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domani accadra'/NELLE SALE A NATALE

cinepotere/CAPITALISTI A METROPOLIS

psicovisioni/UNA MADRE PAZZA E' PAZZA?

i soliti ignoti/TAKASHI MIIKE

horrorpolitics/FAMIGLIE DE(GENERI)

rivista senza parole/ERMETE NOVELLI


cinematografica
romagnola visioni russe/EJSENSTEIN STORICO

numero
15 dicembre 2009
18 icone di celluloide /DJANGO

BILLY GIUDICA/ SEGRETI


DI FAMIGLIA/
(500) GIORNI INSIEME/LA PRIMA LINEA/
DORIAN GRAY/CE N'E' PER TUTTI

garroyo/I BLOCKBUSTER DEL 2100


INDICE
pag. 3 [ DOMANIaccadrà] POLPETTE ELEMENTARI ( Ilario Gradassi)
pag. 4-6 [ visioniRUSSE] EJNSESTEIN, IVAN E I BOIARDI ( Fabio Grassi)
pag. 7 [ HORRORpolitics] LA ( DE) GENERAZIONE FAMILIARE ( Matteo
Lolletti)
pag. 8 [ psicoVISIONI] UN BIMBO E' LA FOLLIA DI UNA DONNA ( Luigi
Palmirotta)
pag. 9 [ cineLETTERATURA] KUBRICK LEGGE SCHNITZLER ( Marco Bacchi)
pag. 10-11 [ SENZAparole] ERMETE NOVELLI ( Barbara Grassi)
pag. 12-13 [ isolitiIGNOTI] TAKASHI MIIKE ( Michelangelo Pasini)
pag. 14-15 [ billyICONA] L' IMPORTANZA DI CHIAMARSI DJANGO ( Alberto
Semprini)
pag. 16 [ BILLY GIUDICA] SEGRETI DI FAMIGLIA ( Alessandro Merci)
pag. 17 [ BILLY GIUDICA] DORIAN GRAY ( Chiara Tartagni)
pag. 17 [ BILLY GIUDICA] CE N' E' PER TUTTI ( Chiara Tartagni)
pag. 18 [ BILLY GIUDICA] ( 500) GIORNI INSIEME ( Chiara Tartagni)
pag. 19 [ BILLY GIUDICA] LA PRIMA LINEA ( Alessandro Merci)
pag. 20-21 [ GARROYO eisuoiFRATELLI] IL DOLORE MI FA UNA SAGA ( Paco
Francisco Garroyo)
pag. 22 [ cinePOTERE] METROPOLIS ( Barbara Pianese)

Quello che avete iniziato a sfogliare è l'ultimo numero di BILLY del 2009, che esce tre settimane
dopo il precedente grazie a disdicevoli contrattempi che elevano la legge di Murphy ad assioma
universali e che resteranno nelle segrete stanze redazionali. Ci trovate un ventaglio di argomenti
e scritture che dovrebbero rendere sazi tutti gli appetiti. Ne è uscito un numero senza agganci
locali e senza agganci telematici. Entriamo durante le vacanze in cantiere per prendere un
formato più stabile. Ci si vede tra un mese circa. Nel frattempo uscirà qualcosa di riassuntivo
sull'anno cinematografico 2009, probabilmente nei primi giorni del 2010. Sono propositi un po'
vaghi, ma è anche l'aria dei tempi. Buone visioni.

In copertina Gene Kelly e Cyd Charisse, foto di scena di Cantando sotto la pioggia
(Gene Kelly, Stanley Donen, 1952)

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del 7 marzo 2001 e non persegue alcuna finalità di lucro. Le immagini utilizzate
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Rivista chiusa alle ore 19 di mercoledì 16 dicembre 2009.

2 ­ BILLY
DOMANIaccadrà
appuntamenti in sala

Polpette elementari
La battaglia del cinema di Natale è in vista.
Centinaia di pellicole sono ammassate dai
grandi multiplex alle piccole monosale
sperdute. Per titillare l'interesse dei quattro
milioni che compreranno il biglietto l'offerta
è grosso modo la solita. Ma questo non ci
impedisce di tentare una mappa delle uscite
dal 18 dicembre all'inizio di gennaio 2010.
La prima scelta, se appartenete alla
disdicevole moltitudine che frequenta una
sola cinematografica la sera del 24 o del 25,
è comunque Sherlock Holmes (Guy Ritchie,
2009, 139', nelle sale dal 25 dicembre) con
Robert Downey jr., Jude Law e Rachel
McAdams. Il più famoso investigatore
privato della storia della letteratura viene
riletto, con una punta di coraggio,
immergendolo in una Londra satura e
digitalizzata (alla stregua del recente Dorian
Gray) e cercando di riproporre i personaggi
liberati dal canone classico. Ritchie è un
regista alterno ma gli attori sono solidissimi
e promettono un grande spettacolo.
Subito dietro, in particolare se avete una
prole da soddisfare, a ranocchi, bambini
volanti, cani fedeli, rigurgiti di canti natalizi e
vecchietti su case volanti andrete sul sicuro
con Piovono Polpette (Phil Lord, Chris Miller,
90', esce il 23 dicembre), film animato
targato Sony anche in 3D, con un giovane
scenziato che scopre il modo per fare
piovere cibo senza pensare alle
conseguenze. Grazie anche a un inusuale
disegno un po' spigoloso la pellicola è una
gradevole apocalisse in una scenografia che sarebbe piaciuta alla cattiva di Hansel e
Gretel. Se poi riuscirete a scansare la quasi totalità delle sale e i pieraccioni e le ferilli che
le popoleranno ci sono anche Amelia, Brothers e Il canto delle spose. Valgono la pena di
essere visti se avrete ancora tempo e spazio.
Ilario Gradassi

