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Lopera dalle origini al Settecento (escluso Mozart)

1.Definizione di opera in musica


L'opera lirica pu essere definita come la rappresentazione scenica di un'azione i cui personaggi si
esprimono fondamentalmente cantando: lirico un aggettivo sinonimo di cantato o cantante,
e l'elemento che distingue l'opera dalle altre forme di teatro proprio il fatto che i personaggi,
anzich parlare, cantano.
Non basta dunque, per fare un'opera, che un testo drammatico si avvalga in qualche sua parte di un
accompagnamento musicale o di canzoni, perch non da questo, in tali casi, i personaggi ricevono
la loro fisionomia essenziale. Rientrano nella storia dell'opera anche quei generi in cui, nonostante
la presenza di passi di recitazione parlata, l'espressione vocale-musicale ha per un peso decisivo, e
sono lopra-comique, e il singspiel.
Oltre a quanto detto, bisogna precisare che non ogni stile di canto adeguato al genere dell'opera in
musica, e per questa ragione, come vedremo, non vengono considerate opere le prime favole
pastorali completamente musicate di cui si ha notizia: Il satiro, La Disperazione di Fileno, e Il
gioco della cieca, tutte musicate dal gentiluomo romano Emilio de Cavalieri (1550 ca.-1620), su
testi di Laura Guidiccioni, e rappresentate a Firenze tra il 1591 e il 1595. La ragione consiste nel
fatto che le loro musiche, che non ci sono pervenute, per quanto ne sappiamo si fondavano su forme
musicali preesistenti ai fermenti culturali che erano stati alla base della nascita dell'opera, ed erano
quindi forme inadatte a esprimere personaggi e situazioni drammatiche.
Si considerata invece a lungo come la prima opera della storia la Dafne del romano Jacopo Peri
(1561-1633) e del nobile fiorentino Jacopo Corsi (1561-1604) su testo del fiorentino Ottavio
Rinuccini (1562-1621) rappresentata in casa dello stesso Corsi a Firenze, certamente nel carnevale
del 1598 (forse anche prima), e ripresa varie volte negli anni successivi; ma difficile giudicarla
sulla base dei pochi frammenti che ce ne sono pervenuti.
Einvece considerata unanimemente la prima vera opera l'Euridice musicata da Peri su testo di
Rinuccini, e rappresentata a Firenze il 6 ottobre 1600 (a spese del citato Jacopo Corsi), nell'ambito
dei festeggiamenti per il matrimonio di Maria de Medici con Enrico IV, re di Francia.
Al momento della rappresentazione, il musicista Giulio Caccini (1550 ca.-1618) impose che i suoi
allievi interpreti dell'opera sostituissero la musica di Peri con musica sua, inoltre nei mesi successivi
complet e pubblic una sua partitura dell'Euridice che fu per eseguita nel 1602. Solo qualche
mese pi tardi apparve la stampa della partitura di Peri, primo esempio perfetto del nuovo genere, e
il pi antico di cui abbiamo conoscenza diretta.
2. Premesse
Prima di parlare del nuovo genere per necessario accennare alle sue premesse storiche: una
specificamente musicale (la monodia accompagnata), e l'altra teatrale (l'uso della musica negli
spettacoli teatrali presso le corti italiane e particolarmente quella fiorentina, dove il nuovo genere
nacque).
2.1 Premessa musicale
La monodia accompagnata, cio una monodia sostenuta da un accompagnamento armonico affidato
a strumenti, costituiva, tra la fine del XVI e all'inizio del XVII secolo, una importante novit
strutturale nella storia musicale. Da secoli, infatti, pi precisamente a partire dal IX secolo (stando
alle testimonianze scritte che ci sono pervenute), quando si abbandon la semplice monodia
gregoriana, ci non avvenne aggiungendo alla melodia degli accordi, ma una o pi melodie tra loro
simultanee, dando vita cos alla cosiddetta polifonia. Ora, all'epoca della nascita dell'opera le forme
tipiche della musica vocale d'arte, come il mottetto e il madrigale, erano ancora polifoniche.
Tuttavia, di una sorta di monodia accompagnata, se non proprio da accordi, almeno da una parte

strumentale che valeva solo da accompagnamento, si hanno testimonianze sin dalla fine del
Trecento. Tra l'altro bisogna ricordare che nel Medioevo la musica semplice, come appunto le
monodie o in genere le musiche popolari, si tramandava per lo pi per via orale, per cui ce ne sono
rimaste poche testimonianze scritte. Inoltre nel corso del Cinquecento, divenne sempre pi diffusa
la prassi di eseguire alcune composizioni polifoniche affidando una sola delle loro voci al canto, e
le altre, all'occorrenza pi o meno semplificate, a uno strumento polifonico, cio capace di suonare
pi note contemporaneamente (organo, cembalo, liuto ecc.). Questa pratica favor l'affermarsi di
una concezione sempre meno polifonica e contrappuntistica, e sempre pi accordale
dell'accompagnamento e della conseguente tendenza a far risaltare una sola voce melodica. Questa
tendenza ebbe la sua consacrazione nella tecnica del cosiddetto "basso continuo", affermatasi
appunto sulla fine del Cinquecento. Anche questa pratica aveva i suoi precedenti: era uso, quando
uno strumento a tastiera dovesse sostenere con alcuni accordi essenziali l'intonazione dei cantori
d'una polifonia vocale, che lo strumentista eseguisse fedelmente la parte pi bassa della
composizione (pi precisamente la nota di volta in volta pi bassa, che formava una parte detta
"basso seguente"), e gli accordi che ritenesse, a suo giudizio, pi opportuni. Il basso continuo una
prassi simile, ma non identica: l'esecutore dello strumento polifonico ha scritte, davanti a s,
soltanto la melodia affidata al canto, e una parte di basso, sulla quale deve improvvisare degli
accordi (l'eventuale presenza, in alcune composizioni, di due o tre melodie, non cambia
l'impostazione, perch il trattamento dei loro reciproci incontri, ormai dominato da una coscienza
armonica, verticale, nettamente diversa da quella contrappuntistica, orizzontale dei polifonisti delle
epoche precedenti). La differenza con l'uso precedente sta nel fatto che nel basso continuo questi
accordi non sono pi una sorta di sintesi dei momenti armonicamente fondamentali (ovvero non
corrispondono a incontri di voci su determinati intervalli) di una composizione polifonica, bens
sono concepiti ex novo, (al di fuori della parte vocale) nella sola funzione di accompagnamento
accordale della parte melodica. Questa evoluzione strutturale (il passaggio da una struttura
prevalentemente contrappuntistica orizzontale a una struttura prevalentemente armonica verticale)
stabil una concezione del linguaggio musicale eminentemente armonica, che fu la condizione
imprescindibile alla nascita del cosiddetto senso tonale moderno, cio della cosciente vittoria, sulle
scale modali antiche, dei modi maggiore e minore, fondati sulla esplicitazione della nota sensibile.
La fase finale di questo processo, cio dell'affermazione progressiva della monodia accompagnata,
che la pratica del basso continuo sanziona definitivamente, coincise con la nascita dell'opera.
2.2 Premesse teatrali
Per quanto riguarda invece le premesse teatrali, bisogna ricordare che fin dall'inizio del XVI secolo
il canto monodico e polifonico veniva impiegato, in funzione scenica, all'interno di una vasta
tipologia di spettacoli drammatici, soprattutto quelli allestiti nelle corti in occasione di
festeggiamenti solenni, come nascite, matrimoni, visite di personaggi illustri, ecc. Particolarmente
importanti erano gli "intermedi", termine con il quale si designa tutto ci che serv a riempire gli
intervalli tra un atto e l'altro delle commedie (in cinque atti) o delle favole pastorali, ma anche, a
volte, delle tragedie e delle sacre rappresentazioni. Gli intermedi potevano essere "non apparenti" o
"apparenti". Quelli "non apparenti" consistevano unicamente di musiche, i cui esecutori erano
normalmente dietro la scena, quindi non visibili dagli spettatori; quelli "apparenti" invece (restando
comunque gli eventuali strumenti normalmente fuori scena) consistevano in qualcosa di visivo:
rappresentazioni simili a quelle degli intermezzi conviviali (brevi pastorali o farse, mascherate,
danze, ecc.) o altre pi impegnative, fastose, e anche costose, perch basate su macchine
scenografiche che di per s bastavano a suscitare l'ammirato stupore degli ascoltatori. Naturalmente
gli intermedi di quest'ultimo tipo erano i pi rari, in quanto realizzabili solo dalle corti pi
importanti, e, come si gi detto, in solennit speciali. Sono per quelle di cui ci pervenuta
notizia particolareggiata (soprattutto attraverso i diari e le descrizioni) e, in alcuni casi, anche le
musiche. Negli intermedi di questo tipo l'argomento poteva essere indipendente da quello della
commedia a cui essi erano intercalati, oppure avere con la commedia una certa connessione;

potevano svolgere, dal primo all'ultimo intermedio, un tema poetico unico, o variare da intermedio
a intermedio. Gli argomenti erano per lo pi allegorici, con temi e personaggi ispirati alla mitologia
classica, ma spesso con riferimento ai personaggi reali in onore dei quali era stata allestita la festa.
Per la loro magnificenza gli intermedi assunsero proporzioni tali da superare in importanza le stesse
commedie, e dunque, nonostante fossero nati a sussidio di un'azione drammatica "principale"
divennero a poco a poco essi stessi l'evento principale: a questo proposito ci sono pervenute
lamentele fin dalla met del '500; celebre fra tutte quella del Lasca, poeta di intermedi egli stesso
(oltre che commediografo) che nel madrigale La commedia che si duol degli Intermezzi fa dire alla
commedia:
Questi empi e scelerati a poco a poco
preso han lena e vigore,
e tanto hanno or favore
ch'ognun di me si prende scherno e gioco,
e sol dalla brigata
s'aspetta e brama e guata
la meraviglia, ohim! degli intermedi;
e se tu non provvedi,
mi fia tosto da lor tolto la vita;
misericordia, Febo! aita, aita".

Questo genere di spettacolo con musica si afferm soprattutto in ambiente mediceo fiorentino; in
questo ambito hanno particolare interesse quegli intermedi alla cui realizzazione presero parte i
protagonisti del nuovo genere operistico. Ricordiamo perci almeno gli intermedi del 1583, inseriti
tra gli atti della commedia Le due Persilie di Giovanni Fedini, fra i compositori dei quali era Jacopo
Peri; quelli del 1586 organizzati per il matrimonio di Virginia de' Medici con don Cesare d'Este e
inseriti fra gli atti de L'amico fido di Giovanni de' Bardi, che fu anche l'organizzatore dello
spettacolo, il poeta di tutti gli intermedi e il compositore dell'ultimo; e soprattutto i sei intermedi
del 1589 (poi stampati a Venezia nel 1591) per La pellegrina di Girolamo Bargagli, rappresentata il
2 e il 15 maggio per le nozze di Ferdinando I de' Medici con Cristina di Lorena e ripetuti il 6 e il 13
con altre due commedie, rispettivamente la Zingara, e la Pazzia. Le musiche di questi intermedi
(organizzati da Bardi, anche se poi furono eseguiti con alcune modifiche per l'intervento di Emilio
de' Cavalieri, divenuto nell'autunno 1588 sovraintendente degli spettacoli di corte) furono composte
da diversi musicisti, tra cui Giulio Caccini, Cristofano Malvezzi, Luca Marenzio, Jacopo Peri, oltre
che Bardi ed Emilio de' Cavalieri. Gli intermedi suddetti esercitarono sulla nascita dell'opera
uninfluenza notevole per aver sperimentato in proprio parecchi fra gli elementi costitutivi dei suoi
inizi: gli argomenti mitologici e pastorali, la scenografia, e soprattutto una monodia accompagnata
orientata, almeno in modo rudimentale, verso il nuovo, e comunque diversa dalle semplici forme
canzonettistiche in cui si era esercitata fino ad allora.
Altra premessa "teatrale" all'opera in musica costituita da un genere molto radicato nella
tradizione cinquecentesca, la pastorale drammatica, detta anche tragicommedia per la
contemporanea presenza, in essa, di elementi tragici e comici. In questo caso, per, la premessa non
riguarda tanto il tipo di rappresentazione, come per gli intermedi, ma piuttosto riguarda i contenuti e
l'ambientazione. Tra gli esempi illustri di questo genere ebbero grande fortuna, l'Aminta (1573) di
Torquato Tasso e Il pastor fido (1589) di Giovanni Battista Guarini. Questi drammi erano
ambientati nel mondo immaginario e utopico, agreste e idilliaco dell'Arcadia, regione dell'antica
Grecia in cui i personaggi, pastori e ninfe, si davano ai piaceri della poesia e della musica, per le
quali erano particolarmente dotati. In questo mondo Dei e semidei (quali ad esempio Apollo e
Orfeo) intervenivano presentandosi spesso come cantori: proprio Guarini, nel suo Compendio della
poesia tragicomica, opera scritta in difesa del genere tragicomico (stampato a Venezia nel 1601 ma
circolante in forma manoscritta gi qualche anno prima), sottolinea il fatto che tutti gli arcadi
erano poeti, che'l principale studio, il principale esercizio loro era quel della musica, che

l'apparavano da fanciulli, che le leggi a ci li costringevano. Queste idee erano presenti nella
mente dei letterati e musicisti che alla fine del XVI secolo misero interamente in musica le favole
(cos furono intitolate le prime opere in musica) pastorali in stile rappresentativo.
3. La camerata fiorentina
Per lungo tempo si fatto derivare il progetto, la teorizzazione e la realizzazione dell'opera in
musica, dalle discussioni filologiche ed estetizzanti della cosiddetta Camerata Fiorentina, o de'
Bardi, un gruppo di letterati e artisti che, partiti dall'intento di far rivivere la tragedia greca,
avrebbero poi creato un nuovo genere. In realt, le conversazioni fra letterati, artisti e musicisti che
si svolsero nel salotto del letterato e dilettante di musica Giovanni de' Bardi, conte di Vernio (15341612), dal 1576-77 (circa) a non oltre il 1592 (anno in cui Bardi si trasfer a Roma), si svolsero su
vari argomenti, non solo musicali; ma riguardo al fatto che vi si vagheggiasse una rinascita della
tragedia greca come dramma interamente cantato, o comunque di quella che poi fu l'opera lirica,
non si ha la minima prova.
E' vero comunque che i membri della camerata subirono l'influsso esercitato dalle ricerche svolte
sull'antica musica greca dall'umanista e filologo Girolamo Mei (1519- 1594): Mei, residente a
Roma, intrattenne un fitto scambio epistolare con il compositore e liutista Vincenzo Galilei (padre
di Galileo), uno dei tre musicisti che con certezza furono legati alla Camerata (con Giulio Caccini e
il dilettante Piero Strozzi). Il documento che rispecchia il grado di conoscenza delle fonti greche
posseduto da Mei e da lui trasmesso alla Camerata il Dialogo della musica antica et della
moderna (Firenze, 1581), in cui l'autore, Vincenzo Galilei, senza mai riferirsi alla tragedia, espose il
risultato di cinque anni di studi sui documenti superstiti della teoria e pratica dell'antica musica
greca, studi che egli aveva intrapreso con l'appoggio e il patrocinio di Bardi: proprio quest'opera
permette di datare l'inizio dell'attivit della camerata di Bardi a circa un quarto di secolo prima
degli esordi dell'opera. L'analisi delle teorie musicali antiche esposte nel Dialogo era uno degli
interessi del conte Bardi, il quale era un buon grecista e seguace delle tendenze neopitagoriche e
neoplatoniche dell'umanesimo fiorentino.
Altro argomento del Dialogo era la critica rivolta al contrappunto, cio al linguaggio polifonico
della musica di quel tempo, al quale veniva contrapposta positivamente la struttura monodica. Lo
stesso Galilei, dopo la pubblicazione del Dialogo, esemplific i suoi intenti componendo due
monodie (ora perdute): il lamento del conte Ugolino dal canto XXXIII dell'Inferno della Divina
Commedia, e le bibliche Lamentazioni di Geremia. Con queste composizioni Galilei si proponeva
evidentemente di suggerire la via per una riforma strutturale delle forme musicali. Sappiamo dallo
stesso Galilei che tali composizioni furono eseguite sopra un corpo di viole esattamente intonate,
cantando un tenore di buona voce e intelligibile (cos si legge in una lettera di Galilei al duca di
Mantova Guglielmo Gonzaga).
Dunque, al di l del merito di avere condotto con rigore filologico ricerche sulla musica greca (per
le quali vi era da tempo un generale interesse), l'unica argomentazione dell'ambiente Bardi che si
pu collegare alla nascita dell'opera la polemica rivolta dai suoi membri contro la polifonia e in
favore della monodia accompagnata, considerata questa come il mezzo espressivo pi efficace per i
loro fini artistici e musicali. Si erano comunque gi avuti, nel Cinquecento, atteggiamenti cos
radicali contro la polifonia soprattutto nell'ambito delle discussioni su una possibile riforma della
musica sacra, ai fini di ottenere nella sua esecuzione una pi chiara intelligibilit del testo, in
contrasto con l'accusa da pi parti rivolta alla polifonia. I cameratisti definirono la polifonia artificio
barbarico perch annientava l'espressione; questo accadeva sia perch le parole ne risultavano
inintelligibili (e per loro la musica aveva valore espressivo soltanto come intensificazione della
parola), sia per la discontinuit che ne veniva alle singole melodie concomitanti, a tratti emergenti,
a tratti ridotte a un ruolo subordinato. In questa polemica il monodismo greco appariva un modello,
anche se, all'epoca, puramente astratto, dato che della musica greca non si aveva una sufficiente

