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CRONACHE

Il segreto di Annamaria
La perizia per il delitto di Cogne: «Forse ha dimenticato»
16/6/2006
Marco Neirotti

TORINO. Brividi e malinconia e poi brividi ancora. E’ questo il mondo


delle 267 pagine di perizia psichiatrica su Annamaria Franzoni. Una
spedizione elegante e cauta, ma minuziosa e impietosa, in un deserto
affollato, fra ogni carta, ogni parola, ogni sorriso o pianto della signora, in
ogni voce che svetta nelle intercettazioni ambientali. Una spedizione dove
gli esploratori della mente hanno a lungo riflettuto prima di sottoscrivere
quell’affascinante formula psichiatrica che è lo «stato crepuscolare
orientato» che in Aula vuole dire molto: «Evenienza di uno stato di
infermità con valore di malattia e quindi con potenziale rilevanza agli effetti
del vizio di mente».
E c’è un intero percorso di scienza e umanità, di legge e sguardo ampio quando i consulenti concludono:
«E’ da ritenersi che lo stato di alterazione non fosse così profondo da determinare una completa esclusione
delle capacità di intendere e volere. E’ verosimile, tuttavia, che fosse talmente grave da comportare una
significativa diminuzione delle stesse ai sensi dell’art. 89 c.p.».

Stefano che urla


Annamaria sviscerata senza il suo assenso, ma con delicatezza. Addirittura tutto incomincia con una
bibliografia, con i riferimenti di scuola. Poi l’incarico, la formalità e, finalmente, il viaggio. Verbali,
deposizioni, annotazioni, tutto rivisto da più angolazioni. E’ questa la perizia in «assenza della periziata». E’
un racconto che mette pena quello di Stefano seduto sulla porta e continua a urlare il nome del figlio e
piangere, «buttarsi a terra e urlare», lei che chiede di «farne un altro» e lui che non risponde. Questa non è
un’indagine sulle responsabilità. E’ la narrazione di situazioni psicologiche o psichiatriche. Una rassegna
continua: i momenti del ritrovamento del piccolo Samuele sono raccontati da tanti diversi punti di vista, da
stati emotivi differenti, è una sorta di ricostruzione a tavolino di dati che possono eludersi fino a un certo
punto, poi non più: «La donna non era certo sconvolta...». Relazioni dal carcere: «Il pianto che caratterizza
l’intero colloquio non sempre corrisponde a un reale vissuto d’angoscia soprattutto nella assoluta mancanza
di criticità rispetto al presente e alla detenzione».

Indagine storica
Quella di De Leo, Freilone, Galliani, Traverso è la perizia più improbabile in partenza e più solida in
conclusione che si sia vista negli anni più recenti. Fanno gli investigatori senza dover decidere
colpevolezze, fanno gli investigatori senza collaborazione dell’imputata. E’ possibile davvero? Bastano
carte e riprese tv, bastano fuori onda e intercettazioni? Questa è la storia di un’indagine «storica» appunto
ma priettata in avanti su una persona che c’è, è lì, non conosci, non vuole partecipare e tu devi raccontarla.
Una perizia che è una lezione di lettura di documenti. C’è un approfondimento che, non fosse professionale,
sembrerebbe - parlando di psichiatri - maniacale. «Percezione di un fatto grave di cui non conosce la
natura»: tanto è meticoloso e delicatamente impietoso, tanto è investigativo della mente il percorso degli
specialisti. «Mancanza dei riferimenti ai sentimenti provati in quel momento», «Costante riferimento alla
felicità infranta», «Distacco emotivo dalla situazione».

Dati oggettivi
Come si fa a dire tutto questo? Ha senso leggere dati oggettivi senza interagire con chi di quei dati è
protagonista? Loro sono sereni. E le 267 pagine sono, in effetti, sempre la spiegazione di se stesse, il perché
si è arrivati a una riflessione, a un quesito, a una conclusione. C’è un’osservazione di ogni gesto, parola,
contraddizione. Il pianto, per esempio. Dalla cartella clinica del carcere: «Piangendo con dispiacere forte,
apparentemente», alle annotazioni su ogni singola manifestazione di tristezza. In queste pagine non c’è un
passo, una riga di cinismo. C’è, invece, la caccia a ogni parola, gesto, smorfia per collegarle con tutto il
resto. Impassibili, dedicano pagine a spiegare la loro cautela davanti a test, come il Rorschach o l’MMPI-2,
che sono stati eseguiti da altri colleghi. Li leggono e ne tengono conto, anche se «non sembra possibile un
preciso assessment globale per chi si trovi ad avere un materiale somministrato da terzi».