BILLY ­ 3
visioniRUSSE
il cinema oltre il Volga

Ejzenstein storico: Ivan e i boiardi


In un’epoca in cui siamo ormai assuefatti ai
“polpettoni” nei quali il racconto storico è spesso
piegato alle esigenze della spettacolarizzazione e
degli effetti speciali fini a sé stessi, la visione
degli ultimi due film di Sergej Michajlovic
Ejzenstejn – uno dei più grandi registi di tutti i
tempi – può essere un sano richiamo alle istanze
più autentiche del cinema storico. Se è vero che
la Storia non è mai semplice conoscenza del
passato ma strumento di riflessione sul presente,
è vero che essa (quando è vera Storia) è al
tempo stesso un’opera d’arte. Ejzenstejn ce ne
ha offerto una prova sorprendente, che sembra
resistere al passare degli anni. Siamo nel 1941:
Ejzenstejn ha già girato l’”Aleksandr Nevskij” (1938), epica celebrazione del
condottiero che, nel XIII secolo, ha respinto l’attacco portato ad una Russia
ancora embrionale da parte dei Cavalieri Teutonici (quasi un’anticipazione di
quello che sarebbe avvenuto nella Seconda Guerra Mondiale). Alla soglie
dell’inverno del 1941 il fronte russo resiste a Leningrado, Mosca e soprattutto
Stalingrado. Mentre si mette in moto l’immensa macchina della propaganda
sovietica per incitare alla resistenza, Ejzenstejn pensa ad una trilogia dedicata
alla figura dello zar Ivan IV il Terribile (1547­1584), considerato padre
fondatore dello Stato russo, colui che pose fine – seguendo le tendenze tipiche
dell’assolutismo moderno ­ allo strapotere dell’oligarchia dei Boiardi, la nobiltà
feudale del paese. Sotto le spoglie della finzione cinematografica si cela,
naturalmente, una chiara celebrazione di Stalin. Se l’”Ivan” di Ejzenstejn fosse
un film di pura propaganda, tuttavia, non varrebbe nemmeno la pena di
recensirlo. La verità è che c’è dietro molto di più, perché il genio sa trovare
sempre le sue vie per esprimersi, e nessun dogma o “ipse dixit” lo può
fermare. Anche se, in verità, una battuta d’arresto la trilogia la conobbe. Il
primo episodio (“Ivan il Terribile”) era ultimato alla fine del 1944, il secondo
(“La congiura dei Boiardi”) nel 1946, ma non fu mai proiettato prima del 1958.
Solo allora venne infatti revocata (per sopraggiunta “destalinizzazione”) la
condanna con cui il Comitato Centrale aveva colpito il film appena uscito, con
l’accusa al regista di tradimento della verità storica. Abbiamo detto che Ivan il
Terribile – primo costruttore dello stato russo su basi moderne e distruttore
delle spinte centrifughe dell’oligarchia feudale dei Boiardi – è Stalin – padre
della “nuova patria socialista” scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre. E sia pure,

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ma allora perché l’intervento della rigida censura sovietica? In primo luogo,
essa era spaventata dalla lucida ed attualissima riflessione sulla natura del
Potere, davanti al quale non c’è distinzione tra “buoni” (zar Ivan – popolo
russo ­ Stalin) e “cattivi” (Boiardi – nemici del popolo – Trotzkij), ma
l’impietosa analisi di come esso sia solo portato, con ogni mezzo ed all’ombra
di ogni bandiera, a cercare la propria perpetuazione. In secondo luogo l’opera
(caratterizzata non a caso da una forte teatralità) è imbevuta di spirito
shakespeariano: Ivan rappresenta Stalin almeno quanto rappresenta gli eroi,
sofferti e contrastati, delle più grandi opere di Shakespeare. Lo zar russo è un
Riccardo III, un Macbeth alla fine vincenti, ma a quale prezzo! E’ un Amleto
che in ultimo non muore, ma che ha creato il vuoto attorno a sé (vuoto sia di
familiari che di amici: soltanto i sudditi – i “cani” – gli sono rimasti), e che
finisce per grandeggiare in maniera tragica nella sua profonda solitudine. Se
tutto ciò può apparire in parte giustificato nel nome della “santa causa della
Russia”, l’impressione generale è che siano, alla fine, la spietatezza e la
crudeltà gelide della “ragion di Stato” ad avere trionfato. A questo proposito
Ejzenstejn è un vero maestro nella creazione delle atmosfere. Per la
descrizione dello spirito subdolo, caratterizzato dal perenne strisciare

