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La lirica volgare del 1200 è giunta sino a noi grazie ai CANZONIERI. Solo 3 di
questi risalgono al ‘200, e sono tutti di area toscana: il VATICANO LATINO 3793,
il PALATINO e il LAURENZIANO REDIANO 9.
Generalmente la forma più utilizzata è quella del SONETTO, una forma metrica
di carattere lirico, costituito da 14 versi in 2 quartine e 2 terzine endecasillabi,
con rime disposte secondo schemi ben precisi.
o Il d’OIL era la lingua francese, utilizzata nel Nord della Francia per una
letteratura romanzesca che narrava fatti ed avventure cavalleresche.
I cicli più importanti erano:
1. Quello carolingio, che raccontava le avventure dei paladini di Carlo
Magno, che combattevano per difendere i valori di fede e patria.
Il più conosciuto di loro era Orlando.
Si vennero a creare diverse culture e diverse lingue, che avevano tutte una rigida
impostazione derivata dal latino stesso: erano le lingue romanze.
La lingua che noi ora parliamo è frutto di una lunghissima evoluzione, derivata
dal latino parlato, diverso dal latino scritto.
I testi della scuola poetica siciliana furono poi toscanizzati dopo la morte di
Federico II, con cui ebbe fine la scuola siciliana stessa. La Toscana ed in
particolare Firenze divennero il nuovo fulcro della vita culturale del tempo.
1. GIACOMO DA LENTINI
L’amore è un desiderio che viene dal cuore, per una sovrabbondanza di piacere,
e gli occhi prima generavano l’amore e il cuore gli dà nutrimento.
È vero che c’è qualche volta qualche innamorato che non ha visto l’oggetto del
suo amore, ma quell’amore che stringe con furore, nasce dalla visione della
donna amata. Gli occhi dimostrano al cuore le qualità buone e cattive di ogni
cosa che vedono, così com’è in natura.
E il cuore che accoglie ciò, immagina e gli piace il desiderio che ne scaturisce.
Gli uomini che ricevono tale “dono” sono dotati di un animo buono e gentile, la
cui nobiltà non è legata ad una questione di sangue, ma si parla di nobiltà
d’animo, un concetto comune durante questo periodo.
Tra i numerosi poeti siciliani vanno ricordati: il dictator Pier delle Vigne, Stefano
Pronotaro e Rinaldo d’Aquino.
MI RITORNU IN CANTARI,
CA FORSI LEVIMENTI
DI LU TROPPU TACIRI;
CA SENZA DIMUSTRANZA
Per rallegrare il mio cuore, che per molto tempo è stato senza allegria e senza
gioia d’amore, io torno a cantare, perché forse facilmente potrei trasformare in
abitudine la lunga sospensione del canto, ma quando esiste materia per fare
poesia, ben si deve cantare e manifestare allegria, perché, se non la si
manifestasse, la gioia d’amore avrebbe senz’altro poco valore; dunque a giusta
ragione deve cantare ogni amante.
2.CIELO D’ALCAMO
Il suo CONTRASTO, databile tra gli anni 30 o 40, era molto noto a Dante. Si tratta
di un dialogo tra un giullare ed una fanciulla, che prima reagisce duramente al
corteggiamento dell’uomo, ma poi cede alle sue insistenze. Il fondo linguistico è
siciliano, con derivazioni campane. Probabilmente il testo era destinato a
recitazione cantata. Non sappiamo se egli fosse un giullare o un poeta di corte
che vuol fare un uso comico del suo linguaggio.
Vi sono asimmetrie nella disputa, e tutta una mimica equivoca ed allusiva, che
creano una parodia dell’amor cortese e del suo linguaggio.
Chi ascolta è chiamato ad una complicità con il dialogo, tutto men che nobile.
Se ti tormenti per me, la follia te lo fa fare. Potresti rompere con l’aratro il mare,
e seminarvi, potresti riunire tutte le ricchezze del secolo [del mondo]: non mi
potresti avere però in questo modo. Piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio
monaca].
Se ti tagli i capelli, prima io vorrei esser morto, perché con essi io perderei la mia
consolazione e il mio diletto. Quando passo da casa tua e ti vedo, rosa fresca
dell’orto, ogni volta mi dai un buon conforto: facciamo sÍ che il nostro amore si
congiunga.
Se mi trovano i tuoi parenti, che mi posson fare? Ci metto una difesa di duemila
augustali. Non mi toccherà tuo padre per quanta ricchezza c’è in Bari. Viva
l’Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che dico?
Ci sono molte femmine che hanno la testa dura, e l’uomo con le parole le domina
e le persuade; tanto intorno le dà la caccia finché non l’ha in suo potere. La
femmina non si può difendere in alcun modo dall’uomo: guardati, bella, dal
dovertene pentire.
Dovermene io pentire? Possa io morire, prima che qualche donna onesta possa
essere rimproverata a causa mia! Ieri sera sei passato correndo a cavallo. Perciò
riposati adesso, canterino; le tue parole non mi piacciono affatto.
Se fossi destinata a te scenderei troppo dalla mia altezza, perché le mie bellezza
sarebbero sprecate se date a te. Se mi dovesse avvenire una tal disgrazia, mi
taglierò le trecce, e mi farò suora in un monastero, prima ancora che tu mi tocchi
nella persona.
Se ti fai suora, donna dal viso chiaro, verrò al monastero e mi farò frate: per
piacerti in questa prova lo farò volentieri. Starò con te la sera e il mattino: a tutti
i costi dovrò farti mia.
12. “BOIMÈ TAPINA MISERA, COM’AO REO DISTINATO!
Ohimè, misera tapina, com’è triste il mio destino! GesÚ Cristo, l’Altissimo, del
tutto è adirato con me; mi hai fatto nascere per darmi in mano a un tal
bestemmiatore! Cerca nel mondo, che è assai grande; [certo] troverai una donna
piÚ bella di me.
Poiché ti sei tanto affaticato [in questa ricerca] ti faccio una preghiera: che tu
vada a domandarmi a mia madre e a mio padre. Se acconsentono a darmiti in
sposa, portami al monastero, e sposami davanti alla gente, e poi farò ciò che
vuoi.
Di ciò che dici, vita mia, niente ti vale, poiché delle tue storie non ne parlo
nemmeno più. Pensasti di mettere le penne, ma ti son cadute le ali; e ti ho dato il
colpo di grazia. Dunque, se puoi, continua a essere villana.
Non mi far paura con i tuoi stratagemmi: me ne sto in gloria in questo forte
castello; considero le tue parole meno di quelle di un fanciullo. Se tu non ti levi e
te ne vai di qua, certo vorrei che fossi morto.
17. “DUNQUE VOR[R]ESTI, VÌTAMA, CA PER TE FOSSE STRUTTO?
Dunque tu vorresti, vita mia, che per te io fossi distrutto? Anche se dovessi qui
morire o sfregiato completamente, di qua non mi muoverei se non ho il frutto
che sta nel tuo giardino: lo desidero dalla sera alla mattina.
Quel frutto non l’hanno avuto né conti né cavalieri; molto l’hanno desiderato
marchesi e giudici regionali, ma non hanno potuto averlo: se ne sono andati
molto adirati. Capisci quello che voglio dire? Ciò che tu hai è meno di mille once.
Dio lo volesse, vita mia, che io morissi in casa tua! L’arma ne sarebbe consolata,
poiché delira giorno e notte. La gente ti chiamerebbe: “O malvagia spergiura, ché
hai ucciso l’uomo in casa, traditora!”. Invece mi togli la vita senz’alcun bisogno di
ferita.
22. “SE TU NO LEVI E VA’TINE CO LA MALADIZIONE,
A me non m’aiutano né parenti né amici: io sono forestiero, cara mia, tra questa
buona gente. Or fa un anno, vita mia, che mi sei entrata in mente. Da quando ti
ho vista in maggio, bella, da quel giorno son ferito [innamorato].
Mi segno nel nome del Padre del Figlio e in quello di San Matteo: so che non sei
eretico o giudeo, e codeste parole finora non le hai sentite dire. Se la femmina è
morta in tutto e per tutto, ci perdi il sapore e il piacere.
Questo lo so bene, cara mia: altro non posso fare. Se questo non fai per me,
lasciami cantare. Ti piaccia farlo, mia donna, ché certo lo puoi fare. Ancora tu
non m’ami, e molto io ti amo, m’hai preso all’amo come un pesce.
So che m’ami, e io ti amo con cuore nobile. Alzati su e vattene, torna qui al
mattino. Se fai ciò che dico, ti amo con cuore buono e prezioso. Questo ti
prometto senza fallo: hai la mia promessa in tua balia.
Per quello che dici, cara mia, non mi muovo affatto. Prima prendi e scannami:
prendi questo coltello nuovo. Si può far questo prima che si cuocia un uovo.
Esaudisci il mio desiderio, amica bella, perché l’arma mi si rattrista con il cuore.
30. “BEN SAZZO, L’ARMA DÒLETI, COM’OMO CH’AVE ARSURA.
Questo lo so bene, l’anima ti duole, come l’uomo che arde. Questo non può essere
fatto a nessun’altra condizione se non hai il Vangelo, affinché io ti dica “giura”,
non puoi avermi in tuo potere; prima prendi e tagliami la testa.
Il Vangelo, cara mia? io lo porto con me: l’ho preso in chiesa (non c’era il prete).
Sopra questo libro giuro di non tradirti mai. Esaudisci il mio desiderio per carità,
ché l’arma me ne se sta in consunzione.
3.GUITTONE D’AREZZO
Con la morte di Federico II venne meno anche l’ambiente adatto per la poesia
raffinata, assieme alla corte meridionale. Il centro culturale si spostò in Toscana,
in particolare a Firenze, dove vi era il violento scontro tra Guelfi e Ghibellini.
Nella sua vasta produzione si possono distinguere una poesia amorosa e una
poesia civile e morale. Nella poesia d’amore, descrive l’alternarsi di gioia e
dolore, in alcuni testi esalta la donna, come fonte di valori, che infonde nell’uomo
tutte le virtù. Lascia inoltre trasparire una realistica spregiudicatezza.
In questi anni si sviluppa la poesia di RUSTICO FILIPPI, metà in stile serio, metà
in stile comico. Si appropria della lingua fiorentina in tutta la sua raffinatezza e
ricchezza, per graffiare la realtà, con misurata sapienza retorica e vivace gusto
lessicale. Nei sonetti seri, dà voce ai più concreti aspetti del rapporto amoroso.
BUGGERESSA: ZOZZONA.
FRAGOR: PUZZO.
IN … VOLPE: SEI UNA TANA DI VOLPI (LA VOLPE ERA L’ANIMALE SIMBOLO
DELLA SPORCIZIA).
IL DOLCE STIL NOVO
1. GUIDO GUINIZZELLI
Nelle sue rime più esemplari sono in primo piano il valore della donna, e lo
stupore per il suo manifestarsi. La sua apparizione scaccia ogni cattivo pensiero,
e la donna è attorniata da chiarità e splendore.
La donna si rivolge al mondo esterno con il suo saluto ed il suo sguardo.
La lode che il poeta le fa è la più elevata dimostrazione di amore.
È forte la sua disposizione filosofica soprattutto nel sonetto AL COR GENTIL
REMPAIRA SEMPRE AMORE, manifesto dell’amore stilnovista.
Amore e gentilezza sono strettamente collegati, due diverse qualità della stessa
sostanza. L’autentico amore è riservato a chi ha un cuore nobile, un cuore
gentile, e la nobiltà d’animo non è strettamente connessa alla nobiltà di sangue.
AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE
2. GUIDO CAVALCANTI
STILNOVISTI MINORI
Il testo presenta un dialogo a botta e risposta tra Cecco e la sua amante Becchina,
dalla quale l'uomo supplica il perdono per qualche tradimento e riceve per tutta
risposta insulti e l'invito ad andarsene. In realtà la donna viene mostrata come
molto abile dialetticamente e dotata di astuzia nel tenere "sulla corda" il suo
spasimante, come si deduce dalla battuta finale in cui essa gode tra sé del fatto di
"tenere" il cuore di Cecco.
Il sonetto ha schema della rima ABAB, ABAB, CDC, DCD e presenta una struttura
singolare, poiché ogni verso contiene le due battute alternative dei personaggi
(Cecco e la risposta di Becchina) perfettamente ripartite tra i due emistichi
dell'endecasillabo. Numerosi i termini del lessico popolare, come tradito (v. 1,
"traditore"), calmar (v. 6, "cercare di calmare"), abbo (v. 7, "io ho"), un segno (v.
8, nel senso di "un colpo", un malanno come segno divino), mi par mill'anni (v. 9,
"l'attesa mi sembra interminabile", "non vedo l'ora").
Merzé e gecchito (v. 3, "pietà" e "umile") sono invece provenzalismi e derivano
dalla lirica occitanica.
Il testo riprende la forma del "contrasto" tipico della letteratura amorosa e della
poesia comica, anche se qui la situazione è grottesca e rovesciata: Cecco non
cerca di sedurre Becchina ma di ottenere il suo perdono per qualche torto
commesso (prob. un tradimento, anche se la cosa non è detta esplicitamente),
mentre alla fine lei glielo concede ma si compiace anche di tenere in pugno
l'innamorato e di procurargli dei guai ("E terrò co’ tuo’ guai").
