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IL RITORNO DELLA TORTURA

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Chiamiamola col suo nome


Antidoti agli eufemismi
Mauro Palma
ominare vuol dire dare nome, e dare bene nome alle cose una delle operazioni di igiene culturale a cui occorre riabituarsi. Perch spesso, nellargomentare, le cose non vengono connotate con il loro nome: specialmente quando sono in gioco fattori complessi, in grado di mettere in discussione il nostro autoconvincimento di essere democratici e immuni da inquinamenti autoritari o repressivi. Cos, in anni recenti, molti accadimenti e molti atteggiamenti non sono stati riportati con i loro nomi, ma con lunghe perifrasi volte a far svanire il loro duro e concreto significato. Alcune parole sono state innominabili: non si parlato di tortura, ma di eventi critici, gravi, spesso dovuti a situazioni sfuggite di mano, e cos non si data loro la connotazione che quel termine porta con s; analogamente, non si parlato di episodi di razzismo bens di generica intolleranza, e neppure di trattamenti inumani ma di condizioni difficili, critiche. Questi slittamenti linguistici sono il sintomo della difficolt a fare i conti con quanto di irrisolto il nostro contesto sociale porta con s: difficolt che emerge quando viene meno lattenzione alla complessit dei processi, in cambio di soluzioni di rapido consenso, e quando viene meno il valore collettivo che ci accomuna, in cambio di un approccio di individualistica difesa del proprio spazio proprietario. Sono questi stessi slittamenti linguistici a creare abitudine alla retrogradazione di problemi comportamentali collettivi a somma di casi individuali che, in quanto eccezionali, non richiedono lo sforzo di unanalisi pi globale. La complessit e la compartecipazione sono state espunte dal dialogo pubblico; sono state ridotte a impostazioni di nicchia, proprie di un ambiente culturale visto come residuale e incapace di soluzioni rapide, al passo di quel ritmo di un pensiero lineare che crede che a ogni problema corrisponda unimmediata soluzione praticabile: Fatto! stato uno slogan che ha accompagnato questi anni, anche se spesso la risposta trovata era foriera di nuovi problemi. In questa cultura di sfondo cresciuto il numero di episodi di violenza verso persone private della libert, commessi proprio da chi, in quanto responsabile della loro custodia, anche titolare della loro protezione e del loro accesso a diritti legalmente sanciti. Tutti episodi ridotti a casi di mele marce, anche se ormai si costruiva un intero frutteto di pomi avariati; tutti episodi non riportati con il loro nome. Per questo, citando Albert Camus, quanto mai opportuno ridare nomi alle cose, perch quando si comincia a nominare bene le cose, diminuisce il disordine e la sofferenza che c nel mondo. Del resto, il senso nasce proprio nominando le cose, perch a ogni nome insegna il buon Saul Kripke corrisponde un agglomerato di propriet che congiuntamente tra loro determinano in modo univoco un certo oggetto. Per questo nel codice i reati hanno un nome, non solo una descrizione. Quindi occorre risolversi a chiamare finalmente tortura ci che sappiamo caratterizzare quelle azioni di volontaria inflizione di grave sofferenza, o di permissivit o acquiescenza verso i responsabili di esse, e connotate da una finalit, sia essa volta a ottenere confessioni o informazioni, oppure a infliggere punizioni extralegali. Sono queste ultime le caratteristiche che la Convenzione delle Nazioni Unite evidenzia nel descrivere ci che essa chiama tortura: eppure non sono bastanti a chi non vuole pronunciare tale nome. Tra questi fino a oggi il legislatore italiano che non ha trovato la capacit di pronunciare la parola indicibile: pronunciandola in un testo normativo accetterebbe la sua possibile esistenza, ma darebbe anche senso alla sofferenza

Shozo Shimamoto, Whirlpool, Nishinomiya, 1967. Pittura su tela, 93 x 118 cm. Fondazione Morra.

