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Capitolo 6 – Definizione dell’orientamento strategico 1

Casi aziendali
Genzyme e i farmaci “orfani”
Nel febbraio del 2012, dopo sei mesi di estenuanti e serrate trattative, Sanofi A ­ ventis,
una delle maggiori imprese farmaceutiche a livello mondiale, quotata a Parigi e a New
York, era riuscita a chiudere con il management di Genzyme un accordo definitivo
per acquisire la biotech di Boston (Massachusetts, USA) per la somma di 20,1 miliardi
di dollari. L’accordo prevedeva l’esborso immediato di 74 dollari per azione e la cor-
responsione agli azionisti di Genzyme di un contingent value right (CVR), una somma
aggiuntiva, fino a un massimo di 14 dollari, calcolata sulla base delle future perfor-
mance di vendita dei prodotti della biotech statunitense. Il CVR, un valore negoziabile
in borsa correlato alle performance di biofarmaci, come l’­alemtuzumab, Cerezyme e
Fabrzyme, sarebbe scaduto nel 2020.
L’oggetto del contendere tra le due aziende era soprattutto l’alemtuzumab, un
farmaco oncologico già in commercio per la cura della leucemia linfatica cronica, ma
in fase avanzata di sviluppo per la terapia della sclerosi multipla. Secondo i dati cli-
nici a cinque anni già disponibili, le prospettive di mercato erano molto promettenti.
Sulla performance di vendita di alemtuzumab, tuttavia, le due aziende erano profonda-
mente divise. Genzyme prevedeva vendite annuali al picco di circa 3,5 miliardi di dol-
lari. Sanofi, molto più conservativa, non andava oltre i 700 milioni di dollari. L’accordo
fissava dei parametri di performance che, sulla base degli effettivi risultati del farmaco,
avrebbe determinato l’entità dei pagamenti futuri.
Genzyme era una delle più grandi biotech al mondo, specializzata in farmaci per
le malattie rare, con circa 12 500 dipendenti, tra cui moltissimi ricercatori. Nel 2010
aveva generato ricavi per 4,05 miliardi di dollari. Disponeva di 85 unità organizzative
dislocate in oltre 40 Paesi, con 17 impianti di produzione e 9 laboratori di sperimenta-
zione genetica.
Fin dalla sua nascita, nel 1981, Genzyme aveva concentrato il suo impegno nella
cura delle malattie rare, introducendo in molte aree terapeutiche trattamenti inno-
vativi che avevano dato nuove speranze ai pazienti, in particolare delle malattie
da accumulo lisosomiale, ossia patologie di origine genetica, causate da un difetto
metabolico ereditario che possono interessare anche un solo individuo ogni 100 000-
250 000 persone. L’azienda aveva scoperto, sperimentato e portato in clinica negli
anni Novanta la prima terapia enzimatica sostitutiva al mondo in grado di cambiare il
destino dei pazienti affetti dalla malattia di Gaucher. In seguito, aveva reso disponibili
le terapie per la malattia di Fabry e per la mucopolisaccaridosi di tipo I. Nel 2007, inol-
tre, era stata autorizzata l’immissione in commercio della terapia enzimatica sostitutiva
per il trattamento della malattia di Pompe.
Oltre alle malattie rare di origine ereditaria, l’attività dell’azienda era focalizzata
sulle malattie renali, l’ortopedia, i tumori, i trapianti e le malattie immunitarie. Negli anni,
il raggio d’azione si era esteso alle malattie cardiovascolari e alle malattie neurode-
generative. Presente in Italia dal 1993, Genzyme aveva sede a Modena e si avvaleva
della collaborazione di oltre 120 dipendenti. La crescita di fatturato è stata costante, a
un ritmo superiore al 20% annuo, sfiorando i 115 milioni di euro nel 2010.

