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La rappresentazione

del lavoro nel


mondo del cinema:
dalle origini agli
anni ‘90 del XX
secolo
Alcuni studiosi hanno sostenuto che mondo del lavoro abbia ricevuto una scarsa considerazione da parte del cinema.

studi critici almeno fino agli anni ‘90 hanno parlato di silenzio del cinema su questo tema

In realtà attenzione e continuità al tema del lavoro, anche in film dove se ancora il lavoro non era protagonista era
importante.

IL primo film della storia del cinema


La Sortie des usines dei F.lli Lumière è dedicato a questo tema ma anche il L’Arrivéè du train à la Ciotat.

Per affrontare il tema ho operato una tripartizione :

1) Primo periodo, quello delle origini, in cui viene rappresenta la fase fordista al momento del suo nascere (Metropolis
Fritz Lang e Tempi moderni Chaplin)

2) Secondo periodo, che corrisponde alla fine di questo ciclo e alla contestazione di quel sistema, che caratterizza il
cinema degli anni ’60-70 (La Classe operaia va in paradiso Petri).

3) Terzo periodo anni ’80-90 ai nuovi temi e problemi che emergono in relazione ai cambiamenti della società e dello
stesso ordine sociale, con la frammentazione e la disgregazione dei processi lavorativi (Erick Zonca, La vita sognata degli
Angeli, Francia 1998, Laurent Cantet, Risorse umane).
Questa tripartizione corrisponde oltre che alle fasi effettive dello sviluppo del lavoro, anche alle corrispondenti fasi della storia
del cinema.

Ad esempio, la fase artigianale del lavoro pre-taylorista non è stata oggetto a suo tempo di una grande attenzione da parte del
cinema contemporaneo, ancora troppo arretrato, è poi stata oggetto di un recupero successivo da parte di opere più tarde, a noi
contemporanee, che però sono state prese in considerazione solo come riferimenti indiretti.

Esempi:

 
IL FORDISMO
COSA SI INTENDE PER FORDISMO ?

Il fordismo fu una rivoluzione: fenomeno centrale del XX secolo, Rivoluzione politica, sociale ed
economica e culturale

Trasformò la società, il modo di pensare, dalla fabbrica entrò nelle istituzioni in modo pervasivo, nella
scuola, nella famiglia
Dall’operaio di mestiere al fordismo

Mondo del lavoro alla fine dell’Ottocento, cioè al momento della nascita del cinema, in piena trasformazione.

Ordinamento tradizionale, codificato nel sistema corporativo, prevedeva che i processi lavorativi e produttivi fossero regolati da
norme precise e stabili - lunghissimo apprendistato e poi costanti per il resto della vita lavorativa.

Avvento dell’industria - crisi profonda di questi assetti ed equilibri consolidati.

Decade figura artigiano specializzato e qualificato (con mestiere e proprietario degli attrezzi).

Emerge la figura sociale dell’operaio di fabbrica, che utilizza macchinari complessi, sempre più imponenti e perfezionati,
finendo col diventare una “appendice atomizzata della macchina a cui è legato” (Fiocco, 1998).

A differenza della prima, che si era basata soprattutto sul settore tessile, la cosiddetta seconda industrializzazione (anni ‘70
dell’Ottocento fino IGM) poggia sul settore delle industrie siderurgiche, metallurgiche, meccaniche, elettriche e chimiche:
tutte industrie ad alto contenuto tecnologico in via di continuo rinnovamento e di dimensioni continuamente crescenti.
Si tratta quindi di un paesaggio industriale già contraddistinto da una serie di elementi che ritroveremo
nel cinema

Imponenza dei grandi macchinari, fumi delle ciminiere, alla complessità dei meccanismi produttivi.

In questa fase l’operaio era già soggetto ad un rigido disciplinamento

• orari di lavoro molto estesi - dell’ordine comunemente delle 10- 12 ore al giorno - e scarsissime
possibilità di farsi valere come forza sociale organizzata, essendo quasi dovunque in varia misura
ostacolata l’attività rivendicativa e sindacale.

• gli operai mantenevano ancora un relativo grado di autonomia per quello che riguardava la vita
interna alla fabbrica, i processi e i ritmi produttivi.

• Molte delle grandi manifatture del tempo erano ancora organizzate con processi produttivi che
facevano riferimento a precise qualificazioni, abilità, mestieri.
Operai margine di libertà per quanto riguardava le singole operazioni di cui erano responsabili.

Infatti per definire queste figure si è parlato in alcuni casi di factory artisan.

Secondo Erich Hobsbawn gli operai specializzati di questo tipo avevano messo in atto un complesso sistema di
auto-limitazione dei ritmi di lavoro, che gli imprenditori trovavano assai difficile da modificare (Hobsbawm,
1972).

Il punto di fondo su cui si basava la resistenza operaia derivava da una specie di moral economy secondo la quale
non poteva essere ritenuto giusto lavorare con ritmi più intensi di quelli stabiliti dalla tradizione.

Gli operai facevano riferimento ad una tradizione artigiana, ma anche contadina, in cui il ritmo del lavoro non era
regolamentato.
Herbert Gutman: Stati Uniti 1843-1893 ha sostenuto che:

il comportamento degli operai e degli artigiani in questi decenni si spiega in termini di continuità piuttosto che di
consenso e, di questa, la persistenza di alcune abitudini sul posto di lavoro è un esempio evidente.

Casi in cui gli operai si fermano per leggere il giornale coi loro compagni, casi di sigarai che lavorano solo due o tre al
giorno, di tornitori che trovano le nuove macchine “difficili e senza senso”, di sigarai che scioperano per mantenere
alcuni vecchi privilegi, come quello di tenere per sé i sigari difettosi o di abbandonare il posto di lavoro senza
l’autorizzazione del capo (Gutman, 1979).

L’introduzione di nuovi macchinari stava portando la fabbrica ad una organizzazione della produzione
caratterizzata da ritmi e fasi di lavoro e sempre più intense e concatenate.

Ma operai erano ancora molto lontani dal sottostare ai tempi imposti dall’OROLOGIO.

L’etica del lavoro era ancora ben lungi dall’affermarsi e si praticava ancora il San Lunedì (Musso, 1995).
Il cottimo

Alla fine dell’Ottocento, allo scopo di aumentare la produttività operaia, introduzione del cottimo come parametro per
misurare l’intensità dell’erogazione della forza lavoro (Musso, 1995).

Forma più elementare di cottimo: si stabiliva un rapporto diretto fra il salario corrispotso e i prodotti effettivamente
portati a termine dall’operaio.

Il salario a giornata, venne sostituito dal salario a cottimo: il lavoratore era così indotto a intensificare i ritmi produttivi
per ricevere un maggiore salario.

La fabbrica però non solo organismo tecnico-produttivo; ma anche organismo sociale complesso in cui i comportamenti
individuali venivano sottoposti all’approvazione collettiva.

Ciò spiega anche la possibilità per molti operai di mantenere alcuni residui della tradizione e auto-regolare perfino i
ritmi del cottimo.

I lavoratori qualificati estesero il codice di comportamenti solidaristici alla limitazione concordata dei rendimenti.
Il Taylorismo

Nel 1911 un ingegnere americano, Frederick Winslow Taylor: introduce principio nuovo che
avrebbe poi rivoluzionato profondamente l’organizzazione della grande industria su scala
mondiale.

Taylor sostenne che l’organizzazione della fabbrica basata sulle specializzazioni e sui mestieri
tradizionali creava una serie di incongruenze, duplicazioni e rischi.