BILLY ­ 5
nell’ombra, delle corti – luoghi del tradimento e delle congiure (Stalin ne era
ossessionato) per eccellenza, Ejzenstejn ricorre: 1) ad un’ambientazione
costruita su scenografie altamente suggestive, dove alla grandiosità di certe
scene (quasi tutti interni) si contrappone la chiusura quasi claustrofobica di
altre; 2) ad un uso del bianco e nero che sottolinea, attraverso i chiaroscuri
ed il gioco di luci ed ombre, la doppiezza dei personaggi. Gli attori
(eccezionale l’interpretazione di Nikolaj Cerkasov nei panni di Ivan, vero
profeta delle vocazioni millenaristiche neobizantine della Mosca quale “Terza
Roma” e futura guida religiosa e civile dell’umanità) vengono dalla grande
scuola del cinema
muto e, più delle
loro parole, sono
gli sguardi e le
espressioni del
volto a parlare.
Solo le immagini
raffigurate dalle
numerose icone in
stile bizantino, con
i loro caratteristici
grandi occhi
piangenti,
sembrano
portatrici di
sincerità e verità.
La colonna sonora
di Prokof’ev, cupa e drammatica anche quando esemplata sulla musica sacra
bizantina, fa da splendido contrappunto alla rappresentazione visiva. E’
evidente il richiamo alla grande opera lirica di Mussorgskij, il “Boris Godunov”,
soprattutto nell’uso di rintocchi oscuri e lugubri per le campane che, se
sottolinea da una parte la sacralità ideale, spirituale delle chiese ortodosse, ne
indica dall’altra anche la loro corruzione e decadenza nel più sfacciato
temporalismo. L’unica lunga scena a colori del film (girata in Agfacolor, bottino
di guerra), quella del banchetto nella “Congiura dei Boiardi”, vale da sola un
intero spaccato di storia del cinema: è un’autentica esplosione di colore, che
si accende in potenti flussi di rosso, di nero e di viola, evocatrice di
un’atmosfera quasi da incubo di sangue e di fuoco! Le cose, infine, appaiono
più chiare, pur nella limitatezza ed incompletezza di questa recensione.
Ejzenstejn è riuscito a creare, partendo dalle non incoraggianti premesse di
un film nato per ragioni di propaganda patriottica, un grande opera che parla,
in modo universale, ad epoche lontane e diverse. Un capolavoro (la sua ultima
fatica) nel quale la verità della storia si unisce alla potenza dell’epopea ed alla
profondità e delicatezza della lirica.
Fabio Giambi

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HORRORpolitics
pensieri e orrori

La (de)generazione familiare
“Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; di grazia, la violenza cieca, inaudita e
porte serrate; geloso possesso della sessualmente determinata devasta
felicità.” una tranquilla famiglia della provincia
André Gide francese, ad opera, senza voler
svelare troppo, di un elemento interno
La famiglia, nel cinema horror, non e contemporaneamente estraneo,
gode di grande popolarità. È vero, morbosamente geloso di una
spesso è il rifugio ultimo, la speranza normalità felice ed esibita da un
di protezione, la definitiva salvezza, nucleo necessariamente possessivo
ma altrettanto spesso è il brodo di della propria felicità, come in un
coltura dell’orrore, il luogo sordido e Mulino Bianco iperbolico. E lo specchio
disgustoso della violenza, giocato finale in cui si risolve la pellicola è
frequentemente in twist rispetto alle necessariamente un riflesso, se mi
attese dello spettatore. I casi sono passate il gioco di parole, di una
numerosi: la famiglia cannibale di Non necessità imposta e vivente, di una
aprite quella porta, quella disastrata normalità agognata e glaciale, e della
di Halloween ­ The Beginning, quella sua radicale impraticabilità, vissuta
assente di The Orphanage, fino alla come colpa.Ancora più irreprensibile è
follia “familiare” di Shining o al il film di Laugier, dove il martirio si
nazional­socialismo genetico di (quella compie oltre una porta più che
porcheria di) Frontiere(s). E proprio serrata, addirittura nascosta, in antri
nell’ambito del nuovo
horror francese, un
cinema che si dibatte tra
qualche alto e molti
bassi, la famiglia riveste
un ruolo
drammaticamente e
programmaticamente
centrale. Se il vuoto
della morte, il lutto non rielaborato e che si snodano al di sotto della
la perdita di un figlio ­ quindi della tranquillità borghese della casa
propria egoistica ricerca di eternità ­ superficiale, che ne copre le urla e, di
stanno alla base dell’esplosione nuovo, una volontà egoistica di
violenta di un’opera nel complesso emancipazione. Una famiglia che
poco convincente e ridondante, ma a emerge dalle ombre spesse e taglienti
suo modo spiazzante, come À di un passato che si muta in
l'intérieur di Bustillo e Maury, è in mostruosità violente, in cui al di fuori
pellicole come Alta Tensione e Martyrs del focolare vige una legge spietata e
che troviamo un nuovo e abbietta.Una famiglia che devasta
agghiacciante approccio all’orrore nella sua assenza.
insito nel concetto di famiglia.Nel Matteo Lolletti
primo film, firmato da un Aja in stato

BILLY ­ 7
psicoVISIONI
letture psicologiche del cinema

Un bambino è la follia di una donna


I
s
i
c
c
i
espressione. Il debole, invece, soccombe e
In tanti potrebbero essere certi di saper alla “labilità” della sua posizione che lo m
distinguere la pazzia dalla normalità, espone al “labelling”, la teoria t
eppure i due universi sono legati insieme dell’etichettamento che fa di una L
da un filo sottilissimo che rende difficile diagnosi professionale volutamente d
nella sua linea di confine saperli esagerata una semplice etichetta da n
distinguere in modo netto. Clint affibbiare e dare in mano ad una r
Eastwood, ispirandosi ad una storia vera opinione pubblica che agisce secondo un c
riesce a cogliere tale confusione in pregiudizio in base al quale il d
Changeling, film in cui la corrotta polizia malcapitato non ha più bisogno di essere o
di Los Angeles degli anni '30 rinchiude in ancora ascoltato. Posti davanti s
un istituto psichiatrico una madre di un all’etichetta di pazzia anche il normale c
bambino scomparso allorquando lei finisce per diventare pazzo nel tentativo s
protesta per lo scambio di persona di espor­re la propria verità ed il suo f
volutamente eseguito dal capo corrotto, pensiero ritenuto irreale, unico a
pur di guadagnare il consenso popolare strumento per la sua salvezza, t
per la risoluzione di un caso salito paradossalmente diventa la sua r
oramai alla ribalta nazionale. La condanna. Nel film emerge un’altra n
differenza fra normalità e pazzia in forma di pazzia, quella più certa del r
questo caso genera conseguenze giovane cruento assassino il cui agire a
sostanziali a seconda del potere a nella sua limpidezza riesce addirittura a
propria disposizione. Una normale muovere a compassione lo spettatore. In
disperazione di una normale impiegata, una interpre­tazione libera forse ci si
donna, può facilmente convincere domanda a cosa è attribuito il titolo
l'opinione pubblica su una presumibile changeling, lo scambio. Forse non al
presenza del seme della pazzia nella sua bambino ma a chi viene scambiato per
disperazione, un emozione, ma non ha pazzo e non lo è, insieme a chi viene
potere quanto chi negli alti ranghi della considerato normale e non lo è. Resta
società può permettersi di esprimere la infine facile dedurre un insegnamento,
sua pazzia criminale e cinica, razionale valido per tutti i tempi, come sia
senza rischiare conseguenze e limitazioni semplice cambiare il corso della salute
di libertà. Allo specchio della propria psichica attraverso il potere di una
follia il potente accusa il meno po­tente bugia, e come saldo e moralmente sano
proprio di ciò di cui porta la colpa e di debba essere chi il potere ha e ne
questa illimitata libertà è figlia l’abuso distribuisce perché non si faccia
che agisce indisturbato se non vi è il prendere dalla follia.
limite a porre un freno alla sua Luigi Palmirotta

