV/m3.
Cosmologia - 2
3. La materia mancante
Un terzo elemento sperimentale a supporto di una peculiare caratteristica del cosmo è collegato alle
velocità di rotazione delle stelle in una galassia. Le osservazioni nel visibile ci presentano le
galassie come aggregati di materia stellare con una presumibile distribuzione di materia con densità
decrescente dal centro verso il bordo galattico. Si può applicare la legge di Keplero sul rapporto fra
periodo di rotazione orbitale e raggio orbitale, T 2=(4π2/GM)r 3, nell’intento di descrivere i
parametri cinetici del sole o di una qualunque altra stella nel suo moto attorno al centro galattico,
nell’ipotesi dunque che in esso sia concentrata una massa M di materia (la parte più luminosa della
galassia, di fatto). La velocità periferica orbitale è data ovviamente da v=2πR/T, per cui si ricava
che
v=(GM/R)1/2.
In parole, se vale l’ipotesi in oggetto, allontanandosi dalla massa centrale M le stelle devono avere
velocità periferica decrescente lentamente, come R−1/2. Ad esempio, nel caso del sole, la velocità
misurata (le velocità si misurano, come già
specificato, con tecniche di analisi Doppler
spettrometriche) assegna una massa galattica centrale
velocità periferica
. ....
. .... .
di circa 100 miliardi di masse solari. Un’analisi
sistematica delle velocità orbitali stellari però ..
.. .. ..
.................... .... .
conduce ad una situazione che non è in accordo con v∝r−1/2
l’ipotesi di massa concentrata: le velocità sono
essenzialmente costanti o addirittura aumentano
.
leggermente al crescere della distanza dal centro
galattico. Questo si potrebbe ottenere solamente se la
massa galattica responsabile del moto orbitale delle distanza dal centro
stelle aumentasse linearmente con R. La spiegazione
più largamente accettata è che la maggior parte della
massa cosmica sia invisibile, detta infatti materia oscura, e più precisamente oggetti di due
categorie ipotetiche: MACHO (“Massive compact halo objects”, oggetti compatti, pesanti ed
opachi, come buchi neri, stelle di neutroni, stelle nane bianche esaurite), WIMP (“weakly
interacting massive particle”, particelle pesanti debolmente interagenti, come neutrini – se hanno
massa - o monopoli magnetici – se esistono). Le uniche evidenze sperimentali di oggetti MACHO
sono da collegarsi ad osservazioni di fenomeni nei quali oggetti appunto massivi ed invisibili si
manifestano come lenti gravitazionali. E’ da sottolineare anche il fatto che la materia scura sembra
avere un ruolo determinante anche su scale cosmiche ben più vaste di quelle galattiche, nel senso
che anche ammassi e superammassi di galassie seguono moti in accordo con l’esistenza di materia
invisibile e sconosciuta che deve costituire il 90% dell’intero universo!
4. Parametri cosmologici
La relatività generale è una teoria che bene si adatta al problema di descrivere l’universo come
sistema fisico a densità variabile nel tempo, fornendo una soluzione per la dimensione in funzione
del tempo a partire dal big bang. Ci si interessa ad una scala spaziale per la quale le distanze tipiche
fra galassie sono relativamente piccole: si ottiene dunque una descrizione di un “universo medio”,
nel quale le concentrazioni locali di massa sono mediate nello spazio. L’equazione relativistica di
curvatura in funzione della densità di massa o energia conduce alla cosiddetta equazione di
Friedmann per la dipendenza temporale della dimensione dell’universo, R(t):
2
dR 8π
= GρR 2 − kc 2 ,
dt 3
Cosmologia - 3
nella quale compare la costante k che determina il modello geometrico di universo prescelto: per
k=0 l’universo è piatto, per k=+1 è curvo e chiuso, per k=−1 è curvo ed aperto. Notiamo che solo
per k=1 (universo chiuso) la grandezza R dà direttamente il raggio del cosmo, mentre negli altri
casi, essendo l’universo infinitamente esteso, l’interpretazione di R non è più intuitiva: si può dire
che R assegna la scala dimensionale del problema, e solamente le sue variazioni nel tempo sono
interessanti. E’ conveniente (per semplicità) prendere k=0 per risolvere l’equazione di Friedmann; i
casi restanti (k=±1) si possono poi aggiungere. La densità include sia il contributo di materia che
quello di radiazione, ma nell’universo attuale (come verrà richiamato più avanti) predomina la parte
di materia, la cui densità decresce con il volume ossia ρmat∝R−3. L’equazione di Friedmann conduce
subito alla R(t)∝t2/3, per cui, sostituendo,
t=(6πGρmat)−1/2.
Nell’universo molto giovane, invece, predomina la radiazione, la cui densità (come si calcola a
partire dall’espressione ottenuta per il gas di fotoni) varia con la dimensione R secondo la ρrad∝R−4.
Inserendo questo risultato nell’equazione di Friedmann si ottiene che R(t)∝t1/2, per cui, sostituendo,
t=(32πGρrad/3)−1/2.
