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Ormai tre anni fa, su queste pagine, abbiamo esplorato la tecnologia blockchain e
i suoi potenziali impatti nell’industria cinematografica e dell’audiovisivo.
Com’è andata? La realtà dei fatti si è dimostrata, come sempre, più complicata ed
esigente rispetto alle aspettative. Diversi progetti sono spariti, altri come Singular
DTV (ora Breaker) si sono riplasmati cambiando nome e strategie, altri ancora
come Filmchain continuano ad affinare e aggiornare modelli di business e
funzionalità.
Grazie agli NFT - ovvero token non fungibili (Non Fungible Token) - si sono viste
vendite milionarie di oggetti digitali (e non solo). Un collage digitale dell’artista
Peeble, “Everydays — The First 5000 Days”, venduto a un’asta di Christie’s a 69
milioni di dollari. Una semplice figura pixellata generata automaticamente
venduta a circa 7,5 milioni di dollari (nella criptovaluta ether). La musicista e
artista Grimes ha guadagnato centinaia di migliaia di dollari vendendo la sua
collezione di opere digitali. Il CEO di Twitter Jack Dorsey ha messo all’asta il suo
primo tweet, raggiungendo quotazioni da milioni di dollari. Carte collezionabili
dei giocatori NBA basate su blockchain hanno generato ricavi per 230 milioni di
dollari.
Nel primo semestre del 2021 il mercato degli NFT ha raggiunto un controvalore di
2,5 miliardi di dollari (nello stesso periodo del 2020 ammontava a meno di 14
milioni di dollari).
Per capire se e come questi token possano impattare anche nel settore cine-
audiovisivo occorre comprenderne bene natura, potenzialità e limiti.
Gli oggetti digitali, in generale, sono per loro natura fungibili: ne possono
facilmente essere fatte infinite copie.
Possiamo immaginare uno di questo NFT come un contratto anzi uno smart
contract che implementa un certificato di autenticità e di proprietà associato a un
certo bene digitale (o fisico).
Con questo sistema si riescono a creare unicità o scarsità anche per gli oggetti
puramente digitali, rendendoli, tra l’altro, collezionabili.
Come viene creato un NFT? Un artista (o chiunque di noi, in realtà) può, in uno
delle tante piattaforme e marketplace disponibili, effettuare – a pagamento -
l’operazione di “minting”: sceglie il numero di copie per la sua opera digitale,
effettua l’upload del file e automaticamente vengono creati tanti NFT quante sono
le copie. Ognuno di essi “punta” al file dell’opera, ovvero contiene il link
all’indirizzo, l’URL, dove fisicamente risiede quel file. Eh sì, il file nella maggior
parte dei casi non risiede nella blockchain ma all’esterno, “off-chain”. Questo
perché memorizzare dati sulle blockchain, in particolare Ethereum, costa molto,
anche centinaia di migliaia di euro per megabyte.
Questo disaccoppiamento tra certificato e opera può originare tutta una serie di
problemi. Innanzitutto l’URL può cambiare, per i motivi più diversi. A chi tocca
aggiornare il puntatore? Al creatore? All’attuale proprietario? Lo storage esterno
può essere una cloud, un server centralizzato, un servizio come Google Drive o
Dropbox o addirittura un server casalingo. Se succede qualcosa e il file con
l’opera viene modificato o cancellato, cosa succede? Nel secondo caso rimane un
NFT senza più un’opera associata, come un certificato di proprietà di un dipinto
andato distrutto in un incendio. A chi tocca la responsabilità della custodia
dell’opera? Qual è il controllo che il proprietario dell’NFT ha sull’opera, se questa
risiede su un server centralizzato di proprietà di una società (come nel caso dei
famosi Cryptokitties?) Praticamente nullo, secondo alcuni pareri. Domande e
dubbi che terranno a lungo occupati avvocati e regolamentatori.
Questi sono solo alcuni degli aspetti critici emersi. Ho parlato fino ad ora di
“opera digitale” come se i milioni di NFT venduti fossero tutte creazioni artistiche;
in realtà chiunque può associare un NFT a qualunque file digitale, sia esso una
foto del gattino di casa, un mp3 con un fruscio statico, una tesina di scuola e via
immaginando. Solo alcune piattaforme hanno sezioni con artisti selezionati; quel
che è peggio c’è chi fa il copia-incolla di un’opera altrui e la mette in vendita. Ma,
in questo caso, i falsi sono presenti da sempre anche nell’arte tradizionale.
