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tratto si levò ritta in piedi, e disse a mezza voce, così che a pena egli
la intese:
— Su via, dunque, mi dia un saggio della sua abilità d’alpinista. Mi
raggiunga... Andiamo!
Le semplici parole, che parevan dette per giuoco, ebbero
dall’intonazione e dal gesto un significato profondo. Egli non potè
resistere all’invito; s’abbandonò a quel tenue incanto; si lasciò
trascinare da quella voce di donna che lo chiamava discretamente a
sè. Un desiderio oscuro l’assalì: di mostrare la sua vigoria fisica, di
rivelare in uno slancio leonino la sua giovinezza agile e forte. Si
sarebbe detto che l’essere originario, primordiale, selvatico, avesse
avuto in lui un brusco risveglio, fosse uscito libero e fresco dalla
spoglia artificiale che l’opprimeva. Egli ascese in corsa il pendìo
ripido del prato, giunse in un attimo a fianco della fanciulla, si fermò
sicuro d’avanti a lei, rattenendo il respiro per non tradire la
commozione del cuore, per ostentarne la regolarità dei palpiti anche
dopo uno sforzo supremo.
— Bene! Bravo! — ella approvò seriamente, senza sorridere, con
sincerità; poi, soggiunse cambiando tono ed espressione: — Ed ora
che si fa? Dove andiamo?
— Dove andiamo? Dove vuole, signorina.
— Nell’orto?
— Nell’orto.
— Forse non c’è mai stato?
— In fatti, mai.
— Io le farò da guida, — concluse la fanciulla; e s’incamminò
spigliata d’avanti a lui.
Portava un abito grigio, sobrio e attillato, che avvinceva strettamente
il suo torso e scendeva diritto lungo i fianchi, ritraendo a ogni
movimento le forme eleganti della persona. Nessuna guarnizione su
quell’abito; un sol nastro serico d’un color di lilla pallido le girava
intorno alla cintola assai sottile, e ricadeva dalle reni in due lunghe
bande volanti fin quasi a terra. In capo aveva un cappellaccio di
paglia dalle tese larghe e convesse, su cui risaltavan due tulipani
scarlatti in un ciuffo di foglie e di spighe; e in mano, a guisa di
mazza, un ombrellino di raso iridescente, orlato d’una trina bianca.
Aurelio la seguiva da presso, guardandola con curiosità intenta, ma
immemore e spensierato come un fanciullo. Entrarono così nell’orto,
uno dietro l’altra, senza parlare, tenuti entrambi da una specie di
stupefazione dolce, da una specie di torpore, sotto la sferza del sole.
Un gran viale, cosparso di ghiaia fina e quasi candida, tagliava a
mezzo il pianoro dove il vecchio frutteto prosperava. Da ambe le
parti, equidistanti e regolari, altri viali più angusti vi affluivano in una
perfetta simmetria di linee parallele. Nei rettangoli intermedii gli
alberi crescevan poderosamente sopra un suolo grasso e ubertoso,
piantati in ordine sparso, bene esposti alla luce, diritti e sani, come
assistiti nel loro sviluppo da una mano sollecita. Alcuni, troppo
carichi, avevan sostegni obliqui sotto i rami più oppressi dal peso;
alcuni, ancora esili e malfermi, si vedevan protetti da una custodia di
piuoli confitti nel terreno, trattenuti da cerchii di ferro. E v’erano
albicocchi, peri, pruni, mandorli, superbi d’una innumerevole prole di
globuli gialli o verdi; alcuni noci giganteschi dal fogliame smorto, dal
fusto smorto, dai malli smorti, come scolorati dalla soverchia
illuminazione; fichi enormi e serpentini, che parevano celare a fatica
il loro scheletro mostruoso nel manto delle vaste foglie triforcute; e
una moltitudine di peschi fragili, seminudi, maturanti al sole i grossi
frutti penduli e vellutati.
Si spandeva all’aria da quella possente coltura di piante fruttifere un
odor caldo e salubre, molto simile a un alito vivo. Qua e là qualche
vaso di limone o d’arancio, disposto su i margini dei viali, mesceva
alla fragranza diffusa dei grandi alberi il profumo penetrante de’ suoi
fiori, come un artificio d’eleganza e di seduzione in una bocca di
donna. E dovunque era silenzio, silenzio profondo; nella pineta, nel
prato, nell’orto, sul poggio, nel cielo.
— Com’è ben tenuto questo frutteto! — esclamò Aurelio, guardando
in torno pieno di maraviglia.
