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Il Mulino - Rivisteweb

Lorenzo Domaneschi
Boards don’t hit back. Etnografia della pratica del
wushu kung fu
(doi: 10.3240/85153)

Etnografia e ricerca qualitativa (ISSN 1973-3194)


Fascicolo 3, settembre-dicembre 2016

Ente di afferenza:
Università degli studi di Milano Bicocca (unibicocca)

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Lorenzo Domaneschi

Boards don’t hit back


Etnografia della pratica
del wushu kung fu

Boards don’t hit back. Ethnography of the practice of Wushu Kung Fu


Drawing on the inspiring work by Wacquant about apprenticeship in boxing, I
present data collected during a five-year ethnographic study of a Wushu Kung
Fu Association in Italy. This article explores the ways in which this martial art
is constructed as a «social practice», drawing on theories of social practice in
order to investigate in depth the relationship between habitus and materials.
This relationship seems to be underestimated both in Wacquant’s presentation
and in most martial arts studies developed from his work. In conclusion, I point
out the importance of recognizing the active role of objects in transforming
the habitus and briefly discuss the potentiality of enactive ethnography in
analyzing social practices.
Keywords: habitus; theories of practice; enactive ethnography; martial arts
studies; Wushu Kung Fu

Zhiyou gongfu shen, tiechu mocheng zhen.


(Solo con un duro lavoro minuzioso si può macinare
una sbarra di ferro fino a farla diventare un ago)
Proverbio cinese

1. 1. Introduzione

Nell’ottobre del 2011, pochi giorni prima del mio secondo esame di passaggio di
grado nella Scuola di Kung fu che frequentavo ormai da quattro anni, mi capitò
un incidente piuttosto serio. Un amico, accompagnandomi a casa in moto, perse
il controllo del mezzo: dopo un volo di quasi cinque metri, finii a terra colpendo
violentemente la gamba sinistra. Ne derivò una frattura del femore molto grave
e un relativo intervento chirurgico. Due settimane dopo, uscito dall’ospedale,

x
Lorenzo Domaneschi, Department of Sociology and Social Research, University of Milan-Bi-
cocca. Via Bicocca degli Arcimboldi, 8 – 20126 – Milan (Italy). lorenzo.domaneschi@unimib.it

ETNOGRAFIA E RICERCA QUALITATIVA - 3/2016


LORENZO DOMANESCHI

andai in Kwoon1 per salutare i miei compagni e il mio maestro. Appoggiai le


stampelle al muro e mi sedetti in un angolo della stanza a osservarli mentre
cominciavano la loro lezione. In quell’istante, seduto a margine della scena,
con un quaderno in mano per prendere appunti sulle tecniche, due mondi che
fino ad allora avevo tenuto separati si sovrapposero in un attimo. Nello stesso
momento, ero un allievo che prendeva appunti sulle tecniche dell’arte marziale
e un sociologo nelle vesti di etnografo che osservava un mondo sociale in azione
(Noy, 2015).
Il resoconto che presento qui, dunque, riguarda un’indagine sul campo
cominciata in quel momento, organizzata secondo l’impostazione suggerita da
Loïc Wacquant (2002; 2014a) e sulla scorta dei sempre più numerosi tentativi di
analisi del mondo delle arti marziali da parte delle scienze sociali2. In partenza,
l’attenzione era rivolta proprio alle pedagogie del corpo costruite tramite la di-
sciplina di una particolare arte marziale tradizionale3, ovvero alla fabbricazione
di uno specifico habitus dell’artista marziale in quanto differente da quello di un
boxeur. A mano a mano che il mio duplice percorso di osservatore sul campo e di
allievo della scuola progrediva, tuttavia, mi accorgevo che la domanda centrata
esclusivamente sulle condotte sociali degli agenti non consentiva di spiegare in
maniera soddisfacente cosa facesse del kung fu una pratica diversa dalla boxe
o da altre discipline orientali. Mi accorgevo, in altri termini, che l’approccio
proposto da Wacquant non consentiva di mettere in questione una parte cruciale
del lavoro dell’artista marziale: l’interazione tra gli agenti e i materiali della
pratica (Shove et al., 2012). Una parte, quest’ultima, che circonda certamente
tanto la pratica del pugile quanto quella dell’artista marziale, ma che, laddove
esaminata empiricamente nelle sue peculiarità, permette di discernere tra le
due con molta più chiarezza del mero ridurle «essenzialmente a un processo di
educazione del corpo, a una particolare socializzazione della fisiologia» (Wac-
quant, 2002, p. 61).
Come cercherò di raccontare nelle prossime pagine, mentre mi è parso
brillante ed efficace il suggerimento metodologico di Wacquant di considerare
l’habitus come un indicatore dell’attività di ricerca empirica (2011), sottopo-
nendosi a quella che lui stesso ha più tardi definito come «enactive ethnogra-

x
1 Il termine corrisponde alla traslitterazione di un ideogramma che nel vocabolario delle
arti marziali cinesi tradizionali indica il luogo di allenamento, ma rimanda anche al significato
di casa e scuola privata. Approfondirò il ruolo e il significato di questo luogo, tra qualche pagina.
2 Per approcci più generali e di rassegna si vedano Cynarski et al. (2005) e Gaudin (2009);
per analisi relative alla trasposizione di pratiche e discipline «orientali» in «occidente» si veda
Farrer, Whalen-Bridge (2012); per approcci più vicini a quello in parte adottato qui, si vedano
la raccolta di saggi di Sanchez e Spencer (2013) e la rassegna della letteratura di Channon
e Jennings (2014); infine, per una definizione della sotto-disciplina emergente dei martial
arts studies, Bowman (2015).
3 Sulla definizione di «arti marziali tradizionali» c’è un piccolo dibattito aperto in lettera-
tura (Theeboom, De Knop, 1997; Ryan, 2008; Brown, Leledaki 2010; Jennings et al., 2010;
Farrer, Whalen-Bridge, 2012). In questa sede, mi interessa però adottarla come espressione
emic, ovvero utilizzandola come la utilizzano gli agenti in campo, per differenziare nella
pratica l’insegnamento delle arti marziali dai corsi di difesa personale e dagli sport da com-
battimento.

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BOARDS DON’T HIT BACK

phy» (2015), al contrario, mi è parso che confinare l’oggetto di ricerca all’habi-


tus sia fuorviante. Per quanto cruciale, accanto a quest’ultimo, infatti, altri ele-
menti contribuiscono a fare la pratica (Shove et al., 2012), in maniera tutt’altro
che passiva o semplicemente accessoria. Pertanto, è su questo punto specifico
che costruirò l’argomento centrale di questo lavoro, focalizzando la domanda
di ricerca, quindi, sull’esame della presenza attiva dell’elemento materiale in
relazione alle condotte sociali degli agenti, allo scopo di dare conto dell’aspetto
multi-fattoriale della pratica (Schatzki et al., 2001; Reckwitz, 2002).
Per fare questo, comincerò con una breve nota metodologica in cui spiego
come ho avuto accesso al campo e quali metodi di raccolta e analisi dati ho sele-
zionato per questo scopo; quindi, procederò illustrando la cornice teorica da cui
ho sviluppato la domanda di ricerca, costruita a partire dal recente dibattito in-
torno alle cosiddette teorie della pratica (Shove et al., 2012); infine, presenterò e
discuterò criticamente i principali riferimenti empirici che ho acquisito durante
la mia esperienza sul campo, per concludere poi con alcune riflessioni più ge-
nerali in merito alle potenzialità euristiche di una combinazione tra l’approccio
basato sulla pratica e la cosiddetta «enactive ethnography» (Wacquant, 2015).

