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Riassunto di "Il Videogioco in

Italia"
Teoria Dei Giochi
Università di Torino
17 pag.

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IL VIDEOGIOCO IN ITALIA
RICCARDO FASSONE: UNA PREISTORIA DEL VIDEOGIOCO ITALIANO
1) Una storia continuista del videogioco italiano: il libro si fa parte di una più grande ricostruzione storica e
all’analisi critica delle vicende dell’industria videoludica italiana. Fassone sostiene inoltre che per quanto possa
sembrare strano, non si può fare un’indagine di questo tipo senza partire giochi pre-digitali (e forse pure pre-
elettronici) come i flipper o comunque tutto quello che ha rappresentato l’intrattenimento prima dell’ondata digitale.
Questa tesi secondo cui non si può studiare l’intrattenimento digitale senza aver studiato ciò che c’era prima,
l’autore l’ha ripresa da studiosi come Erkki Huhtamo. Fassone articola il capitolo in due modi: presentazione del
caso della Zaccaria (la produttrice di flipper più importante in Italia tra gli ’70 e gli ’80), riflessione storico/teorica
sulle continuità relative alla produzione e alla ricezione di flipper e videogiochi arcade.

2) Un metodo per la storia della produzione: l’indagine si basa su interviste a quella che Caldwell ha definito
“production culture”, ovvero collezionisti, archivisti e operatori del settore che formano un archivio idiosincratico di
best practice, credenze e tradizioni più o meno consolidate. Dato che però buona parte delle aziende italiane sono
fallite, Fassone non si è basato solo sugli strumenti della storiografica classica come riviste, l’analisi di oggetti e
dispositivi, il lavoro su fonti secondarie, ma anche su campioni di informatori (necessariamente ristretti per via delle
dimensioni dell’industria italiana). In particolar modo, l’autore ha deciso di prendere specifici informatori collegati
alla storia del flipper italiano.

3) Zaccaria, una preistoria del videogioco italiano: il capitolo si basa sulla tesi esposta prima di Huhtamo,
secondo cui videogiochi arcade e giochi elettromeccanici hanno condiviso per un lungo periodo di tempo modi e
luoghi di utilizzo.
Nel ’63 i 3 fratelli Zaccaria (Natale, Marino e Franco) aprono un bar a Bologna in cui si poteva gicare a dei flipper
importati dagli USA. Natale però, dati gli studi da meccanico, si avvicina alle macchine per conoscerle e capire
quali fossero i pezzi di ricambio di cui avevano bisogno. Già nel ’64 i fratelli iniziano con l’attività di riparazione
delle macchine proprie, altrui e al noleggio di alcune occasionalmente. Tra il ’66 e il ’67 il bar viene lasciato alle
mogli così da poter seguire meglio la nuova attività, che comprende anche modifiche importanti a livello meccanico
e rebranding visivo. Nel ’73 l’attività diventa una vera e propria azienda con lo spostamento in un capannone e la
produzione da 0 di flipper proprietari, con come conseguenza la creazione di una sorta di indotto formato da grafici,
produttori di pezzi e vetrai ad es. La svolta arriva nel ’78 quando, 6 mesi dopo aver visto il primo flipper elettronico
ad una fiera, svelano Winter Sports: il loro primo flipper basato su tecnologia solid state. Nello stesso anno, dopo
aver assunto alcuni game designer, svelano Invaders che è il primo di una serie di videogiochi a marchio Zaccaria.
La doppia linea produttiva va avanti fino al fallimento dichiarato nell’84. Prima di questo però, in particolar modo
nel 1981 che è stato il loro anno migliore, le esportazioni arrivavano addirittura fino agli USA.
La Zaccaria è solo un esempio di continuità produttiva a cavallo del cambio di paradigma che le aziende nel campo
hanno subito in quegli anni. Un altro esempio potrebbe essere la Sipem/Sidam di Torino. Da qui Fassone avanza due
ipotesi: la prima che da ragione a Huhtamo e vede questi strumenti (videogiochi, biliardini e flipper ad es.) che
venivano venduti in buona parte agli stessi esercenti per arredare bar, sale giochi e via discorrendo. Quindi c’è una
continuità di luoghi e di trattamento da parte di rivenditori, produttori e esercenti. La seconda è la presenza
dell’indotto mostrato sopra fatto di diverse figure professionali.

4) Locale/globale, legale/illegale: flipper e videogiochi condividevano quindi quelli che Gitelman definiva
protocolli mediali, ovvero modi di interazione, ricezione culturale e sociale, comportamenti attesi dai giocatori e
sollecitati dai designer delle macchine. Questa convergenza sembra quindi derivare in primo luogo da un assetto
industriale a cui fondamentalmente non cambiava molto lavorare su flipper o su videogiochi, oltre ad essere in parte
estremamente locale e in alcuni casi internazionale (vedi l’illustratore David Wilcox che disegnava per la Zaccaria).
In secondo luogo, dal fenomeno anarcheologico e tipico dell’industria italiana del periodo che è la clonazione.
Difficilmente infatti all’epoca i prodotti erano totalmente originali, ma sostanzialmente copie di prodotti stranieri. In
altri casi addirittura, come a Napoli, i flipper erano dei Frankenstein formati da pezzi di flipper rottamati. Nemmeno
la causa vinta da Atari e Bertolino contro la Sipem ha fermato il fenomeno. La pratica della pirateria era però
pressoché normale all’epoca in quanto non gestita da una norma. E tutto questo nonostante alcune pratiche
produttive fossero richieste a persone che vivevano negli stessi paesi a cui veniva copiato il gioco.

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Tra le varie case, alcune tentarono la carta del nome internazionale per cercare il successo all’estero. Alcuni esempi
sono Mr.Game (azienda di proprietà Zaccaria), Europlay e Model Racing.

M.CARBONE: L’ITALIA DEL SIMULMONDO. CARATTERI NAZIONALI E


TRANSNAZIONALI DELL’INDUSTRIA ITALIANA DEL VIDEOGIOCO
Nel 1991 la software house Simulmondo produce Millemiglia, I play 3D soccer e nel 1992 Dylan dog: Gli uccisori.
Partendo da questi giochi, e dall’italianità dei temi e delle rappresentazioni, Carbone analizza in maniera
storiografica il percorso del gioco prodotto in Italia, dell’italianità riflessa o evidente nel gioco e del successo
commerciale e/o critico riscosso da noi e delle resistenze incontrate all’estero. Soprattutto nei paesi anglosassoni.
Partendo poi da analisi che non considerano più solo i centri mondiali dei videogiochi come USA e Giappone, ma
anche le realtà più piccole come importanti per la storia e la crescita dei videogiochi, e da analisi sulla storia e lo
sviluppo nel nostro paese, Carbone propone una tesi di più larghe vedute: basandosi infatti su logiche e presupposti
di produzione, oltre che sulle aspettative di un pubblico sempre più condizionato dalle nuove tecnologie, lo studio
della realtà italiana non può non considerare anche quanto accade ed è accaduto oltre il limiti nazionali. L’esempio
di Simulmondo parla infatti di una delle prime aziende professionalizzanti in un paese fondamentalmente amatoriale
e occupato nel clonare i prodotti dei colossi del campo. Un’azienda che punta sull’italianità del prodotto usando
brand conosciuti a livello globale come la Millemiglia e Dylan Dog.

1) Dalla camera da letto alla casa di produzione: nel 1987 il giornalista Francesco Carlà, mosso da un forte
interesse per il gioco elettronico, pubblica sulla rivista McMicrocomputer un annuncio per quegli appassionati che
volevano diventare professionisti del settore. Dalle risposte nascerà a Bologna la Simulmondo, probabilmente la
prima vera software house di videogiochi in Italia. Dal lavoro di 3-4 persone nascono Millemiglia, Dylan dog e I
Play 3D soccer tutti studiati per funzionare su Amiga, mentre il primo gira anche Commodore 64 e MS DOS e il
secondo Atari ST. Simulmondo come le altre software house europee lavorano tutte per home computer per evitare
le grandi spese per lo sviluppo e le licenze d’uso dei produttori di console giapponesi. Il contesto pan-europeo
conviene inoltre anche dal punto di vista logico oltre che da quello economico, con le tecnologie e i linguaggi di
programmazione che si muovono molto più rapidamente. Tuttavia, per Simulmondo c’è il problema molta della
domanda è creata soprattutto da prodotti esteri come i software che provengono da USA, Giappone, UK e Francia.
Carlà partì dall’esigenza di creare un videogioco all’italiana seguendo il modello del cinema, politica questa ben
visibile nelle tematiche, ma anche nello scouting a livello nazionale del personale. Il risultato sono videogiochi
italiani ma con un appeal potenzialmente internazionale grazie alle tematiche, ai personaggi scelti per i videogiochi
e soprattutto per un gameplay di base che ricalca quello di altri giochi di successo a livello globale. Dylan Dog ad es
si rifà a giochi action come Gods (1991) o Rolling Thunder (1986), ma aggiungendoci la variabile horror del
fumetto. Lo stesso discorso vale per Millemiglia che si rifà a Outru e Crazy cars (1986-1987). 3D Soccer invece
sfrutta la popolarità del calcio a livello europeo aggiungendoci la variabile innovativa di giocare con la prospettiva
del calciatore. Il modello Simulmondo viene seguito anche da altre case come Idea, Genias e Trecision, le quali
sfruttano tutte tematiche non prettamente italiane ma di sicuro successo anche all’estero. La differenza Simulmondo
l’ha fatta grazie ad una produzione più ampia, per l’impegno e l’ambizione messi sul proprio brand e la capacità di
attirare i mass media, oltre ovviamente alla forte connessione che aveva con brand italiani famosi nel mondo.

