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«Sul comodino c’era l’immancabile volume di

Le Fanu, lettura ideale in una dimora di


campagna dopo la mezzanotte», così scrive H.
James in un suo racconto. Ma Carmilla è ben
più di un racconto di fantasmi: è un classico
della letteratura dei vampiri che ha ispirato
Dracula di Stoker e un filone filmografico che
va da Dreyer a Vadim. Ed è un esempio
affascinante della figura della «malinconia» in
tutte le sue implicazioni psicologiche, erotiche
e luttuose.

Joseph S. Le Fanu (1814-1873), scrittore


irlandese, fu continuatore della tradizione
romantica del romanzo nero (La casa presso il
cimitero, Zio Silas) e maestro del racconto di
fantasmi e di vampiri (oltre a Carmilla
l’altrettanto celebre Tè verde).
La memoria

12
Joseph S. Le Fanu

Carmilla

Traduzione e nota di
Ailio Brilli

Sellerio editore
Palermo
1980 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo

e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it

Titolo originale: Carmilla da In a Glass Darkly

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

EAN 978-88-389-0174-4
Carmilla
Prologo

In un frammento accluso alla narrazione che segue, il door Martin


Hesselius* ha redao una nota piuosto complessa nella quale fa
riferimento al saggio che ha dedicato al singolare argomento di cui si parla
nel manoscrio.
Nel suo saggio il door Hesselius disquisisce con acume e dorina, da
par suo, di questo argomento. Tale saggio costituirà uno degli
innumerevoli tomi in cui verranno raccolti e ordinati gli scrii di
quell’uomo impareggiabile.
Poiché, dando alle stampe questo caso nel presente volume, intendo
rivolgermi ad un pubblico più vasto ed eterogeneo dei soli eruditi in
materia, non anticipo alcunché del racconto dell’intelligente signora che lo
narra in prima persona. Per analoghi motivi ho deciso, dopo averci
rifleuto sopra, di non presentare alcun sunto della colta argomentazione
del doore, né una silloge delle sue esemplari sentenze su di un tema che,
per citare le sue parole, «forse coinvolge alcuni dei più profondi arcani
della nostra duplice esistenza e delle sue fasi intermedie».
Nel portare alla luce questo scrio, ho desiderato ardentemente di
riaprire la corrispondenza, iniziata tanti anni prima dal door Hesselius,
con una persona perspicace e meticolosa, quale dovee essere la sua
informatrice, ma, con mio grande rammarico, nel fraempo son venuto a
sapere che è deceduta.
Non credo d'altra parte che avrebbe potuto aggiungere granché ad un
racconto il quale, a parer mio, ella svolge nelle pagine seguenti con un
senso dei particolari veramente encomiabile.

* Il door Martin Hesselius è il fantomatico neurologo di vecchio stampo (rispeo alla coeva
tradizione positivistica), curioso e onnisciente, di cui l’autore finge di riordinare le carte trovandovi
ampia ed eccentrica materia per i romanzi brevi e i racconti raccolti soo il titolo di In a Glass
Darkly (Londra, Bentley, 1872), e di cui Carmilla costituisce il pezzo di chiusura.
Uno spavento premonitore

Pur non essendo d’alto lignaggio, abitiamo in un castello, o schloss come


dicono qui, della Stiria. Avere una piccola rendita in questo remoto angolo
di mondo è qualcosa, e oo o novemila sovrane all’anno fanno miracoli. In
patria la nostra rendita sarebbe a malapena bastata a far di noi gente
facoltosa. Mio padre è inglese e inglese è il mio nome, sebbene non sia mai
stata in quell’isola. Ma qui, in questo luogo selvaggio e solitario, ogni cosa
è così meravigliosamente destituita di valore, che non vedo come altro
denaro potrebbe aumentare la nostra agiatezza e persino il nostro fasto.
Mio padre era un funzionario dell’impero asburgico e quando lasciò il
servizio effeivo, il vitalizio e il patrimonio gli consentirono di acquistare
questa dimora feudale e la proprietà terriera sulla quale si trova, un vero
affare.
Non c’è niente di più solingo e pioresco: il maniero sovrasta di poco la
foresta; la strada, una vioola incassata e vetusta, passa dinnanzi al ponte
levatoio, mai alzato ai miei tempi, e al fossato ricco di persici, solcato da
cigni e ingentilito da floiglie di candide ninfee fluuanti in quello
specchio d’acqua. Su questo scenario s’affacciano le numerose finestre, le
torri e la cappella gotica del maniero. Di fronte ad esso la foresta s’apre in
un’irregolare, spaziosa radura e a dria un ponte a schiena d’asino
scavalca un riascolo che si perde snodando il suo corso nell’ombra
profonda del bosco.
Come ho deo, questo è un vero romitorio, e lascio a voi giudicarlo.
Guardando dal portale d’ingresso che dà sulla strada, la foresta sulla quale
s’erge il castello s’estende per quindici miglia a dria e dodici a manca. In
questa direzione si trova il più vicino villaggio abitato, a circa see miglia
inglesi. Il castello più prossimo, di una qualche memoria storica, è quello
del generale Spielsdorf, a quasi venti miglia sulla destra. Ho deo il più
vicino villaggio abitato, perché verso ponente, a sole tre miglia in
direzione del castello Spielsdorf, c’è un borgo in rovina con la sua piccola,
stranissima chiesa, oggi scoperchiata, nella cui navata si trovano le tombe
marcite della superba famiglia dei Karnstein, ormai estinta, proprietaria un
tempo del non meno diruto castello che dal fio del bosco sorveglia le
quiete rovine del villaggio. Sulle cause che portarono all’abbandono di
questo luogo intriso di affascinanti melanconie, corre una leggenda che
riserbo per altra occasione.
Ora vi dirò qualcosa dell’esiguo numero di persone che abitano il
castello. Escludo i domestici e i famigli ai quali sono riservati gli aigui
casali. Ascoltate e stupitevi! Si traa solo di mio padre, che è l’uomo più
dolce del mondo, e ormai alle soglie della vecchiaia, e di me che alla data
del racconto sono appena diciannovenne. Da allora sono trascorsi oo
anni. Mio padre ed io eravamo gli unici membri della famiglia che abitava
al castello. Mia madre, una gentildonna della Stiria, era morta quando ero
ancora bambina, ma ho avuto un’oima governante che ha seguito la mia
crescita fino dalla prima infanzia. Non riesco a ricordare il tempo in cui il
suo bel faccione soave non costituiva una presenza familiare nella mia
mente. esta era Madame Perrodon, nativa di Berna, le cui premure e la
cui bontà hanno supplito alla perdita di mia madre, venuta a mancarmi
così presto che non ne conservo la più pallida memoria. ando ci
riunivamo per il desinare, ella costituiva il terzo elemento della famiglia.
Veniva poi una quarta persona, Mademoiselle De Lafontaine, che si
potrebbe definire la governante perfea. Parlava francese e tedesco,
mentre Madame Perrodon parlava francese e solo di rado faceva ricorso ad
un inglese stentoreo. Mio padre ed io comunicavamo sempre in questa
lingua, sia per non perderne l’uso, che per orgoglio di patria. Il risultato
era una piccola Babele che faceva sorridere gli estranei e che non
m’azzardo a riprodurre nella mia narrazione. C’erano poi due o tre giovani
donne, quasi della mia età, che venivano sovente a trovarci, per periodi più
o meno lunghi, e le cui visite qualche volta ricambiavamo.
Erano questi i nostri incontri abituali con il mondo esterno, anche se
c’erano le visite occasionali di conoscenti che abitavano a non più di
cinque o sei leghe da noi. La mia, ve l’assicuro, era un’esistenza piuosto
solitaria. Le governanti avevano su di me un controllo, quale ci si può
aendere da persone di buon senso a cui venga affidata una ragazzina
piuosto capricciosa, il cui unico genitore le permeeva di fare quasi tuo
a modo suo.
Il primo evento che mi scosse, procurandomi un grande spavento, fu
tale da imprimersi in maniera indelebile nel ricordo. Forse potrà apparire
troppo insignificante per doverlo registrare qui e tuavia, nel corso della
narrazione, capirete perché ne faccio menzione. La nursery, così la
chiamavamo, sebbene fosse tua per me, era uno stanzone al piano
superiore del castello con un soffio a spioventi sorreo da capriate di
rovere. Avrò avuto circa sei anni quando una volta mi svegliai nel cuor
della noe e, guardando dal mio leo tuo intorno alla stanza, non vidi la
governante. Non c’era nemmeno la nutrice e mi resi conto di essere sola.
Non mi sentii impaurita perché ero una creatura serena, tenuta di
proposito all’oscuro di storie di fantasmi, di racconti fiabeschi e di tue
quelle fole che ci fanno infilare la testa soo le coperte al cigolio
improvviso di una porta, o all’oscillare della candela che anima sulle pareti
l’ombra delle colonne del leo, quasi mute parvenze che s’agitano verso di
noi. Ero stizzita, offesa nel sentirmi così trascurata e cominciai a frignare,
pregustando lo sfogo d’un pianto diroo, quando scorsi con stupore un
viso assorto ma grazioso che mi guardava da una sponda del leo. Era il
volto di una giovane signora che stava in ginocchio, con le mani soo il
coprileo. La osservai con una sorta di aonita meraviglia e smisi di
piagnucolare. Ella m’accarezzò con le sue mani, mi si coricò accanto nel
leo e m’arasse a sé sorridendo. Un dolce sopore s’impossessò di me e
ricaddi nel sonno. Fui risvegliata da una sensazione dolorosa, come se due
punte di spillo mi stessero penetrando nel peo, e mi misi a piangere forte.
La signora si ritrasse tenendo gli occhi fissi su di me, scivolò sul
pavimento e, così credei allora, si nascose soo il leo.
Era la prima volta che provavo un senso di terrore, per cui mi misi a
urlare a più non posso. La nutrice, la governante e la domestica si
precipitarono nella stanza e, ascoltato il racconto, finsero di non dargli
importanza, studiandosi di calmarmi come meglio potevano. Ma pur
essendo una bambina, mi accorsi che i loro visi erano cerei e i loro sguardi
colmi d’apprensione; e le vidi guardare soo il leo e per la stanza,
spostare i tavoli e spalancare gli armadi. Poi la domestica sussurrò alla
nutrice:
– Mea una mano dove c’è una conca nel materasso, qui c’è stato
qualcuno, il posto è ancora caldo.
Ricordo che la governante mi prese in collo e si mise a coccolarmi,
mentre tue e tre mi esaminavano il torace dove avevo sentito la puntura,
concludendo alla fine che non c’era alcuna traccia visibile. La domestica ed
altre due cameriere rimasero a fare la guardia tua la noe. Da allora ci fu
sempre una cameriera nella mia stanza fino quasi al compimento del mio
quaordicesimo anno. L’avvenimento mi lasciò scossa per un lungo
periodo. Fu chiamato anche un doore, un vecchio pallido ed emaciato.
Ricordo bene il suo viso saturnino, buerato qua e là dal vaiolo e
incorniciato dalla parrucca castana. Per diverso tempo continuò a fare la
sua comparsa ogni due giorni per obbligarmi a trangugiare una pozione
che detestavo.
Il giorno dopo quell’apparizione ero frastornata e impaurita a tal punto,
che non volevo restare sola nemmeno nelle più fulgide ore del giorno.
Ricordo che il babbo saliva in camera e si sedeva accanto al leo,
meendosi a chiacchierare allegramente, ponendo buffi quesiti alla
cameriera e ridendo di tuo cuore a qualche sua risposta balzana. Poi,
baendomi con affeo sulla spalla, mi baciava e mi diceva di non aver
paura perché era stato solo un bruo sogno e nessuno poteva farmi del
male. Ma i suoi vezzi non mi erano granché di conforto, perché sapevo che
quella strana figura femminile non mi era apparsa in sogno e il mio terrore
non diminuiva. Solo la governante riuscì a consolarmi per un po’,
assicurandomi che era stata lei, quella noe, a venire nella mia stanza e a
coricarsi accanto a me nel leo, e che dovevo avere sognato se non avevo
riconosciuto il suo viso. Per quanto la versione venisse confermata anche
dalla nutrice, non servì a fugare la mia inquietudine.
Ricordo inoltre che durante quella giornata venne un sant’uomo, un
vecchio avvolto in una palandrana nera, il quale entrò nella mia stanza
scortato dalla nutrice e dalla cameriera; parloò un po’ con loro e fu molto
cortese con me. Aveva un volto amabile e mi disse di giungere le mani e di
ripetere in tono sommesso, mentre gli altri pregavano:
– O Signore accogli le preghiere di chi ti invoca per noi, in nome di
Gesù.
Mi sembra che fossero queste le parole precise, perché le ripetevo fra di
me e la nutrice continuò poi per anni a farmele dire nelle preghiere.
Mi è rimasto impresso nella memoria il viso dolce e pensoso di
quell’uomo vecchio e canuto dalla gran tunica nera, in piedi in quello
stanzone scuro e severo, fra mobili antichi di trecento anni, nella luce fioca
che, filtrando araverso una grata, riusciva appena a dissolvere
quell’umbratile atmosfera. Si inginocchiò e con lui le tre donne, quindi
pregò a lungo con voce fervida e vibrante. Ho dimenticato tuo della vita
che precedee quell’evento, e anche quel che seguì qualche tempo dopo è
avvolto nell’ombra; ma le scene che ho appena descrie si stagliano vivide
come frammenti isolati di una fantasmagoria che emerge dalle tenebre.
Un’ospite

Passo ora a narrarvi una vicenda la cui stranezza meerà a dura prova
la vostra fiducia nella veracità del mio racconto, veracità non solo verbale,
comunque, ma suffragata dalla mia posizione di testimone oculare.
Era una languida serata d’estate e mio padre mi chiese, come spesso
accadeva, di accompagnarlo in una breve passeggiata al limitare della
radura da cui si godeva una stupenda vista del bosco che, come ho già
deo, s’apriva a ventaglio di fronte al castello.
– Il generale Spielsdorf verrà più tardi del previsto – disse mio padre
passeggiando.
Costui avrebbe dovuto farci visita e restare da noi per qualche seimana
e lo aendevamo per il giorno appresso. S’era d’accordo che avrebbe
condoo con sé Mademoiselle Rheinfeldt, la giovane nipote della quale era
anche tutore, che non conoscevo, ma che pure mi era stata descria come
una fanciulla incantevole e con la quale avevo sperato di trascorrere giorni
felici. Per chi vive in cià o in mezzo a vicini chiassosi è difficile
immaginare la mia delusione cocente. Per intere seimane avevo sognato
di questa visita e della conseguente promessa d una nuova conoscenza.
– E quando verrà allora? – gli chiesi.
– Fra un paio di mesi, e non prima dell’autunno, temo – rispose mio
padre. – E sono contento che tu non abbia conosciuto Mademoiselle
Rheinfeldt.
– E perché mai? – gli domandai incuriosita e spiaciuta ad un tempo.
– Perché la poverina è morta – rispose. – M’ero scordato di dirtelo, ma
quando stasera è arrivata la missiva del generale non c’eri.
Rimasi sgomenta, tanto più che il generale, sebbene in una leera di
qualche seimana prima avesse alluso a certi malesseri della nipote, non
aveva fao trapelare il minimo allarme.
– Ecco il plico del generale – disse mio padre porgendomelo. – Temo
che sia al colmo della disperazione. Dalla leera sembra che abbia scrio
in preda alla follia.
Ci sedemmo su un sedile rustico, soo un boscheo di magnifici tigli. Il
sole calava oltre l’orizzonte della selva nel malinconico splendore del
tramonto. Il rivo che fluiva accanto alla nostra dimora e soo il ponte
ripido e annoso, veniva fin quasi a lambire i nostri piedi, abbracciando fra
le sue liquide spire gli alberi alteri e specchiando sull’acqua il vanire
cremisi del cielo. La leera del generale Spielsdorf era così strana,
impetuosa e in vari punti perfino contraddioria, che sebbene la rileggessi
due volte, la seconda a voce alta a mio padre, non riuscii a darmene una
ragione se non aribuendola ad una mente sconvolta dal dolore. Essa
diceva: «Ho perduto colei che amavo al pari d’una figlia. Negli ultimi
giorni di malaia della cara Berta non ce l’ho faa a scrivervi, e prima non
avevo il minimo sospeo del pericolo che incombeva su di lei. L’ho persa e
solo ora che è troppo tardi ho capito. È spirata nella pace dell’innocenza e
nella speranza di un futuro radioso. È opera di quel demone che ha tradito
la nostra ospitalità munifica. Credevo d’avere accolto soo il mio teo una
dolce compagna per la mia Berta e con essa l’innocenza e la gaiezza in
persona. Dio mio, che pazzo sono stato! Ringrazio il Cielo che la mia
bambina è morta ignorando la causa delle sue sofferenze. Se n’è andata
senza avere avuto il tempo di comprendere la natura del male e la foga
maledea di chi ha causato tale sciagura. Consacro i giorni che mi restano
a braccare e distruggere un mostro. Mi hanno deo che ho qualche
speranza di portare a compimento un’impresa giusta e misericordiosa,
anche se al momento mia unica guida è un vago baluginare. Maledico la
mia vanità di incredulo, la sicumera sciocca e presuntuosa, la cecità,
l’ostinazione… tuo… troppo tardi. Parlo e scrivo in modo sconnesso ora,
né posso fare altrimenti. Sono fuori di me. Appena mi sarò un po’ ripreso,
conto di dedicarmi a questa ricerca che forse mi condurrà lontano, fino a
Vienna, chissà. Forse in autunno, fra due mesi o anche prima, se mi è
concesso vivere, vi farò visita… se vorrete permeermelo, e allora vi
narrerò quanto al momento non oso affidare ad un foglio. Addio. Pregate
per me, caro amico».
Il sole era ormai tramontato ed eravamo immersi nel crepuscolo,
quando porsi a mio padre la leera del generale.
Era una sera tersa e mite e noi stavamo a lambiccarci il cervello sui
molteplici sensi di quelle frasi irruenti, quasi recuperate a caso. S’era ad un
miglio dalla strada che passa dinnanzi al castello, la luna splendeva
luminosa. Vicino al ponte levatoio vedemmo Madame Perrodon e
Mademoiselle De Lafontaine che erano sortite di casa, senza le loro cuffie,
a godersi quell’incantevole chiarore lunare. Il brusio delle loro voci
impegnate in un animato dialogo ci veniva incontro da lontano e, quando
giungemmo al ponte, anche noi ci unimmo ad esse per ammirare insieme
quella scena superba.
Di fronte a noi si stendeva la radura che avevamo appena traversato. A
manca la strea vioola svolgeva il suo corso serpigno fra chiazze di
piante maestose soraendosi alla vista nell’imminenza frondosa del bosco.
A ria la medesima via araversa il ponte gibboso in prossimità del quale
s’erge una torre mozza, un tempo occhiuta sentinella del passo, e oltre il
ponte s’inarca un’altura scoscesa coperta dagli alberi, ma non senza
ostentare nell’ombra i denti di roccia felpati d’edera e di muschio. Sulla
piana erbosa aleggiava una pellicola di foschia, una bava di fumo che
meeva in risalto le distanze araverso quella trasparenza velare, e con
esse il guizzo lontano del fiume animato dalla luna.
Non si può immaginare scena più dolce e sublime. Le notizie che
avevamo ricevute le conferivano un alone di malinconia, ma nulla poteva
offuscare la serenità profonda, lo splendore incantato, la vaghezza di
quella vista. Con mio padre, che era affascinato ogni volta da quel
panorama, stavamo in estatico silenzio a rimirare la distesa che s’apriva al
nostro sguardo. Le governanti si tenevano un po’ dietro di noi,
chiacchierando del paesaggio e della luna in particolare. Madame
Perrodon era una donna di mezza età, grassoccia, dal l’indole romantica
che la portava spesso a sospirare e a parlare con accenti poetici.
Mademoiselle De Lafontaine, che pretendeva d’avere ereditato dal padre
tedesco una certa inclinazione alla psicologia, alla metafisica e ad una
buona dose di misticismo, sentenziava che quando la luna risplende di luce
così intensa esplica una straordinaria influenza sullo spirito. Gli effei
della luna piena, al colmo del suo lucore, sono molteplici. Essa agisce sui
sogni, sulla follia, sul sistema nervoso di esseri fragili ed ha prodigiose
influenze connesse con la vita. Raccontava che un suo cugino, ufficiale in
seconda in un brigantino, assopitosi sopra coperta in una noe come
questa, in posizione supina e con il volto esposto ai raggi lunari, s’era
svegliato, dopo aver sognato d’una vecchia che gli afferrava una guancia,
con la faccia sfigurata da un’orribile smorfia e che da allora non aveva più
recuperato la naturale simmetria del volto.
– esta noe la luna – ella disse – è satura di magnetismo e di influssi
odiliaci… Guardate il prospeo del castello dietro di noi, le finestre
riverberano un argenteo splendore come se mani invisibili avessero
illuminato le stanze per ricevere ospiti fatati.
Ci sono momenti in cui quel languore dello spirito, che ci rende
riluanti a parlare, s’abbandona dolcemente alla nenia della conversazione
degli altri, e così volsi lo sguardo al castello sedoa dal suono di quelle
parole.
– esta noe mi sento depresso – disse dopo un aimo di silenzio mio
padre e, citando Shakespeare, che aveva l’abitudine di declamare sovente
per tenere vivo l’uso della nostra lingua, proseguì:
– In vero non so perché son così triste, / sento che m’opprime, tu dici che
t’opprime, / ma come m’abbia preso… è venuto da sé… Il resto l’ho
dimenticato. Ma è come se qualche sciagura aleggi su di noi; credo che
dipenda dalla leera funesta del generale.
In quel preciso istante il rumore per noi desueto delle ruote di una
carrozza e di molteplici zoccoli arasse la nostra aenzione verso la
strada. Sembrava venire dall’altura che sovrasta il ponte e ben presto,
proprio da quella parte, spuntò l’equipaggio. Due cavalieri araversarono
il ponte per primi, poi fu la volta d’un cocchio con un tiro a quaro,
scortato da altri due cavalieri.
Sembrava la carrozza da viaggio d’un personaggio importante e noi
restammo ammaliati da quell’inusitato speacolo. In capo a pochi secondi
la nostra aenzione si fece spasmodica perché, non appena la carrozza
ebbe superato la gobba del ponte, il cavallo di testa s’imbizzarrì
contagiando i compagni: dopo uno o due strappi l’intero equipaggio si
slanciò in un galoppo sfrenato e, passando come una saea in mezzo ai
due cavalieri, si precipitò col fragore del tuono e la velocità dell’uragano
sulla strada che veniva verso di noi. Grida femminili provenienti dal
finestrino della carrozza rendevano più drammatica quella scena
tumultuosa. Ci lanciammo in avanti sospinti dalla curiosità e dall’orrore,
mio padre ammutolito, le altre strillando di spavento.
Non restammo a lungo con il fiato sospeso. Poco prima di arrivare al
ponte levatoio da un lato della strada c’è un tiglio secolare e dall’altro
un’antica croce d’arenaria: alla vista della croce i cavalli che correvano
all’impazzata scartarono improvvisamente, mandando le ruote della
carrozza a urtare contro le radici dell’albero che sporgevano dal terreno.
Sapevo ormai cosa sarebbe successo; mi tappai gli occhi e girai la testa
incapace di guardare e nello stesso momento sentii le urla delle governanti
che erano andate più oltre.
Riaprii gli occhi per la curiosità e vidi una scena confusa: due cavalli
scalcianti per terra, la carrozza rovesciata su un fianco con due ruote per
aria, i postiglioni intenti a sbrogliare i finimenti, una gentildonna
dall’aspeo e dai modi autoritari in piedi a mani giunte che si portava di
tanto in tanto agli occhi un fazzoleo. Dallo sportello estrassero una
giovane che sembrava priva di vita. Il mio vecchio padre era già accanto
alla signora più anziana e, con il cappello in mano, le offriva il suo aiuto e
l’ospitalità del castello. Non sembrava che la signora lo ascoltasse, protesa
com’era verso l’esile fanciulla che veniva deposta sulla proda del fosso.
Mi avvicinai anch’io. La giovane era svenuta, ma sicuramente in vita.
Mio padre, che aveva sempre avuto il pallino della medicina, le aveva già
tastato il polso e stava rassicurando la signora, che aveva deo di essere
sua madre, che il baito si sentiva ancora, per quanto fievole e irregolare.
La signora le strinse le mani e volse in alto lo sguardo in un improvviso
slancio di gratitudine, ma poi riprese a recitare in modo melodrammatico
come viene naturale, credo, a molta gente.
Era quella che si dice una signora di bell’aspeo per la sua età e in
gioventù doveva essere stata molto bella. Alta e non troppo soile,
indossava un abito di velluto nero e sembrava piuosto pallida, ma con il
piglio orgoglioso di chi sa incutere rispeo, sebbene fosse scossa da una
strana inquietudine.
– Chi è mai stata più sciagurata di me? – sentii che esclamava,
giungendo le mani mentre mi avvicinavo. – Eccomi nel bel mezzo di un
viaggio vitale, dove perdere un’ora può significare la rovina di tuo… E
chi sa quando la mia bambina avrà forze sufficienti per riprendere il
cammino. Devo lasciarla, non posso correre il rischio di arrivare in ritardo.
anto dista, signore, il villaggio più vicino? Devo separarmi da lei e non
la rivedrò, né avrò sue notizie fino al mio ritorno, di qui a tre mesi.
Tirai mio padre per la giacchea e gli sussurrai con fervore all’orecchio:
– Oh, papà! Dille di lasciarla da noi… Sarebbe magnifico. Diglielo, ti prego.
– Se Madame volesse affidare la sua bambina alle cure di mia figlia e
della sua governante, Madame Perrodon, e le permeesse di essere nostra
ospite fino al suo ritorno, soo la mia tutela, ne saremmo lusingati e
obbligati, e la traeremmo con la cura e la dedizione che una così sacra
incombenza ci impone.
– Non posso, signore, sarebbe abusare troppo della vostra squisita
cortesia, – rispose affranta la signora.
– Al contrario, sareste voi a farci una grande gentilezza nel momento in
cui ne sentiamo maggiormente bisogno. Mia figlia è rimasta assai delusa
per una visita che disgraziatamente è venuta meno e della quale stava da
tempo assaporando la gioia. Il miglior ristoro per questa fanciulla sarà
affidarla alle nostre cure. Il primo villaggio che incontrerete per via è
lontano e non ha locande adae a vostra figlia, né d’altra parte potete
arrischiare a farle proseguire il viaggio. Se, come dite, non potete fermarvi,
lasciatela da noi questa noe stessa e, siatene certa, in nessun luogo
trovereste più sincera accoglienza e affeo più caloroso.
Nell’aspeo e nel portamento della signora c’era qualcosa di nobile e di
maestoso e, a prescindere dall’imponenza della sua scorta, chiunque
avrebbe avvertito la soggezione che si prova al cospeo d’un personaggio
di riguardo.
Nel fraempo avevano rimesso in piedi la carrozza e riaaccato le
pariglie ammansite. La signora geò uno sguardo alla figlia che non mi
sembrò così pieno d’amore come ci si sarebbe aspeato, poi fece un cenno
a mio padre e s’appartò con lui per non farsi sentire. Mentre gli parlava,
assunse un’espressione dura e severa, molto diversa da quella di prima. Mi
stupii che mio padre non sembrasse cogliere quel repentino mutamento e
provai un desiderio incredibile di sapere cosa gli stava bisbigliando
all’orecchio con tanta foga ed ardore.
Il colloquio durò due o tre minuti al massimo, poi la signora si volse
verso la figlia, sostenuta da Madame Perrodon, le si inginocchiò accanto
sussurrandole, come credee Madame, qualche benedizione poi, baciatala
in frea, montò in carrozza. Lo sportello si chiuse con uno scao e i due
lacchè in livrea salirono dietro. I baistrada deero di sprone e, mentre i
postiglioni schioccavano in serpa le fruste, i corsieri si lanciarono in un
troo frenetico che ben presto sembrò trascendere a impetuoso galoppo,
mentre la carrozza spariva in un turbinìo di ruote, seguita d’appresso dai
due cavalieri alla stessa andatura.
Ricordi a confronto

