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Nft e cinema

Ormai tre anni fa, su queste pagine, abbiamo esplorato la tecnologia blockchain e
i suoi potenziali impatti nell’industria cinematografica e dell’audiovisivo.

Come forse ricorderete, le blockchain sono database universali, decentralizzati,


crittografati e indelebili. Nate come ossatura delle criptovalute (Bitcoin in primis),
si sono evolute fino a poter rappresentare ogni sorta di asset, digitale o fisico,
supportandone le transazioni. Gli smart contract sono il “braccio operativo” delle
blockchain: contratti digitali che permettono l’esecuzione automatica di certe
azioni in base a determinate condizioni.

Tramite gli smart contract possono essere creati token, criptovalute


personalizzate associate a progetti, piattaforme, ecosistemi
commerciali/finanziari.

Avevamo analizzato diverse startup che promettevano di rivoluzionare il settore


cinematografico e audiovisivo e “di permettere decentralizzazione,
disintermediazione e nuove modalità di finanziamento e ripartizione dei profitti.”

Com’è andata? La realtà dei fatti si è dimostrata, come sempre, più complicata ed
esigente rispetto alle aspettative. Diversi progetti sono spariti, altri come Singular
DTV (ora Breaker) si sono riplasmati cambiando nome e strategie, altri ancora
come Filmchain continuano ad affinare e aggiornare modelli di business e
funzionalità.

All’inizio di quest’anno, però, è diventata familiare al grande pubblico una sigla,


NFT, che ha scompaginato il settore dell’arte, della musica, della moda e degli
oggetti collezionabili.

Grazie agli NFT - ovvero token non fungibili (Non Fungible Token) - si sono viste
vendite milionarie di oggetti digitali (e non solo). Un collage digitale dell’artista
Peeble, “Everydays — The First 5000 Days”, venduto a un’asta di Christie’s a 69
milioni di dollari. Una semplice figura pixellata generata automaticamente
venduta a circa 7,5 milioni di dollari (nella criptovaluta ether). La musicista e
artista Grimes ha guadagnato centinaia di migliaia di dollari vendendo la sua
collezione di opere digitali. Il CEO di Twitter Jack Dorsey ha messo all’asta il suo
primo tweet, raggiungendo quotazioni da milioni di dollari. Carte collezionabili
dei giocatori NBA basate su blockchain hanno generato ricavi per 230 milioni di
dollari.

Nel primo semestre del 2021 il mercato degli NFT ha raggiunto un controvalore di
2,5 miliardi di dollari (nello stesso periodo del 2020 ammontava a meno di 14
milioni di dollari).

Per capire se e come questi token possano impattare anche nel settore cine-
audiovisivo occorre comprenderne bene natura, potenzialità e limiti.

Partiamo da una considerazione: i bitcoin e gli ether (la criptovaluta di Ethereum,


la seconda blockchain pubblica per importanza) sono beni fungibili, così come le
altre valute tradizionali. Una moneta da un dollaro equivale a ogni altra moneta da
un dollaro e un ether a ogni altro ether.

Gli oggetti digitali, in generale, sono per loro natura fungibili: ne possono
facilmente essere fatte infinite copie.

Questo ha limitato l’espansione dell’arte digitale e del collezionismo di oggetti


fatti di bit. Autenticazione, certificazione di proprietà, compravendita risultavano
incerti e poco affidabili.

Nel 2017, la blockchain pubblica Ethereum ha visto nascere uno standard


specifico e aperto, l’ERC721, che permette di creare token non fungibili ovvero
NFT. Standard analoghi sono stati successivamente ideati per altre blockchain e d
Ethereum stessa sta allargando la tipologia di questi token con nuovi standard
come l’ERC1155.

Possiamo immaginare uno di questo NFT come un contratto anzi uno smart
contract che implementa un certificato di autenticità e di proprietà associato a un
certo bene digitale (o fisico).

Con questo sistema si riescono a creare unicità o scarsità anche per gli oggetti
puramente digitali, rendendoli, tra l’altro, collezionabili.

La “scarsità artificiale” non è una novità: l’arte, il design, la moda, la musica,


l’industria audiovisiva creano edizioni limitate o speciali per appassionati, fan,
collezionisti o persone che vogliono “distinguersi”.

Nel caso degli NFT, si tratta di un differente esercizio di astrazione, sempre


collegato al desiderio di molti di possedere qualcosa di raro. Non importa che
quell’opera possa essere comunque duplicata e visibile da chiunque: l’importante
è essere custodi della “matrice”, con ogni pixel autenticato grazie all’NFT.

