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SAVERIO MARCHIGNOLI

LIndia filosofica.

Un percorso tra temi e problemi
del pensiero indiano


I. Dalle origini alla fine del sec. VIII











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2005


























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La traduzione, ladattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo
(compresi i film, i microfilm, le fotocopie), nonch la memorizzazione elettronica,
sono riservati per tutti i paesi.



Indice

Premessa p. 5
Nota sulla trascrizione
delle lingue indiane p. 7

Introduzione generale
1. Scopi e limiti di questa trattazione p. 11
2. Partizione Sguardo dinsieme p. 15

Parte prima
1. Prologo p. 23
2. Chi erano i filosofi.
Tradizione brhmaica e
movimenti ramaici.
Teorie del karman e della rinascita p. 28
3. Il Buddhismo e il Jainismo primitivi p. 32
4. La Bhagavadgt e lo yoga dellazione p. 41
5. Teoria della disputa e medicina p. 46

Parte seconda
1. Epistemologia e logica I: il Nyya p. 53
2. Sviluppi nel Buddhismo. Ngrjuna p. 58
3. Il Skhya della Skhyakrik p. 63
4. L'ontologia del (Nyya-)Vaieika p. 70
5. Epistemologia e logica II: Dignga p. 75
6. Filosofia del linguaggio: Bharthari.
Filosofia della parola rituale: la Mms p. 79
7. Il Kevaldvaita Vednta di akara p. 86

Esempi di testi filosofici indiani
1. Ngrjuna: la dottrina delle due verit p. 93
2. Ngrjuna: critica dei mezzi di conoscenza p. 95

3. I Vaieikastra sulla cognizione
dellirrealt p. 99
4. La relazione tra purua e prakti
nel Skhya p. 101
5. akara e la sovrapposizione p. 104
6. ntarakita sulla non esistenza di Dio p. 110
7. ntideva sul Nyya p. 114


Filosofi moderni sul pensiero indiano
1. Hegel sulla coscienza yogica p. 119
2. Piero Martinetti sul Skhya p. 123
3. Simone Weil sul Skhya
e sulla Bhagavadgt p. 127
4. Karl Jaspers su Ngarjuna p. 130
5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura
del pensiero filosofico indiano: empirismo,
razionalismo e fondazione ultima p. 133



Riferimenti bibliografici p. 141











Premessa

Nonostante molti segnali sembrino andare in direzione
opposta, ancora vero, soprattutto in Italia, che le filosofie
indiane non hanno ancora occupato una posizione stabile
nelle trattazioni della storia del pensiero filosofico. Ci si
deve al perdurare dei pregiudizi sulla natura del pensiero
indiano che si sono formati nel corso del XIX secolo in
base a una contrapposizione essenzialistica tra Occidente e
Oriente (e tra Europa e India in particolare).
Con questo lavoro intendo proporre un breve percorso tra i
temi e i problemi di natura inequivocabilmente filosofica
che le varie correnti del pensiero indiano hanno trattato in
modo acuto e originale. I rapporti tra la causa e leffetto, tra
lintero e le sue parti, tra il significante e il significato, tra il
soggetto conoscente e loggetto, ecc., sono stati al centro di
dibattiti appassionanti che hanno attraversato le epoche pi
diverse della storia indiana. Oltre ad interrogarsi sulla natura
dellazione e sulle sue eventuali conseguenze non
percepibili, i filosofi indiani hanno affrontato con rigore e
spregiudicatezza problemi importanti e delicati di filosofia
del linguaggio, di logica e di epistemologia, di estetica, di
ontologia e di teologia, secondo uno stile di discussione tra
scuole che costituisce di per s un motivo di estremo
interesse.
La piccola antologia di testi filosofici indiani in fondo al
volume intesa tra laltro a fornire unesemplificazione di
questi dibattiti.

Allo scopo di testimoniare le possibilit che potrebbe offrire
un confronto con il pensiero indiano ho poi raccolto alcuni
testi di filosofi moderni, europei o di formazione europea,
che si misurano, con prospettive molto diverse, con alcuni
dei temi filosofici trattati nel percorso da me proposto. Ho
inteso cos costruire un primo nucleo di unantologia sulla
ricezione filosofica del pensiero indiano: esso costituisce,
voglio sperare, un elemento di originalit della presente
trattazione.
Questo primo volume, che spero di poter arricchire di altri
materiali in una successiva edizione, si ferma al secolo VIII
d.C. Sono in preparazione altri volumi, strutturati in modo
analogo, sui periodi seguenti fino allet contemporanea.

Bologna, marzo 2005.

S. M.





Nota sulla traslitterazione delle lingue indiane

Si adottato il sistema di traslitterazione del sanscrito e del pli usato
comunemente dagli indologi. Esso consente di avvicinarsi abbastanza facilmente
alla pronuncia corretta dei termini indiani, a patto di tenere presenti le seguenti
avvertenze:
g sempre velare (come in gola", non come in "giro"): gt (canto) si legge
dunque "ghita", non "gita" (in grafia italiana);
c sempre palatale: cakra ("ruota") si legge dunque "ciakra", non
"cakra" (in grafia italiana);
j palatale, come la j inglese;
una sibilante palatale sorda vicina al suono indicato in grafia italiana
da "sc" (seguito da i o da e): akara si legge approssimativamente "sciankara";
una retroflessa, di pronuncia simele alla , ma ottenuta retroflettendo
la punta della lingua contro il palato;
un suono vocalico oscillante tra r e ri: Ka si legge approssimativamente
"Kria" (in grafia anglicizzante, "Krishna");
e (nasali, rispettivamente retroflessa e gutturale) si possono pronunciare
approssimativamente come la nostra n (poich si assimilano naturalmente al
contesto fonico);
corrisponde alla nasale palatale indicata in grafia italiana da "gn" (
spagnola);
h unaspirata sonora;
laspirata sorda;
indica una nasale generica.

Occorre distinguere:
le vocali brevi (a, i, u) dalle lunghe (, , ; anche e e o sono sempre lunghe);
le consonanti dentali (t, th, d, dh) dalle corrispondenti retroflesse (, h, !, !h),
che si pronunciano retroflettendo la punta della lingua contro il palato;
le consonanti non aspirate (k, g, c, j, , !, p, b) dalle corrispondenti aspirate (kh,
gh, ch, jh, h, !h, ph, bh), che si pronunciano aggiungendo una forte aspirazione
sonora.

Per laccentazione si segue convenzionalmente la regola seguente (valida per il
sanscrito classico): laccento cade sulla penultima sillaba se questa lunga
(sasra), altrimenti retrocede fino alla prima sillaba lunga (brhmaa). Sono
lunghe, oltre alle sillabe che contengono una vocale lunga o un dittongo, quelle
che contengono una vocale lunga per posizione (seguita da due o pi
consonanti). Nei composti si conserva laccento delle singole parole.








Introduzione generale








1.

Scopi e limiti di questa trattazione.


1. Unesposizione sintetica dei principali temi filosofici
affrontati dai pensatori dell'area indiana non pu che
cominciare con alcune avvertenze e precisazioni.
In realt, sarebbe opportuno affrontare preliminarmente la
discussione di problemi molto generali. Per esempio: il
termine filosofia adeguato a designare le diverse
dottrine che hanno preso forma sul suolo indiano, o si tratta
di un addomesticamento fuorviante? Esistono barriere
culturali insormontabili che rendono qualitativamente diversa
la comprensione, ad esempio, della filosofia greca rispetto
a quella della filosofia indiana? Perch la storiografia
filosofica dell'Ottocento e di gran parte del Novecento ha
consapevolmente evitato, tranne rare eccezioni, di trattare il
pensiero indiano?; perch oggi invece divenuto possibile,
anzi necessario, includere il pensiero indiano tra gli oggetti
degni dell'attenzione storico-filosofica?.
Va subito detto che la formulazione di questi interrogativi
non prelude, nelle pagine che seguono, ad alcun tentativo di
risposta. Suo unico scopo , al contrario, quello di
sottolineare uno dei limiti pi evidenti della presente
trattazione: la rinuncia inevitabile a discutere in modo
esplicito tali importanti e legittime questioni. Tuttavia esse
vanno sempre tenute presenti sullo sfondo, quasi fossero un
12 LIndia filosofica
invito alla cautela, nel momento in cui ci si accosta alle
filosofie dell'India.

2. Non si trover poi nelle pagine che seguono in questo
caso intenzionalmente - alcun tentativo di elencare in via
preliminare le caratteristiche presunte o gli orientamenti
generali del pensiero indiano: non si ripeter qui, ad
esempio, il topos secondo cui la speculazione indiana, a
differenza di quella greca, sarebbe motivata da
preoccupazioni soteriologiche e non dal puro desiderio di
conoscenza, proprio di un atteggiamento puramente
teoretico; n quello secondo cui il pensiero indiano
tenderebbe inevitabilmente ad un approdo mistico.
Si cercher invece di evidenziare l'estrema complessit e
l'irriducibile variet della tradizione filosofica indiana, che
ha accolto in se stessa tendenze contrapposte e tra loro
altrettanto divergenti quanto, per fare un esempio, quelle
espresse dalle scuole filosofiche greche.

3. La difficolt principale che deve affrontare un'esposizione
sintetica dei temi e dei problemi filosofici dellIndia
proprio quella di rendere il pi possibile giustizia, in uno
spazio ristretto, alle numerosissime posizioni teoriche che
hanno trovato espressione nel corso degli oltre due millenni
e mezzo di ininterrotto, ancorch disomogeneo, sviluppo, e
contemporaneamente di evitare che i dettagli tecnici e
storiografici prendano il sopravvento ed eclissino le
questioni filosoficamente pi rilevanti.
Si dunque scelto di non tentare affatto di redigere un
compendio propriamente storico delle filosofie indiane.
1
N

1
Oltre alle ovvie difficolt di sistemazione cronologica connesse con la
mole della letteratura filosofica, le perduranti incertezze sulle datazioni
Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 13
d'altra parte si poteva, data la mole sterminata della
letteratura, tentare di giungere nemmeno lontanamente ad un
inventario delle posizioni filosofiche.

delle opere fanno s che il terreno indiano risulti, per la storiografia
filosofica, particolarmente arduo da dissodare. Si pensi che in molti casi
le datazioni possono essere precisate solo con uno scarto temporale che
va misurato non gi in decenni, bens in secoli.
Inoltre, sia per la fase pi antica (fino ai primi secoli dellera volgare),
sia, anche se in misura minore, per il cosiddetto periodo classico (la
parte centrale del primo millennio d.C.) dobbiamo tener conto del fatto
che la trasmissione delle conoscenze avveniva essenzialmente per via
orale. Ci comport almeno due conseguenze. In primo luogo, molti
degli insegnamenti, allorquando venivano superati da nuove e pi
comprensive formulazioni, finivano per essere omessi nella trasmissione
orale tradizionale e pertanto venivano dimenticati: il risultato che essi
sono per noi definitivamente perduti, cosicch in molti casi la genesi e le
fasi pi antiche delle filosofie delle "scuole" sono oggi quasi impossibili
da ricostruire.
In secondo luogo, le necessit della memorizzazione ponevano vincoli
molto stretti alle modalit della trasmissione: nella fase pi antica le
opere di riferimento erano spesso costituite da raccolte di brevi frasi
facilmente memorizzabili ma a volte assai criptiche e involute (i stra),
che necessitavano di una spiegazione. Tali spiegazioni, in un primo
tempo solo orali, dettero poi origine ai commentari interpretativi che
costituiscono una delle parti pi cospicue della letteratura filosofica
indiana. Il fatto che in molti casi diversi commentari forniscano
interpretazioni divergenti dei medesimi aforismi ci fa capire che molto
presto i Stra perdettero univocit e perspicuit di significato. Ci
costituisce per noi un ulteriore ostacolo sulla via della ricostruzione delle
fasi pi antiche delle varie scuole. Tuttavia, nonostante tutti gli
impedimenti che si frappongono alla ricostruzione storica, storie della
filosofia indiana non solo sono state scritte, ma in alcuni casi hanno
raggiunto ottimi risultati (si pensi a opere pur diversissime tra loro come
quelle di Surendranath Dasgupta ed Erich Frauwallner). Ma questi
risultati vanno comunque sempre commisurati, anche nel caso delle opere
che hanno portato avanzamenti reali nella conoscenza, alle difficolt e
agli ostacoli insormontabili sopra esposti.
14 LIndia filosofica
Piuttosto si cercato di selezionare non senza una certa
dose di arbitrariet alcune delle dottrine pi rilevanti, e di
organizzare il materiale contemperando tra loro tre esigenze
distinte: a) quella di individuare le caratteristiche
fondamentali delle principali scuole filosofiche al di l dei
complessi problemi posti dalla ricostruzione storiografica; b)
quella di porre in evidenza i temi centrali che costituiscono
l'oggetto delle fitte discussioni e polemiche tra le varie
scuole; c) quella di non perdere di vista, comunque, il
senso dello sviluppo nel tempo delle dottrine.

4. La letteratura di interesse filosofico dell'area indiana
immensa e comprende opere di natura molto diversa, scritte
in varie lingue.
2
Accanto ai testi base delle scuole
filosofiche e ai loro numerosi commentari e
subcommentari
3
si collocano intere sezioni di opere
appartenenti a generi completamente diversi, come lepica,
la mitologia o la trattatistica poetico-letteraria. Poich una
scelta si imponeva, si preferito privilegiare le opere e le
tradizioni di pensiero di natura pi distintamente filosofica,
tralasciando o trascurando le correnti nelle quali altri
interessi sono di fatto preponderanti.
Ci ha voluto dire, ad esempio, dare maggiore rilievo alle
fasi classica e postclassica del pensiero indiano, nelle

2
La lingua principale certamente il sanscrito, che per un lungo periodo
ebbe la funzione di lingua di cultura paragonabile a quella svolta dal
greco in et ellenistica o dal latino in Europa fino all'et moderna. Altre
lingue importanti sono il pli (lingua del canone buddhista dei
Theravda), l'ardhamgadh (lingua del canone jaina) e il tibetano (se si
assume che il Tibet, almeno per un certo periodo, vada compreso
nell'area culturale indiana).
3
Per una efficace descrizione della forma dei testi filosofici indiani si
veda Torella, Il pensiero indiano [2001], pp. 644-645.
Introduzione generale: 1. Scopo e limiti 15
quali la delimitazione del genere filosofia si pone in India
in modo molto netto.





2.

Partizione Sguardo dinsieme.



1. Seguiremo convenzionalmente una partizione di comodo
del pensiero indiano in cinque grandi periodi: 1) la prima
fase, di formazione delle grandi correnti di pensiero (VIII
secolo a.C. - I sec. d.C.); 2) il periodo classico (secoli
II-VIII); 3) il periodo post-classico (secoli IX-XV); 4) i
secoli XVI-XVIII (corrispondenti al periodo Moghul); 5) la
fase della colonizzazione europea e la fase post-coloniale.
Tale partizione ovviamente in larga misura arbitraria,
segnatamente per quel che riguarda i confini tra il secondo e
il terzo periodo.

L'inizio della fase di formazione delle filosofie dell'area
indiana va collegato con le trasformazioni culturali e sociali
avvenute intorno alla met del I millennio a.C. Precedono,
forse di poco, questo periodo le pi importanti delle
Upaniad vediche (Bhadrayaka Up. e Chndogya Up.),
che testimoniano l'avvenuto distacco dalle preoccupazioni
mitologico-ritualistiche tipiche della fase precedente.
Nascono in questo periodo il Buddhismo, il Jainismo e altri
movimenti spirituali, tra i quali si suppone abbia avuto
una certa importanza quello degli jvika. Nel frattempo
allinterno della tradizione brhmaica fiorisce la
speculazione di derivazione upaniadica, mentre si gettano le
Introduzione generale: 2. Partizione Sguardo dinsieme 17
basi della filosofia del linguaggio, della teoria politica e
della teoria della disputa. questo il periodo di incubazione
delle scuole filosofiche tipiche dell'epoca successiva.

A partire almeno dal II secolo dell'era volgare i pensatori
indiani sono infatti perfettamente consapevoli di essere degli
specialisti e di rivolgersi con le loro opere ad altri specialisti
che possiedono un linguaggio tecnico altamente
settorializzato. Gli esponenti delle varie scuole (spesso
chiamate in sanscrito darana, lett: "visioni", o "punti di
vista") hanno ben presenti le posizioni di fondo delle altre
scuole, affini o concorrenti, e molta parte del loro lavoro
filosofico consiste in tentativi di confutare razionalmente le
posizioni altrui. Contrariamente a un'opinione assai diffusa,
dunque, le filosofie indiane non sono caratterizzate da un
rapporto ferreo con la "tradizione", della quale non
sarebbero che la sistemazione razionalizzata: sono invece
anzitutto il risultato, a volte la registrazione, di continui
dibattiti tra diverse posizioni in concorrenza tra loro.
1


Proprio dalla teoria della disputa ebbero origine
l'epistemologia e la logica del Nyya, che presto si
trovarono associate alle pi antiche dottrine ontologiche del
Vaieika. Il dualismo del Skhya-Yoga, anchesso di
origine molto antica, trov durante la prima met del I

1
Ci si evince non solo, come si diceva, dalla letteratura pi
propriamente filosofica (opere autonome o, pi spesso, commentari alle
opere di base delle scuole, sub-commentari, sub-sub-commentari, ecc.),
ma anche dalla tradizione dossografica che, pur senza essere ricchissima,
ha trovato in India espressioni di altissimo rilievo. Anche i dossografi
infatti tendono a dare molta importanza alle differenze tra le varie
scuole, e spesso la loro esposizione, pur essendo in molti casi
relativamente affidabile, tende esplicitamente a disporre gli argomenti in
modo che una delle scuole presentate risulti comparativamente vincente.
18 LIndia filosofica
millennio d.C. una sistemazione pressoch definitiva, mentre
le antiche scuole esegetico-ritualistiche dettero origine alla
Prva-Mms. Decisivi furono gli sviluppi del buddhismo:
alla speculazioni fortemente tecniche delle scuole
dellAbhidharma fece seguito la comparsa, nel II secolo,
della scuola ngrjuniana della vacuit e, nel IV-V secolo,
della scuola rappresentazionista degli Yogcra. Fortemente
influenzata da questi sviluppi buddhisti fu, con ogni
probabilit, la tradizione speculativa di derivazione
upaniadica che, attraverso Gau!apda, dette origine
all'Advaita Vednta di akara (VIII sec.). Decisivi
contributi da parte buddhista vennero anche nel campo della
logica, con la scuola di Dignga e Dharmakrti.

Nella fase post-classica si nota una certa prevalenza delle
preoccupazioni teologiche e mistiche, anche se non viene
mai meno la speculazione prettamente razionalistica. Grande
sviluppo hanno le tradizioni del tantrismo ivaita, soprattutto
nel Kashmir dove fioriscono importantissime scuole di
estetica e dove operano le grandi personalit filosofiche di
Utpaladeva e Abhinavagupta. Altre scuole vedntiche si
contrappongono al Kevaldvaita-vednta di akara.
Particolare importanza ha, nel sud, la tradizione viuita che
culmina in Rmnuja.
Intanto il buddhismo si espande soprattutto nell'area tibetana,
dove attecchisce la corrente tantrica (Vajrayna). In India si
assiste invece ad un affievolirsi della tradizione buddhista,
che giunge quasi a scomparire nel XIII secolo.
Importantissimi sviluppi si hanno poi nella logica, con
Gagea e la nascita del nuovo Nyya. Nel frattempo
tende sempre pi ad imporsi una sorta di sintesi di tutti i
sistemi sotto l'egida del Vednta.

Introduzione generale: 2. Partizione Sguardo dinsieme 19
Nei secoli XVI-XVIII non cessa l'attivit di commento delle
opere classiche, anche se si assiste a un certo irrigidimento
della tradizione scolastica. La caratteristica pi evidente di
questa fase fu il diffondersi di tendenze mistiche e bhaktiche
che ebbero notevoli ripercussioni sulla filosofia. Importante
il consolidarsi delle speculazioni logiche e filosofico-
linguistiche.

Nel corso della fase coloniale spiccano i pensatori che
tentano una riforma religiosa in senso universalistico
dellinduismo. Tra questi hanno notevole rilievo filosofico
Rammohan Roy e Bankimchandra Chattopadhyay. Tra i
pensatori neo-induisti emerge nel XX secolo la figura di
Sarvepalli Radhakrishnan, mentre il confronto con lEuropa
diventa il tema dominante per molti filosofi (da
Brajendranath Seal, attivo allinizio del secolo, a Jaswant
Lal Mehta).













Parte prima












1.


Prologo.




1. O caro, al principio questo [universo] era soltanto
l'Essere (sat), uno, senza secondo. A questo proposito alcuni
dicono: "Al principio questo [universo] era soltanto Non
essere (a-sat), unico, senza secondo. Di poi dal Non essere
nacque l'essere". Ma come, o caro, potrebbe essere cos? -
soggiunse egli -. Come dal Non essere potrebbe essere sorto
l'Essere? Essere soltanto questo [universo] era al principio, o
caro, uno, senza secondo.
1

Con queste parole il maestro upaniadico Uddlaka rui d
inizio al suo insegnamento al figlio vetaketu. La qualit
dell'interrogativo in esse contenuto (Come dal Non essere
potrebbe essere sorto l'Essere?) e l'uso di termini astratti
come sat e asat
2
attestano la presenza, nell'India
upaniadica, di un pensiero capace di formulare chiaramente

1
Chndogya Upaniad VI, 2, 1-2. La traduzione, qui e in seguito, di
Carlo Della Casa (Upaniad, UTET, Torino 1976).
2
Sat il neutro del participio presente del verbo essere, s-, radice
sanscrita parallela alla radice latina es- di esse (essere). In a-sat la "a"
prefissata ha funzione di negazione, come l'alfa privativa del greco.
24 LIndia filosofica
problemi di natura filosofica e di assumere posizioni critiche
rispetto alla tradizione.
Non sappiamo nulla circa la storicit del dialogo tra
Uddlaka e il figlio. Possiamo ragionevolmente supporre che
la redazione della Chndogya Upaniad vada collocata prima
della met del I millennio a.C. Alcuni studiosi la datano
all'VIII secolo a.C.. Uddlaka dunque - intendendo
convenzionalmente con questo nome un personaggio storico
oppure chi gli ha dato voce - va considerato tra i primi
filosofi in senso assoluto, non solo dell'area indiana.
Non questo tuttavia l'aspetto che qui maggiormente
interessa. Importa invece porre in evidenza come quella di
Uddlaka sia una delle prime formulazioni a noi note di due
problemi: quello dei rapporti tra essere e non-essere e quello
della relazione tra essere e divenire. Si tratta di problemi
affrontati in seguito da quasi tutte le scuole filosofiche
dell'area indiana. Soluzioni caratteristiche e divergenti ne
saranno date in particolare dalla "scuola" Skhya che,
nel contesto della teoria della trasformazione continua della
prakti ("natura"), sosterr la dottrina della preesistenza
dell'effetto nella causa (satkrya-vda) - e dal Vaieika, che
sosterr la dottrina opposta (a-satkrya-vda).