M .A. Schilling, F. Izzo – Gestione dell’innovazione 5e – © 2022, McGraw-Hill Education


2 Parte 2 – Elaborazione di una strategia di innovazione tecnologica

Competenze scientifiche altamente specialistiche, piattaforme tecnologiche all’avan-


guardia e consistenti investimenti in ricerca e sviluppo consentivano a Genzyme di
offrire trattamenti terapeutici innovativi, in grado di dare a molti pazienti una speranza
di vita o di determinare un significativo miglioramento delle loro condizioni.
Genzyme era unanimemente riconosciuta fra le imprese leader nelle biotecno-
logie per molti aspetti delle attività che conduceva. Nel 2007, Henri A. Termeer, CEO
e presidente di Genzyme, aveva ricevuto dal presidente Bush la National Medal of
Technology, la massima onorificenza statunitense nel campo dell’innovazione tecno-
logica. L’impresa aveva vinto numerosi premi e riconoscimenti per le sue prassi azien-
dali rispettose della sostenibilità ambientale e della responsabilità etica. Dal 2005
in avanti, Genzyme era stata inserita nell’indice di sostenibilità mondiale Dow Jones
(Dow Jones Sustainability World Index) per le sue prestazioni in campo economico,
ambientale e sociale. Nel 2009, nel sondaggio di Science Magazine che classifica le
società biotecnologiche e farmaceutiche in base alla loro reputazione, Genzyme si
era posizionata come uno dei “migliori datori di lavoro”, classificandosi al terzo posto
su una lista mondiale di 575 aziende, per il secondo anno consecutivo. Era citata in
varie classifiche quale “miglior luogo dove lavorare” e Business Week l’aveva definita
come una delle società con il maggiore impegno filantropico.

Umili origini
Genzyme è stata fondata a Boston nel 1981 da un piccolo gruppo di scienziati che
svolgeva delle ricerche sulle malattie genetiche rare con deficit enzimatici, causate
da fattori ereditari. Nelle persone colpite da queste rare patologie (per esempio, la
malattia di Gaucher, la malattia di Fabry, MPS-1) mancano gli enzimi essenziali che
regolano il metabolismo provocando accumulo di zuccheri, di grassi o di proteine
nell’organismo e causando nei malati una condizione di dolore cronico e la morte in
giovane età. Nel 1983, gli scienziati avevano stabilito come sede delle proprie atti-
vità di ricerca il quindicesimo piano di un vecchio edificio in un quartiere degradato
di Boston (noto anche come Combat Zone). In quell’anno, si affiancò al gruppo dei
fondatori Henri Termeer, che assunse il ruolo di presidente, per diventare in seguito
amministratore delegato della società. Termeer, per unirsi alla start-up fondata appena
due anni prima, aveva lasciato una posizione di vice presidente esecutivo ben retri-
buita presso Baxter, una delle maggiori imprese farmaceutiche statunitensi, e molti
pensarono che avesse commesso una follia. Ma Termeer era convinto che Genzyme
fosse nella posizione giusta per perseguire una strategia innovativa (e inedita) nel
settore farmaceutico: puntare ai mercati di nicchia delle malattie rare.
La scelta di focalizzarsi sulle malattie rare era giudicata all’epoca, nel settore far-
maceutico, quasi un’eresia. Lo sviluppo di un farmaco richiede da 10 a 14 anni e costa,
in media, 800 milioni di dollari per la ricerca, le sperimentazioni cliniche, l’approva-
zione della FDA (la Food and Drug Administration) e infine l’introduzione del farmaco
nel mercato. Le società farmaceutiche preferivano concentrarsi quindi sui prodotti
blockbuster, quei farmaci che, almeno potenzialmente, erano destinati a un mercato
costituito da milioni di clienti. Nel settore si attribuisce il titolo di blockbuster a un far-
maco in grado di raggiungere un fatturato uguale o maggiore a un miliardo di dollari:
una soglia che può essere raggiunta o superata solo se il prodotto ha un target di