• richiedeva delle interdipendenze obbligate fra sottosistemi relativamente autonomi (un


verniciatore non poteva procedere col suo lavoro se il reparto verniciatura aveva una capacità
lavorativa superiore o inferiore a quella del reparto montaggio), quindi diseconomie.

• L’organizzazione della fabbrica dipendente dalle specializzazioni individuali non era economica
perché molto spesso tali specializzazioni richiedevano una notevole abilità personale solo in
quanto corrispondevano a processi lavorativi troppo complessi, che si sarebbero potuti
semplificare con la tecnologia.

• la rivoluzione di Taylor consisteva nella diluition of labour, cioè nella scomposizione di una
operazione complessa svolta da un singolo operaio molto abile in una serie di operazioni
più semplici assegnate a più operai meno abili, ma che, proprio per la minore complessità
del compito affidato, potevano essere più veloci.
• Altro punto fondamentale della dottrina di Taylor era l’organizzazione interna dei processi lavorativi su base
scientifica.

• Taylor si era formato in una industria siderurgica.

• In una industria del genere la capacità dell’altoforno è l’unica variabile veramente determinante. L’alto forno deve
girare al massimo, deve essere sempre rifornito della massima quantità di materiale e produrre il massimo di laminato:
tutto il resto della fabbrica si deve muovere secondo il ritmo determinato da questo elemento tecnologico.

• L’organizzazione scientifica della fabbrica consisteva quindi nel determinare razionalmente non solo i tempi di
esecuzione dei lavori, come si faceva col cottimo, ma anche il modo in cui venivano organizzati questi lavori.

• La fabbrica doveva perciò essere organizzata nella maniera più razionale possibile: doveva apparire come un
organismo unico composto da componenti capaci di muoversi all’unisono e non come un insieme disaggregato di tante
singole unità e di reparti relativamente autonomi.

• Per realizzare questo obbiettivo occorreva un vero e proprio studio scientifico del processo lavorativo, che fu affidato ad
un apposito ufficio denominato “tempi e movimenti” diretto da ingegneri specializzati.
La più famosa applicazione su larga scala di questo principio fu sperimentata dall’industria
automobilistica di Henry Ford, il magnate americano da cui prende il nome il cosiddetto
“fordismo”, termine che - come sostiene Bruno Cartosio - ha assunto il significato generico di:

“insieme di criteri, tecniche e strutture che caratterizzano la fabbrica manifatturiera


moderna e in particolare la fabbrica automobilistica, che dagli anni venti in poi è
diventata luogo e simbolo della modernità e dell’innovazione tecnologica”. In realtà, nel
linguaggio comune il termine ha acquisito un “valore più evocativo che denotativo, più
allusivo che referenziale” (Cartosio, 1995).
 
Sul fordismo
 
L’elaborazione della teoria e della prassi che vanno sotto il nome di “fordismo” si possono far risalire al periodo
della produzione del “Modello T”. La piccola automobile, lanciata da Ford nel 1908, fu la prima utilitaria ad
essere prodotta su scala di massa in base ai principi e all’applicazione della catena di montaggio (assembly line).

La Ford Model T del 1908


è l’automobile che più ha
inciso sulla civiltà del
ventesimo secolo.

Prima vettura costruita in


grande serie alla catena di
montaggio, “Tin Lizzie”
resterà in produzione
ininterrottamente per 19
anni, toccando
l’astronomico traguardo
dei 15.007.033 esemplari.
Secondo Robert Lacey, biografo di di Henry Ford :

“La Model T ha trasformato un giocattolo degli europei ricchi in un diritto congenito


delle masse americane, dando vita al più strano degli innamoramenti: il perenne rapporto
emotivo che lega ogni americano alla sua automobile.”

Grazie alla Ford Model T, l’automobile cessa infatti di essere uno snobbistico e passatempo riservato
a una ristrettissima élite, diventando un pratico mezzo per la mobilità individuale, alla portata di
tutte le tasche e all’altezza di tutte le esigenze.

Con la nascita della Model T, l’automobile finisce di essere solo un (lussuoso) mezzo per il trasporto
di persone, diventando anche un formidabile strumento per il lavoro e la professione, un fedele
alleato fonte di reddito, benessere e progresso sociale.
LA FABBRICA FORDISTA

La fabbrica era organizzata secondo una catena che collegava tutte le operazioni.

Le poche semplici lavorazioni richieste all’operaio si facevano scorrere davanti alla postazione dell’operaio stesso.

Ciascun operaio doveva compiere una operazione semplificata che era però immediatamente successiva e precedente a
quella degli altri operai che gli stavano accanto e quindi doveva essere compiuta entro un termine rigidamente prefissato.

Conseguenze:

• No autoregolazione dei ritmi del lavoro.

• Profondo mutamento, non solo tecnico ma anche sociale e culturale.

• Nella nuova fabbrica fordista la potenza antagonistica del lavoratore, ossia la sua capacità di opporsi ai ritmi e alle logiche
della proprietà, non è individuale ma collettiva.

• Ogni individuo è parte integrante di un meccanismo che si blocca collettivamente e non individualmente (Fiocco, 1998).

• Il processo produttivo funziona solo se tutte le sue parti funzionano.


Basta una semplice distrazione, un momento di stanchezza o di malore, o che semplicemente una mosca ronzi intorno
all’operaio (come accade a Charlot in “Tempi moderni”), per bloccare il processo produttivo e sconvolgere il ritmo
automatico del corpo.

Emerge quindi quella figura che è stata definita da alcuni come “operaio massa”:

uno specifico tipo di lavoratore che condivide strettamente il proprio destino, al di là delle specializzazioni e delle abilità
individuali, con tutti gli altri compagni dello stesso settore nella medesima fabbrica.

In pratica uniformazione della figura sociale dell’operaio, fino ad allora ancora abbastanza variegata e diversificata: una
omologazione che troverà una descrizione piuttosto accurata, e spesso enfatizzata, anche nelle rappresentazioni del cinema
contemporaneo.
Altri aspetti del fordismo :

• Politica di alti salari


• Incentivazione padronale di un forte legame tra lavoratori e fabbrica.
• Politiche neo-paternalistiche per consenso sociale collettivo medio-elevato.
• La fabbrica fordista mira ad estendere la propria sfera di influenza non solo sul lavoro effettivo dell’operaio, ma
anche al di fuori di essa con una serie misure in alcuni casi simili a quelle di un welfare aziendale.

Limiti:
• Il pericolo dell’organizzazione del lavoro fordista, ideata per trasformare i “corpi in macchine”, era quello di
ritrovarsi con “macchine” sconnesse dalla realtà e dalla soggettività, distaccate da ogni impulso personale
(Fiocco, 1998).

• Ford si rendeva ben conto di questo problema, tanto è vero che nella sua autobiografia scrisse:

• “L’uomo che si reca alla sua giornata di lavoro con la sensazione che, per quanto riesca a rendere, il
suo lavoro non gli frutterà mai tanto da sottrarlo all’indigenza, non ha l’atteggiamento giusto per fare
il suo lavoro quotidiano. È ansioso e preoccupato, e tutto ciò contribuisce a danneggiare il suo
lavoro” (Ford, 1982, cit in Fiocco, 1998).
Andavano evitati tutti quei fattori che potevano minare la concentrazione o
ridurre la forza psico-fisica dell’operaio.

Nel 1914 Ford introdusse la paga giornaliera di 5 dollari per 8 ore di lavoro

salto qualitativo notevole per le condizioni di vita dei suoi operai.

Non tutti potevano usufruire di questo provvedimento.

Chi aveva diritto al five dollars day?

