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Mazzini, che abbiamo già indicato.

Su questo Mazzini grava, inoltre, in misura


ancora maggiore che sul primo, quel-la ispirazione religiosa, e addirittura
confessionale, che spinse il Salvemini a definire, non a torto, la dottrina politica
mazziniana come un sistema di «teocrazia popolare »>.E, infine, ha fatto ostacolo alla
esatta comprensione e valutazione di questo Mazzini il confronto malamente
instaurato col Marx e con il socialismo di derivazione marxiana. Al Mazzini è stata
imputata, pur di recente, e non senza fondamento, una profonda insensibilità verso il
mondo della storia: << la posizione fondamentale del Mazzini difronte al mondo
della storia rimane...», ha scritto il Sestan, «la posizione del profeta animato da una
fede ardente, incrollabile nel futuro, ma da un tiepido interesse per il passato, o del
passato solo in quanto proteso a preparare e spiegare l'avvenire ». Crediamo, tuttavia,
che non sia stato messo ancora nel debito rilievo l'esatta percezione che il Mazzini
ebbe della congiuntura storica in cui visse ed operò. «Tre grandi fatti contrassegnano
l'Epoca nuova che sta per sorgere. Il primo, visibile più o meno in ogni terra
d'Europa, è il moto di emancipazione intellettuale ed economica che va svolgendosi
nelle classi Operaie, e trasformerà a poco a poco le condizioni imposte oggi al lavoro,
il riparto della produzione e le basi della proprietà. È il più importante dei tre fatti... Il
secondo è ‘il moto, contrastato invano dalle monarchie, che tende a rifare la Carta
d'Europa e sostituisce alle vecchie teoriche di ponderazione, d'equilibrio, di diritti
dinastici sancite nei trattati di Vestfalia, di Münster, di Utrecht e d'Amiens, il diritto
popolare delle Nazionalità. Conseguenza inevitabile di quel moto è un mutamento
radicale nei princìpi che governano le relazioni internazionali e nei caratteri delle
Alleanze (e) prominente fra tutti, per importanza numerica e geografico-politica, è il
ridestarsi a coscienza di vita dell'elemento slavo... Il terzo fatto è la manifesta
tendenza della civiltà Europea a conquistare le vaste regioni Orientali». Non è facile
trovare nei contemporanei di Mazzini una tale completezza e organicità di visione
storica. Certo appaiono qui convinzioni che in lui maturarono con gli anni. Le parole
che abbiamo citato sono del 1866: avesse scritto trentacinque o trent'anni prima, il
movimento operaio non sarebbe stato giudicato come il più importante dei tre
fenomeni indicati; il moto delle nazionalità avrebbe primeggiato su di esso; e con
tutta probabilità al terzo fenomeno, l'espansione mondiale della civiltà europea, non
sarebbe stato fatto alcun riferimento. E tuttavia non si può negare che, fin dagli inizi
della sua attività, la fede del Mazzini fu soprattutto fede nella ineluttabilità storica del
compito al quale egli si sentiva chiamato; fede religiosa, quindi, ma non semplice
profetismo, fondata come fu quella fede - su d'una vasta esperienza internazionale e
sulla instancabile partecipazione al dibattito politico e ideologico dell'epoca. Del
resto, la consapevolezza storica del pensiero e dell'azione mazziniana non riposa
soltanto sulla comprensione dei fattori politici e sociali agenti sulla scena europea del
tempo. Essa affonda, al di là di questa stessa comprensione, nella esigenza
profondamente sentita di una fede nuova, di un nuovo pensiero religioso. «Il mondo
ha sete in oggi, checché per altri si dica, di autorità. Le agitazioni,le insurrezioni sono
dirette non già contro l'idea, ma contro la parodia del potere, contro un fantasma
d'autorità,contro forme incadaverite dalle quali non può uscire oggi - mai
eccitamento, fecondazione alla vita »>. Da questo punto di vista, anche alla storia
etico-religiosa, come a quella politica, del secolo scorso Mazzini appartiene non solo
di pieno diritto, ma ancora con piena consapevolezza. Inquadrate in questo complesso
contesto di riferimenti storici,le sue dottrine acquistano certo maggiore rilievo.Le
prime radici del pensiero democratico mazziniano nascono dalla polemica contro la
rivoluzione francese dell''89 e contro la dottrina dei diritti e della sovranità
dell'individuo, che il Mazzini vede a quella strettamente connessa. << Il passato ci è
fatale. La Rivoluzione francese, io lo affermo convinto, ci schiaccia. Essa preme,
quasi incubo, il nostro core e gli contende di battere. Abbagliati dallo splendore delle
sue lotte gigantesche, affascinati dal suo guardo di vittoria, noi duriamo anch'oggi
prostrati davanti ad essa. Uomini e cose, aspettiamo tutto dai suoi programmi »>.
Naturalmente, il fine della polemica mazziniana è tutt'altro che controrivoluzionario.
Esso sta, invece, in uno sforzo di superamento di arricchimento delle conquiste
rivoluzionarie. Senza nulla togliere alla grandezza e all'importanza storica di essa,
Mazzini propugna decisamente il distacco della nuova democrazia dalla vecchia
tradizione rivoluzionaria. D'accordo forse senza saperlo - con lo Hegel, egli vide i
fatti dell' '89 come epilogo della storia precedente anziché come prologo della storia
posteriore; e d'accordo questo certo senza saperlo con la più recente storiografia, intuì
ed esaltò l'animus religioso della grande stagione illuministica e rivoluzionaria. << Il
XVIII secolo, troppo generalmente guardato come secolo di scetticismo e di
negazione, devoto soltanto a un'opera critica, ebbe la propria fede, la propria
missione e concetti pratici atti a compirla. La sua fu fede titanica, senza limiti, nella
potenza, nella libertà umana. Definire, mi si conceda l'espressione, l'attivo della
prima epoca del mondo Europeo: compendiare, ridurre a formola concreta, ciò che i
diciotto secoli del Cristianesimo avevano esaminato, svolto e conquistato: costituire
l'individuo com'era chiamato ad essere, libero, attivo, sacro, inviolabile: fu quella la
sua missione. E la compì colla Rivoluzione francese, traduzione politica della
rivoluzione protestante, manifestazione altamente religiosa, comunque pensino gli
scrittori superficiali ai quali i traviamenti di alcuni individui, attori secondari nel
dramma, somministrarono norme di giudizio su tutto il periodo. Lo stromento
adoperato da esso per operare la rivoluzione e raggiungere il fine della sua missione
fu il diritto. In una teoria del diritto fu la sua forza, il suo mandato, la legittimità dei
suoi atti: in una Dichiarazione dei Diritti la sua formola suprema. Che altro infatti è
l'uomo, l'individuo, se non il diritto? Non rappresenta egli, nella serie dei termini del
progresso, la persona umana e l'elemento dell'emancipazione individuale?». Ma
questo è ormai un passato, o meglio, un patrimonio definitivamente acquisito alla
storia e alla civiltà. Il compiti nuovi e diversi. «L'opera del secolo XVIII è compita. I
padri nostri riposano tranquilli e alteri nelle loro tombe. Essi dormono, come guerrieri
dopo la battaglia, ravvolti nella bandiera: non temete di offenderli... Inoltriamo, in
nome di Dio... Oggi dobbiamo fondare la politica del XIX secolo (e) iniziare l'Epoca
nuova. Dalla sua iniziazione dipende il compimento materiale dell'antica >>.
Presente, Dunque, una nuova epoca della storia da inaugurare; e cioè, per Mazzini,
una nuova fede da fondare, una nuova idea da far risplendere ai cuoni e alle menti
degli uomini. A far ciò la teorica settecentesca dei diritti non è più sufficiente. La
crítica del Mazzini al giusnaturalismo rivoluzionario è profonda e per molti versi non
priva di spregiudicatezza. Essa insiste tanto sull'insufficienza del principio
giusnaturalistico quale elemento ordinatore della società e promotore del progresso,
quanto sulla sua incapacità a dominare le motivazioni dell'individualismo egoista. «Il
diritto è fede dell'individuo (e) non può che ordinare la resistenza, distruggere, non
fondare. (Esso) non scende che da una volontà. Nulla, quindi, impedisce la lotta
contro il diritto: ogni individuo offeso può ribellarglisi contro; e tra i due contendenti
solo giudice supremo è la forza. Fu questa, infatti, la risposta che le società fondate
sul diritto diedero sovente agli oppositori... Inoltre, la dottrina dei diritti non
racchiude in sé la necessità del progresso; lo ammette come semplice fatto.
L'esercizio dei diritti essendo necessariamente facoltativo, il progresso rimane
abbandonato all'arbitrio di una libertà senza norma e fine. E il diritto uccide il
sacrificio e cancella dal mondo il martirio: in ogni teoria di diritti individuali gli
interessi soli siedono dominatori, e il martirio diventa assurdo: quali interessi possono
vivere oltre la tomba? Pur nondimeno, il martirio è sovente il battesimo di un mondo,
la iniziazione del progresso»>. Sono queste deficienze di principio a dar conto di
quelle, ancor più gravi, che agli occhi di Mazzini presentano in concreto gli
orientamenti politici delle scuole che al giusnaturalismo in vario modo risalgono. <<
L'ordinamento politico che essi invocano e onorano del nome sociale è una serie di
difese innalzate a leggi mallevadrici della libertà per ciascuno di seguire il proprio
fine, i propri interessi, le proprie tendenze: la loro definizione della Legge non
oltrepassa l'espressione della volontà generale: la loro formola d'associazione è la
Società dei Diritti; la loro credenza non esce dai limiti segnati, quasi mezzo secolo
addietro, da un uomo che incarnava in sé la battaglia, in una Dichiarazione dei Diritti;
le loro teoriche del Potere sono teoriche di diffidenza: il loro problema organico,
vecchio avanzo di costituzionalismo intonacato, si riduce a trovare un punto intorno
al quale oscillino perpetuamente, in una lotta senza risultati, l'individuo e
l'associazione, la libertà e la legge comune: il loro popolo sovente una casta, la più
numerosa per vero dire e la più utile, in aperta ribellione contro altre caste, per godere
alla sua volta i diritti compartiti a tutti da Dio »>.Siamo di fronte ad un distacco pieno
e consapevole dai principi del liberalismo puro, maturato attraverso spunti critici
pregni qua e là, se non nel loro insieme, di viva modernità. A questo distacco
risalgono molte delle posizioni assunte da Mazzini nel corso della sua attività
politica: dall'avversione ben presto professata per gli uomini che in Francia avevano
fatto la rivoluzione di luglio all'opposizione sempre mantenuta nei riguardi dei
liberali italiani. Il fine di questa polemica mazziniana lo abbiamo già detto è tutt'altro
che controrivoluzionario. È vero, tuttavia, che nella critica all' '89 e ai suoi princìpi il
Mazzini fu vicino al pensiero dei romantici reazionari del suo tempo, e soprattutto a
Giuseppe de Maistre, suddito sabaudo al pari di lui? L'accostamento riesce
spontaneo. Esso è stato fatto in particolare da Adolfo Omodeo; ed è rafforzato
ulteriormente dagli accesi colori mistico-religiosi coi quali il Mazzini presenta la
nuova epoca della civiltà da iniziare sulle rovine di quella che l''89 appunto ha
concluso. Non più il diritto a fondamento del consorzio civile, ma il dovere, fede
comune e collettiva, che edifica e associa, sottomettendo l'individuo al fine generale.
E il dovere sta nel collaborare all'azione che Dio svolge nell'universo, assegnando a
ciascuno popoli e individui - la propria missione. Dio oggi chiama ad abbattere « tutti
gli altari del vecchio mondo» per innalzarne due nuovi, dei quali << il dito del popolo
iniziatone scriverà sull'uno: Patria, e sull'altro: Umanità ». In tal modo l'uomo
compirà un nuovo passo verso il fine ignoto che Dio assegna alla storia.
L'associazione sarà il metodo di realizzazione, su scala nazionale ed internazionale,
della nuova epoca; e il popolo - « libero e indipendente, con ordini che pongano in
armonia le facoltà individuali e il pensiero sociale, vivente del proprio lavoro e dei
suoi frutti, concorde nel procacciare la più grande utilità possibile comune e
nondimeno nel rispetto dei diritti dell'io »; « affratellato in una sola fede, in una sola
tradizione, in un solo pensiero d'amore, e avvicinato al compimento successivo della
propria missione >> - sarà veramente il Cesare di questo nuovo impero umano e
divino di pace e di amore. La democrazia assumeva perciò, nel pensiero di Mazzini,
un significato chiaramente metapolitico. Così, egli scriveva, « poniamo Dio stesso
mallevadore del popolo e della sua sovranità. Porgiamo nel carattere stesso dell'epoca
una nuova base al suffragio universale. Innalziamo la questione politica all'altezza di
un concetto filosofico. Costituiamo un apostolato all'Umanità, rivendicando quel
diritto comune delle nazioni che dovrebbe essere il segno della nostra credenza.