L'autore mescola termini della tradizione colta e aulica con espressioni popolari
e gergali, specie nelle risposte di Becchina che ribatte colpo su colpo alle
richieste e professioni di innocenza di Cecco, alludendo in modo poco chiaro a
ciò che sa sul suo conto e rispondendo anche in modo ironico alle proteste
dell'uomo ("Tu m’insegnerai", "Tegnoti per li panni?").
La commistione di tono alto e popolare ricorda il contrasto di Cielo d'Alcamo (►
TESTO: Rosa fresca aulentissima), in cui una popolana ribatte con ironia alle
profferte amorose di un uomo.
Di lui sono rimasti una trentina di sonetti, tra cui si distinguono due corone.
Una è di 8 sonetti ed è dedicata ai giorni della settimana.
L’altra è di 14 sonetti ed è dedicata ai mesi dell’anno.
Queste corone sono doni che il poeta offre ai nobili signori, e descrivono
occupazioni piacevoli. Viene ripresa la tradizione del PLAZER, un elenco di cose
piacevoli, e vi aggiunge la passione per il ritmo del calendario, viva nella cultura
medievale. Ogni sonetto offre un quadro di una situazione felice, utilizzando la
vita delle ricche classi cittadine, colte nella perpetua vacanza, capacità di godere
e dominare. Il lavoro opposto fu fatto da CENNE DE LA CHITARRA, che sostituì ai
piaceri, noie e fastidi.
NASCITA DELLA PROSA VOLGARE
Un’ altra tradizione che si prolunga è quella delle storie universali scritte in
latino, che partendo dalle origini del mondo accostano le notizie più diverse
ricavate da fonti disparate, senza controllo critico.
Per noi sono più interessanti le CRONACHE, che raccontano eventi di città,
regioni, e si dilungano su fatti recenti. Numerosi sono i cronisti meridionali.
La CRONICA, scritta da SALIMBENE DE ADAM, narra gli eventi accaduti durante
la sua vita, usando ricordi, voci, memorie e giudizi, con poche fonti scritte.
Presta attenzione ai particolari dell’esistenza, con un latino vivace, elementi
lessicali e sintattici vicini al volgare.
Tra le cronache in volgare c’è la ISTORIA FIORENTINA di RICCARDO MALISPINI,
sulla cui identità vi sono diversi dubbi.
La sua scrittura da una parte può far pensare alla cronaca, dall’altra fa pensare
alla trattatistica storico-geografica. Per la sua materia può essere collegato alle
relazioni di viaggio compilate nel corso del secolo.
Il titolo MILIONE figura una più antica redazione Toscana, che risale all’inizio del
300, adottata dalle moderne stampe italiane.
L’opera inizia con la descrizione di diversi paesi d’Oriente, a volte accompagnati
dalla narrazione di eventi reali o leggendari.
La parte centrale è più ampia e dedicata alla descrizione della corte del GRAN
KHAN e del suo impero e delle sue vicende storiche e militari.
Il passaggio tra i vari paesi è sempre simile, a volte identico.
La narrazione si riferisce ad avvenimenti realmente accaduti o visti, e fa continui
riferimenti a valori religiosi, cavallereschi o fantastici.
Il Milione offre un capitale modello letterario del viaggio e della conoscenza
geografica e culturale prima sconosciuta.
Le avventure ed i viaggi di Marco Polo diventano componente essenziale
dell’immaginario europeo.
LA PROSA MORALISTICA
2. LA VITA NUOVA
VITA NUOVA, 3
POI CHE FUORO PASSATI TANTI DIE, CHE APPUNTO ERANO COMPIUTI LI
NOVE ANNI APPRESSO L’APPARIMENTO SOPRASCRITTO DI QUESTA
GENTILISSIMA, NE L’ULTIMO DI QUESTI DIE AVVENNE CHE QUESTA MIRABILE
DONNA APPARVE A ME VESTITA DI COLORE BIANCHISSIMO, IN MEZZO A DUE
GENTILI DONNE, LE QUALI ERANO DI PIÚ LUNGA ETADE; E PASSANDO PER
UNA VIA, VOLSE LI OCCHI VERSO QUELLA PARTE OV’IO ERA MOLTO PAUROSO,
E PER LA SUA INEFFABILE CORTESIA, LA QUALE È OGGI MERITATA NEL
GRANDE SECOLO, MI SALUTO E MOLTO VIRTUOSAMENTE TANTO CHE ME
PARVE ALLORA VEDERE TUTTI LI TERMINI DE LA BEATITUDINE.
VITA NUOVA, 14
APPRESSO LA BATTAGLIA DE LI DIVERSI PENSIERI AVVENNE CHE QUESTA
GENTILISSIMA VENNE IN PARTE OVE MOLTE DONNE GENTILI ERANO
ADUNATE; A LA QUAL PARTE IO FUI CONDOTTO PER AMICA PERSONA,
CREDENDOSI FARE A ME GRANDE PIACERE, IN QUANTO MI MENAVA LÀ OVE
TANTE DONNE MOSTRAVANO LE LORO BELLEZZE. […] SÍ CHE IO,
CREDENDOMI FARE PIACERE DI QUESTO AMICO, PROPUOSI DI STARE AL
SERVIGIO DE LE DONNE NE LA SUA COMPAGNIA. E NEL FINE DEL MIO
PROPONIMENTO MI PARVE SENTIRE UNO MIRABILE TREMORE
INCOMINCIARE NEL MIO PETTO DA LA SINISTRA PARTE E DISTENDERSI DI
SUBITO PER TUTTE LE PARTI DEL MIO CORPO. ALLORA DICO CHE POGGIAI LA
MIA PERSONA SIMULATAMENTE AD UNA PINTURA LA QUALE CIRCUNDAVA
QUESTA MAGIONE; E TEMENDO NON ALTRI SI FOSSE ACCORTO DEL MIO
TREMARE, LEVAI LI OCCHI, E MIRANDO LE DONNE, VIDI TRA LORO LA
GENTILISSIMA BEATRICE. ALLORA FUORO SÍ DISTRUTTI LI MIEI SPIRITI PER
LA FORZA CHE AMORE PRESE VEGGENDOSI IN TANTA PROPINQUITADE A LA
GENTILISSIMA DONNA, CHE NON NE RIMASERO IN VITA PIÚ CHE LI SPIRITI
DEL VISO; E ANCORA QUESTI RIMASERO FUORI DE LI LORO ISTRUMENTI,
PERÒ CHE AMORE VOLEA STARE NEL LORO NOBILISSIMO LUOGO PER
VEDERE LA MIRABILE DONNA. […]
Continuando la battaglia dei suoi pensieri riguardo l’amore per Beatrice, questa
andò dove erano adunate altre donne.
Dante fu portato in quel posto da un amico, che pensava di fargli un piacere.
Dante acconsentì di stare al servizio delle donne per tenere loro compagnia.
Prima che la compagnia si sciogliesse, Dante sentì un tremolio al cuore, un
turbamento di cui non seppe dare spiegazione, e che si tramutò in una vera e
propria sofferenza fisica, che presto si estese per tutto il corpo.
Dante temette di svenire e si avvicinò al muro della stanza per sorreggersi, su un
muro affrescato. Avendo paura che qualcuno si fosse accorto della sua
sofferenza, alzò lo sguardo verso le donne, e vide tra loro la gentilissima
Beatrice, la cui sola presenza lo turbava. Gli spiriti vitali che governavano il suo
corpo furono richiamati dal cuore. Il corpo era senza forze, i suoi spiriti erano
distrutti, ad eccezione di quelli della vista.
A seguito di una conversazione con una donna, che gli dice che la sua beatitudine
può trovarsi solo nelle parole dedicate alla donna amata, Dante si affida alla
poesia della LODE, spinto da una forza superiore.
Nascono DONNE CH’AVETE INTELLETTO D’AMORE, TANTO GENTILE E TANTO
ONESTA PARE. Vi sono anche delle situazioni dolorose, come quella della morte
del padre di Beatrice e la malattia del poeta, che lo porta ad una visione che
annuncia la propria morte e la vista di Beatrice tra gli angeli.
Al risveglio scrive DONNA PIETOSA E DI NOVELLA ETATE dopo aver parlato con
una giovane donna. Il clima teso si risolve nella contemplazione di Beatrice.
Presto giunge la morte dell’amata, che Dante non narra direttamente.
Descrive solo uno stato di sofferenza e perdita della donna amata.
Dante afferma così il proposito di non parlare più di Beatrice sino a che non ne
avrebbe parlato in modo più degno.
La Vita Nuova resta così in sospeso.
Quest’opera non può esser letta solo in chiave religiosa o mistica, e non si tratta
solo di un’opera allegorica o simbolica.
VITA NUOVA, XX
Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò
fosse cosa che alcuno amico l'udisse, volontade lo mosse a pregare me che io
li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l'udite parole speranza di me
oltre che degna. Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era
trattare alquanto d'Amore, e pensando che l'amico era da servire, propuosi
di dire parole ne le quali io trattassi d'Amore; e allora dissi questo sonetto, lo
qual comincia: Amore e 'l cor gentil.
87 (LXXIII)
1. Dante a Forese
MOGLIE: NELLA.
BICCI: BICCICOCCO.
VERNATA: SOFFERTO IL FREDDO.
OVE … CRISTALLO: SECONDO ARISTOTELE IL CRISTALLO È ORIGINATO
DAL GHIACCIO PORTATO DA UN VENTO FRED-DISSIMO A
TEMPERATURA STRAORDINARIAMENTE BASSA.
CALZATA: CON LE COPERTE BEN RIMBOCCATE.
CORTONESE: DI CORTONA / CORTO (CON VALORE OSCENO).
MALA VOGLIA: INDISPOSIZIONE.
OMOR … VECCHI: PERCHÉ SIA VECCHIA.
DIFETTO … NIDO: POVERTÀ / ASTINENZA SESSUALE.
CONTE GUIDO: GUIDO IL VECCHIO, NOBILE ARETINO O GUIDO
NOVELLO.
Nel sonetto, Dante dice che chi sentisse tossire la sventurata moglie di
Forese, detto Bicci, potrebbe dire che forse ha passato l’inverno nel Paese
dove si produce il cristallo (che nel Medioevo si pensava nascesse dal
ghiaccio, dunque la regione indicata è nell’estremo Nord).
Anche a metà agosto la trovi raffreddata – immagina come deve stare in
ogni altro mese! E non le serve a molto dormire con le calze, a causa della
coperta che è corta (questa è un’allusione oscena all’assenza del marito nel
letto; c’è anche un ulteriore gioco di parole con «cortonese», che vale
«corto» e «di Cortona», città toscana vicina ad Arezzo, in una regione dove
nel XIII-XIV secolo fiorì un’importante industria della lana).
La tosse, il freddo e gli altri malanni non le capitano per la sua vecchiaia
(gli «omor’ ch’abbia vecchi» sono i liquidi organici che si credevano
responsabili delle funzioni vitali, dunque Dante insinua che la donna è
avanti con gli anni e, forse per questo, poco attraente agli occhi di Forese),
ma per la mancanza che sente nel nido (la già ricordata assenza di Forese
dal letto coniugale; potrebbe alludere ad infedeltà coniugali dell’uomo,
oppure dall’andare di notte a rubare in casa altrui – nel sonetto Bicci novel
della tenzone, Forese è chiamato «piùvico ladron», «ladro matricolato»).
La madre di lei piange e ne ha più d’un motivo, mentre dice: «Ahimè, con
una dote modesta potevo farle sposare uno dei conti Guidi!» (si allude
quasi certamente ad uno dei conti Guidi del Casentino e forse a Guido il
Vecchio, fondatore della dinastia e citato da Dante in Paradiso, XVI, 98.
La madre di Nella intende dire che con una dote modesta avrebbe
procurato alla figlia un ottimo matrimonio, addirittura con una famiglia di
antica nobiltà).
88 (LXXIV)
2. Forese a Dante
2) Tutti gli anni 90 videro rime dottrinali, in cui Dante esprime la passione
per il sapere. La filosofia gli appare come una donna amorosa. Non è
un’allegoria artificiosa, ma la versione più complessa di una ricerca di un
valore assoluto.
CONVIVIO I, X
La trattazione del problema della lingua, centrale nel primo trattato del
Convivio, viene svolta da Dante sotto diversi profili. Nei capitoli precedenti
egli ha sottolineato il nesso esistente tra questione linguistica e funzione
etico-politica della letteratura. Nelle pagine successive a questo capitolo si
soffermerà polemicamente sulle ragioni che inducono molti letterati ad
opporsi all’adozione del volgare (e che discendono, per lo più, da
atteggiamenti moralmente riprovevoli). In questo capitolo, invece, la scelta
del volgare viene rivendicata soprattutto da un punto di vista tecnico.
Il capitolo si apre su un’apologia del proprio operato: l’autore sa che gli
verrà rivolta l’accusa di avere servito a tavola pane di scarsa qualità
(continua, quindi, la metafora del banchetto introdotta fin dalle prime
pagine del trattato), e rimarca – richiamando l’autorità del diritto romano
– il fatto che, quando ci si allontana dalla tradizione, è necessario avere
dalla propria parte solide ragioni. L’insistenza con cui Dante espone gli
argomenti contrari alla propria tesi (sottolineata dal ricorrere, nel primo
capoverso, di parole chiave come «nuove cose» e «ragione», nonché
dall’anafora: «E però» , «Però») prepara il dispiegarsi della sua
argomentazione. Dapprima (nella parte che abbiamo omesso), Dante
espone “in positivo” le ragioni che lo hanno portato a scegliere il volgare
(il desiderio di dimostrarne l’eccellenza, unito al timore che altri potesse
tradurre dal latino la sua opera con esiti stilistici non soddisfacenti).