della potenziale vittima; non pronunciandola, non riesce a dare a tale sofferenza la dignit di un nome. pi semplice nominare altri gravissimi reati, nel codice ce ne sono di tutti i tipi e gravit; pi semplice dire strage, genocidio che dire tortura, perch questo nome ci interroga direttamente. Interroga il potere delluomo sullaltro uomo allinterno della radicale asimmetria di chi indaga in nome della collettivit e chi indagato, fosse anche di reati gravissimi, di chi ha il potere legale della forza e che lha usata illegalmente. In tutti questi anni la parole tortura stata relegata in ambiti distanti dal nostro, perch riguardava conflitti in regioni lontane da noi o consuetudini repressive che riandavano a un passato sulla cesura dal quale il nostro presente stato costruito. Ma, espunto dal dizionario e dalle norme, il termine tornato a presentarsi nello spazio e nel tempo a noi vicino, spesso attraverso le parole delle sentenze che con esso hanno qualificato quegli atti di violenza che dovevano sanzionare. La parola cos presente nella descrizione dellazione repressiva compiuta da pubblici ufficiali a Genova nel 2001, cos come a Napoli nello stesso anno, e anche nella qualificazione di violenze operate allinterno dellistituzione carceraria, per esempio ad Asti. Luoghi familiari, tempo presente, descrizioni che sono esito di indagini e trovano conferma nelle sentenze: anche se queste, pur ampie nella parte in cui la tortura denotata attraverso precise enunciazioni, sono necessariamente insufficienti quando devono connotare quegli atti perch lassenza della tortura nel codice costringe a qualificarli in altro modo, con figure di reato pi deboli. Quelle descrizioni hanno comunque una potenza, nel nominare fatti, situazioni, comportamenti e nel riassumerli con il termine tortura, anche maggiore di quanto immagini di maltrattamenti, di abusi gravissimi e di violenta offesa alla dignit ci hanno fatto vedere nei primi anni di questo nuovo secolo, nei comportamenti dei soldati della grande democrazia americana in Iraq. Perch le immagini di Abu Ghraib, che prepotentemente sono entrate nella quotidianit familiare attraverso i vari media, hanno s fatto comprendere che la tortura non qualcosa del lontano passato o qualcosa che riguardi regimi dittatoriali; hanno fatto vedere che esiste ed pronta a riproporsi. Ma, al contempo, hanno quasi determinato unassuefazione a tale pratica o quanto meno lhanno fatta riemergere come una delle opzioni, negative ma possibili: lambiguo dibattito che si sviluppato oltreoceano sulla sua possibilit in si27

tuazioni estreme, o sulla necessit di una sua regolamentazione, ha del resto coinvolto taluni giuristi di tradizione democratica e ha anche attraversato lAtlantico. Soprattutto, le immagini non hanno la forza della ricostruzione del contesto, del restituire le idee e gli atteggiamenti di coloro che sono responsabili di quegli atti, del dare un quadro della cultura di cui sono espressione e delle posizioni di chi ha responsabilit. Questo lo si trova nel testo delle sentenze: testo un nome che ha come etimo tessuto, e un testo restituisce le trame dei fili che, come in un tessuto, si interconnettono tra loro fino a formare un tutto omogeneo, una descrizione compiuta che ci fotografa non solo latto, ma anche il suo contorno, cio la situazione in cui esso si compiuto. Cos la parola tortura, nominata nelle sentenze, acquista la connotazione definita e coinvolge non solo i diretti responsabili, ma anche coloro che sono parte del contesto in cui essi operano: descrive il luogo materiale, culturale e sistemico in cui essa si concretizza e pone cos interrogativi che non possono essere elusi col ricorso alla tradizionale formula delle mele marce. Le sentenze hanno quindi dato la possibilit, al di l delle stesse narrazioni delle vittime, di nominare la tortura e i suoi aspetti in modo compiuto. Nel caso italiano, quella di Genova, quella di Asti, ma anche quella della Corte europea per i diritti umani che ha condannato il nostro paese per i respingimenti operati in alto mare, senza la garanzia del riconoscere le eventuali persone che fuggivano da persecuzioni e guerre, e soprattutto rimandandole verso luoghi dove il rischio di maltrattamenti e torture era concreto. Per questo possibile e importante costruire attorno a questa parola altre parole, dando nomi a comportamenti e atti, e costruire un lessico che avvii loperazione positiva di nominare le cose. Un lessico il sedimentato di un insieme di riflessioni rivisitate attraverso loperazione che, connotando singoli comportamenti o azioni con un nome, costruisce la trama complessiva di significati che ruota attorno a tale pratica. Come non vedere, per esempio, lo stridore tra il nome waterbording, con cui lex presidente George W. Bush ha definito una pratica estremamente violenta dinterrogatorio, e la sua pretesa di non considerarla atto di tortura? Il nome di per s significante. Purtroppo per lo stesso lemmario proposto dalle pagine di questo libro ha il difetto intrinseco di ogni vocabolario: un insieme aperto, pas-

