Il Cinema Secondo Van Damme-1

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Simone Bedetti & Lorenzo De Luca

Il cinema secondo Van Damme


L’evoluzione del cinema d’azione
da Bruce Lee a Bruce Willis

© 2000 Castelvecchi S.r.l., Roma


ISBN: 8882101770
Indice

Il cinema secondo Van Damme.....................................................................................3

Van Damme con(tro) Godard di Roy Menarini.........................................................4

Parte prima. Sul cinema di Van Damme....................................................................6

Utopia e disincanto..................................................................................................7

Duri a morire..........................................................................................................23

Anime immortali....................................................................................................32

Fughe dalla realtà...................................................................................................43

Parte seconda. Nel cinema di Van Damme...............................................................45

Intervista a Jean-Claude Van Damme...................................................................46

I film di Van Damme.............................................................................................53

Siti Internet..................................................................................................................72

Bibliografia..................................................................................................................73

Ringraziamenti.............................................................................................................75
Il cinema secondo Van Damme

A Giuliano Donati,
il Van Damme mancato di Lainate
E a Fresno Bob, naturalmente
Van Damme con(tro) Godard
di Roy Menarini
docente di Storia delle teoriche del cinema
all’Università di Bologna, nonché saggista

Con un paio di calci in bocca ve la caverete

JOE

Negli Stati Uniti tutti ricordano che cosa stavano facendo quando Kennedy è stato
ucciso. Io ricordo perfettamente quando Van Damme è entrato a far parte della mia
vita. Stavo scrutando le locandine dei film proiettati nella mia città, e all’improvviso,
sulla pagina degli spettacoli, notai il viso penetrante e opaco ad ogni sentimento del
belga di ferro. Si trattava di Kickboxer, era il 1989, anno in cui entravo nella maturità
anagrafica, mentre il film mi chiedeva di essere ancora adolescente. A quel tempo
vivevo il tipico riflusso del giovane cinefilo, convinto che bisognasse espiare i troppi,
frastornanti Joel Silver con cure massicce di Bergman e Truffaut. Cosa vera e
sacrosanta, ma che mai, e dico mai, deve impedire l’amore per i generi come il
«cinema-Van Damme». Così, titubante ma desideroso, mi sono recato in un bigio
pomeriggio domenicale presso il fatiscente cinema Settebello di Bologna, e là ho
avuto la folgorazione. Un film orrendo, una storia patetica: ma un cinema nuovo, che
si organizzava intorno ai volumi umani-post-umani di un grande atleta dello schermo,
agli equilibri armonici della sua plastica classica, ai gesti fotogenici dell’ultimo eroe.
Stallone e Seagal erano serviti, mai più nulla sarebbe stato uguale a prima. Van
Damme era il migliore.
La conferma del fatto che non mi ero sbagliato, e che si possono amare insieme
Jean Luc (Godard) e Jean-Claude (V.D.), viene anche da questo bel libro, che spiega
in tutte le sue forme il fenomeno divistico del nostro combattente, analizza il suo
cinema (in cui si sono succeduti molti registi, anche grandi, ma che ha mantenuto la
sua immediata riconoscibilità) e lo risarcisce di ciò che mille Vice gli hanno
stupidamente tolto nelle sbrigative colonnine dei quotidiani di provincia. Non si
tratta, quindi, di affermare che Van Damme è Dio ma che Dio è un po’ anche in Van
Damme. Pensiamo al suo corpo, e facciamone un discorso iconografico: il body
building di Stallone non ha potuto alzarne la statura, gli avambracci di Seagal non ne
hanno nascosto l’imbarazzante pinguedine (facendone l’unico action-hero ripreso
solo dalla cintola in su), la muscologia cubista di Schwarzenegger tendeva da subito
al robotico. Van Damme è scultoreo come un antico discobolo e, come dicevo
poc’anzi, catalizza l’inquadratura sulle sue forme, rigettando o rielaborando quelle
proposte dai registi che lo hanno diretto. Ci vorrebbe un Panofsky per capire come
funziona la prospettiva nei suoi film, e gli strumenti della patafisica per giungere alla
verità di questo concentrato di «massa» che è l’eroe di Bruxelles.
Tra la Via Emilia e il West, tra il Benelux e Hong Kong, rubacchiando un po’
dell’immaginario hollywoodiano e un po’ di quello di Maciste, Van Damme non è
spettacolo da baraccone né kung fu fighter dalle performance attrattive. Cioè non fa
parte dei forzuti o neoforzuti che sempre il circo nella sua storia ha prestato al
cinema, ma non appartiene del tutto nemmeno ai generi performativi, che sono quelli
(musical, arti marziali, slapstick e porno) in cui a un certo punto il film si blocca per
lasciar spazio a performance quasi extranarrative, vero e proprio sistema delle
attrazioni. È chiaro che, come in un musical si attende principalmente il tip tap di
Astaire o in un Keaton d’annata ci si pregusta l’inseguimento comico e cinetico,
anche nei Van Damme movies il centro è lo scontro. Ma vi è una mitologia ulteriore,
una opacità del mito, una resistenza immaginaria che pesca da tutte le sacche del
genere-mosaico di cui ci parlano gli autori del libro.
Tutto ciò serve a sostenere due tesi fondamentali.
1) Questo non è un libro sul trash o un libro stupido su un fenomeno stupido. Per
fortuna non è neanche uno di quei volumi recenti in cui si sostiene che Antonio
Margheriti è meglio di Don Siegel. Questo è un libro sul cinema.
2) La ragione per cui questo è un libro sul cinema è che Van Damme è il cinema.

Come noto, per spiegare la vera natura del cinematografo bisogna studiare
avventura, azione, western e fantascienza. E, per comprendere l’intimo linguaggio del
cinema, oggi bisogna guardare Van Damme più che American Beauty. L’uno, piaccia
o no, spiega il movimento, le immagini, e le immagini in movimento (un po’ quello
che ha fatto Hong Kong, cinema totale degli anni Novanta); l’altro spiega che cosa si
può fare col cinema in quanto materia drammatica e narrativa. La macchina Jean-
Claude è come la macchina Jean Luc, sono gatti di cinema che lo abitano prima
ancora di «farlo».
Peccato non avere ancora tra noi gente come Roland Barthes. Che ci dica dove
vive Van Damme, se nell’Idea (come la Garbo) o nell’Evento (come la Hepburn). O
che ne analizzi la frangia, come fece per i romani di Mankiewicz. Abbiamo però
Bedetti e De Luca: non è poco. Fanno parte di quegli appassionati che danno fastidio
a noi accademici perché hanno altrettanta competenza e molta più capacità di osare,
inventare, bighellonare tra i campi del sapere. Questo libro arriva tra l’altro al
momento giusto. Dimostra che il cinema d’azione, in senso lato, merita studi e
trattati. Ricorda l’esistenza di un divismo muscolare e non solo etereo. Inoltre si pone
dopo l’instant book e prima del «coccodrillo». Il nostro Van Damme scricchiola, non
tira più i calci di una volta, va al ralenti da solo dopo che Woo lo ha trasformato in un
movimento d’avanguardia, insomma non è più lui.
Ma noi pretoriani ci crediamo ancora, magari confidando nella sua passione per la
classicità (dimostrata in Legionnaire).
Può anche essere più lento, ma l’uomo ha ancora il pugno pesante.

ROY MENARINI
Parte prima.
Sul cinema di Van Damme
Utopia e disincanto

Io non sono qui per salvare Rambo da voi,


io sono qui per salvare voi da lui.

COLONNELLO SAMUEL TRAUTMAN

Gli anni che spalancano le porte di Hollywood a Jean-Claude Van Damme


consumano le ceneri dell’utopia eroica. I trecento muscoli, scolpiti con sudore nelle
palestre di Bruxelles e volati a Los Angeles spinti da fame di gloria, si contraggono
dagli occipitali ai tendini di Achille per liberare ancora energia, ma sul tenue brillio
che si ostina a persistere primeggia un immaginario che ne esige la fine. Nelle cellule
e nei tessuti dei grandi pettorali, fino ai grandi glutei e ai bicipiti femorali,
quell’energia continua a scorrere, ma si innerva in ossa ormai slogate, e quando
Bloodsport (Senza esclusione di colpi!, 1987, di Newt Arnold) regala fama
internazionale al suo protagonista, il genere action comincia a disarticolarsi.

Un anno decisivo

Van Damme emerge al tramonto degli anni Ottanta, dopo che l’irruzione delle
major nel cinema d’azione ha provocato un’ennesima rivoluzione, destinata a
sopprimere ciò che aveva glorificato nel decennio al suo epilogo e ad affermare nuovi
modelli che si imporranno prepotentemente nell’ultimo bilustro del secolo.
Il 1988 è decisivo per l’action: Die Hard consacra l’epoca dell’accumulo
semiotico e della deflagrazione tecnologica, dell’iperbole e dello scherno. Con
naturalezza i personaggi esibiscono la propria finzione irridendo i modelli filmici da
cui provengono («Sei uno dei tanti americani che hanno visto troppi film di
avventura, un orfano di una cultura in rovina che crede di essere uno sceriffo, John
Wayne, o Rambo?», domanda Hans, il capo dei terroristi, a John McClane) e
avviando un processo di disillusione che si imporrà negli anni successivi. Ma il 1988
è anche l’anno in cui gli specialisti del cinema d’azione degli anni Ottanta – Stallone
e Schwarzenegger soprattutto – confermano la propria popolarità, e in cui si
affermano nuovi divi marziali (oltre a Van Damme, Steven Seagal).
Se immaginassimo il 1988 come l’anno che divide il cinema action in due –
equivalenti quanto incongruenti – fasi, e collocassimo nella prima fase, che
potremmo chiamare ancora «classica», o «moderna», i film precedenti Die Hard, e
nella seconda, che potremmo chiamare «postmoderna», o più correttamente
«ipermoderna», quelli inaugurati da Die Hard, il cinema di Van Damme si
collocherebbe esattamente nel mezzo, come Joe tra i Rojo e i Baxter.
Al confine di due immaginari

Potremmo dunque ripercorrere il racconto biografico di Van Damme e il suo sogno


hollywoodiano per celebrarne il trionfo e il fallimento; oppure potremmo
concentrarci sulle qualità performative dell’atleta, catalogare gli stili marziali che
ibrida per l’esibizione cinematografica, confrontandoli con quelli degli altri attori:
dimostreremmo, presumibilmente, la superiore competenza tecnica dei secondi e,
sicuramente, l’inferiore spettacolarità. Primo e unico al mondo, al cinema come
sguardo Van Damme oppone il cinema come calcio, e al cinema come corpo il
cinema come fisico. Ce n’è abbastanza, come si vede, per strutturare una teoria
cinematografica alternativa a quelle ufficiali. Ma ci limiteremo, come ogni libro che
aderisca con serietà all’oggetto trattato, a considerare il nostro argomento come
centrale, e la centralità di Jean-Claude Van Damme è secondo noi storica.
Nel corso del decennio che lo magnifica e lo degrada, Van Damme interpreta
infatti tutti i filoni del cinema d’azione, sperimentando (e subendo) le nuove tendenze
dell’action e, contemporaneamente, rinnovando la «vecchia» tradizione, collocandosi
in questo modo al confine di due immaginari. Il cinema di Van Damme comprende
infatti:
1) il martial art movie (No Retreat, No Surrender, Bloodsport, Kickboxer,
Lionheart, Double Impact);
2) l’arcade movie, anche nella forma di tournament movie 1 (Bloodsport,
Kickboxer, Lionheart, Streetfighter, The Quest, Sudden Death),
3) il prison movie (Death Warrant);
4) lo spy action (Black Eagle, Double Team);
5) lo science action (Cyborg, Universal Soldier, Timecop, Universal Soldier. The
Return);
6) il double action 2 (Double Team, Knock Off);
7) l’action urbano (Maximum Risk);
8) il western action (Nowhere to Run, Inferno, Hard Target);
9) il cinema di avventura (Hard Target, Legionnaire).
Questa catalogazione serve ai fini del nostro discorso per dimostrare – oltre
all’importanza storica di Van Damme – che il genere action, il quale raggiunge il suo
apice nel ventennio di chiusura del secolo, è un genere complessivamente privo di
identità, un genere-mosaico (spiegheremo cosa intendiamo con questo termine in un
prossimo paragrafo) prodotto dall’intera storia del cinema di genere americano.

1
Il «cinema del torneo», film cioè incentrati su un torneo di arti marziali durante il quale si
affrontano campioni di stili diversi. A partire da Bloodsport, il tournament movie identifica gran
parte del cinema di arti marziali occidentale, in particolare quello a basso costo. (N.d.A.)
2
L’action movie che presenta una coppia di coprotagonisti. Inaugurato da The Blues Brothers (Id.,
1980, di John Landis) e 48 Hours (48 ore, 1983, di Walter Hill) ma affermatosi con Lethal Weapon
(Arma letale, 1987, di Richard Donner), nella sua esibita «leggerezza» il filone evidenzia la sua
provenienza comica, che trova le sue radici nel cinema di Laurel e Hardy, Abbott e Costello, Lewis
e Martin. (N.d.A.)
Van Damme è l’unico attore che, fino a oggi, si è dedicato esclusivamente
all’action (al contrario di Stallone o Schwarzenegger, che hanno trovato
consacrazione ufficiale a Hollywood con incursioni in altri generi, in particolare nella
commedia), e che allo stesso tempo si è confrontato con tutti i filoni più
all’avanguardia del genere, svincolandosi dalle produzioni di nicchia senza però
riuscire ad affermarsi come attore tout court, e a liberarsi dal dequalificante marchio
di «minore».

Alla ricerca di un modello

Si possono individuare alcune tipologie narrative che caratterizzano il cinema


d’azione e definiscono i meccanismi consueti nell’intreccio e nella costruzione dei
personaggi. Questo gruppo di intrecci-base e aree tematiche costruisce la morfologia
del cinema d’azione. Un film è un film action se:

La storia si concentra sul punto di vista di un personaggio, l’eroe, che diventa il


centro della narrazione (gli eroi possono essere al massimo due).
Il tempo dell’azione è limitato.
L’eroe è un solitario e si pone sempre contro l’autorità.
L’eroe manifesta sempre uno stato di crisi (privato e professionale), vive in maniera
conflittuale il rapporto con la famiglia – se ne ha una – e con i colleghi, e spesso viene
emarginato dal gruppo di riferimento.
L’eroe è generalmente un poliziotto, un investigatore privato, un militare o ex-
militare. Anche quando il suo ruolo attuale è marginale, ha spesso alle spalle un
passato eccellente. Quel passato può nascondere un segreto che pesa sul suo presente,
e che lo ha reso cinico e disilluso.
L’eroe si trova in lotta contro il tempo, deve confrontarsi con il fattore «conto alla
rovescia».
L’eroe è in continuo pericolo di morte.
Almeno una volta, l’eroe partecipa a un inseguimento: questo può avvenire a piedi o
con mezzi di trasporto e può sfruttare tutti gli ambienti naturali. L’esito
dell’inseguimento è altamente spettacolare e nella maggior parte dei casi si conclude
con la distruzione del mezzo di trasporto.
L’eroe si trova in una situazione da cui è impossibile salvarsi. Lui però riesce
sempre a farlo.
C’è un largo, anche eccessivo, impiego di armi.
C’è un ampio, anche eccessivo, dispiego di fiamme ed esplosioni.
La violenza è molto elevata. Si può contare un elevato numero di morti e feriti.
C’è un uso – anche moderato – di effetti speciali.
L’eroe, casualmente o involontariamente, perturba un ordine precedentemente
costituito; sventando i piani di un gruppo organizzato guidato generalmente da una
mente logico-razionale.
C’è almeno uno scontro a fuoco.
C’è almeno un combattimento corpo a corpo.
L’eroe rimane contuso, ferito, ustionato, lacerato, modificato fisicamente nel corso
della narrazione. Quando viene imprigionato può essere torturato. Ma riesce sempre a
risorgere. Nei rarissimi casi in cui muore, ciò avviene per una diretta volontà, per un
sacrificio volto a salvare i più deboli.
L’eroe può incontrare e salvare una donna (o un bambino).
Ciò che spinge l’eroe all’azione è il desiderio di vendetta, di riscatto, o una fede
quasi fanatica verso il suo lavoro e il senso di giustizia.
La tecnologia tende ad assumere sempre maggiore importanza.
L’ambientazione prediletta del cinema di azione è la città, soprattutto la metropoli;
ciò non costituisce però una caratteristica esclusiva. Non di rado, infatti, l’eroe si
avventura in foreste, montagne, deserti, o in località esotiche (Estremo Oriente,
soprattutto).

Si può però osservare come ogni punto di questo elenco possa trovare collocazione
in altri generi storicamente antecedenti: western, avventura, noir, guerra, poliziesco
possono equamente spartirsene ogni voce.
Si potrebbe obiettare dunque che, essendo il risultato di un patchwork di generi, di
un assemblaggio di elementi eterocliti, in realtà il genere action non esista, o
perlomeno non intrinsecamente. A ciò si potrebbe rispondere che secondo il
buddhismo tibetano e la poetessa Sylvia Plath niente, intrinsecamente, esiste, ma
sarebbe una risposta disonesta e poco pertinente in questa sede. Più appropriatamente,
si potrebbe controbattere sostenendo l’esistenza formale del cinema d’azione. Il
montaggio serrato, i rapidi movimenti di macchina, l’elevatissimo numero di
inquadrature che sfaccettano il punto di vista in schegge di fotogrammi
distinguerebbero il testo action dagli altri testi generi; calcolatrice alla mano, si
potrebbero misurare le frazioni di secondo di un’inquadratura e, operando acute
proporzioni, si potrebbe stimare la durata e quantità media dei piani utilizzati in un
dialogo o quante volte la macchina da presa sperimenta soggettive ardite dal mezzo
mobile durante un inseguimento, o quante volte ancora la steadycam interviene per
risolvere una sparatoria. Anche in questo caso, però, gli oppositori avrebbero gioco
facile a rispondere: certo, direbbero, l’accelerazione e la rapidità sono figure
caratterizzanti del cinema d’azione, ma non originali; anzi, esse provengono sempre
dai linguaggi specifici di altri media (il videoclip, la pubblicità, la televisione) e
contraddistinguono tutto il cinema contemporaneo. L’iperbole di per sé non è
sufficiente a dimostrare l’esistenza del genere, è solo il risultato algoritmico di un
processo formale che accomuna i discorsi di tutti i generi (western, fantascienza,
horror, avventura e persino commedia); la grammatica action (montaggio serrato3,
ralenti, enfatizzazione dei movimenti di macchina) deriva insomma da grammatiche
precedenti, così come gli strumenti per scrivere quella grammatica: carrelli, dolly ecc.
Persino la steadycam, prediletta nell’action, viene usata per la prima volta in un film
horror.
A questo punto non ci resterebbe che arrampicarci sugli specchi della semiotica e
sostenere che se si sommano i numeri corrispondenti alle lettere dell’alfabeto (A=1,

3
Già la famosa sequenza dell’inseguimento de The French Connection, per esempio, girata in un
periodo complessivo di tre settimane, alterna una rapidissima sequenza di inquadrature, e gli stacchi
di montaggio sono più di 150. Cfr. D. Catelli, Friedkin, il brivido dell’ambiguità, Ancona,
Transeuropa, 1997. (N.d.A.)
B=2, C=3 ecc.) di comedy, adventure, science fiction, western, musical e horror si
otterrebbe rispettivamente il risultato di 65, 89, 134, 104, 78 e 92, mentre il risultato
corrispondente di action sarebbe 62, cioè un numero diverso da tutti gli altri; quindi,
perlomeno da un punto di vista alfabetico, il genere esiste; oltretutto 62 è il numero
più basso di tutti, pertanto, in questo senso, l’action diventerebbe il punto di arrivo e
di inizio del circolo matematico-cabalistico-semiotico inaugurato dal numero 45,
quello corrispondente alla parola cinema (uguale in italiano, in inglese e in francese,
dove il cinéma nacque una sera del 1895, la cui somma – 1+8+9+5 – darebbe 23, e la
cui parola corrispondente sarebbe ahie, cioè un’esclamazione di gioia per la nascita
della Ottava Arte). A questo punto, però, saremmo pronti per il ricovero.

Un genere-mosaico

Condividiamo piuttosto, per tentare di definire il genere action, quanto dice José
Maria Latorre a proposito del cinema d’avventura4:

Non esistono generi cinematografici allo stato puro. A causa della sua stessa natura
il cinema propende, per principio, alla mescolanza, alla contaminazione culturale, alla
diversità (armonica e disarmonica), alla commercializzazione di idee altrui, a servirsi
di linguaggi di provenienza diversa, e non permette che esista una qualsivoglia purezza
naturale.5

Ancora più del cinema di avventura, dal quale – come da altri generi – l’action
proviene, il cinema d’azione può essere definito un genere impuro, prodotto da un
media impuro quale è il cinema. Esito di un processo storico ricettivo a tutti gli
influssi culturali, il cinema action tende a cooptarli per le proprie funzioni creando
successivamente un’autonoma sintassi.
Sotto quest’ottica, l’action costituirebbe dunque un elemento fondamentale della
grammatica dei generi «mitici»6 hollywoodiani e, attraverso la loro storia linguistica
e formale, arriverebbe a costituirsi in linguaggio autonomo all’inizio degli anni
Ottanta; a tale metafora linguistica preferiamo però una metafora naturalistica, più
indicata secondo noi a descrivere la ricchezza storica e morfologia del genere.
Intendiamo l’action come un sistema complesso, cioè, nella definizione data dà
Alberto Gandolfi6, come un «sistema aperto, formato da numerosi elementi che
interagiscono fra loro in modo non lineare e che costituiscono una entità unica,
organizzata e dinamica, capace di evolvere e adattarsi all’ambiente». Il cinema action
4
J.M. Latorre, Avventura in cento film, Genova, Le Mani, 1999. (N.d.A.)
5
Condividiamo il pensiero di Latorre anche se ci pare si contraddica poche pagine più avanti,
accusando alcuni film moderni d’avventura, come Raiders of the Lost Ark o Romancing the Stone
(All’inseguimento della pietra verde, 1984, di Robert Zemeckis) di aver impunemente saccheggiato
il cinema classico, quasi a voler, nonostante tutto, conservare una qualche purezza originaria.
(N.d.A.)
6
A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Per una introduzione al
paradigma della complessità si veda inoltre R. Marchesini, Il concetto di soglia, Roma, Theoria,
1996, e M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità, Milano, Feltrinelli, 1986. (N.d.A.)
è innanzitutto un sistema aperto, nel senso che è in comunicazione con il suo
ambiente (il cinema) attraverso dei flussi continui di interazione (con gli altri generi e
con gli input extracinematografici); è inoltre un sistema non lineare, ovvero che non
procede secondo una linea diritta di causa-effetto ma che si organizza secondo
processi a rete, che coinvolgono più in generale lo sviluppo dell’immaginario e dei
linguaggi, non solo cinematografici, e ne caratterizzano l’imprevidibilità del
comportamento. È inoltre un sistema capace di evolversi e adattarsi nel senso che,
seguendo ancora Gandolfi,

i sistemi complessi non sono entità statiche in balia dell’ambiente, bensì organismi
dinamici, capaci di “sentire” cosa succede nell’ambiente che li circonda, di reagire in
modo intelligente a questi stimoli e mutamenti ambientali, di evolvere, trasformando le
loro stesse strutture in modo da adattarsi all’ambiente.

Applicare il paradigma della complessità al cinema significa studiare la storia del


cinema attraverso l’irriducibilità dei suoi processi evolutivi, e significa altresì pensare
al cinema non come a una struttura che può essere costruita e/o decostruita, ma come
a un sistema vivente che muta attraverso le interazioni. Significa soprattutto
considerare elementi concettuali come la «ridondanza», cioè la disponibilità sempre
maggiore di funzioni rispetto a quelle necessarie, la «somatosensorialità», cioè la
sensibilissima ricettività agli stimoli esterni, e la «contingenza» delle variazioni e
ibridazioni dei processi culturali, cioè la loro effettiva storicità.
Il genere action è dunque il risultato di un processo filogenetico, quindi può essere
osservato attraverso il suo sviluppo diacronico, e costruisce la propria mutevole
identità grazie alla continua interazione e ibridazione (nonché mosaicizzazione) con
gli altri generi e gli stimoli esterni, in un complesso flusso sincronico. In questo senso
l’action è un genere-mosaico, perché è formato da embrioni della stessa specie (la
specie «cinema di genere»), ma è anche un genere-ibrido, perché il suo discorso e la
sua morfologia si modificano attraverso le continue interazioni con l’ambiente
esterno.
Seguendo a ritroso la filogenesi dell’action, il nostro «viaggio allucinante» ci
condurrebbe alla letteratura popolare americana di metà e fine Ottocento, alle soglie
della nascita del cinema.

Avventurosi progenitori

Quando Jean-Claude Van Damme era ancora un calcolo probabilistico e i suoi


muscoli una possibilità genetica dispersa nei cromosomi degli antenati, un suo
lontano parente, se fosse vissuto negli Stati Uniti della seconda metà del secolo XIX
invece che nell’Europa di Bismarck, avrebbe potuto leggere Malaeska, la moglie
indiana del cacciatore bianco, una delle dime novels più in voga all’epoca. Le dime
novels, che prendono il nome dal loro prezzo – un dime, cioè dieci centesimi – erano
riviste della foliazione di 32 pagine stampate su carta di bassa qualità e
racchiudevano racconti sulla Frontiera, su pirati e su eroi delle praterie,
successivamente sostituiti – con un processo analogo a quello che si sarebbe
verificato nel cinema americano7 circa un secolo più tardi – da storie ambientate nelle
metropoli.
Verso la fine del secolo, ai protagonisti delle dime novels nella letteratura e
nell’immaginario popolari si sostituiscono gli eroi dei pulp magazines 8, riviste
sempre economiche ma di grande formato e di circa 192 pagine. Nasce così «la
fortunata forma di intrattenimento delle masse, destinata a influenzare, direttamente o
indirettamente, varie espressioni culturali, a partire dal cinema, per tutto il secolo
ventesimo che sta nascendo» geni che andranno a formare il genotipo del cinema di
genere cominciano così la loro evoluzione: i pulp magazines raccontano storie di
guerra, western, di avventura, di fantascienza e di mistero, e risvegliano le emozioni
più immediate dei lettori – giovani e adulti – che si identificano negli eroi pulp come
Doc Savage, l’Ombra o Maschera Nera. Il rapporto con il cinema che sta nascendo è
diretto:

Soprattutto il pulp ha dimostrato, fin dalla sua nascita a cavallo tra l’Ottocento e il
Novecento, di sapersi intrecciare inestricabilmente con la vita, la cultura e le forme
d’arte d’America, e aprire al cinema. Il pulp sa toccare direttamente le viscere del
lettore come dello spettatore cinematografico. Non a caso il testimone passa subito dai
primi pulp magazines ai primi serial cinematografici, in un gioco di rimandi che si
protrarrà fino ai nostri giorni9.

