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Genzyme e i farmaci “orfani”
Nel febbraio del 2012, dopo sei mesi di estenuanti e serrate trattative, Sanofi A ventis,
una delle maggiori imprese farmaceutiche a livello mondiale, quotata a Parigi e a New
York, era riuscita a chiudere con il management di Genzyme un accordo definitivo
per acquisire la biotech di Boston (Massachusetts, USA) per la somma di 20,1 miliardi
di dollari. L’accordo prevedeva l’esborso immediato di 74 dollari per azione e la cor-
responsione agli azionisti di Genzyme di un contingent value right (CVR), una somma
aggiuntiva, fino a un massimo di 14 dollari, calcolata sulla base delle future perfor-
mance di vendita dei prodotti della biotech statunitense. Il CVR, un valore negoziabile
in borsa correlato alle performance di biofarmaci, come l’alemtuzumab, Cerezyme e
Fabrzyme, sarebbe scaduto nel 2020.
L’oggetto del contendere tra le due aziende era soprattutto l’alemtuzumab, un
farmaco oncologico già in commercio per la cura della leucemia linfatica cronica, ma
in fase avanzata di sviluppo per la terapia della sclerosi multipla. Secondo i dati cli-
nici a cinque anni già disponibili, le prospettive di mercato erano molto promettenti.
Sulla performance di vendita di alemtuzumab, tuttavia, le due aziende erano profonda-
mente divise. Genzyme prevedeva vendite annuali al picco di circa 3,5 miliardi di dol-
lari. Sanofi, molto più conservativa, non andava oltre i 700 milioni di dollari. L’accordo
fissava dei parametri di performance che, sulla base degli effettivi risultati del farmaco,
avrebbe determinato l’entità dei pagamenti futuri.
Genzyme era una delle più grandi biotech al mondo, specializzata in farmaci per
le malattie rare, con circa 12 500 dipendenti, tra cui moltissimi ricercatori. Nel 2010
aveva generato ricavi per 4,05 miliardi di dollari. Disponeva di 85 unità organizzative
dislocate in oltre 40 Paesi, con 17 impianti di produzione e 9 laboratori di sperimenta-
zione genetica.
Fin dalla sua nascita, nel 1981, Genzyme aveva concentrato il suo impegno nella
cura delle malattie rare, introducendo in molte aree terapeutiche trattamenti inno-
vativi che avevano dato nuove speranze ai pazienti, in particolare delle malattie
da accumulo lisosomiale, ossia patologie di origine genetica, causate da un difetto
metabolico ereditario che possono interessare anche un solo individuo ogni 100 000-
250 000 persone. L’azienda aveva scoperto, sperimentato e portato in clinica negli
anni Novanta la prima terapia enzimatica sostitutiva al mondo in grado di cambiare il
destino dei pazienti affetti dalla malattia di Gaucher. In seguito, aveva reso disponibili
le terapie per la malattia di Fabry e per la mucopolisaccaridosi di tipo I. Nel 2007, inol-
tre, era stata autorizzata l’immissione in commercio della terapia enzimatica sostitutiva
per il trattamento della malattia di Pompe.
Oltre alle malattie rare di origine ereditaria, l’attività dell’azienda era focalizzata
sulle malattie renali, l’ortopedia, i tumori, i trapianti e le malattie immunitarie. Negli anni,
il raggio d’azione si era esteso alle malattie cardiovascolari e alle malattie neurode-
generative. Presente in Italia dal 1993, Genzyme aveva sede a Modena e si avvaleva
della collaborazione di oltre 120 dipendenti. La crescita di fatturato è stata costante, a
un ritmo superiore al 20% annuo, sfiorando i 115 milioni di euro nel 2010.
Umili origini
Genzyme è stata fondata a Boston nel 1981 da un piccolo gruppo di scienziati che
svolgeva delle ricerche sulle malattie genetiche rare con deficit enzimatici, causate
da fattori ereditari. Nelle persone colpite da queste rare patologie (per esempio, la
malattia di Gaucher, la malattia di Fabry, MPS-1) mancano gli enzimi essenziali che
regolano il metabolismo provocando accumulo di zuccheri, di grassi o di proteine
nell’organismo e causando nei malati una condizione di dolore cronico e la morte in
giovane età. Nel 1983, gli scienziati avevano stabilito come sede delle proprie atti-
vità di ricerca il quindicesimo piano di un vecchio edificio in un quartiere degradato
di Boston (noto anche come Combat Zone). In quell’anno, si affiancò al gruppo dei
fondatori Henri Termeer, che assunse il ruolo di presidente, per diventare in seguito
amministratore delegato della società. Termeer, per unirsi alla start-up fondata appena
due anni prima, aveva lasciato una posizione di vice presidente esecutivo ben retri-
buita presso Baxter, una delle maggiori imprese farmaceutiche statunitensi, e molti
pensarono che avesse commesso una follia. Ma Termeer era convinto che Genzyme
fosse nella posizione giusta per perseguire una strategia innovativa (e inedita) nel
settore farmaceutico: puntare ai mercati di nicchia delle malattie rare.
