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Bruno Maida

Gli ebrei in Italia dal 1938 al 1945

Persecuzione, deportazione, sterminio

La 125a seduta del Senato nella XXIX legislatura si svolge il 12 dicembre 1938. Tra i
diversi provvedimenti presi in esami, i 164 senatori presenti – dei 394 in carica – devono
anche discutere e convertire in legge i decreti riguardanti la legislazione razziale emanati il
mese precedente. La discussione in aula si risolve in ben poca cosa. Prende la parola solo
l’ottantunenne Filippo Crispolti, il quale nel corso della sua lunga militanza cattolica ha avuto
già modo di esprimere posizioni a favore dell’emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica e
che in quell’occasione si preoccupa soprattutto di rilevare la necessità di “evitare in pratica
ogni scalfittura al monumentale Patto Lateranense” – riferendosi naturalmente al diritto
matrimoniale – aderendo nel complesso alla politica persecutoria fascista, salvo raccomandare
moderazione ed attenzione ai casi individuali. Tutto si svolge dunque con rapidità e senza
alcun intoppo, anche se ben diversa è stata la preoccupazione nei giorni precedenti. Il 5
dicembre, infatti, Giacomo Suardo, appena nominato vicepresidente del Senato, ha
comunicato a Mussolini (tramite il capo della segreteria del duce, Sebastiani) che gli è giunta
una voce, da ritenersi credibile, che alla ripresa dei lavori dell’assemblea i senatori ebrei
(nove nel complesso: Salvatore Barzilai, Enrico Catellani, Adriano Diena, Isaia Levi, Achille
Loria, Teodoro Mayer, Elio Morpurgo, Salvatore Segré Sartorio, Vito Volterra) insceneranno
una “dimostrazioncella”. In particolare “Loria o Volterra prenderebbero la parola per criticare
la politica razziale e per invitare i senatori ebrei ad abbandonare l’aula e il Senato”. La
risposta di Mussolini è laconica: “Appurare ma lasciar fare. Peggio per loro”. E aggiunge
Sebastiani: “E’ un modo per risolvere la faccenda”. Insomma, una manifestazione di dissenso,
seppure contenuto, probabilmente consentirebbe di cacciare i senatori ebrei dall’assemblea.
Altre dimostrazioni non sono attese, anche perché – riferisce Suardo – se “volessero prendere
la parola Croce o Casati o Albertini (il che mi parrebbe da escludersi) si potrebbe con costoro
usare modi ben più decisi”. Sebbene sia da parte di Loria, anch’egli ottantunenne, che si teme
un possibile intervento, il 7 dicembre il questore di Torino assicura che ciò si può escludere:
“Può darsi che notizia protesta sia derivata da circostanza che Senatore Loria trovasi precarie
condizioni salute si mostrò contrariato pel fatto che in un primo tempo gli fu negato trattenere
presso di sé due domestici ariani per assistenza. Tale concessione est stata accordata oggi
seguito nuove disposizioni Ministeriali” 1. La sostanziale, sebbene contrastata, accettazione del
fascismo da parte di Loria, l’età e le non buone condizioni di salute, il rapporto con la
tradizione ebraica, vissuto nell’alveo dell’integrazione postemancipatoria e in una dimensione
sostanzialmente privata, sono gli elementi alla base di un silenzio non meno assordante di
quello dei suoi colleghi. Negli stessi giorni Vittorio Foa scrive dal carcere: “Espressa la
speranza, quasi certamente vana, che si udisse una voce di risonanza mondiale, consideravo i
quattro senatori ebrei di cui so l’esistenza: Barzilai, che per il suo passato sarebbe il più
difficile da tacitare e che ha tanto chiacchierato quando non se ne sentiva il bisogno che può
dire due parole in quest’ora grave; Mayer, vincolato dal suo giuramento a non far nulla che
possa sembrare opposizione; Loria bacucco fin dalla nascita […] l’unico e solo senatore ebreo
fatto dal 1923 in poi (cosa questa che dovrebbe compiacere gli ebrei, se fossero un po’ più
riflessivi), l’Isaia da cui sarebbe veramente disonorevole essere difesi […]” 2.

1
Le citazioni sono tratte da B. Di Porto, La temuta protesta dei senatori ebrei per le leggi antiebraiche, in “La
Rassegna mensile di Israel”, vol. LXIV, n. 2, maggio-agosto 1998.
2
V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a cura di di F. Montevecchi, Einaudi, Torino, 1998,
p. 505.

1
Con questo silenzio, per molti versi scontato, si conclude per l’Italia quello che è stato
definito un “anno cruciale e terribile per l’ebraismo europeo”3. Dopo i primi provvedimenti
antiebraici varati in Romania all’inizio dell’anno, Austria, Ungheria, Italia emanano
legislazioni persecutorie, e il 1938 si conclude vieppiù drammaticamente in Germania con la
“notte dei cristalli” che rappresenta, ad un tempo, un salto di qualità in termini di violenza ed
un aggravamento delle disposizioni persecutorie. In Italia, le leggi razziali sono elaborate nel
corso di nove mesi, da febbraio ad ottobre, attraverso trasformazioni ed integrazioni che ne
aggravano progressivamente i contenuti persecutori e la loro inclusività. L’insieme della
normativa si presenta come originale rispetto ai provvedimenti nazisti, e per certi versi – in
particolare nei confronti degli stranieri e della scuola – assume caratteristiche di maggiore
durezza. Va detto tuttavia che se il 1938 rappresenta una svolta in termini generali, nella
persecuzione antiebraica durante il fascismo quest’anno costituisce un’accelerazione di un
processo che perlomeno affonda le sue radici nelle caratteristiche del fascismo e dei
cambiamenti intervenuti nella prima metà degli anni Trenta: il crescente sospetto verso i
margini di autonomia dell’Unione delle comunità israelitiche, l’avvicinamento alla Germania,
la proclamazione dell’Impero e l’avvio di una politica razzista coloniale. Insomma, tra il 1935
e il 1936 la “questione ebraica” diventa un problema di politica interna non più rinviabile e
ciò perché gli ebrei per il fascismo “al di là delle convinzioni politiche di ciascuno,
costituivano un gruppo il cui comportamento era giudicato (dal regime e rispetto alle sue
finalità) pericoloso, antagonistico, alternativo, incoerente e anche inutile” 4.
La prima presa di posizione ufficiale del fascismo e di Mussolini è il testo
dell’“Informazione diplomatica” n. 14 del 16 febbraio 1938. In questa nota – che come le
precedenti e le successive ha la funzione di far conoscere l’opinione del regime su
determinate questioni internazionali – dopo aver escluso misure di ogni genere contro gli
ebrei, alla fine vi è scritto: “Il Governo si riserva tuttavia di vigilare sull’attività degli ebrei
venuti di recente nel nostro Paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva
della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza
numerica della loro comunità” 5. Un ebreo ogni mille italiani – così come verrà esplicitamente
detto nell’“Informazione diplomatica” n. 18 del 5 agosto 1938 – è dunque la misura del peso
che essi devono avere. Questa cornice, tuttavia, ha già trovato i suoi contenuti nel documento
Il fascismo e i problemi della razza, noto altrimenti come “Manifesto degli scienziati razzisti”
del 13 luglio 1938. Nel solco del più tradizionale razzismo, ma rafforzato da una forte
caratterizzazione biologica, il documento definisce con chiarezza la diversità degli ebrei e la
necessità della separazione: il punto 9 recita che “gli ebrei non appartengono alla razza
italiana”, sostenendo altresì che essi “rappresentano l’unica popolazione che non si è mai
assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei”; il punto 10
sostiene che “i caratteri fisici e psicologici europei degli Italiani non devono essere alterati in
nessun modo”, e che perciò l’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razza europee. Il 25
luglio il Partito nazionale fascista emette un comunicato nel quale riprende e certifica
ufficialmente i contenuti del manifesto. Nel mese di agosto è annunciata e poi svolta una
precisa rilevazione degli ebrei italiani e stranieri residenti nel regno. In effetti, i dati
disponibili sono assai imprecisi e non aggiornati. Nel complesso, risulta che sono presenti in
Italia circa 47 mila ebrei di cui poco meno di 10 mila stranieri.
E’ nella seduta dell’1 e del 2 settembre 1938 che il Consiglio dei ministri – riunitosi per
la prima volta dopo l’estate – vara i primi provvedimenti di legge. Sono cinque decreti con i

3
E. Mendelsohn, Gli ebrei nell’Europa orientale tra le due guerre mondiali, in La legislazione antiebraica in
Italia e in Europa, cit., p. 350.
4
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, p. 109.
5
M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Silvio Zamorani
editore, Torino, 1994, p. 18.

2
quali si decidono l’espulsione degli ebrei stranieri, “la difesa della razza nella scuola fascista”
ossia la sua arianizzazione, la creazione dei principali uffici incaricati della persecuzione.
Dopo la cosiddetta Dichiarazione sulla razza approvata il 6 ottobre dal Gran consiglio del
fascismo, nella quale si offre una prima definizione ed articolazione dell’appartenenza alla
“razza ebraica”, nelle sedute successive del Consiglio dei ministri – del 7, 9 e 10 novembre –
sono approvati altri quattro decreti che per un verso riepilogano le varie disposizioni
riguardanti la scuola, per l’altro si caratterizzano come sintesi radicale e generale
dell’esclusione e della persecuzione. Secondo questa legislazione “razzistico-biologica” 6
l’essere ebreo dipende dalla “razza” dei genitori, in subordine (nel caso che padre e madre
appartengano a “razze” diverse) dalla nazionalità, infine dalle caratteristiche individuali della
persona considerata (la religione, l’aver manifestato la propria appartenenza al gruppo
ebraico, l’aver contratto matrimonio misto). Negli anni successivi viene accolto un centinaio
di ricorsi per la cosiddetta arianizzazione ossia la possibilità di dimostrare di avere un
genitore biologicamente diverso da quello iscritto nel registro di nascita; sono invece circa
2.500 le domande di discriminazione accettate dagli uffici competenti, che permettono una
limitazione delle interdizioni (riguardante in particolare la conservazione del patrimonio e, in
alcuni casi, della professione) in virtù di benemerenze acquisite in guerra o per la causa
fascista.
L’elaborazione di questi provvedimenti avviene in un clima di sempre maggiore ostilità
verso gli ebrei da parte degli organi di stampa. Campagne giornalistiche sono avviate fin dal
mese di gennaio soprattutto dal “Tevere”, “da Il Resto del Carlino”, da “Il regime fascista”
secondo un crescendo razzista e antisemita caratterizzato dalla sistematica distorsione
dell’informazione (sparizione delle notizie favorevoli agli ebrei – per esempio, riguardanti il
loro patriottismo – e amplificazione di quelle negativa) e dalla polemica contro i giornali che
non si allineano o persino criticano tale politica (un violentissimo attacco è lanciato, a
gennaio, contro “Il piccolo” di Trieste che avanza alcune riserve sulla possibile svolta
razzista). Il 6 agosto compare il primo fascicolo de “La difesa della razza”, diretto da Telesio
Interlandi, rivista simbolo della campagna antiebraica. Ma., come ha scritto De Felice, “nella
difficoltà attuale di accedere a tutta la pubblicistica del tempo, “La difesa della razza” è
divenuta dopo la caduta del fascismo il simbolo della sua campagna antisemita; in realtà non
solo il suo peso fu molto scarso, ma la sua lettura non offre che un quadro sbiadito di cosa fu
la campagna di stampa contro gli ebrei. Questa infatti risulta in tutta la sua realtà solo da una
lettura della stampa quotidiana. In un certo senso, “La difesa della razza” è già ad un gradino
più alto e, anche se l’affermazione potrà sembrare un po’ grossa, meno violenta, la sua
polemica manca infatti di quel tanto di immediato e personale nei confronti degli ebrei italiani
che invece caratterizza la stampa quotidiana” 7. Per fare solo un esempio, la lettura degli oltre
1.500 articoli dedicati, nel corso del 1938, da “La Stampa” e dalla “Gazzetta del Popolo”
alla campagna antiebraica dimostra come i due quotidiani non solo non si sottraggono a tale
missione ma danno “prova di zelo ed enfasi crescenti in una campagna stampa che
restitui[sce] ai lettori un quadro a tinte fosche delle comunità ebraiche straniere ed italiane” 8.
Ma non si dimentichi che anche all’interno dei giornali gli ebrei sono colpiti: un centinaio tra
redattori e collaboratori è cancellato dall’Albo e cacciato dal sindacato, alcuni sono
immediatamente licenziati, in un caso – quello di Emilio Foà, funzionario dell’Unione
industriale di Torino – la scelta è quella del suicidio. Anche la radio è naturalmente coinvolta
nella campagna di propaganda antisemita. La diffusione di trasmissioni culturali impostate su
questo tema diventeranno frequenti soprattutto durante la guerra, fra il 1941 e il 1943, ma se