2. Vediamo come continua l'insegnamento di Uddlaka al
figlio. Il tema quello del rapporto tra lEssere (il sat) e le
creature. Volendo riprodursi, infatti, il sat emette il tejas
(calore e luminosit), che a sua volta emette l'acqua,
la quale poi emette il "cibo". Tejas, acqua e "cibo" sono i
tre principi costitutivi grazie ai quali il S vivente del sat,
penetrando in ciascuna delle creature, d loro nome e
forma, ossia le individua. Nell'uomo poi ciascuno dei tre
principi si triplica:
Parte prima: 1. Prologo 25

Il cibo mangiato si divide in tre parti: la parte pi
grossolana diventa escremento, la mediana carne, la pi
sottile mente. L'acqua bevuta si divide in tre parti: la parte
pi grossolana diventa urina, la mediana sangue, la pi
sottile respiro. Il tejas assorbito si divide in tre parti: la
parte pi grossolana diventa l'osso [dello scheletro], la
mediana midollo, la pi sottile parola. Costituita di cibo la
mente, o caro, costituito di acqua il respiro, costituita di
tejas la parola.
3

Uddlaka dunque sostenitore di una visione che potremmo
definire naturalistica, secondo la quale non vi discontinuit
tra i principi costitutivi naturali e le funzioni mentali
(Costituita di cibo la mente, ecc.). Per provare la sua
teoria Uddlaka sottopone il figlio vetaketu ad una sorta di
esperimento: lo fa digiunare per quindici giorni,
permettendogli solo di bere l'acqua sufficiente a mantenere
vivo il respiro. Il sedicesimo giorno lo invita a recitare i
Veda, e vetaketu si rende conto che la memoria non lo
sorregge. Finalmente dopo aver mangiato, cio allorquando,
secondo la teoria precedente, la terza parte del cibo ingerito
si trasformata in pensiero, vetaketu ritorna a ricordare i
Veda.
Lo sperimentalismo che affiora nella storia ora narrata un
tratto che risulter riconoscibile in molte posizioni
filosofiche indiane. La continuit tra la dimensione
corporea e quella mentale non sar affatto negata
neppure dalle correnti pi antimaterialistiche: semmai, in
queste ultime, al complesso psico-fisico verr contrapposta
una coscienza o, come vedremo, una coscienzialit pura
totalmente separata dall'elemento psichico e mentale.

3
Chndogya Upaniad VI, 5, 1-4.
26 LIndia filosofica



3. Allora Uasta discendente di Cakra disse: "[...] Parlami
veramente di quella che l'essenza presente in ogni cosa,
ossia del brahman visibile e direttamente percepito". " il
tuo tman quello che presente in ogni cosa". "Quale ,
Yajavalkya, [questo tman] presente in ogni cosa?". "Tu
non puoi vedere chi causa della vista, non puoi ascoltare
chi causa dell'ascolto, non puoi pensare chi causa del
pensiero, non puoi conoscere chi causa del conoscere.
Questo il tuo tman presente in ogni cosa. Al di fuori di
esso non c' che dolore". Allora tacque Uasta discendente
di Cakra.
4

In questo brano il maestro Yajavalkya enuncia il principio
definitorio dellassoluto: da esso tutto dipende, esso non
dipende da nulla. Secondo unimmagine che diverr un
topos della letteratura filosofica, lassoluto come una
lampada, la quale illumina tutto, ma non viene illuminata da
nulla; essa permette di vedere tutto il resto, ma nientaltro
permette di vederla. Lassoluto dunque non pu essere
oggetto del pensiero, perch ci che pensato dipende dal
pensante.

4. Due uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero.
Uno di essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare,
guarda attentamente.
Questa immagine, cos semplice e solenne ad un tempo,
risale alla pi antica testimonianza letteraria della cultura
indiana, il g -Veda.
5
Essa volutamente enigmatica,
6
e

4
Bhadranyaka Up. III, 4, 2.
5
g-Veda I, 164, 20.
Parte prima: 1. Prologo 27
precisamente come enigma stata accolta nel pensiero
indiano, dalle Upaniad
7
in poi. Vi si potrebbe vedere
enunciata icasticamente la decisiva opposizione teorica tra
fruizione (bhukti) e liberazione (mukti) che caratterizzer
tante correnti del pensieriero indiano e che viceversa sar
contestata dal tantrismo - una tendenza del pensiero indiano
che si svilupp nella seconda met del I millennio d. C.
akara (VIII sec. d.C.) vi vide precisamente l'opposizione
tra il s individuale (jva) che affetto dall'esperienza del
mondo e l'vara, il signore, l'eterno testimone:
opposizione che, valida sul piano relativo, si perde tuttavia
sul piano assoluto dell'identit tra il s e il brahman (forse
per questo i due sono stretti amici?). Ma l'immagine si
potrebbe interpretare anche come la contrapposizione tra due
atteggiamenti: quello del ritualista che, mosso dal desiderio,
agisce in vista dei frutti dell'azione, e quello del rinunciante
che pienamente soddisfatto della ben diversa "esperienza"
del brahman. Una contrapposizione che sar al centro della
dottrina dellazione della Bhagavadgt.

6
Nell'inno in cui contenuta (I, 164) posta accanto a una serie di
oscure espressioni metaforiche, di indovinelli, di enigmi appunto, che
costituiscono altrettante sfide all'interpretazione.
7
Cfr. Mu!aka Up. II, 1; vetvatara Up. IV, 6.





2.

Chi erano i filosofi.
Tradizione brhmaica e movimenti ramaici.
Teorie del karman e della rinascita


1. Nei testi pi antichi, in particolare nei testi buddhisti,
come pure nelle iscrizioni, abbastanza comune imbattersi
in un composto, ramaa-brhmaa, che sembra voler
abbracciare l'insieme di tutte le figure religiose e spirituali.
Esso costituito di due termini, brhmaa e ramaa, il
primo dei quali indica gli appartenenti alla classe
sacerdotale dedita alla scrupolosa conservazione dell'eredit
vedica; il secondo gli asceti itineranti o i monaci mendicanti
che spesso assumevano le funzioni di maestri spirituali.
ramaa un derivato della radice ram-, e significa colui
che si sforza, si affatica, si esercita. Di qui l'analogia con il
termine di derivazione greca asceta, che significa appunto
colui che si esercita.
Movimenti ramaici per eccellenza furono il Buddhismo e
il Jainismo, ma le fonti autorizzano a ritenere che dovettero
avere una certa importanza anche numerose altre tendenze,
per esempio quella degli jvika.
Da parte brhmaica la tradizione speculativamente pi
rilevante fu quella di derivazione upaniadica. Occorre
tuttavia aggiungere subito che nello sviluppo delle
importanti teorie del linguaggio indiane ebbero un ruolo
Parte prima: 2. Chi erano i filosofi 29
decisivo le scuole esegetiche e la tradizione tecnica dei
grammatici (che culmin nellopera di Pini).
Forse poi, oltre ai brhmaa e ai movimenti ramaa,
dobbiamo riconoscere un terzo gruppo, tipologicamente
distinto, nella tradizione intellettuale che dette origine alla
corrente cosiddetta materialista dei Crvka o Lokyata.
1


assai verosimile che l'incontro-scontro tra tradizioni
brhmaiche e movimenti ramaa abbia caratterizzato la
vita intellettuale dell'India settentrionale intorno alla met
del I millennio a.C., allorquando, nel contesto di mutamenti
profondi della struttura sociale e politica (sviluppo di una
civilt urbana, moltiplicazione delle professioni, costituzione
di veri e propri stati, ecc.), alle speculazioni mitologico-
ritualistiche delle parti pi antiche dei Veda si affiancano o
si sostituiscono nuove preoccupazioni e nuove tendenze
dottrinali.

2. In realt non possibile stabilire se il movimento
ramaico debba essere pensato come un'evoluzione interna
al vedismo o se piuttosto non si debbano immaginare due
percorsi in origine distinti e indipendenti che siano giunti ad
intersecarsi intorno alla met del I milliennio a.C.
Quello che si pu dire che, a partire dal periodo in cui
questo incontro ebbe luogo, assunse valore pressoch
assiomatico per quasi tutte le correnti del pensiero indiano
una concezione estranea al vedismo pi antico: la
caratteristica credenza nella retribuzione delle azioni

1
tuttavia possibile che anche la corrente materialista vada ricondotta a
uno dei due gruppi fondamentali: alcuni ritengono che si sia sviluppata in
ambienti brhmaici; altri, pi verosimilmente, pensano che sia sorta in
ambienti ramaici.
30 LIndia filosofica
(karman) e nella rinascita. Ed probabile, bench tutt'altro
che certo, che il contributo decisivo all'imporsi di questa
concezione provenga dagli ambienti ramaici.
Karman un derivato della radice sanscrita k- (fare) e
significa azione, opera, atto (in primis in senso
rituale). L'idea di base della teoria del karman che ogni
azione produce di per s una retribuzione, cio una
ricompensa o una punizione, le quali sono il fondamento
delle esperienze negative o positive che segnano la nostra
esistenza. Viene cos stabilito un nesso causale tra il passato
e il presente (che ricondotto alle azioni compiute nel
passato) e tra il presente e il futuro (che sar il risultato
delle azioni presenti). La credenza nella rinascita
2
consente
di estendere il potere retributivo dell'azione anche alle vite
future e di pensare la vita presente come retribuzione delle
infinite vite che l'hanno preceduta.
Comune alle tradizioni brhmaiche e a quelle ramaiche
l'idea che la serie senza inizio di nascite e rinascite regolate
dal principio retributivo del karman (ci che viene chiamato
generalmente sasra) sia intrinsecamente dolorosa e
insoddisfacente e che occorra cercare di interromperla.
Questa interruzione viene chiamata in vario modo: moka,
mukti (liberazione) o nirva (spegnimento,
cessazione), ecc.

3. Il patrimonio di credenze fin qui sommariamente
tratteggiato costituisce un presupposto imprescindibile della

2
opportuno evitare termini come trasmigrazione o metempsicosi,
che implicano l'esistenza di un sostrato trasmigrante (l'anima): esistenza
che esplicitamente negata, ad esempio, dalla gran parte delle correnti
buddhiste.
Parte prima: 2. Chi erano i filosofi 31
speculazione brhmaica e ramaica della seconda met del
I millennio a. C.
Si legano ad esso questioni decisive di natura metafisica,
epistemologica ed etica. Che cos' che permane nel
passaggio da una vita all'altra? Se esiste questo sostrato
permamente, in che modo esso conoscibile? Qual la
natura del rapporto causale che connette i vari momenti
della serie sasrica? Che cosa si pu dire dello stato di
chi abbia interrotto la serie sasrica? In che modo si
ottiene tale interruzione? Occorre forse interrompere la
catena causale astenendosi totalmente dalle azioni? Oppure
si deve controllare l'intenzione con cui si agisce? Oppure,
ancora: la catena causale viene forse interrotta non gi al
livello ontologico tramite l'azione, bens a un altro livello,
quello gnoseologico, tramite la conoscenza o il
riconoscimento della condizione liberata? Infine: qual la
differenza tra il merito e il demerito nell'agire, visto che
ogni azione, anche meritoria, produce comunque
inevitabilmentne una conseguenza a livello karmico che
ostacola il processo di liberazione?
Le varie correnti brhmaiche e ramaiche della prima fase
di sviluppo delle filosofie indiane si differenziano
fondamentalmente a partire dalle risposte date a questi
interrogativi, o anche, come vedremo, sulla base del rifiuto
esplicito di fornire queste risposte.








3.

Il Buddhismo e il Jainismo primitivi




I. La prima fase del pensiero buddhista.

1. Buddhismo e Jainismo furono i movimenti ramaici pi
importanti.
Il movimento buddhista, che si sarebbe diffuso in gran parte
dell'Asia e che ormai da tempo ha raggiunto anche l'Europa
e l'America fino a divenire un fenomeno planetario, ebbe
origine e si svilupp in India nel primo millennio a.C.
I punti filosoficamente pi rilevanti dell'insegnamento del
Buddha sono i seguenti: la diagnosi del carattere
insostanziale, impermanente e insoddisfacente di tutte le
cose; l'indicazione delle quattro nobili verit e
dell'ottuplice sentiero (che contempla precetti etici); il
rifiuto metodico di prendere posizione sulle grandi questioni
metafisiche e lo sviluppo di una posizione mediana - cio
al di l degli estremi - anche attraverso l'uso dello strumento
logico-argomentativo del tetralemma (catukoi);
l'esposizione della catena causale della coproduzione
condizionata; l'indicazione di una tecnica di meditazione in
quattro stadi (le quattro meditazioni). Questi ultimi due
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 33
elementi furono quasi certamente elaborati dai primi
successori del Buddha storico.
Gli scritti canonici ci restituiscono l'immagine viva di un
Buddha che rifiuta metodicamente, opponenendo silenzi
significativi e istruttivi, di pronunciarsi sulle grandi questioni
metafisiche; egli pone in evidenza l'impermanenza di tutte le
cose, le quali non sono altro che aggregati destinati alla
dissoluzione, ed addita a ciascun uomo, al di l
dellappartenenza castale (la cui importanza viene rifiutata),
la possibilit di liberarsi dal dolore/insoddisfazione (dukha)
praticando la via intermedia che conduce alla condizione
di arahant (pli; scr. arhat: degno, perfetto) e al
nibbna (pli; scr. nirva: spegnimento, estinzione, ma
si tratta di una nozione veramente complessa, se vero che
in alcuni ambienti mahyana si giunger ad affermare, come
si vedr, la non-differenza tra nirva e sasra).
1


1
Sulla vita dell'uomo che sarebbe stato considerato lo svegliato per
antonomasia (questo il significato del termine buddha), possediamo
numerose testimonianze scritte, che per sono in gran parte di natura
leggendaria. opinione comunemente condivisa dagli studiosi che
Siddhrtha Gautama, della stirpe degli kya, sia un personaggio storico,
uno dei primi a noi noti dell'India antica. Si sono fatte molte ipotesi sulle
date della sua vita, ma il problema rimane a tutt'oggi aperto, pur
rimanendo certo che egli sia vissuto prima del III secolo a. C. (le
iscrizioni di Aoka della met del III secolo documentano la gi
avvenuta espansione del dharma buddhista). La questione della datazione
del Buddha molto importante, giacch molte altre datazioni decisive sia
sotto il profilo della storia del pensiero che sotto quello della storia tout
court, dipendono, per cos dire a cascata, da essa. Recentemente gli
studiosi si sono orientati a considerare pi plausibile una datazione pi
"bassa" rispetto a quella calcolata in un primo tempo (VI-V secolo). Si
veda Bechert (ed.), The Dating of the Historical Buddha [1991]. Il Buddha
sarebbe vissuto circa ottanta anni. Intorno ai trentacinque avrebbe
conseguito il risveglio (bodhi, abhisambodhi). La sua vicenda
personale sarebbe stata segnata da tre avvenimenti decisivi: l'abbandono
34 LIndia filosofica

2. Le comunit di orientamento monastico cui il Buddha
avrebbe dato vita provvidero a tramandare la memoria dei
suoi insegnamenti, finch si giunse alla fissazione di veri e
propri canoni (i pi importanti sono quelli dei Theravdin
e dei Sarvstivdin). Questi sono suddivisi in tre grandi
sezioni, dette canestri: il canestro dei discorsi, quello delle
regole disciplinari (vinaya) e quello della sistematica
dottrinale (abhidharma). soprattutto dai testi contenuti nel
canestro dei discorsi (Sutta-piaka) che possiamo ricostruire
l'insegnamento del Buddha storico, mentre nelle dottrine e
nelle speculazioni contenute nell'ultimo possiamo riconoscere
le origini della grande speculazione filosofica buddhista
fiorita nel primo millennio d.C.

3. In quello che si usa chiamare Discorso della messa in
moto della ruota del dhamma, e che costituisce
tradizionalmente il resoconto del suo primo discorso dopo il
risveglio - il Buddha si presenta essenzialmente come un
terapeuta che nelle quattro nobili verit (pli ariya-

della vita principesca, della casa paterna, della moglie e del figlio per
seguire la vita ascetica; l'abbandono della via della mortificazione e il
distacco dagli insegnamenti dei vari maestri per seguire una via
mediana anche nel cammino ramaico; il risveglio, cio la conquista
autonoma e definitiva della verit circa la natura della
sofferenza/insoddisfazione (dukha) e circa il modo per farla cessare.
Superata la tentazione di entrare immediatamente nello stato di
cessazione del dolore (nirva) senza comunicare agli altri esseri viventi
la via del risveglio, il Buddha avrebbe trascorso il resto della sua vita a
guadagnare al proprio insegnamento (dharma) gli ex-maestri e gli ex-
compagni di vita ascetica, nonch a diffonderlo presso numerosi nuovi
adepti. Da questo momento il Buddha, che gi era noto come kyamuni
(Asceta degli kya), sarebbe stato chiamato anche Tathgata (forse:
Pervenuto alla verit), Bhagavat (Beato) e Jina (Vittorioso).
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 35
saccni / scr. rya-satyni) ha condensato la conoscenza
acquisita nel risveglio. Seguendo il modello dell'esposizione
medica, egli definisce innanzitutto la malattia (la
frustrazione, il dolore), poi ne individua la causa (la sete),
quindi prospetta la possibile cessazione di tale causa, e
infine indica il mezzo per ottenere la guarigione (il nobile
ottuplice sentiero). L'insegnamento del Buddha dunque,
in estrema sintesi, l'indicazione di una via intermedia di
autoperfezionamento che ha per meta il superamento del
dolore (cio del raggiungimento del nirva / pli nibbna).
Nelle otto parti (lett. membra) del nobile sentiero la via
della conoscenza e le indicazioni etiche si intrecciano
saldamente tra loro: particolarmente interessanti sono i
contenuti della retta intenzione e della retta azione, in
cui vediamo configurati in forma di precetti al negativo (in
particolare non nuocere, non essere violenti, non uccidere) i
comportamenti che sono alla base delle speculari e positive
virt buddhiste della compassione (karu) e della
benevolenza (pli mett / scr. maitr).

4. Il non-s (in pli anatt, in sanscrito antman o
nairtmya) una delle categorie pi importanti e
controverse del pensiero buddhista. Nell'India del primo
millennio a.C. la speculazione di matrice vedica era giunta,
nelle Upaniad, a negare sostanzialit al soggetto che dice
io e mio, per attribuire realt solo al s anegoico
(tman), identificato con la realt assoluta (brahman).
Questo s costituiva tra l'altro il sostegno, la garanzia di
continuit su cui basare il principio del susseguirsi delle
rinascite (sasra). Le dottrine buddhiste invece, a partire
da quelle attestate nella letteratura canonica in lingua pli,
rinunciano - pur con qualche resistenza e tentennamento (su
36 LIndia filosofica
cui si appoggiano alcuni studiosi
2
per combattere le
interpretazioni radicali dell'anatt) - a questa
ipostatizzazione del s: al contrario, avventurandosi, si
potrebbe dire, al limite estremo del percorso di
disidentificazione gi iniziato nelle Upaniad, esse
affermano che non si pu attribuire sostanzialit non solo
all'io, ma neppure al s anegoico. Per alcune scuole poi (ma
pure qui spesso l'interpretazione aperta, e gli studiosi in
disaccordo tra loro) anche gli elementi nei quali viene
analizzata la realt esperienziale, i dhamm, sono privi di
sostanzialit.
3
Secondo una formulazione caratteristica,
sabbe dhamm anatt, tutti gli elementi sono privi di s
(Dhammapda, 279). bene tuttavia chiarire subito che
sarebbe avventato concludere che il pensiero buddhista
abbracci una metafisica del nulla.
4


5. L'anatt sembra essere piuttosto, nella maggior parte dei
casi, uno strumento argomentativo antimetafisico, che nega
non gi la realt, bens le affermazioni su di essa, le

2
Si veda ad esempio, tra gli ultimi di una lunga serie, Prez-Remn, Self
and Non-Self [1980]. Su questa importante questione vale la pena di
segnalare alcuni lavori per un approfondimento: per una analisi critica
delle varie posizioni possibili si vedano Collins, What are B. doing when
they deny the self? [1994]; Tillemans, What would it be like to be selfless?
[1996]; e Gmez, The Elusive Buddhist Self [1999].
3
Certamente non tutte le scuole buddhiste sostennero questa posizione:
anzi, alcune delle pi importanti scuole antiche si sono dichiarate per la
sostanzialit dei dhamm.
4
questa la vecchia accusa rivolta al buddhismo, di essere cio un
culto del nulla. Sulla storia di questa interpretazione e dell'apologetica
religiosa e "occidentale" ottocentesca ad essa connessa si veda Droit, R.-
P., Le culte du nant, Paris 1997. Si veda anche, sulle interpretazioni del
nirva Welbon, G. R., The Buddhist Nirva and Its Western Interpreters,
Chicago and London 1968.
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 37
dottrine che si formulano a proposito della sua stabilit, del
suo permanere, oppure viceversa della sua nullit. L'anatt
sarebbe dunque non una dottrina, bens uno strumento di
confutazione delle dottrine, o visioni speculative (dihi),
che, tutte indimostrabili, non darebbero indicazioni su come
liberarsi dal dolore, e quindi andrebbero evitate. Si legga a
questo proposito la spiegazione degli istruttivi silenzi del
Buddha che si trova nel Discorso a Vacchagotta sul fuoco:
5

O Vaccha, pensare che "il mondo eterno", [...] "il mondo
non eterno", "il mondo finito", "il mondo non finito",
"il principio vitale e il corpo sono la stessa cosa", "il
principio vitale una cosa e il corpo un'altra", "il
Tathgata, dopo la morte, ", "il Tathgata, dopo la morte,
non ", "il Tathgata, dopo la morte, e non ", "il
Tathgata, dopo la morte, n n non ", questo, Vaccha,
significa tendere a una visione speculativa, attenersi a una
visione, alle giungle delle visioni, ai contorcimenti delle
visioni, alla zuffa delle visioni, ai vincoli delle visioni. Ci
accompagnato da angoscia [...]; non conduce al distacco
[...] n al nibbna. Io, o Vaccha, ritenendo che questo sia
un pericolo, non mi accosto a queste visioni speculative.

6. Quanto a ci che invece possibile dire, esso trova un
compendio, ad esempio, nelle due espressioni che
accompagnano il sabbe dhamm anatt citato prima, e
cio: sabbe sakhr anicc, sabbe sakhr dukkh:
tutte le predisposizioni sono impermanenti, tutte le
predisposizioni sono dolore (Dhammapda, 277 e 278). Il

5
Si trova in Majjhima-Nikya I, 483-489 ( il discorso n. 72): il brano
riportato tradotto in The Middle Length Sayings, transl. by I. B. Horner,
The Pli Text Society, London 1957, vol. II, p.164. La traduzione
italiana di chi scrive.
38 LIndia filosofica
richiamo al dolore e all'impermanenza evidentemente
basato sull'esperienza diretta della realt come continuo
fluire e continuo perire.
Il ritmo, per cos dire, di questo flusso scandito dai vari
anelli della catena (circolare) della coproduzione
condizionata (prattyasamutpda). Essa descrive
sinteticamente in dodici punti le relazioni causali e di
interdipendenza che provocano la permanenza nel flusso
sasrico: nescienza (avidy) e latenze karmiche
(saskra) costituiscono il passato; coscienza (vijna),
nome-forma (nmarpa, cio l'individualit), le sei
entrate (a!yatana), contatto (spara), sensazione
(vedan), sete (tn), appropriazione (upadna) e
esistenza (bhava) sono gli otto anelli del presente;
nascita (jti) e vecchiaia e morte (jarmaraa) sono il
futuro.
6




II. Il Jainismo.

1. Il Jainismo un movimento spirituale ancora vivo,
bench minoritario, nell'India contemporanea.
Il suo tratto fondamentale - e filosoficamente pi rilevante
insieme al multilateralismo epistemologico - l'adesione
radicale all'ideale dell'ahis: Tutti gli arhat e i bhagavat
del passato, del presente e del futuro, tutti cos dicono, cos
dichiarano, cos proclamano, cos spiegano: "non si deve

6
Uno dei testi pi celebri sul prattyasamutpda il listambastra,
tradotto in italiano in Gnoli (a cura di), Testi buddhisti [1983].
Sull'interpretazione del prattyasamutpda si veda, ad es., Potter et alii
(eds.), Abhidharma Buddhism to 150 A.D. [1996], pp. 43-47.
Parte prima: 3. Buddhismo e Jainismo 39
uccidere, n trattare con violenza, n maltrattare, n
tormentare, n scacciare alcuna creatura che respiri, che
esista, che viva, che senta". Ecco il puro, immutabile,
perenne dharma, proclamato dai sapienti che comprendono
il mondo.
7

La giustificazione dottrinale della non-volont di nuocere
(a-his) naturalmente connessa alla teoria del karman e
della rinascita, che nel Jainismo assume una forma
particolarmente nitida.