conoscenza.
Galilei e Bardi moderarono pi tardi il loro estremismo antipolifonico, tuttavia bisogna registrare
che la camerata dette un contributo anche pratico in favore della monodia, applicandola in numerosi
luoghi degli intermedi teatrali organizzati presso la corte medicea. Come si gi ricordato, infatti,
Bardi fu anche il principale organizzatore degli spettacoli offerti dalla corte medicea in varie e
importanti occasioni, la pi significativa delle quali, ai fini della storia musicale, fu il gi citato
matrimonio tra il granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena, festeggiato con la messa in scena di
commedie interpolate da sfarzosi intermedi. Questi intermedi ebbero, come tema principale,
allegorie del potere della musica ideate da Bardi, il quale scrisse personalmente il testo di due
madrigali e compose la musica di un altro. Gli altri testi furono scritti da Ottavio Rinuccini e
Giovanni Battista Strozzi.
In questi intermedi furono per largamente impiegate, oltre alle monodie, anche musiche
polifoniche; Bardi infatti, nel suo Discorso inviato a Giulio Caccini sopra la musica antica e il
cantar bene (ca. 1590) afferm che il tempo non era ancora giunto per una radicale riforma dell'arte
musicale e che conveniva trarre il miglior partito possibile dall'uso presente. Dopo di ci Bardi fu
indotto a trasferirsi a Roma dall'ostilit del granduca Ferdinando I verso coloro che erano stati in
auge sotto il suo predecessore Francesco I (fratello di Ferdinando), e la moglie di lui, Bianca
Capello. Ferdinando, gi cardinale, durante il governo del fratello Francesco I aveva preferito
vivere a Roma in segno di disapprovazione verso la cognata. Successe a Francesco alla morte di
questi (1587), seguita a pochi giorni di distanza da quella di Bianca; ottenne poi di abbandonare lo
stato ecclesiastico e di contrarre matrimonio per assicurare la discendenza dinastica. Port con s da
Roma, come persona di sua fiducia, Emilio de' Cavalieri, ed inoltre il madrigalista Luca Marenzio,
la cantante Vittoria Archilei e il marito di lei, Antonio, anch'esso musicista.
4. Emilio de' Cavalieri
Gi nel 1588 l'autorit di Bardi come organizzatore di spettacoli era stata limitata dalla nomina di
un soprintendente a tutte le arti, il gi citato nobile romano Emilio de' Cavalieri, il quale denunci
nel 1589 le ingenti somme spese per gli spettacoli di Bardi e si vant poi di avere organizzato
spettacoli di gusto migliore con minore spesa. Per gusto migliore de' Cavalieri intendeva quello
pastorale dei poeti della corte ferrarese, Tasso e Guarini, dei quali, insieme al granduca Ferdinando,
era ammiratore.
Cavalieri, infatti, avvalendosi dei testi di Laura Guidiccioni, introdusse, al posto delle commedie
con macchinosi e costosi intermedi, brevi e semplici azioni cantate di argomento pastorale. Si ha
notizia di un Satiro, di una Disperazione di Fileno (1591) e del Gioco della Cieca (1595), da un
episodio del Pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Non ne sono rimasti n i testi, n le musiche;
ma ci che ne disse poi la prefazione della Rappresentazione di Anima et di Corpo, pure di
Cavalieri (1600), lascia capire che tendevano a una stilizzazione pi affine ai modi del balletto o
della pantomima che a quelli dell'opera, che le loro musiche dunque si fondavano su forme pi
"canzonettistiche", preesistenti, come abbiamo gi detto, a quei fermenti culturali che avevano fatto
nascere l'ambizione dell'opera e inadatte a esprimere situazioni drammatiche e personaggi. Cavalieri
si vantava di aver reso nella sua musica gli 'affetti' dei personaggi; ma il teorico Giovanni Battista
Doni scrisse invece che essa consisteva di ariette "che non hanno che fare niente con la buona e
vera musica teatrale". Come vedremo, Jacopo Peri riconobbe a Cavalieri, nella prefazione
all'Euridice, il merito di avere prima che da ogni altro, ch'io sappia, con maravigliosa invenzione
[...] fatta udire la nostra musica sulle scene (nostra, in opposizione all'antica), ma aggiungeva poi
di avere a sua volta adoperato la "nostra" musica "in altra guisa".
L'attivit e la sorte di Cavalieri si avviarono al declino dopo il 1595, forse anche per ragioni legate
alla sua salute che lo indussero a tornare a Roma intorno al 1597, nonostante ricevesse ancora
incarichi ufficiali dalla corte fiorentina. Nel febbraio del 1600 fece rappresentare nell'oratorio

filippino della Chiesa Nuova la Rappresentazione di anima et di corpo, una allegoria spirituale che
rivela la condizione di contrizione del suo animo. Tuttavia la pubblicazione, avvenuta dopo qualche
mese, della partitura, a cura del Guidotti (la condizione signorile di Cavalieri non permetteva al
gentiluomo di occuparsene personalmente, e per questa ragione le sue composizioni precedenti non
erano mai state pubblicate), rivendicava a Cavalieri (nella prefazione scritta dal Guidotti) le
innovazioni che egli aveva introdotto negli spettacoli fiorentini: tale rivendicazione poteva essere
stata suggerita dal rammarico di Cavalieri per essere stato messo da parte nella preparazione di
nuovi spettacoli che avrebbero festeggiato nell'ottobre di quell'anno le nozze di Maria de' Medici
(figlia di Francesco I) con il re di Francia Enrico IV. A Cavalieri fu infatti affidata in
quell'occasione solo la musica di un breve dialogo di due dee, su testo del Guarini, da eseguire
durante un banchetto.
5. L'opera italiana nel Seicento
5.1 Le prime opere fiorentine
Per arrivare alle prime vere e proprie opere in musica bisogna dunque considerare la fase successiva
all'ambiente Bardi, quando l'influenza sia di Bardi, sia del suo antagonista Cavalieri appartenevano
al passato e un nuovo gruppo si era formato intorno a un altro gentiluomo fiorentino, Jacopo Corsi
(1561-1602), anche lui dilettante e promotore di attivit artistiche; fu nell'ambito di questa cerchia
che vennero affrontati i problemi inerenti alla rappresentazione di favole musicali. Gi dal 1594
Corsi aveva iniziato a mettere in musica una pastorale mitologica di Ottavio Rinuccini, la Dafne,
successivamente rappresentata pi volte tra il 1598 e il 1600 in casa Corsi, e poi a corte, con musica
in parte di Corsi, ma per lo pi del cantante e compositore Jacopo Peri (1561- 1633). Come si
precedentemente accennato, l'argomento e l'ambientazione di questo, come dei successivi lavori del
genere, rivelano che il dramma cantato fu nei primordi un dramma pastorale con musica, e non una
tragedia messa in musica, perch era nel mondo fantasioso dell'Arcadia che poteva sembrare
plausibile e verosimile fare esprimere i personaggi di un dramma con il canto invece che con la
parola recitata. Collocando i protagonisti dell'opera nel clima della pastorale si poteva dare
motivazione del "recitar cantando", di "imitar col canto chi parla", espressioni queste che appaiono
nelle prefazioni dei primi libretti e partiture teatrali stampati all'epoca. Proprio per risolvere il
problema della verosimiglianza (cio per giustificare che dei personaggi si esprimessero cantando
anzich recitando) la scelta dei personaggi delle prime opere cadde su dei cantori: lo Apollo,
protagonista della Dafne, e tanto pi lo Orfeo protagonista della successiva Euridice. Orfeo
peraltro non solo cantore, ma colui che vince le potenze infernali con il canto: il canto non si d
dunque come elemento di un'arte particolare, ma addirittura come esigenza realistica, perch non
sarebbe realistico che Orfeo si esprima senza il canto.
Lo stesso Corsi decise di far rappresentare, in occasione del matrimonio di Maria de' Medici con il
re di Francia Enrico IV un'altra pastorale, l'Euridice, su testo di Ottavio Rinuccini, e con musica di
Jacopo Peri: l'esecuzione avvenne in una saletta di Palazzo Pitti la sera del 6 ottobre 1600.
L'Euridice, di cui, a differenza della Dafne, ci pervenuta l'intera partitura a stampa, considerata
il punto di partenza della storia dell'opera, anche se nell'ambito dei festeggiamenti nuziali occup
un posto secondario. L'evento teatrale pi importante dell'occasione fu invece la messa in scena, il 9
ottobre, di una favola mitologica in 5 atti, il Rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera, tutta
musicata e corredata di spettacolari intermedi: fu offerta dal granduca e rappresentata nella sala
delle Commedie di Palazzo degli Uffizi. Giulio Caccini compose la musica dell'azione principale e
dell'ultimo coro; le altre parti corali degli intermedi, erano state affidate ad altri musicisti della corte
medicea.
5.2 Giulio Caccini
A proposito di Giulio Caccini (1551-1618), bisogna dire che non apparteneva alla cerchia di Corsi,
ma aveva fatto parte dell'ambiente di Bardi, per qualche tempo era stato anche suo segretario, e per

questi trascorsi non era ben visto dal granduca Ferdinando I: era per riuscito a recuperarne la stima
grazie alla sua attivit di cantante e di maestro di cantanti valorosi, tra i quali, in seguito, anche le
figlie Francesca (detta la Cecchina, anch'essa compositrice) e Settimia. Per quanto riguarda
l'Euridice, Caccini ne aveva compreso l'importanza, per cui, come si gi detto, non si content di
imporre nella prima esecuzione che i suoi allievi sostituissero la musica di Peri con musica sua, ma
in pochi mesi complet una sua versione completa dell'opera, e la stamp con la dicitura posta in
musica in stile rappresentativo. Solo pi tardi usc la partitura dell'Euridice del Peri, corredata con
la pi modesta dicitura Le Musiche di Jacopo Peri...sopra l'Euridice del sig. Ottavio Rinuccini. Fu
proprio Caccini a porre erroneamente l'accento sugli intenti classicheggianti della Camerata quando,
nella dedica a Bardi della sua Euridice, afferm che la sua favola era composta in stile
rappresentativo, vale a dire quello stile usato da me altre volte, molti anni orsono [...] E questa
quella maniera altres, la quale negli anni che fioriva la Camerata sua in Firenze, discorrendo ella,
diceva [...] essere stata usata dagli antichi Greci nel rappresentare le loro tragedie e altre favole,
adoperando il canto: questa affermazione adulatoria fu poi ripresa dai suoi allievi e dal figlio di
Bardi, Pietro, e ha costituito la base dell'errata interpretazione del ruolo e degli intenti della
Camerata dei Bardi. E' da notare e confermare che Caccini, nonostante l'accenno alle tragedie,
chiama l'Euridice "favola", e lo stesso fa Peri con la sua Dafne. Caccini sin dal 1590 circa aveva
cominciato a comporre quelle "arie" (strofiche) e madrigali (non strofici) a voce sola per cantare
sul chitarrone o altro strumento che nel 1602 raccolse e pubblic con il titolo emblematico de Le
nuove musiche. Queste monodie, non concepite per il teatro, sembrano confermare che gli interessi
del gruppo non vertevano specificamente sul testo (la sua Euridice fu evidentemente composta per
reggere la rivalit con quella di Peri, rispetto alla quale decisamente meno "drammatica"); ma al
tempo stesso Caccini mostra un impegno, nel linguaggio monodico, profondamente nuovo. Ne Le
nuove musiche infatti l'espressione della parola legata a un fascino melodico e vocale senza
precedenti; nuova anche l'elegante libert della sua andatura, evidentemente conseguente al nuovo
e ingegnoso accorgimento tecnico, il basso continuo, che liberava la melodia dalle pastoie del
contrappunto. Come gi detto questo sistema di scrittura veniva gi utilizzato da organisti e
suonatori di cembalo, i quali, per accompagnare una composizione polifonica complessa,
segnalavano le armonie con indicazioni numeriche essenziali poste sulle note della parte pi bassa
(il termine basso continuo deriva dal fatto che la parte alla quale sono apposte le numeriche degli
accordi coincide con quella di basso fino a tanto che questa non interrotta da pause; quando ci
accade il basso continuo "continua" con le note della parte, qualunque essa sia, che
temporaneamente assume le funzioni di basso). Il passo decisivo compiuto da Caccini consist nel
concepire questa linea di basso direttamente in funzione della melodia del canto, anzich derivarla
da un complesso di linee contrappuntistiche il cui percorso condizionava e limitava il fluire della
melodia principale. La libert espressiva cos conseguita dalla melodia pot servire all'espressione
dei testi, secondo le aspirazioni che erano state espresse anche nella camerata di Bardi; tanto pi che
la realizzazione ed esecuzione del continuo erano affidate di solito a un solo esecutore, o allo stesso
cantante (che si accompagnava da s) e ne erano cos favorite la flessibilit e l'espressivit
dell'esecuzione per le quali Caccini us il termine sprezzatura (il termine deriva dal Cortegiano di
Baldassare Castiglione, il quale lo adoper per indicare che il perfetto gentiluomo deve sapere
eseguire anche le azioni pi difficili con una apparente negligenza e naturalezza, la sprezzatura
appunto, che non ne lascia trasparire la difficolt).
Inoltre Caccini nella prefazione alle Nuove musiche il primo a dare conto delle tecniche vocali
sottese al nuovo stile. E' interessante notare che i protagonisti di questa prima fase dell'opera furono
due cantanti: l'opera infatti non nacque per il desiderio di far rivivere la tragedia, ma per l'esigenza
di rinnovare il tipo di canto a voce sola che era stato usato nella musica profana fino ai primi
decenni del '500, ed era poi stato abbandonato, almeno in apparenza, perch durante tutto il secolo
era sempre stata accettata la pratica di eseguire musiche composte con tutte le risorse artistiche della
polifonia, affidando per la parte superiore a una voce solista e le altre a strumenti di vario genere o
a un liuto.

5.3 Jacopo Peri


E' probabile che Peri abbia appreso dall'esempio di Caccini l'innovazione del basso continuo;
tuttavia, chiamato da Corsi e da Rinuccini a contribuire alla realizzazione delle loro "azioni tutte di
musica", si preoccup, pi che altro, di creare un linguaggio drammatico pi che vocale, che
subordinasse le ragioni del canto alla declamazione del testo per sottolinearne le inflessioni
espressive e i vari gradi di tensione o di abbandono. Nella prefazione dell'Euridice Peri scrisse di
un'armonia, che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare
che pigliasse forma di cosa mezzana e che potesse in parte affrettarsi, e prender temperato corso
tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quegli della favella spediti e veloci; soltanto dove il
testo diventa pi lirico lascia che la melodia si espanda con maggiore libert e vocalizzazione.
Bench fosse anch'egli un cantante, Peri si pose soprattutto il problema della musica drammatica e
lo risolse con grande intensit. Delle due Euridice la sua quella innovativa dal punto di vista del
dramma, mentre l'opera di Caccini, pi lirica non possiede lo stesso vigore drammatico. Nel testo di
Euridice Rinuccini narra il mito famoso di Orfeo e Euridice, interpretandolo alla maniera pastorale
allora di moda e sostituendo al finale tragico un lieto fine in vista dell'occasione festosa per cui
l'opera era stata scritta.
Come si gi detto, delle due versioni musicali, quella di Caccini pi melodiosa e lirica, non
lontana dai madrigali e dalle arie delle Nuove musiche, mentre la versione di Peri pi drammatica.
Peri non soltanto la realizz in uno stile a met tra il parlato e il cantato ma vari il suo approccio al
testo secondo le diverse esigenze delle situazioni drammatiche.
Tre esempi della sua Euridice illustrano altrettanti stili monodici rintracciabili nell'opera, di cui uno
solo realmente nuovo. Il Prologo modellato sull'aria strofica tipica del Cinquecento: ogni verso
viene cantato su un modello melodico formato da note ripetute e da uno schema cadenzale che
termina su due note tenute; le strofe sono separate da un ritornello. Anche la canzone di Tirsi un
tipo di aria, non strofica ma ritmicamente marcata e melodica, e con cadenze armonicamente pi
accentuate alla fine dei versi (pi che altro dalla dominante alla tonica): delimitata da una sinfonia
che costituisce il pi lungo interludio esclusivamente strumentale della partitura. Infine, il terzo
esempio di stile monodico, il parlato di Dafne, davvero un prototipo di recitativo nuovo. Gli
accordi specificati dal basso continuo non hanno un'organizzazione ritmica, n un piano formale, e
hanno la sola funzione di supporto per la voce recitante. Questa voce libera di assecondare i ritmi
del parlato; pu iniziare con una nota consonante, in accordo con le armonie del basso, e poi
allontanarsi liberamente da questa; solo alcuni finali di verso sono sottolineati da cadenze mentre
molti sono elisi. Nel parlato di Dafne Peri mette in atto una progressione emotiva graduale:
all'inizio il procedere melodico consonante, emotivamente neutro, su una base armonica
lentamente modulante. Ma quando la narrazione di Dafne arriva al morso del serpente che uccide
Euridice, il suo "parlato" diventa pi agitato, pi dissonante, le modulazioni armoniche sono pi
repentine le cadenze pi rare, i movimenti del basso pi rapidi.
Un'altra opera importante in questo periodo la Dafne di Marco da Gagliano (ca. 1575-1642),
rappresentata per la prima volta a Mantova nel 1608 e a Firenze due anni dopo. Il libretto un
adattamento del poema di Rinuccini del 1594, che a sua volta si ispirava a uno degli intermedi del
1589. Il prologo cantato da Ovidio, che l'autore delle Metamorfosi, da cui tratta la vicenda.
Nelle parti vocali sono inseriti diversi ritornelli strumentali; l'opera si conclude con un ballo come
nel finale dell'Euridice del Peri. Non c' sinfonia, ma l'autore, nella prefazione, indica che se ne
sarebbe dovuta eseguire una prima nel prologo, utilizzando gli strumenti destinati ai ritornelli e ad
accompagnare i cori. Proprio il coro ha grande importanza in questa Dafne, sia nello svolgimento
dell'azione, sia nei momenti statici e puramente contemplativi; le parti corali acquistano variet
grazie all'inserimento di brani solistici, duetti e brevi intermezzi orchestrali. Tutta la partitura,
insomma, mostra notevoli risorse musicali derivate dalla tradizione degli intermedi e dal nuovo
stilema del recitativo monodico.

5.4 L'Orfeo di Monteverdi


Nel 1607 fu rappresentato a Mantova, presso la corte dei Gonzaga, l'Orfeo di Claudio Monteverdi
(1567-1643), su testo di Alessandro Striggio junior. Monteverdi visse fra due secoli, ma anche fra
due epoche della storia musicale, partecipando da protagonista a entrambe: fu infatti polifonista di
stile cinquecentesco nella prima parte della sua attivit, e divenne poi un importante esponente della
"monodia rappresentativa", in conformit della quale rinnov completamente nei madrigali e nelle
composizioni sacre il suo stesso stile polifonico. Delle sue tredici opere liriche ce ne sono pervenute
solo tre (a parte pochi frammenti delle altre, tra i quali il famoso "Lamento" tratto da Arianna,
opera rappresentata a Mantova nel 1608): l'Orfeo, che la sua prima opera, Il ritorno di Ulisse in
patria (1641) e L'Incoronazione di Poppea (1642), che sono rispettivamente la terz'ultima e
l'ultima, e presentano una struttura diversa dall'Orfeo, conforme piuttosto al corso che l'opera, come
vedremo, andava in quegli anni imboccando a Venezia, dove furono rappresentate. L'Orfeo invece
il culmine del momento originario del nuovo genere: modellato, sia per l'argomento del testo, sia
per l'impiego di diversi stili musicali, sulle versioni fiorentine dell'Euridice. La pastorale di
Rinuccini nelle mani del poeta Alessandro Striggio si era dilatata fino alle dimensioni di un dramma
in cinque atti che Monteverdi arricch mediante una vasta gamma di risorse vocali e strumentali. La
rappresentazione delle emozioni pi variegata, le armonie sono pi espressive, i recitativi non
dipendono principalmente dalla successione delle parole, ma diventano oggetto di sperimentazione
assumendo di volta in volta diverse organizzazioni formali. Inoltre Monteverdi introdusse molte
arie solistiche, duetti, complessi di tipo madrigalesco, danze che costituiscono una parte cospicua
dell'opera e forniscono allo stesso tempo un necessario contrasto col recitativo.
E' interessante considerare tre sezioni dell'Orfeo che sono pi o meno analoghe a quelle gi
analizzate per l'Euridice: il Prologo, il canto di Orfeo e la narrazione della morte di Euridice da
parte della Messaggera. Come gi rilevato, nell'Orfeo le proporzioni sono molto dilatate.
Il Prologo un'aria strofica intercalata da un ritornello (inserito tra una strofa e l'altra) orchestrato
con molta cura. Monteverdi musica ogni strofa variandone la melodia ma lasciando intatto, alla
base, lo schema armonico: si tratta di una delle tecnica usate nel Cinquecento per improvvisare
vocalmente un testo poetico. A questo proposito bene notare che la famosa aria di Orfeo nel terzo
atto, Possente spirto, si basa su una simile ma non identica procedura, perch qui Monteverdi
fornisce una diversa ornamentazione dello stesso schema melodico.
La canzonetta strofica di Orfeo, Vi ricorda o boschi ombrosi, simile all'aria di Peri per Tirsi, ma il
ritornello ha una scrittura contrappuntistica a cinque parti.
Infine, come nell'opera di Peri, lo stile pi nuovo viene impiegato per rendere il dialogo e il tragico
racconto. Il parlato della Messaggera, In un fiorito prato, imita infatti lo stile di recitativo
sviluppato da Peri, ma lo inserisce in un movimento armonico, un disegno melodico e una
concezione drammatica di ben altre proporzioni.
Particolarmente importante nell'Orfeo il trattamento che Monteverdi riserv all'orchestra. Nelle
opere fiorentine erano stati usati per l'accompagnamento strumentale solo pochi liuti, o strumenti
analoghi, posti dietro la scena e quindi non visibili dagli spettatori. Nell'Orfeo, invece, Monteverdi
utilizz un'orchestra di circa quaranta strumenti (mai usati, tuttavia, contemporaneamente), tra cui
flauti, cornette, trombe, tromboni, la serie completa di archi e vari strumenti per la realizzazione del
basso continuo. In molti brani inoltre, cosa assolutamente inconsueta all'epoca, il compositore, per
rendere al meglio le varie situazioni drammatiche, ritenne necessario specificare di volta in volta gli
strumenti che voleva fossero suonati. La partitura contiene anche ventisei brevi numeri orchestrali,
tra cui una "toccata" introduttiva e diversi ritornelli.
5.5 L'opera a Roma
Dopo Firenze e Mantova, le due citt che segnarono le svolte essenziali dell'opera nel Seicento
furono Roma e Venezia.
Soprattutto in coincidenza con il pontificato di Maffeo Barberini, papa Urbano VIII, eletto nel 1623,
Roma divenne un importante centro di attivit operistica. Molte opere, come era accaduto a Firenze