2.2. Etnografia dell’arte marziale: il caso del wushu kung fu

Come anticipavo poc’anzi, la possibilità d’integrare la proposta di Wacquant


(2002; 2014a) con quella proveniente dalle teorie della pratica (Shove et al.,
2012) è emersa proprio grazie a diversi momenti vissuti durante cinque anni di
lavoro etnografico che ho svolto all’interno di una delle principali associazioni di
«discipline orientali» presenti in Italia4. Si tratta di una Associazione Culturale
Sportiva Dilettantistica, con sede a Genova e con diverse succursali sparse per
il territorio nazionale (Piemonte, Toscana, Lazio e Sardegna) e internazionale
(Spagna e Germania), in cui viene trasmesso l’insegnamento del chuangtong
wushu kung fu5 inteso come arte marziale cinese tradizionale (Barbieri, 2004;
Jennings et al., 2010).

x
4 Come nel caso precedente dell’espressione «arti marziali tradizionali», anche qui per
le «discipline orientali» non mi importa entrare nel dibattito sull’orientalismo (Said, 1978),
affrontato altrove (Brown, Leledaki, 2010) con interessi conoscitivi diversi dai miei. Utilizzo
l’espressione come la utilizzano gli agenti sociali in campo per distinguere tra pratiche diverse,
così come fanno varie istituzioni di ricerca (Censis-Coni, 2008; Uisp, 2015).
5 Vale la pena chiarire qui che l’espressione kung fu con cui in Occidente si identifica
di solito un’arte marziale cinese, sulla scia, soprattutto, di una certa filmografia nata negli
anni settanta del secolo scorso (Di Martino, 2007), si riferisce, in realtà, a due ideogrammi
che rappresentano il «duro lavoro» necessario in ogni attività per arrivare a svolgerla con
un certo grado di abilità. Gli altri due ideogrammi traslitterati con wu-shu (letteralmente,
arte marziale ma, anche, fermare lo scontro) identificano l’universo delle arti marziali in
Cina. L’espressione chuangtong wushu kung fu (abilità nell’arte marziale tradizionale) iden-
tifica l’attuale pratica delle arti marziali cinesi tradizionali, appunto per differenziarla dalle
forme di wushu nate di recente e legate alla ginnastica artistica e acrobatica (Theeboon, De
Knop, 1997), senza legami con i sistemi di combattimento a mani nude e con le armi, codi-
ficati nel passato e tramandati oralmente da maestro ad allievo (Barbieri, 2004; Cangelosi,
2006).

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In questa scuola vengono insegnati cinque diversi stili6 tra i più di cento
conosciuti nel panorama eterogeneo del wushu kung fu (Barbieri, 2004). Questa
scelta didattica, poco consueta nel mondo delle arti marziali cinesi in Occidente,
rende il programma di insegnamento molto articolato e complesso e, di conse-
guenza, l’impegno richiesto agli allievi, in termini di tempo e dedizione, molto
superiore alla media della pratica di un qualsiasi sport che non sia affrontato in
un’ottica di professionismo. Durante il periodo che ho trascorso nella scuola, in
particolare a partire dal mio secondo anno (2009) e fino al momento in cui sto
scrivendo, la mia pratica ha previsto una media di 2/3 ore al giorno per cinque
giorni la settimana, da gennaio a dicembre, distribuite tra lezioni settimanali,
lezioni private con il Maestro, stage monotematici e allenamenti liberi.
Grazie, quindi, a questo tipo di accesso al campo, negli ultimi cinque anni
(nello specifico dal dicembre 2011 al gennaio 2016) ho potuto effettuare ripetute
e approfondite sedute di osservazione partecipante, sottoponendomi in prima
persona alle logiche e alle forze che contribuiscono a fare della pratica del wushu
kung fu quel che è. Dal punto di vista strettamente metodologico, pertanto,
ho seguito fino in fondo il metodo della «enactive ethnography» suggerito da
Wacquant (2015) sulla scia del suo lavoro sulla boxe.
Questa particolare soluzione, mentre da un lato suggerisce di «agganciare
più strettamente l’etnografia a una specifica cornice teorica» (Wacquant, 2015,
p. 4) per non incorrere in alcune ingenuità seducenti dello storytelling postmo-
derno come l’auto-etnografia (Reed-Danaha, 1997) o in quelle che lui chiama
le «illusioni epistemologiche» della thick description geertziana (Geertz, 1974),
dall’altro lato invita a un maggior coinvolgimento etnografico del ricercatore –
intus et in cute, nelle sue parole – che deve poter apprendere e padroneggiare
la pratica che pretende di studiare.

For contemporary objects, the best method is what I now call enactive ethno-
graphy, that is, immersive fieldwork through which the investigator acts out
(elements of) the phenomenon in order to peel away the layers of its invisible
properties and to test its operative mechanism. […] The first commandment
of incarnate inquiry, then, is to enter the theatre of action in some ordinary
capacity and, to the highest degree possible, apprentice in the ways of the
people studied – be they pugilists, professors, or prosecutors – so as to gain
a visceral apprehension of their universe as materials and springboard for its
analytic reconstruction (Wacquant, 2015, pp. 5-6).

In questo modo, attraverso un’indagine riflessiva dell’habitus del ricerca-


tore impegnato nella pratica è possibile evidenziare tre componenti: quella co-
gnitiva, quella conativa e quella affettiva (Wacquant, 2014b). In altre parole, è
possibile indagare rispettivamente la trasformazione delle capacità percettive

x
6 Il wushu kung fu tradizionale non rappresenta una singola arte marziale, bensì è
costituito da molteplici «stili» ognuno dei quali possiede un bagaglio di tecniche a mani nude
e con armi, metodi d’allenamento e conoscenze strategiche proprie, frutto dell’elaborazione e
della trasmissione di generazioni di maestri (Barbieri, 2004; Cangelosi, 2006).

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di ricezione del mondo, delle capacità propriocettive e cinestetiche e, in ultimo,


delle energie emozionali e passionali investite «negli oggetti, imprese e attori
che popolano il mondo in esame» (Wacquant, 2014a).
Con questo tipo di operazionalizzazione, dunque, mi sono immerso nella
pratica del wushu kung fu accumulando, oltre alle note di campo, interviste
narrative con miei compagni di allenamento (22), con altri allievi di altri sedi
(15) e con diversi istruttori delle diverse sedi (8) oltre che con il Maestro in
due diverse occasioni a distanza di tre anni. Inoltre, ogni sei mesi, tentavo
una sistemazione organica del materiale, procedendo a eventuali codificazioni,
laddove possibile (Hammersley, Atkinson, 2007). Per quanto riguarda i metodi di
trascrizione delle note, invece, ho seguito spesso – dato l’investimento temporale
e di energie dedicato all’osservazione – la tecnica dei jottings (Emerson et al.,
1995), concentrandomi su particolari eventi o situazioni che, di volta in volta,
mi sembravano tradurre efficacemente il tema d’indagine.
Proprio grazie alla sistematica adesione a questo metodo, mi sono progres-
sivamente accorto che il mio habitus di artista marziale e, in particolare, di
praticante di kung fu, andava formandosi nelle sue tre componenti – cognitiva,
conativa e affettiva – comprovando ancora una volta le potenzialità di questo
strumento come indicatore dei progressi dell’attività di ricerca. Tuttavia, più
procedevo in questa direzione, più si rendeva evidente quanto confinare la do-
manda di ricerca alle trasformazioni dell’habitus fosse riduttivo quando non
fuorviante. Infatti, proprio il lungo tempo speso a praticare nell’ambiente della
kwoon e gli sforzi – cognitivi, conativi e affettivi – necessari per adattare la storia
del mio corpo alla storia di quello stesso ambiente, hanno via via reso sempre
più evidente che, oltre all’habitus, altri elementi contribuivano in maniera attiva
a definire socialmente la pratica di quella particolare arte marziale, differen-
ziandola da altre discipline.
Per spiegare meglio tale questione ed entrare così nel vivo della discussione,
è utile riprendere una scena di un famoso film con Bruce Lee (Enter the Dragon,
1973), in grado di esemplificare questa parte mancante. In questa scena, si
vede il personaggio interpretato da Bruce Lee di fronte a un avversario – molto
più grande di lui in termini di peso e corporatura – in attesa di cominciare un
combattimento. L’avversario, per mostrare la sua forza fisica e il livello delle
sue conoscenze marziali, compie un gesto che è ormai quasi un cliché nei film
e nelle rappresentazioni mediali dell’arte marziale: lancia in aria una tavoletta
di legno e, con una tecnica di pugno rapida e potente, letteralmente, la spezza
in due. La telecamera si sposta allora in controcampo, su un primo piano di Lee
che può recitare la battuta nel suo celebre stile borioso e apodittico: «Boards
don’t hit back»7.
È chiaro il senso della battuta, peraltro ripresa poi molto spesso in questo
tipo di filmografia (Di Martino, 2007): si insiste sul fatto che, per quanto gli
attrezzi utilizzati in allenamento possano ricordare strumenti di tortura e, di

x
7 Vale la pena notare che, nella versione doppiata in italiano, questa battuta – forse a
causa della non immediata traducibilità in italiano – viene sostituita con un decisamente meno
originale e vagamente più western «Morirai. O’Hara, morirai!».