Quindi torna all’argomentazione “difensiva”, confutando le accuse di
quanti ritengono il volgare italiano inferiore alle lingue d’oc e d’oïl. Dante
rivendica la capacità espressiva della sua lingua materna, che gli appare
matura per esprimere concetti alti e difficili, allo stesso livello del latino; è
necessario però, perché tale potenzialità si possa esprimere, rinunciare
alle «accidentali adornezze» della poesia. Solo in questo modo si potrà
sfruttare appieno la bellezza della lingua (paragonata alla bellezza di una
donna, che dipende dalla sua persona e non dai suoi abiti). In realtà
l’argomentazione di Dante non risulta, sul piano tecnico, particolarmente
approfondita: essa si vale, infatti, di criteri basati su giudizi di gusto
(«agevolezza» delle sillabe, «proprietadi» dei costrutti e «soavi orazioni»
che il volgare rende possibili), che non sono rigorosamente definiti e
possono apparire ingenui a una moderna sensibilità linguistica.
Sull’aspetto tecnico della scelta del volgare, del resto, Dante avvertirà la
necessità di un approfondimento maggiore quando, interrompendo la
stesura del Convivio, deciderà di affrontare il problema in un’opera
autonoma (il De vulgari eloquentia). Nel primo trattato del Convivio
invece la riflessione tecnica è destinata a lasciare il campo ad una polemica
di ordine più generale; una polemica che dimostra, del resto, come in
Dante sia sempre presente un nesso organico tra il problema linguistico e
la dimensione etico-politica in cui si colloca la sua opera.
CAPITOLO I
All’inizio del Convivio Dante aveva avvertito che, nel corso dell’opera,
sarebbe stata applicata alle sue poesie l’interpretazione allegorica.
Adesso, apprestandosi a commentare la prima canzone, l’autore precisa il
metodo interpretativo che intende seguire, soffermandosi sui diversi
significati che è possibile attribuire ai testi letterari. Il discorso di Dante,
però, verte più in generale sulle «scritture», termine con il quale si
indicano tanto le opere poetiche quanto i testi sacri. La dottrina
dell’interpretazione allegorica era stata infatti sviluppata dai padri della
Chiesa (a partire da Girolamo e Agostino) e applicata inizialmente alla
Bibbia; in seguito fu estesa anche ai classici, che con questo metodo
potevano essere conciliati con il cristianesimo.
I possibili sensi elencati da Dante sono quattro: a quello letterale si
aggiungono infatti il senso «allegorico», quello «morale» e quello
«anagogico». Dante precisa però che i testi, sacri o profani, possono essere
interpretati al massimo («massimamente») in quattro sensi. Ciò implica
che non tutti i testi sono suscettibili di un’interpretazione così articolata.
Nell’illustrare il senso allegorico Dante utilizza un esempio tratto dalla
poesia di Ovidio (il mito di Orfeo che, con il suono della cetra, ammansiva
le belve e muoveva le piante e le pietre). Per esemplificare il senso morale
e quello anagogico, invece, egli introduce due esempi tratti dalle Sacre
Scritture.
Va sottolineata una differenza fondamentale tra i due tipi di «scritture»
esaminati da Dante. I testi poetici possono avere un significato vero
soltanto in senso allegorico; il significato letterale sotto il quale questo
messaggio è ammantato va sempre considerato falso (per esempio, che
Orfeo muova le pietre e gli alberi con il suono della sua cetra è ovviamente
una finzione). I testi sacri presentano anch’essi un significato vero in senso
morale o anagogico. Ma, in più, essi devono essere considerati veri anche
alla lettera. L’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto, per esempio, è un fatto
storico che i medievali consideravano realmente accaduto nei termini
descritti dalla Bibbia. Esso, però, racchiude anche una verità relativa ai
destini ultimi dell’anima, della quale rappresenta la liberazione dal
peccato.
Sulla base della verità o della falsità del senso letterale, si possono dunque
distinguere due tipi di allegoria: una allegoria dei poeti e una allegoria dei
teologi. Dante chiarisce con precisione che, nel corso del Convivio,
utilizzerà esclusivamente l’interpretazione propria dell’allegoria dei poeti
(alla lettera, dunque, le sue canzoni vanno considerate delle finzioni).
Quanto detto finora, tuttavia, non esaurisce la complessa teorizzazione
dantesca sull’allegoria. Dopo la stesura della Commedia, infatti, il poeta
tornerà sull’argomento con un’epistola indirizzata a Cangrande della
Scala; in essa verrà proposta per il poema un’interpretazione basata non
più sull’allegoria dei poeti ma su quella dei teologi. La Commedia, stando a
quanto ci dirà Dante, non va considerata semplicemente come una «bella
menzogna», ma andrà letta con strumenti intepretativi simili a quelli che si
applicano alle Sacre Scritture. Una novità, questa, che ha straordinarie
implicazioni sull’interpretazione complessiva del poema, e che sarà
possibile chiarire solo approfondendo lo studio del capolavoro.
5. IL DE VULGARI ELOQUENTIA
Dante fa per la prima volta uso di una prosa latina legata ai modelli della
trattatistica retorica, senza intenti divulgativi, ma solo per convincere i dotti del
valore del volgare, che si apprende senza bisogno di studio.
Dante ripercorre una storia universale della lingua, partendo da quando Dio
diede agli uomini il beneficio di una lingua universalmente comprensibile.
Con la distruzione della Torre di Babele, simbolo di superbia dell’uomo che
voleva raggiungere Dio, Dio confuse le lingue come punizione, e gli uomini non
furono più in grado di comunicare.
Qualcosa di sacro restò solo nell’ebraico.
I popoli che parlavano le lingue fondamentali erano sparpagliati.
Nell’area greca attraverso la KOINE si creò il greco.
Nell’area latina si creò il latino.
In Europa meridionale si stabilirono 3 lingue diverse ma imparentate tra loro.
Il d’OIL e il d’OC erano parlate in Francia.
In Italia si parlava la lingua del SI.
A queste lingue corrispondono altrettante letterature.
Un’analisi particolare è volta al volgare italiano. Dante ne analizza 14,
chiedendosi quale di questi possa essere il più illustre, ma nessuno sembra
esserlo. Il volgare illustre doveva essere CARDINALE, AULICUM, CURIALE.
Il secondo libro mostra un rapporto più stretto con le ARTES DICTANDI et
POETRIAE.
La forma più nobile è quella della canzone.
Al volgare illustre conviene lo stile tragico, alla commedia il volgare umile.
6. LA MONARCHIA
7. LE 13 EPISTOLAE
Sono lettere scritte in latino, che mostrano la grande abilità di Dante nell’ ARS
DICTANDI, attraverso artifici retorici e varie forme del CURSUS.
Spesso raggiunge toni accesi per portare il destinatario ad un confronto con la
fine, con la realizzazione di giustizia. Sono perlopiù lettere politiche, che
rifiutano cautele ed ipocrisie.
Dante Alighieri, esiliato da Firenze, venne accolto da Bartolomeo della Scala nel
1304, quando Cangrande era ancora bambino (anche se già ne tesseva le lodi), e
tornò a Verona a soggiornare nella corte di Cangrande solo più tardi, dal 1312 al
1318: egli loda quindi la clemenza e la generosità di Bartolomeo e Cangrande nei
versi del XVII canto del Paradiso. Nella prima parte del canto Dante scrive del
suo lungo peregrinare da una corte all'altra, alla ricerca di un rifugio e del
sostentamento, arrivando quindi a parlare dell'accoglienza che riceve nella corte
scaligera, un luogo privilegiato rispetto alle altre tappe dell'esilio, passate in
silenzio: in particolare loda il soggiorno presso Cangrande, a cui dedica sei delle
otto terzine dell'episodio scaligero.
Il Cacciaguida, trisavolo di Dante, funge nel canto da profeta e predice (per lo più
post eventum) le magnificenze del fanciullo di nove anni, magnificenze che
ovviamente Dante conosceva. Ma alle magnificenze precedenti ne aggiunge di
nuove, consistenti «in cose/incredibili a quei che fier presente», incredibili
anche per coloro che ne saranno spettatori, ma su queste il Cacciaguida pone a
Dante l'obbligo di non rivelarle, anche se nello stesso momento dice di fissarsele
bene in mente. Quest'ultima profezia, al contrario delle precedenti, è ante
eventum, cioè non riguarda ciò che Cane ha già fatto, ma è una vera e propria
profezia, dato che tra il 1312 ed il 1318 (anno di stesura del canto) Cangrande
non compì imprese particolarmente eccezionali.
Dunque, Dante, già si aspettava dal Signore veronese cose eccezionali.
Cacciaguida accenna solo indirettamente al soggiorno presso Cangrande, in
merito all'accoglienza, con la frase «A lui t'aspetta e a' suoi benefici», anche se
nei dodici versi precedenti e nei cinque successivi, parla esclusivamente di lui,
nonostante l'episodio sia presentato come il primo soggiorno di Dante.
Il Gran Lombardo è talmente ospitale da essere identificato con la cortesia, la
quale gli aprirà le porte della dimora del Lombardo e gli mostrerà un tale
riguardo che gli risparmia anche la fatica «del chieder». Oggi gli studiosi sono
concordi nel vedere in Bartolomeo della Scala il Gran Lombardo dei primi versi,
anche se il fatto di portare l'aquila imperiale sullo stemma ha fatto pensare si
trattasse di Alboino, dato che solo nel 1311 venne affidato il vicariato imperiale
ad Alboino e Cangrande, che poterono quindi fregiarsi dell'aquila nello stemma.
Però Albertino Mussato scrive in un testo che già prima del vicariato gli Scaligeri
solevano fregiarsi dell'aquila, riabilitando quindi la tesi che Dante si rivolga a
Bartolomeo. Comunque, se Dante dà risalto all'ospitalità della prima accoglienza,
è solo per via dell'accoglienza ricevuta da parte di Cangrande: l'identità del Gran
Lombardo è infatti tenuta vaga nel canto proprio perché, nell'economia
dell'episodio, ha solo una funzione "drammaturgica", utilizzata per consentire
l'entrata in scena di Cangrande, che, a soli nove anni (nel momento della
visione), non sarebbe potuto apparire da solo.
Nel verso 88 Cacciaguida preannuncia, tra l'altro, i benefici che Dante avrebbe
ricevuto da Cane, benefici che lo stesso Dante dichiara di avere ricevuto nella
epistola di dedica del Paradiso a Cangrande, dove lascia inoltre intendere che
anche molti altri avevano beneficiato della sua bontà. Secondo Dante inoltre,
essendo Cangrande nato nel marzo 1291, era impressa su di lui la stella forte:
quella di Marte, che porta il nome del dio della guerra. Essendo nato sotto quella
stella il fanciullo avrebbe compiuto importanti imprese guerresche.[95] E non
solo, infatti la liberalità di Cangrande, anche nell'ambito politico e sociale, viene
esplicata da Dante nei versi «per lui fia trasmutata molta gente,/cambiando
condizion ricchi e mendici»: la trasmutazione, sociale e politica, è il centro ideale
della terzina. Ed infine, nell'ultima terzina, Cacciaguida intima a Dante di tenere
per sé la profezia ante eventum.
Dante visse spesso con la preoccupazione dei suoi problemi economici, ma
venne generosamente aiutato da Cangrande, il quale, tra l'altro, leggeva
affascinato le sue opere, in particolare il Paradiso. E quindi Dante, con una
epistola, gli dedicò proprio quella cantica, la preferita di Cane. L'encomio di
Cangrande è così esaltato nella lettera che alcuni critici hanno ipotizzato, senza
però sicuri fondamenti, che fosse questo il personaggio prefigurato da Dante nel
"veltro" del canto I dell'Inferno. È in particolare Aroux ad identificare Cane nel
veltro, vedendovi una allusione: il veltro sarebbe il cane da caccia nemico della
lupa romana. Il fatto che, come ha scritto Dante, il veltro caccerà la lupa di città
in città, finché la ricaccerà nell'inferno, può essere visto come la vittoria
ghibellina sulle città guelfe.
In realtà questa ipotesi non è generalmente accettata. Fu tra l'altro, molto
probabilmente, grazie al denaro di Cangrande che Dante poté scrivere il De
Monarchia, di cui Cangrande fu in parte ispiratore ed influenzatore. Secondo
Boccaccio, inoltre, Dante era solito inviare a Cangrande dai sei agli otto canti del
i iDante e Cangrande erano ormai amici stretti, anche se le visite, dopo che era
partito da Verona nel 1318, furono più brevi.
8. OPERETTE MINORI
Dante scrive le EGLOGE in esametri latini in risposta alle epistole in versi del
grammatico GIOVANNI DEL VIRGILIO, che affermano la dignità della poesia in
volgare, attraverso il modello delle BUCOLICHE di VIRGILIO.
Va ricordato il trattato QUESTIO DE AQUA ET TERRA, trascrizione di una lezione
cosmologico-filosofica di impostazione scolastica tenutasi a Verona nella
chiesetta di Sant’Elena durante una breve visita dopo il trasferimento a Ravenna.