2. Della vita di Vardhamna, che sarebbe stato chiamato
Mahvra (grande eroe) e il Jina (vittorioso),
8
e che
svolse per il Jainismo un ruolo parzialmente analogo a
quello ricoperto, per il Buddhismo, da Siddhrtha Gautama,
sappiamo molto poco. Nato prima del Buddha, anch'egli
sarebbe stato di famiglia nobile. Abbracciata la vita
dell'asceta itinerante, avrebbe raggiunto a quarantatre anni la
conoscenza assoluta, cio la conoscenza della via per
sfuggire al sasra. Considerato dalla tradizione jaina il
ventiquattresimo trthakara (lett. facitore di guado),
sarebbe stato preceduto dal trthakara Prva, che gli
studiosi ritengono una personalit storica.

3. La dottrina jaina costituisce un esempio molto chiaro di
dottrina ramanica, caratterizzata dalla problematica
dell'azione e dei legami che questa comporta. Ne vediamo
qui alcuni aspetti paradigmatici. Essa viene riassunta in sette

7
crga-sutta (I, 4, 1), dalla tr. ingl. di H. Jacobi, Jaina Stras, part I
= SBE, vol. 22, Oxford 1884, p. 36).
8
I suoi seguaci vengono chiamati jaina ( il derivato di jina) da cui
Jainismo. Si noti che in italiano a volte si preferisce la grafia
Giainismo.
40 LIndia filosofica
argomenti di base: 1) le anime o spiriti (jva), 2)
l'inanimato (ajva), 3) l'afflusso o contaminazione (srava),
4) il legame (bandha) 5) l'arresto del flusso (savara), 6)
l'eliminazione (nirjar) e 7) la liberazione (moka). Le
sostanze, cio i jva e l'ajva, esistono realmente.
L'inanimato si suddivide in cinque sostanze (spazio,
presupposti del movimento e della stasi, tempo, materia). La
materia (pudgala) ha una struttura atomica. Non c' un Dio
creatore, la cui esistenza sar sempre oggetto di polemica da
parte dei Jaina. I jva sono infiniti e immortali. L'azione in
generale, ogni azione, produce afflusso di particelle
materiali verso il jva, sul quale si depositano facendogli
assumere una colorazione (leya). La liberazione si
raggiunge attraverso un processo di purificazione che si basa
sui tre gioielli (retta visione, retta conoscenza, retta
condotta) ed suddiviso in quattordici stadi. Al termine il
jva consegue la perfezione (siddhi) e rimane libero.
Il fatto che ogni azione, anche quelle moralmente approvate,
sia causa di afflusso karmico, ha due conseguenze
decisive: 1) che il comportamento ideale sarebbe la rinuncia
totale ad agire (e quindi la morte per fame, che fu
effettivamente praticata); 2) poich tuttavia resta il problema
della colorazione accumulata in precedenza, tra le
quattordici tappe del cammino di purificazione deve
necessariamente venirne prevista una (la settima) a partire
dalla quale si ha effettiva eliminazione del leya: la
kapaka-re, la linea dell'asceta distruttore [del karman].
I precetti etici, in primis l'astensione dal desiderio di
nuocere agli altri esseri (ahim), costituiscono la
condizione indispensabile per attenuare l'afflusso karmico ed
incamminarsi sul cammino della liberazione.






4.

La Bhagavadgt e lo yoga dellazione.



1. Perch agire?, che cos' l'azione?, qual il rapporto
tra azione e conoscenza?, chi l'uomo saggio?, qual
il rapporto tra l'uomo e la realt suprema?. A questi
interrogativi cerca di rispondere un poema celeberrimo, la
Bhagavadgt, databile tra il II sec. a. C. e il II sec. d. C.

2. La tradizione speculativa brhmaica trov espressione in
opere di varia natura (trattati sul dharma, sulla lingua, sulla
politica, ecc.) ma fu soprattutto nell'epica che vennero
incorporati testi di natura spiccatamente filosofica. La
Bhagavadgt contenuta nel VI libro del Mahbhrata, il
vasto poema che, accanto al Rmyaa, costituisce la
grande epica dell'India antica. La vicenda principale narrata
nel Mahbhrata quella dello scontro esiziale tra i
Kaurava e i loro cugini, i cinque P!ava. Nelle sue diciotto
letture la Bh.-g. presenta il dialogo tra Arjuna, il guerriero
per eccellenza tra i P!ava, e Ka, il suo auriga, nel
corso del quale Ka si rivela come volto personale della
realt suprema e impartisce ad Arjuna il suo
insegnamento sul problema dell'agire. Arjuna infatti,
vedendo nello schieramento avversario parenti e maestri,
42 LIndia filosofica
preso dallo sconforto e pone angosciosamente l'interrogativo
perch combattere? - domanda che nel corso del dialogo
si amplier sempre di pi, fino a comprendere
implicitamente o esplicitamente gli interrogativi ben pi
generali che abbiamo elencato all'inizio.

3. Ka risponde indicando perlomeno tre vie, tre
discipline (yoga): la disciplina della conoscenza (jna-
yoga), la disciplina dell'azione rinunciante in ottemperanza
al proprio dharma (karma-yoga), e la disciplina della
devozione (bhakti-yoga). Nei numerosissimi commenti
filosofici alla Bh.-g. che si sono susseguiti da quando essa
venne considerata un testo a s stante ed estremamente
autorevole - cio almeno da quando, al pi tardi alla fine
dell'ottavo secolo, il filosofo akara ne diede una celebre,
assai unilaterale interpretazione - la discussione verte,
fondamentalmente, sulle tre vie sopra elencate: c' chi
sostiene che una sola di esse debba essere considerata
essenziale (per akara, ad esempio, lo jna-yoga), chi
pensa che esse si implichino vicendevolmente (Ymuna, X-
XI sec.), chi le dispone una di seguito all'altra in ordine
ascendente (per Rmnuja, XI-XII sec, ad esempio, il
karma-yoga superiore allo jna-yoga, ma il gradino pi
alto riservato al bhakti-yoga), chi le vede come vie
distinte e parallele tra le quali ciascuno deve trovare la
propria (o piuttosto quella che gli stata assegnata dal fatto
di nascere in una determinata condizione), ecc.

4. Ma se tutte e tre le vie trovano nella Bh.-g. una loro
giustificazione (e forse una reciproca complementarit), il
karma-yoga ad affrontare pi direttamente il problema
dell'agire, offrendone un'analisi ed una soluzione
Parte prima: 4. La Bhagavadgt e lo yoga dellazione 43
particolarmente sottili. Il rifiuto di combattere di Arjuna si
ricollega infatti alla pi vasta disputa sulla rinuncia ad agire:
l'azione infatti implica un frutto (phala), che costituisce
un legame, il quale, caricando il meccanismo retributivo
del karman, causa dell'aborrito perpetuarsi delle rinascite
(sasra), in perenne, dolorosa vicenda. La "soluzione
karmayogica" si fonda sull'assunto che il legame non sia
intrinseco all'azione stessa, ma dipenda dall'"intenzione" di
chi la compie: l'azione lega se chi agisce lo fa spinto dal
desiderio e dall'attaccamento al frutto dell'azione. Non
essendo in realt possibile non agire (per vari motivi, come
di spiega nel terzo canto del poema), l'unico modo per
liberarsi dal legame delle azioni compiere l'azione
rinunciando preventivamente al suo frutto: infatti, una volta
abbandonato il frutto dell'azione, questa a priori diviene -
come si detto glossando nelle lingue occidentali -
un'"azione disinteressata", un'"azione rinunciante", un'"azione
senza desiderio", e una siffatta azione non lega, si esaurisce
in se stessa, senza generare conseguenze.

5. Ma se il karma-yoga consente dunque all'azione di
assurgere al rango di non-azione, esso pone tuttavia un
problema delicatissimo: qual , infatti, il movente che regge
un'azione che parrebbe restare sospesa nel vuoto della
mancanza di intenzionalit? La risposta karmayogica,
apparentemente semplice, ma in realt profonda e
inquietante insieme, che il criterio dell'agire consiste, per
ciascuno, nella necessit di conformarsi allo sva-dharma, al
proprio dharma,
1
al dovere specifico del proprio ruolo,

1
Dharma un concetto fondamentale della cultura indiana. Racchiude
in s significati diversi: dharma al tempo stesso il mantenersi
dell'ordine del mondo, la legge morale (o le leggi morali), a volte la
44 LIndia filosofica
inteso sostanzialmente in senso castale: nel caso di Arjuna,
essendo egli un guerriero, il dharma gli impone di
combattere.
2


6. La Bh.-g., con la sua capacit di far convivere in un
unico quadro posizioni tra loro (apparentemente?)
contraddittorie, si presenta come una sorta di registrazione
compendiaria, in una forma letteraria spesso molto
suggestiva e raffinata, di alcuni dei principali problemi e
temi che caratterizzano l'universo filosofico-religioso della
tradizione brhmaica: il tema del distacco dal desiderio
(kma), il tema della fedelt al proprio dharma, il tema del
riconoscimento - come strumento di liberazione (moka) -
dell'identit tra l'tman (il s) e la realt assoluta
(brahman), il tema dell'abbandono amoroso e totale alla
divinit (bhakti), ecc. Anche per questa sua caratteristica la
Bh.-g. stata individuata, fin dai primordi degli studi

legge in senso giuridico, il dovere, e persino quella che in Europa si
chiama religione. Il termine sva-dharma, cio il proprio dharma,
rimanda al "proprio posto nel mondo", normalmente inteso in senso
castale. Sul concetto di dharma illuminante il denso saggio di W.
Halbfass intitolato Dharma in the Self-Understanding of Traditional
Hinduism, comparso come capitolo 17 del suo India and Europe [1988].
2
Vale la pena di notare qui che nell'ambito del cosiddetto neo-
induismo tale risposta ha dato adito a interpretazioni divergenti, e
numerosi sono stati i tentativi di svincolare il dharma dalla dimensione
castale. Gandhi, ad esempio, interpreter il dharma in senso
universalistico e ne individuer il nucleo essenziale nell'ahis (con il
conforto di varie testimoninaze testuali - cfr. ad esempio Mahbhrata
XII, 110, 10; ecc.-; ma certo esiste il problema di quale fosse in questi
testi il significato di ahis, e il tentativo gandhiano di spiegare perch
Ka, in nome della non-violenza, induca Arjuna a riprendere la
guerra, pone non poche difficolt).
Parte prima: 4. La Bhagavadgt e lo yoga dellazione 45
indologici in Europa, come il testo con cui confrontarsi per
un primo avvicinamento al pensiero indiano.
3


3
Molto importanti a questo proposito furono la versione inglese di
Wilkins del 1785 e soprattutto quella latina di August Wilhelm Schlegel
del 1823, che diede il via a una interessante disputa a distanza sul
pensiero indiano che coinvolse W. von Humboldt e Hegel). La Bh.-g.
cos divenuta, negli ultimi due secoli, un testo universale (per
utilizzare il termine adottato da Sharpe, E.J., The Universal Gt [1985]).
Assai spesso l'interesse dei lettori europei e americani si concentrato
sull'interpretazione del concetto di dharma, particolarmente importante
nel contesto della soluzione karmayogica: non potendoci qui
soffermare su una vicenda che tuttavia varrebbe davvero la pena di
ripercorrere, baster dire che le interpretazioni variano dalla segnalazione
di vaghe assonanze kantiane all'accettazione del dharma come norma
perenne e universale, dalla totale adesione interiore al dharma inteso
come necessit amata (S. Weil) all'esaltazione di un esteriore e
militaresco dovere per il dovere connesso a una metafisica
dell'azione (ad esempio gli indologi Hauer e Formichi), ecc.







5.

Teoria della disputa e medicina


1. Gi nel periodo documentato dalle Upaniad pi antiche
la disputa filosofica e il dibattito pubblico rivestivano
unimportanza eccezionale. Il maestro upaniadico
Yjvalkya era noto e temuto per la sua abilit nello
sconfiggere gli avversari. Si deve pensare anche a veri e
propri tornei dialettici organizzati presso le corti regali, al
termine dei quali erano previsti premi consistenti per i
vincitori.
1
Le Upaniad attestano che a tali dispute
pubbliche partecipavano, almeno in certi casi, anche le
donne.
2

Anche il canone buddhista, l'abbiamo visto, come pure
quello jaina, riportano numerosissimi incontri, discussioni e
dispute memorabili tra maestri itineranti.
Durante la fase pi antica sembra comunque che non siano
state elaborate regole per la conduzione del dibattito n che

1
Vedi ad es. Bhadranyaka Up. III, 1-2: Janaka di Videha ebbe
desiderio di sapere qual fosse il pi dotto tra i brahmani. Rinchiuse
allora in un recinto mille vacche e alle corna di ciascuna erano attaccate
mille monete[d'oro]. Poi disse [ai convenuti]: "Venerabili brahmani! Chi
tra voi il pi dotto brahmano si porti via queste vacche" (tr. di C.
Della Casa).
2
Si veda il caso di Grg, interlocutrice di Yjavalkya nella
Bhadranyaka Up. (III, 6).
Parte prima: 5. Teoria della disputa e medicina 47
siano stati stabiliti criteri in base ai quali assegnare la
vittoria.
Il tema della disputa in generale divenne verosimilmente
oggetto di riflessione in occasione delle contese tra le varie
sette buddhiste,
3
allorquando si tratt di stabilire per via
argomentativa quale fosse l'eredit dottrinale del Buddha.

Una testimonianza in tal senso rappresentata dal
Kathvatthu (forse del II sec. a.C.): celebre il dibattito tra
un pudgalavdin e un theravdin sul modo di conoscere il
pudgala (il sostrato trasmigrante esistente secondo i
pudgalavdin e negato dai theravdin).
4

Di un certo interesse storico poi la distinzione tra, per dir
cos, forza dell'argomentazione e argomentazione della
forza che ci viene proposta, sempre in ambito buddhista,
dal Milindapaha: Il re disse: "Venerando Ngasena, vuoi
discutere con me?". "Se tu, gran re, discuterai come fanno i
saggi, io discuter con te; se invece vuoi discutere come
fanno i re, allora no". "Come discutono i saggi, venerando
Ngasena?". "Gran re, nella discussione dei saggi si hanno
lo svolgimento e la ricapitolazione, il convincere e il
concedere; si raggiungono accordi e disaccordi. E i saggi
non si irritano per questo. Cos discutono i saggi". "E come
discutono i re?". "Quando i re discutono, essi approvano un
argomento e puniscono chi non lo approva. Cos discutono i
re".

3
Per la storia del buddhismo indiano si possono consultare: Lamotte,
Histoire du Bouddhisme Indien [1958]; Warder, Indian Buddhism [1970].
Una breve sintesi in traduzione italiana quella di Conze, Breve storia
del Buddhismo [1985].
4
Il brano riportato e discusso in Matilal, The Character of Logic [1998],
pp. 33-37, oltrech in Bochenski, La logica formale, II [1972 (1956)], pp.
543-6.
48 LIndia filosofica
Si verific tuttavia un mutamento decisivo quando la
riflessione sul dibattito sfoci in una vera e propria teoria
della disputa e delle sue procedure, teoria che divenne essa
stessa un sapere tecnico e codificato.

2. Una sorta di manuale di questo nuovo sapere contenuto
in uno dei pi importanti trattati medici antichi, la
Carakasahit (I o II sec. d.C.). La medicina (yurveda) in
India come altrove contribu notevolmente allo sviluppo di
concezioni e dottrine riguardanti la fisiologia del complesso
psico-fisico, le forze naturali, le vie per superare il dolore.
Abbiamo inoltre visto come ad esempio il modello
espositivo delle quattro nobili verit del Buddha sia quello
medico. Ma quello che qui si vuole sottolineare che
l'ambito medico - dove doveva essere sentita fortemente la
necessit di discutere, anche pubblicamente, le varie fasi del
processo diagnostico e terapeutico, e di argomentarne la
validit adducendo prove e dimostrazioni - costitu con ogni
probabilit un terreno ideale per la codificazione di un
sapere e di uno stile di ragionamento che fin per
oltrepassare la teoria della disputa, contribuendo a dare
origine alla logica e alla epistemologia che diverranno
dominanti nella filosofia indiana classica.
5



5
Leggiamo per esempio la seguente raccomandazione di Caraka ai
medici: Non lasciatevi coinvolgere in argomentazioni e
controargomentazioni complesse, n d'altra parte permettetevi di fingere
che la verit sia ovvia e facile da raggiungere se si aderisce ad una
singola posizione filosofica (pakasaraya). Grazie al vostro intelligente
argomentare finirete per girare a vuoto, come uno che siede su un
torchio che gira in tondo. Liberatevi dai pregiudizi semplicistici e cercate
spassionatamente la verit. Carakasahit I, 25, 32 (citato in Larson,
yurveda and the Hindu philosophical systems [1993], p. 111).
Parte prima: 5. Teoria della disputa e medicina 49
Nel manuale contenuto nella Carakasahit
6
si distingue
dapprima tra la discussione amichevole - nella quale si
devono esporre apertamente le proprie ragioni, facendo
appello all'intelletto e alle conoscenze dell'altro senza temere
la sconfitta - e la contesa, nella quale lo scopo da tenere
presente il vantaggio personale. Seguono un elenco delle
qualit del buon disputatore, consigli su come valutare
l'avversario e su come individuarne e sfruttarne i punti
deboli, nonch indicazioni su quali atteggiamenti tenere a
seconda che il pubblico sia favorevole, neutrale o
sfavorevole.
Quello che fin qui parrebbe solo un manuale di eristica
passa infine a presentare una lista degli argomenti che chi
vuole sapere come agire nelle dispute deve conoscere. Si
tratta in realt di una serie di termini tra i quali
riconosciamo molte delle categorie ontologiche, logiche ed
epistemologiche della filosofia indiana classica. Vediamone
alcune: innanzitutto la disputa stessa (vda). Poi le categorie
del Vaieika: sostanza (dravya), qualit (gua)
movimento/azione (karman), universalit/generalit
(smnya), particolarit (viea). Seguono le parti del
ragionamento dimostrativo, parzialmente analoghe a quelle
sviluppate dal Nyya: tesi (pratij), enunciazione della
prova (sthpan), enunciazione della controprova
(pratisthpan), ragione/motivo (hetu), applicazione
(upanaya), conclusione (nigamana), replica (uttara), esempio
(dnta), enunciazione conclusiva (siddhnta). Si passa poi
ai mezzi di conoscenza, variamente accettati come validi o

6
Carakasahit III, 8, 14 sgg. Il brano discusso lungamente gi da
Dasgupta (A History of Indian Philosophy, Cambridge 1932, vol. II, pp.
378-88). Si veda inoltre Matilal, The Character of Logic in India cit., pp.
38-43 e soprattutto Frauwallner, E., Nachgelassene Werke I, Wien 1984.
50 LIndia filosofica
respinti dalle scuole: parola autorevole (abda), percezione
sensibile (pratyaka), inferenza (anumna), tradizione
(aitihya), comparazione/analogia (aupamya). La lista infine
si conclude con una serie di termini tecnici del linguaggio
eristico, anch'essi di notevole interesse.

3. Dopo la fase di cui il testo discusso sopra costituisce
un'importante testimonianza, il pensiero indiano era ormai
pronto a compiere il passaggio verso una sistematica
filosofica dotata di tecniche e di procedure discorsive
proprie. Le scuole dei pi vari orientamenti si
organizzarono intorno a postulati e tesi fondamentali che
vennero difesi facendo riferimento a regole comuni di
ragionamento. La struttura stessa dellesposizione nelle opere
e nei commentari filosofici rivela la sua origine dalla
disputa: su un dato argomento si espone dapprima una tesi
avversa (prva-paka, prima posizione, obiezione), poi
la si confuta dimostrando la propria tesi (uttara-paka,
seconda posizione o risposta), che viene infine ribadita
nell'enunciazione conclusiva (siddhnta).













Parte seconda









1.

Epistemologia e logica I: il Nyya.


1. Il tipo di problemi che, con terminologia di derivazione
greca, chiamiamo logici ed epistemologici, furono in
India affrontati soprattutto dalla scuola Nyya e da alcune
correnti buddhiste. Contributi notevoli vennero anche dai
Jaina e dai Mmsaka, nonch dai filosofi del linguaggio.
Come si visto, le origini di questo tipo di dottrine vanno
ricercate nella pratica e nella teoria della disputa.
All'interrogativo epistemologico quali sono i mezzi di
conoscenza (pramna)? il Nyya (Nyyastra I, 1, 3)
risponde sostenendo che essi sono i quattro seguenti:
percezione (pratyaka), inferenza (anumna), comparazione
analogica (upamna) e parola autorevole (abda).
All'interrogativo logico qual la struttura dell'inferenza
valida? i Nyyastra (d'ora innanzi NS) offrono la seguente
risposta: I componenti dell'inferenza (anumna) sono:
l'asserzione preliminare della tesi (pratij), il probans
(hetu), l'esemplificazione (udharaa), l'applicazione
(upanaya) e l'asserzione conclusiva (nigamana) (NS I, 1,
32). Il probans la proposizione che asserisce "la causa
dello stabilimento del probandum" (sdhya-sdhana)
attraverso la somiglianza [del soggetto o paka] con
l'esempio citato [udharaa]; similmente, il probans la
54 LIndia filosofica
proposizione che asserisce "la causa dello stabilimento del
probandum" attraverso la dissomiglianza (vaidharmya) [del
soggetto con l'esempio contrario citato] (NS I, 1, 34-35).
Come si vede, si tratta di una dottrina giunta ad un elevato
grado di elaborazione tecnica. Abbiamo appositamente
accostato l'elenco dei mezzi di conoscenza alla descrizione
della struttura dell'inferenza per sottolineare fin dall'inizio la
continuit, nel Nyya, tra l'epistemologia e la logica (ma il
giudizio si pu estendere a gran parte della logica
posteriore). Sarebbe dunque fuorviante voler valutare lo
schema inferenziale che costituisce il nucleo centrale della
logica indiana classica sulla base di un confronto (che
pure, come vedremo, sembra sorgere spontaneamente) con il
sillogismo aristotelico, il cui orizzonte invece quello della
logica formale.

2. molto probabile che i NS attribuiti a Gautama (detto
anche Akapda) costituiscano il risultato, almeno per le
parti pi antiche, dell'elaborazione sistematica di qualche
manuale di eristica. Delle sedici categorie trattate dai NS,
infatti, molte provengono dall'ambito della teoria della
disputa, giacch oltre che dei 1) prama e dei 2) prameya
rispettivamente mezzi di conoscenza e oggetti di
conoscenza - i NS si occupano dei seguenti argomenti: 3)
il dubbio (saaya), 4) l'intento (prayojana), 5) l'esempio
(dnta), 6) la conclusione (siddhnta), 7) i membri
(avayava) dell'inferenza, 8) l'argomentazione (tarka), 9) la
tesi (niraya), 10) la disputa o obiezione (vda), 11) la
controversia (jalpa), 12) il cavillo (vit!a), 13) l'errore
logico (hetvbhsa), 14) l'inganno (chala), 15) la
confutazione insussistente (jti) e 16) i punti deboli
dell'avversario (nigrahasthna). La presenza nei NS dei
Parte seconda: 2. Epistemologia e logica I: il Nyya 55
prameya (oggetti di conoscenza: tman, corpo, facolt
sensoriali e d'azione, oggetti dei sensi, buddhi, manas,
attivit, colpe, esistenza del trapassato, frutto delle azioni,
sofferenza e liberazione) attesta l'avvenuto innesto, sul
tronco della tradizione logico-epistemologica della scuola
Nyya, di una tradizione metafisico-soteriologica.
I NS furono commentati innanzitutto da Vtsyyana (V
sec.), a sua volta commentato da Uddyotakara (VI-VII sec.),
che ne prese le difese contro gli attacchi del logico
buddhista Dignga. Vcaspati Mra poi nel X secolo difese
l'opera di Uddyotakara dagli attacchi dell'erede di Dignga,
Dharmakrti. Altri importanti filosofi della scuola furono
Jayanta Bhaa, Bhsarvaja, rdhara e soprattutto Udayana.

