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Abbiamo fatto l’esempio mercoledì scorso della malattia di Parkinson che inizia un po’ a farci capire da un lato
cosa fanno i neurotrasmettitori sia da un punto di vista fisiologico, per esempio la malattia di Parkinson ci
insegna che una delle funzioni molto importanti della dopamina è la modulazione, la regolazione del
comportamento motorio volontario.
Il soggetto parkinsoniano, non so se si è capito abbastanza bene, in realtà è una persona che ha una mente che
fino a un certo punto della progressione della malattia è lucidissima, quindi un soggetto che ha anche alcuni
problemi cognitivi, può presentarsi anche un quadro di disturbo cognitivo lieve, poi addirittura di demenza ma
per tutta una parte importante della malattia è un soggetto assolutamente lucido da un punto di vista mentale.
Purtroppo è un soggetto che in realtà si trova, in un certo qual modo, congelato tra l’ideare un azione e agire
l’azione stessa.
Cioé, banalmente, prendete la più semplice delle azioni che vi potete immaginare, per esempio allacciarvi le
scarpe, riempire un bicchier d’acqua e berlo, e via dicendo.. ecco il soggetto parkinsoniano è in grado di pensare
questa azione ma purtroppo non è in grado di tradurre questo pensiero in azione reale, in azione concreta.
Quindi si trova proprio in un certo qual modo bloccato fra l’ideazione motoria e la cosiddetta azione motoria.
Capite bene quanto può essere impattante una malattia del genere.
Come dicevo prima questo ci fa anche capire dell’importanza della dopamina nel trasformare le ideazioni in
azioni, e questa è una cosa che vedremo ovviamente in modo molto importante anche più avanti quando
tratteremo tutta una serie di altre tematiche legate al ruolo della dopamina come neurotrasmettitore.
Quindi l’esempio della malattia di Parkinson ci fa capire che in generale i neurotrasmettitori sono legati a
specifiche azioni.
La dopamina fa anche tante altre cose, così come la serotonina e via dicendo.
Un altra cosa molto importante che ci dice il Parkinson stesso è che quando c’è un alterazione a carico di un
sistema neurotrasmettitoriale di solito non è mai una cosa bella, ma di solito quello che si crea è che insorge una
determinata patologia.
Un altra cosa che ci insegna il Parkinson come abbiamo visto è che bene o male, a volte per via diretta a volte
perché capiamo prima la patologia e poi cerchiamo di sviluppare un farmaco, ma vi dico la verità molto più
spesso succede il contrario.
Alcune volte perché abbiamo provato a sviluppare dei farmaci e delle cure, e abbiamo visto che alcuni di questi
farmaci e alcune di queste cure funzionano e altre non funzionano, arrivati a quel punto abbiamo anche capito in
un certo qual modo quali erano i presupposti di base, la fisiopatologia così viene definita di una determinata
malattia.
Il Parkinson non fa eccezione da questo punto di vista perché lo stesso sviluppo dei farmaci anti Parkinson, che
poi ci hanno portato a capire il coinvolgimento della dopamina, in un qualche modo è venuto prima della
conoscenza della fisiopatologia stessa della malattia.
Quindi come vedremo oggi e continueremo a vedere molto spesso lo studio neuroscientifico è un groviglio di
funzioni, di farmaci, a volte anche di veleni e tossine che però ci forniscono delle utili indicazioni anche per
trattare queste patologie.
Questo ci porta all’altra faccia della medaglia della neurofarmacologia è che “gli psicofarmaci rovinano le
persone, che fanno più male che bene, che non fanno niente e ecc,ecc..”
Allora che gli psicofarmaci siano farmaci imperfetti su questo non ci piove, sono il primo a dirlo e non ho nessun
tipo di problema a fare questo tipo di dichiarazione.
Ma sono imperfetti anche per la ragione che spero vi arrivi, ovvero qua abbiamo a che fare con una complessità
elevata rispetto a una complessità che possono avere altri organi del nostro corpo.
Non che un cuore non sia complesso, non che un polmone non sia complesso, non che un osso o un muscolo non
siano complessi, ma la complessità del cervello, sopratutto a livello neurochimico, è estrema da questo punto di
vista.
