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LA LIRICA VOLGARE

La lirica volgare del 1200 è giunta sino a noi grazie ai CANZONIERI. Solo 3 di
questi risalgono al ‘200, e sono tutti di area toscana: il VATICANO LATINO 3793,
il PALATINO e il LAURENZIANO REDIANO 9.

Il CANZONIERE è una forma metrica di origine provenzale, avente una struttura


libera, poiché non ha un numero fisso di strofe e versi, che vanno dai 12 in su.
Possono essere tutti endecasillabi oppure endecasillabi alternati a settenari.

Generalmente la forma più utilizzata è quella del SONETTO, una forma metrica
di carattere lirico, costituito da 14 versi in 2 quartine e 2 terzine endecasillabi,
con rime disposte secondo schemi ben precisi.

Tutti i testi sono stati sottoposti ad una TOSCANIZZAZIONE, poiché è evidente


che non siano in Siciliano.

La letteratura italiana si è sviluppata con un leggero ritardo rispetto alle


letterature romanze, come quella francese e provenzale, e quella spagnola.

o Il d’OIL era la lingua francese, utilizzata nel Nord della Francia per una
letteratura romanzesca che narrava fatti ed avventure cavalleresche.
I cicli più importanti erano:
1. Quello carolingio, che raccontava le avventure dei paladini di Carlo
Magno, che combattevano per difendere i valori di fede e patria.
Il più conosciuto di loro era Orlando.

2. Quello bretone, che narra le avventure dei cavalieri della corte di re


Artù e della Tavola Rotonda. Erano cavalieri che giravano il mondo
per spirito d’avventura e per amore, diversi da quelli del ciclo
carolingio. Il più conosciuto era Lancillotto, che si era innamorato ed
era ricambiato dalla regina Ginevra, moglie del re Artù.
o Il d’OC era la lingua provenzale, utilizzata nel Sud della Francia, utilizzata
soprattutto per la poesia d’amore, che viene definito cortese. Questo si
sviluppa all’interno della corte stessa, in cui vigevano regole
comportamentali ed etichette, a cui dovevano sottostare anche gli
innamorati. I poeti e gli uomini di cultura del tempo venivano ospitati dai
signori nelle proprie corti, e diventavano oggetto di prestigio e nobiltà.
La loro produzione era di tipo lirico, accompagnati da musica e trovatori.
I trovatori non erano dei giullari, poiché questi ultimi si adunavano oltre
che nelle corti anche nelle piazze, e cantavano liriche non prodotte da loro,
che diventavano oggetto del loro lavoro e guadagno.
LA SCUOLA SICILIANA

La prima forma significativa in cui si è espressa la letteratura italiana è la


SCUOLA SICILIANA di Federico II di Svevia. Nella sua corte trovavano ospitalità
gli uomini di cultura del tempo e generalmente incaricati al governo dal re
stesso, ministri. La poesia diventa fonte di svago, qualcosa di slegato dalla
politica del tempo, e che ha come tema centrale l’amore cortese.

La lingua utilizzata è il SICILIANO ILLUSTRE, non il provenzale. Aveva un


registro espressivo più alto di quello utilizzato al di fuori dal palazzo. Nella
poesia siciliana troviamo anche parole derivate dal latino, francese e provenzale.

Prima di tutto ciò in Italia si era affermata la letteratura latina, di genere


prestigioso. L’Italia come nazione ancora non esisteva. Roma era
importantissima, capitale dell’ex impero romano. Roma insediava nelle città dei
centri di controllo che permettessero un migliore governo del così vasto impero,
inviava legati e governatori nei territori conquistati per questioni politiche o
amministrative. Roma esportava la lingua e la cultura latina in modo da avere
una migliore e più efficiente comunicazione.

Con la dissoluzione dell’impero, i territori riacquistarono autonomia, ma erano


ormai stati influenzati dalla precedente cultura latina.

Si vennero a creare diverse culture e diverse lingue, che avevano tutte una rigida
impostazione derivata dal latino stesso: erano le lingue romanze.

La lingua che noi ora parliamo è frutto di una lunghissima evoluzione, derivata
dal latino parlato, diverso dal latino scritto.

I testi della scuola poetica siciliana furono poi toscanizzati dopo la morte di
Federico II, con cui ebbe fine la scuola siciliana stessa. La Toscana ed in
particolare Firenze divennero il nuovo fulcro della vita culturale del tempo.

I testi si procuravano nelle biblioteche, in cui vi erano gli SCRITTOI, in cui i


monaci riproducevano i libri (chi copiava e chi faceva miniature).

Si affermarono anche scrittoi laici.


Il problema era che né il committente, né il copista conoscevano il SICILIANO
ILLUSTRE, per cui occorreva una lingua comune e che trasmettesse con
immediatezza il significato delle opere. Per questo si utilizzò il toscano.

1. GIACOMO DA LENTINI

È il primo grande esponente della Scuola Siciliana.

Fu un sottile sperimentatore, dotato di acuta sapienza metrica e retorica. Fu


probabilmente l’inventore della nuova forma del sonetto. Si esprimeva con
misurata eleganza, sia in gioia che in turbamento d’amore, concentrandosi sulla
funzione che il sentimento svolge attraverso l’immagine.

AMOR E’ UN DESIO CHE VEN DA CORE

AMORE E’ UN DESIO CHE VEN DA CORE

PER ABONDANZA DI GRAN PIACIMENTO;

E LI OCCHI IN PRIMA GENERAN L’AMORE

E LO CORE LI DA’ NUTRICAMENTO.

BEN E’ ALCUNA FIATA OM AMATORE

SENA VEDERE SO ‘NAMORAMENTO,

MA A QUELL’AMOR CHE STRINGE CON FURORE

DA LA VISTA DE LI OCCHI A’ NASCIMENTO.

CHE LI OCCHI RAPRESENTAN A LO CORE

D’ONNI COSA CHE VEDEN BONO E RIO,


COM’E’ FORMATA NATURALEMENTE;

E LO COR, CHE DI ZO E’ CONCEPITORE,

IMAGINA, E PIACE QUEL DESIO:

E QUESTO AMORE REGNA FRA LA GENTE.

L’amore è un desiderio che viene dal cuore, per una sovrabbondanza di piacere,
e gli occhi prima generavano l’amore e il cuore gli dà nutrimento.

È vero che c’è qualche volta qualche innamorato che non ha visto l’oggetto del
suo amore, ma quell’amore che stringe con furore, nasce dalla visione della
donna amata. Gli occhi dimostrano al cuore le qualità buone e cattive di ogni
cosa che vedono, così com’è in natura.

E il cuore che accoglie ciò, immagina e gli piace il desiderio che ne scaturisce.

È questo l’amore che regna tra gli uomini.

Per il poeta l’amore ha origine dagli occhi, e l’amore diventa sintesi di


immaginazione e desiderio.

Gli uomini che ricevono tale “dono” sono dotati di un animo buono e gentile, la
cui nobiltà non è legata ad una questione di sangue, ma si parla di nobiltà
d’animo, un concetto comune durante questo periodo.

Tra i numerosi poeti siciliani vanno ricordati: il dictator Pier delle Vigne, Stefano
Pronotaro e Rinaldo d’Aquino.

PIR MEU CORI ALLIGRARI (Stefano Pronotaro)


PIR MEU CORI ALLIGRARI,

CHIU MULTU LONGIAMENTI

SENZA ALLIGRANZA E JOI D’AMURI E’ STATU,

MI RITORNU IN CANTARI,

CA FORSI LEVIMENTI

DA DIMURANZA TURNIRIA IN USATU

DI LU TROPPU TACIRI;

E QUANDO L’OMU A’ RASUNI DI DIRI,

BEN DI’ CANTARI E MUSTRARI ALLIGRANZA,

CA SENZA DIMUSTRANZA

JOI SIRIA SEMPRI DI POCU VALURI;

DUCA BEN DI’ CANTARI ONNI AMADURI.

Per rallegrare il mio cuore, che per molto tempo è stato senza allegria e senza
gioia d’amore, io torno a cantare, perché forse facilmente potrei trasformare in
abitudine la lunga sospensione del canto, ma quando esiste materia per fare
poesia, ben si deve cantare e manifestare allegria, perché, se non la si
manifestasse, la gioia d’amore avrebbe senz’altro poco valore; dunque a giusta
ragione deve cantare ogni amante.

2.CIELO D’ALCAMO
Il suo CONTRASTO, databile tra gli anni 30 o 40, era molto noto a Dante. Si tratta
di un dialogo tra un giullare ed una fanciulla, che prima reagisce duramente al
corteggiamento dell’uomo, ma poi cede alle sue insistenze. Il fondo linguistico è
siciliano, con derivazioni campane. Probabilmente il testo era destinato a
recitazione cantata. Non sappiamo se egli fosse un giullare o un poeta di corte
che vuol fare un uso comico del suo linguaggio.

Vi sono asimmetrie nella disputa, e tutta una mimica equivoca ed allusiva, che
creano una parodia dell’amor cortese e del suo linguaggio.

Spiccano il desiderio sessuale, la menzogna, l’inganno, l’aggressività.

Chi ascolta è chiamato ad una complicità con il dialogo, tutto men che nobile.

ROSA FRESCA AULENTISSIMA

“ROSA FRESCA AULENTIS[S]IMA CH’APARI INVER’ LA STATE,

LE DONNE TI DISIANO, PULZELL’E MARITATE:

TRÀGEMI D’ESTE FOCORA, SE T’ESTE A BOLONTATE;

PER TE NON AJO ABENTO NOTTE E DIA,

PENZANDO PUR DI VOI, MADONNA MIA.”

Rosa fresca profumatissima che appari verso estate, le donne ti desiderano,


giovani e maritate: traimi da questi fuochi, se è tua volontà. Per te non ho pace
notte e giorno, pensando sempre a voi, mia Signora.
2.“SE DI MEVE TRABÀGLITI, FOLLIA LO TI FA FARE.

LO MAR POTRESTI AROMPERE, A VENTI ASEMENARE,

L’ABERE D’ESTO SECOLO TUT[T]O QUANTO ASEMBRARE:

AVERE ME NON PÒTERI A ESTO MONNO;

AVANTI LI CAVELLI M’ARITONNO.”

Se ti tormenti per me, la follia te lo fa fare. Potresti rompere con l’aratro il mare,
e seminarvi, potresti riunire tutte le ricchezze del secolo [del mondo]: non mi
potresti avere però in questo modo. Piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio
monaca].

3. “SE LI CAVELLI ARTÓN[N]ITI , AVANTI FOSS’IO MORTO,

CA ’N IS[S]I [SÌ] MI PÈRDERA LO SOLACC[I]O E ’L DIPORTO.

QUANDO CI PASSO E VÉJOTI, ROSA FRESCA DE L’ORTO,

BONO CONFORTO DÓNIMI TUT[T]ORE:

PONIAMO CHE S’AJUNGA IL NOSTRO AMORE.”

Se ti tagli i capelli, prima io vorrei esser morto, perché con essi io perderei la mia
consolazione e il mio diletto. Quando passo da casa tua e ti vedo, rosa fresca
dell’orto, ogni volta mi dai un buon conforto: facciamo sÍ che il nostro amore si
congiunga.

4. “KE ’L NOSTRO AMORE AJÙNGASI, NON BOGLIO M’ATALENTI:

SE TI CI TROVA PÀREMO COGLI ALTRI MIEI PARENTI,

GUARDA NON T’AR[I]GOLGANO QUESTI FORTI COR[R]ENTI.

COMO TI SEPPE BONA LA VENUTA,

CONSIGLIO CHE TI GUARDI A LA PARTUTA.”


Che questo nostro amore si congiunga si unisca non voglio che mi piaccia. Se qui
ti trova mio padre con gli altri miei parenti, guarda che non ti colgano questi
buoni corridori [perché t’inseguiranno]. Come ti fu facile venire qui, ti consiglio
di stare attento alla partenza.

5. “SE I TUOI PARENTI TROVA[N]MI, E CHE MI POZZON FARE?

UNA DIFENSA MÈT[T]OCI DI DUMILI’ AGOSTARI:

NON MI TOC[C]ARA PÀDRETO PER QUANTO AVERE HA ’N BARI.

VIVA LO ‘MPERADORE, GRAZ[I’] A DEO!

INTENDI, BELLA, QUEL CHE TI DICO EO?”

Se mi trovano i tuoi parenti, che mi posson fare? Ci metto una difesa di duemila
augustali. Non mi toccherà tuo padre per quanta ricchezza c’è in Bari. Viva
l’Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che dico?

6. “TU ME NO LASCI VIVERE NÉ SERA NÉ MAITINO.

DONNA MI SO’ DI PÈRPERI, D’AURO MASSAMOTINO.

SE TANTO AVER DONÀSSEMI QUANTO HA LO SALADINO,

E PER AJUNTA QUANT’HA LO SOLDANO,

TOC[C]ARE ME NON PÒTERI A LA MANO.”

Tu non mi lasci vivere né di sera né di mattina. Sono donna di grande ricchezza


[di bisanti d’oro bizantini e di monete arabe]. Se pur tu mi donassi tutto quanto
ha il Saladino, e per aggiunta quanto ha il Soldano, tu non mi potresti toccare
neppure con la mano.

7. “MOLTE SONO LE FEMINE C’HANNO DURA LA TESTA,


E L’OMO CON PARABOLE L’ADIMINA E AMONESTA:

TANTO INTORNO PROCÀZZALA FIN CHE·LL’HA IN SUA PODESTA.

FEMINA D’OMO NON SI PUÒ TENERE:

GUÀRDATI, BELLA, PUR DE RIPENTERE.”

Ci sono molte femmine che hanno la testa dura, e l’uomo con le parole le domina
e le persuade; tanto intorno le dà la caccia finché non l’ha in suo potere. La
femmina non si può difendere in alcun modo dall’uomo: guardati, bella, dal
dovertene pentire.

8. “K’EO NE [PUR RI]PENTÉSSEME? DAVANTI FOSS’IO AUCISA

CA NULLA BONA FEMINA PER ME FOSSE RIPRESA!

[A]ERSERA PASSÀSTICI, COR[R]ENNO A LA DISTESA.

AQUÌSTATI RIPOSA, CANZONERI:

LE TUE PAROLE A ME NON PIAC[C]ION GUERI.”

Dovermene io pentire? Possa io morire, prima che qualche donna onesta possa
essere rimproverata a causa mia! Ieri sera sei passato correndo a cavallo. Perciò
riposati adesso, canterino; le tue parole non mi piacciono affatto.

9. “QUANTE SONO LE SCHIANTORA CHE M’HA’ MISE A LO CORE,

E SOLO PURPENZÀNNOME LA DIA QUANNO VO FORE!

FEMINA D’ESTO SECOLO TANTO NON AMAI ANCORE

QUANT’AMO TEVE, ROSA INVIDÏATA:

BEN CREDO CHE MI FOSTI DISTINATA.”


Quanti sono gli schianti che m’hai messo nel cuore, e solo pensandoti, il giorno
quando vado fuori! Nessuna femmina di questo mondo ho ancora mai amato
quanto te, rosa invidiata; son certo che mi sei destinata dal cielo.

10. “SE DISTINATA FÓSSETI, CADERIA DE L’ALTEZZE,

CHÉ MALE MESSE FÒRANO IN TEVE MIE BELLEZZE.

SE TUT[T]O ADIVENÌSSEMI, TAGLIÀRAMI LE TREZZE,

E CONSORE M’ARENNO A UNA MAGIONE,

AVANTI CHE M’ARTOC[C]HI ’N LA PERSONE.”

Se fossi destinata a te scenderei troppo dalla mia altezza, perché le mie bellezza
sarebbero sprecate se date a te. Se mi dovesse avvenire una tal disgrazia, mi
taglierò le trecce, e mi farò suora in un monastero, prima ancora che tu mi tocchi
nella persona.

11. “SE TU CONSORE ARÈNNETI, DONNA COL VISO CLERI,

A LO MOSTERO VÈNOCI E RÈNNOMI CONFLERI:

PER TANTA PROVA VENCERTI FÀRALO VOLONTERI.

CONTECO STAO LA SERA E LO MAITINO:

BESOGN’È CH’IO TI TENGA AL MEO DIMINO.”

Se ti fai suora, donna dal viso chiaro, verrò al monastero e mi farò frate: per
piacerti in questa prova lo farò volentieri. Starò con te la sera e il mattino: a tutti
i costi dovrò farti mia.
12. “BOIMÈ TAPINA MISERA, COM’AO REO DISTINATO!

GESÒ CRISTO L’ALTISSIMO DEL TUT[T]O M’È AIRATO:

CONCEPÌSTIMI A ABÀTTARE IN OMO BLESTEMIATO.

CERCA LA TERRA CH’ESTE GRAN[N]E ASSAI,

CHIÚ BELLA DONNA DI ME TROVERAI.”

Ohimè, misera tapina, com’è triste il mio destino! GesÚ Cristo, l’Altissimo, del
tutto è adirato con me; mi hai fatto nascere per darmi in mano a un tal
bestemmiatore! Cerca nel mondo, che è assai grande; [certo] troverai una donna
piÚ bella di me.

13. “CERCAT’AJO CALABR[Ï]A, TOSCANA E LOMBARDIA,

PUGLIA, COSTANTINOPOLI, GENOA, PISA E SORIA,

LAMAGNA E BABILONÏA [E] TUT[T]A BARBERIA:

DONNA NON [CI] TROVAI TANTO CORTESE,

PER CHE SOVRANA DI MEVE TE PRESE.”

Ho già cercato in Calabria, Toscana e Lombardia, in Puglia, Costantinopoli,


Genova, Pisa e in Siria, in Germania, a Babilonia e in Africa del nord; mai ho
trovato una donna tanto cortese: e per questo ti ho scelta come mia sovrana.

14. “POI TANTO TRABAGLIÀSTI[TI], FAC[C]IOTI MEO PREGHERI

CHE TU VADI ADOMÀN[N]IMI A MIA MARE E A MON PERI.

SE DARE MI TI DEGNANO, MENAMI A LO MOSTERI,

E SPOSAMI DAVANTI DA LA JENTE;


E POI FARÒ LE TUE COMANNAMENTE.”

Poiché ti sei tanto affaticato [in questa ricerca] ti faccio una preghiera: che tu
vada a domandarmi a mia madre e a mio padre. Se acconsentono a darmiti in
sposa, portami al monastero, e sposami davanti alla gente, e poi farò ciò che
vuoi.

15. “DI CIÒ CHE DICI, VÌTAMA, NEIENTE NON TI BALE,

CA DE LE TUO PARABOLE FATTO N’HO PONTI E SCALE.

PENNE PENZASTI MET[T]ERE, SONTI CADUTE L’ALE;

E DATO T’AJO LA BOLTA SOT[T]ANA.

DUNQUE, SE PO[T]I, TÈNITI VILLANA.”

Di ciò che dici, vita mia, niente ti vale, poiché delle tue storie non ne parlo
nemmeno più. Pensasti di mettere le penne, ma ti son cadute le ali; e ti ho dato il
colpo di grazia. Dunque, se puoi, continua a essere villana.

16. “EN PAURA NON MET[T]ERMI DI NULLO MANGANIELLO:

ISTÒMI ‘N ESTA GRORÏA D’ESTO FORTE CASTIELLO;

PREZZO LE TUE PARABOLE MENO CHE D’UN ZITELLO.

SE TU NO LEVI E VA’TINE DI QUACI,

SE TU CI FOSSE MORTO, BEN MI CHIACI. “

Non mi far paura con i tuoi stratagemmi: me ne sto in gloria in questo forte
castello; considero le tue parole meno di quelle di un fanciullo. Se tu non ti levi e
te ne vai di qua, certo vorrei che fossi morto.
17. “DUNQUE VOR[R]ESTI, VÌTAMA, CA PER TE FOSSE STRUTTO?

SE MORTO ESSERE DÉB[B]OCI OD INTAGLIATO TUT[T]O,

DI QUACI NON MI MÒS[S]ERA SE NON AI’ DE LO FRUTTO

LO QUALE STÄO NE LO TUO JARDINO:

DISÏOLO LA SERA E LO MATINO.”

Dunque tu vorresti, vita mia, che per te io fossi distrutto? Anche se dovessi qui
morire o sfregiato completamente, di qua non mi muoverei se non ho il frutto
che sta nel tuo giardino: lo desidero dalla sera alla mattina.

18. “DI QUEL FRUTTO NON ÀB[B]ERO CONTI NÉ CABALIERI;

MOLTO LO DISÏA[RO]NO MARCHESI E JUSTIZIERI,

AVERE NO’NDE PÒTTERO: GÌRO’NDE MOLTO FERI.

INTENDI BENE CIÒ CHE BOL[IO] DIRE?

MEN’ESTE DI MILL’ONZE LO TUO ABERE.”

Quel frutto non l’hanno avuto né conti né cavalieri; molto l’hanno desiderato
marchesi e giudici regionali, ma non hanno potuto averlo: se ne sono andati
molto adirati. Capisci quello che voglio dire? Ciò che tu hai è meno di mille once.

19. “MOLTI SO’ LI GAROFANI, MA NON CHE SALMA ‘ND’ÀI:

BELLA, NON DISPREGIÀREMI S’AVANTI NON M’ASSAI.

SE VENTO È IN PRODA E GÌRASI E GIUNGETI A LE PRAI,

ARIMEMBRARE T’AO [E]STE PAROLE,

CA DE[N]TR’A ’STA ANIMELLA ASSAI MI DOLE.”


Molti sono i chiodi di garofano, ma non tanti da formare un gran peso: bella, non
mi disprezzare se non provi prima. Se il vento è a prua e gira ti raggiungo sulla
spiaggia, ti ricordo queste parole, poiché dentro queste animelle molto mi duole.

20. “MACARA SE DOLÉS[S]ETI CHE CADESSE ANGOSCIATO:

LA GENTE CI COR[R]ES[S]ORO DA TRAVERSO E DA·LLATO;

TUT[T]’A MEVE DICESSONO: ‘ACOR[R]I ESTO MALNATO’!

NON TI DEGNARA PORGERE LA MANO

PER QUANTO AVERE HA ’L PAPA E LO SOLDANO.”

Almeno [magari] ti dolessi da cadere privo di sensi: la gente correrebbe da tutte


le parti; tutti mi direbbero: “Soccorri questo malnato!”. Non mi degnerei di
porgerti la mano nemmeno per quanto ha il Papa e il Sultano.

21. “DEO LO VOLESSE, VITAMA, TE FOSSE MORTO IN CASA!

L’ARMA N’ANDERIA CÒNSOLA, CA DÍ E NOTTE PANTASA.

LA JENTE TI CHIAMÀRANO: ‘OI PERJURA MALVASA,

C’HA’ MORTO L’OMO IN CÀSATA, TRAÌTA!’

SANZ’ON[N]I COLPO LÈVIMI LA VITA.”

Dio lo volesse, vita mia, che io morissi in casa tua! L’arma ne sarebbe consolata,
poiché delira giorno e notte. La gente ti chiamerebbe: “O malvagia spergiura, ché
hai ucciso l’uomo in casa, traditora!”. Invece mi togli la vita senz’alcun bisogno di
ferita.
22. “SE TU NO LEVI E VA’TINE CO LA MALADIZIONE,

LI FRATI MIEI TI TROVANO DENTRO CHISSA MAGIONE.

[...] BE·LLO MI SOF[F ]ERO PÈRDICI LA PERSONE,

CA MEVE SE’ VENUTO A SORMONARE;

PARENTE NÉD AMICO NON T’HA AITARE.”

Se non ti levi e te ne vai con la maledizione, i miei fratelli ti trovano dentro


questa casa. Ammetto senza obiezione che tu perda la vita; [e] nessun parente o
amico ti può aiutare.

23. “A MEVE NON AÌTANO AMICI NÉ PARENTI:

ISTRANI’ MI SO’, CÀRAMA, ENFRA ESTA BONA JENTE.

OR FA UN ANNO, VÌTAMA, CHE ’NTRATA MI SE’ [’N] MENTE.

DI CANNO TI VISTISTI LO MAIUTO,

BELLA, DA QUELLO JORNO SO’ FERUTO.”

A me non m’aiutano né parenti né amici: io sono forestiero, cara mia, tra questa
buona gente. Or fa un anno, vita mia, che mi sei entrata in mente. Da quando ti
ho vista in maggio, bella, da quel giorno son ferito [innamorato].

24. “DI TANNO ’NAMORÀSTITI, [TU] IUDA LO TRAÌTO,

COMO SE FOSSE PORPORE, ISCARLATO O SCIAMITO?

S’A LE VA[N]GELE JÙRIMI CHE MI SÏ’ A MARITO,

AVERE ME NON PÒTER’A ESTO MONNO:

AVANTI IN MARE [J]ÌT[T]OMI AL PERFONNO.”


CosÍ tanto ti sei innamorato, tu Giuda traditore, come se fossi [io ?] porpora, o
velluto scarlatto? Giurami sul Vangelo che vuoi sposarmi, non mi potrai avere in
questo modo: prima mi getterei nel profondo del mare.

25. “SE TU NEL MARE GÌT[T]ITI, DONNA CORTESE E FINA,

DERETO MI TI MÌSERA PER TUT[T]A LA MARINA,

[E DA] POI C’ANEGÀS[S]ETI, TROBÀRATI A LA RENA

SOLO PER QUESTA COSA ADIMPRETARE:

CONTECO M’AJO A[G]GIUNGERE A PEC[C]ARE.”

Se tu ti getti nel mare, donna cortese e fine, mi getterò dietro a te attraverso


tutto il mare, e dopo che sei annegata, ti troverò sulla spiaggia solo per compiere
questa cosa: con te voglio congiungermi per peccare.

26. “SEGNOMI IN PATRE E ’N FILÏO ED I[N] SANTO MAT[T]EO:

SO CA NON SE’ TU RETICO [O] FIGLIO DI GIUDEO,

E COTALE PARABOLE NON UDI’ DIRE ANCH’EO.

MORTA SI [È] LA FEMINA A LO ’NTUTTO,

PÈRDECI LO SABORO E LO DISDOTTO.”

Mi segno nel nome del Padre del Figlio e in quello di San Matteo: so che non sei
eretico o giudeo, e codeste parole finora non le hai sentite dire. Se la femmina è
morta in tutto e per tutto, ci perdi il sapore e il piacere.

27. “BENE LO SACCIO, CÀRAMA: ALTRO NON POZZO FARE.

SE QUISSO NON ARCÒMPLIMI, LÀSSONE LO CANTARE.

FALLO, MIA DONNA, PLÀZZATI, CHÉ BENE LO PUOI FARE.


ANCORA TU NON M’AMI, MOLTO T’AMO,

SÍ M’AI PRESO COME LO PESCE A L’AMO.”

Questo lo so bene, cara mia: altro non posso fare. Se questo non fai per me,
lasciami cantare. Ti piaccia farlo, mia donna, ché certo lo puoi fare. Ancora tu
non m’ami, e molto io ti amo, m’hai preso all’amo come un pesce.

28. “SAZZO CHE M’AMI, [E] ÀMOTI DI CORE PALADINO.

LÈVATI SUSO E VATENE, TORNACI A LO MATINO.

SE CIÒ CHE DICO FÀCEMI, DI BON COR T’AMO E FINO.

QUISSO T’[AD]IMPROMETTO SANZA FAGLIA:

TE’ LA MIA FEDE CHE M’HAI IN TUA BAGLIA.”

So che m’ami, e io ti amo con cuore nobile. Alzati su e vattene, torna qui al
mattino. Se fai ciò che dico, ti amo con cuore buono e prezioso. Questo ti
prometto senza fallo: hai la mia promessa in tua balia.

29. “PER ZO CHE DICI, CÀRAMA, NEIENTE NON MI MOVO.

INANTI PREN[N]I E SCÀNNAMI: TOLLI ESTO CORTEL NOVO.

ESTO FATTO FAR PÒTESI INANTI SCALFI UN UOVO.

ARCOMPLI MI’ TALENTO, [A]MICA BELLA,

CHÉ L’ARMA CO LO CORE MI SI ’NFELLA.”

Per quello che dici, cara mia, non mi muovo affatto. Prima prendi e scannami:
prendi questo coltello nuovo. Si può far questo prima che si cuocia un uovo.
Esaudisci il mio desiderio, amica bella, perché l’arma mi si rattrista con il cuore.
30. “BEN SAZZO, L’ARMA DÒLETI, COM’OMO CH’AVE ARSURA.

ESTO FATTO NON PÒTESI PER NULL’ALTRA MISURA:

SE NON HA’ LE VANGEL[Ï]E, CHE MO TI DICO ‘JURA’,

AVERE ME NON PUOI IN TUA PODESTA;

INANTI PREN[N]I E TAGLIAMI LA TESTA.”

Questo lo so bene, l’anima ti duole, come l’uomo che arde. Questo non può essere
fatto a nessun’altra condizione se non hai il Vangelo, affinché io ti dica “giura”,
non puoi avermi in tuo potere; prima prendi e tagliami la testa.

31. “LE VANGEL[Ï]E, CÀRAMA? CH’IO LE PORTO IN SENO:

A LO MOSTERO PRÉSILE (NON CI ERA LO PATRINO).

SOVR’ESTO LIBRO JÙROTI MAI NON TI VEGNO MENO.

ARCOMPLI MI’ TALENTO IN CARITATE,

CHÉ L’ARMA ME NE STA IN SUT[T]ILITATE.”

Il Vangelo, cara mia? io lo porto con me: l’ho preso in chiesa (non c’era il prete).
Sopra questo libro giuro di non tradirti mai. Esaudisci il mio desiderio per carità,
ché l’arma me ne se sta in consunzione.

32. “MEO SIRE, POI JURÀSTÍMI, EO TUT[T]A QUANTA INCENNO.

SONO A LA TUA PRESENZ[Ï]A, DA VOI NON MI DIFENNO.

S’EO MINESPRESO ÀJOTI, MERZÉ, A VOI M’ARENNO.

A LO LETTO NE GIMO A LA BON’ORA,

CHÉ CHISSA COSA N’È DATA IN VENTURA.”


Mio signore, poiché hai giurato, io ardo tutta quanta. Sono alla tua presenza, da
voi non mi difendo. Se io ti ho disprezzato, mercé, a voi mi arrendo. Andiamo a
letto alla fine, perché questa cosa ci è per nostra buona sorte.

3.GUITTONE D’AREZZO

Con la morte di Federico II venne meno anche l’ambiente adatto per la poesia
raffinata, assieme alla corte meridionale. Il centro culturale si spostò in Toscana,
in particolare a Firenze, dove vi era il violento scontro tra Guelfi e Ghibellini.

La lirica cortese si adatta ad un pubblico comunale, perlopiù aristocratico.

Ci sono contatti con la poesia provenzale, e si dà spazio a forme dialettali


toscane, oltre che provenzali e latine.

L’esponente più importante è GUITTONE D’AREZZO.

Nella sua vasta produzione si possono distinguere una poesia amorosa e una
poesia civile e morale. Nella poesia d’amore, descrive l’alternarsi di gioia e
dolore, in alcuni testi esalta la donna, come fonte di valori, che infonde nell’uomo
tutte le virtù. Lascia inoltre trasparire una realistica spregiudicatezza.

L’orizzonte municipale è evidente nelle canzoni civili come AHI LASSO, OR E’


STAGION DE DOLER TANTO, un compianto ai fiorentini per la sconfitta di
Montaperti (1260), con un linguaggio solenne e carico di risentimento morale e
civile. È un fervido e disordinato sperimentatore. I principali centri di
produzione di questa lirica furono Lucca, Pisa, Pistoia, Firenze, Siena e Bologna.
4. RUSTICO FILIPPI

L’ambizioso orientamento della cultura fiorentina è rappresentato da


BRUNETTO LATINI, che ha molti legami con rimatori a lui contemporanei.

In questi anni si sviluppa la poesia di RUSTICO FILIPPI, metà in stile serio, metà
in stile comico. Si appropria della lingua fiorentina in tutta la sua raffinatezza e
ricchezza, per graffiare la realtà, con misurata sapienza retorica e vivace gusto
lessicale. Nei sonetti seri, dà voce ai più concreti aspetti del rapporto amoroso.

I sonetti comici inaugurano la tradizione giocosa e burlesca fiorentina, e fissano


figurine umane in movimento, che si legano alla tradizione comica antica,
figurine bizzarre e deformi.

DOVUNQUE VAI CONTECO PORTI IL CESSO,

OI BUGGERESSA VECCHIA PUZZOLENTE,

CHE QUALE UNQUA PERSONA TI STA PRESSO

SI TURA IL NASO E FUGGE IMMANTINENTE.

LI DENT’I LE GENGIE TUE MÉNAR GRESSO,

CHÉ LI TÀSEVA L’ALITO PUTENTE;

LE SELLE PAION LEGNA D’ALCIPRESSO

INVER’ LO TUO FRAGOR, TANR’È REPENTE.

CH’E’ PAR CHE S’APRAN MILLE MONIMENTA

QUAND’APRI IL CEFFO; PERCHÉ NON TI SPOLPE

O TI RINCHIUDE, SÍ CH’OM NON TI SENTA?


PERÒ CHE TUTTO ’L MONDO TI PAVENTA:

IN CORPO CREDO FIGLINTI LE VOLPE

TA’ LEZZO N’ESCE FUOR, SOZZA GIUMENTA.

BUGGERESSA: ZOZZONA.

LI … PUTENTE: I TUOI DENTI NELLE GENGIVE PRODUCONO TANTO TARTARO


E MATERIALE SCHIFOSO, CHE QUASI IN-TASANO IL TUO ALITO PUZZOLENTE.

SELLE: SEGGETTE DEI CESSI.

FRAGOR: PUZZO.

REPENTE: VIOLENTO E INOPPORTUNO.

PAR … CEFFO: SEMBRA CHE ABBIANO SCOPERCHIATO MIL-LE TOMBE,


QUANDO APRI LA BOCCA.