Seguimmo con lo sguardo quel superbo cortège finché disparve nella


bruma del bosco, e il rumore delle ruote e degli zoccoli si perse nel l’aria
assorta della noe. Nulla restava ad assicurarci che quell’avventura fosse
stata niente altro che un sogno, salvo la fanciulla che proprio in quel
momento aprì gli occhi.
Non potei vederla perché era voltata dall’altra parte, ma quando sollevò
il capo guardandosi aorno stranita udii il soffio d’una voce dolcissima
che diceva:
– Dov’è mamma?
Madame Perrodon le rispose confortandola con affeo. Poi sentii che
chiedeva:
– Dove sono? Che posto è questo? – e dopo un po’:
– Non vedo la carrozza, e Matska dov’è?
Madame rispose a tue le sue domande, per quanto le fu possibile
capire, e a poco a poco la fanciulla ricordò cosa era avvenuto e fu felice di
sapere che nessuno, scorta compresa, era rimasto ferito. ando seppe che
sua madre l’aveva lasciata in nostra custodia per tre mesi, si mise a
piangere.
Stavo chinandomi anch’io per portarle conforto insieme a Madame
Perrodon, allorché Mademoiselle De Lafontaine mi toccò un braccio
dicendo:
– Non ti avvicinare, è meglio che parli con una sola persona, basta la
minima emozione a stancarla.
Non appena l’avranno messa a leo, pensai, andrò a trovarla in camera.
Nel fraempo mio padre aveva mandato un servo a cavallo a chiamare il
doore, che abitava a circa due leghe, e aveva dato disposizione di
preparare una camera per la giovane ospite.
La forestiera s’era intanto alzata in piedi e, appoggiandosi al braccio di
Madame, s’avviava lentamente verso il ponte levatoio e il portale. Nella
corte c’era la servitù a darle il benvenuto; poi la condussero in camera.
La sala adibita a soggiorno era un ambiente spazioso, illuminato da
quaro finestroni che danno sul fossato e sul ponte levatoio e, più oltre,
sulla selva che ho descria. È arredata con antica mobilia di quercia,
credenze intagliate e seggioloni scolpiti con cuscini in velluto rosso di
Utrecht. Racchiusi in grandi cornici dorate, alle pareti sono appesi diversi
arazzi che rappresentano personaggi a grandezza naturale in antiche e
strane fogge, nei soggei ricorrenti, quasi sempre festosi, della caccia e
della falconeria. L’imponenza dell’ambiente non ci impediva di viverci a
nostro agio: era questo infai il luogo rituale dove ci riunivamo a prendere
il tè, la bevanda nazionale che doveva sempre comparire insieme al caè e
al cioccolato, per espresso volere del mio patrioico genitore.
Anche quella sera ci sedemmo nel salone e al lume delle candele
discorremmo dell’avventura di poco prima. C’erano con noi Madame
Perrodon e Mademoiselle De Lafontaine. La giovane forestiera era caduta
in un sonno profondo appena l’avevano adagiata sul leo e le due signore
l’avevano affidata ad una cameriera.
– Vi piace la nostra ospite? – chiesi a Madame, non appena fu entrata. –
Perché non mi parlate di lei?
– Mi piace tanto – rispose Madame. – È la più graziosa creatura che
abbia mai visto. – Deve avere la vostra età, ed è così dolce e gentile.
– È stupenda – interloquì Mademoiselle, che aveva avuto modo di dare
una sbirciatina alla camera della forestiera.
– Ed ha una voce così soave – aggiunse Madame Perrodon.
– ando hanno rialzato la carrozza, – disse Mademoiselle, – non avete
fao caso ad una donna che non è scesa e che si è limitata a guardare dal
finestrino?
– No, non l’abbiamo vista.
Lei allora descrisse una donna ripugnante, nera come la pece, con una
specie di turbante colorato in testa, che era rimasta per tuo il tempo a
scrutare dalla carrozza, annuendo col capo e ghignando beffarda verso le
signore, con un guizzo nello sguardo, i bulbi degli occhi bianchi e dilatati e
i denti serrati in un parossismo di furore.
– Vi siete accorti che branco di masnadieri sembravano i lacchè? –
chiese Madame.
– Certamente – disse mio padre che era entrato proprio allora. – Erano i
più spregevoli ed abiei figuri che abbia mai visto e spero che non
approfiino della boscaglia per depredare quella povera signora. E tuavia
sono degli sgherri che sanno il fao loro, hanno raggiustato tuo in
quaro e quar’oo.
– Forse è solo lo sfinimento di un viaggio interminabile – disse Madame.
– Erano ceffi tu’altro che raccomandabili, ma erano anche smunti, torvi,
pieni di rancore. Muoio dalla curiosità, l’ammeo, e sono sicura che
domani, se la signorina starà meglio, ci dirà tuo.
– Non ne sarei tanto sicuro – intervenne mio padre con un sorriso
misterioso ed un imperceibile cenno del capo, come se ne sapesse più di
quanto volesse dire. Ciò stimolò ancor di più la mia curiosità di sapere
quel che gli aveva confidato la signora vestita di velluto nero, nel breve ma
fervido colloquio che avevano avuto sul piede di partenza.
Non appena restammo soli non dovei insistere molto per farmelo dire.
– Non c’è motivo perché non debba riferirtelo. La signora si mostrò
riluante a darci l’incombenza di badare a sua figlia. Ha parlato di lei
come un esserino dalla salute delicata e dai nervi fragili, e tuavia non
soggea a crisi né ad allucinazioni… esto me l’ha deo esplicitamente…
E sana di mente in tuo e per tuo.
– È proprio buffo che ti abbia deo queste cose – intervenni. – Non ce
n’era affao bisogno.
– Comunque sia, è stato deo – rispose ridendo mio padre. – E poiché
vuoi sapere quel che mi ha confidato, ben poca cosa in realtà, te lo riferirò.
La signora aggiunse le seguenti parole:
«Sto facendo un lungo, lungo viaggio di importanza vitale (ha posto
l’accento su questo termine), un viaggio rapido e segreto. Ritornerò di qui
a tre mesi per riprendere mia figlia, ma lei nel fraempo non vi dirà una
parola sulla nostra identità, né donde veniamo, né dove siamo direi».
Ecco quanto mi ha deo in un francese forbitissimo. Pronunciando la
parola «segreto», fece una pausa di qualche secondo e, fissandomi negli
occhi, assunse un’aria severa. Penso che ci tenga moltissimo alla
segretezza e poi, hai visto tu stesso con quale foga è ripartita. Spero di non
aver commesso una sciocchezza a prendermi la responsabilità della
damigella.
Per parte mia, ero al seimo cielo. Desideravo ardentemente di vederla e
di parlarle e aspeavo solo che il medico me ne desse il permesso. Voi che
vivete in cià, non avete la più pallida idea di quale evento straordinario
sia la comparsa di una nuova amica nella solitudine immensa in cui allora
mi trovavo.
Il doore non arrivò che verso l’una, ma nel fraempo non sarei stata
capace di dormire più di quanto lo sarei stata a rincorrere a piedi il
cocchio con cui s’era dileguata la principessa vestita di velluto nero.
ando il doore scese di nuovo nel soggiorno ci dee buone notizie
della paziente.
S’era sollevata sui guanciali, aveva il polso regolare e, almeno
all’apparenza, stava bene. L’incidente non le aveva procurato lesioni, né
sembrava averle scosso il sistema nervoso. Non le avrebbe fao male
incontrarmi, se lo desideravamo entrambe per cui, con il suo consenso,
mandai una fantesca a chiederle se potevo andare a trovarla in camera sua.
La fantesca tornò subito riferendomi che non desiderava di meglio e da
parte mia, ve l’assicuro, non persi l’occasione di avvalermi di tale
consenso.
La nostra ospite dimorava in una delle camere più belle dello schloss,
anche se un po’ troppo severa. Sulla parete ai piedi del leo era appeso un
arazzo dai toni foschi, raffigurante Cleopatra con l’aspide al seno; anche le
altre pareti erano decorate con scene classiche, quasi tue un po’ sbiadite.
Ma c’erano anche le orifiamme ed una vera profusione di colori negli
arredi, tale, da riscaare la tetraggine di quegli arazzi vetusti.
Le candele ardevano ai lati del leo: la fanciulla s’era alzata a sedere e la
sua figura flessuosa era avvolta nella morbida, serica vestaglia, ricamata a
fiorami e orlata di spessa seta trapunta, che sua madre le aveva geato sui
piedi mentre giaceva per terra.
Ma cosa fu che, quando giunsi al capezzale e fui sul punto di proferire
qualche convenevole, mi ammutolì di colpo e mi fece arretrare di qualche
passo?
ello che scorsi era il medesimo volto che mi era apparso una noe
quando ero bambina, un volto che mi era rimasto impresso in maniera
indelebile nella memoria e sul quale avevo fantasticato inorridita tante e
tante volte, quando nessuno aveva la più pallida idea di che cosa stessi
rimuginando fra me stessa. Un volto grazioso, anzi bello, con quella stessa
ombra di malinconia che aveva quando lo avevo visto la prima volta.
esto s’illuminò quasi subito nel sorriso che è proprio di chi recupera un
ricordo lontano, ma era un sorriso strano e quasi contrao. Ci fu una
pausa di qualche minuto, gravida di silenzio, poi fu lei a parlare perché io
non ne ero in grado.
– Prodigioso! – esclamò – Dodici anni fa m’apparve in sogno il tuo
volto e da allora mi ha sempre perseguitato.
– Prodigioso davvero! – le feci eco, cercando di vincere l’orrore che mi
aveva impedito la favella. – Anch’io ti ho vista dodici anni or sono, in una
visione o nella realtà. Non ho dimenticato il tuo volto, da allora l’ho
sempre avuto innanzi agli occhi.
Il suo sorriso s’era addolcito. alsiasi remota fantasticheria m’avesse
richiamato alla memoria quello strano sorriso, s’era ormai dissolta al
cospeo d’un volto intelligente e grazioso, ornato da due fosseine vivaci.
Ne fui rincuorata e, nel tono che si confaceva alla mia condizione di ospite,
le dei il benvenuto, dicendole inoltre quanto piacere ci aveva procurato
la sua visita fortuita e di quanta felicità aveva colmato il mio cuore.
Parlando le presi una mano: ero una ragazza timida, come sono in genere
le persone solitarie, ma la situazione mi aveva reso loquace, persino ardita.
Lei mi strinse la mano fra le sue e il suo sguardo ebbe un bagliore quando i
nostri occhi s’incontrarono fugacemente. Poi sorrise ancora, arrossendo.
Rispose con grazia infinita al mio saluto e, mentre le sedevo accanto
ancora un po’ frastornata, mi disse:
– Debbo narrarti di quando mi sei apparsa in sogno. È così strano aver
sognato l’una dell’altra in maniera così nitida ed esserci viste nel sogno
come ci vediamo ora, sebbene fossimo soltanto bambine. Avevo all’incirca
sei anni quando una noe, svegliandomi dopo un sogno confuso e agitato,
mi ritrovai in una camera diversa dalla mia, foderata di legno scuro,
dall’aspeo bizzarro, piena di credenze, di lei a baldacchino, di seggioloni
e di cassepanche. Mi pareva che i lei fossero tui vuoti e che non ci fosse
nessun altro all’infuori di me. Dopo essermi guardata aorno per un po’,
colpita in modo particolare da un candelabro in ferro bauto a due braccia
che saprei riconoscere ancor oggi, m’infilai a carponi soo uno dei lei
per raggiungere la finestra ma, mentre ne sgusciavo fuori, sentii che
qualcuno piangeva. In ginocchio com’ero, guardai verso l’alto e vidi te… te
senza alcun dubbio… come ti vedo ora: una bella fanciulla dai capelli d’oro
e dai grandi occhi azzurri e le labbra… le tue labbra… proprio tu, come sei
ora, in carne ed ossa. Rimasi ammaliata dal tuo sguardo, salii sul leo, ti
geai le braccia al collo e ci addormentammo entrambe. Fui svegliata di
soprassalto da un grido; eri tu che, seduta sul leo, stavi gridando. Presi
un grande spavento e mi lasciai scivolare sull’impiantito dove, suppongo,
devo aver perso la conoscenza per qualche minuto. ando mi riebbi, ero
di nuovo nella camerea a casa mia. Non è questione di una somiglianza
eccezionale, sei tu la donna che vidi allora.
Ora toccava a me narrare la corrispondente visione e lo feci destando
una non dissimulata meraviglia nella mia nuova conoscente.
– Non so quale di noi due dovrebbe avere più paura dell’altra – disse lei
sorridendo di nuovo. – Se tu non fossi tanto graziosa, sarei aerrita dalla
tua presenza, ma poiché sei come sei ed entrambe siamo così giovani, so
soltanto che ti ho conosciuta dodici anni fa e che ho già acquisito il dirio
ad un’intima amicizia con te. In ogni caso sembra che fossimo destinate fin
dall’infanzia ad essere amiche. Mi chiedo se anche tu provi per me uno
strano trasporto. Di amiche non ne ho mai avute… l’ho forse trovata ora?
Emise un sospiro e mi guardò appassionatamente con i suoi grandi
occhi neri. A dire il vero, i sentimenti che provavo per l’incantevole
sconosciuta sono assai difficili da analizzare. Riprendendo le sue parole, mi
sentivo «araa» verso di lei, ma allo stesso tempo avvertivo un vago
senso di repulsione. E tuavia sull’ambiguità di questi sentimenti
prevaleva di gran lunga una specie di alleamento: mi interessava e mi
ammaliava, tanta era la sua bellezza e il suo fascino misterioso.
Ad un certo momento percepii che la spossatezza e un soffuso languore
s’andavano impossessando di lei, per cui mi affreai ad augurarle il buon
riposo.
– Il medico ritiene opportuno, – dissi – che ci sia una persona a vegliarti
stanoe; c’è già una fantesca a disposizione e vedrai com’è servizievole e
discreta.
– Sei molto gentile, ma non riuscirei a dormire con altri in camera. Non
ho bisogno di assistenza e, se posso confidarti un segreto… ho paura dei
briganti. Una volta assalirono la mia dimora, sai, ammazzando due
servitori e da allora mi chiudo sempre a chiave in camera: ormai è
un’abitudine… spero mi scuserai. Vedo che c’è la chiave nella toppa.
Mi strinse per un aimo fra le sue braccia bisbigliandomi all’orecchio:
– Buona noe, cara, mi duole separarmi da te, ma devo salutarti; ti
rivedrò domani, ma non troppo presto.
Si lasciò andare sui cuscini con un sospiro e, mentre i suoi occhi mi
seguivano con uno sguardo pieno d’amore e di malinconia, sussurrò
ancora una volta:
– Buona noe, cara amica.
I giovani sono impulsivi nelle loro simpatie e nel concedere il loro
amore. L’affeo che ella mostrava di avere per me mi lusingava, sebbene
nulla avessi fao per meritarlo. E mi piaceva la familiarità con cui mi
aveva subito accolta. Aveva deciso che saremmo diventate proprio intime.
Il giorno appresso ci incontrammo di nuovo. Ero estasiata della sua
compagnia per molti aspei.
Alla luce del giorno era altreanto incantevole… era senza dubbio la più
bella creatura che avessi mai visto e il ricordo del volto apparsomi in un
sogno lontano aveva ormai perso i connotati sgradevoli del primo, inaeso
riconoscimento. Lei stessa mi confidò di avere avuto un sussulto nel
vedermi e la stessa indefinibile ripulsa che s’era mescolata alla mia
ammirazione. Ormai potevamo ridere di quei momenti d’orrore.
Le sue abitudini. Una passeggiata