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conseguenza, dimostrino la forza e l’abilità del corpo di chi vi si è sottoposto


(ed è sopravvissuto), d’altra parte, come dice il personaggio interpretato da Lee,
nessun oggetto risponde ai colpi come può fare un altro corpo umano, un altro
avversario in carne e ossa. Appunto, le tavolette non ti colpiscono a loro volta.
Nel corso di questo saggio, invece, vorrei provare a mostrare come le tavo-
lette rispondono eccome ai colpi, creando un’integrazione tra elemento umano
e non umano in cui piuttosto entrambe le parti giocano un ruolo attivo, parteci-
pando così alla fabbricazione della pratica stessa dell’arte marziale. In breve,
boards do hit back.

3. 3. Non di solo habitus: dalla sociologia


carnale alle teorie della pratica

Successivamente ad Anima e corpo (2002), Wacquant è tornato molte volte sul


tema dell’habitus (2011; 2014a; 2014b; 2015; 2016) per specificare l’uso che,
secondo lui, se ne può fare per studiare determinate pratiche sociali, sempre
all’interno della cornice bourdiesiana (Wacquant, 1998; 2005). In particolare,
oltre alla questione metodologica appena discussa, mi sembra utile isolare un
punto cruciale del suo lavoro di affinamento teorico della categoria di habitus,
ovvero di quella che lui stesso ha definito «sociologia carnale» (Wacquant, 2005).
Mi riferisco alla sua spiegazione di come la categoria di habitus sia effetti-
vamente una «capsula rimovibile» (Wacquant, 2014a) dal panorama completo
della teoria di Bourdieu (1998) al servizio di una teoria disposizionale dell’azio-
ne. Seguendo l’idea di rompere con la dicotomia soggetto-oggetto, infatti, l’ha-
bitus – affatto portatore dei determinismi o conservatorismi spesso assegnatigli
ex post – si presenta come un principio generatore di pratiche solo ed esclusiva-
mente in quanto attivato da possibilità oggettive, ossia nella relazione dialettica
«tra due stati del sociale, tra la storia fatta corpo e la storia fatta cosa, o più
precisamente tra la storia oggettivata nelle cose […] e la storia incarnata nei
corpi, sotto forma di habitus» (Bourdieu, 1998, p. 158).
Partiamo, dunque, proprio da questo punto. Nel caso della «enactive eth-
nography» di cui mi sono servito per questa indagine, il ricercatore sottomette
se stesso alle forze di gravità sociale (Wacquant, 2015) che operano in un deter-
minato campo, ossia si sottopone in prima persona, nel corso del tempo, a quei
sistemi di attivazione innescati dall’incontro tra una storia fatta corpo e una
storia fatta cosa (Bourdieu, 1998). Il problema, tuttavia, durante i miei allena-
menti quotidiani, ovvero durante le mie osservazioni sul campo, sembrava piut-
tosto più relativo alla definizione operativa di questi «sistemi di attivazione».
Infatti, volendo prendere sul serio e fino in fondo l’intuizione di Bourdieu (1998)
dell’incontro di due storie, una fatta corpo (appunto l’habitus) e una fatta cosa
(l’equipaggiamento materiale della pratica), quest’ultima parte mi sembrava
sottovalutata in maniera decisiva nel racconto di Wacquant – e, soprattutto, in
molta della successiva letteratura scaturita a partire dal suo lavoro (Downey,
2005; Spencer, 2009; Paradis, 2012).
D’altronde, come ha argomentato in maniera convincente lo stesso Wac-
quant (2014b) rispondendo a Mialet (2014), l’obiezione proveniente dalla teoria

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dell’Actor Network Theory (Latour, 2005), benché riporti al centro la questione


del rapporto tra agenti umani e non-umani, non sembra soddisfacente, né dal
lato metodologico, riproponendo «il punto di vita spettatoriale» che l’«enactive
ethnography» tenta di correggere, né, soprattutto, dal lato teorico, laddove sem-
bra che le reti di persone e oggetti siano «senza struttura» e senza «nessun vet-
tore di subordinazione» (Wacquant, 2014b, p. 13). Insomma, facendo entrare
dalla porta gli oggetti e i materiali della pratica, sembra uscire dalla finestra la
questione, sociologicamente non marginale, del potere.
Tuttavia, mentre mi esercitavo alle tecniche della shuai chao (lotta in piedi)
in una stanza della kwoon appositamente arredata con tatami, ring e timer
necessari per quel tipo di pratica o mentre praticavo alcune forme a vuoto con
armi tradizionali come il tan tou (la sciabola) o il kwan tou (l’alabarda), mi era
sempre più chiaro che la questione materiale era da considerare come qualcosa
di più di un mero complemento al servizio della trasformazione dell’habitus. La
domanda, quindi, diventava come riportare dentro l’analisi la considerazione
del ruolo attivo degli oggetti e della loro interazione con i corpi degli agenti
sociali, mantenendo tuttavia le potenzialità euristiche della categoria di habitus
(Bourdieu, 1998).
Partendo da questa precisa domanda mi sono rivolto a quell’insieme di
teorie che ruotano esplicitamente intorno al concetto, di per sé certo non origi-
nale8, di pratica sociale (Schatzki et al., 2001; Reckwitz, 2002; Shove et al.,
2012). Con questo termine si intende, infatti:

«una particolare attività (…) che si articola in una pluralità di elementi, tra loro
interconnessi: forme di attività corporea e schemi cognitivi, oggetti materiali
e i loro usi consolidati, un retroterra di conoscenze condivise, competenze e
abilità specifiche e repertori di motivazioni e desideri» (Reckwitz, 2002, p.
249, corsivo mio).

In questo modo, il decentramento – non la scomparsa – del ruolo degli


agenti sociali è completo (Shove et al., 2012): competenze, significati o finalità
vengono considerati attributi della pratica di cui l’individuo è il mero «portato-
re» (carrier of practices). Così, da un’attenzione esclusiva sugli agenti sociali
e le loro condotte (Wacquant, 2002; 2014a), ci si sposta verso la pratica intesa
come esito dell’integrazione attiva di gruppi di elementi tra loro interconnessi.
Ritroviamo quindi, in altra forma, quei «sistemi di attivazione» di cui parlavo
poco sopra, con la differenza che, in questo caso, la distribuzione dell’agency
(Sahakian, Wilhite, 2014) tra i diversi elementi diventa la posta in gioco dell’a-
nalisi empirica (Shove, Pantzar, 2005; Rinkinen et al., 2015) anziché rimandare
interamente all’habitus.
Una volta sul campo, ai fini operativi, è poi utile distinguere tra «pratica
come entità» – quindi come obbiettivo conoscitivo da cui partire, suscettibile di

x
8 Il termine viene ripreso da diverse discipline: a cominciare dagli spunti ricavati dalla
filosofia di Wittgentein e Heidegger (Schatzki, 1996) fino alla rielaborazione delle teorie sociali
di Foucault (1972), dello stesso Bourdieu (2005) e, in buona parte, di Giddens (1994).

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essere messa in discussione nel corso del tempo (Hammersley, Atkinson, 2007)
– e «pratica come perfomance» (Reckwitz, 2002; Shove et al., 2012), vale a dire
le singole manifestazioni empiriche di questa particolare integrazione tra gli
elementi che si registrano di volta in volta nell’osservazione etnografica. Alcuni
di questi elementi e alcuni legami tra di essi, quindi, ricorreranno più spesso
nelle differenti performance, in quanto imprescindibili per la fabbricazione della
pratica stessa – in quanto, potremmo dire, dominanti – rispetto ad altri al fine
di costituirla come entità.
Su queste basi, dunque, diventa possibile definire il wushu kung fu come
una pratica sociale risultante da una determinata interconnessione tra habitus
(degli allievi, degli istruttori, del maestro, ecc.), materiali (guanti, tatami, kwoon,
abbigliamento, ecc.) e discorsi (articoli su riviste, film, youtube, miti e leggende
orali, ecc.). Un’interconnessione che è il prodotto, a sua volta, dei rapporti di
forza che emergono storicamente dalla diversa distribuzione dell’agency.
Nelle pagine che seguono, pertanto, proverò a dare conto del percorso che
ho affrontato in prima persona negli ultimi cinque anni, focalizzandomi sulla
relazione tra habitus e apparato materiale nella pratica del wushu kung fu.