Diamo consacrazione a quei moti spontanei, subiti, collettivi dei popoli che devono
iniziare e tradurre in atto la nuova sintesi. Poniamo la prima pietra di una Fede
Umanitaria >>. Senonché è stato anche osservato - c'è qualcosa che allontana il
Mazzini dai reazionari, oltre il fine, che in lui, lungi dall'essere reazionario, è volto a
costruire una nuova dottrina rivoluzionaria. Questo qualcosa è soprattutto il concetto
che l'instaurazione del nuovo regno non sarà fatta in espiazione delle colpe che la
storia trascorsa ha accumulato sulla coscienza dell'uomo, bensì, al contrario, in
obbedienza ad una legge di progresso che è dovuta alla presenza di Dio nella storia.
Nel Mazzini, cioè, abbiamo in ultima analisi una visione democratica e progressiva
invece di quella teocratica e tradizionalistica del de Maistre. II progresso è per lui la
legge fondamentale della vita e la caratterizzazione ché ne deriva a tutto l'insieme
delle dottrine mazziniane non sarà mai abbastanza sottolineata. E tuttavia queste
precisazioni non sono, a nostro parere, sufficienti. Bisogna aggiungere che il proprio
e il nuovo dell'antitesi istituita dal Mazzini tra i principi del mero diritto e quelli del
dovere - ciò che ancora oggi parla al lettore del nostro secolo attraverso quelle che il
Salvatorelli ha definito « mistiche penombre: >> del pensiero mazziniano - sta
nell'appassionata ricerca di una nuova etica sociale, di un nuovo principio che
arricchisca ed inveri in un concetto più alto le tradizioni e il patrimonio morale e
politico della democrazia. Perciò egli osserva che lo stesso termine di «democrazia »
mal risponde « all'intelletto dell'Epoca futura, che noi, repubblicani, dobbiamo
iniziare. L'espressione governo sociale sarebbe da preferirsi, come indicatrice del
pensiero di associazione che è la vita dell'Epoca Perciò egli chiama alla più stretta
unità possibile, anzi all'unità tout court del pensiero e dell'azione: «una idea, e
l'esecuzione: ecco la vita, la vera vita per noi »>. Perciò, soprattutto, i problemi
politici e sociali della sua epoca gli appaiono tutti incentrati intorno ad un'unica
suprema necessità: «la questione vitale che s'agita nel nostro secolo è una questione
di Educazione». Il fondamento dell'etica sociale è nella natura stessa dell'uomo; guai
a « trascurare il fatto principale dell'umana natura, la socialità»; sarebbe « un
impiantar l'egoismo nell'anima e ordinare per ultimo il dominio dei forti sui deboli, di
quei che possiedono mezzi su quei che ne sono privi >>: male morale e sociale.
Essere uomini significa soprattutto essere << creature ragionevoli, socievoli e capaci,
per mezzo unicamente dell'associazione, d'un progresso a cui nessuno può assegnare
limiti; e questo è quel tanto che oggi sappiamo della Legge di vita data all'Umanità
»>. La natura essendone sociale, l'uomo non può interamente realizzare la propria
umanità se non nella massima integrazione sociale. La repubblica è l'unica forma
istituzionale che Mazzini creda legittima appunto perché è la sola ad assicurare che
privilegi e divisione di poteri e di classi non rompano l'armonia e l'unità del corpo
sociale; anche a prescindere dal fatto che « la serie progressiva dei mutamenti europei
guida inevitabilmente la società allo stabilimento del principio repubblicano »>.
Nello stesso momento in cui si è staccato dalla fede settecentesca nel diritto di natura,
il Mazzini ha, dunque, maturato una concezione solidaristica della vita politica, che
ristabilisce su un piano di più alto impegno morale dei singoli e delle collettività
l'egualitarismo settecentesco, la fiducia illuministica nel progresso, lo spirito di
fratellanza del razionalismo umanitario. E solo si può recriminare che nei suoi scritti
questa sintesi originale dei vecchi motivi rivoluzionari con le nuove esigenze della
democrazia ottocentesca vada in parte dispersa per la esuberanza retorica del nostro
autore e per la particolare natura del suo linguaggio, poiché come è stato a ragione
osservato dal Salvatorelli « il linguaggio politico-morale del Mazzini mantenne
sempre qualche cosa di rudimentale, di semplicistico, rispondente all'impazienza del
suo pensiero, che moveva all'assalto delle posizioni ideali intraviste senza fermarsi a
riconoscere il terreno »>. È sul fondamento di quest'etica di solidarietà umanitaria,
venata di profonde ispirazioni cristiane, che il Mazzini tratta la questione sociale, « la
più santa e a un tempo la più pericolosa del periodo in cui viviamo », come scriveva,
un anno prima di morire, nel 1871. Ed è sul fondamento di quest'etica che egli trova
le parole più belle ed efficaci della sua diuturna polemica. È chiaro innanzitutto che,
con queste premesse, la democrazia mazziniana non può essere un fatto puramente
politico. Essa è, insieme, il regno dell'ordine politico e della giustizia sociale: « lungi
dal tendere, come molti cre- dono o fingono di credere, al disordine o all'anarchia, la
democrazia, come il mondo, di ch'essa in quest'epoca nostra è spirito e moto, tende a
unità. Bensì vive ammaestrata dall'esperienza, e sa che nessuna unità è lungamente
possibile dove siede a governo l'ineguaglianza, dove il desiderio di dominio da un
lato e la diffidenza e l'odio dal- l'altro vietano ogni comunanza di idee e rompono,
prefiggendosi interessi, in classi distinte l'umanità »>. E fissando i compiti della
rappresentanza nazionale, il Mazzini precisa innanzitutto che, « conservatrice gelosa
della eguaglianza politica, essa deve dirigere le istituzioni successivamente create al
progresso dell'Eguaglianza sociale »>. Ma che significa « eguaglianza sociale »? e
quale principio può consentire di realizzarla? La posizione del Mazzini su questi
problemi è caratterizzata da alcuni elementi fondamentali: ripulsa di principio del
collettivismo, ripulsa della lotta di classe come canone di interpretazione storica e
politica e come criterio di azione; e quindi affermazione di principio dei metodi
gradualistici e riformistici. Egli vede chiaramente il nesso tra i problemi del
miglioramento sociale e quelli del potere: « la questione politica, cioè a dire,
l'organizzazione del potere in un senso favorevole al progresso intellettuale ed
economico del popolo, e tale che renda impossibile l'antagonismo alla causa del
progresso, è una condizione necessaria alla rivoluzione sociale ». Ma la lotta di classe
gli appare contro-producente sia sul piano degli sforzi per raggiungere l'indipendenza
e l'unità nazionale (sua prima e massima cura) sia sul piano dei valori morali ai quali
(nuova fede di un'epoca nuova) solo un'educazione superiore può avviare. Con gli
anni sarà su questo secondo piano che il Mazzini diventerà antisocialista con maggior
pervicacia. Parallelamente al suo interesse per le questioni e le lotte sociali cresce,
cioè, la sua convinzione sulla loro natura squisitamente etica ed educativa. La nuova
fede nei principi del dovere e del progresso non conosce distinzioni sociali, né verso
l'alto né verso il basso della società. E perciò più di una volta egli farà appello alle
stesse classi medie, affinché intendano l'ora e i suoi problemi e vadano incontro agli
uomini del lavoro con le opportune concessioni economiche e sociali. Ancor più netta
e recisa è poi l'opposizione al collettivismo e al comunismo nel senso stretto della
parola. Quanto più è radicale la sua critica all'ordinamento della società capitalistica,
tanto più è ferma la sua rivendicazione del diritto dell'uomo, di ogni uomo, alla
proprietà. Oggi, egli osserva, la proprietà è mal costituita: «perché l'origine del
riparto attuale sta generalmente nella conquista, nella violenza colla quale, in tempi
lontani da noi, certi popoli e certe classi invadenti s'impossessarono della terra e dei
frutti di un lavoro non compito da essi..., perché le basi del riparto dei frutti di un
lavoro compito dal proprietario e dall'operaio non sono fondate sopra una giusta
eguaglianza proporzionata al lavoro stesso..., perché, conferendo a chi l'ha diritti
politici e legislativi che mancano all'operaio, tende ad essere monopolio di pochi e
inaccessibile ai più..., perché il sistema delle tasse... tende a mantenere un privilegio
di ricchezza nel proprietario, aggravando le classi povere e togliendo loro ogni
possibilità di risparmio ». Ma da ciò all'abolizione della proprietà ce ne corre. « Il
principio, l'origine della Proprietà sta nella natura umana e rappresenta le necessità
della vita materia- le dell'individuo ch'egli ha il dovere di mantenere. Come, per
mezzo della religione, della scienza, della libertà, l'individuo è chiamato a
trasformare, a migliorare, a padroneggiare il mondo morale ed intellettuale, egli è
pure chiamato a trasformare, a migliorare, a padroneggiare, per mezzo del lavoro
materiale, il mondo fisico. E la proprietà è il segno, la rappresentazione del
compimento di quella missione, della quantità di lavoro col quale l'individuo ha
trasformato, sviluppato, accresciuto le forze produttrici della natura. La proprietà è
dunque eterna nel suo principio». In questo passo, fondamentale per intendere la
concezione mazziniana della proprietà, sono chiaramente riconoscibili tre distinte
affermazioni: il diritto-dovere, che spetta ad ogni uomo, di organizzare da sé la sua
vita materiale; la perfetta parificazione del lavoro manuale con quello intellettuale e
con ogni altra manifestazione della vita spirituale; il lavoro come unica fonte
legittima della proprietà. E si tratta di affermazioni che, singolarmente prese, possono
anche apparire patrimonio comune di determinate tradizioni di pensiero economico e
sociale, ma che nel loro insieme conferiscono alle teorie sociali del Mazzini il loro
particolare calore e colore. Su queste basi la critica mazziniana alle concezioni
collettivistiche e comunistiche è serrata ed appassionata, e di qui si diparte
l'indicazione di quella che si potrebbe dire la « regola aurea » del socialismo
mazziniano: « non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di pochi; bisogna aprire
la via perché i molti possano acquistarla »>. E ciò è possibile se il principio della
proprietà, che è il lavoro, viene congiunto al fatto, facendo sì che soltanto il lavoro
possa produrre proprietà. E se a ciò sono necessarie ri- forme anche profonde nella
struttura attuale della proprietà, la cosa non sorprende: «i modi coi quali la proprietà
si governa sono mutabili, destinati a subire, come tutte l'altre manifestazioni della vita
umana, la legge del Progresso. Quei che trovando la proprietà costituita in un certo
modo, dichiarano quel modo inviolabile e combattono quanti intendono a
trasformarla, negano dunque il Progresso: basta aprire due volumi di storia
appartenente a due epoche diverse, per trovarvi un cangiamento nella costituzione
della Proprietà». Nella società capitalistica la riforma della proprietà ha soprattutto un
senso: << l'unione del capitale e del lavoro nelle stesse mani », da realizzarsi
attraverso « la formazione progressiva di associazioni cooperative (fratellanze), che
acquistando col credito dello Stato capitali e terre, si sostituiscano alla proprietà
capitalistica e trasformino la società scissa in differenze di classe in una società di
produttori, dove tutti siano operai, e il lavoro sia l'unico fondamento del diritto alla
vita,e il diritto ai frutti del lavoro sia la sola proprietà legittima» (R. Mondolfo).Al
Mazzini - come ad ogni altro autore - non bisogna chiedere di più di quanto egli
possa dare. Così, non bisogna chiedergli una dottrina articolata e istituzionale delle
libertà democratiche. Fermissimo nel sostenere quale unica matrice legittima dello
stato democraticamente bene ordinato un'assemblea costituente che fissi la forma
istituzionale e gli organi e i modi di manifestarsi della volontà popolare sovrana;
altrettanto fermo nel rivendicare il valore educativo, oltre che politico, del suffragio
universale; egli è poi assai meno sicuro quando scende sul terreno degli istituti in cui
la democrazia si concreta e - come acutamente ebbe a osservare il Salvemini « la
teoria, che dà della libertà in generale e delle libertà politi- che in particolare, non è
tale da togliere ogni dubbio sui pericoli di eccessivo autoritarismo e, si oserebbe dire,
giacobinismo, a cui sarebbe esposta la repubblica unitaria mazziniana col suo popolo
deificato ». Un posto centrale occupa, ad es., nella dottrina politica mazziniana la
teorizzazione delle funzioni di guida che il genio e la virtù debbono esercitare nei
confronti delle masse popolari. Sono gli uomini geniali, gli uomini virtuosi che,
intuite le esigenze poste nella loro epoca dalla legge divina del progresso, hanno il
compito di guidare le masse verso la democrazia. Abbiamo qui la contaminazione di
due influenze egualmente vive nello spirito del Mazzini: l'influenza determinante del
Saint-Simon, con la sua rivendicazione del governo per i saggi, per i filosofi; e
l'influenza del moralismo rivoluzionario settecentesco, filtrata fino a lui attraverso i
contatti con Filippo Buonarroti, per ciò che riguarda la funzione delle minoranze
rivoluzionarie. Ed è evidente che, già da sole, ma ancor più nel momento in cui sono
connesse, queste due influenze cospirano a dare alla repubblica vagheggiata dal
Mazzini una tinta nello stesso tempo utopistica e giacobina. Allo stesso modo, non
bisogna chiedere al Mazzini una fondazione analitica e critica delle sue dottrine
sociali sul terreno dell'economia politica. L'uomo si misurò, nella polemica e nella
lotta, con tutte, praticamente, le tendenze innovatrici del suo tempo, che erano poi le
tendenze politiche e sociali agitantisi nel mondo franco-inglese, in cui egli trascorse
la parte maggiore della sua vita. Ma sempre restò sul piano dell'analisi politica e della
ricerca morale fino al punto da non avvertire o da non rendersi ben conto di quale
potente novità si andasse determinando nel mondo della produzione e del lavoro con
quella « rivoluzione industriale » che pure nell'Inghilterra dei suoi tempi era stata in
gran parte già consumata. Basti pensare che l'analisi più impegnativa della società
capitalistica e della sua fisionomia economica e produttiva che sia dato trovare nelle
pagine del Mazzini è tutta compresa in uno scorcio dei. << Doveri dell'Uomo », dove
sono rapidamente riassunte le diverse posizioni e possibilità dei capitalisti, degli
intraprenditori e degli operai, che sono le tre classi che egli vede separate e
contrapposte dal loro vario rapporto con gli strumenti della produzione. Ed è anche
da notare che in ultima istanza - se la posizione economico-sociale di lui è
chiaramente orientata contro la libera concorrenza capitalistica e contro l'oppressione
capitalistica dei lavoratori la sola alternativa che gli appare auspicabile consiste
nell'associazione volontaria dei piccoli produttori, anche se qua e là egli riconosce la
opportunità della gestione statale o collettiva di alcuni servizi; e nell'idea risuona
forse una inconsapevole reminiscenza di moduli olitici rousseauiani, da piccola
repubblica perfettamente democratica. Gli è che il Mazzini aveva dinanzi alla mente,
assai più che il proletariato dell'industrialismo moderno, il vecchio e tradizionale
artigianato delle città italiane. Sarebbe tuttavia errore imperdonabile liquidare tutto il
mazzinianesimo politico per l'incertezza delle sue dottrine costituzionali. Vive, di
esso, ed è destinato a vivere sempre più e sempre meglio, il soffio di laica religiosità
che dettò al Mazzini la dottrina dei doveri come prosecuzione ed ampliamento di
quella dei diritti. Giunti in questo se- colo alla prova delle massime tensioni politiche
e sociali, i grandi paesi dell'occidente hanno dovuto far ricorso ad un'ispirazione
analoga per giustificare ed operare il passaggio da un regime di mero liberalismo ad
una democrazia socialmente avanzata e vitale. E sarebbe errore altrettanto
imperdonabile liquidare tutto il mazzinianesimo sociale per la fragilità dei suoi
fondamenti in fatto di teoria economica. Anche qui l'evoluzione posteriore ha offerto
alle dottrine mazziniane una riconsacrazione insospettata, con l'espansione del
movimento cooperativo, con istituti come l'azionariato operaio, ma soprattutto con i
limiti che il socialismo occidentale ha sentito di doversi porre, per restare sul terreno
della libertà, in materia di collettivismo e di modalità delle riforme: che è quanto dire
di inquadramento del socialismo nella democrazia secondo uno schema tipicamente
mazziniano. « Nato più ad ispirare che a cospirare », ebbe a dire del Mazzini politico
il Tommaseo; e « nato più ad ispirare che ad ordinare » potremmo ripetere noi del
Mazzini teorico di democrazia e di giustizia sociale. Il corso delle cose ha reso anche
in ciò buon giudice il De Sanctis: << Quando si farà qualche passo nella via
dell'uguaglianza e della libertà, qualche progresso nella via dell'emancipazione
religiosa, qualche cammino nella via dell'educazione nazionale, certo voi, nella vostra
giustizia, guarderete lì in fondo, e vedrete l'uomo che aveva levato quella bandiera, lo
ricorderete con rispetto, e direte: "Ecco il precursore!". Questo è il vero carattere,
questa è la vera importanza e la vera gloria di Mazzini »>.