sibile di ampliamenti, di evoluzioni. Questa caratteristica, che nel caso della lingua indice della sua potenzialit, del suo continuo aprirsi a modifiche e nuove articolazioni, nel caso del dizionario della tortura indice di nuovi rischi su cui occorre vigilare continuamente. In anni recenti, infatti, abbiamo familiarizzato con nuove parole, spesso mutuate dal loro originale inglese, che hanno descritto il precipitato culturale di azioni condotte sotto lenfasi di una lotta meramente militare al terrorismo internazionale. Nel lessico entrata cos la locuzione blacksites, direttamente, senza traduzione, per indicare luoghi illegali e oscuri di detenzione, dove alcune persone sono state trattenute al di fuori di norme e controlli, nellambito di operazioni in cui si andavano mescolando le responsabilit di servizi segreti ufficiali e quelle di corpi paramilitari illegali. Ugualmente oscuri sono stati alcuni voli su cui le istituzioni europee hanno successivamente indagato, definiti con aggettivo segreti proprio a indicare la possibilit per gli aerei di non avere segni di riconoscimento; eppure potevano atterrare e ricevere dagli Stati assistenza e rifornimento di carburante, senza il dovuto controllo su quanto quegli aerei stavano trasportando: spesso persone arrestate o anche rapite, in transito verso paesi dove poterle interrogare al di fuori e al di l delle regole internazionali. Operazioni, queste, chiamate renditions altro termine inglese entrato prepotentemente nel nostro lessico , tenute assieme da una caratteristica comune: il trasferimento di persone da una giurisdizione a unaltra o da uno Stato a un altro, al di fuori delle ordinarie procedure giudiziarie e senza le garanzie e i controlli che queste comportano. A questo nome si spesso aggiunto un aggettivo che tuttavia non ne d unadeguata connotazione, data la sua genericit: laggettivo extraordinary. Questo ne indica soltanto leccezionalit, ma aveva e ha un diverso valore semantico nel contesto delle renditions perch sta a indicare un trasferimento verso un paese dove chiaro il rischio che la persona sia sottoposta a tortura o a trattamenti o pene inumane o degradanti, essendo ben noto per simili pratiche nei confronti di alcune categorie di detenuti. A frenare lattenzione delle organizzazioni non governative e delle istituzioni di controllo si coniata unulteriore locuzione: garanzie diplomatiche, per indicare una sorta di scambio di lettere dintenti attraverso cui uno Stato, che voglia trasferire una persona verso un paese ove noto il rischio di tortura o altri simili trattamenti, chiede alle autorit locali garanzie affinch la persona trasferita non sia sottoposta a tali pratiche. Ovviamente non si tratta di strumenti giuridicamente vincolanti, n gli Stati sono chiamati a rispondere in concreto della eventuale successiva inosservanza di quanto garantito; non solo, ma la richiesta di garanzie specifiche per il trasferito finisce col retroagire come conferma delle violenze operate sugli altri. Questi e altri sono nuovi nomi e nuove locuzioni cui abbiamo finito per abituarci, ed bene tenerli chiari nel nostro lessico mentale quando ragioniamo di tortura nella nostra contemporaneit. Soprattutto sono la prova dellevoluzione linguistica che accompagna i fenomeni, anche quelli delle violenze istituzionali. Per questo la ricostruzione di nomi e azioni corrispondenti, di significanti e significati, non un esercizio logico; il modo concreto per leggere il senso complessivo di un agire e le culture che lo sorreggono. E restituisce a noi quelligiene minima che il dare nome alle cose porta sempre con s. Tratto dalla postfazione del libro di Patrizio Gonnella, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubbblica, DeriveApprodi, febbraio 2013