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CINELetteratura
tra schermo e pagina

Kubrick legge Schnitzler


Il filo sottile su cui si intreccia tutta la l’ambientazione, come già detto, sono
storia, il confine labile su cui camminano definiti ma indefinibili: questa New York
i personaggi di Eyes wide shut, un assomiglia più a una qualsiasi città
confine in cui si intrecciano, in un europea (il film é girato a Londra) con
contesto spazio­temporale definito ma tutti i suoi bistrot e i suoi café, e gli anni
indefinibile, il reale e l’onirico, normalità novanta si perdono nel ballo di inizio
e follia, amore e perversione, vita e film, nelle peregrinazioni notturne, nei
morte, fanno del film una sorta di costumi della festa, nelle luci e nei colori
testamento culturale e visivo di Kubrick. lontani da quelli moderni, lasciando
La morte, che sorprenderà il regista spazio a un universo senza tempo in cui
durante il montaggio, è figura centrale non ha importanza dove e quando si
nel film e l’elemento funebre si svolge la storia. La coppia Kidman­
ripresenta in più occasioni (una Cruise, sposati da nove anni, schiavi
confessione d’amore sul letto di morte della monotonia del matrimonio si
del padre, un bacio strappato dentro un confidano, dopo una festa, desideri e
obitorio, ecc.) così come la violenza, la pulsioni avvenuti in tempi lontani, dando
sessualità e l’ignoto umano, tutti temi vita al sospetto, alla gelosia, alla ricerca
centrali nella filmografia di Kubrick che confusa di un appagamento, al desiderio
sembra ripercorrere la sua carriera per di ritrovare emozioni sopite. Durante la
fonderla dentro i personaggi e le notte, il marito, vaga per la città,
ambientazioni di Eyes wide shut. Il film incontrando vecchi amici, prostitute e
trae la sua storia da Doppio sogno, finendo in una villa in cui si sta
romanzo di Arthur Schnitzler, ambientato consumando un rituale massonico.
nella Vienna degli anni venti, che il Smascherato come intruso viene salvato
regista trasforma nella New York degli dal sacrificio di una ragazza a cui in
anni novanta. La collocazione storica e precedenza aveva salvato la vita e viene
invitato a non cercare di
soddisfare le sue curiosità sui
fatti accaduti quella notte. Tutti
i personaggi del film indossano
una maschera, tutti hanno una
doppia vita e qualcosa da
nascondere, e forse l’unico a
non accorgersene è proprio
Cruise, fino a quando non
rientra a casa, va in camera da
letto e vede sul proprio cuscino,
accanto alla moglie, la
maschera che indossava alla
festa e che credeva di avere
perso.
Marco Bacchi

BILLY ­ 9
SENZAparole
sogni senza sonoro

Una star di nome Ermete


Ermete Novelli, attore e autore di
diverse commedie e monologhi, è
considerato uno dei più grandi
maestri d'arte drammatica italiana.
Nacque a Lucca il 5 maggio 1851,
mentre la piccola compagnia
teatrale di guitti in cui lavoravano i
suoi genitori, Alessandro Novelli,
primogenito di una nobile e antica
famiglia di Bertinoro e Teresa
Galassi di Fermo,rispettivamente
suggeritore e attrice, attraversava la
città.
Presto orfano di madre, Ermete girò l'Italia con l’affettuoso padre, in modeste
compagnie teatrali. Sin da bambino rivelò una passione per lo spettacolo, fu
marionettista e, nel 1861, cominciò a lavorare in teatro, come generico, per un
decennio, poi generico primario, caratterista e promiscuo, in compagnie
teatrali sempre migliori.
Nel 1884 diviene capocomico e da quel momento la sua vita cambiò;
interpretando parti comiche e drammatiche raggiunge il definitivo successo.
Nel 1910 fu scritturato dalla film d’Arte Italiana, filiale della Pathé Frères, per
recitare in film d'arte, fenomeno diffuso prima in Francia e poi in Italia, che
proponeva sullo schermo
drammi in costume e non, tratti
da romanzi, commedie e drammi
teatrali, francesi, italiani, inglesi
e non solo.
La Morte Civile è il suo primo
film, girato a Rimini; seguono Il
Mercante di Venezia, girato tra
Rimini e Venezia e il Re Lear.
Quella di Novelli nel cinema
italiano dei primi anni '10 fu
un’autorevole e ingombrante
presenza; la recitazione di uno
dei più carismatici
rappresentanti dei grandi
“mattatori” teatrali fu
caratterizzata da un’aggressiva
invadenza e da una prepotente