La scelta di focalizzarsi sulle malattie rare era giudicata all’epoca, nel settore far-
maceutico, quasi un’eresia. Lo sviluppo di un farmaco richiede da 10 a 14 anni e costa,
in media, 800 milioni di dollari per la ricerca, le sperimentazioni cliniche, l’approva-
zione della FDA (la Food and Drug Administration) e infine l’introduzione del farmaco
nel mercato. Le società farmaceutiche preferivano concentrarsi quindi sui prodotti
blockbuster, quei farmaci che, almeno potenzialmente, erano destinati a un mercato
costituito da milioni di clienti. Nel settore si attribuisce il titolo di blockbuster a un far-
maco in grado di raggiungere un fatturato uguale o maggiore a un miliardo di dollari:
una soglia che può essere raggiunta o superata solo se il prodotto ha un target di
Per ottenere lo status di farmaco “orfano”, secondo l’ODA, una malattia doveva colpire
non oltre 200 000 persone in tutto il mondo. Le Big Pharma, le grandi case farma-
ceutiche, continuarono a non mostrare alcun interesse, a causa delle piccole dimen-
sioni del mercato e degli alti rischi associati allo sviluppo di terapie dedicate. Anche
la maggior parte delle biotech trascurò di cogliere le opportunità offerte dalla nuova
normativa, che invece ben si sarebbe accordata con i rapidi progressi compiuti nella
propria area di competenze tecnologiche. Il successo ottenuto da Genzyme alla fine,
però, avrebbe attirato anche l’attenzione delle altre biotech verso questo mercato di
nicchia, piccolo ma ad alta redditività.
Nel 1991, Genzyme pur riuscendo a raccogliere un milione di placente l’anno, sapeva
di non essere in grado di produrre abbastanza enzima per soddisfare la domanda di
mercato. Per fortuna, nel 1993, Genzyme riuscì a sviluppare una forma ricombinante
dell’enzima, Cerezyme che, senza ricorrere al tessuto umano, consentiva una produ-
zione industriale efficiente. Nel frattempo, Genzyme aveva anche cominciato a lavo-
rare sulle terapie geniche e a studiare potenziali cure per un altro disturbo raro da
deficit enzimatico: la sindrome di Fabry.
Mantenere l’autonomia
La decisione di Genzyme di non lavorare con le grandi società farmaceutiche segnò
una netta discontinuità nelle regole del gioco che vigevano all’interno del settore.
Mentre la maggior parte delle società biotech concedeva in licenza l’uso delle tec-
nologie proprietarie alle grandi compagnie farmaceutiche per attingere alle superiori
risorse finanziarie, alle maggiori capacità produttive e alle innegabili competenze nel
marketing e nella distribuzione possedute dalle Big Pharma, Termeer era fermamente
convinto che la società dovesse rimanere indipendente, dichiarando in un’intervista:
“Se avessimo collaborato con un partner di grandi dimensioni, avremmo perso la nostra
capacità di orientare le scelte strategiche e saremmo caduti nella trappola della dipen-
denza [. . .] abbiamo cercato di conservare il maggior grado di autonomia possibile”.
dipendenti in larga misura provenienti dai laboratori universitari o dalle grandi com-
pagnie farmaceutiche. Se riescono a sopravvivere agli anni di magra e mostrano pro-
spettive incoraggianti per il futuro, con una buona probabilità di produrre una terapia
commercialmente valida, cercheranno di allearsi con una Big Pharma per lo sviluppo
dell’ultima fase, la produzione e il marketing. Per esempio, sia Genentech sia Gilead
avevano stabilito delle relazioni di collaborazione con Roche, mentre Amgen aveva
stretto un’alleanza con Abbott Laboratories. In seguito, qualora i farmaci ottengano
il successo commerciale, la biotech potrà negoziare royalty più alte e attirare investi-
menti di capitale.
Genzyme appariva però differente da tutti i suoi pari e dalle società biotech fon-
date in anni successivi, in quanto ben presto raggiunse la soglia di redditività (Gen-
zyme registrò un utile di poco superiore ai 20 milioni di dollari già nel 1991, una perdita
nel 1992 e 1993, e un utile di oltre 16 milioni di dollari nel 1994) pur conservando la sua
indipendenza, senza alcuna forma di partnership con le grandi compagnie farmaceu-
tiche. Ha raccontato Termeer:
“Volevamo creare una società diversificata che attraverso l’innovazione tecnologica
potesse essere in grado di operare una reale differenza per le persone con malat-
tie gravi; raggiungere l’utile ci avrebbe consentito di continuare a sviluppare nuovi
medicinali”.