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IL RITORNO DELLA TORTURA

La tortura democratica
Come si faceva ai bei tempi
Sergio Segio

l tema della tortura fa parte dellindicibile, abita il regno dellopacit e del segreto, della paura e della vergogna. Sfugge non solo alla denuncia della cronaca e allanalisi della saggistica, ma anche al racconto del cinema e della letteratura, per rimanere confinato nella memoria ferita del torturato e nella distratta ripetitivit del torturatore, spesso saldate in un paradossale e opposto silenzio. La tortura esiste allorch la persona viene ridotta a cosa, precondizione affinch il carnefice, che normalmente abita nei ripostigli dello Stato, vesta o meno una divisa, possa e riesca a sua volta a disumanizzarsi infliggendo dolore e umiliazione a un corpo svuotato di ogni traccia di umano. Arriva ora dalleditore DeriveApprodi un testo importante, per lapproccio rigoroso e documentato e per lesperienza dellautore, Patrizio Gonnella, presidente dellassociazione Antigone: La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica. Un testo maggiormente benvenuto poich la pubblicistica in argomento si conta sulle dita delle due mani. Il quadro ancora pi desolato per quanto riguarda questo fenomeno in relazione al conflitto degli anni Settanta, anche su questo vittima di una inesorabile e nemmeno pi percepita damnatio memoriae. Un aspetto che lo stesso Gonnella ha scelto di non approfondire. Cos che, su questo specifico, il riferimento pressoch unico rimane un volume dato alle stampe quindici anni fa, Le torture affiorate (Sensibili alle Foglie, 1998). La notte sono entrati in cella alcuni incappucciati e uno a viso scoperto mi hanno ordinato di alzarmi mi hanno legate le mani dietro la schiena non mi sentivo pi circolare il sangue mi hanno bendata e incappucciata fatta uscire a ogni mio cedimento mi tiravano su per i capelli mi hanno messa su un pulmino dove cerano due uomini credo almeno perch erano due le voci che distinguevo mi hanno detto urlando che ero in uno stato di illegalit ero sequestrata nessuno sapeva del mio arresto se non parlavo di me avrebbero trovato solo un cadavere siamo partiti e subito mi hanno tolto tutti gli indumenti di sopra e hanno cominciato a picchiarmi con botte sulle cosce ai fianchi sullo stomaco sulla schiena e iniziato a palparmi e tirarmi il seno e i capezzoli inveivano contro di me dicendo che ero una stronza e una terrorista e che avevo tutto da perdere a fare la dura. Ci che stato reso invisibile dai media, occultato da politici e magistrati e trascurato da storici e ricercatori, raramente e meritoriamente riemerge, come in questo caso, nellespressione artistica (Nanni Balestrini e Gianfranco Baruchello, Girano voci, Frullini, 2012), avendone avuti drammatici spunti nelle testimonianze dei seviziati. Come quella di uninfermiera di Roma accusata di avere curato un brigatista ferito: Un paio di giorni dopo il mio arresto, la notte fra il 3 e il 4 febbraio, incappucciata dietro la schiena, vengo caricata su un pulmino. Mi urlano che nessuno sa del mio arresto e che mi devo considerare sequestrata. Mi mettono a torso nudo, mi picchiano e mi stringono i capezzoli. Arriviamo non so dove, in una stanza. Vengo denudata completamente. Mi insultano dicendo che sono una merda, una puttana, una lesbica. Continuano a stringermi i capezzoli. un dolore fortissimo. Mi passano delle cose calde sotto. In vagina e nellano. Mi danno calci in vagina. Mi fanno fumare una sigaretta che subito mi annebbia il cervello. Mi ritrovo in un pozzo di urina. Da quel momento ho iniziato a dire tutto quello che volevano sapere da me (il racconto riportato dai quotidiani Lotta Continua del 21 febbraio 1982 e Il Manifesto del 12 marzo 1982). Ora, a distanza di oltre trentanni, la verit soffocata torna a galla nellinedita confessione di uno dei torturatori dellepoca, lex commissario Salvatore Genova: Io sono fuori per degli arresti

Shozo Shimamoto, Felissimo 014, Kobe, 2007. Acrilico su feltro, 200 x 200 cm. Fondazione Morra.