Vi ho deo che c’erano molti aspei del suo modo di essere che mi
riempivano di delizia, ma ve n’erano altri di cui non potrei dire altreanto.
Sopravvanzava la media della statura femminile e comincerò dunque col
descrivervela: era snella, dotata di grazia fuori del comune e, malgrado il
languore dei suoi movimenti, un languore che rasentava la spossatezza, dal
suo aspeo non traspariva il minimo indizio di malaia; colorita e radiosa
la carnagione, le faezze minute e ben fae, gli occhi grandi, neri e
lucenti, meravigliosi i capelli. Non ho mai visto capelli così belli, folti e
lunghi come quando le ricadevano sciolti sulle spalle: sovente ho posto le
mani soo quelle chiome ridendo di stupore nel soppesarle; capelli soili e
di straordinaria morbidezza, di un castano scuro ed intenso dai riflessi
dorati. Mi piaceva lasciarli ricadere soo il loro peso, quando in camera
sua s’appoggiava allo schienale d’una sedia conversando con la sua voce
soave e sommessa, e mi divertivo ad avvolgerli, ad intrecciarli e a farli
fluire in tuo il loro soffice volume. Buon Dio! Se avessi saputo allora!
Ho deo che c’era qualcosa in lei che non mi convinceva del tuo. Era
stato un senso di confidenziale immediatezza a conquistarmi la prima
noe in cui la vidi, una confidenza tuavia che si studiava di lasciare in
ombra, con inopinata deliberazione specie per quanto potesse concernere
lei stessa, sua madre, il passato e tuo ciò che riguardava la sua vita, i
progei, la famiglia. È probabile che peccassi di scarsa comprensione;
forse mi sbagliavo, forse avrei dovuto rispeare l’impegno solenne che la
dama in velluto nero aveva espresso a mio padre. D’altra parte la curiosità
è una passione che rende irrequieti e non bada troppo agli scrupoli, e poi
non c’è ragazza disposta a lasciarsi eludere da una coetanea. Che le
sarebbe potuto accadere se mi avesse deo ciò che agognavo sopra ogni
cosa? Non riponeva la minima fiducia nel mio buon senso e nella mia
parola d’onore? Perché non voleva credermi quando le assicuravo, con
giuramenti solenni, che non avrei riferito ad anima viva una sola sillaba di
quanto mi avesse confidato?
Mi pareva che ci fosse una gelida riservatezza, superiore a quella che ci
si sarebbe aeso dalla sua età, nel sorriso malinconico con cui rifiutava
ostinatamente di schiudermi il benché minimo spiraglio di luce.
Con questo non posso dire che litigassimo, perché lei non litigava per
nessuna ragione al mondo. E naturalmente da parte mia era impertinente
e sleale continuare in quello stillicidio di domande, ma non potevo farne a
meno e, in ogni caso, il risultato era sempre lo stesso. anto mi aveva
rivelato si traduceva, senza mezze perifrasi, in un niente di niente. Si può
riassumere il tuo in tre punti assai vaghi:
primo: si chiamava Carmilla;
secondo: era d’antico e nobile casato;
terzo: la sua casa era verso l’occaso.
Non volle rivelarmi il nome della sua famiglia, né come fosse il suo
stemma gentilizio, né come si chiamava il suo feudo e nemmeno il nome
del suo paese.
Non dovete credere che l’assillassi senza tregua; aspeavo sempre il
momento giusto e, più che stare ad incalzarla con le mie domande, usavo
la taica dell’insinuazione. Un paio di volte cercai di sferrare un aacco
frontale, ma in qualsiasi modo procedessi, il risultato era sempre un fiasco
completo. Carezze e rimproveri non avevano alcuna presa su di lei. Devo
anche aggiungere che eludeva i miei quesiti con un tono di così dolce
malinconia e di trepido corruccio, con tali dichiarazioni di affeo, di
fiducia nel mio senso dell’onore e di tali e tante promesse di rivelarmi
tuo «alla fine», che non me la sentivo di tenerle il broncio per molto
tempo.
Sovente mi geava le braccia al collo, mi airava a sé e, poggiando la
guancia alla mia, mi bisbigliava con le labbra all’orecchio: – Mia cara, il
tuo cuoricino è ferito, ma non giudicarmi crudele se obbedisco alla legge
ineludibile su cui si fondano la mia forza e la mia fralezza; se il tuo cuore è
ferito, anche il mio cuore selvaggio sanguina con il tuo. Nell’estasi della
mia infinita umiliazione, vivo del calore della tua vita e anche tu morirai…
d’una morte estenuante e dolcissima… della mia vita. Non posso evitarlo, e
così come mi avvicino a te, tu a tua volta t’appresserai ad altri ed
apprenderai l’estasi di quella crudeltà che è anche amore. Per un po’ di
tempo non cercare di sapere altro di me e della mia stirpe, ma confida in
me con tuo il tuo amore.
Poi, dopo una tale rapsodia, mi serrava più strea nel suo trepido
abbraccio e le sue labbra imprimevano sulle mie guance il calore di soffici
baci.
Non riuscivo a capire la sua eccitazione e il suo linguaggio. Devo
ammeere che desideravo sorarmi subito a quegli abbracci assurdi, e per
altro non molto frequenti, ma sembrava che le forze mi venissero meno. Il
bisbiglio delle sue parole fluiva nel mio orecchio con l’iterazione
incantatoria di una nenia, oundendo le mie facoltà fino a farmi cadere in
una sorta di deliquio ipnotico dal quale riemergevo solo quando scioglieva
le sue braccia.
Non mi piaceva quando era preda di questo umore misterioso. Provavo
un’eccitazione strana e tumultuosa che raggiungeva di tanto in tanto la
soglia del piacere, restando pur sempre intrisa ad un senso indefinibile di
angoscia e di disgusto. In quei momenti non riuscivo a formulare dei
pensieri con chiarezza, ma ero conscia di un amore che si andava
trasformando, ad un tempo, in adorazione e in abominio. So bene che sto
formulando un paradosso, ma non saprei spiegare altrimenti quel che
provavo. Anche se scrivo a distanza di altri due lustri, la mano mi trema
ancora e, sebbene abbia un ricordo nitido e preciso degli eventi salienti
della mia storia, certi momenti della prova terribile che stavo
inconsapevolmente vivendo mi tornano alla mente confusi e saturi ancor
oggi d’orrore. Credo comunque che per noi tui ci siano dei momenti della
vita emotiva i quali, per quanto testimoni delle nostre più violente e
sfrenate passioni, rimangono fra i più vaghi e indeterminati nei cataloghi
della memoria.
Accadeva talora che, dopo un’ora di indolente apatia, la mia strana e
bellissima compagna mi prendesse la mano serrando con sempre maggiore
intensità la sua presa amorosa, arrossendo dolcemente, guardandomi fissa
con i suoi occhi languidi e ardenti, con un respiro che si faceva così rapido
che sembrava trasmeere l’ansimo stesso alla veste. Era come l’ardore di
un amante, mi imbarazzava, era ripugnante, eppure mi teneva in sua balìa.
Mi airava a sé con lo sguardo carico di avidità e le sue calde labbra mi
coprivano le guance di baci mentre sussurrava in un singulto: «Sei mia,
devi essere mia, tu ed io saremo una cosa sola, per sempre». Poi si geava
indietro sullo schienale, coprendosi gli occhi con le sue piccole mani e
lasciandomi in preda al tremore.
Allora le chiedevo: – Siamo forse parenti? Cosa vuoi dirmi? Forse ti
ricordo qualcuno che hai amato, ma non devi fare così, lo detesto, non ti
riconosco più… Non sono più me stessa quando mi guardi e parli a quel
modo!
Dinnanzi alla veemenza del mio distacco, si volgeva dall’altra parte e mi
lasciava le mani.
Cercavo invano di formulare una teoria che in qualche modo rendesse
conto di queste manifestazioni d’eccesso, visto che non potevo aribuirle a
simulazione o ad impostura. Che fossero il prorompere momentaneo di
sentimenti ed emozioni represse, non c’era ombra di dubbio. Malgrado
l’espressa denegazione di sua madre, andava forse soggea a crisi saltuarie
di invasamento? O si traava magari d’un travestimento e di un’avventura
romantica? Avevo leo qualcosa del genere in certi antichi romanzi: e se si
fosse traato d’un giovane amante che, con l’appoggio d’una vecchia e
astuta mezzana, avesse escogitato il modo d’intrudersi in casa cercando di
raggiungere il suo scopo soo mentite spoglie? Per quanto stuzzicasse la
mia vanità, questa ipotesi cozzava contro troppi elementi.
Non potevo infai vantarmi d’essere stata oggeo di quelle premure che
la galanteria maschile si compiace di offrire. Nei lunghi intervalli che
separavano quei momenti d’intensa passione la nostra relazione era
normale, e gaiezza s’alternava a meditabonda malinconia. Alle volte era
come se non esistessi per lei, sebbene poi scoprissi che i suoi occhi mi
seguivano pieni di malinconico ardore. A parte i periodi di misteriosa
eccitazione, i suoi modi erano quelli di una fanciulla; inoltre aveva
aeggiamenti di persistente languore, inconciliabili con un temperamento
maschile nel rigoglio della giovinezza.
Aveva abitudini strampalate soo molti aspei, anche se agli occhi di
chi vive in cià potevano apparire meno strane di quanto lo fossero per
dei villici come noi: scendeva da basso nella tarda mainata, in genere non
prima del l’una, e sorbiva una tazza di cioccolato senza toccare un
boccone; poi uscivamo a fare una passeggiata, un giro senza meta, anche
se dopo i primi passi sembrava già sfinita; allora tornavamo allo schloss o
ci sedevamo su uno dei rustici sedili disposti qua e là nella boscaglia. La
spossatezza fisica non influiva d’altra parte sulla sua mente, infai era
sempre capace d’intraenere una conversazione animata ed arguta.
Talvolta le capitava di lasciarsi sfuggire un’allusione alla sua dimora avita,
o accennava a qualche cosa che le era successo, ad un’avventura, ad un
ricordo lontano, tui elementi questi, che facevano pensare a gente dalle
usanze forestiere e dai costumi che ci erano completamente sconosciuti.
Da quegli accenni casuali, da quei brandelli d’informazione dedussi che il
suo paese natale doveva essere molto più remoto di quanto avessi
immaginato.
Un pomeriggio sedevamo soo gli alberi, come era nostra abitudine,
quando ci passò dinnanzi un funerale rusticano. Era quello d’una graziosa
ragazzina che avevo incontrata più volte, figlia d’un guardiaboschi. Il
povero uomo procedeva dietro la bara di quella che era stata la sua unica
figlia e appariva straziato dal dolore. Seguivano a coppie i contadini che
intonavano un canto funebre. Al loro passaggio mi alzai in piedi in segno
di rispeo e mi unii al loro canto. La mia compagna mi dee uno straone
e, quando mi volsi sorpresa, mi disse con fare arrogante:
– Non senti com’è stonato?
– Al contrario, mi sembra dolcissimo.
Risposi mostrando la mia irritazione per quella sortita e tuo il mio
imbarazzo per tema che i seguaci di quella mesta processione notassero
quel che stava accadendo e se ne sentissero offesi. Ripresi quindi a cantare,
ma lei m’interruppe di nuovo:
– Mi laceri i timpani – disse con un moto di stizza, turandosi gli orecchi
con le dita. – E poi che ne sai se la tua religione è anche la mia? I vostri riti
mi feriscono. Detesto i funerali. ante storie! Anche tu devi morire…
Tui vanno incontro alla morte e tui sono più felici dopo che è successo.
Torniamo a casa.
– Il babbo è andato al camposanto con il prete. Credevo sapessi che
l’avrebbero sepolta oggi.
– ella? Ai bifolchi non ci penso nemmeno. Non so chi sia, quella –
rispose con un guizzo negli occhi.
– È quella poverina che s’era messa in testa d’essersi imbauta in una
fantasima, un paio di seimane fa. Da allora è andata spegnendosi poco a
poco, finché ieri è spirata.
– Non parlarmi di fantasmi, altrimenti stanoe non riuscirò a dormire.
– Speriamo che non incomba su di noi una qualche pestilenza o
un’epidemia. I segni sono preoccupanti – proseguii. – La giovane moglie
del porcaro è morta da una seimana appena: era convinta che qualcosa
l’avesse aanagliata alla gola fin quasi a soffocarla mentre era coricata. Il
babbo dice che si traa di allucinazioni che accompagnano febbri
perniciose. Il giorno prima era sana come un pesce, poi è andata
deperendo ed è morta in capo ad una seimana.
– Bene. Spero che ormai le abbiano fao il trasporto e le abbiano
salmodiato le requiemeterne, così non ci faremo straziare gli orecchi da
quelle note vanesie e stridenti. Mi urtano i nervi. Siediti qui, accanto a me,
stammi vicino e stringimi la mano forte… forte… più forte.
Ci eravamo allontanate di poco ed eravamo sedute su un’altra panchina.
Il suo volto subì una metamorfosi orribile che per un aimo mi allarmò e
mi aerrì persino: si oscurò e divenne di un livore sperale, strinse i denti
e i pugni in una contrazione parossistica, i suoi lineamenti s’aggricciarono
e le si ritrassero le labbra e, mentre teneva gli occhi fissi a terra dinnanzi a
sé, era scossa da un tremito convulso e irrefrenabile, come quello delle
febbri malariche. Sembrava tesa fino allo spasimo a reprimere
quell’accesso improvviso. Alla fine le eruppe dal seno un grido di dolore
fioco e convulso e poco a poco quell’aacco isterico cominciò a placarsi.
– Ecco cosa succede quando si soffoca la gente con le litanie di chiesa! –
disse. – Stringimi, stringimi ancora. Mi sta passando.
Poco a poco passò veramente e forse per distogliermi dalla fosca
impressione di quello speacolo, si dimostrò particolarmente vivace e
ciarliera mentre tornavamo a casa. Era la prima volta che mostrava i
sintomi di quel misterioso male dei nervi di cui aveva parlato sua madre,
ed anche la prima che aveva mostrato di cedere a qualcosa molto simile
alla collera. Ma tuo si dileguò come una nube estiva e mai più, ecceo
una volta, mi capitò di assistere ad un suo irrefrenabile moto d’ira. Merita
quindi che vi narri come accadde.
Eravamo affacciate insieme al davanzale di uno dei finestroni della sala,
quando vedemmo fare il suo ingresso nel cortile, araverso il ponte
levatoio, a un girovago che era una mia vecchia conoscenza perché era
solito fare sosta al castello un paio di volte all’anno.
Era gobbo ed aveva i lineamenti scarni e legnosi che di solito
accompagnano tale deformità. Portava una barbea nera, appuntita, e
quando sorrideva meeva in mostra, da un orecchio all’altro, una chiostra
di denti candidi. Era vestito di marrone, di nero e di viola e portava
indosso un tal numero di cinghie e di corregge, a bandoliera o a tracolla,
che era impossibile contarle e dalle quali penzolavano gli oggei più
strani. Si portava dietro una lanterna magica e due scatole che, come già
sapevo, contenevano l’una una salamandra e l’altra una mandragora.
esti mostri di solito facevano ridere mio padre. Erano composti con
parti di scimmie, pappagalli, scoiaoli, pesci e porcospini, essiccati e
ricuciti insieme con abilità certosina ed effeo straordinario. Aveva un
violino, una scatola con l’occorrente per fare le magie, un paio di sciabole
e di maschere da schermidore appesi alla cintura dalla quale pendevano
altri astucci misteriosi, mentre in mano teneva un bordone scuro guernito
di rame. Aveva per compagno un cane bastardo, un botolo irsuto che gli
stava sempre alle calcagna e che si fermò con fare circospeo al ponte
levatoio, emeendo un lugubre ululato.
Nel fraempo il saltimbanco, che era giunto nel mezzo della corte, si
tolse il groesco copricapo e ci fece una gran riverenza, salutandoci con
uno sproloquio in francese esecrando per poi passare ad un non migliore
tedesco. Poi, tirato fuori il violino, si dee a strimpellare un’ariea allegra
con cui accompagnava la sua voce in falseo, danzando con buffe
movenze e piroee che mi fecero ridere, malgrado l’ululato disperato del
cane. Avanzò fin soo la finestra fra sorrisi e saluti, con il cappello in
mano ed il violino soobraccio e, senza riprendere fiato un momento, ci
scodellò l’interminabile elenco delle arti ingegnose e dei rari mestieri che
meeva a nostra disposizione, nonché delle curiosità e dei sollazzi che
poteva sooporre alla nostra cortese richiesta.
– Vuole la signoria vostra degnarsi di acquistare un amuleto contro
l’upiria che mi dicono vada in giro come un lupo proprio da queste parti?
– disse geando il cappello sul selciato. – Muoiono a dria e a manca, ma
ecco un rimedio sovrano, basta appuntare questo ciondolo al cuscino e si
può ridergli in faccia.
esti amuleti consistevano in cartigli di pergamena su cui erano
tracciate cifre cabalistiche e segni misteriosi. Carmilla ne comprò uno e
così feci anch’io.
Egli alzò gli occhi mentre noi ridevamo divertite, e tale io almeno lo ero.
Notai che i suoi occhi neri e vispi sembravano aver scorto qualcosa di
estremo interesse. In un baer d’occhio srotolò un involucro di cuoio nero
pieno di piccoli aggeggi d’acciaio forbito e dalle fogge bizzarre.
– Osservino, signore, – disse mostrandoceli e poi, rivolgendosi a me, –
tra le altre, professo l’arte del cavadenti… Che ti pigli la peste, cagnaccio, –
s’interruppe, – fa’ la cuccia, bestia! Se abbai così, sua eccellenza non
sentirà una parola! La vostra nobile amica, la damigella che vi sta alla
destra, ha i canini affilatissimi, lunghi e strei, come lesine, come aghi…
Ah, ah! Mentre vi guardavo non sono sfuggiti ai miei occhi di lince. Se
dovessero recarle fastidio, com’è probabile, eccomi a disposizione con la
lima, il trapano e le pinze e, se a sua signoria fa piacere, li smusserò e li
arrotonderò e non avrà più denti come lische di pesce, ma come si
addicono ad una giovane e bella signora… Eh! Ma sua signoria è
dispiaciuta? Sono stato troppo sfacciato, l’ho forse offesa?
La mia amica aveva infai il volto terreo mentre si ritraeva dalla
finestra.
– Come si permee d’insultarmi quel volgare ciarlatano? Dov’è tuo
padre? Gli chiederò soddisfazione. Il mio avrebbe legato quel miserabile ad
un palo, l’avrebbe fao scudisciare con la frusta del carreiere e gli
avrebbe impresso a fuoco il marchio del castello, fino alle ossa.
Si allontanò di qualche passo dalla finestra andandosi a sedere e, appena
non ebbe più dinnanzi agli occhi colui che l’aveva offesa, la sua collera
svanì all’improvviso come all’improvviso s’era scatenata e poco a poco
riprese il suo umore normale, dimenticando il gobbo e le sue balordaggini.
ella sera il babbo era fuori di sé. Al suo arrivo ci disse che s’era
manifestato un altro caso con i medesimi sintomi dei due casi verificatisi
negli ultimi giorni: la sorella d’un giovane colono del nostro podere, che
distava non più d’un miglio, era agli sgoccioli. Come lei stessa aveva
narrato, era stata aggredita dal morbo allo stesso modo delle altre ed era
ormai sfinita dalla suzione inesorabile della morte.
– Tuo questo – disse il babbo – dipende unicamente da cause naturali.
esti sciagurati si contagiano a vicenda con le loro superstizioni e così
rivivono nell’immaginazione le visioni di terrore che hanno avuto i loro
vicini.
– Basta questo a farmi morire di paura – disse Carmilla.
– Come mai? – chiese mio padre.
– Il solo pensiero di queste cose mi aerrisce, sarebbe orribile se
accadessero davvero.
– Siamo nelle mani di Dio: non succede nulla che lui non voglia e tuo
finirà bene per coloro che lo amano. È nel nostro creatore che dobbiamo
riporre fiducia. Lui che ci ha creati avrà cura di noi.
– Il creatore! Caso mai la natura! – obieò la fanciulla, rispondendo alle
parole pacate di mio padre.
– Anche il morbo che infesta il paese è fruo della natura. La natura,
certo, tuo deriva dalla natura… non è così? Tue le cose del cielo, della
terra e del soosuolo non vivono forse ed agiscono secondo i deami che
natura comanda? Io la penso così.
– Il doore ha deo che verrà in giornata, – disse il babbo dopo una
pausa di silenzio – voglio sapere che ne pensa e cosa ci consiglia di fare.
– I doori non mi sono mai stati d’aiuto. – disse Carmilla.
– Allora sei stata ammalata. – le chiesi.
– Molto più di quanto lo sia mai stata tu – mi rispose.
– Molto tempo fa?
– Sì, tanto tempo fa. Ho sofferto proprio di questa malaia, ma ho
dimenticato quasi tuo… Ricordo solo il dolore e lo sfinimento che,
comunque, non erano triboli peggiori di quelli provocati da altre infermità.
– Eri molto giovane?
– Credo di sì, ma non parliamone più, non vuoi angustiare un’amica,
vero?
Mi guardò negli occhi con la sua espressione struggente, mi cinse con
un moto d’affeo la vita e mi condusse fuori della sala. Il babbo era intento
nella leura di alcune carte accanto alla finestra.
– Perché tuo padre si diverte a meerci paura? –sospirò, come se fosse
scossa da un lieve brivido.
– Non si diverte affao, è l’ultima cosa a cui potrebbe pensare.
– E tu hai paura, mia cara?
– Sarei terrorizzata se credessi veramente di contrarre il contagio e di
venire colpita come quelle poveree.
– Hai paura di morire?
– Sì, come tui.
– Eppure morire come muoiono gli amanti… Morire insieme, voglio
dire, per poter rivivere insieme. Finché vivono su questa terra le ragazze
sono come bruchi, esse diventano farfalle solo quando arriva l’estate. Ma
nel fraempo non sono altro che bruchi, larve, capisci… Ognuna con le
sue inclinazioni, le sue necessità, la sua struura particolare. Così
sentenzia Monsieur Buffon nei suoi tomi ponderosi che sono nella sala
accanto.
Più tardi venne il doore che s’appartò per un certo tempo con mio
padre. Era un uomo di grande perizia, sulla sessantina e oltre, con la
parrucca incipriata e il pallido volto sempre rasato di fresco, liscio come la
superficie di una zucca. Uscì dallo studiolo con il babbo mentre
quest’ultimo diceva:
– Mi stupisce proprio che un uomo saggio come voi… E degli ippogrifi o
dei draghi che ne pensate?
Il doore sorrise e scuotendo la testa rispose:
– In fine dei conti la vita e la morte sono degli stati avvolti nel mistero e
noi sappiamo ben poco delle risorse dell’una e dell’altra.
Passarono oltre e non udii altro. Allora mi sfuggirono i termini della
discussione, ma oggi posso indovinarli.
Una prodigiosa somiglianza

