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Il De pictura di Leon Battista Alberti

Datato 1436, è la più antica espressione teorica del Quattrocento, anteriore anche al Ghiberti. Reca all'inizio
una dedica al Brunelleschi che esprime chiaramente lo scopo che l'Alberti persegue nel suo scritto: dare ai
contemporanei ciò di cui più sentono la mancanza in confronto agli antichi, vale a dire la regola e il sistema
delle arti figurative. Alberti, però, vuole parlare al popolo come pittore e non come matematico, anche se
tratta degli immutabili fondamenti teoretici dell'arte. Notevole è la sua confessione, nel II libro, di dedicarsi
alla pittura solo nelle ore di ozio, solo come dilettante (e Vasari dà un giudizio piuttosto negativo sull'abilità
pittorica dell'Alberti). La sua è una trattazione basata principalmente su Euclide, ma non mancano
caratteristiche di indipendenza ed originalità.
In una introduzione notevole, Alberti fa una distinzione oggettiva tra la forma presente e la forma
apparente, che va interpretata alla luce della moderna psicologia del sentimento. La prima è palpabile,
stereometrica; la seconda ottica. La forma apparente ha proprietà mutabili, subordinate alla variazione di
luogo e di luce e si riconnette alla teoria dei raggi visivi, trattata nella maniera usuale perchè non era ancora
intervenuto Benedetto Castelli, che nel 1600 la porrà su basi scientificamente moderne.
Segue un breve paragrafo sui colori che contiene qualche osservazione sottile, ad esempio quella sui riflessi
su un prato verde. Alberti distingue quattro colori principali: rosso, azzurro, verde e giallo, che vengono
posti in corrispondenza dei quattro elementi, alla maniera medievale. Contrariamente alla dottrina
aristotelica, il bianco ed il nero non sono considerati colori ma modificazioni della luce. Segue la moderna
definizione naturalistica della rappresentazione pittorica come di una sezione trasversale ottenuta
mediante la piramide visiva, che dimostra come l'Alberti sia completamente nel suo tempo e nel suo
ambiente fiorentino. È una dimostrazione condotta matematicamente con grande ampiezza, e
l'applicazione all'arte figurativa è nuova, non riconnettibile all'antichità. Kern ha provato come il Trecento
italiano, specie quello senese, aveva compiuto già dei passi in tal senso.
Alberti è ancora imperfetto nel suo metodo della costruzione prospettica e della determinazione del punto
di vista, ma il suo scritto darà principio a quella serie infinita di scritti sulla prospettiva artistica che si
protrarrano fino al Settecento. Nel II libro segue la sistematica della pittura. Anche qui Alberti è capostipite
dei numerosi sistemi della teoria dell'arte che sboccheranno nell'estetica classicistica dei secoli XVIII e XIX.
Alberti divide la pittura in tre parti: contorno lineare (circonscriptione), composizione dei piani
(compositione) e modellatura dei corpi nella luce colorata (receptione dei lumi).
Nella prima parte parla del velo, cioè dell'espediente di cui egli si vanta espressamente come autore, anche
se sappiamo che era conosciuto anche dal Ghiberti. Nella seconda parte parla della teoria della
proporzione, che trova nell'anatomia un fondamento solido e nuovo. Alberti insegna il procedimento, già in
uso nella Rinascenza (VIII – X secolo) di tracciare prima le figure nude, cominciando con una conoscenza
sicura della posizione delle ossa, dei tendini e dei muscoli, e solo dopo di rivestirle.
La terza parte parla del colorito e ha anch'essa caratteri schiettamente fiorentini. Si accentua soprattutto la
rigorosa modellatura plastica, il rilievo, per amore del quale si raccomanda la massima parsimonia nell'uso
della luce e delle ombre più intense. Anche l'armonia dei colori è tipicamente fiorentina, con un accordo di
rosa, verde e celeste. Controcorrente si rivela nel suo mettere in guardia contro le eccessive dorature pure,
che tollera solo in ornamenti e parti architettoniche di secondo ordine, a differenze dell'epoca sua, che
dell'oro puro faceva largo uso.