e quando rientro in questura vado allultimo piano. Qui, separati da un muro, perch potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per s ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie (intervista a cura di Pier Vittorio Buffa, in LEspresso, 9 aprile 2012). Si tratta di un documento che non per nulla esagerato definire storico. Per la prima e al momento unica volta un torturatore ammette nei dettagli le violenze commesse su arrestati; rivela i nomi dei complici e quelli dei mandanti. Un documento che avrebbe dovuto dar luogo a inchieste giudiziarie e riempire le prime pagine dei giornali. Manco a dirlo, la risposta stata un fragoroso ed eloquente silenzio. La crepa nel muro di gomma dellomert di Stato stata prontamente richiusa. Torture di Stato ha titolato correttamente il servizio LEspresso. E lo Stato non pu essere inquisito o accusato. N possono essere smentiti quei magistrati, oggi divenuti paladini di certa sinistra, che hanno sempre ripetuto la litania bugiarda che il terrorismo stato sconfitto senza forzature e nei confini della legge. Invece, in questo paese, in quegli anni c stata una guerra sporca, simile a quella che lo Stato spagnolo ha combattuto contro gli indipendentisti dellEta anche a colpi di squadre speciali incaricate di azioni illegali, di torture, sequestri, omicidi. Ora tutti hanno saputo che lo Stato italiano aveva delegato la difesa della democrazia a un dirigente della questura messo a capo di una squadra di torturatori e soprannominato manzonianamente dai suoi superiori Professor De Tormentis, al secolo Nicola Ciocia, e ai suoi tanti e improvvisati emuli. Un signore che oggi si gode impunito e decorato la pensione, che si fa intervistare con un busto di Mussolini sulla libreria e che dichiara: Io sono fascista mussoliniano (Corriere della Sera, 10 febbraio 2012). 28

Sarebbe interessante sapere cosa ne pensano quei magistrati che hanno riempito le pagine dei giornali con le loro bugie sul rigoroso rispetto delle regole democratiche nella lotta contro il terrorismo. Sarebbe doveroso che qualcuno, giudice o giornalista, andasse oggi dallex ministro degli Interni Virginio Rognoni a chiedere conto delle sue affermazioni in sede di risposta alle interrogazioni parlamentari sui casi di tortura. Nella seduta del 18 febbraio 1982 il ministro dichiarava in aula: Appare imprescindibile un dovere: il dovere, e insieme il diritto, di riaffermare una verit, che il governo ha condotto, conduce e condurr sempre la lotta al terrorismo nellambito della legalit repubblicana e con tutte le garanzie democratiche. Analoghe le esternazioni di molti politici e magistrati di quel tempo, a partire dal presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che defin gli episodi di tortura come palesemente inverosimili, arrivando a ipotizzare che la denuncia delle sevizie fosse una strategia messa in campo dalle organizzazioni armate come ultima carta per accreditare limmagine di uno Stato torturatore e seviziatore, tendenzialmente autoritario. Simile la posizione assunta da Domenico Sica, procuratore a Roma, secondo il quale le torture erano da considerarsi una campagna orchestrata dai terroristi per screditare la polizia. Del resto proprio quel magistrato, allepoca dei fatti, si trovava a interrogare gli arrestati pochi giorni dopo le sevizie, senza naturalmente accorgersi di nulla. Per il sottosegretario allInterno, il democristiano Marino Corder, si trattava di schiocchezze enormi. Falsit. Prodotto di fantasia pura. Ancora pi ciniche le dichiarazioni di un altro sottosegretario agli Interni, il socialista Francesco Spinelli, che affermava: Non mi risulta che sia mai morto nessuno, n che qualcuno abbia riportato lesioni gravi. Non penso si possa dire che in Italia ci sono torture di tipo sudamericano. Diciamo che nei confronti degli arrestati ci sono stati trattamenti piuttosto duri, ma sono cose che capitano nelle polizie di tutto il mondo. Perfino lex partigiano Sandro Pertini avall queste ricostruzioni bugiarde. Insomma, si trattava di torture democratiche. Le tecniche, spesso, erano invece esattamente di tipo sudamericano, come nel caso dellarresto