Il nome del Cattaneo pensatore politico è comunemente legato a quella concezione


federalistica dell'unità italiana di cui egli fu, nel periodo risorgimentale, il maggiore
sostenitore, anche se, come a ragione è stato osservato dal Bobbio, «il Cattaneo, assai
meno forte teorico di quel che fosse geniale suscitatore di idee, non dedicò al
federalismo... null'altro che pagine frammentarie e incomplete frammezzo alla mole
davvero gigantesca della sua opera di scrittore ». Ciò è sostanzialmente esatto, e cer-

care fuori dell'idea federalistica un centro di gravità del pensiero politico cattaneano
di eguale momento sarebbe impresa vana. Per di più il federalismo auspicato all'Italia
dal Cattaneo era per lui non solo un disegno politico di indiscutibile opportunità, ma
addirittura il frutto della storia e della stessa geografia italiana: «l'Italia »>, egli
scriveva ad un amico nel 1850, «è fisicamente e istoricamente federale ». Anzi, ben
lungi dal rappresentare una concezione valida solo per il suo paese, l'idea federale
assume per lui un significato assai più vasto e profondo: «è la questione del secolo; è
per la prima volta al mondo una questione di tutto il genere umano: - o l'ideale, o
l'ideale americano: aut aut ». E vedremo più oltre in quanti sensi questi concetti
vengano sviluppati. Qui è però opportuno osservare, e sottolineare l'osservazione con
particolare energia, che il pensiero politico del Cattaneo non si esaurisce nel
federalismo e che anzi questo (pur rappresentandone, come s'è detto, il principale
centro di gravità) è del pensiero politico cattaneano soltanto un punto di arrivo e, al
postutto, ha, nella visione del Cattaneo, una funzione meramente strumentale. Il
federalismo è, cioè, lo strumento politico-istituzionale che permette alle convivenze
umane più complesse di articolarsi in forme tali da ridurre gli inevitabili attriti e i
necessari contrasti tra gli uomini, le classi e i paesi ad un grado di fisiologica
tollerabilità, anzi di civile competizione, liberatrice e suscitatrice di tutte le energie
sociali e individuali, evitando così il ricorso alla forza ed all'autoritarismo quali
vincoli della convivenza con tutte le ovvie e negative conseguenze che essi
comportano. Ma a base di queste idee sul federalismo è presente nel pensiero del
Cattaneo e materiata delle stesse convinzioni che in lui derivano dai suoi numerosi e
profondi studi di storia e geografia - una precisa teorica della libertà e dello Stato; ed
è solo facendo riferimento ad essa che il federalismo cattaneano cessa di essere
un'affermazione sospesa nel vuoto ed assume il vero carattere suo di momento
culminante di un complesso pensiero storico-politico.« Le nazioni civili », osserva il
Cattaneo nelle Considerazioni sul principio della filosofia, «racchiudono in sé vari
principi, ognuno dei quali aspira a invadere tutto lo Stato, e modellarlo in esclusivo
sistema », sicché « l'istoria è l'eterno contrasto fra i diversi principi che tendono ad
assorbire e uniformare la nazione». Codesti principi non sono mere proiezioni
ideologiche, ma, al contrario, sono le formazioni concrete in cui si articola la società
nella sua triplice dimensione di sistema economico, di sistema giuridico-istituzionale
e di campo della vita culturale e morale. Analizzando, ad esempio, l'antagonismo tra
guelfi e ghibellini nell'Italia dei tempi di Dante, il, Cattaneo osserva che « tre
elementi costituivano il principio ghibellino: beni feudali, unità imperiale di tutta
l'Italia, e avversione alla Chiesa »; mentre << i tre opposti elementi formavano il
principio guelfo: beni mercantili, repubbliche municipali, e avversione all'Imperio ».
Sarebbe facile moltiplicare gli esempi; ma è forse più opportuno notare che, stabilita
la massima sopra citata, il Cattaneo dà subito ad essa due importanti corollari. In
primo luogo, la tendenza a pervadere di sé tutto lo Stato, che è comune a ciascun
principio, non si realizza mai perfettamente, perché,. «< prima che l'opera sia
compiuta, nuovi princìpi si svolgono in modo imprevisto, e dirigono verso altra parte
la corrente delli interessi e delle opinioni »>. In secondo luogo, « quanto più civile è
un popolo, tanto più nume- rosi sono i princìpi che nel suo seno racchiude ». Perciò la
storia degli uomini è una perenne agitazione. Paesi e società immobili non esistono
che nell'astrazione. <<Chi reputa immobile la China », è scritto, ad esempio, nel
saggio del Cattaneo su questo paese, « se consulterà le istorie la vedrà in agitazione
continua. La vedrà dissodare primieramente un vasto territorio, arginare fiumi, scavar
canali, diffondere lungo le mille valli dei due fiumi colonie d'agricoltori, città
innumerevoli; assorbire le tribù barbare dei monti; abbracciar tutti i suoi popoli in una
sola civiltà col vincolo d'una sola lingua; inventar leggi, arti e scrittura; e tutto ciò,
quando l'Europa stava pertinacemente selvaggia e impotente. Poi scomporsi in più
regni federati; e in quella comparativa libertà, svolgere popolari e varie filosofie; poi
rannodarsi, ora in un imperio, ora in due, il Catai e il Mangì di Marco Polo; soffrir
come l'Italia due volte la conquista dei barbari; la prima volta cacciarli; la prima e la
seconda ammansarli e

aggregarli alla sua civiltà. Intanto un assiduo lavoro mentale propagava da una parte
la filosofia socratica di Confucio, la filosofia astratta di Lao Tseu, la metafisica in
veste teologica dei Buddisti; infine in pochi anni, sotto i nostri occhi, trasse dalla
lettura della Bibbia il fomite d'una nuova rivoluzione ». Perciò, la storia degli uomini
è molto più simile da paese a paese, nei suoi motivi fondamentali, di quanto
comunemente non si creda; e le possibilità di progresso che si dischiudono per la
stirpe umana variano solo in funzione del corso degli avvenimenti, non già in
funzione di una predestinazione naturale o razziale. Allo Herder che negava ai Cinesi
il genio inventivo e progressivo e affermava già dato tutto quel che da essi si poteva
conseguire, il Cattaneo ribatteva che, « se quando Carlomagno sottomise la barbara
Sassonia alla civiltà latina, alcun Romano o Bizantino avesse sentenziato che quella
stirpe semigotica non poteva, per qualsiasi istituzione artificiale, smentir mai la sua
natura; e ch'essa aveva dato quanto poteva dare: un tale oracolo si troverebbe
smentito anche solo dal fatto dell'apparizione in Germania dello stesso Herder ». E
per le stesse ragioni è la pluralità degli elementi costitutivi a denotare il grado di
progresso di una società. Se « lo Stato può dirsi divenuto in tutte le sue parti un
sistema »>, se cioè la struttura sociale perde le sue articolazioni e la possibilità di
distenderle in libera competizione, se lo Stato diventa monistico e assoluto, « allora si
fa palese che le leggi organiche non son quelle dell'immobilità minerale, che la
varietà è la vita, e l'impassibile unità è la morte. E coloro che invocano la pace
perpetua e l'universale repubblica di tutti i regni della terra, vogliono dilatare a tutto il
globo l'oscura esistenza del Giappone; e non ve- dono in quale abisso d'inerzia e di
viltà piomberebbe tutto il genere umano, petrefatto in sistema, senza emulazioni e
senza contrasti, senza timori e senza speranze, senza istoria e senza cosa alcuna che
d'istoria fosse degna »>.Movimento e pluralità sono, dunque, le forze vivificatrici
della società umana, che è appunto tanto più umana quanto più è in essa di quei due
elementi. L'antitesi tra civiltà e barbarie è tutta qui, e con essa va congiunta la sorte
dell'individuo e dei popoli. « L'uomo isolato è una cera atta ad assumere ogni forma;
il principio determinante è la società; le condizioni della società sono le fonti del bene
e del male ». Assioma che peraltro il Cattaneo non svolge in senso deterministico o
moralistico, ma, al contrario, e in esplicita polemica col Rousseau, affermando il
valore etico e pedagogico della convivenza sociale. Per l'uomo, infatti, « quanto
maggiore è la varietà delli impulsi che la volontà può seguire, tanto più vasto è il suo
dominio e la sua libertà. Per converso, quanto più l'intelletto è povero di idee, tanto
più angusto è il campo in cui si move, la volontà si confonde coll'istinto e non può
dirsi libera... Il selvaggio, avendo un cerchio assai ristretto di idee e di sentimenti, è
in mezzo alle selve assai meno libero che non l'uomo civile, in seno alla società più
artificiosa e disciplinata. A questo non aveva pensato Rousseau, quando esaltava sulla
vita civile la selvaggia». L'Europa e l'Asia son diventate sinonimi l'una di civiltà e
l'altra di barbarie proprio perché il moto e la pluralità, presenti nella prima, sono
ridotti al minimo nella seconda. E invero, osserva il Cattaneo, « che sogliamo noi
significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano
quivi sontuose città; che non siavi agricultura e commercio, e più d'un modo di
squisita industria, e certa tradizione di antiche scienze, e amore di poesia e di musica,
e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti di armature e generosi
cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e
Romani, sentiamo in mezzo a tutto ciò un'aura di barbarie. Ed è perché in ultimo
conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto,
senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun
atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzitratto ai decreti del fatalismo. Il loro
fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa
tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di
Fidia, e gli ignavi del Basso Imperio »>. D'altra parte, il gioco dei princìpi che
agiscono nella società è di tipo tutt'altro che dialettico. Rigorosamente fedele alle
premesse positive del suo pensiero, il Cattaneo esclude in maniera categorica che «
un popolo passi alle idee nuove per la necessità d'escludere la contradizione »>; al
contrario « basta che, per uno smovimento qualunque d'equilibrio, la potenza trapassi
a quella parte i cui interessi consuonano all'idee nuove, od abbiano più a sperarne che
a temerne ». Di conseguenza, le legislazioni non fanno che risolvere in una serie di
transazioni i contrasti tra i molteplici elementi della vita sociale, << impotenti a
distruggersi, costretti a compatirsi »; e ne derivano « eterno divorzio fra la logica
assoluta e la prudenza civile, fra la moderazione e l'intolleranza »>, ed << il
progresso delle legislazioni tortuoso come il corso dei fiumi, il quale è pure una
transazione fra il moto delle acque e l'inerzia delle terre >>. Sulla base di queste
premesse il Cattaneo definisce anche la sua concezione dello Stato. Lo Stato
l'istituzione prima e maggiore che consente ai molti elementi della vita sociale di
estrinsecarsi e di giocare la propria partita. Esso si risolve, in ultima analisi, in
«un'immensa transazione, dove la possidenza e il commercio, la porzione legittima e
la disponibile, il lusso e il risparmio, l'utile e il bello, conquistano o difendono ogni
giorno con imperiose e universali esigenze quella quota di spazio che loro consente la
concorrenza delli altri sistemi»>. << E la formula suprema del buon governo e della
civiltà è quella in cui nessuna delle dimande nell'esito suo soverchia le altre, e
nessuna è del tutto negata». Gli stessi movimenti rivoluzionari, a dispetto dei
sovvertimenti ai quali danno luogo e delle agitazioni che li accompagnano, « non
sono altro più che la disputata ammissione d'un ulteriore elemento sociale, alla cui
presenza non si può far luogo senza una pressione generale, e una lunga oscillazione
di tutti i poteri condividenti, tanto più che il nuovo elemento si affaccia sempre
coll'apparato di intero sistema e di un intero mutamento di scena, e colla minaccia
d'una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i miti della sua
stabile ed effettiva potenza; poiché indarno conquista chi non ha forza di tenere.