6
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 159.
7
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1972 (1 ed. 1961), p. 269.
8
C. Villata, 1938: la campagna antiebraica su “La Stampa” e sulla “Gazzetta del Popolo”, Tesi di laurea (rel.
F. Levi), Università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2000-2001, p. 47.

3
ne registrano fin dal 1938, affiancabili – per efficacia e diffusione – ai corsi antiebraici nelle
scuole. “Un impegno di propaganda antisemita diretto e specializzato tuttavia non fu mai
eccessivamente presente nella radio: l’antisemitismo scaturiva piuttosto genericamente
dall’insieme dei programmi secondo una visione pragmatica del problema e non scientifica,
come era invece nella Germania nazista”9.
L’applicazione delle leggi razziali si realizza in tutti i campi della vita sociale. E’
sufficiente un rapido sguardo alle circolari emanate dai diversi ministeri – in alcuni casi
rivolte a limitare gli effetti della legislazione persecutoria, perlopiù indirizzate ad aggravarla –
per rendersi conto della capillarità di tale politica. Si va dal divieto di avere domestici di razza
ariana a quello di ricorrere alla pubblicità sulla stampa nazionale e alla publicazione degli
annunci mortuari, dall’eliminazione dei nominativi ebraici dagli elenchi telefonici e dalla
toponomastica, dal divieto di avere apparecchi radio a quello di recarsi in località marine o
montane di villeggiatura, dall’inibizione ad accedere alle biblioteche pubbliche fino al rifiuto
di concedere autorizzazione per l’allevamento dei colombi. L’elenco è assai lungo ma
denuncia con chiarezza la volontà di separare e, in qualche modo, di cancellare la presenza
degli ebrei nel paese. Ancora più capillari sono le leggi e le circolari nei settori del lavoro,
della proprietà e della scuola. Il licenziamento dagli impieghi pubblici si realizza fin dalla fine
del 1938 mentre progressivo ma costante è la loro espulsione dagli impieghi privati e il
divieto di svolgere professioni autonome. Così, all’indomani delle leggi razziali inizia
l’espulsione dei dirigenti delle grandi aziende, dei dipendenti di banche e di assicurazioni. In
seguito viene bloccato il rilascio delle licenze per il commercio ambulante (e in genere tutta le
attività distributive svolte dagli ebrei sono colpite e interdette) e la possibilità di iniziare o
continuare le più diverse professioni autonome (dal medico all’avvocato all’ingegnere, ecc.).
Tra le applicazioni, per così dire, più caute delle leggi razziali – sia in termini legislativi
sia nei concreti risultati – si possono inserire, almeno fino al 1943, le disposizioni di carattere
economico. I beni degli ebrei sono colpiti soprattutto attraverso tre provvedimenti: la legge
del 17 novembre 1938 che limita le possibilità di essere proprietari (interdizione resa meno
rigida dal fatto che proprio sul piano economico è perlopiù applicabile la discriminazione); il
decreto legge del 9 febbraio 1939 che impone di trasferire all’Ente gestione e liquidazione
immobiliare (Egeli) – creato con lo stesso provvedimento – la “quota eccedente” di proprietà
(quella cioè superiore a 5 mila lire di estimo per i terreni e di 20 mila lire di imponibile per i
fabbricati urbani) calcolata sulla base delle autodenunce oppure consente di donare i propri
beni a cittadini italiani non di razza ebraica nonché ad enti o istituzioni con finalità educative
o assistenziali; il decreto legge del 4 gennaio 1944, emanato dalla Repubblica sociale, con il
quale ogni distinzione cade e semplicemente agli ebrei è negato il diritto della proprietà.
Quest’ultimo provvedimento segue di poche settimane la circolare n. 5 del 30 novembre 1943
emanata dal sottosegretario agli Interni, Buffarini Guidi, con la quale è stato disposto l’invio
degli ebrei in campi di concentramento provinciali e il sequestro dei loro beni, in attesa di
confisca. Nei fatti l’Egeli dimostra una scarsissima capacità di impossessarsi dei beni degli
ebrei, sebbene la dispersione delle risorse è comunque ingente, senza contare il peso, su ogni
singolo perseguitato, della perdita di oggetti e di beni in generale che rappresentano una parte
significativo della propria esistenza.
Gli ebrei sono poi espulsi da tutte le istituzioni culturali e sportive, le loro opere non
possono essere pubblicate e quelle in commercio vengono ritirate, nessuna esposizione
artistica è consentita né sono possibili rappresentazioni teatrali, musicali o cinematografiche
che prevedano contributi intellettuali da parte di ebrei. L’arianizzazione nella scuola può dirsi
inoltre completa. Con il regio decreto del 5 settembre 1938 sono cacciati centinaia di direttori
e maestri di scuola elementare, 279 tra presidi e professori di scuola media, 96 professori

9
F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Società, politica, strategie, programmi,
1922-1992, Marsilio, Venezia, 1992, p. 115.

4
universitari ordinari e straordinari, più di 133 aiuti e assistenti universitari, una trentina di
incaricati e lettori, oltre 200 liberi docenti e sono escluse immediatamente alcune migliaia di
studenti elementari e medi. Ai circa 200 studenti universitari italiani iscritti nel 1938-1939
viene consentito con soluzione transitoria di proseguire gli studi. Successivamente è permesso
alle comunità israelitiche di creare scuole riservate a bambini ebrei, inizialmente solo
elementari – istituibili nelle località in cui il numero degli alunni non sia inferiore a dieci – poi
anche secondarie. Contemporaneamente diventa legge il divieto di adozione nelle scuole
medie di libri di testo commentati, riveduti o redatti, anche solo parzialmente, da mano
ebraica, mentre viene pubblicato un elenco dei 114 autori vietati. Tutto ciò all’interno di un
sistema rivolto contestualmente a raggiungere l’obiettivo, di lungo periodo, di un
abbassamento del livello socio-culturale degli ebrei e all’interno di un modello di propaganda
capillare e nel quale l’educazione scolastica riveste un ruolo deciviso, come dimostra la
pubblicazione, nel 1940, del Secondo libro del fascista, destinato come il Primo, alle scuole
elementari e medie ma diversamente dal precedente – rivolto agli aspetti generali e storici del
fascismo – imperniato sui temi della razza e delle origini storico-biologiche della stirpe
italica.
Assai difficile è dare un giudizio sulle reazioni individuali, collettive ed istituzionali alla
politica razziale del regime. A guardare le carte di polizia e le relazioni dei fiduciari dalle
varie province si può giungere alla conclusione che, in Italia, nel 1938, vi è un rifiuto
“generalizzato e spontaneo dell’opinione pubblica verso la politica razziale del regime” 10 al
quale si aggiungono preoccupazione e sbigottimento, anche da parte dei fascisti, come nel
caso di Duilio Sinigaglia, uno dei tre ebrei che sono nell’elenco dei “martiri della
rivoluzione”, ucciso nel 1921 dalle guardie regie mentre guidava una manifestazione
squadrista a Modena. Nel maggio 1938 il federale della città emiliana scrive che “in città si ha
la sensazione che qualunque misura in danno della famiglia Sinigaglia od un’eventuale
modifica della denominazione delle opere dedicate alla memoria del martire non
incontrerebbe il favore dei fascisti” 11. Anche se dopo i provvedimenti dell’estate aumentano
di molto i sostenitori della politica razziale del regime, nondimeno “quasi nessuno sente la
campagna razzista come è stata fatta, – riferisce un fiduciario da Torino il 21 dicembre – e,
non per pietismo, si chiede dove vuole arrivare, e quali fini si attendono dai provvedimenti
presi e da quelli che verranno in avvenire” 12 . Il “pietismo” – ossia l’atteggiamento
eccessivamente “tenero”, soprattutto da parte dei cattolici e del Vaticano, contestato dai
fascisti come sintomo di spirito borghese, quando non come antifascista o filogiudaico – trova
posto, in realtà, in un contesto più articolato, del quale fanno parte sia una lontananza, nel
complesso generale, dagli accenti più radicali della propaganda razzista (come si deduce, per
esempio, dalla caduta delle vendite de “La difesa della razza”, passata da una tiratura di 150
mila copie nei primi numeri alle 20 mila di due anni dopo), sia da un buon numero di
adesioni, concretizzatesi soprattutto nell’attività propagandistica e culturale, sia da una
limitata ma radicale minoranza contraria, sia da una diffusa indifferente accettazione
determinata dalla scelta del quieto vivere, dalla volutamente miope visione di un fascismo
moderato, dalla profonda integrazione ebraica. Posizioni nel complesso uniformi e appiattite
su quelle espresse dal regime si trovano inoltre nella cultura e tra i giovani, soprattutto quelli
più impegnati nelle iniziative del regime. Peraltro, questi atteggiamenti risultano giustificati
dalle prese di posizione delle istituzioni più significative. Tiepide quelle del Vaticano, rivolte
sostanzialmente a contestare il vulnus inferto al Concordato dalle leggi razziali che non
riconoscono validità civile ai matrimoni misti, ma mai incisive nella condanna morale della
discriminazione e della persecuzione. Del tutto complici quelle del re, che firma e approva,

