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12
Joseph S. Le Fanu
Carmilla
Traduzione e nota di
Ailio Brilli
Sellerio editore
Palermo
1980 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
e-mail: info@sellerio.it
www.sellerio.it
EAN 978-88-389-0174-4
Carmilla
Prologo
* Il door Martin Hesselius è il fantomatico neurologo di vecchio stampo (rispeo alla coeva
tradizione positivistica), curioso e onnisciente, di cui l’autore finge di riordinare le carte trovandovi
ampia ed eccentrica materia per i romanzi brevi e i racconti raccolti soo il titolo di In a Glass
Darkly (Londra, Bentley, 1872), e di cui Carmilla costituisce il pezzo di chiusura.
Uno spavento premonitore
Passo ora a narrarvi una vicenda la cui stranezza meerà a dura prova
la vostra fiducia nella veracità del mio racconto, veracità non solo verbale,
comunque, ma suffragata dalla mia posizione di testimone oculare.
Era una languida serata d’estate e mio padre mi chiese, come spesso
accadeva, di accompagnarlo in una breve passeggiata al limitare della
radura da cui si godeva una stupenda vista del bosco che, come ho già
deo, s’apriva a ventaglio di fronte al castello.
– Il generale Spielsdorf verrà più tardi del previsto – disse mio padre
passeggiando.
Costui avrebbe dovuto farci visita e restare da noi per qualche seimana
e lo aendevamo per il giorno appresso. S’era d’accordo che avrebbe
condoo con sé Mademoiselle Rheinfeldt, la giovane nipote della quale era
anche tutore, che non conoscevo, ma che pure mi era stata descria come
una fanciulla incantevole e con la quale avevo sperato di trascorrere giorni
felici. Per chi vive in cià o in mezzo a vicini chiassosi è difficile
immaginare la mia delusione cocente. Per intere seimane avevo sognato
di questa visita e della conseguente promessa d una nuova conoscenza.
– E quando verrà allora? – gli chiesi.
– Fra un paio di mesi, e non prima dell’autunno, temo – rispose mio
padre. – E sono contento che tu non abbia conosciuto Mademoiselle
Rheinfeldt.
– E perché mai? – gli domandai incuriosita e spiaciuta ad un tempo.
– Perché la poverina è morta – rispose. – M’ero scordato di dirtelo, ma
quando stasera è arrivata la missiva del generale non c’eri.
Rimasi sgomenta, tanto più che il generale, sebbene in una leera di
qualche seimana prima avesse alluso a certi malesseri della nipote, non
aveva fao trapelare il minimo allarme.
– Ecco il plico del generale – disse mio padre porgendomelo. – Temo
che sia al colmo della disperazione. Dalla leera sembra che abbia scrio
in preda alla follia.
Ci sedemmo su un sedile rustico, soo un boscheo di magnifici tigli. Il
sole calava oltre l’orizzonte della selva nel malinconico splendore del
tramonto. Il rivo che fluiva accanto alla nostra dimora e soo il ponte
ripido e annoso, veniva fin quasi a lambire i nostri piedi, abbracciando fra
le sue liquide spire gli alberi alteri e specchiando sull’acqua il vanire
cremisi del cielo. La leera del generale Spielsdorf era così strana,
impetuosa e in vari punti perfino contraddioria, che sebbene la rileggessi
due volte, la seconda a voce alta a mio padre, non riuscii a darmene una
ragione se non aribuendola ad una mente sconvolta dal dolore. Essa
diceva: «Ho perduto colei che amavo al pari d’una figlia. Negli ultimi
giorni di malaia della cara Berta non ce l’ho faa a scrivervi, e prima non
avevo il minimo sospeo del pericolo che incombeva su di lei. L’ho persa e
solo ora che è troppo tardi ho capito. È spirata nella pace dell’innocenza e
nella speranza di un futuro radioso. È opera di quel demone che ha tradito
la nostra ospitalità munifica. Credevo d’avere accolto soo il mio teo una
dolce compagna per la mia Berta e con essa l’innocenza e la gaiezza in
persona. Dio mio, che pazzo sono stato! Ringrazio il Cielo che la mia
bambina è morta ignorando la causa delle sue sofferenze. Se n’è andata
senza avere avuto il tempo di comprendere la natura del male e la foga
maledea di chi ha causato tale sciagura. Consacro i giorni che mi restano
a braccare e distruggere un mostro. Mi hanno deo che ho qualche
speranza di portare a compimento un’impresa giusta e misericordiosa,
anche se al momento mia unica guida è un vago baluginare. Maledico la
mia vanità di incredulo, la sicumera sciocca e presuntuosa, la cecità,
l’ostinazione… tuo… troppo tardi. Parlo e scrivo in modo sconnesso ora,
né posso fare altrimenti. Sono fuori di me. Appena mi sarò un po’ ripreso,
conto di dedicarmi a questa ricerca che forse mi condurrà lontano, fino a
Vienna, chissà. Forse in autunno, fra due mesi o anche prima, se mi è
concesso vivere, vi farò visita… se vorrete permeermelo, e allora vi
narrerò quanto al momento non oso affidare ad un foglio. Addio. Pregate
per me, caro amico».
Il sole era ormai tramontato ed eravamo immersi nel crepuscolo,
quando porsi a mio padre la leera del generale.
Era una sera tersa e mite e noi stavamo a lambiccarci il cervello sui
molteplici sensi di quelle frasi irruenti, quasi recuperate a caso. S’era ad un
miglio dalla strada che passa dinnanzi al castello, la luna splendeva
luminosa. Vicino al ponte levatoio vedemmo Madame Perrodon e
Mademoiselle De Lafontaine che erano sortite di casa, senza le loro cuffie,
a godersi quell’incantevole chiarore lunare. Il brusio delle loro voci
impegnate in un animato dialogo ci veniva incontro da lontano e, quando
giungemmo al ponte, anche noi ci unimmo ad esse per ammirare insieme
quella scena superba.
Di fronte a noi si stendeva la radura che avevamo appena traversato. A
manca la strea vioola svolgeva il suo corso serpigno fra chiazze di
piante maestose soraendosi alla vista nell’imminenza frondosa del bosco.
A ria la medesima via araversa il ponte gibboso in prossimità del quale
s’erge una torre mozza, un tempo occhiuta sentinella del passo, e oltre il
ponte s’inarca un’altura scoscesa coperta dagli alberi, ma non senza
ostentare nell’ombra i denti di roccia felpati d’edera e di muschio. Sulla
piana erbosa aleggiava una pellicola di foschia, una bava di fumo che
meeva in risalto le distanze araverso quella trasparenza velare, e con
esse il guizzo lontano del fiume animato dalla luna.
Non si può immaginare scena più dolce e sublime. Le notizie che
avevamo ricevute le conferivano un alone di malinconia, ma nulla poteva
offuscare la serenità profonda, lo splendore incantato, la vaghezza di
quella vista. Con mio padre, che era affascinato ogni volta da quel
panorama, stavamo in estatico silenzio a rimirare la distesa che s’apriva al
nostro sguardo. Le governanti si tenevano un po’ dietro di noi,
chiacchierando del paesaggio e della luna in particolare. Madame
Perrodon era una donna di mezza età, grassoccia, dal l’indole romantica
che la portava spesso a sospirare e a parlare con accenti poetici.
Mademoiselle De Lafontaine, che pretendeva d’avere ereditato dal padre
tedesco una certa inclinazione alla psicologia, alla metafisica e ad una
buona dose di misticismo, sentenziava che quando la luna risplende di luce
così intensa esplica una straordinaria influenza sullo spirito. Gli effei
della luna piena, al colmo del suo lucore, sono molteplici. Essa agisce sui
sogni, sulla follia, sul sistema nervoso di esseri fragili ed ha prodigiose
influenze connesse con la vita. Raccontava che un suo cugino, ufficiale in
seconda in un brigantino, assopitosi sopra coperta in una noe come
questa, in posizione supina e con il volto esposto ai raggi lunari, s’era
svegliato, dopo aver sognato d’una vecchia che gli afferrava una guancia,
con la faccia sfigurata da un’orribile smorfia e che da allora non aveva più
recuperato la naturale simmetria del volto.
– esta noe la luna – ella disse – è satura di magnetismo e di influssi
odiliaci… Guardate il prospeo del castello dietro di noi, le finestre
riverberano un argenteo splendore come se mani invisibili avessero
illuminato le stanze per ricevere ospiti fatati.
Ci sono momenti in cui quel languore dello spirito, che ci rende
riluanti a parlare, s’abbandona dolcemente alla nenia della conversazione
degli altri, e così volsi lo sguardo al castello sedoa dal suono di quelle
parole.