Quindi purtroppo che ci piaccia o no molto spesso i farmaci che noi diamo, riescono ad avere degli effetti
positivi, ma a volte sono anche portatori di effetti collaterali, quindi sono farmaci che sicuramente non sono
perfetti.
Ma secondo voi cos’è un farmaco perfetto?
Innanzitutto un farmaco che non da effetti collaterali per esempio, quindi un farmaco che da il suo effetto
terapeutico, cioè l’effetto ricercato, ma mostra contemporaneamente un assenza di effetti collaterali.
Questo purtroppo non esiste per nessun farmaco, basta che voi prendiate un qualsiasi bugiardino, anche
dell’aspirina per esempio, e vi renderete conto che in realtà non esiste un farmaco perfetto.
Non esiste in generale, e a maggior ragione non esiste quando parliamo di psicofarmaci o di neurofarmaci,
quindi di famarci che agiscono sul sistema nervoso.
Poi c’è un altra cosa, lei dice “e ma su di me non ha avuto effetto” e anche questo è vero, e questa cosa succede
non solo con i psicofarmaci.
Abbiamo purtroppo una casistica decisamente ampiamente di soggetti che ad esempio soffrono di depressione
clinica, gli si da un antidepressivo, il famoso inibitore selettivo della serotonina, e si vede che il soggetto non
mostra una risposta clinica.
In questo caso si dice che è refrattario a quel farmaco.
Ma questo succede anche per gli altri psicotici, succede con gli ansiolitici e può succedere se ci pensate bene
anche per gli antidolorifici o per gli antinfluenzali ecc ecc.
Perché?
Perché una cosa molto importante che abbiamo scoperto è che siccome tutti abbiamo una genetica diversa molto
spesso i farmaci hanno un impatto, un effetto su di noi che è diverso da persona a persona.
Quindi ci sono persone che rispondono molto bene agli antidepressivi, persone che vi rispondono male o che non
vi rispondono affatto.
Idem per gli stabilizzanti dell’umore.
Ma questo vale anche per il moment, per l’aspirina, per la Tachipirina e via dicendo e a a maggior ragione è vero
anche per gli psicofarmaci.
Capite bene però vuol dire che gli psicofarmaci, quindi i farmaci che agiscono a livello del sistema nervoso, non
sono importanti o sono brutte cose, son semplicemente dei farmaci molto imperfetti.
Il problema è che a volte il tipo di effetto collaterale che ti danno, andando purtroppo ad agire sul cervello, è un
effetto collaterale che rischia di essere molto impattante sulla qualità della vita delle persone.
Il moment magari ti può dare un pò di gastrite, scusate dovrei dire ibuprofene sto facendo pubblicità,
l’ibuprofene assunto per un pò di tempo a stomaco vuoto per esempio vi può dare un pò di gastrite, la gastrite ti
costringe a prendere un antiacido, ti evita di farti la pizza o le patatine fritte, quindi ha un impatto ma non è
l’impatto che si ha dal punto di vista soggettivo che può avere un psicofarmaco a lungo termine, e questo lo
riconosciamo per carità.
Perché ci sono pazienti che si rifiutano di prendere psicofarmaci perché dicono di stare peggio?
Dipende da che psicofarmaci stiamo parlando, le faccio un esempio molto banale.
Per esempio gli antidepressivi hanno un brutto effetto collaterale, impattano sulla sfera sessuale dell’individuo,
sia maschio che femmina, danno problemi di erezione nel maschio, di anorgasmia ecc.
Capisci che questo è un effetto collaterale che viene vissuto a volte come importante sulla vita delle persone che
ne fanno uso.
Quindi gli effetti collaterali sono molto invasivi.
Quando parleremo di antipsicotici, per dirla in altri termini farmaci che vengono utilizzati per il trattamento di
quella che un tempo si chiamava schizzofrenia, vedremo che anche questi farmaci hanno degli effetti collaterali
molto importanti.