e Mantova, furono scritte in occasione di feste particolarmente solenni, per allestire le quali non si
badava a spese: la ricchezza dei mezzi a disposizione permetteva una grande abbondanza di effetti
scenici e un largo impiego di masse per i balli e gruppi d'insieme (dette "cori") per le parti vocali.
Lo stile monodico era stato introdotto a Roma nel 1600 con La rappresentazione di anima et di
corpo di Emilio de' Cavalieri, che fu seguita, nel 1606, dall'Eumelio di Agostino Agazzari, una
favola pastorale di carattere moralistico.
Si allestirono poi, nei palazzi cardinalizi, opere di carattere pastorale e morale che seguivano il
modello fiorentino nello stile dominante del recitativo.
La prima opera profana di scuola romana fu La morte d'Orfeo (1619) di Stefano Landi (1586-1639).
Vi si notano grandi scene d'insieme per solisti e coro poste alla fine di ogni atto. Questo tipo di
scene d'insieme sono presenti naturalmente anche nelle due Euridice fiorentine e in Orfeo di
Monteverdi; ma, mentre in quelle opere erano strettamente connesse allo sviluppo della trama, ne
La Morte d'Orfeo e nelle seguenti opere della scuola romana, questi grandi finali non sono sempre
ben inseriti nel tessuto della vicenda, ma spesso sono avulsi dal contesto drammatico, e per questa
ragione ricordano piuttosto le esibizioni vocali e spettacolari degli intermedi.
Nell'opera romana va segnalata la caduta delle preoccupazioni sulla verosimiglianza del
personaggio che canta invece di parlare; ci attestato dal graduale abbandono dei soggetti
pastorali, e dal fatto che gli stessi argomenti mitologici cessarono di essere esclusivi: si inizi cos a
elaborare soggetti derivati dai racconti epico-cavallereschi di Ariosto e Tasso, dall'agiografia
cristiana e perfino dagli intrecci della commedia dell'arte.
Inoltre la linearit dell'iniziale opera fiorentina, basata su trame semplicissime e fedeli alle unit
aristoteliche di tempo, luogo e di azione, and presto travolta da libretti sempre pi incuranti di
queste unit e inclini a complicare l'azione (tra l'altro ammettendo scene comiche accanto a quelle
tragiche e creando situazioni spettacolari atte a favorire le esibizioni della scenotecnica barocca) e
da musiche stilisticamente composite.
Dal punto di vista musicale, il primo esempio di opera che registra un distacco dalla scuola
fiorentina La catena d'Adone (Roma 1626) di Domenico Mazzocchi (1592-1665) su libretto di
Ottavio Tronsarelli. Il libretto si rif a un episodio dell'Adone di Giovanni Battista Marino, e narra
la storia di Adone che, vittima delle arti della maga Falsirena, viene liberato da Venere; la storia
vuole simboleggiare la liberazione dell'uomo dalla schiavit dei sensi e degli inganni per mezzo
della grazia celeste. I personaggi mitologici che fanno parte dell'azione non hanno pi il carattere
solenne di quelli dell'opera fiorentina, ma hanno atteggiamenti simili ai personaggi di una farsa
realistica e piccante. La trama complessa ed infarcita di ogni sorta di trucchi magici e di
travestimenti, a cui si aggiungono continui cambiamenti di scena, apparizioni divine, congiure, il
tutto inserito nel consueto sfondo pastorale. La presenza di scene fantastiche, il numero elevato di
personaggi e una certa incoerenza in alcuni episodi fanno intravedere in questo lavoro il futuro
sviluppo dell'opera barocca. Per quanto riguarda la musica, l'importanza della Catena d'Adone
risiede nel numero dei suoi insiemi vocali e nella distinzione embrionale che si viene a definire fra
recitativi monodici e melodie vocali con profilo melodico e forma musicale pi definiti: appare il
termine "aria" e viene applicato non solo alle melodie vocali solistiche, ma anche ai duetti e ai pezzi
d'insieme con pi voci. Alcune "arie" solistiche non sono facilmente distinguibili dai recitativi
monodici; altre hanno invece una struttura precisa e una melodia ben definita. Questo uso di forme
chiuse di diversa specie frequente, ed ha luogo (cos dichiara Mazzocchi stesso nella prefazione
alla partitura) allo scopo di evitare il tedio del recitativo.
A partire dal 1632 si utilizz di preferenza come teatro una sala con capacit di circa 3000 posti a
sedere allestita da Gian Lorenzo Bernini nel Palazzo Barberini alle Quattro Fontane (durante il
pontificato di Maffeo Barberini, divenuto papa Urbano VIII) inaugurato in quell'anno con l'opera
Sant'Alessio di Stefano Landi (1590 ca.-1655) su testo del cardinale Giulio Rospigliosi (16001669), futuro papa Clemente IX dal 1667. Rospigliosi scrisse in tutto una dozzina di libretti, che
vanno dal dramma sacro, alla favola pastorale, alla commedia in musica; in particolare si adoper
per equiparare l'opera al teatro parlato, attraverso la letteratura popolare devota, la commedia

dell'arte e l'opera del drammaturgo spagnolo Pedro Caldern de la Barca (1600-1681).


Proprio a Roma fu particolarmente accentuata la tendenza delle "azioni tutte in musica" ad
adeguarsi alla variet tematica del teatro parlato; il governo papale infatti era contrario alle
rappresentazioni dei cosiddetti comici dell'arte e l'opera dunque cerc di prenderne il posto facendo
proprie a volte alcune sue caratteristiche. Sui frontespizi il pi frequente sottotitolo non fu pi
"favola", ma "dramma" o "commedia" musicale: il termine "commedia" non denotava
necessariamente un genere comico ma venne a significare un qualsiasi tipo di azione teatrale.
L'importanza data agli apparati scenici e ai relativi effetti spettacolari, ritenuti altrettanto importanti
della musica, dava ancora agli spettacoli operistici carattere di eccezionalit, e per questo motivo le
opere venivano riprese poche volte.
Il Sant'Alessio fu dunque la prima opera rappresentata nel teatro del Palazzo Barberini, e il primo
allestimento curato da Rospigliosi: in quegli anni infatti, e per molto tempo ancora, il librettista si
occupava della regia degli spettacoli. E' importante notare in quest'opera la presenza di elementi e
personaggi comici, perch questa novit, insieme agli argomenti agiografici e agli effetti
spettacolari, saranno le caratteristiche tipiche delle opere romane seicentesche. Il recitativo
comincia a mostrare quelle che saranno le sue peculiarit future, diviene pi discorsivo, presenta
molte note ribattute e cadenze, ed a volte interrotto da brevi episodi cantabili: nel complesso per
l'opera solenne e oratoriale. Le arie solistiche sono poche, ma abbondano le scene corali e
d'insieme, tra cui, da segnalare, quella che conclude l'ultimo atto.
Su testo di Rospigliosi anche la favola pastorale Erminia sul Giordano, tratta da diversi episodi
della Gerusalemme liberata di Tasso, e musicata da Michelangelo Rossi (1633): le scene difettano
di coordinazione, ma presuppongono ricchi e macchinosi effetti scenici.
Per quanto riguarda la commedia in musica, alla quale si accennava, Rospigliosi ne dette il primo
esempio storico nel 1637 con il Falcone (tratto dal Decameron di Boccaccio) musicato da Virgilio
Mazzocchi (fratello di Domenico, 1597-1646), che fu poi rielaborato con il titolo Chi soffre speri e
con aggiunte musicali di Marco Marazzoli: in questo lavoro l'elemento comico svolge un ruolo
significativo e si fa via via sempre pi vivo l'esempio del contemporaneo teatro drammatico
spagnolo, impostato sulla pi grande molteplicit di situazioni e azioni ed effetti, in netta
opposizione ai principi aristotelici. Altro soggetto tipicamente spagnolo quello di Dal male il bene
(1654) sempre di Rospigliosi, tratto da una commedia di Caldern de la Barca, con la musica di
Marazzoli e di Angelo Maria Abbatini (1595-1679). In queste due opere vengono impiegati rapidi
recitativi semplici in stile parlante, e pezzi d'insieme solistici concertati, elementi che anticipano lo
stile dell'opera buffa.
L'ultimo importante compositore romano di opere di questo periodo fu Luigi Rossi (ca. 1597-1653),
di cui si conoscono Il palazzo incantato (su testo di Rospigliosi, Roma 1642), ricco di invenzioni
sceniche, e Orfeo. Quest'ultimo fu rappresentato in italiano a Parigi nel 1647; la famiglia Barberini
infatti, a causa dei cambiamenti politici verificatisi a Roma nel 1644 con l'elezione di papa
Innocenzo X (Doria Pamphili), era stata costretta a emigrare in Francia. Su invito del cardinal
Mazarino molti musicisti, compreso Luigi Rossi, si recarono a Parigi al seguito della famiglia
principesca per dare al pubblico francese un esempio dell'opera italiana. Il testo di Orfeo, basato sul
mito antico, introduce tuttavia molti episodi che danno vita a una successione di scene serie e
comiche intercalate da balli ed effetti scenografici spettacolari. Di fronte a un libretto del genere,
sprovvisto di unit drammatica, Rossi sfrutta tutte le occasioni musicali offerte da ogni scena. La
partitura di Orfeo dunque varia come il libretto, e costituisce il primo caso di opera dove il
numero delle arie supera quello dei recitativi: vi si trovano arie strofiche su un basso ostinato, arie
bipartite, arie comiche, arie con da capo e altrettanti pezzi d'insieme di diversa specie. La musica
possiede perfezione stilistica e raffinatezza, ma nonostante la bellezza dei particolari, nella sua
totalit non ha per molta consistenza drammatica. In questo senso l'Orfeo di Rossi testimonia
quanto l'opera in pochi decenni si fosse allontanata dagli ideali della scuola fiorentina e avesse
intrapreso la strada della esteriorit formale tipica della poetica barocca.
Roma forn anche i primi esempi di esportazione di un'opera in altre citt attraverso compagnie

itineranti: per questa via che il nuovo genere raggiunse Venezia.


5.6 L'opera a Venezia
Venezia fu la prima citt dove, nel 1637, nacque per l'opera un teatro pubblico destinato a un
pubblico pagante, che fu il teatro di San Cassiano, edificato dalla nobile famiglia Tron. Altri ne
seguirono presto in parecchie citt d'Italia, e nella stessa Venezia, che arriv a possederne
contemporaneamente sedici, e perci fu, fino a tutto il secolo seguente, il centro italiano (ed
europeo) pi ricco di vita operistica.
Il passaggio dal teatro privato al teatro pubblico fu una svolta importante. Il teatro privato era un
atto di mecenatismo che un nobile offriva ai suoi pari, o anche a una certa borghesia pi elevata, a
un pubblico scelto insomma, formato da un numero di invitati che poteva essere anche molto alto.
Lo spettacolo d'opera era dunque un "evento", qualcosa di unico, che anche le corti pi importanti
offrivano raramente, e non in un teatro come noi lo intendiamo, ossia in un edificio apposito, ma in
una sala che di volta in volta veniva adattata per lo spettacolo in programma. Lo spettacolo pubblico
fu invece a pagamento (anche se in modo diverso da come avviene oggi), si organizz in "stagioni"
collocate in determinate epoche dell'anno (durante le quali ogni opera si replicava per parecchie
sere), cre un tipo di edificio apposito (il teatro a palchetti su pianta a ferro di cavallo o a ellisse), e
gradatamente sostitu la scenografia creata espressamente per un'opera determinata, con un
repertorio di scene "in dotazione" da usare in tutte le opere.
Nelle Memorie teatrali di Venezia (Venezia 1681) il canonico e librettista dalmata Cristoforo
Ivanovich (1628-1689) spieg in maniera particolareggiata l'organizzazione del sistema
impresariale veneziano il quale si proponeva di realizzare nei teatri d'opera una pompa e splendore
incredibile, punto non inferiore a quanto si pratica in diversi luoghi della magnificenza de' Principi,
con questo solo divario, che dove questi lo fanno godere con generosit, in Venezia fatto per
negozio. Questa trasformazione non deve tuttavia far pensare a un teatro puramente impresariale
frequentato da chiunque, perch in realt si trattava ancora di un semimecenatismo per il fatto che
dietro ogni teatro c'era una famiglia nobile, o un gruppo di nobili, che offriva delle basi finanziarie.
Fin dalla costruzione del teatro ogni palchetto diveniva propriet di un "palchettista" che poteva
comunque darlo in affitto ad altri: in questo modo solo una parte del pubblico versava denaro
all'imprenditore direttamente sera per sera. Inoltre, a partire soprattutto dal primo Settecento, il
numero delle repliche non era proporzionale al numero degli spettatori, perch questi erano, per la
maggior parte, sempre gli stessi: era costume dei palchettisti infatti frequentare il teatro tutte le sere,
come a un ritrovo. Quindi il pubblico dell'opera rimase relativamente ristretto e, salvo eccezioni,
limitato ad alcuni ceti.
Dopo l'apertura del teatro di S. Cassiano, nel 1637, a Venezia sorsero altri cinque teatri destinati
all'opera in musica. Tali teatri presero il nome della parrocchia in cui si trovavano: il teatro di S.
Mois (dal 1639), dei SS. Giovanni e Paolo (1639), Novissimo (1641), di S. Apollinare (1651), di
S. Luca o S. Salvador (1661). Le famiglie patrizie veneziane che ne finanziarono la costruzione o il
riadattamento dandone poi la gestione ad impresari furono i Tron, i Vendramin, i Giustinian e i
Grimani.
Il carattere impresariale dell'opera veneziana determin anche un sensibile cambiamento dei
contenuti e della struttura dell'opera in musica. Se i primi soggetti della produzione operistica
veneziana si rivolgono principalmente alla mitologia, ben presto si pass a temi tratti dalla storia
classica, in particolare le vicende della guerra di Troia e dalla storia romana. Questo perch Venezia
si considerava discendente di Roma la cui nascita, a sua volta, era tradizionalmente collegata
all'eroe troiano Enea. In tal modo veniva sottolineata la grandezza di Venezia, i suoi ideali e le sue
eroiche origini. Protagonisti di queste opere sono quindi eroi come Achille, Ulisse, Scipione,
Alessandro Magno, Muzio Scevola, Annibale. Ci non impediva per di lasciare ampio spazio alle
situazioni amorose, alle vicende romanzesche adatte a fornire occasioni per realizzare straordinari
effetti scenici. Importante a questo proposito fu l'opera di Jacopo Torelli (1608-1678), l'architetto e
scenografo che, al fine di rendere possibile il cambiamento simultaneo delle scene, mise a punto un

sistema di quinte scorrevoli attraverso un congegno posto sotto il palcoscenico. Mentre nel corso
dei primi anni i libretti veneziani continuarono ad avere la divisione in cinque atti tipica dell'opera
cortigiana, successivamente si pass alla pi agile struttura in tre atti che rimase praticamente in
auge, almeno per l'opera seria, fino a tutto il Settecento.
Fino alla met del secolo la struttura musicale dell'opera a Venezia era basata fondamentalmente
sullo stile recitativo che, grazie alla sua forma "libera", ben si adattava a piegarsi di volta in volta ai
percorsi mutevoli e contrastanti del testo. Non mancavano comunque periodiche aperture, senza
soluzione di continuit, in zone ariose come del resto gi avveniva nell'opera romana. Le strutture
chiuse come arie e canzonette strofiche corredate da interventi strumentali si incontravano per lo
pi in episodi narrativi e dialoganti, in situazioni festose, e in scene con personaggi giovani e
buffoneschi.
5.7 Monteverdi, Cavalli e Cesti
Se ci soffermiamo a considerare le due opere veneziane di Monteverdi che ci sono rimaste, Il
ritorno di Ulisse in patria (composta su testo, tratto dall'Odissea XIII- XXIII, del nobile veneziano
Giacomo Badoaro [1602-1654] e rappresentato dalla compagnia Manelli al teatro S. Cassiano e a
Bologna nel 1640) e L'incoronazione di Poppea (1642, rappresentata al teatro dei SS. Giovanni e
Paolo nel carnevale del 1643 su libretto di Gian Francesco Busenello [1598-1659]), ci possiamo
rendere conto della straordinaria evoluzione stilistica verificatasi dai tempi delle sue produzioni
mantovane. Si passa intanto dalla rappresentazione di un mondo fantastico e irreale nel quale i
personaggi sembrano rappresentazioni di ideali universali e astratti, alla rappresentazione, nelle
ultime opere veneziane, di personaggi reali, carichi di umanit con le loro passioni quali amore,
odio, tristezza, gelosia. Il recitativo monteverdiano manifesta in queste ultime opere tutta la gamma
delle sue possibilit espressive sperimentando varie soluzioni formali: si passa dalla declamazione
aperta e continua, all'inserimento di brevi aperture melodiche. Le forme chiuse hanno
principalmente ritmi ternari e sono costruite su frasi melodiche dall'andamento prevalentemente
regolare. Le situazioni patetiche e i sentimenti contrastanti di solito vengono resi attraverso motivi
cromatici, intervalli melodici minori e diminuiti e attraverso colorature.
L'incoronazione di Poppea per molti aspetti il capolavoro operistico di Monteverdi, pur non
possedendo la variet di colori orchestrali e l'ampia struttura scenica e strumentale dell'Orfeo. In
Poppea prevale una scorrevole e spontanea alternanza fra un recitativo declamato costruito sul
parlato e aperture liriche musicalmente pi mosse in corrispondenza di momenti
drammaturgicamente ed emotivamente salienti del testo, senza chiudersi in quella rigida alternanza
in arie e recitativi nettamente distinti che si stava gradualmente affermando dell'opera del tempo.
Un importante esponente della scuola operistica veneziana fu Pier Francesco Cavalli (1602-1676),
allievo di Monteverdi, organista e successivamente maestro di cappella in S. Marco. Dal 1639 al
1666 produsse musica operistica (pi di trenta opere) che fu rappresentata nei teatri veneziani; in
seguito tali opere furono eseguite da compagnie itineranti in molte citt italiane (tra cui Ancona,
Firenze, Milano, Napoli, Palermo) e a Parigi, dove Cavalli visse fra 1600 e 1602.
La musica di Cavalli, analogamente a quella di Monteverdi, utilizza una scorrevole alternanza tra
stile recitativo e stile arioso, senza quella netta differenziazione tra recitativo e aria che si realizzer
solo pi tardi. A volte le sezioni ariose intervengono in momenti particolarmente significativi del
testo alla fine della sezione in recitativo: in tal caso questi episodi erano detti "cavate" o "arie
cavate". Di solito i recitativi in Cavalli sono sostenuti soltanto dal basso continuo, mentre in rari
casi intervengono gli archi. Normalmente la funzione dell'orchestra era quella di eseguire ritornelli
tra una strofa e l'altra delle arie. Quasi tutte le arie del Cavalli sono in ritmo ternario e spesso
costruite su basso ostinato. Nel caso del "lamento", un topos operistico particolarmente diffuso in
quel periodo, tale basso era costituito da un tetracordo discendente (diatonico o cromatico) che si
ripeteva per tutta la durata dell'aria. E' il caso del celebre lamento di Climene nell'opera Egisto
(1643): la figurazione del basso, basata su un tetracordo discendente che occupa quattro battute,
viene ripetuta diciotto volte. Il "lamento" cos concepito ebbe notevole fortuna anche al di fuori del