La parossistica corsa all’NFT ha portato, oltre alla bolla sui prezzi, anche il
desiderio di sperimentare. Molti artisti digitali hanno salutato con entusiasmo le
possibilità offerte dai token, sentendosi finalmente liberati da una condizione di
inferiorità rispetto ai colleghi che operano con pennelli e scalpelli. Ciò che
conferisce “sostanza” al movimento è la sua comunità, formata da giovani
criptonativi che riconoscono un valore a tutto ciò che aderisce ai loro interessi e ai
loro gusti: gli NFT sono simboli di una generazione rimasta confinata
d’improvviso in un angusto spazio fisico (e prima ancora sociale ed economico)
ma libratasi insieme nell’universo digitale. Ma anche famosi artisti come Damien
Hirst e prestigiose case d’asta come Sotheby’s si sono lanciati in questo mercato.
Prestigiosi musei italiani hanno venduto riproduzioni digitali in alta qualità,
certificate grazie agli NFT, delle opere possedute per auto-finanziarsi.
Per ovvie ragioni, il mondo delle figurine e di tutti gli artefatti digitali
collezionabili rappresenta un segmento importante per i token non fungibili:
comprare, collezionare e rivendere nei mercati secondari card certificate di
giocatori di calcio, basket, criptopunk o criptokitties muove un enorme giro di
affari.
Una prospettiva più interessante è quella di usare gli NTF come “stock options”: i
diritti di quella canzone (o di un album o addirittura di un intero catalogo)
vengono frazionati in NFT: chi li acquista potrà ricevere le royalties corrispondenti
sulle vendite. Piattaforme come Bluebox e Vetz si muovono in tal senso. Con un
meccanismo analogo si può anche finanziare, con un crowdfunding evoluto, la
produzione di nuove canzoni.
Niente di nuovo sotto il sole, visto che avevamo segnalato già tre anni fa come la
ricerca di nuove modalità di condivisione dei profitti fosse un obbiettivo dei
progetti legati alle blockchain.
In realtà, come per la musica, i token vengono al momento usati soprattutto per
rilasciare edizioni speciali e memorabilia certificati legati a film. Il nuovo film di
Anthony Hopkins, “Zero Contact”, affida alla neonata piattaforma Vuele il rilascio
di un’edizione limitata associata a un NFT. Allo stesso modo la 20th Century Fox
vende poster digitali del film “Deadpool 2” e Joe Dante figurine legate ai suoi film.
Questa tendenza porterà film e prodotti seriali a legare i token a ogni genere di
contenuti e artefatti, estrapolati dalle varie fasi di produzione (per esempio le
sceneggiature o le note del regista) o creati ad hoc per legare gli spettatori alle
storie e ai personaggi. “Space Jam: A New Legacy” adotterà questa strategia,
cercando nel contempo di rilanciare un marketplace di token come Niftys. Ma
questo è semplice marketing, neanche troppo evoluto, utile per lanciare nuove
produzioni o per riutilizzare - in forma di merchandising digitale - materiale
derivante da opere datate di cui si possiedono i diritti.
Più ambizioso il regista di “Clerks”, Kevin Smith. Chi acquisterà l’NFT associato al
suo film (ai file originali) “Killroy Was Here” potrà distribuirlo e venderlo, per
esempio a Netflix. Un azzardo, insomma.
Il progetto che vede protagonista Aku, il giovane astronauta nero ideato
dall’artista ed ex giocatore di baseball Micah Johnson. Aku è un nativo NTF, nel
senso che il personaggio, o meglio la sua immagine, è nata per essere venduta
associata a un token: nel febbraio di quest’anno ha fruttato al suo creatore un
paio di milioni di dollari. La Anonymous Content, casa di produzione di film come
“The Revenant” e di serie come “True Detective” e “M.r Robot” ha deciso di
sviluppare il personaggio costruendoci attorno un universo narrativo.
Una delle prospettive che gli NFT aprono è in effetti quella di generare nuovi
personaggi e storie da far espandere in franchise multimediali (film, serie,
videogiochi, graphic novel e così via) grazie anche alle community che si
sviluppano nel mondo crypto. Possiamo pensare a queste strategie come la
continuazione, con altri mezzi, delle saghe manga e affini – Pokemon in testa –
nate prima come merchandising e poi come narrazioni.
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