• operai che, dopo aver lavorato per sei mesi alla Ford, fossero sposati e quindi
avessero sulle spalle il peso di una famiglia

• gli uomini non sposati di età superiore ai 22 anni con doti provate di
moralità, di buon comportamento, sia in fabbrica che fuori, ed infine di
parsimonia.

Il dominio della fabbrica si estendeva perciò anche alla vita privata: l’operaio
veniva controllato sia sul luogo di lavoro sia fuori. La sua abitazione doveva
essere decorosa, la sua socializzazione disciplinata, la frequentazione delle
osterie – ritenute dai benpensanti luoghi di perdizione - era vietata e
naturalmente la partecipazione a movimenti sindacali e politici, rigorosamente
proibita (Cartosio, 1995; Fiocco, 1998).
Conseguenze del sistema:

sia all’interno che all’esterno della fabbrica, la socialità operaia minata dalla logica delle macchine e in nome della
razionalizzazione produttiva.

Ne scaturiva una deriva “totalitaria”, raffigurata con molta evidenza nelle rappresentazioni del cinema contemporaneo,
che portava la macchina-fabbrica a fagocitare tendenzialmente l’intero “mondo vitale” dei suoi lavoratori.

L’isolamento sociale, la reiterazione spasmodica di gesti e movimenti, la frustrazione e l’alienazione, in definitiva il


dramma dei mali prodotti dalla fabbrica fordista, sia a livello collettivo che individuale, sono ben colti, seppur in modi
diversi e per certi versi contrapposti, in due capolavori dell’epoca:

“Tempi moderni” di Charlie Chaplin

“Metropolis” di Fritz Lang


TEMPI MODERNI :
(Charlie Chaplin, Usa, 1936)
 
Storia di Charlot, vagabondo-operaio che avvita bulloni in una grande fabbrica, iper-controllato dai suoi superiori e
dal sistema disciplinare dell’organizzazione fordista del lavoro.

La catena di montaggio lo riduce ad un automa e, costretto dalla direzione ad aumentare i ritmi di lavoro, Charlot
impazzisce.

Inizia a vedere dappertutto bulloni che tenta di stringere, in una sorta di danza esaltata, all’interno del grande
dispositivo che lo sovrasta.

Internato in manicomio, ne esce dopo un po’, guarito ma disoccupato.

L’incontro con una ragazza povera e scaltra cambierà il suo modo di porsi nei confronti del mondo e della vita.
Charlot non è più solo. Da questo momento la sua sorte sarà intimamente legata a quella della fanciulla.

Iniziano una serie di avventure alla ricerca di un lavoro, ma anche di una casa. Il lavoro, anche quando arriva,
dura poco: la mancanza di disciplina sottopone Charlot a continui licenziamenti. E anche quando insieme alla sua
compagna trova una casa – in realtà una vecchia baracca abbandonata - è costretto presto ad abbandonarla sotto
l’occhio vigile della polizia, che nel film è sempre presente come braccio armato di una società ingiusta. Nel finale
i due s’incamminano pieni di speranza e felici verso un avvenire migliore, lungo una strada dritta e sconfinata, della
quale però non si sa né dove, né se in qualche luogo davvero conduca.
Charlot – vagabondo figura è volutamente caricaturale

Simboleggia la resistenza fisica e psichica al lavoro fordista di quegli anni

Vagabondo, non ha lavoro fisso, è un precario sempre alla ricerca disperata di


una occupazione,

costituzionalmente inadatto a tutto ciò che l’organizzazione disciplinare del


lavoro comporta.

La sua resistenza alla catena di montaggio, ai ritmi di lavoro imposti dal nuovo
ordine, esprimono senza dubbio la condizione degli operai “quasi-vagabondi”
del periodo precedente, che non erano affatto abituati alla catena di montaggio e
che, soprattutto, avevano costruito una socialità ed un’esistenza propria, “altra”,
fatta di mobilità, di precariato, di diversi lavori in buona parte stagionali.
 
Il dramma del fordismo consisteva in definitiva nel voler a tutti i costi
trasformare questi operai “quasi-vagabondi” in individui fissi:

per il nuovo sistema produttivo si trattava di produrre qualcosa di simile ad


automi umani, uomini appendici delle macchine, o forse - per dirla col Gramsci
che dalle carceri fasciste interpretava magistralmente il pensiero di Taylor - dei
“gorilla ammaestrati” (Gramsci, 1950).
In sintesi, nel discorso cinematografico di Tempi Moderni possiamo rinvenire un antagonismo
esplicito rispetto ad un concetto e ad una etica del lavoro che egemonizzavano i saperi e le coscienze
dei singoli individui negli Stati Uniti degli anni ’20 e ’30, dove pure non mancarono importanti lotte
operaie (Brecher, 1997), alle quali però nemmeno lo stesso Chaplin – forse più vicino alle suggestioni
del pensiero anarchico – parve prestare molta attenzione.

André Bazin ha affermato:


“Charlot non possiede alcuna coscienza di classe e se egli è con il proletariato, ciò è dovuto al
fatto che anche lui è una vittima della società come è, e della polizia”.

Roland Barthes:
“la sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta forse la forma più efficace della
rivoluzione” (cit. in Cremonini, 1995).
Metropolis (Fritz Lang, Germania, 1927)
 
Ambientato in una “futuristica” città del 2026, il film ci introduce subito in una
atmosfera cupa.

Un sottosuolo dove una massa di operai in procinto di cambiare il turno di


lavoro si muove ad un ritmo uniformato e robotizzato.

Lavorano come bestie azionando macchine complesse che regolano l’esistenza


della vita nella città sovrastante.
 
In superficie la vita scorre invece gioiosa e tranquilla.
 
Il mondo dei privilegiati vive nello sfarzo, nel lusso, in un mondo tecnologico
fatto di taxi aerei, grattacieli, macchine e gioca in giardini paradisiaci.
 
 
Freder, figlio del grande monopolista Joh Fredersen detentore del
controllo su Metropolis, incontra una ragazza (Maria) venuta dal
sottosuolo attorniata da un gruppo di bambini poveri, la segue nella città
sottostante e inizia a interessarsi alla vita degli operai.

Denuncia terribili condizioni degli operai al padre.


 
replica di Fredersen: : le società funzionano solo se ognuno sta nel
posto che gli compete, il posto degli operai è il sottosuolo.
 
Intensifica il controllo sulla massa per paura di rivolte
 
Maria, predica la pace e la concordia facendo riferimento alla storia
della torre di Babele e rassicura gli operai che finalmente arriverà un
mediatore capace di unire le mani e la mente con la forza del cuore.
Joh si rivolge ad un grande scienziato, Rotwang che ha costruito una creatura artificiale, un robot dalle sembianze di una donna
bellissima, e chiede allo scienziato di identificarlo con Maria per ordinarle poi di incitare gli operai alla rivolta (Maria rapita).
 
Il robot scende nelle catacombe e inizia a propagandare il seme dell’odio tra i lavoratori, mentre Freder si ammala nel vedere la
creatura di cui era innamorato esibirsi in comportamenti lascivi e spregiudicati.
 

 
Le maestranze iniziano a distruggere le macchine. La rivolta è grande: esplode la macchina centrale e i quartieri
operai vengono inondati.
 
Intanto la vera Maria, che è riuscita a scappare dalla prigionia di Rotwang, cerca di mettere in salvo i bambini del
sottosuolo. Accusata pubblicamente, la falsa Maria viene bruciata in piazza come una strega, mentre la vera viene salvata
da Freder mentre tenta di sfuggire al pazzo inseguimento dello scienziato.
Il film si conclude con una emblematica riconciliazione. Alla presenza
degli operai, Freder fa da mediatore fra il padre e l’operaio Ghoth,
guardiano della macchina centrale, suggellando la stretta di mano fra le due
classi.
Girato all’indomani di un viaggio di Lang negli Stati Uniti, il film
risente molto delle sovrastanti e torreggianti architetture americane.