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vocazione alla mimica.
La critica stroncò il primo film; fu però entusiasta degli altri due.
Pochi anni dopo Novelli tornò sullo schermo recitando in due film tratti da
pochades francesi, con le quali aveva avuto successo in palcoscenico: Michele
Perrin (1913) e La Gerla di Papà Martin (1914), prodotti entrambi dalla Casa
Ambrosio.
Particolare rilievo venne dato, sulla stampa specializzata e non, per la sua
partecipazione a questi film, progettati per il suo tipo di recitazione, quasi si
trattasse della ripresa cinematografica di una sua performance teatrale; le
critiche furono favorevoli.
Nel 1915 interpretò Il più grande amore, e il film di propaganda bellica Per la
Patria! della Film d'Arte Italiana.
Sempre nel '15 si ritirò dalle scene teatrali per problemi di salute; vi ritornò
nello stesso anno ma non riuscì più a recitare come prima.
Nel 1917 Novelli apparve assieme alla sua compagnia nel film Fiorenza mia!
diretto dal figlio Enrico (nome d’arte Yambo), si lasciò convincere dall’ attrice
Elettra Raggio ad interpretare il film Automartirio (1917) e nel 1918 La morte
che assolve, (ritrovato e restaurato), entrambi interpretati e prodotti dalla
Raggio.
Nel 1919, terminato a stento lo spettacolo teatrale a Benevento, fu ricoverato
a Napoli, ove morì il 29 gennaio 1919.
Lo stretto rapporto tra l’attore e la nostra
regione si intensificò a partire dal 1900, diviso
tra la casa paterna a Bertinoro, dove nel 1902
scrisse la sua biografia "Foglietti sparsi
narranti la mia vita" pubblicata postuma, e
villa Olga a Rimini oggi distrutta.
A Rimini dal 1911 gestì l'Arena al Lido,
lasciata nel 1915 a causa della guerra.
Il teatro è ancora oggi intitolato a lui, a
testimonianza del legame tra l'attore e la
città.
A Bertinoro, dove tuttora riposa, per ricordare
l’illustre attore è stato posto di fronte alla
casa di famiglia un suo busto e nel 2002 è
stato istituito il Premio Ermete Novelli.
A Forlì gli è stata dedicata una sala del Museo
del Teatro Romagnolo.
Barbara Grassi

BILLY ­ 11
I soliti ignoti
registi fuori registro

Takashi Miike
Non è stata sufficiente la comparsata in meno personale, nonchè uno di quelli
Hostel di Eli Roth e nemmeno la meno riusciti, The Call ­ Non
presenza di Quentin Tarantino tra i rispondere. Non che essere ignorato
protagonisti nel suo Sukiyaky Western dal grande pubblico italiano sia un
Django, per sdoganare al pubblico problema per Miike: il cineasta
italiano la figura del regista giapponese giapponese continua infatti girare
Miike Takashi. Mentre i festival di pellicole con una media spaventosa di
mezzo mondo hanno fatto e stanno tre o quattro all’anno ed è ormai
tutt'ora facendo carte false per arrivato ad avere al suo attivo quasi
aggiudicarsi in concorso una sua ottanta film in meno di 20 anni di
pellicola e in Italia, come del resto in carriera (prima opera firmata ad inizio
tutta Europa e negli Stati Uniti, lo si anni ’90). E continua, come è nel suo
santifica con retrospettive e libri come stile, a girare tutto quello che gli capita
il più originale, eclettico, eterogeneo e per le mani e per la testa. Dopo la sua
produttivo, regista vivente, Miike personale visione del mondo degli
Takashi nelle sale cinematografiche Yokai, portata la cinema con The Great
della nostra penisola si è affacciato solo Yokai War, è perfino riuscito a scrollarsi
una volta. Tra l’altro con il suo film di dosso la fama di apologeta della

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violenza e della morbosità ed ora gli si affidano anche pellicole con target
adolescenziali come Yatterman, proprio perché con budget contenuti e tempi
stretti riesce a confezionare lavori di tutto rispetto. Ma anche questo non è
servito a sdoganarlo ai cinefili italiani, che bene che vada citano i soliti Dead

or Alive, Zebraman, Izo e soprattutto Ichi the Killer, ignorando completamente


pellicole come Agitator, fondamentali per cogliere la sua personale visione
della settima arte. Sembra insomma che
Miike Takashi, nonostante anche l’eco
mediatica seguita all’esclusione del suo
Imprint dalla programmazione dei
Masters of Horror, sia destinato ad
essere un ossimoro vivente.
Onnipresente a Cannes, Venezia,
Toronto, e Berlino, omaggiato dai
cineasti più in luce del momento, è però
ritenuto ancora troppo ostico, violento e
morboso per approdare alla grande
distribuzione. Richiestissimo e
ultratrendy da una parte ma quasi
boicottato dall’altra. Misteri della
distribuzione cinematografica italiana.
Michelangelo Pasini

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BILLYicona
nato nel primo tempo