ella sera arrivò da Graz il figlio del restauratore di quadri, un giovane


bruno e riservato nei modi, con un carriaggio che trasportava due casse,
ognuna delle quali era stipata di dipinti. Era un viaggio di dieci leghe ed
oltre, e quando arrivava un messaggero da Graz, la piccola capitale del
nostro paese, era d’uso aorniarlo festosi nell’atrio per ascoltare da lui le
ultime novità.
L’arrivo rese effervescente il nostro eremitaggio, in genere assai quieto.
Le casse furono scaricate nell’androne e il messaggero venne affidato ai
domestici perché si rifocillasse. Poi, scortato da alcuni inservienti e armato
di mazzuolo, scalpello e cacciavite, ci venne incontro nell’atrio ove ci
eravamo raccolti per presenziare alla schiodatura delle casse.
Carmilla se ne stava seduta guardando con aria assente mentre gli
antichi olii, quasi tui vecchi ritrai che avevano subito un processo di
restauro, venivano tolti dagli imballaggi. Mia madre discendeva da un
casato vetusto dell’Ungheria e quasi tui i quadri, che di lì a poco
sarebbero ricomparsi ai loro posti abituali, li avevamo ereditati suo
tramite.
Mio padre aveva fra le mani una lista e leggeva a voce alta i nomi dei
vari pezzi, mentre l’artigiano, dopo aver armeggiato nella cassa, tirava
fuori i quadri corrispondenti. Non so se fossero dipinti di gran pregio,
erano in ogni caso molto antichi e alcuni delle curiose rarità. Per me poi
avevano quasi tui il merito di apparire visibili per la prima volta, sepolti
come erano stati soo le velature copiose del fumo e della polvere
secolare.
– C’è un ritrao che non ho ancora visto, – disse il babbo – in un
angolo in alto ci deve essere un cartiglio con un nome, Marcia Karnstein,
per quel che ho potuto decifrare, e la data, 1698… Sono curioso di vedere
come è venuto.
Lo ricordavo anch’io: era un ritraino quadrato o quasi, un piede e
mezzo di lato, senza cornice e così annerito dal tempo, che non ero mai
riuscita a scorgerne il sembiante.
L’artigiano lo mise in mostra pieno d’orgoglio: era bellissimo,
straordinario, sembrava che pulsasse di vita. Era il ritrao di Carmilla!
– Ma questo è un miracolo, Carmilla. Eccoti qua, viva, sorridente, sul
punto di parlare in questo ritrao. Non è meraviglioso, babbo? Guarda, c’è
anche il suo neo sul collo.
Mio padre sorrise e disse:
– Oh sì, la rassomiglianza è notevole, – ma volse subito altrove lo
sguardo e, con mio grande stupore, sembrò non dargli molto peso. indi
continuò a discorrere con il restauratore che aveva la stoffa dell’artista e
disquisiva con competenza dei ritrai e degli altri dipinti ai quali la sua
valentìa aveva restituito lucentezza e colore. anto a me, non cessavo di
sbalordirmi guardando il ritrao.
– Posso appendere questo quadro in camera mia, babbino? – gli
domandai.
– Certo, mia cara, – rispose – sono contento che ti sembri così
somigliante. Se lo è, deve essere più bello di quanto credessi.
La mia amica distraa sembrò non cogliere l’allusione galante. Era
seduta, leggermente riversa sulla spalliera, e i suoi magnifici occhi eran
persi, da soo le lunghe ciglia, nella contemplazione di me. Sorrideva in
una specie di estasi.
– Ecco, ora si può leggere con chiarezza il nome nell’angolo. Sembra sia
stato rabescato in oro: non è Marcia, bensì Mircalla, contessa di Karnstein,
ed ecco, guarda, sopra c’è una coroncina gentilizia e, soo, A.D. 1698.
Provengo dai Karnstein, sai, cioè la mamma discendeva da quella famiglia.
– Ah! – disse sommessa la fanciulla. – Anch’io credo di avere degli avi
in quella famiglia, una discendenza che risale molto, molto indietro nel
tempo, antichissima. Vive ancora qualcuno dei Karnstein?
– Nessuno con questo nome, ch’io sappia. Tanto tempo fa la famiglia
andò in rovina per qualche sommossa civile, mi pare, ma i ruderi del
castello sono ad appena tre miglia da qui.
– Interessante – dissi quasi strascicando le sillabe. – Ma guarda che
splendida luna!
Geò uno sguardo oltre il portone dell’atrio, che era socchiuso, poi
riprese:
– Perché non andiamo a passeggiare nel cortile e ci godiamo la vista del
sentiero e del fiume?
– Sembra la noe in cui sei arrivata – dissi.
Lei sospirò, sorridendo.
Ci levammo in piedi e, cingendoci l’un l’altra la vita con un braccio, ci
incamminammo sul lastricato.
Lentamente, senza profferir verbo, giungemmo al ponte levatoio dove si
schiuse dinnanzi a noi un paesaggio incantevole.
– Così, ripensavi alla noe in cui arrivai qui? – disse quasi in un
sussurro. – Sei contenta che sia venuta?
– Felicissima, mia cara, – risposi.
– E hai chiesto di appendere in camera tua un ritrao che ti sembra mi
rassomigli – disse quasi con un soffio di voce, mentre mi stringeva più
forte alla vita e abbandonava la testa sulla mia spalla.
– Sei una creatura romantica, Carmilla, – dissi – quando mi confiderai la
tua storia, si rivelerà un romanzo incredibile.
Mi baciò in silenzio.
– Sono sicura, Carmilla, che sei stata innamorata e che il tuo cuore si
duole per qualcuno anche ora.
– Non sono stata innamorata di nessuno, né lo sarò mai – bisbigliò. – A
meno che non si trai di te.
Come era bella nel chiarore lunare! Aveva un’aria di strana ritrosia
allorché nascose il volto fra i miei capelli, sul mio collo, con una mossa
rapida, fra sospiri affannosi simili a sussulti, mentre affidava la sua mano
scossa dal tremito alle mie. La sua tenera guancia sembrava prender fuoco
a contao della mia.
– Cara, cara, – mormorò – io vivo in te e tu dovrai morire per me… ti
amo tanto…
Mi scostai da lei.
Ora mi guardava con occhi dai quali s’era dileguato ogni fuoco, vacui e
inespressivi, il volto cereo.
– L’aria s’è faa fredda, non è vero? – disse come una sonnambula. –
Sono tua un brivido. Ho forse sognato? Rientriamo a casa, vieni, vieni,
torniamo.
– Mi sembri malata, Carmilla, hai l’aria disfaa. Dovresti bere un
cordiale – dissi.
– Sì, come vuoi, ma ora sto meglio. Mi rimeerò in pochi minuti; sì,
dammi un po’ di vino, – rispose Carmilla mentre eravamo vicino al
portale, – guardiamo ancora per un aimo, forse è l’ultima volta che
contemplo con te il chiaro di luna.
– Come stai, Carmilla? Ti senti meglio davvero? – le chiesi.
Mi sentivo inquieta e avevo paura che avesse contrao lo strano morbo
che dicevano si fosse diffuso nel contado circostante.
– Per il babbo sarebbe un dolore incredibile, – aggiunsi – sapere che
non ti senti bene, senza che tu ce l’abbia deo. Abbiamo un medico molto
bravo, nelle vicinanze, il doore che era con mio padre, quest’oggi.
– Ci credo veramente, e so quanto siete premurosi voi tui ma, cara
bambina, ora sto proprio bene. Non ho mai avuto seri malanni, solo una
debolezza costituzionale. Dicono che vivo nella spossatezza ed infai non
posso fare alcuno sforzo, a camminare mi stanco prima di un fantolino di
tre anni, e di tanto in tanto le mie povere forze vengono meno e divento
come mi hai visto poco fa. Ma poi mi riprendo facilmente e in breve tempo
torno ad essere me stessa. Puoi vedere anche tu se sono guarita.
E lo era davvero; così entrambe discorremmo a lungo e lei si dimostrò di
una vivacità sorprendente. Il resto della serata trascorse senza il ripetersi
di quelle che definivo le sue infatuazioni: voglio dire le sue fabulazioni e le
sue occhiate colme di follia che mi meevano a disagio e mi aerrivano
perfino.
Ma quella noe avvenne qualcosa che dee un corso radicalmente
nuovo ai miei pensieri e che sembrò scuotere persino l’indole letargica di
Carmilla e ingenerarle una momentanea vigoria.
Una strana sofferenza

ando entrammo nel salone e andammo a sederci davanti al caè e al


cioccolato, Carmilla s’era completamente ristabilita, sebbene non volesse
nemmeno bagnarsi le labbra. Madame Perrodon e Mademoiselle De
Lafontaine si unirono a noi e ci meemmo a giuocare una partita a carte,
durante la quale fece una capatina anche il babbo per la sua rituale tazza
di tè. Finita la partita, mio padre andò a sedersi sul canapé vicino a
Carmilla e, lasciando trasparire una certa ambascia, le chiese se da quando
era con noi le fossero arrivate notizie di sua madre. Lei rispose che non
aveva ricevuto nulla. Allora il babbo le domandò se sapesse a quale
recapito sarebbe stato possibile raggiungerla con un messaggio urgente.
– Non saprei, – rispose in tono elusivo Carmilla, – ma ho pensato che è
tempo ormai di lasciarvi, la vostra ospitalità è stata squisita. D’altronde vi
ho procurato tanti fastidi e domani prenderò un calesse di posta e mi
meerò in cerca di mia madre. So dove trovarla alla fine, anche se non oso
ancora rivelarvelo.
– Non dovete dirlo nemmeno per scherzo – esclamò il babbo con mio
grande sollievo. – Non vi permeeremo di lasciarci così su due piedi e,
personalmente, vi lascerò partire solo soo la tutela di vostra madre, dato
che ha avuto la bontà di farvi restare con noi fino al suo ritorno. Sarei
stato felice ss vi avesse fao avere sue nuove. Purtroppo le notizie che
corrono questa sera riferiscono che il morbo misterioso dilaga nel nostro
distreo e sono più allarmanti che mai per cui, mia bella ospite, mi sento
responsabile nei vostri confronti, privo come sono del parere di vostra
madre. In ogni caso farò del mio meglio ed una cosa è certa: non pensateci
nemmeno ad andarvene senza precise istruzioni al riguardo, ci
procurereste un dolore troppo grande.
– Vi ringrazio mille volte, signore, per la vostra ospitalità – rispose lei,
sorridendo con ritrosia. – Voi tui siete stati tanto buoni con me. Di rado
mi è capitato di essere felice come lo sono stata nel vostro splendido
château, amato oggeo delle vostre cure e allietata dalla compagnia della
vostra figliola.
Allora mio padre le fece il baciamano con un profondo inchino come
s’usava una volta e sorridendo mostrò il suo compiacimento per quel
discorseo.
Accompagnai Carmilla nella sua stanza, come al solito, e mi sedei a
chiacchierare mentre si accingeva a coricarsi.
– Credi che verrà mai il giorno in cui ti confiderai con me senza remora
alcuna? – le chiesi alla fine.
Si volse col sorriso sulle labbra e, senza alcuna risposta, continuò a
sorridermi.
– Preferisci non parlare? – dissi. – Forse non puoi rispondermi in senso
affermativo, non te l’avrei dovuto chiedere.
– Avevi il dirio di chiedermelo, questo ed altro. Tu non sai quanto mi
sei cara, altrimenti non penseresti che un segreto è troppo riservato per
chiedermi di rivelartelo. Purtroppo sono incatenata a voti più perentori e
inviolabili di quelli d’una monaca e non oso ancora rivelarti la mia storia.
Ma il tempo in cui tuo ti sarà deo precipita. Mi giudicherai crudele ed
egoista, ma l’amore si nutre di egoismo ed è tanto più ardente quanto più
è tiranno. Non hai idea di quanto sia gelosa: devi venire con me e amarmi
fino alla morte, oppure odiarmi ma seguirmi lo stesso, odiandomi fino alla
morte ed oltre. L’indifferenza è un vocabolo ignoto alla mia natura
struggente.
– Adesso ricominci con i tuoi discorsi insensati – tagliai corto.
– Affao, e per quanto io sia una sciocca vanesia che ha la testa piena di
fole e di capricci, per amor tuo parlerò come un saggio. Sei mai stata ad un
ballo?
– No, mai. Com’è? Deve essere magnifico.
– L’ho quasi dimenticato, sono passati tanti anni.
Risi mentre osservavo:
– Ma non sei così vecchia da aver dimenticato il tuo debuo.
– Ricordo tuo… ma con una certa difficoltà. Mi accade come ai
pescatori di corallo che vedono quel che succede sopra di loro araverso
un elemento traslucido, ma denso e increspato. ella noe accadde
qualcosa che ha scomposto la scena e ne ha sbiadito i colori. Fui sul punto
di essere uccisa nel mio leo, fui ferita qui, – così dicendo si toccò il seno,
– e da allora non sono più stata la stessa.
– Fosti vicino alla morte?
– Sì, molto… un amore crudele… un amore strano che mi avrebbe tolto
la vita. L’amore esige le sue viime e non c’è sacrificio senza sangue. Ora
dormiamo, mi sento stanca. Come faccio ad alzarmi per chiudere la porta?
Giaceva supina con le sue mani di bambola sepolte nel nimbo della
chioma rigogliosa, soo la guancia, la testa appoggiata al cuscino e gli
occhi scintillanti che seguivano ogni mia mossa insieme ad una sorta di
ineffabile sorriso che per me rimase un enigma. Le augurai la buona noe
e sgusciai in frea fuori della camera, in preda ad una sensazione di
disagio.
Sovente mi chiedevo se la nostra graziosa ospite dicesse le devozioni.
Non l’avevo mai vista inginocchiarsi, io. Al maino scendeva quando
avevamo deo le nostre preghiere con la servitù da un bel pezzo e la sera
si traeneva nel salone quando ci riunivamo nell’atrio per le brevi
orazioni del vespro. Se in una delle nostre svagate conversazioni non si
fosse lasciata sfuggire che era stata baezzata, avrei dubitato che fosse
cristiana. La religione era un argomento su cui era stata sempre restìa, ma
se avessi avuto un minimo di esperienza con il mondo, questa particolare
ignoranza o antipatia non mi avrebbe sorpreso.
Le manie delle persone fragili di nervi sono contagiose e coloro che
sono di temperamento affine son portate in breve tempo ad imitarle.
Avevo contrao l’abitudine di Carmilla di chiudere a chiave la porta di
camera, poiché m’ero messa in testa le sue medesime ubbie in fao di
invasori nourni e di fantomatici assassini. Avevo adoato anche le sue
precauzioni di ispezionare la camera per assicurarmi che non vi fosse
acquaato un qualche brigante o uno scherano. Espletate queste mansioni
rassicuranti, andai a leo e mi addormentai. Tenevo sempre una lucerna
accesa in camera mia, secondo una vecchia abitudine alla quale non avrei
rinunciato per nessuna ragione.
Così rincuorata potevo dormire sonni beati, ma i sogni traversano i
muri di pietra, irradiano luce in stanze immerse nel buio e oenebrano
ambienti illuminati, e le loro fluuanti parvenze vanno e vengono a piacer
loro a dispeo dei più elaborati chiavistelli.
ella noe feci un sogno che fu l’inizio di una strana sofferenza.
Un incubo non posso definirlo, perché sapevo d’essere addormentata ed
ero cosciente di trovarmi nella mia stanza e nel mio leo, dove giacevo in
realtà. Vidi, o credei di vedere, la stanza e i mobili come li avevo visti
prima di addormentarmi, solo che tuo era immerso in un’oscura
penombra, e poi scorsi qualcosa che si muoveva ai piedi del leo e che
dapprima non riuscii a distinguere. Ma presto m’accorsi che si traava
d’un animale nero come la fuliggine, dalle sembianze d’un gao
mostruoso. Mi sembrò lungo quaro o cinque piedi perché copriva il
tappeto davanti al focolare mentre vi passava sopra, e andava avanti e
indietro con la flessuosa e sinistra inquietudine di una bestia intrappolata.
Non ebbi la forza di gridare sebbene, come si può supporre, fossi aerrita.
Il suo movimento s’andava facendo parossistico e la stanza sempre più
oscura e alla fine così buia che non vidi più nulla, ecceo i suoi occhi. Lo
sentii spiccare un agile balzo sul leo. I suoi occhi dilatati mi
s’avvicinarono al viso e all’improvviso avvertii un dolore lancinante, come
se due soili lamelle mi fossero penetrate nel seno ad un paio di pollici
l’una dall’altra. Mi svegliai gridando. La stanza era debolmente illuminata
dalla lucerna che ardeva tua la noe e vidi una figura femminile ai piedi
del leo, un po’ sulla destra. Indossava una veste scura, ampia e i capelli
disciolti le fluivano sulle spalle. Una statua non sarebbe potuta essere più
immobile, non il minimo cenno di respiro. Mentre la fissavo, la figura
sembrò cambiare posto e si trovava ora più prossima alla porta poi,
quando le fu davanti, la porta s’aprì e la figura fu oltre la soglia.
Ripresi fiato: ero nuovamente in grado di respirare e di muovermi. In un
primo momento pensai che Carmilla mi avesse giuocato un qualche tiro
birbone e che avessi scordato di inchiavardare la porta. Corsi a verificare e
constatai che era chiusa a chiave dall’interno, come sempre. Avevo paura
di aprirla… ero in preda al terrore. Mi geai sul leo, nascosi il capo soo
le coltri e restai in quella posizione, più morta che viva, fino al maino
seguente.
Verso l’abisso

Sarebbe impossibile descrivervi l’orrore con cui, ancor oggi, ricordo


quella noe e ciò che avvenne. Non fu lo strascico di paura che segue per
qualche tempo ad un sogno, bensì un terrore sordo che si faceva più
intenso col passare del tempo e tale da agglutinarsi alla stanza e persino ai
mobili che avevano costituito lo scenario inconsapevole dell’apparizione.
Il giorno appresso non volli restare sola neppure per un momento. Lo
avrei riferito a mio padre, se non me lo avessero impedito due opposte
considerazioni: la prima era che avrebbe potuto prendere il mio racconto
come una celia, ed io non avrei sopportato di essere traata come una
bambina; d’altronde avrebbe potuto pensare al primo manifestarsi del
morbo misterioso che imperversava nei dintorni. A dire il vero un sospeo
del genere non mi aveva sfiorato la mente e poiché lui era convalescente
da una malaia, ritenni opportuno non allarmarlo, almeno per il
momento.
Con le mie buone compagne, Madame Perrodon e Mademoiselle De
Lafontaine, m’ero sempre trovata a mio agio ed entrambe non tardarono
ad accorgersi che ero sconvolta e con i nervi a fior di pelle per cui, alla
fine, dovei rivelar loro il peso che mi gravava sul cuore. Mademoiselle De
Lafontaine fece il suo solito risolino, ma sul volto di Madame Perrodon
colsi un’espressione turbata ed ansiosa.
– A proposito, – disse ridendo Mademoiselle, – il viale di tigli sul quale
s’affaccia la finestra di Carmilla è visitato dai fantasmi!
– Non dite sciocchezze! – esclamò Madame, che con tua probabilità
riteneva fuor di luogo l’argomento. – Chi è che diffonde queste fole, mia
cara?
– Martino dice di esserci passato due volte, prima dell’alba, tenendosi al
ridosso del cancello, e per due volte di aver visto la medesima figura
femminile percorrere il vialone dei tigli.
– È probabile, almeno finché ci saranno da mungere le mucche nei
campi lungo il fiume – disse Madame.
– esto è vero, però Martino ha deciso comunque di prendersi un bello
spavento e, vi assicuro, non ho visto nessuno più terrorizzato di lui.
– Non fatene parola con Carmilla, la sua finestra dà proprio sul viale, –
intervenni – e lei è ancor più impressionabile di me.
el giorno Carmilla scese più tardi del consueto.
– Ho avuto una paura terribile, questa noe, – disse appena fummo
sole, – e son sicura che avrei visto qualcosa di orrido, se non mi avesse
proteo l’amuleto comprato da quel gobbino che traai con tanto
disprezzo. Ho sognato che un essere informe, nero come il carbone, girava
aorno al mio leo e mi sono svegliata inorridita. Per qualche istante ho
creduto di vedere una figura scura accanto al camineo, allora ho tastato
soo il cuscino e appena ho toccato l’amuleto, la figura s’è dissolta. Sento
che se non l’avessi avuto a portata di mano, sarebbe comparso qualcosa di
spaventoso che mi avrebbe strozzato, come ha fao con quelle sciagurate
di cui abbiamo sentito parlare.
– Allora ascolta me, – e le narrai la mia avventura che la riempì di
orrore.
– Non avevi con te l’amuleto? – mi chiese con ansia.
– No, l’avevo lasciato dentro un vaso di porcellana nel salone, ma questa
noe me lo terrò vicino, visto che ci riponi tanta fiducia.
Oggi che è passato tanto tempo non posso dirvi, né rendermi conto io
stessa, come sia riuscita a vincere la paura, tanto da arrischiarmi a restar
sola in camera quella noe. Ricordo come fosse ora che appuntai con uno
spillo l’amuleto al guanciale, dopo di che mi addormentai quasi subito e
dormii saporitamente. Così avvenne la noe successiva, durante la quale
sprofondai in un sonno senza incubi. Ma al maino mi svegliai con un
senso di spossatezza e di malinconia che, comunque, non andava oltre la
soglia d’una piacevole indolenza.
– Bene, te l’avevo deo, – disse Carmilla allorché le descrissi il mio
sonno beato, – la noe scorsa ho dormito anch’io della grossa. Mi sono
infai appuntato l’amuleto alla camicia da noe; la sera prima era troppo
lontano e sono sicura che, ecceo i sogni, è stata solo una fantasticheria.
Un tempo credevo che fossero gli spiriti maligni a generare i sogni, ma il
nostro medico mi disse che sono tue favole e che si traa di qualche
sfebbrata passeggera o d’altro malessere che, come capita spesso, bussano
alla porta e, non riuscendo ad entrare, passano oltre lasciandosi dietro
simili spaventi.
– E cosa pensi che sia quell’amuleto? – le chiesi.
– È stato esposto ai suffumigi o immerso in qualche sostanza balsamica:
è un antidoto per la malaria, nulla più – rispose.
– Allora la sua azione benefica s’esplica solo sul corpo?
– Senza alcun dubbio. Non crederai che gli spiriti maligni arretrino
dinnanzi ad un pezzo di nastro o agli aromi usciti dalla boega dello
speziale! No, questi morbi che alitano nell’aria cominciano con l’aggredire
i nervi per poi contagiare il cervello ma, prima che possano far presa sul
tuo fisico, l’antidoto li respinge. È quanto ha fao l’amuleto, ne sono
sicura. Esso non è magico, è solo naturale.
Sarei stata più contenta se avessi potuto condividere del tuo l’opinione
di Carmilla. Comunque cercai di adeguarmi a quella convinzione e il
ricordo angoscioso cominciò a stemperarsi.
Per qualche noe i miei sogni furono profondi, eppure al risveglio
mautino avvertivo la stessa inerzia e quel senso di spossatezza mi
illanguidiva le membra per tua la giornata. Mi sentivo diversa. Una
strana malinconia stava penetrando in me, senza che facessi nulla per
vincerla. Cominciarono ad affacciarsi alla mia mente indefiniti pensieri
mortuarii ed io stessa mi lasciai imperceibilmente possedere dalla
convinzione che fosse in ao un declino irreversibile, gradevole ed in certo
senso desiderato. Lo stato d'animo che m’ingeneravano questi pensieri era
mesto, ma anche dolcissimo. Di qualsiasi cosa si fosse traato, il mio
animo vi si lasciò andare in maniera supina. Non volevo ammeere di
essere malata, non volevo dirlo al babbo né farne parola con il doore.
La devozione di Carmilla verso di me si fece ancor più assidua e più
frequenti i suoi strani parossismi di adorazione sfibrante. L’avidità del suo
sguardo cresceva e si faceva più ardita con il vanire della mia volontà e
delle mie povere forze. esto mi scuoteva ogni volta come un improvviso
barbaglio di follia.
Senza saperlo ero ormai in uno stadio abbastanza avanzato della più
strana malaia di cui abbia sofferto un essere mortale. Dai suoi primi
sintomi emanava un fascino indefinibile che mi faceva quasi assecondare
l’effeo struggente di quell’infermità. Una malìa che per qualche tempo
crebbe fino ad un certo livello, finché si mescolò ad essa, poco a poco, una
sensazione di orrore che si fece sempre più intensa. Come vedrete, al suo
apice questa sensazione giunse a pervertire e distruggere la mia esistenza.
Il primo mutamento fu piuosto gradevole; era come la svolta oltre la
quale inizia la vertigine dell’Averno.
Nel sonno mi visitavano sensazioni strane e indefinibili. ella
prevalente era simile al brivido di gelo, piacevole e inconfondibile, che si
prova nel fare il bagno nel fiume andando contro corrente. A questa
sensazione seguiva un’aività onirica interminabile e talmente confusa
che non riuscii mai a ricordare scene e personaggi e nemmeno una
sequenza in qualche modo conclusa. Eppure mi lasciava addosso una
impressione spaventosa e un senso di svuotamento, come se avessi
trascorso un lungo periodo di tensione mentale e di pericolo.
Svegliandomi da questi sogni, mi rimaneva il ricordo sfocato di un luogo
tenebroso ove m’ero rivolta a persone che, per altro, non mi era dato di
scorgere e in special modo di una voce femminile, chiara e profonda, che
sembrava venire da lontano e proferire lentamente parole non udite e che
sempre incuteva in me una sensazione di austerità e di paura indicibile.
Talora era come se la palma di una mano mi scorresse lievemente sulla
guancia e sul collo; talaltra come se mi baciassero calde labbra con
un’insistenza ed una bramosia che crescevano in prossimità della gola
dove si fissava quella carezzevole suzione: allora il mio cuore accelerava i
baiti, il respiro diventava un ansimo violento a cui succedeva un
singhiozzo che arrivava fin quasi a soffocarmi, sfociando infine in una
convulsione terribile, durante la quale mi abbandonavano i sensi e perdevo
conoscenza.
Versavo in queste indescrivibili condizioni da tre seimane e nell’ultima
le sofferenze avevano già cominciato a lasciare il segno sul mio aspeo:
ero diventata esangue, due scure occhiaie cerchiavano gli occhi dilatati e
l’estenuazione che avvertivo da tempo cominciava a manifestarsi
nell’imbambolamento generale dell’espressione. Spesso il babbo mi
chiedeva se mi sentissi male ma, con una cocciutaggine che non riesco a
spiegare, continuavo a negarlo e a dargli ampie assicurazioni del contrario.
E in certo qual modo era vero: non avvertivo sofferenze corporali, né
potevo lamentarmi di alcuna alterazione nelle funzioni fisiche. La mia
sembrava essere una malaia dell’immaginazione o dei nervi e, per quanto
i miei tormenti fossero orribili, li celavo agli altri con un riserbo morboso.
Non poteva traarsi della terribile pestilenza che i contadini chiamano
upiria, perché oramai ero sofferente da tre seimane e chi ne è contagiato
spira di solito dopo tre giorni, meendo fine alle sofferenze.
Carmilla si lamentava del persistere degli incubi e di certe febbricole
passeggere, tui segni che non destavano alcuna seria preoccupazione. I
miei, viceversa, erano gravissimi e se fossi stata in grado di rendermene
conto, sarei corsa a chiedere aiuto e consiglio in ginocchio. Ma ero soo
l’influsso, estraneo ed insospeabile, di un narcotico e le mie percezioni
erano oenebrate.
Ora vi narrerò un sogno che mi condusse a fare un’improvvisa e
bizzarra scoperta.
Accadde una noe che, invece della voce che udivo sempre nelle
tenebre, me ne giungesse un’altra all’orecchio, tenera e dolce, ma orribile a
un tempo, che mi diceva:
– Tua madre t’avverte di stare in guardia dall’assassino.
All’improvviso balenò un fioo di luce e ai piedi del leo vidi Carmilla
che stava ria, con la candida camicia imbraata da una gran macchia di
sangue che dal mento le arrivava ai piedi.
Mi svegliai gridando, presa dalla paura che stessero sgozzando Carmilla.
Ricordo di essere balzata dal leo e di essere corsa nell’andito a chiedere
aiuto.
Madame e Mademoiselle uscirono dalle loro camere e, appena mi videro
alla flebile luce d’un lucignolo che ardeva sempre nella galleria, vennero
informate del motivo che mi aveva spinto a chiamarle. Insistei perché
bussassimo alla porta di Carmilla, ma non avemmo risposta. Allora fu
tuo un baere fragoroso di pugni e di richiami: invano. ando
costatammo che la porta era chiusa a chiave, ci spaventammo ancora di
più; allora tornammo in camera mia in preda al baicuore e suonammo il
campanello all’impazzata. Se la camera di mio padre fosse stata in quell’ala
del castello, lo avremmo chiamato subito, ma purtroppo non ci poteva
udire e per raggiungerlo avremmo dovuto compiere un tragio che
nessuna di noi aveva il coraggio di affrontare. Per fortuna accorsero i
domestici dal piano inferiore. Ebbi appena il tempo di coprirmi con la
vestaglia e di infilare le pantofole e le mie compagne di indossare gli stessi
indumenti. ando sentimmo il vociare dei domestici nella galleria
uscimmo tue e tre e, dopo aver chiamato vanamente alla porta di
Carmilla, ordinai di forzare la serratura. Aperto l’uscio, ci fermammo sulla
soglia tenendo in alto le lampade per meglio illuminare la stanza.
La chiamammo per nome ma non ci fu alcuna risposta. Ispezionammo la
camera; era tuo in ordine, tale e quale l’avevo lasciata quando avevo
augurato la buonanoe a Carmilla. Ma lei era sparita.
La ricerca