Lang ha sostenuto di aver concepito l’idea del film a bordo di una


nave, quando vide New York per la prima volta. Una New York
notturna, scintillante tra miriadi di luci.

Siegfried Kracauer; la città costruita nel suo film è una specie di


super New York, realizzata grazie ad un ingegnoso processo di
specchi che permetteva di sostituire a dei modelli su scala ridotta
delle strutture giganti (Kracauer, 1973).

Antonio Sant’Elia architetto futurista da cui si ispira


Film pervaso da una forte visione cristiana - molto conservatore.

La storia di Babele esprime chiaramente la visione, presente in tutto il pensiero sociale


dell’epoca, di una necessaria rivalutazione del lavoro rispetto alla classe dirigente e alla cultura
alta, attraverso la figura di un mediatore che deve risolvere il contrasto.

In realtà, come ha giustamente sostenuto Kracauer, a differenza del messaggio che Lang voleva
trasmettere, “l’alleanza simbolica tra capitale e lavoro” non avviene: la pacificazione delle
parti è una semplice illusione, ottica e mentale.

Il vero vincitore è il padre “che ha giocato il figlio”: la carica conflittuale del proletariato è
domata.

Il suo compromesso corrisponde ad una abile “mossa politica” che ha lo scopo non solo di
placare la rivolta degli operai, ma soprattutto di poter rafforzare il suo dominio su di loro:
assecondando il figlio “l'industriale raggiunge un intimo contatto con gli operai ed è così in grado
di influenzare la loro mentalità. Egli permette al cuore di parlare… ma a un cuore accessibile alle
sue insinuazioni” (Kracauer 1973). La sconfitta è evidente.
CRISI DEL FORDISMO

Il fordismo è dunque insieme una forma di organizzazione della produzione, un fattore di disciplinamento
della forza-lavoro, uno strumento di ordine sociale.

Nel mezzo secolo in cui è la forma dominante della produzione giunge non solo a regolare la fabbrica, ma
anche a costituire un parametro per tutta la società.

L’operaio fordista entra in fabbrica giovane, ma non giovanissimo, avendo già ricevuto un certo grado di
istruzione generale e ad essa si lega poi per un periodo molto lungo che dura spesso per tutta la vita. Riceve
salari relativamente alti, preferibilmente è sposato con figli e porta quindi la responsabilità della famiglia.
 
Casa, fabbrica e scuola sono gli ambiti in cui il fordismo giunge ad esercitare la sua influenza in modo
determinante, stabilendo una serie di valori di riferimento che sono la lealtà fra gli operai, l’etica del lavoro,
l’onestà, la probità e la temperanza nella vita familiare e sociale (Fiocco 1998).
Dal punto di vista produttivo, il sistema fordista contiene in sé gli elementi della propria crisi.

• La produzione della grande fabbrica capitalistica, con le sue economie di scala sempre crescenti, giunse a
determinare una disponibilità di beni e quindi di consumi sempre crescenti.

• La standardizzazione della produzione e le economie di scala determinarono un aumento delle proporzioni


della singola impresa.

• La produzione si trasformò in “produzione di massa”. Questo tipo di produzione esigeva un “consumo di


massa”.
La drammatica crisi nel 1929, il tracollo finanziario di Wall Street, ebbe trai suoi effetti quello di mostrare
chiaramente che la produzione di massa era superiore alla capacità che il mercato aveva di assorbirla; era
cioè squilibrata rispetto alla domanda effettiva.

La fabbrica fordista reagì a questa situazione diminuendo la produzione e licenziando un alto numero di operai.

Nel giro di pochi anni Gli Stati Uniti si trovarono di fronte a più di tredici milioni di disoccupati. Ciò non solo
determinò una maggiore povertà dei consumatori, ma innescò anche un conflitto sociale assai aspro.
La crisi economica del 1929 fu senza dubbio la più disastrosa nella storia del capitalismo.

Dagli Stati Uniti si diffuse ben presto in Europa, la cui economia dipendeva per buona parte dai prestiti, dagli
investimenti e dalle esportazioni delle tecnologie americane.

Gran Bretagna e Germania furono i paesi più colpiti, ma la crisi si estese anche all’Italia, al Belgio
all’Olanda, alla Danimarca, alla Polonia ed ai paesi dell’Europa orientale.

Al principio la Francia non subì gravi contraccolpi, le sue riserve auree le permisero di resistere fino al 1934,
anno in cui anch’essa iniziò a subirne le conseguenze, proprio nel momento in cui gli altri paesi si stavano
riprendendo.
Per far fronte alla crisi, Franklin Delano Roosvelt lanciò negli Stati Uniti la politica del New Deal

due principi fondamentali:

• il rilancio della domanda interna attraverso un ampio piano di interventi sociali per far fronte alla
miseria e alla disoccupazione

• il controllo del sistema bancario e delle grandi corporation per impedire il ripetersi di quelle speculazioni
che avevano contribuito in modo decisivo a produrre il crollo finanziario.

Attraverso un nuovo patto tra capitale e lavoro, sorretto dalla mediazione dello Stato

• I lavoratori ebbero il riconoscimento dei loro diritti sindacali.

• livello dei salari venne tenuto relativamente alto

• Furono poste inoltre le basi dello Stato sociale americano con una serie di provvedimenti (Social Security
Act) che per la prima volta proteggevano i lavoratori con un sistema di assicurazione per la vecchiaia con
sussidi in parte statali in parte prelevati sui salari (che erano comunque significativi).
Furono poste le basi per una più giusta redistribuzione del reddito e a ciò si aggiunse una riforma tributaria
fondata su criteri di tassazione progressiva.

Il cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, che garantiva l’accumulazione e la pace sociale, ebbe i suoi
effetti tangibili: nel 1937 il Pil superò quello del 1929; il progetto rooseveltiano aveva avuto successo.

L’espansione crescente della produzione che si verificò negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni
’30 venne intensificata durante la seconda guerra mondiale con il keynesismo militare.

Gli Stati Uniti diventarono i massimi produttori anche per i mercati europei, sia per quanto riguardava i
materiali bellici sia per ciò che concerneva i semplici beni di consumo.
LA FABBRICA FORDISTA NEL DOPOGUERRA

Nell’immediato dopoguerra la fabbrica fordista diventò uno strumento essenziale per rispondere
all’impoverimento causato dalle distruzioni di beni operate dal conflitto.

Sia in Europa che in Giappone, con il sostegno finanziario degli Stati Uniti, la ricostruzione riprese ai livelli più alti,
come la produzione fordista, determinando una espansione accelerata della produttività.

Le potenzialità produttive del sistema fordista richiedevano consumi sempre crescenti.

Le produzioni di nuovi beni: sia a livello quantitativo che qualitativo, frigoriferi, televisori, elettrodomestici,
automobili, diffondevano un nuovo benessere e quindi nuovi stili di vita.

Per sostenere il suo sviluppo, la fabbrica fordista doveva favorire consumi sempre crescenti che comportavano
comportamenti edonistici e consumistici.

Per la prima volta massicciamente, in Europa occidentale la società del benessere apriva le sue porte agli stessi
lavoratori, ponendoli in contraddizione con le tipologie di condotta esistenziale praticate nel periodo precedente, sotto
quello che potremmo definire “fordismo classico”.
Il cambiamento coinvolse tutta la società.

Investì il pubblico e il privato, gli operai, gli studenti e le donne.