repertorio operistico, e in particolare nella cantata da camera. D'altra parte Cavalli mostra un certo
vigore realistico anche nelle scene comiche, dando prova di conoscere a fondo anche questo tipo di
meccanismo drammatico: esemplare in questo senso il suo Ormindo (1644).
Altro compositore della scuola veneziana fu Antonio Cesti (1623-1669); delle dodici opere che ci
rimangono di lui, almeno cinque ebbero una vasta circolazione: L'Orontea (1649), l'Alessandro
vincitor di se stesso (1651), l'Argia (1655), la Dori (1657) e il Tito (1666). Questi lavori
inaugurarono diversi teatri pubblici quali quello di Pavia, Cremona, Macerata, Torino, Viterbo,
Foligno. Nelle opere di Cesti si approfondisce notevolmente la separazione tra recitativo e aria. In
questo modo Cesti contribu notevolmente alla definizione di una nuova struttura del melodramma,
in cui il centro dell'interesse musicale si sposta dal recitativo ai pezzi chiusi e lirici (aria e duetto)
conferendo ad essi una definizione pi netta, proporzioni pi ampie, e dando vita a una notevole
variet di forme: come in Cavalli abbiamo l'aria-lamento su basso ostinato e l'aria strofica con
ritornello strumentale ripetuto fra una strofa e l'altra, ma la novit pi evidente in Cesti la
prograssiva affermazione dell'aria con da capo, cio un'aria tripartita (A B A) in cui la terza parte
costituita dalla ripetizione della prima. Questa ripetizione spesso variata attraverso l'inserimento
di nuove fioriture melodiche. Questa innovazione introdotta da Cesti particolarmente importante
perch, come vedremo, l'aria col da capo rappresenter la struttura portante dell'opera seria, ma
anche dell'opera buffa, in tutto il secolo successivo.
Nonostante la grande diffusione dell'opera in diverse citt italiane grazie all'apertura di moltissimi
nuovi teatri pubblici, Venezia continu per tutta la seconda met del secolo ad essere il principale
centro di produzione operistica in Italia. Altri compositori importanti oltre Cavalli e Cesti furono
Carlo Pallavicino (ca. 1630-1688). Antonio Sartorio (ca. 1620-1681), Giovanni Legrenzi (16261660), Pietro Andrea Ziani (ca. 1620- 1684), Carlo Francesco Pollarolo (1653-1729). Il lavoro pi
importante di Sartorio fu l'opera seria Adelaide (1672), mentre Legrenzi si distinse nel genere
eroicomico, in cui si alternavano scene serie a scene comiche. Le sue opere principali furono Totila
(1677) e Il Giustino (1683).
Molte opere di compositori veneziani furono rappresentate anche in altre citt italiane (Bologna,
Roma, Napoli, Milano, Siena, Genova, Reggio Emilia, Udine) e anche all'estero. Molti compositori
alternarono la loro attivit in Italia con soggiorni all'estero: il caso di Carlo Pallavicino (16301688) che lavor principalmente a Dresda e Agostino Steffani che, fra l'altro, lavor a lungo a
Monaco di Baviera e ad Hannover.
Verso la fine del secolo il ruolo guida della produzione operistica passer da Venezia a Napoli,
dove l'opera fu introdotta dalla compagnia di Febiarmonici che vi rappresentarono alcune opere
veneziane. Primi compositori napoletani di qualche rilievo furono Francesco Cirillo (1632-1656), e
Francesco Provenzale (1627-1704).
6. L'opera in Francia tra Sei e Settecento
6.1 Introduzione
Nel corso del Seicento e del Settecento l'opera italiana si diffuse e si afferm in tutta Europa
diventando l'opera per eccellenza sia nella struttura musicale sia nell'uso della lingua italiana.
Tentativi di organizzare un'opera "nazionale" furono fatti in Germania, soprattutto ad Amburgo, e in
Inghilterra dove emerge la figura isolata di Henry Purcell. L'unico paese che riuscir a creare un
tipo di opera autoctona completamente svincolata dal modello italiano fu la Francia.
L'opera italiana era approdata in Francia grazie al matrimonio di Maria de' Medici con il re Enrico
IV. In seguito il Cardinal Mazarino, nel tentativo di italianizzare la cultura francese chiam alla
corte parigina numerosi compositori, librettisti e operatori teatrali italiani. Furono cos rappresentate
l'Orfeo, opera del compositore di scuola romana Luigi Rossi che era arrivato a Parigi al seguito
della famiglia Barberini, il Serse e l'Ercole amante di Cavalli.
Le caratteristiche dell'opera italiana del tempo, per la sua irrazionalit, per la complessit degli
intrecci difficilmente comprensibili e l'incoerenza drammatica dovuta al disinvolto alternarsi di

episodi seri ed episodi comici poco si confacevano per allo spirito francese e ai gusti della classe
intellettuale di corte. Inoltre non si capiva la struttura musicale costituita da un noioso succedersi di
arie e recitativi, ma soprattutto non si accettava l'uso della voce innaturale e astratta dei castrati.
Questa insoddisfazione unita al forte sentimento nazionalistico tipico dei francesi port alla
creazione di un tipo di opera in lingua francese con caratteristiche musicali e drammaturgiche
proprie.
6.2 Il Ballet de cour e la Comdie-ballet
Il nuovo tipo di spettacolo operistico si innest in Francia su due generi autonomi come il balletto e
la tragedia parlata che in Francia godevano di una lunga e gloriosa tradizione. Il ballet de cour era
un genere di spettacolo che faceva parte integrante del cerimoniale di corte: esso era caratterizzato
da argomenti mitologici, personaggi allegorici la cui funzione era ovviamente quella di esaltare la
monarchia, sfarzo nelle scene e nei costumi, l'uso di cori omofonici e il rispetto nei ritmi musicali
della metrica della versificazione francese. Un esempio tipico di questo tipo di spettacolo fu Circ
ou le Balet comique de la Royne (comique ha qui significato generico di "drammatico")
rappresentato a corte nel 1581 per festeggiare il matrimonio di Maria di Lorena, sorella della regina,
con il duca di Joyeuse. Il soggetto ovviamente basato sulla figura della maga Circe i cui
incantesimi vengono interpretati in chiave allegorica: i sovrani francesi avrebbero dovuto acquistare
un potere magico attraverso la sconfitta della maga. Autori della musica furono Jacques Salmon e
Lambert de Beaulieu, e il coreografo fu il ballerino Baldassarre de Belgioioso.
Dagli elementi derivati dal ballet de cour il drammaturgo Molire e il musicista Jean- Baptiste
Lully (1632-1687) idearono la cosiddetta comdie-ballet, cio una commedia infarcita di entres di
balletto e brani vocali corali e solistici (airs) i cui argomenti erano leggeri, prevalentemente amorosi
e satirici. Un tipico esempio di questo genere Le bourgeois gentilhomme del 1670.
6.3 Lully e la tragdie-lyrique
Ufficialmente l'opera francese ebbe inizio con la fondazione dell'Acadmie Royale de Musique,
avvenuta nel 1669 sotto la direzione del librettista Pierre Perrin (ca. 1620-1675) e del compositore
Robert Cambert (ca. 1627-1677) che ebbero l'esclusiva di comporre e rappresentare opere
interamente cantate. Frutto di questa collaborazione furono le opere a carattere pastorale Pomone e
Les peines et les plaisirs. In seguito al fallimento della gestione di Perrin e Cambert la direzione
dell'Acadmie e quindi il monopolio delle esecuzioni d'opera furono affidate al gi citato JeanBaptiste Lully. Italiano di nascita, giunse a Parigi nel 1646, a 14 anni. Alla sua straordinaria
personalit si deve l'ideazione della struttura tipica dell'opera nazionale francese che venne a
rappresentare la sintesi di tutti i generi ampiamente collaudati in Francia: cio il ballo, la tragedia
classica nazionale di Thomas Corneille e Jean Racine, la pastorale e gli apparati scenotecnici tratti
dall'opera italiana. Tale modello di opera prese il nome di Tragdie-lirique o tragdie-en musique.
Il librettista principale di Lully fu il commediografo Philippe Quinault che tratt principalmente
temi mitologici e pastorali. Il primo esempio di tragdie-lirique risale al 1673: Cadmus et Hermion;
su testo di Quinault; dello stesso librettista sono le opere Alceste (1674), Thse (1675), Atys
(1676), Isis (1677). Psych (1678) e Bellrophon (1678) sono su testo di T. Corneille e B. le Bovier
de Fontenelle; ancora Proserpine (1680), Perse (1682), Phaton (1683), Amadis (1684), Roland
(1685), Armide (1686) sono su libretto di Quinault; infine Acis et Galathe ("pastorale hroique"
(1686) e Achille et Polyxne (completata da Pascal Collasse) sono su libretto di J. G. de
Campistron.
Come abbiamo gi detto, nelle intenzioni di Lully e di Quinault la tragdie-lirique mantiene le
caratteristiche drammaturgiche della tragedia parlata della tradizione francese, infatti Quinault
attinse a piene mani da Corneille e Racine spesso usando le loro stesse fonti classiche. Il verso usato
era quello alessandrino (verso di dodici sillabe con cesura dopo la sesta) alternato a volte a ottonari
e novenari per rendere pi scorrevole il ritmo. Vennero rispettate le unit aristoteliche di tempo e di
luogo e, a partire dal Thse (1675), vennero eliminate le scene comiche. Tra le regole della

tradizione drammaturgica venne riaffermata quella della liaison de scne, cio la regola secondo cui
nel corso dell'opera veniva realizzata una sorta di continuit lasciando sempre in scena almeno un
personaggio presente nella scena precedente. Dalla tradizione drammaturgica francese Lully eredita
anche l'articolazione in cinque atti preceduti da un prologo: quest'ultimo spesso era cantato da dei,
ninfe, dmoni, figure allegoriche (il Sole, la Vittoria, la Gloria) con la funzione di glorificare il re e
la monarchia.
Elemento strutturale base della tragdie lyrique di Lully il recitativo, che ha la funzione di
imprimere al dramma un carattere di continuit e unitariet: non si tratta del recitativo di tipo
italiano vicino al parlato comune, ma piuttosto dello stile declamatorio tipico della tragedia recitata
francese. Al fine di seguire il ritmo naturale del testo Lully alterna impercettibilmente misure
binarie e ternarie producendo in questo modo un fluire naturale della linea melodica. Ovviamente
tale naturalezza di espressione si basa anche su una struttura rigorosamente sillabica, priva cio di
fioriture e ornamentazioni superflue in questo contesto.
Gli interventi dell'intera orchestra di solito si limitano a momenti particolarmente patetici o
appassionati, mentre di solito l'accompagnamento affidato soltanto agli strumenti che realizzano il
basso continuo. Momenti di grande eccitazione emotiva sono resi con pause, sincopi, valori puntati,
esclamazioni affannate, salti melodici inusitati di sesta minore e di quinta diminuita.
Nella tragdie lirique l'air molto simile, nello stile, al recitativo nel quale spesso viene integrato
in maniera analoga a quanto avviene con l'aria cavata dopo un recitativo nell'opera italiana. Come il
recitativo il suo stile quasi sempre sillabico e aderente alle sfumature della declamazione francese.
Gli airs di Lully sono in genere accompagnati dai soli strumenti del basso continuo e spesso si
compongono di una frase melodica che ritorna due o pi volte, preceduta da un ritornello
strumentale eseguito da due violini e basso continuo. Altra struttura adoperata quella bipartita
(AAB), tipica dell'air de cour. Numerosi sono i pezzi vocali, specialmente duetti, basati su una
scrittura prevalentemente omofonica, che spesso si avvalgono di ritmi di danza.
Un elemento fondamentale della tragdie lulliana rappresentato dai cori che spesso sono
funzionali allo svolgimento del dramma come avviene, per esempio, nella scena del sacrificio in
Bellrophon (III/5) (1679) e in molte scene d'oltretomba, di magia e incantesimo. Tuttavia a volte i
cori possono avere anche la stessa funzione, esterna al dramma, di commento dell'azione, cos come
avveniva nell'antica tragedia greca. Un esempio di questo uso del coro dato dalla scena
dell'assassinio di Sangaride, in Atys. La tipica scrittura corale usata da Lully quella omoritmica e
antifonale a quattro parti piuttosto che contrappuntistica.
L'orchestra di Lully costituita da cinque parti di archi (due parti di violino, due di viola, una di
basso), e un gruppo di fiati (flauti, oboi, fagotti) usati sia come sostegno agli archi, sia in maniera
autonoma. L'orchestra spesso era divisa in due gruppi: un petit choeur (corrispondente al concertino
della musica italiana), costituito da 10 strumentisti (violini, flauti, strumenti di basso continuo) che
accompagnava gli airs; e un grand choeur (corrispondente al concerto grosso) formato da 24
strumenti (archi, fiati e strumenti del basso continuo). Lully usa spesso l'orchestra a scopo
descrittivo, una tendenza questa molto presente nella musica francese, non soltanto operistica (basti
pensare alla letteratura clavicembalistica tra Sei e Settecento).
Particolarmente importante nell'opera francese l'ouverture, un brano strumentale che veniva
eseguito prima dell'opera stessa con funzione di introduzione. L'ouverture di Lully una
introduzione solenne e brillante: essa divisa in due movimenti, spesso ritornellati: il primo lento
e maestoso, in metro binario e in ritmo puntato; il secondo veloce, in metro ternario e in stile
fugato o imitativo. Molti compositori si servirono del modello stabilito da Lully, detto anche "alla
francese": tra essi G. F. Haendel in molte sue opere e J. S. Bach in diverse composizioni
strumentali.
Il modello formale e lo stile musicale della tragdie-lirique di Lully ebbero una notevole influenza
sui compositori francesi delle generazioni successive. Le sue opere rimasero in repertorio a lungo,
fin quasi alla fine del Settecento. Anche i testi di Quinault continuarono a godere di una certa
fortuna per tutto il Settecento. Il libretto di Armide rappresent nel Settecento, come vedremo, un

modello tipico di coerenza drammatica in alternativa all'imperante drammaturgia metastasiana: si


vedano ad esempio l'Armida viennese Tommaso Traetta (1761), l'Armida abbandonata napoletana
di Niccol Jommelli (1770)con e l'Armide parigina del 1777 di Gluck.
La fama di Lully confermata anche dalle numerose parodie poetiche (allusive e satiriche) adattate
a melodie tratte da sue opere (si volevano porre in ridicolo gli eroi e la pompa regale delle tragdies
lyriques). Tali composizioni venivano denominate vaudevilles, che divennero l'elemento base della
opra-comique, un genere di spettacolo che prevedeva l'alternanza di parti recitate e parti cantate
che si diffuse in Francia a partire dal 1690 circa.
6.4 L'Opra-ballet
L'epoca post-lulliana caratterizzata dall'affermarsi di un nuovo genere di spettacolo, l'opra-ballet,
il cui prototipo rappresentato dall'Europe galante (Parigi 1697) di Andr Campra (1660-1744),
che si andr ad affiancare alla perdurante tragdie-lirique. Ci avviene in corrispondenza con
l'avvento del regno di Luigi XV che aveva determinato un sensibile cambiamento nel clima politico
e sociale di corte. Infatti a differenza del ballet de cour, mancava nell'opra-ballet un'azione
drammatica coerente e continua; veniva eseguita da dilettanti ed era completamente accompagnata
dalla musica. Si trattava quindi di una sequenza di quadri riconducibili genericamente a un tema
comune (le stagioni, le nazioni, ecc.) che doveva avere la funzione di pretesto per balli, arie, cori,
effetti scenici di vario genere.
Altro sintomo del cambiamento stilistico avvenuto in questo periodo fu l'infiltrazione di
caratteristiche italiane, tendenza questa che fu rigorosamente contrastata dai critici conservatori, i
quali rimasero fedeli alla pura tradizione dell'opera francese cos come l'aveva concepita Lully. Il
conflitto tra gli stili francese e italiano provoc nel corso del Settecento, querelles e polemiche
molto dibattute. Nel momento in cui l'autorit del modello lulliano come proiezione del potere
assoluto della monarchia venne meno, nell'opera francese cominciarono a crearsi spazi per
l'infiltrazione di elementi stilistici alternativi alla tradizione francese, quindi italiani: inserimento di
intere arie cantate in italiano o di ariettes con testo francese ma musica in stile italiano, l'uso
occasionale della forma col da-capo, e l'uso di certe innovazioni armoniche estranee all'idioma di
Lully ma comuni nella musica di compositori italiani, come modulazioni pi libere, l'uso
abbondante di appoggiature, accordi di settima, alterazioni cromatiche e una scrittura vocale pi
fiorita o espressiva.
6.5 Rameau
Jean-Philippe Rameau (1683-1764) rappresenta la figura centrale dell'opera
francese del Settecento. Fu inizialmente teorico, organista e compositore di musica strumentale.
Soltanto a cinquant'anni (1733) rappresent la sua prima opera teatrale, la tragdie-lyrique
Hippolyte et Aricie, su libretto dell'Abb Pellegrin, grazie al contributo del mecenate AlexandreJean-Joseph Le Riche de La Pouplinire presso il quale lavorava. Il successivo grande successo fu,
nel 1735, l'opra-ballet Les Indes galantes. A queste opere seguirono pi di venti altri lavori
teatrali, tra cui Castor et Pollux (1737), Dardanus (1739), Zoroastre (1749) e gli opra-ballets Les
Ftes d'Hb (1739), Plate (1745) e Zas (1748).
La figura e la produzione operistica di Rameau furono costantemente al centro di aspre polemiche:
a Parigi si crearono addirittura due opposti partiti: uno favorevole a Rameau (i "ramisti"), l'altro (i
"lullisti") a lui contrario perch lo accusava di aver sovvertito la tradizione dell'opera francese,
rappresentata appunto dall'opera di Lully. I lullisti consideravano la musica di Rameau troppo
complicata e priva di naturalezza. Rameau cerc di giustificarsi nell'introduzione a Les Indes
galantes, dicendo che aveva tentato di imitare Lully, non come un copista servile ma, come aveva
fatto lui, prendendo la natura stessa a modello in tutta la sua bellezza e semplicit.
Successivamente Rameau fu coinvolto, suo malgrado, in un'altra polemica, basata sulla
contrapposizione della musica francese e quella italiana. Questa querelle fu chiamata Guerre des
Bouffons, e in essa fu proprio Rameau a diventare il paladino di coloro che lo avevano