ando vedemmo che nella stanza tuo era a posto, eccezion faa per i
segni della nostra precipitosa irruzione, ci calmammo un po’ e in breve
recuperammo la padronanza di noi stesse, tanto da poter congedare i
domestici. A Mademoiselle era venuta l’idea che Carmilla si fosse svegliata
di soprassalto per il forsennato tonfare alla porta e che, colta dal panico,
fosse saltata dal leo per andare a rincantucciarsi in qualche armadio o
dietro una tenda, da cui non sarebbe potuta sortire finché non si fossero
ritirati il maggiordomo e i suoi giannizzeri. Allora ricominciammo a
cercarla e a chiamarla per nome.
Fu tuo inutile; la nostra perplessità e il nostro turbamento crebbero di
nuovo: esaminammo le finestre, ma erano sprangate; mi misi a
scongiurare Carmilla di venir fuori, se si era nascosta, e di non protrarre
oltre quel giuoco crudele che ci teneva in ansia. Tuo inutile. Oramai ero
sicura che non era in camera, e neppure nello spogliatoio accanto, la cui
porta era chiusa a chiave. Non poteva essere passata araverso quella
porta. Ero sbalordita. Forse Carmilla aveva scoperto uno di quei passaggi
segreti di cui ci aveva parlato la vecchia governante, pur senza saperci dire
dove fossero. In breve tempo si sarebbe chiarito tuo, ne eravamo sicure,
ma al momento eravamo… sgomente.
Erano le quaro passate ed io preferii trascorrere le restanti ore di
oscurità nella camera di Madame. Il sorgere del giorno non portò alcuna
soluzione del rebus.
Il maino seguente gli abitanti dello schloss, a cominciare da mio padre,
erano in grande agitazione. Ispezionarono ogni angolo del castello,
esplorarono il territorio circostante, ma non la minima traccia della
fanciulla scomparsa. Fu dato l’ordine di scandagliare i gorghi del fiume.
Mio padre era sconvolto: cosa avrebbe deo alla madre della povera
fanciulla quando fosse tornata? Anch’io ero fuori di me, sebbene il mio
dolore fosse di diversa natura.
Trascorremmo la mainata nell’inquietudine e nell’eccitazione. Alluna
non ci era pervenuta alcuna notizia. Ma quando salii nella camera di
Carmilla, la trovai in piedi dinnanzi alla peiniera. Rimasi aonita; non
potevo credere ai miei occhi. Mi fece appena un cenno con le sue dita
affusolate, in silenzio: il suo volto era il ritrao della paura.
Corsi da lei in un impulso irrefrenabile di gioia, l’abbracciai e la baciai
più volte; poi mi precipitai al campanello e lo scossi violentemente per
chiamare gli altri a raccolta e perché avvertissero subito il babbo.
– Carmilla, cara, che ti è successo? Dove sei stata tuo questo tempo?
Ci hai fao quasi venire il crepacuore – esclamai. – Dimmi dove sei stata.
Come hai fao a tornare?
– esta noe è stata una noe di prodigi – rispose.
– Per amor del cielo, cerca di spiegarti.
– Erano le due passate, questa noe, quando mi sono addormentata nel
mio leo, come di consueto, dopo aver chiuso a chiave la porta di camera,
quella dello spogliatoio e quella che dà sul corridoio. Ho dormito
profondamente, senza interruzioni e senza sogni, ma mi sono svegliata
poco fa sull’oomana dello spogliatoio e ho trovato aperta la porta fra i
due ambienti e scassinata quella di camera. Come può essere successo
senza che mi svegliassi? Deve esserci stato un fracasso tremendo, e dire
che ho il sonno leggero. E come hanno fao a trasportarmi lontano dal
mio leo senza svegliarmi, io che sobbalzo al più lieve cigolio?
Fraanto la camera s’era riempita di gente: c’erano Madame,
Mademoiselle, mio padre e diversi domestici. Come ci si può immaginare,
Carmilla fu subissata di domande, di congratulazioni e di saluti festosi. Lei
non aveva altro da aggiungere e sembrava fra tui i presenti l’ultima
persona in grado di fornire qualche spiegazione dell’accaduto.
Mio padre cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza,
cogitabondo. Scorsi Carmilla che lo seguì di soecchi, con uno sguardo
torvo. Poi il babbo congedò i servitori e, poiché Mademoiselle era andata a
prendere una boccea di valeriana e di sali, restammo in camera soltanto
io, Carmilla, Madame e mio padre; questi s’avvicinò alla fanciulla
pensieroso, le prese con gesto gentile la mano, la condusse al divano e la
fece sedere accanto a sé.
– Mia cara, vorrete perdonarmi se formulo un’ipotesi e vi porgo una
domanda?
– Chi più di voi ne ha dirio? – rispose lei. – Chiedete pure ed io vi dirò
tuo. Ma la mia è una storia faa solo di sbigoimento e di tenebra. Non
so proprio nulla. Rivolgetemi le domande che credete, d’altra parte i limiti
che mi ha imposto mia madre li sapete già.
– Perfeamente, bambina cara. Non occorre toccare quei punti sui quali
vostra madre desidera mantenere il silenzio. Ora, l’evento prodigioso di
questa noe consiste nel fao che siete stata sollevata dal leo della vostra
camera, senza che vi siate svegliata, ed inoltre che tuo è avvenuto mentre
le finestre erano ermeticamente chiuse e le porte inchiavardate
dall’interno. Ecco, ora vi dirò la mia teoria, ma prima permeetemi di
porvi una domanda.
Carmilla stava appoggiata su una mano, con aria derelia; Madame ed
io ascoltavamo, traenendo il respiro.
– Dunque, la domanda è questa: avete mai avuto la sensazione di
camminare nel sonno?
– Mai, fin da quando ero molto giovane.
– Ma prima, camminavate nel sonno?
– Sì, so che mi capitava di farlo, la mia vecchia nutrice me lo diceva
sempre.
Mio padre sorrise e fece un cenno di assenso.
– Ecco cosa è accaduto, allora: vi siete alzata nel sonno, avete aperto la
serratura della porta senza lasciare la chiave nella toppa, come al solito,
poi avete chiuso dall’esterno; quindi avete sfilato la chiave e ve la siete
portata via in una delle venticinque stanze di questo piano o, chissà, al
piano inferiore o a quello superiore; ci sono tanti ambienti, ripostigli,
sgabuzzini e tanti di quei catafalchi di mobili, ed una quantità incredibile
di carabaole, che ci vorrebbe una seimana per frugare come si deve
questa vecchia bicocca. Capite ora quel che voglio dire?
– Sì, ma non del tuo – rispose lei.
– Babbo, come spieghi allora che si sia risvegliata sul divano dello
spogliatoio, che pure avevamo ispezionato con cura?
– Ma vi è giunta dopo che voi ceravate state, come una sonnambula; poi
si è risvegliata, stupita di trovarsi in quel luogo non meno di quanto lo
siano stati gli altri. Magari potessimo spiegare con altreanta facilità ed
innocenza tui i misteri! – disse mio padre ridendo. – E così dobbiamo
essere felici che la spiegazione più sicura e naturale di quanto è successo
non contempla l’intervento di misteriose pozioni, scassinamenti, sgherri,
trucidatori, malocchi di streghe… nulla, insomma, che possa allarmare
Carmilla o chiunque altro circa la nostra sicurezza.
Carmilla aveva un aspeo stupendo: aveva un colorito magnifico e la
sua beltà era messa ancor più in risalto da quel suo caraeristico languore.
Mio padre dovee fare il confronto fra il mio e il suo stato di salute perché
disse:
– Vorrei tanto che la mia povera Laura avesse una cera migliore, – e
trasse un sospiro.
Così fu posto fine ai nostri allarmi e Carmilla fu restituita ai suoi amici.
Il doore

Carmilla era totalmente contraria che qualcuno dormisse in camera sua,


allora il babbo dispose che una fantesca riposasse nel corridoio, in modo
da tenere soo controllo la porta ed eventualmente impedirle una sortita
come quella della noe precedente.
La noata trascorse in piena quiete e la maina appresso, di buon’ora,
venne a visitarmi il doore che mio padre aveva convocato a mia insaputa.
Madame mi condusse nella biblioteca dove c’era ad aendermi una
persona piccola di statura, seria di aspeo, occhialuta, e con i capelli
canuti: era il medico di cui vi ho già parlato. Gli narrai la mia storia e,
mentre procedevo nel racconto, lo vidi farsi sempre più preoccupato.
Eravamo in piedi, entrambi, nel vano d’una finestra l’uno di fronte
all’altro. ando ebbi finito di parlare, s’appoggiò con le spalle al muro e
mi fissò con uno sguardo indagatore in cui l’interesse non era scevro da un
barlume di terrore.
Dopo aver rifleuto un momento, disse a Madame di far venire mio
padre. Lo mandammo a chiamare e, quando entrò, questi disse sorridendo:
– Doore, credo che stiate per dirmi che sono un vecchio rimbambito
per avervi costreo a venire qui, e lo spero di tuo cuore…
Ma quel sorriso bonario si volse in una smorfia di preoccupazione
appena il doore gli fece un cenno con aria molto seria. I due parloarono
a lungo nello stesso vano dove fino a poco tempo prima avevo conferito
con il medico. Sembrava una conversazione animata, quasi un dibaito.
L’ambiente è molto grande ed io e Madame ci trovavamo all’altra
estremità ansiose di sapere, ma purtroppo non potevamo cogliere
nemmeno una parola, perché loro parlavano a bassa voce e l’incavo della
finestra nascondeva del tuo il doore e quasi completamente mio padre
di cui si vedevano solo un braccio, la spalla ed un piede. Credo inoltre che
le voci fossero ancor più smorzate da quella specie di nicchia che la
finestra ricava nello spessore della muraglia.
Dopo un po’ di tempo ricomparve il volto di mio padre: era sbiancato,
assorto e, mi sembrò di capire, sconvolto.
– Laura, cara, vieni qua un momento. Madame, il doore mi dice che
per ora non abbiamo bisogno di voi.
Mi avvicinai a loro e, per la prima volta, mi sentii inquieta. Sebbene
avvertissi una gran debolezza addosso, non avevo mai creduto di essere
ammalata. Dopo tuo, pensavo, l’energia fisica è qualcosa che si può
sempre recuperare, basta volerlo.
Il babbo mi tese la mano mentre mi accostavo, ma era volto verso il
doore. Poi disse:
– È proprio incredibile e non riesco a capacitarmene. Laura, cara, vieni
qui, ora ascolta con aenzione il doore Spielsberg e cerca di ricordare.
– Avete parlato di una sensazione, come di due aghi che penetrassero
nella pelle, in qualche parte del collo, la noe in cui aveste il primo orribile
incubo: avvertite ancora qualche bruciore?
– Per niente – risposi.
– E potete indicarmi con l’indice il punto in cui avvertiste quella
sensazione?
– Proprio soo la gola… qui, – risposi.
Avevo un abito da maino che mi copriva il punto in questione.
– Ora non avrete più dubbi – disse il doore.
– Vi spiace se vostro padre vi scosta un pochino la veste? Bisogna farlo
per scoprire un segnale dell’affezione di cui soffrite.
Acconsentii. Era appena un dito o due soo l’orlo della collarina.
– Buon Dio!… è proprio così, – esclamò il babbo, bianco come un cencio.
– Ora potete vederlo con i vostri occhi, – disse il doore con tono
trionfante, sebbene pieno di preoccupazione.
– Che c’è? – esclamai, poiché cominciavo ad aver paura.
– Nulla, mia cara signorina, solo una macchiolina, una fragola non più
grande della punta del mignolo. E ora, – proseguì volgendosi verso mio
padre, – il problema è cosa fare.
– C’è pericolo? – intervenni con trepidazione.
– No, ne sono sicuro, mia cara – rispose il doore. – Perché non
dovreste guarire? Non vedo perché non dovreste cominciare subito a
migliorare. È quello il punto da dove ha inizio il senso di asfissia?
– Sì, – risposi.
– Cercate ora di ricordare… È lo stesso punto da cui si dipartiva il
brivido che avete descrio simile alla corrente fredda di un ruscello che vi
investiva?
– Può darsi, credo proprio di sì.
– Ah, vedete? – aggiunse il doore rivolto a mio padre. – Posso dire una
parola a Madame?
– Certo, – disse il babbo.
Il doore si rivolse a Madame e disse:
– Ho potuto verificare che la mia giovane amica sta tu’altro che bene.
Non dovrebbero esserci gravi complicazioni, spero, ma, come vi spiegherò
più tardi, bisogna correre ai ripari. Per ora, in ogni caso, avrete la bontà di
non lasciare sola la signorina Laura, nemmeno per un istante. È l’unica
direiva per il momento, ma è indispensabile seguirla.
– So che possiamo far conto su di voi, Madame, – aggiunse mio padre.
Madame lo rassicurò con slancio.
– E tu, mia cara Laura, so che ti aerrai a quanto ha ordinato il medico,
– poi, volgendosi a questi, proseguì: – Avrei anche da sooporvi il caso di
un’altra paziente che presenta dei sintomi con una certa analogia con
quelli di mia figlia. Anche se sono molto più lievi, credo che siano
imputabili ad una causa analoga. Si traa di una signorina… la nostra
ospite. E poiché dite che ripasserete di qui questa sera, vi prego di
acceare il nostro invito a cena: avrete così l’opportunità di incontrarla.
Lei infai non scende mai da basso prima del pomeriggio.
– Siete molto gentile, – disse il doore, – sarò da voi questa sera, verso
le see.
Ripeterono sia a me che a Madame le stesse istruzioni e quindi mio
padre uscì con il doore. Li vidi che passeggiavano lentamente, avanti e
indietro, fra la vioola e il fossato, sulla distesa erbosa antistante il
castello, impegnati in un’accesa conversazione.
Il medico non rientrò: lo vidi montare a cavallo, salutare quindi mio
padre e cavalcare verso levante araverso la boscaglia; quasi nello stesso
istante scorsi il procaccia che veniva da Dranfeld con i plichi delle leere,
smontò da cavallo e porse al babbo un involucro.
Nel fraempo Madame ed io eravamo tue prese ad arzigogolare sulle
ragioni che avevano spinto il medico e mio padre ad impartirci un ordine
così tassativo e singolare. Come poi ebbe modo di dirmi, Madame credeva
che il doore temesse un aacco improvviso e che, se mi fosse mancata
un’assistenza immediata, avrei potuto rimeerci la vita o quanto meno
subirne gravi conseguenze. Lì per lì non ci avevo pensato e,
fortunatamente per il mio sistema nervoso, credevo che una simile
disposizione fosse stata impartita per meermi alle costole una persona
che mi impedisse di stancarmi troppo, o di mangiare frua acerba, o di
compiere qualcuna di quelle sciocchezze verso cui si crede che i giovani
siano particolarmente propensi.
Una mezz’ora dopo entrò mio padre con una leera e disse:
– esta missiva ci arriva con molto ritardo, è il generale Spielsdorf che
scrive. Sarebbe dovuto arrivare ieri, ma può venire questa sera stessa, o
comunque fra oggi e domani.
Mi passò la leera aperta, ma non sembrava felice come lo era sempre
stato nell’imminenza dell’arrivo di un ospite, specie quando si fosse
traato di una persona tanto amata come il generale. Anzi, avrebbe
preferito che il generale fosse agli antipodi, o almeno così mi sembrava.
Era chiaro che in testa gli frullava qualcosa di cui non voleva parlare.
– Babbino, mi dirai tuo? – chiesi prendendolo improvvisamente per un
braccio e guardandolo, ne sono sicura, con occhi imploranti.
– Forse, – rispose, accarezzandomi dolcemente la fronte e i capelli.
– Il doore pensa che sia molto grave?
– Affao, cara; se correremo subito ai ripari, dovresti riprenderti in un
paio di giorni o, almeno, imboccare la strada di una sicura guarigione, –
rispose in tono un po’ brusco, – avrei preferito che il nostro caro generale
avesse scelto un momento più opportuno e che tu fossi stata in buona
salute per riceverlo.
– Ma ti prego, babbo, – insistei, – di che cosa pensa che si trai il
doore?
– Di nulla, smeila di seccarmi con tue queste domande, – mi rispose,
mostrandosi così irritato quale non l’avevo mai visto. Poi, rendendosi
conto che il suo tono mi aveva ferita, mi dee un bacio ed aggiunse: – Fra
un giorno o due lo saprai; cioè saprai quello che io so. Ma nel fraempo,
cerca di non pensarci.
Si volse e uscì dalla biblioteca ma, prima che avessi avuto il tempo di
arrischiare qualche congeura su quella bizzarra faccenda, tornò indietro
per avvertirmi che sarebbe andato subito a Karnstein, che aveva ordinato
di tener pronto il calesse per mezzodì e che Madame ed io lo avremmo
accompagnato. Voleva incontrarsi con il sacerdote, che viveva nei pressi di
quel luogo pioresco, per un certo affare; dato poi che Carmilla non aveva
mai visto quel posto, appena fosse scesa ci avrebbe potuto raggiungere.
Mademoiselle avrebbe portato l’occorrente per quello che voi definite un
pic-nic, da consumare fra le rovine del castello.
Secondo gli accordi, mi feci trovare pronta a mezzogiorno e poco dopo
mio padre, Madame ed io ci meemmo in viaggio. Passato il ponte
levatoio si svolta a dria e, per raggiungere il villaggio abbandonato e il
diruto maniero di Karnstein, si segue la vioola che scavalca lo scosceso
ponte gotico.
È difficile immaginare un itinerario boschivo più alleante.
Nell’avvicendarsi continuo di colline e di valloncelli dolcissimi, il terreno è
coperto da un manto di piante rigogliose eppur privo di quell’artificiosità
formale che l’arte del giardinaggio e l’uso della potatura comportano. La
mutevolezza del terreno costringe la strada a circonvoluzioni continue,
snodandosi ora sul ciglio di improvvisi dirupi, ora sui fianchi di scoscese
colline, scoprendo un paesaggio sempre mutevole e vario.
Stavamo uscendo da una di queste curve, quando c’imbaemmo nel
nostro vecchio amico, il generale, che cavalcava alla volta del castello
scortato da un servitore, anch’egli a cavallo. Aveva affidato i bagagli ad un
carriaggio preso in affio e che lo seguiva a distanza. Il generale smontò
mentre noi tiravamo le briglie e, dopo i convenevoli, si lasciò agevolmente
convincere a prendere posto sul nostro calesse, affidando il cavallo al suo
servo perché lo portasse allo schloss.
Una perdita