3. Torniamo ora alla struttura del processo inferenziale
(anumna). Per vederne da vicino il funzionamento
riporteremo un esempio tipico, ossia la dimostrazione della
non-eternit del suono (contro la tesi eternalista tipica della
scuola denominata Mms).
Ecco il ragionamento a cinque membri:
1) pratij : il suono non-eterno.
2) hetu: perch ha la caratteristica di esser prodotto.
3) udharaa: gli oggetti come la pentola che hanno la ca-
ratteristica di esser prodotti sono non-eterni.
4) upanaya: similmente, il suono ha la caratteristica di
essere prodotto.
5) nigamana: dunque il suono non-eterno, perch ha la
caratteristica di esser prodotto.

In questo caso il probans basato sulla similarit (del
suono con la pentola).
56 LIndia filosofica
La seconda possibilit che il probans sia basato sulla
dissimilarit:

1) pratij : il suono non-eterno.
2) hetu: perch ha la caratteristica di esser prodotto.
3) udharaa: gli oggetti, come il s, che non hanno la
caratteristica di esser prodotti, si trova che sono eterni.
4) upanaya: ma il suono non ha la caratteristica di essere
non prodotto.
5) nigamana: dunque il suono non-eterno, perch ha la
caratteristica di esser prodotto.
1


Si sar notato che il terzo passo, l'udharaa, non si limita
ad enunciare una regola di concomitanza astratta (dove c'
fumo c' fuoco), ma associa sempre a questa regola un
esempio. Questo fatto, lungi dallessere inessenziale, rivela
la natura profonda della concezione indiana del processo
inferenziale: esso combina in modo inseparabile deduzione e
induzione. Se lo si trasformasse in un sillogismo (ad es. :
tutto ci che prodotto non-eterno, il suono prodotto,
dunque non-eterno), si perderebbe l'esibizione
dell'esempio, o del controesempio, che ancorano l'inferenza
alla realt e mostrano che la regola da applicare non
vuota.


1
Ma l'esempio pi spesso citato di processo inferenziale il seguente: 1)
pratij : sulla montagna c' fuoco; 2) hetu: perch c' fumo; 3)
udharaa: dove c' fumo c' fuoco, come nella cucina; 4) upanaya:
c' fumo sulla motagna; 5) nigamana: dunque sulla montagna c'
fuoco.

Parte seconda: 2. Epistemologia e logica I: il Nyya 57
Su questo schema inferenziale, e sui problemi posti dalla
sua ambiguit, si incentrer la ricchissima riflessione
logica che coinvolger Nayyika, Buddhisti e Jaina per oltre
un millennio.






2.

Sviluppi nel Buddhismo. Ngrjuna



1. Ngrjuna fu una delle personalit filosofiche pi forti
dell'India antica. La sua dottrina antidottrinaria della vacuit
(nyat) non solo ebbe un'influenza decisiva su gran parte
delle correnti filosofiche buddhiste successive, ma pi in
generale costitu una delle strutture portanti del Buddhismo
Mahyna, che si sarebbe diffuso, al di l dell'India, in
Cina, Tibet, Giappone, ecc. Si pu inoltre dire che il fascino
intellettuale di una dottrina che sfocia nella negazione di se
stessa o meglio la comprende in s - abbia oltrepassato i
confini dell'India e dell'espansione buddhista, e non abbia
mancato di esercitarsi su pensatori, anche europei e
americani, estranei a quella tradizione.
1

Le risonanze attualizzanti del suo pensiero costituiscono con
ogni probabilit una componente non inessenziale delle
continue controversie interpretative che il suo lascito
filosofico suscita tra gli studiosi.
2



1
Si vedano ad esempio nella sezione Filosofi moderni sul pensiero
indiano le pagine dedicate a Ngrjuna da Karl Jaspers.
2
Su questo tema si veda Tuck, Comparative philosophy and the
Philosophy of Scholarship[1990].
Parte seconda: 2. Sviluppi nel Buddhismo. Ngrjuna 59
2. Ngrjuna, nato nell'India meridionale, visse a quanto
pare nel II sec. d. C. Su di lui esiste una nutrita tradizione
agiografica dalla quale poco si pu trarre per ricostruire la
sua biografia. Gli sono attribuite moltissime opere, tra le
quali anche alcune di carattere alchemico. La pi importante
tra le opere che si possono considerare autentiche quella
intitolata Madhyamaka-krik (Le stanze del cammino di
mezzo,
3
d'ora in poi MK), che costituisce il testo-base del
Madhyamaka. Essa fu difesa e commentata da vari
esponenti della scuola, tra i quali vanno ricordati
Buddhaplita, Bhavaviveka (V e VI sec.) e Candrakrti (VII
sec.), autore dell'importante commento intitolato
Prasannapad. Tra le altre opere di Ngrjuna, oltre ad
alcuni inni poetici, andr segnalata soprattutto la Vigraha-
vyvartan (La sterminatrice degli errori,
4
d'ora in poi VV).
Discepolo diretto di Ngrjuna fu ryadeva. Nel solco del
Madhyamaka, ma fortemente influenzati dalla logica di
Dignga e Dharmakrti e dallo Yogcra, vanno considerati
ntarakita e Kamalala (VIII sec.). Instancabile diffusore
del Buddhismo Mahyna e del Madhyamaka fu poi
antideva (VIII sec.), autore del Bodhicaryvatra, un'opera
divulgativa dotata di notevole forza polemico-argomentativa
(si veda la sezione antologica).

3. Ngrjuna riprende la nozione di vuoto (nya) dalla
letteratura della Perfezione della Gnosi (prajpramit) e

3
Tradotte in italiano da Raniero Gnoli: Ngrjuna, Le stanze del cammino
di mezzo, Torino 1961; anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in
sanscrito, Torino 1983.
4
Anch'essa tradotta in italiano in Ngrjuna, Le stanze cit., pp. 139-56; si
veda anche Ngrjuna, Lo sterminio degli errori, a cura di A. Sironi,
Milano 1992.
60 LIndia filosofica
ne fa il cardine interpretativo della dottrina della
coproduzione condizionata: la coproduzione condizionata,
questa e non altro noi chiamiamo la vacuit (MK XXIV,
18). In altre parole, la vacuit designa in primo luogo
l'interdipendenza e l'impermanenza dei fenomeni. In
particolare, in polemica con la dogmatica dell'Abhidharma,
Ngarjuna attacca la dottrina secondo cui i dharma (gli
elementi ultimi e istantanei della realt) sarebbero dotati di
natura propria (svabhva). Anch'essi invece, in ultima
analisi, sono vuoti:
5
Ngrjuna ripete cio contro lo
svabhva l'antico argomento dell'anatt, condensato nella
frase tutti i dharma sono privi di s.

4. Un secondo obiettivo polemico di Ngrjuna la teoria
dei mezzi di conoscenza sostenuta dal Nyya e in generale
(pur con notevoli differenze) dalle scuole brhmaiche.
Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera,
qualcosa, lammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla
percepisco, la mia posizione inobiettabile. Se, inoltre, tu
pensi che lesistenza delle varie cose stabilita dai mezzi di
conoscenza, da che cosa, d un po, stabilita lesistenza
dei mezzi di conoscenza? (VV 30-1). Sotto accusa,
ovviamente, la pretesa di stabilire attraverso i prama la
realt degli oggetti conosciuti.

5. La critica nyavda non si limita alla confutazione della
natura propria (svabhva) e dei prama: in generale si
appunta contro la fondatezza di ogni tesi positiva. Ci
chiarissimo nelle MK, dove una dopo l'altra tutte le varie
posizioni filosofiche vengono confutate dimostrando che
esse hanno inevitabilmente implicazioni assurde. Ngrjuna

5
La polemica sullo svabhva dei dharma si pu leggere in VV 52 ss.
Parte seconda: 2. Sviluppi nel Buddhismo. Ngrjuna 61
fa spesso un uso brillante della struttura argomentativa della
catukoi.
6
Si tratta di dimostrare di ogni cosa che 1) n
, 2) n non-, 3) n n non-, 4) n non- n non
non-.
A tale critica radicale sono sottoposte anche le verit
buddhiste, in quanto passibili di essere assunte
dogmaticamente. Di conseguenza Ngrjuna deve rispondere
all'obiezione secondo cui anche le quattro nobili verit del
Buddha sono vuote (si veda la sezione antologica).

6. Raggiungiamo cos il punto pi alto della dialettica
ngrjuniana. L'apparentemente paradossale negazione degli
stessi dogmi buddhisti conduce ad una domanda radicale
sulla natura del nyavda: in che cosa consiste la
differenza tra esso e il nichilismo (ucchedavda)? La
risposta di Ngrjuna la seguente: il nyavda stesso
deve essere preservato dal divenire una tesi (VV 29). Se lo
divenisse, si trasformerebe in una fonte di pericolo: La
vacuit, male intesa, manda in rovina luomo di corto
vedere, cos come il serpente male afferrato o una formula
magica male applicata. E per questo, la mente
dellAnacoreta si tir addietro dallinsegnamento della legge,
pensando alla difficolt che avrebbero avuto gli uomini di
corto vedere a penetrarla (MK 11-12).
Come l'insegnamento del Buddha era stato una via
mediana tra gli estremi del soddisfacimento e della
mortificazione, cos il nyavda una via mediana
(madhyamaka, da cui il nome della scuola) tra eternalismo

6
Gi utilizzata nel Buddhismo primitivo (vedi il discorso a Vacchagotta).
Si veda, anche per un interessante confronto con il rifiuto aristotelico di
utilizzare questo schema tetralemmatico, Bugault, G., L'Inde pense-t-elle?,
Paris 1994.
62 LIndia filosofica
(asvtavda) e nichilismo (ucchedavda), dove via
mediana va inteso non nel senso che sta in mezzo, ma nel
senso che oltre gli estremi, cio li supera entrambi.

7. Resta tuttavia il problema: che cosa si deve pensare del
dharma buddhista? Occorre seguirlo? Come ci si deve
comportare nella vita ordinaria?
Nasce da questo tipo di interrogativi la dottrina della doppia
verit: quella assoluta (paramrtha) e quella relativa del
mondo (lokasavti). Le quattro nobili verit possono certo
essere dichiarate vuote dal punto di vista assoluto, ma non
da quello relativo.
A questo secondo livello il dharma buddhista continua ad
essere indispensabile, pur nella consapevolezza che si tratta
di una zattera che, una volta condottici all'altra riva, deve
essere abbandonata.






3.

Il Skhya della Skhyakrik.


1. Il Skhya una dottrina dualista che distingue due
principi, entrambi reali ed eterni, opposti tra loro: il purua
e la prakti. Il purua (normalmente si rende con spirito,
ma la traduzione fuorviante) coscienzialit pura, non
soggetta a modificazioni, assolutamente inattiva. La prakti
(normalmente si rende con natura) invece attivit pura
ma inconsapevole: il principio che da immanifesto
(avyakta) d origine, per evoluzione/trasformazione
(parima), a tutto quanto manifesto, intendendo con ci
sia la realt materiale che la realt mentale e psichica.
questo un punto da sottolineare. Non solo infatti nel
Skhya c' continuit tra corporeit e psichicit, ma
entrambe le dimensioni sono pensate come radicalmente
opposte - in quanto prakti - alla pura coscienzialit del
purua. Il quale di conseguenza non affatto una realt
psichica.
Contrariamente a quello che ci si potrebbe attendere, il
purua non uno: esiste infatti eternamente una pluralit
infinita di purua, uno per ciascun individuo.
Ogni purua in contatto con la prakti, ma la natura di
questo contatto non sufficientemente tematizzata, e ci
64 LIndia filosofica
costituisce ovviamente uno dei problemi teorici pi rilevanti
del Skhya.
Scopo della dottrina descrivere il mezzo per far cessare
l'oppressione dovuta al dolore (Skhyakrik 1). Tale
mezzo, si dice esplicitamente, non quello rivelato dai Veda
(cio non la pratica rituale e sacrificale). Superiore [ai
mezzi rivelati] quel mezzo, diverso da essi, che proviene
dalla conoscenza discriminativa (vijna) del manifesto
(vyakta), dell'immanifesto (a-vyakta) e del conoscitore (ja)
[cio il purua] (Skhyakrik 2).


2. Il Skhya ritenuto uno dei darana pi antichi e
conserva anche nel periodo classico molti tratti di
arcaicit. Tracce significative di quello che viene chiamato
proto-Skhya si trovano gi nelle Upaniad, anche nelle
pi antiche.
1
Alcune porzioni del Mahbhrata (soprattutto
la Bhagavadgt e il Mokadharma)
2
attestano come intorno
all'inizio dell'era volgare il proto-Smkhya avesse gi
sviluppato molte delle categorie che diverranno
caratteristiche del Skhya classico.
3
Una fase ulteriore e

1
La stessa dottrina di Uddlaka rui (Chndogya Up. VI, 2-5), secondo
cui l'Essere nasce necessariamente dall'Essere e avrebbe tre
manifestazioni, fuoco (rosso), acqua (bianco) e nutrimento (nero), pu
essere considerata un precedente della dottrina della preesistenza
dell'effetto nella causa, e delle concezioni della prakti e dei tre gua
(vedi sopra, Prologo).
2
Il Mokadharma una sezione del libro XII del Mahbhrata.
3
Altre testimonianze del proto-Skhya si possono trovare nei trattati
medici (soprattutto nella Carakasahit) e nel XII canto del
Buddhacarita di Avaghoa (si veda la tr. it. di A. Passi: Le gesta del
Buddha, Milano 1979). In generale sul Skhya pre-classico e i suoi
rapporti con il Skhya classico si possono vedere Johnston, E.H., Early
Parte seconda: 3. Il Skhya della Skhyakrik 65
pi sistematica sarebbe rappresentata da uno o pi testi ora
perduti intolati aitantra. L'elegante opera di varaka,
la Skhyakrik (350-450 d.C., d'ora in poi SK),
costituisce una sintesi e al tempo stesso una rielaborazione
delle dottrine precedenti. Essa svolge lo stesso ruolo che in
altri darana svolgono i stra di base. Tra i vari commenti
antichi (noti sono soprattutto quello di Gau!apda del VI
sec. e la Suvarasaptati tradotta in cinese da Paramrtha
sempre nel VI sec.) quello di gran lunga pi importante la
Yuktidipik,
4
databile al VII sec. Tra i commenti pi tardi
spiccano quelli di due grandi dotti: Vcaspati Mira (X sec.)
e Vijnabhiku (XVI sec.). Soprattutto con quest'ultimo il
Skhya subisce un processo di assimilazione, o meglio di
subordinazione, al Vednta.
5


Nel seguito, dopo aver rapidamente tratteggiato la teoria dei
gua e dei derivati della prakti, ci soffermeremo sui
seguenti temi: 1) la teoria della preesistenza dell'effetto nella
causa materiale (satkryavda), 2) il ruolo della buddhi
nella relazione tra purua e prakti.


3. Se, per ipotesi assurda, i purua cessassero di esistere, la
prakti cesserebbe di essere attiva. Infatti il processo
creativo (sarga) causato dall'associazione (sayoga) o

Skhya, London 1937; Larson, G. Classical Skhya, Delhi 1979;
Larson, G. - Bhattacharya, R. S. (eds.), Skhya: A Dualist Tradition in
Indian Philosophy, Princeton 1987.
4
Edita per la prima volta nel 1938.
5
Un elenco esaustivo e una articolazione in tendenze delle opere della
tradizione Skhya si pu trovare in Larson, G. - Bhattacharya, R. S.
(eds), Skhya cit., pp. 14-18.
66 LIndia filosofica
compresenza dei due principi, associazione che come
quella di uno zoppo (il purua immoto) con un cieco (la
prakti priva di coscienzialit).
6
L'attivit della cieca prakti
dovuta al movimento incessante dei suoi tre costituenti
fondamentali, i tre gua, che, senza la presenza del purua,
resterebbero in una condizione di equilibrio inattivo. I gua
sono il sattva (il bianco e luminoso, il tranquillo,
l'intelligibile, ecc.), il rajas (il rosso, l'eccitato e dinamico,
l'instabile, ecc.), e il tamas (l'oscuro, l'inerte, l'errore, ecc.).
Nelle SK gli evoluti elementari della prkti - i tattva - sono
ventitre. Aggiungendo il purua e la prakti i principi
enumerati sono dunque venticinque. probabile che la
denominazione Skhya (lett.: calcolo) tragga origine
da questa e da altre enumerazioni analoghe.
Contrariamente a quanto pu far supporre la traduzione di
prakti con natura, il movimento di emergenza della
prakti dallo stato immanifesto e primordiale (mla-prakti,
lett. prakti-radice) allo stato manifesto non comincia dagli
elementi grossi per passare poi agli elementi sottili e
cos via. Al contrario, il primo derivato proprio l'elemento
che sta assiologicamente all'apice della catena dei derivati:
la buddhi (spesso il termine viene reso con intelletto),
che, come si vedr, ha un ruolo decisivo nel processo di
liberazione del purua. Seguono il senso dell'io
(ahakra) e il sensorio comune (manas), le cinque facolt
di senso (udire, toccare, vedere, gustare, odorare), le cinque
facolt d'azione (parlare, afferrare, muoversi, evacuare,
procreare), i cinque elementi sottili (suono, contatto, forma,
gusto, odore) e infine i cinque elementi grossi (etere, aria,
fuoco, acqua, terra).

6
Vedi SK 21.
Parte seconda: 3. Il Skhya della Skhyakrik 67
Si voluto dare l'intero elenco dei venticinque tattva, pur
senza discutere il dettaglio della loro derivazione, perch
esso costituisce una sorta di patrimonio o lessico comune
delle dottrine indiane. La portata di questa osservazione pu
in realt essere estesa fino a dire che il Skhya stesso
costituisce una specie di dottrina generale, un presupposto
- da accettare o da rifiutare polemicamente - sempre
presente sullo sfondo degli altri sistemi filosofici.
7


4. Poich (a) non si d produzione di ci che non esiste
(asat), poich (b) si d selezione del materiale, poich (c)
non si d originazione di qualcosa da qualsiasi altra, poich
(d) la produzione del[l'effetto] possibile propria di ci che
pu [produrlo], e poich (e) l'effetto ha la stessa essenza
della causa: [per questi motivi] l'effetto preesiste nella
causa (SK, 9).
Cos varaka formula l'importante teoria della
preesistenza dell'effetto nella sua causa (sat-krya-vda). Si
tratta di una teoria della causalit che viene spesso descritta
come teoria dell'identit dell'effetto e della causa, o in
questo caso, pi precisamente, della produzione dell'effetto
come trasformazione (vikra) della causa materiale. Tutto
ci che si produce preesiste allo stato latente nella sua causa
materiale, dato che (a) non si pu produrre ci che non
esiste gi, (b) per produrre un vaso si deve ricorrere all'ar-
gilla, e (c, d) dal chicco di riso non nasce qualcosa di
diverso dal riso, ad es. il grano. L'effetto s reale, ma
(e)non essenzialmente diverso dalla sua causa (materiale).
8


7
Su questo punto insiste Torella, R., Skhya as smnyastra, in
Asiatische Studien/tudes Asiatiques 53/3 (1999) pp. 553-562.
8
Contrariamente all'accusa portata dai pensatori del Nyya, il Skhya
conosce anche la nozione di causa efficiente.
68 LIndia filosofica
Questa teoria fortissima della causalit apparenta il
Skhya all'Advaita Vednta (dove per l'effetto non
reale) e lo contrappone al Nyya-Vaieika (l'effetto
nuovo e diverso rispetto alla causa), cos come alle varie
correnti buddhiste (che sostengono discontinuismo e
istantaneismo nel rapporto tra causa ed effetto) e allo
scetticismo radicale dei Crvka (secondo i quali i rapporti
tra quelli che percepiamo come cause ed effetti sono
accidentali). La teoria della preesistenza delleffetto nella
causa decisiva per riservare alla prakti (nella forma dei
suoi tre gua) il ruolo di causa ultima (pradhna) e unica
del manifesto e delle sue trasformazioni. Da ci si deduce
che questa teoria motivata, pi che dal desiderio di
rendere conto del processo causale, da preoccupazioni
ontologiche.
9
Tutti i derivati sono preesistenti eternamente
nella prakti, la cui esistenza evita il regressus ad infinitum.
Non c' dunque bisogno di postulare un Dio creatore (come
invece avverr in altri sistemi) o altre cause, n, soprattutto,
di attribuire alcuna causalit o attivit al purua.
10


5. Il purua coscienzialit pura o, come dice con
precisione la Yuktidipik,
11
potenza di coscienza (cetan-
akti), mentre la prakti non dotata di coscienza ( a-
cetana): come pu dunque la buddhi, un derivato della

9
Su questo punto si veda Halbfass, W., On Being and What there is.
Classical Vaieika and the History of Indian Ontology, Albany1992, pp.
58 sgg.
10
Vedi ad es. il commento di Gau!apda alla strofa 61: come
possibile che le creature, le quali sono provviste degli elementi
costitutivi, siano create da Dio che ne privo, o dall'anima [cio il
purua] che ne altrettanto priva? Onde la causalit appartiene alla
stessa natura (tr. di C. Pensa).
11
Ad es. nel commento a SK 1.
Parte seconda: 3. Il Skhya della Skhyakrik 69
prakti, essere capace di conoscenza discriminativa e di
intelligenza? Viceversa, come pu il purua, che inattivo,
accogliere le esperienze che la buddhi gli porge? Questo
interrogativo non cesser di tormentare i filosofi del
Skhya, che, attraverso varie fasi, elaboreranno una teoria
del riflesso (pratibimba) e del mutuo riflesso (anyonya-
pratibimba) per descrivere la relazione tra la buddhi e il
purua.
12

Tale relazione ha un'importanza decisiva anche nel processo
di liberazione - come si pu vedere nelle ultime strofe
delle SK riportate nella sezione antologica - giacch questo
avviene in virt di un atto conoscitivo che si attua non nel
purua, ma nella buddhi. La prakti attiva immaginata
come una danzatrice, il purua come lo spettatore. Tutto ci
che avviene - le trasformazioni della prakti, l'acquisizione
del merito, la stessa dolorosa trasmigrazione del corpo
sottile - una danza che la prakti compie a favore del
purua (pururtha). L'atto conclusivo di questa danza si
ha quando la danzatrice sa di essere vista, ossia quando
la buddhi conosce discriminativamente la differenza tra
manifesto/immanifesto e conoscitore. Solo allora la prakti
cessa la sua attivit, lasciando il purua nel suo definitivo
isolamento. Il purua viene cos generosamente sollevato
anche dell'unica azione che sembrerebbe competergli, cio
quella di raggiungere lo stato di isolamento (kaivalya).

12
Le due teorie saranno esposte rispettivamente da Vcaspati Mira e
Vijnabhiku.





4.

L'ontologia del (Nyya-)Vaieika.