Come viene creato un NFT? Un artista (o chiunque di noi, in realtà) può, in uno
delle tante piattaforme e marketplace disponibili, effettuare – a pagamento -
l’operazione di “minting”: sceglie il numero di copie per la sua opera digitale,
effettua l’upload del file e automaticamente vengono creati tanti NFT quante sono
le copie. Ognuno di essi “punta” al file dell’opera, ovvero contiene il link
all’indirizzo, l’URL, dove fisicamente risiede quel file. Eh sì, il file nella maggior
parte dei casi non risiede nella blockchain ma all’esterno, “off-chain”. Questo
perché memorizzare dati sulle blockchain, in particolare Ethereum, costa molto,
anche centinaia di migliaia di euro per megabyte.

Questo disaccoppiamento tra certificato e opera può originare tutta una serie di
problemi. Innanzitutto l’URL può cambiare, per i motivi più diversi. A chi tocca
aggiornare il puntatore? Al creatore? All’attuale proprietario? Lo storage esterno
può essere una cloud, un server centralizzato, un servizio come Google Drive o
Dropbox o addirittura un server casalingo. Se succede qualcosa e il file con
l’opera viene modificato o cancellato, cosa succede? Nel secondo caso rimane un
NFT senza più un’opera associata, come un certificato di proprietà di un dipinto
andato distrutto in un incendio. A chi tocca la responsabilità della custodia
dell’opera? Qual è il controllo che il proprietario dell’NFT ha sull’opera, se questa
risiede su un server centralizzato di proprietà di una società (come nel caso dei
famosi Cryptokitties?) Praticamente nullo, secondo alcuni pareri. Domande e
dubbi che terranno a lungo occupati avvocati e regolamentatori.

Questi sono solo alcuni degli aspetti critici emersi. Ho parlato fino ad ora di
“opera digitale” come se i milioni di NFT venduti fossero tutte creazioni artistiche;
in realtà chiunque può associare un NFT a qualunque file digitale, sia esso una
foto del gattino di casa, un mp3 con un fruscio statico, una tesina di scuola e via
immaginando. Solo alcune piattaforme hanno sezioni con artisti selezionati; quel
che è peggio c’è chi fa il copia-incolla di un’opera altrui e la mette in vendita. Ma,
in questo caso, i falsi sono presenti da sempre anche nell’arte tradizionale.

La parossistica corsa all’NFT ha portato, oltre alla bolla sui prezzi, anche il
desiderio di sperimentare. Molti artisti digitali hanno salutato con entusiasmo le
possibilità offerte dai token, sentendosi finalmente liberati da una condizione di
inferiorità rispetto ai colleghi che operano con pennelli e scalpelli. Ciò che
conferisce “sostanza” al movimento è la sua comunità, formata da giovani
criptonativi che riconoscono un valore a tutto ciò che aderisce ai loro interessi e ai
loro gusti: gli NFT sono simboli di una generazione rimasta confinata
d’improvviso in un angusto spazio fisico (e prima ancora sociale ed economico)
ma libratasi insieme nell’universo digitale. Ma anche famosi artisti come Damien
Hirst e prestigiose case d’asta come Sotheby’s si sono lanciati in questo mercato.
Prestigiosi musei italiani hanno venduto riproduzioni digitali in alta qualità,
certificate grazie agli NFT, delle opere possedute per auto-finanziarsi.

In altri settori si assiste a un dilagare di utilizzi, un po’ per cavalcare l’onda e un


po’ per trovare utilizzi realmente efficaci di questi strumenti. Nella moda, diversi
marchi hanno associato NFT a vestiti, borse, accessori, magari certificando
insieme al bene fisico un suo gemello digitale oppure gli schizzi preparatori dei
designers. In un incrocio promettente, case di moda e stilisti indipendenti
sperimentano la creazione di serie limitate di oggetti, accessori e vestiti per il
mondo degli e-games e dei metaversi virtuali come Fortnite, tra i più attivi
nell’utilizzo di NFT.

Per ovvie ragioni, il mondo delle figurine e di tutti gli artefatti digitali
collezionabili rappresenta un segmento importante per i token non fungibili:
comprare, collezionare e rivendere nei mercati secondari card certificate di
giocatori di calcio, basket, criptopunk o criptokitties muove un enorme giro di
affari.

Una caratteristica attraente, seppur non ancora diffusa e codificata in uno


standard ufficiale, è la possibilità, per il creatore di un NFT, di ricevere delle
percentuali dalle vendite successive alla prima; questo potrebbe garantire un
flusso di ricavi continuativo seppur incerto.