L’ultima volta che l’avevamo visto era stato un dieci mesi prima, ma
quel breve lasso di tempo l’aveva invecchiato di parecchi anni: era
smagrito nella persona; la bonomia che portava dipinta sul volto aveva
ceduto il posto ad un’espressione cupa e irrequieta; i suoi occhi color del
cobalto, sempre vigili e penetranti, avevano acquisito una luce più dura
soo le sopracciglia grigie e foltissime. Un mutamento che non poteva
essere stato la conseguenza del solo dolore, bensì di altre e più
incontrollabili passioni.
Avevamo da poco ripreso il cammino, allorché il generale cominciò a
parlare, con la sua solita rudezza di militare, della perdita subita, così disse,
con la morte dell’amata nipote e pupilla. Poi, in un tono che ben presto
trascese da desolata amarezza a cupo furore, si mise ad inveire contro le
«arti infernali» di cui era stata viima la nipote esprimendo, più con
l’esasperazione che con la pietà, il suo sbigoimento perché il cielo
dimostrava una mostruosa indulgenza verso la cupidigia e la perfidia
infernali.
Avendo compreso che doveva essergli successo qualcosa di eccezionale,
il babbo gli chiese di spiegarci, se ciò non gli rinfocolava il dolore, quegli
avvenimenti che secondo lui legiimavano la violenza delle sue inveive.
– Ve lo dirò volentieri, – disse il generale, – anche se voi non mi
crederete.
– E perché non dovrei credervi? – chiese.
– Perché, – rispose con puntiglio il generale, – voi siete sceico nei
confronti di tuo ciò che discorda con i vostri pregiudizi ed illusioni.
Anch’io ero come voi ma, badate, ho imparato a mie spese.
– Meetemi alla prova, allora, – disse mio padre, – non sono poi quel
fanatico dei dogmi che credete; e poiché so che per credere a qualcosa voi
esigete sempre delle prove tangibili, sono già disposto a rispeare le vostre
conclusioni.
– ando dite che non mi son lasciato mai abbindolare facilmente da
ciò che è arcano, non posso darvi torto… perché quel che ho sperimentato
è di fao l’arcano… un’evidenza irriducibile mi ha costreo a credere a
qualcosa che cozza contro tue le mie teorie. Sono stato lo zimbello di
forze preternaturali.
Malgrado avesse sempre riposto assoluta fiducia nella acuta intelligenza
dell’amico, notai che mio padre gli geò di sbieco uno sguardo pieno di
interrogativi, quasi dubitasse della sua mente. Per fortuna il generale non
ci fece caso, poiché stava osservando con torva curiosità le radure e le
macchie boschive che si aprivano innanzi a noi.
– Andate alle rovine di Karnstein? – disse. – È proprio una coincidenza
fortunata: stavo proprio per chiedervi di accompagnarmici per farvi
un’indagine. Ho uno scopo preciso, sapete. C’è una cappella diroccata,
dove ci sono diverse tombe di quella famiglia estinta, non è vero?
– Certamente… è molto interessante, – disse mio padre, – non avrete
mica in mente di rivendicare quel titolo con le annesse fortune?
Il babbo lo disse in tono di celia, ma il generale non abbozzò nemmeno
l’ombra d’un sorriso, come s’accoglie di norma la bauta scherzosa di un
amico; al contrario assunse un’aria grave, perfino truce, mentre
rimuginava tra sé e sé qualcosa che risvegliava in lui l’ira e l’orrore.
– Di ben altra cosa si traa, – disse con voce roca, – ho l’intenzione di
disseppellire qualcuno di quei venerandi signori. Coltivo in cuore la
speranza, con la benedizione divina, di compiere un pio sacrilegio che
libererà la nostra terra da mostri esecrandi e consentirà alla gente dabbene
di dormire nei loro giacigli, senza essere viima di assassini famelici. Caro
amico, devo dirvi strane cose, cose che io per primo avrei respinto come
incredibili appena qualche mese fa.
Mio padre lo guardò di nuovo e questa volta non con aria di sospeo
ma… con un occhio di implicita comprensione e d’allarme.
– Il casato dei Karnstein, – disse – s’è estinto da molto tempo, un secolo
almeno. La mia cara consorte discendeva dai Karnstein per linea materna,
ma il nome ed il titolo del casato non esistono più da un pezzo. Il castello è
ridoo ad un cumulo di rovine, il borgo che l’aorniava è abbandonato, da
cinquanta anni ormai non s’è più visto fumare un comignolo e i tei delle
case sono tui crollati.
– Proprio così. A questo proposito m’han deo molte cose da quando ci
siamo visti l’ultima volta, cose che vi sbalordiranno. Ma è meglio che vi
narri gli avvenimenti in ordine cronologico, come sono accaduti, – disse il
generale. – Voi avete conosciuto la mia cara pupilla o meglio… la mia
bambina. Non c’era creatura più bella di lei e, fino a tre mesi fa, più
fiorente.
– Sì, poverina! L’ultima volta che la vidi era proprio una delizia, – disse
mio padre. – Non ho parole per dirvi, caro amico, quanto ne sono rimasto
sconvolto e addolorato e so che colpo è stato per voi.
Così dicendo, prese la mano del generale e si confortarono con una
reciproca strea. Le lacrime salirono agli occhi del vecchio soldato, né egli
cercò di dissimularle; poi disse:
– Siamo vecchi amici: sapevo bene quello che avreste provato per me
che non ho figli. Lei era diventata l’unica ragione della mia vita e
contraccambiava le mie premure con un’affeuosità che rallegrava la mia
dimora e rendeva felice la mia vecchiaia. Oramai tuo è finito. Non mi
restano che pochi anni di vita, ma prima di spirare, e con la misericordia
del Signore, spero di rendere un prezioso servigio all’umanità e di portare
a compimento la vendea celeste sui demoni che hanno ammazzato la mia
povera bambina nel primo fiorire della sua beltà e delle sue speranze!
– Poco fa avete deo che volevate narrare gli eventi nell’ordine in cui
sono accaduti, – disse il babbo, – fatelo, ve ne prego, vi assicuro che la mia
non è solo curiosità.
Proprio allora il calesse era giunto al bivio in cui la strada di Drunstall,
da cui era venuto il generale, si separa da quella che dovevamo imboccare
per andare a Karnstein.
– anto distano le rovine? – domandò il generale, guardando
ansiosamente davanti a sé.
– Una mezza lega, all’incirca, – rispose mio padre, – narrateci la storia
che avevate promesso, ve ne prego.
Il racconto del generale

– Con tuo il cuore, – disse il generale con un sospiro e, dopo una


pausa per riordinare la trama dei pensieri, dee avvio ad uno dei racconti
più singolari che mi sia capitato di ascoltare:
«La mia cara bambina non vedeva l’ora di venire a fare la conoscenza
della vostra amata figliola, secondo l’invito che ci avevate rivolto con tanta
cortesia».
A questo punto si volse dalla mia parte con un inchino galante, ma
pieno di malinconia.
«Nel fraempo eravamo stati invitati dal mio vecchio amico, il conte di
Carlsfeld, il cui schloss si trova a sei leghe da Karnstein, ma nell’altro
versante, per prendere parte ai solenni festeggiamenti che, lo ricorderete,
offriva in onore del suo illustre ospite, il granduca Carlo».
– Sì, certo, mi ricordo, penso che siano stati magnifici, – disse mio
padre.
«Principeschi vorrete dire! La sua ospitalità è stata sempre degna d’un
re, sembra possedere la lampada d’Aladino. La noe in cui ebbero avvio le
mie angustie doveva aver luogo un ballo in maschera. Avevano spalancato
gli ingressi ai giardini. Agli alberi erano appese rificolone di tui i colori,
poi cominciarono a zampillare certi fuochi d’artificio che non si sono mai
visti nemmeno a Parigi, e la musica… sapete che ho un debole per la
musica… melodie irresistibili! C’era la più famosa orchestra del mondo e i
cantanti erano i migliori che era stato possibile reperire nei teatri d’opera
di mezza Europa. Mentre vagavo estasiato in quei prati inondati di
fantastiche luci, avendo come scenario lo sfarzoso château, bagnato dal
chiarore lunare, irradiante un lucore rosato dall’interminabile fila di
finestre, si udivano sgorgare improvvise da qualche silente boscheo, o
salire dalle chiae lacustri, voci meravigliose e, mentre mi beavo occhi ed
orecchi, mi sentivo riassorbire irresistibilmente nell’aura poetica e
romanzesca della mia prima gioventù.
«ando ebbero fine i fuochi d’artificio e vennero aperte le danze,
ritornammo alla splendida fuga dei saloni di cui avevano spalancate le
porte per chi desiderasse ballare. Un ballo mascherato è sempre uno
speacolo araente, ma quello era favoloso. Gli invitati appartenevano
alla più alta aristocrazia e avevo l’impressione di essere un nulla accanto a
loro. La mia cara bambina era bellissima a vedersi: non portava alcuna
maschera, e gioia ed eccitazione aumentavano il fascino adorabile del suo
volto. Mi capitò di notare una giovane signora, stupendamente vestita, ma
con il volto coperto da una maschera, che osservava la mia pupilla con
interesse straordinario. L’avevo già vista quella sera stessa, dapprima
nell’ingresso d’onore e poi, fugacemente, sulla terrazza soo i finestroni
del castello, mentre passeggiava non discosta da noi, intenta ad osservare
mia nipote. L’accompagnava, con funzioni di chaperon, una signora,
anch’ella mascherata, vestita in modo sfarzoso e nello stesso tempo
austero, e con il portamento maestoso duna dama d’alto rango. Se la
giovane signora non avesse avuto la maschera, avrei potuto capire se
stesse realmente scrutando la mia povera figliola. Ora so anche troppo
bene che era così.
«Ci trovavamo, come ho deo, in uno dei salons. La mia povera piccina
aveva ballato a lungo e stava riprendendo fiato su una delle sedie accanto
alla porta, mentre io le stavo accanto in piedi. Le due dame di cui vi ho
parlato s’erano avvicinate e la più giovane sedee accanto alla mia
bambina, mentre l’altra rimase in piedi, vicino a me, e per un po’ parlò
soovoce alla fanciulla di cui era l’accompagnatrice.
«Protea com’era dalla maschera, un indiscusso privilegio per lei, la più
anziana si volse verso di me e, chiamandomi per nome con il fare di una
vecchia amica, intavolò una conversazione che stuzzicò non poco la mia
curiosità. Fece riferimento ai molti luoghi dove mi aveva incontrato… a
Corte o in nobili palazzi, alluse a certi avvenimenti insignificanti a cui non
pensavo più da tanto ma che, m’accorsi, la memoria non aveva ancora
sepolto, poiché guizzarono vividi appena lei li sfiorò.
«La curiosità di sapere chi fosse diventava irresistibile, eppure lei
riusciva a parare e sviare con amabilità e con destrezza ogni mia mossa.
Non riuscivo a spiegare la conoscenza che essa mostrava di possedere di
molti episodi della mia vita. Inoltre sembrava trarre un piacere tuo
femminile nell’eludere le mie domande e nel vedermi sballoato, nella mia
curiosità, da una congeura all’altra.
«Nel contempo la signora più giovane, a cui la madre s’era rivolta un
paio di volte chiamandola con il bizzarro nome di Millarca, s’era messa a
conversare altreanto amabilmente con mia nipote.
«S’era presentata dicendo che sua madre era una mia conoscenza di
vecchia data. Poi parlò di quella sorta d’impunità che permee la
maschera. Si mise a conversare come fosse un’amica, ad elogiare il vestito
e ad insinuare dei complimenti per la sua bellezza. La divertì un mondo
criticando con spirito le persone che affollavano la sala, e rise del
divertimento che aveva procurato alla mia piccina. Era molto vivace e
spiritosa, quando voleva, ed in breve tempo erano diventate delle vere
amiche. Ad un certo punto la giovane estranea si tolse la maschera
mostrando un volto di straordinaria bellezza. Ci era sconosciuta, sia a me
che alla mia bambina. Ma per quanto ignoto, i trai di quel volto erano
così amabili e araenti, che era impossibile sorarsi al suo fascino. Né ad
esso si sorasse la mia piccina. Non mi è mai capitato di vedere nessuno
così ammaliato da un’altra persona, a prima vista, a parte la sconosciuta
stessa che sembrava averle donato il cuore.
«Io intanto, facendomi forte dell’allentamento dei vincoli che una festa
in maschera comporta, posi nuove domande all’altra signora.
«– Mi avete veramente sconcertato, – le dissi ridendo, – non vi basta
ancora? Vorrete permeermi di combaere ad armi pari? Sarete così
cortese da togliervi la maschera?
«– Non esiste richiesta più insensata! Chiedere ad una signora di
rinunciare al proprio vantaggio, – rispose lei, – è fuori di ogni regola e poi,
chi vi dice che mi riconoscereste? Gli anni mutano molte cose…
«– Eccone dinnanzi a voi un esempio, – dissi io con un inchino e un
sorriso venato di tristezza.
«– Come ci insegnano i filosofi, – disse lei – ma pensate proprio che la
vista del mio volto potrebbe aiutarvi?
«– Correrei il rischio, – risposi, – è inutile che fingiate di essere una
vecchia, il vostro aspeo vi tradisce.
«– Eppure sono trascorsi molti anni da quando vi ho visto, o meglio da
quando voi avete visto me, perché è proprio questo che sto pensando.
Vedete, Millarca è mia figlia, quindi non posso essere giovane, neppure
agli occhi di coloro ai quali il tempo ha insegnato ad essere indulgenti, e
forse non mi farebbe affao piacere di subire il confronto con il ricordo
che avete di me. Inoltre voi non portate alcuna maschera e di conseguenza
non avete nulla da offrirmi in cambio.
«– La mia richiesta fa appello alla vostra indulgenza, vi scongiuro di
toglierla.
«– Anch’io mi appello alla vostra indulgenza, lasciate che resti dov’è.
«– In questo caso, ditemi almeno se siete francese o tedesca, parlate le
due lingue alla perfezione.
«– Niente da fare, generale, voi mi state tendendo un’imboscata e state
studiando il punto debole per sferrare l’aacco.
«– In ogni caso, spero che non mi negherete che, dopo avermi concesso
l’onore di conversare con voi, possa sapere come chiamarvi. Debbo
rivolgermi a voi come Madame la Comtesse?
«Lei rise e senza alcun dubbio avrebbe eluso di nuovo la mia domanda…
se credessi che potesse essere stato lasciato al caso anche un solo deaglio
di quel colloquio i cui particolari, non ne ho dubbi, erano stati calcolati in
anticipo con astuzia diabolica.
«– anto a questo… – cominciò a dire, ma proprio nel momento in cui
dischiudeva le labbra fu interroa da un signore vestito di nero, raffinato
ed elegante, eppure con la sgradevole nota di un volto più pallido di chi è
rappreso nel rigore della morte. Non era mascherato… indossava la
marsina di un gentiluomo di mondo. Egli disse senza sorridere, ma
sprofondandosi in una riverenza esagerata: – Madame la Comtesse,
permee che le dica due parole su di un argomento che può interessarla?
«Portandosi il dito alle labbra per ingiungere silenzio, la signora si volse
rapidamente verso di lui, poi mi disse:
«– Tenetemi il posto, generale, appena avrò parlato con questo signore,
sarò da voi.
«E con questa ingiunzione, formulata quasi per giuoco, s’appartò ad una
certa distanza con il signore in nero, parloando animatamente; poi si
mescolarono fra la folla e per qualche minuto li persi di vista.
«Trascorsi quel breve periodo spremendomi le meningi per cercare di
indovinare l’identità della dama che con tanta gentilezza aveva mostrato di
ricordarsi di me. Ero sul punto di unirmi alla conversazione che si
svolgeva fra la mia e la figliola della contessa, e speravo di farle una
sorpresa al suo ritorno mostrandole che ricordavo il suo nome, il suo titolo
nobiliare, quello del suo château ed enumerandole sulla punta delle dita
tue le sue proprietà, quando vidi tornare la signora accompagnata
dall’esangue gentiluomo vestito di nero che disse:
«– Tornerò ad avvertire Madame appena il suo landò sarà alla porta. Poi
si congedò con un inchino».
Una petizione

«– Allora stiamo per perdere la compagnia di Madame la Comtesse,


spero si trai solo di qualche ora, – dissi con un inchino.
«– Può darsi per qualche ora, ma anche per qualche seimana. Peccato
che quell’uomo ci abbia interroi proprio ora. Vi ricordate di me, dunque?
«L’assicurai che non lo sapevo.
«– Lo saprete, – disse la signora, – ma non ora. Siamo amici di vecchia
data e più intimi di quanto pensiate. Non posso ancora dichiararvi la mia
identità, ma fra tre seimane passerò dal vostro bellissimo schloss sul
quale vi ho posto tante domande. Vi farò visita per un’ora o due e
ridaremo vita ad un’amicizia alla quale non posso pensare senza che mi si
affollino nella memoria mille dolci ricordi. In questo momento ho ricevuto
una notizia che mi ha colpito come una folgore. Devo meermi subito in
viaggio e percorrere quasi cento miglia per strade fuori di mano, alla
maggiore velocità possibile. Ho la testa in subbuglio e solo il fao di
dovere assolutamente mantenere l’incognito, mi traiene dal sooporvi
una richiesta singolare. La mia povera figliola non ha ancora recuperato le
forze dopo una caduta da cavallo, avvenuta durante una partita di caccia a
cui partecipava. Il trauma si fa ancora sentire sul suo sistema nervoso e il
medico ha imposto per qualche tempo una vita assolutamente priva di
emozioni e di affaticamento. È per questo che, anche per venir qui,
abbiamo viaggiato a brevissime tappe… appena sei leghe al giorno. Ma ora
dovrò scapicollarmi giorno e noe, impegnata in una missione che è
questione di vita o di morte… una missione della cui gravità estrema potrò
parlarvi fra poche seimane quando, come spero, ci incontreremo senza
più alcuna remora o segreto.
«Proseguì formulando la sua petizione in un tono che era quello di una
persona che graziosamente concede un favore, piuosto che richiederlo.
Era il suo modo di fare che suscitava questa impressione, e credo che non
se ne rendesse conto, tanto è vero che le parole erano addiriura
imploranti. In breve si traava di questo: avrei dovuto prendermi la
responsabilità di ospitare sua figlia fino al suo ritorno.
«Tuo sommato era una richiesta proprio strana, per non dire audace.
In un certo qual modo fu la signora stessa a disarmarmi enumerando ed
ammeendo le obiezioni che avrei potuto frapporre, ma affidandosi allo
stesso tempo al mio senso cavalleresco. Nello stesso istante, secondo una
fatale orditura che sembra aver prefigurato ciò che sarebbe accaduto, la
mia povera bambina mi si avvicinò bisbigliandomi all’orecchio di invitare
la sua nuova amica, Millarca, al nostro castello. Lei glielo aveva già chiesto
e, se sua madre avesse acconsentito, la fanciulla sarebbe stata felice di
acceare.
«In un’altra occasione le avrei deo di pazientare, almeno fin quando
avessimo saputo chi erano; ma non ebbi il tempo di rifleere. Le due
donne mi stavano ponendo un assedio simultaneo e, devo ammeerlo,
quel volto angelico e stupendo, dal quale irradiava un fascino
insostenibile, non disgiunto dal portamento e dalla fierezza che lasciavano
trasparire la nobile stirpe della fanciulla, decretò la mia capitolazione. E
così fui sopraffao e, senza opporre resistenza, acceai di prendermi cura
della damigella che la madre chiamava con il curioso nome di Millarca.
«La contessa chiamò con un cenno sua figlia, la quale l’ascoltò seria e
compunta, e le disse in termini vaghi di essere stata convocata altrove,
senza possibilità di deroghe, informandola allo stesso tempo che l’aveva
affidata alla mia tutela, aggiungendo infine che io ero uno dei suoi amici
più vecchi e fidati.
«Da parte mia aggiunsi tuo ciò che mi sembrava giusto, date le
circostanze, e mi trovai invischiato, di conseguenza, in una situazione che
non mi piaceva né punto né poco.
«Poi tornò il signore grave vestito di nero che scortò la dama fuori della
sala, con fare molto cerimonioso. Il contegno di costui era tale da
convincermi sempre di più che la contessa doveva essere una dama di
rango molto più alto di quanto facesse supporre il suo titolo nobiliare.
«L’ultima raccomandazione fu che non avrei dovuto tentare di sapere di
lei, più di quanto già sapessi, almeno fino al suo ritorno. Il nostro augusto
ospite sapeva i motivi di un tale comportamento. Poi spiegò che né lei, né
sua figlia sarebbero potute restare in quel luogo per più di un giorno senza
correre rischi. indi aggiunse:
«– Circa un’ora fa mi sono sollevata per un aimo la maschera e ho
creduto che mi aveste riconosciuta. È per questo che ho cercato di parlare
con voi. Se avessi scoperto che voi mi avevate riconosciuta, mi sarei
rivolta al vostro alto senso dell’onore e vi avrei scongiurato di tenere il
segreto per qualche seimana. Ora so, e ne sono felice, che non mi avete
vista, ma se già avete un sospeo, o lo avrete in seguito, circa la mia
identità, mi affido al vostro senso dell’onore: sono nelle vostre mani.
Anche mia figlia manterrà un assoluto riserbo e in ogni caso sarà vostro
compito, generale, ricordarle che mai ella dovrà rivelare la sua identità.
«Poi sussurrò brevi parole alla figlia, la baciò in frea e furia due volte e
poi se ne andò, scortata dal signore smunto e vestito di nero,
confondendosi fra la folla. Allora Millarca disse:
«– Nella sala accanto c’è una finestra o ballatoio che dà proprio
sull’androne d’ingresso, vorrei vedere mamma per l’ultima volta e inviarle
un bacio d’addio.
«Acconsentimmo e l’accompagnammo alla finestra. ando fummo sul
ballatoio vedemmo una carrozza lussuosa, ma di foggia antiquata,
aorniata da una vera corte di lacchè e di corrieri. Scorgemmo anche
l’esile sagoma del gentiluomo pallido vestito di nero che deponeva sulle
spalle della dama un pesante mantello di velluto nero, rialzandole il
cappuccio. Lei gli fece un cenno d’assenso sfiorandogli appena la mano
con la sua. Mentre lo sportello veniva chiuso e la carrozza cominciava ad
avviarsi, l’uomo si sprofondò in più di un inchino.
«– È partita, – disse Millarca con un sospiro.
«– È proprio partita… – ripetei fra me stesso, mentre per la prima volta,
dopo gli aimi precipitosi che erano seguiti al mio consenso, rifleevo
sulla follia del mio gesto.
«– Non ha nemmeno alzato il viso, – disse la fanciulla con una punta di
rammarico.
«– Forse la contessa s’era tolta la maschera e non voleva farsi vedere, –
dissi, – e poi non sapeva che eravate alla finestra.
«Sospirò guardandomi in viso. Era così bella che mi sentii commuovere.
Provai rimorso di essermi pentito per averle offerto la nostra ospitalità e
decisi di fare ammenda per l’incredibile scortesia con cui l’avevo traata.
«La fanciulla si rimise la maschera e, insieme alla mia bambina, mi
chiese di ritornare nei giardini dove sarebbe ripreso il concerto. Vi
andammo e ci meemmo a passeggiare nella terrazza che s’apre soo le
finestre del castello. Millarca non tardò a fare amicizia con noi e ci divertì
raccontandoci vita, morte e miracoli dei personaggi che incontravamo
nella terrazza. Ad ogni istante la mia simpatia aumentava. Per uno come
me che era vissuto per tanto tempo fuori dal mondo, quel suo discorrere
privo di malizia costituiva una vera fonte di piacere. Non potei fare a
meno di pensare che quella fanciulla avrebbe rallegrato le nostre serate al
castello, non di rado piene di tediosa solitudine.
«Il ballo proseguì fin quando i primi raggi del sole sbucarono
all’orizzonte e, poiché il granduca s’era compiaciuto di danzare fino a quel
momento, nessuno aveva avuto l’ardire non dico di prendere congedo, ma
nemmeno di pensare al proprio leo.
«Avevamo appena traversato un salone pieno zeppo di persone, quando
la mia bambina mi chiese se avevo visto Millarca. Lei credeva che fosse
dalla mia parte ed io dalla sua. Il fao era che l’avevamo perduta cammin
facendo. Tui i tentativi che feci per rintracciarla furono inutili: in realtà
temevo che, nella confusione che era seguita dopo esserci
involontariamente divisi, avesse scambiato altre persone per i suoi nuovi
amici e li avesse poi persi nei vasti giardini che si aprivano innanzi a noi.
«Fu allora che mi resi conto veramente quale follia era stata quella di
prendersi cura di una fanciulla senza nemmeno sapere il suo nome.
Inoltre, avendo le mani legate da una promessa del cui motivo non sapevo
nulla, non mi era nemmeno possibile informarmi in giro, spiegando a
dria e a manca che la giovane scomparsa era la figlia della contessa
partita poche ore prima.
«Spuntò il giorno. ando abbandonai le ricerche il sole era alto. Fu
solo verso le due del giorno seguente che ricevemmo notizie della giovane
che avevamo avuto in custodia. A quell’ora un domestico bussò alla porta
di mia nipote dicendole che una fanciulla, assai angosciata, aveva chiesto
dove poter rintracciare il generale, barone Spielsdorf, e la sua giovane
figlia, alla cui protezione era stata affidata da sua madre.
«Non c’era dubbio che, nonostante una certa sbadataggine, la nostra
giovane amica era ricomparsa. Magari l’avessimo perduta davvero!
«Raccontò alla mia piccina una lunga storia per spiegare la sua assenza.
Disse che, quando era molto tardi e disperava ormai di ritrovarci, era
entrata nella camera di una governante e s’era addormentata
profondamente, esausta per la fatica del ballo.
«ello stesso giorno Millarca venne al nostro castello. Dopo tuo ero
contento di avere procurato una compagna così deliziosa alla mia cara
nipotina».
Il boscaiolo