Alla nascita del cinema corrisponde infatti la nascita dei primi serial
cinematografici, e a Doc Savage, l’Ombra e Maschera Nera si aggiungono The
Adventures of Kathlyn (1913), The Perils of Pauline (1914), The Broken Coin (1915),
The Crimson Stain Mistery (1916).
I primi serial duravano generalmente dai quindici ai quarantacinque minuti,
accompagnando la proiezione del film principale 10; puntualmente le storie si
interrompevano nel momento cruciale dell’azione, quando l’eroe era sospeso
sull’orlo di un precipizio o prigioniero tra le fiamme – consuetudine che prese il
nome di cliffhanger – affinché gli spettatori accorressero all’episodio successivo per
seguire con il fiato sospeso come l’eroe sarebbe riuscito a salvarsi. L’embrione
dell’action è così formato dai cromosomi della narrativa popolare e dello spettacolo
cinematografico. La nostra storia potrebbe finire qui, poiché nel corredo genetico
sono già contenuti tutti i geni regolatori dell’action, l’inizio di un processo evolutivo
che ne comporrà la morfologia.

Corpi nella polvere

7
O anche nel cinema di Hong Kong, quando negli anni Settanta i film di gongfu si inurbarono nel
modern day action. (N.d.A.)
8
L’èra dei pulp magazines fu inaugurata nel 1896 dalla rivista «Argosy», proprietà dell’editore
Frank Munsey. Cfr. P. Aleotti, La Hollywood dell’era pulp, Roma, Editori Riuniti, 1999. (N.d.A.)
9
Aleotti, La Hollywood dell’era pulp, cit. 11. Ibidem. (N.d.A.)
10
Inaugurando una tradizione che sarebbe proseguita almeno fino agli anni Sessanta. (N.d.A.)
Negli anni Trenta maturano i generi che confluiranno nell’action. Nel 1930 esce
Little Caesar (Piccolo Cesare, di Mervyn Le Roy), nel 1931 The Public Enemy
(Nemico Pubblico, di William A. Wellmann) e nel 1932 Scarface, Shame of a Nation
(Scarface, di Howard Hawks); nel 1932 escono anche Tarzan, the Ape Man (Tartan,
l’uomo scimmia, di W.S. Van Dyke) e The Most Dangerous Game (La pericolosa
partita, di Ernest B. Schoesdack e Irving Pichel): con questi film si definiscono i
modelli del gangster movie e del cinema d’avventura. Per quanto riguarda il western,
il genere cinematografico americano per eccellenza secondo André Bazin, il discorso
si fa leggermente più articolato: prima ancora di Ford, De Mille e Walsh, infatti, i
geni western che costituiranno il cinema d’azione – compresi il respiro epico e la
funzione poetica e retorica della violenza – sono presenti in The Great Train Robbery
(1903, di Edwin S. Porter) e nei film di Thomas Harper Ince e David Wark Griffith,
per convergere nel cinema dei maestri attraverso i serial sonori di Robert N.
Bradbury11. Si può dire, però, che film come Stagecoach (Ombre rosse, 1939, di John
Ford) e Union Pacific (La via dei giganti, 1939, di Cecil B. De Mille) siano
fondamentali della storia del genere-mosaico per la mitologia degli eroi e per la
funzione centrale dell’azione, dello scontro a fuoco, del combattimento corpo a
corpo, della violenza12.
Dalla polvere dei vicoli e dei deserti si solleva il mondo che questi generi
rappresentano e inventano: un mondo duro, spietato, selvaggio, pericoloso. In questo
«stato di guerra» hobbesiano domina la cupiditas naturalis dei malvagi, la legge del
più forte; l’odio e la violenza premiano i feroci e sottomettono i deboli e gli indifesi,
che si appellano alla benevolenza degli dèi; e gli dèi li accontentano donando loro gli
eroi. Gli eroi – e gli antieroi – sono archetipi morali che partecipano dell’inferno
degli uomini e immolandosi lo salvano («È questa dunque la fine di Rico?», ansima
Cesare Enrico Bandello nel tragico finale di Little Caesar); oppure con la violenza
difendono i deboli dalla violenza stessa, con le armi strette in pugno sconfiggono il
Male e fanno trionfare la giustizia. L’eroe corre a piedi, a cavallo, salta sugli alberi,
insegue o è inseguito, è sempre al centro della battaglia, conosce e usa il linguaggio
degli abietti, le tecniche del Male; è il più spietato degli spietati, il più cattivo dei
cattivi («Ci sono solo due categorie di persone: i cattivi e i molto cattivi; ma noi
siamo giunti a un accordo e chiamiamo buoni i cattivi e cattivi i molto cattivi»,
diceva Fritz Lang), ma le sue gesta o il suo sacrificio ristabiliscono un equilibrio.
11
Con protagonista John Wayne. (N.d.A.)
12
In particolare Union Pacific, la cui spettacolarità e la funzione centrale dell’azione contengono i
caratteri dell’action; lì infatti troviamo «la corsa contro il tempo della posa dei binari; i pestaggi con
chi spara agli indiani per diletto o con chi antepone il salario al senso del dovere; l’attacco dei
pellerossa, che deragliano il treno, facendo precipitare sulla locomotiva in corsa la grande cisterna
d’acqua, il sacrificio del macchinista al collaudo del tronco ferroviario sulle montagne innevate; il
vile agguato finale» (A. Viganò, Western in cento film, Genova, Le Mani, 1994). Sempre Viganò
commenta: «Il western di De Mille appartiene a un’epoca in cui il cinema non si vergognava del
piacere di narrare. Con tanti luoghi comuni e una certa vocazione all’eroismo celebrativo. Ma anche
con un sorprendente senso del ritmo e una personalissima capacità di catturare lo spettatore nel
flusso continuo degli avvenimenti». Lo stesso giudizio può essere riferito ai migliori autori action
degli anni Ottanta e Novanta come John McTiernan, Renny Harlin, John Woo. (N.d.A.)
Dalle foreste ai deserti, dalle paludi ai villaggi, dagli oceani alle metropoli la purezza
dell’eroe ripristina la legge, nel cinema come nel mondo.
Gli eroi del gangster movie e del western si completano in un rapporto speculare,
nel doppio del chiaroscuro estetico e tematico (come i gemelli Alex/Chad in Double
Impact e Alain Moreau/Mikhail Suverov in Maximum Risk): al mondo notturno e
fumoso degli angoli delle metropoli fanno da contrappunto le esplosioni di luce sulle
rocce dei deserti o delle praterie; alla claustrofobia dei vicoli il respiro dei grandi
spazi; all’espressionismo del bianco e nero di The Public Enemy il fragore del
technicolor di Duel in the Sun (Duello al sole, 1946, di King Vidor); al nichilismo
solenne degli antieroi gangster l’epos ottimistico degli eroi western. Speculare è
anche il movimento simbolico che li contraddistingue: verso il basso quello degli
antieroi gangster, verso l’alto quello degli eroi western.
In comune hanno la solitudine e la violenza. Quando il tempo si chiude sul destino
degli eroi, strade e sentieri restano disseminati di cadaveri, di corpi svuotati di vita
che pesano nella polvere. Questo è il prezzo da pagare per il trionfo della legge.

Il gene della violenza

Un compendio della storia dell’action fino a Van Damme diventa anche un


compendio della storia della violenza nel cinema americano. Sociologici e critici
sono divisi tra chi reputa la violenza sullo schermo come uno specchio di quella reale
e chi come la sua principale causa. Qui non si intende intervenire nel dibattito: la
nostra metafora evidenzia però come il processo filogenetico del cinema di genere
rinforzi il gene-violenza fino a renderlo un fondamentale regolatore del genotipo
action. Sostenere che tale evoluzione sia dovuta anche all’assenza forzata del gene-
sesso (altro gene regolatore di fondamentale importanza per il corredo genetico del
cinema popolare) – assenza dovuta a una sorta di volontà «eugenetica» delle
istituzioni americane, almeno dai tempi del codice Hays – sarebbe
un’argomentazione forse non trascurabile, ma ciò che è in questa sede più pertinente
è come tale gene «egoista» si sia evoluto fino agli anni Ottanta.
«Per far veramente vedere la violenza agli spettatori di oggi, bisogna sbattergli il
muso dentro», diceva negli anni Settanta Sam Peckinpah, e a partire dalla seconda
metà degli anni Cinquanta il muso degli spettatori resta sempre più contuso sbattendo
contro le ossa della violenza. Sono registi come Samuel Fuller 13, Budd Boetticher,
Don Siegel, John Sturges, Robert Aldrich a operare, all’interno dei generi classici,
una secca sterzata a favore della violenza; se negli anni Quaranta i b-movie
preferivano le atmosfere gotiche e le tensioni psicologiche al furore dell’aggressività
esteriore, sia i low budget movies che i film ad alto costo cominciano sempre più a
lasciarsi sedurre dal fascino della violenza fisica.
Che abbia funzione estetica, politica o semplicemente commerciale, la violenza
diventa sinonimo di spettacolo; contemporaneamente il ritmo narrativo abbandona il
respiro classico per comprimersi intorno a nuclei asciutti e serrati, e i personaggi

13
Per il quale «i film sono come una battaglia: l’amore, l’odio, l’azione, la violenza e la morte: in
una parola l’emozione». (N.d.A.)
diventano raccordi intertestuali che ottengono un effetto di immediata presa sul
pubblico in quanto presuppongono modelli consolidati. I nuovi eroi agiscono spinti
da motivi personali (soprattutto per vendetta), svincolandosi dal «mito della
fondazione» della società americana e agendo anzi contro e nonostante le regole di
quella società. Conservano gli stessi valori dei loro progenitori, ma quei valori adesso
li emarginano perché anacronistici rispetto al disincantato mondo moderno. In questo
senso possono essere chiamati reazionari: nonostante la sconfitta storica di quei
valori, infatti, i nuovi eroi, isolati come virus dal sistema, in nome di quei valori
continuano a combattere. Il processo di mitizzazione dell’eroe popolare
cinematografico prosegue dunque attraverso la demitizzazione e il disincanto dei
valori che lo avevano fatto nascere14. Sono poste così le basi per il western
crepuscolare di Peckinpah (inaugurato nel 1961 da Guns in the Afternoon [Sfida
nell’Alta Sierra]) e la «politica della violenza» di Arthur Penn.
L’uso snello della violenza e quello commerciale del mito modificano i generi e ne
accentuano la resa spettacolare, inaugurando una stagione forse povera dal punto di
vista ideologico ma ricca da quello cinematografico: è il tempo del western
mitografico di Sergio Leone e dei film corali di guerra come The Guns of Navarone (I
cannoni di Navarone, 1961, di J. Lee-Thompson), The Great Escape (La grande
fuga, 1963, di John Sturges) e The Dirty Dozen (Quella sporca dozzina, 1967, di
Robert Aldrich). Sempre più il centro narrativo del film si identifica con quello
spettacolare, e sempre più il racconto trova nell’azione energia per alimentare il mito
e accrescerne il fascino. Avventura, inseguimenti, scontri a fuoco e a mani nude,
esplosioni, sangue e morti costituiscono grammatica e sintassi del cinema
spettacolare, un cinema certamente cinico ma persistentemente eroico.

Spyploytation

Nonostante gli abiti eleganti che indossa, il self control da nobile inglese che
mantiene in ogni situazione, la raffinata ironia che pensa di esprimere, James Bond è
uno dei personaggi più triviali che il mondo del cinema abbia regalato al pubblico.
Una vera manna, per l’action. Contemporaneo alla diffusione del blacksploitation e
del sexploitation, ciò che lo contraddistingue dai più «luridi» cugini è l’alto costo
necessario per produrlo.
Strutturato intorno al binomio preferito dal popolo moderno, «donne e motori»,
James Bond si rivela uno dei personaggi più genuinamente popolari della storia del
cinema, e quello che meglio incarna l’evoluzione dell’action. Già a partire dagli anni
Sessanta, ma con una spinta decisiva nei Settanta, i film di Bond procedono secondo
blocchi narrativi separati in cui l’azione – il centro della storia – è contrappuntata da
pause congegnate per lasciare il tempo agli spettatori di tirare il fiato, secondo uno
schema ritmico che caratterizzerà anche il cinema action. D’ora in avanti, le attese
del pubblico si concentreranno sul catalogo di ambienti, mezzi di trasporto, armi

14
È vero dunque, come scrive Viganò, che Sturges tende a utilizzare i suoi personaggi come
«schemi funzionali alla conservazione di una mitologia», ma è anche vero che quella mitologia
varia sensibilmente rispetto a prima, fino a definirsi sempre più come mitografia. (N.d.A.)
tecnologiche usate nelle sequenze d’azione piuttosto che sulla qualità delle storie; il
regista della seconda unità e gli stuntmen assumono sempre maggiore rilievo; le armi
di Bond, come la famosa pistola PPK, raggiungono lo status di personaggi; l’azione
si allea con la tecnologia.
Con scioltezza Bond eccelle nella guida di tutti i mezzi di trasporto (aerei,
elicotteri, motoscafi, sottomarini, autobus, carri armati, asini, cammelli) e in tutte le
tecniche di combattimento con le armi e a mani nude 15. Il suo aplomb emolliente e le
sue battute grevi trovano casa sui precipizi dei ghiacciai come nelle ambasciate
europee. Sempre sospeso sul cliffhanger e sempre brillante nello scampare il pericolo,
Bond riesce a sventare i piani perfetti della Spectre e a salvare il mondo
disinnescando la bomba a -00h.00’.01”. Dell’avventura, Bond conserva l’esotismo e il
mistero, ma li «tecnologizza» in versione moderna, ponendosi come imprescindibile
modello del genere action.

Violenza, ideologia e quattrini: gli anni Settanta

Gli anni Settanta decidono le sorti del cinema d’azione. Siegel e Peckinpah
decretano il tramonto del western per trasfonderne i caratteri in ambientazioni
contemporanee; la metropoli sostituisce la Frontiera, gli eroi disincantati dei western
degli anni Cinquanta si tolgono cappello e cinturone per indossare giacca e fondina
ascellare. «L’apologia della violenza» di Sam Peckinpah fa esplodere la brutalità
della morte caricandola di significati estetici e ideologici; l’uso del ralenti espande
drammaturgicamente l’azione e il destino dei personaggi; gli scontri a fuoco
moltiplicano scoppi ed esplosioni; il sangue si versa copioso come un’emorragia;
inizia la pratica del body count, il conteggio dei morti in un film, che diventa il
palcoscenico di devastanti carneficine.
Come quelli di Peckinpah, gli eroi solitari e violenti di Don Siegel conservano
l’epica western, che però implode nell’individualismo reazionario – abbiamo già
descritto il senso che diamo a questo termine – degli «sporchi» Dan Madigan
(Madigan, 1968 [Squadra omicidi, sparate a vista!]), Coogan (Coogan’s Bluff, 1969
[L’uomo dalla cravatta di cuoio]), Harry Callaghan (Dirty Harry, 1971 [Ispettore
Callaghan: il caso Skorpio è tuo])16. Questa è gente che usa la violenza come l’unico
linguaggio che conosce, che risponde occhio per occhio – e se può anche peggio –
alla violenza dei criminali; agisce sempre più spesso per motivi personali; ha perso la
sacralità delle proprie azioni; fracassa teste, spezza braccia e gambe, disfa automobili

15
Oltretutto, la serie di James Bond è la prima a confrontarsi «seriamente» con le arti marziali: in
You Only Live Twice (Agente 007 si vive solo due volte, 1967, di Lewis Gilbert), Sean Connery è
impegnato contro una squadra di ninja; in Goldfinger (Agente 007 missione Goldfinger, 1964, di
Guy Hamilton), il cattivo di turno ha come guardia del corpo Oddjob, lottatore coreano abilissimo
nel lanciare la sua bombetta con la tesa metallica; Roger Moore vive inoltre in The Man with the
Golden Gun (Agente 007 l’uomo dalla pistola d’oro, 1974, ancora di Guy Hamilton) un’avventura
in Oriente nella quale deve scontrarsi con killer esperti in arti marziali. (N.d.A.)
16
Ma anche il Paul Kersey di Death Wish (Il giustiziere della notte, 1974, di Michael Winner).
(N.d.A.)
e mette a soqquadro le strade per inseguire il nemico. È la funzione ideologica della
violenza a segnare il passo di questi anni: Peckinpah, Siegel, Penn, Friedkin,
Coppola, Scorsese usano la violenza come forma di ribellione e di sopravvivenza dei
loro antieroi a una società disperata.
Contemporaneamente alla violenza cresce anche l’impatto spettacolare. Nel 1972
Peckinpah gira Getaway! 17; un anno prima uscivano The French Connection (Il
braccio violento della legge, di William Friedkin ) e Duel (Id., di Steven Spielberg):
in questi film lo spettacolo dell’inseguimento automobilistico diventa il fulcro della
narrazione. La new Hollywood risveglia le assonnate tensioni politiche e lo spirito di
ribellione, ma grazie ad essa subisce un’impennata irreversibile anche lo spirito
commerciale: saranno Jaws (Lo squalo, 1975, di Steven Spielberg) o Star Wars
(Guerre stellari, 1977, di George Lucas) e non Easy Rider (Id., 1968, di Dennis
Hopper) a caratterizzare la Hollywood del futuro, come saranno gli alti budget e non i
piccoli film, le favole meravigliose come Raiders of the Lost Ark (I predatori
dell’arca perduta, 1981, sempre di Spielberg) e non le piccole storie indipendenti a
imporsi nell’immaginario. La «nuova ondata» di giovani cineasti, animati da
un’indiscutibile genialità cinematografica ma, anche, da una spiccata sensibilità
commerciale, riscopre in Hollywood la Babilonia dello stupore infantile, la Lanterna
Magica che inebria gli occhi del bambino di Sleepy Hollow: nella sua fase più
politica, Hollywood svolta verso la sua fase più neotenica. Nell’Era Spielberg i film –
sempre meglio studiati, organizzati, preparati, cinematograficamente ed
extracinematograficamente raffinati – cominciano a diventare il segmento di
un’articolata produzione e promozione commerciale che integra gadget, serie
televisive e videogiochi: nasce il blockbuster.

Lo Spirito del Drago

Jean-Claude aveva tredici anni e si chiamava ancora Van Varenberg quando, nel
1973, usciva Enter the Dragon (I tre dell’operazione drago, di Robert Clouse).
Coproduzione americano-hongkonghese (Golden Harvest-Warner Bros), il film
lanciava nel firmamento cinematografico occidentale l’effimera stella di Bruce Lee, e
avrebbe cambiato la vita di «Muscoli da Bruxelles».
Senza Bruce Lee, il cinema di arti marziali non avrebbe mai assunto rilevanza
mondiale; il merito va senza dubbio alla capacità di Lee di aver operato una fusione
di Oriente e Occidente, conservando i caratteri espressivi tradizionali del gongfu (la
carica brutale di violenza, il virtuosismo coreografico degli scontri a mani nude)
adattandoli alla dimensione urbana e ai generi moderni, facendo inoltre emergere una
contrapposizione radicale tra le classi sociali e identificando l’eroe con il proletario.
Della violenza del kung fu Bruce Lee accentua inoltre il narcisismo, il gusto tutto
gratuito per lo scontro e la distruzione, parallelo a un non celato edonismo e culto per

17
Il film è sceneggiato dall’esordiente Walter Hill e ha come primo assistente alla regia Newt
Arnold, che dirigerà l’esordio da protagonista di Jean-Claude Van Damme, ossia Bloodsport.
(N.d.A.)
il corpo. Alla «despiritualizzazione» del kung fu spesso imputata a Lee corrisponde
un’irreversibile commercializzazione del genere hongkonghese, da cui il cinema
d’azione occidentale coopterà alcuni caratteri per adattarli a nuove funzioni,
accentuando soprattutto quegli aspetti che maggiormente faranno risaltare la
dimensione narcisistica e «ritualistica» della violenza del combattimento. Allo stesso
tempo, dal gongfu di Bruce Lee i film action erediteranno maggiore cura nelle scene
di scontro fisico e più attenzione alle tecniche utilizzate.
Non solo a influenze formali è però destinato a derivare l’incontro tra gongfu e
action: in particolare Van Damme dal cinema di Bruce Lee riceverà la medesima
tensione al riscatto sociale, allo scontro duro con il sistema da parte di una classe
oppressa e storicamente predestinata alla sconfitta. Grazie a Bruce Lee, Van Damme
costruirà i suoi personaggi più felici (il Frank Dux di Bloodsport, il Chad di Double
Impact, il Chance Boudreax di Hard Target e, soprattutto, il Leon Gautier di
Lionheart), uomini comuni ma dotati di una volontà dirompente, emarginati che
troveranno nella propria irriducibile determinazione – e nella loro perizia marziale –
la forza per risollevarsi e riuscire a vincere.

Il mosaico-Rambo

Si possono attribuire a First Blood (Rambo, 1982, di Ted Kotcheff) tutte le


caratteristiche ereditate o cooptate dal nuovo genere nel corso della sua formazione e
tutte le nuove componenti, tematiche e narrative, caratteristiche del cinema action,
perlomeno fino a Die Hard. Nel film emergono infatti, allo stesso tempo, la migliore
tradizione del western, dell’avventura e di altri generi, uniti a una dinamica
espressiva ereditata dal poliziesco degli anni Settanta e a elementi nuovi che lo
caratterizzano come «organismo» originale. Con First Blood, il cinema action trova
finalmente il suo corpo-mosaico, nella rete del sistema complesso cinema. Nel film
troviamo infatti:

Western

John Rambo è un solitario che arriva in un piccolo paese, Hope. Si scontra con lo
sceriffo del luogo, che non vuole vagabondi nella sua cittadina tranquilla («Lavati e
tagliati i capelli», gli dice).
Rambo torna in città per compiere la propria vendetta.

Poliziesco

Rambo fugge dalla prigione e ruba una motocicletta. Parte con un’impennata. Lo
sceriffo lo insegue con l’auto della polizia.
Dopo essere uscito dalla miniera, Rambo salta su un camion militare carico di armi
e si dirige verso Hope. Le auto della polizia si gettano al suo inseguimento.
Con il camion, Rambo forza un posto di blocco sfondando il muro di auto della
polizia18.

Avventura

Rambo viene ingiustamente accusato di un crimine che non ha commesso, e


arrestato19. Viene malmenato dai poliziotti.
Con indosso solo una canottiera e un paio di jeans, Rambo fugge e si rifugia nel
bosco20. In un ambiente ostile riesce a sopravvivere, cacciando e pescando con un
bastone, e fabbricando indumenti con oggetti trovati per caso (una corda e un telo),
grazie al suo coltello21.
Rambo resta prigioniero in una miniera e cerca una via di uscita. Striscia nel
liquame del labirinto sotterraneo mentre un nugolo di topi gli si avventano contro.
Riesce a uscire.

Cliffhanger

Inseguito dai poliziotti, dai cani poliziotto e da un elicottero, ormai accerchiato,


Rambo si trova sull’orlo di un altissimo precipizio e non ha via di fuga. Si getta nel
vuoto atterrando sugli alberi e procurandosi al braccio una ferita che sutura con ago e
filo del suo coltello22.
Rambo si rifugia in una grotta, ma viene individuato. Gli uomini della Guardia
Nazionale fanno esplodere con un colpo di bazooka l’ingresso della grotta. Rambo
viene dato per morto.

Horror

Nel bosco, mentre tuoni e lampi conferiscono all’ambiente un aspetto sinistro, i


poliziotti cercano Rambo, che sembra svanito nel nulla. Una a una scattano le
trappole preparate da Rambo contro i poliziotti, ormai nel panico.
Rambo emerge dalla terra e accoltella un poliziotto. Si getta su un altro poliziotto
dall’alto e lo ferisce. Lo sceriffo rinviene uno dei suoi uomini sanguinante a un
albero, legato gola e mani. Rambo tende un agguato allo sceriffo e gli punta il coltello
alla gola. Gli dice: «Potevo ucciderli tutti, potevo uccidere anche te. In città sei tu la
legge. Qui sono io. Lascia perdere. Lasciami stare o scateno una guerra che non te la
sogni neppure».
18
La scena è accentuata e dilatata dal ralenti. (N.d.A.)
19
Il tema dell’innocente ingiustamente accusato, imprigionato, costretto alla fuga e inseguito, si
trova sia nel genere western che in quello di avventura, e ha raggiunto l’acme espressivo grazie ai
film di Alfred Hitchcock. Ci pare però che le conseguenze avventurose della fuga – come accade in
Captain Blood (Capitan Blood, 1935, di Michael Curtiz), The Prisoner of Zenda (Il prigioniero di
Zenda, 1937, di John Cromwell) o The Most Dangerous Game – faccia appartenere il tema più al
cinema di avventura che agli altri generi. (N.d.A.)
20
L’ambiente del bosco è anche un elemento originario del fantastico. (N.d.A.)
21
Tale arma-personaggio, oltre a diventare uno status symbol negli anni Ottanta, identifica l’eroe
come la PPK di James Bond. (N.d.A.)
22
E dando il via anche alla seguitissima pratica della body art. (N.d.A.)
Guerra

Rambo è un reduce dal Vietnam.


Si scopre che Rambo è un eroe pluridecorato del Vietnam, un Berretto Verde.

Arti marziali

Quando ingaggia un corpo a corpo con i poliziotti, Rambo mostra di aver appreso
una precisa arte di combattimento.
A ciò si devono aggiungere

Elementi originali

Rambo distrugge un distributore di benzina, fa esplodere un’armeria e porta il caos


nelle strade di Hope.
Rambo esibisce il suo look con fascia in testa e doppia cintura di proiettili che
inguaina la sua portentosa muscolatura.