IN … VOLPE: SEI UNA TANA DI VOLPI (LA VOLPE ERA L’ANIMALE SIMBOLO
DELLA SPORCIZIA).
IL DOLCE STIL NOVO

Il DOLCE STIL NOVO è un insieme di esperienze diverse e convergenti, che


mettono capo ad una nuova poesia d’amore, di forte ambizione intellettuale.
GUIDO GUINIZZELLI è il padre di questa nuova poesia, che trova spazio
soprattutto a Firenze negli anni 80, per opera di CAVALCANTI E DANTE.
Fu proprio Dante, nel canto XXIV del PURGATORIO a dare la definizione di
questa corrente, facendo parlare BONAGIUNTA ORBICCIANI.
La parola DOLCE allude alla semplicità e alla soavità, stile è riferito al modo di
scrivere, novo indica il distacco dalla precedente produzione, sia dal punto di
vista del linguaggio che dei temi.
La DONNA viene assimilata ad un angelo, e la sua visione provoca effetti sia
meravigliosi e di stupore, che di devastazione nell’uomo.
La donna è in grado di condurre l’uomo a Dio, liberandolo dal peccato.
L’AMORE diventa perfezionamento dell’animo umano.
La lingua diventa leggera, gentile, chiara ed armoniosa, senza strutture
sintattiche complesse. Gli stilnovisti provengono dalla nuova borghesia urbana,
si considerano una cerchia eletta, per nobiltà d’animo, non di sangue.

1. GUIDO GUINIZZELLI

Nelle sue rime più esemplari sono in primo piano il valore della donna, e lo
stupore per il suo manifestarsi. La sua apparizione scaccia ogni cattivo pensiero,
e la donna è attorniata da chiarità e splendore.
La donna si rivolge al mondo esterno con il suo saluto ed il suo sguardo.
La lode che il poeta le fa è la più elevata dimostrazione di amore.
È forte la sua disposizione filosofica soprattutto nel sonetto AL COR GENTIL
REMPAIRA SEMPRE AMORE, manifesto dell’amore stilnovista.
Amore e gentilezza sono strettamente collegati, due diverse qualità della stessa
sostanza. L’autentico amore è riservato a chi ha un cuore nobile, un cuore
gentile, e la nobiltà d’animo non è strettamente connessa alla nobiltà di sangue.
AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE

AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE


COME L’AUSELLO IN SELVA A LA VERDURA;
NÉ FE’ AMOR ANTI CHE GENTIL CORE,
NÉ GENTIL CORE ANTI CH’AMOR, NATURA:
CH’ADESSO CON’ FU ’L SOLE,
SÍ TOSTO LO SPLENDORE FU LUCENTE,
NÉ FU DAVANTI ’L SOLE;
E PRENDE AMORE IN GENTILEZZA LOCO
COSÍ PROPÏAMENTE
COME CALORE IN CLARITÀ DI FOCO.

FOCO D’AMORE IN GENTIL COR S’APRENDE


COME VERTUTE IN PETRA PREZIOSA,
CHE DA LA STELLA VALOR NO I DISCENDE
ANTI CHE ’L SOL LA FACCIA GENTIL COSA;
POI CHE N’HA TRATTO FÒRE
PER SUA FORZA LO SOL CIÒ CHE LI È VILE,
STELLA LI DÀ VALORE:
COSÍ LO COR CH’È FATTO DA NATURA
ASLETTO, PUR, GENTILE,
DONNA A GUISA DI STELLA LO ‘NNAMORA.

AMOR PER TAL RAGION STA ‘N COR GENTILE


PER QUAL LO FOCO IN CIMA DEL DOPLERO:
SPLENDELI AL SU’ DILETTO, CLAR, SOTTILE;
NO LI STARI’ ALTRA GUISA, TANT’È FERO.
COSÍ PRAVA NATURA
RECONTRA AMOR COME FA L’AIGUA IL FOCO
CALDO, PER LA FREDDURA.
AMORE IN GENTIL COR PRENDE RIVERA
PER SUO CONSIMEL LOCO
COM’ADAMÀS DEL FERRO IN LA MINERA.

FERE LO SOL LO FANGO TUTTO ’L GIORNO:


VILE REMAN, NE ’L SOL PERDE CALORE;
IS’OMO ALTER: “GENTIL PER SCLATTA TOR-NO”;
LUI SEMBLO AL FANGO, AL SOL GENTIL VALO-RE:
CHÉ NON DÉ DAR OM FÉ
CHE GENTILEZZA SIA FÒR DI CORAGGIO
IN DEGNITÀ D’ERE’
SED A VERTUTE NON HA GENTIL CORE,
COM’AIGUA PORTA RAGGIO
E ’L CIEL RITEN LE STELLE E LO SPLENDORE.

SPLENDE ‘N LA ‘NTELLIGENZIA DEL CIELO


DEO CRIATOR PIÚ CHE [‘N] NOSTR’OCCHI ’L SOLE:
ELLA INTENDE SUO FATTOR OLTRA ’L CIELO,
E ’L CIEL VOLGIANDO, A LUI OBEDIR TOLE;
E CON’ SEGUE, AL PRIMERO,
DEL GIUSTO DEO BEATO COMPIMENTO,
COSÍ DAR DOVRIA, AL VERO,
LA BELLA DONNA, POI CHE [‘N] GLI OCCHI SPLENDE
DEL SUO GENTIL, TALENTO
CHE MAI DI LEI OBEDIR NON SI DISPRENDE.
DONNA, DEO MI DIRÀ: “CHE PRESOMISTI?”,
SÏANDO L’ALMA MIA A LUI DAVANTI.
“LO CIEL PASSASTI E ‘NFIN A ME VENISTI
E DESTI IN VANO AMOR ME PER SEMBLANTI:
CH’A ME CONVEN LE LAUDE
E A LA REINA DEL REGNAME DEGNO,
PER CUI CESSA ONNE FRAUDE”.
DIR LI PORÒ: “TENNE D’ANGEL SEMBIANZA
CHE FOSSE DEL TUO REGNO;
NON ME FU FALLO, S’IN LEI POSI AMANZA”.

Nell'opera scritta da Guido Guinizzelli compare la tematica che caratterizza tutto


il movimento culturale del dolce stilnovo: la corrispondenza tra l'amore della
donna e l'amore dell'uomo, purché, quest'ultimo, abbia un cuore nobile.
L'importanza della corrispondenza da parte della donna innalza, fa superare
l'uomo (nobile di sentimenti) ad un livello spirituale superiore.
Subito nella prima strofa l'autore spiega che in un cuore nobile si potrà sempre
trovare l'amore e successivamente con una similitudine naturale spiega che la
natura non ha creato l'amore prima del cuore nobile e neanche il contrario,
usando una forma stilistica chiamata chiasmo: "né fe' amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch'amor, natura: ch'adesso con' fu 'l sole, sì tosto lo splendore
fu lucente, né fu davanti 'l sole………".
Nella seconda strofa Guido Guinizzelli sottolinea che l'amore "colpirà" solamente
delle persone di animo nobile e che grazie a questo amore l'uomo potrà essere
finalmente puro, l'autore ci spiega questo concetto citando la legge fisica in cui
ogni pietra preziosa acquisisce valore grazie alla luce del sole: "….come vertute
in petra preziosa, che da la stella valor no i discende anti che 'l sol la faccia gentil
cosa; poi che n'ha tratto fore per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà
valore…..".
L'autore prosegue continuando con delle similitudini naturali, proprio per
ribadire che l'amore lo troverà solamente la persona di nobile cuore, paragona
tutto questo al fuoco, forte, caldo che sta sulla cima della torcia dove vi risplende,
ma non sarebbe così se non fosse sulla torcia, alludendo, a mio avviso ad un
uomo dai sentimenti freddi, non nobili,: "…..per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su' diletto, clar, sottile; no li stari' altra guisa, tant'è fero.".
Ancora una volta, come per tutta l'opera, Guido Guinizzelli vuole far capire ai
lettori che nessun uomo si può ritenere nobile soltanto per diritto di nascita, la
nobiltà d'animo può nascere in qualunque persona di qualsiasi classe sociale
perché è una caratteristica innata; continua sempre a spiegare questi concetti
con dei riferimenti alla natura, infatti paragona la persona nobile soltanto di
nascita al fango seccato dal calore del sole, simbolo di un uomo dai sentimenti
nobili.

2. GUIDO CAVALCANTI

La poesia di Cavalcanti sorprende per la capacità di creare componimenti


armonici e melodici, che apparentemente sembrano elementari, ma che
nascondono un accurato lavoro retorico.
I versi si succedono con un ritmo di danza, che procede lieve sino a che il
componimento non si richiude su se stesso.
In DONNA ME PREGA PERCH’EO VOGLIO DIRE, il ragionamento si fissa in forme
ellittiche. Questa canzone è ostica, e oggetto di varie interpretazioni.
La più recente analisi vi ha individuato un’impostazione filosofica averroistica,
che poggia su precisi elementi tecnici e linguistici.
Il tema è l’azione dell’amore sulle diverse facoltà dell’animo umano: dalla
bellezza della donna, l’amore ricava un’immagine intellettuale astratta, che
agisce sull’anima sensitiva e crea una scissione nell’esperienza dell’uomo.
La poesia di Cavalcanti sottolinea questa sofferenza e questi effetti sconvolgenti
dell’amore. Il punto di partenza è l’esaltazione del valore della donna, che ha una
forza quasi magica, che costringe il poeta a servire. Il poeta è destrutto e
spaventato, ma l’amore spinge a cercare ciò che fa male.
La poesia di Cavalcanti è ricca di figure e personificazioni, entità insieme fisiche
e psichiche. La donna si moltiplica, e al suo posto intervengono queste figure.
La donna sembra arretrare ed allontanarsi.
TU M’HAI SI PIENA DI DOLOR LA MENTE

TU M’HAI SÍ PIENA DI DOLOR LA MENTE,


CHE L’ANIMA SI BRIGA DI PARTIRE,
E LI SOSPIR’ CHE MANDA ’L COR DOLENTE
MOSTRANO AGLI OCCHI CHE NON PUÒ SOF-FRIRE.

AMOR, CHE LO TUO GRANDE VALOR SENTE,


DICE: «E’ MI DUOL CHE TI CONVIEN MORIRE
PER QUESTA FIERA DONNA, CHE NÏENTE
PAR CHE PIETATE DI TE VOGLIA UDIRE».

I’ VO COME COLUI CH'È FUOR DI VITA,


CHE PARE, A CHI LO SGUARDA, CH’OMO SIA
FATTO DI RAME O DI PIETRA O DI LEGNO,

CHE SI CONDUCA SOL PER MAESTRIA


E PORTI NE LO CORE UNA FERITA
CHE SIA, COM’EGLI È MORTO, APERTO SEGNO.

[Rivolgendosi all’ Amore, il poeta dice:] Tu mi hai riempito la mente di tanto


dolore, che l'anima si affretta a partire (= a morire) e i sospiri che il mio cuore
addolorato emette mostrano a chi mi guarda che esso non può soffrire
ulteriormente
L' Amore, consapevole della grande forza del poeta dice: “Mi dispiace che tu
debba morire per questa donna crudele che non vuole neppure sentire parlare
di te.”
Io vado come come colui che è privo di vita e che, a guardarlo, sembra che sia un
uomo fatto di rame o di pietra o di legno, sembra che egli sia un uomo che si
muova solo per l'ingegno di chi lo ha costruito e che porti nel cuore una ferita,
segno evidente che egli è morto.
Il sonetto si compone di due quartine e da due terzine con la seguente
costruzione di rime: ABAB - ABAB - CDE - DCE
Nella prima quartina, il poeta parla dell'effetto che l'amore ha su di lui. E' un
amore che lo fa soffrire e gli provoca così tanto dolore che l'anima non vede l'ora
di lasciare il corpo (= morire). E’ l’associazione classica amore-morte.
Nella seconda quartina l'Amore è personificato e si rivolge al poeta
consigliandogli di lasciar perdere la donna amata perché non conviene morire
per una donna che non ha pietà verso qui la ama.
Dalla terza strofa in poi, l’attenzione si sposta sul poeta e, infatti, al “tu” iniziale
viene a corrispondere il pronome “io”. Il poeta assimila se stesso quasi ad un
automa, un essere che non è dotato di movimenti propri, ma guidato da altri,
come se egli si osservasse da un punto di vista esterno. Sembra essere fatto di
materiale inerme e nel cuore porta una profonda ferita.
In questa lirica la donna è descritta come un essere crudele e senza cuore; non
ha pietà per l'uomo e questo causa nel poeta-amante molta sofferenza e
desiderio di morte.
E' una donna completamente diversa da quella cantata da Guinizzelli cioè la
donna-angelo, di cui il poeta celebra la bellezza e che permette all'uomo di
purificarsi per arrivare a Dio.

STILNOVISTI MINORI

Vanno ricordati LAPO GIANNI, GIANNI ALFANI, CINO DA PISTOIA (legatissimo a


Dante e da lui molto stimato). Il suo canzoniere è il più vasto tra quelli stilnovisti.
Subisce l’influsso delle RIME di Dante, scrivendo una poesia illustre ma
misurata. Per l’amata SELVAGGIA, rievoca la figura della donna e le emozioni
provate difronte a lei. Ciro fa da tramite tra lo stil novo e Petrarca.
SVILUPPO DELLA POESIA GIOCOSA
1. CECCO ANGIOLIERI
Cecco Angiolieri fu poco più anziano di Dante, ed ebbe con lui uno scambio di
sonetti. I suoi sonetti esibiscono un repertorio di gesti aggressivi e provocazioni.
Si fa beffa del lavoro, onestà, amore, morale. Questo personaggio non è un
ribelle, non vuole rovesciare quei valori.
La malinconia evocata è solo insoddisfazione.
I temi principali sono l’amore per Becchina, il bisogno di denaro e il risentimento
per il padre, vecchio e avaro, con scatti di violenza verso il mondo, da cui il poeta
stesso non riesce a staccarsi.
Cecco è comunque lontano dalla forza dirompente della grande comicità.

S’I FOSSE FOCO, ARDERE’ ‘L MONDO

S’I’ FOSSE FOCO, ARDERE’ IL MONDO;


S’I’ FOSSE VENTO, LO TEMPESTAREI;
S’I’ FOSSE ACQUA, I’ L’ANNEGHEREI;
S’I’ FOSSE DIO, MANDEREIL EN PROFONDO;

S’I’ FOSSE PAPA, SEREI ALLOR GIOCONDO,


CHÉ TUTTI ’ CRISTIANI EMBRIGAREI;
S’I’ FOSSE ’MPERATOR, SA’ CHE FAREI?
A TUTTI MOZZAREI LO CAPO A TONDO.

S’I’ FOSSE MORTE, ANDAREI DA MIO PADRE;


S’I’ FOSSE VITA, FUGGIREI DA LUI:
SIMILEMENTE FARIA DA MI’ MADRE.
S’I’ FOSSE CECCO COM’I’ SONO E FUI,
TORREI LE DONNE GIOVANI E LEGGIADRE:
LE VECCHIE E LAIDE LASSEREI ALTRUI.

Angiolieri era infatti un contemporaneo di Dante, ma che viaggiava su uno stile


di poetica totalmente opposto. Insieme ad altri poeti comico realistici, come
Rustico Filippi, egli rovesciò tutti i canoni dello Stilnovismo, scegliendo una
poesia popolare, comica, dissacratoria. Mentre la donna stilnovista era una
donna angelo, quella di Cecco Angiolieri si chiamava Becchina ed era una donna
pienamente sensuale.

Anche la vita dell’Angiolieri rispecchiava a pieno la sua poesia.


Egli fu un uomo fuori dal comune, sempre impegnato a giocare, bere e
sperperare i soldi di famiglia.
Un vero e proprio poeta maledetto ante litteram.
La lirica in esame è un sonetto, composto quindi da due quartine e due terzine
con schema
ABBA- ABBA- CDC- DCD
Essa può essere considerata un’invettiva che l’autore rivolse ai suoi avari
genitori, che non volevano più concedergli denaro per i suoi vizi.
La lirica è un rovesciamento ironico del plazer provenzale.
Nella versione classica questo è un elenco di cose piacevoli.
Qui invece l’autore lo trasforma in un proclamo di odio universale.

Nella prima quartina l’autore immagina di immedesimarsi negli elementi


naturali e in Dio stesso, quindi in tutto il creato e nel creatore.
Nella seconda quartina, Cecco Angiolieri diventa papa e imperatore: le due
personalità più importanti del tempo. Immagina di compiere soltanto atti brutali
verso le persone.
Nella prima terzina, sceglie i principi fondamentali della vita e della morte,
augurando un infausto destino ai suoi genitori.
Nell’ultima terzina si esprime in tutta la sua vera essenza. Dimostra qui un
grande egocentrismo.
Sono espressi il suo amore per le donne e i suoi desideri in tutto il loro realismo.
Dal punto di vista stilistico, la poesia sembrerebbe apparentemente un semplice
sfogo, ma in realtà racchiude un grande lavoro e soprattutto una grande
conoscenza delle tecniche retoriche.
Ogni verso è ben calcolato ed equilibrato nella struttura: il ritmo diventa
incalzante perché ogni verso coincide con una frase indipendente (questo
cambia solo nell’ultima terzina).

Sicuramente il ritmo stesso può definirsi crescente grazie ai continui paragoni


realizzati attraverso la ripetizione (anafora) del costrutto “S’i’ fosse” sin dalla
prima terzina. Nell’ultima terzina, il costrutto diventa “sono e fui“, per far
tornare il lettore alla realtà.
S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri, è un sonetto certamente fuori dal comune.
Esso conduce i lettori in un universo ironico, reale e soprattutto comico, che
certamente all’epoca si distinse dall’opera stilnovista.
Angiolieri rappresenta quindi il primo grande esponente dei poeti comici-
realistici: è uno dei primi autori piuttosto discussi per lo stile di vita, ma che
certamente seppe trarsi fuori dal coro per esprimere a pieno la sua audace
personalità.
«Becchin'amor!». «Che vuo', falso tradito?»

«BECCHIN’AMOR!». «CHE VUO’, FALSO TRA-DITO?».


«CHE MI PERDONI». «TU NON NE SE’ DEGNO».
«MERZÉ, PER DEO!». «TU VIEN’ MOLTO GEC-CHITO».
«E VERRÒ SEMPRE». «CHE SARAMMI PEGNO?».

«LA BUONA FÉ». «TU NE SE’ MAL FORNITO».


«NO INVER’ DI TE». «NON CALMAR, CH’I’ NE VEGNO!».
«IN CHE FALLAI?». «TU SA’ CH’I’ L’ABBO UDI-TO».
«DIMMEL, AMOR». «VA’, CHE TI VENG’UN SE-GNO!».

«VUO’ PUR CH’I’ MUOIA?». «ANZI MI PAR MILL’ANNI».


«TU NON DI’ BENE». «TU M’INSEGNERAI».
«ED I’ MORRÒ». «OMÈ, CHE TU M’INGANNI!».

«DIE TEL PERDONI». «E CHÉ NON TE NE VAI?».


«OR POTESS’IO!». «TÈGNOTI PER LI PANNI?».
«TU TIENI ’L CUORE». «E TERRÒ CO’ TUO GUAI».

Il testo presenta un dialogo a botta e risposta tra Cecco e la sua amante Becchina,
dalla quale l'uomo supplica il perdono per qualche tradimento e riceve per tutta
risposta insulti e l'invito ad andarsene. In realtà la donna viene mostrata come
molto abile dialetticamente e dotata di astuzia nel tenere "sulla corda" il suo
spasimante, come si deduce dalla battuta finale in cui essa gode tra sé del fatto di
"tenere" il cuore di Cecco.
Il sonetto ha schema della rima ABAB, ABAB, CDC, DCD e presenta una struttura
singolare, poiché ogni verso contiene le due battute alternative dei personaggi
(Cecco e la risposta di Becchina) perfettamente ripartite tra i due emistichi
dell'endecasillabo. Numerosi i termini del lessico popolare, come tradito (v. 1,
"traditore"), calmar (v. 6, "cercare di calmare"), abbo (v. 7, "io ho"), un segno (v.
8, nel senso di "un colpo", un malanno come segno divino), mi par mill'anni (v. 9,
"l'attesa mi sembra interminabile", "non vedo l'ora").
Merzé e gecchito (v. 3, "pietà" e "umile") sono invece provenzalismi e derivano
dalla lirica occitanica.
Il testo riprende la forma del "contrasto" tipico della letteratura amorosa e della
poesia comica, anche se qui la situazione è grottesca e rovesciata: Cecco non
cerca di sedurre Becchina ma di ottenere il suo perdono per qualche torto
commesso (prob. un tradimento, anche se la cosa non è detta esplicitamente),
mentre alla fine lei glielo concede ma si compiace anche di tenere in pugno
l'innamorato e di procurargli dei guai ("E terrò co’ tuo’ guai").
L'autore mescola termini della tradizione colta e aulica con espressioni popolari
e gergali, specie nelle risposte di Becchina che ribatte colpo su colpo alle
richieste e professioni di innocenza di Cecco, alludendo in modo poco chiaro a
ciò che sa sul suo conto e rispondendo anche in modo ironico alle proteste
dell'uomo ("Tu m’insegnerai", "Tegnoti per li panni?").
La commistione di tono alto e popolare ricorda il contrasto di Cielo d'Alcamo (►
TESTO: Rosa fresca aulentissima), in cui una popolana ribatte con ironia alle
profferte amorose di un uomo.

2. FOLGORE DA SAN GIMIGNANO

Di lui sono rimasti una trentina di sonetti, tra cui si distinguono due corone.
Una è di 8 sonetti ed è dedicata ai giorni della settimana.
L’altra è di 14 sonetti ed è dedicata ai mesi dell’anno.
Queste corone sono doni che il poeta offre ai nobili signori, e descrivono
occupazioni piacevoli. Viene ripresa la tradizione del PLAZER, un elenco di cose
piacevoli, e vi aggiunge la passione per il ritmo del calendario, viva nella cultura
medievale. Ogni sonetto offre un quadro di una situazione felice, utilizzando la
vita delle ricche classi cittadine, colte nella perpetua vacanza, capacità di godere
e dominare. Il lavoro opposto fu fatto da CENNE DE LA CHITARRA, che sostituì ai
piaceri, noie e fastidi.
NASCITA DELLA PROSA VOLGARE

La prosa non si chiude in codici vincolanti come quelli della poesia.


Vengono tradotte con grande frequenza opere della letteratura latina e francese,
e si cerca di mettere a punto una prosa solida e comunicativa.
In Toscana vi erano numerosi centri di scrittura e produzione di libri in volgare,
rivolti ad un pubblico vario. Tale produzione si occupava dei contenuti.
La prosa più alta si lega all’esercizio della retorica, e mira a trasferire nel volgare
la dignità stilistica del latino.

SCRITTURE STORICHE E CRONACHE

Un’ altra tradizione che si prolunga è quella delle storie universali scritte in
latino, che partendo dalle origini del mondo accostano le notizie più diverse
ricavate da fonti disparate, senza controllo critico.
Per noi sono più interessanti le CRONACHE, che raccontano eventi di città,
regioni, e si dilungano su fatti recenti. Numerosi sono i cronisti meridionali.
La CRONICA, scritta da SALIMBENE DE ADAM, narra gli eventi accaduti durante
la sua vita, usando ricordi, voci, memorie e giudizi, con poche fonti scritte.
Presta attenzione ai particolari dell’esistenza, con un latino vivace, elementi
lessicali e sintattici vicini al volgare.
Tra le cronache in volgare c’è la ISTORIA FIORENTINA di RICCARDO MALISPINI,
sulla cui identità vi sono diversi dubbi.

1. IL MILIONE DI MARCO POLO

La sua scrittura da una parte può far pensare alla cronaca, dall’altra fa pensare
alla trattatistica storico-geografica. Per la sua materia può essere collegato alle
relazioni di viaggio compilate nel corso del secolo.
Il titolo MILIONE figura una più antica redazione Toscana, che risale all’inizio del
300, adottata dalle moderne stampe italiane.
L’opera inizia con la descrizione di diversi paesi d’Oriente, a volte accompagnati
dalla narrazione di eventi reali o leggendari.
La parte centrale è più ampia e dedicata alla descrizione della corte del GRAN
KHAN e del suo impero e delle sue vicende storiche e militari.
Il passaggio tra i vari paesi è sempre simile, a volte identico.
La narrazione si riferisce ad avvenimenti realmente accaduti o visti, e fa continui
riferimenti a valori religiosi, cavallereschi o fantastici.
Il Milione offre un capitale modello letterario del viaggio e della conoscenza
geografica e culturale prima sconosciuta.
Le avventure ed i viaggi di Marco Polo diventano componente essenziale
dell’immaginario europeo.

LA PROSA MORALISTICA

Notevole diffusione ebbe la prosa di divulgazione morale, piena di insegnamenti


che dovevano dettare il retto comportamento. Questa prosa era legata alla
dominante prospettiva cristiana, ma non si riferiva solo all’esperienza religiosa.
Un grande traduttore fiorentino fu BONO GIAMBONI, che con IL LIBRO DE’VIZI E
DELLE VIRTUDI, segue i modelli latini e mira ad una sintassi essenziale e
razionale. L’autore, caduto in uno stato di disperazione e angoscia viene visitato
dalla figura consolatrice della FILOSOFIA.
DANTE ALIGHIERI

Dante nasce a Firenze nel 1265, dall’importante famiglia Alighieri. La madre


morì quando lui era bambino, il padre era un esattore ed accordò con MATTEO
DONATI, padre di GEMMA DONATI, un matrimonio tra i due.
Dante studiò il Trivium (materie letterarie) e il Quadrivium (materie
scientifiche) ed ebbe SER BRUNETTO LATINI come maestro di retorica.
Entrò nella scuola toscana del dolce stil novo.
A 9 anni, Dante vide per la prima volta Beatrice, che poi rivide per la seconda
volta a 18 anni, e finalmente lei gli rivolse il suo saluto.
Il suo amore per Beatrice fu fulcro di ispirazione per la produzione del dolce stil
novo per la visione della donna amata come una figura angelica, in grado di
condurre Dante all’espiazione dei propri peccati, e quindi alla beatitudine.
Lo stesso nome “beatrice” significa “colei che porta alla beatitudine”.
La morte della donna avvenne nel 1290, e per Dante ebbe inizio un periodo di
lunga sofferenza, da cui si distraeva grazie allo studio della filosofia di Aristotele,
e grazie alla letteratura latina in particolare Ovidio e Seneca.
Dante si interessò alla politica di Firenze, dato che a quel tempo erano aspri gli
scontri tra i guelfi (divisi in bianchi, guidati dal DONATI, contrari all’aumento del
potere temporale del Papa, e neri) di cui Dante faceva parte, e ghibellini.
Nel 1295 Dante si iscrisse all’ARTE DEI MEDICI E DEI SPEZIALI e divenne un
priore. Nel 1300, per placare lo scontro tra le fazioni, il Papa chiamò in aiuto
CARLO DI VALOIS.
Nel 1302 Dante partecipò ad un’ambasceria a Roma, e fu trattenuto dal Papa,
mentre a Firenze Carlo di Valois uccise e processò i guelfi bianchi.
Furono svolti due processi ai danni di Dante, accusato di baratteria, condannato
a due anni di esilio. Dante non rivide più Firenze e si affidò ai signori delle
campagne. Morì il 14 settembre del 1321.
1. PRIMA ATTIVITA’ POETICA

Dante rivela una passione per la sperimentazione.


Non utilizza un solo stile, ma tecniche differenti, cercando contatto con
situazioni concrete.
La sua produzione inizia con le RIME, legate alla tradizionale lirica amorosa,
con una scrittura pregnante di significato, non basata su formule costanti.
Non si tratta di un libro unitario.
I suoi componimenti girano in modo disordinato in canzonieri e zibaldoni, ad
eccezione dei componimenti raccolti nella VITA NUOVA.
Le prime rime si legano alla scuola toscana e agli schemi guittoniani, con una
maggiore leggerezza di tono.
Non è semplice distinguere le rime dedicate a Beatrice da quelle dedicate ad
altre donne. Resta comunque evidente la suggestione di Cavalcanti, di cui segue
sia le forme più gioiose e soavi, che quelle più tristi e dolorose dello sgomento
legato alla passione amorosa.

2. LA VITA NUOVA

Contemporanee alle rime d’amore doloroso sono quelle dedicate a Beatrice, di


cui DONNE CH’AVETE INTELLETTO D’AMORE spicca come manifesto.
Lo stile dantesco insiste sul legame tra amore e gentilezza, e vede nella donna un
miracolo, fonte di umiltà e grazia.
La bellezza di Beatrice si riflette in tutto ciò che la circonda, e lei stessa è
annuncio di salvezza, ed è un’immagine che non può esser ben definita.
Le rime a lei dedicate furono raccolte nella VITA NUOVA, ai cui testi poetici è
accompagnata una prosa che narra eventi autobiografici.
La Vita Nuova è una narrazione esemplare, ha un valore universale, nella ricerca
di consolazione per la perdita di Beatrice, richiamandosi al LAELIUS DE
AMICITIA di Cicerone. Dopo la morte di Beatrice, Dante si dedicò agli studi della
filosofia e della teologia. Quest’opera vanta una scrittura visionaria, che procede
per illuminazioni, ed è un’opera fervida e passionata.
L’opera conta 42 capitoli per lo più brevi.
La narrazione inizia con il primo incontro di Dante e Beatrice all’età di nove anni.
Un secondo incontro avvenne dopo 9 anni, e finalmente Beatrice gli rivolse il suo
saluto. La simbologia numerica è un fattore molto importante per la produzione
dantesca, in quanto rimanda alla trinità e alla perfezione.
Più avanti negli anni, per timore che si capisca che la donna a cui le poesie erano
dedicate fosse proprio Beatrice, Dante inizia a corteggiare altre donne, e Beatrice
gli toglie il proprio saluto indignata.

VITA NUOVA, 3
POI CHE FUORO PASSATI TANTI DIE, CHE APPUNTO ERANO COMPIUTI LI
NOVE ANNI APPRESSO L’APPARIMENTO SOPRASCRITTO DI QUESTA
GENTILISSIMA, NE L’ULTIMO DI QUESTI DIE AVVENNE CHE QUESTA MIRABILE
DONNA APPARVE A ME VESTITA DI COLORE BIANCHISSIMO, IN MEZZO A DUE
GENTILI DONNE, LE QUALI ERANO DI PIÚ LUNGA ETADE; E PASSANDO PER
UNA VIA, VOLSE LI OCCHI VERSO QUELLA PARTE OV’IO ERA MOLTO PAUROSO,
E PER LA SUA INEFFABILE CORTESIA, LA QUALE È OGGI MERITATA NEL
GRANDE SECOLO, MI SALUTO E MOLTO VIRTUOSAMENTE TANTO CHE ME
PARVE ALLORA VEDERE TUTTI LI TERMINI DE LA BEATITUDINE.

Beatrice era accompagnata da due donne più anziane.


Beatrice viene sempre descritta con aggettivi al grado superlativo, mentre gli
aggettivi che si riferiscono alle donne sono al grado positivo.
Camminando per la città, Beatrice gli rivolge il proprio saluto, e guarda verso un
Dante pauroso, in preda al tipico effetto sconvolgente che l’amore produceva
nell’uomo stilnovista, suggestionato dalla stessa presenza di Beatrice e dalla sua
indicibile cortesia e gentilezza.
Saluto è accostato a salute e salutezza, oggetto dell’aspirazione di Dante.
Lo stesso nome Beatrice è simbolico, significa colei che porta beatitudine.
La sola presenza di Beatrice lo turba, e la donna e le sue amiche lo deridono.

VITA NUOVA, 14
APPRESSO LA BATTAGLIA DE LI DIVERSI PENSIERI AVVENNE CHE QUESTA
GENTILISSIMA VENNE IN PARTE OVE MOLTE DONNE GENTILI ERANO
ADUNATE; A LA QUAL PARTE IO FUI CONDOTTO PER AMICA PERSONA,
CREDENDOSI FARE A ME GRANDE PIACERE, IN QUANTO MI MENAVA LÀ OVE
TANTE DONNE MOSTRAVANO LE LORO BELLEZZE. […] SÍ CHE IO,
CREDENDOMI FARE PIACERE DI QUESTO AMICO, PROPUOSI DI STARE AL
SERVIGIO DE LE DONNE NE LA SUA COMPAGNIA. E NEL FINE DEL MIO
PROPONIMENTO MI PARVE SENTIRE UNO MIRABILE TREMORE
INCOMINCIARE NEL MIO PETTO DA LA SINISTRA PARTE E DISTENDERSI DI
SUBITO PER TUTTE LE PARTI DEL MIO CORPO. ALLORA DICO CHE POGGIAI LA
MIA PERSONA SIMULATAMENTE AD UNA PINTURA LA QUALE CIRCUNDAVA
QUESTA MAGIONE; E TEMENDO NON ALTRI SI FOSSE ACCORTO DEL MIO
TREMARE, LEVAI LI OCCHI, E MIRANDO LE DONNE, VIDI TRA LORO LA
GENTILISSIMA BEATRICE. ALLORA FUORO SÍ DISTRUTTI LI MIEI SPIRITI PER
LA FORZA CHE AMORE PRESE VEGGENDOSI IN TANTA PROPINQUITADE A LA
GENTILISSIMA DONNA, CHE NON NE RIMASERO IN VITA PIÚ CHE LI SPIRITI
DEL VISO; E ANCORA QUESTI RIMASERO FUORI DE LI LORO ISTRUMENTI,
PERÒ CHE AMORE VOLEA STARE NEL LORO NOBILISSIMO LUOGO PER
VEDERE LA MIRABILE DONNA. […]

Continuando la battaglia dei suoi pensieri riguardo l’amore per Beatrice, questa
andò dove erano adunate altre donne.
Dante fu portato in quel posto da un amico, che pensava di fargli un piacere.
Dante acconsentì di stare al servizio delle donne per tenere loro compagnia.
Prima che la compagnia si sciogliesse, Dante sentì un tremolio al cuore, un
turbamento di cui non seppe dare spiegazione, e che si tramutò in una vera e
propria sofferenza fisica, che presto si estese per tutto il corpo.
Dante temette di svenire e si avvicinò al muro della stanza per sorreggersi, su un
muro affrescato. Avendo paura che qualcuno si fosse accorto della sua
sofferenza, alzò lo sguardo verso le donne, e vide tra loro la gentilissima
Beatrice, la cui sola presenza lo turbava. Gli spiriti vitali che governavano il suo
corpo furono richiamati dal cuore. Il corpo era senza forze, i suoi spiriti erano
distrutti, ad eccezione di quelli della vista.
A seguito di una conversazione con una donna, che gli dice che la sua beatitudine
può trovarsi solo nelle parole dedicate alla donna amata, Dante si affida alla
poesia della LODE, spinto da una forza superiore.
Nascono DONNE CH’AVETE INTELLETTO D’AMORE, TANTO GENTILE E TANTO
ONESTA PARE. Vi sono anche delle situazioni dolorose, come quella della morte
del padre di Beatrice e la malattia del poeta, che lo porta ad una visione che
annuncia la propria morte e la vista di Beatrice tra gli angeli.
Al risveglio scrive DONNA PIETOSA E DI NOVELLA ETATE dopo aver parlato con
una giovane donna. Il clima teso si risolve nella contemplazione di Beatrice.
Presto giunge la morte dell’amata, che Dante non narra direttamente.
Descrive solo uno stato di sofferenza e perdita della donna amata.
Dante afferma così il proposito di non parlare più di Beatrice sino a che non ne
avrebbe parlato in modo più degno.
La Vita Nuova resta così in sospeso.
Quest’opera non può esser letta solo in chiave religiosa o mistica, e non si tratta
solo di un’opera allegorica o simbolica.