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Capitolo 6 – Definizione dell’orientamento strategico 3

mercato di molte migliaia di pazienti, sofferenti a causa di malattie croniche come


l’ipertensione, il diabete o l’ipercolesterolemia. Genzyme, però, decise di sfidare il
modello tradizionale di business, associato a quel concetto secondo cui un’azienda
farmaceutica per avere successo deve vantare nella sua gamma di prodotti almeno
un farmaco blockbuster: l’azienda si sarebbe focalizzata solo su quei farmaci destinati
a poche migliaia di pazienti, colpiti da gravi malattie, quasi sempre con esiti mortali.
In realtà, in un mercato di nicchia, con pochi pazienti – era il ragionamento del
management di Genzyme – anche i concorrenti sarebbero stati pochi. Inoltre, l’esiguo
numero di pazienti, così come la gravità delle patologie, avrebbero incontrato minori
resistenze da parte delle compagnie di assicurazione per la copertura delle spese
mediche. La combinazione dei due fattori suggeriva che i farmaci per le malattie rare
sarebbero stati in grado di conquistare margini superiori a quelli dei farmaci tradi-
zionali. E ancora, mentre di norma le società farmaceutiche hanno bisogno di un’e-
stesa organizzazione di vendita e di un budget cospicuo per il marketing allo scopo
di promuovere nel mercato i propri farmaci, un’azienda focalizzata sui farmaci per le
malattie rare avrebbe potuto adottare un approccio commerciale molto più mirato.
Genzyme poteva rivolgersi direttamente ai pochi medici specializzati in malattie rare,
senza essere costretta a mantenere una grande forza vendita e a finanziare costose
campagne pubblicitarie.
Infine, terapie con un valore statistico significativo in segmenti più ristretti di
popolazione avrebbero richiesto sperimentazioni cliniche inferiori per ampiezza
(anche se sarebbero state maggiori le difficoltà di rinvenire i candidati adatti per la
sperimentazione).

L’Orphan Drug Act


Le scelte di timing di Genzyme si rivelarono fortunate. Nel 1983, la FDA varò l’Orphan
Drug Act (ODA) per incoraggiare lo sviluppo di farmaci per le malattie rare. La norma
prevedeva come incentivi per le imprese significativi sgravi fiscali sui costi di ricerca
oltre a garantire un periodo di sette anni di esclusiva di mercato a favore dell’azienda
che avesse introdotto un farmaco “orfano”. Il regime di esclusiva di mercato corri-
spondeva a una protezione nei confronti della concorrenza di gran lunga superiore
per efficacia rispetto alle forme di tutela garantite da un classico brevetto. Quando
un’azienda ottiene un brevetto su un farmaco, infatti, l’azione di quel brevetto si limita
soltanto a impedire che un’altra azienda commercializzi lo stesso farmaco; non vieta
però a un concorrente di mettere in commercio un prodotto che svolga un’azione
terapeutica identica o analoga con differenti principi attivi. Per tali motivi, quando un’a-
zienda introduce un farmaco, pur coperto da brevetto, rivolto alla cura di una patologia
diffusa, è probabile che si scateni la rincorsa dei concorrenti allo scopo di introdurre
una versione alternativa del farmaco. La nuova (e forse migliore) variante può ugual-
mente essere brevettata e competere con il farmaco originale. I farmaci per le malattie
orfane invece sarebbero stati protetti anche da questa forma di concorrenza per un
arco temporale di sette anni: l’auspicio del regolatore attraverso la forma più ampia
di tutela era di consentire alle imprese di recuperare i costi di sviluppo, nonché di
ottenere un tasso di rendimento degli investimenti adeguato a rendere attrattiva (o
almeno a incentivare) l’attività di ricerca e la sperimentazione clinica.