L'importanza di chiamarsi Django


Chi è Django?
Nessuno lo sa.
Lo vediamo per la
prima volta nel 1966
trascinare una grossa
bara in un deserto
fangoso e ci
chiediamo: Chi è? Da
dove è venuto? Dove
sta andando?
Oggi, che sappiamo e
abbiamo visto, come
risposta alla prima
domanda diciamo che
è un’icona. Un’icona
dello Spaghetti
Western che
difficilmente verrà
scordata in patria e
all’estero.
"Da dove è venuto?" è
facile: dalla mente dei
fratelli Corbucci
(anche se il vero
padre poi sarà il geniale Sergio).
A “Dove sta andando?” possiamo rispondere: a scrivere una pagina di storia.
Il primo è un film dal tasso di violenza pericolosamente alto (sembra quasi
una virata all’horror) con tanto di scena sanguinosa ripresa poi da Tarantino
per il suo “Renservoirs Dogs” (a voi indovinare quale).
La trama in breve è questa: un nordista di nome Django, che gira tra Messico
e Stati Uniti trascinandosi una bara con dentro una mitragliatrice, dapprima
stermina la banda di un maggiore impazzito e poi aiuta il rivoluzionario
messicano Rodriguez a rubare un carico d’oro agli statunitensi. Ma il tentativo
di Django di intascarsi il bottino e scappare non sarà molto gradito a
Rodriguez che lo sottoporrà ad una inquietante tortura.
Il film fu un grande successo internazionale, consacrò Franco Nero come divo
e generò una sequenza infinita di cloni e seguiti fasulli con il nome Django in
bella vista nel titolo. Corbucci, da parte sua, contrappone il suo eroe a quello
Leoniano dando a Django un nome e un’identità particolari in modo da

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iconizzare ancora di più il personaggio, rafforzando il tutto tramite l’uso delle
immagini forti come quella della mitragliatrice nella bara e quella della lapide
con la pistola nel finale.
Anche l’ambientazione è antileoniana, con un west dove regna la sporcizia, il
fango e il cielo cupo invece della polvere e il sole accesso che illumina e
acceca ogni cosa.
Il cast tecnico è di tutto rispetto: Enzo Barboni alla fotografia, Nino Baragli e
Sergio Montanari al montaggio, Luis Bacalov alla colonna sonora.
Memorabili poi Loredana Nusciak che interpreta la prostituta, Josè Bòdalo (il
violentissimo Rodriquez) e Eduardo Fajardo (il klukluxaniano maggiore
Jackson).
Malgrado l’infinita
sequela di seguiti
apocrifi, solo nel
1987 Corbucci
decide di dare un
seguito ufficiale
alla pellicola
riesumando l’eroe
da un convento.
Purtroppo
l’operazione è fuori
tempo massimo
per gli Spaghetti e
più vicina agli
Actionmovie
messicani
dell’epoca.
Qualche anno fa,
nel 2007, il regista
giapponese Takashi
Miike ha omaggiato
gli Spaghetti
Western girando
una sorta di
prequel di questo
culto: “Sukiyaki
Western Django”.
Alberto Semprini

BILLY ­ 15
BILLY GIUDICA
visti in sala

Segreti di famiglia
(Francis Ford Coppola, 2009, 127') D
(
BBF B

Ci sono film dichiaratamente brutti, incerto tra ammirazione e noia. A conti C


orgogliosi di ostentare fin dalla prima fatti, siamo di fronte a un p
scena il proprio fallimento artistico; ci melodrammone familiare (a finalità f
sono film che saremmo tentati di terapeutica per il suo autore?) condito di c
archiviare come insignificanti o noiosi e riferimenti metacinematografici e l
che riescono a stupire e salvarsi proprio spolverato di un pizzico di thriller, che s
un attimo prima dei titoli di coda; ce ne finisce per restare sospeso tra la d
sono altri apparentemente orrendi che tragedia e la farsa, e che strizza g
tuttavia riaffiorano alla mente a giorni o l’occhiolino a un certo Almodovar, ma ne r
mesi di distanza dalla visione e ci rimane molto al di sotto. I contrasti e i O
costringono a correggere il nostro tormentati riavvicinamenti tra i due a
affrettato giudizio; e ci sono film “fratelli” Benjamin e Angelo Tetrocini in o
superbamente confezionanti, capaci di una ambigua Beunos Aires vogliono W
appassionare e quasi di incantare lo sembrare profondi e significativi, ma u
spettatore al momento della visione, che basta una notte di buon sonno a farli m
svaniscono però subito dal ricordo, evaporare dal nostro orizzonte, e a farci c
vittima della loro stessa perfezione capire che non di arte si trattava, ma di t
formale. Ecco, Tetro, o Segreti di famiglia virtuosismo, anzi, peggio: manierismo. s
che dir si voglia, è uno di questi: una Non si può stroncare, ma nemmeno v
confezione raffinata e invitante per una consigliare: troppa presunzione per una i
polpetta avvelenata – anzi, un vero storia fredda e inconcludente che non s
polpettone. Coppola scrive una storia di decolla mai veramente, e senza dubbio, s
intrighi e passioni forti e, pensando di non riesce a lasciare il segno. p
scrivere il suo film più personale, firma Alessandro Merci w
una delle sue opere peggiori, che f
conferma, dopo Un’altra giovinezza, il c
suo cattivo invecchiamento. Niente da p
obiettare sul talento registico: il bianco e c
nero è ammirevole, ma privo della forza a
e del significato che ha in Haneke, e p
quasi fine a se stesso; le inquadrature l
denunciano grande virtuosismo, ma v
servono a poco quando i presunti colpi di d
scena si susseguono a ritmo troppo e
elevato e la sceneggiatura scricchiola da c
ogni parte; gli attori sono bravissimi, m
Vincent Gallo su tutti, ma tanto talento W
non riesce a coinvolgere neppure per un r
istante lo spettatore, che resta sempre q