VITA NUOVA, XX
Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò
fosse cosa che alcuno amico l'udisse, volontade lo mosse a pregare me che io
li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l'udite parole speranza di me
oltre che degna. Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era
trattare alquanto d'Amore, e pensando che l'amico era da servire, propuosi
di dire parole ne le quali io trattassi d'Amore; e allora dissi questo sonetto, lo
qual comincia: Amore e 'l cor gentil.

Amore e 'l cor gentil sono una cosa,


sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l'un sanza l'altro osa
com'alma razional sanza ragione.
Fàlli natura quand'è amorosa,
Amor per sire e 'l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d'Amore.
E simil fàce in donna omo valente.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in


potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto. La
seconda comincia quivi: Bieltate appare. La prima si divide in due: ne la
prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come
questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l'uno
guarda l'altro come forma materia. La seconda comincia quivi: Fàlli natura.
Poscia quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenzia si riduce in
atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E
simil fàce in donna.

Nell’introduzione in prosa del ventesimo capitolo della Vita Nova Dante si


propone di tornare sulla trattazione d’Amore, dopo aver definito, nel capitolo
precedente, la nuova poetica della lode con la canzone Donne ch’avete intelletto
d’amore. Questa volta però la scelta del poeta cade su una struttura metrica più
breve ed agile, quella del sonetto.
La prima quartina definisce da subito l’identità totale tra la facoltà di amare
propria degli esseri umani e il possesso di un cuore “gentile”, capace cioè di
provare e suscitare al tempo stesso l'emozione del sentimento amoroso. Questa
formula convenzionale dello stilnovismo viene confermata dall’autorità di Guido
Guinizzelli - il “saggio” citato al v. 2 - nella sua poesia Al cor gentil rempaira
sempre amore e diviene così uno dei cardini della poetica che Dante elabora
nella Vita Nova. La seconda quartina spiega allora che la natura unisce da
principio capacità di innamorarsi e anima ‘gentile’, poiché l’Amore
(personificato al v. 6 in un "sire") risiede nella “magione” del cuore,
risvegliandosi quando entra in scena una “saggia donna”. Il poeta identifica così
precisamente le virtù della donna stilnovista, la cui bellezza esteriore è
intimamente collegata con le sue qualità etiche e morali. Il “disio”, cioè il
desiderio amoroso, non può che nascere, nell’ottica di Dante, solo dalla
compresenza di queste qualità; lo strumento principale della comunicazione tra i
due amanti sarà sempre quello tipico degli “occhi”, richiamati al v. 10. In più -
obbedendo anche qui alla lezione di Guido Guinizzelli e di Cavalcanti - l’amore ha
altre due qualità: non può che essere un legame duraturo e non può che
suscitare, una volta nato in uno dei due amanti, un analogo desiderio nell’altro
individuo. Amor e il cor gentile è allora un testo cruciale della Vita Nova, proprio
perché ne sintetizza alcuni temi fondamentali: la centralità della tematica
amorosa e la sua forza di rinnovamento, l’importanza della poesia della lode per
celebrare la donna amata (e, attraverso lei, per arrivare a Dio), la definizione di
una serie di elementi basilari di questa poetica.

COMMENTO TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE, VITA NUOVA 17


Con parole molto semplici e raffinate, Dante descrive le conseguenze e gli effetti
che il solo saluto di Beatrice ha su chi la incontra.
Le persone ammutoliscono ed abbassano lo sguardo, presi dalla dolcezza.
La bellezza di questa poesia sta nella sua essenzialità, la rappresentazione è
molto familiare ed ordinaria ed insieme sottilmente straniante.
I sentimenti suscitati non sono causati solo dalla bellezza, ma da qualcosa che
tocca lo spirito, non solo i sensi. Il verbo che ricorre più spesso è infatti PARE,
cioè APPARE. Beatrice è infatti uno spettacolo per gli occhi, ed ha un attributo
quasi divino. Dante non ci dice come è fatta Beatrice, di fatto non ci dice niente di
lei. Proprio come chi la vede passare restiamo in dubbio circa la sua vera natura,
umana o divina. Nell’immaginazione di Dante, Beatrice è infatti una visione,
un’apparizione che allude ad una realtà sovraumana, celeste, una donna angelo.

3. LE RIME DELLA MATURITA’ E DELL’ESILIO

La svolta provocata dalla morte di Beatrice, porta Dante ad un lungo periodo di


riflessione e scoperta di nuovi interessi e valori.
La sua prosa sperimentale può essere infatti divisa in 4 gruppi.
1) Il TENZONE con FORESE DONATI: brevi e violenti scambi di sonetti. Si
tratta di un’esercitazione in chiave comica, con un linguaggio oltraggioso e
risentito, che gioca su ingiurie ed allusioni. I sonetti si reggono su
un’asprezza lessicale e ritmica.

È costituita da tre sonetti di Dante e tre di Forese Donati (cugino della


moglie di Dante, morto nel 1296, e fratello di Piccarda e di Corso Do-
nati, futuro capo dei Neri) che, come vuole il genere tenzone si pren-
dono familiarmente in giro e si infamano a vicenda.

87 (LXXIII)
1. Dante a Forese

CHI UDISSE TOSSIR LA MAL FATATA


MOGLIE DI BICCI VOCATO FORESE,
POTREBBE DIR CH’ELL’HA FORSE VERNATA
OVE SI FA ’L CRISTALLO, ‘N QUEL PAESE.

DI MEZZO AGOSTO LA TRUOVI INFREDDATA;


OR SAPPI CHE DE’ FAR D’OGN’ALTRO MESE!
E NO·LLE VAL PERCHÉ DORMA CALZATA,
MERZÉ DEL COPERTOIO C’HA CORTONESE.

LA TOSSE, ’L FREDDO E L’ALTRA MALA VO-GLIA


NO·LL’ADOVIEN PER OMOR’ CH’ABBIA VECCHI,
MA PER DIFETTO CH’ELLA SENTE AL NIDO.

PIANGE LA MADRE, C’HA PIÚ D’UNA DOGLIA,


DICENDO: «LASSA, CHE PER FICHI SECCHI
MESSA L’AVRE’ IN CASA IL CONTE GUIDO!».

MOGLIE: NELLA.
BICCI: BICCICOCCO.
VERNATA: SOFFERTO IL FREDDO.
OVE … CRISTALLO: SECONDO ARISTOTELE IL CRISTALLO È ORIGINATO
DAL GHIACCIO PORTATO DA UN VENTO FRED-DISSIMO A
TEMPERATURA STRAORDINARIAMENTE BASSA.
CALZATA: CON LE COPERTE BEN RIMBOCCATE.
CORTONESE: DI CORTONA / CORTO (CON VALORE OSCENO).
MALA VOGLIA: INDISPOSIZIONE.
OMOR … VECCHI: PERCHÉ SIA VECCHIA.
DIFETTO … NIDO: POVERTÀ / ASTINENZA SESSUALE.
CONTE GUIDO: GUIDO IL VECCHIO, NOBILE ARETINO O GUIDO
NOVELLO.

Nel sonetto, Dante dice che chi sentisse tossire la sventurata moglie di
Forese, detto Bicci, potrebbe dire che forse ha passato l’inverno nel Paese
dove si produce il cristallo (che nel Medioevo si pensava nascesse dal
ghiaccio, dunque la regione indicata è nell’estremo Nord).
Anche a metà agosto la trovi raffreddata – immagina come deve stare in
ogni altro mese! E non le serve a molto dormire con le calze, a causa della
coperta che è corta (questa è un’allusione oscena all’assenza del marito nel
letto; c’è anche un ulteriore gioco di parole con «cortonese», che vale
«corto» e «di Cortona», città toscana vicina ad Arezzo, in una regione dove
nel XIII-XIV secolo fiorì un’importante industria della lana).
La tosse, il freddo e gli altri malanni non le capitano per la sua vecchiaia
(gli «omor’ ch’abbia vecchi» sono i liquidi organici che si credevano
responsabili delle funzioni vitali, dunque Dante insinua che la donna è
avanti con gli anni e, forse per questo, poco attraente agli occhi di Forese),
ma per la mancanza che sente nel nido (la già ricordata assenza di Forese
dal letto coniugale; potrebbe alludere ad infedeltà coniugali dell’uomo,
oppure dall’andare di notte a rubare in casa altrui – nel sonetto Bicci novel
della tenzone, Forese è chiamato «piùvico ladron», «ladro matricolato»).
La madre di lei piange e ne ha più d’un motivo, mentre dice: «Ahimè, con
una dote modesta potevo farle sposare uno dei conti Guidi!» (si allude
quasi certamente ad uno dei conti Guidi del Casentino e forse a Guido il
Vecchio, fondatore della dinastia e citato da Dante in Paradiso, XVI, 98.
La madre di Nella intende dire che con una dote modesta avrebbe
procurato alla figlia un ottimo matrimonio, addirittura con una famiglia di
antica nobiltà).

88 (LXXIV)
2. Forese a Dante

L’ALTRA NOTTE MI VENN’ UNA GRAN TOSSE,


PERCH’I’ NON AVEA CHE TENER A DOSSO;
MA INCONTINENTE CHE FU DÌ, FUI MOSSO
PER GIR A GUADAGNAR OVE CHE FOSSE.

UDITE LA FORTUNA OVE M’ADDOSSE:


CH’I’ CREDETTI TROVAR PERLE IN UN BOSSO
E BE’ FIORIN’ CONIATI D’ORO ROSSO,
ED I’ TROVAI ALAGHIER TRA LE FOSSE

LEGATO A NODO CH’I’ NON SACCIO ’L NOME,


SE FU DI SALAMON O D’ALTRO SAGGIO.
ALLORA MI SEGNA’ VERSO ’L LEVANTE:

E QUE’ MI DISSE: «PER AMOR DI DANTE,


SCIO’MI»; ED I’ NON POTTI VEDER COME:
TORNAI A DIETRO, E COMPIE’ MI’ VIAGGIO.

BOSSO: VASETTO DI LEGNO.


ROSSO. FIAMMEGGIANTE, DI CONIO FRESCO.
ALAGHIER: ALIGHIERO, IL PADRE DI DANTE.
TRA LE FOSSE: IN UN CIMITERO.
LEGATO … SAGGIO: IL NODO DI SALOMONE È INGARBU-GLIATO E
INDISSOLUBILE. - NODO METAFORICO DALLA QUALE L’OMBRA DI
ALIGHIERI NON È ANCORA SCIOLTA: O PERCHÉ DEBITORE O PERCHÉ
ANCORA VITTIMA DI UN’OFFESA NON VENDICATA.
ALLORA … LEVANTE: ATTO MAGICO DI SCONGIURO.

All’accusa di essere un ladro e un ghiottone, di trascurare la moglie Nella


lasciandola sola nel letto, di appartenere a una famiglia nota per i tradimenti
coniugali e le ruberie, di essere povero e oberato di debiti, Forese ribatte
accusando il rivale di viltà e di non aver vendicato una imprecisata offesa al
padre, ritorcendogli contro l’accusa di povertà miserabile (anche se la sua
modestia poetica lascia pochi dubbi su chi sia il vincitore di questo confronto in
versi). Lo stile «comico» o «umile», ovvero «dimesso», «semplice», utilizza un
linguaggio basso e popolare, racconta situazioni quotidiane e preferisce, come
forma metrica, il sonetto. Tuttavia, il «comico» medievale aveva un influsso ben
più esteso di quanto si potrebbe oggi immaginare: si pensi ad esempio al
carnevale, festa popolare in cui ognuno era libero di essere altro da quello che
era, di mascherarsi, di travestirsi e di rendersi irriconoscibile ed aver quindi
anche la possibilità di fare ciò che nella vita quotidiana non gli era consentito.
Una festa simile era la «fête des folles», la «festa dei folli», caratterizzata dal
ribaltamento sociale e dalla possibilità di manifestare apertamente la propria
opinione, le proprie idee in merito al potere, al clero, alla società ed alla vita.
Il comico e il ridere in queste occasioni era quindi un riso dissacrante: esso
scaturiva nel momento in cui, appunto, si rideva di ciò che non si voleva
diventare o di ciò da cui ci si voleva tener lontani.
La poesia comica diffusasi in Toscana nel Duecento era in opposizione a quella
dei poeti siciliani e degli Stilnovisti, con l’obiettivo di crearne il rovescio e la
dissacrante parodia. Anche varie parti della Commedia sono volutamente scritte
con un stile tendente al basso, adeguato al contesto affrontato.

2) Tutti gli anni 90 videro rime dottrinali, in cui Dante esprime la passione
per il sapere. La filosofia gli appare come una donna amorosa. Non è
un’allegoria artificiosa, ma la versione più complessa di una ricerca di un
valore assoluto.

3) Il gruppo di rime che definiscono altri aspetti della condizione amorosa,


oltre che una nuova concezione di figura femminile. Il tutto è al di fuori dei
modelli stilnovistici di lode o sgomento. La donna è pargoletta, petra.
Sembra scesa dal cielo per mostrare la propria bellezza, è quella che non si
innamora, una giovinezza scontrosa.

4) Dante si presenta come CANTORE RECTITUDINIS, denunciando


l’ingiustizia dominante, con una tensione comunicativa particolare, che
traduce un’aspirazione utopica ad una vita civile amorosa, regolata dalla
giustizia. La poesia di Dante affida al futuro una vibrante speranza. Dante
continuerà sempre a tornare sulla poesia amorosa.
4. IL CONVIVIO
Con il CONVIVIO, Dante offre un’opera in volgare concepita come commento in
prosa di canzoni dottrinali. La prosa si estende in modo ampio e paziente, con
stile argomentativo ed espositivo, che affronta temi della cultura filosofica del
tempo, con riferimenti ad etica, metafisica, politica. Figura la filosofia di
Aristotele, con coerenza e lucidità ancora sconosciute alla prosa in volgare, con
accenni alla biografia. Il Convivio si compone di 4 trattati.

1) Il primo trattato giustifica il titolo ed i fini dell’opera. È un convivio che


offre una vivanda a chi ha voglia di sapere, accompagnato da pane che
illustrerà i significati delle canzoni, con riferimenti a vicende
autobiografiche, dando all’opera AUTORITADE e GRAVEZZA.
Essendo il latino perpetuo e non corruttibile, Dante sceglie il volgare per
questioni di LIBERALITADE.

CONVIVIO I, X

1. Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per le


sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s’appone pane di
biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione che partire
faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente, sì
come di comentare con latino. 2. E però vuole essere manifesta la
ragione, che de le nuove cose lo fine non è certo; acciò che la esperienza
non è mai avuta onde le cose usate e servate sono e nel processo e nel
fine commisurate. 3. Però si mosse la Ragione a comandare che l’uomo
avesse diligente riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che
"ne lo statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che
partire ne faccia da quello che lungamente è usato". 4. Non si
maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione de la mia scusa, ma,
sì come necessaria, la sua lunghezza paziente sostenga. 5. La quale
proseguendo, dico che - poi ch’è manifesto come per cessare
disconvenevole disordinazione e come per prontezza di liberalitade io
mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino - l’ordine de la intera
scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de
la propria loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse.
6. Dico che lo naturale amore principalmente muove l’amatore a tre
cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di
quello; l’altra è a difendere lui, sì come ciascuno può vedere
continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè
lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho
amato. 7. Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo
magnifico, per questa ragione vedere si può: avvegna che per molte
condizioni di grandezze le cose si possono magnificare, cioè fare
grandi, e nulla fa tanto grande quanto la grandezza de la propia
bontade, la quale è madre e conservatrice de l’altre grandezze. 8. Onde
nulla grandezza puote avere l’uomo maggiore che quella de la virtuosa
operazione, che è sua propia bontade; per la quale le grandezze de le
vere dignitadi, de li veri onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze,
de li veri amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate
sono. 9. E questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli
di bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese ne la
sua propria operazione, che è manifestare conceputa sentenza. 10.
Mossimi secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l’amico fa
l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo desiderio
d’intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo
comento latino transmutare in volgare, e temendo che ’l volgare non
fosse stato posto per alcuno che l’avesse laido fatto parere, come fece
quelli che transmutò lo latino de l’Etica - ciò fu Taddeo ipocratista -,
providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d’un altro. 11. Mossimi
ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano
esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d’oco,
dicendo che è più bello e migliore quello che questo; partendose in ciò
da la veritade. 12. Ché per questo comento la gran bontade del volgare
di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com’è per esso
altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e
acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non
si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali
adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo
numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza
d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta
la fanno più ammirare che essa medesima. 13. Onde chi vuole ben
giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua naturale
bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento
discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà
l’agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le
soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà
essere piene di dolcissima e d’amabilissima bellezza. 14. Ma però che
virtuosissimo è, ne la ’ntenzione mostrare lo difetto e la malizia de lo
accusatore, dirò, a confusione di coloro che accusano la italica loquela,
perché a ciò fare si muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo,
perché più notevole sia la loro infamia.

La trattazione del problema della lingua, centrale nel primo trattato del
Convivio, viene svolta da Dante sotto diversi profili. Nei capitoli precedenti
egli ha sottolineato il nesso esistente tra questione linguistica e funzione
etico-politica della letteratura. Nelle pagine successive a questo capitolo si
soffermerà polemicamente sulle ragioni che inducono molti letterati ad
opporsi all’adozione del volgare (e che discendono, per lo più, da
atteggiamenti moralmente riprovevoli). In questo capitolo, invece, la scelta
del volgare viene rivendicata soprattutto da un punto di vista tecnico.
Il capitolo si apre su un’apologia del proprio operato: l’autore sa che gli
verrà rivolta l’accusa di avere servito a tavola pane di scarsa qualità
(continua, quindi, la metafora del banchetto introdotta fin dalle prime
pagine del trattato), e rimarca – richiamando l’autorità del diritto romano
– il fatto che, quando ci si allontana dalla tradizione, è necessario avere
dalla propria parte solide ragioni. L’insistenza con cui Dante espone gli
argomenti contrari alla propria tesi (sottolineata dal ricorrere, nel primo
capoverso, di parole chiave come «nuove cose» e «ragione», nonché
dall’anafora: «E però» , «Però») prepara il dispiegarsi della sua
argomentazione. Dapprima (nella parte che abbiamo omesso), Dante
espone “in positivo” le ragioni che lo hanno portato a scegliere il volgare
(il desiderio di dimostrarne l’eccellenza, unito al timore che altri potesse
tradurre dal latino la sua opera con esiti stilistici non soddisfacenti).
Quindi torna all’argomentazione “difensiva”, confutando le accuse di
quanti ritengono il volgare italiano inferiore alle lingue d’oc e d’oïl. Dante
rivendica la capacità espressiva della sua lingua materna, che gli appare
matura per esprimere concetti alti e difficili, allo stesso livello del latino; è
necessario però, perché tale potenzialità si possa esprimere, rinunciare
alle «accidentali adornezze» della poesia. Solo in questo modo si potrà
sfruttare appieno la bellezza della lingua (paragonata alla bellezza di una
donna, che dipende dalla sua persona e non dai suoi abiti). In realtà
l’argomentazione di Dante non risulta, sul piano tecnico, particolarmente
approfondita: essa si vale, infatti, di criteri basati su giudizi di gusto
(«agevolezza» delle sillabe, «proprietadi» dei costrutti e «soavi orazioni»
che il volgare rende possibili), che non sono rigorosamente definiti e
possono apparire ingenui a una moderna sensibilità linguistica.
Sull’aspetto tecnico della scelta del volgare, del resto, Dante avvertirà la
necessità di un approfondimento maggiore quando, interrompendo la
stesura del Convivio, deciderà di affrontare il problema in un’opera
autonoma (il De vulgari eloquentia). Nel primo trattato del Convivio
invece la riflessione tecnica è destinata a lasciare il campo ad una polemica
di ordine più generale; una polemica che dimostra, del resto, come in
Dante sia sempre presente un nesso organico tra il problema linguistico e
la dimensione etico-politica in cui si colloca la sua opera.

2) Il secondo trattato commenta la canzone VOI CHE ‘NTENDENDO IL TERZO


CIEL MOVETE, e si apre con una definizione di scrittura che può assumere
diversi sensi. Dante vuole spiegare il senso allegorico e letterale di ogni
canzone. Il trattato discute anche l’immortalità dell’anima e la struttura
dei cieli ed il sistema delle scienze.

CAPITOLO I

1. Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane ne lo


precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama e
domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l’artimone de la
ragione a l’òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di
dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la fine de la mia
cena. Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna
la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee. 2. Dico che, sì
come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere
litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le
scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per
quattro sensi. 3. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si
stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole
de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si
nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto
bella menzogna: come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera
mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che
lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e
umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro
che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita
ragionevole alcuna sono quasi come pietre. 4. E perché questo
nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si
mosterrà. Veramenti li teologi questo senso prendono altrimenti che li
poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare,
prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. 5. Lo terzo
senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono
intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e
di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando
Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò
seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secrete cose noi
dovemo avere poca compagnia. 6. Lo quarto senso si chiama
anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone
una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale,
per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria: sì
come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita
del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Che
avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero
quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal
peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrar
questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui
sentenza li altri sono inchiusi, sanza lo quale sarebbe impossibile ed
inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. 9. È
impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è
impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori: onde, con
ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di
fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica, sanza
prima venire a la litterale. 10. Ancora è impossibile però che in
ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la
forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee
stare: sì come impossibile la forma de l’oro è venire, se la materia, cioè
lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l’arca
venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e
apparecchiata. 11. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza
sempre sia subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica,
impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua. 12.
Ancora è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale,
procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì
come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che ’l dimostrare sia
edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de
l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è a l’altre venire
prima che a quella. 13. Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe
inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con molto
errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la
Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra
conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello
che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto
questa via di conoscere è in noi naturalmente innata. 14. E però se li
altri sensi dal litterale sono meno intesi - che sono, sì come
manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi
dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. 15. Io adunque,
per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima
la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria,
cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò
incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.

All’inizio del Convivio Dante aveva avvertito che, nel corso dell’opera,
sarebbe stata applicata alle sue poesie l’interpretazione allegorica.
Adesso, apprestandosi a commentare la prima canzone, l’autore precisa il
metodo interpretativo che intende seguire, soffermandosi sui diversi
significati che è possibile attribuire ai testi letterari. Il discorso di Dante,
però, verte più in generale sulle «scritture», termine con il quale si
indicano tanto le opere poetiche quanto i testi sacri. La dottrina
dell’interpretazione allegorica era stata infatti sviluppata dai padri della
Chiesa (a partire da Girolamo e Agostino) e applicata inizialmente alla
Bibbia; in seguito fu estesa anche ai classici, che con questo metodo
potevano essere conciliati con il cristianesimo.
I possibili sensi elencati da Dante sono quattro: a quello letterale si
aggiungono infatti il senso «allegorico», quello «morale» e quello
«anagogico». Dante precisa però che i testi, sacri o profani, possono essere
interpretati al massimo («massimamente») in quattro sensi. Ciò implica
che non tutti i testi sono suscettibili di un’interpretazione così articolata.
Nell’illustrare il senso allegorico Dante utilizza un esempio tratto dalla
poesia di Ovidio (il mito di Orfeo che, con il suono della cetra, ammansiva
le belve e muoveva le piante e le pietre). Per esemplificare il senso morale
e quello anagogico, invece, egli introduce due esempi tratti dalle Sacre
Scritture.
Va sottolineata una differenza fondamentale tra i due tipi di «scritture»
esaminati da Dante. I testi poetici possono avere un significato vero
soltanto in senso allegorico; il significato letterale sotto il quale questo
messaggio è ammantato va sempre considerato falso (per esempio, che
Orfeo muova le pietre e gli alberi con il suono della sua cetra è ovviamente
una finzione). I testi sacri presentano anch’essi un significato vero in senso
morale o anagogico. Ma, in più, essi devono essere considerati veri anche
alla lettera. L’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto, per esempio, è un fatto
storico che i medievali consideravano realmente accaduto nei termini
descritti dalla Bibbia. Esso, però, racchiude anche una verità relativa ai
destini ultimi dell’anima, della quale rappresenta la liberazione dal
peccato.
Sulla base della verità o della falsità del senso letterale, si possono dunque
distinguere due tipi di allegoria: una allegoria dei poeti e una allegoria dei
teologi. Dante chiarisce con precisione che, nel corso del Convivio,
utilizzerà esclusivamente l’interpretazione propria dell’allegoria dei poeti
(alla lettera, dunque, le sue canzoni vanno considerate delle finzioni).
Quanto detto finora, tuttavia, non esaurisce la complessa teorizzazione
dantesca sull’allegoria. Dopo la stesura della Commedia, infatti, il poeta
tornerà sull’argomento con un’epistola indirizzata a Cangrande della
Scala; in essa verrà proposta per il poema un’interpretazione basata non
più sull’allegoria dei poeti ma su quella dei teologi. La Commedia, stando a
quanto ci dirà Dante, non va considerata semplicemente come una «bella
menzogna», ma andrà letta con strumenti intepretativi simili a quelli che si
applicano alle Sacre Scritture. Una novità, questa, che ha straordinarie
implicazioni sull’interpretazione complessiva del poema, e che sarà
possibile chiarire solo approfondendo lo studio del capolavoro.

CONVIVIO II, XXII

Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da


procedere a la esposizione allegorica e vera. E però, principiando
ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la
mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta
tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo
alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide,
poi che né ’l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che
alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello
non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato,
consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro
libro, nel quale, trattando de l’Amistade, avea toccate parole de la
consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione
amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la
prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v’entrai tanto entro,
quanto l’arte di gramatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea
fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea,
sì come ne la Vita Nuova si può vedere. E sì come essere suole che
l’uomo va cercando argento e fuori de la ’ntenzione truova oro, lo
quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che
cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio,
ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando,
giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di
queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta
come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se
non misericordioso; per che sì volontieri lo senso di vero la mirava, che
appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad
andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li
religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo,

forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo


suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io,
sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo,
quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta
canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose: però
che de la donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare
alcuna palesemente po[e]tare; né li uditori erano tanto bene disposti,
che avessero sì leggiere le [non] fittizie parole apprese; né sarebbe
data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si
credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva
di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel
movete. E perché, sì come detto è, questa donna figlia di Dio, regina di
tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi
movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l’ordine
trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera
esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello
ch’ella ’ntende, per la passata sposizione questa sentenza ha
sufficientemente palese.
3) Il terzo trattato commenta la canzone AMOR CHE NE LA MENTE MI
RAGIONA, una lode della donna gentile, allegoria della filosofia. Definisce
AMORE nei suoi diversi gradi di manifestazione. Vi sono digressioni sul
tempo, i movimenti celesti e la DIVINA BONTADE che investe ogni cosa.

4) Il quarto trattato commenta LE DOLCI RIME D’AMOR CH’IO SOLIA, una


diretta riflessione dottrinale, dopo aver giustificato l’abbandono delle rime
d’amore. Prende posizione sulla disputa su nobiltà ed autorità imperiale.

Il Convivio fu lasciato interrotto perché Dante si dedicò alla Divina Commedia.

5. IL DE VULGARI ELOQUENTIA

Dante fa per la prima volta uso di una prosa latina legata ai modelli della
trattatistica retorica, senza intenti divulgativi, ma solo per convincere i dotti del
valore del volgare, che si apprende senza bisogno di studio.
Dante ripercorre una storia universale della lingua, partendo da quando Dio
diede agli uomini il beneficio di una lingua universalmente comprensibile.
Con la distruzione della Torre di Babele, simbolo di superbia dell’uomo che
voleva raggiungere Dio, Dio confuse le lingue come punizione, e gli uomini non
furono più in grado di comunicare.
Qualcosa di sacro restò solo nell’ebraico.
I popoli che parlavano le lingue fondamentali erano sparpagliati.
Nell’area greca attraverso la KOINE si creò il greco.
Nell’area latina si creò il latino.
In Europa meridionale si stabilirono 3 lingue diverse ma imparentate tra loro.
Il d’OIL e il d’OC erano parlate in Francia.
In Italia si parlava la lingua del SI.
A queste lingue corrispondono altrettante letterature.
Un’analisi particolare è volta al volgare italiano. Dante ne analizza 14,
chiedendosi quale di questi possa essere il più illustre, ma nessuno sembra
esserlo. Il volgare illustre doveva essere CARDINALE, AULICUM, CURIALE.
Il secondo libro mostra un rapporto più stretto con le ARTES DICTANDI et
POETRIAE.
La forma più nobile è quella della canzone.
Al volgare illustre conviene lo stile tragico, alla commedia il volgare umile.

6. LA MONARCHIA

È un trattato in latino diviso in 3 parti, che discute della polemica politico-


giuridica sul rapporto tra Impero e Papato. Dopo l’esilio, Dante vuole difendere
l’Impero. Parte dai principi generali per giungere a verità particolari e
circostanziate, come nei sillogismi aristotelici, e si sente l’influsso
dell’averroismo. È essenziale il rimando alla cultura latina classica e alle Sacre
Scritture. Sono state formulate due interpretazioni.
La discordanza si lega alla difficile datazione dell’opera.
Secondo alcuni fu scritta successivamente al Convivio, secondo altri al tempo
della discesa di Arrigo VII, secondo altri ancora mentre scriveva il Paradiso.
Il primo libro fa leva sulla necessità della monarchia universale.
Il fine dell’umanità è di mettere in pratica l’intelletto, di avere pace universale e
governo stabile, che detti giustizia unica ed imparziale.
Il secondo libro mostra l’origine divina dell’Impero Romano.
L’unificazione fu voluta da Dio per far in modo che la parola di Cristo si diffonda.
Il terzo libro affronta il rapporto tra Papato ed Impero.
Dante afferma che l’autorità imperiale derivi da Dio, mentre al Papa spetta di
condurre gli uomini alla vita eterna.
All’imperatore spetta guidarli verso la felicità temporale.

7. LE 13 EPISTOLAE

Sono lettere scritte in latino, che mostrano la grande abilità di Dante nell’ ARS
DICTANDI, attraverso artifici retorici e varie forme del CURSUS.
Spesso raggiunge toni accesi per portare il destinatario ad un confronto con la
fine, con la realizzazione di giustizia. Sono perlopiù lettere politiche, che
rifiutano cautele ed ipocrisie.

COMMENTO EPISTOLA A CANGRANDE

Dante Alighieri, esiliato da Firenze, venne accolto da Bartolomeo della Scala nel
1304, quando Cangrande era ancora bambino (anche se già ne tesseva le lodi), e
tornò a Verona a soggiornare nella corte di Cangrande solo più tardi, dal 1312 al
1318: egli loda quindi la clemenza e la generosità di Bartolomeo e Cangrande nei
versi del XVII canto del Paradiso. Nella prima parte del canto Dante scrive del
suo lungo peregrinare da una corte all'altra, alla ricerca di un rifugio e del
sostentamento, arrivando quindi a parlare dell'accoglienza che riceve nella corte
scaligera, un luogo privilegiato rispetto alle altre tappe dell'esilio, passate in
silenzio: in particolare loda il soggiorno presso Cangrande, a cui dedica sei delle
otto terzine dell'episodio scaligero.
Il Cacciaguida, trisavolo di Dante, funge nel canto da profeta e predice (per lo più
post eventum) le magnificenze del fanciullo di nove anni, magnificenze che
ovviamente Dante conosceva. Ma alle magnificenze precedenti ne aggiunge di
nuove, consistenti «in cose/incredibili a quei che fier presente», incredibili
anche per coloro che ne saranno spettatori, ma su queste il Cacciaguida pone a
Dante l'obbligo di non rivelarle, anche se nello stesso momento dice di fissarsele
bene in mente. Quest'ultima profezia, al contrario delle precedenti, è ante
eventum, cioè non riguarda ciò che Cane ha già fatto, ma è una vera e propria
profezia, dato che tra il 1312 ed il 1318 (anno di stesura del canto) Cangrande
non compì imprese particolarmente eccezionali.
Dunque, Dante, già si aspettava dal Signore veronese cose eccezionali.
Cacciaguida accenna solo indirettamente al soggiorno presso Cangrande, in
merito all'accoglienza, con la frase «A lui t'aspetta e a' suoi benefici», anche se
nei dodici versi precedenti e nei cinque successivi, parla esclusivamente di lui,
nonostante l'episodio sia presentato come il primo soggiorno di Dante.
Il Gran Lombardo è talmente ospitale da essere identificato con la cortesia, la
quale gli aprirà le porte della dimora del Lombardo e gli mostrerà un tale
riguardo che gli risparmia anche la fatica «del chieder». Oggi gli studiosi sono
concordi nel vedere in Bartolomeo della Scala il Gran Lombardo dei primi versi,
anche se il fatto di portare l'aquila imperiale sullo stemma ha fatto pensare si
trattasse di Alboino, dato che solo nel 1311 venne affidato il vicariato imperiale
ad Alboino e Cangrande, che poterono quindi fregiarsi dell'aquila nello stemma.
Però Albertino Mussato scrive in un testo che già prima del vicariato gli Scaligeri
solevano fregiarsi dell'aquila, riabilitando quindi la tesi che Dante si rivolga a
Bartolomeo. Comunque, se Dante dà risalto all'ospitalità della prima accoglienza,
è solo per via dell'accoglienza ricevuta da parte di Cangrande: l'identità del Gran
Lombardo è infatti tenuta vaga nel canto proprio perché, nell'economia
dell'episodio, ha solo una funzione "drammaturgica", utilizzata per consentire
l'entrata in scena di Cangrande, che, a soli nove anni (nel momento della
visione), non sarebbe potuto apparire da solo.
Nel verso 88 Cacciaguida preannuncia, tra l'altro, i benefici che Dante avrebbe
ricevuto da Cane, benefici che lo stesso Dante dichiara di avere ricevuto nella
epistola di dedica del Paradiso a Cangrande, dove lascia inoltre intendere che
anche molti altri avevano beneficiato della sua bontà. Secondo Dante inoltre,
essendo Cangrande nato nel marzo 1291, era impressa su di lui la stella forte:
quella di Marte, che porta il nome del dio della guerra. Essendo nato sotto quella
stella il fanciullo avrebbe compiuto importanti imprese guerresche.[95] E non
solo, infatti la liberalità di Cangrande, anche nell'ambito politico e sociale, viene
esplicata da Dante nei versi «per lui fia trasmutata molta gente,/cambiando
condizion ricchi e mendici»: la trasmutazione, sociale e politica, è il centro ideale
della terzina. Ed infine, nell'ultima terzina, Cacciaguida intima a Dante di tenere
per sé la profezia ante eventum.
Dante visse spesso con la preoccupazione dei suoi problemi economici, ma
venne generosamente aiutato da Cangrande, il quale, tra l'altro, leggeva
affascinato le sue opere, in particolare il Paradiso. E quindi Dante, con una
epistola, gli dedicò proprio quella cantica, la preferita di Cane. L'encomio di
Cangrande è così esaltato nella lettera che alcuni critici hanno ipotizzato, senza
però sicuri fondamenti, che fosse questo il personaggio prefigurato da Dante nel
"veltro" del canto I dell'Inferno. È in particolare Aroux ad identificare Cane nel
veltro, vedendovi una allusione: il veltro sarebbe il cane da caccia nemico della
lupa romana. Il fatto che, come ha scritto Dante, il veltro caccerà la lupa di città
in città, finché la ricaccerà nell'inferno, può essere visto come la vittoria
ghibellina sulle città guelfe.
In realtà questa ipotesi non è generalmente accettata. Fu tra l'altro, molto
probabilmente, grazie al denaro di Cangrande che Dante poté scrivere il De
Monarchia, di cui Cangrande fu in parte ispiratore ed influenzatore. Secondo
Boccaccio, inoltre, Dante era solito inviare a Cangrande dai sei agli otto canti del
i iDante e Cangrande erano ormai amici stretti, anche se le visite, dopo che era
partito da Verona nel 1318, furono più brevi.