Poliziano – Dalle stanze

1. Adesso, Erato bella, canta un po' insieme a me del dolce regno [di Venere], tu che hai il nome di Amore; tu sola,
anche se sei pura, puoi entrare sicura nel regno di Venere e Amore; tu sei la sola ad avere il dominio dei versi
amorosi e spesso Amore viene a cantare con te, e poi, deposta la faretra dalle spalle, suona sulle corde della tua
bella cetra.
2. Cipro è abbellita da un gradevole monte, da cui si vedono i sette rami della foce del Nilo e il primo rosseggiare
dell'alba all'orizzonte, dove agli uomini non è lecito porre il piede. Sulla cima si protende un verde colle, sotto il quale
c'è un lieto praticello soleggiato, dove lascivi venticelli scherzando fanno dolcemente tremare l'erbetta.
3. Le sponde estreme [del monte] sono circondate da un muro dorato, dove soavi uccellini cantano le loro melodie
amorose sui rami, tra foglie novelle. Si sente un gradevole mormorio di onde, prodotto da due freschi e limpidi
ruscelli che versano acque dolci e amare, dove Cupido arma l'oro delle sue frecce.
4. Né la tenera brina né la neve fresca imbianca mai la cima di questo eterno giardino; qui il gelido inverno non osa
penetrare, il vento non affatica mai le erbe o i ramoscelli; qui gli anni non scorrono normalmente, mentre c'è sempre
la lieta Primavera, che dispiega all'aria i suoi capelli biondi e ricci e compone una ghirlandetta con mille fiori.
5. La bella Venere, madre degli Amori, accompagna i suoi figli con un simile esercito. Il vento Zefiro bagna di rugiada il
prato, spargendolo di mille piacevoli profumi: ovunque vola, riveste la campagna di rose, gigli, violette e altri fiori;
l'erba mostra le meraviglie della sua bellezza: bianca, azzurra, pallida e rossa.
6. La giovane verginella trema e abbassa gli occhi, timida e vergognosa; invece la rosa, assai più lieta, più piacevole e
bella, ha il coraggio di aprire i suoi petali al sole: alcune rose si coprono il capo con una verde gemma, altre si
mostrano vezzose alla finestra, altre ancora, che poco prima erano rosseggianti, adesso cadono appassite e colorano
il bel praticello.
7. L'alba nutre con una nube amorosa viole gialle, rosse e bianche; Giacinto ha il suo dolore descritto nel proprio
grembo [nel colore dei petali], Narciso si specchia nel fiume come è solito fare; Clizia [il girasole] ruota pallida verso
il sole, in una veste bianca con lembo di porpora; Adone [l'anemone] rinnova in Venere il dolore della sua morte,
Croco [lo zafferano] mostra tre linee rosse e Acanto ride.
8. La nuova stagione [la primavera] che ravviva il mondo non rivestì mai l'erba di tanti fiori. Il verde colle alza superba
la sua chioma ombrosa, fin dove il sole non può arrivare; e sotto un velo di fitti rami mantiene fresca e gelida una
vivace fontana, con una vena così pura, tranquilla e limpida che consente agli occhi di vederne facilmente il fondo.
9. L'acqua zampilla da una viva roccia, che inarcandosi sembra sorreggere il bel monte; e di qui scende tranquilla al
ruscello, colorando [di fiori] ogni suo passo lungo un solco fiorito: dalle sue labbra stilla un gradevole umore, che
ricambia agli alberi per il dono della loro ombra; ciascuno di loro [gli alberi] si nutre ad una tavola non povera e
sembra che facciano a gara a chi cresce di più.
10. L'abete cresce dritto e privo di nodi, così da poter ricavare da esso il legno delle navi che aprono le ali al vento Borea
in mezzo al mare; [cresce] il leccio, che sembra traboccare di miele, e il lauro che induce tanto a desiderare le sue
foglie; il cipresso piange ancora per aver ucciso un cervo, con foglie che ora sono ispide e furono un tempo ampie e
bionde; ma l'albero che piacque tanto ad Ercole [il pioppo] si trastulla intorno alle acque col platano.
11. Il cerro si innalza robusto e il faggio è alto; il corniolo è nodoso e il salice umido e flessibile; l'olmo è ricco di fronde e
il frassino è selvaggio; il pino alletta il vento con i suoi fischi. L'ornello intreccia a maggio delle ghirlande, ma l'acero
non si accontenta di un solo colore; la palma flessuosa concede pregio ai gloriosi, l'edera va carponi con i rami storti.
12. Le vite novelle si mostrano rivestite di abiti vari e con volto diverso: alcune, rigonfie, fanno screpolare la pelle, altre
riacquistano già i rami potati; altre, intrecciando belli e gradevoli pergolati, scacciano il dio Apollo [il sole] solo con
fronde di pampini; altre, ancora prive di rami, piangono a capo chino, facendo stillare acqua che si tramuterà poi in
vino.
13. I tori mugghianti ai piedi del colle fanno una guerra ancor più cruda e spietata, col collo e il petto molli di sangue,
spargendo con le zampe al cielo la terra erbosa. Il cinghiale ribolle pieno di schiuma sanguinolenta, arrota le ampie
zanne e serra il muso, e ruggisce e raspa, mentre per accrescere le sue forze sfrega la pelle callosa contro dure
cortecce.
14. E pesci muti nuotano a frotte nell'acqua vivace e limpida del ruscello, e spesso ruotando intorno alla fonte guidano
una felice e piacevole danza: talvolta escono fuori dall'acqua, guizzando un poco mentre si inseguono a vicenda: ogni
loro gesto sembra una festa e un gioco, né le fredde acque spengono il dolce fuoco [della passione].
15. Gli uccellini variopinti tra le foglie addolciscono l'aria con i loro canti, e fra tante voci si crea un'armonia di note così
beate e sublimi che una mente prigioniera di un corpo mortale non potrebbe giungere a una tale altezza; e quando
Cupido li scorge nel boschetto, saltano da un ramo all'altro a loro piacere.
16. Al canto del bosco l'Eco rimbomba, ma sotto l'ombra che è prodotta da ogni ramo il passero gracchia e fa frusciare
alternativamente le ali; il pavone dispiega la sua coda piena di occhi, la colomba tuba con il suo dolce compagno, e i
bianchi cigni fanno risuonare le rive; e il pappagallo stride e parla accanto alla sua bella femmina.