Saranno proprio queste soggettività a criticare sia il modello produttivo sia le forme di vita ad esso collegate, provocando una
situazione ingovernabile all’interno delle fabbriche e nella società tutta.

La fabbrica divenne uno dei punti di riferimento più importanti del movimento degli anni ’60.

Uno dei momenti culminanti di questo processo si ebbe quando, nel biennio ’68-’69, gli studenti e gli intellettuali si
rivolsero agli operai (ritenendoli in alcuni casi ancora non del tutto coscienti della propria condizione) e li incitarono ad
unirsi nella lotta.
Molti definirono questo momento storico come una sorta di “assalto al cielo”,

Autogestione dei processi produttivi e a un’autoregolazione dei tempi di lavoro, a una miglior
retribuzione salariale e a una riduzione dell’orario di lavoro (a mero titolo di esempio, “Più soldi meno
lavoro” era uno dei motti che circolava davanti ai cancelli delle fabbriche, dove – come si vede ne “la
Classe operaia va in paradiso di Elio Petri - gli agitatori si recavano la mattina al primo turno di lavoro e
la sera alla fine della giornata lavorativa).

La fabbrica del “fordismo maturo” era un “gigante metallico”, un territorio dotato di proprie leggi che
puntava a produrre un deserto dal punto di vista della soggettività.

Era affollata, animata da contatti ravvicinati fra gli addetti alla linea che spesso si toccavano e si
urtavano.

Il ritmo vitale era caratterizzato dal movimento.

La massa era l’altro elemento dominante ed esprimeva forza, violenza e potenza.

Sono queste le immagini del “fordismo compiuto” che i pochi documentari dell’epoca i restituiscono
(Revelli, 1995).
Come ha osservato Marco Revelli:

La linea, che è il cuore dell’organizzazione e lo strumento più efficace del disciplinamento della forza lavoro, diventa
“il più efficace strumento di comunicazione operaia”.

La fabbrica diventa il luogo in cui si realizza una figura operaia nuova, con una sua cultura che non è più
tendenzialmente quella vecchia ed impregnata di etica del lavoro, ma una controcultura produttiva

Gli operai del ’68 ’69 assolutizzano la fabbrica fordista, come se fosse il modello più perfezionato e duraturo di
organizzazione produttiva:

Invece, proprio a partire da quegli anni in virtù delle nuove esigenze dei mercati, la grande fabbrica si rivelava
strumento sempre meno efficace a livello produttivo e tendeva ad essere affiancata da forme aziendali ritenute
più efficienti.

Al suo interno sarebbero sorte, per iniziativa padronale, importanti modifiche del sistema di macchine - pur nella
forte continuità del loro uso capitalistico – che avrebbero portato all’automazione prima e all’informatizzazione poi
(Revelli, 1995). .
 
a) La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, Italia, 1971)

Contemporaneamente alla spinta dei movimenti sociali, anche nel cinema si


afferma una penetrante critica della divisione taylorista del lavoro e del
fordismo, ben riassunta in un film documento del periodo: La classe operaia va
in paradiso per il caso italiano di Elio Petri

Trama
Il film narra la storia di Ludovico Massa nome non casuale: il protagonista,
incarnato da Gian Maria Volonté, è infatti proprio un “operaio-massa”.

Lulù, campione del cottimo in una fabbrica metalmeccanica, lavora


instancabilmente per portare a casa a fine mese un adeguato stipendio: non deve
soddisfare solo le sue esigenze, ma anche quelle della compagna, un singolare
personaggio fortemente attratto dalla logica della società dei consumi e dal
modello di vita della società borghese.

Massa supera di gran lunga i ritmi dei suoi compagni di lavoro, da cui è
malvisto, sottostando ed aderendo alla logica dei capi reparto e dei
cronometristi.

Ogni tanto va in manicomio a trovare un suo vecchio compagno di lavoro,


Militina, che la lunga vita nella fabbrica fordista ha reso pazzo.
Solo la perdita di un dito tra gli ingranaggi di un tornio lo fa rinsavire.

Tornato al lavoro, dopo la convalescenza, prende in qualche modo coscienza della sua condizione.

Entra così in lotta contro il cottimo, sostenuto da un gruppo extraparlamentare che proclama lo
sciopero ad oltranza.

Dopo una serie di scontri con la polizia viene licenziato.

Riassunto per intercessione dei sindacati viene riposizionato davanti ad una catena di montaggio.

Nell’ultima sequenza del film, rimesso in “linea” accanto ai suoi compagni, Lulù racconta un sogno
tra i rumori degli ingranaggi che coprono le sue parole.

Nel sogno tutti insieme demoliscono un muro oltre il quale però non c’è il paradiso, o se si
vuole il socialismo, ma solo una densa nebbia. Alla domanda dei compagni, “che cosa c’era
dietro ‘sto muro ?”, Lulù risponde: “c’eravamo noialtri nella nebbia”. Ma nessuno riesce a sentirlo
e chiosa tra sé: “come non detto”. Dietro il muro, ancora e sempre la medesima condanna: la catena
di montaggio.
Controllo cottimi
Filosofia della produttività
Presa di coscienza
La critica:

Goffredo Fofi, Lulù - figura idealtipica dell’operaio un po’ stupido, privo della coscienza
politica quanto di quella generale – non è indagato tanto come proletario, quanto piuttosto
come uno “pseudoindividuo … frastornato dalla realtà, dal lavoro e dai suoi miti, dalle
proposte politiche, dalla famiglia, dai tarli interiori, dagli oggetti del consumo, dalle oppiacee
evasioni”, in una parola da un generico “sistema” (Fofi, 1971; 1977).

E in quel sistema ci sono anche gli studenti dei gruppi extraparlamentari, la cui prassi
politica è rappresentata spesso come estremismo un po’ ridicolo, pasticcione e cinico, ed è
considerata, in buona sostanza, incapace di comprendere ed incontrare il mondo operaio
(Fofi, 1971; 1977).

Non stupisce allora che, nel film, la critica al dispositivo di fabbrica e allo sfruttamento del
lavoro vivo - che regista e sceneggiatore colgono qui in uno dei momenti italiani più alti
(l’incontro sovversivo studenti/operai) - non produca decisive trasformazioni sistemiche,
né tanto meno esistenziali.
L’episodio del sogno è sotto questo punto di vista emblematico: oltre il
muro non c’è il paradiso, non ci sono i giardini con le fontane e le grandi
feste, come nelle rappresentazioni narrative della città sovrastante di
Metropolis, ma l’inesorabile logica della catena di montaggio, alla
quale l’operaio fordista, ma soprattutto gli operai come Lulù non possono
sfuggire.
IL POST-FORDISMO
Dalla linea alle Isole produttive

Metà degli anni ’70 avvio un importante processo di trasformazione del sistema produttivo che ha spinto molti osservatori
ad utilizzare il termine di “post-fordismo”.

Sono molte le tappe di tale metamorfosi.

Vorrei qui isolare due aspetti di un processo che ha radicalmente ridefinito il modo di produrre e le forme di vita dei lavoratori
subordinati.
I.
• La fabbrica resta uguale, ma all’interno subisce una metamorfosi progressiva. Si comincia con l’automazione, che è cosa
diversa dalla meccanizzazione.

• processo passa attraverso l’introduzione dell’elettronica, dei robot, delle macchine automatiche controllate da sistemi
informatici - all’inizio rudimentali poi sempre più perfezionati - che assorbono sempre maggiori compiti degli operai.

• Interi reparti vengono così sostituiti da processi automatici.