4.
4. «Questo è kung fu»: il wushu kung fu come pratica sociale

Come capita spesso per le arti marziali (Wilson, 2009), la prima narrazione
che sostiene questo tipo di pratica è già dentro il suo nome: kung fu, ossia
letteralmente il duro lavoro necessario per diventare abile come un maestro in
una qualsiasi attività. Una delle poste in gioco principali della pratica, infatti, è
proprio quella della trasformazione delle energie del praticante e, soprattutto,
del raggiungimento di una riflessività rispetto a tale trasformazione.

Sono nello spogliatoio della kwoon. Ho appena terminato una lezione privata
di due ore e mezza con il Sifu [Maestro]. Nella prima parte mi ha fatto lavorare
sulle tecniche di uscita dalla misura e, in generale, su parte del lavoro di
footwork, soprattutto utilizzando tecniche prese da forme tradizionali di Wing
Chun e riadattandole in situazioni più «libere», da freestyle. Non credo di
avergli fatto un’ottima impressione… eseguivo il movimento che vedevo fare a
lui, ma era una cosa meccanica, non c’era la fluidità e la scioltezza che sentivo
avrei dovuto avere… il mio corpo, la mia mente e anche le mie emozioni, era
come se giocassero tre partite diverse, ciascuno per conto proprio. Quando
gliel’ho detto, a fine lezione…lui mi ha guardato, ha sorriso e mi ha detto…
«Sì… beh… abbi pazienza… ci vuole tempo… molto tempo…per questo…
tempo e tanto lavoro… questo è kung fu…» (Nota di campo, 07/02/2013).

Sarebbe semplice ritrovare prove a sostegno di questo tipo di impressioni


raccolte sul campo, cercando nella filmografia sul kung fu o guardando ai diver-
si luoghi di riproduzione discorsiva di quest’arte marziale, da youtube al cam-
po editoriale convenzionale di settore (Cangelosi, 2006; Lee, 2007; Sheridan,
2011). Si tratta, infatti, di un insieme di discorsi che partecipano, a loro volta,

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alla fabbricazione di un certo tipo di pratica, reclutando più facilmente alcuni


habitus – come il mio – rispetto ad altri, e viceversa.
In questa sede, tuttavia, vorrei utilizzare una parte delle mie note di campo
e alcune interviste etnografiche per mostrare come la trasformazione da metallo
grezzo ad ago appuntito cui fa riferimento il proverbio in esergo, sia rinvenibile
anche e soprattutto nell’interconnessione tra l’habitus del praticante e l’appa-
rato materiale che fa di questa pratica quel che è, differenziandola da altre che,
di volta in volta, collaborano o competono nel reclutare soggetti9.
Da questo punto di vista, un primo elemento materiale che interagendo con
gli habitus contribuisce a rendere la pratica del wushu kung fu differente da
altre pratiche sportive (Crossley, 2004), così come da altre arti marziali (Downey,
2006), riguarda il luogo in cui questa si svolge quotidianamente: vale a dire la
Kwoon.

Sono appoggiato al muro del cortile esterno della Kwoon. Mi sono preso una
pausa dal compito di accogliere il pubblico all’ingresso e accompagnarlo in
un giro guidato degli ambienti che mi è stato assegnato in questa giornata di
presentazione al pubblico esterno delle nostre attività. Dopo diversi giri, mi
sono accorto che ormai do per scontato questo luogo. Si tratta di poco più
di 1000 mq, divisi in 6 diverse stanze, più un cortile molto grande, i locali
della segreteria e gli spogliatoi maschile e femminile. Ogni stanza è arredata e
organizzata per un tipo specifico di allenamento. C’è la «sala dello specchio»
per il lavoro individuale di aggiustamento delle tecniche, c’è la «sala delle
armi» in cui sono affastellate in ordine, lungo il perimetro della stanza, le
molteplici armi tradizionali del wushu kung fu, c’è la «sala dei sacchi» dedicata
all’allenamento con sacchi diversi per peso, misura e resistenza al colpo, c’è
la «sala del ring» e altre ancora. Mi sembra davvero difficile chiamare questo
luogo semplicemente palestra (Nota di campo, 27/09/2014).

Tutto ciò che si trova all’interno è importante, in questo caso, per coglie-
re l’importanza della kwoon, in particolare rispetto al suo essere qualcosa di
diverso da un gym di cross-fit, per esempio, così come da un dojo di karate.
A cominciare dall’arredamento specifico e dai diversi oggetti che qui vengono
portati sotto uno stesso tetto: per esempio, si tratta di un luogo in cui trovia-
mo un altare in ogni stanza e, contemporaneamente, un ring per le sessioni di
sparring e combattimento; troviamo una stanza completamente attrezzata per
l’allenamento con i pesi e, contemporaneamente, bruciatori di incenso e una
illuminazione soffusa per le pratiche di meditazione.

Appena finito una lezione. Devo ancora farmi la doccia. Abbiamo cominciato
nella «sala del ring» con un allenamento a circuito molto simile a quelli che
adesso si chiamerebbero di «cross-fit» con kettlebell, box jump, ecc. …poi 15
round misti tra lotta in piedi, lotta a terra, scherma di colpi libera… poi alla

x
9 Per esempio, quella del cross-fit e quella degli sport da combattimento, così come quella
dello yoga o della meditazione.

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LORENZO DOMANESCHI

«sala delle armi», per provare alcune combo [combinazioni] di «lop sao» [im-
provvisazione di combattimento utilizzando le tecniche codificate]… quindi,
spente le luci e accese le [luci] piccole dell’altare, breve pratica guidata di «tzu
chan» [meditazione del vuoto]. Alla fine, vado dall’istruttore per ringraziarlo:
«Bella lezione! Passare dallo sparring alla meditazione così... Grazie V.» E
ancora una volta mi sento dire «Beh... lo sai… questo è kung fu» (Nota di
campo, 08/05/2013).

Quello che conta, nel caso appena riportato, riguarda le possibilità oggettive
messe in gioco dagli oggetti presenti sulla scena e, ancora di più, il tipo di
innesco pratico creato dal portare su una stessa scena determinati oggetti e, in
generale, equipaggiamenti materiali appannaggio di diverse pratiche (cross-fit,
boxe, meditazione). Riportata in questo caso, l’affermazione «questo è kung fu»
del mio istruttore si potrebbe interpretare nel senso della proposizione di Gilbert
Ryle citata da Bourdieu secondo cui «non si deve dire che il vetro si è rotto
perché una pietra l’ha colpito, ma che si è rotto quando la pietra l’ha colpito,
perché era rompibile» (1998, p. 156). «Questo è kung fu», insomma, in quel
momento, per me e il mio istruttore non era che l’effetto prodotto dall’incontro
tra un insieme specifico di elementi materiali e un insieme di habitus suscettibili
di essere investiti – in gradi diversi – da quella nuova combinazione di oggetti.
D’altronde, un’occhiata veloce alle serie storiche disponibili sulle pratiche
sportive in Italia (Istat, 2005; Censis-Coni, 2008) mostra una correlazione signi-
ficativa a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso – più o meno lo
stesso periodo della diffusione della filmografia di Bruce Lee (Di Martino, 2007)
– tra l’emergere della «palestra», come spazio fisico di pratica sportiva e l’emer-
gere sulla scena italiana delle arti marziali. Una correlazione che si intreccia, a
cavallo con gli anni ’90, con un rilevante ingresso delle donne nel mondo delle
pratiche sportive (Istat, 2005), moltiplicando la presenza, nella palestra, di corsi
di ginnastica, danza e discipline orientali come lo yoga (UISP, 2015). Se è chia-
ro che una o più correlazioni non fanno una causa determinante, è altrettanto
evidente che gli effetti di reciprocità (Simmel, 1998) non sono trascurabili, in
questo caso, per spiegare la costruzione di nuovi legami tra elementi materiali e
habitus e, di conseguenza, l’emergere di nuove pratiche (Shove, Pantzar, 2005;
Wilson, 2009).
In questo senso, la kwoon, intesa come luogo fisico che contribuisce a fare
la pratica del wushu kung fu integra attivamente un insieme di materiali10 presi,
in parte, dal mondo del fitness e degli sport da combattimento (la palestra di
body-building con i suoi attrezzi e la palestra di boxe con la sua attrezzatura)
e in parte dal mondo delle «discipline orientali» legate alla ginnastica dolce, lo
yoga e la meditazione (il monastero con le sue stanze e altari, i simboli buddisti e
taoisti appesi alle pareti e le foto del maestro e della genealogia da cui proviene).
x
10 Peraltro, secondo questo stesso approccio, sarebbe possibile spiegare l’attuale declino
delle arti marziali tradizionali a favore degli sport da combattimento, prima di tutti le MMA
(arti marziali miste) che per la loro ascesa – intese come pratica sociale – hanno giocato proprio
sulla ricombinazione di elementi presi dalla pratica delle arti marziali tradizionali e da sport
di combattimento come boxe, kickboxing e brazilian ju jistu.