FIORE
9. LA DIVINA COMMEDIA
L’INFERNO
La narrazione inizia con Dante disperso nella selva, oscura per via dell’assenza
della luce divina. Mentre tenta di risalire il pendio del colle viene interrotto dalle
tre fiere, che rappresentano i vizi umani: la lonza rappresenta la lussuria, il leone
rappresenta la superbia e la lupa rappresenta l’avarizia.
In suo soccorso giunge Virgilio per desiderio di Beatrice.
Dante viene a conoscenza del male e delle punizioni divine grazie al viaggio.
L’Inferno si apre in una voragine nei pressi di Gerusalemme, e scende con una
forma ad imbuto verso il centro della terra. È diviso in cerchi concentrici che
accolgono i dannati in base alle loro colpe.
I cerchi infernali sono 9, preceduti dall’Antinferno che ospita gli ignavi, rifiutati
da Dio e dal demonio.
Nel primo cerchio si trova il LIMBO, che accoglie le anime di coloro che non
hanno potuto ricevere il battesimo, di coloro che sono nati prima di Cristo, a
cominciare dai grandi dell’antichità.
I peccati vengono assegnati secondo la legge del contrappasso.
Via via che si scende, sono stati commessi peccati sempre più gravi.
Vi sono gli incontinenti, gli eretici, i violenti e i fraudolenti, che hanno piegato
l’intelligenza al male. Molti peccati di frode sono puniti nell’ottavo cerchio, detto
MALEBOLGE, diviso in 10 fosse concentriche, mentre al nono dimorano i
traditori nella: CAINA, ANTENORA, TOLOMEA E GIUDECCA.
Conficcato nel ghiaccio al centro ella Terra c’è Lucifero, re dell’Inferno.
La cantica è dominata da una lacerante visione negativa.
Un uomo ancora vivo, destinato a tornare sulla Terra e salvarsi, guarda e sfiora
le anime condannate in eterno. Alcune volte si commuove per come essi hanno
agito, altre li contempla in modo distaccato e feroce.
Il regno del demonio è quello della dissoluzione morale e civile del mondo
contemporaneo.
COMMENTO CANTO I INFERNO
Il canto I dell'Inferno, che funge da proemio di tutta l'opera contiene i
presupposti della straordinaria esperienza spirituale che Dante personaggio ha
compiuto e che Dante autore intende narrare, poiché se essa è stata «amara e
paurosa» all'inizio, ha poi condotto al «bene».
La narrazione contiene quindi due livelli temporali: quello del viaggio del
personaggio-pellegrino, al passato (mi ritrovai, era, mi trovai ecc.), quello
dell'impegno del poeta-uomo, al presente (è, rinova, non so), e quello del piano
della riflessione su di essa e della narrazione, al futuro (dirò).
Il legame tra i due livelli è costituito dalla figura del protagonista che conserva
tutte le caratteristiche biografiche e psicologiche dell'uomo, di Dante Alighieri
insomma, poeta fiorentino, vissuto in un determinato contesto storico e
culturale e con determinate esperienze artistiche e morali.
Il linguaggio usato è quello del simbolismo medievale, privo di preoccupazioni di
coerenza narrativa e di corrispondenza realistica. Il linguaggio allegoricamente
permette poi di passare agevolmente dal piano dei significati individuali a quello
dei valori universali: la lupa ad esempio può rappresentare una tentazione
intercorsa nella vicenda spirituale di Dante, ma certamente rappresenta
l'ostacolo morale che insidia la vita di molti e causa la rovina di uomini e paesi.
L'orizzonte si allarga così all'umanità intera o più specificamente alla realtà
storico-politica nota a Dante e presente alla sua riflessione, in cui sceglierà
Virgilio come personaggio-simbolo: egli rappresenta nella cultura medievale la
voce più alta, per elevatezza stilistica e profondità del messaggio.
Perché Dante si ritrovi in una selva e dove essa sia non ha importanza quanto il
fatto che essa simboleggi la dimensione oscura e intricata dello spirito in cui si è
persa la luce della verità e la guida della ragione.
L'azione poi si sposta sul pendio desertico che conduce al colle, la cui cima è
illuminata dal sole.
Siamo nella notte tra il 7 e l'8 aprile 1300 (Venerdì Santo), o secondo altri
commentatori tra il 24 e il 25 marzo 1300 (anniversario dell'Incarnazione di
Gesù Cristo).
Nel mezzo del cammin di nostra vita vuol dire a trentacinque anni, quando un
uomo si trova nel pieno dell'età; si riteneva infatti che la durata media
dell'esistenza fosse di sessanta anni. Quindi l'autore nato nel 1265, l'inizio del
viaggio si colloca nel 1300.
Compare una determinazione temporale: è l'alba di una giornata di primavera,
quando il sole si trova in Ariete.
Un'angoscia mortale attanaglia l'uomo-Dante: nel pieno della maturità gli accade
di sentirsi sbalzato in un mondo dai contorni stravolti, in cui domina la notte
dell'anima. È come sognare un brutto sogno con la tragica consapevolezza che
tutto è reale e non ci sarà alcun risveglio tranquillizzante. L'uomo è perso, non
riesce a comprendere come sia finito in una situazione pressoché irrimediabile e
cerca invano una via d'uscita.
Un barlume di speranza finalmente s'affaccia e sembra farsi consistente nel
recupero di immagini positive, quando Dante riesce a scorgere in alto, sopra di
sé, il cielo che si tinge di rosa. Il panico è dominato e il viaggiatore contempla
l'oscurità sconfitta con lo stato d'animo di chi è miracolosamente scampato a
un'insidia mortale. Ma si tratta di una vana illusione: pericoli ancor più gravi
sovrastano e ricacciano l'uomo nella primitiva disperazione. Sono gli istinti
indomabili, le passioni travolgenti che incalzano senza tregua.
La selva oscura incombe ancora sul capo del pellegrino. Le forze stanno per
abbandonare Dante: l'uomo, solo con le sue angosce, crollerebbe se la voce della
ragione, sebbene debole per essere stata troppo a lungo silenziosa, non si
mostrasse nella figura del poeta Virgilio, accorso in suo aiuto. Assistito dalla
Grazia divina, Virgilio è inviato da Dio a illustrare un percorso di conoscenza
razionale, è la guida a cui affidarsi in totale abbandono filiale. Da lui Dante
apprende come la lupa sia la belva feroce più pericolosa: animale non mai sazio,
si lega, ammaliatore, a tanti uomini di potere e non. Occorrerà, per sconfiggerla,
l'arrivo del veltro.
L'annuncio profetico placa Dante che, indotto ormai a sperare nell'appoggio di
Virgilio, gli chiede di guidarlo nel lungo viaggio di conoscenza e di espiazione che
lo condurrà alla pace. Il bene non si acquisisce di colpo, ma è dura e faticosa
conquista: la consapevolezza è il premio di chi coraggiosamente si interroga e
sinceramente si analizza. La lonza, simbolo della lussuria, il leone, simbolo
dell'orgogliosa superbia che induce alla violenza, la lupa, emblema dell'avidità,
esprimono in maniera tangibile la forza degli istinti e l'impossibilità di
fronteggiarli senza strumenti adeguati. Questi appunto Dante deve forgiare e il
viaggio che il poeta sta per compiere dentro le viscere della terra e nelle pieghe
del suo inconscio è un percorso di autoconoscenza e purificazione, nella linea di
una progressiva autonomia interiore. Capire il male è liberarsene e scoprire che,
con tutte le sue allettanti attrattive, in realtà esso lega inesorabilmente l'uomo
alla sua finitezza e ne decreta la perdizione. L'uomo nuovo, pertanto, dovrà
nascere dalle lacrime e dalla sofferenza di quello vecchio che accetta di morire.
COMMENTO CANTO VI INFERNO
Il sesto canto dell’Inferno dantesco è ambientato nel terzo girone infernale, dove
dimorano le anime che si sono macchiate in vita del peccato di gola. Dante vi
giunge dopo essersi risvegliato dal mancamento avuto alla fine del canto
precedente, in seguito all’incontro e al dialogo con Paolo e Francesca. La
descrizione che il poeta ci fornisce di questo cerchio cancella qualsiasi pathos
nei confronti delle anime che sono qui recluse (se non ai vv. 58-59),
opponendosi in modo evidente all’atteggiamento di pietà e di compartecipazione
umana che dominava nel canto quinto. Qui le anime dei golosi giacciono a terra,
con il viso nel fango, e sono torturati da una pioggia incessante e dalle angherie
del guardiano del girone, il malefico Cerbero. Costui è un personaggio
demoniaco, dotato di tre teste canine, che graffia e fa a brandelli con i suoi artigli
le anime dei golosi. Virgilio riesce a tenere a bada Cerbero gettando del fango
nelle sue tre fauci, e così Dante e il suo maestro possono transitare liberamente
tra le anime sofferenti. Un’anima si alza dalla massa informe e fangosa e si
rivolge a Dante; è Ciacco, un concittadino del poeta, probabilmente chiamato
così a causa della sua ingordigia. Dante lo interroga sul destino della loro città,
continuamente divisa nella lotta fra Guelfi e Ghibellini, e Ciacco profetizza lo
scontro tra le due fazioni guelfe dei Bianchi e dei Neri, e il prevalere finale dei
secondi. Il tema è allora quello politico, come per ogni sesto canto di ogni
cantica: il dannato descrive con toni cupi e profetici il modo in cui i fiorentini
"verranno al sangue" (v. 65), alludendo agli scontri tra fazioni del 1300-1301.
Ciacco aggiunge poi che in città non c’è quasi presenza di persone meritevoli o
che possano cambiare il triste destino di lotta interna, a causa delle "tre faville"
(v. 75) della superbia, dell'invidia e dell'avarizia. Dante gli chiede dove si trovino
alcuni personaggi fiorentini illustri, e Ciacco risponde che questi (tra cui
Farinata e Iacopo Rusticucci), colpevoli dei peccati più orribili, si trovano nei
gironi più profondi dell’Inferno. Ciacco torna col viso nel fango, dopo aver
chiesto a Dante di ricordarlo una volta fatto ritorno tra i vivi. Virgilio spiega al
poeta che Ciacco non solleverà più su il viso dalla poltiglia in cui giacerà fino al
Giorno del Giudizio, a seguito del quale i suoi affanni e il suo dolore cresceranno
ulteriormente. I due protagonisti camminano sopra le anime - come segno di
disprezzo nei loro confronti - e continuano il loro viaggio nell’oltretomba,
arrivando alle porte del quarto girone, dove s’imbattono in Pluto, “il gran
nemico”, demonio della ricchezza. Si dice che i termini “guelfo” e “ghibellino”
derivino dalle opposte grida di battaglia (rispettivamente, “Hye Welff!” e “Hye
Waiblingen!”) pronunciate per la prima volta dagli eserciti dei duchi di Baviera
(guelfi) e degli Hohenstaufen (ghibellini) nel corso della battaglia di Weinsberg
per la corona imperiale, dopo la morte senza eredi di Enrico V. Se questa
spiegazione è certamente suggestiva, è più facile ipotizzare che i termini
nacquero successivamente e per individuare due indirizzi politici opposti: il
primo, quello dei Ghibellini, si faceva sostenitore della tradizione imperiale ed
osteggiava il potere papale; il secondo, guelfo, sosteneva invece il potere
temporale del papato, e la sua intrinseca superiorità rispetto alla corona
imperiale. Questa polarizzazione tra sostenitori dell’Impero e sostenitori del
Papa caratterizzò buona parte della storia europea tra XII e XIV secolo; in Italia il
conflitto si radicò anche nelle contese tra le diverse città (tendenzialmente
guelfe furono Milano, Padova, Bologna, Firenze e Lucca, mentre ghibelline erano
Pisa, Siena ed Arezzo) o all’interno dei comuni stessi. Firenze è l’esempio più
celebre di questa lotta intestina: qui la fazione ghibellina venne sconfitta e
cacciata dopo la battaglia di Campaldino del 1289. Successivamente, in seguito
all’espulsione di alcuni guelfi da Pistoia, esiliati proprio nel capoluogo toscano, si
generò una divisione all’interno dello stesso campo guelfo: i “bianchi”
(rappresentati dalla famiglia dei Cerchi e sostenitori della necessità di un potere
imperiale che si affiancasse a quello papale) e i Neri (capeggiati dalla famiglia dei
Donati 1 ed intransigenti nel sostenere il primato del Papa).
Il primo maggio del 1300 (con i cosiddetti “fatti di Calendimaggio”) si ebbe lo
scoppio delle ostilità tra “bianchi” e “neri”, che portarono anche all’esilio di
Guido Cavalcanti. L’anno successivo, in giugno, i “neri” vennero cacciati da
Firenze per aver tramato segretamente per eliminare gli avversari politici;
tuttavia, già nel novembre del 1301 l’arrivo in città di Carlo I di Valois, in seguito
alle richieste del Papa,sposta nuovamente gli equilibri politici. I “neri” rientrano
in città, si impossessano del potere e, nel giugno 1302, emettono condanne
all’esilio e a morte, che colpiscono Dante stesso. Da quel momento, il poeta non
potrà più tornare a Firenze.