• Al posto della linea si ha ora spesso un’organizzazione per isole produttive. La struttura lineare e progressiva che porta il
prodotto dalla materia prima alla rifinitura finale non è più visibile; si vedono invece delle isole collegate da carrelli
automatici.

• Gli operai sono più rarefatti e lontani gli uni dagli altri; non ci sono più i cronometristi e i capi: il controllo è affidato al
sistema informatico.
Il cartellino (KANBAN)– Il mercato decide i tempi della fabbrica e del lavoro

Nelle fabbriche giapponesi si afferma per la prima volta il sistema del Kanban (cartellino): la produzione non
viene più concepita a monte e programmata dall’ufficio tempi e movimenti, ma deriva dalle richieste del
segmento finale della produzione.

Si rovescia nella pratica la logica della fabbrica fordista, risalendo dalla fine del processo produttivo all’inizio.

Ad esempio, nella fabbrica automobilistica è il reparto finale incaricato del montaggio definitivo che richiede i
pezzi a tutti i reparti precedenti e li richiede sulla base delle domande dei concessionari, cioè del mercato.

Queste domande scritte su un cartellino arrivano alle isole produttive immediatamente precedenti. Si
richiede di fornire il prodotto in un dato tempo, si inoltrano le richieste per i pezzi necessari con altrettanti
cartellini alle isole produttive incaricate di produrre gli elementi semilavorati necessari e via dicendo.

In questo modo tutta la fabbrica si muove in base alle richieste dell’ultimo reparto, quello a diretto contatto
con il mercato e con i tempi da esso richiesti e determinati.

Così il controllo dei cronometristi e dei capi, che prima era evidente e quasi oppressivo, ora è insito
nell’organizzazione stessa della fabbrica (Fiocco, 1998).
L’operaio non deve produrre venti pezzi al minuto uniformemente per otto ore, ma sa che la sua isola
deve produrre il prodotto richiesto entro un tempo determinato: ha qualche maggiore flessibilità
nell’organizzazione dei suoi ritmi, ma il risultato deve comunque venire.

Cruciale diventa quindi, in un clima ideologico e forzoso di “democrazia aziendale”, l’autoattivazione


dell’operaio “cellularizzato” nel piccolo gruppo.

Un’autoattivazione verificata continuamente da un sistema di controllo che si cela dietro i dispositivi


informatici, della partecipazione armoniosa alla comunità d’ impresa (Fiocco, 1999).

Altra conseguenza delle trasformazioni è che in queste condizioni diventa abbastanza indifferente che a
fornire un certo tipo di prodotto, ad esempio i cerchi in lega per le ruote, sia un’isola della fabbrica o un
fornitore esterno vincolato da un contratto just in time.

Molte operazioni finiscono per essere decentrate verso l’indotto, la fabbrica si svuota
progressivamente, si ha una dissoluzione della fisicità del lavoro industriale così come era rappresentato
dalla fabbrica fordista.
Decentramento

La nuova fabbrica è in gran parte reticolare: una rete che collega nuclei produttivi, piccoli,
specializzati, decentrati.

La nuova fabbrica è pronta a fronteggiare, così, gli improvvisi cali di domanda, ad


eliminare i tempi morti, a reagire istantaneamente agli stimoli esterni. E’ una fabbrica
integrata e snella, ridotta all’essenziale.

E questo, ovviamente, si riflette anche sulle figure dei lavoratori.

La nuova fabbrica, che si vuole “snella” e just in time, non si limita a plasmare i
comportamenti, ma mobilita gli operai esercitando un’egemonia culturale: richiede
adesione e partecipazione implicita ai principi organizzativi della flessibilità, del
neoliberalismo, del mercato.
II.
Il secondo importante mutamento nel mondo produttivo contemporaneo discende direttamente
dal nuovo clima sopra descritto.

Il dogma della flessibilità, che si fa sempre più precarietà, deriva dagli adeguamenti del
capitalismo ai nuovi “tempi moderni”, tempi che più decretare la “fine del lavoro” (Rifkin, 1997)
sembrano condurre ad un “lavoro senza fine” (Bellofiore, 2003; Cohen, 2001).

La flessibilità pervade oramai tutta la società: Ford prometteva di legare a sé l’operaio per tutta la
vita, nella nuova società liquida un giovane statunitense si aspetta di cambiare undici lavori in
media nell’arco della sua vita (Sennett, 2001).

Tutto ciò si riflette anche sulla società.

E’ ormai una banalità osservare che i matrimoni non durano più tutta la vita, che le convivenze
durano il tempo ritenuto utile o che la coabitazione sostituisce la famiglia tradizionale.

Il posto di lavoro è visto come un camping, in cui si soggiorna per qualche tempo, pronti a
ripartire con il proprio zaino (Bauman, 2002a).
Per dirla con Zygmunt Bauman, la nostra è un’epoca di legami deboli. Questo non riguarda solo
gli operai, ma anche il capitale.

Il capitale, ha cercato di sbarazzarsi della propria dipendenza dal lavoro, a emanciparsi dal
macchinario e dalla ciurma di fabbrica, nonché dal legame territoriale che risultava a volte
eccessivamente costrittivo.

Nel mondo della “modernità liquida” (Bauman, 2002) i governi hanno cercato di attrarre il
capitale garantendogli grandissima libertà di azione, destrutturando le regole protettive e
assistenziali, i vincoli sindacali e i provvedimenti di welfare per favorire l’afflusso di nuovi
investimenti e insediamenti produttivi.

I Lavoratori di questa nuova società sono flessibili ma anche facilmente intercambiabili: sono
poco legati alla propria specializzazione, gli è richiesta una formazione continua, non sviluppano
un solido attaccamento al posto di lavoro e nemmeno ai sindacati.

Tendono a investire meno su un futuro lontano o su una carriera interna, ma mirano a un


cambiamento di lavoro.

Figura di salariato precario, che sostiene tutto il peso dell’instabilità del sistema produttivo e del
mercato, stanno coloro che si sono adattati al labirinto e ne conoscono le regole e i percorsi.

In una società in cui la conoscenza invecchia rapidamente, l’essere fluidi consente di non essere
ancorati a posizioni rigide.
Risorse umane (Laurent Cantet, Francia, 1999)
 
Al centro della vicenda narrata sta la storia di Frank, giovane laureato in
economia aziendale a Parigi, che torna nella sua piccola città natale di
provincia per uno stage estivo nella ditta dove lavora il padre.

Assegnato al reparto “Risorse Umane”, gli verrà affidato il difficile compito


di ridefinire l’organigramma dell’azienda, che prevede il licenziamento di
un elevato numero di operai tra cui suo padre.

Risorse umane è anche un film sulle 35 ore, la legge dello stato francese sulla
riduzione dell’orario settimanale di lavoro adottata per contrastare la
disoccupazione in seguito a decise rivendicazioni sindacali.

Una legge che teoricamente dovrebbe favorire l’occupazione e i lavoratori, ma


che poi viene utilizzata dai datori di lavoro per altri scopi, come emerge dal
film.

Un film capace di mostrarci con grande evidenza che la mediazione tra datori
di lavoro e operai, che avevamo incontrato nel finale narrativo di “Metropolis”
nella realtà non esiste.

Il mediatore, in questo caso Frank, non riesce nel suo scopo di pacificatore
delle parti, anzi è lui stesso travolto dalla logica del sistema.
Film paradigma classico: unico modo per gli operai di ottenere dei riconoscimenti è quello di ricorrere all’arma del
conflitto sindacale e dell’astensione dal lavoro.