2) Calcio, macchine e fumetti: per i suoi giochi Carlà stringe accordi di distribuzione con ad es UK, Francia e
Spagna, ricalcando la strategia produttiva e di branding dell’inglese Psygnosis e che un po’ si basa su quella che
Higson ha definito come “la costruzione di un carattere e una soggettività nazionale riconoscibili all’interno di un
sistema di significazione transnazionale”. La strategia di branding per la costruzione di un marchio italiano parte già
dal logo ideato da Carlà e disegnato da Massimo Iosa (il mondo circondato da un atomo rotante).
Millemiglia permette di correre le edizioni che vanno dal ’27 al ’33 offrendo in teoria le tipiche ambientazioni che
hanno caratterizzato la famosa corsa, oltre a fonti storiche e giornalistiche nel menù. L’elemento chiave qui è
ovviamente sottolineare il paesaggio nostrano rispetto ai concorrenti. In generale il gioco offre un approccio che
combina un realismo simulativo ad un verismo rappresentativo (la verosimiglianza storico-geografica) che sarebbe
arrivata solo più tardi con giochi come GT o Forza.
Dylan Dog offre invece un’esperienza che sia il più simile possibile al fumetto grazie a grafiche dedicate e un mini-
albo inedito all’interno della scatola. Ma la strategia di branding continuerà successivamente grazie ad altri giochi,

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videogiochi a episodi acquistabili in edicola settimanalmente. Questa politica porterà agli interactive comics con
l’arrivo negli anni successivi di Diabolik e Spiderman.
3D Soccer, come già detto, puntò su una nuova giocabilità e sull’ondata di giochi calcistici post mondiale del 1990.
L’italianità è invece sottolineata dalla presenza di sole squadre italiane.
In generale, l’obiettivo di Carlà con queste politiche di branding e marketing focalizzate sul mercato estero, era
quello di rendere l’Italia non solo una destinazione per i videogiochi, ma un punto di partenza e un paese
riconosciuto a livello globale per i suoi prodotti.

3) Dylan Dog who? Qui Carbone ha analizzato le risposte della critica italiana e anglosassone, quest’ultima
scelta in quanto la più importante a livello globale tra le europee e per l’influenza del mercato britannico su quello
europeo e italiano. Nessuno dei tre titoli ebbe grosso successo oltremanica. Millemiglia venne lodato dalla rivista
The Games Magazine Italia per la presentazione, il realismo e la resa 3D; Amiga Magazine UK lo definì invece
come lento, piuttosto italiano e poco attraente per chiunque se non per gli italiani. Dylan Dog venne invece preso in
giro in quanto all’estero non solo il titolo non era molto conosciuto, ma il nome era pure piuttosto ridicolo, e per dei
comandi lenti accompagnati da una narrazione pacchiana. Per I play 3D soccer le critiche furono leggermente più
lusinghiere: The One lo definì come il primo vero simulatore anche se privo di vero realismo. Amiga Action e
Amiga Power lo ritennero rispettivamente come confusionario e ostico nonostante la nuova prospettiva di gioco e
coraggioso, ma inferiore ai concorrenti. Nota dolente fu poi il manuale: a quanto pare tradotto in un pessimo inglese.
In generale, Carboni sottolinea come le critiche solo lusinghiere italiane furono fatte per un certo campanilismo,
mentre oltremanica Simulmondo patì di un pregiudizio di arretratezza tecnica e scetticismo nei confronti delle
aziende italiane del campo e di mancanza di riconoscibilità del prodotto. Ma l’insuccesso fu legato anche a limiti
tecnici, finanziari e strutturali di un’azienda non più amatoriale sotto certi aspetti (spesso i membri dello staff
svolgevano ruoli legati ad es alla logistica in quanto piccola realtà), ma nemmeno così professionale rispetto alle
controparti francesi e inglesi. La motivazione di questa differenza è sicuramente da affibbiare alla mancanza di
investimenti seri da parte dello stato nella formazione di nuovo personale (con scuole corsi e università) e nell’aiuto
alle nuove aziende nello sviluppo di tecnologie e prodotti proprietari di livello. Ad esempio, Simulmondo
programmava per Commodore 64 e Amiga quando all’estero questi sistemi erano già diventati quasi obsoleti. A
Carlà e alla sua azienda va comunque riconosciuto il merito di avere rappresentato un grosso passo avanti per il
campo in Italia.

TOSONI, TARANTINO E PACHETTI: I NOMI SUI GIOCHI (IL RUOLO DEL


CRACKING NELL’INDUSTRIA VIDEOLUDICA ITALIANA 1980-1990
Cracking: l’insieme di quelle procedure che puntano a rimuovere ogni tipo di protezione hardware o software messa
dal produttore per evitare la copia del programma. Va inclusa anche l’alterazione dell’aspetto o di alcune dinamiche
di funzionamento di un videogioco al fine di nasconderne l’origine.

1) Il Cracking videoludico in Italia 1980 – 1990: la storia del cracking può essere divisa in base alle
piattaforme hardware del momento su cui operano i cracker. Le origini sono ricondotte alla prima diffusione dei
software nelle case come ad es. l’Apple II. In Italia arriva più tardi e principalmente sui prodotti della Commodore e
della Sinclair. Il cracking però pare essere cominciato anche prima dell’home computing. La storia del cracking in
Italia si divide in 3 fasi: la fase degli arcade fino al 1983, la fase degli home computer a 8 bit (che dura parecchi anni
in quanto la pirateria è molto diffusa e porta sul mercato software a prezzi irrisori) fino alla fine degli anni ’80, la
fase dei computer a 16 bit che dura poco rispetto all’estero per via della lunga durata degli 8 bit e l’arrivo dei 32 bit,
come ad esempio la prima Playstation. Lo spostamento tra una fase e l’altra è comunque piuttosto graduale e mai
netto.

2) La fase arcade: in Italia i giochi arcade cabinati vede il boom verso la fine degli anni ’70. Su questi giochi la
protezione all’interno del gioco cercava di evitare il dumping del codice binario del gioco, ovvero la copia, la
distribuzione, la modifica o il noleggio non autorizzato. Per protezione allora si intendeva la presenza di parti come
microprocessori o componenti altri nella scheda madre che, se assenti, non facevano partire il gioco. In questo caso i
cracker dovevano usare strategie hardware e software di reverse engineering per eliminare la protezione. In genere

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in Italia il dumping vedeva la copia del gioco per noleggio e delle modifiche (aggiunta livelli, cambio nome e
aspetto ai personaggi) per creare i cosiddetti giochi bootleg. In questo modo i possessori di cabinati potevano avere
giochi nuovi a costi di mantenimento decisamente più bassi e con possibilità infinita di aggiornamenti, evitando di
dover dipende direttamente dalle più costose case originali. La situazione in Italia era favorevole in buona parte per
la mancanza di una seria legislazione al riguardo e in parte per l’assenza di una vera azione da parte delle case
produttrici. La prima legge/norma al riguardo si ebbe solo nell’83 con la causa Atari/Bertolino contro Sidam al
tribunale di Torino. Dopo di essa il mercato andò regolarizzandosi con vari produttori pirata che si misero a produrre
su licenza (vedi Sidam che divenne Sipem).

3) La fase home: come anticipato sopra, passata la fase arcade si passa a quella degli home computer a 8 bit.
Rispetto a prima la figura del cracker viene riconosciuta e distinta da quella del pirata sia dalle riviste specializzate
che dalla stampa più divulgativa. Tuttavia entrambi i tipi di carta stampata hanno un comportamento altalenante nei
confronti dei cracker, passando dal condannare il cracking di giochi per guadagnarci, all’avere rubriche e tutorial su
come sproteggere i giochi presentandole come puramente “didattiche”. Inoltre, le riviste ospitavano anche pubblicità
a pagamento di gruppi di cracker, offerte di lavoro per cracker portate avanti da case editrici, gruppi di cracker, o i
propri contatti per poter essere contattati da negozianti o privati per l’acquisto di giochi sprotetti. In generale questo
comportamento ambigui dei magazine rispecchia la comunità cracker del periodo che varia da scopi prettamente
accademici (conoscere la programmazione e il funzionamento dei programmi) a scopi economici.
A influenzare maggiormente la nostra comunità cracker in quegli anni è la controparte tedesca, in particolar modo
della Germania dell’Ovest, formata da due gruppi come il German Cracking Service e il JEDI che, grazie ad un
canale diretto, iniziano a inondare il mercato italiano di giochi craccati. In Italia tuttavia esistevano singoli cracker
sparsi per il paese e non gruppi, a cui però facevano riferimento una rete capillare di cracker più piccoli sprovvisti di
strumenti di livello ma comunque utili alla copia e al passaggio dei file.
In risposta a questa nuova wave di cracker le case produttrici si misero ai ripari esattamente come avevano già fatto
nella fase arcade: i dongle (controllo che determinati dispositivi hardware siano collegati al terminale su cui viene
eseguito il software), tecniche di registrazione non standard su disco così da rendere la copia lineare impossibile (il
Pirate Slayer della EA), o una sorta di autentificazione a due fattori tramite cui il software richiede info tramite
dispositivi fisici non inclusi nella confezione (ad es riferimenti al manuale di gioco, codici generati tramite ruote
combinatorie).
Data l’estrema facilità del cracking domestico, il costo irrisorio e nuovamente una mancanza a livello
regolamentativo, il cracker assume un ruolo importante per due diverse reti distributive: la prima è formata da
negozianti privati con negozi di elettronica e informatica, giocattoli, ottica o fotografia dato che quelli solo legati
all’informatica erano ancora molto pochi e poco riforniti. A questi i giochi arrivavano tramite distributori in
collegamento diretto con i cracker e gli venivano proposte diverse tipologie di acquisto, anche se il formato
dell’abbonamento con fornitura settimanale di tot giochi fu la più diffusa; la seconda rete distributiva era
rappresentata dalle edicole che, rispetto ai negozi, erano distribuite in tutta Italia in maniera capillare ed erano molto
ben conosciute dai giovani. Rispetto ai singoli cracker, le case distributrici che rifornivano le edicole non solo
avevano una rete distributiva molto più potente, ma avevano anche a disposizione mezzi informatici e produttivi
capaci di copiare su cassette molti più giochi piratati (anziché su floppy come per i negozi). In edicola si formò
quindi un circolo mensile di uscite con cassette che potevano contenere 5-10 giochi ciascuna. Ma data l’uscita
cadenzata i cracker avevano bisogno di reperire sempre più giochi che in Italia non arrivavano, andando quindi
anche a recuperare titoli più vecchi. Il loro ruolo divenne quindi quello del gatekeeper, che decide a cosa potevano
giocare o meno gli utenti. Data però la mancanza di titoli nuovi ogni mese dalle case produttive, i cracker
cominciarono a spezzettare il gioco in livelli ma modificandoli rispetto agli originali così da renderli più lunghi.
L’obiettivo era quello di allungare il più possibile le uscite. Tra i giochi più craccati c’erano ovviamente quelle
calcistici, ma anche gli action, gli shooter e i platform. Questa scelta era dettata dal fatto che essendo giochi stranieri
i cracker dovevano tradurli tutti, quindi optavano per quei generi in cui il testo era minimo. Un ultimo tipo di
modifica era infine l’inserimento di un trainer/aiutante opzionale che poteva aiutare il giocatore nei livelli più
difficili.
Le riviste infine divennero non solo portali lavorativi, ma pure basi per la ricerca di “testi sacri” sul cracking
provenienti dagli USA.
La fase dei cracker sui HC a 8 bit continuò fino agli anni ’90 affiancando i nuovi 16 bit. Con l’arrivo delle console,
soprattutto quelle di seconda generazione, la scena italiana si allineò a quella europea, il web portò una
comunicazione globale e a crew internazionali di cracker, molti formarono dei demo group mentre altri