IL PURGATORIO
Dal centro della Terra, Dante e Virgilio risalgono verso la superficie. Si trovano
agli antipodi di Gerusalemme, dove su di un’isola in mezzo all’Oceano si trova la
montagna del Purgatorio, fatto di 7 gironi che cingono a livelli diversi la
montagna. In ogni girone si espia uno dei 7 peccati capitali, disposti dal basso
verso l’alto in ordine di gravità: superbia, invidia, iracondia, accidia, avarizia,
peccati di gola, lussuria. I sette gironi sono preceduti da un Antipurgatorio dove
si trovano: chi è morto per una condanna della Chiesa e coloro che si son pentiti
solo in fin di vita. Solo dopo una lunga attesa possono espiare i peccati.
I peccatori non dimorano in un solo girone, ma li attraversano, sostando più o
meno a lungo in ciascuno di essi. Il percorso è scandito da alcuni schemi rituali.
Un angelo controlla il passaggio da un girone all’altro, ed ognuno rappresenta la
virtù opposta a quella punita nel girone precedente, e ne cancella il segno.
Anche qui vige la legge del contrappasso, ma le pene sono sopportate con
serenità. I vari rituali sono scanditi dal tempo. I gesti delle anime sono guidati
dalla voglia di vedere Dio e dall’impazienza.
Il cammino è possibile solo di giorno, di notte il movimento s’arresta.
Anche Dante compie il cammino di espiazione, condividendo le esperienze delle
anime., che pongono in primo piano la fiducia e l’amicizia, la nostalgia per gli
affetti familiari e la vita terrena.
I canti VI e XVI sono dedicati al tema politico e alla situazione dell’Italia e delle
corti italiane. Numerose sono le figure segnate dalle passioni e dalla sofferenza:
Manfredi, Pia dei Tolomei, Sordello, Stazio, Forese Donati.
Il colloquio con le anime diventa occasione di dialogo con se stesso, con la
propria ansia di risalire e purificarsi.
Al culmine dell’ascesa, Dante giunge al Paradiso terrestre. Appare Beatrice,
mentre Virgilio scompare all’improvviso. Beatrice lo rimprovera per i suoi
traviamenti. Vede una processione che sintetizza allegoricamente la storia
dell’umanità e della Chiesa. Dopo l’immersione nei fiumi Letè ed Eunoè, si trova
puro e disposto a salire alle stelle.
L'Italia (vv. 76-90), che viene definita come una "donna di bordello", per
denunciarne la bassezza morale e spirituale, e per mettere in luce le infinite lotte
intestine che la dilaniano e che hanno vanificato anche la grande e mirabile
operazione legislativa dell'imperatore Giustiniano e del suo Corpus Iuris Civilis.
La "gente" (vv. 91-96) della penisola, che, sia dall'ordine ecclesiastico sia da
quello signorile, ha msotrato il più completo disinteresse per il buon governo e
per la pace comune, con il risultato di rendere selvaggia e "fella" (v. 94, cioè
"ribelle") l'Italia, paragonata ad un cavallo che non vuol essere domato.
L'imperatore Alberto I d'Austria (1248-1308) che, nonostante il titolo che porta,
non è mai sceso in Italia (vv. 97-117), preferendo lasciarla in completo e totale
abbandono,anzichéi prenderne le redini e riportarla sulla retta via. L’apostrofe
all’Italia viene poi seguita da una a Firenze,in cui Dante denuncia la corruzione,
l’inconsistenza e la falsa partecipazione civile e politica dei cittadini interessati
solamente al proprio interesse e non più alla cosa comune. Il quarto
interlocutore (l'unico su cui non si riversa l'astio di Dante) è Dio stesso (vv. 118-
126) cui si chiede, retoricamente, se questa situazione di degrado e corruzione
(che sembra sovvertire tutte le regole del mondo, come detto ai vv. 124-126)
non sia forse un passaggio doloroso e necessario per un futuro diverso. Firenze
(vv. 127-151) su cui si riversano le accuse più pesanti e sarcastiche al tempo
stesso. Dopo l'elenco dei mali italiani, Dante afferma ironicamente che la città
toscana non deve preoccuparsi, perché è piena di virtù civili, senso della
rettitudine e della legge (tanto da stare davanti anche as Atene e Sparta), e
perché i suoi cittadini accorrono in massa per ricevere cariche pubbliche
(ovviamente, per la loro sete di potere e denaro). La conclusione tuttavia è
amarissima: Firenze, se avesse un po' di lume di ragione, capirebbe che si
comporta come il malato che non vuole affrontare la sua condizione. Il sesto
canto del Purgatorio presenta un andamento, da un punto di vista stilistico e
retorico, circolare: si apre con una similitudine (vv. 1-12), mentre a circà metà
del canto ne troviamo una seconda (vv. 88-99); chiude un terzo paragone, più
breve dei precedenti (vv.148-151). L’apertura del canto è data appunto dalla
similitudine tra la condizione del poeta e quella di un giocatore dopo una partita
ai dadi, che descrive il momento in cui lo sconfitto viene lasciato in disparte da
tutti mentre cerca di capire in quale modo avrebbe potuto vincere, mentre il
vincitore è attorniato da persone che cercando di ottenere da lui parte della
vincita. In modo analogo Dante è quasi sopraffatto dalle anime che gli chiedono
preghiere e suffragi per poter vedere ridotto il proprio soggiorno di
purificazione nel Purgatorio. Nella parte centrale troviamo la metafora che
avvicina la situazione tra un cavallo e il suo cavaliere e l'Italia e l'imperatore che
dovrebbe riportare l'ordine. In questo momento infatti il cavallo è una bestia
selvaggia, irrequieta e riottosa e necessita assolutamente di un cavaliere che sia
in grado di domarla e di addomesticarla anche - se necessario - con gli speroni e
la frusta. Infine l’ultima immagine riguarda una vecchia malata (paragonata alla
città natale di Dante, Firenze), che, nonostante sia distesa in un luogo
confortevole come un materasso di piume, non riesce a trovare la posizione
ottimale e continua a muoversi per cercare di allievare il dolore che sente. Dante
usa l'immagine per indicare la costante scontentezza ed insoddisfazione dei
fiorentini, che sul piano politico si traduce (oltre che nell'incapacità a guardare
in faccia la realtà) in provvedimenti e leggi che servono solo a perseguire
interessi personali o a colpire gli avversari politici, e non al bene della
cittadinanza. Sordello fu un trovatore provenzale di origine italiana, nato a Goito,
presso Mantova, da una famiglia della piccola nobiltà, attorno al 1200; iniziò a
frequentare da giovane le corti signorili del Veneto ed è molto probabile una sua
frequentazione della corte Malaspina. In seguito allo scandalo in cui sedusse,
rapì ed in seguito abbandonò Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino e di
Alberico, moglie del conte di San Bonifacio, Sordello scappò dal Veneto per
cercare salvezza in Provenza. Qui acquisì grande fama presso i nobili della
regione, ricevendo onori e benefici prima da Raimondo Berengario V ed in
seguito da Carlo I d'Angiò. Nel 1266 seguì il conte di Provenza nella sua discesa
in Italia e qui gli furono donati alcuni feudi in Abruzzo, dove trovò la morte poco
dopo. Sordello nei suoi testi conserva le caratteristiche della lirica amorosa, ma
presentando una ricercatezza formale di ottima qualità. Il trovatore mantovano
riuscì però ad ottenere fama e gloria soprattutto grazie ai dibattiti con gli altri
poeti di quel periodo, ai sirventesi politici, al planh in ricordo di Blacaz e
all'Ensenhamen d'honor, tutte opere in cui l’autore si presenta come custode dei
più alti ideali cavallereschi: proprio per queste caratteristiche Dante lo sceglie
quale simbolo dell’amor patrio.
COMMENTO CANTO XXVI PURGATORIO
Dante e Virgilio sono alla settima e ultima cornice, quella dei lussuriosi. Qui si
svolge tutta l'azione, e si conclude il viaggio nel Purgatorio vero e proprio: nel
prossimo canto ci troveremo già sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre.
Dante sceglie per un momento così solenne tutte figure di poeti, e a loro affida
un «testamento» ideale nella lode della poesia contemporanea. Il canto è
impostato sul dialogo fra Dante e l'anima di Guido Guinizzelli e si divide in due
parti:
-vv. 1-93; sequenza di carattere strutturale, descrive la condizione e i
comportamenti dei lussuriosi e tratta ancora una volta il tema dello stato
eccezionale di Dante;
-vv. 94-148; sequenza di carattere intellettuale e sentimentale, sposta il
colloquio fra Dante e Guinizzelli sul tema della poesia del tempo, con l'intervento
finale di Arnaldo Daniello.
Il celebre poeta bolognese Guinizzelli è il protagonista narrativo e ideologico del
canto. Con lui si completa la sezione del Purgatorio dedicata agli incontri con
poeti e alla trattazione di questioni letterarie. Il tema, presente fin dall'inizio
dell'opera, giunge ora a una conclusione anche cronologica: dalla celebrazione
della poesia classica (l'incontro fra Virgilio e Stazio) all'esaltazione dei maestri
moderni (l'incontro fra Guinizzelli e Dante). La prima parte del canto vive della
descrizione dei lussuriosi: avanzano nelle fiamme purificatrici, cantando lodi a
Dio e gridando esempi di castità e lussuria. La variazione a questa condizione è
l'incontro fra le due schiere di penitenti — bisessuali e sodomiti — ai vv. 31-48: i
casti baci che si scambiano sono il segno capovolto della loro lussuria. A
proposito di questi penitenti, è motivo di riflessione la loro sollecitudine
nell'espiazione, che Dante sottolinea nella costanza con cui si tengono all'interno
delle fiamme (vv. 13-15) e nella rapidità dello scambio amoroso con l'altra
schiera, senza fermarsi (v. 33). Il dialogo con Guinizzelli completa il motivo del
rincontro con i maestri del suo tirocinio letterario — iniziato già nell'Inferno con
Brunetto Latini —, e diventa anche dichiarazione di differenza sul modo di
intendere la poesia e l'amore. Dante ha già superato l'idea di questo sentimento
come lussuria; tutta questa seconda cantica è infatti tensione a Beatrice come
figura dell'Amore di carità, che «brucia» di ben altro fuoco. Ma proprio al
limitare della sua ascesa a verità divine e ignote agli altri, Dante propone qui un
ultimo giudizio sulla poesia a lui contemporanea. Il primo dato è la celebrazione
di Guinizzelli come sommo poeta moderno, il padre / mio e de li altri miei
miglior (vv. 97-98); egli è l'iniziatore dello Stil Novo, la poesia lirica di cui Dante
fu grande interprete, caratterizzata dalla dolcezza dello stile e dalla rinnovata
sensibilità alla tematica amorosa. L'eccellenza di Guinizzelli discende dalle rime
d'amor dolci e leggiadre (v. 99), dai suoi dolci detti (v. 112) che gli meriteranno
gloria eterna in terra. Secondo elemento: il dibattito letterario sui diversi modi
di poetare. Dante dichiara, tramite Guinizzelli, che il primato debba andare ad
Arnaldo Daniello, scrittore d'amore. Entra così in polemica anche aspra (lascia
dir li stolti, v. 119) con chi gli anteponeva le poesie morali di un altro famoso
trovatore, Giraut de Bornelh, quel di Lemosì (v. 120). La trattazione offre spunto
anche a una critica contro Guittone d'Arezzo, accusato da Dante di non aver
saputo adeguare il linguaggio e i costrutti all'alta materia. Terzo dato centrale
della sequenza è l'incontro con Arnaldo Daniello, introdotto dall'apprezzamento
di Guinizzelli come miglior fabbro del parlar materno, il più alto scrittore in
lingua volgare (v. 117). E proprio nella sua lingua materna, il provenzale, si
esprime Arnaldo: è l'esempio più lungo in tutta la Commedia di realismo
linguistico, un atto di omaggio a quella tradizione letteraria in cui tutta la poesia
lirica medievale riconosceva la propria origine. In un colloquio fra poeti, uno dei
codici espressivi più efficaci è quello della citazione, dell'allusione. Così opera
Dante nella seconda parte del canto, intessuta di echi e rimandi da un autore
all'altro. Due esempi:
-vv. 73-75; la rima marche / imbarche, molto rara, deriva da un sonetto di
Guinizzelli a Guittone d'Arezzo, e da questi ripresa poi nella risposta;
-v. 140; l'incipit del breve discorso di Arnaldo Daniello ricalca quello di una
canzone di Folchetto da Marsiglia, altro poeta provenzale che Dante incontrerà
in Paradiso.
II rimprovero di Guido Guinizzelli (A voce più ch'al ver drizzan li volti) contro
quanti sostengono la superiorità del poeta provenzale Giraut de Bornelh rispetto
ad Arnaut Daniel (v. 121) vale ancora oggi per tutti quegli "stolti" che si affidano
all'opinione comune, alla voce corrente piuttosto che alla verità.
Dante è concentrato nella difficoltà del percorso e nella riflessione sulla lussuria,
quando vede due schiere di anime che, incontrandosi, si scambiano casti baci,
poi gridano esempi di lussuria punita. Il grido Soddoma e Gomorra non lascia
equivoci sulla comprensione del tipo di peccatori: si tratta di una schiera di
sodomiti e il grido ricorda le due città bibliche colpite dalla punizione divina
proprio perché dedite alla pratica omosessuale. L'altra schiera invece è
composta di eterosessuali che usarono il sesso al di fuori di ogni razionalità e
misura: come Pasife che volle gli amori bestiali col toro. Quell'amore che in vita
fu inquieta passionalità, ora, dentro il fuoco purificatore, è diventato tenerezza
infinita. Ma il grido sta ad attestare una colpa i cui effetti sono ancora cocenti, nel
vero senso della parola, e suggellati da lacrime.