La figura di Rambo completa anche la storia degli eroi cinematografici (e


cinemitografici): Rambo è infatti odiato ed emarginato dall’intera società, sia dal
sistema sia da chi è contro il sistema23, e trova solo in se stesso, nella propria
23
Vale la pena, a questo proposito, di riportare per intero il dialogo finale tra Rambo e Trautman:
«TRAUTMAN: È finita, Johnny, è finita. RAMBO (urlando): Non è finito niente, niente! Non è un
interruttore che si spegne! Non era la mia guerra. Lei me l’ha chiesto, non gliel’ho chiesto io, e ho
fatto quello che dovevo fare per vincerla, ma qualcuno ce l’ha impedito. E il giorno che torno a casa
mia trovo un branco di vermi all’aeroporto che mi insultano, mi sputano addosso, mi chiamano
assassino e dicono che ho ammazzato vecchi e bambini. E chi sono per urlare contro di me, eh? Chi
sono, per chiamarmi assassino, se non sanno neanche che cavolo stanno strillando! TRAUTMAN:
Sono brutti momenti per tutti, Rambo, ma è finita ormai. RAMBO: Per lei, per me la vita civile non
esiste. In guerra c’è un codice d’onore, io copro te e intanto tu copri me. Qui non c’è niente!
TRAUTMAN: Tu sei l’ultimo di un gruppo scelto, non finire in questo modo. RAMBO: Io là pilotavo
gli elicotteri, guidavo un carro armato, rispondevo per attrezzature di milioni, qua non riesco
neanche a trovare lavoro come parcheggiatore! (Scaglia l’M-60 contro la parete. Poi scoppia in
lacrime, accasciandosi). Ma perché, perché? Dove sono finiti, i miei amici, dove sono finiti! Dove
sono finiti, tutti quei ragazzi! Dove sono finiti loro? Avevo tutti quei compagni intorno. Erano amici
miei, qui non c’è più nessuno. Si ricorda di Joe Pauli, mi disse “Quando torniamo, compriamo cento
biglietti della lotteria, vinciamo un mucchio di soldi e ce ne andiamo a Las Vegas”. Non faceva che
parlare di Las Vegas, e di comprarsi una macchina, una Chevrolet rossa decappottabile, lui parlava
sempre di quella macchina, diceva che ci voleva correre fino a che si consumavano le gomme.
(Piange). Noi stavamo in un granaio, arriva un ragazzino, con la sua scatola da lustrascarpe, e entra
e dice “Io lucidare prego, lucidare”, io ho detto di no ma quello continuava a chiedere e Joe ha detto
“Sì”, e io... io sono andato a prendere un paio di birre. In quella scatola c’era l’esplosivo, e quando
lui l’ha aperta il suo corpo è volato in aria in tanti pezzi. Era steso lì e urlava come una bestia, io
avevo i pezzi della sua carne maciullata addosso, ho dovuto, ho dovuto togliermeli da solo,
insomma io avevo i pezzi di carne del mio amico addosso, il sangue e tutto il resto! Cerco di
rimetterlo insieme ma le sue budella mi scappano sempre fuori, e nessuno mi aiuta! Non c’era
nessuno! Mi fa, “Voglio andare a casa, voglio tornare a casa”, e continua a ripeterlo, “Voglio andare
solitudine, la forza per recuperare, difendere e perpetuare i valori del passato, ormai
confinati alla dimensione dell’istinto, dell’animalità. L’identificazione con l’animale
(Rambo è cacciato come un animale, vive come un animale, è nudo come un animale
ecc.) accentua inoltre il narcisismo fisico, muscolare di Rambo, e la gratuità
dell’effetto e della violenza funzionali alla resa spettacolare e commerciale. Dall’eroe
archetipo all’eroe emarginato: l’action. e il pubblico hanno finalmente trovato un
modello.
A questo punto è dunque arrivata la storia del cinema d’azione quando Jean-
Claude Van Varenberg decide che il suo futuro sarà Hollywood.

a casa, Johnny, voglio guidare, andare sulla Chevrolet”, io non riesco neanche a trovare... a trovare
le sue gambe! Non posso dimenticarlo, e sono passati sette anni, e mi succede tutti i giorni. Certe
volte mi sveglio e non so neanche... non so neanche dove mi trovo. Non parlo con nessuno, a volte
per giorni, per settimane, ma come è possibile... come è possibile... Non posso dimenticarlo... non
posso... Che devo, che... che devo fare? Che... che cosa devo fare? Che cosa devo fare?». (N.d.A.)
Duri a morire

Non fa male, non fa male.

ROCKY BALBOA

Se il mondo non avesse bisogno di eroi, Menahem Golan non sarebbe diventato
ricco.
Spinto da un’unica, solidissima motivazione («Se in America giri un film con un
inizio, uno sviluppo, una fine e un budget che non superi i cinque milioni di dollari,
sei un idiota se perdi denaro»), il produttore-regista 24 israeliano dalla marcata
sensibilità popolare riesce a costruire – insieme al socio e amico Yoram Globus – un
impero decennale sulle emozioni più semplici del pubblico, dando volto e corpo a
storie dichiaratamente povere che ripetono, riciclano, manipolano i generi
cinematografici più in voga (horror, fantascienza e, soprattutto, action), regalando
altresì un’inattesa popolarità a un’armata di divi minori che negli anni Ottanta
conquistano il loro breve momento di gloria. Destinati a un mercato sempre più
globale, che si estende dal Medio Oriente all’Europa agli Stati Uniti alla Thailandia, i
film della Cannon Group costituiscono infatti la palestra internazionale per attori che
vivranno successivamente il salto nelle major, come Chuck Norris e soprattutto Jean-
Claude Van Damme, e per altri – la maggior parte – che rimarranno per sempre
confinati nell’ingeneroso mondo del b-movie, come Michael Dudikoff e David
Bradley.
In modo poco diverso da quanto praticano a Hong Kong Run Run Shaw e la sua
factory, la formula sperimentata dalla Cannon è semplice: clonare i successi
hollywoodiani e sfornare prodotti quasi sempre girati con pochi mezzi, con
sceneggiature spesso raffazzonate25, e diretti da professionisti che ne assicurano il
successo. Altre volte l’ingaggio di attori più noti – come Sylvester Stallone per Over
the Top (Id., 1986, di Menahem Golan) e Cobra (Id., 1986, di George Pan Cosmatos)
– fa rischiare budget più elevati in produzioni commercialmente più pretenziose, ma
non fa ottenere maggiori soddisfazioni, né qualitative né finanziarie.
È chiaro però che Golan-Globus interpretano in maniera efficace il bisogno di
consumo cinematografico e cinematografico del periodo, dando inizio a un’intensa
produzione di cinema d’azione, in particolare di cinema di arti marziali, che connota
la Cannon come la casa madre del martial art movie.
24
La sua carriera cinematografica comprende trentasette film, metà realizzati in Israele, dove è nato
il 31 maggio del 1929, e metà negli Stati Uniti. (N.d.A.)
25
Non mancano peraltro alcune «perle», come Avenging Force (Cacciatori della notte, 1986, di
Sam Firstenberg), Runaway Train (A trenta secondi dalla fine, 1985, di Andrej Konchalovsky,)
Space Vampires (Space Vampires, di Tobe Hooper, 1985). (N.d.A.)
Ninja Tune

Nelle esotiche foreste dell’Estremo Oriente gli eroi della Cannon trovano il loro
rifugio ideale. Per alimentare il mito dell’avventura e i fasti del gongfu, e per
abbattere i costi di produzione dei film, le storie emigrano nel Sud-est asiatico e
fanno incontrare i loro protagonisti con misteriosi maestri di arti marziali da cui
apprendono i segreti millenari delle pratiche esoteriche.
Alla cultura orientale il cinema della Cannon sottrae quegli elementi che,
nell’immaginario occidentale, conferiscono all’Oriente una superiore consapevolezza
esistenziale e spirituale: sorge così un nuovo guerriero, «mistico» e ascetico, migliore
e superiore agli altri esseri umani.
L’eroe marziale vive in Occidente dopo aver trascorso un periodo di formazione in
Oriente, nella maggior parte dei casi presso un maestro di arti marziali che lo ha
iniziato al kung fu o ad altri stili. All’Oriente come luogo reale di pratica si aggiunge
poi l’Oriente come luogo simbolico di rinascita, fisica e spirituale, a cui l’eroe
approda spesso dopo una fuga o una fase negativa della vita. In Oriente, e grazie
all’incontro con il maestro, la tensione escapistica dell’eroe si trasforma in riscoperta
di sé, in resurrezione: nel rapporto tra maestro orientale e allievo occidentale la
tradizione filosofica della reincarnazione del sapere si fonde con l’individualismo. Se
a Hong Kong – ma lo stesso discorso si può fare per il chanbara, il cinema di samurai
giapponese – l’accento tematico del gongfu classico era posto sulla nobiltà, di casta e
spirituale26, in Occidente il cinema di arti marziali assume una valenza iniziatica –
che regala all’eroe qualità divine o comunque tali da renderlo superiore a tutti gli altri
– e individualistica, dal tratto spiccatamente fumettistico (l’eroe apparentemente è
uno come tutti gli altri, ma nasconde un segreto, che sfrutta al momento giusto, per
spiccare il salto oltre la dimensione comune). Cooptata da una cultura pragmatica e
individualistica, la figura del maestro orientale 27 – dai modi bruschi e sbrigativi che
incontrano subito il favore del pubblico – assume i connotati di una macchietta
seriosa, dispensatrice di una saggezza che poco differisce dal senso comune e che
conferisce – a chi ne comprende i segreti – quelle qualità spirituali e fisiche grazie
alle quali si potrà trovare riscatto e successo nella vita, o compiere la propria
personale vendetta.
Nella serie Karate Kid questo processo di assorbimento del modello orientale in
quello occidentale si realizza pienamente: l’iniziazione di Daniel Larusso da parte del
maestro Miyagi fa parte del «romanzo di formazione», individualistico e
autoaffermativo, di un giovane americano, segnando allo stesso tempo una fase
26
Per perdere, da Bruce Lee in poi, tale eredità. (N.d.A.)
27
Mentre a Hong Kong il rapporto maestro-allievo emerge soprattutto in una serie di film dal taglio
comico, come Drunken Master (1978) e Snake in the Eagle Shadow ([Il serpente all’ombra
dell’aquila], 1978) – entrambi di Yuen Woo Ping con protagonista Jackie Chan – in Occidente – se
si eccettua Remo Williams: The Adventure Begins... (Il mio nome è Remo Williams, 1985, di Guy
Hamilton), che ripropone in chiave occidentale lo stesso spirito leggero degli action comedy – tende
a prendersi molto sul serio. (N.d.A.)
importante di riconoscimento e di accettazione da parte del gruppo in cui vuole
inserirsi.
Dopo il lungo periodo di riflusso seguito alla morte di Bruce Lee, la scoperta del
filone delle arti marziali riavvicina Hollywood a Hong Kong. A questo riaffiatamento
la Cannon Group contribuisce in modo decisivo riscoprendo il mistero e l’avventura
del Lontano Oriente e facendo nascere in Occidente il ninja movie. Con la prima serie
sui ninja – Enter the Ninja (L’invincibile ninja, 1981, di Menahem Golan), Revenge
of the Ninja (Ninja la furia umana, 1983, di Sam Firstenberg) e Ninja III: The
Domination (Trancers, 1984, anche questo di Firstenberg) – che lancia la breve
carriera di Sho Kosugi, l’Oriente della Cannon si distanzia da quello originale: dal
modello hongkonghese (come Return of the Deadly Blade di Chang Cheh, del 1981),
i ninja della Cannon ereditano l’abbigliamento completo (la shinobi, cioè la tuta –
nera o rossa o liberamente variopinta – completa di cappuccio, che rende il guerriero
invisibile come un’ombra28) insieme alle tecniche e agli strumenti più segreti e
spettacolari (le stelle intrise di veleno – shaken – i chiodi a tre punte, gli aghi
avvelenati, i fumogeni e gli esplosivi, le tecniche del shurikenjitsu, dell’invisibilità e
del jahojitsu, cioè della magia) e inaugurano un filone assai più profilico in Occidente
che in Oriente, grazie alla serie American Ninja 29, che fonde i caratteri del filone
orientale con quelli del cinema action inaugurato da First Blood, confezionando
prodotti di puro intrattenimento pieni di avventura, azione e violenza che il pubblico
– o perlomeno un certo tipo di pubblico – sembra gradire.

Atleti attori

Sono questi gli eroi della Cannon. Negli anni Ottanta il cinema, persino quello
popolare, è ancora una cosa seria, e lo stesso discorso vale per la pletora di divi che
spunta come l’erba cattiva nel prato diserbato di Hollywood: gli attori action sono dei
duri che vengono dal nulla, come tutti noi, che «ce l’hanno fatta» – per dirla alla
Charlie Crocker – solo con le proprie forze. Sono montagne di muscoli: nel loro
passato non c’è il teatro ma gli steroidi, i copioni che studiano sono gli estensori e i
bilanceri, le loro tecniche di recitazione i piegamenti e lo stretching, e amano esibire
il profilo degli sternocleidomastoidei e dei bicipiti piuttosto che il metodo
Stanislavsky. Sylvester Enzio Stallone si fa strada a spallate in una Hollywood che lo
rifiuta e riscuote successo con i personaggi disperati di Rocky Balboa e John Rambo;
Arnold «Mister Muscolo» Schwarzenegger è campione di body building e ha
interpretato Ercole invece che Amleto; Lou «L’incredibile Hulk» Ferrigno sfonda con
la testa muri di cemento armato; Jean-Claude «Muscoli da Bruxelles» Van Damme
28
“Ombra nera” è in effetti la traduzione letterale di ninja. (N.d.A.)
29
I film della serie del Guerriero Americano sono: American Ninja (Guerriero americano, 1986, di
Sam Firstenberg), American Ninja 2: The Confrontation (Guerriero americano 2: la sfida, 1987, di
Sam Firstenberg), American Ninja 3: Blood Hunt (Guerriero americano 3: agguato mortale, 1989,
di Cedric Sundstrom), American Ninja 4: The Annihilation (Guerriero americano 4: distruzione
totale, 1991, di Cedric Sundstrom), American Ninja 5 (Guerriero americano 5, 1992, di Bobby
Gene Leonard). (N.d.A.)
ha studiato danza, arti marziali e body building; Chuck «Mascella d’Acciaio» Norris
è stato veramente campione di karate; Steven «Collo di Marmo» Seagal ha insegnato
aikido in Giappone.
Per cingere d’assedio il cielo degli dèi, l’eroe action deve cominciare dal basso,
conoscere a fondo la fatica della povertà, la sporcizia delle strade, la brutalità della
violenza, le vessazioni quotidiane di una società sempre più spietata per assurgere
alla sfera divina in nome di quel popolo oppresso e angariato di cui lui stesso fa parte,
e riscattarlo: nelle favole edificanti che anche in Jean-Claude Van Damme troveranno
genuina incarnazione si attua ancora il bisogno di catarsi.
A presiedere i confini dell’immaginario sono eroi dai muscoli definiti come catene
montuose, statuari e immortali, superuomini pazzi che possono tuffarsi con il corpo
nelle fiamme della violenza senza ustionarsi. È il tempo in cui Ronald Reagan viene
visitato nei sogni dallo spirito di John Wayne, in cui l’individualismo americano ha
un’impennata di reazione al clima di rivoluzione cresciuto negli anni Sessanta e
Settanta, il tempo di Rambo e Terminator.

Ossa di metallo

Gli anni passati alla storia come culla del «rambismo» mostrano in realtà un alto
livello di complessità, e accentuano l’aspetto di contaminazione e ibridazione proprio
del cinema d’azione: con 48 Hours si impone il double action, il cinema di coppia,
che caratterizzerà il filone in senso marcatamente comico e fa nascere la stella
dell’action comedy Eddie Murphy, che incontrerà il suo personaggio di maggiore
successo tre anni dopo, impersonando l’agente Axel Foley in Beverly Hills Cop (Un
piedipiatti a Beverly Hills, 1985, di Martin Brest)30.
La violenza intanto cresce sfrenatamente, in un processo privo di equilibrio. Tutti i
generi ne sono coinvolti: dal fantasy di Excalibur (Id., 1981, di John Boorman)31 e
Conan the Barbarian (Conan il barbaro, 1981, di John Milius32) all’action di
Commando (Id., 1984, di Mark L. Lester) l’effetto raccapricciante diventa ormai
elemento espressivo fondamentale. Al trionfo delle emorragie di sangue e degli arti
mozzati si abdica la funzione di sbalordire, e contemporaneamente disgustare, lo
spettatore. D’ora in avanti, l’eroe action non risparmierà i sistemi più efferati per
eliminare i nemici, e il catalogo di «armi bianche» (coltelli, machete, oggetti
acuminati) si allungherà spropositatamente, l’ambiente di un combattimento corpo a
corpo sarà sempre più irto di pericoli, ci saranno sempre una piastra o una pentola
bollenti accese e destinate a ustionare la faccia di qualche malcapitato, o una pressa in
azione che maciullerà le gambe, le braccia o l’intero corpo del predestinato; il finale
di uno scontro sarà sempre più cruento: il cattivo sconfitto precipiterà su un’inferriata
30
Hong Kong si avvicina sempre di più, con il suo ludico spirito che assomma violenza e umorismo,
inaugurato da Jackie Chan e Samo Hung e proseguito da Stephen Chow. (N.d.A.)
31
Che già nove anni prima aveva travolto il pubblico con la spaventosa e primitiva violenza del
brutale Deliverance (Un tranquillo week-end di paura, 1972). (N.d.A.)
32
E fino a Braveheart (Id., 1995, di Mel Gibson) e Jeanne d’Arc (Giovanna d’Arco, 1999, di Luc
Besson). (N.d.A.)
appuntita e il suo sangue festeggerà in un tripudio cromatico la gioia della scoperta
del mondo, oppure finirà con il cervelletto spappolato contro un appendiabiti
appuntito o contro qualunque casuale sporgenza acuminata, o ancora – destino forse
più glorioso – esploderà in pezzi perché centrato in pieno da un’arma particolarmente
«pesante». Ciò offrirà lo spunto all’eroe per un consueto rito di battute conclusive: se
per esempio il nemico resta infilzato da un’inferriata, l’eroe gli dirà: «Non muoverti»;
se invece finisce il suo tempo di criminale precipitando da un grattacielo sul tetto di
un’automobile, l’eroe dirà «Parcheggiala bene», e così via, in un processo
«esilarante» che troverà sbocco nel cinema logorroico e autoironico degli anni
Novanta.
Almeno dal punto di vista della fortuna storica, gli anni del «rambismo» sono
soprattutto gli anni dell’innamoramento tra tecnologia e cinema d’azione. In questo
periodo, il processo di contaminazione tecnologica dei generi assume infatti la sua
forma definitiva grazie al capolavoro «technoir» – come l’ha definito Roy Menarini 33
(anche se per il nostro discorso sarebbe più corretto dire techno action) – Terminator
(Id., 1984, di James Cameron), l’erede più diretto dei due film «epocali», Escape
from New York (1997: fuga da New York, 1981, di John Carpenter) e Blade Runner
(Id., 1982, di Ridley Scott). Il cyborg immortale mostra le sue ossa sintetiche e con
esso il cinema action subisce il fascino della tecnologia mediato dalla fantascienza:
armi impossibili, sistemi computerizzati violati da intelligenze superiori irrompono
nel cinema, regalando maggiore sveltezza al racconto; per ottenere un’informazione
l’eroe o un suo assistente – di solito un esperto di computer grassoccio e unticcio che
vive recluso in una stanza nutrendosi di hamburger e popcorn – «violeranno», il
«sistema» dell’FBI o di qualche altra fantomatica megastruttura, e superando un
codice (ci sono sempre un codice o una parola d’accesso che ostacolano il successo
dell’impresa, e che dopo qualche veloce tentativo con febbrili digitazioni sulla
tastiera vengono individuati) in poco meno di un minuto risolveranno il problema.
D’ora in avanti, l’eroe action respirerà sempre più tecnologia, e Terminator assume
a posteriori il valore di doppia metafora: quella di trasformazione del corpo in metallo
e quella di sostituzione del metallo al corpo. Sempre più il cinema vivrà questa
trasformazione, fino a dissolvere, a far sparire, il corpo.

Il vecchio mondo di Carlos Ray

Povero Chuck Norris: in mezzo a tutte queste trasformazioni, il cinema di arti


marziali resta recluso al «bassomondo» della Cannon. Lui, cui si deve il rispetto –
perché è Chuck Norris – e l’onore di aver traghettato il martial art movie da Bruce
Lee agli anni Ottanta, resta tagliato fuori da Hollywood. È una star, è vero, ma già
quando è una star è destinato all’oblio. Negli anni Settanta si ostina a interpretare film
di arti marziali quando il filone sembra esaurito; negli anni Ottanta si aggrappa al
fiato corto del rambismo, e anche le poche produzioni a medio budget – come Code
of Silence (Il codice del silenzio, 1985, di Andrew Davis) – non riescono a regalargli

33
R. Menarini, James Cameron, Genova, Le Mani, 1998. (N.d.A.)
la fama che merita; negli anni Novanta naufragherà ai confini della dignità per
consumare il suo tramonto nel serial televisivo – che peraltro gli ridarà lustro –
«Walker Texas Ranger». Passerà alla storia minore di Hollywood come colui che ha
impersonato il cinema di arti marziali tra Bruce Lee e Jean-Claude Van Damme.
E oggi, in un immaginario così trasformato, i film di Norris hanno il sapore di
qualcosa di antico, come le frittelle di una nonna americana – le frittelle di Mamma
Abigail – che attende i nipoti per il pranzo del Ringraziamento in una qualche casetta
sperduta nella campagna del Kentucky, o come gli accordi della chitarra di Robert
Johnson suonati in una discoteca.
Norris è però una figura chiave nella biografia di Van Damme. Da lui, infatti, Jean-
Claude ottiene una parte da comparsa in Missing in Action (Rombo di tuono, 1984, di
Joseph Zito) e, soprattutto, con lui ingaggia una sfida personale che lo vedrà vincitore
nel 1988, grazie al trionfo di Bloodsport.

I duri anni di Hollywood

Durante gli anni in cui Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone e Chuck Norris
mostrano un fisico invidiabile sugli schermi di tutto il mondo, Van Damme è
completamente ignorato da Hollywood. Vola prima a Hong Kong, dove si presenta
ad alcuni produttori, che gli rifiutano però anche il più piccolo dei ruoli, dopodiché
emigra a Los Angeles, in cerca di fortuna. Ha già alle spalle una piccolissima parte
nel film francese Rue Barbare, e si sente pronto per diventare una stella.
A Hollywood il suo calvario dura ben sei anni, durante i quali affronta i mestieri
più umili: buttafuori, istruttore di aerobica, autista di taxi e limousine, pulitore di
tappeti, fattorino di pizze a domicilio.
Uno dei locali in cui lavora è di proprietà della moglie di Chuck Norris, e Van
Damme si trova per un certo periodo ad allenare la famosa stella delle arti marziali, il
quale, forse per invidia, non intende presentare il proprio sparring ai produttori e gli
offre soltanto una parte da comparsa nel film Missing in Action. Fino al 1987 Van
Damme colleziona soltanto parti irrisorie: balla per qualche minuto tra un gruppo di
californiani in Breakin’ (Breakdance, 1983, di Joel Silberg), interpreta un gay esperto
di arti marziali nello z-movie Monaco Forever di William A. Levey (1984), e quella
del russo Ivan in No Retreat, No Surrender, dove dispone di una sola battuta: «Io
sono il migliore! Io sono il migliore!».
Nel frattempo, cambia cognome (da Van Varenberg a Van Damme) e batte le aree
di parcheggio delle grandi compagnie per lasciare la fotografia e il numero di
telefono sui parabrezza delle auto dei produttori, ma invano. Poi, un giorno, avviene
l’incontro decisivo con Menahem Golan. Dopo aver cercato di incontrarlo per sei
anni, Van Damme si imbatte casualmente nel produttore all’uscita da un ristorante.
Per dimostrargli le sue potenzialità, Van Damme gli sferra un calcio laterale sopra la
testa; l’esibizione impressiona sufficientemente Golan, che gli porge il suo biglietto
da visita e lo invita a presentarsi, il giorno dopo, nel suo ufficio.
Puntualissimo, quando il sole è da poco alto nel cielo inquinato di Los Angeles,
Van Damme si presenta agli studi della Cannon, ma il gran capo è troppo impegnato
per riceverlo. Van Damme non demorde, e la settimana successiva si ripresenta.
Questa volta ha fortuna: Menahem lo riceve.
Jean-Claude si toglie la camicia, mette in mostra i bicipiti, i portentosi
sternocleidomastoidei e i latissimi dorsi, fa la spaccata sagittale in sospensione tra
due sedie e dice: «Non costo e sono molto bravo. Tu puoi fare un sacco di soldi con
me». Van Damme spera in una piccola parte in un film d’azione. Menahem gli offre
il ruolo di protagonista di Bloodsport.

Senza esclusione di colpi

Diretto da Newt Arnold34 con un budget molto limitato, prima dell’uscita il film
accusa molte difficoltà: in fase di postproduzione viene bloccato da Menahem Golan
e sospeso; riesce a trovare una distribuzione soltanto diciannove mesi più tardi, dopo
che Van Damme ha interpretato altri due film per la Cannon alquanto scadenti, Black
Eagle (Aquila Nera, 1988, di Eric Karson) e Cyborg (Id., 1989, di Albert Pyun). Con
grande sorpresa dello stesso Golan, il film è un successo internazionale, che fa
rinascere il martial art movie occidentale. Dopo Enter the Dragon, il tournament
movie torna inoltre a far breccia nel cuore dell’immaginario per identificarsi sempre
di più con il cinema di arti marziali e l’arcade movie, che negli anni Novanta
dominerà la produzione commerciale di Hollywood.
Bloodsport concentra tutta l’azione intorno al nucleo sportivo del torneo, sui
continui «duelli» a mani nude tra stili marziali differenti, come nella classica
tradizione hongkonghese delle rival schools. La «salita» dei livelli del torneo compie
anche il riscatto individuale di Frank Dux e del suo maestro Tanaka, che si completa
nella vittoria finale contro il massiccio Chong Li, durante la quale Van Damme
esibisce le sue migliori tecniche spettacolari – dal calcio circolare doppiato alla
spaccata sagittale – e mette anche in pratica l’iniziazione «spirituale» appresa in
Oriente.
Da Bloodsport e dal suo gemello Kickboxer (Kickboxer, il nuovo guerriero, 1989,
di Mark DiSalle e David Worth35), che inaugura il filone del kickboxing movie,
strariperanno centinaia di sottoproduzioni, destinate alle sale o direttamente al
mercato home video, in cui troveranno spazio campioni mondiali della specialità,
piccoli divi tenuti a battesimo da produttori spregiudicati (come la coppia Don “The
Dragon” Wilson-Roger Corman, che riesce a inanellare una sequela di pessime figure

34
Newt Arnold (scomparso il 12 febbraio 2000 all’età di settantatré anni) ha una lunga esperienza
nel cinema di genere, soprattutto come assistente alla regia e regista della seconda unità. Oltre ad
essere stato, come abbiamo visto, assistente di Sam Peckinpah in Getaway! (e Pat Garrett e Billy
the Kid, Killer Elite, Convoy, trincea d’asfalto), ha lavorato anche per Il padrino parte II, Blade
Runner, Wargames, giochi di guerra, Abyss, Jade. (N.d.A.)
35
DiSalle e Worth continueranno nella produzione di film a basso costo di arti marziali, il primo
dirigendo Jeff Speakman – già avversario di Van Damme in Lionheart [in realtà fa solo il ruolo di
una guardia del corpo, del tutto invisibile all’inquadratura. N.d.R.] – in Perfect Weapon (Arma
perfetta, 1991), il secondo [Lady Dragon] grazie a un breve sodalizio con la femme fatale
americana Cynthia Rothrock. (N.d.A.)
cinematografiche36) e atleti attori: Dolph Lundgren, Lorenzo Lamas, Jeff Speakman,
David Bradley, Jeff Wincott, Dominic Labanca, Jalal Mehri, Jerry Trimble
(campione mondiale di kickboxing nella categoria dei superleggeri e cintura nera di
tae kwon do), Dennis Keifer («K.I.C.K. U.S. Supermiddleweight Kickboxing
Champion»), Rod Kei («W.K.W. Bantamweight World Kickboxing Champion»), Val
Mijailovic («LK.A. Heavyweight World Kickoxing Champion»), Hyung Lee («U.S.
Tae Kwon Do National Champion»), Carolyn Raimondi («U.S. Tae Kwon Do
National Champion»), James Choi («U.S. National Collegiate Tae Kwon Do
Champion») eccetera37.