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regolarizzeranno il loro lavoro andando a lavorare per delle software house o diventando esperti nel campo della
sicurezza informatica.
ADDEO, BARRA, DI GIUSEPPE: DA ZZAP! ALLE APP. RIFLESSIONI SUL
GIORNALISMO VIDEOLUDICO IN ITALIA

1) L’editoria videoludica in Italia: agli inizi dei videogiochi negli anni ’70 sia negli USA che in Europa non
esisteva una stampa specifica, ma solo riviste di informatica o di argomenti non molto affini e cataloghi, più che
magazine, spesso di importazione per i giochi arcade cabinati. La prima a distinguersi fu Play Meter fondata da
Ralph Lally nel 1974 che si occupava di recensioni e indagini sul mercato. La spinta arrivò però solo con i primi HC
che all’epoca potevano essere considerati come semplici calcolatori da ufficio o piattaforme per la sperimentazione
tecnologica e creativa, portando la stampa a dividersi tra essere manualistica per l’uso a piccole guide per scrivere
programmi o videogiochi. Sotto questo aspetto l’Italia era lo specchio della controparte anglosassone, con i
videogiochi che erano trattati da esperti con linguaggi e una narrazione piuttosto tecnica. La prima rivista fu
Videogiochi del 1982 pubblicata dalla Jackson, che rispetto alle riviste presenti fino ad allora portò da noi lo stile
delle riviste americane come Electronic Games. Lo stile era sempre serio e tecnico, ma c’era comunque uno spazio
dedicato ai più giovani, alle loro domande e ai loro punteggi record. Il vero salto si ebbe però solo con Zzap! nel
1986, realizzata su licenza dell’inglese Zzap! 64, che trattava i giochi per gli HC a 8 bit con una narrativa meno seria
rispetto a prima e introducendo un punteggio complessivo in percentuale e da 0 a 100 per elementi come giocabilità,
sonoro, grafica, presentazione e il rapporto qualità/prezzo. Il risultato fu la creazione di una primissima ma piuttosto
attiva community-gaming italiana. Il modello Zzap! Funzionò così bene che altri magazine lo seguirono come ad es.
The Games Machine (1988) che è ancora in edicola.
Con l’arrivo negli anni ’90 della console il mercato editoriale italiano si espande ma al tempo stesso si complica, in
quanto ognuna iniziò a specializzarsi su un solo tipo di device (vedi seconda tabella).

N° di riviste prettamente videoludiche presenti nelle edicole (1983 – 2019)

Per il PC c’erano ad esempio The Games Machine e Zeta, per le console Console Mania (simile a Zzap! come stile),
MegaConsole, o le specializzate di Nintendo e Playstation. Ma esistevano anche le riviste multipiattaforma come
Game Republic o Game PRO (pubblicata da EDGE).
Il cambiamento del mercato per trasformazioni tecniche e culturali ha tuttavia messo in crisi la stampa di settore,
colpevole di non essere riuscita a seguire i cambiamenti proponendo anche qualcosa di nuovo, oltre ovviamente ad

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essere stata attaccata dall’arrivo delle riviste online caratterizzate da immediatezza e soprattutto gratuità. In
particolare, le riviste italiane non hanno saputo allontanarsi dal modello della recensione, per quanto ormai reso più
leggero, che però è rimasto sostanzialmente una guida all’acquisto.
La forza di internet ha poi portato inoltre i social media, YouTube e i canali di streaming che hanno ulteriormente
cambiato i tipi di contenuti per gli utenti, i linguaggi, le forme di interazione, portando ad una maggiore
immediatezza che per ovvi motivi la carta stampata non può garantire. Inoltre, i magazine hanno dovuto vedersela
anche con l’ingresso dei quotidiani nell’ambito, i quali sono passati dal parlarne solo in casi di critica (la classica
deviazione giovanile a causa dei videogame) a argomento mainstream.
Nel complesso la frammentazione del discorso sui videogiochi sta addirittura mettendo in dubbio l’effettiva utilità di
una stampa dedicata, soprattutto se non in grado di evolversi.

2) L’indagine qualitativa sui protagonisti dell’industria videoludica: gli autori hanno domandato a 8
giornalisti, che hanno lavorato o lavorano ancora presso testate italiane, lo stato attuale, passato e futuro dell’editoria
di settore in Italia. Oltre, ovviamente, alla loro formazione e come sono arrivati a ricoprire il ruolo di redattori per
questi magazine.

3) L’editoria videoludica in Italia secondo i giornalisti: le interviste mostrano come il percorso personale
dei redattori è collegato alla loro passione e interesse per i videogiochi, che gli ha spinti verso questa professione. In
generale tutti non hanno frequentato scuole o università specifiche, ma hanno avuto la fortuna di trovarsi nel posto
giusto al momento giusto sfruttando però un bagaglio di competenze acquisto tramite la lettura delle riviste. Alcuni
giornalisti, infatti, hanno avuto il lavoro scrivendo alla testata o essendo piuttosto attivi su dei forum internazionali.
Buona parte dei giornalisti formatisi su carta pensa inoltre che il passaggio da carta a web e da web a video fosse
imprescindibile e che ha reso più democratiche le cose, ma andando a discapito un po’ di tutti. Tutti sono però
d’accordo sul dire che le riviste degli anni ’80 sono state imprescindibili per la creazione di una solida gaming
culture e di un vocabolario utilizzato ancora oggi.
Per i giornalisti più giovani cresciuti con il web, le varie possibilità che si sono formate nel corso del tempo sono il
motivo principale per cui si sono iniziati alla professione. Tra gli 8 giornalisti (in parte nativi digitali e in parte no),
solo uno sia è detto contrario all’attuale stato delle cose in quanto si è perso il momento critico passando dal
contenuto della recensione a quello del prodotto stesso.
Tutti gli intervistati sono concordi, inoltre, sul sostenere che l’ambito è cresciuto di pari passo con il maturare delle
tecnologie e dell’allargamento dei suoi fruitori, dato che il range d’età dei gamers è ormai piuttosto largo e coloro
che fanno recensioni sono sempre più spesso dilettanti e non solo professionisti.

M.BITTANTI: SIETE IN UN PAESE MERAVIGLIOSO – LA GUIDA


SIMULATA NELL’ITALIA DI FORZA HORIZON 2
1) Viaggio in Italia: il gioco è ambientato in una Italia fittizia in cui però ci sono anche elementi della Provenza e
della Costa Azzurra francese. Il team di sviluppo ha creato tre città (Castelletto, Motellino e San Giovanni)
circondate da aree rurali e coste, unendo elementi del Piemonte, della Liguria, della Toscana e della Campania.
L’Italia raffigurata è inoltre un paese con 5 milioni di abitanti in meno, trasferitisi all’estero per cercare fortuna data
l’austerità e la continua crisi economica. Il resto del capitolo è una continua invettiva di Bittanti contro la scarsa
aderenza al reale dell’Italia rappresentata nel videogioco. Secondo lui infatti nelle città mancano le aree industriali, i
porti commerciali e i centri commerciali; mancano i mezzi di trasporto pubblico nonostante ci siano le fermate, non
ci sono pedoni, non ci sono ciclisti e i rider che portano il cibo, non ci sono camion che intasano le autostrade; le
strade sono perfettamente asfaltate e prive di qualsiasi tipo di immondizia a bordo strada com’è effettivamente nel
mondo reale. La critica maggiore però viene fatta contro la guida e le auto stesse: Bittini sostiene infatti che il gioco
non ha elementi reali come le tasse da pagare sulle auto, i danni dati dagli incidenti, le spese di manutenzione e
l’inquinamento prodotto. Su questo si concentra poi in particolar modo denunciando il fatto che tra le caratteristiche
di ogni auto non ci sia l’inquinamento prodotto, cosa assolutamente inaccettabile in un paese in cui la situazione
inquinamento è così delicata (quasi fosse colpa solo delle auto); questo lascerebbe impunite le case automobilistiche,
nostrane e non, dall’assumersi la colpa dell’attuale situazione e dei morti collegati allo smog, creando quindi un
mondo distopico/apocalittico in cui tutto va bene e che quindi ci stordisce e ci allontana dallo stato effettivo delle
cose. Conclude sostenendo che il gioco è il pacchetto all’inclusive dei nuovi poveri che non potranno mai vedere le
mete presenti nel gioco, mentre le vere vacanze, il vero giro di queste mete, sarà ad appannaggio solo dei ricchi e del
loro Grand Tour del ventunesimo secolo.