Laonde, quando l'equilibrio sembra ristabilito, e le parti sono conciliate, e
l'acquistante assume il nuovo atteggiamento di possessore, e talora si fa lecito di
sdegnare tutti i principii che lo condussero alla vittoria, pare incredibile che, per
giungere a così parziale innovazione, tutto il consorzio civile debba aver sofferto così
dolorose angosce ». È inutile insorgere, quando non sussistono le condizioni della
rivoluzione: «se non vi è nulla di più che il popolo malcontento, la rivoluzione
diviene in pochi mesi una nuova forma di malcontento, e nulla più»; ma se le
condizioni rivoluzionarie sussistono, allora « non è la volontà dell'uomo che fa le
rivoluzioni, né la volontà dell'uomo le può reprimere », poiché esse, « quando si sono
incarnate nelle viscere della società, è forza che vengano alla luce, e s'insignoriscano
delle leggi >>. Mosso, dunque, dalla rivendicazione del valore assolutamente positivo
della società; identificate nel movimento e nella pluralità le forze che danno vita e
vigore alla società; definito lo Stato come il luogo giuridico in cui movimento e
pluralità trovano la loro realizzazione, il Cattaneo aveva posto alle sue conclusioni
federalistiche le più solide premesse. Ma prima di esporre siffatte conclusioni sarà
meglio indugiare su alcuni punti di particolare importanza nella definizione del
pensiero politico cattaneano. E innanzitutto quali sono le fonti ideologiche di questo
pensiero? È questo un punto di importanza capitale per l'intelligenza non solo della
figura del Cattaneo, ma dell'intero pensiero politico italiano del suo tempo; e,
purtroppo, non si può dire che lo stato attuale degli studi consenta di giungere in
questa materia, e particolarmente per quanto riguarda il Cattaneo, a conclusioni
pienamente soddisfacenti. Il Cattaneo stesso indicava nel Romagnosi la fonte prima
della sua formazione morale e culturale. Ma alcuni tra i maggiori studiosi
dell'argomento (tra i quali il Sestan) negano la validità di questa indicazione; vedono
in essa piuttosto il frutto naturale della consuetudine affettuosa che legò il Romagnosi
al Cattaneo come ad altri suoi allievi; e riportano la formazione del Cattaneo
soprattutto al suo assiduo lavoro di autodidatta, « al suo innato, fortissimo
temperamento di studioso »>. Altri hanno invece anche recentemente ripreso
l'indicazione tradizionale dell'influenza romagnosiana, vedendo il legame tra l'allievo
ed il maestro specialmente nella fertile attività del Romagnosi pubblicista e
collaboratore delle più accreditate riviste italiane del tempo: attività nella quale
sembra che il Romagnosi riesca a << liberarsi da molti residui settecenteschi per
aderire ad una mentalità nuova, più decisamente rivolta all'esame dei fatti, alla loro
definizione scientifica, alle considerazioni statistiche », sicché « c'è una straordinaria
affinità tra questi scritti romagnosiani ed i primi scritti cattaneani, soprattutto nel
metodo con cui le ricerche sono condotte » (L. Ambrosoli). E, infatti, una anche più
ampia ascendenza romagnosiana del pensiero del Cattaneo non si può assolutamente
negare, e impone anzi una revisione della stessa tradizionale valutazione della figura
del Romagnosi, troppo spesso e a torto ritenuto pensatore in, arretrato sul suo tempo e
strettamente legato agli schemi meccanicistici, o addirittura materialistici, del
pensiero settecentesco. Come è stato opportunamente rilevato (anche se fra molti
discutibili eccessi) da un altro studioso recente dell'argomento, il pensiero politico e
sociale del Romagnosi, << in un certo senso, si pone tra le concezioni utopistiche di
ricostruzione sociale proprie della sua epoca... e la più moderna intuizione della
ricerca di una dottrina monistica di interpretazione della storia: chiave per un nuovo
ordinamento sociale basato su Natura e Ragione » (G. Berti). È proprio su questo
tronco chiaramente post-illuministico, anche se non ancora fecondato appieno dalla
temperie culturale dell'Europa della Restaurazione, che il Cattaneo inserisce le sue
nuove esigenze, i suoi nuovi problemi e soprattutto la sua nuova cultura. La quale
sembra in ultima analisi definita dall'incontro tra la tradizione storicistica italiana di
impronta vichiana, ma recepita dal Cattaneo nella rielaborazione romagnosiana, con
la lezione della storiografia e del pensiero politico ed economico-sociale della
Restaurazione; e, d'altro canto, dal riferimento immediato e spontaneo di queste
componenti culturali ai problemi dello sviluppo economico e civile di quella che il
Cattaneo non cessò mai di considerare come la sua vera patria: ossia la regione
lombarda. Arricchita sempre più dalla meditazione sulle vicende del movimento
risorgimentale (di cui fu a un determinato momento protagonista di primo piano, se
pure involontario) e quindi dalla polemica assidua con le altre correnti di quel
movimento, maturò così nel Cattaneo una forma di cultura di marcata originalità, e
piuttosto singolare, in cui il problema principe fu quello della civiltà umana, e la
civiltà stessa venne ridotta alla combinazione di due sole forze: la volontà e
l'intelligenza. Onde il ripudio completo di ogni forma di quella metafisica che « non
cercò per quali gradi dall'indolenza dell'epicureo, che siede nell'ombra dei dotti orti
mentre la patria cade, l'uomo possa trapassare alla veemenza d'una banda di settarii
che corre a vincere o morire sui passi del profeta »>; non cercò, cioè, la scienza là
dove l'uomo può trovarla, nel mondo della storia e dei fatti che si svolgono intorno a
noi. Di fronte alla metafisica opera invece proficuamente la piena solidarietà delle
scienze naturali e delle scienze sociali, perché << l'uomo, contemplando le leggi della
natura e dell'umanità, incontra ancora quelle stesse leggi del pensiero che può
riconoscere nella sua propria coscienza; laonde la nostra filosofia, fondata sull'opera
comune di tutte le scienze, cioè sull'esperienza della natura e della società, si trova
innanzi quel medesimo oggetto di ricerca che venne additato dal savio greco in un
tempo in cui la scienza era ancora infante: nosce te ipsum; e può spiegare i pensieri, i
fatti dell'uomo individuo coi lumi che ha raccolto nello studio della Natura e della
Società ». E solo così sarà, tra l'altro, possibile « narrare per quali impulsi e con quali
procedimenti lo stesso genere umano, ch'era tuttavia nelle selve d'un emisferio, abbia
potuto in altro emisferio tessere intorno a sé l'ampia tela delle leggi, dei riti, delle
scienze, delle arti, e siasi talmente inviluppato in questa sua fattura, che non se ne
possa più sciogliere per tornare alla primiera selvatichezza >>. In questo orizzonte
esclusivamente umanistico, esplorato con metodo ed inclinazione fortement
storicizzanti, e che solo per una inevitabile necessità di collocazione storico-
cronologica è lecito definire positivistico, il Cattaneo riporta e risolve tutta la sua
problematica politica; ma non si può affatto dire che quest'ultima sia determinata o
generata dall'interesse più propriamente teoretico che spingeva il Cattaneo, piuttosto
che verso una filosofia della storia, verso una costruzione di tipo sociologico. È vero
anzi piuttosto il contrario, poiché è stato acutamente osservato dal Mondolfo - «
l'indirizzo positivista in Cattaneo appare animato da una viva coscienza politica: la
devozione alla scienza come l'affermazione delle condizioni che rendono possibile il
progresso suo e dell'umanità, son tutte concentrate intorno alle esigenze della
libertà». E da queste esigenze deriva, e in base ad esse 'va giudicato, anche il
consapevole e meditato rifiuto opposto dal Cattaneo riguardo ai temi posti all'ordine
del giorno dalle correnti socialiste del suo tempo. Non è già che a lui sfuggisse che
cosa avrebbe significato nella vita politica del mondo contemporaneo lo sviluppo
organizzato del proletariato industriale. Egli capì subito e bene che nei
sommovimenti europei del 1848 un quarto stato, « confuso nella rivoluzione del 1789
– in un comune involucro col terzo stato », aveva cominciato << a divenire un
principio determinante delle nuove istituzioni »>, grazie alle quali « il miglioramento
del destino degli operai fu posto tra i doveri della società e dello Stato». Ed anzi egli
accennò esplicitamente all'esistenza di problemi specifici del proletariato rurale e del
sottoproletariato, cui dette nome di quinto e sesto Stato, indipendenti dal proletariato
industriale. Ma a lui la contrapposizione rigida e schematica tra capitalisti e lavoratori
sembrava « più apparente che reale », o tale che, pur essendovi, non valesse a
determinare antagonismi irreconciliabili tra i due elementi della vita economica.