precedentemente accusato di non scrivere secondo il modello di Lully, dato che aveva ufficialmente
preso una posizione contro la fazione favorevole alla musica italiana capeggiata da J. J. Rousseau.
In effetti dal punto di vista musicale le opere di Rameau si pongono sulla scia della grande
tradizione lulliana: stesso uso della declamazione appropriata e ritmicamente precisata dei recitativi;
stessa alternanza di recitativi, sezioni di arie melodiche pi tradizionali, cori, interludi strumentali;
frequente introduzione di scene di divertissement; e, nelle prime opere, lo stesso tipo di ouverture.
D'altra parte si devono rilevare anche numerosi cambiamenti sostanziali. La specificit di Rameu si
pu ravvisare nella natura delle linee melodiche che ben radicata nell'armonia, per cui i tracciati
melodici spesso ribadiscono le triadi armoniche a conferma delle sue teorie contenute nel celebre
Trait de l'harmonie. Su questa stessa linea, Rameau, a differenza di Lully, estende la sua armonia
diatonica verso procedimenti cromatici ed enarmonici.
Anche nelle opere di Rameau, come in quelle di Lully, rileviamo un minore contrasto tra lo stile del
recitativo e quello dell'aria rispetto a quanto avveniva nell'opera italiana. Le arie sono bipartite, col
da capo o nella forma a rondeau. Manca in esse quella intensit espressiva che caratterizzava le arie
italiane, perch mantengono piuttosto una certa oggettivit e freddezza emotiva, pervase di una
certa vivacit favorita dalla ricca ornamentazione.
I cori sono ancora pi numerosi che in Lully, hanno carattere brillante e sono utilizzati spesso in
funzione drammaturgica.
Rameau trasfer nell'opera la sua passata esperienza di musicista strumentale, esperienza che si
rileva nelle gi citate ouvertures, nelle danze, e nelle sinfonie di carattere descrittivo. Per quanto
riguarda l'ouverture, se all'inizio Rameau mantenne lo schema di Lully ampliandone per il secondo
movimento, successivamente speriment la forma tripartita tipica della sinfonia italiana. Infine da
rilevare in esse la presenza di temi che saranno poi usati nell'opera anticipando un procedimento
che diventer consueto, come vedremo, nell'opera "riformata". Altro elemento ricorrente sono i
balli, dal minuetto alla ciaccona che ovviamente si collegano all'antica tradizione coreutica
francese.
7. L'opera italiana nel primo Settecento
7.1 Introduzione
Fra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento assistiamo alla codificazione di un tipo d'opera
profondamente diverso rispetto a quello che si era diffuso nel corso del Seicento. Abbiamo visto
come il passaggio dall'opera di corte all'opera di tipo impresariale aveva rappresentato un momento
decisivo di svolta nella storia dell'opera, producendo un interesse diffuso per questo genere di
musica a diversi livelli sociali. Abbiamo anche visto come, aldil dell'importante esperienza
francese e dei timidi tentativi tedesco e inglese, l'opera italiana quella che nel Seicento si afferma
con un linguaggio che potremmo definire sovranazionale. All'inizio del Settecento, dunque, uno
solo lo stile che domina in tutta l'Europa occidentale, con la sola esclusione della Francia, uno stile
che, con le dovute differenze esistenti fra i vari paesi e i diversi compositori, presentava dappertutto
certe caratteristiche fondamentali comuni.
Questo tipo di opera per cominciava a soffrire alla fine del Seicento di una certa arretratezza. In
particolare dal punto di vista drammaturgico. Infatti l'opera aveva completamente perso quella
coerenza drammatica e quelle caratteristiche nel segno delle quali era nata a Firenze all'inizio del
secolo. Infatti le dimensioni si erano enormemente ingrandite, gli intrecci si erano complicati a
dismisura tanto da rendere quasi impossibile seguirne la traccia; il numero dei personaggi era
aumentato enormemente e la loro presenza non sempre era funzionale allo svolgimento dell'azione.
Inoltre era frequente una disinvolta alternanza di scene serie e scene comiche. Tutto questo
ovviamente pregiudicava la dignit letteraria e drammaturgica di queste opere che, oltretutto
subivano un confronto umiliante con la parallela, aulica produzione francese. Una riforma
dell'opera doveva quindi necessariamente partire dalla rigenerazione del libretto.

7.2 La riforma di Zeno e Metastasio


I primi passi in questa direzione furono compiuti da Silvio Stampiglia (1664-1725), ma i due poeti a
cui va principalmente associata questa riforma furono Apostolo Zeno (1668-1750) e Pietro
Metastasio (1698-1782). Fu soprattutto Zeno che, per influenza del teatro francese, si mostr
favorevole alla scelta di soggetti storici ma contrario a intrecci non completamente attendibili,
nonch a interventi soprannaturali, macchine, episodi comici superflui, declamazione enfatica, tutti
elementi che erano molto diffusi nel Seicento. Egli comunque, pur non eliminando del tutto le scene
e i personaggi comici nell'ambito di un'opera seria, le colloc alla fine di ciascun atto, eliminando in
questo modo l'incoerenza generata dalla continua alternanza fra serio e comico. Questo processo fu
portato a compimento da Metastasio il cui modello di libretto rimase assolutamente incontrastato
per tutto il Settecento.
Nel 1730 Metastasio divenne Poeta Cesareo alla corte di Vienna, succedendo a Stampiglia e a Zeno
che avevano occupato quella carica rispettivamente dal 1705 e dal 1718. I suoi 27 drammi per
musica e le altre composizioni come feste teatrali, serenate, cantate celebrative, furono musicati, nel
Settecento, oltre un migliaio di volte. I drammi di Metastasio traggono i soggetti principalmente
dalla storia classica, greca e romana, prevale nettamente il lieto fine (infatti il finale tragico
presente soltanto nella Didone abbandonata, nel Catone in Utica e in Attilio Regolo). Metastasio
mostra di adeguarsi alle regole della grande drammaturgia di tradizione, rispettando le unit
aristoteliche, ricorrendo alla liason de scne per dare il senso della continuit al dramma. La cifra
specifica del dramma metastasiano potrebbe essere individuata nella creazione di un meccanismo
drammatico in grado di soddisfare gli ideali razionalistici del tempo, ma anche di contenere gli
elementi lirici capaci di predisporre un incontro particolarmente organico tra poesia e musica.
7.3 Struttura del dramma metastasiano
Dal punto di vista formale il libretto di Metastasio si divide in tre atti ognuno dei quali suddiviso in
scene articolate in due parti nettamente distinte nella loro funzione drammaturgica: il recitativo e
l'aria. Il recitativo era costituito da versi sciolti (principalmente settenari ed endecasillabi); l'aria era
articolata di solito in due strofe, spesso di quattro versi ciascuna. Dal punto di vista drammaturgico
recitativo e aria avevano una diversa funzione in quanto al recitativo veniva affidato il ruolo
dinamico di portare avanti l'azione, mentre di solito le arie avevano la funzione statica di fermare un
particolare stato d'animo o un particolare affetto. Quindi nel recitativo il cantante
fondamentalmente un attore che interagisce e dialoga con gli altri personaggi presenti in scena;
nell'aria invece un personaggio che vive una emozione individuale che esprime rivolgendosi al
pubblico. Dal punto di vista quantitativo, il recitativo quello che occupa nel libretto la maggior
parte della scena, mentre l'aria si concentra in pochi versi. Vedremo come questa disparit
quantitativa verr compensata e riequilibrata dalla realizzazione musicale. Dunque nella struttura
del libretto assistiamo ad una regolare alternanza di azione, cio il momento dinamico, e lirismo,
cio il momento statico. Dal punto di vista della struttura drammaturgica c' una maggiore tensione
nel recitativo rispetto all'aria, mentre dal punto di vista musicale, come vedremo, si verifica una
situazione opposta: infatti l'interesse e la tensione musicale nei recitativi molto limitata, mentre
aumenta sensibilmente nell'aria. Questo schema apparentemente rigido reso in modo fluido da
Metastasio per la musicalit dei versi del recitativo e per la variet metrica nelle arie.
Da tutto ci possiamo dedurre che l'aria, come espressione statica di un affetto, rappresenta il fulcro
dell'opera del Settecento intorno al quale tutti gli altri elementi, a partire dal recitativo, si limitano
ad avere una funzione di raccordo. Si venne a creare una sorta di campionario espressivo, spesso
codificato dalla trattatistica del tempo, relativo a diverse situazioni affettive suggerite dal testo e
dalla ambientazione scenica. Diamo ora alcuni dei tipi pi ricorrenti: aria di sdegno o d'ira, aria
cantabile, aria di sortita, aria di guerra, aria di caccia, del sonno, aria con catene, aria di paragone
(in questo ultimo caso la situazione affettiva del personaggio viene paragonata ad una particolare
situazione naturalistica).
Tale mancanza, almeno apparente, di necessit drammatica nell'aria d'opera di questo periodo cre

una situazione abbastanza singolare: ogni qualvolta l'opera veniva ripresa in ambiente diverso
rispetto a quello per cui era stata concepita, avveniva quasi regolarmente che un certo numero di
arie venisse sostituito con altre portatrici, per, dello stesso "affetto" generico: cio se la situazione
drammatica contenuta in un recitativo comportava un atteggiamento di ira da parte di un
personaggio, l'aria successiva contenuta nella versione originale poteva essere sostituita con un'altra
con testo diverso ma con contenuto affettivo identico. Questo era dovuto alla necessit di adeguarsi
al gusto del pubblico, ma soprattutto al bisogno dei cantanti di esprimere al meglio le loro
possibilit: erano proprio loro quindi che sostituivano le arie originali con arie che facevano parte
del loro personale "bagaglio" (le cosiddette "arie di baule") e che avevano determinate
caratteristiche vocali che ben si confacevano alle loro possibilit tecniche. Una stessa opera quindi
quasi mai, dopo la prima rappresentazione, veniva replicata in un teatro e in una citt diversa
esattamente nello stesso modo. Un caso limite era il cosiddetto pasticcio, cio opere costituite da
pezzi di autori vari che spesso non erano nemmeno specificati nel libretto. A volte capitava che
ciascuno dei tre atti fosse composto da un autore diverso.
E' necessario precisare che i pi aggiornati studi sull'opera seria del Settecento tendono a
ridimensionare questo forte divario fra recitativo come momento drammaturgico-narrativo e aria
come momento statico e totalmente decontestualizzato rispetto alla vicenda narrata. Studi recenti
hanno riconosciuto queste caratteristiche soltanto nelle cosiddette arie di paragone, nella quali
realmente manca qualsiasi riferimento specifico alla situazione drammatica, ma viene soltanto
rappresentato in maniera estremamente generica uno stato d'animo paragonandolo ad una immagine
naturalistica (per esempio l'aria metastasiana Son qual fiume che gonfio d'umori dalla Didone
abbandonata rappresenta il carattere irruento e rabbioso del personaggio di Iarba). In altri casi, al
contrario, si voluto scorgere un sottile legame, magari di tipo linguistico o semantico che in
qualche modo, anche se non del tutto esplicito, rende assolutamente necessarie e insostituibili
determinate arie in taluni punti dell'opera.
7.4 Il recitativo e l'aria
Musicalmente recitativo e aria venivano sottoposti a un trattamento radicalmente diverso. Il
recitativo poteva essere secco, cio sostenuto soltanto dal basso continuo realizzato dal cembalo,
oppure accompagnato o orchestrato con interventi di tutta l'orchestra in accordi tenuti o in scale e
arpeggi fra un intervento e l'altro della voce. Nella prima parte del Settecento l'uso del recitativo
accompagnato era limitato a momenti particolarmente significativi del testo come, ad esempio, le
cosiddette scene d'ombra, quelle cio in cui una divinit o un defunto appariva in sogno ad un
personaggio, provocando in esso una situazione di particolare tensione emotiva. In altri casi il
recitativo viene realizzato con l'accompagnamento orchestrale per richiamare l'attenzione su un
punto chiave della vicenda. Particolarmente significativo l'esempio del finale della Didone
abbandonata di Metastasio: praticamente tutte le versioni musicali conosciute di questo dramma
utilizzano il recitativo accompagnato per questa scena in cui si rappresenta l'incendio della citt di
Cartagine e la regina Didone che si getta tra le fiamme.
La parte vocale del recitativo, sia secco sia accompagnato, era caratterizzata da una linea melodica
essenziale che procedeva principalmente per suoni ribattuti, per gradi congiunti o per piccoli salti e
con una struttura rigorosamente sillabica per favorire la immediata comprensione del testo dato che,
come abbiamo detto, nel recitativo veniva portata avanti l'azione.
Nell'aria, invece, si concentrava il maggiore sforzo nella elaborazione musicale. Dal punto di vista
formale, ancora nel tardo Seicento e nei primi anni del Settecento riscontriamo l'uso di ariette
strofiche, ma la struttura che si impone definitivamente all'inizio del secolo sar senz'altro la
cosiddetta aria col da capo. Si tratta di un tipo di aria in cui prevista una sezione musicale A
corrispondente alla prima strofa del testo e una sezione B corrispondente alla seconda strofa. Alla
fine di B nella partitura musicale si trovava l'indicazione "da capo", il che prevedeva la ripetizione
di tutta la sezione A. Di solito questa ripetizione non veniva realizzata dal cantante in maniera del
tutto identica alla prima formulazione, perch l'interprete poteva inserire diverse ornamentazioni,

chiamate anche colorature, in corrispondenza di determinate sillabe, colorature che il cantante


improvvisava adattandole alle proprie capacit e caratteristiche vocali. In epoca metastasiana questa
struttura si ampli in un organismo pentapartito (AA'BAA') cos articolato:
- Introduzione strumentale
- sezione musicale A
(prima strofa del testo)
- interludio strumentale
- sezione musicale A'
(ripetizione della prima strofa del testo con musica leggermente diversa ma di tipo
analogo ad A)
- interludio strumentale
- sezione musicale B
(seconda strofa del testo, con musica del tutto diversa e spesso con carattere
contrastante)
- Da capo
(AA' con colorature e variazioni vocali realizzate all'impronta dal cantante).

Si tratta ovviamente di uno schema di massima che poteva essere suscettibile di variazioni. A volte
alla dicitura "da capo" si sostituiva la dicitura "dal segno", il che rimandava non all'inizio dell'aria
ma ad un determinato segno che in genere era posto subito dopo l'introduzione strumentale e quindi
all'inizio della parte vocale vera e propria.
Dal punto di vista armonico la struttura dell'aria era, almeno nella prima met del Settecento,
estremamente semplice e prevedibile, con modulazioni ai toni vicini: alla dominante in caso di aria
in tonalit maggiore, o al relativo maggiore, di solito, nel caso di arie in minore.
7.5 La sinfonia "avanti l"opera"
Altro elemento che caratterizza l'opera tra Sei e Settecento e la sua evoluzione la sinfonia od
ouverture, cio il brano esclusivamente strumentale premesso all'opera stessa. Proprio il
cambiamento occorso nella struttura di questo brano indicativo della profonda trasformazione
dell'opera in questo periodo. La forma pi arcaica era l'ouverture cosiddetta francese, abbozzata dai
primi rappresentanti della scuola veneziana, portata alla sua forma definitiva da Lully e adottata
anche, nelle linee essenziali, da Agostino Steffani fino ad Haendel. In una seconda fase, e in
particolare nelle opere mature di Alessandro Scarlatti, prevalse l'uso della sinfonia cosiddetta
italiana. La differenza fra i due tipi per lo pi stabilita dall'ordine dei movimenti. L'ouverture
francese infatti inizia (e spesso anche finisce) con un tempo lento, mentre la sinfonia italiana
comincia con uno veloce, ne ha uno lento in mezzo e termina con un allegro o un presto. La reale
differenza per di natura prettamente musicale. L'ouverture francese forma tipica dell'ultimo
Barocco, possiede un tessuto armonico piuttosto ricco, caratterizzato da un procedimento quasi
contrappuntistico delle varie parti, e da un impeto dovuto al fatto che il basso e le armonie si
muovono secondo una progressione non periodica. La sinfonia italiana invece una forma che
rappresenta uno dei lontani prodromi del classicismo musicale; il suo tessuto armonico non
particolarmente ricco e ha un intenso movimento melodico delle parti superiori, le quali sono
accompagnate da semplici e stereotipate formule armoniche. L'ouverture francese guarda al passato,
la sinfonia italiana al futuro; anzi si pu dire che quest'ultima presenti le caratteristiche di tessuto
armonico, di forma, di natura del materiale tematico e di tecniche di sviluppo dei motivi che alla
fine porteranno alla definizione stilistica della sinfonia classica.
7.6 Altri elementi dell'opera
Nella prima met del Settecento alcuni elementi come i pezzi d'insieme e i cori occupavano uno
spazio piuttosto limitato nell'opera teatrale italiana. I pezzi d'insieme, quando c'erano, erano pi che
altro duetti, caratterizzati di solito da una struttura simmetrica ed equilibrata fra le due parti. Il coro
ebbe un certo peso soprattutto in quelle composizioni nate con intenti esplicitamente celebrativi,
quindi non proprio opere in senso stretto ma "feste teatrali", che nella parte finale contenevano,
anche nel testo, un esplicito riferimento all'occasione per cui erano state composte.