1. Che cosa reale? Che cosa c' veramente? Sono
questi gli interrogativi che orientano la ricerca del darana
chiamato Vaieika. Si tratta di un sistema filosofico realista
e pluralista. Il suo obiettivo quello di identificare ed
enumerare esaustivamente, tramite lanalisi, gli elementi
della realt non ulteriormente riducibili.
Ad un primo livello di analisi il Vaieika classifica ci che
esiste in termini di sei padrtha (significati, o oggetti di
parola; spesso si traduce con categorie): 1) sostanza
(dravya), 2) qualit (gua), 3) azione o movimento
(karman), 4) universalit (smnya), 5) particolarit (viea),
6) inerenza (samavya).
Le sostanze sono 9; le qualit 17 (o pi); 5 (o pi) i
movimenti. Si noter che gli ultimi tre padrtha sono
eterogenei rispetto ai primi tre.
A un secondo livello l'analisi scompone ulteriormente alcune
delle sostanze (le prime quattro: terra, acqua, fuoco e aria)
in atomi (au o paramu), eterni e invisibili.
L'atomismo un tratto caratteristico, se pur non esclusivo,
del Vaieika.
1


1
Pertanto non forse un caso che il nome con cui noto l'autore del
testo di base della scuola (i Vaieika-stra), e cio Kada (che si
potrebbe tradurre come Il mangia-particelle, Il mangia-semi)
Parte seconda: 4. L'ontologia del (Nyya-)Vaieika 71

2. Oltre ai Vaieika-stra (d'ora innanzi VS) la cui
composizione risale ai primi secoli dell'era volgare, l'opera
pi autorevole della scuola il Padrtha-dharma-sagraha
di Praastapda (V-VI sec.), che non un commento ai
stra, ma un'opera originale che si discosta in vari punti
dall'opera di base (per esempio presenta 24 qualit
rispetto alle 17 dei VS). Si pu anzi dire che il sistema di
Praastapda costituisca il punto di partenza per gli ulteriori
sviluppi della scuola.
2
Minore influenza ha avuto il Daa-
padrtha-stra di Candramati (V sec.), perduto
nell'originale sanscrito e a noi noto attraverso una traduzione
cinese. Come indica il titolo (Trattato delle dieci categorie),
in quest'opera il numero delle categorie elevato a dieci,
grazie a quattro aggiunte di notevole interesse teorico:
universalit limitata (smnyaviea),
3
potenzialit e
non-potenzialit (akti e a-akti) e non-essere (a-bhva).
4

Il pi antico commento ai VS a noi giunto sembra essere
quello di Candrnanda (secondo Halbfass forse del IX-X
sec.). Un importante commento all'opera di Praastapda
la Vyomavat di Vyomaiva.

contenga un accenno, verosimilmente ironico, alla sua dottrina. Un altro
nome per l'autore dei Vaieika-stra Ulka.
2
Si pu addirittura ipotizzare, per esempio, che la lista delle sei
categorie risalga a Praastapda, poich nei VS le categorie erano
originariamente, con ogni probabilit, solo le prime tre.
3
W. Halbfass propone di interpretare il termine come universale per
se, esistenza (On being and what there is. Classical Vaieia and the
History of Indian Ontology, Albany 1992, p. 72).
4
La categoria di a-bhva viene aggiunta come settima e ultima categoria
anche in un'opera del XII sec., la Saptapadrth (Le sette categorie) di
ivditya.
72 LIndia filosofica
Nel corso della seconda met del I millennio il Vaieika
tende a fondersi, in un rapporto di complementarit, con il
Nyya. In altri termini, il Vaieika contribuisce con la sua
sviluppatissima ontologia a completare l'epistemologia e la
logica tipiche del Nyya. Gli studiosi sono perci propensi a
parlare di un'unica scuola, il Nyya-Vaieika.
Nelle pagine che seguono si cercher di mettere in luce due
degli aspetti pi controversi della dottrina Vaieika, la
teoria degli aggregati e la teoria della causalit.

3. Il realismo atomista del Vaieika doveva cercare di
rispondere alla sfida portata dai buddhisti, che negavano la
realt degli interi compositi o aggregati. Secondo il
Vaieika, gli oggetti forniti dalla percezione sensoriale sono
costituiti in ultima analisi da atomi, che sotto la spinta di
una forza invisibile (ada) si aggregano dapprima in diadi
e poi in triadi di diadi - raggiungendo a questo punto la
soglia della visibilit - e cos via. Ora, il Vaieika e il
Nyya affermano in generale che le totalit composte di
parti costituiscono qualcosa di diverso e di nuovo rispetto
alla semplice somma delle parti. Essi ammettono, infatti, che
c' incertezza a proposito dell'intero (avayavin), perch [la
sua esistenza] va provata (NS II, 1, 33); tuttavia affermano
che a questo dubbio si possono dare due risposte: in primo
luogo, se non si prova l'esistenza dell'intero, ne consegue
che non si d apprensione di nessuna cosa (NS II, 1, 34);
in secondo luogo, al di l di questa conseguenza
paradossale, l'esistenza dell'intero provata dal fatto che
possiamo tenerlo e spingerlo (NS II, 1, 35). Rispetto, cio,
al mero ammasso delle parti, l'intero dotato di qualit
ulteriori e distintive: il carro dei buddhisti pu essere
tenuto e spinto in avanti, contrariamente all'eventuale
Parte seconda: 4. L'ontologia del (Nyya-)Vaieika 73
mucchio dei suoi componenti (ruote, assi, ecc.). Se infine si
vuole attaccare la teoria atomica adducendo per analogia i
casi della foresta composta di alberi e dell'esercito composto
di guerrieri, la risposta che l'analogia non tiene, perch a
differenza degli esempi proposti, gli atomi sono
[intrinsecamente] impercettibili (NS II, 1, 36), cio il
rapporto tra atomi e intero diverso da quello che intercorre
tra elementi e insieme, in quanto questi ultimi sono
entrambi visibili.

4. La teoria secondo cui laggregato (avayavin) qualcosa
di nuovo rispetto alla somma delle parti (avayava) pone
tuttavia rilevanti problemi a livello ontologico. Essa infatti
in aperto contrasto con la teoria della preesistenza
delleffetto nella causa (satkryavda), sostenuta ad esempio
dal Skhya. Infatti tale concezione implica che qualcosa
che non c'era giunga all'esistenza: dunque il prodotto (in
questo caso il tutto) non preesiste nella sua causa materiale
(in questo caso le parti).
Il (Nyya-)Vaieika non indietreggia di fronte a questa
conseguenza, e sostiene apertamente che l'effetto non
reale gi nella causa. N esso pu essere, come
sostengono alcuni, sia reale che non reale: poich il reale e
l'irreale sono eterogeni, la realt e la non-realt non possono
coesistere nell'effetto [prima della sua produzione] (VS IX,
8, 12). Dato poi che prima della sua produzione non si d
alcuna percezione dell'effetto (VS IX, 8, 7) - percezione che
ne attesterebbe la realt - se ne conclude che prima della
sua produzione l'effetto solo irreale.
5
Questa dottrina
nota come a-satkryavda, e costituisce un importante
tentativo di affrontare il problema del divenire, alternativo

5
Si veda il brano riportato nella sezione antologica.
74 LIndia filosofica
all'idea che il divenire sia solo una trasformazione (vikra)
di una sostanza che resta tuttavia eternamente identica a se
stessa.
6
Il divenire, secondo il (Nyya-)Vaieika,
passaggio dallirreale al reale, un giungere allesistenza di
qualcosa che prima non cera.

6
Wilhelm Halbfss suggerisce per questa opposizione un modello tratto
dalla riflessione linguistica indiana: la distinzione che Patajali il
grammatico fa tra vikra (trasformazione) e dea (sostituzione)
(Halbfass, On being cit., p. 57).






5.

Epistemologia e logica II: Dignga.


1. Ci sono soltanto due mezzi di conoscenza (prama), e
cio la percezione sensoriale (pratyak) e l'inferenza
(anumna), perch gli altri, come la parola autorevole,
l'analogia, ecc. sono contenuti in questi due.
1

Parte da qui, si potrebbe dire, la polemica del buddhista
Dignga (V-VI sec.) contro l'epistemologia del Nyya (e in
generale delle scuole brhmaiche): i prama indipendenti
non sono quattro, ma solo due, perch gli altri si riducono a
quelli. Infatti la parola autorevole si fonda essa stessa
sulla percezione di qualcuno, mentre l'analogia non che
un caso di inferenza. La conseguenza implicita di questa
riduzione era, naturalmente, che la rivelazione non poteva
essere invocata per fondare l'esistenza di enti soprasensibili.
Per Dignga la percezione sensoriale (pratyak) un
mezzo di conoscenza valido in quanto essa fornisce una
conoscenza pura, immediata, libera da ogni costruzione
mentale (kalpan). Sono le costruzioni mentali e linguistiche
infatti che, sovrapponendosi alla percezione e interferendo
con essa, causano l'errore. Oggetto della percezione
sensoriale la caratteristica propria (sva-lakana) del

1
Tucci, G. (ed. e tr.), Nyyamukha of Dignga, in "Materialien zur
Kunde des Buddhismus" 15, Heidelberg 1930, p. 50.
76 LIndia filosofica
percepito. questa, per Dignga, la conoscenza per
eccellenza.
Ogni atto percettivo puntuale, cos come puntuale la
conoscenza che esso produce.
Tuttavia a questa conoscenza si accompagna sempre, per
Dignga, la percezione di s in quanto percipiente: l'atto
percettivo cos distinto in due momenti - percezione
immediata dell'oggetto e autocoscienza del percipiente - che
Dignga chiama le due forme del conoscere.
2


2. Stando alle notizie biografiche che ci sono giunte,
Dignga sarebbe nato alla fine del V secolo vicino a
Kachi, nell'India meridionale, da famiglia brhmaica. Si
sarebbe fatto monaco buddhista e, insoddisfatto
dellinsegnamento dei suoi maestri, si sarebbe recato
nell'India settentrionale per divenire discepolo di
Vasubandhu. Scrisse varie opere di epistemologia e di
logica. Il suo capolavoro il Pramasamuccaya. Altre
opere importanti sono l'Hetucakra!amaru e il Nyyamukha.
Suo successore fu Dharmakrti (autore del Pramavrttika),
che fin per oscurarne la fama. Altri autori notevoli della
scuola logica buddhista furono Dharmottara, ntarakita e
Kamalala.

3. Oltre al pratyaka Dignga accetta, come si visto, un
mezzo di conoscenza indiretto: linferenza (anumna).
Naturalmente l'inferenza, coinvolgendo l'attivit della mente,
corre continuamente il rischio di essere inficiata dalle
costruzioni mentali. Il compito che Dignga si assume

2
Si veda Pramasamuccaya I, 11-13, in Frauwallner, E., Die
Philosophie des Buddhismus, Berlin 1969, pp. 393-4.
Parte seconda: 5. Epistemologia e logica II: Dignga 77
dunque quello di purificare il processo inferenziale da
qualunque intromissione arbitraria.
Il primo passo da lui compiuto consiste nel distinguere tra
l'inferenza per se stessi e quella per un altro. Quella di
cui ci si deve occupare speculativamente ovviamente la
prima, poich priva delle preoccupazioni comunicative
proprie della seconda. Ebbene, dice Dignga, lo schema
inferenziale per se stessi non a cinque membri come
quello classico del Nyya, ma a tre membri: i primi tre,
visto che altri gli due sono ridondanti.
Dopo aver cos ripulito lo schema inferenziale da ci che
non ad esso pertinente, Dignga compie un deciso passo
in avanti verso la risoluzione dell'ambiguit (tra deduzione e
induzione) intrinseca allo schema, enunciando la regola dei
tre membri (trairpya): evidente che questa l'unica
regola d'inferenza valida: se 1) la presenza di questo segno
caratteristico [liga] definito stata constatata nel soggetto
[paka], e se ricordiamo che 2) lo stesso segno caratteristico
certamente in tutto ci che simile al soggetto [sapaka],
ma 3) assolutamente assente in tutto ci che diverso da
esso [vipaka], allora il risultato dell'inferenza certamente
valido.
3
evidente che il punto decisivo di questo passo
risiede nell'uso del termine tutto: la validit dellinferenza
poggia sulla verifica che il segno caratteristico definito sia
presente in tutti i membri della classe del soggetto
(sapaka) e sia simultaneamente assente in tutto ci che
non appartiene a quella classe (vipaka).
Dignga continua poi passando in rassegna tutte le
possibilit: in linea teorica un segno caratteristico pu
infatti essere presente a) in tutti i sapaka, b) in qualche
sapaka, c) in nessuno dei sapaka. Lo stesso dicasi per i

3
Tucci, G. (ed. e tr.), Nyyamukha cit., p. 44.
78 LIndia filosofica
vipaka. Combinando in tutti modi possibili si ottengono,
per la coppia sapaka/vipaka, nove possibilit, che
costituiscono quella che Dignga chiama la ruota delle
ragioni (hetu-cakra). Di queste nove combinazioni,
Dignga mostra come solo due costituiscano la base
dell'inferenza valida, e cio 1) quella in cui il segno
caratteristico si trova in tutti i sapaka e in nessun vipaka,
e 2) quella in cui il segno caratteristico si trova in qualche
sapaka e in nessun vipaka.

4. impossibile discutere qui i passaggi successivi della
storia della logica indiana.
4
Si ricorder soltanto che ci
furono tentativi di intendere in senso estensionale
l'invariabile concomitanza tra i sapaka e il liga (teoria
della pervasione, vypti) e che da parte jaina venne
enunciato il criterio della non-occorrenza altrove
(anyathnupapannatva).

4
Per i quali si vedano Matilal, B.K., The Character of Logic in India,
Albany (NY) 1998 e Bochenski, J.M., La logica formale, vol. II (1956),
tr. it. Torino 1972.






6.

Filosofia del linguaggio: Bharthari.
Filosofia della parola rituale: la Mms.


I. Bharthari

1. La tradizione brhmaica fu sempre interessata al tema
del linguaggio. Ci non pu stupire, data la necessit, da
parte brhmaica, di preservare l'eredit del parola vedica.
Tra le scienze vediche sussidiarie (vedga) ben presto
fiorirono l'etimologia e la grammatica (vykaraa), che ebbe
carattere al contempo normativo e descrittivo. Il progressivo
affermarsi della lingua sanscrita come lingua dotta delle
classi dominanti rese poi indispensabile una codificazione
del suo uso. Da questo tipo di esigenze trasse origine il
grandioso edificio grammaticale di Pini (IV-III sec. a.C.),
che con l'Adhyy fiss una volta per tutte le regole
normative del sanscrito e forn un esempio formidabile di
che cosa sia la descrizione linguistica. L'opera di Pini fu
commentata da Patajali nel suo Mahbhya (forse del I
sec. a.C.), un'opera che presenta gi una notevole
problematica filosofica.
Erede di questa tradizione fu, nell'et della filosofia
sistematica, Bharthari (V sec d.C.), che cerc di elevare la
scienza grammaticale al rango di darana. Ci comport il
80 LIndia filosofica
tentativo di dimostrare che la grammatica la porta che
conduce alla liberazione (Vkyapadya 1, 14). Le opere
filosofiche principali di Bharthari sono il Vkyapadya (La
parola e la frase, d'ora innanzi VP) e il commento al
Mahbhya di Patajali.

2. Le parole esistono? La risposta a questo interrogativo non
affatto scontata nell'ambito dell'ontologia indiana. La
parola, infatti, non solo si presenta come un tutto costituito
di parti (il che come sappiamo ha implicazioni notevoli sul
suo statuto ontologico), ma le sue parti (i fonemi) non
soddisfano alla condizione essenziale di coesistere
simultaneamente. Di fatto, quando pronunciamo una parola i
fonemi si susseguono prendendo via via l'uno il posto
dell'altro.
I grammatici cercarono di risolvere i problemi teorici che
nascevano dalla debolezza ontologica della parola
distinguendo, nel linguaggio, ci che dotato di significato
da ci che invece, come i fonemi, non lo .
Per Bharthari, come gi per Patajali, il portatore del
significato un'entit linguistica diversa dall'insieme dei
fonemi, chiamata sphoa (lett. sbocciamento, esplosione
[del significato]). Come il Nyya-Vaieika aveva difeso le
totalit composite dagli attacchi analitici dei buddhisti
sostenendo che laggregato ontologicamente superiore alla
semplice somma delle sue parti, cos Bharthari postula con
lo sphoa un'entit ontologicamente superiore alla semplice
sequenza dei fonemi. Lo sphoa non ha parti e non
soggetto a mutamento temporale. Ma che relazione pu
esserci tra lo sphoa e la sequenza fonica? Quando il
parlante intende comunicare un significato, nella sua mente
la parola (o pi precisamente, come si vedr, la frase)
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 81
presente come sphoa (VP 1, 44). Attraverso la mediazione
di suoni non percepibili (dhvani), il parlante trasforma lo
sphoa immutabile e privo di parti in una sequenza di suoni
grossi finalmente udibili (nda). Il percorso inverso si
compie dalla parte dell'ascoltatore. Per illustrare come sia
possibile il passaggio da un'unit immutabile e priva di parti
ad una sequenza temporale di suoni Bharthari usa l'esempio
del riflesso nell'acqua: se l'acqua agitata dalle onde,
l'oggetto, che immobile, sembra, nel riflesso, muoversi
continuamente. Un altro esempio quello del pittore, che
dipinge come un'unica cosa ci che vede e percepisce nel
tempo in momenti inevitabilmente successivi (VP 1, 49-52).
Un'analisi analoga vale, ad un livello superiore di
segmentazione, per il rapporto tra le parole e la frase
(vkya): per Bharthari anzi proprio il vkya-sphoa, lo
sphoa della frase, a costituire il vero portatore unitario del
significato. Questo significato, esso stesso privo di parti,
unitario e indivisibile, ha la natura della pratibh, il lampo
intuitivo.

3. Ma la filosofia del linguaggio di Bharthari non intende
limitarsi a queste importanti considerazioni. Infatti la
purificazione della parola il mezzo per raggiungere il s
supremo. Chi ne conosce il principio di funzionamento
ottiene il brahman immortale (VP 1, 131). La
grammatica si pone dunque come un percorso di
liberazione, come uno yoga: il abda-prva-yoga (lett.:
yoga preceduto dalla parola).
Il cammino previsto da questo yoga non tuttavia delineato
chiaramente nel VP, e dobbiamo ricorrere, per saperne di
pi, al commento (vtti), la cui attribuzione allo stesso
82 LIndia filosofica
Bharthari per incerta.
1
Qui il cammino yogico
descritto come una sorta di percorso a ritroso rispetto a
quello che si compie nella manifestazione cosmica (vivarta).
Si parte, al livello pi basso, dalla lingua come sonorit
percepibile e sequenziale (vaikhar): la purificazione della
parola a questo livello consiste nell'uso grammaticalmente
corretto delle parole. Quindi, dopo aver preso dimora nella
parola che si trova oltre l'attivit del respiro, dopo aver
raggiunto la quiete in se stessi attraverso l'unit che risulta
dall'eliminazione della sequenza, dopo aver purificato il
discorso e averlo acquietato nella mente, dopo aver reciso i
suoi legami ed averlo reso libero dai legami, dopo aver
raggiunto la luce interiore, egli [cio chi ha seguito questo
percorso], si unisce con la Luce suprema.
2
La Luce
suprema quella del Brahman, descritto, all'inizio del VP,
come il principio del suono (abdatattva) che attraverso la
sua potenza di tempo e di spazio si manifesta e si dispiega
(vivartate) nella molteplicit e nella sequenzialit temporale.
Questo Brahman-suono il fondamento della totalit del
reale, che - secondo lo schema della causalit gi riscontrato
pi volte - non diverso da esso. Siamo di fronte, con
Bharthari, ad una forma di non-dualismo (advaita) che non
presuppone l'irrealt del cosmo.



1
Sulla questione, e in generale sullo yoga linguistico, si veda Franci,
G.R., Grammatica e liberazione. Appunti sullo yoga linguistico, in
Diacronia, sincronia e cultura. Saggi linguistici in onore di L. Heilmann,
Brescia 1984, pp. 91-114.
2
Commento a VP 1, 131. Traduco seguendo la tr. ingl. riportata in
Coward, H.G. - Kunjunni Raja, K., The Philosophy of the Grammarians,
(vol. 5 dell'Encyclopedia of Indian Philosophies curata da K. Potter),
Princeton 1990, pp. 46-7.
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 83
II. Filosofia della parola e del rito nella Prva-Mms.

1. Una via notevolmente diversa prese un'altra scuola
brhmaica, anch'essa estremamente feconda di speculazioni
sul linguaggio: la scuola esegetica della Prva-Mms
(lett.: Prima Indagine). Essa ha certamente origini molto
antiche, da ricercarsi forse nell'esegesi rituale che ritroviamo
nei Brhmaa.
3
I suoi scopi principali sono due: in primo
luogo, stabilire i criteri di corretta interpretazione della
parola vedica ai fini della sua attuazione nel rituale; in
secondo luogo, e soprattutto, difendere argomentativamente
l'autorit dei Veda, e la insostituibilit per la liberazione
delle loro ingiunzioni, dagli attacchi mossi anche dalle
scuole brhmaiche (come abbiamo visto per esempio nel
caso del Skhya). Per la Prva-Mms i Veda - la ruti,
ci che stato udito - sono privi di autore e, perci,
eterni (nitya). Vedremo come da questo presupposto
discendano conseguenze importanti riguardanti la filosofia
del linguaggio.

2. I Mmsaka non ammettono l'esistenza di un Dio
creatore, che evidentemente comprometterebbe l'eternit dei
Veda. Gli stessi di ai quali sono indirizzati i sacrifici sono
in realt ininfluenti per quel che riguarda l'efficacia del
sacrificio: questo infatti efficace di per s,
automaticamente; se i suoi effetti non sono percepibili, ci
non significa che siano inesistenti: sono invece ada,
invisibili. La caratteristica fondamentale del rito di
produrre qualcosa che prima non c'era (aprva). Compiendo
i riti eternamente prescritti (nitya-karman) si interviene sulla

3
I Brhmaa sono testi ritualistici ed esegetici compresi nel corpus
vedico.
84 LIndia filosofica
catena causale del karman e delle rinascite, e si pu cos
godere di rinascite migliori per poi giungere alla liberazione
dell'tman immortale.

3. Il testo-base di questa scuola sono i Mmsstra (MS)
di Jaimini (forse dell'inizio dell'era volgare). Il pi antico
commento a noi giunto quello di abara (forse del IV-V
sec.). Questo, a sua volta, fu commentato dai due principali
filosofi Mmsaka: Kumrila (VII sec.) - autore dello
lokavrttika - e Prabhkara (VII sec.). Da loro presero
origine due diverse tradizioni di Mmsaka, in forte
opposizione tra loro perfino su punti dottrinariamente
essenziali.

4. Il postulato dell'eternit e autosufficienza del Veda fa di
questa scuola un sistema metafisico impenetrabile alla
critica. Tuttavia le implicazioni di questo postulato andavano
difese dalle obiezioni che venivano mosse dagli avversari.
Ad esempio, se il Veda eterno, anche il linguaggio in cui
espresso deve essere eterno. Un'intera sezione del primo
libro dei MS (I, 1, 6-23) dedicata alla difesa dell'eternit
del suono (abda). Le obiezioni degli avversari sono: che il
suono (si intende: l'espressione linguistica) prodotto, che
impermanente, che viene modificato da una sostanza
materiale (quando si ha l'elisione o la assimilazione di
fonemi contigui), che una stessa parola pu essere
pronunciata simultaneamente in luoghi diversi, ecc. A tali
obiezioni si risponde che il suono un'entit latente e non
prodotta che si attualizza di volta in volta nell'espressione
udibile e che, come il sole che splende da ogni parte,
ubiqua e pu attualizzarsi ovunque. Contro la teoria dello
sphoa, tuttavia, i Mmsaka (in particolare Kumrila)
Parte seconda: 6. Filosofia del linguaggio 85
insistono sull'eternit della parola in quanto successione di
fonemi (vara). I fonemi stessi (non dunque i significanti
come in Bharthari) sono eterni e ubiqui, il che non pu
essere contestato adducendo la loro imperfetta realizzazione
sonora. Ma l'eternit del Veda implica anche che i significati
siano eterni, e soprattutto che siano universali e non prodotti
convenzionali (come ad esempio ritenevano i buddhisti). Ci
che lega la parola al suo significato non dunque la
convezione, ma una potenza intrinseca (akti). Quanto alla
referenzialit della parola: il referente della parola l'kti
(forma), non l'individuo.
Si segnala infine un'interessante differenza di posizioni tra i
seguaci di Kumrila e quelli di Prabhkara a proposito del
rapporto tra il significato complessivo della frase e i
significati delle singole parole che la compongono: i primi
sostengono che le parole di una frase esprimono in primo
luogo i significati che sono loro propri, e solo in un
secondo tempo questi si combinano a formare il significato
della frase (teoria dell'abhihitnvaya). I secondi sostengono
invece che il significato di ogni singola parola viene
immediatamente modificato, nel momento stesso in cui
viene pronunciata, da quelli delle parole che si trovano in
relazione sintattica con essa (teoria dell'anvitbhidhna).







7.

Il Kevaldvaita Vednta di akara.