Cuor di Leone

Con Bloodsport e Kickboxer, e fino al termine del contratto con la Cannon, si


afferma lo stile marziale e cinematografico di Van Damme. In esso culmina il
narcisismo e l’edonismo fisico del cinema d’azione americano ma, a dispetto della
farraginosità corografica precedente, emerge anche una dinamica più fluida ed esatta.
Dilatati dai ralenti, o enfatizzati dalla moltiplicazione delle angolazioni da cui
vengono ripresi, i calci di Van Damme si espandono all’infinito in un tempo
artificiosamente dilatato, al fine di mostrare una perfezione plastica fino a quel
momento sconosciuta.
Nel corpo di Van Damme, Oriente e Occidente si incontrano, e nella sua
mescolanza di pesantezza e leggerezza due culture visuali differenti trovano un
linguaggio comune: il cinema di Van Damme è l’esito sincretico di due tradizioni di
spettacolo.
L’incontro tra Oriente e Occidente quasi si materializza in Double Impact
(Vendetta finale, 1991, di Sheldon Lettich), dove Van Damme interpreta il doppio
ruolo di Alex e Chad, uno cresciuto negli Stati Uniti e l’altro a Hong Kong.
L’ambientazione hongkonghese della vicenda suggella anche, simbolicamente, il
nuovo corso del cinema hollywoodiano affascinato dall’estetica del cinema di Hong
Kong, come vedremo nel prossimo capitolo.
Con questi due film si consolida inoltre l’affiatamento tra Van Damme e lo
sceneggiatore e regista Sheldon Lettich, che insieme daranno vita al migliore film del
periodo, l’apice della carriera di Van Damme: Lionheart (Scommessa vincente, 1990,
di Sheldon Lettich).
Nell’odissea di Leon Gautier, che fugge dalla Legione Straniera per ritrovare il
fratello negli Stati Uniti e precipitare nell’inferno dei tornei clandestini, si riconosce
la storia stessa di Van Damme, la sua lotta solipsistica nel mondo di Hollywood.
Leon Gautier è il personaggio perfetto di Van Damme, il proletario che incarna il
36
Senza nulla togliere all’importanza di Corman nella storia del cinema americano, nei film di arti
marziali non ha mai espresso il meglio di sé. (N.d.A.)
37
Senza dimenticare il «Van Damme italiano», Claudio Del Falco (campione europeo W.K.E di
kickboxing), che in Tradito a morte (di Emanuele Glisenti, 1996) offre una visione inedita,
pasoliniana, delle arti marziali, vissute come «luogo» incontaminato e perduto, sconfitto dalla
violenza della società moderna. (N.d.A.)
popolo, che riscatta se stesso e fa trionfare, solo grazie a se stesso, gli eterni valori
umani. Sono questi i personaggi che indossa Van Damme, che infatti interpreta
spesso personaggi «bassi»: un legionario (Legionnaire), un piccolo truffatore (Double
Impact), un evaso (Nowhere to Run), un ladro (The Quest), un disoccupato (Hard
Target), un malavitoso (Maximum Risk), ancora un truffatore (Knock Off). Eroe basso
e «sporco», il personaggio preferito di Van Damme è però animato da un’energia
semplice di giustizia, da un cuore di leone sempre pronto a battere per le emozioni
umane. Lionheart è il cinema di Van Damme, un cinema forse ingenuo ma sincero; in
Leon Gautier si perpetua l’eroe classico, adeguato a un immaginario che rapidamente
si trasforma ma che si nutre ancora dei valori del passato. È anche il mondo che Van
Damme si autorappresenta38, in cui si proietta, è la sua immaginazione, sono i suoi
sogni. È questo il cinema secondo Van Damme, un cinema incantato, che crede
ancora nelle favole e nell’utopia eroica.
Negli anni del successo di Van Damme le cose però stanno cambiando. Le major
scoprono il cinema action e fanno nascere, come dicono a Hong Kong, il «cinema di
azione con effetti speciali», che dà inizio a un irreversibile processo di
desertificazione del reale.

38
In questo periodo Van Damme assume peraltro il controllo dei suoi film, intervenendo sulla
sceneggiatura, sul montaggio, e allestendo le coreografie marziali. (N.d.A.)
Anime immortali

Pensi che sia aria quella che stai


respirando?
MORPHEUS

Vedere una «rottura» all’interno del cinema d’azione agli sgoccioli degli anni
Ottanta contrasterebbe con quanto abbiamo sostenuto fin qui, cioè che l’evoluzione
dell’action è frutto di un processo filogenetico e ibridativo tra i generi, di una storia
del cinema che trova nella sempre maggiore complessità, ma anche nella continuità,
il suo significato e il suo senso. In realtà, il «nuovo corso» hollywoodiano matura da
un processo di modificazione costante e, come ogni sistema complesso, tende a
raggiungere nuovi equilibri attraverso le continue interazioni culturali. Come cinema
«somatosensoriale», cioè ipersensibile – o iperricettivo – a ogni variazione esterna,
«ridondante», ovvero con una disponibilità sempre maggiore di funzioni rispetto a
quelle necessarie, e «contingente», modificato cioè dalla casualità delle variazioni
dell’evoluzione culturale, il cinema d’azione risente di ogni cambiamento e
sperimenta – per quanto possibile entro le griglie commerciali – tutte le interazioni
dell’immaginario.
Dal nuovo cinema d’azione, concepito da Hollywood e recepito dal pubblico, Jean-
Claude Van Damme è destinato però a restare escluso, nonostante – e questo ha il
sapore della beffa – lui stesso contribuisca a promuoverlo.

Realtà addio

Alla fine degli anni Ottanta il cinema action diventa consapevole della propria
illusorietà, dichiara la propria finzione, in prodotti, come Die Hard (Trappola di
cristallo, 1988, di John McTiernan), agili ad attraversare, similmente a Jack
Slater/Arnold Schwarzenegger in Last Action Hero (Id., 1993, di John McTiernan) e
ai rinoceronti di Jumanji (Id., 1995, di Joe Johnston), il confine tra testo ed extratesto,
tra sogno e realtà; della cooptazione degli elementi extragenere alle proprie funzioni,
tipica dell’action, Die Hard accentua quelli più iperbolici e inverosimili, in una sorta
di sfida continua all’incredibile. Fino ad ora, infatti, il realismo – anche nella sua
versione meno impegnativa di iperrealismo – aveva contenuto il cinema entro limiti
«naturali»; d’ora in avanti il cinema crea un nuovo patto con lo spettatore: più sarò
falso, sembra dirgli, più sarò artificioso, più sarò vero cinema e vero spettacolo;
l’irrealismo diventa la caratteristica del nuovo cinema d’azione. In modo non diverso
da quanto accadde in pittura tra la fine del XIX e l’inizio del secolo XX, la «rottura»
con la realtà (che può spalancare le porte del meraviglioso come provocare lo
stordimento del nulla) si produce attraverso la sostituzione e ricostruzione della realtà
stessa39; la tecnica prediletta dal cinema per operare tale sostituzione è l’accumulo, la
sovrabbondanza (di segni, situazioni, inquadrature, personaggi, parole, cadaveri,
violenza).
Ogni sinonimo di «troppo» potrebbe qualificare il «nuovo» cinema d’azione:
eccessivo, esagerato, eccedente, esorbitante, esuberante, enfatico, opulento,
magniloquente, persino prolisso, logorroico, un circo dei superlativi assoluti dove
virtuosi dell’effetto allestiscono vertiginose acrobazie e mentre inscenano quello
presente già preparano lo spettacolo successivo, che sarà ancora più eccessivo,
esagerato, esorbitante eccetera. Se l’eroe rischia la vita sette volte in Die Hard, in Die
Hard 2 la rischierà dieci; se i morti sono cento nel primo episodio, nel secondo
saranno duecento e nel terzo duecentocinque; se la canottiera di John McClane nel
primo si sporca, nel secondo si strappa; se in Speed (Id., 1994, di Jan De Bon) un
vagone della metropolitana sfonda l’asfalto e sbuca in città, in Speed 2 (Speed 2.
Senza limiti, 1997, di Jan De Bon) la nave da crociera dovrà sfondare l’intera città; i
fili da tagliare per disinnescare una bomba sono ormai centinaia e decine sono i
mezzi di trasporto che l’eroe cambia e distrugge durante un unico inseguimento; tutto
procede per crescita esponenziale tesa al puro sbalordire, a una sfida cinefila e ludica
tra campioni dell’eccesso: un cavallo in un ascensore in True Lies (Id., 1994, di
James Cameron), un elicottero in una galleria in Mission: Impossible (Id., 1996, di
Brian De Palma), un’automobile in un grattacielo in Lethal Weapon 4. È il medesimo
meccanismo che, mutatis mutandis, caratterizza il best seller letterario.
A tale irreversibile irrealismo corrisponde una progressiva defisicizzazione del
cinema d’azione: il cinema-gioco diventa il cinema dell’eroe-giocattolo. Privo di
corpo, trasformato in presenza fantasmatica, il simulacro dell’eroe mitico si avvia
verso il glorioso orizzonte dell’immortalità tecnologica, in un mondo in cui domina
l’indifferenza40. L’attore principale di questa svolta è un produttore dall’indubbio
39
Non si tratta, in questo caso, di immaginare una realtà, come accade per esempio nel cinema di
fantascienza, né di utilizzare la realtà come spazio di sperimentazione estetica, come accade nel
cinema d’autore. (N.d.A.)
40
È utile riportare a questo proposito quanto dice José Maria Latorre nel recensire Cut Throat Island
(Corsari, 1995) di Renny Harlin: «Corsari parla il linguaggio della rapidità: i fatti si accumulano
sullo schermo senza lasciare il tempo di assimilarli, e le inquadrature sono così brevi che si capisce
appena quello che sta succedendo. Inoltre, la musica, vacua e altisonante, satura il film fin dalle
prime immagini, a volte addirittura sovrapponendosi al dialogo e rendendone difficile l’ascolto.
Sorge un dubbio: la veloce accumulazione dei fatti, la durata brevissima delle inquadrature e
l’invadenza della musica, non possono essere sintomi di horror vacui? D’altronde è un modo per
sfuggire alla riflessione che non deve per forza mancare, in un film d’avventura – ma anche la
dimostrazione di una certa maniera di intendere il cinema commerciale oggi, negli Stati Uniti: non è
sufficiente un solo elemento in scena, se ne devono accumulare tanti, con l’intenzione di ostentarli.
Fin dalla prima sequenza, Corsari non è altro che uno spiegamento di immagini e rumori con i quali
si cerca di nascondere la povertà inventiva di una vicenda che, in fondo, è fatta di una serie di
recuperi di fatti, immagini e tipi del classico cinema di pirati. Come prodotto postmoderno, diretto
da un esperto di videoclip, Corsari attinge a tutto il catalogo di situazioni, tipi e immagini del
macrogenere esibendolo davanti agli occhi dello spettatore in un batter d’occhio, usando anche
immagini aeree, grandangolo e rallentatore. La confusione diventa quindi protagonista dell’azione,
intuito: Joel Silver.

L’Era Silver

Il cinema di Joel Silver comprende: 48 Hours (1982), Commando (1985), Lethal


Weapon (1987), Predator (Id., 1987, di John McTiernan), Action Jackson (Id., 1988,
di Craig R. Braxley), Die Hard (1988), Lethal Weapon 2 (Arma letale 2, 1989, di
Richard Donner), Die Hard 2 (58 minuti per morire, 1990, di Renny Harlin), The
Last Boy Scout (L’ultimo Boy Scout, 1991, di Tony Scott), Lethal Weapon 3 (Arma
Letale 3, di Richard Donner), Demolition Man (Id., 1993, di Marco Brambilla),
Executive Decision (Decisione critica, 1996, di Stuart Baird), Lethal Weapon 4
(Arma letale 4, 1998, di Richard Donner), The Matrix (Matrix, 1999, di Andy e Larry
Wachowski) e, nel prossimo futuro, Romeo Must Die ([Romeo deve morire], 2000, di
Andrzej Bartkowiak), Wonder Woman, Dungeons & Dragons. Praticamente tutto il
cinema d’azione degli ultimi quindici anni.
Il cinema che scorre nelle vene di Silver è un cinema velocissimo e pervaso di
tecnologia, che comprime ogni tensione ideologica ed espande all’eccesso i
meccanismi dello spettacolo, sperimentando la combinazione dei più disparati
linguaggi e fondendola in un megacontenitore visuale; intorno al nocciolo dell’azione
pura, dell’effetto speciale, dell’«adrenalina al 100%», il tessuto narrativo assorbe
riferimenti inter, intra ed extra testuali, sempre più irrelati e autoreferenziali.
L’accumulo di «materia narrativa» del cinema di Silver si traduce nella prolissità
linguistica dei suoi eroi cinefili e autoironici; paradossalmente, tale
sdrammatizzazione riscopre l’attore: gli atleti degli anni Ottanta cedono il passo agli
attori con pedigree, formatisi nelle ascelle dello star system – come Dioniso nella
coscia di Zeus – che adesso godono del privilegio di alternare William Shakespeare o
Bram Stoker a Graham Yost, Tom Wolfe a Steven E. De Souza, o di lavorare sia con
Stanley Kubrick che con Tony Scott. Arrivano Keanu Reeves, Bruce Willis, Tom
Cruise, Wesley Snipes, Woody Harrelson, Nicolas Cage, Will Smith: in loro si
identifica un più ampio e indifferenziato pubblico internazionale, che tende a rifiutare
e a confinare in una categoria disprezzabile il cinema action precedente. Così, il
destino degli eroi anni Ottanta è segnato: come rivoluzionari, vengono schiacciati
dalla «restaurazione» operata in seno a Hollywood.
Il cinema di Silver ha più bisogno di maschere. Come i loro personaggi, gli attori
incarnano nell’action la propria mitografia, e sono quindi perfetti per un corpo che
abdica in toto alla tecnologia, la nuova sintassi dell’action: carrelli ipercinetici,
riprese aeree vertiginose, montaggio concitato, soggettive impensabili, fermo
immagini, angolazioni duplicate o quadruplicate costituiscono il nuovo corpo
tecnologico del cinema, assemblato dai linguaggi più frenetici degli anni Novanta:
videoclip, spot televisivi, videogame. Il prodotto-film diventa la parte (ancora
fondamentale, è vero) di un più ampio prodotto-immaginario che investe

il che produce un effetto straniante di sicura efficacia: a nessuno importa ciò che si racconta, né i
personaggi né il modo di narrare. Ci troviamo nel regno dell’indifferenza». (N.d.A.)
videocassette, serie televisive, giochi per playstation. I meccanismi narrativi stessi
sono concepiti per essere trasfusi senza eccessive variazioni nella consolle di una
playstation o nel CD-Rom di un computer: si afferma l’arcade.
Anche grazie a Silver, Hollywood riscopre il piacere dello stupore e del gioco, e la
massa di spettatori accetta l’offerta delle major: lo svago è sempre assicurato. Il film
successivo sarà sempre «più», di quello precedente, come la versione aggiornata e
upgradata di un software. Il body count diventa pratica consueta, e i film del periodo
sono pubblicizzati come «i film con il più alto numeri di morti nella storia del
cinema». Tra Die Hard, Quake o Doom non c’è differenza: la «carne da cannone» è
destinata ad essere massacrata nei modi più violenti e allegri, in un tripudio di teste e
arti staccati da corpi senza peso.
Con Point Break (Id., 1990, di Kathryn Bigleow) nasce lo speed movie, il cui
sviluppo fa raggiungere alla techno action i suoi risultati più stravaganti: per contratto
l’eroe non deve avere un attimo di pausa, è impedito a ogni normalità. Accade così
che in Speed (Id., 1994, di Jan de Bont), l’agente Jack Traven, pur potendo sedersi in
macchina, per dialogare con il suo capo preferisce restare aggrappato fuori dell’auto,
che naturalmente corre a non meno di ottanta miglia orarie. Nell’accumulo
tecnologico l’action ritorna infine al disaster movie, che digitalizza la forza dinamica
degli elementi primordiali (uragani, vulcani, valanghe, tifoni), e trasforma il vento in
effetto speciale.
Dalla coscia di Zeus-Silver emergono anche gli «autori» del cinema action:
Richard Donner, John McTiernan, Renny Harlin. Tutti e tre amano l’avventura
classica, ma la loro nuova avventura assume consapevolmente tutte le caratteristiche
teoriche e formali del techno-cinema: Renny Harlin dirige per esempio Cliffhanger
(Id., 1993), il quale fin dal titolo dichiara la sostituzione dei codici del testo al testo
stesso.
Così, quei semi gettati dai figli «buoni», della new Hollywood germogliano nei
meravigliosi artifici del techno action, che celebra il centenario dell’Ottava Arte.
L’Era Silver può essere riassunta dalle parole del regista hongkonghese Tsui Hark:

Hong Kong [/Hollywood] dal punto di vista culturale è un deserto. Qui ci sono solo
elementi copiati da altre culture. La caratteristica di Hong Kong [/Hollywood] è la sua
capacità di combinare queste influenze esterne in modo molto veloce, e di renderle
eccitanti, divertenti, ma anche molto superficiali. È un eterno scivolare da una cosa
all’altra. Hong Kong [/Hollywood] ha creato una cultura veloce e totalmente visuale in
cui gli elementi funzionano come parte di un tutto, e nulla ha più valore in sé.

Jean-Claude Hong Kong

Inseguendo la velocità, Hollywood non tarda a scoprire Hong Kong. Tsui Hark,
John Woo, Yuen Woo Ping, Kirk Wong, Ringo Lam, Samo Hung, Terence Chang,
Jackie Chan, Stanley Tong, Chow-Yun Fat, Jet Li sono infatti campioni della
velocità, atleti dell’ipercinesi, ingegneri della balistica; clonano e riproducono il
cinema hollywoodiano espandendone all’eccesso i meccanismi spettacolari. Dal loro
cinema Hollywood coopta la radicalità dinamica e il ritmo visuale. Come quello di
Hong Kong, il cinema di Hollywood ha fretta: ogni film divora il precedente, si
duplica nel successivo, si ibrida nella moltitudine rimasticata dei segni a nascondere
un perfetto vuoto di senso. L’incontro è inevitabile.
Di tale incontro, Jean-Claude Van Damme è l’incontestabile icona. «Muscoli da
Bruxelles» interpreta infatti l’esordio hollywoodiano dei tre più importanti registi
hongkonghesi: John Woo in Hard Target (Senza tregua, 1993), Ringo Lam in
Maximum Risk (Id., 1996) [e In Hell (Hell, 2003) e Replicant (2001)] e Tsui Hark in
Double Team (Id., 1997).
In realtà, il legame tra Van Damme e Hong Kong accompagna l’intera carriera
dell’attore belga. Bloodsport e Double Impact sono ambientati a Hong Kong41, e
Bloodsport, Kickboxer, The Quest – il filone del tournament movie – sono modellati
su Enter the Dragon; No Retreat, No Surrender è un dichiarato omaggio a Bruce Lee
(dove lo spirito di Lee sconfigge Jean-Claude); in Kickboxer c’è addirittura una
citazione al drunken style di Yuen Woo Ping/Jackie Chan, quando un Kurt Sloane
completamente ubriaco – sotto lo sguardo sornione del maestro Xian – rissa con un
gruppo di avventori di un locale. Con l’incontro tra Van Damme e i grandi registi
hongkonghesi, però, tale legame si stringe, e l’esito sono i migliori film dell’intera
carriera di Van Damme. Contemporaneamente, tale legame accompagna anche la fine
– speriamo temporanea – della carriera di Van Damme in seno alle major
hollywoodiane.
L’esito commerciale del connubio tra Van Damme e Hong Kong non risulta infatti
brillante, e l’onda della new wave «autoriale» hongkonghese a Hollywood è destinata
a essere assorbita in fretta dalla battigia delle major. Se il botteghino soffre, però, la
qualità cinematografica gode, e l’incontro tra Van Damme e i registi hongkonghesi
può dirsi nel suo complesso assai proficuo, anche se non privo di difficoltà.
La lavorazione di Hard Target si dimostra infatti assai problematica per John Woo.
Woo è scontento della macchina-Hollywood nel suo complesso: ogni sua iniziativa,
ogni sua libertà creativa vengono bloccate dai calcoli dei produttori 42 e passate al
setaccio dei comitati di censura, che fanno uscire il film con la sigla «NC17 Rating»,
cioè vietato ai minori di diciassette anni. Già a partire da Hard Target, John Woo è
costretto ad abbandonare la sua «retorica degli eroi», il suo sentimento religioso, e a
moderare il suo furore; nonostante ciò, i suoi film – anche i successivi Broken Arrow
(Id., 1996) e Face/Off (Id., 1997) – conservano i suoi tipici elementi visuali,
soprattutto gli scontri a fuoco allestiti nei minimi particolari e caratterizzati dalla
double gun action.
Hard Target – remake di The Most Dangerous Game [in realtà più vicino a I
cacciatori della notte che al film citato. N.d.R.] – risente delle difficoltà di Woo a
41
E sia per Bloodsport che per Double Impact Van Damme sceglie come avversario Bolo Yeung, il
Bolo al servizio di Han in Enter the Dragon. (N.d.A.)
42
Queste sono le parole di John Woo al proposito: «Nove produttori per Hard Target! Non mi
aspettavo questo genere di problemi, e non ero abituato al sistema hollywoodiano. Troppa gente
interferisce con la creatività [...]. Talvolta volevo modificare qualcosa, ma a Hollywood devono
assicurarsi che il progetto non superi il budget». Citato in Marco Bertolino e Ettore Bidola, John
Woo. La violenza come redenzione, Genova, Le Mani, 1998. (N.d.A.)
Hollywood, e mostra una forzata attenuazione della violenza (manca per esempio la
consueta ecatombe, che aveva reso particolarmente folle Hard Boiled – 1992 –
l’ultima sua produzione hongkonghese). Nonostante tutte le difficoltà, però, Woo
riesce ugualmente a rovesciare sullo spettatore una miscela esplosiva di azione e
avventura e ad attuare la sua poetica: le interminabili sparatorie, che sperimentano
traiettorie ardite e ineccepibili, l’incastro delle geometrie e dei corpi, il destino
balistico dei personaggi. Il cinema di Woo è come un labirinto di fili (o di micce)
intrecciati che eterodirigono i personaggi come fossero su una scacchiera costellata di
mine; all’estetica di Woo Van Damme aderisce esattamente, e nelle sue acrobazie,
nella perfetta dinamica dei suoi calci e del suo corpo, che espande fino al parossismo
lo spazio dell’azione, esulta la festa del delirio ipercinetico e della scrittura propulsiva
di John Woo. Il film rimane insomma uno dei migliori action prodotti a Hollywood in
questi anni e, come giustamente ha osservato Roman Zizalphe, «il film più pazzo»
del John Woo hollywoodiano, che non riuscirà più a conservare questa sua «pazzia»
estetica per conformarsi sempre più alla techno-svolta hollywoodiana.

Le diverse personalità dei tre registi hongkonghesi che con Van Damme
esordiscono a Hollywood trovano conferma anche nelle pellicole americane. Come
Hard Target evidenzia le qualità estetiche di John Woo, Maximum Risk manifesta
quelle di Ringo Lam: al contrario di Woo – e Tsui – Lam è un regista classico, è (se
ci è concesso il paragone) un John Ford o un Alfred Hitchcock di Hong Kong, nel
senso che il dispositivo espressivo è funzionale a quello narrativo, ovvero estetica e
narrazione si identificano. È un cinema di personaggi psicologicamente definiti, non
di schemi funzionali all’azione o alla poetica dell’autore: se Woo perpetua lo stesso
modello facendolo diventare archetipo per una «retorica degli eroi» che lo
caratterizza, e che assume valenza allegorica, quello di Lam è un cinema che produce
il suo significato (poetico e morale, come avviene in City on Fire) attraverso
l’interezza della storia. Il furore visivo caratteristico di Hong Kong può sembrare
attenuarsi, perché si amalgama al racconto piuttosto che costituire un film-parallelo al
racconto. Di qui la misura con cui si sviluppa il racconto drammatico del poliziotto
Alain Moreau alla ricerca degli assassini del gemello Mikhail Suverov, e della sua
vera identità. La classicità del film è la sua condanna: proprio nel momento in cui
Van Damme si scopre come attore, si trova a interpretare un film che risulta
anacronistico agli occhi del pubblico. Il film è un insuccesso perché la sua
«classicità», viene interpretata come ingenuità, e quindi è recepito come un prodotto
«vecchio» nel bisogno di novità dello spettatore di oggi.
Con Tsui Hark il discorso cambia ulteriormente: Van Damme s’infila nel labirinto
visuale del genio hongkonghese e ne resta imprigionato. I suoi due film, in particolare
Knock Off, sono troppo raffinati per essere intesi dal pubblico dell’action 43 – troppo
personali dal punto di vista estetico, teorico e persino critico per raggiungere il
successo.
Tsui prosegue infatti la poetica che lo ha reso la personalità più forte e acuta del

43
Il pubblico europeo amante dell’auteur avrebbe invece potuto apprezzarli; peccato che non abbia
molta affinità con il genere. (N.d.A.)
cinema di Hong Kong degli ultimi quindici anni. Il suo stile è teso alla velocità:
l’instancabile movimento della cinepresa, la scelta di angolazioni di ripresa ardite e
inaspettate, il montaggio parossistico atomizzano il racconto, e la forza centrifuga
della macchina spettacolare lo ricompone grazie al miracoloso prodigio dell’illusione
cinematografica. Il cinema di Tsui è suprema superficie, infinita moltiplicazione di
segni vuoti di significato, barocco perché lo sfarzo dell’arredo oblia il senso stesso
della costruzione.
Double Team – gravemente ferito dalla presenza di Dennis Rodman (che ci sta nel
film come Woody Allen ci starebbe in Berretti verdi) – è per esempio un pasticcio di
generi, di omaggi e di assemblaggi: Bruce Lee più spionaggio più avventura più
peplum più cinema di Hong Kong. Le scelte hollywoodiane di Tsui Hark sono frutto
di un’estetica e forse anche di una critica: l’iperbolizzazione forzata di ogni elemento,
l’accumulo e la deflagrazione tecnologica non possono non essere letti, infatti, oltre
che come un’applicazione teorica, come una critica del dissolvimento della fisicità
nel nucleo virtuale della tecnologia, dell’infantilizzazione e della superficializzazione
del cinema. Più intelligente di quanto apparentemente siano i suoi film, il valore di
Tsui Hark è certamente metacinematografico o extracinematografico.
Il tempo nel cinema hollywoodiano di Tsui è sempre più compresso: il punto di
vista della macchina-cinema esplode nella gloria tecnologica. La deriva tecnologica è
suprema: la macchina da presa si infila nelle suole delle scarpe, nei chip dei
computer, nel cuore di porcellana delle bambole. Knock Off mostra tale procedimento
al suo parossismo, al suo paradosso, la deriva raggiunge il suo apice. Il tempo scorre
con una rapidità vertiginosa, la macchina-spettacolo incamera ogni oggetto,
dispositivo, linguaggio. È Popalong, il dio con il televisore al posto della faccia di Joe
R. Lansdale, sul cui volto di pixel scorrono le immagini dei videoclip e degli spot
pubblicitari, a dirigere il mondo schizofrenico, esibito e criticato da Tsui.
In Knock Off, il corpo stesso di Jean-Claude Van Damme subisce questo impatto
mediatico: travolto dal caos degli eventi, dalla deflagrazione della sintassi e
dell’artificio, è come se s’immobilizzasse, e s’abbandonasse al naufragio nella
tecnologia che schizza impazzita.