di due militanti di Prima linea a Tuscania. Una tecnica raccontata dal quotidiano Lotta Continua del 9 febbraio 1982: Nelloperazione che port allarresto dei rapinatori a Tuscania i due catturati che furono oggetto di un tentato linciaggio ripreso da tutti i giornali e trasmesso dalle televisioni non erano i due terroristi ma due carabinieri, alluopo travestiti per giocare la parte, per confondere quelli ancora in libert e per poter interrogare immediatamente, in luogo discreto, i due catturati. Come si svolse quellinterrogatorio lo raccont poi uno dei due torturati e temporaneamente desaparecidos, Gianfranco Fornoni, in una lettera pubblicata da Controinformazione nellaprile 1982 e in un esposto presentato alla Procura della Repubblica l8 febbraio dello stesso anno e, naturalmente, ignorato come tutte le altre denunce analoghe. Queste erano le garanzie democratiche offerte ai sospettati di lotta armata in quegli anni. Garanzie da Garage Olimpo. Questo tipo di violenze, va detto, nella storia delle carceri e delle caserme italiane, prima e dopo quelle vicende, sono spesso successe. Ma la peculiarit quella sottolineata nel 1982 dallonorevole Marco Boato: E la prima volta che la tortura viene denunciata come pratica sistematica, senza suscitare, salvo rarissime eccezioni, n proteste, n condanne, n inchieste amministrative. Luso non episodico della tortura in Italia negli anni Settanta e Ottanta dunque una nonnotizia che stata gelosamente custodita nelle stanze del potere e nei cassetti delle redazioni da oltre trentanni. Come racconta lex commissario Salvatore Genova, poi eletto deputato, la squadra dei torturatori diretta dal questore Nicola Ciocia fu costituita nel 1978, dopo il sequestro Moro. Una decisione presa a livello ministeriale, afferma lo stesso Genova. Dunque, dallallora ministro Francesco Cossiga che nella sua strategia contro il terrorismo era sostenuto e affiancato da un altro ministro degli Interni, quello cosiddetto ombra del Partito comunista italiano, Ugo Pecchioli. Sono dunque stati ministri degli Interni democristiani ad accettare o addirittura a ordinare le maniere forti sui militanti arrestati, ma senza il consociativismo del compromesso storico non avrebbe potuto avere luogo quella sistematicit e impunit della tortura. Tra i pochissimi, solo un vecchio dirigente della sinistra come Emanuele Macaluso ha avuto il coraggio di ammettere le coperture e le reticenze: Negli anni di piombo la sinistra abbass la guardia, anzi chiuse gli occhi davanti ad autentici pestaggi che si verificarono nelle carceri. Parlo di cose che conosco bene e bisogna riconoscere che allora, tranne Il Manifesto, non reag nessuno. In quegli anni la sinistra non soltanto avall la legislazione emergenziale, ma non pronunci neanche mezza parola per protestare contro episodi di autentica vergogna (La Stampa, 7 novembre 2001). Ci fu possibile perch esistette una collaborazione stabile tra gli apparati del Pci e quelli dello Stato in funzione antiterrorismo; peraltro andrebbe ricordato che tutti i vertici dei servizi segreti e dei carabinieri con i quali collaborava Ugo Pecchioli in quegli anni erano affiliati alla P2 di Licio Gelli. Lo ricorda lo stesso Pecchioli in un suo libro (Tra misteri e verit. Storia di una democrazia incompiuta, Baldini & Castoldi, 1995), ma lo riferisce anche uno che allora partecipava attivamente a quegli informali e segreti connubi, Giuliano Ferrara: Contro le Br facevamo gruppo unico: Caselli, Ugo Pecchioli, il segretario della Federazione di allora Renzo Gianotti, il sindaco Diego Novelli e io. Ci riunivamo, discutevamo. Cera una fusione tra ruoli: il Pci si era fatto Stato (Panorama, 11 luglio 1996). Uno Stato torturatore, ci ricorda ora LEspresso.