Tanto meno riteneva poi una « calamità se il capitale apparentemente sia separato dal
lavoro». Ad ogni modo le soluzioni socialistiche gli apparivano insoddisfacenti, <<
perché il capitale è inerte senza lavoro ed infecondo, ed ha bisogno del lavoro, come
questo di quello »>. Alla stessa formula mazziniana « capitale e lavoro nelle stesse
mani >> obiettava: «supposto che chi lavora sia pure proprietario del capitale, dovrà
nelle grosse società aver bisogno di casse comuni, di amministratori, di agenti
estranei ai manuali, e ne seguirà azienda simile a quella di corpi morali, dove cesserà
lo stimolo e l'emulazione di ogni in- dividuo che fa per sé, e sì facendo, produce
meglio per la società »>. E non poteva fare a meno di notare che << praticamente poi
parziali associazioni più strette tra capitale e lavoro ne seguono sempre per interesse
comune, e vanno naturalmente aumentando ». Insomma, possiamo convenire col Levi
che il Cattaneo « vede, studia, sviscera questioni particolari concrete. C'è un
problema industriale, c'è un problema agrario; c'è un quarto stato, un quinto, perfino
un sesto... Ci sono anzi problemi ancora più specifici, secondo la natura delle varie
industrie, delle diverse colture della terra, della differentissima educazione e civiltà
dei popoli ». E perciò « il Cattaneo non affronta in sintesi, e forse non sente, nella sua
multiforme ma radicale unità, la formidabile questione, che già incombeva
minacciosa su l'orizzonte di paesi industrialmente più progrediti di quelli ove il
Lombardo trascorreva la sua pensosa esistenza... come, se pure con mezzi incongrui e
con utopistici suggerimenti, pur tentò, nel suo idealismo rivoluzionario, lo stesso
Mazzini ». Resta solo a vedere se tra i disegni di universale palingenesi avanzati dal
Mazzini o dai pensatori socialisti e il prudente e restio empirismo progressista del
Cattaneo non si debba proprio in quest'ultimo ravvisare qualche lineamento di
maggiore modernità e spregiudicatezza. E ciò tanto più in quanto per ciò che riguarda
il pensiero italiano del primo Ottocento il Cattaneo fu l'unico ad avanzare un'analisi
concreta, anche se particolare, dei rapporti economici e sociali vigenti in Italia. I
problemi dello sviluppo agrario furono, infatti, al centro del suo pensiero economico
e, nei riguardi della Lombardia, furono da lui profondamente sviscerati. Vivendo in
un'epoca nella quale neppure nella più progredita delle regioni italiane il commercio e
l'industria hanno acquistato quella stabilità che lo sviluppo capitalistico avrebbe in
seguito assicurato ad essi, non è da meravigliarsi, per lui, se « le dovizie raccolte fra
le incertezze e le cure della vita industriosa tendono a riposarsi nella sicurezza e nella
spensieratezza della proprietà fondiaria »>; e se - come ha giustamente notato il
Cafagna - «il progresso economico riposa perciò... nella " quasi nuzial congiunzione
del capitale formatosi nei commerci con l'agricoltura >>. Ciò richiede peraltro che la
proprietà terriera sia perfetta e ben protetta dalle leggi, di piena e libera disponibilità,
pronta ad accogliere senza difficoltà il capitale fecondatore, non sminuzzata in piccoli
fondi e possessi che osterebbero alla liberazione e messa in moto di tutte le energie
produttive. Assicurate tali condizioni, appoggiandosi su « un ampio tessuto di
imprese agrarie in sviluppo, di attività commerciali, di istituzioni di risparmio, fra cui
cominciano a svolgersi, staccandosi dalla fiorente agricoltura, iniziative industriali:
un insieme che prelude al sorgere dei cento e cento centri industriali del domani »>
(L. Cafagna); la Lombardia e le altre regioni italiane che si fossero unite con essa
avrebbero potuto realizzare e perfezionare il loro inserimento nell'area della più
progredita ci viltà moderna, individuata dal Cattaneo come il vasto spazio che,
abbracciando gli Stati Uniti d'America e i maggiori paesi dell'Europa Occidentale,
forma « un mondo unico, con punte di ricchezza e di miseria, ma non appartenenti a
sfere diverse, la cui ineguaglianza crei interessi contrastanti o esperienze
incomunicabili». Il posteriore sviluppo economico dell'Italia unita non si indirizzò
per la via auspicata dal Cattaneo e fondata su una formazione decentrata al massimo
dei presupposti dello sviluppo capitalistico, e quindi di una economia moderna. Seguì
invece una strada per cui si delineò ben presto « tutto uno sconvolgimento nella
distribuzione dei capitali esistenti nel paese attraverso un rapido processo di
centralizzazione ». E non è detto che fosse proprio il Cattaneo ad avere ragione.
Ancora il Cafágna ha notato che la (come oggi si potrebbe dire) via lombarda allo
sviluppo del capitalismo auspicata dal Cattaneo « era null'altro che una forzata
proiezione su scala nazionale di una soluzione regionale irripetibile, proprio per
quella lunga storia che egli stesso aveva contribuito ad illuminare. Ed era al tempo
stesso il prolungamento nel futuro di condizioni di sviluppo economico che ormai si
avviavano a crisi »>. Ma nel pensiero del Cattaneo « la strada seguita dalla
Lombardia acquista per lui valore esempio. Sta ad indicare una via di sviluppi
regionali autonomi, non forzata, e si raccorda alla sua concezione federalista >>>.
Vale a dire che alle sue conclusioni federalistiche il Cattaneo non era guidato soltanto
dalle premesse teoriche di sopra illustrate e concernenti la natura della società umana
e dello Stato, non soltanto nel caso specifico dell'Italia dallo studio storico e
geografico del paese, ma anche (e, ben si può dire, in misura co-determinante) dalle
idee che formano il nucleo più concreto ed originale del suo pensiero economico. Il
che, mentre conferma che le concezioni federalistiche sono l'autentico centro di
gravitazione di tutto il pensiero politico del Cattaneo, dà ad intendere anche quanto,
per ciò stesso, sia profondamente unitaria, - nei motivi ispiratori, se non nelle
esplicite formulazioni -, la riflessione, in apparenza troppo dispersiva e frammentaria,
del nostro autore. C'era, del resto, una ragione assai più specifica e importante della
mera coerenza logica a determinare l'unità interiore del pensiero cattaneano. Questo
operava, infatti, - e lo abbiamo già visto, in direzione di una visione immanentistica,
storica e progressiva dei problemi dell'uomo e della società umana. Una visione del
genere - anche se il Cattaneo non volle o non poté mai dare ad essa una formulazione
sistematica- era di sua natura tendenzialmente unitaria, e a questa sua vocazione non
poteva sfuggire, quale che in concretos ne fosse il metodo di esposizione. La sua
unitarietà profonda risiede nei valori ai quali essa commisura i fatti dei quali si
interessa e i giudizi nei quali si impegna. E nel Cattaneo i valori fondamentali, anzi i
valori tout court, le uniche e sole categorie legittime del pensiero e dell'azione,
dell'attività teoretica e di quella pratica, del lavoro scientifico e della vita sociale,
sono libertà e verità. Che a loro volta non sono poi due valori, ma le due facce di un
solo valore, che è la radice della nostra umanità, la radice di quelle forze elementari
intelligenza e volontà in cui la nostra umanità par excellence consiste. La società, lo
Stato, in tanto sono istituzioni compatibili con la nostra umanità in quanto sono
fondate sulla libertà e sulla verità, e in quanto promuovono lo sviluppo di entrambe.
E perciò poteva il Cattaneo affermare che per lui « tutta, tutta la politica dei popoli si
stringe in questa unica parola »>, la libertà. Dunque, la libertà valore primario. Valori
subordinati sono la nazionalità e l'indipendenza nazionale. Anti-valori sono l'unità
indifferenziata e la tirannide esterna o interna. Contrasto meno sostanziale è quello tra
il reggimento repubblicano ed il reggimento monarchico. Ora, il punto fondamentale
essendo quello della libertà, il federalismo rappresenta l'istituzione sufficiente e
necessaria perché la libertà alligni e si conservi. Non è istituzione, anche questa, di
puro concepimento astratto o di mera deduzione teorica. È anch'essa in funzione e in
ragione della storia, della vita concreta, dell'utilità oltre che della moralità sociale. C'è
una unità minima della vita associata, ed è il comune. I comuni sono i «plessi nervei
della vita vicinale»>. Traducono in istituzione un bisogno e un moto spontaneo
dell'uomo, che ricerca la «vita vicinale » e le << convenienze »> di essa, e perciò
congrega la propria con le famiglie più prossime. Nell'ambito del vicinato maturano
diritti elementari e imprescrittibili, che sono della stessa natura dei diritti posseduti
dai singoli individui congregati. È impossibile trovare un fondamento legittimo alla
pretesa di vietare a questi ultimi « d'aver un campo, ove seppellire i loro morti; una
scuola, ove i loro figliuoli imparassero l'alfabeto senza dover fare ogni di molte
miglia di andata e ritorno; un ponte, al più prossimo guado del torrente; un magistrato
di loro elezione, che vigilasse a questa ed altre cose per bene di tutti. È ciò che io
credo doversi chiamare diritti di vicile famiglie, ed è gran ventura; poi vedono anche
il comune, ossia l'azienda unita d'un centinaio forse di famiglie, e nel più de' casi,
combinazione pressoché domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli altri
internodi e ricapiti dell'umana società; balzano d'un tratto alla nazione, ch'è quanto
dire, alla lingua. Ignorano lo Stato e le sue necessità ». Quale errore! «Ogni popolo
può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli, ma vi sono interessi
che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, egli solo li intende. E v'è inoltre in
ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche
la gelosia dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il
quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto
dell’umanità». E il diritto dei popoli, il diritto federale si realizza appunto in ciò: nel
cedere ad istituzioni politiche superiori quella so-la parte di potere che torna utile
cedere per la migliore funzionalità della vita sociale; e nel trattenere invece tutti i
poteri di cui non si possa dire altrettanto, amministrandoli nell'ambito delle
circoscrizioni che sono nate dalla storia ed hanno in essa la loro patente di
legittimitàconfini delle giurisdizioni », osserva il Cattaneo in un passo-chiave per
intendere il realismo e la complessità delle sue concezioni federalistiche, « quali li
fece la lunga serie degli eventi, rappresentano da lungi una diversità d'origini
felicemente obliterate dalla lingua comune; e rappresentano dappresso la varietà delle
legislazioni, dei costumi, dei dialetti, e l'abitudine di moversi intorno a certi nodi
naturali di commercio ». E perciò << il turbare d'improvviso e senza necessità
quest'ordine di movimenti e di funzioni, a cui tutti i calcoli delle famiglie sono
coordinati, è più grave danno che non si creda; rende amare ai popoli le primizie della
libertà; e in procinto di guerra, dissipa le loro forze e i loro pensieri » Né il
mantenimento di antichi ordini territoriali offende o mette in pericolo la nazionalità o
l'unità nazionale, che per il Cattaneo ha la sua massima manifestazione nell'unità
linguistica, anche se non si risolve tutta in essa. « Le varietà quasi familiari degli Stati
», egli nota, « nulla tolgono alla coscienza nazionale, rivelata a se stessa e ogni giorno
vie più stimolata; e se anche alcuna cosa le togliessero, converrebbe pure, rimosso
ogni ostacolo ai confini, lasciare al tempo, al commercio, alle idee e alle innovazioni
deliberate in comune, l'ufficio di cancellar tali tradizioni senza danno e senza dolore
».Né si tratta soltanto di tradizioni storiche, di antichi confini, di differenze
organizzative e giurisdizionali, di utilità divergenti. Non meno necessaria è la
pluralità dei poteri ad una vita democratica fisiologicamente sana. << La libertà è una
pianta di molte radici »: è un organismo delicato e complesso che alligna e si
conserva là dove il corpo sociale, invece di mirare a sopprimere le sue interne
differenziazioni, non solo le sollecita, ma ne garantisce in tutti i modi possibili lo
svolgimento. Ogni libertà è legata a tutte le altre; ma è soprattutto indispensabile al
fiorire della libertà la pluralità dei centri di potere. « I molteplici consigli legislativi, e
i loro consensi e dissensi, e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono
condizioni necessarie di libertà »>; e invece, « quando ingenti forze e ingenti
ricchezze e onoranze stanno raccolte in pugno di un'autorità centrale, è troppo facile
costruire o acquistare la maggioranza d'un unico parlamento. La libertà non è più che
un nome; tutto si fa come tra padroni e servi ». La polemica cattaneana tocca qui uno
dei suoi temi di maggiore interesse e di maggiore attualità, tenuto conto di ciò che la
concentrazione del potere voglia dire dal momento in cui nella società moderna lo
Stato è venuto progressivamente accrescendo le sue funzioni ed ha trovato nel
progresso tecnico e scientifico un ausilio potentissimo a siffatta concentrazione. E
peraltro il Cattaneo distingue accuratamente tra l'autonomia garantita dagli
ordinamenti federali e il mero decentramento amministrativo: solo la prima assicura
una reale molteplicità delle fonti e dei centri di potere; il secondo non significa altro
che una dislocazione dell'unico potere centrale in più sedi, senza che esso perda né la
sua unicità, né la somma della sua forza. Federalismo, dunque, in quanto protezione
dei gradi medi della vita associata e tutela delle antiche tradizioni; ma federalismo
anche, e per alcuni versi più, in quanto suddivisione del potere e tutela della
democrazia. E tale è anche la sentenza della storia, che non oppone soltanto i popoli
dell'Occidente a quelli dell'Asia, ma mostra anche «l’esempio della Francia e della
Spagna, a cui la libertà sanguinosamente conquistata sfugge eternamente di mano, per
effetto delle immani forze accumulate in mano ai governi, mentre viceversa nella
Svizzera e nell'America, ove ogni singolo popolo tenne ferma in pugno la sua
padronanza, la libertà, dopo un primo acquisto, non andò più perduta. Tale è la virtù
dei principii, fuor dei quali ogni sforzo di valore e di sacrifici è vano »>. È di grande
interesse, ed anzi necessario per intendere appieno sia la posizione storica del
Cattaneo che la natura squisitamente liberale del suo pensiero seguire le tappe
attraverso le quali la concezione federalistica cattaneana si allargò da visione del
futuro politico della regione lombarda a programma applicato in funzione della
soluzione dei problemi dell'unità e dell'indipendenza italiane. Come ha finemente
notato il Salvemini, i programmi politici del Cattaneo prima del 1848 erano «analoghi
a quelli per cui hanno lavorato invano, fino allo scoppio della guerra europea, contro
la incrollabile cecità dei nazionalisti tedeschi e magiari e della burocrazia
absburghese, i federalisti dei paesi slavi e i partiti socialisti dell'Austria-Ungheria.