Piangono i lussuriosi il loro peccato, ma a un tratto s'accorgono che Dante è
vivo. Uno di loro si avvicina curioso e il poeta viene a sapere che si tratta proprio
del suo caposcuola, quel Guido Guinizelli che iniziò a poetare alla nova mainera.
La commozione è tanta e Dante vorrebbe slanciarsi ad abbracciare Guido se non
ci fosse il fuoco tra loro. Ma Guido, manifestando l'umiltà propria delle anime del
Purgatorio, addita a Dante un altro poeta che fu miglior fabbro del parlar
materno, il provenzale Arnaut Daniel; poi si perde nel fuoco come un pesce
dentro l'acqua. Figura centrale del canto, Guido Guinizelli compare e svanisce:
astro di breve durata ma di intensa luminosità. Al dissolversi nel fuoco di Guido
subentra Arnaut, dolce nel suo linguaggio provenzale. Il suo trobar clus (=
poetare oscuro e difficile, cioè chiuso) qui non ha spazio, ma i versi servono a
sancire definitivamente lo stacco tra poesia-folor (= follia) e poesia-ragione.
Folor infatti è amore-passione, libero abbandono sensuale, ma folor è anche la
trascrizione poetica di questo amore-passione. Sembra di risentire Francesca da
Rimini e la sua professione di amore cortese: ma Francesca è rimasta lì, legata
per sempre alla sua passionalità che l'ha inchiodata in eterno nell'Inferno;
Arnaut coglie invece la differenza tra i due tipi di amore. Egli nel Purgatorio,
luogo di penitenza e di attesa, denuncia con angoscia il folor dell'amore
lussurioso ma anche di una poesia che ne abbia registrato i momenti, le
sensazioni, i desideri. Ora non gli resta che chiedere il perdono di Dio. Ma il
raffinato e malinconico calco delle parole di Arnaut nella sua lingua provenzale
è, in Dante, la più alta testimonianza d'affetto e di stima verso il poeta e verso la
cultura in lingua d'oc di cui Arnaut fu uno dei più alti rappresentanti. Dietro il
triste vau cantan del poeta provenzale si legge la tristezza di Dante, anch'egli
colpevole della folor d'amore, cantata ad esempio nelle Rime Petrose, ma anche
la consapevolezza del poeta fiorentino di appartenere a un sodalizio umano
legato da una intensa e a volte totalizzante passione: la poesia come
prorompente bisogno di espressione.
IL PARADISO
Guidato da Beatrice, Dante sale attraverso i 9 cieli che circondano la Terra. Dopo
averli attraversati e dopo essere stato interrogato sulla fede, la speranza e la
carità, giunge nell’Empireo, sede di Dio e dei beati, affidato a San Bernardo.
Le anime dei beati non hanno sedi differenziate, ma sono tutte accolte
nell’Empireo entro una CANDIDA ROSA, in cui godono della visione di Dio.
Dante non ha un’immagine sensibile dei beati, che non hanno una vera e propria
corporatura. Si tratta di sfere di luce che sono disposte nei cieli in base alla loro
virtù, e questi cieli nella loro rotazione producono un lieve suono armonico e
cristallino. Il Paradiso è l’apoteosi della filosofia e della dottrina cristiana.
Tutta la struttura della cantica regge sullo scarto tra la perfezione di Dio ed il
movimento di un soggetto ancora imperfetto per via dei beni terreni.
I beati sono convinti di mettere in atto la volontà divina e scagliano dure
sentenze contro l’ingiustizia umana e la corruzione, senza risparmiare le
massime autorità della Chiesa.
Allo stesso tempo i beati si rivolgono con commozione ai momenti più semplici e
puri dell’esistenza umana. Il Paradiso segna la completezza del ruolo di Dante
come poeta.
1. LA LETTERATURA FRANCESCANA
Petrarca affida la propria immagine ufficiale di scrittore alle opere latine in versi
e in prosa. La sua lingua di comunicazione in prosa è sempre il latino.
Allo stesso tempo si impegna nella poesia lirica volgare perfezionando
all’estremo la raccolta delle sue RIME.
Il suo è un vero e proprio bilinguismo.
Il latino a prima vista sembra avere un ruolo più nobile, e qualche volta parla
delle sue rime volgari come di un esercizio privato, di un giocoso dilettarsi in
cose di poco conto.
Queste dichiarazioni hanno però un carattere ironico e retorico che non deve
essere sopravvalutato, e vengono smentite dalla cura estrema che dedica alla
revisione di quelle liriche in volgare.
Petrarca vuole ricondurre il latino ad una limpida forma classica. Si allontana
dagli schemi artificiali delle scuole di ARS DICTANDI, dalle complicazioni logiche
della lingua della filosofia scolastica.
Questa lingua intende imporsi e circolare come lingua internazionale dei dotti, al
di là delle separazioni prodotte dai diversi volgari.
Il volgare toscano della sua poesia si inserisce nella recente tradizione della
lirica amorosa per orientarla verso l’analisi più sottile dell’anima individuale.
Il volgare diventa una lingua pura e assoluta, con una scelta opposta a quella di
Dante. Latina o volgare che sia, la scrittura è sempre diretta manifestazione del
valore dell’autore e della sua virtù.
Petrarca ebbe cura estrema dei suoi componimenti in cerca di perfezione.
La sua posizione è opposta a quella di Dante e al suo procedere sperimentale.
Il suo procedimento è quello della riscrittura.
Parte da alcuni testi e progetti e riformula su di essi infinite volte.
Per questo non è possibile legare le opere di Petrarca a dei momenti precisi.
2. PETRARCA FILOLOGO E UMANISTA
L’amore di Petrarca per gli scrittori antichi e la lingua latina si lega alla
prospettiva definita con il termine UMANESIMO.
La scrittura garantisce un rapporto profondo con uomini del passato.
I rappresentanti perfetti sono Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia.
Occorre imitare le forme ed i modelli linguistici, ma questa IMITATIO può avere
soluzioni diverse. Per Petrarca occorre tenere presenti vari modelli: lo scrittore
latino moderno non deve seguire lo stile di un singolo autore, ma deve trarre
dall’insegnamento di tutti questi grandi dell’antichità; deve comportarsi come
un’ape che ricava il miele succhiando l’essenza di diversi fiori e mescolandone i
profumi.
Petrarca avverte quanto il presente sia lontano dal passato, e come i valori di
VIRTUS e dignità del mondo romano si siano ormai sgretolati.
La sua formazione ad Avignone lo pone in un contesto internazionale.
Petrarca è lontano dagli intellettuali comunali laici e religiosi medievali legati ai
loro ordini. Petrarca si fa portavoce di ideali politici, di giustizia e virtù, finendo
però per accettare la realtà politica contemporanea.
Non rinuncia a cercare il consenso e a primeggiare sulla scena del presente.
Desidera l’appoggio dei potenti e delle istituzioni, serbando una sotterranea
diffidenza. Finisce per non identificarsi mai a fondo con le loro posizioni.
Più autentici e fiduciosi erano invece i rapporti con gli amici, una comunità
intellettuale separata dalla confusione del mondo. Sono il pubblico ideale.
L’Umanesimo ha un sostegno essenziale nell’attività del filologo, che svolge ad
altissimo livello, in contatto con i maggiori studiosi dell’Europa civile.
Per le sue ricerche nasce molto interesse da parte di amici e discepoli.
Tra le sue scoperte vi sono il PRO ARCHIA POETA di Cicerone ed alcune lettere
dello stesso Cicerone ad Attico, Bruto e Quinto.
Spesso si faceva dare delle copie di libri o manoscritti, arrivando così ad avere
una biblioteca privata di dimensioni eccezionali per il tempo.
L’umanesimo di Petrarca comporta un forte impegno polemico contro la cultura
scolastica e aristotelica. Egli avverte più volte una discordanza tra il suo culto
della classicità e il messaggio cristiano. Lo supera attraverso la meditazione
morale, che rivela una continuità tra pensiero antico e cristiano.
Cicerone offre una sintesi del pensiero morale classico, Seneca lo attrae con le
sue sottili ed inquietanti indagini sulla coscienza umana.
Attraverso entrambi conosce la cultura stoica, fondata sull’esaltazione delle virtù
e la lotta umana contro le sventure.
È importante anche l’influenza di Sant’Agostino, che gli rivela la continuità tra
pensiero platonico antico e tradizione cristiana.
Contro l’aristotelismo ed il pensiero platonico, la filosofia agostiniana gli fa
percepire il contrasto tra beni terreni e beni spirituali, e gli propone un
Cristianesimo incline ad indagare gli abissi della coscienza.
Si tratta di un UMANESIMO CRISTIANO che risolve l’esperienza religiosa
nell’esercizio di una vita morale in cui Dio è la pace interiore che libera dalla
falsità della vita sociale.
Anche l’esperienza cristiana si pone come esperienza eccezionale e privilegiata,
che riguarda in modo autentico pochi degni.
3. RACCOLTE EPISTOLARI
Ciò che emerge dalla lettura della “ascesa al monte Ventoso” è la serie di
auctoritates classiche e volgari con cui Petrarca intesse il suo cammino fisico e
spirituale. Nel testo della lettera si susseguono rimandi intertestuali e citazioni
esplicite di Livio, Virgilio (in particolare, le Bucoliche e le Georgiche), Ovidio (gli
Amores e le Epistulae ex Ponto), dal Vangelo di Matteo e dai Salmi.
Tuttavia, le due fonti privilegiate sono San Paolo e Sant’Agostino; l’autore, anzi,
si pone su una linea di continuità con i due autorevoli precursori con l’episodio
della lettura delle Confessiones sulla cima del monte Ventoso. Infatti, anche
Agostino confida (Confessioni, VIII, XII, 29) d’aver cambiato vita avendo letto un
passo della Lettera ai Romani 6. In tal senso, l’ascesa alla montagna diventa un
modo per tratteggiare un biografia ideale di sé come uomo e come intellettuale
umanista, dimostrando come l’insegnamento dei classici sia vivo e presente e
ricollegandosi al tema della spiritualizzazione delle passioni terrene che
attraversa tutto il Canzoniere.
4. SCRITTI LATINI IN VERSI
Petrarca vide nella poesia latina lo strumento più alto a cui affidare la sua fama
di scrittore. Con gli anni, si accorse sempre più chiaramente che il suo impegno
riguardava le NUGAE, in volgare. La sua poesia latina resta una possibilità non
approfondita. Ce lo rivela in modo esemplare il poema epico in esametri AFRICA.
Fu letto in parte a ROBERTO D’ANGIO’ e a lui era dedicato. Fu continuato in vari
modi per tutta la vita di Petrarca e diffuso solo dopo la sua morte.
Si tratta di 9 libri, alcuni dei quali lacunosi, ma ne aveva programmati 12.
Vi si narrano secondo il modello dell’Eneide le vicende della seconda guerra
punica, per esaltare la grandezza di Roma repubblicana e di Scipione l’Africano.
La narrazione è frammentaria e disorganica. Gli eroi sono troppo formali.
Più interessanti sono i momenti lirici o le riflessioni elegiache dei personaggi,
con sensibilità moderna e cristiana nei confronti della vita terrena.
Il BUCOLICUM CARMEN è un calco delle Bucoliche di Virgilio, dodici egloghe
sottoposte a varie revisioni. Più interessanti sono le 66 EPISTOLE METRICE,
poesie soprattutto di corrispondenza raccolte in 3 libri che non ebbero assetto
definitivo. Queste sono un insieme di schemi linguistici ed immagini che
trovarono svolgimento in tutta la poesia umanistica latina.
I 7 PSALAMI PENITENTIALES erano invece preghiere in versi prosatici.
5. TRATTATI LATINI
Petrarca non era un poeta intellettuale ed erudito. La maggior parte delle sue
opere e trattati è in latino, su argomenti molto diversi.
-DE VIRIS ILLUSTRIBUS: rimasto incompiuto, è un DIZIONARIO BIOGRAFICO dei
personaggi più illustri della storia romana (Cesare, Scipione, Catone…). Riprende
le STORIE di Tito Livio e si propone di esaltare la virtù e la fama degli uomini pi
illustri di Roma. La devozione al mondo antico si intreccia al pessimismo e al
senso della fugacità delle cose, tipica del pensiero cristiano.
-RERUM MEMORANDARUM LIBRI: sono anch’essi un’opera storica. È una
raccolta di aneddoti con cui vengono celebrate le diverse virtù umane. Nel
Medioevo ebbero fortuna gli EXEMPLA, che trasmettevano un insegnamento
morale. Petrarca raccoglie esempi dalla storia romana allo stesso modo.
-DE REMEDIIS UTRIUSQUE FORTUNAE: è un’enciclopedia morale, costruita sul
dialogo di personaggi allegorici: la Ragione dibatte con la Gioia, la Speranza, il
Dolore e il Timore. Questo tipo di opera era molto diffuso nel Medioevo. Era un
modo abbastanza semplice per svolgere in forma narrativa discorsi di carattere
morale, edificante e religioso.