— È l’unica parte del giardino che non fu trascurata dopo la morte
del vecchio marchese. Il guardiano Giuseppe vive in su questa
comodamente con la sua numerosa famiglia. Perciò prodiga qui tutte
le sue attenzioni, impiega tutto il suo tempo; io credo che l’ami più di
sua moglie, più de’ suoi stessi figliuoli.... E ne è geloso, geloso fino
alla manìa, — ella soggiunse, ridendo forte. — Se il pover uomo
sapesse che ora noi gli abbiamo invaso il territorio, chi sa in che
pena starebbe!...
— Non sospetterà certo che noi gli si voglia rubare....
— Sospetta di tutto e di tutti....
— Ritorniamo dunque indietro, — propose Aurelio, seriamente.
— E perchè?.... Se a me piace di venir qui, soltanto perché so che
Giuseppe non lo desidera....
— È una cattiveria questa, signorina!
— No, un capriccio.
— Ma se ci scopre?...
— Peggio per lui!... Non sarebbe poi la prima volta ch’egli mi trova
nel suo orto, sola o accompagnata....
Aggiunse anche, facendosi grave, guardando fissa il giovine:
— D’altra parte noi pure abbiamo un certo diritto su queste frutta,
perché il luogo non è suo e noi lo teniamo in affitto senza alcuna
riserva della padrona.
A queste parole egli ebbe entro di sè un moto ostile contro la
fanciulla, una specie di disgusto istintivo, come fosse stato colpito da
un suono discorde o sgradevole. Ma Flavia non gli lasciò il tempo di
ricercare le intime cause, di rendersi ragione d’un tal sentimento.
Ritornata ilare e leggera, gli susurrò sotto voce all’orecchio, con
un’espressione infantile di malizia e di gioja:
— Ormai le ciliege son mature!..
— Ebbene? — chiese il giovine, senza comprendere.
— Ebbene: se son mature, si possono mangiare.
— Naturalmente, — egli confermò, non potendo trattenere un
sorriso.
— E perché non le mangiamo?...
Aurelio indietreggiò d’un passo.
— Come? Come?! Vorrebbe....
— Rubare, certo: rubare!
— Ah, questo poi no! Io mi ribello, o meglio mi ritiro. Non voglio
esser complice d’un furto, e nè pure spettatore....
— Ella sarebbe dunque capace di farmi un affronto simile?...
Vorrebbe lasciarmi qui sola in lotta con gli elementi? Abbandonare
una donna in un momento difficile?... Non sarebbe soltanto
scortesia, signor conte; sarebbe viltà....
Parlava forte e solenne, interrotta a ogni frase da un urto d’ilarità
incontenibile. E in quell’atteggiamento emanava da tutta la persona
una grazia così semplice e schietta che sedusse e maravigliò il
giovine, quasi una rivelazione inaspettata.
— Vede come sono alte?... e come sono belle!
Ella gli mostrava un ciliegio venerabile dal tronco alto e robusto, su
cui i grappoli vermigli rampollavano con sovrana abondanza e
levava la mano verso i frutti desiderati, ridendo, comunicandogli a
poco a poco la sua giocondità fanciullesca.
— Ci deve essere una scala di mia conoscenza nel frutteto, — ella
disse, girando in torno lo sguardo per iscoprirla. Poi, d’un tratto,
gridò trionfante: — Eccola! Eccola!
E si diresse in corsa verso un pilastrello poco discosto, a cui una
lunga scala era appoggiata.
— Io spero che vorrà almeno ajutarmi a portarla fin sotto l’albero. È
troppo pesante per le mie povere braccia!
— Si pretende dunque la mia complicità attiva...?
— No, s’invoca semplicemente un soccorso! Venga!
Ferma ed eretta nel sole, sul candor niveo della ghiaja, tra le masse
degli alberi che s’inarcavano verso di lei carichi di frutti, ella parve al
giovine supremamente bella.
Omai Aurelio seguiva, domato e attonito, ogni suo atto, ogni suo
movimento, ogni sua parola, come se tutto il resto si fosse occultato
a’ suoi sensi. Un potere misterioso e irresistibile lo teneva soggetto
all’agile creatura che gli splendeva d’innanzi, lo piegava
inconsapevole a qualunque stranezza, a qualunque follìa ch’ella gli
avesse potuta comunicare. L’impeto birbesco e tumultuoso della sua
compagna sembrava avere invaso, travolto, rituffato il suo spirito in
un fiume d’oblio e di spensieratezza; ed egli, già ebro della magica
luce in cui si scioglievan le sane fragranze terrestri, s’abbandonava
alla seduzion di quel giuoco, cedeva insensibilmente al fascino di
quella malizia puerile, quasi a traverso una seconda adolescenza.