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I.GIRINA: I LIMITI IMMAGINARI DEL VIDEOGIOCO NAZIONALE –
L’ITALIA DI ASSASSIN’S CREED
1) Il videogioco nazionale: per quanto riguarda il concetto di nazionalità a livello cinematografico la
discussione si apre già a partire dagli anni ’50, con la ripartenza del cinema negli stati europei post-conflitto. Il
cinema e le teorie ad esse collegate si sono confrontate invece con la nazionalità del film a partire dagli anni ’80,
dopo che la cinematografia (come disciplina) ha tirato fuori il problema sia a livello critico che istituzionale per
combattere il quasi totalitarismo del cinema hollywoodiano. Da qui si è formata una sorta di resistenza al cinema
americano formata però non da film normali, ma da film d’autore che hanno scarso successo ai botteghini dei loro
paesi ma grande successo alle mostre del cinema.
Il riesame della categoria “nazionale” all’interno del cinema parte da una più larga analisi filosofica sul concetto
nazione all’interno del mondo del lavoro portata avanti da Gellner e Anderson. Per Gellner i nazionalismi
“inventano” le nazioni dove non esistono, sottolineandone così il carattere sociale artificiale; Anderson invece
sostiene che la nazione è una “comunità immaginata”, dando quindi particolare importanza ai processi di
comunicazione che trasformano comunità reali (definite in base alla vicinanza geografica) in comunità immaginate
(accomunate da un passato importante e da valori comuni). Gellner inoltre afferma la concezione modernista
secondo della nazione come strumento di organizzazione per la produzione industriale, quindi una risposta
all’esigenza statale e industriale di organizzare le masse in modo produttivo e di comunicarci attraverso una
comunicazione di massa. Una comunità non più costruita da individui, ma piuttosto una comunità che viene
comunicata ad essi attraverso riti ed eventi mediali.
Basandosi sul lavoro di Anderson, Higson individua 4 retoriche attraverso cui il cinema contribuisce ai processi di
comunicazione del “nazionale”: una prospettiva di produzione (la provenienza del film), una prospettiva di critica (i
criteri estetici per la definizione di un di un canone che possa rappresentare il nazionale ai festival), il consumo
cinematografico (i gusti di coloro che vanno al cinema), il livello testuale (che analizza i contenuti del film e la
nazionalità di ciò che è rappresentato).
In modo simile, l’ambito videoludico ha visto una mancanza di attenzione agli ambiti nazionali in buona parte per
l’anglocentrismo della critica ma anche delle software house. Inoltre, modo analogo a quanto definito sopra di
Higson, anche la nazionalità di un videogioco può essere analizzata sulla base delle strategie di comunicazione
usate.

2) L’Italia del videogioco - la Firenze dell’Animus in Assassin’s Creed II: spesso la nazionalità di un
gioco è stata definita in base alla dimensione testuale, alle iconografie, le narrazioni, le meccaniche di gioco e la
giocabilità. Secondo Enrico Gandolfi bisognerebbe creare una maggiore consapevolezza del videogioco come
strumento per far conoscere il paese, quasi una sorta di pubblicità per il Made in Italy. In molti giochi stranieri infatti
l’italianità è data non dalle meccaniche di gioco o dai testi, ma dalle ambientazioni che fanno da sfondo. Sulla falsa
riga dell’idea di Gandolfi è stato creato il progetto IVIPRO (Italian Videogame Program) che ha analizzato quali
sono state le regioni presenti più spesso all’interno di un videogioco, con il Lazio al primo posto, seguito da Veneto
e Toscana. Il problema è che come accade anche a livello economico e politico, alcune regioni sono quasi escluse
dalle ambientazioni in quanto teoricamente prive di punti di interesse di rilievo. Il programma ha quindi anche
proposto una serie di ambientazioni da consigliare a software house e sviluppatori per la creazione di nuovi giochi.
Un esempio è la Sardegna, con eventi come il carnevale di Mamoiada, i Nuraghi o le maschere dei Mamuthones,
andando quindi oltre l’idea della Sardegna come sola meta turistica incentrata sul mare.
La situazione generale mostra quindi la presenza di gerarchie di visibilità intrinseche al paese, ma anche la presenza
di stereotipizzazione che oscura l’aderenza ai contenesti storico-culturali. AC II è un esempio, con vari dettagli della
città di Firenze che non sono relativi all’epoca rinascimentale in cui è ambientato. Secondo Dow questo fenomeno
porta ad una nuova interpretazione dei luoghi storici e delle varie epoche sostanzialmente come una
rappresentazione artificiosa, un simulacro, di un ambiente reale. Sostanzialmente, Firenze non com’era
effettivamente all’epoca ma come la immaginiamo adesso nel presente. Questa situazione viene definita da
Adrienne Shaw come la “tirannia del realismo”, che porta a giudicare un gioco sulla base della sua accuratezza o al
suo grado di finzione in relazione alla fedeltà sensoriale di chi crea il gioco e di chi lo gioca. Infatti l’accuratezza

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deve essere analizzata non solo sulle immagini riprodotte, ma anche in base a come queste reagiscono ai movimenti
del giocatore. Conta la giocabilità.
Un esempio di come Firenze venga sostanzialmente filtrata sulla base delle aspettative delle persone lo dà l’Animus,
il sistema che permette al protagonista Desmond di rivivere la vita del suo antenato Ezio Auditore. La città vista nei
ricordi è infatti una città interpretata e creata dalla Abstergo (la società creatrice dell’Animus) sulla base dei dati in
suo possesso: ma non è detto che fosse effettivamente così. Inoltre, permette a Desmond di muoversi entro certi
limiti e fare solamente determinate azioni.
In conclusione, sostanzialmente Firenze fa da sfondo agli eventi della storia e le inesattezze storiche sono spesso
poco evidenti ad un occhio comune, ma comunque necessarie per portare avanti le dinamiche di gioco come le
acrobazie e il parkour di Ezio, i combattimenti o i movimenti stealth per evitare di essere scoperto. L’aderenza
storica si piega alle necessità del gioco.

M.CASTRONUOVO: CARTOLINE DALL’ITALIA – ANALISI


ICONOGRAFICA DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL BELPAESE NEL
PICCHIADURO 2D GIAPPONESE
L’analisi portata avanti da Castronuovo prende principalmente in considerazione due picchiaduro giapponesi degli
anni ’90: The King of Fighters e Street Fighter Alpha. In seconda battuta anche i giochi cosiddetti “a scorrimento”.

1) Mediterraneità e classicità: concetti che sembrano guidare alla base la rappresentazione dell’Italia non solo
in questi due videogiochi ma in generale nel campo videoludico del periodo. In generale questi due concetti sono
utili agli sviluppatori dei videogiochi di non doversi focalizzare su specifiche caratteristiche di specifici posti, ma gli
permettono comunque di far capire al giocatore che la scena/livello del gioco si sta svolgendo nel bel paese. Alcuni
degli elementi classici sono: la costante presenza del mare cristallino/turchese sullo sfondo, paesini/borghi formate
da case che architettonicamente rimandano a sperduti villaggi di pescatori del sud e, più in generale, colori caldi con
un’ambientazione diurna insieme a cieli tersi.
Quando si tratta invece di riprodurre la parte più classica dal punto di vista dell’arte, i designer hanno utilizzato tratti
piuttosto generali come arcate e colonnati che rimandano all’epoca romana ma senza citare o ricopiare specifici
monumenti. In questi casi si tende a parlare di natura indicale degli elementi che compongono le ambientazioni, cioè
un principio secondo cui spazi privi di riferimenti espliciti vengono organizzati e grazie al quale gli sfondi possono
essere associati ad un dato contesto.
Per arrivare a capire quali luoghi abbiano ispirato le ambientazioni bisognerebbe andare per ipotesi e speculazioni,
in assenza di schizzi, bozze e foto impiegati dagli sviluppatori. Ad esempio, nel livello italiano di The King of
Fighters si può ipotizzare che dati i mulini a vento, il mare sullo sfondo e il paesino dai muri bianchi, i designer si
siano ispirati all’Isola di Levanzo in Sicilia. Ma comunque non c’è una certezza assoluta.
Con i giochi a scorrimento l’ambientazione assume se possibile ancora meno importanza, in quanto appunto il gioco
scorre e non è “incorniciato” e lo sfondo è rappresentato da moduli stilizzati che si ripetono ogni tot. Un es è Double
Dragon che usa come sfondo un ipotetico Colosseo rappresentato da colonnati generici e statue a intermittenza.
Esistono comunque casi di giochi che riproducono fedelmente una data città o luogo, ma la rappresentazione è
limitata dalla tecnologia dell’epoca e dal genere del gioco che di per sé è limitante.

2) Concentrazione: è la prima delle 3 modalità secondo cui si basa la rappresentazione degli sfondi nei
picchiaduro, 3 categorie applicabili a qualsiasi luogo reale usati come base per gli sfondi di un gioco e
immediatamente riconoscibili. Per concentrazione si intende quasi un effetto cartolina secondo cui i designer
tendono a far entrare nell’inquadratura fissa/semi-fissa del gioco quanti più elementi possibili per dare una maggiore
italianità e riconoscibilità al luogo, avvicinando alle volte anche luoghi, monumenti, edifici piuttosto lontani da loro.
Uno degli esempi riportati da Castronuovo è quello presente in The King of Street Fighters con come sfondo una
città che è palesemente Venezia. Dietro al teatro del combattimento si può infatti riconoscere il Ponte di Rialto e le
gondole, entrambi pieni di tifosi, così come altri edifici che normalmente non si potrebbero vedere da quella
prospettiva del Canal Grande. Edifici come Punta della Dogana e Dogana da Mar infatti non sono visibili da li, ed
addirittura davanti alla Dogana manca una famosa scultura in bronzo.

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3) Sovrapposizione: simile per “messa in scena” alla concentrazione, ma qui l’accostamento di edifici e elementi
simbolo dell’Italia non riguarda solo quelli facenti parte della stessa città, ma anche quelli appartenenti a parti
opposte del paese. Le ragioni dietro la sovrapposizione sono simili a quelle della concentrazione, ma qui la
costruzione di un “immaginario italiano”, di un’Italia idealizzata, da parte dei designer è decisamente più importante
per dare senso al gioco. Un esempio, preso da un altro gioco che non fa parte dei due inziali a riprova che queste tesi
valgono per tutti i giochi, è quello di Fatal Fury 2 del ’92. Qui due lottatori combattono su un battello in movimento
su quello che poterebbe essere il Canal Grande per via delle gondole. Ma la sovrapposizione avviene sullo sfondo,
dove si ripetono nell’ordine il Ponte di Rialto, la Torre di Pisa, il Palazzo Ducale di Venezia, l’ingresso verso il
Duomo della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano.

