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Il mio nome è Gioacchino de Ponte e sono un maniscalco.

La mia casa si trova a meno di duecento


passi da Piazza dei Nove, nel pieno centro di Glantaur. Questa mattina mi trovavo nella mia
officina, dabbasso, giacché dovevo ferrare quattro ronzini dei porta missive della milizia. Da
quando è giunto l'esercito i maniscalchi hanno parecchio lavoro. Sentivo il rumore dei panni
sbattuti nel lavatoio, e ricordo di aver scorto i passi di mia moglie mentre saliva ai piani superiori
per stenderli. Dal portone dell'officina, che avevo tenuto aperto per via del caldo asfissiante dei
locali, potevo vedere mia figlia che giocava con il cerchio, accompagnata dal fischio tranquillo
dello speziale, seduto sotto la pergola della sua bottega. Sebbene sapessimo che il fronte si trovava
a non più di una lega dal nostro quartiere, non avevamo timori. La guerra non era uscita dal
perimetro dell'Occhio di Feyth, la popolazione era al sicuro.

Il mio garzone, Enrico, aveva appena finito di pulire i ferri, mentre io avevo allineato i ronzini
alla sbarra, pur tenendoli separati di almeno sei palmi, come vuole l'arte. Quando erano passate
due ore dall'alba, abbiamo sentito il primo corno risuonare lontano. Nessuno aveva idea di quanto
distasse esattamente, ma sembrava molto più vicino rispetto alle consuete adunate che avevamo
oramai imparato a distinguere nei pressi del fronte: era un suono affrettato e prossimo. Dal vicolo
che conduce alla piazza iniziammo a scorgere diverse persone che correvano verso est, in direzione,
credo, del presidio dell'Ecclesia di Acron. Due di loro, un padre con figlio al seguito, si infilarono
nel vicolo, e lo speziale subito li intercettò per chiedere spiegazioni sul perché di quel
comportamento, come anche notizie del corno udito in vicinanza. I due si fermarono a riprendere
fiato. Dalla mia posizione ho potuto ascoltare l'intera conversazione:
- Ehi, uomini, dove correte? -
- Il più lontano possibile, vecchio. Scommetto che da questa parte riusciremo a raggiungere le mura
prima degli altri. Con un po' di fortuna, riusciremo a raggiungere i cancelli della Cattedrale! -
- Di cosa stai parlando? Sei un disertore?! Cosa stai facendo?! -
- La stessa cosa che dovresti fare anche tu, vecchio: sto scappando. -
Irritato dal fare dell'uomo mi avvicinai allo speziale, ponendomi accanto a lui: se davvero si fosse
rivelato un disertore avremmo dovuto cercare di trattenerlo. Lo apostrofai:
- Basta chiacchiere. Dicci chi sei e cosa sta succedendo. -
Il volto dell'uomo era grave. Non so dire da cosa lo intuii, ma ebbi la netta certezza che i suoi
nervi stessero per cedere. Le sue parole sembravano ispirate da puro terrore:
- Il cordone intorno all'Occhio di Feyth è stato spezzato. La milizia è dispersa, e l'Ecclesia di
Acron è stata costretta a spostare il fronte all'interno delle mura cittadine. -
Io e lo speziale eravamo senza parole. Di tanto in tanto, l'uomo si guardava dietro le spalle,
preoccupato. Il ragazzino, rimasto nel completo silenzio, aveva il volto spento, privo di
espressioni. Il padre continuò il suo racconto:
- Io vendo pelli. La mia bottega si trova dietro Porta Caduta... o quantomeno ivi si trovava.
All'alba di questa mattina, mentre mungevo la mia vacca, ho sentito un rumore in casa. Sono
entrato di soppiatto con il coltello. Mentre mi avvicinavo, sentivo un rumore crudo, viscido,
orribile. Ho aperto la porta della cucina, dove dovevano trovarsi mia moglie e lui. -
Indicò il figlio, il quale si portò istintivamente le mani alle orecchie, coprendole.
- Una creatura immonda si trovava nella mia cucina. Doveva essere un uomo, una volta. Mio
figlio era lì, con ciò che rimaneva di mia moglie. Senza chiedermi troppo l'ho afferrato per mano e
sono fuggito. Il quartiere era pieno di mostri. Si sentivano urla nelle case. -
Per un attimo ho creduto che l'uomo stesse per svenire, mentre il figlio gli stringeva
compulsivamente la maglia di cotone. Offrii dell'acqua ad entrambi, ma mi accorgevo che dalla
piazza sempre più persone accorrevano. Essi ignoravano tuttavia il nostro vicolo, ma
continuavano a correre verso est, superandoci.
- Ho corso come un pazzo fino a quando non ho raggiunto le mura interne. Poi ho continuato a
correre; sono stato uno dei primi. Non intendo fermarmi. –
D'un tratto un secondo corno si sentì nell'aria, ancor più vicino del precedente. Anzi, quasi mi
parve che fosse a ridosso delle case, presso la piazza. Diverse urla terrorizzate seguirono lo
squillare del corno. Io e lo speziale ci guardammo: entrambi viviamo a Glantaur da decenni, e non
è la prima volta che siamo costretti ad evacuare la città. Tuttavia questa volta sembrava diverso;
non erano le nostre mura ad essere assalite, ma la marea nemica proveniva proprio dal cuore della
città. Di corsa andammo a radunare le nostre famiglie. Diedi al pellaio uno dei ronzini della
milizia: meglio a lui che a foraggiare i mostri.