– esta noe mi sento depresso – disse dopo un aimo di silenzio mio
padre e, citando Shakespeare, che aveva l’abitudine di declamare sovente
per tenere vivo l’uso della nostra lingua, proseguì:
– In vero non so perché son così triste, / sento che m’opprime, tu dici che
t’opprime, / ma come m’abbia preso… è venuto da sé… Il resto l’ho
dimenticato. Ma è come se qualche sciagura aleggi su di noi; credo che
dipenda dalla leera funesta del generale.
In quel preciso istante il rumore per noi desueto delle ruote di una
carrozza e di molteplici zoccoli arasse la nostra aenzione verso la
strada. Sembrava venire dall’altura che sovrasta il ponte e ben presto,
proprio da quella parte, spuntò l’equipaggio. Due cavalieri araversarono
il ponte per primi, poi fu la volta d’un cocchio con un tiro a quaro,
scortato da altri due cavalieri.
Sembrava la carrozza da viaggio d’un personaggio importante e noi
restammo ammaliati da quell’inusitato speacolo. In capo a pochi secondi
la nostra aenzione si fece spasmodica perché, non appena la carrozza
ebbe superato la gobba del ponte, il cavallo di testa s’imbizzarrì
contagiando i compagni: dopo uno o due strappi l’intero equipaggio si
slanciò in un galoppo sfrenato e, passando come una saea in mezzo ai
due cavalieri, si precipitò col fragore del tuono e la velocità dell’uragano
sulla strada che veniva verso di noi. Grida femminili provenienti dal
finestrino della carrozza rendevano più drammatica quella scena
tumultuosa. Ci lanciammo in avanti sospinti dalla curiosità e dall’orrore,
mio padre ammutolito, le altre strillando di spavento.
Non restammo a lungo con il fiato sospeso. Poco prima di arrivare al
ponte levatoio da un lato della strada c’è un tiglio secolare e dall’altro
un’antica croce d’arenaria: alla vista della croce i cavalli che correvano
all’impazzata scartarono improvvisamente, mandando le ruote della
carrozza a urtare contro le radici dell’albero che sporgevano dal terreno.
Sapevo ormai cosa sarebbe successo; mi tappai gli occhi e girai la testa
incapace di guardare e nello stesso momento sentii le urla delle governanti
che erano andate più oltre.
Riaprii gli occhi per la curiosità e vidi una scena confusa: due cavalli
scalcianti per terra, la carrozza rovesciata su un fianco con due ruote per
aria, i postiglioni intenti a sbrogliare i finimenti, una gentildonna
dall’aspeo e dai modi autoritari in piedi a mani giunte che si portava di
tanto in tanto agli occhi un fazzoleo. Dallo sportello estrassero una
giovane che sembrava priva di vita. Il mio vecchio padre era già accanto
alla signora più anziana e, con il cappello in mano, le offriva il suo aiuto e
l’ospitalità del castello. Non sembrava che la signora lo ascoltasse, protesa
com’era verso l’esile fanciulla che veniva deposta sulla proda del fosso.
Mi avvicinai anch’io. La giovane era svenuta, ma sicuramente in vita.
Mio padre, che aveva sempre avuto il pallino della medicina, le aveva già
tastato il polso e stava rassicurando la signora, che aveva deo di essere
sua madre, che il baito si sentiva ancora, per quanto fievole e irregolare.
La signora le strinse le mani e volse in alto lo sguardo in un improvviso
slancio di gratitudine, ma poi riprese a recitare in modo melodrammatico
come viene naturale, credo, a molta gente.
Era quella che si dice una signora di bell’aspeo per la sua età e in
gioventù doveva essere stata molto bella. Alta e non troppo soile,
indossava un abito di velluto nero e sembrava piuosto pallida, ma con il
piglio orgoglioso di chi sa incutere rispeo, sebbene fosse scossa da una
strana inquietudine.
– Chi è mai stata più sciagurata di me? – sentii che esclamava,
giungendo le mani mentre mi avvicinavo. – Eccomi nel bel mezzo di un
viaggio vitale, dove perdere un’ora può significare la rovina di tuo… E
chi sa quando la mia bambina avrà forze sufficienti per riprendere il
cammino. Devo lasciarla, non posso correre il rischio di arrivare in ritardo.
anto dista, signore, il villaggio più vicino? Devo separarmi da lei e non
la rivedrò, né avrò sue notizie fino al mio ritorno, di qui a tre mesi.
Tirai mio padre per la giacchea e gli sussurrai con fervore all’orecchio:
– Oh, papà! Dille di lasciarla da noi… Sarebbe magnifico. Diglielo, ti prego.
– Se Madame volesse affidare la sua bambina alle cure di mia figlia e
della sua governante, Madame Perrodon, e le permeesse di essere nostra
ospite fino al suo ritorno, soo la mia tutela, ne saremmo lusingati e
obbligati, e la traeremmo con la cura e la dedizione che una così sacra
incombenza ci impone.
– Non posso, signore, sarebbe abusare troppo della vostra squisita
cortesia, – rispose affranta la signora.
– Al contrario, sareste voi a farci una grande gentilezza nel momento in
cui ne sentiamo maggiormente bisogno. Mia figlia è rimasta assai delusa
per una visita che disgraziatamente è venuta meno e della quale stava da
tempo assaporando la gioia. Il miglior ristoro per questa fanciulla sarà
affidarla alle nostre cure. Il primo villaggio che incontrerete per via è
lontano e non ha locande adae a vostra figlia, né d’altra parte potete
arrischiare a farle proseguire il viaggio. Se, come dite, non potete fermarvi,
lasciatela da noi questa noe stessa e, siatene certa, in nessun luogo
trovereste più sincera accoglienza e affeo più caloroso.
Nell’aspeo e nel portamento della signora c’era qualcosa di nobile e di
maestoso e, a prescindere dall’imponenza della sua scorta, chiunque
avrebbe avvertito la soggezione che si prova al cospeo d’un personaggio
di riguardo.
Nel fraempo avevano rimesso in piedi la carrozza e riaaccato le
pariglie ammansite. La signora geò uno sguardo alla figlia che non mi
sembrò così pieno d’amore come ci si sarebbe aspeato, poi fece un cenno
a mio padre e s’appartò con lui per non farsi sentire. Mentre gli parlava,
assunse un’espressione dura e severa, molto diversa da quella di prima. Mi
stupii che mio padre non sembrasse cogliere quel repentino mutamento e
provai un desiderio incredibile di sapere cosa gli stava bisbigliando
all’orecchio con tanta foga ed ardore.
Il colloquio durò due o tre minuti al massimo, poi la signora si volse
verso la figlia, sostenuta da Madame Perrodon, le si inginocchiò accanto
sussurrandole, come credee Madame, qualche benedizione poi, baciatala
in frea, montò in carrozza. Lo sportello si chiuse con uno scao e i due
lacchè in livrea salirono dietro. I baistrada deero di sprone e, mentre i
postiglioni schioccavano in serpa le fruste, i corsieri si lanciarono in un
troo frenetico che ben presto sembrò trascendere a impetuoso galoppo,
mentre la carrozza spariva in un turbinìo di ruote, seguita d’appresso dai
due cavalieri alla stessa andatura.
Ricordi a confronto
Vi ho deo che c’erano molti aspei del suo modo di essere che mi
riempivano di delizia, ma ve n’erano altri di cui non potrei dire altreanto.
Sopravvanzava la media della statura femminile e comincerò dunque col
descrivervela: era snella, dotata di grazia fuori del comune e, malgrado il
languore dei suoi movimenti, un languore che rasentava la spossatezza, dal
suo aspeo non traspariva il minimo indizio di malaia; colorita e radiosa
la carnagione, le faezze minute e ben fae, gli occhi grandi, neri e
lucenti, meravigliosi i capelli. Non ho mai visto capelli così belli, folti e
lunghi come quando le ricadevano sciolti sulle spalle: sovente ho posto le
mani soo quelle chiome ridendo di stupore nel soppesarle; capelli soili e
di straordinaria morbidezza, di un castano scuro ed intenso dai riflessi
dorati. Mi piaceva lasciarli ricadere soo il loro peso, quando in camera
sua s’appoggiava allo schienale d’una sedia conversando con la sua voce
soave e sommessa, e mi divertivo ad avvolgerli, ad intrecciarli e a farli
fluire in tuo il loro soffice volume. Buon Dio! Se avessi saputo allora!
Ho deo che c’era qualcosa in lei che non mi convinceva del tuo. Era
stato un senso di confidenziale immediatezza a conquistarmi la prima
noe in cui la vidi, una confidenza tuavia che si studiava di lasciare in
ombra, con inopinata deliberazione specie per quanto potesse concernere
lei stessa, sua madre, il passato e tuo ciò che riguardava la sua vita, i
progei, la famiglia. È probabile che peccassi di scarsa comprensione;
forse mi sbagliavo, forse avrei dovuto rispeare l’impegno solenne che la
dama in velluto nero aveva espresso a mio padre. D’altra parte la curiosità
è una passione che rende irrequieti e non bada troppo agli scrupoli, e poi
non c’è ragazza disposta a lasciarsi eludere da una coetanea. Che le
sarebbe potuto accadere se mi avesse deo ciò che agognavo sopra ogni
cosa? Non riponeva la minima fiducia nel mio buon senso e nella mia
parola d’onore? Perché non voleva credermi quando le assicuravo, con
giuramenti solenni, che non avrei riferito ad anima viva una sola sillaba di
quanto mi avesse confidato?