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BOARDS DON’T HIT BACK

Per approfondire questa lettura, è utile passare a un secondo insieme di


elementi materiali: l’abbigliamento della pratica. In questo caso, il «questo è
kung fu» si spiega ancora più manifestamente tramite il concetto di incontro
tra due storie – una fatta corpo e una fatta cosa – che richiamavo poco sopra.
Vale la pena evidenziare due aspetti: quello della divisa della scuola e quello
dell’equipaggiamento di protezioni necessarie per lo sparring.
Nel primo caso, un elemento importante sono le scarpe. Nello specifico,
le Feiyue, un brand di sneakers prodotto a Shangai dal 1920. Letteralmente, i
due ideogrammi di cui è composto il nome significano «volare sopra» o «oltre-
passare»: la narrazione del marketing della filiale cinese (Flying Forward) mira
a richiamare tanto la sensazione di leggerezza e plasticità dell’oggetto, quanto
la dimensione di elevazione spirituale del corpo e della mente11. Si tratta di un
oggetto storicamente nato insieme al wushu moderno, proprio a cavallo degli
anni ’20 e ’30 del secolo scorso in Cina e successivamente legato a doppio filo
con il mondo delle arti marziali cinesi. Ancora adesso, l’espressione «scarpe da
wushu» e il brand Feiyue sono quasi sinonimi, come una veloce ricerca su google
può facilmente mostrare. Tuttavia, ancora una volta, non è solo una questione di
invenzione discorsiva. A partire dal 2006, infatti, Patrice Bastian, un imprendi-
tore francese residente a Shangai, insieme a un gruppo di artisti e designer ha
rilevato parte della società e ridisegnato le scarpe nella forma e nei materiali
per proporle ai consumatori occidentali come sneakers per tutti i giorni.
Anche solo provando a eseguire un tipo di calcio caratteristico del bagaglio
tecnico del kung fu come il juk gen tek (calcio a uncino) con un paio di scarpe
diverse dalle Feiyue di produzione cinese, si può scoprire facilmente di cosa
si sta parlando. Queste ultime, infatti, consentono una mobilità alla caviglia
e una varietà di impostazioni del piede nell’armare alcune tecniche di calcio
caratteristiche del kung fu che altre scarpe non accordano, proprio per il diverso
tipo di materiali utilizzati nella loro fabbricazione. Basti pensare all’imbottitura
della suola – molto più sottile nella versione cinese rispetto a quella francese,
per agevolare rapidi cambi di direzione e salti – e al materiale della tela della
scarpa – molto più sottile e poroso nella versione cinese, per rendere possibili
ampi movimenti dell’articolazione della caviglia e impostazioni del piede non
convenzionali nella camminata o nella corsa.

Ho appena finito 45 minuti di allenamento con due compagni. Ho la divisa


della mia scuola, maglia nera smanicata con il logo della scuola sul retro,
cintura viola che rappresenta il mio grado, pantaloni neri lunghi di tela leggera
con cavallo basso ma ho dimenticato le Feiyue. Mi sono fatto prestare delle
Mizuno quasi nuove, sono poco più alte delle Feiyue e fasciano di più il piede.
Ho sempre usato le Mizuno in passato per fare allenamento quando giocavo
a calcio e ancora adesso le uso quando vado a correre. Qui in kwoon, invece,
non riesco… oggi, nel provare un paio di tecniche prese da una forma di Tang
Lang [stile della mantide] che prevede rapidi cambi di direzione e salti ripetuti
in brevissimo spazio, mi sono dovuto fermare più volte e a un certo punto ho

x
11 Si veda https://www.feiyue-shoes.com.

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LORENZO DOMANESCHI

preso una storta seria alla caviglia destra… non sentivo l’impostazione del
piede e non potevo vedere se armavo la tecnica in maniera corretta (Nota di
campo, 26/05/2014).

In questo caso, la scarpa fa il calcio nel suo diventare tutt’uno con il piede
del praticante. Solo quel particolare oggetto, fatto in quel particolare modo,
e solo quando incontra un habitus suscettibile di essere investito da quelle
caratteristiche di flessibilità, leggerezza e fluidità – grazie alla pedagogia del
corpo inscritta tramite il lavoro di educazione sensoriale, motoria ed affettiva
ripetuto durante gli allenamenti – permette di dare conto della genesi sociale di
una certa pratica. In breve, «Questo (incontro) è kung fu».
Altro esempio di innesco di sistemi di attivazione – ossia di integrazione
attiva tra i sotto-elementi dell’habitus e quelli dei materiali – l’ho trovato ripe-
tutamente nell’equipaggiamento materiale relativo alle protezioni utilizzate per
lo sparring: in particolare nel caso dei guanti.
Esiste ormai una tipologia abbastanza articolata, che divide i tipi di guanti
a seconda della pratica per cui sono pensati12: ancora una volta, peso, misure
e design dell’oggetto accordano uno spazio di possibili al corpo del praticante,
contribuendo a far emergere quelle tecniche che fanno di una pratica quello che
è. Per esempio, una tecnica tipica delle MMA come l’overhand (pugno semicir-
colare portato con il braccio opposto alla gamba avanzata) pensata per superare
la guardia di un avversario con i guantini che proteggono solo le nocche, sarebbe
del tutto priva di senso in un contesto di Muay Thai, con un avversario che ha
a disposizione due guantoni più grandi e più imbottiti in grado di proteggere
tutto il viso in posizione di guardia.
Durante una delle mie prime sessioni di sparring libero, infatti, ho fatto
esperienza a mie spese dell’importanza pratica di questo tipo di incontro tra
habitus (il mio di combattente ancora inesperto) e possibilità oggettive (ciò che
dei guanti possono o non possono fare).

Sono tornato ora dalla sessione di sparring. Ho del sangue che mi scende
dalla narice destra e un occhio che mi fa maledettamente male… domani
sarà sicuramente viola... I primi 3 round con i guantoni mi sono comportato
bene, ho tenuto la guardia e ho anche provato a giocare un po’ di rimessa…
poi sparring con i guantini… con proiezioni e grappling... sono partito molto
fiducioso, poi qualcosa è andato storto… ho parato un calcio posteriore al viso
con un [a tecnica di] tan sao [avambraccio] e sono uscito dalla misura… il mio
avversario ha ripreso subito la misura e mi ha portato una combinazione di
tecniche terminando con una traiettoria obliqua, caratteristica di una tecnica
chiamata chuan pao [artiglio del leopardo], formata stringendo i polpastrelli
delle quattro dita sulla parte alta del palmo della mano e andando a colpire con
x
12 Si va dai «guantoni da gara» da 10 once (circa 280 grammi), ai «guantoni da sparring»
dalle 12 alle 18 once, per garantire più protezione e sicurezza, fino ai «guantini da mma/
grappling» che sono i guanti più leggeri, con un peso che va dalle 4 alle 8 once. Soltanto le
nocche sono coperte e imbottite, mentre le dita sono senza protezione, permettendo all’atleta
di eseguire manovre di grappling, come sottomissioni, clinch e proiezioni.

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BOARDS DON’T HIT BACK

le nocche. Istintivamente, ho portato le braccia nella posizione di guardia dei


round precedenti, che mi ha protetto dai primi colpi, ma l’ultimo ha trovato
spazio tra le mie braccia e mi ha colpito tra naso e occhio sinistro. Ho accusato
tutto il colpo e il forte dolore mi ha portato a un gesto poco onorevole, chiedendo
di interrompere lo sparring (Nota di campo, 12/03/2013).