8. OPERETTE MINORI

Dante scrive le EGLOGE in esametri latini in risposta alle epistole in versi del
grammatico GIOVANNI DEL VIRGILIO, che affermano la dignità della poesia in
volgare, attraverso il modello delle BUCOLICHE di VIRGILIO.
Va ricordato il trattato QUESTIO DE AQUA ET TERRA, trascrizione di una lezione
cosmologico-filosofica di impostazione scolastica tenutasi a Verona nella
chiesetta di Sant’Elena durante una breve visita dopo il trasferimento a Ravenna.

FIORE

E QUANDO SOL’ A SOL CON LUI SARAI,


SÍ FA CHE TU GLI FACCI SARAMENTI
CHE TU PER SUO DANAR NON TI CONSENTI,
MA SOL PER GRANDE AMOR CHE TU IN LUI HAI.
SE FOSSER MILLE, A CIASCUN LO DIRAI,
E SÍ ’L TE CREDERANNO, QUE’ DOLENTI;
E SACCHE FAR SÍ CHE CIASCUNO ADENTI
INDIN CH’A POVERTÀ GLI METTERAI.

CHE TU SE’ TUTTA LORO DE’ GIURARE;


SE TI SPERGIURI, NON VI METTER PIATO
CHE DIO NON SE NE FA SE NON GHIGNARE,

CHÉ SIE CERTANA CH’E’ NON È PECCATO,


CHI SI SPERGIURA PER VOLER PELARE
COLUI CHE FIE DI TE COSÍ INGANNATO.

9. LA DIVINA COMMEDIA

La Commedia fu definita Divina da Boccaccio. È un poema dalla rigorosa


struttura formale basata sul numero, che nel Medioevo significava ordine ed
armonia, segno di Dio: 1come Dio, 3 come la Trinità, uno è il poema, tre le
cantiche fatte di 33 canti l’una più un canto introduttivo che porta il conteggio a
100, numero perfetto. La metrica è in terzine endecasillabe a rima incatenata.
La datazione è controversa. L’ipotesi di Boccaccio secondo cui i primi 7 canti
furono scritti a Firenze prima dell’esilio è stata accantonata.
Probabilmente l’Inferno è stato scritto tra il 1306 e il 1309.
Il Purgatorio è stato scritto tra il 1310 e il 1314.
Il Paradiso è stato scritto tra il 1315 e il 1321, parte a Verona, parte a Ravenna.
La definizione dantesca di Commedia fu data nell’Epistola XIII, con cui il poeta
dedica il Paradiso al signore di Verona.
Si legge una duplice giustificazione: la prima è relativa alla materia trattata,
accostabile alla Commedia, opposta alla Tragedia, con un lieto fine che si oppone
ad un orrido inizio. La seconda è relativa alla forma, che richiama la
contrapposizione medievale dello stile COMICUS allo stile TRAGICUS, ad indicare
la scelta del volgare, che stentava ad essere considerata lingua d’arte.
Nell’epistola si dice che il contenuto dell’opera fosse lo stato delle anime dopo la
morte, poiché il fine della vita umana si compie nell’aldilà.
Il filo conduttore è il viaggio compiuto da Dante, non solo un viaggio fisico, ma
anche un viaggio spirituale della morale e della coscienza.
La Commedia è un poema enciclopedico, un enorme contenitore del sapere
dell’epoca di Dante, poiché in esso si legge ciò che Dante sa.
Nel percorso confluiscono la Bibbia, il pensiero di Aristotele e la filosofia
scolastica del Duecento. Dante è il protagonista della Commedia, e assieme a lui
tutta l’umanità di cui si fa portavoce. Dante è un protagonista privilegiato:
appena uscito dalla selva oscura in suo soccorso va Virgilio (allegoria della
conoscenza) mandato da Beatrice stessa. Le 3 beate lo assisteranno durante il
suo percorso: Beatrice, Santa Lucia e Maria.
Il viaggio inizia la settimana pasquale del 1300 all’alba del venerdì santo 8 Aprile
e termina mercoledì santo 13 aprile. Il 1300 era l’anno del primo giubileo della
storia. È il trentacinquesimo anno della vita di Dante, il mezzo della vita umana.
Dante ha il compito quasi profetico di rivelare le verità da lui apprese, il senso
cristiano della vita ed i valori di fede ed etica ormai smarriti.
Apparentemente è un viaggio lineare, ma in realtà è un viaggio di ritorno
all’Eden, dove ebbe inizio la vita umana con Adamo.
La nostra volontà tende al bene, ma è soggetta alla debolezza delle passioni.
Il nostro intelletto tende al vero, ma qualora non sia illuminato dalla fede e dalle
Sacre Scritture, tende al peccato.
Inferno e Purgatorio sono i due tempi di liberazione dell’anima dal peccato ed il
raggiungimento della salvezza. Il Purgatorio è la santificazione delle capacità
naturali ad opera della grazia. Fede, speranza e carità sono solo dei cristiani e
praticabili nella Chiesa. La guida è sempre Virgilio-ragione, ma una guida
imperfetta perché non conosce il percorso del Paradiso, che rappresenta
l’espiazione dei peccati, la liberazione dall’errore.
La guida sarà infatti Beatrice, la fede, la teologia.
Dante nell’Inferno medita, talvolta piegato a umana compassione per i dannati,
talvolta è aspro e violento nei loro confronti.
Il Purgatorio è la più umana delle cantiche, e dominano valori ed affetti profondi:
sono i dannati stessi a richiedere la pena al fine di espiare i peccati.
Dante questa volta è partecipe, di una condizione che sarà anche la sua, come
dice all’amico Forese Donati.

L’INFERNO
La narrazione inizia con Dante disperso nella selva, oscura per via dell’assenza
della luce divina. Mentre tenta di risalire il pendio del colle viene interrotto dalle
tre fiere, che rappresentano i vizi umani: la lonza rappresenta la lussuria, il leone
rappresenta la superbia e la lupa rappresenta l’avarizia.
In suo soccorso giunge Virgilio per desiderio di Beatrice.
Dante viene a conoscenza del male e delle punizioni divine grazie al viaggio.
L’Inferno si apre in una voragine nei pressi di Gerusalemme, e scende con una
forma ad imbuto verso il centro della terra. È diviso in cerchi concentrici che
accolgono i dannati in base alle loro colpe.
I cerchi infernali sono 9, preceduti dall’Antinferno che ospita gli ignavi, rifiutati
da Dio e dal demonio.
Nel primo cerchio si trova il LIMBO, che accoglie le anime di coloro che non
hanno potuto ricevere il battesimo, di coloro che sono nati prima di Cristo, a
cominciare dai grandi dell’antichità.
I peccati vengono assegnati secondo la legge del contrappasso.
Via via che si scende, sono stati commessi peccati sempre più gravi.
Vi sono gli incontinenti, gli eretici, i violenti e i fraudolenti, che hanno piegato
l’intelligenza al male. Molti peccati di frode sono puniti nell’ottavo cerchio, detto
MALEBOLGE, diviso in 10 fosse concentriche, mentre al nono dimorano i
traditori nella: CAINA, ANTENORA, TOLOMEA E GIUDECCA.
Conficcato nel ghiaccio al centro ella Terra c’è Lucifero, re dell’Inferno.
La cantica è dominata da una lacerante visione negativa.
Un uomo ancora vivo, destinato a tornare sulla Terra e salvarsi, guarda e sfiora
le anime condannate in eterno. Alcune volte si commuove per come essi hanno
agito, altre li contempla in modo distaccato e feroce.
Il regno del demonio è quello della dissoluzione morale e civile del mondo
contemporaneo.
COMMENTO CANTO I INFERNO
Il canto I dell'Inferno, che funge da proemio di tutta l'opera contiene i
presupposti della straordinaria esperienza spirituale che Dante personaggio ha
compiuto e che Dante autore intende narrare, poiché se essa è stata «amara e
paurosa» all'inizio, ha poi condotto al «bene».
La narrazione contiene quindi due livelli temporali: quello del viaggio del
personaggio-pellegrino, al passato (mi ritrovai, era, mi trovai ecc.), quello
dell'impegno del poeta-uomo, al presente (è, rinova, non so), e quello del piano
della riflessione su di essa e della narrazione, al futuro (dirò).
Il legame tra i due livelli è costituito dalla figura del protagonista che conserva
tutte le caratteristiche biografiche e psicologiche dell'uomo, di Dante Alighieri
insomma, poeta fiorentino, vissuto in un determinato contesto storico e
culturale e con determinate esperienze artistiche e morali.
Il linguaggio usato è quello del simbolismo medievale, privo di preoccupazioni di
coerenza narrativa e di corrispondenza realistica. Il linguaggio allegoricamente
permette poi di passare agevolmente dal piano dei significati individuali a quello
dei valori universali: la lupa ad esempio può rappresentare una tentazione
intercorsa nella vicenda spirituale di Dante, ma certamente rappresenta
l'ostacolo morale che insidia la vita di molti e causa la rovina di uomini e paesi.
L'orizzonte si allarga così all'umanità intera o più specificamente alla realtà
storico-politica nota a Dante e presente alla sua riflessione, in cui sceglierà
Virgilio come personaggio-simbolo: egli rappresenta nella cultura medievale la
voce più alta, per elevatezza stilistica e profondità del messaggio.
Perché Dante si ritrovi in una selva e dove essa sia non ha importanza quanto il
fatto che essa simboleggi la dimensione oscura e intricata dello spirito in cui si è
persa la luce della verità e la guida della ragione.
L'azione poi si sposta sul pendio desertico che conduce al colle, la cui cima è
illuminata dal sole.
Siamo nella notte tra il 7 e l'8 aprile 1300 (Venerdì Santo), o secondo altri
commentatori tra il 24 e il 25 marzo 1300 (anniversario dell'Incarnazione di
Gesù Cristo).
Nel mezzo del cammin di nostra vita vuol dire a trentacinque anni, quando un
uomo si trova nel pieno dell'età; si riteneva infatti che la durata media
dell'esistenza fosse di sessanta anni. Quindi l'autore nato nel 1265, l'inizio del
viaggio si colloca nel 1300.
Compare una determinazione temporale: è l'alba di una giornata di primavera,
quando il sole si trova in Ariete.
Un'angoscia mortale attanaglia l'uomo-Dante: nel pieno della maturità gli accade
di sentirsi sbalzato in un mondo dai contorni stravolti, in cui domina la notte
dell'anima. È come sognare un brutto sogno con la tragica consapevolezza che
tutto è reale e non ci sarà alcun risveglio tranquillizzante. L'uomo è perso, non
riesce a comprendere come sia finito in una situazione pressoché irrimediabile e
cerca invano una via d'uscita.
Un barlume di speranza finalmente s'affaccia e sembra farsi consistente nel
recupero di immagini positive, quando Dante riesce a scorgere in alto, sopra di
sé, il cielo che si tinge di rosa. Il panico è dominato e il viaggiatore contempla
l'oscurità sconfitta con lo stato d'animo di chi è miracolosamente scampato a
un'insidia mortale. Ma si tratta di una vana illusione: pericoli ancor più gravi
sovrastano e ricacciano l'uomo nella primitiva disperazione. Sono gli istinti
indomabili, le passioni travolgenti che incalzano senza tregua.
La selva oscura incombe ancora sul capo del pellegrino. Le forze stanno per
abbandonare Dante: l'uomo, solo con le sue angosce, crollerebbe se la voce della
ragione, sebbene debole per essere stata troppo a lungo silenziosa, non si
mostrasse nella figura del poeta Virgilio, accorso in suo aiuto. Assistito dalla
Grazia divina, Virgilio è inviato da Dio a illustrare un percorso di conoscenza
razionale, è la guida a cui affidarsi in totale abbandono filiale. Da lui Dante
apprende come la lupa sia la belva feroce più pericolosa: animale non mai sazio,
si lega, ammaliatore, a tanti uomini di potere e non. Occorrerà, per sconfiggerla,
l'arrivo del veltro.
L'annuncio profetico placa Dante che, indotto ormai a sperare nell'appoggio di
Virgilio, gli chiede di guidarlo nel lungo viaggio di conoscenza e di espiazione che
lo condurrà alla pace. Il bene non si acquisisce di colpo, ma è dura e faticosa
conquista: la consapevolezza è il premio di chi coraggiosamente si interroga e
sinceramente si analizza. La lonza, simbolo della lussuria, il leone, simbolo
dell'orgogliosa superbia che induce alla violenza, la lupa, emblema dell'avidità,
esprimono in maniera tangibile la forza degli istinti e l'impossibilità di
fronteggiarli senza strumenti adeguati. Questi appunto Dante deve forgiare e il
viaggio che il poeta sta per compiere dentro le viscere della terra e nelle pieghe
del suo inconscio è un percorso di autoconoscenza e purificazione, nella linea di
una progressiva autonomia interiore. Capire il male è liberarsene e scoprire che,
con tutte le sue allettanti attrattive, in realtà esso lega inesorabilmente l'uomo
alla sua finitezza e ne decreta la perdizione. L'uomo nuovo, pertanto, dovrà
nascere dalle lacrime e dalla sofferenza di quello vecchio che accetta di morire.
COMMENTO CANTO VI INFERNO
Il sesto canto dell’Inferno dantesco è ambientato nel terzo girone infernale, dove
dimorano le anime che si sono macchiate in vita del peccato di gola. Dante vi
giunge dopo essersi risvegliato dal mancamento avuto alla fine del canto
precedente, in seguito all’incontro e al dialogo con Paolo e Francesca. La
descrizione che il poeta ci fornisce di questo cerchio cancella qualsiasi pathos
nei confronti delle anime che sono qui recluse (se non ai vv. 58-59),
opponendosi in modo evidente all’atteggiamento di pietà e di compartecipazione
umana che dominava nel canto quinto. Qui le anime dei golosi giacciono a terra,
con il viso nel fango, e sono torturati da una pioggia incessante e dalle angherie
del guardiano del girone, il malefico Cerbero. Costui è un personaggio
demoniaco, dotato di tre teste canine, che graffia e fa a brandelli con i suoi artigli
le anime dei golosi. Virgilio riesce a tenere a bada Cerbero gettando del fango
nelle sue tre fauci, e così Dante e il suo maestro possono transitare liberamente
tra le anime sofferenti. Un’anima si alza dalla massa informe e fangosa e si
rivolge a Dante; è Ciacco, un concittadino del poeta, probabilmente chiamato
così a causa della sua ingordigia. Dante lo interroga sul destino della loro città,
continuamente divisa nella lotta fra Guelfi e Ghibellini, e Ciacco profetizza lo
scontro tra le due fazioni guelfe dei Bianchi e dei Neri, e il prevalere finale dei
secondi. Il tema è allora quello politico, come per ogni sesto canto di ogni
cantica: il dannato descrive con toni cupi e profetici il modo in cui i fiorentini
"verranno al sangue" (v. 65), alludendo agli scontri tra fazioni del 1300-1301.
Ciacco aggiunge poi che in città non c’è quasi presenza di persone meritevoli o
che possano cambiare il triste destino di lotta interna, a causa delle "tre faville"
(v. 75) della superbia, dell'invidia e dell'avarizia. Dante gli chiede dove si trovino
alcuni personaggi fiorentini illustri, e Ciacco risponde che questi (tra cui
Farinata e Iacopo Rusticucci), colpevoli dei peccati più orribili, si trovano nei
gironi più profondi dell’Inferno. Ciacco torna col viso nel fango, dopo aver
chiesto a Dante di ricordarlo una volta fatto ritorno tra i vivi. Virgilio spiega al
poeta che Ciacco non solleverà più su il viso dalla poltiglia in cui giacerà fino al
Giorno del Giudizio, a seguito del quale i suoi affanni e il suo dolore cresceranno
ulteriormente. I due protagonisti camminano sopra le anime - come segno di
disprezzo nei loro confronti - e continuano il loro viaggio nell’oltretomba,
arrivando alle porte del quarto girone, dove s’imbattono in Pluto, “il gran
nemico”, demonio della ricchezza. Si dice che i termini “guelfo” e “ghibellino”
derivino dalle opposte grida di battaglia (rispettivamente, “Hye Welff!” e “Hye
Waiblingen!”) pronunciate per la prima volta dagli eserciti dei duchi di Baviera
(guelfi) e degli Hohenstaufen (ghibellini) nel corso della battaglia di Weinsberg
per la corona imperiale, dopo la morte senza eredi di Enrico V. Se questa
spiegazione è certamente suggestiva, è più facile ipotizzare che i termini
nacquero successivamente e per individuare due indirizzi politici opposti: il
primo, quello dei Ghibellini, si faceva sostenitore della tradizione imperiale ed
osteggiava il potere papale; il secondo, guelfo, sosteneva invece il potere
temporale del papato, e la sua intrinseca superiorità rispetto alla corona
imperiale. Questa polarizzazione tra sostenitori dell’Impero e sostenitori del
Papa caratterizzò buona parte della storia europea tra XII e XIV secolo; in Italia il
conflitto si radicò anche nelle contese tra le diverse città (tendenzialmente
guelfe furono Milano, Padova, Bologna, Firenze e Lucca, mentre ghibelline erano
Pisa, Siena ed Arezzo) o all’interno dei comuni stessi. Firenze è l’esempio più
celebre di questa lotta intestina: qui la fazione ghibellina venne sconfitta e
cacciata dopo la battaglia di Campaldino del 1289. Successivamente, in seguito
all’espulsione di alcuni guelfi da Pistoia, esiliati proprio nel capoluogo toscano, si
generò una divisione all’interno dello stesso campo guelfo: i “bianchi”
(rappresentati dalla famiglia dei Cerchi e sostenitori della necessità di un potere
imperiale che si affiancasse a quello papale) e i Neri (capeggiati dalla famiglia dei
Donati 1 ed intransigenti nel sostenere il primato del Papa).
Il primo maggio del 1300 (con i cosiddetti “fatti di Calendimaggio”) si ebbe lo
scoppio delle ostilità tra “bianchi” e “neri”, che portarono anche all’esilio di
Guido Cavalcanti. L’anno successivo, in giugno, i “neri” vennero cacciati da
Firenze per aver tramato segretamente per eliminare gli avversari politici;
tuttavia, già nel novembre del 1301 l’arrivo in città di Carlo I di Valois, in seguito
alle richieste del Papa,sposta nuovamente gli equilibri politici. I “neri” rientrano
in città, si impossessano del potere e, nel giugno 1302, emettono condanne
all’esilio e a morte, che colpiscono Dante stesso. Da quel momento, il poeta non
potrà più tornare a Firenze.

COMMENTO CANTO XXVI INFERNO


Il canto XXVI si svolge nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, dove si trovano i
consiglieri di frode, le cui anime sono avvolte da una fiamma perpetua. Tra
questi Dante e Virgilio incontrano Ulisse, reo di aver trascinato nel suo "folle
volo" (aver attraversato le colonne d'Ercole, limite invalicabile dell'uomo) anche
i suoi compagni di viaggio. Ulisse racconta così la sua ultima avventura, che non
è tramandata dalla tradizione classica dell'Odissea (che Dante non conosceva
direttamente), ma da una tradizione secondaria medievale.
Cortellessa pone un parallelismo tra il viaggio di Ulisse, che con i suoi compagni
si dirige sulla "picciola nave" verso la montagna del Purgatorio e il viaggio di
Dante, che si sta recando proprio al Purgatorio. Ulisse è avvolto nelle fiamme
insieme a Diomede, come Virgilio spiega a Dante, perché insieme avevano ordito
l'inganno del Cavallo di Troia. Dante è desideroso di parlare con i due antichi
eroi, e prega per cinque volte Virgilio, che gli promette di rivolgere alle due
anime delle domande, purché Dante taccia. Virgilio si pone, quindi, da interprete
tra Dante e le due figure epiche. La fiamma più grande si muove e dal fuoco
cominciano a uscire delle parole. Qui inizia il racconto dell'ultimo viaggio di
Ulisse. La lussuria e la superbia sono due peccati che Dante evidentemente ben
conosce e non è un caso che i canti dell’Inferno dedicati a questi due peccati
siano tra i più celebri; in particolare, sono legati alla parola e alla capacità di
parlare, all’elocuzione, alla capacità degli essere umani di ascoltare: leggere le
parole, come nel caso di Francesca, o parlare in pubblico, con le orazioni di
Ulisse. Siamo nel XXVI canto, nell’ottava bolgia, nell’ottavo cerchio dell’Inferno
che è dedicato ai consiglieri di frode; il peccato di Ulisse punito in questo canto,
infatti, consiste nell’aver trascinato la “compagnia picciola” dei suoi compagni di
viaggio nel suo folle volo. Il tema del viaggio è naturalmente la cornice narrativa
dell’intera Commedia. Come si dice in retorica, c’è una mise en abîme, c’è un
viaggio dentro il viaggio, che è appunto il viaggio di Ulisse. Il viaggio di Ulisse è lo
specchio del viaggio di Dante, infatti in questo canto Ulisse ci viene narrato in
un’avventura che non è tra quelle tramandate dall’Odissea omerica (Dante non
poteva conoscere il testo direttamente perché non poteva essere giunto a lui e
non poteva leggerlo in greco), ma è una tradizione secondaria di un viaggio
ulteriore che Ulisse avrebbe affrontato dopo il ritorno a Itaca, quindi in tarda età,
coinvolgendo i suoi antichi compagni in una nuova avventura oltre le colonne
d’Ercole, quindi nell’Oceano Atlantico. Dante segue questa tradizione medievale:
l’immaginazione che inserisce e sovrappone la figura di Ulisse su quella di Dante
è che quest’ultimo viaggio di Ulisse, quello in cui incontra il suo destino mortale,
è indirizzato verso la montagna del Purgatorio. Lo stesso Dante si sta recando su
quella montagna perché siamo negli ultimi canti dell’Inferno; presto, con un
capovolgimento di fronte, quel moto che va verso il basso tipico dell’Inferno, si
capovolgerà in un moto ascensionale, quello sulle balze del Purgatorio, della
montagna del Purgatorio che appare negli ultimi versi del canto di Ulisse. In
questo caso Virgilio è una guida ancora più opportuna e salda che nel resto della
narrazione infernale. In particolare spiega che le anime dei condannati, in questo
caso, sono avvolte all’interno di una fiamma e che questa fiamma interrogata da
Virgilio, in realtà, ha due anime, due corpi che simboleggiano i corpi di Ulisse e
Diomede: nella tradizione seguita da Dante sono i colpevoli del grande inganno
risolutivo nella vicenda dell’Iliade, ovvero l’artificio del cavallo di Troia. Dante si
rivolge a Virgilio affinché faccia non solo da tramite, ma anche da interprete
poiché Dante non conosce di prima mano i personaggi dell’antica Grecia, i
personaggi provenienti dall’immaginario greco. Dante utilizza Virgilio come
mediatore, esattamente come in effetti sono i poeti latini quelli da cui derivano
le tradizioni che interpreta in questo canto: non solo Virgilio, ma anche, e
soprattutto, Stazio come fonti del XXVI canto dell’Inferno. Con la concretezza
storica e geografica di Dante, in questo caso soprattutto geografica, ci viene
descritto il punto esatto in cui sarebbe passata quest’ultima avventura di Ulisse:
le colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra, tra la Spagna e il Marocco, che
secondo il sistema geografico e morale medievale simboleggiava il limite
dell’universo conosciuto che non andava oltrepassato. L’ultima esperienza che
l’avventuriero può compiere con i suoi compagni, “la compagnia picciola”, è
quella del mondo senza gente, dell’aldilà, della montagna del Purgatorio;
secondo le credenze che Dante segue, si troverebbe al centro dell’Emisfero
Australe, cioè all’estremo limite meridionale del globo terrestre, che può essere
raggiunto solo oltrepassando le colonne d’ercole e attraversando l’Oceano
Atlantico. La scoperta della montagna del Purgatorio, l’orizzonte di questo
viaggio estremo, desta la felicità dei viaggiatori, ma questa felicità si muta subito
in pianto perché dalla stessa montagna proviene la tempesta che infine causa il
naufragio e la morte dei viaggiatori. La morte di Ulisse e dei viaggiatori avviene
con un turbine, cioè con un gorgo, con un abisso che li attrae verso il basso, ma
se pensiamo a come si concluderà il Paradiso con l’immagine di Dante che, di
fronte all’immagine divina, a sua volta ruota e si eleva verso la salvezza
transumana, vediamo che la perdizione, la condanna per la superbia
intellettuale, per la volontà di conoscere oltre i limiti che alla conoscenza sono
stati posti, è l’altra faccia della salvezza religiosa, della visione di Dio sulla quale
si conclude il poema, il viaggio di Dante.

IL PURGATORIO
Dal centro della Terra, Dante e Virgilio risalgono verso la superficie. Si trovano
agli antipodi di Gerusalemme, dove su di un’isola in mezzo all’Oceano si trova la
montagna del Purgatorio, fatto di 7 gironi che cingono a livelli diversi la
montagna. In ogni girone si espia uno dei 7 peccati capitali, disposti dal basso
verso l’alto in ordine di gravità: superbia, invidia, iracondia, accidia, avarizia,
peccati di gola, lussuria. I sette gironi sono preceduti da un Antipurgatorio dove
si trovano: chi è morto per una condanna della Chiesa e coloro che si son pentiti
solo in fin di vita. Solo dopo una lunga attesa possono espiare i peccati.
I peccatori non dimorano in un solo girone, ma li attraversano, sostando più o
meno a lungo in ciascuno di essi. Il percorso è scandito da alcuni schemi rituali.
Un angelo controlla il passaggio da un girone all’altro, ed ognuno rappresenta la
virtù opposta a quella punita nel girone precedente, e ne cancella il segno.
Anche qui vige la legge del contrappasso, ma le pene sono sopportate con
serenità. I vari rituali sono scanditi dal tempo. I gesti delle anime sono guidati
dalla voglia di vedere Dio e dall’impazienza.
Il cammino è possibile solo di giorno, di notte il movimento s’arresta.
Anche Dante compie il cammino di espiazione, condividendo le esperienze delle
anime., che pongono in primo piano la fiducia e l’amicizia, la nostalgia per gli
affetti familiari e la vita terrena.
I canti VI e XVI sono dedicati al tema politico e alla situazione dell’Italia e delle
corti italiane. Numerose sono le figure segnate dalle passioni e dalla sofferenza:
Manfredi, Pia dei Tolomei, Sordello, Stazio, Forese Donati.
Il colloquio con le anime diventa occasione di dialogo con se stesso, con la
propria ansia di risalire e purificarsi.
Al culmine dell’ascesa, Dante giunge al Paradiso terrestre. Appare Beatrice,
mentre Virgilio scompare all’improvviso. Beatrice lo rimprovera per i suoi
traviamenti. Vede una processione che sintetizza allegoricamente la storia
dell’umanità e della Chiesa. Dopo l’immersione nei fiumi Letè ed Eunoè, si trova
puro e disposto a salire alle stelle.

COMMENTO CANTO I PURGATORIO


Dante apre il primo canto del Purgatorio con un proemio alle Muse ed in
particolare a Calliope, affinchè questa lo aiuti e lo sostenga in questa impresa;
dopo il passaggio all’Inferno il poeta può finalmente contemplare il cielo e le
stelle, tra cui vede le quattro virtù cardinali, ammirate prima solo da Adamo ed
Eva; di seguito appare, improvvisamente, Catone, con il quale i due pellegrini
hanno un colloquio che termina con le indicazioni date a Virgilio per l’abluzione
del volto di Dante e la recinzione con il giunco prima di iniziare la salita al
monte. “Per correr miglior acque alza le vele | omai la navicella del mio ingegno”
(Purgatorio, canto I, 1-2): i primi due versi dell’intera cantica sono assai
significativi per presentare tutto il nuovo regno visitato da Dante e Virgilio.
Sfuggiti al “mar sì crudele” dell’Inferno (v. 3), i due stanno approdando al monte
purgatoriale, e Dante coglie l’occasione per un tributo d’onore alla tradizione
classica del poema epico (e, indirettamente, al suo maestro Virgilio), di cui
s’invoca Calliope (v. 9): i primi dodici versi del canto sono infatti una richiesta
d’aiuto alle Muse, affinché gli concedano gli strumenti stilistici ed immaginifici
adatti alla particolare situazione del Purgatorio. La novità è anche ambientale,
dato che Dante esce dalle tenebre infernali e si trova sotto un cielo per lui
assolutamente inedito, in quanto ci troviamo dall’altra parte del mondo
conosciuto. Così, le “quattro stelle | non viste mai fuor ch’a la prima gente” (vv.
23-24, e che qui simboleggiano le quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia,
Fortezza, Temperanza) fanno da scenario al primo, celebre incontro del
Purgatorio, quello con Catone l’Uticense, guida e guardiano del monte di
purificazione. Assai sintomatico è il fatto che un autore profondamente cristiano
come Dante scelga come prima figura rilevante della sua cantica un pagano, per
giunta morto suicida nel 46 a.C., dopo la sconfitta delle forze repubblicane
schierate contro Cesare nella battaglia di Utica. Tuttavia, il senso della scelta
dantesca è complesso e stratificato: il poeta infatti insiste sulla statura morale
del nobile romano, e sul suo amore per la libertà tale da indurlo al gesto estremo
di togliersi la vita. Il Catone terrestre era insomma una “figura”, una
prefigurazione di ciò che sarebbe divenuto solo nell’altra vita: l’esempio più
mirabile della libertà cristiana dagli impulsi e dalle tentazioni terrene. La
“reverenza” dell’Uticense (v. 32) è allora il tratto che guida la progressiva
cristianizzazione della sua figura, a partire dalla descrizione fisica (recuperata
dal poeta epico latino Lucano e dalla sua Pharsalia), che ne mette in evidenza la
lunga “barba e di pel bianco mista” (v. 34), su cui riflettono i raggi del sole
nascente. Le sue rampogne (vv. 40-84, e cioè l’aspro rimprovero contro coloro
che sembrano aver spezzato le “leggi d’abisso”) caratterizzano ancor meglio il
personaggio, cui Virgilio spiega subito il senso e la necessità del viaggio del suo
protetto. Dante, ancora vivo (v. 58), può attraversare i regni ultraterreni perché
è stato Dio stesso a volerlo, mandando Beatrice come sua ambasciatrice; fine
ultimo della missione è la riconquista di quella “libertà [...] ch’è sì cara, | come sa
chi per lei vita rifiuta” (vv. 71-72). Il senso profondo del cammino di Dante (e
della scelta di Catone di darsi volontariamente la morte) insomma coincidono,
come Virgilio si premura di sottolineare in versi celebri del primo canto.
Coerentemente con la ricerca di questa libertà, Dante si sottopone subito ad uno
dei molti riti di purificazione cui andrà incontro nel resto del suo cammino: sulla
spiaggia su cui si distendono i primi raggi del nuovo giorno, Virgilio (come
suggeritogli da Catone) lava ritualmente il volto del poeta e gli cinge la vita con
un ramo di giunco, simbolo di umiltà.
Da qui può così partire un nuovo itinerario esistenziale. Catone l’Uticense, figura
emblematica del primo canto del Purgatorio, non rappresenta solo un ideale
etico per Dante, ma illumina anche alcuni componenti strutturali profonde
dell’intera Commedia. È sintomatico innanzitutto che la figura del politico
repubblicano dell’antica Roma compaia anche in altre opere dantesche: il poeta
infatti parlerà di Catone anche nel quarto libro del Convivio e nel secondo del
Monarchia, in un passo del trattato politico dantesco in cui viene presentato in
un elenco di personaggi romani che avevano messo al primo posto il bene
comune e non se stessi. Un altro elemento importante che caratterizza la figura
di Catone (e che sicuramente interessa al poeta nel momento in cui lo colloca
sulla spiaggia del Purgatorio) è la sua forte coerenza morale, che per i
commentatori antichi gli derivava dalla morale stoica che professava e che per
Dante costituisce un perfetto esempio per intraprendere il lungo cammino di
ascensione al monte. Ma perché Dante sceglie esplicitamente un pagano, per
giunta suicida, come modello di virtù? Secondo Erich Auerbach, uno dei più
grandi dantisti dell’intero Novecento, la risposta sta nel concetto di “figura”,
tipico di tutta la mentalità medievale e, più in particolare, della visione del
mondo dantesca. Partendo da un’analisi storico-etimologica del termine, lo
studioso mette a fuoco il significato primo di “figura” quale “immagine”,
passando attraverso quello di “copia” per giungere alla concezione elaborata dai
Padri della Chiesa (e, sulla loro scorta, da tutta l’esegesi cristiana dei testi sacri),
per cui “figura” diventa il modo in cui un evento reale è il preannuncio o la
profezia di un altro evento futuro, che costituirà l’avveramento o adempimento
di una premessa. La concezione figurale si basa sulla necessità e la volontà di
reinterpretare tutti i fatti dell’Antico Testamento come “anticipazione” della
Rivelazione di Cristo e dell’incarnazione di Dio nell’uomo 2; in tal senso, nella
Commedia - per fare un esempio tra i tanti - Enea e Paolo di Tarso, nelle loro
discese agli Inferi, hanno prefigurato il viaggio dantesco, che porta le esperienze
precedenti ad un nuovo livello di profondità e valore. E sempre in quest’ottica
Dante ha scelto di porre come custode del Purgatorio un pagano e un suicida: il
Catone terreno, che si è tolto la vita per la libertà politica, è “figura” del Catone
ultraterreno, che è colui che, sempre per amore di “libertà” (v. 71), ha ripudiato
il peccato (come Dante, che giunge dagli Inferi) e la sua schiavitù.