Van Damme nell’Era Silver

Tra tensioni alla classicità e sperimentazioni critiche, il connubio Van Damme-


Hong Kong si rivela, come dicevamo, un fallimento commerciale. Con il più alto
livello estetico e interpretativo raggiunto da Van Damme alla fine degli anni Novanta
si consuma il suo declino. I suoi film non incassano più sufficienti milioni di dollari
nel primo week-end di programmazione per far contente le major, che prontamente lo
abbandonano. Lo attende addirittura la derisione del pubblico che solo poco tempo
prima lo aveva glorificato e Van Damme deve sentirsi come Joe Wilson linciato dalla
folla o come Carrie White ricoperta di sangue di maiale alla festa del liceo: è deriso
nello spot della Sprite, dove a un non certo intelligentissimo Jean-Paul viene
recapitata una lattina in piena fronte; subisce l’onta dello scherno in programmi
televisivi come «Scherzi a parte». Al decadimento professionale si accompagna
quello personale: nel dicembre del 1996 entra in una clinica per disintossicarsi dalla
cocaina; nel settembre del 1999 viene fermato dalla polizia per guida in stato di
ebbrezza. È una forma ingenua di ribellione verso un mondo del cinema che lo ha
consumato e scartato, è il Cuore di Leone che batte nel corpo ingenuo di un
innocente. E mentre i nuovi divi del cinema e dell’action ad alto costo riempiono le
pagine delle cronache mondane, aprono catene di ristoranti e pubblicizzano le loro
crisi mistiche, assurgendo anche al ruolo di figure letterarie ispirando Glamorama di
Bret Easton Ellis, Van Damme si incammina sul Viale del Tramonto.
Pochi anni prima, però, con produzioni a medio e alto budget come Universal
Soldier, Nowhere to Run, Timecop, Street Fighter, Sudden Death, Van Damme si era
cimentato nei filoni più in voga del techno action, adattandosi alle nuove esigenze di
Hollywood – con l’apparente complicità dei produttori – e allontanandosi dai
personaggi che gli avevano regalato la fama per aderire al nuovo corso
hollywoodiano e seguire il genere nel «definitivo», filone dell’arcade movie.

Il gioco immortale

In The Game of Death (L’ultimo combattimento di Chen, 1973/1978, di Robert


Clouse), salendo a piani superiori, Billy Lo affronta avversari sempre più pericolosi;
in Enter the Dragon, Lee deve sconfiggere in un torneo gli avversari più terribili con
prove sempre più ardite; in Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e
l’ultima crociata, 1989, di Steven Spielberg) Indiana Jones deve affrontare un serie di
prove sempre più dure per conquistare il Santo Graal; in Die Hard, John McClane
deve superare livelli sempre più arditi salendo e scendendo dentro lo spazio chiuso di
un grattacielo; in Mortal Kombat (Id., 1994, di Paul Anderson) – tratto da un
videogioco – vincere il torneo diventa l’unico modo per salvare il mondo; in Sudden
Death, Darren McCord deve riuscire a salire all’ultimo piano dello stadio di ghiaccio
per sconfiggere Joshua Foss.
Tutti questi film sono caratterizzati da tre elementi fondamentali: 1) il
raggiungimento di un obiettivo; 2) il superamento di livello; 3) il percorso di ascesa
(spaziale e/o simbolico). Questi tre elementi contraddistinguono l’arcade movie.
1) Raggiungimento di un obiettivo: l’eroe deve conquistare un tesoro o salvare la
Terra o sconfiggere il nemico. Per fare ciò, deve affrontare un percorso costellato di
ostacoli e prove da superare. Tali prove sono caratterizzate dal:
2) superamento di livello: il percorso che l’eroe affronta si presenta come un
insieme di livelli di difficoltà sempre maggiore. Tali livelli sono caratterizzati dal:
3) percorso di ascesa (spaziale e/o simbolico). Generalmente costretto in uno
spazio chiuso (un grattacielo in Die Hard, uno stadio del ghiaccio in Sudden Death,
un ring in Street Fighter, Enter the Dragon, Bloodsport, una grotta in Indiana Jones
and the Last Crusade, una portaerei in Under Siege), l’eroe deve salire –
spazialmente o solo metaforicamente – di livello, superando le prove per raggiungere
il suo obiettivo.

Progenitori di questo schema narrativo sono film di guerra come The Guns of
Navarone o The Dirty Dozen, benché la coralità tipica del cinema di guerra sia
sostituita dal solipsismo dell’eroe action e arcade 44. Tale struttura, che ha in Game
of Death il suo modello, si riproduce fino a diventare pervasiva negli anni Novanta,
nel momento di più febbrile interazione tra cinema, videogame e cartoon. Tale
movimento di ascesa unito al superamento di livelli è infatti il meccanismo che fa
funzionare lo schema narrativo di un arcade, da Wonder Boy a Doom a Quake e
Resident Evil.
Accompagna tale schema narrativo una originale struttura temporale. Il tempo
dell’arcade procede infatti a blocchi-livelli separati da segmenti. Il tempo-livello
dell’arcade diverge dal tempo lineare della scienza come dal tempo ciclico del mito:
l’eterno ritorno del mito si trasforma nell’eterno presente del gioco. Il segmento che
in figura unisce un bloccolivello al successivo viene intenso in senso narrativo come
una pausa, in maniera analoga alla pausa di un computer durante il caricamento di un
software, o alla pausa, in un videogame, tra la fine del livello precedente e l’inizio del
successivo. Nell’arcade movie, tale breve segmento corrisponde allo sviluppo
narrativo e psicologico dei personaggi, sempre più limitato dalla predominanza dei
blocchi-livelli.
Lo schema dell’arcade rivela anche la matrice mitico-religiosa del filone; la
dinamica ascensionale dell’eroe corrisponde infatti a una sempre maggiore
liberazione e purificazione interiore: attraverso il superamento dei livelli l’eroe
progressivamente assurge a una dimensione superiore, ulteriore, comunque «altra».
Come nei miti di Teseo e Eracle, nell’arcade il superamento di livello, l’ascesa
dell’eroe assumono valore spirituale, secondo un sistema concettuale di derivazione
platonica. Dal Fedone di Platone in poi, infatti, la filosofia – e poi la religione –
occidentale sviluppa il concetto dei due mondi, il mondo della realtà e il mondo delle
idee. Copia imperfetta del secondo il primo, da questo ci si deve liberare per attingere
alla vera «realtà» del secondo, una realtà immobile, metafisica, assolutamente pura (il
cristianesimo accentua la dimensione soteriologica, salvifica, di tale processo).
L’eroe arcade incarna tale ideale, che si è affermato in Oriente come in Occidente 45,
di un processo di ascesa-ascesi che si conclude nell’estatica della conquista della
purezza46.
Nella seduzione tecnologica, che fonde lo sviluppo del genere action alla storia
della cultura umanistica occidentale, la funzione escapistica incontra le sue tensioni
teotrope: l’eroe disincarnato perviene alla sostanza invisibile della realtà, alla sua
dimensione sottile, che ne costituisce la matrice pura e metafisica; la tecnologia stessa
44
In questo senso, un precursore «bellico» del filone è storico: il blitz di Otto Skorzeny per liberare
Mussolini prigioniero sul Gran Sasso si può definire un arcade. (N.d.A.)
45
Da Plotino a Meister Eckhart l’Occidente cristiano corrobora tale matrice platonica; nell’Oriente
buddhista, per esempio, i sentieri del Bodhisattva, le sei Paramita, le sadhana e il tantrismo, o lo
schema del mandala o del Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti, condividono
quest’impostazione di superamento di gradi, ascesa e ascesi, fino al conseguimento della
liberazione. (N.d.A.)
46
Nel cinema tale processo di liberazione/purificazione può avvenire sia attraverso un movimento
verso l’alto sia con quello opposto, verso il basso, sia con la conquista della purezza sia con il
«cristologico» sacrificio della purezza. Tale movimento è evidente in Martin Scorsese come in Paul
Schrader. (N.d.A.)
assume questo connotato di purezza, è la leva che permette il passaggio dal falso
mondo reale alla vera realtà spirituale: in questo modo il cinema interpreta il virtuale.
La lettura che fin qui abbiamo dato del cinema è di un sistema complesso che
continuamente si ibrida e muta, in un processo filogenetico (cioè storico) strettamente
ancorato alla realtà; a ciò dobbiamo aggiungere che, a un’irriducibile dinamica
interattiva del discorso, della sintassi e della forma cinematografiche, corrisponde
un’immobilità «filosofica» piuttosto povera e, certamente, anacronistica;
all’interazione «organica» che il cinema mostra nel corso della sua storia, il cinema
stesso si ostina a perpetuare la fissità della metafisica, dell’invasivo dualismo
sogno/realtà. Se il paradigma della complessità è dunque applicabile alla storia del
cinema, esso non può adattarsi alla filosofia del cinema. All’organismo-cinema si
continua infatti a preferire la macchina-cinema, alla postmodernità interattiva della
rete l’ipermodernità stratografica dei piani separati. Riduzionista e privo di
complessità, il cinema che trionfa costringe lo spettatore a innamorarsi di un’idea del
mondo ormai superata.
Da Tron (1981) a Il tagliaerbe (1992) a Matrix (1999), lo spazio-tempo della
macchina esclude ogni forma organica e ogni possibilità di interazione, nell’illusione
della purezza esperienzale, di una ricostruzione/sublimazione/sintesi perfetta della
realtà. «I sogni diventarono infine tutta la sua vita e da allora la sua esistenza prese
uno strano andamento: si può dire che dormisse quando era sveglio e vivesse quando
dormiva» (N.V. Gogol’, I Racconti di Pietroburgo): nella sostituzione del virtuale al
reale, del tecnologico all’organico, si compie la sostituzione dell’onirico al reale 47. È
il tempo di Dark City e della sua città annullata che perennemente si trasforma,
dell’ambiente-fondale privo di vita di Matrix, della realtà come sfondo, come
programma; ciò che rimane è il puro vuoto nulla, la realizzazione del sogno
iperumano, l’immortalità dell’anima. È anche il tempo in cui l’effetto diventa corpo,
in cui la computer animation diventa sinonimo di perfezione, della tecnologica
digitale che con Episode 2 di Star Wars – la cui uscita è prevista per il 2002 – farà
scomparire anche la pellicola per correre nelle reti, negli impulsi dei cavi ottici. È
infine il tempo del dominio delle anime e dei cartoon, che invadono la realtà e la
sostituiscono, da Toys a Toy Story a Bug’s Life.
Mentre dunque la cultura scientifica riscopre la realtà – e la complessità reticolare
della realtà – il cinema (come la gran parte della cultura umanistica), pur sedotto dalla
rete, ripropone morti schemi concettuali. L’immagine della rete bene descrive il
concetto di complessità, dove l’interazione e l’ibridazione creano una dinamica
costante tra gli organismi, tutti gli organismi, viventi. La Rete immaginata dal cinema
assomiglia invece ai Millepiani di Deleuze e Guattari, a un’irrealtà, iperumana e
stratografica, che oppone e riduce, piuttosto che integrare e rendere complesso, una
realtà ridotta a metafisica, al paradiso di angeli paranoici che ancora si interrogano
sulla natura del proprio sogno creatore: «Dio, che cos’è la nostra vita! Un eterno
conflitto del sogno con la realtà!» (Gogol’, I Racconti di Pietroburgo).
Il cinema rinuncia del tutto a seguire la natura nei suoi particolari, ne riconosce

47
Di tale «vecchia» ossessione non riescono a liberarsi neppure i geni: l’ultimo film di Stanley
Kubrick, Eyes Wide Shut, soffre di questo limite, di questa cecità epocale. (N.d.A.)
l’impossibilità, gli risulta più facile sostituire la realtà con il desiderio – solo umano –
di immortalità. Ciò che viene chiamato post-moderno è in realtà il trionfo
dell’ipermoderno, della fuga completa dalla realtà nello spazio limitato dei desideri,
delle paure e delle paranoie umane, nel «doppio» perfetto e immortale del sogno,
come bene rappresentato da Edward Norton/Tyler Durden in Fight Club. Come il
Neo di Matrix, il cinema dell’arcade è il cinema degli Eletti, degli spiriti disincarnati
che trasmigrano nel samsara tecnologico fino a raggiungere la salvezza e
l’immortalità, per agire non solo su, ma persino da un piano ulteriore, da una
dimensione superiore ab species æternitas. La realtà diventa programma, software di
gioco, sogno partorito da anime eterne; i personaggi diventano essi stessi effetti
speciali: volano su città virtuali e precipitano dai millepiani dell’irrealtà per
rimbalzare su asfalti digitali. La violenza stessa scompare: al tripudio di sangue e
organi si sostituisce una violenza anemica, che proietta la morte in una dimensione
astratta e simbolica, fino ad annullarla. Il mondo è ora abitato da fantasmi, da morti
che sono convinti di esseri vivi e che convivono con gli esseri umani, come Malcolm
Crowe in The Sixth Sense (1999).
Nell’immortalità tecnologica raggiunta dalla macchina-cinema svanisce ogni
utopia, e nella pace dell’eterno ogni immagine di rivincita e di riscatto: sconfiggendo
la morte, la tecnologia annienta ogni desiderio di vita.
Fughe dalla realtà

Che abbiamo fàtto di buono? Niente!

EDDIE LOMAX

La neoavanguardia dell’intrattenimento globale esclude gli eroi, e Jean-Claude


Van Damme (come Steven Seagal) resta confinato ai livelli inferiori; a tale
condizione, Van Damme risponde riproponendo il suo passato, riscoprendo gli eroi
classici che gli hanno regalato la popolarità in un fortunato quanto breve periodo, ma
anche tale riproposta si rivela fallimentare. Se non fossimo convinti che la
predestinazione non esiste, la storia di Van Damme avrebbe il sapore della nemesi.

Soldato nel deserto dei segni

Van Damme torna dunque, come Moses Baxter tra i rottami nucleari di Hardware,
a cercare i pezzi della propria identità, sotterrati nel deserto dell’entertainment.
Ritrova il vecchio compagno di avventura Sheldon Lettich, con il quale dà vita al
personaggio di Alain Lefevre, soldato per caso nel film «minore», Legionnaire (Il
legionario: fuga all’inferno, 1999, di Peter McDonald), che recupera il respiro epico
e gli anacronistici, ingenui valori di amicizia, lealtà, eroismo. Come film classico di
avventura – dall’impianto tragico – Legionnaire mostra infatti il cieco coraggio degli
illusi destinati alla sconfitta: il tentativo di recupero del «Van Damme originario» –
migliorato da una superiore maturità interpretativa dell’attore – viene infatti recepito
dal pubblico come ingenuo e puerile, ancora una volta come «vecchio».
I film successivi confermano e accentuano la crisi di Van Damme. Coyote Moon
(Fino all’inferno, 1999, di John G. Avildsen) avrebbe le potenzialità per sfidare il
tempo in un’operazione «antistorica» che entusiasmerebbe noi reazionari, ma il
risultato – forse a causa delle difficoltà sorte durante la lavorazione – spreca ogni
intuizione per un guazzabuglio narrativo piuttosto deprimente; Universal Soldier: The
Return (Universal Soldier, 1999, di Mic Rodgers) scaraventa inesorabilmente
«Muscoli da Bruxelles» nel sottomondo del b-movie, da cui, undici anni prima, era
partito. Dall’abisso del rent market, il noleggio in videocassetta, lo salvano per il
momento il residuo della passata gloria e la distribuzione internazionale, che ancora
lo fa reggere al botteghino. In Italia Van Damme torna ad abbonarsi alle
programmazioni-cuscinetto pre e post estive. L’eroe classico ritrovato da Van
Damme è un disastro.
Escapismi

Non nascondiamo di peccare di anacronismo, come i nostri eroi, rimpiangendo la


classicità perduta del cinema di Van Damme e, soprattutto, la sua ingenuità di adulto
sognatore, che si trova ora gettato in un mondo di eterni bambini; la storia e l’analisi
si fermano qui, dove comincia a difenderci la nostra immaginazione. Quando sullo
schermo trionfano la giustizia, l’amicizia, la lealtà, quando a colpi di tibia, o con
ginocchiate, gomitate, testate, uomini giusti riescono ancora a sconfiggere i «cattivi»,
essi compiono anche la nostra vendetta contro un mondo fatto di crudeltà e
intimidazione. Nell’attimo in cui il collo del piede o la tibia frantumano la mascella
del «cattivo» comincia il punto di fuga dalla realtà, e più il corpo inerme del nemico
finalmente sconfitto vola lontano dalla gamba ancora sollevata di Frank Dux, Leon
Gautier, Alain Moreau, Chance Boudreaux, Kurt Sloan, Louis Burke, Luc Deveraux,
Sam Gillen, Max Walker, Darren McCord, colonnello Guile, Christopher Dubois,
Jack Quinn, Marcus Ray, Eddie Lomax, più si dilatano lo spazio e il tempo della
nostra rivincita, e ci viene concesso ancora un istante di illusione, l’illusione che Don
Chisciotte riesca a distruggere i mulini a vento a colpi di karate, e che un Cuor di
Leone inauguri un tempo di pace e fratellanza su tutta la Terra, un tempo magico
dove i corpi degli eroi marziali volano nel cielo del mondo. In quel tempo magico 48,
così pieno di certezze e di colori, fuggiamo per ritrovare, o solo per emulare, nel buio
della sala, nascosti da tutti, il mondo incantato della nostra infanzia. Lo spazio della
fuga e del ritorno si riempie di immagini, suoni, ricordi, si riempie del nostro passato,
in cui continuiamo a ripetere i nostri sogni, nel tempo che desideriamo immobile e
che invece realizza la sua pienezza solo perché passa. In questo senso il cinema di
Van Damme è un cinema adulto.
L’avanguardia dell’entertainment offre invece la liberazione definitiva dal tempo,
regala l’infinita gioia dell’infanzia eterna; il Paese delle Meraviglie a basso costo
dona un mondo meraviglioso fatto di giochi e giocattoli che invita il pubblico a
restare bambino. Tale inversione neotenica si attua nella grammatica cinematografica
anche attraverso l’esibizione sempre più invasiva dello «schifoso»: flatulenze, alitosi,
pipì, pupù costituiscono la sintassi di film come Scemo e più scemo, Tutti pazzi per
Mary, American Pie o di cartoon «per adulti» come South Park, in una
degenerazione regressiva che farebbe impallidire persino Bombolo. La teenage age è
il trionfo di un pubblico demente.
Su queste sconfortanti considerazioni si ferma la nostra storia di Hollywood; ci
consola il fatto che, come sistema complesso, il cinema possa stupirci con esiti
imprevedibili e ritrovare la ricchezza perduta, nonostante la maggior parte degli input
sembri procedere in senso opposto. Ma se anche ciò non dovesse accadere, come
disse Scott Cbavez prima di salire sul patibolo, «ci sono tragedie al mondo ben
maggiori di questa».

48
Il cinema poteva essere anche solo un simulacro, del mito o del magico, ma era pur sempre un
simulacro, era pur sempre qualcosa. (N.d.A.)
Parte seconda.
Nel cinema di Van Damme
Intervista a Jean-Claude Van Damme

Cominciamo dal principio...


Nessun problema! Sono nato alla periferia di Bruxelles il 18 ottobre del 1960,
nome di battesimo: Jean-Claude Van Varenberg. Segno: Bilancia.

Figlio d’arte?
Non direi proprio: mio padre gestiva un negozio di fiori e in precedenza era stato
tabaccaio, anche se nutriva e nutre tuttora una grande passione per il cinema. Ma i
miei genitori non hanno avuto nulla a che fare con la mia scelta di diventare una star
d’azione. Anzi! Ricordo che papà mi ripeteva spesso di non sognare a occhi aperti:
come diavolo potevo io, un ragazzo belga, sperare di sfondare nel cinema?!
Hollywood era così lontana e non parlavo nemmeno inglese.

Quanto è stato difficile per un tipo di belle speranze venuto dal Belgio ritagliarsi
un posto al sole, nel cinema americano?
Molto difficile! A Bruxelles, dove sono nato e cresciuto, ho studiato arti marziali,
danza, pittura e musica classica, ma il mio interesse principale era irrobustire il fisico
con dosi massicce di body building. ero un bambino miope e con un fisico malaticcio.
Tuttavia non potevo certo dar sfogo alla mia passione per il cinema rimanendo lì;
così ho venduto tutto: la macchina, la casa, la palestra, che mi rendeva benissimo, e
così via, ho messo il ricavato in banca (caso mai le cose mi fossero andate male col
cinema potevo sempre tornare in Belgio e riaprirmi una palestra), e me ne sono
andato in America, dove ho cominciato da zero nel senso più letterale del termine.
Non avevo un’agenzia, un ufficio stampa, amicizie o semplici conoscenze che
potessero servirmi come punto di avvio. Mi ero portato solo duemila dollari, con i
quali andai avanti per anni.

Sembra la classica favola del poveraccio dotato solo di volontà...


Lo è stata, per me. Tra i lavori che ho svolto ci sono stati quelli di autista privato,
buttafuori, tappezziere, insegnante di ballo e arti marziali. Certe volte, per placare i
morsi della fame, mi riempivo lo stomaco d’acqua. Per qualche tempo feci anche il
posteggiatore di un ristorante frequentato da gente del cinema, e quando me la
passavo proprio male, dormivo dentro le macchine. Ricordo che lasciavo la mia foto
col numero di telefono infilata nei tergicristalli delle automobili più importanti,
sperando in una chiamata per un provino.

Ma se non sbaglio avevi già fatto qualcosa in Europa...


Prima di allora avevo avuto solo una particina in un film francese intitolato Rue
Barbare, poi un’altra in un filmetto intitolato Monaco Forever, ma non potevo
coltivare il mio sogno restando in Europa. Chiunque voglia davvero fare il grande
cinema non può rimanersene a casa, deve andare a Hollywood, perché è lì che c’è il
vero business. Comunque, il mio sogno è sempre stato quello di essere un attore, non
solo di arti marziali. Al Pacino è per me un mito, darei qualsiasi cosa per lavorare con
lui.

Serve più cuore o faccia di bronzo, per «sfondare»?


Cuore. In America è pieno di bei tipi muscolosi che pensano bastino fisico e
irruenza per farcela, ma non è così. Se fossi entrato nell’ufficio di un produttore,
anche dopo i primi ingaggi, facendo mostra solo dei muscoli e di presunzione, mi
avrebbero risposto: «Quella è la porta!». Ci vuole cuore, passione, per mollare tutto
quello che hai e volare in America.

Quando precisamente hai deciso di tentare di diventare una star, e soprattutto


perché dei film di arti marziali?
Be’, entrambe queste domande hanno una sola risposta: Bruce Lee! Lo adoravo,
vedevo e rivedevo i suoi film, soprattutto I 3 dell’Operazione Drago.

A chi lo dici...
Andavo al cinema col mio amico Michel Qissi (che anni dopo chiamai a girare
Kickboxer, nel ruolo di Tong Po). Michel veniva in palestra con me, poi, nel buio
della sala cinematografica, sognavamo di diventare come Bruce Lee... Per questo,
oltre a praticare i pesi nella palestra di Claude Goetz, il mio insegnante, studiavo
anche lotta greco-romana e più tardi il karate contact. Ho partecipato a diverse gare,
ma più che la carriera sportiva mi interessava il cinema.

Il tuo successo personale è perfettamente in sintonia col più classico stereotipo: il


«Sogno Americano»...
È vero, la fantasia a volte è superata dalla realtà: sai come ebbi il primo ruolo da
protagonista? Ero in un ristorante con degli amici e vidi entrare Menahem Golan, il
capo della Cannon, che avevo incontrato già al Mifed di Milano nel 1980, quando
cominciai i primi passi nel cinema. Allora gli avevo dato le mie foto e il biglietto da
visita e lui mi aveva assicurato che, se fossi andato in America, mi avrebbe fatto
lavorare. Bene, ora in America mi ci trovavo, ma tutti mi sbattevano le porte in
faccia. Incluso Golan: chissà quanti, come me, si erano presentati da lui pieni di bei
sogni. Così, quando me lo trovai davanti al ristorante, gli diedi una breve
dimostrazione di quel che so fare nelle arti marziali.. Gli sferrai un calcio laterale
sopra la testa e lui rimase molto impressionato. Mi disse di chiamarlo per un
appuntamento al suo ufficio. Quando ci andai, feci una lunga anticamera e solo alla
fine mi ricevette: entrai, presi due sedie e ci feci una spaccata sagittale sopra. Mostrai
il mio fisico: gli dissi che con me poteva fare un sacco di soldi e che costavo poco,
ma che ero il migliore! Ero il nuovo Chuck Norris (che all’epoca era il divo numero
uno della Cannon). Golan si fece portare il copione di un filmetto che avevano in
preparazione: Bloodsport. Et voilà: il ruolo era mio!

Il film uscì in Italia come Senza esclusione di colpi!