10
S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 249.
11
Ivi, p. 247.
12
Ivi, p. 249.

5
chiedendo solo una vaga moderazione per le persone a lui vicine. Bifronti quelle dell’esercito
che, di fatto, applica senza soluzione di continuità le disposizioni fasciste ma che poi, per
difendere gli spazi di autonomia, cerca negli interstizi la difesa dei propri vertici. Né, d’altra
parte, dal 1938 al 1943, si verificano in Italia violenze su larga scala che potrebbero muovere
fastidi e proteste: salvo alcune bastonature a partire dall’ingresso dell’Italia in guerra la cui
responsabilità viene addossata in parte agli ebrei, le aggressioni più gravi si verificano a
Ferrara nel 1940-41 e a Trieste nel 1941-42, senza comunque diffondersi a macchia d’olio.
Certo, vale ancora la pena di ricordare che il clima di violenza e di oppressione è assai più
vasto e profondo dei suoi aspetti prettamente fisici, ma non bisogna mai dimenticare che
giungono dopo un quindicennio durante il quale la maggior parte degli italiani ha imparato e
accettato a vivere con limitazioni sempre più forti delle libertà e dei diritti.
Da questo punto di vista il salto qualitativo e quantitativo rimane comunque la fase della
“persecuzione delle vite” nel periodo 1943-45. Rispetto al tema della Shoah in Italia debbono
essere affrontate almeno tre questioni: l’organizzazione e le fasi del processo, le dimensioni e
le caratteristiche della deportazione e dello sterminio, il ruolo e le responsabilità delle autorità
italiane. Non si può trascurare innanzitutto che nei quarantacinque giorni tra la caduta del
fascismo e l’armistizio, il generale Badoglio, incaricato dal re di formare il governo, non
interviene in alcun modo per cancellare le leggi razziali o per occultare la documentazione
eventualmente utile ai tedeschi. La preoccupazione di non insospettire questi ultimi,
all’interno di una politica ambigua e contraddittoria, consentirà agli occupanti di usufruire di
vere e proprie mappe della presenza ebraica nel paese. Ma la storia della deportazione
dall’Italia inizia specificatamente dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione del territorio
italiano da parte delle truppe tedesche e con la nascita della Repubblica sociale. Mentre gli
alleati liberano i campi di concentramento delle province meridionali, nella parte
settentrionale si instaura con rapidità un sistema di controlli politici e polizieschi da parte
tedesca che, per quanto riguarda la deportazione, vede al vertice il generale Karl Wolff,
comandante supremo della SS e della polizia tedesca, diretto rappresentante di Himmler in
Italia, che stabilisce il suo quartier generale a Verona. Due regioni sono poste sotto il diretto
controllo tedesco: la Zona di Operazione Litorale Adriatico (province di Udine, Goriza,
Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) e la Zona delle Prealpi (province di Trento, Belluno e
Bolzano). Sia per dimostrare la totale sudditanza italiana alla volontà del Reich sia grazie al
terreno preparato dalle legge razziali, dalla loro applicazione e dal condizionamento
dell’opinione pubblica, rispetto agli altri paesi “due elementi distinguono l’esecuzione della
politica di sterminio in Italia: fu estesa subito a tutti gli ebrei, non solo gli stranieri ma anche
gli italiani; non fu preceduta da una fase preparatoria”13.
A dimostrazione della volontà di applicare, da subito e radicalmente la “soluzione
finale” in Italia, fin dal mese di settembre di succedono violenze contro gli ebrei in diverse
parti del territorio occupato: 54 persone sono uccise sul Lago Maggiore, più di 300 ebrei
profughi sono rastrellati (e poi deportati a novembre) nel Cuneese dopo una lunga e
drammatica fuga al seguito della IV armata italiana in fuga; è rastrellata e deportata la
comunità di Merano. Se queste azioni appaiono non coordinate tra loro – ma sono bensì un
primo gravissimo segnale degli sviluppo futuri, trascurato dagli ebrei italiani sia per le scarse
informazioni sullo sterminio ad est sia per la convinzione diffusa che ciò non sarebbe mai
potuto accadere in Italia e con il fascismo – del tutto organizzata e metodica è invece la
razzia del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, vero “giorno della memoria” della Shoah in
Italia. In quel sabato mattina, alle cinque e trenta, circa 350 uomini delle diverse polizie
tedesche bloccano ogni ingresso al ghetto e iniziano un sistematico rastrellamento che porta
alla cattura di 1.259 persone, ammassate nel Collegio militare italiano. Circa duecento sono
liberate il giorno dopo perché non ebree o perché figli di matrimoni misti. Rimangono 1.023
13
L. Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Mondadori, Milano, 1994, p. 160.

6
ebrei (di cui 244 bambini) che sono deportati due giorni dopo ad Auschwitz. Ne torneranno
17.
A guidare la razzia del ghetto romano è stato l’SS Hauptsturmführer Theo Dannecker,
fiduciario di Eichmann, inviato in Italia dopo aver fatto grande esperienza di rastrellamenti e
di deportazioni in Francia. E’ ancora lui a guidare gli arresti, nei mesi successivi: Firenze,
Siena, Bologna, Montecatini Terme, Livorno, Torino, Genova, Milano. Altri 350 ebrei sono
così inviati ad Auschwitz con due trasporti, formati nel dicembre 1943, da Firenze e Bologna
il primo, da Milano e Verona il secondo. Nello stesso periodo si definisce con chiarezza la
politica razziale della Rsi che, a novembre, nella Carta di Verona – manifesto politico della
sua assemblea costituente – scrive, al punto 7: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono
stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Un’affermazione che
porta alle estreme conseguenze la legislazione razziale, legittima di fatto lo sterminio e si
combina con atti e pratiche di diretta partecipazione alla deportazione. In primo luogo, la già
ricordata circolare n. 5 del 30 novembre 1943 stabilisce la creazione di campi di
concentramento provinciali dove internare gli ebrei. Si tratta di una ventina di caserme, ville,
alberghi, templi israelitici, scuole, cascine, semplici edifici e piccoli campi che hanno una
breve vita ma che servono a raccogliere molti ebrei trasferiti poi a Milano e deportati con il
convoglio partito dal capoluogo lombardo il 30 gennaio 1944. Il campo di concentramento
centrale viene istituito a Fossoli, quattro chilometri in direzione nord dal comune di Carpi,
nella provincia di Modena. Qui, allo scoppio della seconda guerra mondiale, è stato costruito
il più grande campo di concentramento italiano per prigionieri di guerra. All’inizio di
dicembre diventa un campo di internamento e di transito per i deportati italiani, politici ed
ebrei, verso i Lager nazisti. Non è una scelta casuale. Fossoli si trova sulla direttrice del
Brennero ed è in posizione ideale per i collegamenti con il centro Italia: insomma uno
svincolo perfetto per i traporti dei deportati, una soluzione alla quale i nazisti mostrano di
prestare una particolare attenzione, dimostrata già in casi diversi ma esemplari come
Mauthausen ed Auschwitz. Le autorità italiane ne hanno il controllo fino al 15 marzo 1944,
poi passa sotto la guida delle SS, per quanto formalmente rimanga nelle mani italiane.
Nel frattempo, l’SS Sturbannführer Friedrich Bosshammer è incaricato di guidare un
ufficio che stabilmente si occupi in Italia della questione ebraica. I rastrellamenti sono
sistematici, il concentramento è ormai centralizzato a Fossoli e sono sette i trasporti verso i
lager nazisti da febbraio ad agosto. Il 1° agosto 1944 le SS chiudono Fossoli perché la linea
del fronte alleato, in quell’estate, si è sensibilmente avvicinata all’Appennino modenese e i
bombardamenti aerei rendono difficile l’attraversamento del Po. Gli ebrei presenti a Fossoli
sono comunque tutti deportati lo stesso giorno da Verona con destinazione Auschwitz (ma i
coniugi non ebrei e i nati da matrimonio misto sono inviati a Ravensbrüch, Buchenwald,
Bergen Belsen). Viene aperto un nuovo Durchgangslager (campo di transito) a Gries, alla
periferia di Bolzano. Si tratta di una ex caserma per automezzi militari a cui sono aggiunte in
seguito due lunghe file di celle. Il freddo, la dura disciplina, gli aguzzini ucraini, le
sorveglianti del blocco femminile, i pidocchi peggiorano le condizioni dei prigionieri rispetto
a Fossoli, in particolare degli ebrei, i primi dei quali giungono a Gries — dopo essere stati
rastrellati nelle zone di Torino, Milano, Genova e inviati a San Vittore — con gli autobus
dell'Azienda municipale milanese. Di qui parte in ottobre ancora un convoglio di ebrei. Il
campo di Gries cessa di funzionare solo alla fine dell'aprile del 1945 quando
l'amministrazione passa alla Wermacht che lo consegna alla Croce Rossa internazionale. Gli
ebrei arrestati nell’ Adriatisches Küstenland dalla Gestapo vengono invece concentrati prima
nel carcere del Coroneo, poi nel Polizeihaftlager della Risiera di San Sabba. Questo grande
edificio alla periferia della città nel quartiere, appunto, di San Sabba che si affaccia sul mare,
non diventa solo un campo di concentramento bensì l’unico luogo, in Italia e nell’Europa
occidentale, che vede funzionare dal marzo 1944 un forno crematorio. Le vittime sono circa 2
mila. Nelle diciassette piccole celle a piano terra sono rinchiusi i prigionieri che attendono di

7
essere portati nella “camera della morte”, uno stanzone che dista poche decine di passi dal
forno crematorio. Mentre ad Auschwitz si usa già con sistematicità lo Zyklon B, nella Risiera
di San Sabba gli aguzzini nazisti uccidono o con un colpo di mazza sulla testa (poco
preoccupati di verificare la morte delle vittime prima di gettarle nel forno crematorio, che
verrà fatto saltare dai nazisti nell'aprile 1945) oppure con i furgoni a gas secondo il metodo
lungamente adottato a Chelmno, Treblinka, Sobibor e Belzec. Di qui partono dodici convogli
con destinazione Auschwitz.
Nel complesso sono circa 6700 gli ebrei deportati dall’Italia nei Lager nazisti a cui si
devono aggiungere altre 300 persone vittime di eccidi o uccisioni singole. I morti, fra gli zero
e i venti anni, ammontano a 1.288. Fra questi, i bimbi dai 3 ai 10 anni sono 483 e quelli con
pochi mesi, o giorni, di vita e quindi collocati nella fascia di età compresa fra le classi 1943 e
1945, sono 72. Coloro che hanno più di ottant’anni sono 99 mentre raggiungono il numero di
1.310 le persone tra sessanta e gli ottanta. I sopravvissuti sono 830, poco più del 10 per cento.
Per quasi tutti – circa 6 mila – la destinazione è Auschwitz, con un tasso di mortalità del 94
per cento.
E’ difficile sostenere che lo sterminio sia una priorità per la Rsi. Deboli sono le tracce di
un accordo con il Terzo Reich per l’arresto e la consegna degli ebrei italiani. D’altra parte la
responsabilità diretta del fascismo è evidente negli atti politici e nelle azioni concrete. Dal
momento in cui viene creato Fossoli, “alle questure italiane fu assegnato il compito di
rintracciare, arrestare e consegnare le loro vittime al campo. Questi sono i termini
inequivocabili della collaborazione fornita dall’amministrazione italiana alle messa in atto
della soluzione finale, nei venti mesi della Rsi: aver svolto quella parte del lavoro che i
tedeschi, per loro stessa ammissione, non erano in grado di eseguire” 14. Ma violenze, soprusi,
razzie di beni punteggiano la storia della persecuzione degli ebrei nel periodo 1943-45. Tra i
molti silenzi che li accompagnano nella fuga, nel tentativo di nascondersi, nell’arresto e nella
deportazione, quello più significativo è attribuibile alla Chiesa cattolica. Cautela, non
intervento, timore del peggioramento delle condizioni dei perseguitati segnano la continuità di
un’assenza alla quale fa da coraggioso contrappunto l’azione dei singoli sacerdoti e religiosi
in genere che spesso – in accordo con i vertici vaticani – proteggono, nascondono e tutelano le
vite di molti ebrei. Né si può dimenticare la differenza tra le responsabilità dei vertici militare
e la partecipazione dell’esercito all’organizzazione dell’internamento e della deportazione, da
una parte, e il coraggio degli ufficiali e dei soldati presenti nelle zone d’occupazione italiana
(Francia meridionale, Croazia, Dalmazia e Montenegro) veri e propri rifugi per gli ebrei,
ricercati dai nazisti. Un analogo discorso vale per gli italiani in genere. Si è già detto: è
necessario equilibrio per valutare i comportamenti di un’intera popolazione nella quale non
mancarono atti di nobile coraggio e gesti di cinica indifferenza. Un giudizio generale deve
tenere conto della lenta ripresa di una coscienza civile a partire dalla crisi del fascismo, della
brutalità della guerra, del tentativo di rimuovere le responsabilità istituzionali, di una cattiva
coscienza che ha finito per fondare una cattiva memoria.