Il brano introduce il lettore al luogo dove regna Venere e in cui si svolgerà il tema encomiastico al
centro dell'opera, dunque vi è un innalzamento della materia letteraria sottolineato anche dal piccolo
proemio che l'autore premette alla descrizione: Poliziano invoca l'assistenza di Erato, musa della
poesia amorosa e divinità collegata a Venere e Amore, nome quest'ultimo che figura ripetuto tre volte
in rima (ott. 69, vv. 2-4-6), inoltre la musa è chiamata "casta" (a intendere che l'amore tra Iulio e
Simonetta sarà puro e libero da implicazioni carnali) e viene accostata alla faretra, che rimanda alla
caccia e all'attività di Cupido, nonché alla cetra che rientra nella simbologia della dea. L'elevazione
dello stile si spiega alla luce di quanto avverrà nel quadro successivo, in cui Cupido parlerà con la
madre Venere e le rivelerà quanto avvenuto a Iulio-Giuliano, iniziando un vero e proprio panegirico
dell'intera famiglia Medici).La descrizione del regno di Venere riprende quella del locus amoenus di
derivazione classica e presenta il luogo come un meraviglioso giardino posto su di un inaccessibile
monte nell'isola di Cipro, lontano dal mondo degli uomini e a questi precluso: gli elementi naturali
rimandano al mito dell'età dell'oro dei poeti antichi e infatti nel giardino vi sono erbe verdi, un lieto
venticello che muove le fronde degli alberi, il canto armonioso degli uccelli, nonché due freschi
ruscelli che scorrono in mezzo ai prati; il luogo è caratterizzato da un'eterna primavera, propizia allo
sbocciare degli amori, e l'intera descrizione riprende molti elementi dell'Eden dantesco, con la
differenza che qui tutto è in funzione dell'amore terreno e il giardino è popolato da Cupido e i suoi
fratelli (► TESTO: L'incontro con Matelda). Poliziano descrive un regno di bellezza artificiale e
separato dalla realtà umana che fornirà il prototipo di tante altre pagine letterarie del Cinquecento,
tra cui merita citare il luogo dove Angelica si rifugia nel Canto I del Furioso (► TESTO: La fuga di
Angelica/2) e il giardino incantato della maga Armida nella Liberata (► TESTO: Il giardino di Armida),
sia pure con intenti diversi dai rispettivi autori (Ariosto si rifà ancora al locus amoenus, mentre Tasso
descrive un paradiso creato dalle arti demoniache che esercita una colpevole attrattiva sui sensi).La
natura lussureggiante del luogo incantato è dominata dal concetto di amore e a ciò rimanda anzitutto
la presenza del vento primaverile dello zefiro, che fa sbocciare ovunque fiori profumati e variopinti
(conformemente al topos classico della primavera come stagione amorosa per eccellenza), mentre il
paragone tra la "mammoletta verginella" e la rosa (ott. 78) riprende il tema umanistico della bellezza
che va colta nel momento propizio, presente anche nella celebre ballata di Poliziano (► TESTO: I' mi
trovai, fanciulle, un bel mattino) e in altri testi del Cinquecento. La parte finale del passo è tutta
dedicata agli amori delle bestie che popolano questo angolo appartato, descrizione in cui il tema
dominante è il prevalere dell'istinto amoroso anche a scapito di quello che spinge i predatori a
cacciare le prede, per cui ad es. il cervo può inseguire la sua compagna al sicuro dal leone di Libia e
anche le lepri fanno lo stesso incuranti dei cani (a indicare che nel regno di Venere è la dea
dell'amore a prevalere su Marte, dio della guerra, tema già presente nella letteratura classica e
variamente ripreso dagli scrittori dell'età rinascimentale).