IL RITORNO DELLA TORTURA

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Contro la rimozione mediatica, contro la vacanza giuridica


Antonio Marchesi
1. Titolo e contenuto del libro di Patrizio Gonnella La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica suggeriscono (o, meglio, affermano a chiare lettere) che il problema della tortura nel nostro paese esiste: unaffermazione che corrisponde indiscutibilmente al vero ma che meno scontata di quanto si potrebbe immaginare. infatti ancora oggi Gonnella giustamente lo ricorda piuttosto diffusa una tendenza alla rimozione politica e giuridica del fenomeno al quale il suo libro dedicato; tendenza che costituisce a sua volta una variante di quellatteggiamento di sufficienza che porta molti a dire che il problema dei diritti umani un problema che non riguarda lItalia un problema, per noi, unicamente di politica estera, non di politica interna. Che la tortura costituisca, invece, un problema per lItalia vero non per uno ma per due motivi diversi: in primo luogo per la ragione banale che gli episodi di tortura nel nostro paese non mancano affatto (n, per la verit, sono mai mancati). Di alcuni veniamo a conoscenza (come nel caso dei fatti di Genova del 2001, per il contesto del tutto particolare). certo per che quelli noti rappresentano solo una parte degli episodi di maltrattamento o di vera e propria tortura che accadono in luoghi separati e ancora oggi relativamente nascosti alla vista. Ma il problema della tortura in Italia si pone anche, paradossalmente, perch si continua a negare che esista; e perch non si tengono, dal momento che si nega lesistenza (anche soltanto eventuale) del fenomeno, quei comportamenti che il diritto internazionale impone agli Stati di tenere allo scopo di prevenire e reprimere la tortura e di offrire una riparazione alle vittime. 2. Una dimostrazione particolarmente eloquente dellesistenza di questo duplice problema della tortura in Italia ci viene offerta dalla vicenda avvenuta alcuni anni fa nel carcere di Asti e dal relativo seguito giudiziario, concluso soltanto nel 2012. Un detenuto stato spogliato e condotto in una cella della sezione di isolamento del carcere priva di vetri alle finestre, di materasso per il letto, di lavandino e di sedie o sgabelli. rimasto in tale cella per circa due mesi, per i primi due giorni completamente nudo. Durante tale periodo gli stato razionato il cibo; nei primi giorni ha ricevuto solo pane e acqua. Nel periodo trascorso nella cella di isolamento stato picchiato ripetutamente, anche pi volte nellarco delle 24 ore, con calci, pugni e schiaffi per tutto il corpo. A un secondo detenuto stato riservato un trattamento molto simile. Ebbene, questi fatti che meritano non soltanto la qualifica di trattamenti inumani e degradanti ma altres lo stigma della tortura vera e propria sono stati oggetto di indagini condotte in modo adeguato che hanno portato allaccertamento dei fatti stessi e allidentificazione dei responsabili. E tuttavia nessuno stato punito, a nessuna delle vittime stato attribuito un risarcimento per mancanza di strumenti giuridici idonei allo scopo. Manca infatti, nel nostro ordinamento, una previsione di reato che non conduca, quasi inevitabilmente, in virt della brevit della pena prevista in combinazione con la lunghezza dei processi nel nostro paese, alla prescrizione e di conseguenza allimpunit dei colpevoli. Il reato di tortura non c, scrive il giudice di primo grado; c il reato di abuso su persone detenute, ma prescritto. Sarebbe stato meglio ricorrere alla fattispecie di maltrattanibilit di certe cause di giustificazione, e altre ancora. Nonostante ci, indiscutibile che vi sia una tensione tra gli obblighi internazionali sui diritti umani, da una parte, e i sistemi giuridici di molti Stati (non solo del nostro), dallaltra; tra le norme per la prevenzione e la repressione della tortura, che del diritto internazionale dei diritti umani rappresentano una punta avanzata, e la resistenza al cambiamento caratteristica di legislatori e magistrati nella maggior parte dei paesi. Questa tensione riguarda, tra le altre cose, i concetti di base (a partire da quello di tortura) e la loro definizione; riguarda, cio, il tema del linguaggio, che attraversa tutto il libro di Gonnella e che oggetto di una bella riflessione finale di Mauro Palma. Ci che avviene non difficile da spiegare: nellimpossibilit di mettere in discussione lesistenza di un divieto inderogabile di tortura di quello che in termini non giuridici potremmo descrivere come il tab della tortura non pochi Stati si sono proposti di limitare la portata di tale divieto o di eluderlo del tutto attraverso un restringimento del suo oggetto. A tal fine vengono usati, nel tentativo di giustificare comportamenti inaccettabili, una serie di eufemismi: meri abusi lespressione usata dal Donald Rumsfeld riferendosi ai fatti di Abu Ghraib; e pressioni fisiche, stratagemmi sono tra i termini utilizzati negli atti ufficiali per descrivere i metodi dinterrogatorio dei servizi israeliani. Se la tortura del tutto ingiustificabile, altri comportamenti (o, pi precisamente, atti di tortura chiamati in altro modo) lo sono. 5. Ma torniamo alla declinazione propriamente italiana del problema della rimozione della tortura. La storia completa delle vicissitudini e degli ostacoli a cui sono andati incontro i ripetuti tentativi di rimediare allassenza di strumenti adeguati di contrasto del fenomeno troppo lunga da raccontare (rinvio ancora una volta, per questo e per altro, alla lettura del bel libro di Patrizio Gonnella). Mi limito a citarne lultimo episodio in ordine di tempo, risalente a poche settimane fa, quando lesame di un disegno di legge, approvato allunanimit in commissione, stato sospeso nellaula al Senato a seguito dellintervento di alcuni senatori (politicamente distanti ma curiosamente vicini per cultura professionale). In quelloccasione abbiamo di nuovo sentito dire che il problema di non criminalizzare le forze di polizia. Non che la credibilit delle forza di polizia in uno Stato democratico si fonda sul ripudio della tortura, degli abusi, della violenza gratuita. Non che i responsabili di comportamenti contrari alla dignit umana vanno puniti per difendere la rispettabilit dei colleghi e lautorevolezza del corpo. Non che una polizia professionale non fa ricorso a metodi degni di altre epoche della nostra storia. Non che pensare di eliminare il problema della tortura semplicemente non contemplandola nel codice unoperazione assurda. La conclusione, allora, che il (duplice) problema della tortura in Italia un problema di sofferenze, di umiliazione e di paura; ma anche di insipienza e di malafede. E il secondo aspetto non meno preoccupante del primo.