Ebrei tra fascismo, antifascismo e Resistenza


La questione del rapporto tra ebrei e Resistenza in Italia è stata spesso introdotta da una
specificazione riguardante il fatto che sarebbe più adeguato parlare – quando si fa riferimento
alla resistenza armata ed organizzata – della partecipazione di ebrei e non degli ebrei. In
apparenza, si tratta di una distinzione ad un tempo ovvia (allo stesso modo in cui si deve
parlare di italiani e non degli italiani) e pericolosa poiché rinvia ad un’idea della Resistenza
come fenomeno riferibile solo a quella minoranza, anzi a quell’élite, che ha combattuto nella
guerra di liberazione, anziché come processo nel corso del quale si verifica per molti italiani
14
Ivi, p. 172.

8
una profonda rielaborazione dei propri orizzonti politici e culturali, e spesso solo attraverso la
quale si giunge faticosamente a prendere coscienza della propria alterità rispetto al fascismo.
Non solo: fare riferimento solo a quella armata colloca su uno sfondo opaco l’articolato
mondo della resistenza civile, la cui pluralità di comportamenti e anche di contraddizioni
consente di dare conto in modo assai più ampio di quella che è stata la lotta contro il nazismo
e contro il fascismo.
Tuttavia, distinguere tra l’adesione di ebrei e degli ebrei ha una sua utilità. Innanzitutto
serve a sottolineare il carattere individuale che ha assunto la partecipazione ebraica in Italia a
differenza di altri paesi. Inoltre, nella confusione della parte con il tutto finisce per rimanere
sullo sfondo la pluralità di motivazioni e di percorsi che hanno condotto ad un’opposizione
armata o disarmata contro il nazismo e contro il fascismo, mentre si induce ad accogliere una
sorta di naturalità dell’antifascismo da parte degli ebrei italiani che sarebbe sfociata
conseguentemente nell’azione di una consistente minoranza di questi alla guerra di
liberazione. Una consistente minoranza – con un tasso superiore a quello nazionale –
peraltro in linea con i precedenti risorgimentali e della prima guerra mondiale. Tra le pieghe
di questa indifferenziata collocazione è sedimentato all’interno del mondo ebraico il rifiuto a
discutere innanzitutto delle aree di consenso o di non dissenso verso il fascismo esistenti tra
gli ebrei italiani negli anni Venti e Trenta, come se ciò potesse trasformarsi in una sorta di
legittimazione del regime.
Il giudizio di Michele Sarfatti può essere un buon punto di partenza: “gli ebrei italiani
erano fascisti come gli altri italiani, più antifascisti degli altri italiani” 15. Prima della marcia su
Roma gli ebrei iscritti al Partito nazionale fascista sarebbero circa 590, pari al 2,3 per mille
dei 250 mila iscritti. A questa percentuale, sicuramente più alta della media nazionale, si può
aggiungere che molti sono i personaggi, più o meno noti, che aderiscono o fiancheggiano il
fascismo alla sue origini, e così troviamo almeno cinque ebrei tra i sansepolcristi, altri tre che
figurano nel martirologio ufficiale della “rivoluzione fascista”, più di duecento con il brevetto
che attesta la loro partecipazione alla marcia su Roma. Ma nello stesso tempo, troviamo
altrettante figure di spicco tra gli antifascisti della prima ora, dai firmatari del cosiddetto
“manifesto Croce” ai collaboratori della “Critica sociale” fino alla discutibile affermazione di
Piero Treves – ma che probabilmente contiene comunque una parte di verità – per cui gli
ebrei antifascisti rappresenterebbero, rispetto ai correligionari dell’altro campo o almeno
simpatizzanti del movimento mussoliniano, “una proporzione di molto superiore alla media
“nazionale””16. Se poi si guarda agli iscritti al Pnf tra la fine degli anni Venti e l’inizio del
decennio successivo, il quadro sembra apparentemente mutare. Infatti, secondo i dati del
censimento del 1938, nel 1929 gli ebrei iscritti al partito ammonterebbero a circa 2 mila, ossia
l’1,9 per mille mentre nel 1933 salirebbero a circa 5.800, pari al 4,1 per mille. Tale
incremento può essere ricondotto ad una pluralità di ragioni, tra cui soprattutto le forti
sollecitazioni che il regime rivolge ai dipendenti pubblici – tra i quali è rilevante la presenza
ebraica – di iscriversi al Pnf, nonché il senso di tranquillità e di sicurezza diffusosi sia in virtù
del nuovo nuovo ordinamento giuridico varato nel 1930 per le comunità ebraiche (che pur
delimitandone la libertà d’azione e sancendo un diverso trattamento tra i culti, ne certifica il
diritto di esistenza) sia in virtù delle prese di posizione del duce contro la campagna
antisemita promossa dal nazismo in Germania.
Da questo punto di vista il passaggio del 1934 risulta determinante. Al centro vi sono
soprattutto gli arresti, compiuti nel marzo 1934 – nell’ambito di un clima segnato da alcuni,
limitati ma significativi attacchi agli ebrei da parte della stampa più marcatamente in linea con
il regime –, di un gruppo di antifascisti del movimento Giustizia e Libertà, in gran parte ebrei.

15
Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, p. 24.
16
Antifascisti ebrei o antifascismo ebraico?, in “La Rivista mensile di Israel”, XLVII, n. 1-6, gennaio-giugno
1981, p. 139.

9
L’11 marzo (ma la notizia verrà resa pubblica il 30) a Ponte Stresa, al confine italo-svizzero,
vengono fermati i torinesi Mario Levi, che riesce a riparare in Svizzera, e Sion Segre,
arrestato e condotto a Varese. Nacondono materiale di propaganda antifascista contro il
plebiscito che deve svolgersi il 25 marzo. Nei giorni successivi la polizia compie altri
quattordici arresti e dieci di questi sono ebrei (tra cui Carlo Levi e Leone Ginzburg). A Mario
Levi viene attribuita la frase “Cani di italiani vigliacchi!”, urlata mentre passa il confine
mettendosi in salvo. I giornali – a partire da “Il Tevere”, sul quale Interlandi il 31 marzo
scrive che “gli organizzatori del sovversivismo antifascista furono e sono della “gente
sconsacrata””17 – montano un durissimo attacco contro gli ebrei antifascisti e antitaliani, ma
dura pochi giorni, poi probabilmente Mussolini decide di non proseguire una polemica che ha
già avuto, se non altro, l’effetto di dare un colpo all’immagine degli ebrei. Più in generale, si
può dire che “per la prima volta “alcuni ebrei” o “gli ebrei” (la distinzione non fu affatto
chiara) erano stati pubblicamente definiti antifascisti da tutta la stampa del paese e polizia e
carabinieri erano stati ufficialmente avvertiti quanto meno della liceità di considerare gli ebrei
un problema di ordine pubblico e di antifascismo”18. Ma vi è da aggiungere almeno un’altra
rilevante conseguenza per quanto riguarda le convinzioni degli ebrei italiani, ossia la parziale
perdita di sicurezza e la volontà, da parte di alcuni gruppi, di organizzarsi e dare vita a
iniziative capaci di modificare la politica delle comunità e dell’unione, specie in direzione di
un maggior allineamento con il fascismo. In questi termini, l’esperienza del giornale torinese
“La nostra bandiera”, pur collocandosi sul fronte esplicito dell’adesione al fascismo, non può
essere liquidata semplicemente come una sorta di marchio d’infamia dell’ebraismo italiano,
bensì mette in rilievo la complessità e la disomogeneità degli atteggiamenti e dei
comportamenti degli ebrei nei confronti del regime e soprattutto è preziosa per comprendere
lo spaesamento, l’angoscia, la difficoltà ad accettare la realtà e la capacità di reagire nel
momento della “persecuzione dei diritti” ma anche quando si passa alla “persecuzione delle
vite”. “La nostra bandiera” appare nella primavera del 1934 su iniziativa dello scrittore Ettore
Ovazza, del generale Guido Liuzzi e del giornalista Deodato Foà. Pubblicato a Torino, ma con
una diffusione nazionale, poiché raggiunge le diverse comunità ebraiche del territorio,
prosegue le pubblicazioni fino all’estate del 1938 quando il clima di crescente ostilità verso
gli ebrei – più che una specifica decisione – convince la direzione a interromperne l’uscita.
Nella gran parte dei casi, le vicende de “La nostra bandiera” sono sempre state considerate
esemplari di una assoluta minoranza degli ebrei italiani, del tutto fascistizzata,
collaborazionista, incapace di cogliere il vero fondo del fascismo, per niente rappresentativa
del malessere e dell’opposizione ebraici nei confronti del regime. Contrariamente, si può dire,
sulla base delle più recenti ricerche, che il tentativo promosso da “La nostra bandiera”, di
realizzare la piena fascistizzazione delle comunità (che non vuol dire naturalmente degli ebrei
italiani nel loro complesso) in quanto unico possibile argine agli attacchi antiebraici ha una
buona riuscita, e ciò non solo come riflesso dei timori legati al clima persecutorio che dal
1934-35 accompagna le ambigue prese di posizioni del fascismo nei confronti degli ebrei, ma
anche come conseguenza di un’ottimistica adesione al fascismo non diversa da quella della
gran parte degli italiani. A “La nostra bandiera”, peraltro, collaborano molti dei più
rappresentativi protagonisti dell’ebraismo italiano suscitando importanti dibattiti e
rafforzando in molti ebrei una fedeltà verso il regime, ingiustificata quanto, spesso,
incrollabile.
Insomma, per quanto sia difficilmente misurabile, per tutti gli italiani, il “consenso”
verso il regime, nondimeno sembra sempre più dimostrabile il diffuso appoggio al fascismo
da parte degli ebrei negli anni Trenta. Il problema, casomai, è cercarne le cause e le
specificità. Un prima ragione emerge dall’approfondimento dello stereotipo secondo il quale

17
Cit. da R. De Felice, Storia degli ebrei sotto il fascismo, cit., p. 147.
18
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., p. 93.