Mondo privato
Poi si arriva a ciò che fa infuriare il difensore Taormina: «Reperti multimediali riguardanti la signora
Franzoni»: televisioni, interrogatori in aula, intercettazioni telefoniche e ambientali. E’ un capitolo, questo,
che per i periti, per la loro ricerca, ha una rilevanza oggettiva enorme. Siamo al nodo, ai «segreti». Per noi,
al di fuori, sarebbe morbosa curiosità, per loro è delicato distacco, pacata freddezza. Non possono
domandarle cose che ha già ripetuto, stanno a visionare ogni parola o immagine. E’ soprattutto qui la svolta
della perizia. A partire da pagina 126 si entra in un mondo privato di dialoghi, sfoghi, richieste d’aiuto che
nessun giornalista ha il diritto di violare, almeno per quanto riguarda la madre che ha perso un figlio e che
viene ritenuta colpevole. I periti rilevano il suo stato d’animo: «Non possono esserci accuse contro di lei,
perché lei è una donna che soffre e tutti devono comprenderlo».

La «Bimba»
E’ la «Bimba» delle intercettazioni, la «Bimba» di ogni dialogo, la «Bimba» che, leggendo quelle pagine un
poco è coccolata e un poco è un gioiellino cui si impedisce di crescere. Non a caso si parla di «egocentrismo
narcisistico di stampo infantile». Pagine e pagine ancora di dialoghi carpiti dalle microspie. Servivano alle
indagini, adesso sono servite agli specialisti per leggerci dentro pieghe della personalità. Di lei e di tutti
quelli che le stavano intorno. I medici hanno rigirato ogni aspetto della vicenda, ogni attimo, guardandolo
da ogni prospettiva, appaiando anche le deposizioni successive di chi è intervenuto sul posto, di chi ha
aiutato, comparando le intercettazioni. Sono drammatici certi passaggi: Stefano Lorenzi le domanda «che
cosa ti succede?».

Lei risponde «di essere stata male» e poi piange. Nella perizia questo non significa nulla se non un sondino
per viaggiare nelle emozioni. Lavorare su documenti non è come guardare negli occhi una persona. Ma
quanto raccontano le carte, le voci, i volti in tv. E il cammino dei periti è lento: «Incapacità o grave
difficoltà della signora a tollerare le sensazioni e i sentimenti spiacevoli, a fronte dei quali mette in atto
meccanismi di difesa drastici di presa di distanza emotiva». Ed è triste per chi lo scrive il monitoraggio di
una sofferenza sua e «mai a quella che può aver provato il bambino».

Rigore e umanità
C’è il rigore professionale, ma c’è l’accortezza dell’umanità in queste pagine. Ieri qualcuno ha anticipato
una frase estrapolata, ma la «diagnosi» qui si legge come il porto più probabile di chi ha navigato tra scogli
di parole e spezzoni di immagine per arrivarci: «All’epoca dei fatti versava in una condizione patologica
definibile in termini di sindrome ansiosa in soggetto di personalità connotato da prevalenti componenti di
tipo isterico».

I quattro medici ribadiscono che non competono loro giudizi di innocenza o colpevolezza. Anzi, nelle
ultime pagine, entrano nel dettaglio del rapporto di Annamaria con se stessa e con la famiglia, con se stessa
e con Samuele, scavano nei «due diversi livelli di coscienza». E chiudono un itinerario che la gente si
domanda come sia possibile senza che lei si sia fatta vedere. Le 267 pagine raccontano proprio come è
possibile una lente di ingrandimento che incrocia ogni nostra parola con ogni nostro gesto. Finendo in
quello «stato crepuscolare» che dei manuali fa malinconia.

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