Dopo meno di cinque minuti le nostre due famiglie erano radunate sul mio carro, tirato dai tre
ronzini rimasti e dal mio palafreno. La fiumana di gente era ragguardevole, nella via principale,
ma grazie alla nostra particolare conoscenza della zona siamo riusciti a passare attraverso vicoli
poco conosciuti, dove incontrammo non più di qualche famiglia che, allarmata, ci chiedeva
informazioni. Quando le mura della cinta esterna già si potevano scorgere tra i palazzi, udimmo
diverse urla provenire da Via del Giudice, proprio sotto la porta di uscita dalla città, a non più di
duecento passi da noi. I rumori di combattimento sembravano esser presto soffocati da grida
disperate. Giurerei di aver sentito una donna ridere sguaiatamente.
Preso dal terrore, schioccai le redini e lanciai i cavalli al galoppo per allontanare il carro dai
terribili rumori; all'interno mia figlia aveva iniziato a piangere e mia moglie tentava di consolarla,
poco convinta. Svoltai in Vicolo Fangoso ad una velocità ragguardevole. Improvvisamente, i
cavalli al traino s'impennarono, caracollando uno sull'altro. Il carro si rovesciò, facendo finire me
ed altri due passeggeri nel canale ai bordi della strada. Immediatamente si parò innanzi a me la
causa del comportamento dei cavalli: in mezzo alla strada si ergevano due creature immonde. Ne
sono certo: erano non-morti.
Uno dei due doveva essere una vecchia, in vita. Aveva addosso diversi stracci gialli, mentre in
mano stringeva un pezzo di vetro acuminato. L'altro doveva essere un giovane di non più di
vent'anni: il suo volto era in evidente decomposizione, ed il suo braccio era avvolto da una
sostanza dura, che sembrava pece solida... come la corazza degli insetti. Questo braccio
abominevole terminava in una lama, come una sorta di nero aculeo. Non ero certo che tutti fossero
rimasti illesi nella caduta: cercai con lo sguardo mia moglie, e la vidi correre nella direzione
opposta alle creature con mia figlia in braccio.
Il mio garzone prese un badile dal carro ed aggredì la vecchia, spezzandole il collo. Per tutta
risposta la creatura gli saltò addosso, infilandogli il pezzo di vetro nella giugulare. Ricordo che il
povero Enrico ha emesso un piccolo singulto, come un gorgoglio. Tutti scappammo in preda al
panico più nero. La mia preoccupazione divenne immediatamente quella di ritrovare mia moglie,
infilatasi nei vicoli in fuga. Persi di vista gli altri.
Mentre inseguivo Arianna, mia moglie, chiedendole a squarciagola di fermarsi per riunirci, mi
rendevo conto che lei aveva ormai smesso di ragionare. Il suo istinto le aveva detto di correre via,
mettendo in salvo la figlia, ma i suoi nervi le impedivano di comprendere il mio richiamo. Neanche
il pianto della ragazzina riusciva a scuoterla. Non si rendeva conto che seguendo la direzione da
lei presa avremmo raggiunto Porta del Giudice, la folla e le grida. Feci in tempo a raggiungerla
quando oramai solo cento passi ci dividevano dai rumori di combattimento. Dovetti afferrarla con
vigore, spingendoci contro una serie di casse sistemate in uno stretto vicolo. Tentai di farla
ragionare, ma ella urlava disperata: non aveva mai visto una creatura come quella.
Un uomo entrò nel vicolo, trafelato, e noi ci zittimmo d'istante. Era ferito al volto. Il vicolo si
riempì di un lucore cupo, violaceo, e nell'aria riuscii a scorgere come dei piccoli fulmini di natura
innocua. L'uomo urlò terrorizzato, come riconoscendo la causa del lucore, mentre noi ci
appiattimmo tra le casse:
- No! No! Mi sta inseguendo! -
Ricordo di essere rimasto come pietrificato, quando ho visto la creatura che entrava nel vicolo sulle
tracce dell'uomo. Di natura femminile, forse, ed inevitabilmente in decomposizione. Le orbite dei
suoi occhi sembravano cave. Conduceva con sé uno scettro che agitava lentamente, producendo
appunto quei piccoli fulmini che sferzavano l'aria intorno a lei; il lucore sembrava appunto
provenire dalla sua figura. L'uomo tentò di scappare, ma l'agitarsi dello scettro sembrò
ipnotizzarlo, inchiodandolo sul posto. A quel punto, e la mia memoria vacilla al pensiero, ho visto
uno squarcio aprirsi lentamente all'altezza del ventre dell'uomo; i suoi intestini, semplicemente,
caddero a terra. Le sue grida mi ricordavano quelle dei lattonzoli separati dalla scrofa.
Dovetti premere la mano sulla bocca di mia figlia per impedirle di urlare. Mia moglie aveva lo
sguardo fisso, catatonico. Rimanemmo in quello stato, nascosti, per almeno un minuto, ma la
creatura non sembrò mai notare la nostra presenza. Dopo aver atteso che l'uomo esalasse gli ultimi
rantoli, lo afferrò e lo trascinò con sé, andandosene.