10
gli ebrei non hanno fatto che comportarsi come gli altri italiani, insomma non si sono
nient’altro che mossi lungo le linee di un lungo processo di “nazionalizzazione parallela”. In
realtà, tra gli ebrei si può cogliere uno specifico orgoglio nel sentirsi italiani in virtù di una
recente emancipazione e di una riconosciuta partecipazione al processo risorgimentale, ancora
così vivo – malgrado lo sfruttamento retorico del regime – in quegli anni. Vi è poi da
considerare la particolare composizione sociale del gruppo ebraico che “non può non aver
avuto – anche se non sempre – un peso significativo nel condizionare l’atteggiamento positivo
di molti di loro verso il potere costituito”19 . Infine non è questione marginale la continua
tensione tra l’intensa partecipazione politica del primo dopoguerra, la decisa lealtà verso lo
Stato, l’appoggio dimostrato dai dirigente dell’ebraismo italiano, da un lato, e il
mantenimento di uno spazio di autonomia volto a non rinunciare completamente alla propria
identità, dall’altro. Proprio quest’ultimo aspetto può peraltro essere considerato una delle
ragioni che hanno spinto ad una accelerazione del processo persecutorio.
Ma vi è un aspetto ulteriore che non può essere trascurato. Nello spazio del “consenso”
al fascismo e dei comportamenti non in linea con l’immagine stereotipata di un ebraismo
coerente e antifascista si è creato un volontario oblio che ha coinvolto figure molto diverse tra
loro come lo scrittore Arturo Foà o il rabbino Israel Zolli. “Chi invece è stato inghiottito nei
gangli del fascismo e della guerra - ha scritto Fabio Levi – non solo, per forza di cose, non
ha potuto rinverdire la propria immagine, ma non ha neppure conquistato il diritto di essere
riconosciuto e giudicato in modo equanime” 20. Ciò non significa naturalmente che le leggi
razziali e la persecuzione finiscono per mettere tutti sullo stesso piano, coloro che si
oppongono e pagano fin da subito per l’opposizione al fascismo e coloro che in esso si
riconoscono fino a quei pochi, che pure vi sono, che abbracciano e avallano le stesse misure
persecutorie. Tuttavia, le leggi razziali sono per tutti, ebrei fascisti e antifascisti, una rottura la
cui comprensione può avvenire in tempi diversi, rallentati dal proprio riconoscersi nel
fascismo o dagli interessi da difendere, ma che comunque colpisce trasversalmente tutto il
gruppo ebraico. Ne ha acuta coscienza Vittorio Foa scrivendo dal carcere e riflettendo
sull’espulsione dei docenti ebrei dall’università:

[…] non provo nessun piacere nel vedere colpiti dei professori di presumibile malafede o nel
vedere sul lastrico degli ex-colleghi sempre più o meno disprezzati per l’esclusiva cura del
loro “particulare”; fra me e loro c’è questa differenza, che io ho perduto la mia carriera
professionale nel previsto corrispettivo di un’azione pienamente consapevole, a loro invece si
potrebbe dire: “Tu ne l’as pas voulu, George Dandin!” dove la particella negativa cambia
l’espressione da trionfale in profondamente pietosa e commiserevole. Forse tu vorresti
chiedermi: “Ma come? Forse che tu potendolo non avresti cacciato di seggio i vari Foà, Fano
ed Arias?” Ti rispondo che certamente sì, ed a calci, ma non c’è contraddizione colla mia
attuale commiserazione. Il senso dell’ingiustizia deriva dalla rottura fra la responsabilità e
l’azione cosciente, dall’assuzione a criterio della responsabilità di un elemento cieco
involontario incosciente come il sangue; dovunque questa rottura si verifichi essa offende la
coscienza, non importa chi ne sia la vittima 21.

Tuttavia, il senso della frattura non può che accompagnarsi alla consapevolezza delle
adesioni incondizionate, delle contiguità, delle difese degli interessi corporativi, delle

19
F. Levi, L’identità imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, Zamorani, Torino, 1996,
p. 177.
20
Ivi, p. 171.
21
V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a cura di di F. Montevecchi, Einaudi, Torino, 1998,
p. 478.

11
complicità. Al contrario, la debolezza del contesto rappresenta un limite per la costruzione di
una memoria collettiva e contribuisce a spiegare le ragioni per cui l’elaborazione del lutto
legato allo sterminio, compiuta dalle comunità ebraiche nel dopoguerra, passi anche attraverso
il suo ancorarsi alla Resistenza. La funzione è senza dubbio consolatoria poiché questo
accostamento pone l’accento sulle colpe tedesche e sui meriti degli italiani, capaci di
riscattarsi nella lotta contro il fascismo e contro l’occupante, favorendo al contempo la
rimozione delle responsabilità individuali e nazionali per ciò che concerne l’antisemitismo e
la persecuzione. “Associare sterminio e Resistenza – rileva Guri Schwarz – implicava il
tentativo di inserire il dramma degli ebrei nel dramma di tutta la nazione, collegare la tragedia
ebraica all’epos nazionale della Repubblica nata dalla Resistenza. I martiri dei campi di
sterminio, perseguitati ed uccisi in quanto ebrei, venivano accomunati ai combattenti per la
libertà; questa connessione rispecchiava il desiderio di onorare i milioni di vittime innocenti e
la volontà di sancire il proprio legame con la nuova Italia democratica nata
dall’antifascismo”22. I monumenti e le lapidi devono quindi essere un patrimonio comune e
non essere rivolti solo ai membri della comunità. In questo modo è possibile coniugare il
rispetto per la propria sofferenza, il valore pedagogico della memoria e la riaffermazione
dell’appartenenza nazionale.
Dietro a questa serie di osservazioni rimane però una domanda di fondo: esiste una
specificità ebraica nella partecipazione alla Resistenza? Nella sua autobiografia, pubblicata
dieci anni fa, Vittorio Foa si sofferma, nelle prime pagine, sulle ragioni che hanno spinto
molti ebrei ad a partecipare alla guerra di liberazione. A partire da una valutazione delle leggi
razziali in termini di tradimento rispetto alla tradizione di libertà e di tolleranza nata con il
Risorgimento, e da un netto giudizio sul processo postemancipatorio – l’assimilazione degli
ebrei e delle altre minoranze religiose sarebbe infatti un connotato dell’Italia unita – Foa
giunge a sostenere che la lotta contro le leggi razziali e la lotta per i valori di libertà e di
democrazia coincidono. Nessuno dei molti ebrei – da Franco Momigliano a Emanuele Artom,
da Eugenio Curiel a Leone Ginzburg, da Leo Valiani a Eugenio Colorni – che decidono di
prendere le armi farebbe per rivendicare un proprio ebraismo “anche se ognuno dichiarava ad
alta voce il suo essere ebreo”. Per ognuno di loro, secondo le parole di Foa, il problema è “di
ricostituire un’identità italiana (oppure europea) che era andata smarrita, un’identità da
ricostruire in una sfera laica” 23. Al di là di un’interpretazione eccessivamente ottimistica dei
processi di integrazione e di assimilazione della minoranza israelita nella società italiana nel
corso del secolo precedente le leggi razziali, le osservazioni di Foa risultano nel complesso
condivisibili laddove mettono in luce la partecipazione degli ebrei alla Resistenza in quanto
italiani e antifascisti, ma si prestano a due obiezioni. Innanzitutto, tendono a sottovalutare la
rottura segnata dalle leggi razziali e la loro radicalità (Foa parla più avanti del “moderato
razzismo italiano del 1938” 24 ), privilegiando la dimensione coesiva dell’antifascismo: si
potrebbe sostenere paradossalmente che, secondo questo punto di vista, il processo di
“nazionalizzazione parallela” troverebbe il suo inveramento proprio nel punto più basso della
storia degli ebrei nell’Italia contemporanea, poiché, appunto, “la lotta contro la
discriminazione razziale o religiosa si identificava con la lotta per il ripristino della libertà e
della democrazia”25. Inoltre, la galleria di personaggi illustri – ricorrente nella pubblicistica
ebraica che ricostruisce il contributo israelitico alle vicende storiche e culturali italiane – che
Foa presenta rischia di privilegiare i percorsi resistenziali più consapevoli mentre, al

22
G. Schwarz, L’elaborazione del lutto. La classe dirigente ebraica italiana e la memoria dello sterminio
(1944-1948), in ivi, p. 173.
23
V. Foa, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, p. 7.
24
Ibidem.
25
Ibidem.

12
contrario, le ragioni e le strade che conducono molti ebrei alla guerra di liberazione sono
spesso più immediate, necessarie o casuali.
Il numero di ebrei che partecipa alla Resistenza è difficilmente accertabile sia per la
difficoltà di attribuire la qualifica di ebreo sia a causa degli imprecisi confini della cosiddetta
Resistenza civile. Tuttavia, secondo un calcolo ragionevole gli ebrei italiani che prendono
direttamente parte alla guerra di liberazione – cioè coloro che fanno parte di bande partigiane,
oppure delle missioni alleate o ancora delle truppe che risalgono l’Italia – raggiungono circa il
migliaio, mentre i caduti sono 97. All’interno di questo gruppo lo spettro delle motivazioni e
dei comportamenti è estremamente ampio: da Giulio Bolaffi che prima crea nella valle di
Lanzo una rete clandestina per aiutare ebrei ed antifascisti, e che prende le armi quando si
rende conto che, al crescere della pressione nazista, costituisce l’unico modo per difendere i
suoi cari e la libertà; a Primo Levi e a Luciana Nissim nei quali la tensione etica si unisce ad
impreparazione ed ingenuità; a Mario Jacchia, combattente durante la prima guerra mondiale,
discriminato nel 1938, membro del Clnai dalla sua fondazione. Un personaggio come Bolaffi,
in particolare, assume un carattere esemplare, anche in virtù del ritratto che Ada Gobetti ne fa
nel suo Diario partigiano: “In fondo non aveva altra colpa che di essere ebreo e poteva
benissimo, come mille altri, nascondersi in quale angoletto tranquillo, cosa che i suoi soldi gli
avrebbero certamente permesso. Invece ha preferito mettersi allo sbaraglio, organizzare un
gruppo di partigiani in Val di Lanzo” 26 . Nondimeno, allargando lo sguardo ci possiamo
rendere conto che gran parte degli ebrei è impegnata nell’opposizione al fascismo e al
nazismo nelle forme di quella che chiamiamo “resistenza civile”: proteggendo, nascondendo,
difendendo singolarmente o collettivamente le vite di coloro che sono in pericolo di arresto e
deportazione. Anche in questo caso, lo spettro risulta quindi molto ampio: dall’attività di aiuto
della Delasem a quella di protezione della ditta Olivetti, dall’azione dei singoli al ruolo svolto
dalle scuole ebraiche. A Torino, per esempio, “alla metà di settembre del 1943 non
mancarono poi anche atti di vero e proprio coraggio: benché fosse evidente il pericolo di
essere catturati dai nazifascisti, i professori del liceo non rinunciarono ad interrogare gli
alunni che dovevano sostenere gli esami di maturità per concedere loro le meritate licenze.
Non essendo conveniente utilizzare i locali della scuola, le interrogazioni si svolsero
addirittura lungo i marciapiedi dei dintorni di via S. Anselmo” 27.
Se dunque è vero, come rileva Sarfatti, che le bande partigiane (e quindi i partiti
collegati ad esse) accettando al loro interno gli ebrei danno un segno inequivocabile ossia
quello di ripristinare “la vicenda storico-nazionale italiana che il fascismo e la monarchia
avevano spezzato e calpestato con la legislazione del 1938”28, tuttavia l’eredità della lunga
persecuzione iniziata nell’estate del 1938 e terminata con la fine della guerra non può trovare
il suo placebo nel riconoscimento del contributo ebraico alla Resistenza, soprattutto a causa
dei molti conti che la Repubblica italiana mantiene aperti: dalla rimozione della legislazione
discriminatoria senza affiancare interventi riparatori alla parzialissima restituzione dei beni,
dal reintegro nelle professioni al riconoscimento pubblico delle persecuzioni, dalla lentenza
con cui queste vicende sono state studiate ad una celebrazione ecumenica che tende a
dimenticare fratture, differenze e conflitti.