MACCHIAVELI – CAP XVIII


Il capitolo XVIII del Principe, (intitolato In che modo i Principi debbino osservare la fede), prosegue la
riflessione riguardante le caratteristiche e i comportamenti che il regnante, secondo Machiavelli, deve
adottare per riuscire a conservare il proprio potere e lo Stato stesso. L’autore inizia la trattazione
affermando nuovamente la distanza che vige tra il piano ideale e quello reale, e scrive: Quanto sia laudabile
in un Principe mantenere la fede, e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno
si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto
poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato
quelli che si sono fondati in su la lealtà. Machiavelli spiega come, benché sarebbe meraviglioso essere
governati da Principi che mantengano la propria parola e che vivano secondo i dettami dell’integrità
morale, in realtà i regnanti che hanno ottenuto "cose grandi" sono coloro che hanno agito secondo
l’astuzia. A questo punto Machiavelli distingue tra il modo di combattere proprio degli uomini, fondato
sull’utilizzo delle leggi, e quello degli animali, che si esprime nell’uso della forza. Dato che per regnare e
conservare il potere e lo Stato spesso la prima modalità, quella umana, non risulta sufficiente, bisogna che il
Principe sappia attingere anche dalla seconda via; come dice l'autore: “Pertanto ad un Principe è necessario
saper ben usare la bestia e l’uomo”. Nell’attingere dal comportamento del regno animale, il Principe deve
distinguere tra l’atteggiamento della volpe e quello del leone, ovvero avvalendosi talvolta dell’astuzia e
talvolta della forza. Ritorna qui l’idea di Machiavelli secondo cui la condotta del Principe va valutata di volta
in volta e in base alla situazione concreta che si trova ad affrontare: E però bisogna che egli abbia un animo
disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi,
non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Il Principe non può osservare le
regole e i confini della morale se la condizione in cui versa non lo permette, altrimenti finirà rovinato
dall’astuzia altrui: Non può pertanto un Signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale
osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussero
tutti buoni, questo precetto non saria buono; ma perchè sono tristi, e non l’osserverebbono a te, tu ancora
non l’hai da osservare a loro. Nè mai a un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare
l’inosservanza. Con questa frase Machiavelli afferma che un Principe abbia sempre tutti i mezzi necessari
per giustificare la propria condotta: Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi
saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perchè il vulgo ne va sempre preso con quello che
pare, e con l’evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e gli pochi hanno luogo, quando gli assai
non hanno dove appoggiarsi.
L'autore ci spiega però sottilmente come il fine sia giustificato dai mezzi solo agli occhi del "vulgo", del
popolo incapace di cogliere veramente la realtà delle cose. Il piano della politica e quello della morale
restano divisi tra di loro e mantengono sempre una forte indipendenza, ma nessuno dei due ha la meglio
sull’altro, e la scelta risulta sempre complessa.
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECADE DI TITO LIVIO

Il Proemio ai Discorsi e la lettera dedicatoria del Principe Il Proemio presenta alcune dichiarazioni di
modestia che contrastano in modo netto con le orgogliose affermazioni della lettera dedicatoria che apre Il
Principe (cfr. T2, p. 354), in cui Machiavelli si presenta a Lorenzo de’ Medici provvisto di «una lunga
esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique», mentre qui afferma di avere «poca