-DE VITA SOLITARIA: è stato scritto dopo il SECRETUM, ed è un tentativo di
conciliare l’ideale cristiano della rinuncia dei beni terreni con la concezione
classica dell’OTIUM LETTERARIO. La solitudine ideale è fatta di cose semplici,
amori e passioni, preghiera e meditazione, natura, amici, studio e libri.
-DE OTIO RELIGIOSO: è un elogio della vita monastica, contrapposta a chi segue
la gloria della vita terrena. La riflessione filosofica e morale si intreccia alle
vicende autobiografiche. Francesco e suo fratello Gherardo rappresentano due
percorsi diversi di vita. Gherardo ha scelto la meditazione, la solitudine, la pace
interiore. Francesco tende costantemente verso l’ideale etico e pratico e tuttavia
non riesce ad abbandonare la vita mondana per rifugiarsi come aveva fatto il
fratello nella vita del monastero.
7. IL CANZONIERE
Il titolo originale del libro era RERUM VULGARIUM FRAGMENTA. Le poesie del
Canzoniere sono fragmenta perché si tratta di frammenti dell’anima. Si ha subito
un’idea di una moltitudine di cose diverse tra loro, raccolte e organizzate
dall’autore in un racconto unitario: la storia d’amore di Francesco per Laura.
Il Canzoniere è composto di frammenti sparsi non solo materialmente poiché la
frammentarietà è il riflesso della confusione e dispersione del poeta.
Il libro è fatto di 366 poesie divise in due parti.
La prima parte arriva al testo 263, la seconda va dal 264 al 366, e tra le due parti
ci sono alcune carte bianche che segnano una censura.
La prima parte sarebbe formata dai testi in vita di Laura, la seconda dai testi in
morte di Laura. In realtà il primo testo davvero in morte di Laura è il 267, OIME’
IL BEL VISO. Il 264 è un testo di pentimento, e questo spiegherebbe come mai
questo sia stato posizionato come apertura della seconda parte.
La morte dell’amata è un evento cruciale attorno a cui ruota il libro.
La prima parte è un monumento dell’amore per Laura, la seconda è una graduale
rinuncia a quell’amore, segnata da un pentimento e dal pensiero ossessivo della
morte, e che si conclude con una conversione del poeta in amore per Dio e la
Vergine. Le poesie sono quante sono i giorni dell’anno.
Petrarca non ha scritto una poesia al giorno, poiché la scrittura del Canzoniere
avvenne in parecchi anni. Il numero fu funzionale per Petrarca, 366 come gli
aforismi del LIBRE D’AMIC E AMAT di RAIMONDO LULLO, in modo che il lettore
potesse scegliere una poesia al giorno per meditare sull’amore per Dio.
Il Canzoniere è fatto in gran parte di sonetti, ma vengono usate altre forme
metriche come canzoni, sestine e ballate.
Il Canzoniere è particolarmente importante perché possediamo un manoscritto
in parte redatto dal poeta (autografo), in parte trascritto sotto il suo controllo
diretto (idiografo). Verso la fine della sua vita, Petrarca trascrisse con GIOVANNI
MALPAGHINI un codice che conteneva le 366 poesie. Le edizioni attuali del
Canzoniere riproducono l’ordinamento di questo manoscritto.
Ci sono vari modi di leggere quest’opera. Lo si può leggere dall’inizio alla fine
come un romanzo per cogliere le svolte della trama. Sarebbe però sbagliato fare
dei confronti con opere in cui la componente narrativa è molto più importante
come la Divina Commedia o il Decameron. Risulterebbe un libro astratto che non
descrive il reale, con generi molto diversi.
Del romanzo come lo intendiamo oggi nel Canzoniere contiene solo alcuni
elementi essenziali: c’è un abbozzo di storia, c’è un inizio e una fine, ci sono dei
personaggi, una certa dose di realismo (quando parla della sua cameretta o del
paesaggio della Provenza). La storia e il racconto si dissolvono nella poesia.
La storia non coincide con il racconto. Da un lato c’è il modo in cui Petrarca
racconta la vita e la morte di Laura, dall’altro c’è la successione di eventi reali.
Petrarca incontrò Laura il venerdì santo ad Avignore il 6 aprile 1327 a 23 anni.
La data è simbolica, il giorno della passione di Cristo è anche quella dell’inizio
della passione del poeta. I Vangeli raccontano che quando Cristo morì i cieli si
oscurarono e si fece buio su tutta la Terra. Francesco analogamente fu preso e
fatto prigioniero da Amore, senza curarsene, dal momento che gli occhi di Laura
lo avevano legato. La vicenda personale viene ricondotta ad una vicenda
esemplare per tutta l’umanità.
Il Canzoniere è anche una sorta di diario. Se Dante ha inventato il genere della
poesia composta per l’anniversario della morte di Beatrice, Petrarca recupera
questa idea e la sviluppa in una serie di componimenti che scandiscono le tappe
del suo amore per Laura, poiché quest’opera è un capitolo dell’autobiografia di
Petrarca. Si è ipotizzato che volesse far apparire verosimile una storia inventata.
È possibile, ma è più probabile che il libro sia un tentativo di portare in vita il
passato. Petrarca può sbagliarsi, inventare episodi, mentire. Questa storia non è
vera nel senso in cui potremmo intendere oggi. Se si considera il primo sonetto
corrispondente al 6 aprile e si conta un giorno per ciascun componimento, il
primo testo per la parte rivolta alla morte di Laura corrisponde al 25 dicembre,
nascita di Cristo. Difficilmente si tratta di una coincidenza.
Il volgare per Petrarca non è la lingua dell’uso quotidiano ma una lingua usata
solo per la poesia. La lingua di maggior prestigio era il latino. Il suo è stato
definito da GIANFRANCO CONTINI un fiorentino astratto, ideale.
Se Dante è stato uno straordinario inventore di parole, Petrarca adopera
esclusivamente termini ed espressioni già autorizzate dalla tradizione letteraria.
Petrarca ha cercato di elevare il valore del volgare al latino, operando una
differenziazione tra la lingua viva parlata dal popolo e il lessico della poesia.
Petrarca per tutta la vita si è dovuto dividere tra una vita pubblica molto
impegnata e la solitudine dell’OTIUM latino.
La dialettica si riflette anche nel modo in cui a partire dalla tradizione poetica
precedente concepisce il sentimento amoroso. Petrarca immagina che i segni
dell’innamoramento fossero troppo evidenti, e teme che la gente possa
accorgersi del suo stato. Perciò cerca la solitudine, e neanche in mezzo alla
natura riesce a far sì che l’amore che prova resti nascosto, poiché immagina che
ci siano elementi naturali che si accorgono del suo stato. Anche nella solitudine
accanto a lui c’è sempre Amore.
All’inizio del componimento sembra che Petrarca stia descrivendo e
raccontando il momento in cui camminando, compone il sonetto.
In realtà sta raccontando di ogni volta che percorre quella strada. Amore è
sempre presente e dialoga con lui. I tempi al presente non indicano un’azione
isolata, ma una consuetudine. Il personaggio allegorico di Amore compare a
Petrarca in mezzo alla natura. L’amore non abbandona mai, neppure quando è
lontano da tutti. Come aveva già detto il poeta latino Ovidio, per dimenticare
l’amore non bisogna fuggire dal vulgo, ma fondersi in esso.
Petrarca cresce, matura ed invecchia, e con lui il suo pensiero.
La solitudine poteva essere una ricetta antiafrodisiaca per il giovane amante, ma
non lo era per l’uomo maturo.
COMMENTO ERANO I CAPEI D’ORO A L’AURA SPARSI
Uno dei più celebri sonetti di Petrarca, commemora la prima volta in cui
Petrarca vide Laura, venendone conquistato. Petrarca mette a confronto quel
momento con uno successivo, corrispondente a quello della scrittura del testo.
Da questo accostamento deriva l’accorgimento degli occhi dell’amata, che non
splendono più come un tempo, e che Laura non è più quella creatura celeste, il
sole vivo che aveva fatto innamorare il poeta, il cui amore è però rimasto intatto.
Ad una lettura distratta questo sonetto potrebbe sembrare la tipica
DESCRIPTIONAE PUELLAE che si trovano spesso nella letteratura latina e
volgare: i capelli biondi, gli occhi che splendono. In realtà tutto il sonetto è
composto su una contrapposizione molto forte tra una visione folgorante
avvenuta nel passato, ed una visione più spenta avvenuta pochi anni dopo.
È una poesia dedicata alla forza travolgente del colpo di fulmine, che accende la
miccia nel cuore del poeta. È anche una poesia dedicata alla persistenza e alla
continuità dell’amore nel tempo. La ferita duole anche se la freccia che l’ha
colpita è stata scagliata tempo prima.
La fama del sonetto non dipende dalla contrapposizione tra passato e presente.
Dipende dalla straordinaria abilità di Petrarca di apparecchiare la scena, di farci
vedere un’immagine memorabile quale quella dei biondi capelli di Laura sciolti
al vento, fissando sin dall’inizio un’atmosfera sognante.
La fanciulla non viene mai vista per intero, ma solo in frammenti: i suoi capelli, i
suoi occhi ed il suo viso forse pietoso. Oppure la vediamo nei suoi atti, mentre
cammina o parla, sembrando qualcosa di più che umano.
Petrarca qui riprende la concezione di donna angelo introdotto dagli stilnovisti,
e soprattutto da Dante nella Vita nova.
La costruzione dell’argomentazione è ordinata e razionale. Nella fronte si
descrivono le caratteristiche di Laura, e la fronte si chiude con una interrogativa
diretta. Nella sirma alla sua descrizione è dedicata una sola terzina, e il verso 12
e 13 riassumono ciò che è stato detto di lei sin lì: un angelo, un sole.
L’ultimo verso contiene poi la battuta che devia l’attenzione dalla bellezza della
donna alla persistenza dell’amore del poeta.
COMMENTO CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE
Le acque di cui parla Petrarca sono quelle del fiume Sorga. Petrarca si trova a
Valchiusa, probabilmente nella prima metà degli anni 40, a circa 30 anni. Forse
Petrarca si apprestava a partire dalla Francia per tornare in Italia.
Nella canzone si incrociano 3 piani temporali: il passato in cui il poeta ha visto
Laura bagnarsi nelle acque del fiume e la sua apparizione miracolosa; il secondo
è il presente con cui vengono contemplate le acque del fiume, l’erba ed i fiori,
testimoni del passaggio di Laura; e il terzo è il futuro in cui immagina che Laura
potrebbe passare di lì e cercarlo, ma sarebbe troppo tardi poiché il poeta
sarebbe già morto per amore. Il poeta chiede di essere sepolto lì accanto al
fiume, in modo che Laura possa sospirare e piangere pensando all’uomo che la
amava, e con le sue preghiere gli diminuisca le pene in purgatorio.
Mezzo secolo prima di Petrarca, Dante, Cavalcanti e Cino da Pistoia avevano
introdotto nuovi interlocutori nelle loro poesie: amici, amanti raffinati, donne
che per esperienza e nobiltà d’animo conoscono l’amore.
Avevano per così dire socializzato i loro sentimenti.
Nel Canzoniere si registra il fenomeno contrario: non l’appello ad interlocutori
che appartengono al pubblico della poesia, ma la proiezione dei sentimenti sulle
cose. I pensieri, gli occhi, il cuore, le parti del corpo di Francesco e di Laura
vengono personificate, e parla con loro. Simula una comunicazione diretta con il
mondo naturale, chiama la terra, le acque, le valli, i fiori e le stelle a testimoni
della sua gioia e del suo dolore. Questa strategia retorica per cui i sentimenti
sono proiettati sulla natura diventerà poi tipica dei poeti romantici.
La quarta stanza con l’immagine dei fiori che cadono sulla donna e del regno
d’Amore, ricorda alcune poesie di Cino da Pistoia e Cavalcanti, ma anche la figura
di Beatrice così come Dante la introduce nel paradiso terrestre.
L’idea che Laura venga dal paradiso si avvicina alla Beatrice della Vita nova, in
particolare alla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.
Petrarca introduce un elemento che in essi è quasi assente, una scena, un
ambiente naturale che partecipa al miracolo dell’apparizione dell’amata.
COMMENTO ITALIA MIA, BENCHE’ ‘L PARLAR SIA INDARNO
8. I TRIONFI
È figlio illegittimo del mercante Boccaccino e di una donna ignota. Nasce tra
giugno e luglio del 1313 in Toscana, a Firenze oppure Certaldo.
Viene presto riconosciuto dal padre prima che questo si sposi. Il padre era socio
della COMPAGNIA DEI BALDI, e questo permise a Boccaccio di trascorrere
l’infanzia a Firenze. Nel 1327 il padre è nominato rappresentate della compagnia
presso gli Angioini di Napoli, e Giovanni lo segue, iniziando a far pratica del
mestiere del mercante, entrando anche in contatto con nobili ed intellettuali.
Napoli allora era una delle più importanti città europee, e la corte angioina era
un importante centro culturale, che permise a Boccaccio di scoprire la
letteratura cortese e cavalleresca, in francese, e i classici latini.
A Napoli negli anni 30 insegnava diritto Cino da Pistoia.
Boccaccio cresceva al centro del mondo politico e letterario del suo tempo, e da
borghese, partecipava vi partecipava in virtù dei propri meriti intellettuali.
Negli anni napoletani, Boccaccio conobbe Fiammetta, che fu messa al centro di
quasi tutte le sue opere giovanili. Dietro il suo nome si cela forse Maria dei conti
d’Aquino, sposa di un gentiluomo di corte, e secondo una leggenda alimentata da
Boccaccio stesso, figlia naturale di Roberto d’Angiò.