7.7 I compositori: Scarlatti e Hndel


E' estremamente difficile dare un quadro esaustivo di tutti i musicisti che si dedicarono
esclusivamente o in massima parte al genere operistico tra la fine del Seicento e la prima met del
Settecento, anche perch l'opera seria si cristallizz in determinate formule musicali e stilistiche
piuttosto ripetitive e convenzionali all'interno delle quali piuttosto difficile individuare una cifra
stilistica specifica di singoli compositori A titolo esemplificativo comunque prenderemo in esame
due figure basilari della storia dell'opera di questo periodo che ne rappresentano due fasi
immediatemente successive l'una all'altra: Alessandro Scarlatti e Georg Friedrich Hndel.
Alessandro Scarlatti (Palermo, 1660-Napoli, 1725) viene solitamente indicato nella storia dell'opera
come il fondatore della cosiddetta scuola napoletana. Le pi recenti ricerche, tuttavia, tendono a
dimostrare che la sua importanza in questo senso stata probabilmente inferiore a quanto si
credesse, e che sarebbe forse meglio considerarlo l'ultimo rappresentante di una vecchia tradizione
piuttosto che l'iniziatore di una nuova tendenza. Scarlatti rimase a Napoli tra il 1685 e il 1702, e poi
ancora per brevi periodi fino al 1709, scrivendo opere non solo per quella citt ma anche per Roma,
Venezia e Firenze. Non si sa esattamente quante opere abbia composto, ma si ha notizia di circa 67,
di cui poco pi della met ancora esistenti, e alcune incomplete. Scarlatti esord a Roma con l'opera
Gli equivoci nel sembiante (1679) e concluse la propria carriera come operista con la Griselda
sempre a Roma nel 1721.
Fra le sue opere ricordiamo ancora La Statira (1690), Il Ciro (1712), Marco Attilio Regolo (1719),
Il Tigrane (1715). La produzione di Scarlatti si pu dividere grosso modo in tre periodi
contraddistinti da elementi stilistici diversi. Nel primo periodo (fino al 1696 circa) Scarlatti utilizza
ancora una ouverture costituita da un movimento grave seguito da due movimenti veloci, oppure
nella struttura arcaica della sonata da chiesa. Le arie adottano in massima parte la struttura col da
capo ABA, anche se questa non presenta ancora l'articolazione di ampio respiro che assumer in
seguito; inoltre esse vengono sostenute prevalentemente dagli strumenti che realizzano il basso
continuo, quindi notiamo una netta prevalenza della parte vocale su quella strumentale. Nel secondo
periodo (fino al 1706) le arie col da capo sono pi articolate e pi ricche sia nella strumentazione
sia nella linea vocale; la sinfonia "avanti l'opera" presenta la moderna tripartizione in AllegroAdagio-Allegro. Infine nel terzo periodo (fino al,1721) il linguaggio strumentale, soprattutto nella
sinfonia, diventa pi consistente, le arie sono decisamente pi sviluppate e il recitativo
accompagnato diventa una realt meno episodica rispetto al passato. Un caso esemplare in questo
senso il Telemaco rappresentato a Roma nel 1718.
Haendel stato a lungo noto quasi esclusivamente come compositore di oratori; ma in realt per 35
anni egli si dedic soprattutto a comporre e dirigere opere a Londra. La produzione operistica di
Haendel ovviamente debitrice dello stile italiano; proprio in Italia, infatti, dove soggiorn fra il
1706 e il 1710, furono rappresentate due fra le sue prime opere: il Rodrigo e L'Agrippina . Le sue
partiture sono notevoli per la grande variet di tipi di arie, che presentano sia caratteristiche di
brillante coloratura virtuosistica, sia espressioni patetiche e sofferte (come l'aria Lascia ch'io pianga
nel Rinaldo e Pianger la sorte mia nel Giulio Cesare); accanto ad arie in stile barocco maestoso
sostenute da ricchi accompagnamenti contrappuntistici, troviamo semplici melodie popolaresche o
arie interamente all'unisono con gli archi. Non tutte le arie di Haendel sono nella forma col "da
capo", e a volte nella stessa aria compaiono due affetti contrastanti. Particolarmente interessanti
sono le scene pastorali come esempi notevoli della pittura musicale della natura.
Le capacit di Haendel di rendere in musica l'essenza di uno stato d'animo o di un affetto, con
incredibile profondit poetica e suggestione, supera ogni abilit tecnica. Oltre al consueto recitativo
secco Haendel a volte, per le scene di particolare intensit o di rapidi mutamenti di affetti, adott il
recitativo accompagnato. Per questi recitativi accompagnati (come in realt per molti altri elementi
delle sue opere) Haendel trov modelli nelle composizioni di Alessandro Scarlatti. A volte questi
due tipi di recitativi sono combinati liberamente con brevi arie e ariosi (succinti brani con forma e
ritmo flessibili in stile sillabico e senza ripetizioni del testo) per dar vita ad ampi complessi di scene
che ricordano la schiettezza dell'opera veneziana del Seicento e contemporaneamente

preannunciano i caratteri che saranno di Gluck e degli altri compositori che tenteranno una riforma
dell'opera nel secondo Settecento. Le opere di Haendel, com'era tipico dell'epoca, consistono quasi
per intero di canto solistico. A volte c' una sinfonia descrittiva e in pochi lavori si trovano dei
balletti. Sono rari gli insiemi vocali per pi di due voci, come pure i cori, la maggior parte dei quali
sono, in senso stretto, degli insiemi in stile accordale, da cui si distacca soltanto un cantante.
7.8 Altri operisti del primo Settecento
Fra gli operisti attivi a Napoli immediatamente dopo Alessandro Scarlatti, ricordiamo Leonardo
Vinci (1690-1730) e Leonardo Leo (1694-1744). Vinci uno dei primi nella cui musica si possono
scorgere i tratti della nuova opera seria. Recenti studi intravedono nella sua musica segnali di un
profondo rinnovamento del linguaggio musicale. Analogo discorso si pu fare per Leonardo Leo.
Compositore estremamente prolifico fu Nicola Porpora (1686-1768), attivo a Napoli, Venezia e
anche a Londra, Dresda e Vienna e che fu anche il pi grande insegnante di canto dei suoi tempi. La
sua musica lavoro di buon artigianato e non pi esigente, in fatto di virtuosismo vocale, di quella
di altri contemporanei.
L'unico operista napoletano del tempo la cui fama tuttora immutata Giovanni Battista Pergolesi
(1710-1736). E' famoso per il suo Stabat Mater, per i suoi intermezzi comici, ma nella sua breve
vita scrisse anche opere serie, tra le quali spicca l'Olimpiade (Roma 1735, su testo di uno dei pi
famosi drammi di Metastasio).
Uno dei fenomeni pi interessanti del Settecento fu il modo in cui l'opera italiana, quella seria, ma
anche, come vedremo, quella buffa, si diffuse in tutti i paesi d'Europa. Compositori italiani, o
comunque di formazione italiana, furono chiamati a lavorare presso tutte le corti europee per una
stagione o anche per diversi anni. E' il caso di Attilio Ariosti (1666-ca. 1740) di Modena, che lavor
a Vienna, Berlino e Londra; Giovanni Battista Bononcini (1670-1747) e suo fratello Antonio Maria
(1677-1726), che lavorarono anch'essi a Vienna e Londra, Antonio Caldara, che divenne il
musicista prediletto nella Vienna di Carlo VI.
Il compositore d'opera italiana pi rappresentativo della met del secolo non fu un italiano ma un
tedesco, Johann Adolph Hasse (1699-1783). Hasse cominci la carriera come tenore presso i teatri
d'opera di Amburgo e Brunswick, studi con Porpora e Alessandro Scarlatti a Napoli dove furono
rappresentati suoi lavori prima che egli si recasse a Venezia. Qui conobbe e spos la famosa
cantante Faustina Bordoni alla quale fu unito anche nella carriera. Dal 1731 assunse la direzione del
teatro di Dresda e la moglie quello di prima donna, e contemporaneamente faceva frequenti viaggi
per presentare le sue opere (fra l'altro a Londra, Varsavia, Vienna). Fra il 1721 e il 1771 Hasse
scrisse pi di 50 opere, la maggior parte delle quali su libretto di Metastasio, a cui fu legato da
profonda amicizia. Ancora oggi Hasse viene considerato il pi puro e perfetto rappresentante e
interprete delle idealit e della concezione drammaturgica metastasiana: egli comprese
profondamente la natura dei libretti del Poeta Cesareo e scrisse una musica che ne rispettava le
esigenze, senza lasciarsi sfiorare da velleit di innovazione. Le sue arie sono modelli di una
sensibilit musicale che sa tradurre ogni "cosa" in bellissime melodie dal fluire ininterrotto,
comunque perfette. Le sue opere furono date in tutta Europa, e nei suoi anni migliori veniva
acclamato come il pi grande compositore vivente di musica vocale.
Lo stile di Hasse caratterizzato da una grande facilit nella creazione di melodie eleganti e
cantabili. Nella sua musica per si trovano anche elementi che lasciano intravedere i cambiamenti
in arrivo. Le sue arie, sebbene ancora quasi tutte col da capo (anzi, con il "dal segno"), sembrano
seguire un'idea di sviluppo piuttosto che un meccanico ripetersi di temi. Negli ultimi lavori anche lo
schema col da capo diviene pi elastico; inoltre fa un uso piuttosto diffuso del recitativo
accompagnato. Al di l di questo, comunque, Hasse non esita a superare lo schematismo della
successione recitativo-aria quando lo richieda la situazione drammatica: il caso, per fare solo un
esempio, della scena della battaglia alla fine del secondo atto del Trionfo di Clelia, opera
rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1762: si tratta di un'ampia unit drammatica
contenente ben tre scene legate insieme musicalmente e drammaturgicamente senza soluzione di

continuit. Un altro elemento parzialmente innovativo in Hasse il modo di trattare l'orchestra: in


alcune delle sue ultime opere possiamo rilevare infatti un uso pi consapevole delle diverse sezioni
dell'orchestra, soprattutto quella dei fiati che qualche volta si affranca dal consueto ruolo di
raddoppio della voce.
7.9 I cantanti
Autentici protagonisti dell'opera del Settecento sono i cantanti, in particolare i castrati e i grandi
soprani donne. E' diventato quasi un luogo comune quello di sottolineare le numerose licenze, se
non gli abusi che gli esecutori perpetravano ai danni dell'opera ogni qualvolta questa veniva ripresa.
Come abbiamo gi detto questo senz'altro vero, dato che i cantanti spessissimo sostituivano le arie
con brani a loro pi confacenti, ma soprattutto variavano il "da capo" delle arie stesse in maniera
spesso del tutto personale eseguendo le cosiddette colorature nella maniera musicalmente pi adatta
alle loro caratteristiche tecnico-vocali. Data la posizione nettamente prevalente dell'aria all'interno
della forma dell'opera fu naturale il consolidarsi del predominio assoluto del cantante all'interno
dello spettacolo. Fu per questo che pubblico, musicisti e poeti tollerarono eccessi che in un'altra
epoca sarebbero stati impensabili. Persino un personaggio come Haendel (che fu anche impresario e
organizzatore musicale oltre che compositore) riusc raramente a porre un freno a questo loro
eccesso di potere. Un'immagine molto viva, sebbene senz'altro esagerata, del mondo dei cantanti ci
viene offerta dagli scritti critici e satirici a cavallo tra Sei e Settecento. La satira pi famosa Il
teatro alla moda di Benedetto Marcello, che apparve per la prima volta nel 1720 a Venezia ma in
maniera anonima. Si tratta di una serie di consigli e raccomandazioni "alla rovescia" che l'autore
rivolge ironicamente a chiunque abbia a che fare col mondo dell'opera, dai poeti ai compositori,
fino ai macchinisti e agli insegnanti di canto. Riportiamo un brano in cui vengono rivolte al cantante
alcune provocatorie "raccomandazioni":
A' musici. Non dovr il virtuoso moderno aver solfeggiato, n mai solfeggiare, per non cader nel pericolo di
fermar la voce, d'intonar giusto, d'andar a tempo, etc., essendo tali cose fuori affatto del moderno costume.
Non molto necessario, che il virtuoso sappia leggere , o scrivere, che pronunzii ben le vocali ch'esprima le
consonanti semplici o replicate, che intenda il sentimento delle parole, etc.; ma bens che confonda sensi,
lettere, sillabe etc. per far passi di buon gusto, trilli, appoggiature, cadenze lunghissime, etc. etc. etc. [...] sino
a tanto si fa il ritornello delle arie, si ritirer il virtuoso verso le scene, prender tabacco, dir agli amici che
non in voce, ch' raffreddato, etc.; e cantando poi l'aria avverta bene che alla cadenza potr fermarsi quanto
gli pare, componendovi sopra passi e belle maniere ad arbitrio, che gi il Maestro di cappella in quel tempo
alzer le mani dal cembalo, e prender tabacco, per attender il di lui commodo. Dovr parimenti, in tal caso,
ripigliar fiato pi d'una volta, prima di chiudere con un trillo, quale studier di battere velocissimamente a
principio, senza prepararlo con messa di voci, e ricercando tutte le corde possibili dell'acuto. [...] Tornando
da capo, cambier tutta l'aria a suo modo, e quantunque il cambiamento non abbia punto che fare col Basso,
o con li virtuosi, e convenga alterare il tempo, ci non importa, perch gi (come si detto di sopra) il
compositor della musica rassegnato.

In altri casi la critica viene condotta in modo serio e motivato come fa Pier Francesco Tosi nel suo
Opinioni de' cantori antichi e moderni (Bologna, 1723), quando lamenta l'incongruenza di
determinati interventi virtuosistici allorquando non sono sostenuti da una solida competenza
musicale:
[...] non compatibile la debolezza di certi vocalisti che pretendono che un'orchestra intera si fermi nel pi
bel corso del regolato movimento dell'aria per aspettare i loro mal fondati capricci, imparati a mente per
portarli da un teatro all'altro, e forse rubati al popolare applauso di qualche fortunata pi che esperta
cantatrice, a cui si condona l'errore del tempo, in grazia dell'esecuzione. Adagio, adagio, con la critica, mi
dice un arbitrario: Questo, se nol sapete, si chiama cantare alla moda. Cantare alla moda? Voi v'ingannate,
rispondo io. Il fermarsi nell'arie ad ogni seconda e quarta e su tutte le settime e seste del basso, era studio
vano de' professori antichissimi, disapprovato (sono gi pi di cinquant'anni) dal Rivani (detto Ciccolino),
insegnando, con ragioni invincibili e degne d'esser eterne, che chi sa cantare trova sul tempo congruenza di

sito, che serva agli abbellimenti dell'arte senza inventare, n mendicar pause. Se fosse documento che
meritasse imitazione, si conobbe da quegli che se lo impressero nell'animo, fra quali il primo fu il Signor
Pistocchi, musico, il pi insigne de' nostri e de' tutti i tempi, il di cui nome si reso inimortale per essere
stato egli l'unico inventore d'un gusto finito e immitabile, e per aver insegnato tutti le bellezze dell'arte senza
offendere le misure del tempo.

Le reali caratteristiche di questa arte del canto che nel Settecento raggiunse vette probabilmente mai
eguagliate grazie soprattutto ai castrati (denominati "musici") sono estremamente difficili da
definire in maniera precisa e corretta data la sua natura improvvisativa e legata quindi al puro dato
esecutivo. Le fonti che in qualche modo ci possono dare indicazione sono la trattatistica del tempo,
rappresentata fra laltro, oltre che dal gi citato trattato del Tosi anche da quello di Giovanni
Battista Mancini dal titolo Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato (Vienna, 1774;
Milano 1777) e le raccolte di arie d'opera staccate nella versione con colorature di un determinato
cantante.
A grandi linee possiamo individuare due diversi modi di "intervenire" del cantante sull'aria: una, la
coloratura, tendente ad abbellire una data linea melodica, l'altra, la cadenza, tendente invece a
inserire a fine frase dei passi improvvisati. L'inserimento di una coloratura (o diminuzione) era una
consuetudine gi praticata Rinascimento e conservatasi nell'et barocca; acquist una certa
importanza in Italia verso la fine del Seicento, quando l'aria giunse a occupare una indiscussa
posizione di rilievo. La prassi di improvvisare cadenze aveva anche le sue radici nel canto solistico
cinquecentesco. La collocazione naturale della cadenza era sull'accordo di quarta e sesta nella parte
finale della frase.
Tutta questa esplosione di virtuosismo legata, come abbiamo gi detto, alla diffusione del cantante
castrato nell'Italia del Sei e Settecento. Gi nel Cinquecento per testimoniata la presenza di
cantanti castrati fra i cantori delle cappelle italiane e tedesche. Essi sono a Firenze dal 1534 e nella
cappella papale a Roma nel 1562. Alla fine del Seicento se ne trovavano in tutte le chiese italiane,
nonostante i papi avessero ufficialmente disapprovato questa usanza. A partire dall'Orfeo di
Monteverdi, cominceranno a egemonizzare in maniera totale il mondo dell'opera tanto da portare
quasi alla completa esclusione delle donne dalla scena. Il loro momento di massimo splendore va
dal 1650 al 1750, durante il quale interpretarono parti sia femminili sia maschili. Il declino della
loro popolarit cominci verso la fine del Settecento. La loro straordinaria fortuna dovuta in parte
alla penuria di voci femminili che si ebbe dopo i primissimi anni del Seicento, ma anche al fatto che
per lungo tempo alle donne fu impedito di calcare le scene, almeno in determinati ambienti (in
particolare a Roma). I castrati in seguito continuarono invece a mietere trionfi anche nel Settecento,
e non perch mancassero voci femminili di prim'ordine (come quella di Faustina Bordoni, moglie di
Hasse), ma per l'indiscussa superiorit delle loro possibilit vocali. Oltre a queste comunque i
castrati erano dotati di un notevole bagaglio musicale frutto di un'educazione rigorosissima che
ricevevano sin dalla prima infanzia presso i Conservatori italiani. Le loro voci erano pi potenti e
flessibili di quelle femminili, ma restavano intatte nel corso degli anni, il che garantiva loro una
carriera molto pi lunga del normale. Il pi famoso castrato italiano del Settecento fu Carlo Broschi
(1705-1782), detto Farinelli, il quale ebbe addirittura una carriera leggendaria. Acclamato per la sua
arte in tutti i paesi d'Europa, fu amico di principi e imperatori, per ventiquattro anni confidente di
ben due re di Spagna e praticamente primo ministro di quel paese.
8. L'opera nella seconda met del Settecento
8.1 Caratteri generali
A cavallo della met del secolo si assiste ad un periodo di graduale e lenta evoluzione che porter a
quella che viene genericamente definita riforma dell'opera seria. Se tradizionalmente questa viene
attribuita al binomio Gluck e Calzabigi nella Vienna degli anni Sessanta, non bisogna per ignorare
che vari fermenti e tentativi di rinnovamento furono realizzati precedentemente in tempi e modi
diversi. Di conseguenza, anche se l'importanza di Gluck stata sostanziale, bisogna

necessariamente tener conto di altre esperienze fatte prima di lui per avere un quadro esauriente
dell'evoluzione dell'opera in questo periodo. La riforma dell'opera non certo stata un'invenzione di
Gluck. L'opera sempre stata riformata, nel senso che ci sono sempre stati cambiamenti. Un punto
di vista pi obiettivo espresso da Martin Cooper:
L'opera costituita da tre elementi, quello musicale, quello letterario e quello spettacolare. Nel corso del
tempo, uno di questi si alternativamente conquistato una posizione di supremazia sugli altri due. Per questo
motivo la storia dell'opera una storia di riforme e controriforme, dal momento che non esistono due paesi o
due epoche che si siano trovati d'accordo sulla funzione che ciascun elemento avrebbe dovuto idealmente
svolgere per ottenere risultati organici. Neppure nella storia delle varie correnti di pensiero che via via si
sono succedute c' stata una evoluzione o un momento di unificazione. Nessuna si mai affermata
completamente sulle altre, ma, tutt'al pi, ha goduto brevemente degli effimeri favori dell'opinione pubblica.