Il ritorno alla vita

26
A. Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino, 1956, p. 186.
27
C. Bonino, La scuola ebraica di Torino, 1938-1943, in B. Maida (a cura di), 1938. I bambini e le leggi
razziali, La Giuntina, Firenze, 1999, p. 80.
28
M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo, cit., p. 1763.

13
Alla liberazione di Roma, tra le prime iniziative degli ebrei della capitale vi è la
creazione di un Comitato ricerche soccorsi deportati ebrei che in quelle settimane si propone –
come si legge nelle sue carte – di rimpatriare “vecchi, donne e bambini partiti privi dei
necessari indumenti, [che] si trovano nei campi di concentramento tedeschi da quasi un anno,
fra cui tutto il periodo invernale e si suppone quindi si trovino in pessime condizioni fisiche e
morali” 29. Il 26 settembre 1944 nasce il Comitato ricerche deportati ebrei, del quale diventa
presidente il colonnello Massimo Adolfo Vitale, e che, dopo la liberazione del Nord, incarica
due ex partigiani, il tenente Alberto Toscano e il sottotenente Bruno Fiorentini, di compiere
una missione di ricognizione nei luoghi della deportazione (come Fossoli e Bolzano) e in
quelli del prevedibile ritorno (i punti di passaggio lungo il confine, il centro di raccolta di
Pescantina) in modo da verificare cosa è realmente accaduto, quali esigenze e quali condizioni
accompagnano gli ebrei quando ritornano in Italia. Nella relazione che inviano al Comitato
nell’estate del 1945 il quadro è ben diverso da quello immaginato precedentemente. Parlando
delle tristi condizioni patite dai correligionari nei Lager tedeschi, i due inviati scrivono che è
loro dovere avvisare i componenti del Comitato che purtroppo le atrocità a cui sono stati
sottoposti e le impossibili condizioni di vita nei campi di concentramento hanno causato un
altissimo numero di vittime, così che “la percentuale dei reduci sarà molto bassa e fra questi,
salvo rare eccezioni, si potranno difficilmente trovare vecchi e bambini” 30.
I rientri iniziano nell’agosto del 1945 e terminano nel marzo dell’anno dopo. La
dimensione dello sterminio risulta progressivamente chiara anche nei suoi aspetti quantitativi:
su quasi 7 mila deportati ebrei ne tornano poco più di 800; ad Auschwitz dei 6 mila internati
solo 114 risultano vivi alla liberazione; a Bergen Belsen sono rispettivamente 408 e 85, a
Ravensbrück 99 e 33. La fine della “tregua” – segnata dalla lenta riscoperta della libertà, da
rocamboleschi e spesso drammatici viaggi di ritorno, dalla paura di ciò che si ritroverà nelle
proprie case – inizia a concludersi al confine italiano, quello stesso confine che, mesi o anni
prima, ha significato per i deportati – politici o razziali che fossero – il punto di partenza
verso un ignoto immaginato, anche con tutto il pessimismo possibile, sempre meno tragico di
quanto poi, nella realtà, si è rivelato. Il ritorno è un’ipotesi di libertà, di giustizia, di affetti
rinnovati o da costruire. E’ un’aspirazione collettiva di libertà, conseguenza in un certo senso
necessaria di un diritto sentito come inalienabile, condizione primaria per dare un senso alle
proprie sofferenze. Il mondo all’esterno del campo non può che essere la traduzione concreta
degli ideali o delle tensioni morali coltivate o, più semplicemente, conservate con fatica. Ma,
scrive Primo Levi, se

alla liberazione del Lager, qualcuno ci avesse predetto che il mondo libero, da cui stavamo per
essere riassorbiti, sarebbe stato meno che perfetto, non gli avremmo creduto. Ci sarebbe
sembrata un’assurdità, un’ipotesi talmente sciocca da non poter essere presa in
considerazione. Era un sogno ingenuo, ma tutti lo abbiamo fatto 31.

Con questo “sogno ingenuo”, la maggior parte degli ex deportati attraversa l’Italia e si
scontra con le prime avvisaglie di ciò che significa essere dei sopravvissuti ai Lager nazisti.
E’ una condizione di liminarità, di sospensione tra un mondo che li ha cambiati radicalmente
e uno che non li riconosce e nel quale non si riconoscono. In questa “terra di nessuno”, in una

29
L. Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli ebrei italiani dispersi,
in Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli
ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, Giuntina, Firenze, 1998, p. 19.
30
Ivi, p. 24.
31
P. Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più, in “Corriere della Sera”, 8 maggio 1974.

14
continua sospensione che segna un “rito di passaggio” interrotto, il paese che ritrovano gioca
un ruolo fondamentale. L’Italia del dopoguerra vuole eroi e certezze, non certo dubbi, uomini
e donne che lottano per sopravvivere. Essere rinchiusi – l’hanno sempre insegnato – è segno e
simbolo di una colpa. Alla contrapposizione tra vittima e carnefice è più facile e meno
doloroso opporre quella tra reo e carnefice. Chi racconta, al di fuori della famiglia, spesso non
viene creduto. In un certo senso, non deve essere creduto perché una società in profonda crisi
di identità si aggrappa gelosamente ai concetti che conosce, alle sicurezze materiali e
psicologiche che le rimangono. Ecco, dunque: la guerra è crudele ma la si conosce. La guerra,
forse, è considerata uno spietato ma necessario rito di passaggio. Però, il primo incontro –
dunque emotivo – con la realtà concentrazionaria significa l’assunzione di una visione che
ammette una controsocietà, una convivenza da Levitano. La lezione del Lager necessita di
sedimentazione ma, quando ciò avviene, la collettività è già pronta a dimenticare, ha
sviluppato anticorpi.
La curiosità delle persone si scontra con una realtà che le trova impreparate. Queste
“figure spettrali come i numeri negativi”, queste “figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite
nere” 32 , spingono alla solidarietà materiale ma la partecipazione immediata, commossa, al
loro dramma non è fenomeno collettivo. Quando l’internato militare Gennaro – il protagonista
di Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo – torna a casa e prova disperatamente e
vanamente a raccontare la propria esperienza, il figlio ad un tratto gli dice: “Papà, ccà oramai
stammo cuiete”33. Non si tratta di semplice disinteresse: accanto ad un bisogno di pace si
colloca il doppio registro della mancanza di informazioni e del ricordo ancora vivo della
“propria guerra” che costituisce a sua volta un elemento essenziale per comprendere il
processo di separazione tra la memoria individuale e la memoria collettiva. L’iperbole
narrativa di De Filippo testimonia dell’impossibilità non di parlare ma di comunicare. Se
tuttavia nel commediografo napoletano tutto si ricompone in una visione del mondo
complessivamente positiva – dove il superamento delle esperienze e delle colpe individuali
rappresenta il presupposto, per quanto doloroso, di una ricostruzione comune – nondimeno
tali comportamenti si presentano nel dopoguerra in ampi strati della popolazione italiana,
spesso dettati da opportunismo o dalla volontà di nascondere un passato non del tutto limpido.
Sul versante opposto si può così collocare Geo Josz, il protagonista del racconto Una lapide
in via Mazzini di Giorgio Bassani. Tornato a Ferrara da un campo di sterminio, la sua
presenza suscita subito malessere, poi via via un senso di fastidio, attraverso una lenta ma
sensibile trasformazione che accompagna le persone e la città negli anni dal 1946 al 1948. La
crescente irritazione che provano gli ascoltatori dei suoi racconti ha un andamento
direttamente proporzionale rispetto alla cancellazione fisica e memoriale dei segni del passato
fascista e delle proprie responsabilità: mentre sono riempiti i buchi prodotti nel muro del
castello dalle pallottole della fucilazione del 15 dicembre 1943 e viene costruito un dancing
ad un centinaio di metri da dove nel 1944 sono stati fucilati i cinque componenti del Cln,
tornano a mostrarsi i fascisti di ieri e soprattutto il conte Lionello Scocca, informatore
stipendiato dell’Ovra. I due schiaffi che Josz gli stampa sul volto, dopo una breve
conversazione, diventano in questo modo un enigma, l’inizio della sua esclusione (Geo
sparisce dopo le elezioni del 18 aprile 1948, forse suicida, forse diretto in Palestina o in
America) ma anche la chiave di lettura della realtà negata:

Erano stati due schiaffi – si conclude il racconto – che dopo qualche momento di muto
stupore avevano risposto fulminei alle domande insistenti se pure cortesi di Lionello Scocca.
Ma a quelle domande avrebbe potuto anche rispondere un urlo furibondo, disumano: così alto

32
E. Morante, La storia, Einaudi, Torino, 1974, pp. 376-377.
33
Einaudi, Torino, 19793, p. 71.

15
che tutta la città, per quanta ancora se ne accoglieva oltre l’intatto, ingannevole scenario di via
Mazzini fino alle lontane mure sbrecciate, l’avrebbe udito con orrore34.