COMMENTO CANTO VI PURGATORIO


Dante si trova al secondo balzo dell’Antipurgatorio, tra i morti di morte violenta;
secondo le indicazioni temporali dello svolgersi del suo viaggio ultramondano
siamo nelle prime ore dopo il mezzogiorno del giorno di Pasqua, il 10 aprile del
1300. In questo canto la figura centrale è Sordello da Goito che - in virtù
dell’affetto che dimostra nei confronti di Virgilio dopo aver saputo che anch'egli
è originario di Mantova - stimola in Dante una celebre e dolorosa apostrofe
contro l’Italia e Firenze, che costitusce il tema politico del canto.
Dante inizialmente viene accerchiato da una schiera di anime che,
comprendendo che il poeta proviene dal mondo dei vivi, chiedono con insistenza
(come gli spettatori che attorniano colui che vince al gioco dei dadi) preghiere e
suffragi dai vivi per poter aver ridotta in parte la pena che devono scontare
(segue qui un breve elenco di alcune figure del tempo riconosciute da Dante).
L'episodio, che chiude gli eventi narrati nel canto precedente, suscita nel
protagonista un dubbio, dato che Virglio, suo maestro, aveva specificato, in un
passo dell'Eneide, che è inutile qualsiasi preghiera di suffragio per i defunti. Il
poeta latino spiega che in quel caso le richieste non sortivano effetto perché fatte
da uomini pagani, e quindi irricevibili da Dio. I due si avvicinano poi ad un'anima
"sola, soletta", che mantiene un atteggiamento fiero ed altero: si tratta del poeta
trovatore e uomo di corte Sordello da Goito. Non appena il poeta viene a sapere
che anche Virgilio è mantovano, scoppia tra loro un innato moto d’affetto innato
dovuto all’essere concittadini; Dante sfrutta questo episodio per un’amara
apostrofe contro l’Italia e Firenze in cui, l’odio personale, le divisioni politiche
interne e la corruzione (in particolar modo a Firenze) stanno portando alla
crollo non solo della nazione italiana ma - cosa che sta particolarmente a cuore a
Dante - all'unità stessa dell'Impero, che dovrebbe aver invece nell'Italia la
propria sede privilegiata. Se certamente il sesto canto di ogni cantica sviluppa il
tema politico (secondo una progressione che va da Ciacco nell'Inferno a
Giustiniano nel Paradiso) nel Purgatorio c'è spazio anche per chiarire una
questione dottrinaria: quando Virgilio, emblema della Ragione, spiega il
significato di una sua affermazione nel sesto libro dell'Eneide (quando a
Palinuro viene rifiutato un passaggio sull'altra riva dell'Acheronte, perché ai vivi
non è concesso spezzare le leggi divine), sul tavolo c'è anche un'importante
questione di fede. Dante infatti non vuole solo "correggere" una possibile
contraddizione tra il suo testo e quello del maestro (secondo il tipico
atteggiamento medievale di reinterpretare i testi classici secondo le proprie
convinzioni di fede), ma anche chiarire che la legge del Dio cristiano è sensibile
alle preghiere sincere dei fedeli per i loro morti. Il punto è allora quello - capitale
per tutta le teologia cristiana non solo medievale - del rapporto tra la
predestinazione e la Grazia di Dio, su cui Dante tornerà anche più avanti (e
soprattutto nel Paradiso, sotto la guida di Beatrice, simbolo della Teologia che
deve "illuminare" la Ragione) nel suo poema. L'efficacia delle azioni e dei voti
umani per ottenere la salvezza eterna è assai importante, nei primi anni del
Trecento, anche perché tra XIII e XIV secolo s'erano diffusi in Europa alcuni
movimenti ereticali (su tutti, quello dei catari) che predicavano appunto
l'inutilità dei suffragi. Il tema sviluppato in questo canto è, come nei sesti canti
delle tre cantiche, il tema politico, che si concretizza, a partire dal verso 76 ("Ahi
serva Italia") in un’invettiva contro la situazione degenerata dell’Italia. La causa
è rinvenuta essenzialmente nella mancanza di una guida imperiale che sia in
grado di assumersi la responsabilità e di riportarla all’antico splendore;
nell'immaginario di Dante, il mondo ideale concide ancora con il modello della
società feudale, coronata dall'intesa armonica e provvidenziale tra il potere
temporale dell'Impero e il potere spirituale della Chiesa. In tal senso, ogni forma
di divisione oppure ogni spinta separatrice viene considerata come un elemento
che turba e contraddice il disegno divino. La rabbia dantesca - evidentemente
motivata anche da contingenze personali, come la dolorosa vicenda dell'esilio da
Firenze - chiama in causa cinque interlocutori diversi:

L'Italia (vv. 76-90), che viene definita come una "donna di bordello", per
denunciarne la bassezza morale e spirituale, e per mettere in luce le infinite lotte
intestine che la dilaniano e che hanno vanificato anche la grande e mirabile
operazione legislativa dell'imperatore Giustiniano e del suo Corpus Iuris Civilis.
La "gente" (vv. 91-96) della penisola, che, sia dall'ordine ecclesiastico sia da
quello signorile, ha msotrato il più completo disinteresse per il buon governo e
per la pace comune, con il risultato di rendere selvaggia e "fella" (v. 94, cioè
"ribelle") l'Italia, paragonata ad un cavallo che non vuol essere domato.
L'imperatore Alberto I d'Austria (1248-1308) che, nonostante il titolo che porta,
non è mai sceso in Italia (vv. 97-117), preferendo lasciarla in completo e totale
abbandono,anzichéi prenderne le redini e riportarla sulla retta via. L’apostrofe
all’Italia viene poi seguita da una a Firenze,in cui Dante denuncia la corruzione,
l’inconsistenza e la falsa partecipazione civile e politica dei cittadini interessati
solamente al proprio interesse e non più alla cosa comune. Il quarto
interlocutore (l'unico su cui non si riversa l'astio di Dante) è Dio stesso (vv. 118-
126) cui si chiede, retoricamente, se questa situazione di degrado e corruzione
(che sembra sovvertire tutte le regole del mondo, come detto ai vv. 124-126)
non sia forse un passaggio doloroso e necessario per un futuro diverso. Firenze
(vv. 127-151) su cui si riversano le accuse più pesanti e sarcastiche al tempo
stesso. Dopo l'elenco dei mali italiani, Dante afferma ironicamente che la città
toscana non deve preoccuparsi, perché è piena di virtù civili, senso della
rettitudine e della legge (tanto da stare davanti anche as Atene e Sparta), e
perché i suoi cittadini accorrono in massa per ricevere cariche pubbliche
(ovviamente, per la loro sete di potere e denaro). La conclusione tuttavia è
amarissima: Firenze, se avesse un po' di lume di ragione, capirebbe che si
comporta come il malato che non vuole affrontare la sua condizione. Il sesto
canto del Purgatorio presenta un andamento, da un punto di vista stilistico e
retorico, circolare: si apre con una similitudine (vv. 1-12), mentre a circà metà
del canto ne troviamo una seconda (vv. 88-99); chiude un terzo paragone, più
breve dei precedenti (vv.148-151). L’apertura del canto è data appunto dalla
similitudine tra la condizione del poeta e quella di un giocatore dopo una partita
ai dadi, che descrive il momento in cui lo sconfitto viene lasciato in disparte da
tutti mentre cerca di capire in quale modo avrebbe potuto vincere, mentre il
vincitore è attorniato da persone che cercando di ottenere da lui parte della
vincita. In modo analogo Dante è quasi sopraffatto dalle anime che gli chiedono
preghiere e suffragi per poter vedere ridotto il proprio soggiorno di
purificazione nel Purgatorio. Nella parte centrale troviamo la metafora che
avvicina la situazione tra un cavallo e il suo cavaliere e l'Italia e l'imperatore che
dovrebbe riportare l'ordine. In questo momento infatti il cavallo è una bestia
selvaggia, irrequieta e riottosa e necessita assolutamente di un cavaliere che sia
in grado di domarla e di addomesticarla anche - se necessario - con gli speroni e
la frusta. Infine l’ultima immagine riguarda una vecchia malata (paragonata alla
città natale di Dante, Firenze), che, nonostante sia distesa in un luogo
confortevole come un materasso di piume, non riesce a trovare la posizione
ottimale e continua a muoversi per cercare di allievare il dolore che sente. Dante
usa l'immagine per indicare la costante scontentezza ed insoddisfazione dei
fiorentini, che sul piano politico si traduce (oltre che nell'incapacità a guardare
in faccia la realtà) in provvedimenti e leggi che servono solo a perseguire
interessi personali o a colpire gli avversari politici, e non al bene della
cittadinanza. Sordello fu un trovatore provenzale di origine italiana, nato a Goito,
presso Mantova, da una famiglia della piccola nobiltà, attorno al 1200; iniziò a
frequentare da giovane le corti signorili del Veneto ed è molto probabile una sua
frequentazione della corte Malaspina. In seguito allo scandalo in cui sedusse,
rapì ed in seguito abbandonò Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino e di
Alberico, moglie del conte di San Bonifacio, Sordello scappò dal Veneto per
cercare salvezza in Provenza. Qui acquisì grande fama presso i nobili della
regione, ricevendo onori e benefici prima da Raimondo Berengario V ed in
seguito da Carlo I d'Angiò. Nel 1266 seguì il conte di Provenza nella sua discesa
in Italia e qui gli furono donati alcuni feudi in Abruzzo, dove trovò la morte poco
dopo. Sordello nei suoi testi conserva le caratteristiche della lirica amorosa, ma
presentando una ricercatezza formale di ottima qualità. Il trovatore mantovano
riuscì però ad ottenere fama e gloria soprattutto grazie ai dibattiti con gli altri
poeti di quel periodo, ai sirventesi politici, al planh in ricordo di Blacaz e
all'Ensenhamen d'honor, tutte opere in cui l’autore si presenta come custode dei
più alti ideali cavallereschi: proprio per queste caratteristiche Dante lo sceglie
quale simbolo dell’amor patrio.
COMMENTO CANTO XXVI PURGATORIO
Dante e Virgilio sono alla settima e ultima cornice, quella dei lussuriosi. Qui si
svolge tutta l'azione, e si conclude il viaggio nel Purgatorio vero e proprio: nel
prossimo canto ci troveremo già sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre.
Dante sceglie per un momento così solenne tutte figure di poeti, e a loro affida
un «testamento» ideale nella lode della poesia contemporanea. Il canto è
impostato sul dialogo fra Dante e l'anima di Guido Guinizzelli e si divide in due
parti:
-vv. 1-93; sequenza di carattere strutturale, descrive la condizione e i
comportamenti dei lussuriosi e tratta ancora una volta il tema dello stato
eccezionale di Dante;
-vv. 94-148; sequenza di carattere intellettuale e sentimentale, sposta il
colloquio fra Dante e Guinizzelli sul tema della poesia del tempo, con l'intervento
finale di Arnaldo Daniello.
Il celebre poeta bolognese Guinizzelli è il protagonista narrativo e ideologico del
canto. Con lui si completa la sezione del Purgatorio dedicata agli incontri con
poeti e alla trattazione di questioni letterarie. Il tema, presente fin dall'inizio
dell'opera, giunge ora a una conclusione anche cronologica: dalla celebrazione
della poesia classica (l'incontro fra Virgilio e Stazio) all'esaltazione dei maestri
moderni (l'incontro fra Guinizzelli e Dante). La prima parte del canto vive della
descrizione dei lussuriosi: avanzano nelle fiamme purificatrici, cantando lodi a
Dio e gridando esempi di castità e lussuria. La variazione a questa condizione è
l'incontro fra le due schiere di penitenti — bisessuali e sodomiti — ai vv. 31-48: i
casti baci che si scambiano sono il segno capovolto della loro lussuria. A
proposito di questi penitenti, è motivo di riflessione la loro sollecitudine
nell'espiazione, che Dante sottolinea nella costanza con cui si tengono all'interno
delle fiamme (vv. 13-15) e nella rapidità dello scambio amoroso con l'altra
schiera, senza fermarsi (v. 33). Il dialogo con Guinizzelli completa il motivo del
rincontro con i maestri del suo tirocinio letterario — iniziato già nell'Inferno con
Brunetto Latini —, e diventa anche dichiarazione di differenza sul modo di
intendere la poesia e l'amore. Dante ha già superato l'idea di questo sentimento
come lussuria; tutta questa seconda cantica è infatti tensione a Beatrice come
figura dell'Amore di carità, che «brucia» di ben altro fuoco. Ma proprio al
limitare della sua ascesa a verità divine e ignote agli altri, Dante propone qui un
ultimo giudizio sulla poesia a lui contemporanea. Il primo dato è la celebrazione
di Guinizzelli come sommo poeta moderno, il padre / mio e de li altri miei
miglior (vv. 97-98); egli è l'iniziatore dello Stil Novo, la poesia lirica di cui Dante
fu grande interprete, caratterizzata dalla dolcezza dello stile e dalla rinnovata
sensibilità alla tematica amorosa. L'eccellenza di Guinizzelli discende dalle rime
d'amor dolci e leggiadre (v. 99), dai suoi dolci detti (v. 112) che gli meriteranno
gloria eterna in terra. Secondo elemento: il dibattito letterario sui diversi modi
di poetare. Dante dichiara, tramite Guinizzelli, che il primato debba andare ad
Arnaldo Daniello, scrittore d'amore. Entra così in polemica anche aspra (lascia
dir li stolti, v. 119) con chi gli anteponeva le poesie morali di un altro famoso
trovatore, Giraut de Bornelh, quel di Lemosì (v. 120). La trattazione offre spunto
anche a una critica contro Guittone d'Arezzo, accusato da Dante di non aver
saputo adeguare il linguaggio e i costrutti all'alta materia. Terzo dato centrale
della sequenza è l'incontro con Arnaldo Daniello, introdotto dall'apprezzamento
di Guinizzelli come miglior fabbro del parlar materno, il più alto scrittore in
lingua volgare (v. 117). E proprio nella sua lingua materna, il provenzale, si
esprime Arnaldo: è l'esempio più lungo in tutta la Commedia di realismo
linguistico, un atto di omaggio a quella tradizione letteraria in cui tutta la poesia
lirica medievale riconosceva la propria origine. In un colloquio fra poeti, uno dei
codici espressivi più efficaci è quello della citazione, dell'allusione. Così opera
Dante nella seconda parte del canto, intessuta di echi e rimandi da un autore
all'altro. Due esempi:
-vv. 73-75; la rima marche / imbarche, molto rara, deriva da un sonetto di
Guinizzelli a Guittone d'Arezzo, e da questi ripresa poi nella risposta;
-v. 140; l'incipit del breve discorso di Arnaldo Daniello ricalca quello di una
canzone di Folchetto da Marsiglia, altro poeta provenzale che Dante incontrerà
in Paradiso.
II rimprovero di Guido Guinizzelli (A voce più ch'al ver drizzan li volti) contro
quanti sostengono la superiorità del poeta provenzale Giraut de Bornelh rispetto
ad Arnaut Daniel (v. 121) vale ancora oggi per tutti quegli "stolti" che si affidano
all'opinione comune, alla voce corrente piuttosto che alla verità.
Dante è concentrato nella difficoltà del percorso e nella riflessione sulla lussuria,
quando vede due schiere di anime che, incontrandosi, si scambiano casti baci,
poi gridano esempi di lussuria punita. Il grido Soddoma e Gomorra non lascia
equivoci sulla comprensione del tipo di peccatori: si tratta di una schiera di
sodomiti e il grido ricorda le due città bibliche colpite dalla punizione divina
proprio perché dedite alla pratica omosessuale. L'altra schiera invece è
composta di eterosessuali che usarono il sesso al di fuori di ogni razionalità e
misura: come Pasife che volle gli amori bestiali col toro. Quell'amore che in vita
fu inquieta passionalità, ora, dentro il fuoco purificatore, è diventato tenerezza
infinita. Ma il grido sta ad attestare una colpa i cui effetti sono ancora cocenti, nel
vero senso della parola, e suggellati da lacrime.
Piangono i lussuriosi il loro peccato, ma a un tratto s'accorgono che Dante è
vivo. Uno di loro si avvicina curioso e il poeta viene a sapere che si tratta proprio
del suo caposcuola, quel Guido Guinizelli che iniziò a poetare alla nova mainera.
La commozione è tanta e Dante vorrebbe slanciarsi ad abbracciare Guido se non
ci fosse il fuoco tra loro. Ma Guido, manifestando l'umiltà propria delle anime del
Purgatorio, addita a Dante un altro poeta che fu miglior fabbro del parlar
materno, il provenzale Arnaut Daniel; poi si perde nel fuoco come un pesce
dentro l'acqua. Figura centrale del canto, Guido Guinizelli compare e svanisce:
astro di breve durata ma di intensa luminosità. Al dissolversi nel fuoco di Guido
subentra Arnaut, dolce nel suo linguaggio provenzale. Il suo trobar clus (=
poetare oscuro e difficile, cioè chiuso) qui non ha spazio, ma i versi servono a
sancire definitivamente lo stacco tra poesia-folor (= follia) e poesia-ragione.
Folor infatti è amore-passione, libero abbandono sensuale, ma folor è anche la
trascrizione poetica di questo amore-passione. Sembra di risentire Francesca da
Rimini e la sua professione di amore cortese: ma Francesca è rimasta lì, legata
per sempre alla sua passionalità che l'ha inchiodata in eterno nell'Inferno;
Arnaut coglie invece la differenza tra i due tipi di amore. Egli nel Purgatorio,
luogo di penitenza e di attesa, denuncia con angoscia il folor dell'amore
lussurioso ma anche di una poesia che ne abbia registrato i momenti, le
sensazioni, i desideri. Ora non gli resta che chiedere il perdono di Dio. Ma il
raffinato e malinconico calco delle parole di Arnaut nella sua lingua provenzale
è, in Dante, la più alta testimonianza d'affetto e di stima verso il poeta e verso la
cultura in lingua d'oc di cui Arnaut fu uno dei più alti rappresentanti. Dietro il
triste vau cantan del poeta provenzale si legge la tristezza di Dante, anch'egli
colpevole della folor d'amore, cantata ad esempio nelle Rime Petrose, ma anche
la consapevolezza del poeta fiorentino di appartenere a un sodalizio umano
legato da una intensa e a volte totalizzante passione: la poesia come
prorompente bisogno di espressione.

IL PARADISO
Guidato da Beatrice, Dante sale attraverso i 9 cieli che circondano la Terra. Dopo
averli attraversati e dopo essere stato interrogato sulla fede, la speranza e la
carità, giunge nell’Empireo, sede di Dio e dei beati, affidato a San Bernardo.
Le anime dei beati non hanno sedi differenziate, ma sono tutte accolte
nell’Empireo entro una CANDIDA ROSA, in cui godono della visione di Dio.
Dante non ha un’immagine sensibile dei beati, che non hanno una vera e propria
corporatura. Si tratta di sfere di luce che sono disposte nei cieli in base alla loro
virtù, e questi cieli nella loro rotazione producono un lieve suono armonico e
cristallino. Il Paradiso è l’apoteosi della filosofia e della dottrina cristiana.
Tutta la struttura della cantica regge sullo scarto tra la perfezione di Dio ed il
movimento di un soggetto ancora imperfetto per via dei beni terreni.
I beati sono convinti di mettere in atto la volontà divina e scagliano dure
sentenze contro l’ingiustizia umana e la corruzione, senza risparmiare le
massime autorità della Chiesa.
Allo stesso tempo i beati si rivolgono con commozione ai momenti più semplici e
puri dell’esistenza umana. Il Paradiso segna la completezza del ruolo di Dante
come poeta.

COMMENTO CANTO I PARADISO


Nel primo canto paradisiaco, siamo, dal punto di vista cronologico, nel
pomeriggio del 13 aprile del 1300. Dante all’inizio di questo canto si trova
ancora nel Paradiso Terrestre vicino alla sorgente dei fiumi Leté ed Eunoé. In
questo momento egli invoca Apollo (vv. 1-36), dio classico della poesia, e poi,
vista Beatrice volgere lo sguardo verso il sole, segue il suo esempio, riuscendo
anch’egli a fissare la luce (vv. 37-81). Riportando in seguito il suo sguardo sulla
donna, egli si sente “trasumanar” (v. 70), e cioè superare la propria condizione
umana di finitezza per salire verso il primo cielo del Paradiso. Beatrice, in
un’atmosfera di pace e serenità, scioglie i dubbi di Dante in merito a ciò che gli
sta accadendo. I primi versi (vv. 1-36) del Canto I del Paradiso sono dedicati alla
presentazione del contenuto di quest’ultima cantica della Divina Commedia,
attraverso il proemio 1 e l’invocazione ad Apollo, costruite entrambe seguendo
la tradizione della retorica classica: “Veramente quant’io del regno santo | ne la
mia mente potei far tesoro, | sarà ora materia del mio canto” (vv. 10-12). Fin dai
primi versi Dante manifesta la difficoltà di esprimere ciò che ha visto nel regno
dei cieli; il tema dell’ineffabilità è centrale in tutta la cantica: “vidi cose che ridire
| né sa né può chi di là sù discende” (vv. 5-6), e più avanti nel canto (vv. 70-71):
“Trasumanar significar per verba | non si poria”. Dal v. 13 inizia l’invocazione al
dio della poesia, Apollo - mentre nell’Inferno e Purgatorio Dante aveva invocato
le Muse. Se il poeta mette in luce la decadenza dei suoi tempi (in cui ormai
raramente o un poeta o un imperatore aspirano alla gloria, simboleggiata dalle
foglie di alloro), qui Dante mostra pure la consapevolezza della grande impresa
cui si sta accingendo come letterato (ai vv. 26-27 Dante allude chiaramente alla
propria incoronazione poetica) e come credente. Ai vv. 34-36 ("Poca favilla gran
fiamma seconda: | forse di retro a me con miglior voci | si pregherà perché Cirra
risponda", e cioè: "Un gran incendio segue una piccola favilla: forse, dopo il mio
tentativo, si chiederà in modo migliore che Apollo [Cirra, un passaggio del monte
Parnaso] intervenga") egli infatti dichiara di esser il primo a confrontarsi con
una materia così alta e gravosa, e che il suo esempio può valer come "favilla",
come cioè fiamma che inviti altri poeti più degni a cantare la stessa tematica.
Concluso il proemio, inizia l’azione vera e propria del canto (vv. 37-81), l’ascesa
al cielo di Dante e Beatrice. Con una perifrasi (vv. 37-42) il poeta descrive il
sorgere del sole primaverile, che viene guardato direttamente da Beatrice,
imitata poi da Dante, che riesce a fissare l’astro più di quanto riesca un essere
umano, perché si trova nel Paradiso terrestre, dove “molto è licito là, che qui non
lece | a le nostre virtù, mercé del loco | fatto per proprio de l’umana spece” (vv.
55-57; si intenda: "sono possibili molte cose nel Paradiso Terrestre, che non
sono concesse in terra alle nostre umane facoltà, in virtù del luogo creato in
maniera funzionale per la specie umana"). Improvvisamente a Dante sembra che
la luce stia aumentando d’intensità e si sente “trasumanar”, come Glauco, che
secondo un mito - riportato anche da Ovidio nel dodicesimo libro delle
Metamorfosi - divenne un dio marino, dalle virtù profetiche, dopo aver mangiato
un’erba magica (vv. 67-72); e così il poeta entra in Paradiso. Dante non riesce a
spiegare a parole il suo ingresso nel regno dei cieli ed è costretto a ricorrere a un
neologismo (“trasumanar”) e a usare una similitudine con una figura mitologica.
La novità del suono del cielo e del lago di luce, in cui si trova ora il poeta, fanno
sorgere in Dante personaggio il desiderio di sapere quale sia la loro origine,
senza sapere ancora di trovarsi in Paradiso (vv. 82-84). Beatrice, che conosce i
pensieri e i desideri del poeta, gli risponde. In seguito alla spiegazione della
donna nascono nuovi dubbi in Dante, che si chiede infatti come abbia fatto il suo
corpo a trascendere l’aria e il fuoco. Beatrice inizia una complessa spiegazione
teologica, partendo dalle concezioni astronomiche aristotelico-tomistiche
dell’epoca (vv. 94-142): tutte le cose sono create secondo un ordine armonioso,
poiché generate da Dio, che è somma armonia. Secondo queste teorie esistono
sette cieli, dominati da un astro, e gli ultimi due sono il cielo delle Stelle fisse e il
primo mobile. Tutti i cieli si muovono perfettamente secondo un moto circolare,
mentre l’unico luogo immobile è l’Empireo che circonda il Primo Mobile, che
infonde agli altri cieli il movimento. L’uomo tende a questo luogo, ma, a causa di
un uso errato del libero arbitrio, spesso si distoglie, attirato da beni materiali e
corrompendosi, fino a cadere all’Inferno. Dante può salire in cielo dal momento
che con il suo viaggio all’Inferno e la sua purificazione in Purgatorio si è liberato
da ogni peccato e dalla sua natura terrena (che, in quanto tale, possiede l’istinto
della forza di gravità). Infine, concluso il discorso, Beatrice rivolge nuovamente
gli occhi al cielo. Beatrice, detta Bice, figlia di Folco Portinari dovrebbe essere il
personaggio storico corrispondente alla Beatrice amata da Dante; nacque nel
1266 circa e morì nel 1290. Dante la cantò in ogni sua opera, conferendole volta
per volta differenti valori. La troviamo nella Vita Nova come la donna amata che,
in accordo con la poetica dello Stilnovo, costituiva un tramite diretto verso Dio,
così che l'amore terreno (come sintetizzato benissimo nel celebre sonetto Tanto
gentile e tanto onesta pare) si sublimi nell'esperienza trascendente, soprattutto
attraverso il "saluto" salvifico e portatore di Grazia. Successivamente alla morte
di Beatrice, nella biografia dantesca c'è il periodo del traviamento esistenziale e
filosofico (segnato anche dall'avvicinamento dell'autore alla Filosofia, come
ricordato nel Convivio), che conduce Dante alle soglie della dannazione,
rendendo necessario il viaggio nei tre regni ultraterreni. Beatrice nella
Commedia è quindi citata per la prima volta nella prima cantica (Inferno, II, vv.
43-75, nel momento in cui Virgilio racconta a Dante di come una "donna beata e
bella" discese dal Paradiso nel Limbo per chiedergli di salvare il poeta); il vero
incontro con Beatrice avviene però nel Paradiso Terrestre, nel trentesimo canto
del Purgatorio: Beatrice, prima di diventare guida del poeta nel Paradiso, lo
rimprovera aspramente per i peccati commessi, e lo invita a bagnarsi nelle acque
del Leté (il fiume mitologico che toglie il ricordo delle colpe commese) e poi
dell’Eunoé, fiume che rafforza invece la coscienza del bene commesso. Del resto,
Beatrice nel Paradiso sovrappone alle proprie fattezze umane una ben più
importante funzione: quella di essere allegoria della Teologia, costituendo così
una risorsa irrinunciabile per arrivare alla conoscenza di Dio. Nel sistema di
pensiero medievale, in cui Dante è immerso, la Ragione (emblematizzata dal
"dolce duca" Virgilio) non può bastare da sola a compiere l'esperienza più alta
possibile per un credente, ma deve lasciare spazio alla fede. In tal senso, nei
canti finali del poema Dante viene guidato da una terza figura, il mistico San
Bernardo.

COMMENTO CANTO VI PARADISO


Dante e Beatrice, nel sesto canto del Paradiso, si trovano nel secondo cielo,
ovvero nel cielo di Mercurio, in cui si sono presenti gli spiriti operanti per la
gloria terrena; siamo, dal punto di vista cronologico nel pomeriggio del 13 aprile
del 1300. Il poeta in questo canto segue il lungo discorso di Giustiniano che
occupa tutto il canto (142 versi): l'imperatore romano, figura simbolica della
Legge terrena che risponde ai principi della Legge eterna di Dio e asseconda il
disegno provvidenziale del Creatore, tratta la questione della funzione
dell'Impero e della sua storia universale. Il canto VI di ogni cantica è dedicato ad
un argomento politico: nell’Inferno, con la figura di Ciacco, Dante aveva
affrontato la corruzione dilagante a Firenze e la divisione in fazioni; nel
Purgatorio, allargando il campo di indagine e di critica, il poeta si lamentava
della situazione dell'Italia, ormai in balia di potenze straniere e lacerata da
dannosissime lotte intestine; nel Paradiso, infine, Dante tratta dell’Impero,
facendo proprie le riflessioni di Giustiniano. Nei primi versi (vv- 1-27)
l’imperatore inizia il discorso raccontando la propria vita: l’ascesa al potere
imperiale, duecento anni dopo Costantino; la conversione al Cristianesimo; la
stesura del Corpus Iuris Civilis (ovvero, la fondamentale sistemazione normativa
e giuridica del diritto romano voluta da Giustiniano, e suddivisa in Institutiones,
Digesta, Codex e Novellae Constitutiones); il consolidamento politico e militare
dell’Impero Romano d'Oriente, grazie al suo comandante, Belisario. Giustiniano
inizia poi a ripercorrere la storia dell’Impero, e questa parte occupa un’ampia
parte del canto, vv. 28-96. L’impero rimase per trecento anni presso Albalonga,
città fondata dal figlio di Enea (“Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora | per
trecento anni e oltre, infino al fine | che i tre a’ tre pugnar per lui ancora” vv. 37-
39), poi passò a Roma, dove “giovanetti trïunfaro | Scipïone e Pompeo” (vv. 52-
53). Ricorda il periodo delle guerre civili, la definitiva sconfitta di Antonio e
Cleopatra e il trionfo di Augusto, che riportò la pace. Sotto Tiberio morì Cristo, la
cui morte - secondo la visione tipicamente provvidenzialistica sottesa alla
Commedia - viene per così dire "vendicata", nell'ottica dell'imperatore, dalla
distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 d.C. (“con Tito a far vendetta
corse | de la vendetta del peccato antico”, vv. 92-93). Infine l’aquila imperiale
passò a Carlo Magno, considerato da Dante come continuatore dell’impero, che
difese la Chiesa dall’arrivo dei Longobardi (“E quando il dente longobardo morse
| la Santa Chiesa, sotto le sue ali | Carlo Magno, vincendo, la soccorse”, vv. 94-96).
Dante, nei versi successivi (vv. 97-111), attraverso le parole dell’imperatore, si
scaglia contro i Guelfi, sostenitori del papa e della monarchia francese, che
vogliono sostituire l’aquila delle insegne con il giglio giallo, simbolo dei re
francesi, e contro i Ghibellini, che utilizzano l’aquila imperiale come simbolo di
fazione, riducendone così l’importanza come punto di riferimento universale.
Negli ultimi versi (vv. 112-142) l’imperatore mostra a Dante le anime del cielo di
Mercurio, tra le quali incontra quella di Romeo di Villanova, che fu consigliere
del conte di Provenza, Raimondo Berengario V, e che, in seguito ad una calunnia
di tradimento, si allontanò dalla corte e visse in povertà. Questa figura, citata in
chiusura del canto, è molto importante per Dante, anch'egli un exul immeritus,
dopo il forzato allontanamento da Firenze: Romeo diventa infatti una sorta di
"se stesso" in cui specchiarsi, e attraverso cui ritornare sui tormenti della pena
ingiusta cui il poeta si sente condannato. Gli ultimi quattro versi (vv. 139-142),
chiosano infatti: "indi partissi povero e vetusto | e se 'l mondo sapesse il cor
ch'elli ebbe | mendicando sua vita a frusto a frusto, | assai lo loda, e più lo
loderebbe"; se tutti quelli che già lodano Romeo conoscessero le angherie del
mendicare il pane pezzo per pezzo, lo ammirerebbero ancor di più. Sintomatico
del resto che tale riflessione chiuda il sesto canto del Paradiso, dedicato alla
"politica" nella sua accezione più ampia e somma: nella visione finalistica della
storia di Dante, l'Impero ha la funzione provvidenziale di unificare il regno
terrestre degli uomini (assicurando loro pace e giustizia, ad esempio con
l'istituzione delle leggi del Corpus Iuris giustinianeo) in attesa di quello celeste
venturo. Giustiniano (482-565) fu Imperatore Romano d’Oriente dal 527 al 565.
Adottato dallo zio Giustino, noto generale che nel 518 d.C. divenne imperatore,
Giustiniano venne dapprimo associato al potere e poi fu proclamato imperatore:
il suo lungo regno è ricordato come uno dei più felici nel passaggio dalla storia
classica a quella alto-medievale, sia per l'attività legislativa (confluita appunto
nel Corpus Iuris Civilis) che per quella militare e politica, grazie anche all'abilità
del suo generale Belisario. Assai signifitcativo (soprattutto agli occhi di Dante...)
il tentativo di Giustiniano di restaurare l'unità antica dell'Impero romano,
riunendo Oriente ed Occidente, Bisanzio e Roma: la "guerra gotica" (535-553)
vide l'invasione dell'Italia da parte delle truppe imperiali ma, in circa ven'anni di
ostilità, non raggiunse risultati stabili nel tempo (nel 568, infatti, i Longobardi
invasero la penisola ponendo fine al sogno di una nuova unità imperiale). Nel
sesto canto del Paradiso, è l'aquila imperiale a costituire il centro simbolico del
ragionamento dell'imperatore. L’aquila era il simbolo, inizialmente attribuito a
Giove Capitolino (protettore del Campidoglio), che si impose per identificare
l’esercito romano e le sue legioni sin dal periodo repubblicano: Caio Mario (157-
86 a.C.) lo introdusse come segno delle truppe durante il suo consolato nel 104
a.C., sostituendo precedenti simboli anilmali (il lupo, il cavallo, il cinghiale o
addirittura un minotauro, secondo Tito Livio nel suo Ab urbe condita). L'aquila,
nella prospettiva di Dante, è il simbolo della storia millenaria dell'Impero e della
sua insostituibile funzione ordinatrice; questa convizione si riflette anche nel
pensiero politico dantesco, sviluppato principalmente nel trattato Monarchia.
Qui Dante si fa portavoce della teoria dei due Soli, una concezione politica
medievale, propria della Scolastica, in cui si postulava la presenza di due poteri
coesistenti che avevano obiettivi differenti: il potere imperiale doveva curare
l’aspetto politico del mondo terreno e della vita civile dei sudditi, mentre il
potere papale si doveva preoccupare dell’ambito spirituale e della salvezza delle
anime. Questa teoria si coniugava bene con la posizione "bianca" del guelfo
Dante, che riconosceva l'autorità papale ma individuava in un Impero forte e
saldo il miglior elemento per controbilanciare le spinte temporalizzanti del
Papato del suo tempo.
COMMENTO CANTO XXVI PARADISO
Il colloquio con S. Giovanni nella prima parte del canto (vv. 1-69) conclude il
triplice esame di Dante sulle virtù teologali. Il simbolico recupero della vista (vv.
70-81) segna il passaggio alla nuova situazione del dialogo con Adamo (vv. 82-
142). L'argomento è trattato da Dante dal punto di vista filosofico e teologico,
con rigore logico piuttosto che con slancio sentimentale: tutte le risposte
coincidono nell'indicare in Dio l'oggetto, il fine unico dell'amore, che si rivolge
poi alle altre creature solo come riflesso. Così Dante indica agli uomini la via da
seguire per raggiungere la felicità eterna: la carità è infatti l'unica delle virtù
teologali che ancora opera nel Paradiso e in eterno, in presenza di Dio, dato che
fede e speranza non hanno più motivo di esistere. Significativamente, la prima
figura che compare a Dante appena concluso l'esame sulle virtù teologali è
quella di Adamo, padre di tutti gli uomini. Il colloquio vuole risolvere alcune
questioni vive nella cultura dell'epoca, e sulle quali Dante intende esprimere la
propria convinta opinione. Esse sono presentate in ordine di importanza, a
partire dall'unico problema di interesse assoluto, quello morale del peccato
originale: esso fu un peccato di superbia, per la trasgressione dei limiti imposti
da Dio e per il desiderio, analogo a quello di Lucifero, di potersi fare uguale a Lui.
I due dubbi sul tempo della nascita di Adamo e sulla durata della permanenza
nell'Eden sono aspetti particolari, collegati alla visione medievale della Bibbia
come narrazione di episodi storicamente precisi. Si affronta per ultima la
questione della lingua usata da Adamo. L'interesse di Dante alla storia della
lingua è molto noto, e si riflette soprattutto nell'importante trattato del De
volgari eloquentia. Per questo la questione della lingua usata da Adamo è tema
appassionante, all'interno della mentalità cristiana medievale, per chi come
Dante crede nel linguaggio come strumento fondamentale di espressione umana.
Significativa, ed estremamente moderna, è dunque la risposta fornita in questo
canto: ogni linguaggio, e quindi anche quello di Adamo, è sottoposto alle leggi
naturali della trasformazione, così che le parole che risuonarono nel Paradiso
terrestre erano già completamente scomparse e dimenticate ai tempi della torre
di Babele.
LA LETTERATURA RELIGIOSA