Il parametro di Hubble H viene definito in base alla relazione H=(dR/dt)/R. Supponendo che
l’universo si sia espanso a ritmo costante (R=at) si ottiene che H=1/t, ossia il parametro di Hubble è
l’inverso dell’età del cosmo. Per un universo dominato da materia si ha che la vita dell’universo è
pari a 2/(3H), mentre per la densità dominata da radiazione la vita è 1/(2H). In ogni caso 1/H è
grossolanamente legato alla vita dell’universo.
Un altro parametro di interesse rilevante per gli astrofisici e cosmologi è detto parametro di
decelerazione, definito in base alla relazione q=−R(d2R/dt2)/(dR/dt)2. Si vede che un universo ad
espansione lineare nel tempo risulta q=0, nel caso di densità di materia predominante q=1/2, nel
caso di densità di radiazione predominante q=1. Si ricava poi, nel caso di universo dominato da
materia, che q=4πGρmat/(3H 2).
L’insieme di queste grandezze (parametro geometrico k, parametro di scala R, densità di energia-
materia, parametro di Hubble H e di decelerazione q) permettono una definizione abbastanza
precisa delle dinamiche nell’evoluzione dell’universo. La sfida per i cosmologi, astronomi ed
astrofisici è quella di porre in appropriato rilievo le misure ed i dati sperimentali (spesso di difficile
ottenimento) e da essi ottenere stime attendibili di questi parametri.
5. Evoluzione dell’universo
Cosmologia - 5
Il passo successivo nella genesi cosmica è quello della formazione di elementi (nuclei) pesanti. Una
possibile reazione è la formazione del deutone (nucleo di deuterio) dato dall’unione di un protone
ed un neutrone. Il fatto è però che l’alta densità di fotoni permette la reazione di fissione data da
d+γ→p+n, per cui i deutoni si scindono a ritmi molto elevati. L’energia di legame del nucleo d è di
2.22 MeV. Per inibire i processi di scissione si devono avere fotoni meno energetici di questa
soglia, tenendo ovviamente presente il fatto che nessun fotone deve superare il valore di 2.22 MeV.
In altre parole, solamente avendo una frazione di fotoni (con energia maggiore di 2.22 MeV)
minore di circa 10−9 /6 (c’è una frazione di 1/6 di neutroni per nucleone), si può essere sicuri di non
attivare reazioni di fissione del deutone. Utilizzando la statistica appropriata, si ottiene che questa
condizione è realizzata a partire dalla temperatura di 9×108 K, ossia da circa 250 sec. Da questo
istante in poi, la situazione evolve in modo piuttosto drammatico, in quanto la temperatura è
sufficientemente bassa da permettere altre reazioni di fusione, come le 2H+p→3He+γ e
2
H+n→3H+γ, nonché le 3He+n→4He+γ e 3H+p→4He+γ. E’ possibile verificare che altre specie
nucleari non possono venire formate (essenzialmente perché si ottengono nuclidi altamente
instabili) in questa fase. Dunque questo universo si popola di nuclei di idrogeno e di elio. Le
popolazioni di protoni e di neutroni, calcolabili in base alle considerazioni già illustrate poco sopra,
conducono ad una stima diretta della proporzione fra nuclei di idrogeno e di elio, che si assestano
attorno al 76% e 24% (percentuali di massa).
La storia dell’interazione forte nell’universo (nel senso di un suo ruolo diretto nella genesi cosmica)
ha termine dopo questa manciata di 250 secondi: per qualche centinaia di migliaia di anni
(comunque non meno di 200000 anni: si tratterebbe di modificare le equazioni tempo-temperatura
perché da un certo punto in poi e sempre di più la densità predominante è quella di materia, non più
di radiazione come fatto fino a questo istante) l’unica cosa che accade (essenzialmente) è il
raffreddamento per espansione. Dopo questo periodo, si giunge alla temperatura di 6000K, energia
media per fotone di 13.6eV. Tali fotoni iniziano a non essere più attivi nei processi di ionizzazione
del sistema legato p+e, l’atomo di idrogeno neutro. Inizia dunque la formazione della massa di
idrogeno la cui evoluzione in stella e la successiva sintesi di elementi pesanti è stata illustrata nel
precedente capitolo. Nel frattempo il campo di radiazione (i fotoni raffreddati) sono oramai
completamente disaccoppiati dalla materia e procedono nel loro viaggio che li condurrà ad essere
rilevati come eco fossile del big bang dai rivelatori di microonde sulla terra.