Film duro che ci reintroduce in un paesaggio rappresentativo familiare al cinema operaista: scioperi, proteste,
sindacalismo di classe, picchettamento delle macchine, boicottaggio della fabbrica,

Ma anche fabbrica un po’ diversa da quella fordista, anche se tout ça change pour rien changer.

Non c’è più la catena di montaggio nella nuova fabbrica in cui trionfa la vuota retorica postfordista delle “risorse
umane”; al suo posto stanno piccole isole produttive dove l’operaio svolge da solo il proprio lavoro.

Ha un compito preciso, magari ripetitivo, ma lo svolge in modo del tutto autonomo, eppure così fortemente connesso a
quello degli altri colleghi e come quello sempre subordinato.

Intanto la direzione escogita metodi per massimizzare la valorizzazione del profitto attraverso l’uso più sapiente
possibile delle “risorse umane”.
Grande attenzione all’approfondimento del rapporto padre-figlio, allo scontro generazionale che prelude alla necessità, per i più
giovani lavoratori, di rivoltarsi per i diritti delle nuove “classi operaie”.

Padre e figlio giungono a scontrarsi in modo molto conflittuale.

Il padre svolge il suo lavoro in modo servile e sottomesso: ha interiorizzato l’etica del lavoro e non crede più a strategie di lotta né
alla possibilità di conciliazione fra il mondo dei padroni e quello degli operai.

Il figlio vorrebbe unire i due mondi; la presa di coscienza della realtà sarà traumatica per ambedue i personaggi.

Il tentativo “dirigenziale” del figlio, volto ad umanizzare la fabbrica attraverso le strategie dell’organizzazione aziendale, decreta la
fine dell’illusione di poter superare il conflitto di interesse tra capitale e lavoro.

Frank capisce che per guadagnare denaro e prestigio sociale occorrerà necessariamente licenziare donne e uomini salariati, perfino
suo padre.
Una delle sequenze più forti e realistiche del film, successiva alla metamorfosi di
Frank, è quella in cui esortando il padre ad abbondare la macchina ed a unirsi
allo sciopero (era infatti ormai rimasto quasi il solo a lavorare dentro la
fabbrica) lo rimprovera bruscamente di avergli “fatta ingoiare la vergogna per
la sua classe”.

Un’altra emblematica sequenza è quella in cui il padre, all’inizio del film, mostra
con orgoglio (di mestiere ?) a Frank la sua mansione lavorativa. Una mansione
semplice e ripetitiva che gli conferisce nonostante tutto una forte identità e un
grande orgoglio per il lavoro.
La vita sognata degli angeli (Erick Zonca, Francia, 1998 )
 
Isa e Marie: due ragazze, due modi di vedere il mondo, concepire la vita.

Isa è aperta, libera, positiva; zaino sulle spalle, sempre alla ricerca di un lavoro e, tra una
occupazione e un’altra, cerca di sbarcare il lunario attraverso la vendita di biglietti d’auguri.

Marie è una ragazza dal carattere chiuso, debole, problematico, attratta da sogni
irrealizzabili da prospettive di vita più frivole.

Le due ragazze si incontrano in un laboratorio tessile di Lille, nel Nord della Francia, e
nonostante le diversità di carattere e di vedute diventano amiche.

Isa è consapevole della sua condizione sociale, non se ne vergogna e l’accetta senza sogni
di gloria: non agogna alcun cambiamento repentino del proprio status.

Marie invece cerca di uscire dalla sua condizione inseguendo l’ideale di una vita più
comoda e facile che crede di poter raggiungere attraverso l’amore di Chriss, benestante ed
autoritario proprietario di un locale assai in voga.

Il finale è drammatico: Marie, lasciata dal ragazzo, si suicida. Isa, che invece è rimasta per
tutto il tempo coi piedi a terra, resta sola e continua il suo peregrinare nella ricerca (senza
fine) di un (sempre) nuovo lavoro.
Il lavoro resta sullo sfondo – come possibilità evanescente, semplice assenza o presenza di un’assenza - non si può certo
dire che questo non sia un film sul lavoro.

La dimensione intima delle due protagoniste è molto importante, ma lo è altrettanto il senso di desolazione, di miseria e
di mancanza di identità offerto da una società dove tutto è diventato “liquido”.

Posto di lavoro parcheggio ad ore: nel film Isa cerca, trova e accetta emblematicamente, con la massima flessibilità e
adattabilità, qualsiasi tipo di lavoro per poi abbandonarlo e ripartire col proprio zaino alla ricerca di un altro impiego.

Ma in ciò Isa è virtualmente tutti i giovani contemporanei e incarna paradigmaticamente le condizioni in cui assai spesso
essi vivono nella società odierna, in cui l’orizzonte di aspettativa e la dimensione temporale del futuro si fanno nebbiosi,
costringendo il precario di turno a vivere perennemente alla giornata.

In modo parzialmente comune agli altri che abbiamo analizzato, il finale sembra metterci ancora una volta di fronte ad una
sconfitta: l’esito della vicenda è una sorta di drammatica accettazione dell’ordine esistente.

L’ultima sequenza del film ci reintroduce in un ambiente di fabbrica, dove Isa sta iniziando un nuovo lavoro.

La musica sembra lasciar filtrare un tenue spiraglio di speranza per immaginare che il futuro sia migliore; eppure, ciò che
aleggia nel volto della protagonista è in fondo un senso di rassegnazione già visto: quello che nasce dalla necessità di
assoggettarsi alle esigenze sempre più spinte della cosiddetta “società dell’incertezza” (Bauman, 1999).
“Volevamo braccia, sono arrivate persone” [C1]

PROCESSO MIGRATORIO INTERNAZIONALE IMPATTO:


• ECONOMICO
STORIA DELLA MIGRAZIONE: • SOCIALE
• CULTURALE
Scritta e legittimata dall’immaginario culturale dell’ospitante

• ‘Sequestrato’ il paese di partenza del migrante


• Sottrazione e subordinazione
• Svuotamento della cultura originaria

ROVESCIAMENTO DELLA PROSPETTIVA Una storia dei gruppi sociali subalterni


Riscatto archivististico dei silenzi
Rovesciamento della narrazione storica
La scrittura della vicenda migratoria a tutti i livelli La letteratura, il cinema e le arti in
Il punto di vista del migrante e non più dell’ospitante. generale possono costituire un
contributo.

Il cinema di Ken Loach fornisce un primo riscatto anche per chi è ospitato, chi emigra o chi è emigrato
può esprimersi, o meglio, “aver voce”.
Nel Bread and Roses questa possibilità di parola i personaggi se la presero senza attendere che gli
venisse concessa.

79
EAD AND ROSES: Ken Loach 2000

TRAMA

La giovane messicana Maya riesce ad entrare negli Stati Uniti clandestinamente per ricongiungersi con la sorella Rosa,
la quale ha trovato lavoro come donna delle pulizie in un grattacielo di una delle compagnie d’affari più importanti di
Los Angeles.

Rosa vive in città da anni ed è sposata con figli, ma il marito sta molto male e necessita di cure costose che lei non
sempre può sostenere. Maya, da poco arrivata, andrà a parlare con il responsabile dei dipendenti, un uomo senza
scrupoli che impone orari disumani e salari da fame, ma nonostante questo nessuno dei dipendenti contesta le misere
condizioni di lavoro, e, anche Maya, nonostante tutto a prende servizio.

Non riesce però ad accettare tutto in silenzio, e così quando negli uffici si affaccia il sindacalista Sam, decide di seguirlo
nella sua protesta
.
Sam comincia un lavoro di mobilitazione con gli altri lavoratori, ma le reazioni sono contrastanti: se alcuni sono
d'accordo, in molti la paura di perdere il posto prevale su possibili rivendicazioni e tra questi c'è anche Rosa.