La letteratura religiosa del XIV secolo ha ancora una ricchezza eccezionale, ma


sembra chiudersi in uno spazio più ristretto rispetto a quello occupato nel secolo
precedente.
In primo piano si colloca una serie di volgarizzamenti di testi religiosi e morali
destinati ad un pubblico laico e popolare per consentire una vasta divulgazione
di testi prima circolanti in latino e che semplificano la materia religiosa.
La maggior parte di questi testi è prodotta in Toscana ed il loro linguaggio è
semplice e lineare.
Per il carattere primitivo sono più tardi stati usati come modelli di una lingua
pura.
Oggi nessuno crede più a questo purismo e tali scritture vanno interpretate
come documenti di una visione popolare della religione, la cui diffusione doveva
sopire atteggiamenti audaci nati nel secolo precedente.
i nuovi movimenti che nascono nel secolo restano nell’ortodossia, ed
approfondiscono la dimensione religiosa soggettiva e personale.
Una delle forme più diffuse di comunicazione diventa la lettera in volgare, che
stabilisce un contatto con individui precisi e concreti.
Forte è il contributo dei laici alla diffusione delle LAUDE e dei LAUDARI,
specialmente in Toscana ed in Umbria. Una certa diffusione ha la lauda
drammatica a più voci, legata allo sviluppo della sacra rappresentazione.

1. LA LETTERATURA FRANCESCANA

Si allenta il rapporto con la letteratura francescana e vita popolare.


Le lotte che lacerano l’ordine dei frati minori lo chiudono in una difficile
dialettica dottrinale e teologica che incide sulla vita quotidiana dei laici.
Più popolare è l’opera di volgarizzazione di testi della prima letteratura
francescana, come i FIORETTI DI SAN FRANCESCO, in cui i momenti della vita
del santo sono ripercorsi con freschezza, trasfigurati in immagini di purezza
assoluta, privi di ogni carica eversiva, ridotti a quadretti dolcemente patetici.
2. LA LETTERATURA DOMENICANA

I domenicani rafforzano sempre più il loro rapporto con la religiosità laica e


popolare. Questa nasce da un impegno di divulgazione e dall’intento di
controllare la vita religiosa dei laici.
Il secolo aveva lasciato anche trascrizioni di vere e proprie prediche. Hanno
grande interesse quelle del frate domenicano GIORDANO DA PISA per la prosa
vivace ed incalzante, dalla struttura drammatica e teatrale.
Domenicano è anche DOMENICO CAVALCA che scrisse le VITE DEI SANTI PADRI,
volgarizzamenti di vite dei santi del più antico Cristianesimo.
Il più originale resta IACOPO PASSAVANTI, che ricavò dalle prediche fatte nella
Quaresima del 1354 il trattato volgare PECCHIO DELLA VERA PENITENZA, volto
ad affermare la necessità della penitenza e a sottolineare i pericoli del peccato.
La vita è considerata un campo di male, in cui la forza diabolica è sempre in
agguato. Da essa si può sfuggire solo affidandosi alla Chiesa e rinunciando agli
interessi terreni. Passavanti crea pathos e sgomento, servendosi di EXEMPLA.

3. SANTA CATERINA DA SIENA


Nella sua vita e nella sua opera si esprime la ricchezza e la contraddittorietà
della religiosità dell’epoca. La sua passione religiosa è documentata
dall’EPISTOLARIO e dal LIBRO DELLA DIVINA DOTTRINA. Gli scritti nascevano
da una collaborazione con i suoi seguaci, sotto sua ispirazione e dettatura.
Parte da un misticismo inteso come conoscenza di sé, approfondimento del
rapporto con il divino. Vuole espandere l’esperienza all’esterno, in cerca di pace
ed unità. Si impegna a ricavare il bene supremo dalla condizione rovinosa del
presente. La sua produzione è impetuosa, tra momenti stanchi e monotoni ed
improvvise e laceranti accensioni. I momenti più intensi della sua prosa si
trovano nelle lettere, dove emerge un rapporto personale con Cristo e la sua
Passione. Rivolge lo sguardo al sangue versato da Cristo, iniziando ogni lettera
sempre con la stessa formula. Prova il violento desiderio di consumarsi ed
immergersi nel sangue divino e di versare il proprio, facendosi carico della
violenza del mondo e trasformando l’orrore nell’immagine suprema del
rapporto col divino.
FRANCESCO PETRARCA
E' nato ad Arezzo il 20 luglio del 1304 da genitori fiorentini, guelfi di parte
bianca in esilio ad Arezzo dopo l'avvento al potere dei guelfi neri (1301), che
costo l'esilio anche a Dante.
Quando nel 1309 la sede papale fu spostata ad Avignone anche la famiglia si
spostò perchè il padre di Petrarca era impiegato in pontificio. Francesco, per
volere del padre, intraprese gli studi di legge (studiò a Montepellier a Bologna),
che abbandonò dopo la morte del padre (1326).
Cominciò a studiare poesia e gli autori classici come Virgilio e Cicerone, e scoprì
le Confessioni di Sant'Agostino.
Il 6 aprile 1327, venerdì santo, incontrò per la prima volta Laura de Noves, la
donna amata a cui cantò le sue opere in volgare.
Consumando il patrimonio paterno divenne chierico (1330) e, grazie alla
sicurezza economica, poté viaggiare in Italia e in Europa alla ricerca dei testi
classici.
Nel 1337 si stabilì in Valchiusa a contatto con la natura, studiando e scrivendo
opere in latino e liriche che faranno parte del Canzoniere.
Nel 1341 fu incoronato poeta in Campidoglio (prima di lui lo fu Dante).
La vita di Petrarca fu segnata dal conflitto interiore tra una vita mondana e una
vita dedita all'elevazione spirituale. Di questo dissidio interiore ne fu aperta
testimonianza anche la nascita di due figli che riconobbe come propri, Giovanni e
Francesca.
Petrarca non manifestò interesse per gli eventi politici della sua epoca. Nel 1348
morì Laura a causa di una epidemia di peste.
Nel 1350 si recò a Roma in occasione dell'anno Santo e, sia all'andata che al
ritorno, si fermò a Firenze dove conobbe Boccaccio con il quale divenne amico.
Nel 1353 Petrarca decise di stabilirsi in Italia: fu ospite dei Visconti (Milano) e
dei Da Carrara (Padova) che gli donarono una casa sui colli Euganei (esempio di
letterato di corte).
Morì il 18 luglio 1374, alla vigilia del suo 70esimo compleanno, accudito dalla
figlia.
1. SEPARAZIONE TRA IL LATINO E IL VOLGARE

Petrarca affida la propria immagine ufficiale di scrittore alle opere latine in versi
e in prosa. La sua lingua di comunicazione in prosa è sempre il latino.
Allo stesso tempo si impegna nella poesia lirica volgare perfezionando
all’estremo la raccolta delle sue RIME.
Il suo è un vero e proprio bilinguismo.
Il latino a prima vista sembra avere un ruolo più nobile, e qualche volta parla
delle sue rime volgari come di un esercizio privato, di un giocoso dilettarsi in
cose di poco conto.
Queste dichiarazioni hanno però un carattere ironico e retorico che non deve
essere sopravvalutato, e vengono smentite dalla cura estrema che dedica alla
revisione di quelle liriche in volgare.
Petrarca vuole ricondurre il latino ad una limpida forma classica. Si allontana
dagli schemi artificiali delle scuole di ARS DICTANDI, dalle complicazioni logiche
della lingua della filosofia scolastica.
Questa lingua intende imporsi e circolare come lingua internazionale dei dotti, al
di là delle separazioni prodotte dai diversi volgari.
Il volgare toscano della sua poesia si inserisce nella recente tradizione della
lirica amorosa per orientarla verso l’analisi più sottile dell’anima individuale.
Il volgare diventa una lingua pura e assoluta, con una scelta opposta a quella di
Dante. Latina o volgare che sia, la scrittura è sempre diretta manifestazione del
valore dell’autore e della sua virtù.
Petrarca ebbe cura estrema dei suoi componimenti in cerca di perfezione.
La sua posizione è opposta a quella di Dante e al suo procedere sperimentale.
Il suo procedimento è quello della riscrittura.
Parte da alcuni testi e progetti e riformula su di essi infinite volte.
Per questo non è possibile legare le opere di Petrarca a dei momenti precisi.
2. PETRARCA FILOLOGO E UMANISTA

L’amore di Petrarca per gli scrittori antichi e la lingua latina si lega alla
prospettiva definita con il termine UMANESIMO.
La scrittura garantisce un rapporto profondo con uomini del passato.
I rappresentanti perfetti sono Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia.
Occorre imitare le forme ed i modelli linguistici, ma questa IMITATIO può avere
soluzioni diverse. Per Petrarca occorre tenere presenti vari modelli: lo scrittore
latino moderno non deve seguire lo stile di un singolo autore, ma deve trarre
dall’insegnamento di tutti questi grandi dell’antichità; deve comportarsi come
un’ape che ricava il miele succhiando l’essenza di diversi fiori e mescolandone i
profumi.
Petrarca avverte quanto il presente sia lontano dal passato, e come i valori di
VIRTUS e dignità del mondo romano si siano ormai sgretolati.
La sua formazione ad Avignone lo pone in un contesto internazionale.
Petrarca è lontano dagli intellettuali comunali laici e religiosi medievali legati ai
loro ordini. Petrarca si fa portavoce di ideali politici, di giustizia e virtù, finendo
però per accettare la realtà politica contemporanea.
Non rinuncia a cercare il consenso e a primeggiare sulla scena del presente.
Desidera l’appoggio dei potenti e delle istituzioni, serbando una sotterranea
diffidenza. Finisce per non identificarsi mai a fondo con le loro posizioni.
Più autentici e fiduciosi erano invece i rapporti con gli amici, una comunità
intellettuale separata dalla confusione del mondo. Sono il pubblico ideale.
L’Umanesimo ha un sostegno essenziale nell’attività del filologo, che svolge ad
altissimo livello, in contatto con i maggiori studiosi dell’Europa civile.
Per le sue ricerche nasce molto interesse da parte di amici e discepoli.
Tra le sue scoperte vi sono il PRO ARCHIA POETA di Cicerone ed alcune lettere
dello stesso Cicerone ad Attico, Bruto e Quinto.
Spesso si faceva dare delle copie di libri o manoscritti, arrivando così ad avere
una biblioteca privata di dimensioni eccezionali per il tempo.
L’umanesimo di Petrarca comporta un forte impegno polemico contro la cultura
scolastica e aristotelica. Egli avverte più volte una discordanza tra il suo culto
della classicità e il messaggio cristiano. Lo supera attraverso la meditazione
morale, che rivela una continuità tra pensiero antico e cristiano.
Cicerone offre una sintesi del pensiero morale classico, Seneca lo attrae con le
sue sottili ed inquietanti indagini sulla coscienza umana.
Attraverso entrambi conosce la cultura stoica, fondata sull’esaltazione delle virtù
e la lotta umana contro le sventure.
È importante anche l’influenza di Sant’Agostino, che gli rivela la continuità tra
pensiero platonico antico e tradizione cristiana.
Contro l’aristotelismo ed il pensiero platonico, la filosofia agostiniana gli fa
percepire il contrasto tra beni terreni e beni spirituali, e gli propone un
Cristianesimo incline ad indagare gli abissi della coscienza.
Si tratta di un UMANESIMO CRISTIANO che risolve l’esperienza religiosa
nell’esercizio di una vita morale in cui Dio è la pace interiore che libera dalla
falsità della vita sociale.
Anche l’esperienza cristiana si pone come esperienza eccezionale e privilegiata,
che riguarda in modo autentico pochi degni.

3. RACCOLTE EPISTOLARI

La figura di Petrarca come intellettuale viene presentata nelle lettere in latino.


Non sono scritture spontanee, ma sono costruite con grande cura letteraria. I
testi originali furono sistemati in raccolte a cui voleva affidare la propria
immagine di uomo e di scrittore.
La raccolta più ampia è RERUM FAMILIARUM LIBRI o FAMILIARES, sistemata in
24 libri di 350 lettere. Si ha una ricca varietà di argomenti e situazioni concrete.
Da queste furono escluse 19 lettere politiche, spesso duramente polemiche e
raccolte a parte in SINE NOMINE.
Altre epistole furono scartate e poi raccolte in RERUM SENILIUM LIBRI o
SENILES. In queste prevale il ripiegamento su di sé e l’amara riflessione sul
trascorrere degli anni. Pensava di chiuderla con un’ampia epistola rivolta ai
posteri, POSTERITATI, in cui intendeva presentare se stesso attraverso una
narrazione ufficiale ed atteggiata della propria vita.
Al centro delle sue lettere vi è sempre la persona dell’autore e la sua ottica
letteraria. Emerge una straordinaria molteplicità di temi.
In primo piano sono le questioni filologiche e letterarie, il desiderio di
resuscitare il mondo antico, la riflessione filosofia e religiosa, e l’esposizione
delle proprie vicende intellettuali ed umane.

COMMENTO LETTERA AI POSTERI, SENILES


La prima cosa che Petrarca afferma, sin dall'inizio, è la stretta identità fra la
persona (i particolari fisici, i caratteri psicologici, le vicende vissute) e l'opera, in
conformità a una concezione che risale a un insegnamento classico e che avrà
grande fortuna in epoca umanistica: essere l'opera lo specchio fedele dell'animo.
È un'affermazione programmatica e ideale: i dati del carattere e le vicende
personali devono adattarsi e fissarsi nell'opera; questa, nella sua costruzione
retorica, è l'unica vera immagine della persona. Perché un simile ideale possa
essere attuato, bisogna procedere a:
- una selezione severa delle vicende private, eliminando ogni eccessiva presenza
della contingenza, del caso, della contraddizione (valgono più gli eventi pubblici
di quelli privati, la carriera letteraria delle esperienze esistenziali; il ritmo degli
eventi si scandisce su tappe ideali più che su precisi dati temporali; tra i pochi
accenni agli avvenimenti privati, spicca la notizia sull'indebolimento senile della
vista);
- la fissazione di una precisa gerarchia fra le opere (nella biografia ideale il posto
di centro ce l'ha l'Africa, il poema epico latino, non certo le Rime volgari né le
opere erudite o morali; l'Africa viene collegata con i luoghi privilegiati
dell'ispirazione letteraria e della più serena vicenda biografica - Valchiusa e
Selvapiana - ed è collegata anche con la vicenda dell'incoronazione, che anticipa
nella biografia reale il processo di glorificazione a cui aspira la biografia ideale);
- la scelta di un pubblico adatto: non la massa volgare dei contemporanei, le
genti di cui il poeta altra volta è stato favola; non gli altri letterati invidiosi e
malevoli, destinatari altra volta di Invettive o altre opere polemiche; neppure la
ristretta cerchia degli amici, come Guido Sette o Philippe de Cabassoles, ai quali
sono stati altre volte affidati frammenti di ricostruzione biografica, sotto il segno
della comune memoria; e neppure la severa proiezione di se stesso, l'Agostino
moralista che confessa Francesco penitente nel Secretum; ma un pubblico che
tanto più è funzionale al messaggio quanto più è anonimo e non presente: i
posteri.

In questa situazione letteraria e idealizzata Petrarca:


- presenta le vicende della sua vita, sottraendole alla sensazione tormentosa
della fuga e mutazione del tempo, sottraendole a ogni troppo drammatica
contrapposizione fra la vita cittadina (degli amici, degli affari, della politica, degli
onori) e la vita solitaria; e tutta riassumendola nella storia di una formazione
culturale;
- presenta la propria vicenda morale, ricorrendo sì all'inevitabile schema della
confessione (che passa in rassegna i sette peccati capitali), come avveniva nel
Secretum, ma senza più la minima traccia di drammaticità, attraverso un'abile e
idealizzata riduzione della tormentosa lotta fra peccato e pentimento a una
semplice successione temporale, dalla puerizia e adolescenza (età del peccato)
alla maturità e senilità (età del ravvedimento). Questo gli consente di parlare in
modo del tutto distaccato dell'amore per Laura e della morte di lei - su un piano
del tutto diverso da quello delle Rime;
- presenta la sua vicenda di intellettuale impegnato a conquistarsi sicurezza
economica, agio e ricchezza, grazie alla protezione di signori e potenti (e quindi
la vicenda dei successivi rapporti con il potere: i signori laici, da re Roberto ai da
Correggio ai Carrara ai Visconti; Cola di Rienzo; i protettori ecclesiastici),
ribaltandone completamente le circostanze e il significato, e tutto riportando
all'immagine, che egli ha accuratamente e soffertamente costruito e che ora
presenta ai posteri come modello ideale, dell'intellettuale «libero, indipendente
e disinteressato», che non vuole neppure toccare il danaro, che si sente
superiore ai problemi di potere, che si è costruito un rifugio solitario nella
solitudine e nell'opera letteraria, sul quale fonda il suo disinteresse e la sua
autonomia.

É questo il punto in cui il testo presenta un'immagine che risulta radicalmente


diversa da quella reale e storica; la divaricazione non va spiegata come opera di
una coscienza falsificata o mistificata. Siamo di fronte al prevalere dell'ideologia
sulla realtà, all'inevitabile scompenso fra la vita vissuta dell'uomo e l'immagine
che egli si è fatto di se stesso, del proprio ruolo nel mondo, del modello che vuole
offrire agli altri.
COMMENTO ASCESA AL MONTE VENTOSO, FAMILIARES
In apertura della lettera, Petrarca confessa all’amico Dionigi di aver intrapreso la
scalata del Ventoso sia per soddisfare una curiosità personale sia su suggestione
di un precedente letterario, ovvero la salita di Filippo V di Macedonia (238 - 179
a.C.) sul monte Emo in Tessaglia, descritta da Tito Livio nella sua monumentale
Ab urbe condita (Xl, XXI, 2).
La scalata diventa in realtà un’allegoria della crisi spirituale del poeta, e quindi il
raggiungimento della cima può divenire esplicito simbolo della salvezza eterna.
La descrizione geografica si unisce a quella psicologica, per rendere più chiara la
comprensione del senso metaforico testo: Petrarca, che si accinge all’ascesa in
compagnia del fratello Gherardo, parte nonostante gli avvertimenti di un
anziano pastore sulla difficoltà del cammino, assai impervio e difficile. Subito si
palesa una chiara differenza tra i due personaggi: se Gherardo sale rapidamente
per la via più erta e veloce, Petrarca, per scansare la fatica, preferisce il sentiero
più basso, attardandosi nella ricerca del sentiero più comodo e facile.
La lettura simbolica è immediata: Gherardo Petrarca, che prende i voti monacali
nel 1343, sale senza difficoltà perché è libero dalla schiavitù dei beni materiali,
mentre Francesco si riconosce ancora legato ai peccaminosi piaceri della Terra.
L’esame di coscienza del poeta parte proprio dal riconoscimento delle proprie
mancanze; quando vede salire agilmente il fratello, Petrarca ammette di essere
“mollior” (ovvero, “assai debole e voluttuoso”) e che la via più facile lo affatica
inutilmente, senza portargli reali vantaggi. È l’autore stesso a stabilire il
parallelismo tra questa condizione concreta e la propria condizione morale; la
difficoltà e il tormento interiore nel seguire la retta via verso la salvezza eterna è
esplicitata grazie ad una citazione da Ovidio (43 a.C. - 18 d.C.).
La crisi spirituale viene risolta una volta raggiunta la cima, quando di fronte alla
bellezza naturale del paesaggio, Petrarca legge un passo delle Confessioni di
Sant’Agostino, ch’egli ha con sé in una copia “tascabile” regalatagli proprio da
Dionigi da Borgo San Sepolcro. Qui, con grande sorpresa, Petrarca trova la
seguente “massima”.
La narrazione si conclude con la discesa a valle e la presa di coscienza da parte
del poeta dell’importanza del cambiamento interiore e del grande impegno
necessario non tanto per scalare il monte quanto per vincere “terrenis
impulsibus appetitus”, ovvero i “desideri suscitati dalle passioni terrene”.
L’epistola del monte Ventoso è assai emblematica delle caratteristiche delle
Familiares di Petrarca, sia per lo stile - colto, elaborato e ricchissimo di citazioni,
com’è tipico delle Familiari - sia per il processo di rielaborazione cui l’autore
sottopone i suoi testi. Se Petrarca afferma di aver scritto la lettera nel 1336
“raptim et ex tempore” (“in fretta e di getto”), in realtà è stato chiaramente
dimostrato che si tratta di una costruzione letteraria, che mette volutamente
insieme elementi interpretabili simbolicamente (la monacazione di Gherardo, le
citazioni dai classici, l’ambientazione nel giorno di Venerdì Santo) per dare
un’immagine ideale del percorso di maturazione interiore del poeta.

In particolare il filologo e critico letterario Giuseppe Billanovich ha proposto di


datare l’epistola al 1352-1353 (successiva anche alla morte del destinatario
Dionigi, avvenuta nel 1342), considerandola come una delle molte lettere fittizie
con cui Petrarca costruisce la propria raccolta.

Ciò che emerge dalla lettura della “ascesa al monte Ventoso” è la serie di
auctoritates classiche e volgari con cui Petrarca intesse il suo cammino fisico e
spirituale. Nel testo della lettera si susseguono rimandi intertestuali e citazioni
esplicite di Livio, Virgilio (in particolare, le Bucoliche e le Georgiche), Ovidio (gli
Amores e le Epistulae ex Ponto), dal Vangelo di Matteo e dai Salmi.

Tuttavia, le due fonti privilegiate sono San Paolo e Sant’Agostino; l’autore, anzi,
si pone su una linea di continuità con i due autorevoli precursori con l’episodio
della lettura delle Confessiones sulla cima del monte Ventoso. Infatti, anche
Agostino confida (Confessioni, VIII, XII, 29) d’aver cambiato vita avendo letto un
passo della Lettera ai Romani 6. In tal senso, l’ascesa alla montagna diventa un
modo per tratteggiare un biografia ideale di sé come uomo e come intellettuale
umanista, dimostrando come l’insegnamento dei classici sia vivo e presente e
ricollegandosi al tema della spiritualizzazione delle passioni terrene che
attraversa tutto il Canzoniere.
4. SCRITTI LATINI IN VERSI
Petrarca vide nella poesia latina lo strumento più alto a cui affidare la sua fama
di scrittore. Con gli anni, si accorse sempre più chiaramente che il suo impegno
riguardava le NUGAE, in volgare. La sua poesia latina resta una possibilità non
approfondita. Ce lo rivela in modo esemplare il poema epico in esametri AFRICA.
Fu letto in parte a ROBERTO D’ANGIO’ e a lui era dedicato. Fu continuato in vari
modi per tutta la vita di Petrarca e diffuso solo dopo la sua morte.
Si tratta di 9 libri, alcuni dei quali lacunosi, ma ne aveva programmati 12.
Vi si narrano secondo il modello dell’Eneide le vicende della seconda guerra
punica, per esaltare la grandezza di Roma repubblicana e di Scipione l’Africano.
La narrazione è frammentaria e disorganica. Gli eroi sono troppo formali.
Più interessanti sono i momenti lirici o le riflessioni elegiache dei personaggi,
con sensibilità moderna e cristiana nei confronti della vita terrena.
Il BUCOLICUM CARMEN è un calco delle Bucoliche di Virgilio, dodici egloghe
sottoposte a varie revisioni. Più interessanti sono le 66 EPISTOLE METRICE,
poesie soprattutto di corrispondenza raccolte in 3 libri che non ebbero assetto
definitivo. Queste sono un insieme di schemi linguistici ed immagini che
trovarono svolgimento in tutta la poesia umanistica latina.
I 7 PSALAMI PENITENTIALES erano invece preghiere in versi prosatici.

5. TRATTATI LATINI

Petrarca non era un poeta intellettuale ed erudito. La maggior parte delle sue
opere e trattati è in latino, su argomenti molto diversi.
-DE VIRIS ILLUSTRIBUS: rimasto incompiuto, è un DIZIONARIO BIOGRAFICO dei
personaggi più illustri della storia romana (Cesare, Scipione, Catone…). Riprende
le STORIE di Tito Livio e si propone di esaltare la virtù e la fama degli uomini pi
illustri di Roma. La devozione al mondo antico si intreccia al pessimismo e al
senso della fugacità delle cose, tipica del pensiero cristiano.
-RERUM MEMORANDARUM LIBRI: sono anch’essi un’opera storica. È una
raccolta di aneddoti con cui vengono celebrate le diverse virtù umane. Nel
Medioevo ebbero fortuna gli EXEMPLA, che trasmettevano un insegnamento
morale. Petrarca raccoglie esempi dalla storia romana allo stesso modo.
-DE REMEDIIS UTRIUSQUE FORTUNAE: è un’enciclopedia morale, costruita sul
dialogo di personaggi allegorici: la Ragione dibatte con la Gioia, la Speranza, il
Dolore e il Timore. Questo tipo di opera era molto diffuso nel Medioevo. Era un
modo abbastanza semplice per svolgere in forma narrativa discorsi di carattere
morale, edificante e religioso.
-DE VITA SOLITARIA: è stato scritto dopo il SECRETUM, ed è un tentativo di
conciliare l’ideale cristiano della rinuncia dei beni terreni con la concezione
classica dell’OTIUM LETTERARIO. La solitudine ideale è fatta di cose semplici,
amori e passioni, preghiera e meditazione, natura, amici, studio e libri.
-DE OTIO RELIGIOSO: è un elogio della vita monastica, contrapposta a chi segue
la gloria della vita terrena. La riflessione filosofica e morale si intreccia alle
vicende autobiografiche. Francesco e suo fratello Gherardo rappresentano due
percorsi diversi di vita. Gherardo ha scelto la meditazione, la solitudine, la pace
interiore. Francesco tende costantemente verso l’ideale etico e pratico e tuttavia
non riesce ad abbandonare la vita mondana per rifugiarsi come aveva fatto il
fratello nella vita del monastero.

Nelle INVECTIVE CONTRA MEDICUM QUENDAM, si scaglia contro un medico


avignonese e la medicina del suo tempo, criticandone le pratiche giudicate
irrazionali.
La poesia e la retorica sono infinitamente preferibili a questa pseudo scienza. Il
DE SUI IPSIUS ET MULTORUM IGNORANTIA è un attacco rivolto alla filosofia
scolastica e all’averroismo.
Queste opere sono testimonianza dell’atteggiamento scettico e diffidente di
Petrarca nei confronti delle discipline lontane dai suoi ideali.
Sarebbe comunque sbagliato considerare Petrarca come un intellettuale
antimoderno poiché la medicina del 300 era dissimile da quella odierna, e la
cautela di Petrarca era dovuta ad una debolezza di tali discipline.
Medici e filosofi del 300 credevano di poter stabilire corrispondenze tra le
malattie ed il movimento degli astri, per cui la sfiducia di Petrarca non era
fuoriluogo.
6. SECRETUM

Il capolavoro in prosa di Petrarca è il Secretum, un’opera non pensata per essere


letta dal pubblico, e pubblicata dopo la morte di Petrarca dai suoi amici.
È una delle opere più importanti del Medioevo, che ci ha portato più vicini
all’interiorità e alla spiritualità di un personaggio illustre del tempo.
Nel Medioevo l’autobiografia non era un genere molto praticato, ma aveva
prodotto capolavori come le CONFESSIONI di Sant’Agostino, la prima vera
autobiografia della letteratura occidentale. Petrarca riscopre le Confessioni e su
di esse scrive il Secretum, il cui titolo completo era IL SEGRETO CONFLITTO
DELLE MIE ANGOSCE, che parla delle cose più segrete e nascoste ed è un’opera
dialogica. Il dialogo di ispirazione ciceroniana si trasforma in una vera e propria
confessione. Nel Medioevo si chiamavano conflitti o contrasti quei testi in cui
l’autore introduceva sulla scena vari personaggi che potevano dibattere delle
cose più diverse e potevano essere sia reali che immaginari.

Il Secretum inizia nella solitudine della stanza di Petrarca. I partecipanti al


conflitto sono Francesco, sant’Agostino e la Verità, che resta in silenzio per tutta
l’opera. Il dialogo dura 3 giorni ed è diviso in 3 libri.
-PRIMO LIBRO: Francesco viene rimproverato da Agostino per essere stato
troppo debole nel non controllare la propria volontà, non potendo così
conoscere veramente se stesso.
-SECONDO LIBRO: Agostino analizza i 7 peccati capitali e si sofferma
sull’ACCIDIA, considerato da lui il peccato più grave.
-TERZO LIBRO: Agostino spiega che per Francesco i peccati più pericolosi erano
il desiderio di gloria e l’amore per Laura, che viene appunto accostata al lauro, la
corona riservata ai poeti e ai condottieri. La cosa più importante per la salvezza
della vita umana è in realtà la virtù. Alla fine del libro i contrasti non vengono
risolti poiché la Verità è rimasta sempre in silenzio. Non esiste una verità
assoluta che possa sciogliere i dubbi e le incertezze dell’uomo, o almeno nessuna
verità terrena o materiale, solo nella vita ultraterrena questo è possibile.
Probabilmente, come la Commedia di Dante, anche il Secretum è pensato per
avere un significato più universale.
Agostino è uno dei più importanti filosofi cristiani e grande padre della Chiesa,
ma per Petrarca è soprattutto autore delle CONFESSIONI. Nel libro Petrarca
confessa di immedesimarsi nelle sue confessioni, preso contemporaneamente da
sentimenti di speranza e di timore, piangendo lacrime di dolcezza.
Con il Secretum, Petrarca confessa di voler rinunciare definitivamente ai valori
materiali e terreni, si pente dell’amore per Laura e per la sua sete di gloria.
Petrarca riflette sull’opportunità di lasciare da parte le opere che potrebbero
dargli fama, poiché conta solo la salute dell’anima.
Petrarca, analogamente a ciò che fa Dante nella Vita nuova, prevede la morte di
Laura, che avvenne solo nel 1348. Petrarca allude o cita testi classici di Cicerone
scoperti nel corso degli anni 40 del 300.