4) Citazione: qui gli stage dei combattimenti rimandano sì sempre a luoghi reali, ma vengono mediati ancora
prima che il gioco venga realizzato. L’ispirazione qui non deriva da luoghi reali, ma opere mediali differenti come il
cinema. E’ sostanzialmente una rimediazione di qualcosa che è già stato pensato e realizzato mantenendo anche un
alto livello di fedeltà, con lo scopo di usare qualcosa che è ormai già nell’immaginario collettivo. La citazione in
generale la si ritrova spesso nei personaggi, ad es la figura di Bruce Lee che si ritrova in giochi come la serie Tekken
o Street Fighter, ma ha avuto successo anche negli sfondi. Un esempio è quello del personaggio di Rose nel primo
Street Fighter Alpha e allo sfondo simil-Colosseo a lei collegato. I colori caldi, il colonnato, l’arcata, i gatti randagi
e la composizione del quadro nel complesso, rimandano al film L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente; nello
specifico viene citata la scena del combattimento finale tra Chen e l’antagonista Colt interpretato da Chuck Norris.

M.BEOIT CARBONE: IT’S A ME, MARIO! – FENOMENOLOGIA DI UN


IDRAULICO ITALICO
Il capitolo è basato su un’indagine di Carbone su come gli italiani e gli italo/americani venissero considerati in
Giappone tramite la loro trasposizione in giochi, film, cartoni animati, artwork, materiali promozionali e tutto ciò in
cui Mario è comparso. E ancora, interviste a designer e addetti ai lavori. L’analisi si basa su 3 fasi: la prima che va
da Donkey Kong a Super Mario Bros con al centro la nascita della caratterizzazione basandosi sui contenti
giapponesi e americani; da Super Mario Bros a Mario Teaches Typing con al centro la voce italo/americana di
Brooklyn in base all’arrivo negli USA dei giochi e alle evoluzioni tecnologiche che gli hanno dato la sua voce; da
Super Mario 64 a Super Mario Odyssey con la definitiva consacrazione della sua italianità.

1) Barbari pelosi - Giappone e italianismi: presente per la prima volta in Dokneky kong del 1981 con il nome
di Jump Man, Mario prende il suo nome solo nel 1983 con Mario Bros. L’idea del nome e della caratterizzazione di
italo-americano è venuta al creatore del gioco, Shigeru Miyamoto, dopo aver assistito una scenata dell’imprenditore
Mario Segale contro il proprietario di un magazzino che stivava i cabinati di Donkey Kong. L’aspetto del personaggi
però era presente già nel primo gioco e, sempre secondo Miyamoto, la presenza di baffi, cappello e bretelle
aiutavano alla costruzione di un personaggio in un periodo in cui la tecnologia non permetteva e non rendeva facili
grandi caratterizzazioni. Inoltre la tuta da falegname aveva senso per l’ambientazione del gioco.
E’ probabile tuttavia che la caratterizzazione di un soggetto occidentale, all’epoca era ancora il Jump Man, sia
dovuta ad un vizio dei giapponesi nell’arte moderna post XIX secolo, a esagerare con i tratti dei personaggi come ad
esempio nasi fuori scala e in generale la peluria sul viso. Questa cosa spiega il mantenimento poi dei baffi e della
coppola con l’arrivo di Mario. Vi è poi comunque l’aspetto secondo il quale gli italiani allora, e ancora oggi,
viaggino con sulle spalle pregiudizi come l’arretratezza, l’impulsività, la tendenza alla teatralità. Tutte cose
ritrovabili in Mario.

2) Tu vuo’fa l’italiano - Mario negli USA: data l’importanza degli USA per la Nintendo, il personaggio di
Mario si adattava benissimo ad andare benissimo sia nel mercato casalingo che in quello americano. Il successo fu
tale che il personaggio andò oltre il videogioco, finendo anche nel mondo della TV con il cartone Super Mario Bros.
Super Show (1989) e la serie The Adventures of Super Mario Bros.3 (1993). Il tema generale vedeva Mario e Luigi
impegnati in varie avventure, ma con alla base vari stereotipi come l’amore per la pasta, la pizza e i dolci.
La voce che tutti conosciamo di Mario la si sente per la prima volta nella già citato gioco Mario Teaches Typing e
soprattutto nel secondo capitolo, in cui arriva il doppiatore Steve Martinet il quale decide, trattandosi di un
videogioco, di usare una voce piuttosto acuta e gioiosa. Ma Martinet ha basato anch’esso la sua interpretazione

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dell’italo-americano basandosi su stereotipi e pensieri comuni sul modo di parlare degli immigrati italiani. A sua
volta, inoltre, Martinet creò una seconda tipologia per l’accento italo-americano, ovvero il Mario English
distaccandosi dal Wiseguy English tipico dei gangsters. Il Mario English è oltretutto comprensibile anche da coloro
che non sono madrelingua inglese.

3) Tra cool Japan e Made in Italy: con l’arrivo degli anni ’90 e il maggiore potere d’acquisto dello yen sulla
lira, in Giappone si ebbe “l’Italy boom” e in Italia spopoloò la J-culture sui prodotti importati. Di conseguenza
l’italianizzazione di Mario divenne più evidente come ad es. l’amore per la pasta, o l’abbandono di ambientazioni
giapponesi in favore di altre italiane o italo-americane come in Mario Kart 8, Mario Kart 64 e Super Mario
Odyssey. In Italia succede qualcosa di simile, con la Piaggio che ad es ha presentato una vespa con sopra un
personaggio travestito da Mario: quasi una strategia di cross branding tra paesi.
A decretare il successo di Mario è stata in generale la decisone della Nintendo di non sovraccaricare troppo lui e il
gioco con l’italianità o temi scottanti come la Mafia, evitando pesanti critiche sia dagli Italiani che dagli italo-
americani.

D.FORNI: SULLA QUEERNESS DI THE SIMS – SOVVERTIRE I GENERI E


GLI ORIENTAMENTI NEL CONTESTO ITALIANO
Il capitolo punta ad analizzare i primi 4 The Sims in un’ottica queer, dato che il gioco ha avvicinato all’argomento
prima di politica e società. In ognuno dei 4 giochi è stato creato un personaggio per registrarne le caratteristiche e
capire quali possibilità e limiti dia il gameplay dal punto di vista del genere/orientamento sessuale.

1) Oltre i confini di genere - l’avatar queer: appena iniziato, il gioco chiede al giocatore di creare il
personaggio. Nel corso del tempo questo editor ha aggiunto sempre più funzioni, arrivando con l’aggiornamento del
2016 che le cose hanno subito un cambiamento deciso. Il menù ora permette di scegliere, oltre al sesso biologico, il
tipo di corporatura, un guardaroba che può essere maschile o femminile a prescindere dal sesso biologico, se mettere
incinta/o o restare incinta/o e come andrà in bagno. Tutte queste opzioni sono comunque modificabili in un secondo
tempo.
Questa libertà permette ai giocatori di creare un personaggio senza etichette, facendogli vivere esperienze che
magari non possono avere nel mondo reale. Questo soprattutto in Italia, dove la questione è piuttosto complessa a
causa di idee retrograde.

2) Simulazione e performatività degli orientamenti sessuali: data la libertà di scelta data dall’editor sulla
sessualità, ogni personaggio è potenzialmente bisessuale in quanto, senza input da parte del giocatore, questo può
rispondere favorevolmente o interagire a sua volta con persone di entrambi i sessi. Tra le opportunità offerte dal
gioco c’è anche l’asessualità e l’essere aromantici, dato che le relazioni sociali sono utili al sim e non i rapporti
sessuali.
Nel complesso, il gioco strizza l’occhio sia ai queer che agli “straight”, non lasciando nessuno indietro.

3) Oltre la famiglia italiana - le famiglie sim: finito l’editing il sim può entrare in una casa e decidere di
creare una famiglia composta da quanti membri vuole, di qualsiasi etnia, sesso, età o legami relazionali.
Per quanto riguarda lo sviluppo lavorativo e le attività il gioco, almeno nelle ultime versioni, non da limiti.
Chiunque può svolgere qualsiasi lavoro o attività a prescindere dal sesso.
Il matrimonio non è obbligatorio ai fini del gioco ma può essere celebrato e svolto come nella realtà, con il gioco
che permette il matrimonio con qualsiasi sesso e orientamento, mentre per il divorzio non esiste. The Sims da anche
la possibilità di sposarsi quante volte si vuole e amare quante persone si desidera nello stesso momento,
dimostrandosi aperto anche verso io poliamorosi e le relazioni aperte.
Sul piano dei figli, come già detto, chiunque può restare incinta/o e chiunque può adottare un bambino.
Tutte queste decisioni sottolineano quanto la situazione reale in Italia sia diversa rispetto al gioco, trasformandolo
quasi in un rifugio per coloro che da noi non riescono ad esprimere liberamente la propria sessualità, farsela
riconoscere dalla legge o aiutare bambini orfani.

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G. BALLA – PRODUZIONE, FINANZIAMENTO E DISTRIBUZIONE DEL
VIDEOGIOCO IN ITALIA: LO STATO DELL’INDUSTRIA NEL
QUINQUENNIO 2015-2019
Da un’analisi del 2015 lo stato dell’industria del gaming in Italia mostra ancora un prodotto marginale sul mercato
così come gli sviluppatori, obbligati a svolgere servizi paralleli (web developing e gamification ad es) per
sopravvivere. L’analisi portata avanti da Balla ha lo scopo di investigare i processi di sviluppo del videogioco in
Italia negli ultimi 5 anni, al fine di delineare specificità economiche, professionali e istituzionali rispetto ai
concorrenti internazionali. L’analisi si è concentrata sul workflow (o processo) produttivo di un gioco che va dalla
creazione dei concept alla fase post uscita. Le aziende prese in esame sono 4 e sono tutte diverse dal punto di vista
strutturale: Milestone (azienda mainstream), Tiny Bull Studios (indipendente che si finanzia con commissioni B2B),
LKA, (il progetto di sviluppo accademico) e Trinity Team (il gruppo indipendente di sviluppo). Milestone si è
affermata grazie a giochi racing come MotoGP, quelli sul WRC e Gravel, sviluppati insieme ad altre grosse
software house come EA o Virgin. Tra le tre è la più grossa e può contare su più di 200 interni divisi in gruppi,
ognuno concentrato su un titolo; Tiny Bull realizza invece giochi su commissione come Omen Exitio e Blind; LKA è
il frutto di un progetto accademico portato avanti da un professore e sviluppatore dell’università di Firenze. Il primo
gioco si chiama The Town of Light ed è un thriller psicologico in prima persona; Trinity è invece un piccolo gruppo
di sviluppatori di Bologna che ha realizzato Bud Spencer e Terence Hill: Slaps and Beans, un picchiaduro a
scorrimento in pixel-art finanziato grazie ad una richiesta su kickstarter.
In generale l’industria è quindi piuttosto variegata sia come titoli che come struttura, infatti quasi la metà delle
software house in Italia conta tra i 3 e i 10 dipendenti, il 35% solo due, mentre il 17% più di 11.