Tuttavia, nonostante i benefici offerti dall’ODA, la maggior parte degli analisti di settore
riteneva che il sentiero strategico intrapreso da Genzyme non fosse percorribile da
altri sviluppatori. E se anche Amgen e Genentech avevano realizzato farmaci “orfani”,
in realtà non era questo l’obiettivo al centro della loro strategia.
2008, le sue attività erano organizzate in sei unità strategiche di business, cinque
a coprire differenti aree terapeutiche e una relativa ai prodotti e ai servizi diagno-
stici: Genetic Diseases (per lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti per il
trattamento di malattie genetiche rare e di altre patologie croniche debilitanti); Renal
Diseases (l’unità con la responsabilità di studiare nuove cure per le patologie renali);
Oncology/Endocrinology (impegnata nello sviluppo di prodotti innovativi nella terapia
dei tumori, in collaborazione con altri centri di ricerca mondiali); Transplant/Immune
Diseases (per la produzione di farmaci per il trattamento e la prevenzione del rigetto
in pazienti sottoposti a trapianti e destinati alla cura di altre patologie autoimmuni);
Orthopaedics/Biosurgical Specialties (per lo sviluppo di terapie geniche e cellulari e la
produzione di biomateriali applicati); Genetics/Diagnostics (impegnata nella fornitura
di prodotti usati in laboratori clinici e nella realizzazione di test diagnostici sulla base
di un’ampia serie di piattaforme tecnologiche). La pipeline di Genzyme conteneva far-
maci promettenti in fase avanzata di sviluppo: oltre l’alemtuzumab per la cura della
sclerosi multipla, il Clorar per la leucemia mieloide acuta, il mipomersen per l’ipercole-
sterolemia di origine familiare, l’eliglustat per la cura della malattia di Gaucher.
Nel giugno del 2008, a causa di una contaminazione virale, l’azienda aveva dovuto
bloccare la produzione dell’impianto di Allston Landing, una località nelle vicinanze di
Boston. Lo stop aveva determinato una carenza mondiale di C erezyme e Fabrazyme,
con inevitabili conseguenze nell’assistenza ai malati. Per ridurre al minimo l’impatto del
calo di produzione del farmaco sui pazienti, l’FDA e l’EMA avevano accelerato l’approva-
zione di altri due farmaci simili a Cerezyme. Genzyme che fino ad allora aveva lavorato
in regime di monopolio per la malattia di Gaucher, aveva i suoi primi competitor. Nel
febbraio del 2010, Shire aveva ricevuto l’approvazione per velaglucerase alfa, già dispo-
nibile nel mercato con il marchio Vpriv, seguita da Pfizer, che aveva acquisito i diritti del
taliglucerase alfa da Protalix, l’azienda israeliana che lo aveva sviluppato.
Le difficoltà di produzione avevano penalizzato il valore dell’azione Genzyme, che
da un massimo di 83,3 dollari raggiunti nel 2008, prima che scoppiasse la crisi, era
sceso del 43%. L’offerta di Sanofi, nel mese di agosto del 2010, l’aveva poi spinto rapi-
damente a risalire. Sanofi Aventis, fra le più grandi case farmaceutiche, nel 2010 aveva
raggiunto i 30,4 miliardi di euro di fatturato. Come tutte le Big Pharma, però, doveva
confrontarsi con brevetti in scadenza e nuovi farmaci difficili da perfezionare. Nel luglio
del 2010, l’FDA aveva approvato la versione generica di enoxaparina, un farmaco antico-
agulante che aveva generato vendite annue pari a 2,8 miliardi di dollari per Sanofi Aven-
tis che lo commercializzava con il marchio Clexane (negli Stati Uniti, Lovenox). Nell’ultimo
trimestre del 2010, proprio a causa della concorrenza dei generici sul mercato ameri-
cano, in termini di vendite, il farmaco aveva perso il 27% rispetto all’anno precedente.
Nel maggio del 2012, invece, negli Stati Uniti sarebbe scaduto il brevetto di Plavix (clopi-
dogrel), un farmaco che Sanofi commercializzava insieme a Bristol-Myers Squibb e che
nel 2010 aveva generato vendite per 6,9 miliardi di euro, di cui oltre la metà negli Stati
Uniti. In alcuni Paesi europei, Plavix era già stato messo in concorrenza con i farmaci
generici. Ecco perché Sanofi era alla ricerca di biotech per estendere la propria gamma
di prodotti e, soprattutto, per acquisire le competenze adatte a sviluppare nuovi farmaci
biologici. La sfida ora era imparare a conoscersi e a integrarsi.