Cattaneo sperava che l'Impero absburghese, sotto la pressione dei sentimenti
nazionali di tutti i suoi popoli, si trasformasse in una federazione di Stati liberi ed
eguali, uniti da semplice unione personale nella Casa regnante... In questa
federazione il Lombardo-Veneto, per la sua più elevata civiltà in confronto di tutte le
altre nazionalità confederate, avrebbe avuto una sicura preponderanza; e nulla gli
avrebbe impedito, quando lo avesse voluto, di staccarsi dalla federazione austriaca ed
associarsi alla federazione degli Stati italiani. Ma ciò doveva avvenire solamente
dopo che questi fossero entrati per la via delle libertà economiche, amministrative,
politiche, e quando, aggregandosi al loro consorzio, il Lombardo-Veneto non avesse
più incorso il pericolo di una degradazione civile». Il Cattaneo temeva, infatti,
soprattutto una unione della Lombardia al più arretrato Piemonte, che fino alla
concessione dello Statuto carloalbertino nel 1848 era altrettanto dispotico
dell'Austria, aveva un clero ed un'aristocrazia assai più influenti e retrivi che in
Lombardia, e ordinamenti amministrativi meno liberi e dominati da una burocrazia
più forte e meno moderna. Ma se si opponeva così alle correnti moderate e neoguelfe
che tendevano ad una soluzione del problema italiano sotto l'egida della Casa di
Savoia e del papato, non meno avverso era il Cattaneo al programma mazziniano di
unificazione indiscriminata e rivoluzionaria del paese. La rivoluzione, in particolare,
gli sembrava l'ultima delle soluzioni che si potessero auspicare. «La Lombardia »,
scriverà dopo, « è piccola parte d'un impero più vasto della Francia. Sommuoverla a
tumulto era esporla senz'esercito alla vendetta di generali feroci, abbandonare le città
nostre alla rapina, le famiglie nostre alla violenza dei barbari; cimentare le speranze
stesse della libertà. Chi amava la patria, doveva arretrarsi a quel pensiero e rivolgere
la mente a meno incerti e men disagiati disegni». Quando, però, nel 1847-48
l'agitazione rivoluzionaria si propagò anche nei domini dell'Austria, parve al Cattaneo
egualmente prossima la realizzazione delle sue vedute. Dalla rivoluzione l'Impero
sarebbe uscito rinnovato in tutte le sue strutture. «Ognuno abbia da ora in poi la sua
lingua, e secondo la sua lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia », scriveva
egli ancora il 17 marzo del 1848. A quest'epoca ormai avanzata del risorgimento
italiano, l'idea dell'unione nazionale di tutta la penisola in un solo Stato e l'esclusione
dell'Austria dai suoi domini cisalpini erano idee ancora lontane dallo spirito del
Cattaneo. Ed erano invece già vivi e completi, come s'è detto, il suo pensiero
federalistico, « inteso come una tecnica per l'organizzazione della democrazia su vasti
spazi e per il decentramento del potere politico, e la sua critica serrata dello Stato
uscito dalla rivoluzione francese, giudicato illiberale a causa della sua struttura
rigidamente unitaria e fortemente accentrata » (M. Albertini). Queste posizioni del
Cattaneo - che esprimevano il nucleo più profondo delle sue meditazioni storiche e
politiche erano del resto destinate a rimanere immutate nel suo spirito. A torto (ci
sembra) il periodo pre-1848 viene pertanto considerato nella biografia cattaneana un
periodo, per così dire, pre-politico: ciò può essere vero (con qualche maggiore
precisazione) per quanto riguarda l'attività politica pratica; ma per quanto riguarda il
pensiero politico e storico, tutte le posizioni cattaneane di maggiore impegno e
portata erano a quella data già conseguite. Da questo punto di vista, il periodo post-
1848 non fa che segnare una nuova articolazione del programma federalistico. Ma
questo programma, e nel quadro di esso soprattutto la difesa tenacissima e
pregiudiziale dell'individualità regionale lombarda, rimangono inalterati, e
continuano a dare al pensiero politico cattaneano i tratti peculiari della sua
fisionomia. Dopo il '48, infatti, il Cattaneo «non sperava e non desiderava più per
l'Austria una riforma federale: il Lombardo-Veneto, oramai, doveva staccarsi ad ogni
costo e del tutto dall'Impero degli Absburgo..., e non era più incredulo, come prima
delle Cinque Giornate, nei tentativi rivoluzionari. Avrebbe voluto che ciascuno degli
Stati italiani si conquistasse il proprio regime rappresentativo, come aveva fatto
oramai il Piemonte; via via che si rinnovavano, i singoli Stati dovevano confederarsi
con patto di solidarietà perpetua contro ogni pericolo esterno, e aspettare qualunque
circostanza di politica internazionale o una nuova crisi delle nazionalità in Austria per
aiutare i Lombardo-Veneti a liberarsi dal dominio straniero ed entrare anche essi
nella federazione italiana; ciascuno Stato doveva cedere alla federazione quel tanto di
sovranità locale, che fosse necessario per assicurare la solidità del nodo nazionale; ma
per le riforme interne di ciascuno Stato occorreva dar tempo al tempo: le iniziative
spontanee delle regioni più civili sarebbero state di esempio e di sprone alle regioni
ritardatarie, senza che la lentezza di queste potesse paralizzare il cammino delle più
civili» (Salvemini). Senonché ancora una volta le cose erano destinate a prendere un
cammino ben diverso da quello auspicato dal Cattaneo. Si realizzava nel 1859-61, nel
modo più impreveduto e sotto le bandiere della Casa di Savoia, il vecchio sogno
mazziniano dell'unità italiana. Per la prima volta nella loro storia, tutti gli italiani
dalle Alpi alla Sicilia obbedivano a un solo governo. Venezia e Roma, ancora fuori
dello Stato unitario, vi sarebbero entrate di lì a pochi anni. Vincitori sul punto
dell'unità, ma sconfitti per quanto riguardava la direzione del movimento, i
mazziniani focalizzavano ora la loro lotta repubblicana sul tema dell'organizzazione
del nuovo Stato. Avrebbero voluto una costituente italiana che allo Stato nazionale
unitario avesse conferito la consacrazione della volontà popolare e tolto il carattere di
conquista regia, garantendo, nello stesso tempo, un ordinamento politico di tipo
democratico e possibilmente repubblicano. Il Cattaneo si trovava ora assai più vicino
ai mazziniani di quanto non fosse fino al 1848, specialmente su due punti essenziali:
quello relativo all'unità nazionale, ossia all'unione di tutti gli italiani in un solo Stato,
e quello relativo all'ordinamento repubblicano. «Libertà è repubblica », scriveva fin
dal 1852; e già l'anno precedente aveva scritto: << la frase États Unis d'Italie equivale
per me ad una pubblica firma, essendo un punto notorio della mia fede politica »>.
Ma l'accordo coi mazziniani sulla questione nazionale e su quella istituzionale si
tramutava poi in pie- no disaccordo a proposito dell'ordinamento federale. Egli
restava fermo al suo gran punto: «il federalismo è la teorica della libertà, l'unica
possibil teorica della libertà, anche quando non è voluto da diversità di razze, di
lingua, di religione». In particolare, poi, «in un paese di popoli così diversamente
educati, è possibile dare anche a dieci Stati un solo principe o una sola presidenza o
altra qualunque rappresentanza unica in faccia all'estero; ma all'interno bisogna
rispettare le istituzioni d'ogni popolo, ed anche la sua vanità». Non credeva, quindi,
come i mazziniani, che convenisse marciare con i Savoia fino al compimento
dell'unità, salvo a far poi questione di monarchia o di repubblica: << oggi che il
Piemonte, anziché mettere innanzi (come nel '48) la ciancia del far da sé, gode
d'essere alleato e ausiliario e quasi accessorio all'impero francese, credete voi da
senno ch'ei vorrebbe o ch'ei potrebbe lasciar che l'intero popolo d'Italia statuisse
legalmente e liberamente le sorti della nazione e le sue, la repubblica o la monarchia
»? Perciò affermava che, «quando i mazziniani fanno evviva all'unità bisogna
rispondere facendo evviva alli Stati Uniti d'Italia. In questa formola, la sola che sia
compatibile colla libertà e coll'Italia, vi è la teoria e vi è la pratica», ossia la perfetta
rispondenza ai princìpi ideali di libertà e alle esigenze di utilità e di opportunità
valide per ogni corpo sociale. Il Cattaneo combatté quindi quasi solo, sulla sponda
repubblicana, l'ultima sua battaglia: quella volta a far sì che i vecchi Stati italiani
entrassero nel vincolo unitario conservando la loro antica individualità. « Il numero
delle parti », scriveva nel 1850, « non importa, purché abbiano tutte egual padronanza
e libertà... Tra la padronanza municipale e la unità nazionale non si deve frapporre
alcuna sudditanza o colleganza intermedia, alcun partaggio, alcun Sonderbund ». E
sosteneva che « quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal modo le
repubblichette, tanto più saldo e forte sarà il repubblicone, foss'egli pur vasto, non
solo quanto l'Italia, ma quanto la immensa America ». « Uomini frivoli »>,
aggiungeva qualche anno dopo, in polemica con moderati e neo- guelfi, « dimentichi
della piccolezza degli interessi che li fanno parlare, credono valga per tutta
confutazione del principio federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie
repubblichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di là d'un Oceano
l'immensa America, e al di là d'altro Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti
del Giappone »>. Prendeva ora sempre più rilievo nella sua mente una sua vecchia
idea: quella della "nazione armata ". Ancora una volta rifacendosi al modello elvetico
ed americano, e facendo nello stesso tempo tesoro dell'esperienza quarantottesca, il
Cattaneo respingeva la soluzione che gli Stati moderni avevano dato ai loro problemi
militari, ricorrendo alla istituzione di eserciti stanziali, composti di mercenari o col
sistema della coscrizione obbligatoria. L'esercito stanziale presupponeva nel governo
la diffidenza per i cittadini armati e dava ad esso la possibilità di imporre sempre, con
la forza, la propria volontà. Era anche un problema economico, perché l'esercito
stanziale << lasciava inerti, in caso di guerra, enormi riserve di forze umane e
consumava durante la pace negli stipendi degli ufficiali e nel mantenimento dei
soldati quelle risorse economiche, di cui sarebbe stato necessario far tesoro durante la
guerra» (Salvemini). Ed era, infine, anche questo, un problema di libertà civile, ossia
secondo la soluzione consueta nel Cattaneo una questione di ordinamenti federali.
«Un regime burocratico non può perpetuarsi senza che esista una casta militare
accanto alla burocrazia civile. Il gruppo, il quale arriva ad impadronirsi del governo
… ad esercitarsi nelle stesse condizioni delle masse non graduate » (Salvemini).Così
la meditazione politica cattaneana si concludeva con un'accentuazione dei suoi punti
più essenziali caratterizzanti. Né poteva essere diversamente, anche a prescindere dal
particolare carattere e dal fortissimo temperamento dell'uomo. L'isolamento che finì
col circondare il Cattaneo e di cui fu simbolica manifestazione il suo ritiro ticinese fu,
infatti, principalmente in funzione della sua complessa vicenda politica e culturale.
Nell'Italia del suo tempo la sua opera espresse l'esigenza di una posizione che
mediasse organicamente le istanze della cultura europea del periodo romantico con
quelle, fortemente permeate di illuminismo, della tradizione democratica italiana, ma
il suo fortissimo senso della storia e dei problemi storici gli vietò di trasformarsi in un
Comte italiano. D'altra parte, egli diede espressione e giustificazione sostanziate di
schietta modernità al desiderio fortemente nutrito da ceti e parti diverse d'Italia di
risolvere la questione nazionale senza pregiudizio di molti interessi particolari, di
antiche tradizioni, di nuove aspirazioni; ma proprio l'impostazione assolutamente
spregiudicata e moderna da lui data al problema gli impedì di accettare la soluzione
unitaria del risorgimento italiano e le supreme ragioni dell'opportunità storica e
politica che la avevano ispirata. Tuttavia, né quella esigenza né questa impostazione
hanno fino ad oggi perduto tutta la loro validità; ed è la ragione per cui
periodicamente gli italiani riscoprono Cattaneo. Ben più, l'alternativa da lui posta tra
l'ideale « americano >> come ideale di una democrazia pluralistica nella formazione e
nell'articolazione del potere, e in cui la libertà possa compiutamente dispiegarsi -, e
l'ideale << asiatico >> come prototipo di società in cui la libera circolazione delle
idee e degli interessi viene impedita e lo spirito conformista e mortificante di una
qualsiasi ortodossia irretisce il corpo sociale e ne provoca la degenerazione morale e,
a lungo andare, materiale; quest'alternativa in funzione della quale il Cattaneo
ragionò tutti i suoi discorsi di storia e di politica, ha finito con l'acquistare dopo di lui
un significato più pregnante di quanto egli potesse mai immaginare.

Perché Salvemini fu un maestro, nostro e di tanti altri? Non era un filosofo, e in più di
mezzo secolo di assidui sforzi intellettuali non gli accadde di dar vita a nessuna di
quelle idee fondamentali che, nei vari campi dello scibile, segnano una data,
determinano convinzioni e indirizzi di studio, promuovono scuole, animano i grandi
momenti di rinnovamento morale e intellettuale. Con il suo solito, disarmante
candore confessò, proprio nel più impegnato dei suoi scritti metodologici, quello su
Storia e scienza, di essere alieno da ogni volontà e capacità di concettualizzazione.