1) La diffidenza nei nuovi IP e l’omogeneizzazione degli engine come fenomeni sovranazionali:


l’industria italiana, anche per via dell’assenza di publisher italiani o la poca permeabilità di piattaforme come Steam,
si trova a dover combattere con un mercato dinamico e fortemente competitivo già in posizione di svantaggio per la
mancanza di finanziamenti nazionali e non e per una burocrazia troppo macchinosa. La mancanza di finanziamenti,
e quindi di interesse, da parte delle istituzioni si tramuta in pochi fondi e poco personale qualificato a disposizione
delle imprese, data la mancanza di scuole per la formazione di programmatori gaming.
La saturazione del mercato, ormai diventato sempre più globale, scoraggia le poche imprese italiane alla creazione
di nuovi prodotti originali in favore di format, concept e argomenti più sicuri: con questi infatti gli investitori, che
siano su kickstarter o meno, sono più propensi all’investimento. Un esempio di queste difficoltà è Blind, il cui
sviluppo ha obbligato la Tiny Bull a dover svolgere progetti B2B per trovare il denaro necessario, allungando
considerevolmente il tempo di sviluppo. Salvo poi dover ritornare a compiti B2B dopo l’uscita per stabilizzare la
situazione economica per evitare il fallimento.
A contrastare l’internazionalizzazione di prodotti c’è anche il fattore tecnologico e creativo. Le case infatti negli
ultimi anni stanno abbandonando sempre più spesso l’idea di un motore grafico proprietario, questo perché sarebbe
troppo costoso realizzarne uno che offra le stesse performance di colossi come l’Unreal Engine di Epic Games. Il
rischio è tuttavia una sorta di omogeneizzazione delle caratteristiche e dell’output tecnologico, con come risultato la
minimizzazione dei costi e la riduzione di possibili problemi durante lo sviluppo.

2) Il consolidamento della pipeline per le aziende nazionali e la struttura dei workflow degli AAA
internazionali: dalle interviste di Anonimo e Lana, si intuisce come il workflow di produzione di un gioco in Italia
non è troppo diverso da quello che c’è all’estero. Si parte dall’idea o concept (meccaniche di gioco, storia e studio su
colori e grafiche) e poi si sceglie la piattaforma sui cui giocarlo. Il modo di effettuare queste operazioni può essere
di vari tipi come quello Agile dei Tiny Bull, oppure lo spacchettamento di vari processi da eseguire
consequenzialmente o l’inserimento di professionisti specializzati in varie aree. Tutto varia in base alla grandezza
dello studio e al budget. Da queste operazioni si ottiene il gioco prima nella versione alpha (mappa limitata, solo
certe azioni possibili e audio da rivedere) e poi in quella beta che è quasi definitiva.
Un’altra cosa da capire sono le modalità di monetizzazione. I giochi italiani, ad esempio, data la struttura piuttosto
piccola e i fondi limitati, difficilmente sarà un free to play con microacquisti all’interno, perché questa caratteristica
richiede grandi budget, grandi strumenti analitici e un grosso team alle spalle.
L’indagine dell’AESVI mostra come in Italia i processi di produzione, la gestione dei ruoli e degli organici delle
professionalità sono piuttosto malleabili per via dell’assenza di grosse produzioni. La struttura è orizzontale e con

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poche stratificazioni. Il risultato sono team più verticali, stratificati e con professionisti dalle varie capacità
all’interno nelle grosse software house, mentre accade il contrario in quelle più piccole. Un esempio della prima
tipologia è la Ubisoft Milan sviluppatrice di Mario + Rabbids Kingdom Battle. Nato come costola della casa
francese nel 1998, la sussidiaria italiana segue la pipeline di produzione della casa madre e non tratta direttamente
con publisher e i distributori. Il gioco è di tipo “di ruolo tattico a turni” e ha obbligato alla Ubisoft Milan prima di
avere il permesso della Nintendo per usare il personaggio di Mario, poi di rallentare nel complesso il ritmo dei
Rabbids in quanto troppo più veloce di quello dei personaggi Nintendo.

P.RUFFINO – I VIDEOGIOCHI INDIPENDENTI IN ITALIA: SIGNIFICATI,


NARRATIVE, RETI.
1) Indie come stile, estetica e ideologia: il concetto di indie è comparso agli inizi degli anni 2000 e in genere
si considera tali videogiochi che hanno modalità di produzione e uno stile di un certo tipo, ma Ruffino la considera
una definizione troppo vaga. In generale la nozione di indie ha toccato l’apice nel 2012 con il documentario Indie
Game: The Movie presentato anche al Sundace, portando la narrazione sui videogiochi al grande pubblico. Il film
però mostra una visione dell’indie come produzioni non legate ad un editore, realizzate da una sola persona o un
piccolo gruppo e che si assumono tutte le responsabilità economiche così come i possibili guadagni. Un’idea
romantica dello sviluppatore.
Negli ultimi anni però c’è stata una maggiore accessibilità a strumenti di livello come l’Unreal Engine e piattaforme
online come Steam su cui pubblicare il proprio gioco. A queste si sono aggiunti software come Twine che non
richiede la conoscenza del linguaggio di programmazione e festival del gioco indie come l’Indipendent Games
Festival di San Francisco. Il risultato di questa apertura è stata una maggiore competitività nell’ambito e una
sostanziale saturazione del mercato; saturazione incentivata da una maggiore precarietà lavorativa che ha portato i
giovani sviluppatori a mettersi in proprio, lavorando magari a contratto per le grosse case di produzione per
acquisire maggiori conoscenze o per entrare nel circuito del lavoro e essere poi assunti. In generale comunque la
situazione è stata vista come la fine del periodo d’oro del gioco indie.
Secondo Bennett Foddy però il gioco indie lo si può considerare come finito guardando solo alle grosse aziende e al
mercato americano in particolar modo, ma questo esiste già dagli anni ’80 in Europa quando i bedroom coder
sviluppavano nella loro camera nuovi giochi, magari craccando quelli originali. Nooney invece sostiene che sia
qualcosa di molto più recente e nonostante ci siano stati molti esempi in passato, si può considerare come indie
anche solo un videogioco che è indipendente dal punto di vista economico.
Ruffino spiega invece che per lui è qualcosa di più complesso, un’etichetta che rifiuta le logiche di produzione della
grandi case puntano su forme innovative di game design. Non è infatti strano trovare giochi indie con grafiche retrò
ispirate ai giochi del passato, quasi a sottolineare un amore per un’epoca passata senza innovazioni tecnologiche
troppo grosse; e non è un caso che spesso gli sviluppatori di questi giochi si rifacciano ai giochi che hanno
caratterizzato la loro infanzia. Un esempio di indie realizzato da una grossa casa è Valiant Hearts sviluppato dalla
Ubisoft, che usa disegni che sembrano fatti a mano e si concentra sulla narrativa.

2) Narrative di indipendenza: le difficoltà date dalla definizione indie ha portato molti studiosi a definirla come
una non categoria per quanto riguarda i videogiochi. Secondo Paolo Pedercini invece deve essere vista come un
incentivo a trovare all’interno di questo fenomeno vere forme e spazi di autonomia. Il professionista, data
l’indecidibilità del termine indie, è spinto a parlare di sé, di come si relaziona al proprio lavoro a festival o eventi. È
a questa incessante spinta a dover spiegare e definire cosa e come si lavora che troviamo la maggiore vicinanza con
l’attuale condizione dei lavoratori, ovvero la concentrazione dello sviluppo e degli eventuali rischi su un numero
ristretto di persone o una sola, che nel contempo deve anche sviluppare specializzazioni e skills in chiave futura. I
lavoratori devono anche sviluppare una fitta rete di relazioni, formali e informali, che potranno tornare utili per
nuovi progetti.
Dalla creazione di reti, che spesso portano a frequentare gli stessi luoghi e eventi, subentrano problemi di esclusione
di genere e classe tenuti fino ad ora sotto controllo dalle case e i loro processi di assunzione. Le reti di
collaborazione diventano anche uno strumento di filtro e selezione basate su fiducia e rispetto per il lavoro altrui,
oltre che su legami di amicizia e affinità.

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I giochi stanno vivendo quindi quella che nella moda McRobbie ha definito “la seconda fase dell’indipendenza nei
settori creativi”, ovvero caratterizzata dalla diffusione su larghissima scala della non dipendenza dalle grosse
aziende e l’assimilazione del tempo di lavoro col tempo dell’intrattenimento e della socialità. A sottolineare questa
tendenza sono i dati sui giochi indie nel mondo: in UK si stima che nel 2017 il 95% degli addetti ai lavori abbiano
un impiego come persona individuale o in piccole aziende. Un altro sondaggio vede solo 17% degli sviluppatori
lavorare con un editore.

3) Reti di produzione e consumo: come detto nella rete indie non manca la competizione, ma allo stesso modo
si sono generate anche forme di aggregazione come meet-up locali o team che condividono gli stessi spazi
lavorativi, lavorando a progetti diversi, per abbattere le spese. Questi hub sono diventati molto comuni negli USA e
in Canada dove gli uffici vengono dati a specifici progetti su cui gli esperti che glieli concedono prenderanno una
parte dei guadagni. Gli aggregati tendono inoltre a riscrivere la geografia del gaming, in quanto spesso sorgono in
luoghi diversi da quelli mainstream.
Gli sviluppatori indie sfruttano inoltre anche varie piattaforme come Twitter o Discord per scambiarsi opioni, pareri
o per avere accesso a posti liberi nei team di sviluppo.
Infine, i festival del genere fungono non solo da vetrina ma anche da “filtro del buongusto” invitando solo quei
giochi che rispettano certe metriche e caratteristiche.