Così, in questo panorama frastagliato di schieramenti ‘politici’ in cui si muovono i lavoratori, il rapporto tra le due
sorelle si incrina, infatti quando sei lavoratrici vengono licenziate, Maya scopre che è stata proprio Rose a denunciarle e
la rabbia reciproca esplode con forza. Poco dopo Maya ruba in un negozio i soldi che servono a mandare all'università
un giovane del gruppo di lavoro. Intanto il corteo dei lavoratori, organizzato da Sam sfila compatto davanti agli uffici,
chiedendo garanzie e giustizia. Arriva la polizia e i manifestanti vengono arrestati. Quando è il turno di Maya, si scopre
che su di lei pesa l'accusa di furto.

80
ANALISI DEL FILM
IL SUBALTERNO DI KEN LOACH: riguardo la protesta, ma di tutta la vita fatta
ROSA prima di trovare il lavoro che la sorella stava
per farle perdere.
Ken Loach nel suo film non si fa scrupolo a Rosa si dimostra grata ai suoi datori di
mostrare il lato oscuro della grande America. lavoro e giustifica ogni loro atteggiamento
(nonostante la palese condizione di
Maya arriva negli Stati Uniti per il sfruttamento).
ricongiungimento con la sorella Rose,
emigrata da anni, che dopo i primi tempi Prima di essere una janitor era una
durissimi lavora come janitor. prostituta, quindi non può che essere grata
al lavoro che ha trovato, nonostante i salari
La figura di Maya nella regia di Ken Loach è estremamente bassi e le condizioni
centrale, con la sua forza e vitalità, incarna L’accusa di furto e viene rimpatriata) Loach ci insopportabili.
una relazione tra il visibile e l’invisibile sulla mostra che la figura del subalterno è in realtà
quale il regista cerca di focalizzare il punto di inserita nel nucleo familiare della stessa Maya: Si è inserita a pieno nella realtà del
vista dello spettatore: è l’integrità che la Rosa, la sorella. lavoratore emigrato sfruttato, e non
protagonista mantiene nonostante le Sarà infatti la stessa Rosa a denunciare la sorella conoscendo altra realtà è grata ai suoi datori
circostanze. Se il personaggio ‘vittima’ di e gli altri futuri rivoltosi appena entrati in contatto di lavoro e non concepisce le prese di
questo film, infatti, può sembrare la stessa con il sindacalista Sam. posizione della sorella.
protagonista (nell’ultima parte del film, dopo la
rivolta, quando i manifestanti vengono portati In un dialogo straziante fra le due sorelle Maya
in carcere si scopre che su Maya pesa comprende la posizione di Rosa, non solo
81
POST-FORDISMO
passaggio dalla società del lavoro alla società dei lavori, ovvero dal lavoro protetto e stabile al lavoro flessibile e precario, a seguito di alcune modificazioni
contrattuali e tecnologiche.

1. la prima modifica la vede chi vive la Il post-fordismo è una forma di organizzazione della FLESSIBILITÀ E PRECARIZZAZIONE
fabbrica: l’arrivo dell’automazione, produzione, un fattore di disciplinamento della forza-
L’esistenza contemporanea è
quindi l’utilizzo delle macchine lavoro e uno strumento di ordine sociale.
caratterizzata da ‘l’usa e getta’
controllate da sistemi informatici che La produzione giunge non solo a regolare la fabbrica, ma
Bauman trasporta questa idea nuova
assolvono sempre di più i compiti una anche a costituire un parametro comportamentale per
del lavoro anche al modello sociale, un
volta svolti dagli operai. Dove una tutta la società
lavoratore che cambia costantemente
volta c’era una linea (catena di
le sue mansioni, anche nelle relazioni
montaggio) adesso ci sono delle isole Negli anni 70 c’è una importantissima trasformazione del
sociali avrà delle attitudini diverse,
(isole produttive, dove gli operai sono sistema produttivo.
basate sulla precarietà dei rapporti.
distribuiti). Principalmente saranno due aspetti ad avere una grande
2. La fabbrica si muove in relazione alla rilevanza e a differenziare la situazione dal fordismo al
domanda, la gerarchizzazione non post-fordismo:
avviene più dentro la fabbrica, non c’è
più la figura del capo opprimente, ma
l’oppressione arriva dal consumatore,
che impone tempi di lavoro alla
fabbrica, non c’è più chi cronometra i
tempi di lavoro o il sistema a cottimo.

82
TORICO SCIOPERO DI LAWRENCE
GLI OBIETTIVI DELLO SCIOPERO
• AUMENTO DEL SALARIO DEL 15% 1 gennaio, gli operai tessili di Lawrence, nel Massachusetts,
• DOPPIA PAGA PER GLI STRAORDINARI iniziarono uno sciopero di nove settimane
Lo sciopero del pane e delle rose del 1912 a • NESSUNA DISCRIMINAZIONE CONTRO GLI
Lawrence, in Massachusetts, fu una delle lotte più SCIOPERANTI
significative nella storia del lavoro degli Stati Uniti a • LA FINE DELLA DISCRIMINAZIONE PER I
causa del suo livello di organizzazione e LAVORATORI NATI ALL’ESTERO 65% della popolazione era residente statunitense da meno di
collaborazione attraverso le linee etniche e di genere dieci anni
[B1; B2]

l’aspettativa di vita era di meno di 40 anni per gli operai e un


terzo di questi moriva in meno di un decennio dopo aver
cominciato a lavorare

Lawrence, nota come "Immigrant City", era un vero


melting pot americano con residenti da 51 nazioni Workers of the World (IWW)
incuneati in sette miglia quadrate. Sebbene gli
scioperanti mancassero di una cultura e di una lingua
comuni, rimasero uniti in una causa comune.
La notizia dello sciopero venne pubblicata sui giornali
di tutto il paese. Venne eletto un comitato di sciopero; quattro rappresentanti per
[B1;B2] ogni gruppo etnico

L’opinione pubblica si è rivolta a favore degli scioperanti. Alla fine


dello sciopero le due parti hanno concordato un aumento dei salari
del 15%, e la promessa di non vendicarsi contro gli scioperanti. 

83
LO STORICO SCIOPERO DI LAWRENCE
Ai picchetti e ai cortei, i lavoratori portavano striscioni reclamanti “Bread and
Uno degli esempi emblematici del superamento di confini nazionali e Roses”.
barriere linguistiche per mano di operaie L’espressione deriva da una poesia scritta nel 1911, che recita in un verso:
Mentre le donne di Lawrence
continuavano a portare i
«Le nostre vite non devono essere sudate dalla nascita fino alla morte;
bambini alla stazione dei treni,
I cuori muoiono di fame come i corpi; dateci il pane, ma dateci anche le rose.
la polizia cominciò a picchiarle
Mentre marciamo, marciamo, innumerevoli donne morte
e arrestarle davanti ai loro figli,
gridano nel nostro canto la loro antica richiesta di pane.
creando un colossale scandalo
I loro spiriti laboriosi conoscevano poco dell’arte, dell’amore e della bellezza.
mediatico e polarizzando
Sì, è il pane ciò per cui lottiamo, ma lottiamo anche per le rose.» [C;4]
l’opinione pubblica a favore
dello sciopero.
Lo sciopero è stato d’ispirazione per una delle più importanti
organizzazioni socialiste di donne in America Latina: Pan y Rosas
Questa organizzazione esiste in Cile, Bolivia, Venezuela, Brasile,
Costa Rica, Perù, Messico, Argentina, Germania e Spagna. Soltanto in
Argentina conta oltre 5.000 affiliate.

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