Dovevamo muoverci, e dovevamo farlo subito. Oramai non v'erano più rumori di spade, solo urla
disperate di uomini macellati. Siamo entrati nella prima porta che abbiamo trovato aperta nel
vicolo, l'abbiamo puntellata con i mobili presenti, ed abbiamo ripreso fiato. All'interno non v'era
nessuno. Mia figlia s'è lasciata andare ad un pianto sommesso, mentre lo sguardo di mia moglie era
divenuto vitreo e spento come quello del figlio del pellaio. Le ho lasciate dabbasso, nel sottoscala,
mentre io sono salito ai piani superiori per poter dare finalmente uno sguardo a Porta del Giudice,
da dove provenivano ora ancor più alte le grida. Aprii cautamente la finestra e mi si parò innanzi
l'orrore.
Decine, forse centinaia di persone si ammassavano presso il cancello cittadino, aperto per
l'evacuazione. Il passaggio principale era diventato un imbuto a causa della collisione di due carri,
e la fiumana non riusciva a sfogare da quella parte. La guardiola della milizia, unico altro
passaggio per l'esterno, era presa d'assedio da chi disperatamente cercava di fuggire. La folla
terrorizzata premeva e premeva contro il cancello, accalcandosi nei due stretti passaggi; alcuni di
loro erano svenuti, altri erano stati schiacciati. In aggiunta, almeno cinquanta soldati, portanti le
insegne della Chiesa di Acron, dovevano compiere il tragitto inverso, portandosi all'interno delle
mura per dar battaglia ai mostri che avanzavano, ma non riuscivano ad entrare proprio a causa
della fiumana, ormai trasformatasi in una sorta di feroce transumanza.
Dall'interno della città ormai sciamavano i mostri. La poca resistenza rappresentata dalla guardia
cittadina era caduta, e le retrovie della folla erano state assalite dall'orda. Decine e decine di
creature, i corpi decomposti di sacerdoti della Morte, militi del Regno d'Elavia, semplici civili,
donne, uomini, vecchi e bambini, si avventavano con fame feroce contro i vivi, ammassati come
bestiame. Quasi ognuno di loro si era procurato un'arma, e coloro che ne erano sprovvisti
azzannavano il collo di coloro che riuscivano a ghermire. Via del Giudice si era trasformata in un
tappeto di cadaveri: di fatto, le creature uccidevano molti più uomini di quanti non riuscissero a
fuggire attraverso i cancelli, divenuti una trappola mortale.
Molti di quei mostri avevano deformazioni, mutazioni, ed altri terribili particolari che preferisco
non ricordare. La cosa in grado di scoraggiarmi di più era la funzione dei mostri dal braccio
corazzato. Con il loro aculeo infilzavano i cadaveri rimasti a terra inermi, mentre avanzavano.
Dopo pochi minuti, questi tornavano a camminare, cercavano un'arma e si univano all'orda.
La Porta del Giudice si era trasformata in un mattatoio. Le forze ecclesiali si erano ormai
attestate all'esterno, facendo sgombrare i carri e favorendo la fuoriuscita dei sopravvissuti. Sono
riuscito a scorgere i ranghi sacerdotali che andavano ingrossandosi: quando saranno stati circa
duecento, sono partiti al contrattacco.
Sono corso immediatamente dabbasso, ed ho trovato mia moglie e mia figlia in preghiera. Siamo
usciti di corsa dalla porta sul retro, badando che non vi fossero mostri in vista. Per qualche
motivo, fortunatamente, l'orda si teneva sulla via principale. Siamo sgattaiolati attraverso i
vicoli, aggirando il macello. Ci siamo infilati nella cantina di un villino a ridosso delle mura, ed
abbiamo da lì raggiunto il piano terra. Da una fessura della porta vedevo le armate dell'Ecclesia di
Acron che riprendevano il controllo della Porta del Giudice. Ho atteso fino a quando le loro prime
linee hanno superato la nostra posizione, poi siamo usciti all'esterno, facendoci riconoscere.

Siamo usciti dalla città assieme a decine di famiglie, e siamo stati condotti al punto di raccolta.
Quando tutto sarà finito, me ne andrò da Am-Aterec. Non tornerò più a Glantaur: Glantaur è
una città morta.

Resoconto di Gioacchino de Ponte, sopravvissuto all'invasione di Glantaur, redatto dallo scrivano


Fermo da Am-Aterec, Novizio dell'Ecclesia di Acron, il giorno VIII dell’Aquila 1114.

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