Flavia ripetè il richiamo, limpida e forte, come volesse meglio
affermare la sua possanza:
— Venga dunque! M’ajuti!
— Ella mi vuol proprio trarre in perdizione! — mormorò Aurelio,
sorridendo, mentre s’avvicinava a lei.
E prese la lunga scala, la sollevò ritta con le mani per mostrare il
vigor de’ suoi muscoli, la portò così senz’inclinarla fin sotto l’albero,
mediante uno sforzo che a pena riuscì a dissimulare. Ella, tenendogli
dietro seria e attenta, lo fissava con uno sguardo ambiguo tra
d’ammirazione e d’ironia.
— Ed ora, bisogna salire! — disse, poi che il giovine ebbe deposta e
bene assicurata la scala tra due rami del ciliegio.
— Anche salire?!
— Mi sembra. Vuol forse che salga io, per rimanersene qua giù
tranquillo a contemplarmi da un nuovo punto di vista? Io non dò di
questi spettacoli, signor mio, e a così buon prezzo!...
Proferì queste parole celiando, ma senza la minima reticenza, senza
un’ombra nella voce o negli occhi, con una sicurezza da donna
spregiudicata. Aurelio, che la guardava, abbassò sùbito gli occhi,
arrossì anche un poco, offeso dal senso volgarmente procace dello
scherzo; poi, per non tradire il suo disgusto, le volse con un moto
subitaneo le spalle, e si mise rapidamente su per la scala.
— Le lasci pure cadere abbasso ché le raccolgo nel mio grembiule,
— gli gridò dietro Flavia, raggiante, trasfigurata dalla gioja.
Il giovine, ritto su l’ultimo piuolo, col capo nascosto nel fogliame
profondo, si vedeva allungar le braccia, pencolare, atteggiarsi in
pòse larghe e snodate tra i viluppi dei rami, alla ricerca dei grappoli
maturi. A quando a quando una fitta gragnuola di chicchi vermigli,
annunziata da un richiamo, accolta da un saluto festoso, partiva
dall’alto, si sparpagliava un poco nell’aria, cadeva solo in parte nel
grembiule spiegato a riceverla. La giovinetta per giuoco fingeva
d’irritarsi perché non poteva contendere alla terra tutti quei chicchi;
protestava ridendo contro di lui; gli raccomandava d’esser più attento
e preciso nel gittarli; a volte si chinava a raccattarne qualcuno più
appariscente, e, con aria di dispetto, se lo mangiava.
Quando Aurelio discese dall’albero erano entrambi come ubbriachi
d’ilarità. Balbettavan frasi insulse con la voce alterata; ammiccavano
con gli occhi piccoli, abbacinati dal soverchio chiarore; si sfioravan
con le mani, esprimendo una specie di piacere a ogni lieve contatto;
e ridevano insieme con la facilità di due fanciulli. La spartizione del
bottino provocò poi tra loro una questione romorosa e vivace, che
finì in una corsa sfrenata a traverso il frutteto. Ella, agile e astuta, si
sottraeva a lui, approfittando della sua conoscenza dei luoghi,
calpestando senza scrupoli le zone coltivate, sgusciando sotto gli
intrichi dei frutici con una perizia singolare. Egli, più veloce e più
cauto, cercava invece di raggiungerla senza batterne le orme,
prevenendola allo sbocco d’un viale, aspettandola a un varco in
agguato, accelerando vertiginosamente il passo quando ella
percorreva una strada dritta. Finalmente Flavia, mentre usciva
d’improvviso fuor da un cespuglio, cadde, come una preda, in suo
potere. Accesi, esausti, anelanti, s’avvinghiarono uno all’altra con un
moto istintivo e selvaggio. Ella, stanca, s’abbandonò, arrovesciò
indietro il capo, prorompendo in una risata nervosa, che squillò
acutamente nel silenzio; Aurelio, stringendola forte a sè e smarrendo
ogni senso nella contemplazione di quel viso illuminato da una
strana fiamma, la sorresse, la tenne così per qualche attimo come
sospesa tra le sue braccia.
— Mi dò per vinta! — ella mormorò d’un tratto.
E si sciolse con un moto languido da lui, invasa da una sùbita
angoscia, intimorita dal suo sguardo vorace.