esperienza delle cose presenti» e «debole notizia delle antique». Però nel Proemio ai Discorsi tali
dichiarazioni vanno poste in rapporto alla straordinaria novità dell’assunto teorico. D’altra parte esso viene
sviluppato dall’autore con una precisa consapevolezza del suo porsi come fondatore di una nuova teoria
della politica. Quando Machiavelli dichiara di mettersi «per una via [...] non ancora da alcuno trita» (cioè
non percorsa ancora da nessuno), assume con piena coscienza il compito di innovatore e di fondatore della
teoria politica nell’epoca della modernità. Battere tale strada comporta poi un’altra consapevolezza: per
elaborare teorie nuove volte al benessere comune, occorre una totale spregiudicatezza, un’assoluta
rinuncia a ogni tipo di pregiudizio e dunque una buona dose di spirito anticonformistico: occorre cioè
«operare sanza alcun respetto» (senza alcun riguardo per le opinioni più diffuse), cosa che l’autore può fare
essendo stato dotato dalla natura di una propensione a comportarsi appunto in tal modo (Machiavelli parla
di «naturale desiderio che fu sempre in me di operare sanza alcun respetto»). Al di là delle differenze
apparenti si trovano qui, dunque, la stessa alta coscienza del proprio compito e la stessa carica polemica e
demistificatoria che anima le pagine del Principe. Lo stile Il periodo è composto di subordinate
perfettamente scandite poste al suo inizio (per esempio, nel primo capoverso) oppure nella sua seconda
parte, mentre la proposizione principale, posta alla fine (come nel primo capoverso) o all’inizio (come
spesso nel secondo capoverso), assume sempre un netto rilievo. In questa forte scansione dei suoi elementi
interni, spesso suddivisi da un punto e virgola, il periodo di Machiavelli mostra un’articolazione fortemente
razionale e argomentativa, che sottolinea gli snodi del ragionamento, puntando sull’efficacia dimostrativa e
sul conseguente effetto persuasivo. L’ideologia: imitazione e antistoricismo Machiavelli respinge
un’utilizzazione puramente estetica del criterio di imitazione. Esso non deve ispirare solo la letteratura e le
arti, ma anche la politica. Se “l’onore attribuito all’antiquità” resta relegato all’ambito artistico-estetico e
non si estende al dominio della politica, ciò è conseguenza non tanto della «debolezza nella quale la
presente religione ha condotto el mondo», o dell’«ambizioso ozio» che inquina città e principati proprio a
causa di quella religione (elementi a cui va comunque attribuita una quota non trascurabile di
responsabilità), ma del fatto che gli uomini non hanno «vera cognizione delle storie», si ostinano a non
capire che al di là del «piacere» che può derivare dal leggerle esse costituiscono un deposito prezioso di
insegnamenti che possono e debbono essere imitati. D’altronde, anche la medicina e il diritto si rifanno agli
insegnamenti dell’antichità: perché ciò non dovrebbe valere pure per l’arte di amministrare gli Stati? Il
progresso delle varie discipline dipende dunque dallo studio del passato e dall’assunzione del metodo della
imitazione. A sua volta, poi, l’applicabilità del criterio dell’imitazione dipende dal fatto che «il cielo, il sole, li
elementi, li uomini» sono rimasti sostanzialmente gli stessi. Quindi non c’è alcuna differenza fra scienze
della natura e scienze dell’uomo, fra i metodi delle scienze fisiche, astronomiche o mediche e quelli delle
arti e del vivere civile (diritto, politica). Troviamo qui i fondamenti dell’ideologia naturalistica e antistoricista
del pensiero machiavelliano: la storia del passato rivela la condizione eterna dell’uomo, la presenza di
invarianti nel suo comportamento che possono consentire la fondazione di una teoria scientifica in campo
politico.