Mi pareva che ci fosse una gelida riservatezza, superiore a quella che ci
si sarebbe aeso dalla sua età, nel sorriso malinconico con cui rifiutava
ostinatamente di schiudermi il benché minimo spiraglio di luce.
Con questo non posso dire che litigassimo, perché lei non litigava per
nessuna ragione al mondo. E naturalmente da parte mia era impertinente
e sleale continuare in quello stillicidio di domande, ma non potevo farne a
meno e, in ogni caso, il risultato era sempre lo stesso. anto mi aveva
rivelato si traduceva, senza mezze perifrasi, in un niente di niente. Si può
riassumere il tuo in tre punti assai vaghi:
primo: si chiamava Carmilla;
secondo: era d’antico e nobile casato;
terzo: la sua casa era verso l’occaso.
Non volle rivelarmi il nome della sua famiglia, né come fosse il suo
stemma gentilizio, né come si chiamava il suo feudo e nemmeno il nome
del suo paese.
Non dovete credere che l’assillassi senza tregua; aspeavo sempre il
momento giusto e, più che stare ad incalzarla con le mie domande, usavo
la taica dell’insinuazione. Un paio di volte cercai di sferrare un aacco
frontale, ma in qualsiasi modo procedessi, il risultato era sempre un fiasco
completo. Carezze e rimproveri non avevano alcuna presa su di lei. Devo
anche aggiungere che eludeva i miei quesiti con un tono di così dolce
malinconia e di trepido corruccio, con tali dichiarazioni di affeo, di
fiducia nel mio senso dell’onore e di tali e tante promesse di rivelarmi
tuo «alla fine», che non me la sentivo di tenerle il broncio per molto
tempo.
Sovente mi geava le braccia al collo, mi airava a sé e, poggiando la
guancia alla mia, mi bisbigliava con le labbra all’orecchio: – Mia cara, il
tuo cuoricino è ferito, ma non giudicarmi crudele se obbedisco alla legge
ineludibile su cui si fondano la mia forza e la mia fralezza; se il tuo cuore è
ferito, anche il mio cuore selvaggio sanguina con il tuo. Nell’estasi della
mia infinita umiliazione, vivo del calore della tua vita e anche tu morirai…
d’una morte estenuante e dolcissima… della mia vita. Non posso evitarlo, e
così come mi avvicino a te, tu a tua volta t’appresserai ad altri ed
apprenderai l’estasi di quella crudeltà che è anche amore. Per un po’ di
tempo non cercare di sapere altro di me e della mia stirpe, ma confida in
me con tuo il tuo amore.
Poi, dopo una tale rapsodia, mi serrava più strea nel suo trepido
abbraccio e le sue labbra imprimevano sulle mie guance il calore di soffici
baci.
Non riuscivo a capire la sua eccitazione e il suo linguaggio. Devo
ammeere che desideravo sorarmi subito a quegli abbracci assurdi, e per
altro non molto frequenti, ma sembrava che le forze mi venissero meno. Il
bisbiglio delle sue parole fluiva nel mio orecchio con l’iterazione
incantatoria di una nenia, oundendo le mie facoltà fino a farmi cadere in
una sorta di deliquio ipnotico dal quale riemergevo solo quando scioglieva
le sue braccia.
Non mi piaceva quando era preda di questo umore misterioso. Provavo
un’eccitazione strana e tumultuosa che raggiungeva di tanto in tanto la
soglia del piacere, restando pur sempre intrisa ad un senso indefinibile di
angoscia e di disgusto. In quei momenti non riuscivo a formulare dei
pensieri con chiarezza, ma ero conscia di un amore che si andava
trasformando, ad un tempo, in adorazione e in abominio. So bene che sto
formulando un paradosso, ma non saprei spiegare altrimenti quel che
provavo. Anche se scrivo a distanza di altri due lustri, la mano mi trema
ancora e, sebbene abbia un ricordo nitido e preciso degli eventi salienti
della mia storia, certi momenti della prova terribile che stavo
inconsapevolmente vivendo mi tornano alla mente confusi e saturi ancor
oggi d’orrore. Credo comunque che per noi tui ci siano dei momenti della
vita emotiva i quali, per quanto testimoni delle nostre più violente e
sfrenate passioni, rimangono fra i più vaghi e indeterminati nei cataloghi
della memoria.
Accadeva talora che, dopo un’ora di indolente apatia, la mia strana e
bellissima compagna mi prendesse la mano serrando con sempre maggiore
intensità la sua presa amorosa, arrossendo dolcemente, guardandomi fissa
con i suoi occhi languidi e ardenti, con un respiro che si faceva così rapido
che sembrava trasmeere l’ansimo stesso alla veste. Era come l’ardore di
un amante, mi imbarazzava, era ripugnante, eppure mi teneva in sua balìa.
Mi airava a sé con lo sguardo carico di avidità e le sue calde labbra mi
coprivano le guance di baci mentre sussurrava in un singulto: «Sei mia,
devi essere mia, tu ed io saremo una cosa sola, per sempre». Poi si geava
indietro sullo schienale, coprendosi gli occhi con le sue piccole mani e
lasciandomi in preda al tremore.
Allora le chiedevo: – Siamo forse parenti? Cosa vuoi dirmi? Forse ti
ricordo qualcuno che hai amato, ma non devi fare così, lo detesto, non ti
riconosco più… Non sono più me stessa quando mi guardi e parli a quel
modo!
Dinnanzi alla veemenza del mio distacco, si volgeva dall’altra parte e mi
lasciava le mani.
Cercavo invano di formulare una teoria che in qualche modo rendesse
conto di queste manifestazioni d’eccesso, visto che non potevo aribuirle a
simulazione o ad impostura. Che fossero il prorompere momentaneo di
sentimenti ed emozioni represse, non c’era ombra di dubbio. Malgrado
l’espressa denegazione di sua madre, andava forse soggea a crisi saltuarie
di invasamento? O si traava magari d’un travestimento e di un’avventura
romantica? Avevo leo qualcosa del genere in certi antichi romanzi: e se si
fosse traato d’un giovane amante che, con l’appoggio d’una vecchia e
astuta mezzana, avesse escogitato il modo d’intrudersi in casa cercando di
raggiungere il suo scopo soo mentite spoglie? Per quanto stuzzicasse la
mia vanità, questa ipotesi cozzava contro troppi elementi.
Non potevo infai vantarmi d’essere stata oggeo di quelle premure che
la galanteria maschile si compiace di offrire. Nei lunghi intervalli che
separavano quei momenti d’intensa passione la nostra relazione era
normale, e gaiezza s’alternava a meditabonda malinconia. Alle volte era
come se non esistessi per lei, sebbene poi scoprissi che i suoi occhi mi
seguivano pieni di malinconico ardore. A parte i periodi di misteriosa
eccitazione, i suoi modi erano quelli di una fanciulla; inoltre aveva
aeggiamenti di persistente languore, inconciliabili con un temperamento
maschile nel rigoglio della giovinezza.
Aveva abitudini strampalate soo molti aspei, anche se agli occhi di
chi vive in cià potevano apparire meno strane di quanto lo fossero per
dei villici come noi: scendeva da basso nella tarda mainata, in genere non
prima del l’una, e sorbiva una tazza di cioccolato senza toccare un
boccone; poi uscivamo a fare una passeggiata, un giro senza meta, anche
se dopo i primi passi sembrava già sfinita; allora tornavamo allo schloss o
ci sedevamo su uno dei rustici sedili disposti qua e là nella boscaglia. La
spossatezza fisica non influiva d’altra parte sulla sua mente, infai era
sempre capace d’intraenere una conversazione animata ed arguta.
Talvolta le capitava di lasciarsi sfuggire un’allusione alla sua dimora avita,
o accennava a qualche cosa che le era successo, ad un’avventura, ad un
ricordo lontano, tui elementi questi, che facevano pensare a gente dalle
usanze forestiere e dai costumi che ci erano completamente sconosciuti.
Da quegli accenni casuali, da quei brandelli d’informazione dedussi che il
suo paese natale doveva essere molto più remoto di quanto avessi
immaginato.