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4 Parte 2 – Elaborazione di una strategia di innovazione tecnologica

Per ottenere lo status di farmaco “orfano”, secondo l’ODA, una malattia doveva colpire
non oltre 200 000 persone in tutto il mondo. Le Big Pharma, le grandi case farma-
ceutiche, continuarono a non mostrare alcun interesse, a causa delle piccole dimen-
sioni del mercato e degli alti rischi associati allo sviluppo di terapie dedicate. Anche
la maggior parte delle biotech trascurò di cogliere le opportunità offerte dalla nuova
normativa, che invece ben si sarebbe accordata con i rapidi progressi compiuti nella
propria area di competenze tecnologiche. Il successo ottenuto da Genzyme alla fine,
però, avrebbe attirato anche l’attenzione delle altre biotech verso questo mercato di
nicchia, piccolo ma ad alta redditività.

Il primo grande successo


Il primo prodotto messo in commercio da Genzyme fu il Ceredase, una proteina sosti-
tutiva progettata per curare una popolazione inferiore a 10 000 persone colpite da
una rara malattia genetica mortale denominata malattia di Gaucher. I bambini nati con
questa malattia di rado vivono oltre il compimento dei dieci anni, mentre gli adulti
affetti da questa patologia subiscono danni cronici al fegato, ai reni, al cuore e alla
milza. Le sperimentazioni cliniche di Ceredase iniziarono nel 1984 e, nel marzo 1985,
la FDA designò il Ceredase come farmaco “orfano”. Nel 1990, Genzyme fu autorizzata
per la prima volta a mettere il Ceredase a disposizione dei pazienti al di fuori dei con-
fini statunitensi, mentre l’anno dopo ottenne il “via libera” dalla FDA alla commercializ-
zazione negli Stati Uniti.
La predisposizione della terapia enzimatica per curare un paziente affetto dalla
malattia di Gaucher richiedeva l’estrazione da tessuto umano di proteine, di cui la pla-
centa umana si dimostrò la fonte più ricca. La spesa e le difficoltà di reperimento del
materiale rappresentarono un’efficace barriera all’ingresso nel mercato di nuovi con-
correnti. In realtà, solo pochi esperti ritenevano che Genzyme potesse raggiungere il
successo commerciale con questo prodotto.
Come ha raccontato Termeer nel 2003 in un’intervista a Fortune:
“La FDA pensava che fossimo impazziti. Le difficoltà nella raccolta di ulteriori risorse
finanziarie indispensabili per le sperimentazioni si rivelarono durissime. Non ultimo, il
fatto che l’enzima si ricavasse dalla placenta umana comportava che, per fornire la
dose annuale destinata a un singolo paziente, occorressero oltre 22 000 placente. Per
superare l’ostacolo, Genzyme decise di realizzare uno stabilimento in Francia per recu-
perare il tessuto placentare non desiderato (che altrimenti sarebbe stato bruciato), e
così estrarre l’enzima. A un certo punto, il 35% di tutte le placente provenienti dagli Stati
Uniti era processato dallo stabilimento francese. Ceredase divenne l’unico farmaco
estratto dalla placenta il cui uso in Gran Bretagna fosse stato autorizzato dal governo
del Regno Unito”.

Nel 1991, Genzyme pur riuscendo a raccogliere un milione di placente l’anno, sapeva
di non essere in grado di produrre abbastanza enzima per soddisfare la domanda di
mercato. Per fortuna, nel 1993, Genzyme riuscì a sviluppare una forma ricombinante
dell’enzima, Cerezyme che, senza ricorrere al tessuto umano, consentiva una produ-
zione industriale efficiente. Nel frattempo, Genzyme aveva anche cominciato a lavo-
rare sulle terapie geniche e a studiare potenziali cure per un altro disturbo raro da
deficit enzimatico: la sindrome di Fabry.