Ma potrebbe anche non trattarsi di una donna reale.
Anche la conoscenza del mondo dei mercanti fu importantissima per la scrittura
del Decameron, descritto da Vittore Branca come l’epopea dei mercatanti.
Boccaccio venne indirizzato agli studi giuridici, ma ben presto capì che la sua
vocazione erano gli studi umanistici.
A Napoli negli anni 30 scrive le sue prime opere letterarie: Caccia di Diana,
Filostrato, Filoloco ed alcune poesie latine.
Nel 1340 ritorna a Firenze a causa della crisi finanziaria dei Bardi, e si concentra
sulla letteratura. Scrive il Teseida, la Comedìa delle ninfe fiorentine, l’Amorosa
visione, l’Elegia di madonna Fiammetta e una parte delle Rime.
Nel 1348 a Firenze arriva la peste nera, e amici e padre di Boccaccio morirono.
A tali eventi, si ispirò per scrivere il Decameron. Una prima versione era pronta
all’inizio degli anni 50, ma Boccaccio continuò a lavorarci per tutta la vita.
Tra il 1350 e il 1360, svolse missioni diplomatiche per il Comune di Firenze.
Consegnò alla figlia di Dante il risarcimento in denaro per l’esilio del padre, a cui
dedicò molto studio e su cui compose due importanti lavori critici: il Trattatello
in laude di Dante e le Esposizioni, una serie di lezioni sui primi canti della
Commedia, che lesse in pubblico a Firenze e che lasciò incompiute.
Ammirava molto le opere di Petrarca. Dopo averlo letto per molti anni lo
incontrò per la prima volta a Firenze nel 1350 e l’anno dopo fu suo ospite a
Padova. I due letterati divennero amici, e si scambiarono per tutta la vita lettere
in latino e manoscritti di opere antiche e moderne. Boccaccio inviò a Petrarca
una copia della Commedia di Dante.
Grazie a Petrarca affina la sua conoscenza degli autori classici e modifica in parte
le sue idee circa la funzione della letteratura.
Le opere giovanili erano concepite per il diletto dei lettori, quelle della maturità
hanno una più forte connotazione etica. Il rapporto con Petrarca fu però
conflittuale circa la diversa opinione sull’importanza della letteratura in volgare,
che Boccaccio difendeva, mentre Petrarca la considerava come un passatempo
innocuo. Avevano anche una diversa idea circa la libertà ed il ruolo
dell’intellettuale. Boccaccio critica Petrarca per aver accettato di fissare la
propria residenza presso i Visconti, signori di Milano e nemici di Firenze.
Petrarca sosteneva che i Visconti non erano dei veri tiranni, poiché nella loro
corte godeva di una libertà totale. Questa poteva non piacere a Boccaccio dato
che Milano era una città storicamente avversa a Firenze.
L’ammirazione di Boccaccio per Petrarca restò comunque sempre intatta.
Nel 1374 perla morte di Petrarca, Boccaccio scrisse uno dei suoi sonetti più
intimi, in cui alla scomparsa del poeta si associa la memoria dei maggiori
letterati del tempo e di Laura e Fiammetta, che incarnavano la sintesi perfetta
tra amore e poesia. Il sonetto parla di un uomo ormai anziano che desidera la
morte e spera di rivedere nell’aldilà gli amici e gli amori che avevano rallegrato
la sua esistenza.
Negli anni della maturità, Boccaccio riceve gli ordini minori e diventa chierico
come Petrarca. Dopo il 1360 lascia Firenze e si trasferisce a Certaldo, e scrive
prevalentemente opere erudite in latino, pur continuando a lavorare al
Decameron. Scrive le Genealogie deorum gentilium, il Buccolicum carmen, il De
casibus virorum illustriu e il De montibus.
Negli ultimi anni di vita si riunisce presso di lui un gruppo di intellettuali di cui
fa parte anche COLUCCIO SALUTATI, che dal 1374 sarà cancelliere della
repubblica fiorentina e dopo la morte di Petrarca e Boccaccio manterrà viva la
tradizione degli studi umanistici in Toscana.
Boccaccio continuò ad intrattenere rapporti con la corte di Napoli, dove nel 1371
re Giacomo di Maiorca gli offrì di trascorrere la vecchiaia.
Boccaccio rifiutò rivendicando la libertà e la fedeltà alla patria, in nome dei quali
aveva anni prima contestato le scelte dell’amico Petrarca.
Boccaccio era profondamente amareggiato dalla decadenza politica del suo
Paese, ed il trasferimento della sede papale ad Avignone del 1309 era di una
gravità inaudita. Boccaccio era un intellettuale e la sua ricetta per reagire alla
decadenza non era politica, ma culturale. Gli italiani hanno abbandonato la
disciplina militare, le leggi ed i costumi che li avevano resi potenti e famosi.
Malato, Boccaccio interruppe le letture di Dante.
Morì il 12 dicembre 1375 e sulla sua tomba fece incidere un autoepitaffio in
latino che sintetizzava la sua devozione per la letteratura.
La poesia per lui fu sia una disciplina da apprendere, che una vocazione
naturale.
Il Decameron è una raccolta di 100 novelle narrate in dieci giorni, senza contare
il venerdì e il sabato di riposo, da dieci giovani: tre maschi e sette donne.
Ogni giorno ciascuno dei giovani racconta la sua novella, e al termine della
giornata tutti si riuniscono per commentale, cantare e danzare una ballata.
Le novelle sono inoltre inserite in una cornice, una struttura narrativa più
ampia, simile a quella delle MILLE E UNA NOTTE, capolavoro della letteratura
araba medievale. La cornice però è più complessa.
Boccaccio immagina che la grande epidemia di peste del 1348 avesse spinto 10
giovani a lasciare Firenze e a rifugiarsi in campagna, dove per trascorrere il
tempo avevano ideato lo stratagemma delle novelle. Ogni giorno ciascuno di loro
sarà re o regina, e sceglie il tema delle novelle della giornata.
Al mondo caotico della cornice si oppone il cosmo ordinato della brigata, ed il
piacere della lettura diventa un rimedio contro la morte.
Il primo giorno Pampinea è la prima regina, e decide che il tema delle novelle sia
libero. Il secondo giorno Filomena fa da regina e si narrano racconti in cui da una
situazione negativa si è passati ad una situazione positiva. Il terzo giorno la
regina è Neifile e si parla di coloro che avevano acquistato qualcosa che avevano
fortemente desiderato, o di qualcuno che ha trovato ciò che aveva perso.
Nella quarta il re è Filostrato ed i giovani raccontano di amori infelici.
Nella quinta Fiammetta è la regina, e si parla di amori infelici che finiscono bene.
Il sesto giorno la regina Elissa stabilisce che i giovani raccontino storie in cui una
battuta arguta salva il protagonista dai guai. Il settimo giorno Dioneo chiede di
raccontare una novella comica che tratti di beffe fatte dalle donne ai mariti.
L’ottava giornata è dedicata alle beffe in generale.
Il nono giorno Emilia decide che il tema sia di nuovo libero.
Nella decima giornata su decisione di Panfilo si parla di amori nobili.
COMMENTO PROEMIO
COMMENTO CORNICE
L’epidemia di peste arrivò in Europa nel 1348 dall’Oriente, per via dei topi che
viaggiavano sulle navi mercantili. Morì quasi metà della popolazione, le
campagne non venivano coltivate, i commerci si bloccarono.
Boccaccio aveva 35 anni, si trovava a Firenze e vide tutto questo. Sopravvisse e
decise di raccontare glie eventi in maniera realistica nella cornice.
Dalla descrizione della peste, sino alla decisione dei ragazzi di rifugiarsi in
campagna, la cornice del Decameron ha una funzione narrativa e morale. Da una
parte è un pretesto per dare avvio al racconto delle novelle, alcune
probabilmente già state scritte; dall’altra offre un’interpretazione in chiave
morale-esemplare sugli eventi storici a cui Boccaccio ha assistito.
Boccaccio non fu l’unico a raccontare tali eventi. Nella CRONICA, Matteo Villani,
in un capitolo che si intitola COME LI UOMINI FURONO PIGGIORI CHE PRIMA, è
testimone di un profondo mutamento economico e sociale. La peste non porta
solo devastazione e miseria, ma paradossalmente lascia i pochi sopravvissuti in
una condizione economica migliore di quella precedente. I superstiti ebbero la
possibilità di arricchirsi ed abbandonarsi più facilmente ai piaceri. La città di
Firenze precipitò così nell’immoralità e nel vizio. Si tratta di un’analisi in chiave
moralistica.
Gli storici moderni ritengono comunque che la grande peste abbia dato inizio ad
un nuovo ciclo economico che consentì alla civiltà fiorentina ed europea di
riprendersi abbastanza rapidamente.
Mancando la manodopera aumentarono i salari per coloro che erano in
condizioni di lavorare. Il costo delle terre diminuì e fu possibile acquistarle a
poco prezzo anche per potenziare l’allevamento, producendo più latte, uova e
carne. La mancanza di manodopera fece sì che chi possedeva terreni si
ingegnasse a farli produrre di più, ed investisse parte del capitale per far
migliorare gli strumenti e le tecniche agricole. La morte di piccoli contadini
portò alla formazione di fattorie più grandi e produttive.
COMMENTO LA CONFESSIONE DI SER CIAPPELLETTO
L’argomento della prima novella è Dio, perché come dice il narratore Dioneo,
tutto ha principio da lui, ed è giusto che il libro si chiami così.
La novella dei ser Ciappelletto racconta di un santo finto e di una parola che non
è vera come la Buona Novella. La novella parla di un inganno, di un peccatore
che durante la confessione inventa di sana pianta la leggenda della propria
santità. Parla di un uomo che porta un nome falso, frutto di un errore e non di
una libera scelta, come sono invece i nomi dei narratori del Decameron.
La novella può essere divisa in 3 parti: antefatto, svolgimento ed epilogo.
Nella prima parte Boccaccio ci presenta Cepparello, spiega perché i francesi lo
chiamavano Ciappelletto e descrive il suo arrivo in Francia, dove era stato
spedito perché, da uomo malvagio quale era, potesse trattare adeguatamente
con i borgognoni, e l’improvvisa e grave malattia che lo riduce in fin di vita,
provocando la preoccupazione degli usurai che lo ospitavano.
La seconda parte è il centro della narrazione, e contiene il colloquio tra
Ciappelletto ed il frate a cui viene confessato di essere in punto di morte,
inventando una serie di atti umili e caritatevoli per indurre il frate a pensare che
fosse un santo. La terza parte contiene la scena della morte e della santificazione.
L’inganno è riuscito e solo il narratore ed il lettore, ed insieme possono avanzare
l’ipotesi che in realtà il grande bugiardo sia finito all’inferno.
Boccaccio nell’opera attinge spesso alla tradizione di scritti satirici nei confronti
di religione ed istituzioni ecclesiastiche.
Ciò non vuol dire che non fosse un buon cristiano, ma era interessato a
condannare i vizi, soprattutto quando i viziosi erano coloro che in teoria
avrebbero dovuto comportarsi nel modo più virtuoso.
In questa novella Boccaccio non è mai esplicito o blasfemo.
È però assurdo che la Chiesa potesse considerare santi individui come ser
Ciappelletto.
Da questo punto di vista la novella può essere letta come parodia dei racconti
agiografici, ossia delle vite dei santi.
La prima e l’ultima novella del libro sembrano perfettamente speculari.
Ciappelletto è forse il peggiore dei peccatori del Decameron, perché mente
durante la confessione e finge di essere un santo, e si auto concede uno degli
onori più grandi concessi ai mortali, e pretende persino di essere sepolto in
chiesa. Boccaccio è cauto sulla sorte ultraterrena di ser Ciappelletto perché
ritiene che il giudizio divino sia imperscrutabile, ma sospetta che sia finito
all’inferno. Griselda, al contrario, è l’incarnazione di tutte le virtù, quasi senza
saperlo, modesta ed inconsapevole, finisce per essere la figura più nobile di tutto
il libro. Il Decameron, oltre ad essere un libro fatto per divertire, è come la
Divina Commedia, un viaggio della decadenza morale, della quale ser
Ciappelletto è buon simbolo, fino alla perfetta virtù della sventurata Griselda.
Dall’inizio alla fine della novella, Boccaccio giudica severamente Ciappelletto, e
vuole che i lettori lo reputino malvagio.
Sembra però in qualche modo affascinato da lui, come lo siamo ancora noi oggi:
ci piace la sua sfacciataggine, la sua incredibile abilità retorica.
Ciappelletto previene le domande del frate perché sa parlare, sa aggirare
possibili obiezioni e sa tenere in sospeso l’attenzione del frate, rimandando
tatticamente la confessione dell’ultimo peccato.
Ciappelletto ha vissuto, conosce gli uomini, sa sfruttare le debolezze.
La sequenza in cui confessa di aver una volta detto una bestemmia contro sua
madre è uno dei momenti in cui la narrativa di Boccaccio raggiunge il proprio
vertice. L’autore ne è perfettamente consapevole.
Il lettore si trova quasi nella stessa condizione del frate. Vuole sapere come va a
finire la storia e perciò pende dalle labbra del narratore/peccatore.
COMMENTO IL CUORE MANGIATO