16 ­ BILLY
BILLY GIUDICA
visti in sala

Dorian Gray Ce n'è per tutti


(Oliver Parker, 2009, 112') (Luciano Melchionna, 2009, 96')
BB B

Come essere effetti speciali ed Lo spettro del straniamento di


pedissequamente atmosfere ridicolo involontario fronte ad un film
fedeli ad un pseudogotiche aleggia con che sembra uscito
capolavoro l’eleganza formale insistenza su dall’ingloriosa
letterario ed allo forse fredda, ma questa pellicola, di fucina del
stesso tempo gradevole, dei stampo Bagaglino.
discostarsene precedenti lavori di prettamente Staffilata fatale:
grottescamente. Il Parker. Unico televisivo e retta da l’inserimento nei
regista inglese elemento di un’inventiva che, titoli di coda,
Oliver Parker, godimento resta nel tentativo di sconvolgente per
aficionado delle Colin Firth nei smarcarsi dal banalità, del
opere di Oscar panni dell’amorale cinema italiano Viandante sul mare
Wilde, ci propone Lord Wotton. attuale, sconfina di nebbia di Caspar
un Dorian Gray a Chiara Tartagni nel surreale. Le David Friedrich.
misura di teenager, vicissitudini di Chiara Tartagni
che si perde nel Gianluca,
turbinio di una tormentato quanto
sensualità coloro che lo
visivamente circondano, ma di
imbarazzante. La animo più diritto,
sceneggiatura fanno da cornice ad
segue quasi battuta un quadro etico
per battuta la prosa desolante.
wildiana, almeno Ambientato in una
fino alla futile Roma onirica, la
creazione del trama si dipana in
personaggio che scenette grottesco­
condurrà Dorian moraleggianti,
alla redenzione, recitate in modo
proponendoci discontinuo
l’ennesima (apprezzabili
variazione del tema Lorenzo Balducci e
dell’amore salvifico Jordi Mollà, la cui
ed aggirando il presenza risulta
complesso intrico incomprensibile).
morale costruito da Lo spettatore non
Wilde. Impossibile può che provare un
riconoscere in costante senso di
quest’accozzaglia di imbarazzo e

BILLY ­ 17
BILLY GIUDICA
visti in sala

(500) giorni insieme L


(Mark Webb, 2009, 96') (
BBBF B
Le premesse sono immediatamente chiare: non si tratterà di una storia d’amore.
Ciò che vivono Tom e Sole è il rovesciamento della presunta guerra dei sessi a cui
molti sono abituati a credere: lui, architetto impiegato in un’azienda che produce
biglietti d’auguri, è alla ricerca della ragazza che gli farà perdere la testa; lei è
convinta che l’amore non esista e si debba vivere l’attimo per ciò che offre. I 500
giorni del titolo comprendono non soltanto la storia fra i due, ma il suo
deperimento, inevitabile e toccante nella semplicità con cui ci viene mostrato. Alla
fine di questo inconcludente periodo d’estate (Summer è il nome della ragazza nella
versione originale) il nostro eroe darà inizio ad un nuovo conteggio, sulla soglia di
uno sfavillante autunno sentimentale e professionale. La trama non segue l’ordine
cronologico degli eventi, quanto piuttosto la percezione del protagonista (un sottile,
dolcissimo Joseph Gordon­Levitt), che ripercorre la storia attraverso gli impulsi della
memoria. Il film scorre rapido e morbido, senza mai annoiare o scadere nel
melenso, con scelte registiche che spaziano dal musical all’animazione, dalla
commedia amara al dramma romantico. Splendida la scena in cui un esasperato
Tom cita musica e
cinema come
strumenti di
perdizione che
inducono a credere nel
valore sovrannaturale
dell’amore, così come
teneramente
straziante è la doppia
visione, nostra e di
Tom, della realtà e
della speranza.
Azzeccate le citazioni
da celebri film come Il
laureato e Il settimo
sigillo, mentre la
colonna sonora, scelta
con cura, accarezza le
immagini senza essere
invasiva. Un esordio
su cui vale la pena
scommettere.
Chiara Tartagni

18 ­ BILLY
BILLY GIUDICA
visti in sala

La prima linea
(Renato De Maria, 2009, 96')
BBBF
Non è facile trovare un bel film con Riccardo Scamarcio protagonista. Forse è
proprio impossibile: la sua presenza sembra far perdere il senno anche a registi di
un certo valore come Costa­Gavras, Sergio Rubini e Abel Ferrara. E’ stato quindi
con riluttanza che mi sono rassegnato a vedere questa sua ultima prova, e con le
peggiori aspettative possibili. Aspettative subito confermate dalla sua
interpretazione del terrorista Sergio Segio, che da capo di Prima Linea sembra
trasformarsi in un romantico introverso e tormentato angelo del male che
gareggia per improbabilità soltanto con il John Dillinger recentemente interpretato
da Johnny Depp. Eppure, col passare del tempo, e nonostante Scamarcio, il film
cresce, e finisce per essere bello e significativo: un ritratto convincente degli anni
bui del terrorismo, lontano da ogni giustificazionismo e revisionismo ma capace di
restituire umanità e dignità alle
persone che in quegli anni di
scontro e ideologie hanno finito
per compiere la scelta sbagliata.
Un film d’azione e una riflessione
storica, una bella storia d’amore
e una riuscita analisi interiore,
conditi dall’amara
consapevolezza del fallimento: il
punto di vista di Segio (il film è
tratto dal suo libro di memorie
Miccia corta) non è indulgente,
anzi analizza con lucidità
l’anacronistica e paranoica follia
del loro isolamento, e aiuta a
capire come quei nuclei
terroristici combattessero una
guerra che nessuno aveva
dichiarato e fossero quindi la
prima linea di un esercito
inesistente. Da vedere,
soprattutto per i più giovani che
quegli anni non hanno vissuto e
forse nemmeno conoscono.
Alessandro Merci.