«Nel discutere il problema se la storia e le scienze sociali siano scienze », scriveva,
<< rinuncio ad ogni pretesa di elevarmi, sopra l'umile terreno del senso comune, alle
alte sfere della filosofia. Non che mi manchi il desiderio di salire a tali altezze;
semplicemente non ne ho la capacità. A tali altezze l'atmosfera è troppo rarefatta per i
miei polmoni e il mio cuore. Negli scritti di molti filosofi dei giorni nostri, nonostante
il massimo sforzo, io non capisco niente. Le loro opere sembrano a me fabbriche di
nebbia. Esse producono sulla mia mente l'effetto di filtri invertiti: quando comincio a
leggere, le mie idee sono chiare, ma quando ho finito esse sono diventate così torbide
che, se rivolgo a questi filosofi una domanda ed essi gentilmente acconsentono a
rispondermi, il risultato immediato della loro risposta è che io non capisco più
neppure la mia domanda. Nei loro profondi pensieri io non riesco a scoprire dove
abbiano ragione e dove torto. La colpa senza dubbio è della mia debole intelligenza;
ma non posso porvi rimedio». Naturalmente, dietro questo candore e dietro questa
ironica denuncia della propria incapacità filosofica, l'ingenuità era minore di quanto
si volesse far apparire, e una filosofia pure c'era, così come c'era una precisa scelta
metodologica e critica. Solo che la filosofia e la scelta erano orientate nella direzione
del senso comune più piano, più semplice, più (si direbbe) immediatamente
partecipabile dal maggior numero possibile di uomini. Il suo appassionato indirizzo
democratico Salvemini cominciava a tracciarlo sul piano intellettuale. Che nessuna
barriera di dottrine profonde, ma oscure e difficili, fosse eretta tra il semplice uomo
colto e la verità. Bando agli esoterismi, agli ermetismi, alle complicazioni lessicali o
concettuali. Tutti eguali di fronte alla verità. «La chiarezza è l'integrità morale della
mente »: una sua grande frase, che è insieme un insegnamento da ritenere e la
confessione del suo ideale intellettuale più proprio. Così si capisce o ci si avvia a
capire come e perché Salvemini potesse riuscire il maestro che fu e si scopre quello
che fu il centro di tutta la sua personalità e intorno a cui tutto il resto gravitò: si
scopre, cioè, quella << dirittura morale singolarissima nella nostra vita nazionale >>
(E. Garin), quell'« entusiasmo morale » (E. Sestan), quel << senso umano e morale
che regge tutta l'opera di Salvemini» (M. L. Salvadori), insomma la profonda
passione per alcune idee ed ideali elementari: la giustizia sociale e la solidarietà
civile, la ragione e il buon senso, l'onestà e il senso di responsabilità, la libertà e la
verità. Su un fondamento umano così disposto anche una non grande originalità di
concetti regolatori e generali poteva dare buon frutto nella vita morale e intellettuale,
nella lotta democratica e nell'attività storiografica, se veniva accompagnato e nel caso
di Salvemini ciò, appunto, accadde in misura pressoché totale da una vitalità
prepotente e da una coerenza interiore tanto tenace quanto limpida. È impossibile
parlare di lui e non pensare, innanzitutto, alla sua battaglia per il Mezzogiorno, e non
perché essa sia più importante o storicamente significativa della sua battaglia
democratica e antifascista o perché la sua attività di storico meriti una considerazione
minore, bensì soltanto perché nel meridionalista Salvemini più precocemente e
immediatamente si rivelò l'uomo quale sempre fu. Era un uomo del Sud, del Sud
contadino, e tale rimase sempre. Nessuno l'ha detto con parole più felici di quelle di
Ernesto Sestan: «Perfino nel tratto esteriore Salvemini risentiva della sua origine
meridionale, quasi contadinesca: in certi suoi gesti pittoreschi per sottolineare il
discorso, in quei suoi panni tagliati piuttosto alla brava, come di contadino alla
domenica; in quei suoi inverosimili cappelli a cupoletta, messi in capo, senza una
tacca, pari pari come uscivano dal cappellaio. E fuori dall'esteriore: in quella sua
cocciutaggine campagnola, insofferente di riguardi e di mezzi termini, quando una
volta si fosse persuaso della bontà di una causa, proprio all'antitesi con l'intellettuale
egotista, decadente di salotto; in quella sua diffidenza sorniona, ma sempre vigilante
verso la retorica degli incantavillani. E in anni più tardi, quando intraprese la via
dell'esilio, quando fece un estenuante giro di conferenze in America, per far
conoscere a quel pubblico di là la realtà politica e sociale italiana, ma anche... per
campare, sembra, di rivedere in lui, nel piglio serio ed estroso insieme, nell'animo
tenace e fiducioso, nella capacità inesausta di lavoro affaticante, la figura dell'eterno
emigrante meridionale, che espugna a poco a poco, per virtù sua propria, un mondo a
lui nuovo, chiuso e inizialmente ostile »>. E proprio per queste ragioni di intima
umana affinità il meridionalismo di Salvemini ebbe un timbro risentito e spontaneo
che a nessuno degli altri meridionalisti (neppure a Giustino Fortunato, così
tormentatamente fine nella consapevolezza delle ragioni del suo impegno civile) può
essere riconosciuto. La storia del suo pensiero e della sua lotta per il Mezzogiorno la
scrisse egli stesso nel 1955 riunendo, per l'editore Einaudi, i suoi Scritti sulla
questione meridionale dal 1896 al 1955: gli scritti di sessant'anni di milizia politica. È
una storia attendibile e coraggiosa, e non vale quindi la pena di ripeterla qui. Di
contro a certi recenti e meno recenti disdegni verso l'attualità del meridionalismo
salveminiano qualcosa, tuttavia, è utile a ripetersi. E, innanzitutto, a proposito del
fondamento politico nazionale che Salvemini per primo vide necessario conferire alla
battaglia meridionalistica in termini di schieramento dei partiti e delle classi. Sì, è
vero che la sua teorizzazione della comunanza di interessi fra il «contadiname»> del
Mezzogiorno e il proletariato settentrionale non ha né il rigore né la grande carica
strategica del posteriore e ben noto schema gramsciano. Ma, anche messo da parte il
fatto che Salvemini fu il primo a trasferire il discorso meridionalistico dal piano del
«buon governo» a quello dei partiti e delle classi, resta da ammettere che, con la sua
grande intuizione, Salvemini non solo mise a nudo una delle deficienze essenziali del
vecchio socialismo italiano nell'elaborare i termini della sua funzione nazionale, ma
fissò nello stesso tempo un punto destinato a rimanere fermo al di là di ogni concreta
articolazione di schieramento politico o sociale in cui lo si volesse tradurre. Dopo
Salvemini il meridionalismo ha cominciato a prendere i contorni, che non ha più
perduto, di elemento costitutivo primario di ogni impostazione dei problemi di
governo in Italia; un elemento sul quale non si può più fare a meno di fissare
l'attenzione se si vogliono cogliere e giudicare i titoli di adeguatezza e di funzionalità
di qualsiasi soluzione politica si voglia proporre al paese. E così è pure vero che il
discorso salveminiano, ponendo da un lato le masse coi loro problemi e dall'altro
l'indicazione illuministica di alcune grandi mete riformatrici, non risolve i problemi
della mediazione tra il fattore umano e politico preso a propria base e la meta
indicata, non passa cioè a delineare con eguale perspicacia e profondità di vedute lo
strumento politico e sociale che sarebbe necessario al conseguimento del fine; e
perciò Gioacchino Volpe poté scrivere con ragione che Salvemini inseguiva « il
fantasma di un partito che non fosse partito ». E, tuttavia, nel paradosso di un tale
atteggiamento era pure implicito un elemento di grande valore, perché, se in parte
esso dipendeva da una mancanza di disposizione a determinate forme di
teorizzazione, in altra parte dipendeva pure dalla ben decisa volontà di mantenere alla
soluzione del problema meridionale un carattere aperto, non dogmatico, non
totalitario, non rivoluzionario (nel significato meramente sovvertitore e oppressivo
che questo termine può avere), un carattere, insomma, di riformismo democratico,
intelligente, graduale, costruttivo. Ma, accanto a quello politico, di un altro grande
punto il meridionalismo è andato e va debitore a Salvemini: l'aver fissato, cioè, nella
piccola borghesia professionistica e impiegatizia del Mezzogiorno il punctum dolens
della costituzione non solo sociale, ma morale del Mezzogiorno. Certo, di questa
borghesia egli non era in grado di dare il quadro ben più complesso e più articolato
che se ne è potuto dare in seguito. L'analisi, che noi oggi possiamo fare, delle ragioni
storiche della decadenza del liberalismo meridionale nei primi decenni dell'unità
italiana e della genesi del nazionalfascismo avant la lettre che la borghesia
meridionale prese da allora ad alimentare, a Salvemini era preclusa. A Salvemini
quella borghesia apparve nuda nella più immediata delle sue deleterie manifestazioni,
in quanto, come egli scrisse nel 1955, « essendo troppo più numerosa di quanto la
scarsa ricchezza locale potesse sostenere, si divideva in "partiti" per la conquista del
magro bilancio comunale e dei favori amministrativi ». Ma è un fatto non abbastanza
studiato che anche oggi la contesa per il potere (e meglio si direbbe il prepotere) nei
comuni sia il campo di lotta nel quale le varie frazioni della piccola borghesia
meridionale si affrontano; che le sue lotte non sono lotte di classe, ma come scriveva
Salvemini alcuni decenni or sono << lotte interne cine tra frazioni della stessa classe
»; che neppure la diffusione del PCI e la presenza di centinaia di amministratori di
sinistra sono valse ad alterare e mutare sensibilmente quest'antica realtà storico-
sociale, perché anzi sono innumerevoli i casi in cui bandiere nuovissime coprono
fenomeni vecchissimi di rivalità familiari e locali; che secondo lo stesso schema
vanno pure interpretati i fenomeni ricorrenti e diffusi di liste multiple democristiane,
liberali e di destra che si producono nei comuni del Mezzogiorno quasi ad ogni
elezione amministrativa; che il potere amministrativo è l'unica ma sufficiente base,
nella massima parte dei casi, del potere politico sociale economico dei ceti che
riescono localmente a prevalere; che sulla base di questo potere e della garanzia o
della minaccia che ad esso si porta viene impostata e proseguita l'antica tradizione di
« ascarismo » e « trasformismo » politico della piccola borghesia meridionale; che le
lotte di corrente nei partiti e le contese per le preferenze nelle elezioni politiche sono
le occasioni attualmente più importanti di manifestare e praticare l'ascarismo e il
trasformismo; che contro lo scoglio dell'uso e dell'abuso del potere locale da parte di
questa borghesia urta, oggi come ieri, ogni azione riformatrice che dal centro si irradii
verso la periferia; che, oggi come ieri, se non si risolve il problema dell'educazione
morale e politica e della qualificazione economica e sociale di questa borghesia è
vano parlare di ammodernamento del Mezzogiorno e di sua trasformazione; che, oggi
come ieri, dalla pratica del governo locale quale è esercitato da questa borghesia
deriva nelle altre classi e in tutta la popolazione il pigro mantenimento di tutti gli
aspetti deteriori del costume meridionale. Sono tutte cose che Salvemini per i suoi
tempi aveva perfettamente capito e che egli ebbe l'ulteriore merito di non irrigidire in
nessun ferreo schema sociologico e politico. Certo, oggi il quadro sociale della
piccola borghesia meridionale non è più quello dei suoi tempi. I ceti impiegatizi e
professionistici non sono più così totalitariamente prevalenti. La presenza di ceti
economicamente debolissimi (artigiani, piccoli commercianti, agricoltori, mediatori
ecc.) e soprattutto quella della «nuova classe » dei professionisti della politica si sono
fatte fortissime. Ma la denuncia salveminiana resta una scoperta non solo
storicamente, ma politicamente importantissima, di cui Salvemini stesso percepì solo
a poco a poco la portata. Allora si convinse che il Mezzogiorno non poteva far tanto
da sé, com'egli credeva, e che un'azione rinnovatrice portata dall'esterno era
indispensabile. Non vide e non si pose mai, invece, come si è già osservato - il
problema di uno strumento politico ad hoc (partito, ente pubblico, ecc.) che risolvesse
la questione di tagliare le unghie alla piccola borghesia meridionale. Ma noi,
meridionalisti democratici e non democratici di sessanta o settant'anni dopo, che quel
problema ce lo siamo posti, abbiamo poi risolto la questione? Al meridionale
Salvemini Firenze dette l'impronta della cultura positivistica che allora (alla fine del
secolo XIX) imperava sull'Arno, e Salvemini ne fu compenetrato per la vita. La sua
concezione della storia come accertamento critico di fatti, dalla cui serie la sociologia
dovrebbe poi trarre le leggi che spiegano la vita delle società una concezione che più
positivistica non si potrebbe desiderare nacque allora e non mutò più. Ma positivismo
voleva anche dire religione dell'umanità e del progresso, fede nei grandi ideali
dell'Ottantanove, illuministica convinzione che l'intelletto umano possa vincere ogni
fanatismo, ogni passione, ogni superstizione, ogni moto elementare e impulsivo del
sentimento e della fantasia. E anche queste note positivistiche della sua educazione
fiorentina egli portò poi sempre con sé. Sulla base positivistica della sua formazione
si innestò ben presto, come nella maggior parte della migliore cultura italiana della
fine dell'Ottocento, una esperienza marxista che per Salvemini significò anche una
quasi quindicennale e operosa milizia di partito socialista. Gli studiosi del pensiero e
dell'azione di Salvemini sono, tuttavia, pressoché concordi nel giudicare che
l'influenza intellettuale del marxismo fu su di lui piuttosto approssimativa e si
concretò, più che altro, nel suggerirgli la convinzione che la lotta di classe è un
canone di grande importanza storica e politica. Esemplare è, a questo riguardo, la
vicenda della terminologia di Salvemini per indicare la realtà sociale che fu la sua
massima preoccupazione politica, ossia i contadini. Come ha acutamente notato il
Saitta, il lessico salveminiano al riguardo subisce, infatti, «profonde
trasformazioni: ... è dopo il suo ritorno in Italia che spunta, sotto la sua penna, il
termine d'ora in poi costante di " contadiname ". Non è certo il culturame" dell'on.