Un pomeriggio sedevamo soo gli alberi, come era nostra abitudine,
quando ci passò dinnanzi un funerale rusticano. Era quello d’una graziosa
ragazzina che avevo incontrata più volte, figlia d’un guardiaboschi. Il
povero uomo procedeva dietro la bara di quella che era stata la sua unica
figlia e appariva straziato dal dolore. Seguivano a coppie i contadini che
intonavano un canto funebre. Al loro passaggio mi alzai in piedi in segno
di rispeo e mi unii al loro canto. La mia compagna mi dee uno straone
e, quando mi volsi sorpresa, mi disse con fare arrogante:
– Non senti com’è stonato?
– Al contrario, mi sembra dolcissimo.
Risposi mostrando la mia irritazione per quella sortita e tuo il mio
imbarazzo per tema che i seguaci di quella mesta processione notassero
quel che stava accadendo e se ne sentissero offesi. Ripresi quindi a cantare,
ma lei m’interruppe di nuovo:
– Mi laceri i timpani – disse con un moto di stizza, turandosi gli orecchi
con le dita. – E poi che ne sai se la tua religione è anche la mia? I vostri riti
mi feriscono. Detesto i funerali. ante storie! Anche tu devi morire…
Tui vanno incontro alla morte e tui sono più felici dopo che è successo.
Torniamo a casa.
– Il babbo è andato al camposanto con il prete. Credevo sapessi che
l’avrebbero sepolta oggi.
– ella? Ai bifolchi non ci penso nemmeno. Non so chi sia, quella –
rispose con un guizzo negli occhi.
– È quella poverina che s’era messa in testa d’essersi imbauta in una
fantasima, un paio di seimane fa. Da allora è andata spegnendosi poco a
poco, finché ieri è spirata.
– Non parlarmi di fantasmi, altrimenti stanoe non riuscirò a dormire.
– Speriamo che non incomba su di noi una qualche pestilenza o
un’epidemia. I segni sono preoccupanti – proseguii. – La giovane moglie
del porcaro è morta da una seimana appena: era convinta che qualcosa
l’avesse aanagliata alla gola fin quasi a soffocarla mentre era coricata. Il
babbo dice che si traa di allucinazioni che accompagnano febbri
perniciose. Il giorno prima era sana come un pesce, poi è andata
deperendo ed è morta in capo ad una seimana.
– Bene. Spero che ormai le abbiano fao il trasporto e le abbiano
salmodiato le requiemeterne, così non ci faremo straziare gli orecchi da
quelle note vanesie e stridenti. Mi urtano i nervi. Siediti qui, accanto a me,
stammi vicino e stringimi la mano forte… forte… più forte.
Ci eravamo allontanate di poco ed eravamo sedute su un’altra panchina.
Il suo volto subì una metamorfosi orribile che per un aimo mi allarmò e
mi aerrì persino: si oscurò e divenne di un livore sperale, strinse i denti
e i pugni in una contrazione parossistica, i suoi lineamenti s’aggricciarono
e le si ritrassero le labbra e, mentre teneva gli occhi fissi a terra dinnanzi a
sé, era scossa da un tremito convulso e irrefrenabile, come quello delle
febbri malariche. Sembrava tesa fino allo spasimo a reprimere
quell’accesso improvviso. Alla fine le eruppe dal seno un grido di dolore
fioco e convulso e poco a poco quell’aacco isterico cominciò a placarsi.
– Ecco cosa succede quando si soffoca la gente con le litanie di chiesa! –
disse. – Stringimi, stringimi ancora. Mi sta passando.
Poco a poco passò veramente e forse per distogliermi dalla fosca
impressione di quello speacolo, si dimostrò particolarmente vivace e
ciarliera mentre tornavamo a casa. Era la prima volta che mostrava i
sintomi di quel misterioso male dei nervi di cui aveva parlato sua madre,
ed anche la prima che aveva mostrato di cedere a qualcosa molto simile
alla collera. Ma tuo si dileguò come una nube estiva e mai più, ecceo
una volta, mi capitò di assistere ad un suo irrefrenabile moto d’ira. Merita
quindi che vi narri come accadde.
Eravamo affacciate insieme al davanzale di uno dei finestroni della sala,
quando vedemmo fare il suo ingresso nel cortile, araverso il ponte
levatoio, a un girovago che era una mia vecchia conoscenza perché era
solito fare sosta al castello un paio di volte all’anno.
Era gobbo ed aveva i lineamenti scarni e legnosi che di solito
accompagnano tale deformità. Portava una barbea nera, appuntita, e
quando sorrideva meeva in mostra, da un orecchio all’altro, una chiostra
di denti candidi. Era vestito di marrone, di nero e di viola e portava
indosso un tal numero di cinghie e di corregge, a bandoliera o a tracolla,
che era impossibile contarle e dalle quali penzolavano gli oggei più
strani. Si portava dietro una lanterna magica e due scatole che, come già
sapevo, contenevano l’una una salamandra e l’altra una mandragora.
esti mostri di solito facevano ridere mio padre. Erano composti con
parti di scimmie, pappagalli, scoiaoli, pesci e porcospini, essiccati e
ricuciti insieme con abilità certosina ed effeo straordinario. Aveva un
violino, una scatola con l’occorrente per fare le magie, un paio di sciabole
e di maschere da schermidore appesi alla cintura dalla quale pendevano
altri astucci misteriosi, mentre in mano teneva un bordone scuro guernito
di rame. Aveva per compagno un cane bastardo, un botolo irsuto che gli
stava sempre alle calcagna e che si fermò con fare circospeo al ponte
levatoio, emeendo un lugubre ululato.
Nel fraempo il saltimbanco, che era giunto nel mezzo della corte, si
tolse il groesco copricapo e ci fece una gran riverenza, salutandoci con
uno sproloquio in francese esecrando per poi passare ad un non migliore
tedesco. Poi, tirato fuori il violino, si dee a strimpellare un’ariea allegra
con cui accompagnava la sua voce in falseo, danzando con buffe
movenze e piroee che mi fecero ridere, malgrado l’ululato disperato del
cane. Avanzò fin soo la finestra fra sorrisi e saluti, con il cappello in
mano ed il violino soobraccio e, senza riprendere fiato un momento, ci
scodellò l’interminabile elenco delle arti ingegnose e dei rari mestieri che
meeva a nostra disposizione, nonché delle curiosità e dei sollazzi che
poteva sooporre alla nostra cortese richiesta.
– Vuole la signoria vostra degnarsi di acquistare un amuleto contro
l’upiria che mi dicono vada in giro come un lupo proprio da queste parti?
– disse geando il cappello sul selciato. – Muoiono a dria e a manca, ma
ecco un rimedio sovrano, basta appuntare questo ciondolo al cuscino e si
può ridergli in faccia.
esti amuleti consistevano in cartigli di pergamena su cui erano
tracciate cifre cabalistiche e segni misteriosi. Carmilla ne comprò uno e
così feci anch’io.
Egli alzò gli occhi mentre noi ridevamo divertite, e tale io almeno lo ero.
Notai che i suoi occhi neri e vispi sembravano aver scorto qualcosa di
estremo interesse. In un baer d’occhio srotolò un involucro di cuoio nero
pieno di piccoli aggeggi d’acciaio forbito e dalle fogge bizzarre.
– Osservino, signore, – disse mostrandoceli e poi, rivolgendosi a me, –
tra le altre, professo l’arte del cavadenti… Che ti pigli la peste, cagnaccio, –
s’interruppe, – fa’ la cuccia, bestia! Se abbai così, sua eccellenza non
sentirà una parola! La vostra nobile amica, la damigella che vi sta alla
destra, ha i canini affilatissimi, lunghi e strei, come lesine, come aghi…
Ah, ah! Mentre vi guardavo non sono sfuggiti ai miei occhi di lince. Se
dovessero recarle fastidio, com’è probabile, eccomi a disposizione con la
lima, il trapano e le pinze e, se a sua signoria fa piacere, li smusserò e li
arrotonderò e non avrà più denti come lische di pesce, ma come si
addicono ad una giovane e bella signora… Eh! Ma sua signoria è
dispiaciuta? Sono stato troppo sfacciato, l’ho forse offesa?
La mia amica aveva infai il volto terreo mentre si ritraeva dalla
finestra.
– Come si permee d’insultarmi quel volgare ciarlatano? Dov’è tuo
padre? Gli chiederò soddisfazione. Il mio avrebbe legato quel miserabile ad
un palo, l’avrebbe fao scudisciare con la frusta del carreiere e gli
avrebbe impresso a fuoco il marchio del castello, fino alle ossa.
Si allontanò di qualche passo dalla finestra andandosi a sedere e, appena
non ebbe più dinnanzi agli occhi colui che l’aveva offesa, la sua collera
svanì all’improvviso come all’improvviso s’era scatenata e poco a poco
riprese il suo umore normale, dimenticando il gobbo e le sue balordaggini.
ella sera il babbo era fuori di sé. Al suo arrivo ci disse che s’era
manifestato un altro caso con i medesimi sintomi dei due casi verificatisi
negli ultimi giorni: la sorella d’un giovane colono del nostro podere, che
distava non più d’un miglio, era agli sgoccioli. Come lei stessa aveva
narrato, era stata aggredita dal morbo allo stesso modo delle altre ed era
ormai sfinita dalla suzione inesorabile della morte.