Nell'ambito dell'opera seria intorno alla met del secolo si continuavano a usare i libretti di
Metastasio, nonostante egli stesso ne avesse scritti soltanto quattro nuovi tra il 1754 e la data della
sua morte, avvenuta nel 1782. Per, nelle opere della fine del secolo, i libretti metastasiani venivano
profondamente modificati, attraverso il taglio dei recitativi e la sostituzione di arie che a volte
diventavano duetti attraverso l'integrazione con un testo nuovo. Le modifiche dei libretti
metastasiani venivano operate spesso da poeti al servizio di corti e di teatri, poeti contro i quali
Metastasio spesso lanciava i suoi strali ritenendoli poco adatti a intervenire sui suoi testi.
Pur rimanendo la differenziazione tra aria e recitativo, si attuano nelle scene delle evoluzioni
stilistiche e formali, come quella del recitativo accompagnato che sostituisce quasi sempre quello
secco, e acquista maggiore ampiezza ed elaborazione; oppure talune scene assumono una struttura
pi articolata e libera presentando successioni di recitativo, arioso, aria e pezzi d'insieme. Anche
nell'ambito dell'aria si verificano trasformazioni: lo schema articolato in cinque parti tende a ridurre
e a rendere pi compatto e meno articolato lo schema col da capo, e inoltre si cominciano a usare
forme di aria diverse, come quella in due movimenti (in genere adagio-allegro). Le melodie inoltre
tendono a organizzarsi in disegni pi estesi e complessi. Infine viene arricchita anche la scrittura
orchestrale e vengono potenziate le possibilit cromatiche degli strumenti.
Nell'ouverture di tipo italiano i tre movimenti vengono ampliati e maggiormente articolati, anche se
talvolta essa pu essere costituita da un solo movimento, di solito in forma di allegro di sonata.
Inoltre, verso la fine del secolo, divent sempre pi diffusa la prassi di collegare l'ouverture
all'opera cui era destinata sia nel carattere generale, sia anche nell'uso degli stessi elementi tematici.
Si tratta quindi di una prassi molto lontana da quella del primo Settecento, quando si concepiva
l'ouverture come una composizione del tutto autonoma, che poteva essere tranquillamente premessa
a qualsiasi opera.
Fra i musicisti della nuova generazione possiamo ricordare Gian Francesco di Majo (1732-1770),
Johann Christian Bach (1735-82), che era il pi giovane dei figli sopravvissuti di Johann Sebastian.
Trasferitosi a Milano e abbracciato il cattolicesimo subito dopo la morte del padre, egli adegu il
proprio stile alla musica italiana. La musica di questo Bach fu molto ammirata dal giovane Mozart
per la sua eleganza ed espressivit, per la chiarezza formale, la tecnica dei particolari e il carattere
lirico e cantabile delle melodie. Charles Burney riconosce che nelle sue arie la ricchezza
dell'accompagnamento pi meritevole di lode che non l'originalit delle melodie, le quali tuttavia
sono sempre di una naturale eleganza e nella migliore tradizione del buon gusto italiano di quegli
anni.
8.1 Jommelli e Traetta
Abbiamo gi notato come il movimento radicale di riforma che invest il mondo dell'opera
settecentesca si sia sviluppato per lo pi fuori d'Italia. Gli unici due italiani che potrebbero essere
inclusi in questo movimento sono Niccol Jommelli (1714-1774) e Tommaso Traetta (1727-1779).
Jommelli, autore di numerose opere serie e comiche, cominci a scrivere in Italia nel 1737. Le sue
prime produzioni nascono sotto il segno della tradizione, anche se dal 1750 cominciano a

manifestarsi segni evidenti di trasformazioni alla ricerca di un nuovo stile. Jommelli mise in musica
buona parte delle opere di Metastasio che lo portarono ad adeguarsi, almeno nella prima parte della
sua attivit, al tipico modello d'opera che aveva come punto di riferimento il Poeta Cesareo. Fu
fondamentale per dare una svolta netta al suo stile il periodo che trascorse presso la corte di
Stoccarda come maestro di cappella. Durante questo soggiorno egli scrisse nuove opere (tra cui il
Fetonte su testo del poeta Mattia Verazi), ma soprattutto mise mano a quasi tutte le opere
metastasiane che aveva precedentemente composte e le rielabor secondo il gusto francesizzante
del principe Carlo Eugenio: in esse realizz numerosi recitativi accompagnati (nel suo Demofoonte
soltanto due delle undici scene hanno il recitativo secco, mentre tutte le altre sono accompagnate
dall'intera orchestra), cur maggiormente la strumentazione, rendendola pi ricca e raffinata e,
soprattutto, inser duetti e terzetti ex novo, oppure come sostituzione o ampliamento di arie
preesistenti (come il brano Non ha ragione ingrato, dalla Didone abbandonata: un'aria di Didone
nella prima versione, un duetto fra Didone ed Enea con l'aggiunta di un testo nuovo nella versione
di Stoccarda). Infine, sempre in linea con le influenze francesi fortemente presenti a Stoccarda,
inser dei balli nei finali.
Un analogo discorso pu essere fatto per Traetta: anch'egli, pur adottando testi metastasiani, si
distacc progressivamente dal modello in auge fino a quel momento. Come Jommelli fu segnato
profondamente dal soggiorno in una corte culturalmente cos progressista come quella di Stoccarda,
cos Traetta diede un indirizzo notevolmente diverso alla sua produzione operistica dal momento in
cui si trov a lavorare presso la corte di Parma (dal 1758 al 1765), dove egli pot avvertire tutte le
influenze del gusto operistico francese. Alcuni dei suoi pi importanti lavori successivi furono
scritti per teatri tedeschi: Armida (17619, e Ifigenia in Tauride (1763) per Vienna e Sofonisba
(1762) per Mannheim. Dal 1768 Traetta visse alla corte di Pietroburgo.
Dunque sia Jommelli sia Traetta, contrariamente ad altri musicisti che come loro, viaggiando delle
varie corti europee, erano entrati in contatto con culture e gusti diversi, furono sensibili alle nuove
istanze rappresentate soprattutto dal gusto francese per il ballo e dall'interesse per un linguaggio
strumentale molto pi raffinato che si stava radicando profondamente nei paesti germanici. Quindi,
sul tronco di un modello che era pur sempre quello della tradizionale opera italiana, essi
cominciarono gradualmente a sperimentare, grazie a queste influenze, forme espressive alternative.
E' noto come la Francia era stata l'unica nazione a godere di una propria totale autonomia nello stile
operistico, mentre tutto il resto d'Europa era stato "colonizzato" dal punto di vista del teatro d'opera
dal modello italiano. Dal 1750 l'opera francese cominci a farsi discretamente conoscere da quei
musicisti che vivevano nelle corti e nelle citt che, per altre ragioni, erano toccate dalla cultura
francese, come le corti tedesche e alcune citt del Nord d'Italia. Ma vediamo meglio in che modo
Jommelli e Traetta furono influenzati dal gusto francese. Prima di tutto l'uso del ballo: nelle opere
di Jommelli fu determinato anche dalla presenza a Stoccarda del coreografo francese Jean-Georges
Noverre, cui viene attribuita una autentica riforma nel modo stesso di concepire il ballo; scrisse un
celebre trattato nel quale auspicava un ritorno agli ideali greci della danza, che egli individuava
nella naturalezza dei movimenti, nella semplicit dell'abbigliamento e nel porre un particolare
accento sui contenuti drammatici piuttosto che sulle figurazioni astratte o sul virtuosismo dei
ballerini. Per quanto riguarda Traetta l'influenza francese ravvisabile dagli stessi soggetti di alcune
sue opere: infatti i librettisti principali di Traetta, Marco Coltellini (ca. 1740-1775) e Carlo Frugoni
(1692-1768), conoscevano molto bene le opere di Rameau. Un altro segno evidente di gusto
francese in Jommelli e Traetta il grande risalto dato nelle loro opere all'aspetto spettacolare. In
Sofonisba di Traetta le scene di templi, di battaglie, il palazzo sottomarino di Teti e le
trasformazioni di Proteo sono tutte reminiscenze di Lully e Rameau. Ancora francesizzanti sono
certi passaggi descrittivi della musica, tentativi di imitazione della natura cos cari all'estetica del
Settecento come temporali, battaglie, idilli pastorali.
L'influenza tedesca, invece, come abbiamo gi detto, si fa sentire nella maniera in cui Jommelli e
Traetta trattano l'orchestra, nella accresciuta complessit del tessuto orchestrale e nella maggiore
attenzione all'uso idiomatico degli strumenti. E' noto come elemento peculiare della musica nel

mondo tedesco di fine Settecento sia proprio la creazione di un nuovo, moderno linguaggio
orchestrale che le cui caratteristiche essenziali sono l'arricchimento timbrico e il grande sviluppo
dell'elemento dinamico. L'orchestra di Mannheim era gi famosa nel 1745 mentre quelle di Dresda
con Hasse e di Stoccarda con Jommelli (nel suo Fetonte del 1768 suonavano 47 orchestrali) non
erano da meno. Anche la maggiore ricchezza e variet armonica riscontrabile nelle opere di Traetta
e Jommelli rispetto a quelle dei loro contemporanei italiani va attribuita all'influenza tedesca.
Comunque al di l di queste influenze francesi e tedesche si avverte nelle opere di Jommelli e
Traetta un bisogno continuo di andare oltre il modello tradizionale di opera metastasiana che pure
essi continuavano ad usare; per esempio, nelle loro opere l'aria comincia ad avere una maggiore
compenetrazione nel contesto drammaturgico dell'opera: esse non costituiscono pi una battuta di
arresto per l'azione drammatica come nella vecchia opera italiana, ma sono costruite in modo da far
proseguire l'azione. Lo stile melodico pi espressivo e investe un patrimonio emotivo pi vasto.
Spesso si trovano lunghe scene in cui si alternano liberamente recitativo accompagnato, arioso, aria,
pezzi d'insieme e coro. Anche il convenzionale schema col da capo tende a scomparire o almeno a
presentarsi in forme pi flessibili. Acquista pi importanza la sezione di mezzo, soprattutto in
Traetta, e nella ripresa la sezione principale viene abbreviata oppure variata. Sono previste anche
variazioni di stati d'animo, metro e tempo, mentre nel mezzo di un'aria si possono trovare parti
declamate. Capita anche che un recitativo accompagnato e l'aria che lo segue abbiano lo stesso
materiale tematico. Tutti questi sono cambiamenti rispetto al vecchio ordinamento, e alcuni di
questi, comunque, erano gi stati anticipati da musicisti delle generazioni precedenti.
Nelle opere di Jommelli e di Traetta assistiamo anche al mutare della concezione dell'ouverture. In
alcune di esse i due musicisti sembrano voler anticipare quanto Gluck auspicher nella famosa
lettera premessa all'Alceste: cio l'adesione anche motivica dell'ouverture stessa all'opera cui
premessa. Per esempio in Sofonisba di Traetta il tema dell'adagio dell'ouverture ritorna in un
quintetto dell'ultima scena dell'opera (qualcosa del genere aveva gi fatto Rameau 25 anni prima in
Castor et Pollux), e il finale trapassa senza soluzione di continuit nella prima scena del primo atto.
Qui, come in Fetonte di Jommelli, l'ouverture anticipa chiaramente i caratteri generali del dramma,
come in Zoroastre di Rameau del 1749. In Fetonte, il brevissimo primo movimento della ouverture
trapassa direttamente nella prima scena dell'opera (un andamento per solo e coro), che viene a
sostituire cos il tradizionale secondo movimento, cui segue un "terzo" movimento che la
descrizione musicale di un terremoto (come avveniva in molte opere francesi); dopo, con la seconda
scena del primo atto, comincia l'opera vera e propria.
Infine, un altro segno dell'influenza francese nelle opere di Jommelli e Traetta scritte per i teatri
stranieri rappresentato dal peso che il coro vi torna ad assumere. Si tratta di cori numerosi i cui
interventi si fanno sempre pi frequenti, non solo nelle scene spettacolari ma anche nei momenti in
cui necessario far progredire l'azione. Forse l'esempio pi calzante al riguardo fornito dalla
quarta scena del secondo atto di Ifigenia in Tauride di Traetta, dove l'autodifesa di Oreste viene
interrotta dall'esplosione del coro delle Furie.
Tuttavia, pur presentando grandi differenze rispetto all'opera seria tradizionale italiana del
Settecento, i lavori di Jommelli e Traetta non riuscirono a giungere a una rottura completa. In
Jommelli particolarmente, ma anche in Traetta, si fanno sentire, come abbiamo gi notato, i vincoli
rappresentati dal vecchio tipo di libretto.
8.3 Christoph Willibald Gluck
Christoph Willibald Gluck (1714-1787) era nato nell'Alto Palatinato ed era vissuto in Boemia;
aveva poi studiato a Milano con Sammartini, attraverso il quale Gluck speriment la nuova musica
sinfonica moderna, mentre l'approccio con l'opera italiana avvenne probabilmente a Praga, dove
venivano rappresentate opere di Hasse, e a Vienna, dove probabilmente avr ascoltato il pi antico
stile di Caldara. Fu a Londra tra il 1745 e il 1746, e gir poi l'Europa come direttore d'orchestra di
una compagnia d'opera. Dal 1752 si stabil a Vienna dove ebbe la carica di compositore ufficiale
della corte imperiale per la musica teatrale e da camera: inizi cos la sua collaborazione con il

conte Giacomo Durazzo (1717-1794) sovrintendente ai teatri viennesi. Tra il 1773 e il 1778 pass
alcuni periodi a Parigi, dove sub un'altra influenza importante dal genere dell'opra-comique, un
genere di opera sviluppatosi a Parigi in un primo tempo solo su melodie preesistenti alle quali i
poeti adattavano delle parole, ma verso la met del secolo sempre di pi impiegando musica
originale, mentre contemporaneamente andavano migliorando sia la qualit poetica dei
testi sia l'interesse della musica. La corte di Vienna era particolarmente interessata alla conoscenza
di questo nuovo stile, per cui il conte Durazzo import opra-comiques da Parigi, affidando a Gluck
l'incarico di dirigerne le rappresentazioni. Ci port Gluck a rielaborare alcune musiche e a
comporne di nuove per sostituire quelle non adatte al gusto viennese. Queste rappresentazioni a
Vienna iniziarono nel 1755 e furono caratterizzate sempre pi dalla presenza di musiche nuove
scritte appositamente da Gluck. Quanto egli abbia assimilato il gusto e il linguaggio musicale
francese testimoniato, oltre che dalle musiche stesse anche dalle parole del poeta e impresario
francese Favart, che elogia Gluck per il modo in cui aveva musicato i suoi libretti: Non lasciano
niente a desiderare per quanto riguarda l'espressione, il gusto, l'armonia, e nemmeno per la prosodia
francese. Importante fu per Gluck anche conoscere a Vienna il ballerino e coreografo Gasparo
Angiolini (1731-1803), per il quale compose, nel 1761, la musica del balletto Don Juan: in esso
Gluck seppe adattare la sua musica alle esigenze della pantomima: la musica diventa cos una unit
inscindibile con il movimento, creando una nuova forma di espressione drammaturgica. Dal punto
di vista coreografico il Don Juan sembra concepito per illustrare i nuovi principi enunciati da
Noverre nel suo libro sulla danza, pubblicato solo un anno prima.
Gluck dovette essere fortemente colpito da quel movimento di riforma che, a livello teorico, si
svilupp intorno agli anni Cinquanta: questo movimento tendeva a riconsiderare il problema
dell'opera alle sue radici, auspicando una serie di mutamenti radicali nel libretto e nei rapporti fra
compositore, librettista ed esecutori. Lo scrittore pi influente in questo campo fu Francesco
Algarotti, un filosofo amico di Voltaire, di Federico il Grande e consulente artistico della corte di
Parma. Il suo Saggio sopra l'opera in musica, uscito nel 1755, divenne il manifesto della riforma
operistica e influenz profondamente l'opera di Gluck. Vedremo come diverse affinit si possono
riscontrare fra alcuni brani dell'opera di Algarotti e la prefazione che Gluck scrisse per l'Alceste
(1769).
Bisogna dire per che, fino agli anni Sessanta, Gluck scrisse opere principalmente su testi di
Metastasio (mise in musica buona parte dei suoi drammi), e quindi, nonostante alcuni segnali di
rinnovamento che si intravedono anche in queste opere (per esempio la Semiramide o l'Ipermestra)
una autentica e decisiva svolta sar rappresentata dall'incontro e dalla conseguente collaborazione
con il poeta e librettista livornese Ranieri de'Calzabigi (1714-1795) con il quale realizz a Vienna le
prime opere della sua cosiddetta "riforma": Orfeo ed Euridice (1762), e Alceste (1767). In effetti il
vero promotore di un "rivolta" contro il modello metastasiano fu proprio Calzabigi (nonostante
avesse in precedenza curato l'edizione parigina delle sue opere, definendole nella prefazione
"tragedie perfette"), cosa che Gluck riconobbe sempre sinceramente.
La loro collaborazione dunque inizi con Orfeo ed Euridice, opera rappresentata a Vienna il 5
ottobre 1762: significativo che l'opera che si identifica con la riforma sia basata sullo stesso
soggetto della prima opera fiorentina (1600) e del primo grande capolavoro di Monteverdi
(Mantova, 1607). Il lavoro si rivel profondamente in contrasto con le opere italiane
contemporanee, tranne che per due elementi ancora "tradizionali": l'ouverture, assolutamente non
appropriata, e l'artificioso lieto fine. Ma entrambi questi elementi vanno pensati nella prospettiva
della circostanza festiva per cui l'opera fu composta, e per la quale un clima eccessivamente tragico
sarebbe stato fuori luogo. Del resto, sul frontespizio del libretto per la prima esecuzione, e anche su
quello della prima edizione della partitura, l'opera viene definita "azione teatrale", come tutte quelle
composizioni settecentesche italiane che, a differenza del dramma per musica convenzionale,
facevano largo uso del coro. La trama semplificata fino a sembrare austera, e si presenta come una
successione di quadri piuttosto che come un'unica storia. L'opera inizia con Orfeo e il coro che
piangono sul catafalco di Euridice, che morta prima che l'azione abbia inizio. Si tratta di una

tipica scena da opera francese, il cosiddetto tombeau. In Orfeo Gluck persegu lo scopo di ottenere
un equilibrio fra le varie componenti dell'opera attraverso mezzi semplicissimi e liberando la
struttura di base da qualsiasi elemento non funzionale. Il recitativo secco da un lato e i passi di
coloratura dall'altro, vengono aboliti. Orfeo fu rappresentato a Parigi nel 1774 in edizione francese,
con l'aggiunta di qualche ballo e con un tenore al posto del contralto nel ruolo di Orfeo, il che
implic alcuni cambiamenti nello schema tonale. La partitura completa era stata stampata a Parigi
nel 1764, e fu una delle pochissime opere italiane che vennero pubblicate dopo il 1639.
Il 26 dicembre 1767 and in scena la seconda opera frutto della collaborazione con Calzabigi,
Alceste (altro soggetto tratto dalla mitologia greca). Come per Orfeo, anche in questo caso fu scritta
una seconda versione per Parigi nel 1777.
La terza e ultima opera frutto di collaborazione con Calzabigi fu Paride e Elena (1770).
Gluck aveva chiamato Orfeo "azione teatrale", mentre per Alceste usa la definizione "tragedia per
musica". La partitura pubblicata a Vienna nel 1769 contiene la celebre prefazione con dedica al
Granduca di Toscana, futuro imperatore Leopoldo II, prefazione che rappresenta una sorta di
"manifesto" delle nuove idee sull'opera che sia Gluck sia Calzabigi intendevano applicare e
diffondere. Eccone il testo:
ALTEZZA REALE! Quando presi a far la musica dell'Alceste mi proposi di spogliarla di tutti quegli abusi
che, introdotti o dalla mal intesa vanit dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de' Maestri, da tanto tempo
sfigurano l'Opera italiana, e del pi pomposo e pi bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il pi ridicolo e il pi
noioso. Pensai di restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia, per l'espressione e per le
situazioni della favola, senza interromper l'azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e
crederei ch'ella far dovesse quel che sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacit de' colori e il
contrasto bene assortito de' lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.
Non ho voluto dunque n arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per aspettare un noioso ritornello,
n fermarlo a mezza parola sovra una vocal favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell'agilit di
sua bella voce, o ad aspettare che l'Orchestra gli dia il tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho
creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un'aria, quantunque fosse la pi appassionata e
importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l'aria dove forse
non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che pu variare in tante guise capricciosamente
un passaggio; insomma, ho cercato di sbandire tutti quegli abusi de' quali da gran tempo esclamavano invano
il buon senso, e la ragione.
Ho immaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell'azione che ha da rappresentarsi, e formare,
per dir cos, l'argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degl'interessi e della
passione, e non lasciare quel tagliente divario nel dialogo fra l'aria e il recitativo, che non tronchi a
controsenso il periodo, n interrompa ma a proposito la forza e il caldo dell'azione.
Ho creduto poi che la maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicit; ed ho evitato di far
pompa di difficolt e pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novit,
se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall'espressione; e non v' regola d'ordine
ch'io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazie dell'effetto.
Ecco i miei principj. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto, in cui il celebre
autore, immaginando un nuovo piano per il drammatico, aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni
superflui e alle sentenziose e fredde moralit, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni
interessanti e uno spettacolo sempre variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l'universale
approvazione in una citt illuminata ha fatto chiaramente vedere che la semplicit, la verit e la naturalezza
sono i grandi principii del bello in tutte le produzioni dell'arte.
Con tutto questo, malgrado le replicate istanze di persone le pi rispettabili per determinarmi di pubblicare
con le stampe questa mia opera, ho sentito tutto il rischio che si corre a combattere dei pregiudizi cos
ampiamente, e cos profondamente radicati, e mi son veduto in necessit di premunirmi del patrocinio
potentissimo di VOSTRA ALTEZZA REALE implorando la grazia di prefiggere a questa mia opera il suo
augusto nome, che con tanta ragione riunisce i suffragi dell'Europa illuminata. Il gran Protettore delle belle
Arti, che regna sopra la nazione, che ha la gloria di averle fatte risorgere dalla universale oppressione, e di
produrre in ognuna i pi gran modelli, in una citt ch' stata sempre la prima a scuotere il giogo de'
pregiudizi volgari per farsi strada alla perfezione, pu solo intraprendere la riforma di questo nobile

spettacolo in cui tutte le arti belle hanno tanta parte. Quando questo succeda rester a me la gloria d'aver
mossa la prima pietra, e questa publica testimonianza della sua alta Protezione al favor della quale ho l'onore
di dichiararmi con il pi umile ossequio
di V.A.R. umil.mo dev.mo obl.mo servitore Cristoforo Gluck.