Ma vi è di più. L’apparente indifferenza non è tuttavia insensibilità. Anzi, proprio


l’eccessiva sensibilità determina un processo di rifiuto dell’esperienza della morte. L’Italia del
dopoguerra, come d’altra parte tutti i paesi belligeranti, è oppressa dal senso della morte. I
volti, le parole, gli edifici non rinviano certo ai campi di sterminio ma ad una propria
esperienza di morte – che ha colpito perlopiù il nucleo familiare – mentre l’ex deportato si
configura come realtà che supera il piano soggettivo e che diventa inspiegabile in quanto
partecipa di un universo che è “altro” rispetto alla società nella quale è tornato. Così, ogni
pezzo di questo ritorno – dall’incontro con i parenti (se ve ne sono) al reinserimento nella
comunità, dalla costruzione degli affetti alla ricerca del lavoro – si configura come il
drammatico tentativo di riconnettere il prima al dopo, attraverso un’esperienza che ha
modificato categorie e classificazioni, i rapporti con la società e con gli individui, ma che
soprattutto è per certi versi impossibile da comunicare e da comprendere. Insomma, un nucleo
esistenziale che è tutto ma che al di fuori di sé è niente. Natalia Tedeschi ha ventitré anni
quando torna dalla deportazione: Auschwitz, Bergen Belsen, Dessau – un sottocampo di
Buchenwald –, infine Terezin dove è una dei ventiquattro italiani liberati:

Ho dovuto mettermi a lavorare – io a sedici anni ero stata buttata fuori dalle scuole per le
leggi razziali, non ho potuto continuare gli studi – e quando siamo tornati, naturalmente ci
avevano portato via tutto, non potevo permettermi di stare a casa a farmi mantenere dai miei
fratelli. Neanche l’avrei voluto. E questo mi ha aiutata molto anche a reinserirmi.
Ma io avevo un gran disprezzo per tutta l’umanità quando sono tornata, proprio… Non
riuscivo più a capirli, perché gli altri non riuscivano a capire me. Io arrivavo da un altro
mondo: per me, questi diciassette mesi, erano passati di colpo vent’anni 35.

Difficoltà materiali e psicologiche si accompagnano, dunque, attraversate da un breve


ma intenso “sogno ingenuo” che accomuna – su livelli diversi ma profondamente correlati –
gli ex deportati a tutti gli ebrei che hanno dovuto subire la persecuzione attraverso
l’espulsione da ogni attività, l’allontanamento dalle proprie case e dai propri affetti, il
sequestro o il saccheggio dei propri beni, la fuga per conservare le proprie vite. La
reintegrazione nei propri diritti si scontra fin da subito con le lentezze amministrative, le
cautele legislative, con le resistenze corporative e burocratiche spesso a carattere razzistico,
con un attaccamento ipocrita alle questioni formali, con una sostanziale incomprensione dei
bisogni degli individui, con un’idea della continuità dello stato che rifiuta l’esperienza della
Repubblica sociale come facente parte delle responsabilità degli italiani, siano stati o meno
classe dirigente.
Dopo il colpevole disinteresse dei 45 giorni, solo a partire dal 22 settembre 1943
Badoglio annuncia ai prefetti del Sud la prossima abrogazione delle leggi razziali a cui il
governo è esplicitamente impegnato dall’art. 31 dell’armistizio lungo e che realizza con i
decreti del 20 gennaio 1944. Si tratta, in realtà, solo del primo passo di un’ampia produzione
legislativa che impegnerà fino al 1947 i governi di coalizione antifascista guidati da Bonomi,
Parri e De Gasperi all’interno di un processo tutt’altro che lineare che si scontra con resistenze
e interessi consolidati. Basti pensare che mentre il primo decreto entra in vigore da febbraio, il

34
Opere, a cura di R. Cotroneo, Mondadori, Milano, 1998, p. 122.
35
A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento
sopravvissuti, Angeli, Milano, 19966, p. 354.

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secondo – riguardante la reintegrazione dei diritti patrimoniali – conosce un lungo iter e
diventa operante solo con la fine delle ostilità con la Germania e in virtù del decreto
legislativo luogotenenziale del 5 ottobre 1944. Peraltro un’indubbia accelerazione vi è dopo la
liberazione di Roma, la formazione del governo Bonomi e la ripresa dell’attività dell’Unione
delle comunità israelitiche. Ed è proprio l’impegno del presidente di quest’ultima, Raffaele
Cantoni, a rappresentare una spinta decisiva nell’approvazione del decreto dell’11 maggio
1947 sulla Successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l’8
settembre senza lasciare eredi suscettibili che, da un lato costituisce la fine di una lunga
stagione della politica di reintegrazione, dall’altro rappresenta “una significativa
manifestazione di disponibilità e di comprensione della tragedia della deportazione ebraica da
parte delle autorità politiche” 36 . D’altra parte, anche a guardare la successiva produzione
normativa – e in particolare la legge del 10 marzo 1955 sulle Provvidenze a favore dei
perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti – essa si dimostra
imponente e attraversata, specie negli anni che si avvicinano a noi, da una nuova sensibilità
ma, allo stesso tempo, rivolgendo l’attenzione alla giurisprudenza e ai comportamenti concreti
dell’amministrazione ci si rende conto che il quadro è assai meno lineare. Si pensi solo al fatto
che la Corte di cassazione si pronuncia “costantemente nel senso di escludere o di limitare le
ipotesi di annullamento di alienazioni di beni fatte da cittadini colpiti da leggi razziali” 37 ;
oppure alla richiesta del ministero del Tesoro al Consolato generale d’Italia a Berlino della
“documentazione sanitaria relativa ai ricoveri subiti dall’interessato durante il soggiorno nel
campo di Auschwitz”38.
Questi esempi consentono di avvicinarsi maggiormente alle dimensioni economiche,
sociali e culturali che accompagnano il “ritorno alla vita”. Molti ebrei, a partire da quelli
romani, trovano le proprie case occupate dagli sfollati o da approfittatori di vario genere. I
commissariati di Pubblica sicurezza interpellati non sanno come comportarsi, passano spesso
diversi mesi prima che i legittimi proprietari possano ritornare nell’alloggio. Ma dalla casa
sono stati trafugati oggetti, arredi, strumenti musicali, biblioteche, ricordi più o meno preziosi
la cui sparizione – di fatto definitiva – costituisce una rescissione ulteriore con il passato,
un’altra ferita nella tradizione e nella memoria individuale e collettiva. Non meno difficile
risulta, per molti industriali o commercianti, ritornare in possesso degli stabilimenti o dei
negozi. A volte l’ottusità burocratica assume caratteri grotteschi, come nel caso di molti
commercianti ebrei bolognesi ai quali viene richiesto, su base induttiva, il pagamento delle
tasse per il periodo 1943-45 e in alcuni casi “si videro chiedere addirittura la multa per quanto
non avevano versato durante la latitanza” 39.
Nel complesso, si può ragionevolmente sostenere – malgrado le ricerche in tal senso
debbano ancora in gran parte essere svolte – che gli ebrei solo in pochi casi riescono a
ritornare in possesso dei beni espropriatigli tra il 1938 e il 1945. Sull’onda delle leggi
persecutorie, i più hanno affidato le proprietà a persone di fiducia o a parenti, firmando
procure o atti privati che implicavano la buona fede dell’altro, nella speranza cioè che dopo la
guerra e finite le persecuzioni i beni sarebbero stati restituiti al legittimo proprietario. Gli
ebrei espropriati si trovano così in una condizione paradossale. Per un verso, laddove si è
trattata di una “donazione” in forma non rigorosamente ufficiale vengono a mancare gli
elementi per rivolgersi alla magistratura; per l’altro, quando la transazione è avvenuta con i
crismi della formalità risulta più difficile dimostrarne la non validità e il suo doveroso
annullamento. O meglio: ciò sarebbe possibile se gli organi giudicanti e gli enti di gestione
36
M. Toscano, Dall’“antirisorgimento” al postfascismo, cit., p. 59.
37
G. Fubini, La condizioni giuridica dell’ebraismo italiano. Dal periodo napoleonico alla Repubblica, La
Nuova Italia, Firenze, 1974, pp. 80-81.
38
Ivi, p. 84.
39
S. Caviglia, La speranza tradita: i primi due anni di attività dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane,
in Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla vita, cit., p. 197.

17
dei beni ebraici ragionassero – superando retaggi razzisti e ottusità burocratica e legalistica –
con senso di profondità storica e di responsabilità per il ruolo giocato, più o meno
consapevolmente, nella persecuzione. La realtà è diversa. Le resistenze della magistratura che
– salvo rari casi – rifiuta di ascrivere allo Stato italiano le responsabilità della normativa e
degli atti prodotti dalla Repubblica sociale, e che cerca di non ledere gli interessi degli
eventuali compratori dei beni ebraici, frappone ostacoli di varia natura che si traducono
spesso (in persone provate da lunghi anni di lotte per la sopravvivenza) in un atteggiamento
arrendevole, come nel caso del gruppo di ebrei fiorentini che nella causa contro il Credito
Italiano per reimpossessarsi dei conti correnti sequestrati dai tedeschi, ottengono un giudizio a
loro favore ma decidono di accettare una transazione con l’istituto bancario per il timore di
perdere in appello. Chi ha la forza e le risorse per intentare un processo non ha, nei casi che si
conoscono, maggiore fortuna. Federico Jarach, già presidente della Confindustria alla metà
degli anni Venti e portavoce dell’Unione delle comunità israelitiche dal 1937 al 1939, è
costretto, con l’emanazione delle leggi razziali, a cedere la sua azienda, le “Robinetterie
Riunite”. Le sue ampie conoscenze nel mondo fascista e industriale gli consentono una
vendita di prestigio, ma soprattutto con la presunta garanzia della sua retrocessione. Ad
acquistare è infatti la Edison, il cui presidente, Motta, è amico di Jarach. Questi non può che
fidarsi della sua parola e non può che accettare un prezzo di vendita sicuramente più basso del
valore dell’azienda. Siamo nel febbraio 1939 e la data è importante poiché paradossalmente è
proprio il fatto di aver venduto l’azienda dopo l’emanazione delle leggi razziali costituisce nel
processo intentato da Jarach nel dopoguerra – e che durerà, con esito negativo, fino al 1957,
sebbene l’industriale milanese non sopravviverà alla sentenza definitiva – la ragione
principale (se non altro da un punto di vista dell’interpretazione generale) della sconfitta
legale. Secondo i magistrati, infatti, l’annuncio il 6 ottobre 1938 da parte del regime fascista
di voler intervenire ulteriormente in materia razziale ha fatto sorgere timori nel mondo ebraico
e “poiché tutto era in quei giorni, appunto, generico e vago, nulla consentiva si potessero fare
piani e previsioni concrete, tutti gli ebrei, chi più chi meno, si diedero a stipulare contratti”.
Tuttavia, proseguono i giudici, si tratta di uno stato di incertezza durato fino al 17 novembre e
all’emanazione del decreto sui provvedimenti in materia di razza: “Questo decreto, che ha
precisato i limiti entro cui gli ebrei potevano essere colpiti, ha fugato molti timori”. In questa
prospettiva, è possibile – quanto vergognosa – la conclusione, ossia che l’alienazione delle
Robinetterie Riunite è avvenuta in “condizioni volitive normali” 40. Il comportamento degli
enti di gestione – che costituisce, all’interno del suo ruolo di iniquità, un elemento tuttavia di
conservazione dei beni ebraici, colpiti da un’enorme quantità di razzie da parte dei privati e
dei rappresentanti dei pubblici poteri – non è meno formalistico e insensibile. E’ sufficiente
fare riferimento alle richieste, avanzate nei confronti dei perseguitati, per le spese di gestione
che nel caso di Verona giungono all’assurdo di pretendere una quota per il mantenimento del
locale campo di concentramento.
Il reinserimento nell’ambito lavorativo è in parte connesso, quindi, alla restituzione dei
beni espropriati. Perlopiù esso è funzione della reintegrazione nel proprio posto di lavoro dal
quale nel 1938 gli ebrei sono stati espulsi. Malgrado manchino dati precisi, gli elementi che si
conoscono vanno in una direzione di scarsa attenzione da parte dello Stato quanto dei soggetti
privati. Va ricordata, innanzitutto, la decisione del governo in relazione alla riassunzione dei
dipendenti – espulsi per motivi razziali – nella pubblica amministrazione con decorrenza a
partire dal 1° gennaio 1944 per la retribuzione e tenendo presente il periodo precedente solo
per quanto riguarda la carriera e la liquidazione, insomma senza alcun compenso per ciò che
gli è stato negato o impedito. Un episodio noto è quello registrato dal verbale della seduta del
Consiglio dei ministri del 4 aprile 1945 durante la quale si discute dell’applicazione di uno dei

40
I. Pavan, I beni industriali ebraici dalle leggi razziali ai processi di reintegrazione del dopoguerra: il caso di
Federico Jarach, in “Mezzosecolo”, n. 12, annali 1997-1998, p. 371. Il corsivo è mio.