Sì. Costò molto poco, incassò solo negli Stati Uniti cinquanta milioni di dollari e
rilanciò il filone del karate. In seguito uscirono i film più ricchi con Steven Seagal e
gli altri. E pensare che Golan non era nemmeno troppo convinto: il film ebbe una
gestazione lunga e faticosa e rimase parecchio fermo prima di trovare una
distribuzione. Poi fu un exploit in tutto il mondo. Aveva molte analogie con I 3
dell’Operazione Drago, e non erano casuali. Era un po’ un omaggio al filone.
Comunque sapevo che era un filmetto di serie B, nella trama, nella regia e nei mezzi,
ma da qualche parte dovevo pur iniziare. Quando uscì, ero io la vera sensazione della
pellicola, non certo la storia o la qualità. A Hong Kong incassò molto di più di The
Running Man [L’implacabile, 1987, di Paul Michael Glaser, sceneggiatura di Steven
E. De Souza], con Schwarzenegger. Da un momento all’altro divenni il cocco di
mamma di Menahem Golan. E pensare che se fosse stato per lui nemmeno sarebbe
uscito. Non ne era convinto, lo lasciò nel cassetto per un pezzo. Dovetti rimontarlo io,
affiancando il montatore, per convincere Golan a farlo uscire. Passò un anno e
mezzo, tra l’ultimo ciak e l’uscita nelle sale.

In quel film combattevi contro Bolo Yeung, un nome di riferimento, del filone,
perché aveva lavorato con Bruce Lee...
Era fantastico! Siamo molto affezionati: Bolo, a dispetto del suo fisico
mastodontico e della faccia da killer, è una brava persona. Era grande amico di Bruce
Lee. Benché abbia quarantacinque anni, è in forma splendida, tale che sembra lo
stesso dei tempi di Bruce. Siamo affiatati sul set, per questo sono stato lieto di averlo
anche in Double Impact. Il suo vero nome è Yang Sze, un campione di culturismo a
Hong Kong, poi girò più di cento film di kung fu, ma il pubblico se lo ricorda
soprattutto come il «Bolo» del film con Bruce Lee. E adesso come mio avversario
sullo schermo.

A proposito di cinesi: tu hai esordito come «cattivo», in un film hongkonghese del


1986, Kickboxers: vendetta personale. Che ricordo ne hai?
Quello fu un filmetto terribile! Sai quanto guadagnai? 2.500 dollari! Bussai anche
lì a tutte le porte: a Jackie Chan, alla Golden Harvest... I film-makers cinesi hanno
uno stile incredibile nel realizzare le scene d’azione: pochi effetti speciali e un sacco
di stuntmen che saltano dappertutto. Poi sono tornato a Hong Kong per un film da
protagonista con John Woo.

L’autore di The Killer...


Un capolavoro! Woo è uno dei registi migliori di Hong Kong, considerato il «poeta
della violenza», come Sam Peckinpah. Hard Target, il film che girai con lui, era un
thriller d’azione assolutamente fantastico, nello stile dei grandi successi di Woo, e a
Los Angeles, dove c’è stato uno screening test per vedere le reazioni del pubblico, a
metà della proiezioni la gente era in piedi a urlare ed eccitarsi per le azioni dei
protagonisti. Questo test ci ha convinto di avere tra le mani un asso: John Woo è una
persona formidabile e molto intelligente, che si diverte a sembrare stupida per tastare
il terreno. Quando parla con gli americani e qualcosa non gli piace risponde sempre
«No compriendo», e invece ha capito tutto!
Infatti pare che molti cineasti hollywoodiani copino in segreto le scene d’azione
dei film hongkonghesi...
È logico, sono i più bravi del mondo! Guarda Jackie Chan... Mi sarebbe piaciuto
lavorare con lui all’epoca in cui ero a Hong Kong. Mi disse che mi avrebbe chiamato,
ma non lo fece.

Parliamo di Accerchiato, uno dei tuoi film più atipici...


Una produzione low-budget, ma che rappresenta un cambio di pagina nella mia
carriera, in quanto si allontana dal solito cliché del semplice eroe esperto di arti
marziali. È la storia di un uomo solo, con dei sospesi con la legge, che fugge e
casualmente conosce una famigliola che ha dei problemi molto seri. Si affeziona ai
bambini e riscopre una parte di se stesso che aveva dimenticato. La famiglia è
minacciata da un boss edilizio che vuole espandersi e impadronirsi di ogni terreno e,
naturalmente, il nuovo arrivato interverrà a modo suo.

Ricorda Il cavaliere della valle solitaria...


Non a caso: si ispira proprio a quel film. È una storia molto semplice,
classicheggiante, nello stile di quei vecchi western americani (anche se il film è
ambientato ai giorni nostri). Come ho detto, la mia ambizione è la recitazione, non
solo l’azione.

Cosa ne pensi dei tuoi colleghi?


Ognuno fa il suo lavoro ed è il pubblico, alla fine, che ti premia. Di sicuro non
vorrei mai lavorare con qualcuno che non voglia lavorare con me. Stimo molto
Arnold Schwarzenegger, che è partito da Gratz, in Austria, ed è diventato una stella
mondiale. È uno dei miei modelli, unitamente a Bruce Lee. Quando facevo gavetta
allenavo personalmente Chuck Norris, sperando in una possibilità di affermarmi, ma
poi mi resi conto che Norris non si sarebbe mai creato un concorrente con le sue
mani, e capii che dovevo farcela da me. A quell’epoca tiravo a campare facendo
comparsate nei film della Cannon, tipo Missing in Action e Breakin’. Norris mi
promise che mi avrebbe dato delle opportunità, e per questo andai nelle Filippine per
Missing in Action, ma una volta lì non c’era altro da fare se non lo stuntman. Così me
ne tornai indietro. Non gli serbo rancore: quando sei una star ci sono molte persone
che ti girano intorno sperando in un aiuto. Di sicuro gli dispiaceva di non avermi
potuto aiutare di più, perché vide coi suoi occhi che ero un tipo vigoroso e
determinato e come me la passavo male.

Molti divi d’azione diventano anche registi di se stessi. E così arriviamo a The
Quest.
Volevo girare un grande film in costume sulle arti marziali: un’avventura epica,
come se ne facevano nella vecchia Hollywood. Inoltre ero un grande fan di Roger
Moore dai tempi di 007. Per questo lo volli nel cast.

Non ti spaventava tanta responsabilità?


Non avevo paura di misurarmi nella regia, perché già in Senza esclusione di colpi!
e Lionheart ho girato da me, coreografato e montato le scene di arti marziali, anche se
contrattualmente non avevo nome nei credits in questa veste.

Hai intenzione di allontanarti definitivamente dal film d’azione, più in 1à nel


tempo?
No, mai! Innanzitutto perché sono ancora giovane e ho ancora molto da dare, così
come ho ancora molto da imparare per migliorarmi... L’action movie non morirà mai,
piuttosto potrà cambiare, evolversi: molti attori sono emersi negli ultimi anni.
Ricordo il povero Brandon Lee.

Sono ancora scioccato: lo intervistai proprio a Roma, poco prima che partisse per
quel set da dove non è più tornato...
Era una promessa del cinema: è morto in modo incredibile e misterioso, come suo
padre.

Nemmeno su Bruce Lee si saprà mai la verità.


La voce che gira a Hollywood è che avesse iniziato a fare uso di droghe. Dicono
che ce lo avesse introdotto Steve McQueen.

Non credo che un fanatico della forma fisica come Bruce Lee potesse arrivare a
morire per droga...
Io nemmeno, comunque sono voci che circolavano. Bruce Lee amava molto la
vita: l’amava così tanto da morirne. Brandon è stato ucciso. A Hollywood si vocifera
su una maledizione che incombe su Lee. Chissà...

Comunque Bruce resta il capostipite incomparabile del cinema kung-fu.


Sicuramente, anche se, al contrario della maggior parte della gente, io penso che si
intendesse più di cinema che non di arti marziali: aveva il look, era un genio nel suo
campo e sapeva come farsi valorizzare dalla macchina da presa. Lo adoro.

Steven Spielberg ha predetto che il cinema prima o poi finirà, sostituito dall’home-
video e dalla televisione: tu che dici?
Può darsi, anche se spero di no: ma per me non sarebbe un problema, perché
nell’home-video i miei film sono una vera bomba!

Conosci il cinema italiano?


Adoro i vostri western. Mi piaceva quella coppia formata da Bud Spencer e da
quell’altro attore più magro, biondo... come si chiamava?

Terence Hill.
Sì, lui! Mi piaceva proprio, aveva un grande look.

Prima di chiudere volevo chiederti qualcosa riguardo a quella sfida che ti lanciò
Don “The Dragon” Wilson...
Oh, non c’è molto da dire. Il suo produttore, Roger Corman, fece pubblicare un
annuncio nel quale mi sfidava per centomila dollari a combattere contro Wilson, sul
ring. Sostenevano che fossi un campione fasullo. In realtà sono stato «Mister Belgio»
nei pesi medi e ho partecipato a delle competizioni di light contact, piazzandomi bene
e vincendo nei «kata». La mia carriera agonistica è documentabile, ma a me
interessava il cinema. Quella di Wilson era solo una trovata pubblicitaria. Io non devo
dimostrare nulla a nessuno.

Andando a ritroso, ci sono alcuni tuoi film che non riesco a capire: Cyborg, per
dirne uno.
Non me ne parlare, era un filmaccio! Dovevo farli perché ero sotto contratto con la
Cannon. Anche se nel frattempo Bloodsport mi aveva lanciato, come ti ho detto ci
volle molto prima che uscisse e io avevo moglie e figli da mantenere. La prima volta
che mi sono sposato avevo diciott’anni.

Capisco, ma in Aquila Nera avevi un ruolo da coprotagonista, mentre l’eroe era


Sho Kosugi. Eppure è stato girato dopo Senza esclusione di colpi...
Sì, ma prima che uscisse nelle sale. Stesso problema. Quindi non ero ancora una
star e inoltre, come ti ho detto, avevo un contratto da rispettare. Dopo di che, ho
avuto ingresso libero alle major di Hollywood e una maggiore voce in capitolo sui
ruoli.

Le voci sui difficili rapporti con Dolph Lundgren ne I nuovi eroi erano una trovata
pubblicitaria o no?
Be’, diciamo che lavorare con Lundgren non è facile. Comunque tra i miei film
passati Lionheart è quello che sento di più: perché il protagonista era come me, un
ragazzo solo che va in America armato unicamente di cuore e arti marziali. Molte di
quelle difficoltà economiche lo ho patite pure io, venivano dal mio vissuto.

E penso che questo messaggio sia stato percepito dal pubblico. Ma questi
«Kumite», per strada e nei vicoli, esistono davvero?
Sì, anche se il cinema li esagera. A Hong Kong, dove sono nati, furono un’usanza
segreta per secoli, finché le autorità inglesi li misero al bando. Ma molti li
proseguono in segreto ancora oggi, tra scuole o stili rivali. Frank Dux, il maestro alla
cui vita si ispirava Senza esclusione di colpi!, ne vinse diversi.

È lui ad aver coreografato il film?


No, ci siamo allenati per mesi prima delle riprese, ma poi sul set ho fatto molto da
me.

Come ci si sente ad avercela fatta inseguendo un sogno?


È fantastico, ma bisogna sudare. Il successo non è mai una passeggiata: occorre
talento, passione e anche un pizzico di fortuna. Come diceva Bruce Lee, non esiste
nessuna qualità che possa sostituire quella di essere l’uomo giusto al momento giusto.
Bruce è stato per me un esempio: faceva piccoli film, ma guardava la qualità, le sue
scene d’azione erano incredibili! Se non fosse morto chissà dove sarebbe arrivato.
Credo che se fosse ancora vivo, né io né Arnold Schwarzenegger o Sylvester Stallone
saremmo stati alla sua altezza.
I film di Van Damme

Rue Barbare
(Rue Barbare, di Gilles Behat, 1983)
È il debutto assoluto di Van Damme in un modesto thriller francese ambientato nel
sottobosco delle bande delinquenziali suburbane. Non c’è molto da raccontare e, per i
fan del futuro «Muscoli da Bruxelles», nemmeno molto da vedere, data l’esigua
comparsata del nostro come teppista. Tuttavia il film è ben interpretato dal Bernard
Girardeau, attore piuttosto noto nel suo Paese.

Monaco Forever
(Monaco Forever, di William A. Levey, 1984)
L’esordio (tra ampie virgolette) di Van Damme, in un cortometraggio di 48 minuti:
il belga ha il ruolo di un gay che offre un passaggio a un autostoppista, facendolo
ricredere sulla presunta effeminatezza di certi omosessuali, grazie al suo dispiego di
arti marziali. Pressoché inguardabile, vale come curiosità di archivio sul futuro eroe
belga, che imita palesemente certe espressioni e movenze di Bruce Lee (come
peraltro farà spesso anche in seguito). Distribuito nell’home-video italiano nel 1992.

Breakdance
(Breakin’, di Joel Silberg, 1984)
Interpretato da due attori-ballerini piuttosto attivi nei primi anni Ottanta (l’ispanico
Adolfo «Shabbadoo» Quinones e la splendida Lucinda Dickey, la ragazza posseduta
dallo spirito Ninja in Ninja III The Domination (Trancers, 1986, di Sam Firstenberg)
questo filmetto non è altro che un’imitazione del più famoso Flashdance (Id., 1983,
di Adrian Lyne): una storia d’amore e d’amicizia tra giovani dei ghetti che si
esprimono tramite la danza (è di scena la «Break», all’epoca assai di moda). Van
Damme, in body ginnico, è riconoscibile come uno degli spettatori che fanno circolo
all’esibizione dei nostri eroi nel parco: erano gli anni in cui il futuro «Muscoli da
Bruxelles» bazzicava la Cannon come comparsa.

Rombo di tuono
(Missing in Action, di Joseph Zito, 1984)
Il Colonnello americano James Braddock torna nel Sud-est asiatico in missione
ufficiosa per liberare i prigionieri americani ancora in mano ai vietcong. Girato nelle
Filippine, il film diede a Van Damme una delle sue prime opportunità come
stuntman, all’epoca in cui era allenatore personale di Chuck Norris, star di questo e di
altri titoli analoghi prodotti dalla Cannon: in effetti è impossibile riconoscere Jean-
Claude nella ridda di esplosioni e corpi dilaniati, ma il suo nome è indicato
chiaramente nei titoli di coda. Rombo di tuono anticipava di oltre un anno il più
costoso First Blood Part II (Rambo 2: la vendetta, 1985, di George Pan Cosmatos) e
fu il film indipendente di maggior successo del 1984 negli Stati Uniti. Norris, ex-
campione di karate approdato al cinema grazie al leggendario Bruce Lee di The Way
o f the Dragon (L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, 1972), fu per breve
tempo uno dei maggiori divi statunitensi. Tornerà altre due volte al personaggio con
Missing in Action (Missing in Action 2: The Beginning, 1985) e Braddock: Missing in
Action 3 (Id., di Aaron Norris, 1988), ma senza Van Damme, il quale, esploso nel
frattempo con Bloodsport, si accingeva a surclassarlo.
Tra le altre pellicole della gavetta di stuntman dell’aitante belga, figurerebbero Il
codice del silenzio (Code of Silence, di Andrew Davis, 1985), Arma letale (Lethal
Weapon, di Richard Donner, 1987) e Predator (Id., di John McTiernan, 1987).

Kickboxers: vendetta personale


(No Retreat, No Surrender/Karate Tiger, di Corey Yuen, 1986)
Con Kurt McKinney, Jean-Claude Van Damme, Kathie Sileno, Kim Tai Jong.
Soggetto: Corey Yuen, Ng See Yuen. Sceneggiatura: Keith Strandberg.
Coreografia arti marziali: Corey Yuen. Durata: 103’. Prodotto da Ng See Yuen (Wu
Si Yuan).
Una losca organizzazione che gestisce gli incontri di full contact ferisce un onesto
istruttore di Los Angeles, costringendolo a cambiare città. L’uomo si trasferisce a
Seattle e per suo figlio, fan devoto di Bruce Lee e praticante di kickboxing, è molto
difficile integrarsi coi nuovi coetanei. In un momento di scoramento, si reca sulla
tomba di Bruce Lee, sepolto nel locale cimitero, implorando il suo aiuto. Come per
magia, una notte, lo spirito del Piccolo Drago gli appare e inizia a guidarlo nel suo
allenamento. Il giovane riceve un’erudizione eccezionale che gli consentirà, nel corso
di una gara, di prevalere sul glaciale Ivan, campione di quel racket che aveva ferito
suo padre e che adesso vuole estendere il suo dominio anche a Seattle.
Girato negli States da una produzione hongkonghese (la Seasonal di Ng See
Yuen/Wu Si Yuan, regista di gong fu di culto come The Good and the Bad [Il braccio
violento del kung-fu, 1973], e soprattutto Little Super Men [I fantastici piccoli
supermen, 1974], questo No Retreat, No Surrender, realizzato nel 1985 ma distribuito
in Italia solo sei anni più tardi direttamente in televisione (grazie alla fama nel
frattempo raggiunta da Van Damme) 49, è l’ennesima speculazione postuma su Bruce
Lee, con una spruzzatina di Karate Kid e Rocky per dare una patina di esportabilità al
prodotto.
Nel ruolo del picchiatore russo con una sola battuta di dialogo («Io sono il
migliore! Io sono il migliore!»), Van Damme ha modo di evidenziarsi esibendo per la
prima volta la sua famosa spaccata sagittale. Della recitazione non è nemmeno il caso
di parlare (ed è divertente vedere attori americani recitare con la tipica mimica
esagerata di quelli cinesi), per tacere dello spirito di Lee impersonato dal solito Kim
Tai Jong (atleta coreano già controfigura del Piccolo Drago in The Game of Death,
1978, e nel suo sequel Tower of Death/The Game of Death 2 [L’ultima sfida di Bruce
Lee], 1981). Gli unici momenti di spettacolo sono nel match finale, che vede Van

49
In realtà il film arriva in Italia prima in VHS Videogram a noleggio nel 1991, per poi essere
trasmesso da Italia1 la prima volta il 3 febbraio 1992. (N.d.R.)
Damme sbaragliare i tre campioni avversari, prima di essere letteralmente lanciato
fuori dal ring a suon di calci dall’improbabile Kurt McKinney. Più che per i fan del
kickboxer belga, comunque, il film è consigliabile ai seguaci più sentimentali di
Bruce Lee, viste le ripetute visite del protagonista alla sua tomba nel cimitero di
Seattle (ma in tal senso, i film con protagonista «Bruce Li»/Ho Chung Tao avevano
più verve).

Senza esclusione di colpi!


(Bloodsport, di Newt Arnold, 1987)
Con Jean-Claude Van Damme, Donald Gibb, Forest Whitaker, Bolo Yeung.
Soggetto: Sheldon Lettich. Sceneggiatura: Sheldon Lettich, Christopher Cosby,
Mel Friedman. Coreografie di arti marziali: Frank Dux. Musica: Paul Hertzog.
Durata: 92’. Prodotto da: Mark DiSalle per la Cannon International.
Frank Dux, marine e praticante di ninjitsu, scappa dalla sua caserma per
partecipare al «Kumite», un violentissimo torneo di lotta a Hong Kong, allo scopo di
riscattare il nome del suo defunto maestro Tanaka. Successivamente Frank conosce
una bella giornalista americana a caccia di emozioni e un massiccio lottatore di
Wrestling, con il quale stringe amicizia. Nel corso del torneo si evidenziano vari
fuoriclasse di diversi stili, ma su tutti svetta il minaccioso Chong Li, campione in
carica che non esita a infierire sui suoi avversari (tra i quali il wrestler amico di
Frank). Alla fine Frank sconfigge e umilia Chong Li, mandando in visibilio il
pubblico, dopodiché si consegna ai due agenti che lo ricercavano per diserzione.
Ispirato liberamente alle imprese di Frank Dux, un esperto di ninjitsu detentore
(così recitano i titoli) di una serie di record marziali (knock-out più veloce; 56
knockout in un singolo torneo ecc.), Bloodsport, al cui copione ha collaborato lo
stesso Dux, è il film che ha rilanciato il filone arti marziali nel mondo, nonostante
all’inizio il produttore non volesse neppure distribuirlo, considerandolo un fiasco.
Sceneggiato anche da Sheldon Lettich, amico di Van Damme e suo futuro regista,
e diretto da Newton Arnold, il film vale soprattutto come tributo al genere, del quale
omaggia il titolo più noto, Enter the Dragon, riproponendone la formula e il
personaggio del granitico Bolo (l’attore Yang Tze). Un altro attore di Enter the
Dragon, Roy Chiao (abate del tempio di Shaolin), è qui il maestro Tanaka, che
erudisce il Frank adolescente. Tra i lottatori del torneo, invece, menzione al veterano
John Cheung nel ruolo dell’esperto di Hung Gar abbattuto dal thai-boxer con la
barbetta (Cheung è un esperto apparso in numerosi gongfu come Project A
[Operazione pirati, 1983, di e con Jackie Chan], e Dragon: The Bruce Lee Story
[Dragon. La storia di Bruce Lee, 1993, di Rob Cohen] come coreografo e attore nel
ruolo del fighter che ferisce Bruce Lee).
Ma Senza esclusione di colpi! è soprattutto un film cucito sulle qualità del suo
divo, che vi sciorina quelle elevatissime tecniche di gamba che diverranno la sua
caratteristica: un po’ Bruce Lee e un po’ Rocky, Van Damme fa bella figura
all’interno di una storia che non racconta nulla di nuovo, ma che non lesina momenti
spettacolari. Con 50 milioni di dollari di incasso solo negli USA, il film ha rilanciato
il massiccio Yang Tze (ormai noto ai fan come Bolo Yeung), ed è diventato un «cult-
movie» tra gli appassionati del genere. Trascinante anche il tema musicale (Fight For
Survive, di Paul Herzog).

Aquila Nera
(Black Eagle, di Eric Karson, 1988)
Con Sho Kosugi, Jean-Claude Van Damme, Vladimir Skontarovski, Doran Clark.
Sceneggiatura: A.E. Peters Michael Gonzales. Soggetto: Shimon Arama.
Coreografie arti marziali: Sho Kosugi. Durata: 90’. Prodotto da: Shimon Arama.
Un aereo militare USA con a bordo un sistema-laser dell’ultima generazione,
precipita nel Mediterraneo, presso l’isola di Malta. Subito il KGB invia un’équipe
della quale fa parte l’agente Andrej, un muscoloso eliminatore, mentre gli americani
richiamano Ken Tani, noto col nome in codice di Black Eagle. Nell’isola di Malta,
inizia il gioco di spie nel quale vengono coinvolti anche i due figli di Ken. Questi
avrà naturalmente la meglio, nonostante Andrej sia un lottatore più forte di lui.
Girato dopo Bloodsport ma prima che questo uscisse (il che spiega la marginalità
del ruolo di Van Damme), Black Eagle è un mediocre spy-movie, che finisce per
ridursi a un documentario turistico su Malta. Esperto di film d’azione, il regista aveva
già firmato (con risultati superiori) The Octagon (Id., 1980), uno dei numerosi film di
Chuck Norris prima della grande notorietà, ma in questo caso il risultato è pessimo, e
pieno solo di luoghi comuni.
Qualche guizzo si intravede solamente nelle due scene che oppongono
l’inespressivo Sho Kosugi all’acerbo, ma più sicuro, Van Damme: data la breve
popolarità del primo come «ninja» cinematografico e la successiva, più ampia fama
del divo belga, oggi il loro duo ha per alcuni un sapore quasi «storico». Van Damme,
in effetti, esibisce la sua classica spaccata sagittale per schivare i calci del nipponico
(ma con un po’ troppa insistenza) e un fisico da «Terminator», che gli fa assorbire i
colpi più rapidi e tecnici di Kosugi. Entrambi i loro combattimenti finiscono con la
fuga del giapponese e manca il gusto dello scontro lungo e studiato che, in passato,
aveva opposto, per fare un esempio, Bruce Lee a Chuck Norris in L’urlo di Chen
terrorizza anche l’Occidente.
Si capisce perché l’attore nippo-americano non divenne mai una vera star: a parte
la pessima qualità della recitazione, mancava di carisma. Esperto di ninjitsu e Shorin-
Ryu, Kosugi è stato comunque il primo attore orientale ad avere l’onore di una
mattonella col suo nome sull’Hollywood Boulevard, addirittura prima di Bruce Lee
(che l’ebbe solo nel 1993). Il che lascia ancora più perplessi. Una curiosità: nel ruolo
dei due bambini di Kosugi, troviamo i suoi veri figli Shane e Kane.

Kickboxer: il nuovo guerriero


(Kickboxer, di Mark DiSalle, 1989)
Con Jean-Claude Van Damme, Dennis Alexio, Dennis Chan, Michel Qissi.
Soggetto: Mark DiSalle e Jean-Claude Van Damme. Sceneggiatura: Glenn Bruce.
Coreografie: Jean-Claude Van Damme. Musica: Paul Hertzog. Durata: 105’. Prodotto
da: Mark DiSalle e David Worth per la Movie Group.
In Thailandia per fare da assistente a suo fratello, campione di Muay-Thai, il
giovane Kurt scopre il truce mondo della boxe locale, dominato dagli scommettitori e
dalla figura incombente di Tong Po, l’imbattuto campione. Questi riduce il fratello di
Kurt sulla sedia a rotelle. Il ragazzo decide di vendicarlo e si affida a un orientale che
vive nella foresta e che, sotto la mite apparenza, è un formidabile istruttore di
pugilato thailandese. Il ragazzo instaura inoltre un legame con la nipote dell’eremita,
ma il suo scopo resta la sconfitta di Tong Po. Ci riuscirà, ma non senza sofferenze.
Grande successo soprattutto nell’home video, Kickboxer è basato sulla novità (per
l’Occidente) della boxe thailandese: una forma violentissima di sport-spettacolo dove
primeggiano le tecniche di gomito e ginocchio. Ne avemmo un assaggio in un piccolo
gongfu vecchio stile: Massacro di uomini violenti (Duel of Fists/Quan Ji, 1971, di
Chang Cheh, uscito in Italia nel 1973), con la coppia David Chiang-Ti Lung. In
questo nuovo film trama e personaggi sono di routine; più interessanti, forse, le facce
di contorno: prima di tutto Dennis Alexio, il pugile ridotto sulla sedia a rotelle, in
realtà un autentico campione dell’epoca. Spicca poi Dennis Chan, il «maestro»: un
commediante che i patiti del cinema di Hong Kong possono riconoscere come il
cameriere di un ristorante in Prima missione (Heart of Dragon, 1985, di Sammo
Hung, con Jackie Chan) e come lo sbrigativo cancelliere del tribunale in Storia di
fantasmi cinesi (A Chinese Ghost Story, 1987, di Ching Siu Tung). «Steve Lee»,
picchiatore in numerosi gongfu di Hong Kong, è qui il losco e calvo manager di Tong
Po (lo ricordiamo nel menzionato I fantastici piccoli supermen, 1973, e come uno
degli avversari di Sammo Hung e Jackie Chan nell’inedito in Italia Dragons Forever,
1987). Un esperto che sicuramente avrebbe brillato, come combattente, al pari dei
protagonisti. Il coordinatore degli stuntmen è il già menzionato John Cheung di
Bloodsport. Kickboxer proponeva anche un nuovo Cattivo di successo: quel Tong Po,
dalla treccia mongola e gli occhi stirati all’insù, elencato nei titoli di coda come «se
stesso», ma in realtà impersonato da Michel Qissi, amico di giovinezza di Jean-
Claude. Una figura azzeccata come il Bolo di Bloodsport, e che tornerà anche nel
sequel apocrifo Kickboxer 2: The Road Back (Kickboxer 2, 1991, di Albert Pyun),
con l’atleta Sasha Mitchell al posto di Van Damme. A torto o a ragione, Kickboxer
generò tutta una serie di imitazioni nell’home video basate grossolanamente sulla
kickboxing.