7. IL CANZONIERE

Il titolo originale del libro era RERUM VULGARIUM FRAGMENTA. Le poesie del
Canzoniere sono fragmenta perché si tratta di frammenti dell’anima. Si ha subito
un’idea di una moltitudine di cose diverse tra loro, raccolte e organizzate
dall’autore in un racconto unitario: la storia d’amore di Francesco per Laura.
Il Canzoniere è composto di frammenti sparsi non solo materialmente poiché la
frammentarietà è il riflesso della confusione e dispersione del poeta.
Il libro è fatto di 366 poesie divise in due parti.
La prima parte arriva al testo 263, la seconda va dal 264 al 366, e tra le due parti
ci sono alcune carte bianche che segnano una censura.
La prima parte sarebbe formata dai testi in vita di Laura, la seconda dai testi in
morte di Laura. In realtà il primo testo davvero in morte di Laura è il 267, OIME’
IL BEL VISO. Il 264 è un testo di pentimento, e questo spiegherebbe come mai
questo sia stato posizionato come apertura della seconda parte.
La morte dell’amata è un evento cruciale attorno a cui ruota il libro.
La prima parte è un monumento dell’amore per Laura, la seconda è una graduale
rinuncia a quell’amore, segnata da un pentimento e dal pensiero ossessivo della
morte, e che si conclude con una conversione del poeta in amore per Dio e la
Vergine. Le poesie sono quante sono i giorni dell’anno.
Petrarca non ha scritto una poesia al giorno, poiché la scrittura del Canzoniere
avvenne in parecchi anni. Il numero fu funzionale per Petrarca, 366 come gli
aforismi del LIBRE D’AMIC E AMAT di RAIMONDO LULLO, in modo che il lettore
potesse scegliere una poesia al giorno per meditare sull’amore per Dio.
Il Canzoniere è fatto in gran parte di sonetti, ma vengono usate altre forme
metriche come canzoni, sestine e ballate.
Il Canzoniere è particolarmente importante perché possediamo un manoscritto
in parte redatto dal poeta (autografo), in parte trascritto sotto il suo controllo
diretto (idiografo). Verso la fine della sua vita, Petrarca trascrisse con GIOVANNI
MALPAGHINI un codice che conteneva le 366 poesie. Le edizioni attuali del
Canzoniere riproducono l’ordinamento di questo manoscritto.

Ci sono vari modi di leggere quest’opera. Lo si può leggere dall’inizio alla fine
come un romanzo per cogliere le svolte della trama. Sarebbe però sbagliato fare
dei confronti con opere in cui la componente narrativa è molto più importante
come la Divina Commedia o il Decameron. Risulterebbe un libro astratto che non
descrive il reale, con generi molto diversi.
Del romanzo come lo intendiamo oggi nel Canzoniere contiene solo alcuni
elementi essenziali: c’è un abbozzo di storia, c’è un inizio e una fine, ci sono dei
personaggi, una certa dose di realismo (quando parla della sua cameretta o del
paesaggio della Provenza). La storia e il racconto si dissolvono nella poesia.
La storia non coincide con il racconto. Da un lato c’è il modo in cui Petrarca
racconta la vita e la morte di Laura, dall’altro c’è la successione di eventi reali.
Petrarca incontrò Laura il venerdì santo ad Avignore il 6 aprile 1327 a 23 anni.
La data è simbolica, il giorno della passione di Cristo è anche quella dell’inizio
della passione del poeta. I Vangeli raccontano che quando Cristo morì i cieli si
oscurarono e si fece buio su tutta la Terra. Francesco analogamente fu preso e
fatto prigioniero da Amore, senza curarsene, dal momento che gli occhi di Laura
lo avevano legato. La vicenda personale viene ricondotta ad una vicenda
esemplare per tutta l’umanità.
Il Canzoniere è anche una sorta di diario. Se Dante ha inventato il genere della
poesia composta per l’anniversario della morte di Beatrice, Petrarca recupera
questa idea e la sviluppa in una serie di componimenti che scandiscono le tappe
del suo amore per Laura, poiché quest’opera è un capitolo dell’autobiografia di
Petrarca. Si è ipotizzato che volesse far apparire verosimile una storia inventata.
È possibile, ma è più probabile che il libro sia un tentativo di portare in vita il
passato. Petrarca può sbagliarsi, inventare episodi, mentire. Questa storia non è
vera nel senso in cui potremmo intendere oggi. Se si considera il primo sonetto
corrispondente al 6 aprile e si conta un giorno per ciascun componimento, il
primo testo per la parte rivolta alla morte di Laura corrisponde al 25 dicembre,
nascita di Cristo. Difficilmente si tratta di una coincidenza.
Il volgare per Petrarca non è la lingua dell’uso quotidiano ma una lingua usata
solo per la poesia. La lingua di maggior prestigio era il latino. Il suo è stato
definito da GIANFRANCO CONTINI un fiorentino astratto, ideale.
Se Dante è stato uno straordinario inventore di parole, Petrarca adopera
esclusivamente termini ed espressioni già autorizzate dalla tradizione letteraria.
Petrarca ha cercato di elevare il valore del volgare al latino, operando una
differenziazione tra la lingua viva parlata dal popolo e il lessico della poesia.

COMMENTO VOI CH’ASCOLTATE IN RIME SPARSE IL SUONO,1

Il primo sonetto è l’introduzione a tutta l’opera. Petrarca sente il bisogno di


specificare sin dall’inizio il senso e la trama dell’opera. Un testo proemiale non è
quasi mai scritto prima degli altri, e probabilmente quello del Canzoniere è stato
scritto quando Petrarca aveva già in mente l’opera.
Petrarca si rivolge direttamente ai lettori. È probabile che VOI si riferisse alla
cerchia dei suoi amici che conosceva bene i suoi turbamenti. In ogni caso ciascun
lettore in ogni epoca può così identificarsi nell’esperienza di Petrarca e Laura.
È sicuramente questo il risultato che Petrarca voleva raggiungere, rappresentare
la storia di ogni animo cristiano mettendo in scena la propria vicenda personale.
Petrarca confessa di essere ormai un uomo diverso e pentito, e di considerare i
suoi amori giovanili come un errore.
Questa celeberrima poesia d’amore è in realtà una poesia contro l’amore, o una
meditazione sulla sua vanità, e a ribadirlo sono le stesse parole nei versi: errore,
vergogna, favola e dolore.
L’autore riflette sui suoi amori giovanili e ora prova vergogna. Non vale la pena
piangere per qualcosa che come la morte i Laura era destinata a non durare.
Il sonetto è un prodigio di fluidità sintattica. La prima quartina è un’invocazione
a coloro che ascoltano le sue parole. La seconda quartina con una forte anastrofe
precisa il contenuto di appello. Petrarca non vuole esser lodato o celebrato, ma
compatito. Petrarca auspica un coinvolgimento morale, non estetico.
Nella prima terzina c’è un salto in dietro. Petrarca si è reso a lungo ridicolo e
prova vergogna, che genera pentimento e consapevolezza della vanità della vita
terrena. Si ha un crescendo drammatico negli ultimi versi, scandito da un
polisindeto e allitterazioni in fascio.

COMMENTO SOLO E PENSOSO, 35

Petrarca per tutta la vita si è dovuto dividere tra una vita pubblica molto
impegnata e la solitudine dell’OTIUM latino.
La dialettica si riflette anche nel modo in cui a partire dalla tradizione poetica
precedente concepisce il sentimento amoroso. Petrarca immagina che i segni
dell’innamoramento fossero troppo evidenti, e teme che la gente possa
accorgersi del suo stato. Perciò cerca la solitudine, e neanche in mezzo alla
natura riesce a far sì che l’amore che prova resti nascosto, poiché immagina che
ci siano elementi naturali che si accorgono del suo stato. Anche nella solitudine
accanto a lui c’è sempre Amore.
All’inizio del componimento sembra che Petrarca stia descrivendo e
raccontando il momento in cui camminando, compone il sonetto.
In realtà sta raccontando di ogni volta che percorre quella strada. Amore è
sempre presente e dialoga con lui. I tempi al presente non indicano un’azione
isolata, ma una consuetudine. Il personaggio allegorico di Amore compare a
Petrarca in mezzo alla natura. L’amore non abbandona mai, neppure quando è
lontano da tutti. Come aveva già detto il poeta latino Ovidio, per dimenticare
l’amore non bisogna fuggire dal vulgo, ma fondersi in esso.
Petrarca cresce, matura ed invecchia, e con lui il suo pensiero.
La solitudine poteva essere una ricetta antiafrodisiaca per il giovane amante, ma
non lo era per l’uomo maturo.
COMMENTO ERANO I CAPEI D’ORO A L’AURA SPARSI

Uno dei più celebri sonetti di Petrarca, commemora la prima volta in cui
Petrarca vide Laura, venendone conquistato. Petrarca mette a confronto quel
momento con uno successivo, corrispondente a quello della scrittura del testo.
Da questo accostamento deriva l’accorgimento degli occhi dell’amata, che non
splendono più come un tempo, e che Laura non è più quella creatura celeste, il
sole vivo che aveva fatto innamorare il poeta, il cui amore è però rimasto intatto.
Ad una lettura distratta questo sonetto potrebbe sembrare la tipica
DESCRIPTIONAE PUELLAE che si trovano spesso nella letteratura latina e
volgare: i capelli biondi, gli occhi che splendono. In realtà tutto il sonetto è
composto su una contrapposizione molto forte tra una visione folgorante
avvenuta nel passato, ed una visione più spenta avvenuta pochi anni dopo.
È una poesia dedicata alla forza travolgente del colpo di fulmine, che accende la
miccia nel cuore del poeta. È anche una poesia dedicata alla persistenza e alla
continuità dell’amore nel tempo. La ferita duole anche se la freccia che l’ha
colpita è stata scagliata tempo prima.
La fama del sonetto non dipende dalla contrapposizione tra passato e presente.
Dipende dalla straordinaria abilità di Petrarca di apparecchiare la scena, di farci
vedere un’immagine memorabile quale quella dei biondi capelli di Laura sciolti
al vento, fissando sin dall’inizio un’atmosfera sognante.
La fanciulla non viene mai vista per intero, ma solo in frammenti: i suoi capelli, i
suoi occhi ed il suo viso forse pietoso. Oppure la vediamo nei suoi atti, mentre
cammina o parla, sembrando qualcosa di più che umano.
Petrarca qui riprende la concezione di donna angelo introdotto dagli stilnovisti,
e soprattutto da Dante nella Vita nova.
La costruzione dell’argomentazione è ordinata e razionale. Nella fronte si
descrivono le caratteristiche di Laura, e la fronte si chiude con una interrogativa
diretta. Nella sirma alla sua descrizione è dedicata una sola terzina, e il verso 12
e 13 riassumono ciò che è stato detto di lei sin lì: un angelo, un sole.
L’ultimo verso contiene poi la battuta che devia l’attenzione dalla bellezza della
donna alla persistenza dell’amore del poeta.
COMMENTO CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE

Le acque di cui parla Petrarca sono quelle del fiume Sorga. Petrarca si trova a
Valchiusa, probabilmente nella prima metà degli anni 40, a circa 30 anni. Forse
Petrarca si apprestava a partire dalla Francia per tornare in Italia.
Nella canzone si incrociano 3 piani temporali: il passato in cui il poeta ha visto
Laura bagnarsi nelle acque del fiume e la sua apparizione miracolosa; il secondo
è il presente con cui vengono contemplate le acque del fiume, l’erba ed i fiori,
testimoni del passaggio di Laura; e il terzo è il futuro in cui immagina che Laura
potrebbe passare di lì e cercarlo, ma sarebbe troppo tardi poiché il poeta
sarebbe già morto per amore. Il poeta chiede di essere sepolto lì accanto al
fiume, in modo che Laura possa sospirare e piangere pensando all’uomo che la
amava, e con le sue preghiere gli diminuisca le pene in purgatorio.
Mezzo secolo prima di Petrarca, Dante, Cavalcanti e Cino da Pistoia avevano
introdotto nuovi interlocutori nelle loro poesie: amici, amanti raffinati, donne
che per esperienza e nobiltà d’animo conoscono l’amore.
Avevano per così dire socializzato i loro sentimenti.
Nel Canzoniere si registra il fenomeno contrario: non l’appello ad interlocutori
che appartengono al pubblico della poesia, ma la proiezione dei sentimenti sulle
cose. I pensieri, gli occhi, il cuore, le parti del corpo di Francesco e di Laura
vengono personificate, e parla con loro. Simula una comunicazione diretta con il
mondo naturale, chiama la terra, le acque, le valli, i fiori e le stelle a testimoni
della sua gioia e del suo dolore. Questa strategia retorica per cui i sentimenti
sono proiettati sulla natura diventerà poi tipica dei poeti romantici.
La quarta stanza con l’immagine dei fiori che cadono sulla donna e del regno
d’Amore, ricorda alcune poesie di Cino da Pistoia e Cavalcanti, ma anche la figura
di Beatrice così come Dante la introduce nel paradiso terrestre.
L’idea che Laura venga dal paradiso si avvicina alla Beatrice della Vita nova, in
particolare alla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.
Petrarca introduce un elemento che in essi è quasi assente, una scena, un
ambiente naturale che partecipa al miracolo dell’apparizione dell’amata.
COMMENTO ITALIA MIA, BENCHE’ ‘L PARLAR SIA INDARNO

La canzone è uno dei più importanti componimenti politici di Petrarca,


un’esortazione ai signori d’Italia perchè mettano da parte le loro ragioni di
conflitto e liberino la penisola dagli stranieri. Occorre calare l’esortazione in un
determinato periodo storico, ossia quando Obizzo d’Este, signore di Ferrara, era
in guerra con i Visconti di Milano e i Gonzaga di Mantova per il possesso di
Parma. Petrarca fu costretto a fuggire dalla città. La guerra fu molto cruenta e
tutte le parti avevano fatto ricorso a soldati mercenari.
Lo scopo della canzone non è solo quello di biasimare l’impiego di milizie
straniere, ma Petrarca rivolge ai potenti del suo tempo una richiesta di pace ed
un appello a non dividere l’Italia, che può vedere le sue ferite guarire solamente
grazie alla pace e all’unità.
Nella prima parte della prima stanza Petrarca parla all’Italia personificata.
Il suo bel corpo è martoriato dalle piaghe mortali che odi ed eserciti stranieri
hanno inflitto. Nella seconda parte della prima stanza compaiono i reali
destinatari: coloro che governano le contrade. Dopo un prologo inizia la vera e
propria argomentazione che si può dividere in tre punti:
-il ricorso a truppe mercenarie è un atto insensato, perché chi combatte per
denaro non può avere a cuore il destino di chi lo assolda.
-è grave che i mercenari siano stati scelti tra i soldati tedeschi, sempre stati
nemici degli italiani, sin da Mario e Giulio Cesare. La guerra che i mercenari
combattono è finta, mentre a morire davvero sono gli italiani che hanno a cuore
la sorte della loro terra.
-occorre liberarsi al più presto di questi nemici pagati.
Dalla sesta stanza in poi diventa un tentativo non solo di convincere, ma anche di
commuovere i signori d’Italia, attraverso interrogative retoriche, esclamazioni,
versi che suonano come inni e slogan memorabili.
Con la settima stanza la canzone tocca tasti ispiranti e commossi. La vita è breve,
la morte è vicina, e a tutti i governanti conviene collaborare per allontanare i
mercenari e giungere ad una pace duratura.
Petrarca prova repulsione nei confronti della violenza.
In una lettera del 1343 descrive un soggiorno a Napoli presso la corte degli
Angioini. Un giorno venne condotto fuori città per assistere ad uno spettacolo.
Confuso dalla folla non capì di cosa si trattasse fino a che un giovane cadde ai
suoi piedi, pugnalato a morte. Petrarca scappò via a cavallo.
Allo spettacolo assistevano i nobili, ed era chiamato un gioco gladiatorio.
Il suo sdegno era totale. Non abbiamo motivo di pensare che Petrarca stesse
dicendo il falso, è invece probabile che abbia assistito ad una specie di torneo,
come se ne facevano in tutta Europa. Le giostre napoletane erano molto cruente.
Già sant’Agostino aveva condannato i giochi gladiatori.
Ciò non toglie che in Petrarca il rifiuto alla violenza sia certamente sincero, come
è sincero il suo desiderio di pace.

COMMENTO VERGINE BELLA CHE DI SOL VESTITA

È la canzone dedicata alla Vergine che chiude la raccolta, con un'intonazione da


cantico religioso che da un lato si ricollega alla tradizione della poesia del
Duecento (incluso il "Paradiso" di Dante, specie l'inizio del canto XXXIII),
dall'altro esprime il consueto dissidio interiore del poeta diviso tra le lusinghe
del mondo cui non sa rinunciare fino in fondo e l'aspirazione a una vita dedita
alla virtù per cui chiede l'assistenza del cielo, ormai alla fine della sua vita
terrena. Il testo presenta una costruzione retorica assai raffinata e tocca uno dei
punti poeticamente più alti dell'opera, chiudendo idealmente il discorso aperto
dal sonetto proemiale e concernente l'amara consapevolezza della vanità della
vita umana. Metro: canzone formata da dieci stanze di tredici versi ciascuna
(endecasillabi e settenari), con schema della rima ABCBACCddCEfE e un congedo
il cui schema riprende quello della sirma (CddCEfE). Ogni stanza si apre sempre
con il vocativo "Vergine" , in molti casi seguito da un aggettivo ("bella", "saggia",
"pura", "santa", "sola", "chiara", "humana"), così come avviene nel terzo verso
della sirma di ogni strofa. Il penultimo verso di ogni stanza presenta rima al
mezzo col verso successivo, come avviene nel congedo. La lingua presenta i
consueti numerosi latinismi, tra cui "extrema" (v. 10), "humane" (v. 10 e
altrove), "et" (v. 13 e altrove), "afflicte" (v. 17), "trïumpha" (v. 19), "electa" (v.
34), "gratia" (v. 37), "humiltate" (v. 41), "exempio" (v. 53), ecc.
Tutto il testo è un'invocazione religiosa alla Vergine cui l'autore si rivolge
sapendo di aver peccato e sentendo ormai prossima la morte, per cui Maria
viene invocata in nome della sua purezza e secondo il motivo, assai diffuso
nell'innologia mariana del Medioevo, di Colei che soccorre i peccatori in virtù
della grazia di cui è ripiena, mentre la Vergine è designata spesso come la donna
che ha avuto l'altissimo privilegio di consentire l'incarnazione di Cristo, madre e
figlia al tempo stesso del suo Creatore (v. 28, "del tuo parto gentil figliola et
madre", che riprende Par., XXXII, 1: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio"; v. 47,
"madre, figliuola et sposa"; vv. 57-58, dove si dice che la "verginità feconda" di
Maria è diventata un "sacrato et vivo tempio" per l'incarnazione di Cristo; v. 119,
dove l'autore definisce la Vergine "humana" e si appella alla comune origine di
entrambi). Maria è definita anche esempio fulgido di umiltà e astro in grado di
guidare gli uomini in terra proprio come un astro guida i marinai durante la
tempesta, secondo il motivo assai diffuso della Vergine come Stella maris e
riprendendo in parte l'immagine usata da Petrarca nel sonetto 272, in cui in
realtà le stelle ormai spente che non possono più salvare il poeta dalla burrasca
sono gli occhi di Laura.
Il rimpianto espresso dall'autore è dovuto in larga parte all'amore peccaminoso
per Laura, che viene evocata a partire dal v. 81 in termini ambigui di condanna
morale e rievocazione nostalgica: Petrarca rammenta come abbia sparso
vanamente lacrime e preghiere per una "Mortal bellezza" che lo ha distolto dal
bene e dalla virtù, condannandolo a una vita raminga e priva di pace, mentre
Laura viene poi ricordata come "terra" (creatura mortale che è ormai morta e
sepolta) e, più avanti, come "poca mortal terra caduca" (v. 121), di fatto
contrapponendola a Maria in quanto è stata per lui fonte di tentazione e
deviazione morale. La donna viene tuttavia elogiata anche in quanto ha opposto
un rifiuto alla corte del poeta, cosa che gli ha causato enorme dolore ma anche
preservato la salvezza dell'anima di lui non gettando discredito sulla
reputazione di lei, per cui si arriva al paradosso che Petrarca rimpiange ciò che
non è avvenuto (il corrispondere dei sentimenti di Laura), tuttavia è lieto perché
questo non ha causato danno alla sua anima pur avendogli provocato pena e
dolore per lo struggimento di questo amore impossibile. L'autore confessa in
ogni caso di serbare "mirabil fede" (v. 122) alla memoria di Laura, per cui appare
chiaro che il contrasto interiore non è interamente risolto e che Petrarca, pur
essendo consapevole dell'errore morale del suo amore per la donna, non riesce a
liberarsene del tutto neppure anni dopo la morte di lei e nell'imminenza del
proprio trapasso che lo induce a rivolgersi alla Vergine.
I vv. 111-112 descrivono Laura come una novella "Medusa" che ha trasformato
Petrarca in un "sasso" (cioè lo ha reso insensibile e torpido) che tuttavia fa
uscire "umor vano stillante" (le lacrime), con un'immagine bizzarra (l'acqua che
esce dalla roccia) che sarà in parte ripresa da Ariosto nell'episodio del Furioso in
cui verrà descritta la follia di Orlando, paragonato anch'egli a un sasso (in
quanto istupidito, scioccato dall'aver appreso del tradimento di Angelica) e in
seguito protagonista di un monologo in cui si stupisce che dai suoi occhi escano
ancora lacrime, definite in realtà "umore vitale" che fuoriesce dal cuore a causa
del fuoco d'amore. Tra i moltissimi riferimenti scritturali e innografici presenti
nella canzone, val la pena ricordare quello dei vv. 14-16 in cui Maria è definita la
prima e più saggia delle cosiddette "vergini savie", le protagoniste della parabola
evangelica (Matth., 25) in cui dieci fanciulle attendono l'arrivo dello sposo
ciascuna con una lampada, ma mentre cinque di loro hanno una riserva d'olio e
possono quindi far luce anche quando lo sposo tarda ad arrivare, le altre (le
"folli") non l'hanno portata e lasciano smorzare il lume, non venendo quindi
ammesse al banchetto di nozze. Nell'interpretazione allegorica lo sposo è Cristo
e il banchetto è la beatitudine eterna, per cui l'accostamento con Maria acquista
ancora maggior rilievo specie quando, pochi versi dopo, Petrarca ricorda il
martirio di Gesù e lo strazio della Vergine nel vedere la "spietata stampa" (le
piaghe) sul corpo del figlio.

8. I TRIONFI

Il trionfo era una processione riservata ai condottieri romani di ritorno da una


spedizione vittoriosa. Petrarca immagina di assistere a diverse processioni di
personificazioni allegoriche dei grandi temi della vita umana: Amore, Pudicizia,
Morte, Fama, Tempo ed Eternità. Come Dante aveva immaginato di incontrare
una o più anime per ciascuno dei peccati e virtù, così Petrarca descrive per
ciascuno dei trionfi un certo numero di personaggi storici e mitologici.
I Trionfi sono scritti in prima persona e raccontano anch’essi la storia d’amore di
Francesco per Laura. L’inizio è simile a quello di altre opere allegoriche.
Adopera la stessa forma metrica della Commedia, terzine a rime incatenate, che
dopo Dante aveva avuto molta fortuna. Nell’opera non c’è solo la storia di un
individuo e la volontà di cantare amore.
I trionfi sono un’occasione per esporre le sue conoscenze storiche e mitologiche.
Si tratta di un’opera didattica in cui Petrarca classifica e giudica dal punto di
vista cristiano i personaggi più importanti della storia.

L’opera comincia con il protagonista che un giorno ha una visione durante il


sonno. Si trova a Valchiusa, dove è cominciata la storia d’amore con Laura.
Il poeta è sfinito dopo aver pianto troppo, si addormenta e vede un grande
bagliore all’interno del quale compare la prima processione.
Sul carro trionfale c’è Amore come condottiero, e lui non capisce subito, ma
scopre pian piano di cosa si tratta e solo più avanti gli viene rivelato di quale Dio
si celebra il trionfo. È come se Petrarca avesse prolungato il canto V dell’Inferno
di Dante, dove si vedono i più famosi lussuriosi della storia.
Petrarca vede sfilare una lunga serie di personaggi storici e mitologici
accomunati dall’essere stati dominati in vita dall’amore sensuale, a partire da
Cesare, che non è considerato un vincitore, ma un vinto per essersi lasciato
sottomettere dalla passione, lasciando vincere il dio d’Amore.
Nella quarta parte del Trionfo entrano in scena i letterati italiani: Dante e
Beatrice, Cino da Pistoia e Selvaggia, Cavalcanti e Guinizzelli.
Dopo Amore trionfa la Pudicizia, l’amore casto, onesto, gentile, che Laura
pretendeva dal poeta. Nel Trionfo della Morte, la protagonista è Laura, che è così
bella da far sembrare bella anche la morte.
Siamo idealmente nel 1348 e Laura è morta durante l’epidemia di peste.
Se ciò che appartiene al mondo è destinato a morire, l’unica possibilità di essere
ricordati è la Fama. Nel quarto trionfo Petrarca vede i veri condottieri, la cui
memoria si è conservata nei secoli, protagonisti della cultura antica: Platone,
Aristotele, Virgilio e Cicerone.
Se anche la Fama è sconfitta dal Tempo, di cui parla il quinto trionfo, l’unica
speranza è l’eterno.
Il trionfo d’Eternità è l’equivalente dell’ultimo canto della Commedia. Petrarca
immagina di assistere alla fine dei tempi, come Dante aveva immaginato di
vedere con i suoi occhi la Trinità.
È una poesia metafisica, che pretende di mostrarci ciò che non è possibile vedere
nella realtà sensibile. Petrarca non vede la Trinità, ma passato, presente e futuro,
riuniti in un solo punto che in fondo è Dio stesso, onniscente.
GIOVANNI BOCCACCIO

È figlio illegittimo del mercante Boccaccino e di una donna ignota. Nasce tra
giugno e luglio del 1313 in Toscana, a Firenze oppure Certaldo.
Viene presto riconosciuto dal padre prima che questo si sposi. Il padre era socio
della COMPAGNIA DEI BALDI, e questo permise a Boccaccio di trascorrere
l’infanzia a Firenze. Nel 1327 il padre è nominato rappresentate della compagnia
presso gli Angioini di Napoli, e Giovanni lo segue, iniziando a far pratica del
mestiere del mercante, entrando anche in contatto con nobili ed intellettuali.
Napoli allora era una delle più importanti città europee, e la corte angioina era
un importante centro culturale, che permise a Boccaccio di scoprire la
letteratura cortese e cavalleresca, in francese, e i classici latini.
A Napoli negli anni 30 insegnava diritto Cino da Pistoia.
Boccaccio cresceva al centro del mondo politico e letterario del suo tempo, e da
borghese, partecipava vi partecipava in virtù dei propri meriti intellettuali.
Negli anni napoletani, Boccaccio conobbe Fiammetta, che fu messa al centro di
quasi tutte le sue opere giovanili. Dietro il suo nome si cela forse Maria dei conti
d’Aquino, sposa di un gentiluomo di corte, e secondo una leggenda alimentata da
Boccaccio stesso, figlia naturale di Roberto d’Angiò.
Ma potrebbe anche non trattarsi di una donna reale.
Anche la conoscenza del mondo dei mercanti fu importantissima per la scrittura
del Decameron, descritto da Vittore Branca come l’epopea dei mercatanti.
Boccaccio venne indirizzato agli studi giuridici, ma ben presto capì che la sua
vocazione erano gli studi umanistici.
A Napoli negli anni 30 scrive le sue prime opere letterarie: Caccia di Diana,
Filostrato, Filoloco ed alcune poesie latine.
Nel 1340 ritorna a Firenze a causa della crisi finanziaria dei Bardi, e si concentra
sulla letteratura. Scrive il Teseida, la Comedìa delle ninfe fiorentine, l’Amorosa
visione, l’Elegia di madonna Fiammetta e una parte delle Rime.
Nel 1348 a Firenze arriva la peste nera, e amici e padre di Boccaccio morirono.
A tali eventi, si ispirò per scrivere il Decameron. Una prima versione era pronta
all’inizio degli anni 50, ma Boccaccio continuò a lavorarci per tutta la vita.
Tra il 1350 e il 1360, svolse missioni diplomatiche per il Comune di Firenze.
Consegnò alla figlia di Dante il risarcimento in denaro per l’esilio del padre, a cui
dedicò molto studio e su cui compose due importanti lavori critici: il Trattatello
in laude di Dante e le Esposizioni, una serie di lezioni sui primi canti della
Commedia, che lesse in pubblico a Firenze e che lasciò incompiute.
Ammirava molto le opere di Petrarca. Dopo averlo letto per molti anni lo
incontrò per la prima volta a Firenze nel 1350 e l’anno dopo fu suo ospite a
Padova. I due letterati divennero amici, e si scambiarono per tutta la vita lettere
in latino e manoscritti di opere antiche e moderne. Boccaccio inviò a Petrarca
una copia della Commedia di Dante.
Grazie a Petrarca affina la sua conoscenza degli autori classici e modifica in parte
le sue idee circa la funzione della letteratura.
Le opere giovanili erano concepite per il diletto dei lettori, quelle della maturità
hanno una più forte connotazione etica. Il rapporto con Petrarca fu però
conflittuale circa la diversa opinione sull’importanza della letteratura in volgare,
che Boccaccio difendeva, mentre Petrarca la considerava come un passatempo
innocuo. Avevano anche una diversa idea circa la libertà ed il ruolo
dell’intellettuale. Boccaccio critica Petrarca per aver accettato di fissare la
propria residenza presso i Visconti, signori di Milano e nemici di Firenze.
Petrarca sosteneva che i Visconti non erano dei veri tiranni, poiché nella loro
corte godeva di una libertà totale. Questa poteva non piacere a Boccaccio dato
che Milano era una città storicamente avversa a Firenze.
L’ammirazione di Boccaccio per Petrarca restò comunque sempre intatta.
Nel 1374 perla morte di Petrarca, Boccaccio scrisse uno dei suoi sonetti più
intimi, in cui alla scomparsa del poeta si associa la memoria dei maggiori
letterati del tempo e di Laura e Fiammetta, che incarnavano la sintesi perfetta
tra amore e poesia. Il sonetto parla di un uomo ormai anziano che desidera la
morte e spera di rivedere nell’aldilà gli amici e gli amori che avevano rallegrato
la sua esistenza.
Negli anni della maturità, Boccaccio riceve gli ordini minori e diventa chierico
come Petrarca. Dopo il 1360 lascia Firenze e si trasferisce a Certaldo, e scrive
prevalentemente opere erudite in latino, pur continuando a lavorare al
Decameron. Scrive le Genealogie deorum gentilium, il Buccolicum carmen, il De
casibus virorum illustriu e il De montibus.
Negli ultimi anni di vita si riunisce presso di lui un gruppo di intellettuali di cui
fa parte anche COLUCCIO SALUTATI, che dal 1374 sarà cancelliere della
repubblica fiorentina e dopo la morte di Petrarca e Boccaccio manterrà viva la
tradizione degli studi umanistici in Toscana.
Boccaccio continuò ad intrattenere rapporti con la corte di Napoli, dove nel 1371
re Giacomo di Maiorca gli offrì di trascorrere la vecchiaia.
Boccaccio rifiutò rivendicando la libertà e la fedeltà alla patria, in nome dei quali
aveva anni prima contestato le scelte dell’amico Petrarca.
Boccaccio era profondamente amareggiato dalla decadenza politica del suo
Paese, ed il trasferimento della sede papale ad Avignone del 1309 era di una
gravità inaudita. Boccaccio era un intellettuale e la sua ricetta per reagire alla
decadenza non era politica, ma culturale. Gli italiani hanno abbandonato la
disciplina militare, le leggi ed i costumi che li avevano resi potenti e famosi.
Malato, Boccaccio interruppe le letture di Dante.
Morì il 12 dicembre 1375 e sulla sua tomba fece incidere un autoepitaffio in
latino che sintetizzava la sua devozione per la letteratura.
La poesia per lui fu sia una disciplina da apprendere, che una vocazione
naturale.