Gli antipsicotici danno una sorta di parkinsonismo perché ti blocca la trasmissione dopaminergica, ma non solo
nelle aree celebrali dove la dopamina nello psicotico è alterata ma anche nelle aree celebrali dove la dopamina
svolge il suo effetto nel controllo del movimento.
In realtà quello che vediamo nel soggetto parkinsoniano è che c’è poca dopamina nella via rossa, e quindi gli
diamo dei farmaci che aumentano la trasmissione dopaminergica, e questo aiuta il soggetto a muoversi e a
interagire con l’ambiente.
Nei soggetti schizofrenici o psicotici succede che molto spesso gli diamo una iper attività della cosiddetta via
verde, dove c’è troppa dopamina.
Diamo un farmaco che blocca la trasmissione dopaminergica e questo farmaco blocca la via verde che blocca
deliri, allucinazioni ma purtroppo va a bloccare anche la via rossa, quindi con il passare del tempo induce nel
soggetto schizofrenico un blocco della via dopaminergica che è coinvolta nel ruolo del movimento, inducendo
una sorta di parkinsonismo.
Come vedremo con il passare del tempo abbiamo migliorato con lo sviluppo di farmaci che danno questo tipo di
effetto rispetto ai farmaci nuovi che abbiamo per la schizzofrenia, quindi quelli nuovi danno molti meno effetti
da questo punto di vista.
Questo è il gioco attraverso il quale si gioca la partita degli psicofarmaci, è un qualcosa di imperfetto ma è la
base per poterlo migliorare nel corso del tempo.
Quindi gli psicofarmaci possono essere divisi in due categorie di effetti generali:
-effetto facilitatorio, in questo caso vengono definiti agonisti di un neurotrasmettitore, agonisti nel senso che
favoriscono gli effetti funzionali del neurotrasmettitore.
L-DOPA è un agonista della dopamina perché potenzia la trasmissione dopaminergica.
Altri tipi di farmaci agonisti però sono farmaci che si legano direttamente a un determinato recettore, in quel
caso non sono semplicemente agonisti del neurotrasmettitore ma sono agonisti dei recettori di quel
neurotrasmettitore.
Quindi un farmaco può essere o agonista di un neurotrasmettitore potenziandone la funzione se potenzia la sua
funzione agendo sul recettore, o un agonista dei recettori di quel trasmettitore.
Quindi in questo caso il farmaco si sostituisce o imita il neurotrasmettitore nell’indurre i suoi effetti a livello
recettoriale.
A volte un farmaco può essere agonista di un neurotrasmettitore e antagonista di un altro neurotrasmettitore.
Ovviamente le definizioni sono riferite sempre al determinato neurotrasmettitore con il quale stai interagendo.
Così come un farmaco può avere anche un effetto inibitorio sulla neurotrasmissione di un determinato
neurotrasmettitore.
-effetto inibitorio, in questo caso si chiama antagonista.
Gli antagonisti esercitano la loro azione in un modo più complesso, torniamo all’esempio della chiave e della
toppa.
Immaginate come se l’antagonista è la chiave entra nella toppa che è il recettore, però in questo caso la chiave
non apre la porta ma addirittura la blocca, quindi va ad impedire che la chiave giusta entri nella toppa e possa
aprire la porta.
L’agonista si lega ai recettori e attivare il neurone prepsinatico come farebbe il neurotrasmettiore o addirittura
anche in modo potenziato.
Per esempio il THC quando viene assunto da un effetto sui recettori cannabinoidi che è molto più forte dei
cannabinoidi endogeni, quindi a volte l’attività è potenziata.
Con un antagonista invece le cose cambiano perché esso funge da tappo, blocca il recettore ma non lo attiva,
anzi impedisce che il neurotrasmettitore vada ad interagire con il recettore.
Quindi blocca la trasmissione di un determinato neurotrasmettitore a livello dei recettori.
L’azione diretta sui recettori è un altro modo attraverso cui un farmaco può agire su un determinato
neurotrasmettitore.
Ma per capire come funzionano tutte le tappe e come su queste tappe funzionino i vari farmaci bisogna un pò
riprendere prima di tutto le tappe della neurotrasmissione, in secondo luogo andare a vedere come i vari farmaci
agiscono su tutte queste tappe.