4) L’Italia Indipendente: le caratteristiche della scena nostrana ricalcano quelle viste all’estero ma in forma
differente. Ad esempio negli altri paesi la scena indie e quella mainstream sono direttamente relazionate. La seconda
nasce e cresce dove la prima ha formato un tessuto industriale forte. Un esempio è Montreal dove la Ubisoft è
arrivata nel ’97 portando la già presente scena indie a diventare più forte e ramificata.
In Italia comunque le case indie non mancano e continuano a formarsi, anche se in genere per indie in questo caso si
intende prodotti autofinanziati, e puntano alla creazione di contenuti per il mercato interno e internazionale
sfruttando i modelli visti ai festival all’estero. Anche da noi la questione dell’aggregazione tra i player del segmento
sta acquisendo importanza, come visibile ad es. alla Milan Games Week dove ogni anno si moltiplicano i gruppi
indie che sfruttano la fiera come vetrina per mettersi in mostra e per pubblicizzare il gioco, evitando le grosse spese
di marketing per un lancio fuori da un evento.
Un altro esempio di fiera è Svilupparty a Bologna o Games Happens a Genova, dove gli organizzatori invitano o
danno la possibilità di partecipare alle case ma facendo da moderatori, evitando così così fenomeni di
marginalizzazione per i generi e le classi più svantaggiate.
Alcuni dei nomi più famosi del campo le case Santa Ragione (creatrice di Wheels of Aurelia) o We Are Müesli
(creatrice di Venti Mesi) che puntano al mercato interno e esterno ma con contenuti che alle volte sono di difficile
comprensione per i non italiani. Altri giochi come Redout di 34BigThings fanno tutto internamente tranne la fase di
distribuzione.

E. GANDOLFI: GLI ESPORT ITALIANI TRA VECCHIO E NUOVO


1) Esport, tra passato e presente: nonostante si siano date molteplici definizioni al temine esport, il termine al
momento indica la pratica sportiva (competitiva) legata ai videogiochi e capace di diventare un fenomeno globale.
Gli esports sono passati dai LAN-party dei ’70-’80 agli attuali tornei grazie alla potenza che il digitale si è
guadagnato nella società. Passando attraverso eventi cardine come il Word Cyber Games e la Major League Gaming
di inizio anni 2000. Una mano l’ha poi data anche l’arrivo di una piattaforma come twitch che ha introdotto il
sistema della remunerazione dei content creator tramite le iscrizioni al canale. Il primo gioco ad aver però davvero
aperto la strada ai tornei è stato League of Legends della Riot Games, che ha per prima costruito una struttura
organizzativa solida e ben definita e un supporto importante alla comunità gaming. L’istituzionalizzazione degli
esports in quanto tali infatti ha richiesto un cambiamento dei titoli e un ruolo variabile dei publisher, oltre
ovviamente all’ingresso di sponsor esterni che portano guadagni ai publisher e non solo agli organizzatori. Tra gli
altri titoli importanti per il genere ci sono Fortnite, Overwatch, CounterStrike e Tom Clancy’s Rainbow Six: Siege.
In generale gli esports possono essere considerati come un cambiamento della concezione del gioco, che diventa un
servizio e porta a nuove forme di figure come lo spettatore degli eventi e un nuovo ambito di studio. Negli USA
infatti sempre più università lo stanno mettendo come corso di studi.

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2) Esport in Italia: la storia degli esport in Italia è difficile da tracciare a causa dei pochi dati disponibili e della
relativa giovinezza del settore. Un primo esempio è la rivista Videogiochi che negli ‘anni ’80 chiedeva ai lettori di
inviare i loro punteggi e i cui redattori, hanno successivamente formato l’AIVA (Associazione Italiana Video
Atletica). Oggi invece ci sono la Milan Games Week, il Lucca Comics and Games, l’ESL (Electronic Sports
League), la GEC (giochi elettronici competitivi) e la ASI (Associazioni sportive sociali italien).
Anche il giornalismo mainstream come IlSole24Ore, La Gazzetta, Il Corriere dello Sport e altre stanno seguendo
con sempre più attenzione l’ambito, mentre parti terze Red Bull, Vodafone o Gillette stanno organizzando sempre
più spesso eventi o facendo da main sponsor. Grazie anche a questa visibilità l’AESVI, tramite un’indagine, ha
mostrato come ci siano più di un milione di persone coinvolte in vario modo nel campo. Un audience composto in
maggioranza da uomini e di età compresa tra i 18 e i 30 anni. Tra i generi più seguiti ci sono in ordine gli sparatutto,
gli sport (calcio e corse) e i MOBA (Multiplayer Online Battle Arena). Sport che mostrano come mai il comitato
olimpico internazionale stia considerando l’idea di mettere gli esports tra le categorie.
Tuttavia, il seguire gli sport come il calcio o le corse allontana l’Italia dai titoli davvero importanti che all’estero
hanno davvero successo, perseguendo la strada del successo a breve termine. Nonostante questo però il paese ha al
suo attivo vari professionisti riconosciuti come Pow3r, Jiizuke, Reynor, Penso e Sterny; persone che fanno parte di
gruppi che li pagano, come ad es. la squadra con sede a Cagliari e gestita dall’imprenditore privato Alessandro
Fazzi.
In Italia in generale manca il supporto statale e publisher di livello che supportino gli eventi all’infuori degli
sponsor.

3) Esport come gamescape di crocevia: uno strumento per l’analisi degli esport italiani e il “gamescape”,
ovvero il circuito culturale che riguarda una specifica pratica ludica. Basato sul “circuit of culture” di Du Gay et al.,
è composto da 5 fronti da considerare quando si affronta il significato diffuso di un processo socialmente rilevante:
produzione, regolazione (le regole che deve seguire la pratica ludica), il consumo (come viene vissuta la pratica
ludica dai giocatori), rappresentazione (come appare a livello sociale) e identità (il portato identitario della pratica
ludica). Un altro fattore è dato dal fatto che i gamescapes interagiscono tra loro influenzandosi, come ad es. gli sport
fisici che usano la realtà aumentata. In sostanza, certi gamescape possono funzionare come metafora per altri che
risultano influenzati o addirittura compromessi. Conviene quindi focalizzarsi sui propri punti di forza.
Il paragone tra sport e esport e, ad es, l’arrivo dei secondi alle olimpiadi, ha smosso in Italia varie opinioni anche tra
figure di spicco come la Pellegrini (che non li considera uno sport) e Nicola Marconi (che li considera come tali). Il
gamescape degli esport italiani può quindi funzionare come una terra di mezzo tra i due schieramenti, una lente
d’ingrandimento per comprendere meglio entrambe le sponde.
Per quanto il videogioco in Italia guarda una mercato in linea con gli altri, come produzione è giovane e non esiste
un vero Made in Italy. Lo stesso vale per gli esport dove manca una regolazione (mancano i publisher), le
infrastrutture e una vera e propria spinta alla creazione di eventi; inoltre, mancano anche i commentatori e un
numero adatto di streamer che spesso sono piuttosto improvvisati data la mancanza di corsi formativi che all’estero
invece stanno prendendo piede. Manca, in sostanza, la capacità di fare quadrato; ma la creazione del GEC, il
supporto dell’AESVI, l’esport Summit alla IULM, fanno ben sperare per il futuro.
Come detto prima però, in genere, in Italia ci si concentra su eventi dedicati agli sport in quanto sicuro guadagno e
successo rischiando di allontanarsi dai giovanissimi che magari trovano nei content creator esteri contenuti che
ritengono più interessanti. Lo sport può però diventare un aiuto per gli esport, ma al momento in Italia le squadre di
calcio si stanno interessando lentamente all’ambito, contrariamente a quanto fatto dai team di F1 e del mondo delle
corse.
Un punto a favore degli esport rispetto a quelli normali è sicuramente l’apertura a tutti senza alcuna limitazione.
Basti pensare ad esempio agli atleti disabili che normalmente non potrebbero sfondare a livello professionistico.
Ma qual è l’impatto della parola sport dopo la “e”? Da un lato ha rafforzato l’interesse iniziale nei confronti degli
sport elettronici, dall’altro ha indirizzato il settore verso un vicolo cieco. Non è un caso quindi che il 65% degli
italiani non li ritenga dei veri sport, nonostante il fatto che il 75% li consideri come potenzialmente educativi.
In generale il settore del gaming, grazie soprattutto alle nuove generazioni, è passato da settore sub-culturale a
intrattenimento di punta.

4) Giocando il futuro: l’avere gli sport nazionali come gamescape egemonici di riferimento per gli esport sarà
possibile quando si avrà una produzione e una struttura interna forte oltre ad uno sguardo seriamente interessato alle

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nuove generazioni, che saranno coloro che diventeranno player e/o spettatori. L’esplosione degli esport all’estero ha
portato a un grossa crescita anche da noi, ma rispetto ai LAN Party dove si giocava per divertirsi, la monetizzazione
ha portato i nuovi player a giocare per la propria immagine e i soldi.
Inoltre, un grosso aiuto agli esport e alla loro capacità di riempire in futuro i palazzetti potrebbe venire dalla TV, che
rispetto ad altri paesi è un medium ancora piuttosto importante e con capacità di influenzare l’opinione pubblica
sull’argomento.
In generale: gli esport italiani sono in ritardo a causa di variabili produttive e di rappresentazione locali che ne hanno
frenato la presa di posizione. A mancare sono fattori stabilizzanti in grado di connettere produzione e consumo.
Dato però il possibile consolidamento dell’industria gaming in Italia e l’arrivo di player esterni, la visione per il
futuro diventa piuttosto ottimistica.