Cyborg
(Cyborg, di Albert Pyun, 1989)
Con Jean-Claude Van Damme, Vincent Klyn, Deborah Richter, Dayle Haddon.
Scritto da: Kitty Chalmers. Coreografia: Blaise Loong. Musica: Kevin Bessinson.
Durata: 88’. Prodotto da: Menahem Golan, Yoram Globus per la Cannon Group.
Siamo nel secolo XXI: tra le macerie della civiltà si aggirano bande di mutanti-
predatori, prodotti dalla Grande Peste. L’unica salvezza è un antidoto memorizzato in
Pearl, un androide femmina. Ma Pearl è inseguita dalla banda di Fender, profeta
dell’anarchia assoluta, contro il quale si batte Gibson, un samurai del futuro. Nel
corso di vari scontri, Gibson mutila Fender di numerosi scherani, ma viene infine
sopraffatto e crocefisso. Liberatosi, raggiunge i predatori e li annienta.
Secondo molti il peggior film di Van Damme (che concorda pienamente in
merito), Cyborg rientra in quel sottofilone «futuristico-apocalittico», inaugurato da
1997. Fuga da New York. Ma il terreno era già stato ampiamente saccheggiato
(specialmente dai solerti maestri dei b-movie all’italiana, valga per tutti Enzo G.
Castellari, regista di 1990 i Guerrieri del Bronx, 1982, e I nuovi barbari, 1983),
sicché Cyborg aveva anzitutto il torto di arrivare tardi.
Ma, tempismo a parte, è un film brutto per diverse ragioni: un invadente commento
musicale a base di sintetizzatori; l’insistenza sulle scene al rallentatore, forse per
dilatare un plot che è in realtà solo uno spunto per giustificare una sequela di scontri
sanguinosi; attori sottoutilizzati (l’ottima Dayle Haddon, nelle vesti dell’androide
Pearl). Il clima barbaro è restituito da scenografie che grondano rottami e pioggia
battente, ma tutto sa di già visto (e meglio) altrove: non solo nel citato film di
Carpenter (e nel classico Blade Runner di Ridley Scott) ma, andando a ritroso negli
anni, in The Omega Man (1975: occhi bianchi sul pianeta Terra, 1971, di Boris
Sagal) con Charlton Heston, e in The Ultimate Warrior (Gli avventurieri del pianeta
Terra, 1975, di Robert Clouse), nel quale Yul Brynner scortava una donna incinta in
una New York post-atomica.
Sul piano dei combattimenti, c’è il solito difetto delle scene di arti marziali
americane: gli stuntman (diretti da Blaise Loong, uno dei predatori) aspettano i colpi!
Una curiosità: pare che Van Damme abbia dovuto sborsare una cifra non
indifferente per risarcire uno degli stuntmen, lesionato a un occhio da un suo calcio.

Lionheart: scommessa vincente


(Lionheart/A.W.O.L./Wrong Bet, di Sheldon Lettich, 1990)
Con Jean-Claude Van Damme, Harrison Page, Brian Thompson, Deborah
Rennard.
Soggetto: Jean-Claude Van Damme. Sceneggiatura: Jean-Claude Van Damme,
Sheldon Lettich. Coreografia arti marziali: J.-C. Van Damme, Frank Dux, Michel
Qissi. Musica: John Scott. Durata: 90’. Prodotto da Ash R. Shah, Eric Karson.
Leon, legionario in Africa, diserta e raggiunge perigliosamente gli Stati Uniti, dove
suo fratello è agonizzante in ospedale, per una vicenda di droga. Per sopravvivere,
Leon inizia a gareggiare nei combattimenti clandestini gestiti dal «manager» Joshua,
che lo presenta alla corrotta Cinthya, un’affascinante donna del jet-set che combina le
scommesse a un livello più alto. Quando suo fratello muore, Leon decide di
devolvere alla sua famiglia i proventi dei match. Tutti lo danno perdente contro il
bestiale Atilla; tuttavia, in un soprassalto di determinazione, il legionario capovolge il
match a suo favore. Poi si ricongiunge con la famiglia del fratello.
Lionheart appartiene al Van Damme in stato di grazia, in grado di controllare
totalmente la pellicola, basata su un copione comprato da terzi e ampiamente riscritto.
Nel cast spiccano Harrison Page nel ruolo del manager zoppo e simpatico, e Lisa
Pelikan (la cognata Nicole), ottima caratterista americana. La storia è fortemente
influenzata dalle esperienze personali di Van Damme durante i suoi inizi in
California (almeno così come li racconta lui): la strada, la povertà, il riscatto.
Per contrasto i feroci combattimenti: in particolare il confronto «di specie» contro
Atilla, più gorilla che uomo. Le coreografie sono dello stesso Van Damme, del
«Sensei» Frank Dux (Senza esclusione di colpi!) e di Michel Qissi, alias «Mustafà»
(alias il Tong Po di Kickboxer), uno dei due legionari che inseguono Leon. In piccole
parti, appaiono anche il karateka di colore Billy Blanks e il kempoka Jeff Speakman,
poi protagonisti a loro volta di b-movie marziali ispirati dal successo di Van Damme
(citiamo Perfect Weapon). Serio e sentimentale, Lionheart (distribuito all’estero
anche come Wrong Bet e A.W.O.L.) non è esente da grossolanità (il risibile scontro
tra Leon e Joshua contro una banda di teppisti di colore, opportunamente armati solo
di spranghe, invece che di pistole). Ma i fan del cinema «muscolare» trovano pane
per i loro denti: questo è uno dei grandi successi di «Muscoli da Bruxelles».

Colpi proibiti
(Death Warrant, di Deran Serafian, 1990)
Con Jean-Claude Van Damme, Cynthia Gibb, Robert Guillaume, Patrick
Kilpatrick.
Scritto da: David S. Goyer. Coreografia di arti marziali: Jeff Imada. Musica: Gary
Chang. Durata: 111’. Prodotto da: Mark DiSalle.
Il Detective canadese Burke si infiltra in un carcere per indagare su una serie di
decessi sospetti tra i detenuti, ma tutti coloro che in qualche misura sanno qualcosa
vengono uccisi. Burke scoprirà a suo rischio che c’è di mezzo un traffico di organi
umani, e il suo è uno dei nomi in lista. Ne uscirà vivo attraverso prove tremende.
Stavolta tocca a Van Damme misurarsi nel prison-movie, dopo più illustri colleghi
quali il Clint Eastwood di Escape from Alcatraz (Fuga da Alcatraz, 1979), del
maestro Don Siegel, e lo Stallone di Lock Up (Sorvegliato speciale, 1989, di John
Flynn; ma andrebbe menzionato anche il Tim Robbins del bellissimo The Shawshank
Redemption [Le ali della libertà, 1994, di Frank Darabont]).
Diretto dall’ex-attore Deran Serafian, figlio del regista di culto anni Settanta
Richard, Death Warrant parte in maniera prevedibile, ma non delude: giovano
un’ottima fotografia, un’atmosfera cupa e una squadra di attori in parte, tra i quali un
Van Damme più a freno, che ha modo di recitare oltre che di combattere (per quel
che può contare la recitazione in un film di genere). Tutti gli ingredienti sono
amalgamati in giusta dose: detenuti minacciosi (la suddivisione del carcere in «clan»
etnici), guardie corrotte, abusi di potere, pestaggi, un pizzico di mistery. Deran
Serafian girerà di peggio (vedi Gunman, con Christopher Lambert e Mario Van
Peebles [Gunman, 1994]) e Van Damme aveva già fatto di peggio (Cyborg), per cui
Colpi proibiti (titolo truffaldino che si riallaccia al più noto Senza esclusione di
colpi!) è un cambio di registro benvenuto. Sicuramente avrebbe giovato una durata
minore e un finale meno incongruente: dopo che la sua vera identità di poliziotto è
stata smascherata («Qui dentro uno sbirro è peggio di uno che stupra i bambini», lo
aveva avvisato un prigioniero), Van Damme, anziché essere linciato, viene addirittura
applaudito dai carcerati, ammirati dalla sua vittoria contro il serial killer Uomo dei
Sogni.
Sorvolando su queste forzature di sceneggiatura, comunque, è uno dei risultati più
godibili di Van Damme, anche se andò meglio in home video che nelle sale.

Double Impact: vendetta finale


(Double Impact, di Sheldon Lettich, 1991)
Con Jean-Claude Van Damme, Geoffrey Weeks, Bolo Young, Philip Chan.
Scritto da Sheldon Lettich, Jean-Claude Van Damme. Coreografie arti marziali:
Jean-Claude Van Damme. Durata: 118’. Prodotto da: Ashok Amritraj, J.-C. Van
Damme.
Venticinque anni dopo la morte dei loro genitori (uccisi dalla mafia cinese), i due
gemelli Chad e Alex si ritrovano a Hong Kong: il primo è un immaturo che pensa
solo alle donne; l’altro un contrabbandiere. Non si capiscono e non si piacciono,
tuttavia, convinti da «Zio Jack», un amico di famiglia, i due decidono di riprendersi
l’impero economico fondato dal defunto papà e attualmente inquinato da connivenze
con la Triade. Ci riusciranno al termine di terribili battaglie a colpi di arti marziali e
di armi automatiche, superando anche le reciproche incomprensioni.
All’apice della popolarità, Van Damme si fa letteralmente in due per Double
Impact, girato quasi tutto a Hong Kong. Nel cast figurano il prolifico Geoffrey Lewis
(apparso in tanti western, tra i quali l’italiano Il mio nome è nessuno, 1975, di Tonino
Valeri, e padre dell’attrice Juliette Lewis), Philip Chan, uno dei caratteristi più
ricorrenti del cinema hongkonghese (Police Story 3: Supercop, 1992, di Stanley
Tong, con Jackie Chan), nonché l’icona del kung-fu Bolo Yeung, nella parte del
killer sfregiato.
La formula è più o meno la stessa di tanti b-movie americani, con una regia
anonima al servizio della star e un po’ di soldi in più, ma con ancora una buona dose
di combattimenti corpo a corpo, prima che Van Damme lasciasse il posto al sempre
più preponderante uso di controfigure. In tal senso, la cosa migliore del film è il
duello con Bolo sulla nave, mentre quasi tutto il resto è affidato a mitragliatori,
bombe e pistole automatiche. Le scene con i due gemelli a confronto convincono
poco per l’evidente rozzezza del trucco (l’unica vera differenza tra i due consta nel
taglio di capelli). Plauso agli stuntmen diretti da John Cheung (riconoscibile anche
come uno dei mercenari che attaccano l’isola).
Un successo più volte riproposto in televisione e noleggiatissimo nell’home video,
anche se pericolosamente somigliante a certe spacconerie à la Chuck Norris.

I nuovi eroi
(Universal Soldier, di Roland Emmerich, 1992)
Con Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren, Ally Walker, Ed O’Ross.
Scritto da: Richard Rothstein, Christopher Leitch, Dean Devlin. Musica:
Christopher Franke. Durata: 108’. Prodotto da: Allen Shapiro, Craig Baumgarten,
Joel B. Michaels per la Indie Prod.
Vietnam 1969: il marine Luc Deveraux è l’unico superstite di un reparto decimato
dal suo stesso sergente, Andrew Scott, colto da follia omicida. I due si uccidono a
vicenda solo per ritrovarsi, oltre vent’anni dopo, membri degli «UniSol»
(abbreviativo di Universal Soldiers), soldati morti e segretamente resuscitati per
missioni antiterrorismo. Ridotti a esecutori robotici guidati a distanza, gli UniSol non
sono però esenti da rischi: infatti Scott dà nuovamente di matto, inizia a far fuori
chiunque e anche Luc riacquista la memoria, schierandosi contro di lui in difesa di
una giornalista troppo intraprendente.
Diretto dal teutonico Roland Emmerich (già regista di Moon 44 [Id., 1990] e poi di
giocattoloni ad alto tasso di effetti speciali come Indipendence Day [Id., 1996] e
Godzilla [Id., 1998]), Universal Soldier è il primo film ad alto budget di Van
Damme.
Un po’ Terminator e un po’ Rambo (con una sarabanda di inseguimenti stradali
che richiama anche lo Spielberg di Duel e il più recente The Hitcher [The Hitcher, 1a
lunga strada della paura, 1986, di Robert Harmon]), il film è un’agile sagra
fracassona del machismo, sublimata nelle maschere impassibili del belga e dello
statuario Lundgren, destinato a ripetere il ruolo di «Frankenstein», spaccamontagne
che lo aveva lanciato in Rocky IV (Id., 1985, di Sylvester Stallone).
Lundgren è un praticante di karate Kyokushinkai, una disciplina particolarmente
dura da competizione (la praticava anche Sonny Chiba, piccolo re del karate-movie
giapponese); Van Damme lo contrasta esibendo soprattutto i suoi calci volanti tra
kickboxing e balletto, ma più che il duello tra i due, contano gli effetti speciali.
Sembra peraltro che la collaborazione tra i due assi del b-movie marziale non sia stata
delle più facili, culminata in un quasi scontro a Cannes per il lancio del film (ma è
probabile che si sia trattato di una manovra promozionale).
Emmerich non è James Cameron e quindi è inutile cercare nel film quelle
innovazioni che insaporivano Terminator, progenitore di questa e di altre pellicole,
tuttavia in Universal Soldier c’è abbastanza per non annoiare: militarismo, le
sterminate strade dell’America on the road, un tocco di patetismo (Luc che
riabbraccia i genitori, che lo sapevano morto), e vittoria finale dell’eroe.

Accerchiato
(Nowhere to Run, di Robert Harmon, 1993)
Con Jean-Claude Van Damme, Rosanna Arquette, Ted Levine, Joss Ackland.
Soggetto: Joe Eszterhas, Richard Marquand. Sceneggiatura: Joe Eszterhas, Leslie
Bohem, Randy Feldman. Musica: Mark Isham. Durata: 91’. Prodotto da: Craig
Baumgarten, Gary Adelson.
Sam Gillen, un evaso, si accampa nella proprietà di campagna di Clydie, giovane
vedova con due figli piccoli. È l’inizio del coinvolgimento del ricercato nella vita dei
bambini e della madre, nei guai con uno speculatore edilizio che ricorre a tutti i mezzi
per appropriarsi della zona. Sam interviene mandando all’aria le intimidazioni e
salvando la famigliola, anche se ciò gli costerà il ritorno in galera. Ma Clydie lo
aspetterà.
Nel 1953, Shane (Il cavaliere della valle solitaria, di George Stevens) sancì una
delle vette del cinema western, stabilendo una formula che avrebbe avuto numerose
imitazioni. Accerchiato è l’ultima in ordine di tempo.
Diretto dal regista dell’ottimo thriller on the road The Hitcher, Robert Harmon,
Nowhere to Run rielabora la formula del western trasportando l’azione ai giorni
nostri, sostituendo la moto al cavallo e trasformando l’eroe che viene da lontano in un
evaso. Il resto è ordinaria amministrazione: l’avido speculatore terriero (Joss
Ackland, veterano attore teatrale che da molti anni bazzica gli schermi in ruoli
minori), il killer prezzolato (Ted Levine, già killer, ma seriale, in The Silence of the
Lambs [Il silenzio degli innocenti, 1991, di Jonathan Damme]), la bella vedova ecc.
In un ruolo insolitamente parco di calci e pugni, più «intimista», Van Damme non
sfigura: il copione ha il pregio di limitare le sue battute a vantaggio di sguardi e
ammiccamenti, con un paio di risse notturne giusto per non deludere troppo le platee
affezionate al personaggio. Rosanna Arquette, ex-musa dell’omonima canzone anni
Ottanta dei Toto, fa il suo dovere nei panni della vedova da prima recalcitrante e poi
innamorata (il film fortunatamente non ci risparmia un suo nudo in doccia), mentre il
primogenito Mookie è interpretato da Kieran Culkin, fratello minore del più noto
Maculay. Nowhere to Run rappresenta il titolo più anomalo (insieme a The
Legionary) nella carriera dell’attore belga: un’escursione nel drammatico dal modesto
successo, ma non priva di estimatori...

Senza tregua
(Hard Target, di John Woo, 1993)
Con Jean-Claude Van Damme, Lance Henriksen, Yancy Butler, Kasy Lemmons.
Scritto da: Chuck Pfarrer. Musica: Graeme Revell: Durata: 95’. Prodotto da: James
Jacks, Sean Daniels per la Alphaville/Renaissance.
Chance Bodreaux, marinaio disoccupato, accetta di aiutare una giovane
avvocatessa giunta a New Orleans per rintracciare suo padre, diventato un senzatetto.
L'uomo è però caduto vittima di una feroce caccia all’uomo perpetrata da un oscuro
commando mercenario, la cui specialità è organizzare «safari umani» per ricchi in
cerca di emozioni. Chance finirà sulla loro lista ma sarà lui a fare a pezzi gli
avversari.
Debutto americano del prestigioso autore di Hong Kong John Woo (Wu Yusen),
ex-aiuto regista di Chang Cheh, padre del filone arti marziali con titoli come The New
One-Armed Swordsman (La mano sinistra della violenza, 1971), Shaolin Temple (I
giganti del karatè, 1976) e The Five Deadly Venoms (Le furie umane del kung-fu,
1978). Woo, divenuto internazionalmente noto come autore di hard-boiled sanguinosi
sulla mafia cinese (citiamo A Better Tomorrow [Id., 1986] e The Killer [Id., 1989],
ambedue con Chow Yun Fat, attore feticcio del filone), sbarca a Hollywood per
volere di Van Damme: il risultato è il classico film di compromesso che scontenta sia
il belga (che sperava di imporsi come il nuovo Schwarzenegger) che Woo, limitato
dalle interferenze della star e della produzione.
Il cast include il caratterista Lance Henriksen (poi tormentato protagonista del
serial «Millennium»), in uno dei suoi soliti ruoli di malvagio esagitato, e l’attrice di
colore Kasy Lemmons (la poliziotta afroamericana di The Silence of the Lambs),
nonché il caratterista sudafricano Arnold Wosloo (il braccio destro di Henriksen,
conosciuto dal pubblico italiano per aver indossato i panni della Creatura in The
Mummy [La Mummia, 1999, di Stephen Sommers]).
Ispirato al più volte imitato The Most Dangerous Game, al quale si era rifatto
anche Cacciatori della notte (Avenging Force, 1986, di Sam Firstenberg), una
produzione Cannon con Michael Dudikoff anch’essa ambientata in Louisiana, Senza
tregua rimane comunque una delle interpretazioni migliori dell’attore belga: un
semifiasco che vale più di molti successi...

Streetfigther
(Streetfigther/Sfida finale, di Steven E. DeSouza, 1994)
Con Jean-Claude Van Damme, Raul Julia, Ming Na Wen, Damian Chiapa, Wes
Studi.
Scritto da: Steven E. DeSouza. Musica: Graeme Rewell. Coreografie: Charles
Picerni. Durata: 99’. Prodotto da: Edward R. Pressman, Kenzo Tsujimoto.
Il dittatore orientale Bison esige venti miliardi di dollari di riscatto per una quantità
di ostaggi, pianifica la fondazione di «Bisonopolis» e di una moneta col suo volto
stampato sopra. Questi e altri folli progetti incontrano però la resistenza del
colonnello Guile, delle Forze Internazionali di Pace. Insieme a Chung Li, giornalista
di giorno e guerriera ninja di notte, a un lottatore di sumo e altri pittoreschi
avventurieri, Guile fermerà per sempre il delirio di onnipotenza del dittatore.
Ispirato al videogame Streetfigther II, il film di DeSouza (uno degli sceneggiatori
più pagati di Hollywood) è un riuscito compendio di arti marziali, effetti speciali e
ironia. Una commistione tra il linguaggio del cinema e quello reiterativo e interattivo
del videogioco, per la quale Van Damme riesce a strappare il compenso più alto della
sua carriera: sette milioni e mezzo di dollari.
Raul Julia, attore di ben altro spessore morto poco dopo le riprese, è Bison; Wes
Studi, indiano malvagio in Dancing with Wolves (Balla coi lupi, 1990, di Kevin
Kostner) e The Last of the Mohicans (L’ultimo dei Mohicani, 1992, di Michael Mann)
nonché il protagonista di Geronimo: An American Legend (Geronimo, 1994, di
Walter Hill), impersona il trafficante Sagat; la splendida Ming Na Wen è Chung Li.
Ma parlare di recitazione sarebbe eccessivo: si tratta piuttosto di gustose
caratterizzazioni.
Tutti si muovono in quello che è sostanzialmente un gigantesco luna park di luci e
suoni, costumi dai colori sgargianti e armi avveniristiche. Prodotto dal discusso Ed
Pressman di The Crow (Il corvo, 1994, di Alex Proyas), Streetfigther non lascerà
un’impronta nella storia del cinema, ma dà quel che promette: un’ora e quaranta di
svago fracassone per un pubblico domenicale.
Le battute migliori il copione le riserva proprio al Bison di Julia, quando magnifica
l’avvento del suo regno e, dopo aver snocciolato un delirio di potenza dietro l’altro, si
domanda a voce alta: «Perché mi chiamano pazzo?». Il film è un gustoso concentrato
di crudeltà innocente: la stessa dei ragazzini che, seduti ai videogame, fanno
esplodere con foga i loro avversari elettronici. Ricco di citazioni (i due colossi che si
affrontano distruggendo il modellino di Bisonopolis, con in sottofondo gli effetti
sonori di Godzilla), è un filmcontenitore che si può vedere e rivedere, data la sua
assoluta inconsistenza: cercarvi messaggi o innovazioni è già offendere la sua natura
di popcorn-movie.

Timecop: indagine dal futuro


(Timecop, di Peter Hyams, 1995)
Con Jean-Claude Van Damme, Ron Silver, Mia Sara, Gloria Reuben, Bruce
McGill.
Soggetto: Mark Verheiden. Sceneggiatura: Mark Verheiden, Mike Richardson.
Musica: Mark Isham. Durata: 92’. Prodotto da: Moshe Diamant, Sam Raimi, Robert
Tapert per la Signature, Renaissance, Dark Horse.
Reclutato in un’organizzazione segreta preposta al controllo dei viaggi nel tempo,
l’agente Max Walker ostacola i piani dell’ambizioso senatore McComb, deciso a
servirsi della scoperta per arrivare alla Presidenza. Andando avanti e indietro tra il
1994 e il 2004 (anno dell’elezione di McComb), Walker modifica il passato
sgominando il politicante nel futuro e salvando anche la propria famiglia da un
attentato.
Tratto da un’omonima serie a fumetti, Timecop riporta Van Damme sul terreno
della fantascienza d’azione con risultati discreti, grazie al regista Peter Hyams (suo
anche Outland [Atmosfera Zero], 1981, con Sean Connery). Tema caro alla
fantascienza, quello dei viaggi nel tempo viene qui ridimensionato: il futuro non è
ancora avvenuto e quindi si può viaggiare solo nel passato. Peraltro un passato
recente, poiché per fermare il senatore (un perfetto Ron Silver) occorre recarsi prima
nell’America della Grande Depressione e poi nel 1994.
Sul piano dell’azione, diminuiscono sempre più le tecniche marziali in favore di
sparatorie e rocamboleschi inseguimenti sui tetti, cortesemente forniti da una legione
di stuntmen.
Contraddistinto da una fotografia gelida, bluastra nelle scene futuristiche (il regista
è anche un buon direttore della fotografia), e da parecchie ossa rotte nello scontro
finale (la pioggia artificiale rendeva il set scivoloso), Timecop, pur senza assurgere ai
fasti di un classico, è un film che intrattiene a dovere. Tra i produttori figura anche
l’ex-genio dell’horror Sani Raimi.

A rischio della vita


(Sudden Death, di Peter Hyams, 1995)
Con Jean-Claude Van Damme, Powers Boothe, Raymond J. Barry, Ron Malinger.
Soggetto di: Karen Baldwin: Sceneggiatura di: Gene Quintano. Musica: John
Debney. Durata: 105’. Prodotto da: Moshe Diamant, Adam Baldwin.
L’ex-vigile del fuoco McCord si è adattato a lavorare come responsabile del
servizio anti-incendio di un grande stadio coperto. Divorziato e con due figli, decide
di portarseli allo stadio in occasione di una finale di hockey sul ghiaccio, per la quale
è prevista la presenza del Vicepresidente degli Stati Uniti. Quando un commando
prende in ostaggio la platea d’onore, chiedendo come riscatto oltre un miliardo di
dollari, è proprio McCord a rivelarsi prezioso per la salvezza degli ostaggi. Da solo
riesce a disattivare le bombe innescate dai criminali e a sconfiggerli uno per uno.
Il successo di Die Hard ispirò un vero e proprio filone: il cosiddetto «film di
assedio», nel quale un uomo solo sconfigge un commando di criminali all’interno di
uno spazio chiuso. Di solito è un «eroe per caso», e l’escalation dell’impari confronto
prevede il «fai da te» (fabbricazione di ordigni con mezzi di fortuna e utilizzo di armi
improprie), nonché il rigido rispetto della gerarchia, per cui il duello Buono-Cattivo
arriva solo dopo che tutti gli scherani di contorno sono stati fatti fuori (sempre per
aver commesso l’errore di chiacchierare invece che sparare, come giustamente
sosteneva Tuco, ogni volta che hanno l’eroe nel mirino!). Sudden Death si inserisce
dignitosamente in questa formula: merito di una regia di servizio ma efficace e di uno
zelante Van Damme.
Spiccano nel cast il già citato Powers Boothe (glorioso protagonista di The
Emerald Forest [La foresta di smeraldo, 1985, di John Boorman]) e Raymond J.
Barry nel ruolo del Vicepresidente (peraltro, apparsi insieme in un altro martial-
actioner, Rapid Fire, con Brandon Lee [Drago d’acciaio, 1992, di Dwight M. Little],
dove curiosamente era Barry il farabutto e Boothe un onesto poliziotto). Nella parte
dell’ex-pompiere, ex-artificiere, ex-giocatore di hockey (persino ex-marito!), Van
Damme è adeguato, anche se il suo eccesso di trascorsi si rivela troppo opportuno a
sventare i piani dei cattivi: disattiva mine, mena come un pazzo, spara come un
cecchino e, nel momento più involontariamente comico, si traveste da giocatore
improvvisandosi un portiere provetto!
Tolto ciò, Sudden Death può piacere se si finge di non fare caso ai tanti «già
visto». Semmai, l’unica nota un po’ deludente è proprio l’azione: più che Van
Damme, chi rischia la vita è la sua controfigura Marko Stefanich, pericolosamente
riconoscibile in troppe scene. Il titolo originale deriva dal gergo sportivo: la `morte
improvvisa’ viene introdotta quando le due squadre sono in partita alla fine del
match, da quel momento la prima che segna vince.