Infine, un terzo gruppo di elementi materiali da tenere in considerazione


per ricostruire la pratica del wushu kung fu riguarda l’uso degli attrezzi per l’al-
lenamento e, in particolare, la pratica con le armi. Nel caso delle performance
con le armi nel wushu kung fu, in particolare, non solo queste ultime non sono
relegabili a meri complementi passivi delle operazioni di un agente sociale, ma
semmai il vettore di subordinazione – per stare al vocabolario suggerito da Wac-
quant (2014b, p. 13) – è direzionato dall’oggetto stesso (Rinkinen et al., 2015).

5.5. Le armi della pratica: condizionamento e canalizzazione

Quando cercavo una interpretazione convincente del «questo è kung fu» del mio
maestro, cercavo di ricostruire la genesi sociale dell’organizzazione di elementi
che differenziavano il kung fu da altri sport da combattimento, così come da
altre arti marziali tradizionali. Abbastanza presto, nel mio lavoro sul campo,
ho capito che la situazione empirica più fertile per indagare tale questione si
trovava meno nel momento del combattimento a mani nude e più nella pratica
delle forme, in particolare le forme con le armi.
Con l’espressione «forme» (tao lu), nel wushu kung fu si intendono esercizi
costituiti da sequenze di movimenti concatenati e codificati secondo principi
marziali e filosofici legati ai diversi stili. Ho dedicato molta parte del mio dupli-
ce lavoro di osservazione e di pratica proprio allo studio di queste forme, che
costituiscono peraltro uno dei criteri principali di valutazione in sede di esame
per il passaggio di grado degli allievi. Si tratta, in prima battuta, di un lavoro
di apprendimento dei movimenti codificati, quindi della loro memorizzazione,
attraverso l’imitazione dei movimenti del Maestro o dell’istruttore. Una volta
che il corpo è in grado di eseguire il movimento senza l’intervento della memoria
volontaria, si passa alla fase successiva, di perfezionamento del gesto tecnico,
ripetendo, più e più volte, piccole sequenze della forma, con l’aiuto di uno spec-
chio o delle correzioni degli istruttori e dei compagni di pratica.
La pratica quotidiana di queste sequenze codificate di movimenti mette in
campo, in un modo specifico, quel «processo di educazione del corpo» e quella
«particolare socializzazione della fisiologia» che Wacquant (2002, p. 61) indivi-
duava come fulcro euristico della spiegazione della pratica del pugilato. Accanto
a tale indubitabile pedagogia corporea, tuttavia, i miei anni di allenamento alle
forme con le armi mi hanno portato a individuare due diversi momenti di tra-
sformazione dell’habitus, che qui separo analiticamente solo ai fini dell’esposi-
zione, ma che si intrecciano continuamente nella pratica. Si tratta del lavoro di
condizionamento del corpo – soprattutto legato alle forme degli stili «esterni» – e

– 485 –
LORENZO DOMANESCHI

del lavoro di canalizzazione – legato soprattutto agli stili «interni»13. Potremmo


dire, in un certo senso, l’anima e il corpo del kung fu.
Per entrambi i casi, discuto prima l’interazione con alcuni attrezzi caratte-
ristici dell’addestramento nel wushu kung fu e, solo dopo, cercherò di mostrare
come la stessa dinamica della pratica (Shove et al., 2012) si possa ritrovare
nell’interazione tra praticante e arma, che mi pare il caso più euristicamente
efficace, sebbene anche il più complesso da decifrare.

5.1. 5.1. L’effetto dei materiali sull’habitus:


pratiche di condizionamento

Partiamo dal lavoro di condizionamento. Con questo termine, che si impara fin
dal primo anno di pratica, si intende un insieme di esercizi e routine di allena-
mento che portano un adattamento atto a migliorare sia la struttura muscolo-
scheletrica sia determinate funzioni motorie. Spesso, a questo scopo, si utilizza-
no attrezzi che identificano da soli una singola arte marziale o, addirittura, una
singola scuola o stile di una stessa arte (Cangelosi, 2006). A cominciare dalle
tavolette di legno (o i mattoni) da spezzare con una tecnica di mano o di gamba,
citate nel titolo di questo saggio, per arrivare ad attrezzi più complessi come,
per esempio, gli anelli di acciaio tipici dello stile Hung Gar.

Ho appena finito una lezione privata con il mio Maestro. L’argomento era il
perfezionamento tecnico di una forma Hung Gar [stile del Sud della Cina]. Alla
fine, il Maestro mi ha fatto vedere alcuni sistemi tradizionali di condiziona-
mento tipici dello stile. Mentre io provavo e riprovavo alcune sequenze della
forma, lui si allontana per tornare dopo qualche secondo con 12 anelli di accia-
io, dello spessore di circa 2 cm e il diametro di circa 10 cm. A occhio, dovevano
pesare 2 kg ciascuno. Mi dice: «Allunga le braccia con i palmi verso l’alto» e
mi infila 6 anelli per braccio. Sento subito il peso del metallo sui bicipiti e sugli
avambracci. «Ora mettiti in posizione e prova ad eseguire la forma» mi dice,
«però stai attento, devi controllare il movimento quando porti delle tecniche
di pugno, altrimenti gli anelli scivolano via; e devi resistere al contraccolpo
quando colpiscono i muscoli del braccio, senza perdere la posizione corretta
delle braccia». «Va bene», dico. Non sembrava così difficile. In realtà, non
solo era molto difficile come schema motorio, ma anche molto doloroso: ogni
volta che sentivo l’acciaio martellare sull’osso o sul muscolo del braccio, non
riuscivo a non abbassare le braccia e gli anelli, ogni volta, scivolavano in terra
ai piedi del Maestro. Ogni volta, lui li raccoglieva, li riposizionava sulle mie
braccia e mi faceva cenno di riprovare (Nota di campo, 24/04/2014).

x
13 Come dicevo più sopra, nella mia scuola vengono insegnati cinque diversi stili di wushu
kung fu. Due di questi (Tai Chi Chuan e Pa Kua Chan) si concentrano sulle cosiddette pratiche
«interne» (nei jia), in cui prevale l’attenzione sul lavoro delle energie interiori (Qi Gong), con
particolare attenzione al ruolo del respiro, originari della regione cinese del Wu Dang. Altri tre
stili (Hung Gar, Wing Chun e Tang Lang Quan), invece, originari della regione dello Shaolin,
si concentrano sulle pratiche «esterne» (wai jia), addestrando prevalentemente la forza fisica
e le strategie marziali di attacco e difesa.

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BOARDS DON’T HIT BACK

Nel mio habitus di sportivo non avevo mai incontrato niente del genere: gli
allenamenti di calcio e nuoto che avevo affrontato anni prima, per quanto molto
intensi, non mi aiutavano per niente in quella situazione. Ero abituato a ricevere
istruzioni su come eseguire un esercizio di allenamento e anche a interagire
con attrezzi diversi. Ma non era una questione di competenze cognitive. Questo
tipo di condizionamento, infatti, mira a provocare una desensibilizzazione del-
la parte su cui interviene l’attrezzo e, contemporaneamente, tramite ripetuti e
costanti microtraumi, mira a provocare una ricalcificazione simile a un callo
osseo, oltre a un ispessimento della pelle. In breve, un vero e proprio cambia-
mento del corpo e delle sue possibilità, generato a partire dalle caratteristiche
dell’attrezzo. Infatti, per una buona riuscita dell’esercizio, come mi ripeteva
costantemente il Maestro, è necessario «far lavorare gli anelli» e rendere il pro-
prio corpo il più possibile docile a questo strumento.
Da questo punto di vista, non si tratta solo di un condizionamento che lavo-
ra sulle componenti cognitive (comprendere come eseguire un esercizio mai fat-
to prima) e conative (incorporare uno schema motorio); più significativamente,
entra in gioco anche un condizionamento psicologico, che mira a neutralizzare,
con la pratica, lo shock dovuto alla paura generata dalla minaccia di una contu-
sione (Changeux, 2005; Downey, 2014). Dopo anni di pratica di quell’esercizio,
corpo e anima sono addestrati a fermare senza esitazione, con una parata di
avambraccio, qualsiasi tipo di colpo.
È qui, dunque, che la componente affettiva dell’habitus diventa cruciale
nel costruire una sorta di legame d’intimità con l’attrezzo, affinché quest’ultimo
possa fare il suo lavoro. La trasformazione rilevabile nell’habitus del praticante,
pertanto, è decifrabile a partire dalle caratteristiche dell’attrezzo che fabbrica,
nei modi e nei limiti dati dalle sue caratteristiche, tale trasformazione.
Nel caso dell’interazione con un’arma – intesa proprio come un sofisticato
attrezzo per il condizionamento – questo tipo di integrazione attiva, innescata
dalle caratteristiche dell’oggetto, diventa ancora più evidente. La pratica con le
armi, infatti, nel wushu kung fu è orientata programmaticamente a utilizzare
questi diversi strumenti, ciascuno secondo le caratteristiche specifiche che lo
contraddistinguono, per sviluppare rispettivamente alcune qualità del pratican-
te: per esempio, la precisione e fluidità attraverso il maneggio della lancia, la
forza e il controllo con l’alabarda, l’equilibrio e la coordinazione con la spada
dritta.
Prendiamo il caso del Kwan Tou (alabarda cinese). Nel mio caso, il primo
contatto con quest’arma non è stato semplice. Si tratta di un arma molto pesante
e con un bilanciamento molto difficile da gestire per la sua struttura.