Anche per questa caratteristica, il mondo della musica si è buttato a capofitto


nella mischia. Tra i primi, Mike Shinoda dei Linkin Park, ha messo un suo pezzo in
asta tramite NFT vendendolo a circa 30.000 dollari. Da notare che chiunque può
ascoltarlo andando sul marketplace nell’account di Shinoda, ma il proprietario ora
possiede i diritti sul file (che può rivendere). I Kings of Leon hanno pubblicato il
loro nuovo album "When You See Yourself" come: le varie “edizioni” contenevano
anche pass a vita per i loro concerti e hanno fruttato complessivamente quasi 1
milione e mezzo di dollari. La cantante Grimes ha venduto delle opere di arte
digitale per 5 milioni di dollari. Anche artisti italiani come Morgan, Mahmood,
Sferaebbasta, Achille Lauro e altri si sono impegnati in progetti più o meno
articolati riguardanti gli NFT. Da questi esempi si nota come i token siano usati
per creare edizioni limitate, offrire bonus esclusivi e per integrare l’aspetto
musicale con altre manifestazioni di creatività come l’arte digitale.

Una prospettiva più interessante è quella di usare gli NTF come “stock options”: i
diritti di quella canzone (o di un album o addirittura di un intero catalogo)
vengono frazionati in NFT: chi li acquista potrà ricevere le royalties corrispondenti
sulle vendite. Piattaforme come Bluebox e Vetz si muovono in tal senso. Con un
meccanismo analogo si può anche finanziare, con un crowdfunding evoluto, la
produzione di nuove canzoni.

Niente di nuovo sotto il sole, visto che avevamo segnalato già tre anni fa come la
ricerca di nuove modalità di condivisione dei profitti fosse un obbiettivo dei
progetti legati alle blockchain.

Questo argomento ci porta al mondo del cinema e dell’audiovisivo. Come in un


giorno della crypto-marmotta si ripetono slogan e promesse. Innumerevoli sono i
film che si autoproclamano essere i primi “in NFT”, qualunque cosa voglia dire.

In realtà, come per la musica, i token vengono al momento usati soprattutto per
rilasciare edizioni speciali e memorabilia certificati legati a film. Il nuovo film di
Anthony Hopkins, “Zero Contact”, affida alla neonata piattaforma Vuele il rilascio
di un’edizione limitata associata a un NFT. Allo stesso modo la 20th Century Fox
vende poster digitali del film “Deadpool 2” e Joe Dante figurine legate ai suoi film.
Questa tendenza porterà film e prodotti seriali a legare i token a ogni genere di
contenuti e artefatti, estrapolati dalle varie fasi di produzione (per esempio le
sceneggiature o le note del regista) o creati ad hoc per legare gli spettatori alle
storie e ai personaggi. “Space Jam: A New Legacy” adotterà questa strategia,
cercando nel contempo di rilanciare un marketplace di token come Niftys. Ma
questo è semplice marketing, neanche troppo evoluto, utile per lanciare nuove
produzioni o per riutilizzare - in forma di merchandising digitale - materiale
derivante da opere datate di cui si possiedono i diritti.

Più ambizioso il regista di “Clerks”, Kevin Smith. Chi acquisterà l’NFT associato al
suo film (ai file originali) “Killroy Was Here” potrà distribuirlo e venderlo, per
esempio a Netflix. Un azzardo, insomma.
Il progetto che vede protagonista Aku, il giovane astronauta nero ideato
dall’artista ed ex giocatore di baseball Micah Johnson. Aku è un nativo NTF, nel
senso che il personaggio, o meglio la sua immagine, è nata per essere venduta
associata a un token: nel febbraio di quest’anno ha fruttato al suo creatore un
paio di milioni di dollari. La Anonymous Content, casa di produzione di film come
“The Revenant” e di serie come “True Detective” e “M.r Robot” ha deciso di
sviluppare il personaggio costruendoci attorno un universo narrativo.

Una delle prospettive che gli NFT aprono è in effetti quella di generare nuovi
personaggi e storie da far espandere in franchise multimediali (film, serie,
videogiochi, graphic novel e così via) grazie anche alle community che si
sviluppano nel mondo crypto. Possiamo pensare a queste strategie come la
continuazione, con altri mezzi, delle saghe manga e affini – Pokemon in testa –
nate prima come merchandising e poi come narrazioni.

In Italia ci sono, al momento, un paio di esperienze interessanti. I Licaoni,


Francesca Detti e Alessandro Izzo nel 2005 erano stati pionieri della distribuzione
sul web del loro film “Kiss Me Lorena”. Ora effettuano un crowdfunding per il
nuovo film “Twinky doo’s Magic World” utilizzando gli NFT per certificare 50
copie.

Blue Film, con al collaborazione di EY e della startup Cinetech venderanno frame


certificati da NFT del loro film cult “La leggenda Kaspar Hauser” per finanziare un
documentario…sugli NFT.

La vendita di frame di un film potrebbe essere un trend accattivante. Ancor più se


si potesse depositare un intero film su blockchain. In questo modo quella sarebbe
la sorgente ufficiale di ogni streaming. La possibilità di redistribuzione degli utili a
coloro che hanno contribuito al film e ai micro-investitori possessori di frame
diverrebbe fattibile, problemi di regolamentazioni nazionali e internazionali a
parte.

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