BILLY ­ 19
GARROYO E I SUOI FRATELLI
al margine del cinema

Il dolore mi fa una saga


Guerre Stellari, si ride di
gusto grazie alle gags
italiche, ma c'è anche
un'attenta riflessione
introspettiva sul Lato
Oscuro, roba
sociologica, roba forte.
No grazie, dico io, vada
per l'uomo pipistrello, a
pensarci è quello che
m'incuriosisce di più.
Compro il biglietto ed
entro.
Il cinema è come me lo
ricordavo.
Tranne che per le
poltroncine volanti e un
L'altro giorno festeggiavo la vittoria al fortissimo odore di
totocalcio tobaghese, e mi sono mucca congelata.
sbronzato. Mi aggrappo a una poltroncina fluttuante
Capita. nell'aria e aspetto che le luci si
Ho sognato. spengano.
Capita. Dentro ci sono altre due persone.
Ho sognato che ero nel futuro, tra un Dunque: Batman ha la barba e gli
centinaio di anni. occhiali da vista.
Camminavo per le strade di Rio Claro, Ha una figlia e una famiglia bellissima.
evitando scooter volanti e tram ai fotoni, Ma succede che la moglie, Zora la
quando ho visto un multisala d'essay. vampira, muore durante una lotta contro
Fico, ho pensato, e mi sono diretto La Cosa.
all'entrata del cinema Saffy. Da allora Batman, tutti i giorni, con
Buongiorno, buonuomo, dico al costume e mantello, si siede in una
bigliettaio, che cosa programmate? panchina di fronte alla scuola della figlia,
Guardi, dice lui, questa settimana a Gotham, e aspetta.
abbiamo i grandi classici: Sala 1 Trascura il lavoro, e il crimine
“Batman Calmo” (o “Batman 57”), Sala imperversa.
2 “L'impero colpisce le vacanze sul Nilo” Tutti gli vanno a far visita, proprio su
(o “Guerre Stellari ­12”), Sala 3 “Il quella panchina, e con lui si sfogano.
favoloso mondo di Indiana Jones” (o Robin ammette di essere gay.
“Indiana Jones 17”), Sala 4 “L'era Due Facce gli parla di problemi
glaciale nella valle perduta” (o “Ice Age” finanziari.
27). Alfred dà le dimissioni – che cazzo faccio
Gesù! dico io. a casa tutto il giorno da solo, si
Guardi, dice lui, io le consiglio vivamente giustifica.

20 ­ BILLY
Il Pinguino
ammette il
suo amore
per Bridget
Jones.
Non ce la
faccio più,
sbotto.
Ma che
schifo, ma
non c'è
fantasia, ma
è tutto già
visto, dico
agli altri due
spettatori.
Che
rispondono
incazzati:
shhhhhh.
Ma state
guardando
una minestra
riscaldata,
urlo io,
nervoso.
Faccio per
andarmene,
mi dimentico di essere su una poltroncina volante, volo giù e poi buio.
Mi risveglio nel letto di un ospedale.
L'infermiera si china su di me.
Buongiorno, dice l'infermiera, come andiamo, è stato in coma etilico, si sente
meglio ora?
Lei è stato in coma etilico, ha bevuto troppo, doveva vedere che spavento si
sono presi i suoi amici, mi dice l'infermiera.
Dovrebbe vedere che spavento mi son preso io, le ho risposto, dimenticandomi
che è in fase di pre produzione “Harry Potter e la Fabbrica di cioccolato”.
Paco Francisco Garroyo

BILLY ­ 21
cinePOTERE
allusioni filmiche

Metropolis
Metropolis è uno dei più importanti film macchina di cui si occupano e la morte
della storia del cinema, soprattutto per dei meno fortunati, evento a cui Freder,
essere uno dei precursori di quello che nome del ragazzo, assiste. Vede la
sarà il genere fantascientifico. macchina come una grande divinità che
Finanziato dall’ UFA, la gigantesca casa ingoia le sue vittime umane; sconvolto
di produzione tedesca, utilizza molti di da tanto orrore e brutalità decide di
quelli che saranno gli elementi del parlarne con suo padre per far cambiare
genere: set le cose. Il padre, però, si
imponenti, migliaia di preoccupa solo della
comparse, effetti minaccia che l'incidente
speciali e grandi può costituire per il suo
tecniche innovative. potere. Infatti va
La sceneggiatura dall’inventore Rotwag e
delinea una storia insieme decidono di
semplice, quasi tendere una trappola agli
fiabesca. operai, creando un robot
Siamo in una città del con le sembianze di Maria.
futuro dove vige un Nonostante la
rigido schema sociale rappresentazioni delle
organicistico. estenuanti condizioni di
Manager, industriali, lavoro degli operai possa
ricchi vivono nei suggerire una visione
grandi e gotici marxista della società, in
grattacieli che realtà l’ideologia del film è
affollano la città reazionaria. È infatti la
mentre, nel fine a mostrarci una
sottosuolo, lavorano riconciliazione tra capitale
infaticabilmente e lavoro. Il proprietario
masse di operai sembra rappresentare
schiavi dei ritmi allora quel messia che
ossessivi delle macchine e ghettizzati dal avrebbe alleviato le pene di cui parlava
mondo esterno. La loro, peraltro debole la giovane donna. Il problema sembra
e disarticolata, voglia di rivolta è placata essere di natura morale più che sociale.
dall’invito alla mediazione, farcito di Un altro elemento fondamentale nel film
cristianesimo, di una bella ragazza Maria. è la pericolosità di una scienza asservita
Quando il figlio dell'imprenditore­ al potere. Indipendentemente dalle
padrone della città conosce la ragazza, si contraddizioni della costruzione narrativa
avventurerà nel sottosuolo. Il giovane e ideologica, Metropolis è forte di una
immediatamente si rende conto delle struttura visiva poco comune, frutto dell’
condizioni disumane in cui sono costretti espressionismo tedesco e sconvolgente
a lavorare gli operai, i quali anche se nella sua grandiosità.
stremati, non possono commettere il Barbara Pianese
minimo errore pena l'esplosione della
22 ­ BILLY

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