– Tuo questo – disse il babbo – dipende unicamente da cause naturali.
esti sciagurati si contagiano a vicenda con le loro superstizioni e così
rivivono nell’immaginazione le visioni di terrore che hanno avuto i loro
vicini.
– Basta questo a farmi morire di paura – disse Carmilla.
– Come mai? – chiese mio padre.
– Il solo pensiero di queste cose mi aerrisce, sarebbe orribile se
accadessero davvero.
– Siamo nelle mani di Dio: non succede nulla che lui non voglia e tuo
finirà bene per coloro che lo amano. È nel nostro creatore che dobbiamo
riporre fiducia. Lui che ci ha creati avrà cura di noi.
– Il creatore! Caso mai la natura! – obieò la fanciulla, rispondendo alle
parole pacate di mio padre.
– Anche il morbo che infesta il paese è fruo della natura. La natura,
certo, tuo deriva dalla natura… non è così? Tue le cose del cielo, della
terra e del soosuolo non vivono forse ed agiscono secondo i deami che
natura comanda? Io la penso così.
– Il doore ha deo che verrà in giornata, – disse il babbo dopo una
pausa di silenzio – voglio sapere che ne pensa e cosa ci consiglia di fare.
– I doori non mi sono mai stati d’aiuto. – disse Carmilla.
– Allora sei stata ammalata. – le chiesi.
– Molto più di quanto lo sia mai stata tu – mi rispose.
– Molto tempo fa?
– Sì, tanto tempo fa. Ho sofferto proprio di questa malaia, ma ho
dimenticato quasi tuo… Ricordo solo il dolore e lo sfinimento che,
comunque, non erano triboli peggiori di quelli provocati da altre infermità.
– Eri molto giovane?
– Credo di sì, ma non parliamone più, non vuoi angustiare un’amica,
vero?
Mi guardò negli occhi con la sua espressione struggente, mi cinse con
un moto d’affeo la vita e mi condusse fuori della sala. Il babbo era intento
nella leura di alcune carte accanto alla finestra.
– Perché tuo padre si diverte a meerci paura? –sospirò, come se fosse
scossa da un lieve brivido.
– Non si diverte affao, è l’ultima cosa a cui potrebbe pensare.
– E tu hai paura, mia cara?
– Sarei terrorizzata se credessi veramente di contrarre il contagio e di
venire colpita come quelle poveree.
– Hai paura di morire?
– Sì, come tui.
– Eppure morire come muoiono gli amanti… Morire insieme, voglio
dire, per poter rivivere insieme. Finché vivono su questa terra le ragazze
sono come bruchi, esse diventano farfalle solo quando arriva l’estate. Ma
nel fraempo non sono altro che bruchi, larve, capisci… Ognuna con le
sue inclinazioni, le sue necessità, la sua struura particolare. Così
sentenzia Monsieur Buffon nei suoi tomi ponderosi che sono nella sala
accanto.
Più tardi venne il doore che s’appartò per un certo tempo con mio
padre. Era un uomo di grande perizia, sulla sessantina e oltre, con la
parrucca incipriata e il pallido volto sempre rasato di fresco, liscio come la
superficie di una zucca. Uscì dallo studiolo con il babbo mentre
quest’ultimo diceva:
– Mi stupisce proprio che un uomo saggio come voi… E degli ippogrifi o
dei draghi che ne pensate?
Il doore sorrise e scuotendo la testa rispose:
– In fine dei conti la vita e la morte sono degli stati avvolti nel mistero e
noi sappiamo ben poco delle risorse dell’una e dell’altra.
Passarono oltre e non udii altro. Allora mi sfuggirono i termini della
discussione, ma oggi posso indovinarli.
Una prodigiosa somiglianza
ando vedemmo che nella stanza tuo era a posto, eccezion faa per i
segni della nostra precipitosa irruzione, ci calmammo un po’ e in breve
recuperammo la padronanza di noi stesse, tanto da poter congedare i
domestici. A Mademoiselle era venuta l’idea che Carmilla si fosse svegliata
di soprassalto per il forsennato tonfare alla porta e che, colta dal panico,
fosse saltata dal leo per andare a rincantucciarsi in qualche armadio o
dietro una tenda, da cui non sarebbe potuta sortire finché non si fossero
ritirati il maggiordomo e i suoi giannizzeri. Allora ricominciammo a
cercarla e a chiamarla per nome.
Fu tuo inutile; la nostra perplessità e il nostro turbamento crebbero di
nuovo: esaminammo le finestre, ma erano sprangate; mi misi a
scongiurare Carmilla di venir fuori, se si era nascosta, e di non protrarre
oltre quel giuoco crudele che ci teneva in ansia. Tuo inutile. Oramai ero
sicura che non era in camera, e neppure nello spogliatoio accanto, la cui
porta era chiusa a chiave. Non poteva essere passata araverso quella
porta. Ero sbalordita. Forse Carmilla aveva scoperto uno di quei passaggi
segreti di cui ci aveva parlato la vecchia governante, pur senza saperci dire
dove fossero. In breve tempo si sarebbe chiarito tuo, ne eravamo sicure,
ma al momento eravamo… sgomente.
Erano le quaro passate ed io preferii trascorrere le restanti ore di
oscurità nella camera di Madame. Il sorgere del giorno non portò alcuna
soluzione del rebus.
Il maino seguente gli abitanti dello schloss, a cominciare da mio padre,
erano in grande agitazione. Ispezionarono ogni angolo del castello,
esplorarono il territorio circostante, ma non la minima traccia della
fanciulla scomparsa. Fu dato l’ordine di scandagliare i gorghi del fiume.
Mio padre era sconvolto: cosa avrebbe deo alla madre della povera
fanciulla quando fosse tornata? Anch’io ero fuori di me, sebbene il mio
dolore fosse di diversa natura.
Trascorremmo la mainata nell’inquietudine e nell’eccitazione. Alluna
non ci era pervenuta alcuna notizia. Ma quando salii nella camera di
Carmilla, la trovai in piedi dinnanzi alla peiniera. Rimasi aonita; non
potevo credere ai miei occhi. Mi fece appena un cenno con le sue dita
affusolate, in silenzio: il suo volto era il ritrao della paura.
Corsi da lei in un impulso irrefrenabile di gioia, l’abbracciai e la baciai
più volte; poi mi precipitai al campanello e lo scossi violentemente per
chiamare gli altri a raccolta e perché avvertissero subito il babbo.
– Carmilla, cara, che ti è successo? Dove sei stata tuo questo tempo?
Ci hai fao quasi venire il crepacuore – esclamai. – Dimmi dove sei stata.
Come hai fao a tornare?
– esta noe è stata una noe di prodigi – rispose.
– Per amor del cielo, cerca di spiegarti.
– Erano le due passate, questa noe, quando mi sono addormentata nel
mio leo, come di consueto, dopo aver chiuso a chiave la porta di camera,
quella dello spogliatoio e quella che dà sul corridoio. Ho dormito
profondamente, senza interruzioni e senza sogni, ma mi sono svegliata
poco fa sull’oomana dello spogliatoio e ho trovato aperta la porta fra i
due ambienti e scassinata quella di camera. Come può essere successo
senza che mi svegliassi? Deve esserci stato un fracasso tremendo, e dire
che ho il sonno leggero. E come hanno fao a trasportarmi lontano dal
mio leo senza svegliarmi, io che sobbalzo al più lieve cigolio?
Fraanto la camera s’era riempita di gente: c’erano Madame,
Mademoiselle, mio padre e diversi domestici. Come ci si può immaginare,
Carmilla fu subissata di domande, di congratulazioni e di saluti festosi. Lei
non aveva altro da aggiungere e sembrava fra tui i presenti l’ultima
persona in grado di fornire qualche spiegazione dell’accaduto.
Mio padre cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza,
cogitabondo. Scorsi Carmilla che lo seguì di soecchi, con uno sguardo
torvo. Poi il babbo congedò i servitori e, poiché Mademoiselle era andata a
prendere una boccea di valeriana e di sali, restammo in camera soltanto
io, Carmilla, Madame e mio padre; questi s’avvicinò alla fanciulla
pensieroso, le prese con gesto gentile la mano, la condusse al divano e la
fece sedere accanto a sé.
– Mia cara, vorrete perdonarmi se formulo un’ipotesi e vi porgo una
domanda?
– Chi più di voi ne ha dirio? – rispose lei. – Chiedete pure ed io vi dirò
tuo. Ma la mia è una storia faa solo di sbigoimento e di tenebra. Non
so proprio nulla. Rivolgetemi le domande che credete, d’altra parte i limiti
che mi ha imposto mia madre li sapete già.