18
già ricordati decreti del 20 gennaio 1944, riguardante la reintegrazione dei diritti patrimoniali.
Bonomi sottopone al consiglio la richiesta dei 200 dipendenti di un’azienda tessile che nel
1938 l’hanno rilevata dal proprietario ebreo, costretto a venderla, e che ora ne ha
provvisoriamente ottenuto la gestione sociale in attesa di riacquisirne la completa proprietà.
Se secondo le maestranze, costituitesi in società anonima, sarebbe “impensabile che per la
migliore tutela di interessi privati, sia pure di un cittadino ebreo, l’azienda nella sua struttura
sociale, venga restituita ad una gestione prettamente capitalistica”, secondo il ministro delle
Finanze Antonio Pesenti “ormai si sta esagerando con le previdenze a favore degli ebrei” 41.
Omissioni e pregiudizi radicati si sommano, tuttavia, ad una continuità dello Stato che è ben
esemplificata dalla vicenda della reintegrazione dei docenti espulsi dalle università. Se il
decreto leggi del 19 ottobre 1944 ordina il loro reintegro nelle cattedre originarie, il il
successivo decreto del 27 maggio 1946 stabilisce che coloro che sono stati allontanati per
ragioni politiche o razziali e che vengono riammessi in servizio siano assegnati a posti di
ruolo istituiti transitoriamente, soppressi nel momento in cui venga trasferiti in altra sede colui
che è stato reintegrato in servizio:

Del resto, a me sembra abbia un senso più ampio e generale della sola vicenda che stiamo
seguendo il fatto che, sotto la rubrica “continuità dello Stato” venga posta e inglobata anche la
legislazione antiebraica formalmente abrogata, ma i cui effetti – almeno in alcuni settori, e in
particolare in quello del quale ci stiamo occupando – non venivano in concreto sanati.
Semmai –a ben vedere – i provvedimenti antiebraici del 1938 rappresentavano una rottura di
quella continuità, sia rispetto allo Stato prefascista sia rispetto a quello fascista. Dunque –
anche in una prospettiva di continuità dello Stato – ai perseguitati in base alle “leggi razziali”
si sarebbe dovuta riservare una reintegrazione piena, essendo stati i loro successori sulle
cattedre messe a disposizione dai provvedimenti del 1938 a fruire di opportunità derivanti da
una rottura della legalità42.

Queste cattedre create per professori universitari ordinari reintegrati fanno sì che la loro
caratteristica sia di essere docenti in soprannumero, come se fossero loro i reali “usurpatori”,
in quanto per coloro che lo sono stati realmente (con un maggiore o minore grado di
complicità) non viene meno il ruolo.
Proprio il caso di due professori universitari consente di introdurre due questioni. La
prima si collega al nome di Tullio Terni, anatomo a Padova e cacciato dall’università nel
1938, che alla data simbolica del 26 aprile 1946 si uccide dopo aver saputo di essere stato
espulso dall’Accademia dei Lincei. Con lui hanno subito lo stesso provvedimento altri
trentanove membri del prestigioso istituto, non meno simpatizzanti per il regime. La
depressione che lo coglie lo conduce ad un gesto che – al di là delle ragioni morali che lo
possono aver alimentato – non è probabilmente isolato tra gli ebrei (e in generale tra i
deportati) nell’immediato dopoguerra, sebbene ricerche in tal senso debbano essere ancora
condotte. La seconda si riferisce al caso di Giorgio Del Vecchio, filosofo del diritto ed ex
rettore dell’università di Roma, pubblico sostenitore del fascismo, prima sospeso poi
collocato a riposo nel marzo 1945. Se il ministro Vincenzo Arangio Ruiz, scrivendo al
professore epurato, dichiara che “scelta la via della defascistizzazione, non si poteva punire la
piccola apologia e mantenere in ufficio chi aveva raggiunto o sfiorato la pratica

41
Verbali del Consiglio dei ministri. Luglio 1943-Maggio 1948, vol. IV, Governo Bonomi, 12 dicembre 1944-21
giugno 1945, a cura di A. G. Ricci, Archivio centrale dello Stato-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma,
1995, pp. 530 e 538.
42
R. Finzi, Da perseguitati a “usurpatori”: per una storia della reintegrazione dei docenti nelle università
italiane, in Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla vita, cit., pp. 96-97.

19
dell’apoteosi”, Del Vecchio può rispondere di aver cessato di essere iscritto al fascismo nel
1938, di aver dovuto subire “un ingiusto allontanamento dall’università durato sei anni per
effetto delle leggi razziali” e che dunque quella inflittagli è una “nuova persecuzione contro
un perseguitato”43. Problema rilevante che, da un lato, indica – come nel caso di Terni – come
nel dopoguerra “prevalga su ogni altra considerazione il sentimento antifascista, anche in chi
è di origine ebraica”44, dall’altra costringe a riflettere sia sull’andamento rapsodico e spesso
ingiusto dell’epurazione sia sulla cultura che sottostà ai quei processi. Anche nel caso
dell’epurazione degli ebrei, comunque, le ricerche sono ancora da svolgere. Si può ancora
ricordare il caso di Edoardo Polacco, fino al 1938 capo servizio della Confederazione
generale lavoratori dell’agricoltura, rifugiatosi a Catanzaro e dopo l’arrivo degli alleati
direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro; infine epurato, poiché – secondo la prefettura di
Catanzaro – con la tessera fascista fin dal 1919.
In ogni caso, la cultura antifascista di matrice liberale quanto quella di matrice socialista
non mostrano sensibili differenze nei confronti della “questione ebraica” nel dopoguerra,
entrambe appiattite su una nozione di “nazionalizzazione parallela” che ha come esclusivo
riferimenti la progressiva e uniforme integrazione nello Stato nel corso delle vicende unitarie.
Non si tratta di indifferenza – quella normalmente ricavata dal rifiuto einaudiano di Se questo
è un uomo – ma al contrario dell’impossibilità di ricollocare la storia degli ebrei nella storia
d’Italia senza fare i conti con la persecuzione e lo sterminio. E’ una contraddizione che si fa
palese nella lettera che Croce invia a Cesare Merzagora il 23 settembre 1946 in risposta
all’articolo Un problema attuale, apparso su “La libertà” il 19 dicembre 1945 a firma del
futuro presidente del Senato. Il filosofo napoletano sottolinea il significato delle leggi razziali
come “piena rivelazione della sostanziale delinquenza che era nel fascismo” ed elogia la
generosità e la solidarietà degli italiani, ma aggiunge anche che ora gli ebrei “non vorranno
chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre
meglio con gli altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale
hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle
persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire” 45 . Sarebbe un errore vedere
nell’argomentazione crociana insensibilità e sarebbe assurdo scorgervi tracce di antisemitismo
– malgrado un certo fastidio che la crudezza delle sue parole possono suscitare – bensì
bisogna collocarle nel solco di una coerente visione liberale del mondo per la quale la libertà,
e non l’uguaglianza, costituisce il fondamento dello Stato, per il quale la tolleranza di
distinzioni e separazioni rappresenterebbe un tradimento di se stessa. Ma se non può essere
contestato al mondo liberale ottocentesco di essere ciò che era – pena il rischio di operare una
proiezione dell’oggi su ieri – nondimeno deve essere riconosciuta l’“inattualità” della tesi
crociana il cui limite sta “nell’inadeguatezza ai tempi, nel suo appartenere a un’epoca e ad
un’illusione perdute”46, segno dell’incapacità di comprendere fino in fondo la profondità della
frattura determinata dallo sterminio. Ma la strabica risposta polemica di Dante Lattes – che
accusa il filosofo di chiedere agli ebrei un’assimilazione completa che viceversa non
pretenderebbe da altri gruppi religiosi, nazionali o politici – non sono non coglie nel senso,
poiché confonde elementi completamente diversi ma evita un problema in effetti essenziale –
sebbene posto in modo insufficiente, ma esplicito, da Croce – ossia i caratteri e i limiti dei
processi di integrazione e di assimilazione degli ebrei italiani nella storia unitaria, processi
tutt’altro che scontati e che implicano la riflessione sui rapporti con il nazionalismo, con il
fascismo, con il regime.

43
R. Finzi, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Editori Riuniti, Roma, 1997, pp. 92-93.
44
R. Finzi, Da perseguitati a “usurpatori”, cit., p. 103.
45
B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. II, Bari, Laterza, 1962, p. 325.
46
G. Sasso, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, 1989, pp. 187-188.

20
Ma cogliere la frattura con il passato – fascista e prefascista – significa altresì prendere
coscienza che non si tratta più di garantire agli ebrei la libertà di essere uguali agli altri, bensì
la libertà di essere se stessi. Il 1948 è quindi, almeno da un punto di vista simbolico, un
doppio passaggio poiché segna l’introduzione della Costituzione ma anche la nascita dello
Stato d’Israele. La “legge del ritorno” – che consente ad ogni ebreo di acquisire la
cittadinanza israeliana – sembra configurarsi come una radicale affermazione del diritto ad
essere se stessi, proprio perché passa attraverso il problema della “doppia nazionalità” intorno
a cui molto antisemitismo mascherato aveva fondato polemiche ed attacchi contro gli ebrei.
Ciò non significa naturalmente che tra gli ebrei italiani vi sia diffusa consapevolezza del
significato della nascita del nuovo stato. Tuttavia, questa doppia cittadinanza, sì potenziale ma
fondante comunque uno status giuridico, diventa parte essenziale della attualità ebraica
insieme alla questione della libertà religiosa affermata dalla Costituzione in quanto
individuale e collettiva, non più eccezione tipica dei culti ammessi bensì regola: insomma “la
libertà religiosa come condizione di eguaglianza in luogo della libertà religiosa come
privilegio”47.

47
G. Fubini, La condizioni giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 92.

21

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