F.TONIOLO – I VIDEOGIOCHI SU YOUTUBE: UN CONFRONTO TRA


ITALIA E ESTERO
1) 2006 – 2009 - Gli albori del gaming su YouTube: nei primi anni di YT i contenuti gaming non erano
molto presenti e si sono affermati per vie indirette. Un esempio sono i video YouTube Poop o gli “Angry Video
Game Nerd”, ma i videogiochi non hanno ancora forme “proprietarie di video”. Per quanto riguarda l’Italia si
affermano in questi anni 2 figure:
 Marco “Farenz” Farina: partito con il doppiaggio/sottotitolazione dei video Angry Video Game Nerd in
inglese, è passato a contenuti originali ma sempre seguendo quel genere di video. Nei suoi primi video i
videogiochi rappresentano solo spezzoni presi da trailer/altri video, introduce la figura dello “youtuber che
registra dalla sua camera” (fattore che diventerà fondamentale anni dopo) e introduce una marcata italianità con
figure le canzoni di De Gregori o della D’Avena.
 Paolo “Nocoldiz” Pirruccio: uno dei primi italiani a concentrarsi sui video YouTube Poop (o YTP). Parte
usando le YTP create all’estero su Zelda, passando già pochi mesi dopo a inserire personaggi italiani come
Berlusconi o Topo Gigio.
A seguito di questi contenuti si arriverà alle partite registrate, e commentate, grazie a una videocamera puntata sulla
TV.

2) 2010 – 2014 – una voce e un volto per gli YouTuber: in questi anni gli YouTuber diventano micro-
celebrità e cominciano ad arrivare sui vari canali i video cosiddetti “let’s play” in cui gli Youtuber iniziano a
mostrare il loro volto. Alcuni dei nomi più famosi nati in questo periodo sono ad es PewDiePie o Favij. I let’s play
non potevano nascere prima non tanto perché YT non desse gli strumenti, ma perché ancora non si conoscevano le
potenzialità della piattaforma. Famosi in questi anni sono stati le video-reaction a giochi horror come Amnesia: The
Dark Descent composti da salti sulla sedia e grida, o con giochi che suscitano altre emozioni forti come rabbia o
felicità. I giochi ad avere più successo sono però quelli che non hanno una storia come Minecraft, in cui lo
YouTuber può creare una striscia di video seguendo una serie di comportamenti diversa da quella degli altri.
Oltre ai let’s play si affermano anche i walkthrough, gli speedrun, i video dei tornei e altre tipologie di video, magari
già presenti precedentemente ma che ora trovano una via per crescere.
Gli YouTuber italiani in questo periodo seguono gli stessi passi delle controparti anglofone soprattutto per quanto
riguarda i let’s play. A cambiare sono i numeri: gli iscritti e le views sono decisamente più basse, soprattutto
allontanandosi dai generi di sicuro successo. Un’altra cosa che cambia è il potere e l’influenza che in questi anni gli
YouTuber italiani non hanno rispetto alle controparti inglesi come ad es. James Stanton, capaci di veicolare
specifiche posizioni sull’industria e alla tutela del consumatore contro le software house.

3) 2014 ad oggi – Stabilizzazione e naturalizzazione: la situazione al momento è piuttosto stabile in


superficie su YT, con i generi sopracitati che la fanno da padrona. Sotto la superficie c’è però un continuo
movimento che porta alla nascita/morte di canali o generi. In Italia finalmente la figura ha iniziato ad avere
maggiore importanza con qualche anno di ritardo sulle controparti di altri mondi (il make-up ad es.). In generale si è
assistito ad una naturalizzazione della loro figura, passata da intruso, estraneo e successivamente figura importante
all’interno delle fiere del gaming o nell’editoria (con i libri dei gamer anche su specifici videogiochi).
Gli YouTuber si prestano particolarmente bene anche come posti per il branding o il product placement, che però
deve essere in linea con i valori e gli argomenti trattati dal canale dato che la coerenza è la chiave per il successo.

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Questo è possibile grazie alla vicinanza che gli YTuber creano con chi guarda, sfruttano elementi come “la
cameretta”, un linguaggio inclusivo e le call to action (lascia un like o iscriviti al canale).
Il rapporto tra case di produzione e YT è però ancora non molto chiaro e il continuo cambiamento portato dalla rete,
come Twitch, sta obbligando YT a cambiare la propria posizione e ragion d’essere per quanto riguarda il gaming.

F. GIORDANO – NEL MEZZO DEL PERIGLIOSO TRAGITTO:


ISTITUZIONALIZZAZIONE E RICONOSCIMENTO ACCADEMICO DELLA
CULTURA DEL VIDEOGIOCO IN ITALIA.
1) L’istituzionalizzazione della cultura del videogioco in Italia: istituzionalizzare in Italia un medium
“nuovo” richiede una serie di passaggi obbligati per farlo passare da cosa poco conosciuta e poco compresa a causa
della sua novità, al doversi sottoporre a una canonizzazione delle sue opere gerarchizzandole. Questa valutazione
piramidale dei prodotti del medium, che possono essere di basso o alto valore culturale, è una cosa a cui sono passati
attraverso anche cinema, radio e i fumetti. I videogiochi sono infatti passati da prodotto di nicchia per pochi iniziati
a media di massa capace di comunicare artisticamente (anche se con pochi prodotti). Tuttavia, il processo di
istituzionalizzazione è ancora in corso e necessita di essere riconosciuto presso le istituzioni culturali, le
universit/scuole, ministeri, ecc…
A non essere in questione è il potenziale che i giovani hanno sul media e viceversa, oltre al grosso potenziale
economico che il settore ha sull’economia nazionale. Nonostante questo però le istituzioni ancora lo considerano
come qualcosa di nuovo, di sconosciuto e da capire a causa dello scarso interesse sull’argomento. Ne è la prova
classica considerazione del videogioco come qualcosa per giovani, con la capacità di incattivire e rendere più
violenti quest’ultimi, oltre che qualcosa culturalmente più basso rispetto ai libri o a un film.
Il campo videoludico negli ultimi anni si è comunque ritagliato un suo spazio privilegiato, ma resta da capire se
viene riconosciuto dall’élite intellettuale. Un modo per una valorizzarlo si trova nella ricerca accademica che però si
incrocia con ambiti differenti che ne confermano ed espandono la logica d’istituzionalizzazione; si possono
sintetizzare i diversi domini della cultura e della ricerca sul videogioco in 4:
 I corsi universitari e accademici che trattano l’ambito videoludico.
 Le istituzioni che si occupano in maniera secondaria della ricerca sui videogiochi
 Mostre, premi e festival con connessioni con la ricerca accademica
 Le iniziative editoriali con origini accademiche o che possono essere usate in maniera utile per approfondire la
ricerca scientifica (ad es. il lavoro di Matteo Bittanti).
Il riconoscimento di valore culturale al videogioco in Italia ha avuto origine con le riviste, giornali e nella cultura
hobbystica.

2) Un focus sull’ambito accademico: passata la fase diffidenza inziale, la cultura gaming ha fatto breccia
nell’élite intellettuale riuscendo a farsi riconoscere come forma totalmente artistica. Lo studio del videogioco nelle
scuole si è sviluppato sia attraverso iniziative universitarie più convenzionali e attraverso iniziative episodiche che
non portano per forza ad un titolo di studio come i Master. Alcuni esempi sono: la “Laurea Magistrale in Video
Game” dell’Università Statale di Milano nata dal laboratorio PONG della facoltà di informatica e in collaborazione
con il Politecnico; a Torino e in altre citta nei corsi del DAMS, lettere, filosofia sono state create singole materie
dedicate a videogiochi o gamification in senso umanistico/metodologico/sociologico; master in sviluppo dei
videogiochi o game design sono stati creati nelle Univeristà di Genova, lo IULM e Verona; sono presenti anche
corsi esterni al sistema pubblico come l’Event Horizon di Torino, l’Accademia Italiana di Videogiochi a Milano che
però sono più corsi professionalizzanti o scuole.

3) Problemi e opportunità dello studio del videogioco in ambito accademico: tutti queste possibilità e corsi
rappresentano portano a vari problemi come una forte mescolanza di differenti erogatori di corsi per uno stesso
ambito, una scarsa chiarezza sul percorso di studi per una formazione sull’ambito videoludico; inoltre, singoli corsi
all’interno delle università si prefiggono il ruolo che dovrebbero avere i master post-magistrale, alle triennali (ma
anche corsi specialistici e laboratori) non gli viene affidato il ruolo di formazione culturale videoludica ma piuttosto

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una formazione professionalizzante. Non esiste quindi una netta distinzione tra le due formazioni. C’è poi un
problema di collocazione disciplinare in quanto sembra essere una prevalenza di 4 settori specifici: Media Studies,
Sociologia della comunicazione, Informatica e Scienze Umane pedagogico/psicologiche. Le molte esperienze
formative legate ai settori ICAR di disegno o disegno industriale hanno evidenti legami indiretti e diretti con il
videogioco, ma mapparli è quasi impossibile.
La dispersione creata da tutti questi corsi ha anche conseguenze positive:
 Maggiore interdisciplinarità
 La possibilità di creare rapporti fra settori disciplinari diversi e proporre progetti comuni
 La possibilità di attivare discipline con forti predisposizioni laboratoriali
 La capacità di attrarre risorse umane extra-accademiche per instaurarci un fruttuoso rapporto di scambio di
metodi.
Ci sono però alcuni problemi come la scarsa riconoscibilità del settore e la conseguente difficile possibilità di
avanzamento di carriera con un profilo di ricerca esclusivamente legato ai game studies da parte degli studiosi che si
occupano di videogames. La prevalenza fra gli studiosi strutturati di soggetti provenienti dagli studi su film e media
è indicativa di quale sia l’istituzionalizzazione del videogioco, ovvero una materia che ormai ha guadagnato rilievo
ma non è abbastanza forte da essere indipendente. Non ci sono inoltre nemmeno molti docenti formati sull’ambito
videoludico ma piuttosto sulla parte più tecnica e informatica (accade ad es nei master). Ci sono poi anche lacune
nell’ambito accademico e istituzionale: assenza di protocolli metodologici condivisi, la scarsa importanza dello
studio filologico e della ricerca d’archivio, la mancanza di consapevolezza della necessità di avviare un processo di
restauro e conservazione del patrimonio videoludico.

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