– Perfeamente, bambina cara. Non occorre toccare quei punti sui quali
vostra madre desidera mantenere il silenzio. Ora, l’evento prodigioso di
questa noe consiste nel fao che siete stata sollevata dal leo della vostra
camera, senza che vi siate svegliata, ed inoltre che tuo è avvenuto mentre
le finestre erano ermeticamente chiuse e le porte inchiavardate
dall’interno. Ecco, ora vi dirò la mia teoria, ma prima permeetemi di
porvi una domanda.
Carmilla stava appoggiata su una mano, con aria derelia; Madame ed
io ascoltavamo, traenendo il respiro.
– Dunque, la domanda è questa: avete mai avuto la sensazione di
camminare nel sonno?
– Mai, fin da quando ero molto giovane.
– Ma prima, camminavate nel sonno?
– Sì, so che mi capitava di farlo, la mia vecchia nutrice me lo diceva
sempre.
Mio padre sorrise e fece un cenno di assenso.
– Ecco cosa è accaduto, allora: vi siete alzata nel sonno, avete aperto la
serratura della porta senza lasciare la chiave nella toppa, come al solito,
poi avete chiuso dall’esterno; quindi avete sfilato la chiave e ve la siete
portata via in una delle venticinque stanze di questo piano o, chissà, al
piano inferiore o a quello superiore; ci sono tanti ambienti, ripostigli,
sgabuzzini e tanti di quei catafalchi di mobili, ed una quantità incredibile
di carabaole, che ci vorrebbe una seimana per frugare come si deve
questa vecchia bicocca. Capite ora quel che voglio dire?
– Sì, ma non del tuo – rispose lei.
– Babbo, come spieghi allora che si sia risvegliata sul divano dello
spogliatoio, che pure avevamo ispezionato con cura?
– Ma vi è giunta dopo che voi ceravate state, come una sonnambula; poi
si è risvegliata, stupita di trovarsi in quel luogo non meno di quanto lo
siano stati gli altri. Magari potessimo spiegare con altreanta facilità ed
innocenza tui i misteri! – disse mio padre ridendo. – E così dobbiamo
essere felici che la spiegazione più sicura e naturale di quanto è successo
non contempla l’intervento di misteriose pozioni, scassinamenti, sgherri,
trucidatori, malocchi di streghe… nulla, insomma, che possa allarmare
Carmilla o chiunque altro circa la nostra sicurezza.
Carmilla aveva un aspeo stupendo: aveva un colorito magnifico e la
sua beltà era messa ancor più in risalto da quel suo caraeristico languore.
Mio padre dovee fare il confronto fra il mio e il suo stato di salute perché
disse:
– Vorrei tanto che la mia povera Laura avesse una cera migliore, – e
trasse un sospiro.
Così fu posto fine ai nostri allarmi e Carmilla fu restituita ai suoi amici.
Il doore
L’ultima volta che l’avevamo visto era stato un dieci mesi prima, ma
quel breve lasso di tempo l’aveva invecchiato di parecchi anni: era
smagrito nella persona; la bonomia che portava dipinta sul volto aveva
ceduto il posto ad un’espressione cupa e irrequieta; i suoi occhi color del
cobalto, sempre vigili e penetranti, avevano acquisito una luce più dura
soo le sopracciglia grigie e foltissime. Un mutamento che non poteva
essere stato la conseguenza del solo dolore, bensì di altre e più
incontrollabili passioni.
Avevamo da poco ripreso il cammino, allorché il generale cominciò a
parlare, con la sua solita rudezza di militare, della perdita subita, così disse,
con la morte dell’amata nipote e pupilla. Poi, in un tono che ben presto
trascese da desolata amarezza a cupo furore, si mise ad inveire contro le
«arti infernali» di cui era stata viima la nipote esprimendo, più con
l’esasperazione che con la pietà, il suo sbigoimento perché il cielo
dimostrava una mostruosa indulgenza verso la cupidigia e la perfidia
infernali.
Avendo compreso che doveva essergli successo qualcosa di eccezionale,
il babbo gli chiese di spiegarci, se ciò non gli rinfocolava il dolore, quegli
avvenimenti che secondo lui legiimavano la violenza delle sue inveive.
– Ve lo dirò volentieri, – disse il generale, – anche se voi non mi
crederete.
– E perché non dovrei credervi? – chiese.
– Perché, – rispose con puntiglio il generale, – voi siete sceico nei
confronti di tuo ciò che discorda con i vostri pregiudizi ed illusioni.
Anch’io ero come voi ma, badate, ho imparato a mie spese.
– Meetemi alla prova, allora, – disse mio padre, – non sono poi quel
fanatico dei dogmi che credete; e poiché so che per credere a qualcosa voi
esigete sempre delle prove tangibili, sono già disposto a rispeare le vostre
conclusioni.
– ando dite che non mi son lasciato mai abbindolare facilmente da
ciò che è arcano, non posso darvi torto… perché quel che ho sperimentato
è di fao l’arcano… un’evidenza irriducibile mi ha costreo a credere a
qualcosa che cozza contro tue le mie teorie. Sono stato lo zimbello di
forze preternaturali.
Malgrado avesse sempre riposto assoluta fiducia nella acuta intelligenza
dell’amico, notai che mio padre gli geò di sbieco uno sguardo pieno di
interrogativi, quasi dubitasse della sua mente. Per fortuna il generale non
ci fece caso, poiché stava osservando con torva curiosità le radure e le
macchie boschive che si aprivano innanzi a noi.
– Andate alle rovine di Karnstein? – disse. – È proprio una coincidenza
fortunata: stavo proprio per chiedervi di accompagnarmici per farvi
un’indagine. Ho uno scopo preciso, sapete. C’è una cappella diroccata,
dove ci sono diverse tombe di quella famiglia estinta, non è vero?
– Certamente… è molto interessante, – disse mio padre, – non avrete
mica in mente di rivendicare quel titolo con le annesse fortune?
Il babbo lo disse in tono di celia, ma il generale non abbozzò nemmeno
l’ombra d’un sorriso, come s’accoglie di norma la bauta scherzosa di un
amico; al contrario assunse un’aria grave, perfino truce, mentre
rimuginava tra sé e sé qualcosa che risvegliava in lui l’ira e l’orrore.
– Di ben altra cosa si traa, – disse con voce roca, – ho l’intenzione di
disseppellire qualcuno di quei venerandi signori. Coltivo in cuore la
speranza, con la benedizione divina, di compiere un pio sacrilegio che
libererà la nostra terra da mostri esecrandi e consentirà alla gente dabbene
di dormire nei loro giacigli, senza essere viima di assassini famelici. Caro
amico, devo dirvi strane cose, cose che io per primo avrei respinto come
incredibili appena qualche mese fa.
Mio padre lo guardò di nuovo e questa volta non con aria di sospeo
ma… con un occhio di implicita comprensione e d’allarme.
– Il casato dei Karnstein, – disse – s’è estinto da molto tempo, un secolo
almeno. La mia cara consorte discendeva dai Karnstein per linea materna,
ma il nome ed il titolo del casato non esistono più da un pezzo. Il castello è
ridoo ad un cumulo di rovine, il borgo che l’aorniava è abbandonato, da
cinquanta anni ormai non s’è più visto fumare un comignolo e i tei delle
case sono tui crollati.
– Proprio così. A questo proposito m’han deo molte cose da quando ci
siamo visti l’ultima volta, cose che vi sbalordiranno. Ma è meglio che vi
narri gli avvenimenti in ordine cronologico, come sono accaduti, – disse il
generale. – Voi avete conosciuto la mia cara pupilla o meglio… la mia
bambina. Non c’era creatura più bella di lei e, fino a tre mesi fa, più
fiorente.
– Sì, poverina! L’ultima volta che la vidi era proprio una delizia, – disse
mio padre. – Non ho parole per dirvi, caro amico, quanto ne sono rimasto
sconvolto e addolorato e so che colpo è stato per voi.
Così dicendo, prese la mano del generale e si confortarono con una
reciproca strea. Le lacrime salirono agli occhi del vecchio soldato, né egli
cercò di dissimularle; poi disse:
– Siamo vecchi amici: sapevo bene quello che avreste provato per me
che non ho figli. Lei era diventata l’unica ragione della mia vita e
contraccambiava le mie premure con un’affeuosità che rallegrava la mia
dimora e rendeva felice la mia vecchiaia. Oramai tuo è finito. Non mi
restano che pochi anni di vita, ma prima di spirare, e con la misericordia
del Signore, spero di rendere un prezioso servigio all’umanità e di portare
a compimento la vendea celeste sui demoni che hanno ammazzato la mia
povera bambina nel primo fiorire della sua beltà e delle sue speranze!
– Poco fa avete deo che volevate narrare gli eventi nell’ordine in cui
sono accaduti, – disse il babbo, – fatelo, ve ne prego, vi assicuro che la mia
non è solo curiosità.