Non parlarono più. Susseguiva a quel tripudio folle di vita il
turbamento oscuro e quasi pauroso degli eccessi. Provavano ora un
malessere profondo, indefinibile. Si guardavano in faccia attoniti,
arrossendo; si sentivan soli, estranei, divisi da un ostacolo immane;
si sentivano oppressi da un peso morale, rimorsi da un’occulta voce.
L’incanto breve era sfumato; ed essi si trovavano, come al risveglio
d’un sogno voluttuoso, sfiniti, delusi, umiliati.
S’incamminarono così, in silenzio, verso il poggio, sospinti da
un’idea comune: quella d’allontanarsi dal palazzo, forse per
acquetarsi, per riprendere le loro espressioni abituali, sformate dalle
agitazioni e dai turbamenti molteplici. Aurelio era come trasognato e
stupefatto. Si movevano nel fondo della sua anima alcuni pensieri
molesti, sorgevano i ben noti fantasmi a rappresentargli dentro
l’eterna Comedia, il Dramma immortale, in cui egli si vedeva
continuamente trascinato dalla fatalità delle cose. — Che cos’era
avvenuto? Da quale possente soffio di passione o di frenesia s’era
lasciato dominare per dimenticarsi a tal segno? Come aveva potuto
cedere senza una resistenza a quei trasporti insensati? — Ecco: la
Donna, il mostro magnifico, era là accanto a lui, e lo seguiva. Egli ne
udiva il passo cricchiare su la ghiaja con una regolarità da pendolo
che misura il tempo; egli, senza guardarla, la vedeva distintamente
procedergli a fianco, alta e serena, terribile e inconscia come un
feticcio. La loro via era comune, ed eran pari le forze: salivano una
dolce erta, tra gli alberi onusti di frutti caduchi o acerbi, verso
un’altura limitata, perduta tra altre innumerevoli alture. La montagna
superba dalle incorrotte solitudini, dalle larghe visioni, s’ergeva
lontana, molto lontana, di là da tutti quei colli, reale ma pure impervia
per entrambi e irraggiungibile. Essi salivano insieme, quasi tenuti da
una stessa catena, la dolce erta su cui erano impresse le orme di
mille passanti; e, giunti al sommo, sarebber dovuti sostare,
sconosciuti pellegrini, stretti in torno dall’umile giogaja, avendo
sempre in vista — come un Ideale beffardo — la vetta alpestre
baciata dal cielo....
— Oh! Guardi! — proruppe Flavia, volgendosi maravigliata verso il
lago.
E parve ch’ella, divinando il pensiero di lui, volesse distogliere il suo
sguardo dalla scena simbolica.
Anch’egli si volse.
Dal poggio si rivedevano alfine la superficie azzurra delle acque e la
riviera opposta, dove già qualche obliqua ombra cadeva. Alcune
vele, gonfie e quadrate, apparivano qua e là dirette verso
settentrione, così tarde da sembrare immobili. Un piroscafo presso
Intra lanciava nell’aria un’enorme colonna di fumo nero, che si
torceva in grosse spire senza dissolversi. Le nevi del Sempione, in
fondo alla valle nebulosa, erano pallidamente celesti e parevan
fondersi nell’orizzonte.
Ella mormorò fissando il lago con gli occhi incantati:
— Che pace!
Egli aggiunse, gravemente:
— Che silenzio! Non s’ode frusciare una fronda!
Infatti il più piccolo romore non rompeva il sonno dell’universo: non
un soffio di vento, non un murmure d’acque, non una voce, non un
latrato, non un’eco di lavoro lontano. La calma del paesaggio pesava
sopra di loro come un malefizio, infondeva nelle loro anime una
malinconia suprema. Ambedue sentivano ora il tempo scorrere,
disperdersi le cose nella vanità dello spazio, le illusioni e i desiderii
morire. Ambedue sentivano che la vita era triste, e che oltre la vita
eran tristi anche le speranze.
— Discendiamo? — propose Flavia, accasciata dal silenzio,
provando uno sgomento fosco d’avanti a quella solitudine, sotto quel
cielo deserto e impassibile.
— Discendiamo!
Ritornarono su i loro passi; si salutarono freddamente al limite della
pineta, non avendo scambiato durante il cammino che poche frasi
brevi e inconcludenti. Flavia riparò di nuovo al suo luogo di lavoro,
nell’ombra degli ultimi abeti; Aurelio, solo, s’inoltrò nel bosco per
discendere verso il palazzo.
V.
Echi del passato.