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Capitolo 6 – Definizione dell’orientamento strategico 5

Mantenere l’autonomia
La decisione di Genzyme di non lavorare con le grandi società farmaceutiche segnò
una netta discontinuità nelle regole del gioco che vigevano all’interno del settore.
Mentre la maggior parte delle società biotech concedeva in licenza l’uso delle tec-
nologie proprietarie alle grandi compagnie farmaceutiche per attingere alle superiori
risorse finanziarie, alle maggiori capacità produttive e alle innegabili competenze nel
marketing e nella distribuzione possedute dalle Big Pharma, Termeer era fermamente
convinto che la società dovesse rimanere indipendente, dichiarando in un’intervista:
“Se avessimo collaborato con un partner di grandi dimensioni, avremmo perso la nostra
capacità di orientare le scelte strategiche e saremmo caduti nella trappola della dipen-
denza [. . .] abbiamo cercato di conservare il maggior grado di autonomia possibile”.

Realizzare senza alcuna collaborazione i test, la produzione e le vendite a ­ vrebbe compor-


tato da un lato rischi superiori per Genzyme, ma dall’altro anche che la società avrebbe
mantenuto per sé tutti i profitti conseguiti con i propri farmaci. Allo scopo di generare flussi
di ricavi per finanziare la ricerca, Termeer avviò numerose attività collaterali, dalla produ-
zione di biomateriali e di composti farmaceutici in conto terzi, alla consulenza genetica e ai
servizi diagnostici. Inoltre, decise di quotare in borsa la società, raccogliendo dal mercato
finanziario 27 milioni di dollari. Termeer vinse la sua scommessa. I pazienti che assume-
vano il Cerezyme pagavano in media 170 000 dollari l’anno per le cure farmacologiche e,
con circa 4500 pazienti destinati ad assumere il farmaco a vita, il fatturato annuo generato
soltanto da Cerezyme ammontava a oltre 800 milioni di dollari.

La concorrenza nel biotech


Nel 2006, il fatturato mondiale generato dai prodotti biotecnologici era stato pari a
153,7 miliardi di dollari con una previsione di crescita fino a 271,4 miliardi entro il 2011;
il mercato statunitense assorbiva oltre la metà del totale, con il resto distribuito tra
Europa, Giappone, America Latina e gli altri Paesi dell’Asia. Nel 2007, si stimavano in
4400 le aziende impegnate a competere nel segmento del biotech. Di queste, quasi
800 erano quotate in Borsa, con ricavi complessivi che sfioravano gli 85 miliardi di
dollari, in crescita dai 78,4 miliardi del 2006. Oltre la metà di tali ricavi, comunque, era
riconducibile alle 10 maggiori imprese biotech: Amgen (14,3 miliardi di dollari), Genen-
tech (9,3 miliardi di dollari), Genzyme (3,2 miliardi di dollari), UCB (3,2 miliardi di dollari),
Gilead Science (3 miliardi di dollari), Serono (2,8 miliardi di dollari), Biogen Idec (2,7
miliardi di dollari), CSL (2,1 miliardi di dollari), Cephalon (1,8 miliardi di dollari) e MedIm-
mune (1,3 miliardi di dollari).
Genentech era la più longeva, essendo stata costituita nel 1976; Amgen, Chiron e
Genzyme erano state fondate poco dopo, all’inizio degli anni Ottanta. Gli altri concor-
renti erano invece piccole società emergenti con meno di 500 dipendenti. In realtà,
oltre il 50% delle società biotech aveva meno di 50 dipendenti. Solo poche avevano
raggiunto condizioni di redditività. La perdita netta complessiva del settore, nel 2007,
ammontava a 2,7 miliardi di dollari (in miglioramento rispetto al 2004, quando era stata
pari a 4,9 miliardi di dollari).
Nelle biotecnologie, la maggior parte delle start-up percorre un sentiero evolutivo
simile. Le aziende esordiscono nel mercato come società di ricerca e sviluppo, con