Proprio allora il calesse era giunto al bivio in cui la strada di Drunstall,
da cui era venuto il generale, si separa da quella che dovevamo imboccare
per andare a Karnstein.
– anto distano le rovine? – domandò il generale, guardando
ansiosamente davanti a sé.
– Una mezza lega, all’incirca, – rispose mio padre, – narrateci la storia
che avevate promesso, ve ne prego.
Il racconto del generale
Voi crederete ch’io abbia scrio tuo questo con animo sereno, mentre
il solo pensiero di quanto successe mi mee in uno stato d’agitazione. Solo
il vostro acceso desiderio e la pressante sollecitazione hanno potuto
spingermi a questa rievocazione che mi ha distruo per mesi e mesi il
sistema nervoso e ha resuscitato un’ombra di quell’indicibile orrore che
per anni, dopo la mia liberazione, ha continuato a rendere angosciosi i
miei giorni, spaventose le noi e terrificante la solitudine oltre ogni
umana sopportazione.
Vorrei solo aggiungere qualche parola a proposito del bizzarro barone
Vonderburg, alla cui conoscenza antiquaria delle tradizioni locali
dovemmo la scoperta del sepolcro della contessa Mircalla.
S’era da tempo sistemato a Graz, vivendo d’una rendita magra, non più
che una briciola delle proprietà principesche che gli avi suoi avevano
posseduto nell’Alta Stiria, dedicandosi alla minuziosa e sfibrante indagine
sulle tradizioni del vampirismo, prodigiosamente autenticate. Aveva una
padronanza assoluta di tui i lavori, grandi e piccoli, dedicati
all’argomento: Magia Posthuma, Phlegon de Mirabilibus, Augustinus de
Cura pro Mortuis, Philosophicae et Christianae Cogitationes de Vampiris di
John Christofer Herenberg e di mille altri, fra cui ricordo alcune delle
opere che dee in prestito a mio padre. Aveva anche una voluminosa
raccolta compendiaria di tui i casi giudiziari, dalla quale aveva dedoo
un sistema di principi che sembravano essere alla base della condizione del
vampiro, principi costanti per alcuni, occasionali per altri. Mi limiterò a
ricordare solamente che il pallore cadaverico aribuito a questa sorta di
revenants, altro non è che una messinscena. ando è nella bara o si
ostenta agli altri, il vampiro ha una bella cera, propria di chi è in buona
salute. ando poi si scoperchiano le loro casse, mostrano quei sintomi
che vennero catalogati come segni di vitalità vampiresca nella contessa di
Karnstein, morta da tanto tempo.
Non si è mai riusciti a spiegare come riescano a sgusciar fuori dalle loro
tombe e a ritornarvi ogni giorno per qualche ora, senza rimuovere la malta
o lasciar tracce di manomissione sulla cassa e nel sudario. La duplice
esistenza del vampiro trae sostentamento dal quotidiano sonno nella bara.
Il vampiro tende ad essere affascinato da particolari persone per le quali
avverte un trasporto straordinario, simile alla passione amorosa. Pur di
possedere le proprie viime, dimostra una pazienza certosina e
un’inventiva prodigiosa, poiché l’accesso ad una data persona gli può
essere impedito in cento modi. Non desiste finché ha saziato la sua
ingorda passione ed ha prosciugato la vita della persona agognata. In
questi particolari casi amministra e protrae il suo piacere deliuoso con la
raffinatezza di un epicureo e lo rende via via più intenso con gli approcci
graduati di un corteggiamento abilissimo, al culmine dei quali sembra
perfino anelare ad una qualche forma di corresponsione. Nei casi ordinari,
invece, tira drio al suo scopo, sopraffa la viima con la violenza, la
strangola e ne fa l’oggeo di un unico mortale festino.
Si dice che in certi casi il vampiro sia condizionato da particolari
restrizioni. Nel caso che vi ho narrato, Mircalla sembrava dover limitarsi
ad usare un nome che, se non fosse stato il suo, del suo doveva essere
l’anagramma, senza l’aggiunta o l’omissione di una leera: Carmilla,
appunto, e Millarca.
Il babbo narrò al barone Vonderburg, che si traenne da noi per due o
tre seimane dopo la eliminazione di Carmilla, la storia del nobile moravo
e del vampiro, accaduta nel camposanto di Karnstein. Poi gli chiese come
fosse riuscito a scoprire l’esaa ubicazione della tomba della contessa
Mircalla che era stata occultata da tanto tempo. I lineamenti del barone si
raggrinzirono in un sorriso da maschera groesca, elusivo e misterioso,
poi osservò l’astuccio consunto degli occhiali che si rigirava fra le mani,
alzò gli occhi e disse:
– Possiedo molti diari e altri documenti di quell’uomo eccezionale: il più
curioso è uno che traa delle visite che fece a Karnstein e di cui mi avete
parlato. La tradizione, lo sappiamo bene, sbiadisce e distorce la realtà.
Poteva essere considerato un nobiluomo moravo, poiché si era trasferito in
quella regione ed era veramente di nobili natali, anche se era originario
dell’Alta Stiria dove era nato. Basta poi dire che da giovane era stato
l’amante appassionato e il favorito della bella Mircalla, contessa di
Karnstein. Ma la scomparsa prematura di lei lo aveva geato in un dolore
inconsolabile. È nella natura dei vampiri crescere e moltiplicarsi secondo
una ben determinata legge dei fantasmi. Consideriamo ad esempio un
territorio immune da questa pestilenza: come si manifesta e si diffonde un
simile fenomeno? Ve lo dirò subito: accade che un tale, più o meno
malvagio, ponga fine ai suoi giorni; in certe circostanze un suicida può
diventare un vampiro; il vampiro comincia a far visita ai vivi immersi nel
sonno; questi muoiono e quasi sempre, nella loro tomba, diventano a loro
volta vampiri. È quanto successe nel caso della bellissima Mircalla, che era
stata viima di uno di questi demoni. Fu una scoperta del mio antenato,
barone Vonderburg, da cui ho ereditato il titolo, il quale s’imbaé anche in
altri particolari nel corso degli studi a cui s’era dedicato. Dedusse fra
l’altro che, prima o poi, si sarebbe finito per sospeare di vampirismo la
contessa defunta che, in vita, aveva amata intensamente. Fu terrorizzato al
pensiero che, se Mircalla fosse veramente risultata quello che poteva
essere, i suoi resti sarebbero stati profanati e oltraggiati da un’esecuzione
postuma. Ha lasciato una curiosa operea per dimostrare che, quando si
sorae al vampiro la sua duplice esistenza, questi precipita in una
condizione più terribile. Per questo decise di sorarre l’amato bene a
questa sorte infame. Adoò quindi il trucco di un viaggio in questa terra e
finse di rimuovere i resti della donna, mentre in realtà ne occultò il
sepolcro. ando tuavia diventò vecchio e, a distanza di anni, guardò
con occhi diversi quanto aveva compiuto e il pericolo che avrebbe lasciato
dietro di sé, ne provò disgusto ed orrore. Forse tentò di fare qualche cosa
per riparare, ma la morte glielo impedì. Sarebbe stata quindi la mano di un
suo discendente lontano a concludere l’opera rintracciando, anche se
troppo tardi per molti, la tana della bestia.
Restammo ancora a conversare e, fra le altre cose, aggiunse anche
questo:
– Uno dei segni che contraddistinguono un vampiro è la forza della
mano. La mano esile di Mircalla serrò il polso del generale come una
morsa di acciaio quando questi sollevò l’accea per calare un fendente.
Una forza che non si limita alla presa, essa infai lascia nell’arto un
torpore paralizzante dal quale ci si riprende, e non sempre, solo con il
trascorrere del tempo.
La primavera successiva il babbo mi condusse a fare un viaggio in Italia
e restammo via per oltre un anno. Ci volle molto tempo prima che il
terrore dell’accaduto cominciasse a dileguarsi. Perfino oggi l’immagine di
Carmilla mi si riaffaccia talora alla memoria in ambiguo sembiante… ora è
la gaia fanciulla, adorabile nel suo languore, ora il demone fremente che
vidi nella cappella diruta, e spesso mi capita di ridestarmi all’improvviso
da un sogno con l’idea di sentire dinnanzi alla porta del soggiorno il passo
felpato di Carmilla.
Gli anagrammi nel sangue
di
Ailio Brilli
Un personaggio può sopravvivere allo scacco del tempo fin quando
riesca, anagrammando il proprio nome, a elaborare identità fiizie sempre
diverse: questa è l’idea centrale del romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu.
L’anagramma è la cifra del sangue che, in analogia con il nome, assicura
una relativa incorruibilità fisiologica al personaggio e, al narratore, un
modo per eludere leggi fisiche e verosimiglianza narrativa. Per altro verso
esso è anche un limite, soo forma di rebus, posto alla fuga nel
meraviglioso puro.