APPARIZIONE DI ANGELICA – BOIARDO

Mentre costoro [i paladini cristiani e mori] stanno parlando in questo modo, gli strumenti
suonarono da ogni parte; ed ecco entrare enormi piatti d'oro, contenenti vivande raffinate;
l'imperatore manda ad ogni barone coppe di smalto, finemente lavorate. Carlo onorava tutti in
vario modo, mostrando di ricordarsi di loro.

Qui si stava in allegria, parlando a bassa voce di argomenti piacevoli: re Carlo, che si vide così
onorato e circondato da tanti re, comandanti e cavalieri valorosi, disprezza tutti i pagani come
se fossero arena marina di fronte ai venti; ma una nuova apparizione fece sbalordire lui e gli
altri.

Infatti al fondo della bella sala entrarono quattro giganti enormi e feroci, e in mezzo a loro
stava una fanciulla, seguita da un solo cavaliere. Sembrava la stella del mattino [Venere] e un
giglio d'orto, una rosa del giardino: insomma, per dire la verità non si vide mai una tale
bellezza.

Qui nella sala c'era Galerana [la moglie di Carlo Magno], c'era Alda, la moglie di Orlando,
Clarice [sposa di Ranaldo] ed Ermelina [sposa di Uggeri il Danese] tanto cortese, e molte altre
che non sto a dire, ciascuna bella e piena di virtù. Dico che ognuna di loro sembrava bella,
quando non era ancora entrato in sala quel fiore, che tolse alle altre l'onore della bellezza.

Ogni barone e principe cristiano ha rivolto lo sguardo verso quella parte, né alcun pagano è
rimasto inerte; ma ognuno di essi, pieno di stupore, si avvicinò alla fanciulla; la quale, con
aspetto allegro e con un sorriso tale da fare innamorare un sasso, cominciò a parlare così, a
bassa voce:

- O signore magnanimo, le tue virtù e le prodezze dei tuoi paladini, che sono conosciute in
tutto il mondo fino agli estremi confini del mare, mi danno speranza che non siano state vane
le fatiche di due viaggiatori che sono venuti dall'altro capo del mondo a onorare il tuo prospero
regno.