Shozo Shimamoto, Time Rack, Nishinomiya, 1986. Pittura su tela, 417 x 216 cm. Fondazione Morra.

menti aggravati, scrive la Corte di cassazione, adita dal procuratore; ma anche questo prescritto e dunque inutile pronunciarsi. Come a dire: stiamo discutendo del nulla, perch in Italia la tortura esiste nei fatti ma non nella legge. 3. quasi superfluo precisare che questa situazione in contrasto con le norme europee e internazionali in materia. La Corte di Strasburgo ha pi volte precisato che il rispetto dellarticolo 3 della Convenzione europea dei diritti delluomo comporta che, a fronte di notizie circostanziate di tortura, le autorit giudiziarie siano in grado di identificare le condotte contrarie a questultimo, di punirne adeguatamente i responsabili e di riparare il danno subto dalle vittime (e dunque che dispongano di strumenti adeguati allo scopo). Quanto alla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, questa tutta finalizzata ad assicurare unazione statale di contrasto di tale fenomeno che sia particolarmente energica, a 29

evitare che la tortura sia trattata come un reato di routine. Chiamare la tortura con il proprio nome, anche nella legge penale, pertanto il minimo che si possa fare. La soluzione consistente nellapplicazione alla tortura di fattispecie di reato generiche soluzione sulla quale il nostro paese insiste da anni invece funzionale a una sottovalutazione della gravit del fenomeno e, in definitiva, alla sua rimozione. Si aggiunga che il rispetto dellinsieme degli obblighi di repressione della tortura previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite, a cominciare da quello di prevedere sanzioni penali adeguate alla gravit dei comportamenti, a essere reso di fatto impossibile dallassenza di una previsione specifica. 4. Occorre peraltro riconoscere basta allargare un po lo sguardo che il problema non solo italiano. Molti paesi, in verit, hanno un reato specifico di tortura nel proprio ordinamento, e alcuni hanno introdotto norme importanti sulla cosiddetta giurisdizione universale, sullindispo-

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