«Ma gli inconvenienti non tardarono a manifestarsi: innanzi tuo


Millarca si lamentava di una incredibile spossatezza dovuta ai postumi
della recente malaia, e non usciva di camera fino al pomeriggio inoltrato.
Inoltre ci accorgemmo per caso che chiudeva sempre la porta di camera
dal di dentro, e che non sfilava mai la chiave dalla toppa fino al momento
in cui faceva entrare la cameriera che l’assisteva nella toelea. Senza poi
contare, e anche di questo ne avemmo una prova inconfutabile, che nelle
prime ore del maino o anche più tardi, si assentava dalla sua camera,
prima di far sapere che era sveglia. Infai fu vista più d’una volta dalle
finestre del castello, nella prima, incerta luce dell’alba, camminare fra gli
alberi verso oriente con il passo inconfondibile di una che è posseduta da
altrui volontà. Credei lì per lì che fosse una sonnambula, ma questa
ipotesi non risolveva l’enigma. Come faceva a uscire di camera, lasciando
la porta chiusa dall’interno? E poi, come faceva a sortire dal castello senza
aprire né porte né finestre?
«Ero preso da questi inquietanti interrogativi, quando mi si presentò un
evento ben più drammatico e pressante.
«La mia cara piccina cominciò a deperire e a perdere il suo aspeo sano
in un modo così incomprensibile, orrendo, da gearmi nella più cupa
angoscia.
«Da principio ebbe degli incubi terribili. Poi, come lei stessa credee, le
apparve uno spero che ora rassomigliava a Millarca, ora confusamente a
una bestia che, inquieta, andava avanti e indietro ai piedi del leo. Poi fu
la volta di strane sensazioni: una non spiacevole ma molto strana, diceva,
era simile al fioo d’acqua gelida di torrente che le investiva il seno. Alla
fine sentì qualcosa assai simile ad un paio di agucchioni che la
trapassavano, appena soo la gola, provocandole un dolore lancinante.
Dopo poche noi si manifestò una sensazione sempre più intensa e
convulsa di asfissia. Poi la perdita di coscienza».
Ogni parola del vecchio generale mi giungeva chiara e distinta, poiché
stavamo ormai passando sulla soffice verzura che accompagna, da
entrambi i lati, la carreggiata in prossimità del villaggio dai tei diruti e
dai cui comignoli nessuno ha più visto alzarsi una voluta di fumo da un
secolo almeno.
Potete immaginare come mi sentissi stranita nel– l’accorgermi che i
sintomi della mia infermità erano gli stessi di quelli accusati dalla
sciagurata fanciulla la quale, se non fosse successo l’irreparabile, avrebbe
potuto essere in quel momento ospite del nostro château. E non vi sarà
difficile immaginare cosa provai, quando sentii descrivere i comportamenti
inesplicabili e le abitudini che erano uguali a quelli della nostra bella
ospite, voglio dire di Carmilla!
D’improvviso uno squarcio nella foresta: eravamo già soo i comignoli
e le mute facciate del villaggio diroccato, soo le torri mozze e i bastioni
diruti dell’antico castello, il quale era aorniato da imponenti piante di
leccio che ci sovrastavano da una piccola altura.
Scesi dal calesse mezza istupidita, come se stessi vivendo un sogno
terribile, e in silenzio, poiché ognuno di noi aveva di che essere assorto,
salimmo il pendio e ci trovammo a vagare fra i saloni deserti, le scale a
chiocciola e i tetri androni del castello.
– E questa fu un tempo la superba dimora dei Karnstein! – disse alla
fine il vecchio generale, mentre da una grande bifora il suo sguardo si
posava sul soostante villaggio per poi perdersi in direzione dell’immensa,
ondulata fuga di boschi. – Era una famiglia scellerata e qui furono redai i
suoi annali macchiati di sangue, – proseguì, – è inaudito che, persino dopo
la morte, i Karnstein debbano ancora vessare la razza umana con la loro
atroce avidità. Ecco, quella laggiù è la cappella dei Karnstein.
Indicò le mura ammuffite di una costruzione che s’intravedeva fra gli
arbusti frondosi, lungo il pendio. – E sento baere la scure d’un boscaiolo,
– aggiunse, – nella macchia che abbraccia la cappella. Forse quell’uomo
potrà darmi informazioni preziose e saprà indicarmi il sepolcro di
Mircalla, contessa di Karnstein. esti umili villici, sapete, conservano a
lungo le tradizioni delle più importanti famiglie del luogo, le cui storie
vengono invece dimenticate dai loro pari, ricchi e blasonati, appena
s’estinguono quelle dinastie.
– A casa abbiamo un ritrao di Mircalla, contessa di Karnstein, lo volete
vedere? – chiese mio padre.
– Ci sarà tempo, caro amico, – rispose il generale, – credo di aver visto
l’originale ed il motivo che mi ha condoo qui, prima del previsto, è di
esplorare la cappella a cui ci stiamo avvicinando.
– Ma come! Vedere la contessa di Karnstein, – esclamò mio padre, – ma
se è morta da più di un secolo!
– Non è così stecchita come credete, se è vero quello che mi hanno deo
– rispose.
– Generale, vi confesso che mi sconcertate, – disse mio padre
guardandolo con quell’aria diffidente che gli avevo già vista dipinta sul
volto. Tuavia, per quanto sommossi da repentini accessi di collera e di
obbrobrio, i modi del generale non sembravano fruo d’insensatezza.
– Nei pochi anni che mi restano, – cominciò a dire il generale, mentre
passavamo soo il possente archivolto ogivale (e che fosse una
costruzione gotica me lo faceva pensare la struura maestosa di quelle
rovine), – coltivo un unico scopo che è quello di sfogare su di lei la
vendea che, Dio volendo, può ancora eseguire un braccio mortale.
– Di quale vendea parlate? – chiese il babbo, più stupito che mai.
– ella di decapitare il mostro, – rispose il generale avvampando d’ira
e baendo con il piede sull’impiantito che affidò l’eco lugubre del colpo
alle vuote rovine. Così dicendo sollevò il pugno, quasi a stringere il
manico d’una accea, agitandolo forsennato per aria.
– Come? – esclamò mio padre più aonito di prima.
– Tagliandole la testa.
– Tagliandole la testa?
– Proprio così, con uno scurcino, una vanga o qualsiasi altra cosa che
possa mozzare quella gola assassina. Saprete, saprete… – rispose scosso da
fremiti di rabbia mentre s’inoltrava in frea fra le macerie, poi aggiunse:
– el vecchio trave va bene come sedile: fate riposare la vostra figliola
che è affaticata, mi basteranno pochi minuti per concludere la mia terribile
storia.
Il blocco squadrato di legno, che giaceva sul piantito della cappella
invaso dalla gramigna, costituiva una vera e propria panca su cui non vidi
l’ora di sedermi. Intanto il generale dee una voce al boscaiolo, e quel
vecchio di solida tempra, che aveva abbauto dei rami che premevano
contro le antiche mura, venne verso di noi con la scure in mano.
Non seppe dirci nulla di quelle rovine monumentali, ma ci informò che
c’era un vecchio, uno dei guardiaboschi che stava allora a pigione in casa
del prete, un paio di miglia più oltre, il quale sarebbe stato in grado di
rivelarci gli epitaffi tombali dei Karnstein. Per qualche baiocco ci promise
che sarebbe tornato con lui in capo a mezz’ora, se gli avessimo prestato
uno dei nostri cavalli.
– Lavorate da molto nel bosco? – disse mio padre al vecchio, appena fu
arrivato.
– Ho fao il tagliaboschi – rispose l’uomo nel suo patois, – da sempre,
in questi luoghi, agli ordini del sovrintendente alla foresta. Era il mestiere
di mio padre e del padre di mio padre, per intere generazioni. Potrei
mostrarvi la casa in cui vivevano i miei avi.
– E perché fu abbandonato il villaggio? – chiese il generale.
– Era infestato dai revenants, signore. Molti furono inseguiti fino alle
loro tombe dove vennero riconosciuti in base alle solite prove e quindi
distrui nel modo consueto, mozzando loro il capo, impalandoli e
bruciandoli sul rogo. Ma tuo ciò avvenne dopo che molti abitanti del
borgo erano stati assassinati. E poi, anche dopo queste esecuzioni
compiute secondo quanto prescrive la legge, – proseguì il vecchio, – dopo
che furono scoperchiate tante tombe e ad altreanti vampiri fu tolta la
loro orribile vitalità… il villaggio non fu liberato. Un nobile moravo che
passava da queste parti seppe di quanto stava accadendo e, poiché
possedeva esperienza ed abilità in materia di vampiri, come accade a molti
suoi conterranei, si offrì di liberare il villaggio da quella pestilenza. Ecco
come fece: in una noe illuminata dalla luna piena, salì poco dopo il
tramonto nel campanile a torre di questa stessa cappella, da dove poteva
avere soo occhio ogni angolo del camposanto, ecco, lo potete vedere
anche voi da questa finestrella… Stee di guardia finché scorse il vampiro
sgusciar fuori dalla tomba, deporre accanto ad essa il sudario in cui era
stato avvolto e prendere la via del villaggio per perseguitarne gli abitanti.
Dopo avere assistito alla scena, il forestiero scese dal campanile, prese il
sudario e lo riportò con sé in cima alla torre. Allorché il vampiro fece
ritorno dalle sue visite furtive e non trovò più il sudario, si mise ad urlare
in maniera disumana verso il moravo che aveva scorto alla sommità del
campanile e questi, a sua volta, lo sfidò a salire per riprenderselo. Il
vampiro accolse la sfida e cominciò ad inerpicarsi su per la torre ma, non
appena raggiunse la sommità, il moravo gli spaccò il cranio con un
terribile fendente facendolo precipitare nel cimitero. indi, scesa a
precipizio la scala a chiocciola, l’inseguì e gli tagliò la testa. Il giorno
appresso gli abitanti del villaggio ebbero in consegna quei resti, i quali
furono impalati e dati alle fiamme. Il nobile moravo fu autorizzato
dall’allora capoccia della famiglia, di far sparire il sepolcro di Mircalla,
contessa di Karnstein. E così fece, di modo che, in breve tempo, la sua
ubicazione fu dimenticata da tui.
– Potreste indicarmi dov’era? – chiese con ansia il generale.
Il guardiaboschi fece cenno di no, sorridendo, e poi disse:
– Non c’è anima viva che sappia dirvelo, oramai. E poi raccontano che il
suo corpo sarebbe stato trafugato, ma la verità non la conosce nessuno.
Dee queste parole, poiché s’era fao tardi, il vecchio depose la scure e
se ne andò, lasciandoci ad ascoltare l’epilogo della strana storia del
generale.
L’incontro

«La mia dilea figliola, – riprese – stava ormai peggiorando


rapidamente di giorno in giorno. Il medico che l’aveva in cura non era
riuscito in alcun modo ad arrestare il decorso inesorabile di quella che
allora consideravo la sua malaia. Di conseguenza, vista anche la mia
preoccupazione, consigliò di fare un consulto. Feci venire un rinomato
medico di Graz, ma passarono diversi giorni prima che arrivasse. Era una
persona di grande umanità e devozione, oltre che di profonda sapienza
nelle scienze mediche. Dopo che i due medici ebbero visitato la mia povera
pupilla, si appartarono nella biblioteca per confrontare le loro diagnosi.
Dalla sala accanto, dove aspeavo il loro verdeo, udii le loro voci animate
da una concitazione che non si confaceva ad una discussione condoa in
termini rigorosamente filosofici. Allora bussai alla porta ed entrai: il
vecchio doore di Graz sosteneva la sua teoria contro il rivale che cercava
di demolirla araverso il ridicolo, punteggiando i suoi interventi con
scoppi di risa. Tuavia il mio ingresso pose fine a questo indecoroso
comportamento e con esso all’alterco.
«– Signore, – disse il medico del luogo, – il mio doo collega sembra
credere che, più che di un medico, voi abbiate bisogno di un esorcista.
«– Vi porgo tue le mie scuse, – disse il medico di Graz, con aria
affranta, – in altra occasione spiegherò il mio punto di vista su questo
caso. Sono spiacente, Monsieur le Général, ma la mia scienza e la mia
esperienza non possono esservi di utilità alcuna. Prima di partire mi
onorerò di consigliarvi qualcosa.
«Assorto nei suoi pensieri si sedee allora ad uno scrioio e cominciò a
vergare alcune righe. Gli feci un inchino di compiacenza, sebbene fossi
profondamente deluso e, mentre stavo per uscire, l’altro medico mi additò
il collega che stava scrivendo e poi, scrollando le spalle, si portò un dito
alla tempia con gesto inequivocabile.
«esto consulto era stato inutile. Con il cuore serrato dall’angoscia mi
misi a passeggiare nel parco dove mi raggiunse poco dopo il doore di
Graz. Mi chiese scusa per avermi seguito, ma aggiunse che la coscienza gli
impediva di andarsene senza prima avermi parlato viso a viso. Poi mi disse
che non aveva dubbi: non c’era malaia, dovuta a cause naturali, che
presentasse sintomi analoghi. La morte era ormai alle soglie, ma poiché
dovevano restare un paio di giorni di vita, se si fosse riusciti a evitare
l’aacco fatale, forse la mia nipote avrebbe potuto uscire dal coma e
riprendere gradualmente le forze. Purtroppo la speranza era ridoa ad un
lumicino: un altro collasso avrebbe spento l’ultima scintilla di vita.
«– Ma qual è la natura del male? – gli chiesi con voce supplicante.
«– Ho scrio tuo in questo foglio sigillato che affido a voi, a
condizione che facciate venire il prete più vicino e lo leggiate in sua
presenza. Non dovrete aprirlo in nessun altro caso, altrimenti ne
disprezzereste il contenuto, mentre è una questione di vita o di morte. Solo
se non riuscite a trovare il prete, avete l’autorizzazione di leggerlo.
«Prima d’andarsene mi chiese se volessi incontrare un tale che aveva
una curiosa erudizione in materia e che, assai probabilmente, mi avrebbe
interessato più d’ogni altro, quando avessi leo il suo referto. Poi mi pregò
vivamente di invitarlo a fargli visita e prese congedo.
«Poiché il sacerdote era assente, non mi restò che leggere da solo la
leera. In altra occasione mi sarebbe apparsa tremendamente ridicola, ma
a quali turlupinatori non si rivolgerebbe la gente quando cade in preda alla
disperazione, quando ogni altro mezzo è risultato inefficace ed è in giuoco
la vita stessa di una persona cara?
«Voi stessi sarete i primi a cui questa leera apparirà sconcertante, per
quanto scria da un saggio, ed in effei era tale la sua follia che l’avrebbe
potuto far rinchiudere in un ospizio per i mai: sosteneva infai che la
paziente soffriva per le visite di un vampiro! Le trafiure che lei avvertiva
in prossimità della gola erano causate, sosteneva lo scrio, dalla
penetrazione nel collo dei canini aguzzi e soili che, com’è noto, sono il
segno tipico dei vampiri. Aggiungeva poi che anche il piccolo livido sul
collo ne era una conferma, essendo provocato dalle labbra suggenti di quel
demone. Infine ogni altro sintomo accusato dall’inferma corrispondeva per
filo e per segno a quelli riscontrati in simili manifestazioni.
«Poiché non credevo affao all’esistenza di un fenomeno come il
vampirismo, l’ipotesi soprannaturale formulata dal buon doore mi
appariva non più che una strana, patetica fusione di rigore diagnostico e di
aività allucinatoria. Ma la mia disperazione era tale che, piuosto
dell’inerzia impotente, seguii le istruzioni della leera.
«Andai a nascondermi nel buio dello spogliatoio che dava sulla camera
della povera malata, rischiarata appena di una candela, e la tenni d’occhio
finché si fu addormentata profondamente. Rimasi accanto alla porta
accostata, sbirciando araverso lo spiraglio e tenendo a portata di mano,
sul tavolo, come suggerivano le istruzioni, una sciabola, allorché, poco
dopo l’una scorsi un affare nero, indefinibile, che mi parve strisciare ai
piedi del leo, donde balzò improvvisamente alla gola della povera
creatura diventando turgido in un baleno, fino a trasformarsi in una
grande massa palpitante.
«Rimasi per qualche istante impietrito, poi mi lanciai in avanti
impugnando la sciabola: l’essere nero si contrasse improvvisamente
ritraendosi verso i piedi del leo, ne scivolò giù e, in piedi sull’impiantito
ad un passo dal leo, con uno sguardo acceso di ignobile ferocia e di
orrore, inchiodato su di me, vidi Millarca. Senza nemmeno rendermene
conto, la colpii d’impulso con la sciabola; ma eccola ria accanto alla
porta, illesa. Inorridito, mi geai all’inseguimento cercando di colpirla: era
sparita e la mia sciabola si scheggiò invano contro lo stipite della porta.
«Come descrivervi quello che accadde in quella noe da tregenda? La
casa era in tumulto. Lo spero di Millarca era scomparso, ma la sua
viima stava agonizzando e, prima dell’alba, rese l’anima a Dio».
Il vecchio generale era fuori di sé. Noi restammo in silenzio e mio padre
s’allontanò un po’ meendosi a leggere gli epitaffi incisi sulle lapidi poi,
fingendosi occupato in quella sua ricerca, varcò un arco che dava in una
cappella laterale. Il generale s’appoggiò alla parete, s’asciugò gli occhi e
trasse un profondo sospiro. Mi sentii sollevare dalle voci di Carmilla e di
Madame che proprio allora stavano avvicinandosi. Poi le voci svanirono.
In quel tempio di solitudine, dopo avere ascoltato una narrazione
incredibile, profondamente connessa con quei morti nobili e famosi, i cui
sepolcri marcivano aorno a noi fra la polvere e l’edera, e allo stesso
tempo così paurosamente interrelata in ogni particolare con la mia
misteriosa infermità… in quella plaga infestata, in perpetua penombra fra
il fogliame invadente ed onnivoro, fio ed abbarbicato oltre il colmo delle
mura silenti, fui presa da un senso d’orrore e il mio cuore sembrò
raggelarsi al pensiero che, dopo tuo, le mie compagne non sarebbero
venute a rompere l’incantesimo tenebroso e malefico di quella scena.
Il vecchio generale teneva lo sguardo inchiodato al terreno, mentre con
la mano s’appoggiava al basamento di una colonna sepolcrale erosa dal
tempo, quando, soo un’arcuata pusterla, sormontata da uno di quei
demoni groeschi a bassorilievo di cui si compiace la fantasia cinica e
sperale del gotico arcaico, m’apparve il bel volto e la figura di Carmilla
che stava entrando nella penombra della cappella.
Stavo per alzarmi e andarla a salutare e già annuivo in risposta al suo
araente sorriso, allorché, geando un grido, il generale che mi stava
vicino agguantò la scure del boscaiolo e le si buò contro. Appena lo vide
il suo volto subì un’orribile metamorfosi che si compì repentina, mentre
arretrava contraendosi in se stessa. Non ebbi il tempo di geare nemmeno
un grido, che il generale le s’avventò addosso con tua la foga possibile,
ma lei schivò il colpo e, illesa, gli afferrò il polso con l’esile mano. Il
generale tentò di svincolare il braccio, ma alla fine dovee aprire la mano
e lasciar cadere la scure, mentre la fanciulla scompariva.
Allora s’addossò alla parete in preda alle vertigini, i capelli grigi irti sul
capo, il volto madido di sudore come se fosse sul punto di morire.
ell’orribile scena s’era svolta in un baleno. Di quel che seguì ricordo
Madame che, in piedi davanti a me, non si stancava di ripetere:
– Dov’è Mademoiselle Carmilla?
Alla fine riuscii a risponderle:
– Non so… è uscita di là, – e additai la porticina da cui era appena
entrata Madame, – proprio ora.
– Ma se sono rimasta sulla soglia fin da quando Mademoiselle Carmilla
è entrata, e non l’ho rivista tornare indietro.
indi si mise a chiamare insistentemente:
– Carmilla, Carmilla… – araverso le porte, il corridoio e dalle finestre,
senza ricevere risposta.
– Diceva di chiamarsi Carmilla? – chiese il generale ancora in preda
all’agitazione.
– Sì, Carmilla, – risposi.
– E già, – disse lui, – sarebbe a dire Millarca, cioè la medesima persona
che tanto tempo fa si chiamava Mircalla, contessa di Karnstein. Fuggite
subito da questo luogo maledeo, mia povera bambina, più in frea che
potete. Prendete il calesse e fatevi condurre alla casa del prete e non
muovetevi fino al nostro ritorno. Andate, andate! E che non possiate
rivedere Carmilla mai più. i non la troverete.
Ordalia ed esecuzione