Sono nella sala delle armi. Faccio il saluto rituale all’arma e la sfilo dalla
rastrelliera in cui è posizionata. Si tratta, nella versione che ho davanti, di un
bastone di circa 170 cm e del diametro di 2 cm su cui è inastata una lama
monofilare simile a una sciabola, con una doppia punta a metà e in cima alla
lama e con dorso dalla linea frastagliata dotato di anelli che hanno lo scopo di
confondere l’avversario con il loro movimento e il rumore. Con la mia altezza
di 175 cm e un peso di poco sopra i 60 Kg, arrivare in fondo alla forma che

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LORENZO DOMANESCHI

prevede poco più di 100 tecniche a velocità sostenuta rappresentava una sfida
notevole. Eseguo la forma 3 volte con un mio compagno di allenamento che mi
supera in peso e altezza, 185 cm, 83 kg. Non solo arrivo molto più affaticato di
lui alla fine, perdendo in precisione e forza nelle tecniche, ma soprattutto in
molti passaggi sento di perdere il controllo come se fosse lei a dirigere i miei
colpi, più che il contrario (Nota di campo, 13/06/2014).

Come si vede, è l’attrezzo a dirigere la scena, diventando non a caso nelle


mie parole un agente sociale quasi incarnato, da ascoltare e da capire, mentre
al corpo del praticante è richiesta l’abilità di sottomettersi quanto più possibile
alle caratteristiche dell’oggetto, per tirare fuori quanto può dall’oggetto stesso.
Gli attrezzi con cui si pratica il condizionamento, in altre parole, secondo le
specifiche caratteristiche di peso, forma, materiali e design, contribuiscono a
fabbricare anima e corpo del praticante nella misura in cui quest’ultimo si lascia
condizionare, realizzando così la pratica del kung fu.

5.2. 5.2. L’effetto dell’habitus sui


materiali: pratiche di canalizzazione

Si tratta di un tipo di lavoro che viene tramandato prevalentemente dagli stili


«interni» di wushu kung fu. Nel vocabolario della pratica (emic), si tratta della
capacità di addestrare il corpo, la mente e lo spirito in modo da convogliare
l’energia di tutti e tre in un unico punto del corpo in grado di produrre una
tecnica dotata di una «coerenza di fase», per utilizzare il linguaggio della fisica,
altrimenti impossibile utilizzando la sola forza muscolare ed ossea del corpo.
Nel linguaggio della mia analisi (ethic), si tratta di capire come le tre componenti
dell’habitus (cognitiva, conativa e affettiva) siano in grado di lavorare in sinergia
non solo tra di loro, ma in accordo con un particolare oggetto, allo scopo di
generare una pratica capace di una destrezza tale, per esempio, da riuscire a
spegnere la fiamma di una candela con un pugno, a diversi cm di distanza da
quest’ultima.

Ho appena finito una lezione di Tai Chi [stile «interno» di matrice taoista].
L’istruttrice ci ha spiegato come in Occidente venga spesso ridotto a poco più di
una ginnastica dolce per persone anziane, mentre va praticato come un vero e
proprio stile di kung fu, tanto nella parte artistica quanto in quella marziale. «Il
lavoro del Tai Chi, come di tutti gli stili interni, è un lavoro sulla canalizzazione
dell’energia» ci dice. «Bisogna imparare a riconoscere e sentire il qi [l’energia]
che scorre dentro di voi e lasciarlo fluire in un punto... la vostra tecnica».
Prende dall’altare una candela e la fissa su un tavolino, la accende e si posi-
ziona per una tecnica di pugno, mimando il gesto al rallentatore… misura una
distanza di circa 15 cm tra il suo braccio disteso e la fiamma della candela…
dopo qualche ciclo di respirazione porta il colpo con un gesto rapido ma senza
tensione muscolare e spegne la candela a distanza... «Ecco», ci dice, «il Tai chi
insegna che noi siamo canali, non contenitori» (Nota di campo, 16/07/2012).

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Arrivo qui alla questione del corpo inteso come canale e non come conteni-
tore che risulta centrale in tutte le performance del wushu kung fu, mostrando
bene come diversi habitus siano in grado di interagire in maniera differente con
lo stesso materiale della pratica. Come ricordava Bourdieu, a questo proposito,
la destrezza di hegeliana memoria o quella che lui definiva hexis corporea è
spesso il risultato di una assuefazione a uno strumento, il prodotto dell’«aver
fatto propri i fini che sono inscritti in esso come una tacita istruzione per l’uso,
insomma, essersi lasciati utilizzare, se non strumentalizzare, dallo strumento»
(1998, p. 150. corsivo mio).
Allo stesso modo, nella pratica della forma di Tai Chi con la spada dritta
(jian), un’arma quasi opposta all’alabarda descritta prima, per peso, forma e
obbiettivi marziali e filosofici, questo tipo d’interazione si manifesta esplicita-
mente.

«Prova di nuovo.. così non va bene… non lo senti? Dovresti sentirtelo… la po-
sizione è quella che ti ho detto… la sai.. non si tratta di quello… ora devi cercare
di sentire la spada… devi farti portare da lei… capisci?». Non capivo. Oggi ho
ripetuto credo cento volte un passaggio molto breve di una forma di Tai Chi
con la jian: si tratta di formare un arco con la spada sopra la testa, seguendola
con lo sguardo, e terminare in equilibrio su un gamba, con l’elsa della spada
all’incirca sopra la spalla destra e la mano sinistra in posizione di guardia,
con la spada parallela al terreno. Ogni volta, o sbagliavo la posizione finale o
perdevo l’equilibrio. L’istruttrice che mi seguiva, continuava: «Non pensare a
te, al movimento o alla spada, se ci pensi, perdi tutto… devi diventare tu uno
strumento per lasciar esprimere le caratteristiche della spada, capisci?... non
il contrario…» Continuavo a non capire. «…devi trovare il tuo equilibrio con
lei, che è diverso dal mio e da quello degli altri… devi sentire come tirare fuori
dalla spada quello che c’è in questa spada… e finché non lo senti… continua
a provare» (Nota di campo, 03/01/2013).

Per conquistare il tipo di destrezza necessaria per spegnere una candela


con una tecnica di pugno senza toccare la fiamma o per «sentire la spada» e tro-
vare all’istante una posizione di equilibrio, per trasformare, cioè, durevolmente
un habitus, incorporando il tipo di hexis che fa dire, solo vedendo una posizione
di guardia con la spada, «questo è kung fu», è necessario, come mostravo nel
paragrafo precedente, lasciarsi condizionare da uno strumento. Tuttavia, è al-
tresì necessario, nel caso del wushu kung fu, imparare a diventare un canale per
questi strumenti e, in particolare, per «i fini che sono inscritti in esso» (Bour-
dieu, 1998, p. 150), come emerge esplicitamente nell’interazione tra praticante
e arma, attraverso il lungo e «metodico addestramento» che passa attraverso
l’esecuzione delle forme.
Precisamente in questo metodico contro-addestramento, capace di trasfor-
mare durevolmente un habitus, intervenendo in maniera diversa nelle sue tre
componenti, risiede il potere simbolico prodotto dalla dialettica tra esposizio-
ne e disposizione (Bourdieu, 1998). Questo significa che un habitus capace di
«sentire» una spada, ossia di interagire con essa lasciandola lavorare sarà per

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questo in grado di «tirare fuori dalla spada tutto quello che c’è nella spada»,
come mi ricordava la mia istruttrice. Questo potere di canalizzazione, quindi,
lo troviamo inscritto nei corpi degli agenti e nei loro schemi di valutazione per
definire cosa è o non è kung fu, in quanto inscritto negli attrezzi e nei materiali
che fanno questa pratica, i quali offrono così, a loro volta, i possibili inneschi
per le diverse componenti dell’habitus.