Vediamo ora come analoghe tematiche vennero espresse da Algarotti nel suo Saggio sopra
l'opera in musica:
[...] una qualche commozione egli sembra che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato,
come soglion dire, e accompagnato con istrumenti. E forse non disconverrebbe che una tale usanza si facesse
pi comune ancora ch'ella non . Qual calore e qual vita non viene a ricevere infatti un recitativo, se l dove
si esalta la passione sia rinforzato dall'orchestra, se ogni sorta d'arme assalga il cuore ad un tempo e la
fantasia? [...] E ci non tanto in riguardo alla vastit del teatro, dove la lontananza si mangia la diligenza, ma
in riguardo ancora alle voci, a cui debbono soltanto servire. Non picciola la mutazione che da quel maestro
seguita a' tempi nostri, nei quali si oltrepassato ogni segno, e le arie si rimangono oppresse e quasi
sfigurate sotto agli ornamenti con che studiano sempre pi di abbellirle. Soverchiamente lunghi sogliono
essere quei ritornelli che le precedono e ci sono assai volte di soprappi.

Dopo la rappresentazione di Alceste per vari motivi si cominci a rompere quel fortunato sodalizio
fra il conte Durazzo, Gluck e Calzabigi che aveva dato frutti tanto clamorosi. Inoltre, la terza opera,
Paride ed Elena, del 1770 fu accolta con una certa freddezza dal pubblico viennese. Gluck cos
cerc di rinnovare le sue fortune a Parigi, dove fu chiamato tra l'altro anche grazie al sostegno della
sua ex allieva Maria Antonietta, ora moglie del re di Francia Luigi XVI. Cos nel 1772 Gluck inizi
la composizione di Iphignie en Aulide, un "tragdie-opra" il cui libretto, tratto dalla tragedia di
Racine, era stato scritto dal nobile letterato Franois Le Blanc du Roullet, che era addetto presso la
legazione francese a Vienna. La prima rappresentazione ebbe luogo a Parigi il 19 aprile 1774, e
riscosse da subito un gran successo.
Rispetto all'Alceste, Iphignie en Aulide possiede una maggiore fluidit e incisivit dell'azione, per
cui il ritmo generale pi concitato e il declamato pi marcato, mentre i numeri musicali sono pi
brevi, pi continui, meglio inseriti nell'architettura generale. In seguito al successo Iphignie en
Aulide si realizzarono a Parigi, come abbiamo gi detto, le edizioni francesi di Orfeo e Alceste. Nel
frattempo un gruppo di letterati guidati da Jean Franois Marmontel, si adoper perch Parigi
diventasse teatro di una querelle fra Gluck, che in quel momento occupava la scena della vita
musicale parigina e un rappresentante dell'opera italiana, una "querelle" simile a quella che
venticinque anni prima aveva visto contrapposti l'un l'altro i sostenitori della tradizione accademica
francese (da Lully a Rameau) ai paladini dell'opera buffa italiana. Come rappresentante della
musica italiana fu scelto Niccol Piccinni (1728-1800), un compositore di scuola napoletana autore
di un vasto repertorio di opere e famoso in tutta Europa soprattutto per l'opera La buona figliuola.
Piccinni si prest inconsapevolmente alla gara, ma ne usc alquanto malconcio. L'idea consisteva
nel fare comporre a Gluck e a Piccinni un'opera sullo stesso libretto, il Roland su testo Quinault
riveduto da Marmontel. Quando Gluck scopr che Piccinni stava gi lavorando a questo progetto,
respinse sdegnosamente la proposta e compose invece una Armide, sempre sullo stesso libretto di
Quinault che Lully aveva musicato nel 1686. Questa venne rappresentata nel settembre del 1777,
quattro mesi prima che Piccinni avesse terminato il suo Roland. Se l'opera per Piccinni non bast a
garantirgli la fama che si sarebbe conquistata in seguito nel panorama dell'opera francese, l'Armide
di Gluck fu un'opera diseguale (basata com'era su un libretto legato alla vecchia divisione in 5 atti
che include molte scene incapaci di stimolare il compositore a dare i suoi risultati migliori) che
provoc inevitabilmente il paragone con Lully, con alterni risultati.
L'ultima opera importante di Gluck, e il suo capolavoro, Iphignie en Tauride, rappresentata per la
prima volta a Parigi il 18 maggio 1779. Il libretto, scritto principalmente da Nicolas Franois
Guillard sul modello di Euripide, il testo migliore che Gluck abbia mai musicato. Si tratta di una
combinazione felice e inconsueta di elementi antichi e moderni. Infatti il senso di un fato

inesorabile che porta l'uomo verso la catastrofe tipico dell'antica tragedia greca affiancato da
una moderna, incisiva caratterizzazione dei personaggi e da una profonda capacit di ritrarre le
emozioni. L'opera non ha una vera e propria ouverture, ma piuttosto un'introduzione che descrive
prima la "calma", poi un "temporale", un preludio che permette un trapasso naturale alla prima
scena. Va anche osservato che in quest'opera Gluck ritorna alle arie di ampio respiro, puramente
musicali e perfino liriche.
L'ultima opera di Gluck Echo et Narcisse (1779), rappresentata a Parigi, nonostante la bellezza di
alcuni singoli numeri fu un insuccesso. Gluck, amareggiato, torn subito a Vienna, dove mor nel
1787.
E' difficile stabilire la vera collocazione di Gluck nella storia dell'opera, anche perch la sua figura
deve essere comunque sempre affiancata a quella di Calzabigi, autentico promotore degli ideali
della riforma. Senz'altro a lui si deve il ristabilimento di un maggiore equilibrio fra musica e poesia.
E' suo il merito di aver riportato il dramma al centro dell'interesse eliminando, almeno a livello
programmatico, sovrastrutture musicali come la coloratura e l'aria col da capo. Paradossalmente,
realizz concretamente questo programma semplificando il libretto e arricchendo la musica,
sostituendo agli intrecci metastasiani le azioni elementari del teatro greco, dando un ruolo molto pi
rilevante all'orchestra, sviluppando il linguaggio armonico. Inoltre inser in maniera organica
l'elemento coreutico rendendolo in tutto partecipe dello sviluppo drammatico, in questo coadiuvato
dal grande Gasparo Angiolini, altro grande protagonista di questa stagione riformistica.
9. Lopera comica
9.1 L'opera comica nel primo Settecento
Come si gi detto, nell'opera del Seicento era abituale interpolare episodi comici nell'ambito di
opere di argomento serio; la riforma librettistica di Zeno e Metastasio aveva poi abolito questa
consuetudine dando vita, all'inizio del Settecento, alla diversificazione dei due generi. L'opera seria
e l'opera comica continuarono tuttavia a scambiarsi reciprocamente influssi stilistici, dato che
peraltro gli autori erano, il pi delle volte, gli stessi per entrambe. Anche il pubblico era lo stesso
per i due generi, cio quella stessa nobilt che finanziava anche i teatri che producevano le opere
buffe. La molteplicit delle denominazioni attribuite, nel Settecento, alle opere di genere comico,
possono essere riassunte in due principali categorie: l'intera opera o commedia musicale provvista
di un libretto non serio, ma contenente ruoli sia seri sia buffi; l'intermezzo, vale a dire un'opera
breve divisa in due parti che venivano rappresentate tra gli atti di un'opera seria. Generalmente gli
argomenti dell'opera comica riguardavano vicende della vita quotidiana per la resa delle quali si
richiedeva uno stile realistico e immediato, e, di conseguenza, interpreti con doti pi drammatiche
che vocali. A volte gli intermezzi venivano rappresentati per intero alla fine dell'opera seria, e
assumevano cos una forma indipendente articolata in due atti, invece dei tre dell'opera seria. Un
esempio tipico di questa forma rappresentato da La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi
(1710- 1736), composta nel 1733, che prevede solo due cantanti (soprano e basso), un mimo, e
un'orchestra d'archi pi il basso continuo.
L'organico orchestrale, che in questo tipo di lavori aveva dimensioni ridotte, poteva a volte
prevedere la presenza di due strumenti a fiato quali flauti, oboi o corni. Le diverse caratteristiche
drammaturgiche degli intermezzi apportavano differenze evidenti anche nello stile musicale. In
particolare gli intermezzi tendevano ai movimenti veloci, in tonalit prevalentemente maggiore, a
un disegno melodico che veniva spesso spezzato, attraverso le pause, in segmenti formati da
intervalli ampi, ed evidenziato da accenti organizzati in funzione comica. Accanto al tipo di aria in
movimento allegro con le suddette caratteristiche, sono frequenti delle arie in tempo pi lento, con
melodie cantabili, spesso in modo minore e con andamenti melodici e armonici cromatici in
funzione patetica. Tutta la realizzazione musicale negli intermezzi asseconda perfettamente il testo,
le cui risorse espressive vengono cos esaltate e messe a frutto in ogni situazione drammatica; a
questo scopo i pezzi chiusi quali le arie e i duetti assumono, di volta in volta assetti formali diversi.

Gli argomenti trattati nell'opera buffa spesso sono ricavati dalla commedia dell'arte: la
prevaricazione del servo scaltro sul padrone ingenuo o quello della giovane ragazza che raggira il
marito o l'amante. Altro tema destinato ad una vasta fortuna nel corso del secolo il contrasto fra
passione e pregiudizio di classe. Destinati a una lunga fortuna furono anche i libretti incentrati sulla
presa in giro dei protagonisti del dramma serio: molto ironico nei confronti dell'opera seria La
Dirindina (Roma 1715) di Domenico Scarlatti su libretto di Girolamo Gigli e L'impresario delle
Canarie (Napoli 1724) di Domenico Sarro su testo di Metastasio. Va ricordato che molto in voga
nel Settecento era anche la pubblicazione di scritti che esponevano ora con realismo acuto, ora con
arguzia, ora con pesante sarcasmo i retroscena della vita operistica: Il celebre Il Teatro alla moda
(Venezia 1720) di Benedetto Marcello, di cui abbiamo gi riportato alcuni brani, contiene un elenco
dei "difetti" che si accampavano sui palcoscenici del melodramma.
A differenza dell'intermezzo, l'altro tipo di opera comica, la vera e propria commedia in musica,
poggia su una struttura pi solida, autosufficiente, e un impianto pi articolato. I personaggi (di
solito mai pi di nove) sia seri sia comici, rappresentano variet di ruoli e di stili ad essi adeguati; la
realt quotidiana contemporanea prevedeva rappresentanti del ceto borghese che si esprimevano
musicalmente attraverso un linguaggio pi aulico di quello previsto per la classe popolare, basato su
formulazioni melodiche pi facili e immediate. Il suo stile vocale rimase comunque, per i primi
decenni del secolo, lontano dai virtuosismi vocali dell'opera seria, e fece affidamento sulle capacit
di attori in grado anche di cantare. Anzich esaltare i momenti lirici, l'opera buffa tendeva a
sottolineare l'azione, e questo presupposto condizion le sue strutture e il suo stile musicale anche
per quanto riguarda il recitativo, che fu quasi sempre secco, ai fini di rendere il dialogo rapido e il
pi possibile simile al parlato.
Oltre a ci, l'opera comica affront il rapporto dialettico fra i personaggi introducendo, accanto alle
arie e ai duetti, i pezzi d'insieme che tenderanno ad acquistare una sempre maggiore importanza,
soprattutto nei finali d'atto. Anche l'orchestra gradualmente arriv a svolgere una funzione
originale, incaricandosi a volte di esprimere l'idea musicale riducendo la parte vocale a una
sillabazione quasi parlata. L'esigenza realistica, infine, port all'esclusione dei castrati, e avvi
invece a determinare una tipologia drammatico-vocale: il soprano, il mezzosoprano, il basso e il
tenore nell'opera buffa tendono a implicare un corrispondente tipo psicologico, o ruolo, in maniera
pi evidente che nell'opera seria. Cos il soprano perde l'astrattezza di voce del castrato, tipica
dell'opera seria e, messo in contatto con voci autenticamente virili, si identifica con un personaggio
femminile giovane e variamente caratterizzato (innamorata, malinconica, civetta ecc.); la donna
meno giovane, o meno attraente (come la madre o la "rivale") caratterizzata da una tessitura
vocale pi grave, come quella di mezzosoprano o contralto. Il registro di basso o baritono in
genere associato alla figura dell'antagonista maschile; il tenore, invece, che all'epoca aveva una
estensione vocale simile a quella del moderno baritono o di poco pi acuta , soprattutto agli inizi
del genere, un personaggio comico, ma in seguito, sempre pi spesso, un "mezzo carattere" o
l'innamorato, e comunque una voce che, rispetto alla virilit del basso, pu apparire quasi
adolescente.
9.2 L'opera comica nel secondo Settecento
Verso il 1750, a Venezia, il compositore Baldassarre Galuppi (1706-1785), detto il Buranello,
autore prolifico di opere serie economiche, conosciuto in tutta Europa inizi a collaborare con il
commediografo e librettista veneziano Carlo Goldoni (1707-1793). Frutto di questa collaborazione
molto intensa, durata circa venticinque anni, furono una ventina di melodrammi comici, tra cui Il
filosofo di campagna, (Venezia, 1754), e L'Arcadia in Brenta (Venezia, 1749), una sorta di "teatro
nel teatro" in quanto rappresenta un gruppo di villeggianti che si accingono a interpretare una
commedia. Nelle mani di Goldoni l'opera buffa assunse fisionomia pi moderna ed evoluta, e venne
trasformata da quel genere legato a tradizioni locali che era, a un fenomeno culturale di dimensioni
europee. I suoi libretti acquistano una struttura pi definita, una maggiore dignit letteraria, una
lingua e delle trame pi raffinate; incarnano modelli di naturalismo per le caratteristiche dei

personaggi e delle situazioni, e superano la farsa arrivando ad essere commedie vere e proprie in cui
prevale l'aspetto sentimentale. Queste innovazioni non sostituirono completamente l'elemento
comico, ma convissero con esso, rendendo cos il libretto dell'opera comica della seconda met del
Settecento pi vario e interessante rispetto a quello dell'opera seria.
Altra importante collaborazione fu quella tra Goldoni e Niccol Piccinni (1728- 1800), dalla quale
scatur una delle pi importanti opere di questo periodo, La Cecchina ossia La buona figliuola,
composta nel 1760. La prima rappresentazione avvenne a Roma dove rest in cartellone per due
anni, e divenne poi famosa in tutta Europa. Il soggetto era tratto da Pamela, or Virtue Rewarded di
Samuel Richardson, il romanzo preferito da intere generazioni di ogni paese sin dalla sua
pubblicazione nel 1740. L'argomento introduce l'opera italiana al genere della comdie larmoyante,
vale a dire al nuovo genere di argomento sentimentale. Cecchina un personaggio dagli accenti
patetici: ama riamata il marchese di Conchiglia presso il quale presta servizio, ma non pu sposarlo
per gli ostacoli posti dalla marchesa Lucinda e il suo fidanzato, il cavaliere Armidoro. Solo dopo il
riconoscimento delle nobili origini di Cecchina da parte del soldato tedesco Tagliaferro si avr il
lieto fine. Gli otto personaggi appartengono a categorie espressive diverse cui corrispondono
altrettanti stili vocali-musicali: abbiamo la coppia di fidanzati appartenente alla classe nobile che
utilizzano le forme pi consuete della tradizione operistica "seria" come le arie col da capo; le
coppie buffe usano invece una vocalit immediata e vivace. Alla coppia di protagonisti,
appartenente alla categoria cosiddetta del mezzo carattere, vengono riservate arie in uno stile pi
nuovo, dal carattere tenero e melanconico. Queste diverse modalit espressive trovano una loro
compenetrazione drammaturgica nei concertati, che rappresentano i momenti pi interessanti e
innovativi di questo tipo di opera. Si tratta di brani di notevole complessit intorno ai quali si
muove tutto il contesto dell'opera che di solito sono posti alla fine dell'atto, ma talvolta compaiono
anche all'inizio o nel corso dell'opera in virt della loro importanza e funzionalit musicale e
scenica. L'autore che emul Piccinni nella elaborazione di pezzi d'insieme fu Giovanni Paisiello
(1740-1816), un compositore di notevole statura, attivo soprattutto a Napoli, tranne per un periodo
fra il 1776 e il 1784, che trascorse a Pietroburgo. Il suo Re Teodoro in Venezia, che fu presentato a
Vienna nel 1784, ed ebbe molte esecuzioni nei trent'anni successivi, offre un elemento di grande
interesse proprio nei concertati finali. Il suo Barbiere di Siviglia godette di un eccezionale favore
presso il pubblico italiano tanto che Rossini, quando present la sua opera omonima nel 1816, and
incontro a non poche difficolt per il perdurare del mito paisielliano legato a quest'opera. Il Socrate
immaginario (Napoli 1775) invece un esempio di parodia, abbastanza frequente nella librettistica
dell'opera comica: in questo caso la parodia indirizzata ai cultori del neoclassicismo in generale e
in particolare alla scena centrale fra Orfeo e le Furie dellOrfeo ed Euridice di Gluck. Altre opere di
Paisiello particolarmente aggiornate nel linguaggio sono la Molinara (Napoli 1789) e Nina pazza
per amore (Napoli 1789), uno dei pi begli esempi di commedia sentimentale di quel periodo.
L'arte di Paisiello si espresse particolarmente nella caratterizzazione dei personaggi. Inoltre egli
raffin molto la scrittura orchestrale a fini drammaturgici.
Il maggiore rappresentante dell'opera comica in Italia negli ultimi anni del Settecento Domenico
Cimarosa (1749-1801), autore di unottantina di opere. Come molti suoi connazionali, anche
Cimarosa fu chiamato per un certo periodo a Pietroburgo (1787-1791). Al ritorno si ferm a
Vienna, dove nel 1792 scrisse il suo capolavoro, Il matrimonio segreto. Il successo di quest'opera fu
immediato e non mai scomparso dal repertorio, fino ai giorni nostri.
Il livello di complessit ed elaborazione dell'opera comica divenne sempre pi alto verso la fine del
secolo tanto che si venne a rovesciare il rapporto rispetto all'opera seria che, per rinnovarsi, adott
proprio alcune delle innovazioni che avevano reso interessante e vitale l'opera comica, come il
concertato e la continuit drammatica. Questa situazione in seguito porter gradualmente a
eliminare ogni contrapposizione stilistica di genere per cui le caratteristiche di un'opera saranno
indipendenti dal fatto di essere di argomento serio o comico.

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