E al fine di spiegarti in poche parole la ragione che ci ha condotti qui alla tua festa regale, ti
dico che questi è Uberto dal Leone [in realtà Argalìa], nato da una nobile stirpe e che ha
compiuto grandi gesta, cacciato senza ragione dal suo regno: io, che fui cacciata insieme a lui,
sono sua sorella e mi chiamo Angelica.

Oltre al Tanai [il fiume Don] per duecento giornate di cammino, dove c'è il nostro regno,
giunsero a noi le notizie del torneo e della grande riunione di queste nobili genti qui raccolte; e
[apprendemmo] che il premio al valore non sono città, gemme o un tesoro, bensì al vincitore si
dona una corona di rose.

Perciò mio fratello ha deciso di sfidare a duello ogni barone, il cui fiore è radunato qui, per
dimostrare il suo valore: che sia pagano o battezzato, lo venga a incontrare fuori dalla città,
nel verde prato alla Fonte del Pino, dove si dice che ci sia il Pietrone [la tomba] di Merlino.
Ma ciò avvenga a questo patto (ascolti bene chi si vuole cimentare): chiunque sia disarcionato
non potrà in nessun modo combattere ancora, ma sarà fatto prigioniero senza resistenza: chi
invece riuscirà ad abbattere Uberto, otterrà me in sposa: lui se ne andrà via coi suoi giganti. -
Alla fine del suo discorso, Angelica aspettava la risposta inginocchiata di fronte a Carlo. Ogni
uomo l'ha ammirata con meraviglia, ma soprattutto Orlando le si avvicina col cuore tremante e
stravolto in viso, anche se teneva nascosti i suoi sentimenti; e talvolta abbassava gli occhi a
terra, vergognandosi assai di se stesso.

"Ah, Orlando pazzo!" diceva tra sé, "come ti lasci trasportare dal desiderio! Non vedi l'errore
che ti coglie e ti induce a peccare contro Dio? Dove mi conduce il mio destino? Vedo che sono
catturato e non posso liberarmi; io, che ritenevo di nessun valore tutto il mondo, sono vinto
senz'armi da una fanciulla.

Io non posso allontanare dal mio cuore la dolce vista e il suo volto sereno, perché senza di lei
mi sento morire e il mio spirito vien meno poco alla volta. Ora contro la forza d'Amore, che già
mi ha imbrigliato, non mi serve né la forza né il coraggio; e non mi serve la mia saggezza né il
consiglio altrui, poiché io vedo cosa sarebbe meglio fare e continuo a desiderare il peggio."

FUGA DI ANGELICA

33
Fugge tra spaventosi ed oscuri boschi,
per luoghi inabitati, selvaggi e solitari.
Il rumore provocato dal movimento dei rami e dalla vegetazione
di querce, olmi e faggi, che Angelica sentiva,
causa le improvvise paure, le avevano
fatto intraprendere insoliti sentieri da ogni parte;
perché ogni ombra che vedeva sui monti o nelle valli,
le facevano temere di avere ancora alle spalle Rinaldo.

34
Come un cucciolo di daino o capriolo,
che tra i rami del boschetto nel quale è nato
abbia visto la gola della madre dal morso
del leopardo stretta, o che le squarcia il petto od il fianco,
scappa dall’animale crudele di bosco in bosco
e trema per la paura e per il sospetto della sua presenza:
per ogni cespuglio che tocca al proprio passaggio
crede di essere già già in bocca alla belva crudele.

35
Quel giorno, la stessa notte e per metà del giorno seguente
vagò senza sapere dove stesse andando.
Venne a trovarsi infine in un boschetto leggiadro,
mosso delicatamente da un vento fresco.
Due ruscelli trasparenti, riempiendo l’aria del loro gorgoglio,
consentono la presenza sempre dell’erba e la sua crescita;
e rendevano piacevole da ascoltare il concerto,
interrotto solo tra piccoli sassi, del loro scorrere lento.