La prova
(The Quest, di J.-C. Van Damme, 1996)
Con Jean-Claude Van Damme, Roger Moore, James Remar, Abdel Qissi.
Soggetto: Frank Dux, J.-C. Van Damme. Sceneggiatura: Steven Klein, Paul
Mones. Musica: Randy Edelman. Coreografia arti marziali: Steven Lambert. Durata:
88’. Prodotto da Moshe Diamant per la Selima.
New York, 1925. Chris Dubois, capo di una banda di piccoli borseggiatori, è
costretto a una fuga precipitosa. Imbarcatosi come clandestino, finisce nelle mani di
Lord Dobbs, un contrabbandiere che lo vende a Kao, sull’isola di Muai-Thai. Qui,
Dubois viene istruito nella boxe thailandese e, tempo dopo, intraprende, insieme a
Dobbs e ad altri personaggi, un viaggio verso la Città Perduta di Shan, dove si tiene
un torneo con in palio un drago d’oro massiccio. Nel cruento contesto si misurano
campioni di ogni Paese, ma è proprio Dubois, grazie alla sua abilità e al suo cuore, a
uscire vincitore. Tuttavia rinuncia al drago d’oro, ottenendo in cambio la liberazione
di Dobbs e del suo socio, imprigionati per aver tentato di scippare la statua. Dubois
torna infine a New York per riscattare i suoi ragazzi.
Giunta a compimento grazie alla MPD Worldwide di Mark Damon (ex-attore di
horror e western anni Sessanta), «La prova» del muscoloso belga, impegnato su più
fronti, si rivela un kolossal nei mezzi, ma non nei risultati. Ammiratore di James
Bond, Van Damme scrittura un incartapecorito Roger Moore e parte per l’Estremo
Oriente, dove il film viene perigliosamente completato in extremis (per i lottatori, la
produzione, ormai a corto di denaro, mise un’inserzione sui giornali).
Partito come un Enter the Dragon anni Novanta, The Quest finisce per essere un
Senza esclusione di colpi! ad alto costo. La formula è quella ormai consueta del
torneo, con echi da svariati classici di altri generi: i bambini borseggiatori (Angels
with Dirty Faces [Angeli con la faccia sporca, 1938, di Michael Curtiz]; C’era una
volta in America, 1982, di Sergio Leone); la città perduta (Lost Horizon [Orizzonte
perduto, 1937, di Frank Capra]), il viaggio che omaggia volutamente tanto cinema
classico americano (c’è persino un arrembaggio di pirati). Poi il racconto precipita nel
banale, anche se le scene del torneo sfoggiano tecniche di sumo, kung-fu shaolin,
capoeira brasiliana (ma, essendo il film ambientato prima che le arti marziali fossero
diffuse nel mondo, non si capisce come facciano i partecipanti europei a sfoggiare
colpi di karate e taekwondo). Il brusco ricorso finale alla voce di Dubois anziano, che
spiega la sorte toccata ai personaggi, fa sorgere il dubbio che si tratti di una trovata di
montaggio, per giungere al faticoso «the end». Accolto meglio in videocassetta che al
cinema, The Quest rimane un volenteroso tentativo. Nel ruolo del molosso mongolo
ancora Michel Qissi, già Tong Po di Kickboxer [errore dell’autore: Abdel Qissi è il
fratello maggiore di Michel/Tong Po. N.d.R.]. Un film ricco ma piuttosto prevedibile.

Maximum Risk
(Maximum Risk, di Ringo Lam, 1996)
Con Jean-Claude Van Damme, Natasha Henstridge, Jean-Hugues Anglade.
Scritto da: Larry Ferguson. Durata: 97’. Prodotto da: Moshe Diamant, Roger
Birnbaum.
Nizza. Un uomo muore al termine di uno spericolato inseguimento e il poliziotto
Alain scopre di somigliargli come una goccia d’acqua: in effetti si tratta del fratello
gemello Mikhail, separato da lui alla nascita. È l’inizio di un intrigo che porta Alain a
scontrarsi con la mafia russa di New York; scambiato per il gemello, realizza che
questi era un pezzo grosso della mala, ma che voleva uscirne. Più volte braccato da
un boss rampante, Alain trova aiuto in Alex, la ragazza di suo fratello, ma è anche nel
mirino di due agenti corrotti dell’FBI. In un’escalation di violenza, sconfigge i
mafiosi, i due poliziotti e libera Alex, innamoratasi di lui.
Dopo John Woo, è il turno di Ringo Lam (Lam Ling Tung), altro regista di culto di
Hong Kong (City on Fire, 1988, dramma criminale che ispirò il Tarantino di
Reservoir Dogs [Le Iene. Cani da rapina, 1992]) di debuttare in una produzione
internazionale. Maximum Risk si avvantaggia della maschera indurita della sua star,
leggermente più «attore», e meno «feticcio». Il che, dato un copione non eccezionale,
è forse da attribuirsi alla regia.
Accanto a Van Damme, l’avvenente Natasha Henstridge, lanciata dal
fantascientifico Species (Specie mortale, 1995, di Roger Donaldson) e qui esaltata
dall’immancabile scena di nudo (che sembra essere l’unica ragione della sua
presenza). Il contorno è costituito da facce anonime ma aderenti di bravi caratteristi,
al servizio di un regista che sa muovere la cinepresa con ritmo meno isterico rispetto
al più illustre Tsui Hark: per quanto ritmate, sparatorie e scazzottate non hanno quel
tipo di montaggio convulso che confonde lo spettatore.
Nonostante l’ambientazione internazionale, tra la Francia del Sud e New York, il
meglio del film rimane nei singoli momenti: l’inseguimento in metropolitana; il
combattimento in ascensore tra Van Damme e il gigante russo; Alain che si
commuove ascoltando il messaggio lasciatogli inciso da suo fratello (un momento
intimista che il divo belga non spreca).
Nonostante il modesto successo, Maximum Risk è forse il miglior film del Van
Damme «attore», e, almeno a livello distributivo, il più noto di Ringo Lam, anche se i
puristi del cinema di Hong Kong gli preferiranno sempre City on Fire e Prison on
Fire.

Double Team: squadra vincente


(Double Team/The Colony, di Tsui Hark, 1997)
Con Jean-Claude Van Damme, Dennis Rodman, Mickey Rourke, Paul Freeman.
Soggetto: Don Jakoby. Sceneggiatura: Paul Mones, Don Jakoby. Coreografie:
Charles Picerni. Musica: Gary Chang. Durata: 85’. Prodotto da: Moshe Diamant.
L'agente segreto Jack Quinn viene richiamato in servizio per catturare il terrorista
internazionale Stavros, a Roma per incontrare suo figlio: Stavros sfugge alla cattura,
ma il bambino resta ucciso da una pallottola vagante. Quinn, dato per morto a seguito
dello scoppio di una bomba, viene invece ricoverato su una misteriosa isola chiamata
«La Colonia»: un paradiso obbligato per quegli agenti segreti creduti morti, ma in
realtà reclutati come analisti contro il terrorismo internazionale. Recuperate le forze,
Quinn riesce a evadere per tornare a Roma, dove, aiutato da Yazoo, un gigantesco
afroamericano trafficante di armi, regolerà i conti con Stavros una volta per tutte.
Dopo John Woo e Ringo Lam, Van Damme si affida a Tsui Hark, affermatosi in
Asia con una serie di film pieni di effetti speciali, tali da avergli guadagnato il
soprannome di «Spielberg cinese» (citiamo tra i tanti il wuxiapian Zu, Warrior from
the Mountain, 1982, e, come produttore, A Chinese Ghost Story).
Con un budget di svariati milioni di dollari a disposizione per The Colony (questo
il titolo di lavorazione del film), Tsui Hark può permettersi di tutto: il film si apre con
una scena di inseguimento degna del miglior 007, prosegue con un pirotecnico
scontro a fuoco nel luna park e procede per accumulo, cercando di non annoiare il
pubblico a forza di botti, sparatorie, inquadrature isteriche e montaggio da videoclip.
Attento a non sforare i costi e i tempi (mentre Van Damme sanguinava per una
caduta, durante una movimentata scena girata a piazza Navona, Tsui Hark già
organizzava altre scene da girare senza il divo belga), Hark riesce a conservare anche
il suo stile personale. L’ambientazione romana è un curioso ibrido di suggestioni
futuristiche (le gallerie popolate di punk, i «cyber-frati» sotterranei), mentre la storia
contamina effetti speciali e citazioni da Bruce Lee (il duello finale nell’arena, come
in The Way of the Dragon; il duo Van Damme-Rodman, che rimanda al contrasto
visivo Lee-Kareem Abdul Jabbar in The Game of Death). Double Team offre anche
più scene di arti marziali rispetto agli altri film recenti di Van Damme, e il duello
contro il calvo Xin Xiong Xiong nell’albergo (coreografato dal maestro Sammo
Hung) ci riporta al dinamismo ipercinetico dei film di Hong Kong. Due curiosità nel
cast: l’eccellente stuntman-caratterista italiano Bruno Bilotta nel ruolo del killer con
la valigia-mitragliatrice, e Orso Maria Guerrini, vecchia gloria del poliziesco e dello
sceneggiato-TV, ridotto a comparsa tra gli agenti segreti ospiti della Colonia.

Hong Kong: colpo su colpo


(Knock Off, di Tsui Hark, 1998)
Con Jean-Claude Van Damme, Rob Schneider, Lela Rochon, Michael Fitzgerald
Wong, Paul Sorvino.
Soggetto: Steven E. De Souza. Coreografie: Yuen Bing. Durata: 82’. Prodotto da:
Nansun Shi per la Film Workshop, Val D’Oro Entertainment.
Marcus, re dei contraffattori di Hong Kong nel settore jeans, scopre che il suo
socio è in realtà un agente CIA. Come se non bastasse, un altro amico, Eddie Wong,
viene rapito da una banda di terroristi: c’è di mezzo un tragico piano per diffondere
nel mondo una serie di esplosivi miniaturizzati, così da potere ricattare le autorità.
Sono coinvolti nella vicenda anche un’agente afroamericana, un poliziotto di Hong
Kong e il capo della sede hongkonghese della CIA. Sullo sfondo, i preparativi per il
ritorno della colonia britannica alla Cina Rossa. Marcus e il suo amico faranno piazza
pulita al termine di movimentate avventure.
Secondo frutto del connubio Van Damme-Tsui Hark, Knock Off è un passo avanti
rispetto a Double Team, forse anche perché il regista ha «giocato in casa» (la
pellicola è stata girata a Hong Kong): caratterizzano il film l’estrema isteria delle
scene d’azione, così rapide che, nelle sparatorie, è arduo discernere chi spari a chi,
mentre i brevi combattimenti fanno abuso di wirework, come è tipico nei film di Hark
(si veda la pur pregevole serie Once upon a time in China, con Jet Li).
Sul piano dei personaggi, Van Damme si vede rubare la scena da Rob Schneider,
nel ruolo dell’amico logorroico. L’agente in gonnella Lela Rochon, il poliziotto
cinese interpretato da Michael F. Wong (antagonista di Brandon Lee in Legacy of
Rage, 1987) e il doppiogiochista Paul Sorvino (zio di Mira, che curiosamente stava
allora girando Costretti ad uccidere [Replacement Killers, di Antoine Fuqua], con il
divo di Hong Kong Chow Yun Fat), sono routine.
Evidentemente il regista si è sforzato al massimo di vivacizzare un plot altrimenti
scarno, condendolo con movimenti indiavolati di cinepresa e dettagli impossibili (la
soggettiva di un piede che entra in una scarpa da ginnastica, per esempio). Pare che la
prima opzione per la parte dell’agente cinese fosse Jet Li.
La seconda unità è stata diretta dal mitico attoreregista-coreografo Sammo Hung.
Una curiosità: nel ruolo di Choy, il magazziniere di falsi col quale Van Damme parla
all’inizio, appare brevemente Dennis Chan, il maestro eremita di Kickboxer.

Il legionario: fuga dall’inferno


(Legionnaire, di Peter Mac Donald, 1999)
Con Jean-Claude Van Damme, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Steven Berkoff,
Nicholas Farrell, Jim Carter.
Soggetto: Sheldon Lettich, J.-C. Van Damme; Sceneggiatura: Sheldon Lettich,
Rebecca Morrison. Musica: John Altman; durata: 82’. Prodotto da: Edward
Pressman, J.-C. Van Damme, Peter Mac Donald.
Marsiglia, anni Venti. Arruolatosi nella Legione Straniera per sfuggire alla
vendetta di un boss, un pugile si ritrova in Marocco, dove viene sottoposto a un rigido
addestramento insieme a individui di varia provenienza. Spediti nel deserto a
combattere i beduini, i soldati solidarizzano tra di loro e sperano solo di uscirne vivi.
Solo l’ex-pugile ci riuscirà, e non per proprio merito: al termine del massacro della
sua truppa, a difesa di un fortino isolato, il capo dei beduini lo risparmia, così che
possa riferire ai superiori il monito di abbandonare quella terra.
Visti gli incassi poco esaltanti delle sue ultime pellicole, Van Damme abbandona
gli effetti speciali per tornare al film classico di avventure nei panni (già indossati in
Lionheart) del legionario, ma senza arti marziali.
In effetti questo Legionnaire è un po’ un omaggio al cinema esotico-epico anni
Trenta (Gunga Din [Id., 1939, di George Stevens], Beau Geste [Id., 1939, di William
A. Wellman], ma anche il più recente March or Die [La Bandera, marcia o muori,
1976], con Gene Hackman e Terence Hill), realizzato con sufficienza di mezzi e
gusto per i caratteri forti. Nulla di nuovo sotto al sole, ma un diversivo che può
risultare attraente nel mare magnum dei film-videogiochi.
Diretto da Peter Mac Donald (Rambo III [Id., 1989]) e interpretato da attori
anonimi ma in parte (unico volto noto è Steven Berkoff, già malvagio ufficiale russo
in First Blood Part II), Legionnaire costringe Van Damme a usare le gambe solo per
marciare, ma l’attore belga non se la cava indegnamente, grazie a un volto segnato
dagli anni che gli conferisce una maggiore «maturità» espressiva. Un insuccesso che
vale più di tanti successi e una boccata d’aria pura rispetto ai film d’azione inquinati
dall’abuso di trucchi digitali.

Universal Soldier
(Universal Soldier. The Return, di Mic Rodgers, 1999)
Con Jean-Claude Van Damme, Michael Jai White, Heide Schanz, Xander
Berkeley, Kiana Tom, Bill Goldberg.
Musica: Don Davis. Durata: 92’. Prodotto da: Craig Baumgarten.
Luc Deveraux, della squadra segreta UniSol (Universal Soldiers), è diventato
addestratore di una squadra segreta composta da altri come lui: possenti militari
morti, rianimati e addestrati per missioni segrete. A differenza di loro, però, Luc ha
riacquistato la sua umanità e ha persino una figlia. Supervisiona il tutto il
supercervello SETH, ma, allorché il governo annulla i fondi al programma, il computer
decide di sopravvivere ad ogni costo, si autoimpianta nel vigoroso corpo di uno degli
UniSol e comanda alla squadra di spazzare via chiunque costituisca una minaccia.
Bloccato all’interno della base insieme a una bella giornalista, Luc sarà l’unico in
grado di fermare i soldati-zombie.
Sequel di I nuovi eroi, il film che segnò l’ingresso di Van Damme nelle major di
Hollywood, Universal Soldier: The Return disattende quanti potevano aspettarsi
un’altra avventura on the road: qui, l’azione è quasi interamente situata nella base
sotto assedio (ennesima variazione di Die Hard), con profusione di botti e stereotipi
alla Terminator (impossibile non ravvisare il cyborg di Cameron nell’incedere
inesorabile degli imperscrutabili soldati-zombie). Il che non sarebbe necessariamente
un male se il film avesse dei guizzi. Al contrario, la piattezza dell’operazione si
palesa non appena entra in scena la figura femminile, incredibilmente identica a
quella del primo capitolo: la solita giornalista bionda ficcanaso, salvata dall’eroe.
Unica nota interessante è il combattimento finale tra Van Damme e l’attore
afroamericano Michael Jai White, che impersona SETH: uno scontro che riprende la
lezione ipercinetica del cinema d’azione di Hong Kong, con uso di cavi invisibili per
esaltare i balzi degli attori (ma attenzione a non guardare troppo Van Damme, o si
nota che è una controfigura).
La sensazione che si ricava da questo infelice seguito è che l’attore belga stia
sparando tutte le cartucce di cui dispone, spaziando dall’avventuro-esotico di
Legionnaire al futuribile di questo Universal Soldier: The Return, al western-action
di Coyote Moon, nel tentativo di risalire la china. Ma il film sembra un’opera fine
anni Ottanta (quando questo filone era più in auge) realizzata dieci anni dopo e senza
particolari pregi per distinguersi dai facsimili che l’hanno preceduta.

Fino all’inferno
(Coyote Moon/Desert Heat/Inferno, di John Avildsen, 1999)
Con: Jean-Claude Van Damme, Pat Morita, Danny Treyo, Gabrielle Fotzpatrick,
Larry Drake, Vincent Schiavelli, Jaime Pressly, Ford Rainey, Paul Koslo, Priscilla
Pointer.
Durata: 100’. Prodotto da: Evzen Kolar, Lawrnce Levy, Richard G. Murphy, J.-C.
Van Damme.
Eddie Lomax, un vagabondo, reduce dei Reparti Speciali e amico di uno sciamano
pellerossa, giunge sulla sua moto Indian in un paesino desertico dove due bande di
delinquenti si contendono il traffico di droga. Aggredito, derubato della sua moto e
lasciato per morto, l’uomo farà piazza pulita dei delinquenti mettendoli uno contro
l’altro...
Ennesimo remake di La sfida del samurai (Jojimbo, di Akira Kurosawa, 1961),
Coyote Moon porta la firma del glorioso regista di Rocky, John Avildsen, anche se
corre voce che sia stato diretto a più mani, a causa d’una travagliata lavorazione. Ci
sono escursioni esistenzialiste (il monologo-dialogo di Van Damme nel deserto), echi
dal western (non va dimenticato che il film si rifà anche al capolavoro di Sergio
Leone, Per un pugno di dollari), orizzonti sconfinati e l’azzeccata figura del guaritore
pellerossa, metà uomo e metà fantasma, spirito di una natura indomita che si
perpetua; purtroppo, nella seconda parte, dopo un avvio per lo meno inusuale, la
storia degenera nella consueta escalation di sparatorie e cazzotti.
Nel cast figurano Noriyki Pat Morita, il maestro Miyagi della saga di Karate Kid
(anch’essa diretta da Avildsen), nel ruolo dell’improvvisato becchino, e Gabrielle
Fitzpatrick, la ragazza del ristorante, già apparsa in Mr. Nice Guy (Id., 1997, di
Sammo Hung), con Jackie Chan. Il resto del cast sono facce funzionali ma anonime,
per lo più di energumeni in canottiera con i muscoli al testosterone.
Van Damme, sempre più segnato nel volto, sfoggia una maggiore sicurezza di
attore e qualche tecnica di gambe in più rispetto ai suoi ultimi film, ma nell’insieme
Coyote Moon appare come un’altra occasione sprecata, quantunque più godibile di
Universal Soldier. The Return. Per cinefili la citazione finale, quando l’autista di bus
invita una ragazza al cinema a vedere «un film di kung-fu»: Jojimbo! Purtroppo il
doppiaggio italiano, ignorando il titolo con cui il film è uscito in Italia, non rende
l’idea, ma ci si chiede se gli sceneggiatori sapessero che Jojimbo non era un film di
kung-fu, bensì chambara (film di samurai).

Abominable
Al momento in cui questo libro viene scritto poco si sa sul suddetto film, se non
che si tratti di un’avventura sull’Hymalaia sulle tracce del leggendario Yeti e che la
regia dovrebbe essere di Renny Harlin (Die Hard 2, Cliffhanger. Del film se ne parla
da quasi tre anni, ma ancora rimane confinato nel limbo della pre-produzione.
[A tutto il 2009 del film non esistono altre informazioni. N.d.R.]

The Replicant
(id., 2000, di Ringo Lam)
Con: Jean-Claude Van Damme, Michael Rooker, Catherine Dent.
Produzione: Nu Image/Millenium Films. Distribuzione: Artisan Entertainment.
La città di Seattle è preda del terrore a causa di una lunga sequenza di omicidi
seriali. Il detective Jake Riley (Michael Rooker) per molto tempo ha cercato di
risolvere il caso, ma adesso, sfinito, è sul punto di ritirarsi, perché ne ha abbastanza
del suo inutile lavoro.
L’assassino, Garrotte (Jean-Claude Van Damme), ha molti conti in sospeso con
Riley, e decide di prendersi una personale vendetta contro di lui, puntando come
prossima vittima alla madre di Jake. Scoperto il piano di Garrotte, Riley decide di
rivolgersi e chiedere aiuto a una segreta organizzazione governativa. Grazie al DNA
di Garrotte, viene creato un replicante (Jean-Claude Van Damme) affinché Riley.
possa «entrare» meglio nella mente dell’assassino.
Il replicante è fisicamente ben sviluppato, ma ha il cervello di un bambino. Poiché
inoltre il suo è il DNA di un killer psicopatico, potrebbe covare dentro di sé la
medesima follia, pronta a erompere da un momento all’altro. Così, Jake si trova a
lottare contro il tempo per fermare Garrotte prima che sia troppo tardi sperando, allo
stesso tempo, di non doversi trovare costretto ad affrontare ben due assassini.
Per la terza volta, dopo Double Impact e Maximum Risk, Jean-Claude Van Damme
si trova a interpretare due volte se stesso. Per la seconda volta, è ancora il regista
hongkonghese Ringo Lam a dirigere il «doppio» Van Damme, in una storia che
propone il tema più caro a molti registi di Hong Kong: quello della labilità del
confine tra buono e cattivo (e della continua lotta tra bene e male). Coprotagonista del
film è un famoso caratterista americano, conosciuto dal pubblico soprattutto per aver
interpretato la parte di Henry nel violentissimo esordio di John McNaughton Henry
Portrait of a Serial Killer (Henry, pioggia di sangue, 1986), ma tra gli interpreti
anche del più recente The Bone Collector (Il collezionista di ossa, 1999, di Phillip
Noyce). Girato a Vancouver, Canada (le riprese sono iniziate il 15 marzo 2000), il
film ha un budget di circa 15 milioni di dollari. L’augurio è ovviamente che The
Replicant – ancora inedito anche negli Stati Uniti – rilanci Van Damme sulla scena
internazionale.
Siti Internet

Oltre a quelli dei singoli film in uscita, allestiti dalle case di produzione (e quindi
raggiungibili attraverso i link relativi), i siti web su Jean-Claude Van Damme sono
generalmente creati e mantenuti dai suoi fan. Si possono trovare pagine con elenchi
di immagini scaricabili (come al REsoftlinks Celeb Site:
http://www.resoftlinks.com/cs2/vandamme/, e al Jean-Claude Van Damme Photo
Album: http://www.angelfire.com/tn/jcvd/) o altri con brevi informazioni e commenti.
Uno dei più completi è il My Lord’s Van Damme
Manor, all’http://www.geocities.com/Hollywood/Makeup/5827/Jean.html, con
biografia, filmografia, raccolta di recensioni e articoli, e file audio con brevi
brani delle colonne sonore. Qualche articolo e un’altra raccolta di immagini si
trovano al The Shrine of
Jean-Claude Van Damme:
(http://www.shef.ac.uk/uni/union/susoc/cass/homes/pm/pm933303/vandamme.html).
Un elenco completo di link sui siti di Jean-Claude Van Damme (compresi
newsgroup, forum e chat) si trova infine al Tizzy’s Complete Jean-Claude Van
Damme Links (http://www.geocities.com/Hollywood/6201/main.html). Il miglior sito
sul cinema, e quello più utilizzato dagli autori, è comunque The Internet Movie
Database, un’infinita enciclopedia sul cinema, all’http://www.imdb.it.
Bibliografia

ALEOTTI, PAOLO, La Hollywood dell’era pulp, Roma, Editori Riuniti, 1999.


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a cura di C. Belliti e S. Vinci Roma, ADN Kronos, 1998.
BERTOLINO, MARCO – RIDOLA, ETTORE, John Woo. La violenza come redenzione,
Genova, Le Mani, 1998.
CATELLI, DANIELA, Friedkin. Il brivido dell’ambiguità, Ancona, Transeuropa, 1997.
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1992. DE LUCA, LORENZO, Bruce & Brandon Lee, Roma, Mediterranee, 1996.
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FRANCHINI, ANTONIO, Quando vi ucciderete, maestro?, Venezia, Marsilio, 1997.
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WU MIN, YI, Gesto e supremazia: il corpo panico, la mente nel panico, Venezia,
ELLEBi libri, 1993.
Ringraziamenti

Gli autori desiderano ringraziare Roberto Marchesini, Gian Giacomo Rosiello,


Massimo Mazzoni, Davide Nanni e Maurizio Marinelli per la consulenza, Luigi
Sanvito, Ida Mirante, Massimo Tellini, Massimo Torriani e Gabriella Bianco per il
materiale iconografico, la «Nu Image» di Los Angeles per le inedite informazioni su
The Replicant, Silvia Vacchetti, Bruno Fratus e Gualtiero Viganò per la pazienza.
Un particolare ringraziamento va inoltre a Kaatje Van Damme, Philippe Van
Damme, Jan Van Damme, Alain Van Damme, Cynthia Van Damme, Remco Van
Damme, Charles Van Damme, Alex Van Damme, e a tutti coloro che, nel presente
come nel futuro, moltiplicheranno e perpetueranno la genealogia di un eroe.

FINE

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