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6 Parte 2 – Elaborazione di una strategia di innovazione tecnologica

dipendenti in larga misura provenienti dai laboratori universitari o dalle grandi com-
pagnie farmaceutiche. Se riescono a sopravvivere agli anni di magra e mostrano pro-
spettive incoraggianti per il futuro, con una buona probabilità di produrre una terapia
commercialmente valida, cercheranno di allearsi con una Big Pharma per lo sviluppo
dell’ultima fase, la produzione e il marketing. Per esempio, sia Genentech sia Gilead
avevano stabilito delle relazioni di collaborazione con Roche, mentre Amgen aveva
stretto un’alleanza con Abbott Laboratories. In seguito, qualora i farmaci ottengano
il successo commerciale, la biotech potrà negoziare royalty più alte e attirare investi-
menti di capitale.
Genzyme appariva però differente da tutti i suoi pari e dalle società biotech fon-
date in anni successivi, in quanto ben presto raggiunse la soglia di redditività (Gen-
zyme registrò un utile di poco superiore ai 20 milioni di dollari già nel 1991, una perdita
nel 1992 e 1993, e un utile di oltre 16 milioni di dollari nel 1994) pur conservando la sua
indipendenza, senza alcuna forma di partnership con le grandi compagnie farmaceu-
tiche. Ha raccontato Termeer:
“Volevamo creare una società diversificata che attraverso l’innovazione tecnologica
potesse essere in grado di operare una reale differenza per le persone con malat-
tie gravi; raggiungere l’utile ci avrebbe consentito di continuare a sviluppare nuovi
medicinali”.

Tuttavia, nonostante i benefici offerti dall’ODA, la maggior parte degli analisti di settore
riteneva che il sentiero strategico intrapreso da Genzyme non fosse percorribile da
altri sviluppatori. E se anche Amgen e Genentech avevano realizzato farmaci “orfani”,
in realtà non era questo l’obiettivo al centro della loro strategia.

Posizionamento per il futuro


Si stimava che nel mondo vi fossero fra le 5000 e le 8000 malattie rare conosciute.
Nei dieci anni che avevano preceduto l’emanazione dell’ODA, secondo la FDA erano
stati introdotti nel mercato soltanto 10 farmaci “orfani”. Dall’approvazione della legge,
invece, erano stati messi in commercio ben 269 farmaci “orfani”, in larga misura da
parte di società biotech, e quasi tutti avevano determinato un progresso nelle terapie.
Genzyme aveva dimostrato che si poteva fondare un’azienda e stabilire un modello di
business basandosi sulle malattie rare, sperimentando con successo la sua strategia
di focalizzarsi su segmenti di mercato che sembravano non giustificare tale scelta
secondo una prospettiva finanziaria.
Dopo il successo del Cerezyme, la società aveva introdotto altre quattro terapie
proteiche, dedicate alla cura di malattie genetiche provocate da deficit enzimatici. L’Al-
durazyme era destinato a 400 bambini e adulti in oltre 30 Paesi affetti da MPS-1, la
mucopolisaccaridosi, definita per la sua rarità come una malattia “ultraorfana”. Oltre
1700 pazienti in più di 40 Paesi assumevano invece il Fabrazyme per curare la malattia
di Fabry. Nel 2006, in Europa l’EMEA (l’European Agency for the Evaluation of Medi-
cinal Products) e negli Stati Uniti l’FDA avevano approvato l’immissione in commercio
del Myozyme, destinato alla cura della malattia di Pompe, un disturbo muscolare debi-
litante, e quasi sempre mortale, che colpiva meno di 10 000 persone al mondo.
Genzyme era rimasta fedele alla sua strategia di diversificazione, che le aveva
consentito di sopravvivere alle difficoltà dei primi anni di sviluppo del Cerezyme; nel

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Capitolo 6 – Definizione dell’orientamento strategico 7