Infai quello che distingue Carmilla dagli altri romanzi tardo-gotici
dell’autore, e dalla copiosa messe di ghost stories vioriane, è proprio
questo ricorso al gioco combinatorio come dominio soilmente ironico di
una materia narrativa irrazionale ed emotiva. Gli stessi travestimenti, le
dissimulazioni, il ballo in maschera, altro non sono che la messinscena, la
traduzione romanzata di questo artificio e di una curiosità linguistica che
affiora, anch’essa travestita, in vari aspei del romanzo.
Ad una soile ironia metanarrativa corrisponde in particolar modo
l’elaborazione della categoria romantica del doppelgänger, o
dell’inquietante comparsa del doppio: Carmilla non è infai solo la
reincarnazione anagrammatica di Millarca e di Mircalla nella serie
demoniaca; ella è anche l’altro da sé della protagonista, l’estroflessione
della parte segreta ed inconscia, il fantasma che, nato dal suo sangue, non
può che alimentarsi di esso, quasi a far trasparire ad un leore meno
succube del sobrio apparato di terrori, la trama di una crisi d’identità o
della scissione del personaggio sulla soglia della maturazione. E quale
credenza, meglio del vampirismo, poteva tradurre alla leera la loa che si
scatena nel sangue della giovane protagonista, relegata in un romitorio di
fate e di gnomi bonari, premonendone il terribile destino di creatura
malinconica, gradualmente soraa alla vita e lasciata defluire in un
mondo di fantasmi? Che Laura e Carmilla siano il fruo della
decomposizione psicologica di uno stesso personaggio, in sé complesso e
contraddiorio, non è solo aestato dalla medesima età delle due ragazze,
ma soprauo dal fao che nelle loro vene scorre lo stesso sangue, come
lascia intendere l’agnizione del ritrao. La loa con l’altro da sé non può
allora concludersi che in termini manichei, nell’annientamento di una
delle parti confliuali, come unico mezzo per auare il superamento della
fase iniziatica. Proprio per questo Carmilla è protesa a incorporare Laura
in un mondo di fantasmi; mentre questa ultima potrà liberarsi dalle
allucinazioni e riappropriarsi della realtà solo con l’aiuto del ferro e del
fuoco della legge del mondo adulto.
La minacciosa insidia di Carmilla è sviluppata da Le Fanu con soile
perversità. In un mondo ove la rimozione sessuale è categorica – gli unici
personaggi maschili del romanzo hanno superato la soglia della vecchiaia
– e dove l’oggeo del desiderio può essere solo una proiezione
fantasmatica, Laura cade in balia, inconsapevolmente, di una vera e
propria sindrome dell’umor malinconico o, se si preferisce, di quella
perversione del desiderio che si rende inaccessibile il proprio oggeo nel
tentativo di garantirsi dalla sua perdita. E allorché il mondo esterno è
narcisiticamente negato dal malinconico, il fantasma riceve da questa
negazione un principio di realtà che lo proiea in una dimensione
intermedia fra l’amore di sé e la scelta oggeuale esterna. Carmilla è allora
il fantasma che nasce da questa ipertrofia dell’immaginazione che connota
l’umor nero e che assolve ad un’ambigua gratificazione e al desiderio di
punizione. Carmilla rappresenta infai l’eros malinconico che distrugge
incorporandolo l’oggeo perduto, identificato narcisiticamente con la
persona della protagonista, araverso un processo che regredisce alla fase
orale o cannibalica (il vampirismo appunto) della libido.
Una simile perversione è, seppure motivata, inconciliabile con il buon
mondo asburgico di vecchi funzionari a riposo. Per questo aributi ed
aspei contraddiori dell’eroina vengono disseminati fra due personaggi
diversi, seppure intimamente collegati. Solo così la loro confliualità
diventa narrativamente funzionale e persino inedita: perché fra l’eroina e
il suo doppio vive e si sviluppa un rapporto scopertamente lesbico, fao di
arazione e di repulsione, di amore come fuga inconscia verso la morte,
un rapporto con il vampiro che brucia in anticipo sviluppi e risorse di un
filone in gran parte a venire, se si pensa che il romanzo di Le Fanu anticipa
di qualche anno lo stesso Dracula di Bram Stoker.
Preannunciata dai famosi versi di Shakespeare sulla malinconia (un
segno in codice per il leore?), l’eroina della noe e della gelida terra
introduce la tematica del malinconico, radicata in profondo nella
leeratura inglese, e con esso il riverbero di quelle cronache psichiatriche
dell’epoca, in cui i casi di vampirismo e di cannibalismo venivano di
norma assimilati a forme di malinconia. Né si dimentichi a tale proposito
che il pretesto del romanzo è costituito dal riordinamento di casi clinici di
un fantomatico neurologo. E l’umor nero di Carmilla dimostra una fedeltà
sorprendente al proprio statuto ambivalente e contraddiorio, erotico e
luuoso, in cui il malinconico aspira ad incorporare l’oggeo del desiderio
divorandolo o, nella faispecie, suggendone il sangue. In questo senso il
vampiro altri non è che una maschera di un atavico personaggio
saturnino, arido e freddo, letargico e lussurioso, in avida incea del tepore
vitale; reviviscenza, soo le spoglie di una superstizione divenuta di gran
moda con i romantici, auspici Byron e il Dr. Polidori, di un modello
culturale riutilizzato dai vioriani per esorcizzare ed espellere il mostro,
sia esso Mr. Hyde o Carmilla. Che poi al fantasma da annientare venga
allegata una cultura altra rispeo ai fondamenti ideologici di un’eroina di
salde virtù vioriane, rientra nella strategia narrativa del doppio: dal
disprezzo della ritualità funebre nell’epoca che sancisce il rigoglio della
retorica mortuaria, al materialismo illuministico delle cui citazioni è
costellato il romanzo, allo scoperto ateismo di chi si ribella alla morte,
all’unica morte, del corpo. Ma è soprauo la figura stessa di Carmilla a
catalizzare quanto di torbido ed insieme di fascinoso è in una tradizione
dell’iconologia femminile che, araverso i modelli della Geraldine di S. T.
Coleridge e della Berenice di E. A. Poe, risale alla languida accidia
medievale. La spossata, ieratica indolenza di Carmilla, la sua stessa
sterilità saturnina, l’avidità sanguinaria, costituiscono i tipici connotati
negativi (condensati nell’idolatria decadente della lesbica), che insidiano
l’ideale etico vioriano della donna materna e produiva.
Un romanzo breve che, se leo con un orecchio agli impliciti che ne
solcano la compaezza, tende a controbilanciare la fuga a ritroso
nell’abisso della nostalgia e dell’irrazionale, tipica della ripresa neogotica
vioriana, con una imperceibile ironia che non solo dichiara i propri
idoli, aprendo così uno spiraglio sul doppio registro del testo, –
interessante una quasi parafrasi nel capitolo Una strana sofferenza
dell’Incubo di J. H. Fuseli – bensì giunge a perforare l’umbratile atmosfera
del romanzo e il suo incantamento emotivo con un paradosso che, da solo,
sarebbe bastato a ridurre al livello di parodia un testo meno denso di
significati: che è poi quello in cui il vampiro è minacciato dal suo
antagonista più ovvio… il cavadenti!
A. B.
Notizia sull’autore
Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873), visse quasi ininterroamente nella natale Dublino. Il
padre, cappellano militare, proveniva da una famiglia francese di ugonoi, mentre la madre era una
direa discendente del drammaturgo Richard Brinsley Sheridan. Laureato in legge, preferì dedicarsi
al giornalismo, divenendo comproprietario di alcune testate dublinesi, e alla leeratura. Autore
prolifico di circa quaordici romanzi e di una trentina di racconti, degno di nota fra i primi Uncle
Silas e la silloge In a Glass Darkly fra i secondi, fu predileo nel mondo vioriano come scriore di
ghost stories. Collaborò ai maggiori giornali britannici, da «Temple Bar» a «All the Year Round» di
Dickens. Alcuni suoi racconti furono illustrati da Phiz, il mago dei vigneisti dell’epoca. Fine
antiquario e appassionato cultore di leggende, questo «Irish Poe» finì per diventare egli stesso
parte integrante di un certo mondo britannico, come già osservava Henry James nel suo racconto
e Liar: «Sul comodino c’era l’immancabile volume di Le Fanu, leura ideale in una dimora di
campagna per le ore dopo la mezzanoe».
Indice
Carmilla
Prologo
Uno spavento premonitore
Un’ospite
Ricordi a confronto
Le sue abitudini. Una passeggiata
Una prodigiosa somiglianza
Una strana sofferenza
Verso l’abisso
La ricerca
Il doore
Una perdita
Il racconto del generale
Una petizione
Il boscaiolo
L’incontro
Ordalia ed esecuzione
Conclusione