1. Se la Prva-Mms assume come oggetto di indagine
il rito fondandosi sull'esegesi della parte rituale (kriy-
k!a) dei Veda, la seconda Mms (Uttara-Mms)
ha invece come oggetto il brahman, e si fonda sull'esegesi
della parte dei Veda relativa al brahman (brahma-k!a),
ovvero le Upaniad, la sezione pi speculativa e finale dei
Veda (Veda-anta, fine dei Veda). Per questo motivo la
seconda Mms viene chiamata pi comunemente
Vednta. Difficilmente tuttavia si potrebbe affermare che il
Vednta costituisca una scuola. Le differenze tra i vari
indirizzi che rivendicano il nome di Vednta sono infatti
enormi, nonostante tutti accettino la triplice base
(prasthna-traya) di testi autorevoli costituita, oltre che
dalle Upaniad, dai Brahmastra e dalla Bhagavadgt. Le
diverse posizioni di fondo vanno dal non-dualismo assoluto
dell'Advaita Vednta (il cui rappresentante pi noto
akara, VIII sec.) al dualismo dello Dvaita Vednta di
Madhva (XIII-XIV sec.), passando per vari gradi intermedi,
come il non-dualismo qualificato di Rmnuja (XI-XII
sec.) e il bhedbheda (non-differenza nella differenza) di
Bhskara. Nelle pagine che seguono si cercher di
tratteggiare rapidamente alcune delle principali dottrine di
Parte seconda: 7. Il Kevaldvaita Vednta di akara 87
akara, l'autore del pi antico commento ai Brahmastra a
noi giunto (e che rientra nel limite cronologico da noi
convenzionalmente adottato per questo volume).

3. Dei racconti in gran parte leggendari che trattano della
vita di akara si pu ritenere qui quanto segue: akara fu
un brahmao dell'India meridionale, nato probabilmente in
Kerala; dopo aver scelto la vita del rinunciante, egli si
sarebbe recato a Benares per approfondire gli studi;
polemista acuto e finissimo, egli avrebbe girato l'India per
dibattere pubblicamente contro avversari di ogni tipo, sia
buddhisti sia appartenenti alle scuole brhmaiche. Sempre
vincitore, avrebbe non di rado "convertito" i suoi avversari
alle sue dottrine. Dopo aver fondato importanti scuole a
geri (odierno Karnataka) e a Kachi (odierno Tamil-
Nadu), egli sarebbe morto all'et di trentadue anni.
1

Nonostante la datazione tradizionale lo collochi a cavallo tra
l'VIII e il IX secolo, l'opinione oggi prevalente che egli
sia vissuto nel secolo VIII. Gli sono attribuite decine di
opere. La critica recente tende a considerare autentici, oltre
al grande Commento ai Brahmastra, i commenti alle
principali Upaniad e alla Bhagavadgt, nonch, almeno in
parte, un'opera autonoma intitolata Upadeashasr.

4. Il punto di partenza e di arrivo della dottrina di akara
il brahman. Solo il brahman reale: esso non duale,
eterno (nitya), privo di qualificazioni (nir-gua), non
soggetto a cambiamento, assoluto (kevala). In conformit
con linsegnamento delle Upaniad, esso 1) causa

1
Sulla vita di akara si veda Piantelli, M., akara e la rinascita del
brahmanesimo, Fossano 1974; si veda anche Piantelli, M., akara e il
Kevaldvaitavda , Roma 1998.
88 LIndia filosofica
efficente e sostanziale del mondo, ma anche 2)
precondizione dellesperienza, in quanto identico alltman,
al s. Solo accostandosi a queste ultime due caratteristiche
e alla loro articolazione si pu comprendere la natura del
brahman akariano. Se infatti ci fermassimo alla prima
caratteristica, ci troveremmo a concepire il brahman come
pura sostanzialit indeterminata.
2
Invece la caratteristica di
essere precondizione dellesperienza ci fa comprendere che
il brahman non la sostanzialit illimitata, ma ,
essenzialmente e primariamente, coscienzialit (cit).
3
Questo
aspetto a volte non viene sufficientemente sottolineato nei
compendi dedicati al pensiero di akara. Il brahman non
pu non essere coscienzialit, perch solo la coscienzialit
autonoma, indipendente: secondo un argomento gi noto al
Skhya, ci che non cosciente necessariamente
dipendente, perch dipende dalla coscienza di cui diventa
oggetto. Ltman-brahman, in quanto assoluto e
indipendente, dunque coscienzialit pura, precondizione
della coscienza ordinaria. E tuttavia si tratta di una
coscienzialit davvero sui generis. Essa infatti radicalmente
diversa dalla coscienza ordinaria (e per questo si preferito
usare il termine coscienzialit), in quanto non
occasionale, ma sussiste eternamente.
4
Mentre infatti la

2
Si vedano, nella sezione Filosofi moderni sul pensiero indiano, le
critiche di Hegel al concetto dellassoluto quale viene espresso nella
Bhagavadgt.
3
Anche se nelle opere di akara non compare mai la formula sintetica
sac-cid-nanda, che dopo di lui servir a compendiare le caratteristiche
(se cos si possono chiamare) del brahman, certo che akara concep
il brahman come essere (sat), coscienzialit (cit) e beatitudine o gioa
(nanda).
4
In questo lAdvaita Vednta in accordo con il Skhya, mentre si
oppone tanto alle filosofie buddhiste quanto al Nyya e alla Mms.
Parte seconda: 7. Il Kevaldvaita Vednta di akara 89
coscienza ordinaria dipende dal presentarsi di oggetti e
dallattivit dei sensi, la coscienzialit pura risplende
indipendentemente dalla presenza di un oggetto. Ci
possiamo fare unidea di questo tipo di coscienza pensando
al sonno profondo senza sogni (suupti). In quella
condizione la continuit della coscienza non viene meno
(infatti al risveglio siamo coscienti di non avere sognato),
eppure la coscienza non diretta verso alcun oggetto. La
coscienzialit pura, inoltre, non essa stessa oggetto di
coscienza, secondo largomento classico che una lampada
non necessita di unaltra lampada per essere illuminata.
5

Priva di oggetto, essa stessa non oggetto, la coscienzialit
del brahman , si potrebbe dire, pura soggettivit.
Siamo a questo punto in grado di apprezzare la celebre
introduzione di akara al suo commento ai Brahmastra,
6

dove viene analizzato il concetto di sovrapposizione
(adhysa). Largomento il seguente: purtroppo
connaturato all'uomo il sovrapporre sul soggetto (che
naturato di coscienzialit e la cui sfera la nozione di io),
loggetto (la cui sfera la nozione di non-io) e gli
attributi delloggetto. Ci sbagliato, come sbagliato,
inversamente, sovrapporre sulloggetto il soggetto e gli
attributi del soggetto. Le due sfere sono assolutamente
distinte come la luce e il buio, e solo a causa
dell'ignoranza (a-vidy) noi operiamo l'erronea
sovrapposizione dell'una sull'altra. In questo modo le
limitazioni dell'oggetto vengono attribuite al soggetto puro,
al brahman non duale. Per questo motivo pensiamo di
essere soggetti conoscenti, agenti e fruitori (i cosiddetti
jva). In realt l'tman non conosce, non agisce, non fruisce.

5
Questo paragone si trova, ad esempio, in Upadeashasr I, 2, 71.
6
Riportata pi avanti nella sezione Esempi di testi filosofici.
90 LIndia filosofica
ankara interpreta cos l'enigma dei due uccelli: Due
uccelli, stretti amici, abbracciano lo stesso albero. Uno di
essi mangia la dolce bacca; l'altro, senza mangiare, guarda
attentamente.

5. Il rapporto tra la sfera di pura soggettivit dell'tman-
brahman e quella oggettiva non , ovviamente, paritario. In
certo qual modo il brahman causa del mondo
fenomenico, nel senso che lo produce per trasformazione
identica (vivarta). Ma questa trasformazione non reale.
un trasformarsi illusorio che si produce per effetto, sul piano
oggettivo, della my, e, sul piano soggettivo, dell'avidy.
Esiste dunque un abisso ontologico tra il brahman e il
mondo fenomenico: quest'ultimo scompare allorquando si
conosce la propria identit con il brahman isolato (kevala),
non duale (advaita).
Come nel caso del nyavd di Ngrjuna, anche il
Kevaldvaita Vednta di akara fa propria la dottrina della
doppia verit, e accorda una sorta di realt relativa al
mondo fenomenico, all'vara (il Signore), al jva, alla
fruizione e all'azione. L'indagine sul brahman
(brahmajijs)
7
diversa dall'indagine sul dharma, e ad
essa infinatemente superiore: tuttavia anche nel Kevaldvaita
resta la necessit di conformarsi, pur sul piano relativo, al
dharma e alle sue regole.

7
Vedi Brahmastrabhya, commento al stra I, 1.











Esempi di testi filosofici indiani


Esempi di testi: 1. Ngrjuna: la dottrina delle due verit 93

1. Ngrjuna: la dottrina delle due verit.

In questo brano Ngrjuna espone la dottrina dei due livelli di verit,
per rispondere alla critica di chi sostiene che conseguenza del
nyavda che anche linsegnamento del Buddha (a partire dalle quat-
tro Sante Verit) sia vuoto.
Il brano tratto dalle Madhyamaka-krik, tradotte in italiano da
Raniero Gnoli: Ngrjuna, Le stanze del cammino di mezzo, Torino 1961;
anche in Gnoli, R. (a cura di), Testi buddhisti in sanscrito, Torino 1983.


1. Se tutto questo mondo vuoto, non vha allora n
apparizione n sparizione di nulla: in conseguenza, per te, le
quattro Sante Verit non esistono.

2. Non esistendo le quattro Sante Verit, la retta
conoscenza, leliminazione, la realizzazione meditativa e
lesperienza diretta non son pi logicamente possibili.

3. Non esistendo questi quattro momenti, non esistono i
quattro santi frutti e, non esistendo i frutti, non esistono n
residenti nei frutti n candidati.

4-5. La comunit non esiste, se questi otto personaggi non
esistono. Non esistendo poi le quattro Sante Verit, non
esiste neppure la buona legge, e, non esistendo n legge n
comunit, come potr esserci uno Svegliato?

5-6. Cos, affermando la vacuit, tu rifiuti lesistenza reale
dei frutti, il bene e il male morali e tutto lordine pratico
delle cose.

94 LIndia filosofica
7. A ci noi rispondiamo: tu non comprendi n il fine della
vacuit, n la vacuit, n il senso della vacuit. Per questo ti
dai tanta briga.

8. Linsegnamento della Legge da parte degli Svegliati si
svolge in base a due verit: la verit relativa del mondo e la
verit assoluta.

9. Coloro che non discernono la differenza tra queste due
verit, non discernono la realt profonda insita nella dottrina
degli Svegliati.

10. La realt assoluta non pu essere insegnata, senza prima
appoggiarsi sullordine pratico delle cose: senza intendere la
realt assoluta, il nirva non pu essere raggiunto.

11. La vacuit, male intesa, manda in rovina luomo di
corto vedere, cos come il serpente male afferrato o una
formula magica male applicata.

12. E per questo, la mente dellAnacoreta si tir addietro
dallinsegnamento della legge, pensando alla difficolt che
avrebbero avuto gli uomini di corto vedere a penetrarla.





Esempi di testi: 2. Ngrjuna: critica dei mezzi di conoscenza 95
2. Ngrjuna: critica dei mezzi di conoscenza.

La posizione nyavda di Ngrjuna non pu risparmiare i prama,
cio i mezzi che dovrebbero permettere di stabilire la validit delle
conoscenze.
Il brano tratto dalla Vigraha-vyvartan (La sterminatrice degli errori)
nella traduzione italiana di A. Sironi (Ngrjuna, Lo sterminio degli
errori, a cura di A. Sironi, Milano 1992).

29. Se io avessi una qualche tesi, senza dubbio sarei vittima
di questi controsensi. Io, senonch, non ho nessuna tesi, e
quindi non mi si pu imputare nessun controsenso.

30. Se io percepissi, mediante la percezione diretta, eccetera,
qualcosa, lammetterei o la negherei. Ma, visto che nulla
percepisco, la mia posizione inobiettabile.

31. Se, inoltre, tu pensi che lesistenza delle varie cose
stabilita dai mezzi di conoscenza, da che cosa, d un po,
stabilita lesistenza dei mezzi di conoscenza?

32. Se tu pensi che lesistenza dei mezzi di conoscenza
stabilita da altri mezzi di conoscenza, si cade evidentemente
in un regresso allinfinito, e, stando cos le cose, non si
stabilisce lesistenza del primo, non quella del mediano, non
quella dellultimo.

33. Se, daltro canto, tu pensi che lesistenza dei mezzi di
conoscenza stabilita senza altri mezzi di conoscenza, tu
vieni meno alla tua tesi, sei passibile dellaccusa di
parzialit e devi addurre ragione di questa parzialit.

96 LIndia filosofica
34. Ma (tu dirai) a quel modo che il fuoco illumina se
stesso e le altre cose, cos i mezzi di conoscenza provano
lesistenza di se stessi e delle altre cose.

35. Questesempio (io ti rispondo) non quadra. Il fuoco,
infatti, non illumina se stesso. Esso, infatti, non esiste prima
alloscuro, come un vaso, senzessere percepito.

36. Se, come tu dici, il fuoco illuminasse, cos come le altre
cose, se stesso, esso, logicamente, dovrebbe allora bruciare
se stesso.

37. Oltre a ci, se il fuoco, come tu dici, illuminasse se
stesso e le altre cose, anche la tenebra, allora, cos come il
fuoco, offuscherebbe se stessa e le altre cose.

38. La tenebra non sta nel fuoco n dove sta il fuoco. E
come pu dunque dirsi che il fuoco illumina? La luce infatti
unoffesa ed eliminazione della tenebra.

39. La tua tesi che il fuoco, nascente, illumina se stesso e le
altre cose, insostenibile. Il fuoco, nascente, non entra,
infatti, in contatto colla tenebra.

40. Se, daltro lato, tu pensi che il fuoco sopprime la
tenebra, anche senza entrare in contatto con essa, il fuoco
che sta qui dovrebbe allora sopprimere la tenebra di tutti i
mondi.

41. Oltre a ci, se tu pensi che lesistenza dei mezzi di
conoscenza provata di per se stessa, essa lo sar allora
indipendentemente dalle cose conoscibili. Ci infatti la cui
esistenza provata di per se stesso, non dipende da altro.
Esempi di testi: 2. Ngrjuna: critica dei mezzi di conoscenza 97

42. Se, per te, lesistenza dei mezzi di conoscenza provata
di per se stessa, indipendentemente dalle cose conoscibili,
questi mezzi di conoscenza non saranno pi allora per te
mezzi di conoscenza di qualche cosa.

43. Ma (dir alcuno) se si ammette che lesistenza dei
mezzi di conoscenza dipende da quella della realt
conoscibile, a quale controsenso si va mai incontro? A
questo - io rispondo - che uno stabilirebbe lesistenza di una
cosa che gi di per se stessa stabilita. Una cosa
riconosciuta come esistente non dipende, infatti, da unaltra.

44. Se lesistenza dei mezzi di conoscenza , di regola,
stabilita in dipendenza dalle cose conoscibili, lesistenza
delle cose conoscibili sar allora stabilita di per se stessa,
indipendentemente dai mezzi di conoscenza.

45. E se lesistenza delle cose conoscibili stabilita di per
se stessa, indipendentemente dai mezzi di conoscenza, a che
pro, allora, questi tuoi sforzi per stabilire lesistenza dei
mezzi di conoscenza? Perch? Ma perch ci cui essi
servono gi stabilito di per se stesso.

46. Se, daltro lato, tu pensi che lesistenza dei mezzi di
conoscenza stabilita dipendentemente dalle cose
conoscibili, si ha, stando cos le cose, uninversione dei
mezzi di conoscenza e del conoscibile.

47. Se, infine, tu pensi che lesistenza delle cose conoscibili
stabilita mediante quella dei mezzi di conoscenza e quella
dei mezzi di conoscenza mediante quella delle cose
98 LIndia filosofica
conoscibili, n lesistenza degli uni n quella degli altri, per
te, allora pi stabilita.

48. Se infatti lesistenza delle cose conoscibili stabilita
mediante i mezzi di conoscenza e questi sono, a loro volta,
stabiliti mediante le cose conoscibili, - come, dico, i mezzi
di conoscenza potranno mai stabilire il conoscibile?

49. E se lesistenza dei mezzi di conoscenza stabilita
mediante le cose conoscibili e queste sono a loro volta
stabilite mediante i mezzi di conoscenza, - come, dico, le
cose conoscibili potranno mai stabilire i mezzi di
conoscenza?

50. Se il figlio prodotto dal padre e se, a sua volta, il
padre prodotto dal figlio, chi , dimmi, il produttore? e
chi il prodotto?

51. Qui chi il figlio? e chi il padre? E come, dimmi tu,
posseggono ambedue i caratteri di padre e di figlio? Ci
infatti per noi argomento di dubbio.

52. Lesistenza dei mezzi di conoscenza non stabilita n
di per se stessa, n reciprocamente tra di loro, n mediante
altri mezzi di conoscenza, n in dipendenza delle cose
conoscibili n senza causa.

Esempi di testi: 3. I Vaieikastra sulla cognizione dellirrealt 99

3. I Vaieikastra sulla cognizione dell'irrealt

In questo brano, tratto dai Vaieikastra, si dimostra, attraverso lanalisi
delle cognizioni di reale e di irreale, che leffetto non pu
preesistere nella causa.
Vaieikastra IX, 6-12 stato tradotto in inglese da W. Halbfass in On
being and what there is. Classical Vaieika and the History of Indian
Ontology, Albany 1992, pp. 244-6 (a cui si rimanda per un
approfondimento). Si traduce qui da quella versione.

6. La cognizione irreale [sorge] perch non c pi la
percezione di un'entit passata, a causa del ricordo di
[questa] entit passata, e perch c' qualcosa che contraddice
[la continuit della sua esistenza].

7. Perch, parimenti, c' percezione dell'esistenza in
riferimento a [ci che era] inesistenza.

8. Questo spiega [anche] [il prefisso negativo a-, come in]
a-ghaa, non-vaso, a-go, non-mucca, e a-dharma, non-
dharma.

9. Non c' differenza di significato [tra il soggetto e il
predicato] ne[lla frase] una non-entit [cio ci che non
mai presente] non esiste (abhta na asti).

10. Non c' un vaso nella casa. Ci nega la connessione
di un vaso reale con la casa.

11. Non c' un'altra [cio una seconda] luna. Ci esclude
che la luna [abbia un] universale.

100 LIndia filosofica
12. Poich il reale e l'irreale sono eterogenei, la realt e
l'irrealt non possono coesistere nell'effetto [prima che sia
prodotto].
Esempi di testi: 4. La relazione tra purua e prakti nel Skhya 101

4. La relazione tra purua e prakti nel Skhya di
varaka
(Skhyakrik 56-69).

In questo brano di grande potenza immaginativa, posto quasi alla
conclusione delle Strofe del Skhya, si noter la fine descrizione del
problematico rapporto tra purua e prakti, che, in fondo, non viene
pensato come un'unione, ma come una semplice compresenza: tutto
(legame, rinascita, liberazione), avviene dal lato della prakti, che si
esibisce come una danzatrice di fronte al purua-spettatore, e cessa la
sua esibizione non appena si accorge di essere stata vista, lasciando cos
il purua nel suo isolamento (kaivalya). La traduzione di C. Pensa
(varaka, Le strofe del Skhya, Torino 1960), con qualche modifica.


56. Sicch questo sforzo in quanto vien fatto dalla prakti, a
cominciare dalla mente fino agli elementi grossi specifici,
avviene per la liberazione di ogni singolo purua, cio a
vantaggio di un altro.

57. A quel modo che il latte insenziente funziona in vista
della crescita del vitello, cos la natura funziona in vista
della liberazione del purua.

58. L'immanifesto agisce per liberare il purua non
diversamente dalla gente comune che si adopera allo scopo
di soddisfare il desiderio.

59. Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi
mostrata al pubblico, cos la prakti cessa la sua attivit
dopo essersi manifestata al purua.

102 LIndia filosofica
60. La prakti, che generosa e provvista dei gua, con
innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per s, compie
l'utile del purua che sprovvisto dei gua e non la
ricambia in nulla.

61. Nulla, a mio vedere, pi sensibile della prakti; la
quale, non appena conscia di essere stata vista, non si
porge pi allo sguardo del purua.

62. Perci nessun purua legato o liberato n trasmigra.
Non altro che la prakti, con i suoi molti stadi, ad esser
legata o liberata o a trasmigrare.

63. La prakti lega se stessa da se medesima per via di sette
forme; per mezzo poi di un'unica forma si libera, compiendo
cos il fine del purua.

64. Cos, grazie all'esercizio sui principii, nasce una
conoscenza la quale, atteso che (uno si dice): Io non sono,
nulla mio, questo non sono io, totale: questa
conoscenza, non dandosi errore, risulta unica e pura.

65. In virt di ci il purua, che se ne sta raccolto in se
stesso al proprio posto come uno spettatore, vede la prakti
che ha cessato di essere produttiva e che risulta svincolata
dalle sette forme per aver finalmente compiuto lo scopo del
purua.

66. Il purua, uno, indifferente come uno spettatore di
teatro; la prakti, una, cessa la sua attivit, quando sa di
essere stata vista. Malgrado il contatto esistente tra i due,
non sussiste movente alla creazione.
Esempi di testi: 4. La relazione tra purua e prakti nel Skhya 103

67. Ottenuta la perfetta conoscenza, la virt e le altre forme
divengono improduttive, tuttavia per effetto degli impulsi
carmici il corpo permane ancora, cos come accade col
movimento della ruota.

68. Avvenuta la separazione del corpo e avendo la prakti,
poich il suo fine compiuto, cessato l'attivit, il purua
perviene all'isolamento assoluto e definitivo.

69. Questa segreta conoscenza intesa a compiere il fine del
purua e nella quale sono considerate nascita, durata e
dissoluzione degli esseri, stata rettamente esposta dal
sommo veggente.

104 LIndia filosofica

5. akara e la sovrapposizione (adhysa)

Questo brano costituisce l'introduzione al Brahmastrabhaya, l'opera
principale di akara. Vi si enuncia compiutamente la teoria della
sovrapposizione. La traduzione italiana, compiuta sulla traduzione
inglese di G. Thibaut (in Vednta-Stras. With the Commentary of
akarcrya, vol. I, Oxford 1904 = SBE vol. 34), di chi scrive.