Oltre a questa importantissima e spettacolare testimonianza della nascita dell’universo, vi sono altri
segni tangibili del fatto che il cosmo si sia evoluto a partire da un singolare evento esplosivo (che ha
visto la nascita non solo della materia e della radiazione, ma anche – e forse soprattutto – del tempo
e dello spazio stessi). I più importanti sono i seguenti:
(a) fondo di neutrini: anche se le prove non sono state ancora acquisite con certezza, dovrebbe
essere possibile studiare la distribuzione energetiche di queste (elusive) particelle in modo
analogo a quanto fatto per i fotoni;
(b) abbondanza di elio: in buon accordo con la stima sopra riportata del 24%, si calcola che la
massa dell’universo è composta per una percentuale variabile fra il 23% ed il 25% di elio. Questo
dato è importante: nonostante molta materia dell’universo sia stata “rimescolata” in vari modi dai
tempi immediatamente seguenti il big bang, esistono vari motivi per credere che in certe galassie
la composizione di materia (essenzialmente elio/idrogeno) rispecchi quella primordiale. Inoltre,
teorie che coinvolgono aspetti sofisticati della teoria delle particelle elementari, depongono a
favore di una relazione fra numero di famiglie di leptoni e percentuale di massa dell’elio
nell’universo: se quest’ultima è vicina al 24%, ciò escluderebbe che possano esistere più di tre
famiglie di leptoni (elettroni, muoni, tau):
(c) antimateria: la scomparsa completa della materia e dell’antimateria nel corso dell’evoluzione
primordiale dell’universo è evitata dalla piccolissima antisimmetria fra le due forme. Non
sappiamo né il motivo di questa antisimmetria, né se esistano nel cosmo porzioni consistenti
formate da antimateria. C’è un primo esperimento (che coinvolge un mesone K) nel quale si
osserva la violazione della simmetria materia/antimateria;
Cosmologia - 6
(d) irregolarità nel fondo a microonde: le misure fornite dal satellite COBE evidenziano che il
fondo di radiazione elettromagnetica residuo del big bang non è perfettamente uniforme in
temperatura ma possiede piccole variazioni (dell’ordine di millesimi di kelvin). Queste
“ondulazioni”, la cui origine non è chiarita (ma potrebbero essere legate agli effetti collassanti di
oggetti WIMP responsabili di parte della materia oscura), riuscirebbero a spiegare parte dei
meccanismi che hanno condotto alla formazione delle stelle e delle galassie stesse, che in effetti
necessitano di centri di condensazione, o piccole disomogeneità nel gas primordiale.
6. Destino dell’universo
Un’altra domanda centrale della cosmologia (oltre alle motivazioni del big bang) riguarda il destino
dell’universo, ossia se esso è destinato ad espandersi indefinitamente, ed è di conseguenza destinato
ad una morte termica ed entropica, oppure se le forze di gravità saranno in grado di prendere il
sopravvento ed iniziare un processo di contrazione cosmica: la temperatura ricomincerà ad
aumentare con la densità, e si arriverà ad un’implosione, un big bang alla rovescia, detto anche big
crunch. Da quest’ultimo potrebbe cominciare un nuovo ciclo cosmico (pensando dunque ad un
modello universale di tipo big bounce, rimbalzare eterno di energie immani).
Le differenti modalità evolutive dell’universo possono venire riassunte dall’equazione di Friedmann
riscritta in funzione del parametro di decelerazione q, ossia dalla
2
dR
(1 − 2q ) = − kc ,
2
dr
nella quale distinguiamo ancora una volta l’universo piatto (k=0, dunque q=1/2, in espansione
continua), l’universo curvo aperto (k=−1, per cui 0<q<1/2 ancora in espansione continua) e
l’universo curvo chiuso (k=1, con q>1/2, destinato a contrarsi fino ad un punto dopo avere
raggiunto un’espansione massima). Un modo per tentare di stabilire il tipo del nostro universo è
quello di confrontare le velocità di recessione di galassie di differente età: le più lontane sono le più
datate e, se l’universo è in espansione frenata, tali galassie devono presentare spostamenti verso il
rosso molto più marcati di quelli osservati per galassie vicine (a causa del differente frenamento di
galassie vicine e lontane). I risultati sperimentali sono del tutto inconclusivi: l’universo presenta una
risposta a questo tipo di misura molto vicina al valore critico, q=1/2. E’ anche possibile studiare il
problema dal punto di vista della densità: valori elevati a sufficienza di quest’ultima devono
piuttosto ovviamente far pensare ad una tendenza al big crunch. La densità critica corrispondente al
valore critico di decelerazione, q=1/2, è di 10−26kg/m3. La densità dovuta alle galassie visibili è pari
a 10−28kg/m3. Aggiungendo la materia oscura si arriva a circa 3×10−27kg/m3. Manca ancora una
quantità non indifferente di materia, che potrebbe provenire dalla massa dei neutrini. La cosa
comunque che ancora è senza risposta è l’elevatissima precisione con la quale l’universo è “nato”
essenzialmente piatto (la sua evoluzione non lo ha allontanato troppo da questa caratteristica).
Teorie dette “inflazionistiche” danno spiegazioni ragionevoli su questo comportamento, anche se
non sono ancora sufficientemente chiarite nei loro dettagli.
7. Esercizi
(a) Usare la legge di Hubble per stimare la lunghezza d’onda del sodio a 590 nm emessa da stelle
distanti rispettivamente un milione, 100 milioni e 10 miliardi di anni luce.
(b) Calcolare la lunghezza d’onda di picco per il fondo a microonde a 2.7K.
(c) Calcolare a quale temperatura e quale età l’universo si è raffreddato in modo da non permettere
la creazione di coppie di mesoni/antimesoni.
Cosmologia - 7