1. CARATTERI DELLA CULTURA


Boccaccio non sottovalutò mai l’importanza della letteratura in lingua italiana.
Petrarca aveva pochissimi libri in volgare, e dichiarò di non aver mai finito di
leggere la Commedia e il Decameron. Boccaccio fu un appassionato copista delle
opere in volgare di Dante, e studiò a lungo i classici latini e del suo tempo,
lasciandoci anche due biografie di Dante e Petrarca e le Esposizioni sopra la
Comedìa, limitate però alla prima metà dell’Inferno.
Fin dagli anni giovanili Boccaccio affianca allo studio della lingua e letteratura
classica degli esercizi di composizione poetica.
A Napoli familiarizza con la letteratura francese e i poeti italiani.
Nella sua opera mette in pratica il consiglio del poeta latino Orazio di unire
l’utile al dilettevole, ossia che il fine dei poeti è quello di dilettare. Questa
concezione viene esposta nel Proemio del Decameron. Diletto e utile consiglio: la
letteratura serve a dare piacere, ma non è una buona lettura quella che non
insegna qualcosa.
Omnia vincit amor aveva scritto Virgilio, e questo poteva essere considerato il
filo conduttore delle opere giovanili di Boccaccio: Teseida, Filostrato e Filoloco.
I temi classici e mitologici, la materia cortese e cavalleresca e gli elementi
autobiografici vengono sfruttati per mettere in scena il trionfo d’amore nelle sue
varie declinazioni. A differenza di Petrarca, Boccaccio narra un amore terreno,
anche quando è fonte di perfezione ed elevazione morale.
Boccaccio è stato un grande sperimentatore di forme letterarie.
Il Teseida è un poema in ottave, il Filoloco è un romanzo in prosa, l’Amorosa
visione un poema in terza rima. Tra le sue poesie liriche troviamo in italiano,
canzoni, sonetti e ballate, in latino carmi ed egloghe.
Il genere in cui Boccaccio ottenne più successo fu la novella. Il termine indicava
una notizia, ed era già stato adoperato in francese per indicare una narrazione
orale di eventi veri o immaginari. Se in Italia prima di Boccaccio c’è solo il
Novellino, dopo il Decameron il genere della raccolta di novelle è destinato alla
fortuna. Il racconto breve tutt’oggi è molto amato.
La novella non era considerata un genere nobile come il poema epico o la poesia
lirica. Boccaccio ne rivendica la dignità in volgare, in prosa e con uno stile che
può essere anche umile e dimesso. A partire dal Decameron, anche in Italia,
come in Francia, la prosa di intrattenimento può aspirare allo stesso
riconoscimento culturale e sociale attribuito alla poesia.
Il Boccaccio delle opere giovanili è un poeta cortigiano, ed i suoi scritti si
rivolgono al pubblico della corte e spesso traducono in Italiano storie già diffuse
nella letteratura francese che andava di moda nelle corti europee e in quella
angioina a Napoli. Il pubblico delle opere fiorentine e del Decameron è più vasto,
include anche il ceto mercantile a cui Boccaccio apparteneva.
Più volte afferma di rivolgersi preferibilmente alle donne.
Nella Vita nuova, Dante aveva affermato che la poesia volgare nasceva per
potersi rivolgere alle donne, che all’epoca erano meno acculturate degli uomini,
e quasi mai conoscevano il latino. Per Boccaccio è ragionevole pensare che le
donne rappresentino un certo tipo di pubblico che si avvicina ai testi volgari
sopratutto per il puro piacere che trova nella lettura.
Boccaccio fu un grande scrittore ma anche un grande lettore. Comprese la
grandezza di Dante e Petrarca e trascrisse e commentò le loro opere e ne stese la
biografia. Negli anni 50 e 60 copiò più volte le loro opere, contribuendo a fissare
un canone di letture valido ancora oggi.
2. PERIODO NAPOLETANO

Gli scritti della giovinezza si rivolgono ad un pubblico cortese, in cui hanno


grande rilievo le donne. Ogni opera vuole essere come uno specchio del suo
rapporto con la donna scelta tra le altre donne gentili.
Il primo di tali testi è la CACCIA DI DIANA, poemetto in terza rima di 18 canti,
che riprende schemi allora molto diffusi, come l’elogio-rassegna delle belle città
e quello della descrizione della caccia.
Opera di fortuna europea è il FILOLOCO, ampio romanzo in prosa in 5 libri, che
si presenta come una risposta alla richiesta della donna amata, Fiammetta, che
invita l’autore a comporre un piccolo libretto in proposito.
La storia dei due amanti aveva avuto successo nella tradizione romanza. Era
stata narrata da un poemetto francese in varie versioni ed era stata ripresa dal
CANTARE DI FIORIO E BIANCIFIORE. Al nucleo narrativo originario Boccaccio
opera un’amplificazione narrativa, tematica e stilistica, concentrando nella
scrittura le sue curiosità culturali.
La narrazione è piena di descrizioni, discorsi, divagazioni dotte, e la critica ha
parlato di una preminenza nel Filoloco di effusioni liriche e artifici retorici.
I personaggi si reggono proprio sull’incastro di parlate interminabili.
È un esempio perfetto di narrazione tardo-gotica, fitta di emblemi, apparizioni
simboliche e disegni manierati. Il romanzo vuole essere specchio indiretto della
vita cortese napoletana, offrendo un’ idealizzazione di passioni e desideri. E su
tutto questo Boccaccio impone il suo piacere, quasi sensuale di raccontare.
La prosa ha un ritmo incalzante, la sintassi accumula figure e preziose scelte
lessicali. È una sorta di punto di partenza della narrativa moderna.
Di incerta datazione è il FILOSTRATO, poemetto in ottave diviso in 9 parti,
ritenuto da alcuni anteriore al Filoloco. Insieme al Teseida e al Ninfale fiesolano
quest’opera fissa un modello di uso narrativo dell’ottava. Il tema è ricavato dai
romanzi del ciclo troiano, ma si limita ad un solo episodio, quello dell’amore di
Troiolo, figlio di Priamo, della vedova greca Criseida, prigioniera a Troia.
Il titolo significa vinto d’amore. Le componenti storiche e belliche del ciclo
troiano vengono messe da parte per dar rilievo alla vicenda amorosa.
Sullo sfondo della guerra di Troia si muovono immagini di erotismo quotidiano,
e nella figura del protagonista si fondono il trasporto dei sensi e l’intensità
sentimentale. Il linguaggio è spedito, colloquiale, diverso dal Filoloco.
La narrazione del TESEIDA DELLE NOZZE D’EMILIA attinge alle vicende del ciclo
tebano ma si concentra sulla contesa tra due tebani prigionieri ad Atene, Arcita e
Palemone, legati da forte amicizia, che si innamorano entrambi di Emilia, ex
amazzone e cognata di Teseo e si conclude con la morte di Arcita e le nozze di
Emilia e Palemone. Il motivo delle armi si intreccia a quello dell’amore con
elementi drammatici, spunti comici e ricami descrittivi.
Il mondo del mito classico è una proiezione resa seducente dalla distanza del
mondo cortese e cavalleresco. La narrazione dà risalto ai riti di questo universo.

3. UNA LETTERATURA PER FIRENZE

Al ritorno da Firenze, Boccaccio alterna prosa e poesia, tutto sotto il segno di


Amore. Dalle immagini della fiorentina bellezza trae conforto in un momento
triste della sua vita, quale il rimpatrio, ne la COMMEDIA DELLE NINFE
FIORENTINE. Gli antichi schemi di rappresentazione del mondo pastorale
vengono trasferiti nelle colline nei pressi di Firenze, dove il pastore Ameto si
intrattiene con 7 ninfe devote di Venere, innamorandosi di Lia e trasformandosi
da animale bruto in uomo. All’ambiente pastorale si sovrappongono gli schemi
allegorici della tradizione medievale, entrambi trasposti in un orizzonte
mondano e cortese, raffinato, fitto di suggestioni e allusioni.
L’occhio di Ameto insiste sullo splendore fisico delle ninfe, l’eleganza delle loro
vesti, sullo svelare e nascondersi dei loro corpi ed il loro fascino erotico.
L’uso dell’allegoria è esteriore e strumentale, gli interessano le immagini
erotiche e cortesi di queste figure.
AMOROSA VISIONE è un poema in terzine nel quale Boccaccio racconta un sogno
allegorico: una nobile donna lo conduce in un castello in cui sono dipinti i trionfi
della Sapienza, della Gloria, dell’Avarizia, dell’Amore e della Fortuna. Ciò rispetta
uno schema già presente nel Roman de la Rose, che Dante aveva rielaborato in
maniera originale.
Nel NINFALE FIESOLANO Boccaccio usa nuovamente l’ottava per narrare la
storia del pastore Africo, innamorato della ninfa Mensola, alla quale Diana ha
imposto la castità. Africo riesce a possederla con l’inganno, ma poiché essa
continua a rifiutarlo, decide di suicidarsi. Il bambino che Mensola darà alla luce
si chiamerà Pruneo e diventerà siniscalco del re Atlante, fondatore di Fiesole, le
cui origini erano ritenute legate a quelle di Firenze.
Si parla di un poema eziologico, dal termine antico aitia, e si spiega il nome dei
torrenti Mensola e Africo, che corrono nei pressi di Firenze.
Parallelamente alle opere maggiori, Boccaccio scrisse poesie in volgare.
Ne sono rimaste parecchie decine, in cui vengono adoperate quasi tutte le forme,
generi e stili della poesia lirica, dai sonetti che imitano gli stilnovisti maggiori a
testi che riprendono lo stile petroso di Dante. Molti testi, molto vari.

4. ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA

L’opera più importante e innovativa del periodo fiorentino è probabilmente


l’ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA. Il racconto, chiaramente autobiografico, ha
la forma di una lettera scritta a tutte le donne innamorate da Fiammetta, una
fanciulla napoletana abbandonata dall’amante Panfilo, partito per Firenze.
Boccaccio dimostra una viva attenzione per la psicologia dei personaggi,
un’attenzione non diversa da quella che da lì a poco ispirerà alcune delle pagine
del Decameron. Il racconto è affidato ad una donna che esprime i propri stati
d’animo, e questa impressione di modernità che ne deriva, va tuttavia corretta
osservando che Boccaccio riprende un preciso modello letterario.
La struttura dell’Elegia è la stessa delle Eroides di Ovidio, nelle quali alcune
eroine del mito, da Arianna a Didone, raccontano le proprie sventure in forma di
lettera. Boccaccio contamina così ricordi personali con motivi presi dalla
letteratura latina, poiché è ovviamente lui il Panfilo che abbandona Fiammetta.
5. IL DECAMERON

Il Decameron è una raccolta di 100 novelle narrate in dieci giorni, senza contare
il venerdì e il sabato di riposo, da dieci giovani: tre maschi e sette donne.
Ogni giorno ciascuno dei giovani racconta la sua novella, e al termine della
giornata tutti si riuniscono per commentale, cantare e danzare una ballata.
Le novelle sono inoltre inserite in una cornice, una struttura narrativa più
ampia, simile a quella delle MILLE E UNA NOTTE, capolavoro della letteratura
araba medievale. La cornice però è più complessa.
Boccaccio immagina che la grande epidemia di peste del 1348 avesse spinto 10
giovani a lasciare Firenze e a rifugiarsi in campagna, dove per trascorrere il
tempo avevano ideato lo stratagemma delle novelle. Ogni giorno ciascuno di loro
sarà re o regina, e sceglie il tema delle novelle della giornata.
Al mondo caotico della cornice si oppone il cosmo ordinato della brigata, ed il
piacere della lettura diventa un rimedio contro la morte.
Il primo giorno Pampinea è la prima regina, e decide che il tema delle novelle sia
libero. Il secondo giorno Filomena fa da regina e si narrano racconti in cui da una
situazione negativa si è passati ad una situazione positiva. Il terzo giorno la
regina è Neifile e si parla di coloro che avevano acquistato qualcosa che avevano
fortemente desiderato, o di qualcuno che ha trovato ciò che aveva perso.
Nella quarta il re è Filostrato ed i giovani raccontano di amori infelici.
Nella quinta Fiammetta è la regina, e si parla di amori infelici che finiscono bene.
Il sesto giorno la regina Elissa stabilisce che i giovani raccontino storie in cui una
battuta arguta salva il protagonista dai guai. Il settimo giorno Dioneo chiede di
raccontare una novella comica che tratti di beffe fatte dalle donne ai mariti.
L’ottava giornata è dedicata alle beffe in generale.
Il nono giorno Emilia decide che il tema sia di nuovo libero.
Nella decima giornata su decisione di Panfilo si parla di amori nobili.

Boccaccio si ispira all’HEXAEMERON di sant’Ambrogio, e chiama il libro “dieci


giornate”. L’opera ha un sottotitolo: il Decameron è cognomitato prencipe
Galeotto. Galeotto era un fedele compagno di Lancillotto, e lo aiutò a conquistare
Ginevra. Ma anche Dante, nel canto V dell’Inferno, quando narra di Paolo e
Francesca dice “Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, poiché i due scoprirono
l’amore proprio grazie alla lettura. Allo stesso modo, come Galeotto fece da
tramite a grandi personaggi della letteratura, anche il Decameron doveva
probabilmente fungere da favoritore dell’amore tra le ragazze ed i ragazzi della
brigata, un libro che deve essere letto per il piacere che la letteratura genera.
La narrativa medievale racconta per lo più storie inverosimili. I personaggi, gli
ambienti e le storie delle novelle, tranne qualche eccezione, sono quasi sempre
estremamente realistici. Non possiamo sapere se si tratta di storie vere, ma
potrebbero esserlo. Boccaccio afferma di aver trascritto solo storie che letto o
ascoltato, ed è anche su questo che si fonda il principio di realismo.
Boccaccio ha un ruolo importantissimo nella storia della letteratura, proprio
perché solo dopo il Decameron diventa possibile raccontare storie che siano
piacevoli, ben scritte e realistiche.
Boccaccio parla in prima persona solo in tre punti: all’inizio, nell’introduzione
della quarta giornata e in una breve conclusione.
Nel proemio si rivolge alle donne, ideali destinatarie: liberatosi del fuoco
amoroso della giovinezza, intende dar prova di gratitudine verso quante in
passato lo hanno consolato dai dolori d’amore.
Nell’introduzione alla quarta giornata, difende lo stile umilissimo e rimesso
dell’opera, contro le critiche di chi lo accusa di voler troppo piacere dalle donne
e di metterle al centro del suo discorso.
Narra una celebre novella, quella di FILIPPO BALDUCCI e delle papere, che
mostra scherzosamente quanto forte sia l’attrazione verso il sesso femminile e
come l’amore per le donne sia dettato dalle leggi della natura.
Nella conclusione, rivolta sempre alle donne, si prevengono altre possibili
critiche moralistiche e si esalta la varietà della materia narrata, la molteplicità di
punti di vista e la mutabilità delle cose nel mondo.
La voce di Boccaccio tende a mettersi da parte. Egli effettua una scrittura
oggettiva, rinunciando alle allusioni autobiografiche che caratterizzavano molte
opere giovanili, e si allontana dal loro sfoggio di erudizione.
I rapporti tra i giovani sono di un distaccato decoro, nonostante la materia
erotica che impronta nelle novelle. Il loro non è un mondo alla rovescia, ma un
mondo stilizzato e ben composto. La convivenza è sfiorata da tensioni e
tentazioni amorose, ma restano rapporti ipotetici e desideri sospesi.
Nei tre personaggi maschili si cela Boccaccio stesso.
Queste figure appaiono opache, prive di individualità e psicologia, e si
confondono facilmente l’una con l’altra. Possono giocare ad identificarsi
ambiguamente con la situazione narrativa e possono praticare la trasgressione,
come Dioneo che non segue i temi delle giornate e propende per la più scatenata
materia comica ed erotica, e si avvale di una estrema libertà di parole.
I personaggi sono uno schermo necessario tra l’autore e la materia delle novelle.
Traducono variamente, con sottile e artificioso distanziamento, il punto di vista
dell’autore. La natura dei personaggi si manifesta attraverso la tematica
religiosa. Religione e clero sono fondamentali nella vita contemporanea e
Boccaccio ne tiene ben conto. Legandosi alla tradizione antifratesca si limita a
qualche frecciata contro l’ipocrisia degli uomini di chiesa e la loro condotta. E
poiché tutte le cose hanno origine da Dio, le prime giornate danno spazio a
vicende che hanno a che fare con la religione.
Il rapporto più universale è quello amoroso, presentato in tutte le sue possibili
variazioni: dal soddisfacimento di un bisogno naturale alla sensualità più dolce e
delicata, alla passione che accende il cuore e la mente. L’amore può avere risvolti
allegri e comici, aggressivi e osceni. Può darsi in forme remissive, tenere o
tradursi in aperta lotta contro le costrizioni sociali. Può comportare vicende
avventurose, che si concludono in un lieto fine, o violente gelosie.
All’amore si lega sempre la giovinezza e l’opera si lega all’autenticità degli istinti
che guidano i giovani, deridendo gli ingiusti desideri dei vecchi, degli incapaci e
degli indegni. Numerose sono le presenze femminili, vivaci, concrete e piene di
misteriosa seduzione. Non mancano dolci e appassionate figure materne o ricche
di amore materno. L’avventura mette i personaggi a confronto con le forze della
fortuna e può trascinarli verso un fascinoso imprevisto, ma può risolversi anche
in un magico percorso di iniziazione, che pone l’uomo in rapporto con forze
mitiche e sotterranee.
I beffati sono indotti a scambiare l’illusione per realtà, e ciò genera effetti
narrativi sorprendenti. Spesso si giunge all’apoteosi della sciocchezza e a una
serie di deliranti evasioni fantastiche. Altre volte trionfano la menzogna verbale
e lo sproloquio senza limiti. A volte ci si immerge in uno stravolto mondo
contadino, di una violenza quasi diabolica. Altre volte si costruiscono
elaboratissimi esercizi di crudeltà verso le vittime.
Ci sono prima di tutto le storie d’amore, amori infelici e felici. Ci sono i racconti
morali in cui è interessante mostrare attraverso una storia piacevole e
divertente, i vizi e le virtù dei personaggi. Ci sono i temi dell’ingegno e della
fortuna e le novelle di beffa.
Si tratta di un libro veramente popolare poiché tratta una realtà potenzialmente
vicina a quella del lettore. Esso infatti raggiunse anche i meno colti.
Molti personaggi divennero proverbiali e copisti per passione lo sottoposero a
vere e proprie riscritture, aggiornando nomi di luoghi e personaggi. Lo
tradussero ed imitarono Geoffrey Chaucer, Christine de Pizan e Juan de Mena, e
lo stesso Petrarca tradusse in latino la novella di Griselda.
Nel 1559 fu inserito nei LIBRI PROIBITI DELLA CHIESA, e solo nel 1573, con la
controriforma, una commissione nominata a Firenze e guidata da Vincenzio
Borghini, introdusse delle correzioni al fine di eliminare le parti più scandalose,
e riportare la lingua alla forma originaria, togliendo errori dovuti alla tradizione
manoscritta.

COMMENTO PROEMIO

Il proemio del Decameron spiega perché l’opera è stata scritta e come è


organizzata. La motivazione principale è la compassione per chi soffre per
amore e deve essere consolato. Boccaccio prende la parola in prima persona e
spiega di aver provato dolore e consolazione, e la sua esperienza può essere utile
per altri. Lui si rivolgerà soprattutto alle donne, poiché gli uomini hanno altri
modi in cui svagarsi. Le donne potranno trovare, chiuse nella loro cameretta, un
rimedio al dolore amoroso nella lettura.
Questa funzione consolatoria della scrittura non è un’invenzione di Boccaccio.
Già Ovidio, con i REMEDIA AMORIS voleva regalare una medicina per gli
innamorati delusi. Boccaccio adatta questo modello alla realtà del suo tempo e
dipinge un interessante quadro della società fiorentina del 300.
Da un lato descrive un mondo lontano dal nostro, in cui gli uomini vanno in giro
a divertirsi e le donne stanno a casa. Ma nelle sue parole non c’è un
atteggiamento di condanna. C’è il desiderio di equilibrare attraverso la
letteratura la differenza tra i sessi. Le donne rappresentano il pubblico per
eccellenza della letteratura volgare: conoscevano poco il latino, e sancirono
infatti la grandissima fortuna del Decameron.
Boccaccio dimostra subito le straordinarie capacità retoriche. La prosa del
proemio è articolata e complessa, con lunghi periodi e numerose subordinate, un
lessico aulico ed un tono estremamente sostenuto.
Il periodo è spesso costruito come in latino, con il verbo della principale distante
dal soggetto a cui si riferisce, e le subordinate poste all’inizio.
Boccaccio usa stili diversi a seconda della materia narrata. Nei dialoghi delle
novelle si trovano infatti parole prese da un registro più basso e costruzioni più
semplici, simili al parlato.

COMMENTO CORNICE
L’epidemia di peste arrivò in Europa nel 1348 dall’Oriente, per via dei topi che
viaggiavano sulle navi mercantili. Morì quasi metà della popolazione, le
campagne non venivano coltivate, i commerci si bloccarono.
Boccaccio aveva 35 anni, si trovava a Firenze e vide tutto questo. Sopravvisse e
decise di raccontare glie eventi in maniera realistica nella cornice.
Dalla descrizione della peste, sino alla decisione dei ragazzi di rifugiarsi in
campagna, la cornice del Decameron ha una funzione narrativa e morale. Da una
parte è un pretesto per dare avvio al racconto delle novelle, alcune
probabilmente già state scritte; dall’altra offre un’interpretazione in chiave
morale-esemplare sugli eventi storici a cui Boccaccio ha assistito.
Boccaccio non fu l’unico a raccontare tali eventi. Nella CRONICA, Matteo Villani,
in un capitolo che si intitola COME LI UOMINI FURONO PIGGIORI CHE PRIMA, è
testimone di un profondo mutamento economico e sociale. La peste non porta
solo devastazione e miseria, ma paradossalmente lascia i pochi sopravvissuti in
una condizione economica migliore di quella precedente. I superstiti ebbero la
possibilità di arricchirsi ed abbandonarsi più facilmente ai piaceri. La città di
Firenze precipitò così nell’immoralità e nel vizio. Si tratta di un’analisi in chiave
moralistica.
Gli storici moderni ritengono comunque che la grande peste abbia dato inizio ad
un nuovo ciclo economico che consentì alla civiltà fiorentina ed europea di
riprendersi abbastanza rapidamente.
Mancando la manodopera aumentarono i salari per coloro che erano in
condizioni di lavorare. Il costo delle terre diminuì e fu possibile acquistarle a
poco prezzo anche per potenziare l’allevamento, producendo più latte, uova e
carne. La mancanza di manodopera fece sì che chi possedeva terreni si
ingegnasse a farli produrre di più, ed investisse parte del capitale per far
migliorare gli strumenti e le tecniche agricole. La morte di piccoli contadini
portò alla formazione di fattorie più grandi e produttive.
COMMENTO LA CONFESSIONE DI SER CIAPPELLETTO

L’argomento della prima novella è Dio, perché come dice il narratore Dioneo,
tutto ha principio da lui, ed è giusto che il libro si chiami così.
La novella dei ser Ciappelletto racconta di un santo finto e di una parola che non
è vera come la Buona Novella. La novella parla di un inganno, di un peccatore
che durante la confessione inventa di sana pianta la leggenda della propria
santità. Parla di un uomo che porta un nome falso, frutto di un errore e non di
una libera scelta, come sono invece i nomi dei narratori del Decameron.
La novella può essere divisa in 3 parti: antefatto, svolgimento ed epilogo.
Nella prima parte Boccaccio ci presenta Cepparello, spiega perché i francesi lo
chiamavano Ciappelletto e descrive il suo arrivo in Francia, dove era stato
spedito perché, da uomo malvagio quale era, potesse trattare adeguatamente
con i borgognoni, e l’improvvisa e grave malattia che lo riduce in fin di vita,
provocando la preoccupazione degli usurai che lo ospitavano.
La seconda parte è il centro della narrazione, e contiene il colloquio tra
Ciappelletto ed il frate a cui viene confessato di essere in punto di morte,
inventando una serie di atti umili e caritatevoli per indurre il frate a pensare che
fosse un santo. La terza parte contiene la scena della morte e della santificazione.
L’inganno è riuscito e solo il narratore ed il lettore, ed insieme possono avanzare
l’ipotesi che in realtà il grande bugiardo sia finito all’inferno.
Boccaccio nell’opera attinge spesso alla tradizione di scritti satirici nei confronti
di religione ed istituzioni ecclesiastiche.
Ciò non vuol dire che non fosse un buon cristiano, ma era interessato a
condannare i vizi, soprattutto quando i viziosi erano coloro che in teoria
avrebbero dovuto comportarsi nel modo più virtuoso.
In questa novella Boccaccio non è mai esplicito o blasfemo.
È però assurdo che la Chiesa potesse considerare santi individui come ser
Ciappelletto.
Da questo punto di vista la novella può essere letta come parodia dei racconti
agiografici, ossia delle vite dei santi.
La prima e l’ultima novella del libro sembrano perfettamente speculari.
Ciappelletto è forse il peggiore dei peccatori del Decameron, perché mente
durante la confessione e finge di essere un santo, e si auto concede uno degli
onori più grandi concessi ai mortali, e pretende persino di essere sepolto in
chiesa. Boccaccio è cauto sulla sorte ultraterrena di ser Ciappelletto perché
ritiene che il giudizio divino sia imperscrutabile, ma sospetta che sia finito
all’inferno. Griselda, al contrario, è l’incarnazione di tutte le virtù, quasi senza
saperlo, modesta ed inconsapevole, finisce per essere la figura più nobile di tutto
il libro. Il Decameron, oltre ad essere un libro fatto per divertire, è come la
Divina Commedia, un viaggio della decadenza morale, della quale ser
Ciappelletto è buon simbolo, fino alla perfetta virtù della sventurata Griselda.
Dall’inizio alla fine della novella, Boccaccio giudica severamente Ciappelletto, e
vuole che i lettori lo reputino malvagio.
Sembra però in qualche modo affascinato da lui, come lo siamo ancora noi oggi:
ci piace la sua sfacciataggine, la sua incredibile abilità retorica.
Ciappelletto previene le domande del frate perché sa parlare, sa aggirare
possibili obiezioni e sa tenere in sospeso l’attenzione del frate, rimandando
tatticamente la confessione dell’ultimo peccato.
Ciappelletto ha vissuto, conosce gli uomini, sa sfruttare le debolezze.
La sequenza in cui confessa di aver una volta detto una bestemmia contro sua
madre è uno dei momenti in cui la narrativa di Boccaccio raggiunge il proprio
vertice. L’autore ne è perfettamente consapevole.
Il lettore si trova quasi nella stessa condizione del frate. Vuole sapere come va a
finire la storia e perciò pende dalle labbra del narratore/peccatore.
COMMENTO IL CUORE MANGIATO

La letteratura mette spesso in scena le paure più profonde ed oscure degli


uomini. All’inizio della quarta giornata, Boccaccio aveva raccontato la tragica
storia di Tancredi, principe di Salerno, che dopo aver ucciso l’amante della figlia
Ghismonda, gli aveva strappato il cuore e glielo aveva servito in una coppa d’oro,
spingendo la ragazza al suicidio. Nella novella del cuore mangiato, troviamo una
scena di cannibalismo forzato. Una donna viene costretta dal marito a mangiare
il cuore dell’amante. Questo tema era molto diffuso nel medioevo: lo si trova in
forma leggermente diversa anche nella Vita Nova, dove Dante racconta di aver
visto in sogno Amore che dava il suo cuore in pasto a Beatrice.
Qui il tema è inserito in una cornice cortese.
I protagonisti sono due cavalieri: Rossiglione e Guardastagno. Rossiglione sposa
una bellissima donna, della quale nonostante la bellissima amicizia che li lega, si
innamora anche Guardastagno. La donna ricambia ed i due iniziano una
relazione. Rossiglione se ne accorge ed uccide l’amico, gli strappa il cuore e lo da
in pasto alla moglie. Quando le svela cosa le ha fatto mangiare, la donna si toglie
la vita gettandosi giù dalla finestra. Il racconto è breve ed essenziale, ed è
divisibile in 6 scene che vanno a comporre la struttura ternaria già descritta
nelle novelle: l’amicizia, il matrimonio e l’adulterio, l’omicidio, il macabro pasto,
il suicidio e la fuga di Rossiglione, il seppellimento degli amanti.
Nella letteratura occidentale gli amanti non hanno mai avuto una vita facile. Una
delle storie più diffuse nel medioevo era quella di Tristano e Isotta, il cui amore
lungamente contrastato finiva in tragedia. Nel canto V dell’inferno abbiamo
incontrato Paolo e Francesca, uccisi dal marito di lei. Dopo alcuni secoli
Shakespeare metterà in scena la dolorosa fine di Romeo e Giulietta.
Alla fine di NOTRE-DAME DE PARIS, il gobbo assassino Quasimodo sceglie di
morire accanto al corpo dell’amata Esmeralda.
Le storie citate hanno in comune il tema della sepoltura d’amore.
In questa novella ritroviamo questo motivo, intriso di spiritualità cristiana: una
morte tragica ed ingiusta viene riscattata da una sepoltura, che da un lato
preannuncia l’unione degli spiriti nell’aldilà, e dall’altro serve come
ammonimento per i posteri, perché ricordino l’atto scelerato compiuto da
Rossiglione.
COMMENTO CALANDRINO E L’ELITROPIA

Dopo la presentazione dei personaggi principali (Calandrino, Bruno,


Buffalmacco e Maso) si può individuare una prima parte che consiste nella
preparazione della beffa: Maso attira l’attenzione di Calandrino e gli fa credere
che in un torrente lì vicino sia possibile trovare una pietra che fa diventare
invisibili, l’elitropia. Nella seconda parte Calandrino organizza una spedizione
alla ricerca della pietra con Bruno e Buffalmacco, complici della beffa.
Dopo che Calandrino ha raccolto un certo numero di pietre, i due fingono di non
vederlo, e lui crede di essere diventato davvero invisibile e decide di
abbandonare i compagni, che sempre fingendo di non vederlo gli lanciano pietre
addosso. Nella parte conclusiva Calandrino rientra a casa non visto da nessuno
poiché le guardie della città erano complici della beffa, ma la moglie non è al
corrente della beffa, e come è naturale, lo vede.
Calandrino crede che la donna abbia tolto ogni potere alla pieta e la picchia. Solo
l’arrivo di Bruno e Buffalmacco evita che la donna faccia una brutta fine.
Calandrino non è un personaggio simpatico, non è una vittima in cui ci si può
immedesimare per la sua innocenza o ingenuità.
Calandrino è uno stupido che cerca di fare il furbo, nel quale nessun lettore
dotato di senso penserebbe mai di immedesimarsi.
È un uomo ingenuo, rozzo, violento, che cerca di truffare a sua volta senza
riuscirsi. La sua storia fa un po’ ridere come il personaggio di Fantozzi.
Si ride non perché qualcuno è vittima di burla, ma perché Fantozzi e Calandrino
sono miseri e meschini, e in fondo si meritano la loro punizione.
La beffa dell’elitropia funziona anche perché la credenza nell’esistenza di pietre
magiche era molto diffusa nel medioevo.
La beffa di Maso non era del tutto improbabile. Non possiamo infatti escludere
che a Firenze al tempo di Boccaccio ci fosse qualche credulone che pensava che
nel torrente Mugnone si potesse trovare davvero la pietra dell’invisibilità.
Un’erba miracolosa sarà inoltre centro di un altro capolavoro della letteratura
italiana, la MANDRAGOLA di Niccolò Machiavelli.
6. OPERE LATINE E DELLA MATURITA’

È in latino la maggior parte delle sue lettere. In latino è il BUCOLICUM CARMEN,


una raccolta di 16 egloghe, un genere pastorale classico, tornato in voga con
Dante e praticato anche da Petrarca. In lingua latina è anche gran parte della sua
produzione erudita e storiografica: il DE CASIBUS VIRORUM ILLUSTRIUM, una
raccolta di storie esemplari di personaggi famosi morti in miseria; il DE
MULIERIBUS CLARIS, una rassegna di 104 biografie di donne celebri, da Eva alla
regina Giovanna di Napoli; le GENEALOGIE DEORUM GENTILIUM, dedicate al re
di Cipro, in cui Boccaccio raccoglie il patrimonio della mitologia antica dando
prova di una vastissima conoscenza della letteratura classica e mediolatina.
Negli anni 50 scrive in volgare il TRATTATELLO IN LAUDE DI DANTE, la prima e
vera biografia di Dante Alighieri. Raccolse notizie e aneddoti per comporre un
elogio del poeta, assimilato a grandi scrittori dell’antichità come Virgilio.
Agli ultimi anni di vita risalgono le ESPOSIZIONI SOPRA LA COMEDIA DI DANTE,
nate dagli appunti presi per tenere delle lezioni dantesche nella chiesa di Santo
Stefano a Firenze nel 1373. Boccaccio spiega prima il significato letterale del
poema e poi quello allegorico, cioè il significato vero e quello profondo, nella
maggior parte dei casi un significato morale.

Nella tarda maturità scrisse il CORBACCIO, una violenta satira antifemminile.


L’autore scrive in prima persona ed è tormentato da una passione amorosa non
ricambiata e sogna di smarrirsi in una valle oscura, dove incontra il marito
defunto della donna amata, che gli elenca i vizi delle donne per convincerlo a
dedicare la sua vita agli studi e non all’amore.
Il Corbaccio è un’opera fortemente misogina, e leggendola si ha l’impressione
che si tratti di un Boccaccio anziano che in qualche modo voleva rinnegare la sua
opera per buona parte dedicata all’elogio delle donne.
Nel medioevo esisteva però il genere della RETRACTATIO, ed è possibile che la
conversione misogina sia anche fittizia e scherzosa, in parte, il prodotto di una
specie di gioco letterario.
IL RINASCIMENTO

Alla disgregazione sociale ed economica succede un processo di ricostruzione e


riorganizzazione nella nostra penisola, mentre in Inghilterra e in Francia il
periodo era devastante per via della guerra dei cento anni, che sarebbe poi finita
nel 1453. Il commercio trova un nuovo vigore e la produzione agricola aumenta
grazie ai vari processi tecnici e alla diffusione di nuove colture arboree e
arbustive. Molti mercanti investirono i loro guadagni commerciali ed ampliarono
i possedimenti terrieri, impegnandosi in un nuovo sfruttamento del lavoro
contadino. I guadagni vengono poi investiti nelle città in opere architettoniche e
aristocratiche, esibite dalle famiglie nobili.
Si forma una nuova e più ampia aristocrazia, che gode di antichi privilegi feudali
o prerogative di diversa origine. La società si regge su una struttura gerarchica
divisa in classi. Persistono e spesso si riorganizzano antiche strutture feudali e lo
spirito delle classi dominanti appare spregiudicato.
Si ricostruiscono le antiche strutture di dominio e sfruttamento, svuotate da
molte delle giustificazioni originarie. Si afferma la virtù dell’uomo che persegue
fini terreni, il valore dell’individuo che cerca di imporre se stesso su una
struttura sociale gerarchica e violenta. Al vertice degli stati italiani ci sono i
Signori, che esercitano un duro controllo e mettono fine alla rivalità tra famiglie
e fazioni comunali, e garantiscono una relativa pace interna, rendendo ereditari i
propri poteri. Il perfezionamento della polvere da sparo è all’origine di una
rivoluzione nella vita militare, in cui nel XV secolo comincia ad avere un ruolo
importante l’artiglieria. L’invenzione della stampa modifica anche i criteri di
trasmissione della cultura.

Con il termine Rinascimento si indica un insieme di fenomeni che iniziano nel XV


secolo, come lo sviluppo culturale ed artistico, la ripresa economica ed una
nuova attenzione alla vita terrena e mondana. Si intende un rinascere dell’uomo
e del suo impegno sociale e culturale, della sua aspirazione a scegliere e
organizzare il proprio destino. Vi è un nuovo interesse per la natura, di cui
l’uomo viene esaltato come signore, e il culto della gloria.
Alcuni studiosi fanno iniziare il Rinascimento già con Petrarca e Boccaccio, altri
lo riferiscono alla fase d massima che riguarda il periodo di guerra dell’Italia.
Vi sono molte confusioni inoltre tra Rinascimento ed Umanesimo.
Furono proprio gli studiosi a partire da Petrarca a cercare di dare una rinascita
ai testi antichi, liberandoli dalle deformazioni subite nei secoli precedenti.
Il culto dell’antichità passo alle classi dominanti italiane.
Continuò ad operare il mito della renovatio, che aveva agito nei secoli
precedenti. Gli uomini di questo secolo ebbero una percezione acuta del rifiorire
della vita civile, degli studi e delle tecniche. Studiosi ed artisti ebbero la
convinzione di stare al centro della civiltà europea, di potersi proporre come
guida per la cultura di tutti gli altri paesi.
Il Rinascimento è strettamente collegato all’Umanesimo, e quest’ultimo andrà
inteso come la sua prima ed essenziale espressione, che ha fondamento nella
riproposta della letteratura antica.
Il mondo universitario resta estraneo alle tendenze vi