Mentre parlava il generale, dalla porticina da cui era sparita Carmilla


entrò un uomo stranissimo, quale non avevo mai visto: uno
spaventapasseri nero, allampanato, cui le spalle alte e ingobbite sullo
smilzo torace conferivano un aspeo inconfondibile. Aveva il volto
segaligno, raggrinzito e solcato da rughe profonde; in testa un copricapo
inconsueto, a larghe falde; i capelli lunghi e grigi gli ricadevano sulle
spalle. Inforcava un paio d’occhialini d’oro e camminava lemme lemme,
con un’andatura strascicata e bislacca, talora levando il volto al cielo,
talaltra reclinandolo verso terra con sulla bocca un sorriso perpetuo,
imperturbabile. Ai fianchi gli ciondolavano le lunghe, esili braccia, inerti,
ma un’interiore vitalità gesticolante e distraa gli muoveva le mani
scarnite, affogate in un paio di guanti neri e consunti, troppo grandi per
loro.
– È proprio lui! – esclamò il generale andandogli incontro pieno di
speranza. – Mio caro barone, come sono felice di vedervi! Non pensavo di
incontrarvi così presto. – Poi, indicando mio padre che era rientrato
proprio allora nella cappella, condusse verso di lui quel vecchio ed
eccentrico gentiluomo a cui s’era rivolto con l’appellativo di barone. Furon
fae le presentazioni e tui e tre cominciarono a discutere animatamente.
Il forestiero estrasse dalla tasca un rocchio di pergamena che fece srotolare
sulla superficie levigata, dal tempo d’una tomba vicina, poi cominciò a
tracciare linee immaginarie da un punto all’altro con un mozzicone di
matita. Capii che doveva essere la pianta della cappella, poiché tui e tre
alzavano di tanto in tanto lo sguardo dalla pergamena per fissare dal vivo
ora questo ora quel punto di riferimento. Il barone interpolò questa
lezione, se così posso dire, con la leura di alcuni brani d’un libriccino
bisunto le cui pagine ingiallite erano coperte da una scriura fiissima.
Continuando a parlare fra loro, s’inoltrarono lungo la navata laterale,
dalla parte opposta di dove ero rimasta. Poi cominciarono a prendere le
misure a passi e, alla fine, si fermarono dinnanzi ad un trao del muro
perimetrale e cominciarono a fare una minuziosa ricognizione, staccando i
peduncoli dell’edera che vi s’era abbarbicata, saggiando l’intonaco con la
punta delle loro giannee, scalcinando da una parte e baendo dall’altra.
Alla fine accertarono che soo doveva esserci una grande lastra tombale,
di marmo, con delle iscrizioni incise.
Con l’aiuto del boscaiolo, che nel fraempo era tornato, portarono alla
luce un epitaffio monumentale sormontato da uno stemma a rilievo:
entrambi stavano a dimostrare che quello era il sepolcro di Mircalla,
contessa di Karnstein, la cui ubicazione era ignota da tempo.
Allora vidi il vecchio generale, che pure non m’era mai sembrato molto
devoto, levare le mani e gli occhi al cielo per qualche istante, assorto in
ringraziamento. Poi sentii che diceva:
– Domani verrà il commissario e avrà luogo l’inquisizione, come vuole
la legge.
indi, rivolgendosi al vecchio dagli occhiali d’oro, gli strinse le mani
calorosamente dicendogli:
– Come posso ringraziarvi, barone? E come posso ringraziare voi tui?
Siete stati voi a liberare queste terre da una pestilenza che per più d’un
secolo ha infierito sui suoi abitanti.
Mio padre prese da parte il forestiero e il generale li seguì. Sapevo che li
aveva portati distante per potere illustrare il mio caso senza che io
sentissi, ed infai m’accorsi che ogni tanto si voltavano a guardarmi.
Poi il babbo mi raggiunse, mi baciò più volte e, sortendo dalla cappella,
mi disse:
– È ora di tornare a casa, cammin facendo passeremo a prendere il prete
che vive non lontano da qui e dobbiamo convincerlo a venire con noi allo
schloss.
Fummo fortunati perché il sacerdote acconsentì ed io fui contenta di
andare a casa, esausta com’ero; ma quando scopersi che di Carmilla non si
sapeva più nulla, rimasi sgomenta. Di quanto era successo nella cappella
semidiruta non ci fu verso di ricevere spiegazioni, dal che arguii che il
babbo voleva conservare il segreto, almeno per il momento.
La sinistra assenza di Carmilla rese ancor più orrendo il ricordo di
quella scena. Inoltre le disposizioni prese per la noata furono veramente
inconsuete: in camera mia sarebbero restate a vegliare due fantesche e
Madame, mentre mio padre ed il prete sarebbero rimasti di guardia nel
prospiciente spogliatoio. Il prete compì riti di una liturgia solenne di cui
non capii lo scopo, più di quanto avessi compreso la ragione delle
straordinarie precauzioni adoate per proteggermi durante il sonno.
Mi sarebbe stato tuo chiaro pochi giorni appresso. La conseguenza
immediata della scomparsa di Carmilla fu che le mie sofferenze nourne
ebbero una pausa.
Penso che avrete sentito parlare della terrificante superstizione, così
dobbiamo chiamarla, del vampiro, diffusa soprauo nell’Alta e nella
Bassa Stiria, in Moravia, Slesia, Serbia turca, in Polonia e perfino in Russia.
È difficile negare o porre in dubbio l’esistenza del fenomeno dei vampiri,
se si riconosce un qualche valore probatorio alla testimonianza umana,
specie quando è resa con ogni scrupolo e soo giuramento solenne, con
rito giudiziario, di fronte a innumerevoli commissioni, ognuna delle quali
composta di membri scelti per la loro integrità e la perspicacia, che hanno
avuto il merito di lasciarci gli ai forse più voluminosi di quelli esistenti
per qualsiasi altro genere di casi.
Da parte mia non ho mai udito una teoria che possa spiegare ciò che io
stessa ho visto e provato sulla mia carne, se si esclude l’arcaica e
ampiamente aestata credenza popolare.
Il giorno dopo ebbe luogo il procedimento formale nella cappella dei
Karnstein: la tomba della contessa Mircalla venne aperta e il generale e
mio padre poterono riconoscere, nel volto riportato alla luce, il sembiante
della loro bella e perfida ospite. Per quanto fosse trascorso un secolo e
mezzo dal suo funerale, le sue faezze non solo erano intae, ma
lasciavano trasparire il colorito e il tepore della vita. Aveva gli occhi aperti
e non s’avvertiva traccia di quel fetore che alimenta la turpitudine della
bara.
I due doori, l’uno medico legale, l’altro in rappresentanza del giudice,
aestarono il fao prodigioso che sussisteva un respiro flebile ma
perceibile ed una corrispondente aività cardiaca. Le membra erano
perfeamente flessibili e la carne aveva mantenuto la sua elasticità, inoltre
la cassa di piombo era inondata di sangue dove giaceva immerso il corpo
di lei per la profondità di circa un palmo: c’erano dunque i segni
inequivocabili e le prove del vampirismo. Seguendo pertanto le antiche
usanze, il corpo fu rimosso e un paleo acuminato venne conficcato nel
cuore del vampiro il quale geò un urlo lacerante, quale accade che emea
un vivente nello spasimo della morte. E poi fu spiccata la testa dal busto e
un copioso fioo di sangue zampillò dal collo reciso. Sia il corpo che la
testa vennero geati in una pira e ridoi in cenere e la cenere dispersa
sulle acque del fiume che la portò via nel suo corso. Da quel giorno la zona
è immune dalla peste dei vampiri.
Una copia del rapporto della Commissione Imperiale, controfirmata dai
testimoni oculari, è in possesso di mio padre. Da quel documento ho trao
in sintesi la descrizione di questa ultima scena sconvolgente.
Conclusione

Voi crederete ch’io abbia scrio tuo questo con animo sereno, mentre
il solo pensiero di quanto successe mi mee in uno stato d’agitazione. Solo
il vostro acceso desiderio e la pressante sollecitazione hanno potuto
spingermi a questa rievocazione che mi ha distruo per mesi e mesi il
sistema nervoso e ha resuscitato un’ombra di quell’indicibile orrore che
per anni, dopo la mia liberazione, ha continuato a rendere angosciosi i
miei giorni, spaventose le noi e terrificante la solitudine oltre ogni
umana sopportazione.
Vorrei solo aggiungere qualche parola a proposito del bizzarro barone
Vonderburg, alla cui conoscenza antiquaria delle tradizioni locali
dovemmo la scoperta del sepolcro della contessa Mircalla.
S’era da tempo sistemato a Graz, vivendo d’una rendita magra, non più
che una briciola delle proprietà principesche che gli avi suoi avevano
posseduto nell’Alta Stiria, dedicandosi alla minuziosa e sfibrante indagine
sulle tradizioni del vampirismo, prodigiosamente autenticate. Aveva una
padronanza assoluta di tui i lavori, grandi e piccoli, dedicati
all’argomento: Magia Posthuma, Phlegon de Mirabilibus, Augustinus de
Cura pro Mortuis, Philosophicae et Christianae Cogitationes de Vampiris di
John Christofer Herenberg e di mille altri, fra cui ricordo alcune delle
opere che dee in prestito a mio padre. Aveva anche una voluminosa
raccolta compendiaria di tui i casi giudiziari, dalla quale aveva dedoo
un sistema di principi che sembravano essere alla base della condizione del
vampiro, principi costanti per alcuni, occasionali per altri. Mi limiterò a
ricordare solamente che il pallore cadaverico aribuito a questa sorta di
revenants, altro non è che una messinscena. ando è nella bara o si
ostenta agli altri, il vampiro ha una bella cera, propria di chi è in buona
salute. ando poi si scoperchiano le loro casse, mostrano quei sintomi
che vennero catalogati come segni di vitalità vampiresca nella contessa di
Karnstein, morta da tanto tempo.
Non si è mai riusciti a spiegare come riescano a sgusciar fuori dalle loro
tombe e a ritornarvi ogni giorno per qualche ora, senza rimuovere la malta
o lasciar tracce di manomissione sulla cassa e nel sudario. La duplice
esistenza del vampiro trae sostentamento dal quotidiano sonno nella bara.
Il vampiro tende ad essere affascinato da particolari persone per le quali
avverte un trasporto straordinario, simile alla passione amorosa. Pur di
possedere le proprie viime, dimostra una pazienza certosina e
un’inventiva prodigiosa, poiché l’accesso ad una data persona gli può
essere impedito in cento modi. Non desiste finché ha saziato la sua
ingorda passione ed ha prosciugato la vita della persona agognata. In
questi particolari casi amministra e protrae il suo piacere deliuoso con la
raffinatezza di un epicureo e lo rende via via più intenso con gli approcci
graduati di un corteggiamento abilissimo, al culmine dei quali sembra
perfino anelare ad una qualche forma di corresponsione. Nei casi ordinari,
invece, tira drio al suo scopo, sopraffa la viima con la violenza, la
strangola e ne fa l’oggeo di un unico mortale festino.
Si dice che in certi casi il vampiro sia condizionato da particolari
restrizioni. Nel caso che vi ho narrato, Mircalla sembrava dover limitarsi
ad usare un nome che, se non fosse stato il suo, del suo doveva essere
l’anagramma, senza l’aggiunta o l’omissione di una leera: Carmilla,
appunto, e Millarca.
Il babbo narrò al barone Vonderburg, che si traenne da noi per due o
tre seimane dopo la eliminazione di Carmilla, la storia del nobile moravo
e del vampiro, accaduta nel camposanto di Karnstein. Poi gli chiese come
fosse riuscito a scoprire l’esaa ubicazione della tomba della contessa
Mircalla che era stata occultata da tanto tempo. I lineamenti del barone si
raggrinzirono in un sorriso da maschera groesca, elusivo e misterioso,
poi osservò l’astuccio consunto degli occhiali che si rigirava fra le mani,
alzò gli occhi e disse:
– Possiedo molti diari e altri documenti di quell’uomo eccezionale: il più
curioso è uno che traa delle visite che fece a Karnstein e di cui mi avete
parlato. La tradizione, lo sappiamo bene, sbiadisce e distorce la realtà.
Poteva essere considerato un nobiluomo moravo, poiché si era trasferito in
quella regione ed era veramente di nobili natali, anche se era originario
dell’Alta Stiria dove era nato. Basta poi dire che da giovane era stato
l’amante appassionato e il favorito della bella Mircalla, contessa di
Karnstein. Ma la scomparsa prematura di lei lo aveva geato in un dolore
inconsolabile. È nella natura dei vampiri crescere e moltiplicarsi secondo
una ben determinata legge dei fantasmi. Consideriamo ad esempio un
territorio immune da questa pestilenza: come si manifesta e si diffonde un
simile fenomeno? Ve lo dirò subito: accade che un tale, più o meno
malvagio, ponga fine ai suoi giorni; in certe circostanze un suicida può
diventare un vampiro; il vampiro comincia a far visita ai vivi immersi nel
sonno; questi muoiono e quasi sempre, nella loro tomba, diventano a loro
volta vampiri. È quanto successe nel caso della bellissima Mircalla, che era
stata viima di uno di questi demoni. Fu una scoperta del mio antenato,
barone Vonderburg, da cui ho ereditato il titolo, il quale s’imbaé anche in
altri particolari nel corso degli studi a cui s’era dedicato. Dedusse fra
l’altro che, prima o poi, si sarebbe finito per sospeare di vampirismo la
contessa defunta che, in vita, aveva amata intensamente. Fu terrorizzato al
pensiero che, se Mircalla fosse veramente risultata quello che poteva
essere, i suoi resti sarebbero stati profanati e oltraggiati da un’esecuzione
postuma. Ha lasciato una curiosa operea per dimostrare che, quando si
sorae al vampiro la sua duplice esistenza, questi precipita in una
condizione più terribile. Per questo decise di sorarre l’amato bene a
questa sorte infame. Adoò quindi il trucco di un viaggio in questa terra e
finse di rimuovere i resti della donna, mentre in realtà ne occultò il
sepolcro. ando tuavia diventò vecchio e, a distanza di anni, guardò
con occhi diversi quanto aveva compiuto e il pericolo che avrebbe lasciato
dietro di sé, ne provò disgusto ed orrore. Forse tentò di fare qualche cosa
per riparare, ma la morte glielo impedì. Sarebbe stata quindi la mano di un
suo discendente lontano a concludere l’opera rintracciando, anche se
troppo tardi per molti, la tana della bestia.
Restammo ancora a conversare e, fra le altre cose, aggiunse anche
questo:
– Uno dei segni che contraddistinguono un vampiro è la forza della
mano. La mano esile di Mircalla serrò il polso del generale come una
morsa di acciaio quando questi sollevò l’accea per calare un fendente.
Una forza che non si limita alla presa, essa infai lascia nell’arto un
torpore paralizzante dal quale ci si riprende, e non sempre, solo con il
trascorrere del tempo.
La primavera successiva il babbo mi condusse a fare un viaggio in Italia
e restammo via per oltre un anno. Ci volle molto tempo prima che il
terrore dell’accaduto cominciasse a dileguarsi. Perfino oggi l’immagine di
Carmilla mi si riaffaccia talora alla memoria in ambiguo sembiante… ora è
la gaia fanciulla, adorabile nel suo languore, ora il demone fremente che
vidi nella cappella diruta, e spesso mi capita di ridestarmi all’improvviso
da un sogno con l’idea di sentire dinnanzi alla porta del soggiorno il passo
felpato di Carmilla.
Gli anagrammi nel sangue
di
Ailio Brilli
Un personaggio può sopravvivere allo scacco del tempo fin quando
riesca, anagrammando il proprio nome, a elaborare identità fiizie sempre
diverse: questa è l’idea centrale del romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu.
L’anagramma è la cifra del sangue che, in analogia con il nome, assicura
una relativa incorruibilità fisiologica al personaggio e, al narratore, un
modo per eludere leggi fisiche e verosimiglianza narrativa. Per altro verso
esso è anche un limite, soo forma di rebus, posto alla fuga nel
meraviglioso puro.
Infai quello che distingue Carmilla dagli altri romanzi tardo-gotici
dell’autore, e dalla copiosa messe di ghost stories vioriane, è proprio
questo ricorso al gioco combinatorio come dominio soilmente ironico di
una materia narrativa irrazionale ed emotiva. Gli stessi travestimenti, le
dissimulazioni, il ballo in maschera, altro non sono che la messinscena, la
traduzione romanzata di questo artificio e di una curiosità linguistica che
affiora, anch’essa travestita, in vari aspei del romanzo.
Ad una soile ironia metanarrativa corrisponde in particolar modo
l’elaborazione della categoria romantica del doppelgänger, o
dell’inquietante comparsa del doppio: Carmilla non è infai solo la
reincarnazione anagrammatica di Millarca e di Mircalla nella serie
demoniaca; ella è anche l’altro da sé della protagonista, l’estroflessione
della parte segreta ed inconscia, il fantasma che, nato dal suo sangue, non
può che alimentarsi di esso, quasi a far trasparire ad un leore meno
succube del sobrio apparato di terrori, la trama di una crisi d’identità o
della scissione del personaggio sulla soglia della maturazione. E quale
credenza, meglio del vampirismo, poteva tradurre alla leera la loa che si
scatena nel sangue della giovane protagonista, relegata in un romitorio di
fate e di gnomi bonari, premonendone il terribile destino di creatura
malinconica, gradualmente soraa alla vita e lasciata defluire in un
mondo di fantasmi? Che Laura e Carmilla siano il fruo della
decomposizione psicologica di uno stesso personaggio, in sé complesso e
contraddiorio, non è solo aestato dalla medesima età delle due ragazze,
ma soprauo dal fao che nelle loro vene scorre lo stesso sangue, come
lascia intendere l’agnizione del ritrao. La loa con l’altro da sé non può
allora concludersi che in termini manichei, nell’annientamento di una
delle parti confliuali, come unico mezzo per auare il superamento della
fase iniziatica. Proprio per questo Carmilla è protesa a incorporare Laura
in un mondo di fantasmi; mentre questa ultima potrà liberarsi dalle
allucinazioni e riappropriarsi della realtà solo con l’aiuto del ferro e del
fuoco della legge del mondo adulto.
La minacciosa insidia di Carmilla è sviluppata da Le Fanu con soile
perversità. In un mondo ove la rimozione sessuale è categorica – gli unici
personaggi maschili del romanzo hanno superato la soglia della vecchiaia
– e dove l’oggeo del desiderio può essere solo una proiezione
fantasmatica, Laura cade in balia, inconsapevolmente, di una vera e
propria sindrome dell’umor malinconico o, se si preferisce, di quella
perversione del desiderio che si rende inaccessibile il proprio oggeo nel
tentativo di garantirsi dalla sua perdita. E allorché il mondo esterno è
narcisiticamente negato dal malinconico, il fantasma riceve da questa
negazione un principio di realtà che lo proiea in una dimensione
intermedia fra l’amore di sé e la scelta oggeuale esterna. Carmilla è allora
il fantasma che nasce da questa ipertrofia dell’immaginazione che connota
l’umor nero e che assolve ad un’ambigua gratificazione e al desiderio di
punizione. Carmilla rappresenta infai l’eros malinconico che distrugge
incorporandolo l’oggeo perduto, identificato narcisiticamente con la
persona della protagonista, araverso un processo che regredisce alla fase
orale o cannibalica (il vampirismo appunto) della libido.
Una simile perversione è, seppure motivata, inconciliabile con il buon
mondo asburgico di vecchi funzionari a riposo. Per questo aributi ed
aspei contraddiori dell’eroina vengono disseminati fra due personaggi
diversi, seppure intimamente collegati. Solo così la loro confliualità
diventa narrativamente funzionale e persino inedita: perché fra l’eroina e
il suo doppio vive e si sviluppa un rapporto scopertamente lesbico, fao di
arazione e di repulsione, di amore come fuga inconscia verso la morte,
un rapporto con il vampiro che brucia in anticipo sviluppi e risorse di un
filone in gran parte a venire, se si pensa che il romanzo di Le Fanu anticipa
di qualche anno lo stesso Dracula di Bram Stoker.
Preannunciata dai famosi versi di Shakespeare sulla malinconia (un
segno in codice per il leore?), l’eroina della noe e della gelida terra
introduce la tematica del malinconico, radicata in profondo nella
leeratura inglese, e con esso il riverbero di quelle cronache psichiatriche
dell’epoca, in cui i casi di vampirismo e di cannibalismo venivano di
norma assimilati a forme di malinconia. Né si dimentichi a tale proposito
che il pretesto del romanzo è costituito dal riordinamento di casi clinici di
un fantomatico neurologo. E l’umor nero di Carmilla dimostra una fedeltà
sorprendente al proprio statuto ambivalente e contraddiorio, erotico e
luuoso, in cui il malinconico aspira ad incorporare l’oggeo del desiderio
divorandolo o, nella faispecie, suggendone il sangue. In questo senso il
vampiro altri non è che una maschera di un atavico personaggio
saturnino, arido e freddo, letargico e lussurioso, in avida incea del tepore
vitale; reviviscenza, soo le spoglie di una superstizione divenuta di gran
moda con i romantici, auspici Byron e il Dr. Polidori, di un modello
culturale riutilizzato dai vioriani per esorcizzare ed espellere il mostro,
sia esso Mr. Hyde o Carmilla. Che poi al fantasma da annientare venga
allegata una cultura altra rispeo ai fondamenti ideologici di un’eroina di
salde virtù vioriane, rientra nella strategia narrativa del doppio: dal
disprezzo della ritualità funebre nell’epoca che sancisce il rigoglio della
retorica mortuaria, al materialismo illuministico delle cui citazioni è
costellato il romanzo, allo scoperto ateismo di chi si ribella alla morte,
all’unica morte, del corpo. Ma è soprauo la figura stessa di Carmilla a
catalizzare quanto di torbido ed insieme di fascinoso è in una tradizione
dell’iconologia femminile che, araverso i modelli della Geraldine di S. T.
Coleridge e della Berenice di E. A. Poe, risale alla languida accidia
medievale. La spossata, ieratica indolenza di Carmilla, la sua stessa
sterilità saturnina, l’avidità sanguinaria, costituiscono i tipici connotati
negativi (condensati nell’idolatria decadente della lesbica), che insidiano
l’ideale etico vioriano della donna materna e produiva.
Un romanzo breve che, se leo con un orecchio agli impliciti che ne
solcano la compaezza, tende a controbilanciare la fuga a ritroso
nell’abisso della nostalgia e dell’irrazionale, tipica della ripresa neogotica
vioriana, con una imperceibile ironia che non solo dichiara i propri
idoli, aprendo così uno spiraglio sul doppio registro del testo, –
interessante una quasi parafrasi nel capitolo Una strana sofferenza
dell’Incubo di J. H. Fuseli – bensì giunge a perforare l’umbratile atmosfera
del romanzo e il suo incantamento emotivo con un paradosso che, da solo,
sarebbe bastato a ridurre al livello di parodia un testo meno denso di
significati: che è poi quello in cui il vampiro è minacciato dal suo
antagonista più ovvio… il cavadenti!

A. B.

Notizia sull’autore

Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873), visse quasi ininterroamente nella natale Dublino. Il
padre, cappellano militare, proveniva da una famiglia francese di ugonoi, mentre la madre era una
direa discendente del drammaturgo Richard Brinsley Sheridan. Laureato in legge, preferì dedicarsi
al giornalismo, divenendo comproprietario di alcune testate dublinesi, e alla leeratura. Autore
prolifico di circa quaordici romanzi e di una trentina di racconti, degno di nota fra i primi Uncle
Silas e la silloge In a Glass Darkly fra i secondi, fu predileo nel mondo vioriano come scriore di
ghost stories. Collaborò ai maggiori giornali britannici, da «Temple Bar» a «All the Year Round» di
Dickens. Alcuni suoi racconti furono illustrati da Phiz, il mago dei vigneisti dell’epoca. Fine
antiquario e appassionato cultore di leggende, questo «Irish Poe» finì per diventare egli stesso
parte integrante di un certo mondo britannico, come già osservava Henry James nel suo racconto
e Liar: «Sul comodino c’era l’immancabile volume di Le Fanu, leura ideale in una dimora di
campagna per le ore dopo la mezzanoe».
Indice

Carmilla

Prologo
Uno spavento premonitore
Un’ospite
Ricordi a confronto
Le sue abitudini. Una passeggiata
Una prodigiosa somiglianza
Una strana sofferenza
Verso l’abisso
La ricerca
Il doore
Una perdita
Il racconto del generale
Una petizione
Il boscaiolo
L’incontro
Ordalia ed esecuzione
Conclusione

Gli anagrammi nel sangue


di Ailio Brilli

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