2008, le sue attività erano organizzate in sei unità strategiche di business, cinque
a coprire differenti aree terapeutiche e una relativa ai prodotti e ai servizi diagno-
stici: Genetic Diseases (per lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti per il
trattamento di malattie genetiche rare e di altre patologie croniche debilitanti); Renal
Diseases (l’unità con la responsabilità di studiare nuove cure per le patologie renali);
Oncology/Endocrinology (impegnata nello sviluppo di prodotti innovativi nella terapia
dei tumori, in collaborazione con altri centri di ricerca mondiali); Transplant/Immune
Diseases (per la produzione di farmaci per il trattamento e la prevenzione del rigetto
in pazienti sottoposti a trapianti e destinati alla cura di altre patologie autoimmuni);
Orthopaedics/Biosurgical Specialties (per lo sviluppo di terapie geniche e cellulari e la
produzione di biomateriali applicati); Genetics/Diagnostics (impegnata nella fornitura
di prodotti usati in laboratori clinici e nella realizzazione di test diagnostici sulla base
di un’ampia serie di piattaforme tecnologiche). La pipeline di Genzyme conteneva far-
maci promettenti in fase avanzata di sviluppo: oltre l’alemtuzumab per la cura della
sclerosi multipla, il Clorar per la leucemia mieloide acuta, il mipomersen per l’ipercole-
sterolemia di origine familiare, l’eliglustat per la cura della malattia di Gaucher.
Nel giugno del 2008, a causa di una contaminazione virale, l’azienda aveva dovuto
bloccare la produzione dell’impianto di Allston Landing, una località nelle vicinanze di
Boston. Lo stop aveva determinato una carenza mondiale di C ­ erezyme e Fabrazyme,
con inevitabili conseguenze nell’assistenza ai malati. Per ridurre al minimo l’impatto del
calo di produzione del farmaco sui pazienti, l’FDA e l’EMA avevano accelerato l’approva-
zione di altri due farmaci simili a Cerezyme. Genzyme che fino ad allora aveva lavorato
in regime di monopolio per la malattia di ­Gaucher, aveva i suoi primi competitor. Nel
febbraio del 2010, Shire aveva ricevuto ­l’approvazione per velaglucerase alfa, già dispo-
nibile nel mercato con il marchio Vpriv, seguita da Pfizer, che aveva acquisito i diritti del
taliglucerase alfa da Protalix, l’azienda israeliana che lo aveva sviluppato.
Le difficoltà di produzione avevano penalizzato il valore dell’azione Genzyme, che
da un massimo di 83,3 dollari raggiunti nel 2008, prima che scoppiasse la crisi, era
sceso del 43%. L’offerta di Sanofi, nel mese di agosto del 2010, l’aveva poi spinto rapi-
damente a risalire. Sanofi Aventis, fra le più grandi case farmaceutiche, nel 2010 aveva
raggiunto i 30,4 miliardi di euro di fatturato. Come tutte le Big Pharma, però, doveva
confrontarsi con brevetti in scadenza e nuovi farmaci difficili da perfezionare. Nel luglio
del 2010, l’FDA aveva approvato la versione generica di enoxaparina, un farmaco antico-
agulante che aveva generato vendite annue pari a 2,8 miliardi di dollari per Sanofi Aven-
tis che lo commercializzava con il marchio Clexane (negli Stati Uniti, Lovenox). Nell’ultimo
trimestre del 2010, proprio a causa della concorrenza dei generici sul mercato ameri-
cano, in termini di vendite, il farmaco aveva perso il 27% rispetto all’anno precedente.
Nel maggio del 2012, invece, negli Stati Uniti sarebbe scaduto il brevetto di Plavix (clopi-
dogrel), un farmaco che Sanofi commercializzava insieme a Bristol-Myers Squibb e che
nel 2010 aveva generato vendite per 6,9 miliardi di euro, di cui oltre la metà negli Stati
Uniti. In alcuni Paesi europei, Plavix era già stato messo in concorrenza con i farmaci
generici. Ecco perché Sanofi era alla ricerca di biotech per estendere la propria gamma
di prodotti e, soprattutto, per acquisire le competenze adatte a sviluppare nuovi farmaci
biologici. La sfida ora era imparare a conoscersi e a integrarsi.

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