Che soggetto e oggetto, le cui rispettive sfere sono i concetti
di io e di tu, e che sono tra loro opposti come la luce e
il buio, non possano essere identificati, una questione che
non richiede prova. N possono essere identificati i loro
rispettivi attributi. Ne consegue che sbagliato sovrapporre
(adhysa) sul soggetto, che naturato di coscienzialit e la
cui sfera la nozione di io, loggetto, la cui sfera la
nozione di non-io, e gli attributi delloggetto. E viceversa
sbagliato sovrapporre sulloggetto il soggetto e gli attributi
del soggetto.
Ciononostante da sempre connaturato alluomo - e la
causa di ci risiede nellerrata conoscenza - il non
distinguere i due campi e i loro rispettivi attributi, bench
essi siano assolutamente distinti: e il sovrapporre invece a
ciascuno la natura caratteristica e gli attributi dellaltro; e
cos, mettendo insieme il reale e lirreale, fare uso di
espressioni quali Quello sono io o Quello mio.
Ma che cosa dobbiamo intendere con il termine
sovrapposizione [adhysa]? Laffiorare alla coscienza, in
forma di ricordo, di qualcosa osservato in precedenza in
qualche altro luogo. Alcuni in verit definiscono il termine
sovrapposizione come la sovrapposizione su una cosa
degli attributi di unaltra cosa. Altri la definiscono come
lerrore fondato sulla non apprensione della differenza tra
Esempi di testi: 5. akara e la sovrapposizione 105
ci che sovrapposto e ci su cui avviene la
sovrapposizione. Altri ancora la definiscono come
lattribuzione fittizia di caratteristiche contrarie alla natura
della cosa sulla quale avviene la sovrapposizione.
Tutte queste definizioni concordano su un punto: che la
sovrapposizione il presentarsi apparente degli attributi di
una cosa su di unaltra cosa. Con ci concorda anche la
concezione popolare che si esprime in frasi tipo la
madreperla appare come argento o la luna, bench unica,
appare come fosse doppia.
1
Ma come possibile che sul
S interiore, che non esso stesso un oggetto, vengano
sovrapposti degli oggetti e i loro attributi? Giacch ciascuno
sovrappone un oggetto solo su oggetti che gli stiano di
fronte (ossia in contatto con i suoi organi di senso), e tu hai
detto prima che il S interiore, che completamente slegato
dall'idea del Tu (il Non-io), non mai un oggetto. La
risposta che esso non un non-oggetto in senso assoluto.
Infatti esso l'oggetto della nozione di Io, e l'esistenza del
S interiore conosciuta in ragione del suo presentarsi
immediatamente all'intuizione. D'altra parte non neppure
una regola senza eccezione quella secondo cui gli oggetti
possono essere sovrapposti solo su altri oggetti che siano di
fronte a noi, cio in contatto con i nostri organi di senso;
infatti gli uomini privi di discernimento sovrappongono
all'etere, che non oggetto di percezione sensibile, il colore
blu.
2


1
akara si riferisce a due tipici esempi di errore percettivo: la
madreperla scambiata per argento e la luna vista come duplice da chi ha
un difetto di vista (una malattia chiamata timira).
2
Cio, guardando il cielo, pensano che l'etere (ka) - che non
percettibile - sia blu.
106 LIndia filosofica
Ne consegue che l'assunto secondo cui il Non-s viene
sovrapposto al S interiore non irragionevole.
La sovrapposizione quale stata ora definita, i dotti la
considerano Nescienza (a-vidy), mentre chiamano
conoscenza (vidy) l'accertamento della vera natura del S
per mezzo della discriminazione di ci che sovrapposto al
S. Essendoci tale conoscenza, [n il S n il Non-s] sono
affetti da qualit negative o positive dovute alla loro mutua
sovrapposizione. La mutua sovrapposizione di S e Non-s,
che viene chiamata Nescienza, il presupposto su cui si
basano tutte le distinzioni pratiche - sia quelle della vita
ordinaria sia quelle indicate dai Veda - tra mezzi di
conoscenza, oggetti di conoscenza [e soggetti conoscenti],
nonch tutte le scritture, che trattino di ingiunzioni o di
proibizioni [di azioni meritorie o non meritorie], o della
liberazione finale.
Ma [si domander], come possono i mezzi di conoscenza
come la percezione sensoriale, l'inferenza, ecc., e le scritture
avere come oggetto ci che dipende dalla Nescienza?
La risposta che i mezzi di conoscenza non possono
operare se non c' una personalit conoscente, e che
l'esistenza di quest'ultima dipende dall'erronea concezione
che il corpo, i sensi ecc. siano identici al S della persona
conoscente o gli appartengano. Infatti senza l'impiego dei
sensi la percezione sensibile e gli altri mezzi di conoscenza
non possono operare. E senza una base [ossia il corpo] i
sensi non possono agire. D'altra parte nessuno agisce per
mezzo di un corpo sul quale non sia sovrapposta la natura
del S. N, in assenza di ci, il S - che per sua natura
libero da ogni contatto - pu diventare un agente
conoscente. E se non c' un agente conoscente, i mezzi di
conoscenza non possono operare [come si detto sopra].
Pertanto la percezione sensibile e gli altri mezzi di
Esempi di testi: 5. akara e la sovrapposizione 107
conoscenza e i testi vedici hanno per oggetto ci che
dipende dalla Nescienza. [Il fatto che l'attivit cognitiva
umana abbia come presupposto la sovrapposizione sopra
descritta] segue anche dalla non-differenza, sotto questo
profilo, tra l'uomo e gli animali. Gli animali, quando sono
toccati nell'udito o in altri sensi da un suono o altra qualit
sensibile, avanzano o indietreggiano a seconda che l'idea
prodotta dalla sensazione sia rassicurante o impaurente. Per
esempio, se una vacca vede che un uomo le si avvicina con
il bastone alzato, pensa che questi la voglia battere, perci
fugge; mentre si avvicina a un uomo che le porga dell'erba
fresca. Allo stesso modo gli uomini - che pure possiedono
un'intelligenza superiore - fuggono via allorch vedono
avvicinarsi altri uomini forti e dall'aspetto feroce che
gridano e impugnano spade; mentre si avvicinano
fiduciosamente a persone che mostrino atteggiamenti e
comportamenti opposti. Vediamo cos che uomini e animali
seguono il medesimo modo di procedere in rapporto ai
mezzi e agli oggetti di conoscenza. Ora, noto che il modo
di procedere degli animali si basa sulla non-distinzione [tra
S e Non-s]; ne concludiamo che, visto che presentano le
stesse apparenze, anche gli uomini - per quanto distinti da
intelligenza superiore - procedono in relazione alla
percezione sensibile ecc. nello stesso modo degli animali;
fintantoch, cio, dura la mutua sovrapposizione di S e
Non-s. Riguardo poi, di nuovo, a quel tipo di attivit che
fondata sul Veda [sacrifici e simili], certamente vero che
l'uomo di riflessione che sia qualificato a compierla non lo
fa senza sapere che il S ha relazione con un altro mondo.
E tuttavia la sua qualificazione non dipende dalla
conoscenza, derivabile dai testi vedntici [cio le Upaniad],
della vera natura del S in quanto libero da tutti i bisogni
108 LIndia filosofica
ed innalzato sopra le distinzioni tra le classi dei brhmaa e
degli katriya e cos via, e trascendente l'esistenza
trasmigrante. Infatti questa conoscenza , rispetto alla
pretesa [dei sacrificatori, ecc. di compiere certe azioni e
goderne i frutti] inutile e persino contraddittoria.
E prima che questa conoscenza del S sia sorta, i testi
vedici continuano nella loro operazione, cio ad avere per
oggetto ci che dipende dalla Nescienza. Infatti i testi che
dicono, ad esempio, che un brhmaa deve compiere i
sacrifici sono operativi solo se supponiamo che sul S
siano sovrapposte condizioni particolari come casta, stadio
di vita,
3
circostanze esteriori, e cos via. [...] Sono
sovrapposti al S attributi extrapersonali allorquando un
uomo si considera sano e integro, o l'opposto, fintantoch
sua moglie, i suoi figli ecc. sono sani e integri o l'opposto.
Sono sovrapposti al S [...] attributi degli organi di senso
allorquando egli pensa sono muto, o sordo, o orbo, o
cieco. Attributi dell'organo interno allorquando si considera
soggetto al desiderio, all'intenzione, al dubbio, alla
determinazione e cos via.
Quindi ci che produce la nozione di Io [cio l'organo
interno] sovrapposto al S interiore, che, in realt, il
testimone di tutte le modificazioni dell'organo interno, e
viceversa il S interiore, che il testimone di tutto,
sovrapposto all'organo interno, ai sensi e cos via. In tal
modo procede questo cominciamento naturale - e la
sovrapposizione senza fine, che appare nella forma di
concezione erronea, la causa del fatto che le anime

3
Cio uno dei quattro rama, secondo la regola che prevede il
passaggio dalla condizione di brahmcrin, a quella di ghastha, poi di
vanaprha e di sanysin.
Esempi di testi: 5. akara e la sovrapposizione 109
individuali appaiono come agenti e fruitore [dei risultati
delle loro azioni], e ci lo pu osservare chiunque.
Lo studio dei testi del Vednta comincia dunque con l'idea
di liberarsi di quell'erronea nozione che la causa di ogni
male, e di raggiungere cos la conoscenza dell'assoluta unit
del S.
110 LIndia filosofica

6. ntarakita sulla non esistenza di Dio.

Nel brano che segue (Tattvasagraha 72 ss.) troviamo un'interessante
applicazione dello schema inferenziale, da parte del filosofo buddhista
ntarakita (sec. VIII), per discutere il problema dell'esistenza di Dio.
La traduzione italiana tratta, con qualche modifica, da Tucci, G.,
Storia della filosofia indiana, Bari 1957, pp. 326 ss.

Voi [assertori dell'esistenza di Dio] non soltanto desiderate
provare che [il mondo ] stato preceduto da un Ente
intelligente, ma altres che esiste un'entit detta Dio la quale
eterna, una, sostrato dell'intelligenza eterna e onnisciente,
causa dell'Universo. Voi desiderate provare che Egli
anteriore al mondo. Esso l'oggetto della presente
discussione. L'esistenza di siffatta entit non pu essere
provata perch nel vostro ragionamento manca la invariabile
concomitanza in quanto esso privo del probandum; [il
mondo ha un fattore intelligente, esempio omologo: come
l'orcio; esempio differente: non come l'atomo]; infatti in
ogni esempio omologo "come l'orcio" e altre cose simili
farebbe difetto l'analogia (il vasaio non potrebbe avere gli
attributi di Dio); pertanto non potrebbe provarsi la
concomitanza invariabile del probans con un probandum di
codesta natura. E davvero in nessun esempio [che possa
addursi di un prodotto] si trova questa concomitanza fra il
probans e il carattere del probandum quale da voi asserito
[...].


[...] Tutto ci che non ha nascita non pu essere causa di
nulla, come un fiore di loto cresciuto nell'aria [che si porta
ad esempio di cose inesistenti]; e noi sappiamo che Dio non
Esempi di testi: 6. ntarakita sulla non esistenza di Dio 111
ha nascita; perci il vostro argomento contrario alla
premessa universale (vyapka). Questo nostro ragionamento
prova altres l'incongruenza della tesi avversaria; perci non
si pu obiettare contro di esso che il probans non ha locus
standi (raysiddha). Per quale ragione l'Autore dice che
diversamente tutte le cose nascerebbero contemporanea-
mente? Ma perch se la causa avesse una capacit mai
ostruita [da forze contrarie] - come si conviene a Dio - tutte
le cose dovrebbero nascere nel medesimo tempo, sarebbero
cio simultanee.
Questo ragionamento logico rende insufficiente la tesi
dell'avversario; oppure si pu intendere come semplice
dichiarazione del senso di ci che stato detto. La prova
dell'incongruenza nella posizione dell'avversario pu cos
formularsi: quando una causa completa, l'effetto ne
consegue naturalmente; cos accade nei riguardi del
germoglio il quale si manifesta quando la sua causa sia
completa, il complesso degli elementi causali essendo
arrivato al suo estremo limite di maturazione. Ora, secondo
voi, il mondo, che prodotto da Dio, ha una causa
completa e perci dovrebbe nascere simultaneamente.
Voi potete opporre che Dio non la sola causa del mondo,
ma egli lo crea, avuto riguardo a cause concomitanti come il
merito, il demerito, gli atomi, ecc. in quanto che egli
soltanto la causa efficiente; per la qual cosa quando queste
altre cause, merito, ecc. difettano, la causa non intera. Ma
questa interpretazione errata. Infatti se qualche ausilio
fosse dato dalle cause concomitanti, allora Dio sarebbe
dipendente da codeste cause concomitanti; tuttavia, essendo
egli eterno, e nessuna superiorit potendogli derivare da una
sua dipendenza da altri, le cause concomitanti, non possono
porgergli nessun ausilio. Allora come mai egli potrebbe
112 LIndia filosofica
dipendere da siffatte cause concomitanti che non gli sono di
nessun ausilio? Per di pi tutte codeste cause concomitanti,
per il fatto che ripetono la loro origine da Dio, dovrebbero
essere continuamente confluenti in lui: perci la ragione da
noi addotta non non provata. E non neppure
inconcludente, perch allora ne deriverebbe l'assenza della
condizione (dianzi detta) che debba esservi completezza di
tutte le cause. Se questa completezza della causa non si
manifesta vi sarebbe perpetua non nascita di chicchessia in
quanto ugualmente mancherebbe quella completezza della
causa.
Uddyotakara (cio le scuole logiche) obietta: Sebbene la
causa che si chiama Dio sia intera, ed eterna e presente in
tutte le cose, tuttavia la nascita delle cose non simultanea,
perch Dio agisce con l'intelligenza. Se la nascita delle cose
fosse dovuta alla semplice essenza divina, senza che quella
nascita fosse prodotta dalla sua intelligenza, allora la
confutazione che voi fate sarebbe applicabile al nostro
ragionamento; ma siccome egli agisce con l'intelligenza,
siffatto errore non pu rimproverarsi a noi, in quanto Dio di
sua propria volont si volge alla creazione dei prodotti che
intende creare. E pertanto la nostra ragione non
inconcludente. Ma cotesto argomento improprio: l'attivit
e l'inattivit delle cose non dipende dalla presenza o
dall'assenza della volont della causa, quasi che fosse
possibile dire che, essendo sempre prossima la causa
chiamata Dio con la sua efficienza mai impedita, quella
attivit o inattivit rispettivamente si determinano dopo la
presenza e il difetto della volont di Lui. Infatti l'essere o
non essere delle cose segue la presenza o l'assenza della
efficienza inerente nella causa; onde avviene che sebbene un
agente abbia la volont di fare alcunch, quando difetti in
lui l'efficienza nulla potr egli produrre; ma il frutto deriva
Esempi di testi: 6. ntarakita sulla non esistenza di Dio 113
dalla causa come il seme ecc. che ha l'efficienza di crearlo,
anche senza che la causa possegga la volont di generarlo.
Allora se codesta causa che voi chiamate Dio sempre
possiede un'efficienza mai impedita, come gli accade nel
momento stesso in cui produce un effetto, perch mai le
cose dovrebbero dipendere, per venire alla esistenza, dalla
sua volont che non servirebbe proprio a nulla? Esse
dovrebbero infatti venire alla luce simultaneamente come
quando egli crea una quale che sia cosa. Queste cose
dunque solo se nascessero simultaneamente potrebbero
mostrare la perfetta causalit di lui. E Dio, che non ha
bisogno dell'ausilio di nessun'altra cosa, non pu dipendere
da nessun'altra cosa per la quale egli dovrebbe dipendere
dalla propria volont. Inoltre non vi pu essere volont
all'infuori dell'intelligenza; ma voi affermate che
l'intelligenza di Dio eternamente identica. Allora, sebbene
Dio sia un attore intelligente, come mai le cose non
nascerebbero simultaneamente? Infatti, cos come Dio, anche
la sua intelligenza sarebbe sempre presente. Se poi voi
sostenete che la sua intelligenza non eterna, l'errore in cui
cadete il medesimo, perch la esistenza di quella
coincidendo con la essenza di Dio, come Dio dovrebbe
sempre esistere.
114 LIndia filosofica

7. ntideva sul Nyya.

Dal Bodhicaryvatra IX, 69-78. ntideva (VIII sec.) fu un importante
esponente del buddhismo madhyamaka. In questo brano egli confuta
alcune dottrine del Nyya. Il brano tratto da R. Gnoli (a cura di), Testi
buddhisti in sanscrito, Torino 1983, pp. 515-16.

69. L'io (dicono alcuni) non incosciente per incoscienza
naturale, come una stoffa, eccetera. Se per (io osservo)
esso cosciente per virt della sua unione colla coscienza,
allora, appena privato di coscienza, sarebbe distrutto.

70. L'io (tu forse dirai) immutabile. Ma allora (ti
rispondo) qual l'effetto prodotto da questa unione colla
coscienza? Le qualit di io potrebbero essere altrettanto
bene attribuite allo spazio, anch'esso incosciente e inattivo.

71. Ma la relazione fra l'atto e il frutto impossibile, senza
l'io! Se infatti chi ha compiuto l'atto perisce, a chi toccher
il frutto?.

72. Noi siamo d'accordo su questo punto, che cio, l'atto e
il frutto hanno un supporto differente. Se, d'altro lato, tu
pensi che l'atto e la degustazione del frutto suppongono
l'attivit dell'io, tu repugni alla tua stessa tesi, perch il tuo
io privo di attivit. La discussione , dunque, superflua.

73. L'autore dell'atto ne degusta il frutto. Questa (io ti
rispondo) non affatto una cosa evidente. Lo Svegliato,
quando ha detto che l'autore dell'atto anche colui che lo
degusta, ha di fatto attribuito al continuum fenomenico
un'unit fittizia.
Esempi di testi: 7. ntideva sul Nyya 115

74. L'io non pu essere n il pensiero passato n il pensiero
futuro, perch essi adesso non esistono. L'io sar dunque il
pensiero presente? Ma allora, appena sparito questo
pensiero, non vi sar neppure l'io.

75. Il tronco del banano, decomposto nelle sue parti, non
esiste pi come tale. Parimenti l'io esaminato criticamente,
si rivela per una pura irrealt.

76. Ma se le creature non esistono su che si esercita allora
la compassione?. Le creature (ti rispondo) sono immaginate
come esistenti per virt di un'illusione che noi adottiamo in
vista del fine che vogliamo raggiungere.

77 Ma, se le creature non esistono, chi pu avere un fine
da raggiungere?. Nessuno, in effetto, (rispondo) e lo sforzo
procede unicamente dall'illusione. Ma, avendo come frutto
l'acquietamento del dolore, questa illusione del fine non
proibita.

78. Ma l'illusione dell'io, al contrario, alimenta il sentimento
del'io, causa di dolore; e visto che esso non pu essere
eliminato altrimenti, bisogna allora coltivare l'idea
dell'inesistenza dell'io.











Filosofi moderni sul pensiero indiano



1. Hegel sulla coscienza yogica.

Nel 1827 Hegel pubblic una lunga recensione
1
ad un importante saggio
di Wilhelm von Humboldt sulla Bhagavadgt. Fu questa la sua pi
significativa presa di posizione sul pensiero indiano. Notevole in
particolar modo, al di l delle inesattezze dovute alle ancora scarse
conoscenze del tempo, lanalisi del contenuto della forma di pensiero
propria del meditante.
Il giudizio di Hegel sulla Bhagavadgt rest sempre molto negativo.
La traduzione italiana del brano di G. Pinna in Hegel, Due scritti
Berlinesi, Napoli 1990, pp. 161 sgg. Per un commento si rimanda a S.
Marchignoli, La Bhagavad-gt come testo canonico dell'azione: appunti in
margine ad alcune interpretazioni europee, in Annali di storia
dell'esegesi 15/2 (1998), pp. 375-388.

I.
Per parlare ora del grado della perfezione, che lo scopo
supremo [della dottrina dello Yoga espressa nella Bhagavad-
gt], consideriamola innanzitutto nella sua forma soggettiva.
Questa perfezione si determina come un perdurante stato
d'astrazione, quell'astrazione di cui si trattato in tutto
quanto precede - una perenne solitudine dellautocoscienza,
che ha rinunciato a tutte le sensazioni, a tutti i bisogni e a
tutte le rappresentazioni di cose esterne, e con ci non pi
coscienza - neppure una compiuta autocoscienza, che
avrebbe come contenuto lo spirito e in tale misura sarebbe
ancora coscienza; un intuire che non intuisce nulla, e non sa
nulla - il puro vuoto di s in se stesso. In termini moderni
la determinatezza di questo stato va chiamata assoluta
immediatezza del sapere. Giacch dove c sapere di

1
ber die unter dem Namen Bhagavad-Gt bekannte Episode des
Mahbhrata, von W. von Humboldt (Berlin 1826), in Jahrbcher fr
wissenschaftliche Kritik (1827), pp. 51-63 e 1441-1492.
120 LIndia filosofica
qualcosa, di un contenuto, l c anche al tempo stesso
mediazione. Il soggetto conoscente conoscitore del
contenuto solo mediante questo contenuto, che per lui un
oggetto, e il contenuto un oggetto solo mediante il fatto
che saputo. Ma la coscienza ha un contenuto solo in
quanto questo per essa un oggetto, nella sensazione,
nellintuizione o come si vuole. Giacch il sentire, lintuire,
se non il sentire dellanimale, il sentire, lintuire
delluomo, cio dellessere dotato di coscienza. Sono
determinazioni semplici e meramente analitiche, ma coloro
che oggigiorno parlano tanto di sapere immediato sono
addirittura incapaci, nella loro inconsapevolezza e ignoranza,
di notarle e di conoscerle.
Ora questa concentrazione astratta la beatitudine [...] che
viene promessa ai pii e ai credenti quasi ad ogni pagina del
nostro poema - attraverso il penetrare nella divinit ovvero
letteralmente, innanzitutto, in Krishna, il dissolversi in
Brahma, il trasformarsi in Brahma [...]. Questa unit con
Brahma dona anche la liberazione dalla metempsicosi.

II.
Questunit con Brahma conduce da sola al punto finale,
che il punto pi alto allinterno della religione indiana: il
concetto di Brahm, la vetta dellapprofondimento meditativo
[Vertiefung] che abbiamo considerato. Per quanto ci che
il Brahm sia facilmente comprensibile e ben noto, tanto
maggiore la difficolt di comprendere che rapporto esso
intrattenga con questo approfondimento meditativo, ed
tanto pi interessante considerare tale rapporto da cui, come
risulter, deriva il concetto stesso di Brahm o che piuttosto
si identifica con tale concetto.
Filosofi sul pensiero indiano: 1. Hegel 121
Se consideriamo pi da vicino quali siano laspetto
affermativo e laffermativa determinatezza dello spirito, cui
quello sprofondarsi in se stessi e quellisolarsi della
coscienza appartengono, vediamo che si tratta del pensiero.
Lespressione approfondimento meditativo [Vertiefung] e
le altre espressioni designano laspetto situazionale, non la
cosa stessa. Quel fare astrazione da ogni determinatezza,
esteriore ed interiore, da ogni contenuto della sensazione e
dello spirito nel loro affermativo e specifico esserci, il
pensiero al di fuori di ogni situazione. Bisogna ritenere
sublime che gli indiani si siano sollevati fino a questa
separazione del sensibile dal non sensibile, della molteplicit
empirica dalluniversalit, della sensazione, del desiderio,
della rappresentazione, del volere, ecc., dal pensiero, che si
siano sollevati fino alla coscienza dellaltezza del pensiero.
Ma il tratto specifico costituito dal fatto che dallimmane
astrazione di questo lato estremo non si sono spinti fino alla
conciliazione del particolare, sino al concreto. Il loro spirito
soltanto il debole oscillare dalluno allaltro ed infine la
sventura di conoscere la beatitudine solo come
annientamento della personalit, che identico al nirva
dei buddhisti.
Se, in luogo di espressioni come approfondimento
mediatativo, devozione, ecc. fosse stata usata la designazione
della cosa, cio pensiero, ci si opporrebbe al fatto che
quando si tratta del pensiero, anche del pensiero pi puro e
astratto, abbiamo sempre lidea che venga pensato qualcosa,
che nellatto di pensare abbiamo dei pensieri, che essi sono
cio per noi un oggetto interno. Se si considera lintuizione
nella medesima assenza di determinazione, come intuizione
assolutamente pura, essa la stessa astratta identit con s.
Neppure la pura e semplice intuizione intuisce qualcosa,
122 LIndia filosofica
cos che non la si pu neanche chiamare intuizione del
nulla, perch essa priva di oggetto. Ma lintuizione
implica essenzialmente lelemento concreto, vale a dire che,
se il pensiero vero solo nella misura in cui concreto, la
sua determinatezza specifica quella pura universalit,
lidentit semplice. Lo yogi che sta seduto, senza alcun
moto interiore o esteriore, e guarda fisso la punta del suo
naso, rappresenta quel pensiero che si elevato alla vuota
astrazione e si mantiene in questo stato con uno sforzo
violento. Ma questo stato per noi del tutto estraneo e
remoto, e designandolo con il termine pensiero, che
assolutamente comune al nostro modo di vedere le cose, lo
si avvicinerebbe troppo a noi.
Se tuttavia ricordiamo quelle espressioni secondo cui
questapprofondimento meditativo cerca Brahma e
costituisce la via, la direzione che a lui conduce e lunione
con lui, ci implica certamente che esso ha un oggetto che
si sforza di raggiungere. Tale approfondimento meditativo di
fatto, nella sua determinazione, come si mostrato, privo
di oggetto, e latto di sforzarsi e dirigersi a lui afferiscono
soltanto alla coscienza che non lha ancora raggiunto. Ora,
in quanto questo pensiero privo di oggetto nel contempo
rappresentato come essenzialmente in relazione con Brahma
- e per una relazione immediata, cio indistinta - questo
pensiero puramente astratto necessariamente determinato
come Brahma stesso: un elemento soggettivo che identico
a ci che viene detto oggettivo, cos che questa opposizione
scompare e diviene unenunciazione esteriore, che non
presente nel contenuto in quanto tale.
Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 123

2. Piero Martinetti sul Skhya.

Piero Martinetti, importante filosofo italiano, esord come scrittore di
filosofia con un libro sul Skhya, che egli interpret in chiave
idealistica. Per un commento si veda G. R. Franci, Piero Martinetti e Il
Sistema Sankhya, in La conoscenza dellAsia e dellAfrica in Italia nei
secoli XVIII e XIX, vol. I (a cura di A. Marazzi), Napoli 1984, pp. 465-
485.
Il brano tratto da P. Martinetti, Il Sistema Sankhya. Studio sulla filosofia
indiana, Lattes, Torino 1896, pp. 62-65.