6. 6. Conclusioni

Come ricorda Maestro Shifu, nel cartoon della Dreamworks Kung fu Panda, se
fai solo ciò che sai fare, non sarai mai niente di più di quel che già sei. In fondo,
si potrebbe dire che questo tipo di motivazione riguarda tanto l’artista marzia-
le che si immerge in un percorso di trasformazione del proprio corpo (e della
propria anima) quanto l’etnografo quando affronta un viaggio – spesso anche
molto lungo – per indagare un modo di guardare e agire nel mondo che non
gli appartiene (Noy, 2015). Di sicuro, nel mio caso, l’addestramento alla prati-
ca marziale e quello alla pratica etnografica si sono costruiti reciprocamente,
creando spesso opportunità di indagine altrimenti inaccessibili e, altre volte,
generando alcuni limiti all’osservazione.
Ad ogni modo, poiché sono partito dall’intuizione teorica e metodologica
di Wacquant, è utile ritornare in conclusione alle sue parole:

Al termine di questo cammino iniziatico […] la boxe si rivela essere una specie
di «scienza selvaggia», una pratica prettamente sociale e quasi sapiente, lad-
dove sembra mettere in gioco i soli individui che rischiano il proprio corpo sul
ring in uno scontro singolare dall’apparenza rozza e incontrollata. E il pugile
emerge come prodotto di un’organizzazione collettiva che, pur non essendo
né pensata, né voluta da qualcuno, è comunque oggettivamente coordinata dal
reciproco adeguamento delle attese e delle domande di quelli che occupano
diverse posizioni nello spazio del gym (Wacquant, 2002, p. 130).

Questa chiosa riassume i risultati del suo lavoro, che si proponeva di ini-
ziare «una riflessione sull’iniziazione a una pratica di cui il corpo è allo stesso
tempo la sede, lo strumento e il bersaglio» (Wacquant, 2002, p. 27) e che mirava,
in questo modo, a dare conto della pratica pugilistica, ossia a «suggerire ciò
che la sua logica specifica, e in particolare quella del suo apprendimento, può
insegnarci sulla logica di ogni prassi» (Ibidem, corsivo mio).
Nel corso dei miei cinque anni di etnografia all’interno di una Scuola di wu-
shu kung fu, mi sono sottoposto a molte delle pratiche di allenamento (roadwork,
floorwork, colpitori, sacco, sparring, ecc.) di cui racconta Wacquant e a molte
altre peculiari del kung fu. Più ore di osservazione e di allenamento accumulavo,
più le mie note di campo e il mio habitus di praticante si scontravano – spesso
letteralmente – con una componente materiale che spesso contendeva la scena
a quella carnale e sensoriale (Wacquant, 2015). Per questo motivo, ho scelto di
adottare un approccio di indagine legato alle teorie della pratica (Shove et al.,
2012), adattandolo, tuttavia, alle potenzialità dello strumento dell’habitus.

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BOARDS DON’T HIT BACK

In questa sede, mi sono concentrato sul particolare legame sincronico tra


habitus e materiali, mettendo da parte la dimensione diacronica dell’emergere
e declinare della pratica rispetto ad altre concorrenti (Shove et al., 2012), per
esempio rispetto al rapporto molto attuale tra arti marziali tradizionali e sport da
combattimento. Ho, invece, cercato di evidenziare tre questioni che mi sembrano
centrali per l’analisi della pratica del wushu kung fu e della sua logica specifica,
che ora provo a riassumere.
In primo luogo, la rilevanza empirica e teorica dell’elemento materiale e
la sua capacità di contribuire attivamente alla fabbricazione di una pratica e
non solo come mero complemento in attesa di un agente sociale che gli dia vita.
Un buon esempio di una certa tendenza della letteratura a tenere – sempre e
comunque – l’agente sociale al centro della scena, lo possiamo trovare nell’ot-
tima analisi di Crossley (2004) del circuit training. Mentre presta attenzione a
quello che lui chiama «the lived space of the circuit» (p. 50), come in effetti
pochi altri studiosi fanno in questo tipo di dibattito dominato dalle tecniche
di incorporazione (Channon, Jennings, 2014), finisce poi, tuttavia, per trattare
questo spazio caratterizzato dagli attrezzi per l’allenamento come qualcosa di
affatto «vivo», se non quando è reso tale dagli agenti sociali tramite tecniche
del corpo (Mauss, 1991).

The stations of the circuit have no existence apart from the agents who (using
their practical knowledge of exercise qua body techniques) transform particu-
lar areas of the gym, for a limited time, into «stations». […] However, the point
remains: the space of the circuit training class, qua training class, is instituted
through the activities and interactions of the embodied agents involved in the
class and the practical knowledge and understanding embodied in those acti-
vities (Crossley, 2004, p. 52).

Anche in questo caso, finché ci si ostina a tenere al centro della scena l’a-
gente sociale e, di conseguenza, l’analisi delle condotte sociali, la conclusione
non può che essere una: «Boards don’t hit back». Tuttavia, quando l’unità di
analisi diventa la pratica (Shove et al., 2102), prendendo cioè sul serio l’intui-
zione bourdieusiana sull’incontro tra una storia fatta corpo e una storia fatta
cosa (Bourdieu, 1998), gli oggetti, per così dire, cominciano a rispondere. Allora,
per interrogarsi sulla genesi sociale della destrezza nell’utilizzo di un utensile,
non ci si domanderà quali tecniche del corpo rendano più o meno vivo quello
strumento, bensì quale pratica emerge dall’integrazione attiva tra quell’insieme
di oggetti e l’insieme delle componenti dell’habitus.
Per fare un ultimo esempio tratto dalla mia esperienza sul campo, si può
pensare, per quel che riguarda il wushu kung fu, al caso del Mok Yan Chong, il
cosiddetto «uomo di legno» usato nell’addestramento dello stile Wing Chun e in
altri stili di Kung Fu della Cina meridionale. Si tratta di un tronco di legno, dal
quale sporgono tre pioli su cui allenare le tecniche di braccia e uno, più lungo e
curvo, per l’allenamento delle tecniche con le gambe. Nella sua versione tradi-
zionale, è fissato su telaio oscillante e risponde ai colpi del praticante restituen-
do la forza che gli viene impressa. Letteralmente, in questo caso, «boards do hit

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LORENZO DOMANESCHI

back». Il praticante deve imparare così, a un tempo, a colpire e a gestire il feed-


back prodotto dall’attrezzo, addestrandosi così al controllo e alla canalizzazione
dell’energia secondo lo schema che gli rimanda l’oggetto. Come negli esempi
riportati in precedenza, attraverso le caratteristiche specifiche dell’attrezzo si
fabbrica il corpo (e l’anima) del praticante e, tramite questa azione del potere
simbolico inscritto nell’oggetto, si fabbrica – e viene poi valutata – la pratica.
In secondo luogo, vale la pena sottolineare le potenzialità dell’«enactive
ethnography», laddove combinata con l’approccio delle teorie della pratica (Ad-
loff et al., 2015). Nella ricostruzione di una pratica sociale attraverso questo
particolare metodo etnografico, infatti, mi sembra venga riproposta in manie-
ra convincente la nozione simmeliana di effetti di reciprocità (Simmel, 1998),
laddove si porta l’attenzione sulla pluralità di correlazioni tra elementi come
prova della loro integrazione attiva nella formazione di una particolare pratica
sociale. Tali correlazioni non sono certo intese come determinanti di un’azione,
ma piuttosto come condizioni di possibilità della fabbricazione durevole di un
certo corso di agire sociale.
Infine, analizzata da questo punto di vista, la pratica del wushu kung fu
può servire da esempio estremo di ciò che ogni pratica sociale è (Shove, Pantzar,
2005; Wilson, 2009), con le sue procedure di addestramento fondato sull’inte-
grazione tra elementi. Parafrasando, cioè, l’espressione di Wacquant per cui
saremmo tutti artisti marziali, mi sembra che, in accordo con questo sposta-
mento teorico dalle condotte degli agenti verso le condizioni di attivazione di
pratiche sociali, potremmo dire più precisamente che, in una certa misura, tutte
le pratiche sociali sono (analizzabili come) pratiche di wushu kung fu.

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