36
Qui, credendo di essere al sicuro
e lontana mille miglia da Rinaldo,
per lo stancante tragitto ed il caldo estivo
decide di riposare per un po’ tempo:
scende da cavallo tra i fiori e lascia andare a nutrirsi,
senza briglia, libero, il proprio destriero;
l’animale vaga quindi nei dintorni dei ruscelli,
che avevano piene le rive di fresca erba.

37
Non lontano da sé Angelica scorge un bel cespuglio,
fiorito di susine e di rose rosse,
che si specchia nelle onde limpide dei ruscelli
ed è riparato dal sole dalle alte querce ombrose;
vuoto nel mezzo, così da concedere
fresco giaciglio tra le ombre più nascoste:
le sue foglie ed i suoi rami sono talmente intrecciati che non
passa il sole, e nemmeno la vista dell’uomo, meno penetrante.

38
L’erbetta morbida crea un letto all’interno del cespuglio,
invitando a stendersi sopra chi vi giunge.
La bella donna si mette in mezzo al cespuglio,
lì si corica e quindi si addormenta.
Ma non rimane lì addormentata molto tempo,
che le sembra di sentire avvicinarsi un rumore di calpestio:
si solleva piano piano e presso la riva di un ruscello
vede essere giunto un cavaliere armato.

39
Angelica non riesce a capire se gli è amico o nemico:
il timore e la speranza le scuotono il suo cuore dubbioso;
attende che quella avventura giunga ad un termine
senza emettere neanche un solo sospiro.
Il cavaliere si siede in riva al ruscello
reggendosi la testa con un braccio;
e viene tanto rapito dai propri pensieri, al punto che,
immobile, sembra essersi mutato in insensibile pietra.

40
Assorto dai propri pensieri, con il capo basso, per più di un’ora
stette, cardinale Ippolito, il cavaliere abbattuto;
dopo di ché cominciò con un lamento afflitto e dolente
a lamentarsi in modo tanto struggente,
che avrebbe infranto un sasso per pietà,
una crudele tigre fatta misericordiosa.
Piangeva tra i sospiri, tanto che un ruscello
sembrava scorrergli sulle guance ed il petto un vulcano infuocato.

41
Diceva: “Pensiero che mi ghiaccia ed arde il cuore,
e causa il dolore che sempre lo consuma,
che ci posso fare se sono giunto tardi
ed altri, arrivati prima, avevano già colto il frutto (Angelica)?
Ho ricevuto a stento suoi sguardi e parole,
altri hanno invece ricevuto tutto il ricco bottino.
Se a me non spettano né il frutto né il fiore,
perché per lei voglio ancora tormentare il mio cuore?

42
La vergine è simile ad una rosa,
che in un bel giardino, sul rovo che l’ha generata,
si riposa finché è sola ed al sicuro,
e né gregge né pastore le si avvicinano;
la brezza delicata e la rugiada del mattino,
l’acqua e la terra si inchinano davanti al suo fascino:
giovani amanti e donne innamorate
amano ornarsi il collo e la testa lei, la rosa.

43
Ma non appena dallo stelo materno
e dal ceppo verde del cespuglio viene staccata,
quanto aveva per gli uomini e per il cielo
fascino, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che il proprio fiore, del quale deve avere cura più
che dei propri begli occhi e della propria vita,
lascia cogliere ad altra persona, perde l’ammirazione che poco
prima aveva nel cuore di tutti i propri amanti.

44
Diviene di scarso valore agli occhi degli altri, ed amata solo
da colui al quale fece così grande dono di sé.
Ah, fortuna crudele, fortuna ingiusta!
Gli altri godono mentre io muoio di stenti.
Non potrebbe allora essermi lei meno cara?
Non potrei forse abbandonare la mia propria vita?
Ah, che io muoia oggi stesso piuttosto
che vivere più a lungo, se non dovessi amare lei!”

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