Dalle considerazioni precedenti mi sembra quindi risulti con
sufficiente chiarezza che lIntelligenza e la Personalit
1
dalle
quali il Sankhya fa derivare il mondo, non sono da
intendersi come due principi cosmici, extraindividuali, ma
semplicemente come due principi interiori ai quali
lastrazione psicologica riconduce ogni manifestazione cos
soggettiva come oggettiva dellesistenza empirica. E con lo
stesso criterio deve perci essere interpretato il concetto
della Natura. Essa non deve cio essere considerata come
alcunch di esterno e di materiale, ma come lindistinto
psicologico primitivo e supremo nel cui seno giace allo stato
latente la totalit della nostra esistenza soggettiva empirica,
come quel principio misterioso ed oscuro che esiste da tutta
leternit accanto allanima, come essa increato ed
onnipresente, ma a differenza di essa attivo e non spirituale
ossia incapace di elevarsi per s alla vita cosciente, e che
per effetto dellignoranza diventa, alla luce dellanima,
lessere individuale empirico. La sua essenza costituita di
piacere, dolore ed indifferenza perch sono questi i tre modi

1
Martinetti cos intende, rispettivamente, la buddhi e il purua.
124 LIndia filosofica
pi generali dellesistenza empirica stessa ossia della nostra
vita cosciente. [...] Queste tre categorie costituiscono
secondo il Sankhya lessenza delle cose, perch il mondo
non concepito da esso che per rapporto allindividuo il
quale lo crea e ne fruisce. Il sattva la sensazione piacevole
in astratto: quindi comprende ci che fonte di gioia, la
bellezza, la bont, la luce, larmonia; ed inoltre ci che
avvicina al bene supremo come la quiete e latto del
conoscere, nella cui serena obbiettivit par che il Sankhya
veda, come Schopenhauer, il contrapposto della cieca e
dolorosa volont di esistere che si estrinseca specialmente
nel secondo dei costituenti. Il rajas la sensazione dolorosa
in astratto: quindi specialmente lagire, il voler esistere,
lattivit dogni specie che ci avvolge in uninfinit di
dolori. Il tamas per ultimo la sensazione indifferente in
astratto: quindi ci che non si manifesta a noi n come
piacere n come dolore, come il sonno, limpotenza
intellettuale ed in genere tutto ci che assenza dogni
attivit dolorosa ma anche dogni elevazione e perfezione.
Tale il senso che, secondo il mio avviso, devesi attribuire
alle teorie cosmologiche del Sankhya. Nella sua forma
originaria la serie delle cause materiali non dovette essere
altro che, come ci conservata nel Buddhismo, una serie di
astrazioni procedente dalla ricerca della concatenazione delle
cause soggettive del dolore individuale; ed in questa forma
solamente essa ha un senso ed una connessione razionale.
La teoria della sostanzialit permanente delle cose e della
gradazione delle cause materiali secondo la loro maggiore o
minor distinzione alterarono poi la fisionomia primitiva di
questa serie dialettica; e tanto gli organi della soggettivit e
gli oggetti (dai quali come da fondamentali dati della
rappresentazione o duninduzione semplicissima il Sankhya
muove), quanto la Personalit e lIntelligenza, furono intesi
Filosofi sul pensiero indiano: 2. Martinetti 125
non come una serie ascendente di cause soggettive della
schiavit, ma come unevoluzione di sostanze; ed a capo di
tutta la serie, come causa materiale prima, fu posta
lindistinzione assoluta, la Natura. Ma in nessun modo
perci e la Personalit e lIntelligenza e la Natura vennero
ad essere intesi come esseri cosmici esteriori, materiali: e la
Natura stessa non venne altrimenti pensata che come la
coscienza empirica stessa nella sua assoluta
indeterminatezza, come unindistinta miscela di piacere,
dolore ed indifferenza destinata a diventare, evolvendosi,
lio, lessere empirico individuale nel cui seno sorge il
mondo.
N si potrebbe opporre (come il Garbe oppone alla
denominazione di idealistico data dal St. Hilaire al
Sankhya), che, poich la spiritualit appartiene allAnima
sola, la Natura ed il resto sono alcunch di esteso e di
materiale. Come si veduto Vijnana
2
caratterizza assai bene
ci che si intende nel concetto indiano per materiale (che
significa percepibile sensibilmente); e la sua definizione
esclude la natura e gli altri principi sovrasensibili: n
lessere i medesimi estesi implica materialit, perch anche
lanima viene considerata come estesa. Non quindi esatto
dire che la Natura del Sankhya sia alcunch di materiale;
essa piuttosto semplicemente un principio attivo ed
inconscio come lInconscio di Hartmann o la Volont si
Schopenhauer. E dalla Volont di Schopenhauer (con cui lo
Schopenhauer stesso rettamente lidentifica v. Par. u. Par. II,
187) essa differisce in questo solo punto essenziale: che la
Volont obbiettivandosi produce dal proprio seno anche la
coscienza (in s. s.), il soggetto vero e proprio della

2
Cio Vijnabiku, autore del commento alla Skhyakrik intitolato
Skhyapravacanabhya.
126 LIndia filosofica
conoscenza; laddove la Natura per sua essenza inconscia e
la coscienza (in s. s.) le perviene da un principio superiore
la cui essenza non altro che pura spiritualit, cio
dallAnima.


Filosofi sul pensiero indiano: 3. Weil 127

3. Simone Weil sul Skhya e sulla Bhagavadgt

I questa pagina tratta dai Quaderni di Simone Weil emerge un'originale
lettura e una importante applicazione attualizzante delle categorie del
Skhya e delle dottrine espresse nella Bhagavadgt. Simone Weil, che
ci ha lasciato anche interessanti interpretazioni delle principali Upaniad,
fu attratta dalla Bhagavadgt soprattutto per la sua trattazione del
problema dell'azione. Gli appunti risalgono al settembre-ottobre 1941.
Per un commento si rimanda a S. Marchignoli, S.Weil a colloquio con i
testi ind: il desiderio, l'tman e il dharma, in AA. VV., Politeia e
sapienza, a cura di Adriano Marchetti, Bologna 1993, pp. 47-65.
Il brano tratto da S. Weil, Quaderni, ed. it. a cura di G. Gaeta, vol. I,
Milano 1982, pp. 333-335.



Che nessuna attivit - lavoro fisico o studio - divenga un
ostacolo a vedere l'tman in ogni cosa. Che ogni attivit
abbia al centro dei momenti di arresto. Vi tamas nella
buddhi. la fatica che degrada e limita l'attenzione
superiore. Il sattva ovunque nella prakti. Non c' una
soglia.
L'obbedienza la virt suprema. Amare la necessit. La
necessit e il dharma sono una cosa sola. Il dharma la
necessit amata. La necessit , rispetto all'individuo, ci
che vi di pi basso - costrizione, forza, una dura
necessit - la necessit universale libera da essa.
Considerare il dharma non come dovere, ma come necessit,
elevarsi al di sopra. Lasciare libero gioco alle proprie
facolt di azione e di sofferenza. Parallelismo tra Arjuna e il
Cristo. Combatter perch non pu arrestare questa guerra e
perch, se essa ha luogo, non pu non prendervi parte. (Essa
gi cominciata). Fare solamente ci che non si pu non fare.
128 LIndia filosofica
Azione non-agente. Egli non vorrebbe combattere e si perde
nella sua emozione di piet. Ma se si chiede chiaramente:
mi consentito non combattere?, non pu a questo punto,
in questa situazione, rispondere di s.
La non-violenza buona solo se efficace. In questi termini
si pone la questione rivolta a Gandhi dal giovane a
proposito di sua sorella. La risposta dovrebbe essere: usa la
forza, a meno che tu non sia in grado di difenderla, con
altrettanta probabilit di successo, senza violenza. A meno
che tu possegga un'irradiazione la cui energia (cio
l'efficacia possibile, nel senso pi materiale) sia uguale a
quella contenuta nei tuoi muscoli. Alcuni hanno avuto
questo potere. San Francesco. Sforzarsi di diventare tale da
poter essere non-violento. Ci dipende anche dall'avversario.
sforzarsi di sostituire sempre pi, nel mondo, la non-violenza
efficace alla violenza. Niente di ci che inefficace ha valore.
La seduzione della forza bassa.
1
una difficolt terribile.
Arjuna nel torto perch si lascia sommergere dalla piet
invece di pesare chiaramente il problema: posso non
combattere? Ha dimenticato la sua bilancia. Ogni uomo
deve imitare Zeus e fare uso della sua bilancia d'oro. La
bilancia del dharma.
Non credere di poter uccidere - n di poter salvare,
beninteso. Non credere di avere un potere. La prakti con i
suoi gua fa tutto - anche il bene - anche il male - il male
e il bene, tutto. L'uomo non ha alcuna potenza, e tuttavia ha
una responsabilit. L'avvenire corrisponde alla responsabilit,
il passato all'impotenza. E tutto ci che deve ancora venire
sar passato.
Se Ka fosse intervenuto a illuminare Arjuna, Arjuna si
sarebbe battuto ugualmente, ma male. Il corpo una

1
Le ultime due frasi sono unite da una graffa.
Filosofi sul pensiero indiano: 3. Weil 129
bilancia per i moventi, una bilancia perpetua, perpetuamente
mobile. Ci che si chiama io, me - solo un movente.
Ma soprannaturale che per un istante la bilancia si arresti e
sia sospesa. Dopo l'arresto, le STESSE FORZE agiscono su
di essa, ma pi giusta. Deve esservi un ritmo ottimale - una
durata e una frequenza ottimali negli arresti. Anche
quest'arresto implica necessariamente dispendio di energia -
ma energia essenzialmente differente. Come avviene che
qualcosa si arresti? Nella materia inerte, un corpo mobile si
arresta per degradazione dell'energia meccanica in energia
termica. Nell'uomo, apparentemente, trasformazione
dell'energia in senso inverso.
Perch negli scambi e modifiche dei tessuti organici,
soprattutto nervosi, non vi sarebbe una forma di energia che
stia al movimento e all'irradiamento come il movimento e
l'irradiamento stanno al calore?
Il mistero comunque resta lo stesso. Si tratta dei gua della
prakti. Vi qualcosa nel mondo con cui il soprannaturale
ha un rapporto, un legame speciale. Che cosa? Quale
legame?

130 LIndia filosofica

4. Jaspers su Ngrjuna.

Nel suo I grandi filosofi (1957) Karl Jaspers dedica un capitolo al
Buddha e uno (quello finale) a Ngrjuna. Notevolissima la
comprensione della dialettica della vacuit e la comprensione dei suoi
effetti sulla coscienza.
La trad. italiana di F. Costa in K. Jaspers, I grandi filosofi, Milano
1973, pp. 1237-39.

I nyavdin sono una setta tra le tante. A tutte queste sette
comune la volont buddhistica di redenzione, la scienza
del dolore e dell'inessenzialit della realt mondana. Entro
questa dottrina comune, la riflessione sulla conoscibilit del
reale ha fatto sorgere una molteplicit di opinioni. Il mondo
esterno veramente reale e si pu immediatamente
conoscere con la percezione (come pensano i Sarvastivdin);
esso non percepito dai sensi, ma la sua esistenza pu
essere desunta dalle percezioni (come pensano i
Sautrntika); c' solo la certezza che la coscienza ottiene da
se stessa, reale solo il mondo interiore, nella vera realt
non vale alcuna distinzione tra soggetto e oggetto (cos gli
Yogcra); n il mondo esterno n quello interno sono
conoscibili come un essere reale per s stante, non vale
alcuna distinzione reale tra l'essere soggettivo e quello
oggettivo (cos i nyavdin, cui appartenne Ngrjuna).
In questo quadro schematico dei vari punti di vista
riguardo alla teoria della conoscenza, si possono ritrovare
le distinzioni schematiche di idealismo e razionalismo,
razionalismo ed empirismo, positivismo e nichilismo proprie
del pensiero occidentale, specialmente quando si tratta del
problema riguardante la realt del mondo esterno. Ma questi
concetti non sono che residui razionali del contenuto
Filosofi sul pensiero indiano: 4. Jaspers 131
filosoficamente vissuto nell'India. Ci che questo contenuto
ha di essenziale si rivela come un punto di vista che non si
pu adeguatamente comunicare in una dottrina espressa in
parole. La possibilit di una simile traduzione dottrinaria
dipende dalla misura in cui un sapere determinato viene
usato come mezzo di salvezza. Ma poich ogni sapere, in
quanto costituito da contenuti positivimente enunciabili,
significa piuttosto adesione, la via della salvezza sta nella
scomposizione del sapere stesso, di ogni soggetto
conoscibile e di ogni concezione possibile. La vacuit di
ogni realt dell'esserci diventa ora l'essere positivo di ci da
cui derivano sventura e dolore per la caduta nel divenire del
mondo e verso cui si compie il ritorno. Ogni pensare e ogni
pensato appartengono a questa caduta. Il senso del vero
pensiero sta nel rovesciamento di ogni dispiegamento di
pensiero nel mero non pensare. Ci che si verificato
mediante questo dispiegamento si risolve, per opera di un
pensiero migliore, nel ritorno alla dissoluzione del pensiero.
Questo si verifica in ultimo nella penetrazione intuitiva della
falsit di ogni segno indicativo e quindi di ogni linguaggio.
Se la mera datit della parola come segno e la sua
mancanza di senso verace intuitiva fino in fondo, allora si
dissolve e questa la liberazione. La dolorosa elaborazione
compiuta dalla coscienza della vacuit nel dispiegamento del
mondo allora ricondotta all'origine.
Ma nel mondo restano ancora la dottrina, il linguaggio,
l'indicazione della via della salvezza, la distruzione del
pensato ad opera del pensare stesso che ha prodotto la
caduta. Nonostante ogni intellezione ottenibile nel proprio
pensiero mediante l'autosuperamento del pensiero, resta
perci presente una posizione, a meno che non si realizzi di
fatto seriamente il silenzio assoluto e non abbia fine ogni
parlare, udire, comunicare. Pertanto la posizione di
132 LIndia filosofica
Ngrjuna, cio la dottrina del sorgere condizionato,
ritorna ad essere una rigida formula della vacuit.
La dottrina di Ngrjuna del sorgere condizionato dice che
ogni cosa condizionata perch e non allo stesso tempo.
Chi giunto alla saggezza vede a fondo tutto questo e
perci diventa padrone di tutte le idee senza esser soggetto
a nessuna di esse. Egli sta sospeso su tutte le idee
determinate mentre si muove tra esse e mette in sospensione
tutto se stesso con il suo esserci. La condizione di ogni cosa
sta in ci per cui c' un mondo come questo, simile
all'illusione prodotta da un mago; sta cio in me e nel mio
pensiero. Il mondo dei dharma e l'io stesso sono dentro il
processo di condizionamento. questo processo del sorgere
condizionato che produce un mondo in cui presumiamo di
avere sicura dimora mentre il nostro dolore non ha via di
scampo. Il mondo intero del sorgere condizionato, insieme a
questa dottrina, s'infrange nel suo stesso venire enunciato e
questa la salvazione. Ottenuta la salvazione l'inganno
svanisce nel fondo e si apre ci di cui impossibile parlare.
La dottrina come un barca che ci porta al di l del fiume
dell'esserci. Se questo veicolo ci porta da una sponda
all'altra diviene del tutto inutile. Chi volesse allora
continuare a insegnare la dottrina, cos connessa con la
corrente illusoria dell'esserci mondano, sarebbe tanto stolto
come chi, approdato all'altra riva, volesse inoltrarsi nel
nuovo territorio portando la barca sulle spalle. Il saggio
invece l'abbandona alla corrente che si lascia dietro di s.
La dottrina utile per farci sempre sottrarre a ogni realt,
non per farci impiantare in essa.

Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 133

5. Jitendra Nath Mohanty sulla natura del pensiero
filosofico indiano: empirismo, razionalismo e
fondazione ultima.

Jitendra Nath Mohanty, grande studioso della fenomenologia husserliana,
uno dei maggiori storici e interpreti viventi della filosofia indiana. In
questo brano, che apre a prospettive comparatistiche, egli si interroga, in
una sorta di bilancio critico, sulla natura del razionalismo e
dellempirismo indiani.
Il brano tratto da J.N. Mohanty, Reason and Tradition in Indian
Thought, Oxford 1992, pp. 227 ss. (la tr. it. di chi scrive).

I capitoli precedenti hanno senz'altro chiarito che nel
pensiero indiano esiste un forte filone empirista. Ci
attestato dal primato della percezione, dall'importanza
dell'esemplificazione (dnta) nella teoria del sillogismo,
e dalla notevole mancanza di pensiero modale (mondi
possibili, necessit, ecc.). Tuttavia, alcune delle rovinose
conseguenze dell'empirismo vengono evitate estendendo
l'ambito della percezione fino a includere l'apprensione
intuitiva degli universali e delle relazioni (e in alcuni casi
persino la percezione straordinaria, a-laukika, da parte degli
yogin, di tutto il tempo, passato, presente e futuro). Di fatto,
anche se le posizioni filosofiche non sono mai state
classificate in termini di empirismo e razionalismo (o
simili), l'empirismo ha, nella tradizione filosofica indiana,
prerogative pi forti di quelle del razionalismo. Mentre il
termine esperienza pu, pur con qualche perdita di
significato, essere tradotto con pratyaka (percezione), il
termine ragione non possiede sinonimi sanscriti. Buddhi
pu essere tradotta con intelletto, ma mancano le
134 LIndia filosofica
principali implicazioni epistemologiche e metafisiche
connesse al termine ragione.
E tuttavia c' un aspetto della ragione che la filosofia
occidentale moderna riconosce specialmente a partire da
Kant. La ragione costruisce e costituisce il mondo che
conosce. L'idea di costruzione presente in un filone che
attraversa lo Yoga, il Buddhismo e il Vednta. I termini
decisivi sono kalpan e vikalpa - che significano entrambi
immaginazione. Nel discorso filosofico, per estensione,
vennero a significare la costruzione mentale, intellettuale o
concettuale.
Gli Yogastra (I, 9) definiscono il vikalpa come ci che
generato dalla cognizione verbale ma non ha un oggetto
reale (abdajnnupt vastunyo). Il commento di Vysa
spiega: il vikalpa non n un prama n appartiene alla
categoria delle cognizioni false. Bench il vikalpa non abbia
un oggetto reale, esso utile grazie alla potenza della
cognizione verbale. Tra i vikalpa vengono inclusi non solo i
concetti d'invenzione, ma anche concetti come quello di
tempo, che, stando al commento a Yogastra III, 52,
senza alcun oggetto reale, un costrutto mentale
(buddhinirma) ed generato dalla cognizione verbale,
bench alla mente ordinaria appaia reale. Il vikalpa
dunque una particolare unione di parola, pensiero e cosa;
nel caso dei prama, e anche nel caso delle a-pram,
questi tre elementi restano disgiunti. Il vikalpa dello Yoga
diventa la kalpan dei buddhisti, che attribuisce nome,
genere, sostanza ecc. - intese come categorie - all'essere
istantaneo, alla natura propria (sva-lakana) che afferrata
dalla percezione (pura). Si pu poi dire che l'Advaita
Vednta consideri tutti gli oggetti, e cos tutte le differenze
tra essi e all'interno di essi, come mere costruzioni verbali
Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 135
(vc-rambhaa-mtra), dovute ad un'ignoranza metafisica
che non ha inizio.
Se di qualcosa si dice che un a priori nel senso che una
condizione non empirica della possibilit dell'esperienza, si
pu dire che in una vasta parte del pensiero indiano l'avidy
o ignoranza sia precisamente un a priori. non-empirica
perch l'ignoranza - sia nel Buddhismo che nel Vednta -
non ha origine: an-di, senza inizio. Ed senza inizio
perch, da un lato, non ha senso chiedere quando hai
cominciato ad ignorare la tal cosa?, e, dall'altro, la
tendenza a concettualizzare, a costruire e a differenziare
trasportata dalle nascite precedenti a quella presente,
sicch in linea di principio non appresa (quella che si
apprende la capacit di utilizzare specifici concetti
empirici, non le categorie superiori quali quelle di
sostanza, qualit, ecc.). Mentre quindi l'avidy funziona
da a priori in quei sistemi, essa tuttavia diversa dall'a
priori di molta parte del pensiero occidentale nella misura in
cui 1) eliminata o meglio distrutta dalla conoscenza
metafisica della natura delle cose, e 2) quelle che essa
costruisce e pertanto fa essere sono, piuttosto, false
apparenze rese presenti (mithy).
Se ora delimitiamo l'idea di un a priori a ciascuno dei
sistemi, sarei indotto a pensare che la teoria dei prama e
la lista dei prameya proprie a ciascun sistema siano una
struttura a priori che il sistema si limita ad elaborare e a
difendere contro i critici. [] I filosofi d'altronde non
riconoscono alcuna modalit particolare di conoscenza
riflessiva che sia implicata in quella speciale attivit che il
pensiero filosofico: i mezzi cognitivi utilizzati dal filosofo
sono gli stessi che utilizzano anche lo scienziato e l'uomo
comune nella vita quotidiana. Sono gli usuali prama:
136 LIndia filosofica
percezione, inferenza e abda, o alcuni altri che possono
essere riconosciuti dal sistema.
Qual , dunque, il fondamento ultimo dei darana? Uno
degli scopi che la filosofia in Occidente si proposta
quello di fornire un fondamento sicuro ad ogni esperienza
umana - cognitiva, morale, estetica - e a se stessa. Questo
tradizionale fondamentismo divenuto a poco a poco
sospetto, e ha finito per essere abbandonato da molti
pensatori contemporanei. Ma un pensatore moderno che ha
perseguito senza tregua questo scopo fondamentista
Husserl e, come ho gi fatto in varie occasioni, vorrei
comparare l'ideale dei filosofi indiani a quello di Husserl.
La filosofia indiana condivide con Husserl l'idea che ogni
prova, e pertanto il fondamento ultimo di ogni affermazione,
sia coscienza.
Ma Husserl perseguiva un fine estremamente radicale - il
fine della razionalit: che cio si possa mostrare, in linea di
principio, che tutte le formazioni mondane, tutte le credenze
scientifiche e quotidiane sono radicate nelle strutture della
coscienza in un modo tale che il filosofo pu, riflettendo
all'interno del suo io, far giungere a chiarezza intuitiva
questo radicamento. Questa tesi radicale della
fenomenologia trascendentale non ha mai fatto capolino
nel mondo del pensiero indiano. Come ho gi avuto modo
di sottolineare, la coscienza fondazionale, per il pensiero
indiano, una coscienza testimoniante e/o fondante, e non
una soggettivit costitutiva universale.
Proseguendo su questa strada, come se la messa a nudo
della razionalit delle nostre credenze e delle nostre
cognizioni, delle regole morali e delle creazioni artistiche, si
scontrasse, nel pensiero indiano, contro un limite assoluto. I
prama le affermano, la coscienza testimonia di quest'atto
Filosofi sul pensiero indiano: 5. Mohanty 137
di affermazione, ma l'autorit giudicante dei prama non ,
e non pu essere, rintracciata nella loro origine nella
struttura di quella coscienza. Qual dunque la fonte della
loro autorit? Il concetto di razionalit che opera - bench
non tematizzato - nel pensiero indiano dipende dalla nostra
risposta a questa domanda.












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