Scelba! Ma i successivi passaggi da proletariato contadino" (degli articoli sulla
Critica sociale) a "moltitudine immensa di contadini" (edizione 1905 del Mazzini),
poi a "moltitudini rurali" (edizione 1925 del Mazzini) ed infine a "contadiname " (dal
1949 in poi) hanno pure una loro logica interna »>. Solo che questa logica non
soltanto esprime vuole il Saitta come a ragione << la consapevolezza lessicale dei
contadini come "polvere incoerente ", cui mancava un tessuto connettivo che la
tenesse insieme "»: ossia non esprime soltanto un accentuarsi del pessimismo di
Salvemini nei riguardi delle possibilità di lotta per la riforma della società italiana.
Essa esprime anche il progressivo passaggio salveminiano ad una considerazione
classistica dei problemi sociali sempre meno stretta e stringente. Salvemini lo osservò
egli stesso, scrivendo nel 1955, che per lui « il proletariato ", cioè i contadini
meridionali, aveva nel 1912 cessato di essere l'astrazione marxista, o piuttosto
pseudomarxista del 1896-1902. Lo vedevo ora qual era: una moltitudine di giornalieri
agricoli, piccoli fittaiuoli, piccoli proprietari, operai e artigiani, pescatori »>. E la
verità è che i suoi più veri maestri egli li avrebbe scoperti, nei primi anni del nuovo
secolo, in Carlo Cattaneo e in Giuseppe Mazzini: accoppiamento che può parere
paradossale se si pensa che lo spirito positivo e riformista del Cattaneo poteva ben
accordarsi con le già consolidate tendenze del pensiero salveminiano, ma l'ardore
religioso e rivoluzionario del Mazzini avrebbe potuto contrastare con esse già solo al
primo contatto; ma, nello stesso tempo, accoppiamento naturale e, si direbbe,
predestinato, se si pensa che il contrasto tra buon senso, concretismo, problemismo,
da un lato, e tensione morale e laica religione del dovere, dall'altro lato, era
connaturato in Salvemini. Vero è, peraltro, che né attraverso Cattaneo né attraverso
Mazzini il pensiero di Salvemini attinse o riattinse più una salda cornice concettuale
unitaria, ammesso beninteso che l'avesse mai posseduta prima. Rimaneva, certo,
l'impalcatura positivistica di cui si è detto, con il suo tendenziale materialismo
evoluzionistico, con la sua esaltazione del rigore scientifico come vera norma
dell'intelletto, con i suoi grandi ideali umanitari e libertari. Ma nella vita concreta
della spiritualità salveminiana questa impalcatura era destinata a rimanere piuttosto
sullo sfondo. In primo piano venivano i «problemi », le « cose. concrete », di cui
Salvemini si fece sempre più uno scrupolo assiduo. La critica verso di lui è, da questo
punto di vista, fin troppo facile e insistere su di essa sarebbe, più che ingeneroso,
inutile. Non era ahimè! delle piccole cose concrete e dei presunti problemi « reali »>
contrapposti alle astrattezze e alle fumisterie dei << filosofi >> che lo spirito delle
generazioni coeve di Salvemini poteva contentarsi. E certo sorprende che un uomo, il
quale aveva così tenacemente meditato e profondamente capito la sostanza del
problema politico-sociale del Mezzogiorno, ne vedesse; ancora alla fine della sua
lunga vita, un principio efficace e reale di soluzione nella moltiplicazione di buoni
insegnanti nelle scuole secondarie del Sud. Ma questo « problemismo », questo «
concretismo », che non potevano allora e non potrebbero oggi tenere il luogo di
quelle prospettive generali senza di cui non può esservi alcuna grande azione etica o
politica, avevano pure una loro innegabile, opportuna e preziosa virtù educativa in
contrapposizione ai miti, così spesso addirittura disumani, della retorica
nazionalistica e totalitaria e al pigro perpetuarsi dei luoghi comuni della mentalità
tradizionale, così utile ai conservatori di ogni tempo; ed è a questa luce che bisogna
giudicarli per capirli. D'altra parte, problemismo e concretismo vivevano, come s'è
detto, in Salvemini sotto l'ala dei grandi ideali ottocenteschi: libertà dei singoli e dei
popoli, giustizia sociale, solidarietà civile; e noi non dobbiamo dimenticare che in
Salvemini trovarono il loro maestro, a tacer di tanti altri, uomini come Carlo e Nello
Rosselli. Per quanto riguarda, poi, l'attività di storico di Salvemini, bisogna dire che
essa si levò costantemente, al di sopra delle sue premesse metodologiche o
concettuali. Già in Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295, scritto nella fase
«marxistica» del suo pensiero, l'impronta ideologica si rivelava (e felicemente) nella
dissoluzione del vecchio schema che interpretava le lotte interne di Firenze alla fine
del secolo XIII con l'antagonismo tra guelfi e ghibellini e nella sostituzione di esso
con uno schema nuovo che vedeva due classi - i magnati e i popolani, appunto in lotta
fra loro per precisi e determinati interessi locali anziché per i due grandi ideali
universalistici del medioevo. L'intelligenza e la sensibilità dello storico e il suo
scrupolo e la sua perizia filologica sono, tuttavia, rivelati appieno dal fatto che, con
chiara percezione del momento da lui ricostruito, i «popolani » dei quali egli parla
sono raffigurati, come persone e come classe, ben diversamente dalla vera e propria
plebe fiorentina del tardo Duecento; sono, invece, rappresentati come ceto medio,
guidato dalla maggiore borghesia di allora, antesignana di posteriori e più importanti
conquiste borghesi. Ed è già sintomatico che un socialista, quale allora egli era e si
professava, scegliesse come suoi eroi e oggetto della sua fatica storiografica questi
borghesi, che sono popolani solo nella loro antitesi con la nobiltà magnatizia, e non
mettiamo quei più autentici proletari che furono, circa un secolo dopo, i Ciompi.
Negli anni della Prima guerra mondiale al centro degli scritti storici di Salvemini non
si trovano più tanto le lotte di classe quanto i conflitti delle nazioni europee e lo
sforzo di queste per una progressiva piena realizzazione del loro diritto
all'indipendenza e all'autogoverno: che è concetto tipicamente mazziniano. E in
seguito, nelle opere sulla Rivoluzione francese e sulla politica interna ed estera del
fascismo, troverà sempre più larga applicazione un criterio di giudizio ispirato a
quella che Salvemini riteneva la grande scoperta di Gaetano Mosca, ossia la « legge »
per cui « in tutte le società, comunque organizzate, anche in quelle che si chiamano
democrazie, il governo è nelle mani di una minoranza organizzata della
popolazione». Un'osservazione realistica di scienza della politica veniva qui incontro
al consolidato concretismo e al disancoramento ideologico salveminiano: via tutte le
astrazioni classistiche (nobiltà, borghesia, popolo) o nazionali (la Francia,
l'Inghilterra, il paese, la nazione); al loro posto gruppi e individui precisi (il re, il tale
partito, Danton, Mussolini); attribuzione specifica di azioni specifiche a determinati
gruppi e individui senza nessuna concessione a qualsiasi discorso sul « processo
storico », sul « movimento storico generale » e simili. Erano ragioni di vantaggio e di
svantaggio, a seconda dei fenomeni o degli aspetti dei fenomeni studiati. Tra le mani
di Salvemini si trasformarono più spesso in vantaggi che in svantaggi e fecero sì che,
anche dopo Magnati e popolani, egli continuasse ad occupare un gran posto nella
storiografia italiana di questo secolo, anche se non si può dire che da lui sia
direttamente discesa una specifica tradizione di

studi o di scuola. Una tradizione e scuola precisa non uscì, del resto, neppure dal
Salvemini politico. Dopo la milizia nel partito socialista, egli non appartenne
formalmente più a nessun partito. Andò alla Camera nel '19 con una lista di
combattenti, dalla quale riuscirono eletti con lui due candidati così poco
raccomandabili che egli poté poi scherzosamente parlare di un'« allegra vendetta »
presa su di lui, con la compagnia allora datagli, da quella borghesia meridionale della
quale aveva tanto sparlato. Nel '15 era stato interventista, nello stesso spirito di un
Bissolati o dell'interventismo repubblicano. Per l'interventismo e per quelle grandi,
benché confuse, aspirazioni al rinnovamento che erano proprie dell'Italia di allora e
del primo dopoguerra fu anche vicino a Mussolini e collaborò pure al Popolo d'Italia.
Nel '22, all'atto della marcia su Roma, si compiacque che fosse Mussolini a prendere
il potere e non un Giolitti o un Bonomi o un qualsiasi altro rappresentante della
vecchia Italia liberale. Naturalmente, era sempre stato e rimase sempre tutt'altro che
un fascista. Era stato e rimaneva contrario al vecchio regime liberale italiano, anche e
soprattutto nella sua versione giolittiana, perché vi vedeva una parata democratica
senza sostanza di reale e totale partecipazione delle masse popolari alla
determinazione della vita politica del paese, senza sostanza di effettivo autogoverno;
perché vi vedeva una forma di oligarchismo egoista e miope, di intransigente
classismo del privilegio, riposante sulla corruzione e, quando apparisse benché
minimamente necessario, anche sulla violenza. A questo regime egli si ribellava con
tutte le forze del suo animo in nome dei diritti e degli interessi più elementari di tutte
le classi della popolazione italiana, e di quella dei contadini meridionali in
primissimo e massimo luogo; lo respingeva perché lo giudicava e lo sentiva contrario
a tutte le esigenze di giustizia e di libertà della vita e della politica moderna; e si
allontanò dal partito socialista proprio perché gli parve che quel partito non cogliesse
l'essenziale per imposta- re una strategia diretta all'abbattimento di quel regime e
perciò stesso si trasformasse in un elemento di sostegno ad esso. E quindi, nel '22,
meglio per lui Mussolini che chiunque dei vecchi uomini consolari: questo avrebbe
almeno significato una rottura decisiva, forse fatale nella vita del vecchio regime. Dal
fascismo lo divideva, poi, veramente tutto. Basterebbe pensare che, per la
sovversione del vecchio regime, il fascismo aveva pensato subito e aveva fatto
ricorso al manganello; Salvemini aveva, invece, pensato sempre, e avrebbe
continuato a pensare sempre, al suffragio universale e all'apprendistato necessario
perché i contadini e il popolo tutto imparassero a farne uso nei propri interessi,
secondo ragione e giustizia, alla luce delle grandi idealità di indipendenza dei popoli,
di pace, di libertà. Contrario, quindi, nella sostanza, sempre al fascismo, Salvemini
non poté non passar subito alla lotta aperta contro di esso e in questa lotta, nell'esilio
e nelle conseguenze che ne scaturirono scrisse la pagina forse più bella della sua bella
vita e si acquistò tutti i titoli necessari ad essere considerato fra i grandi patrons della
libertà italiana. Rientrato in Italia, proseguì a difesa della risorta democrazia la sua
vecchia battaglia e, militando sostanzialmente, anche se senza impegni di partito,
sulle posizioni di democrazia radicale e repubblicana, fu di una intransigenza rigorosa
ed esemplare, nonostante ogni lusinga, verso la minaccia di un nuovo totalitarismo
proveniente dalla sinistra comunista. Una vita che fu, dunque, veramente una lezione
di coerenza, di coraggio, di disinteresse, di intransigenza, di fede. Come ogni altro
politico, anche il politico Salvemini commise i suoi errori. Il massimo di tutti fu
probabilmente proprio la incomprensione del carattere positivo e progressivo del
vecchio regime liberale italiano. Errore politico che a lui, come a tanti altri, fece
apparire le esigenze di superamento di quel regime più immediate ed importanti di
quelle di una sua, sia pur lenta ed incerta, maturazione e trasformazione; errore per
lui, che credeva (mazzinianamente credeva) nella virtù educatrice delle esperienze di
libertà, sia pure lungamente e travagliatamente compiute; errore politico, che divenne
anche un grave errore di giudizio storico e lo costrinse, dopo la seconda guerra
mondiale, ad una palinodia parziale, e forse, contrariamente al suo solito, non
abbastanza coraggiosa e conseguente. Così egli poté recriminare la direzione che,
senza che se ne avvedesse, erano venuti a prendere i colpi che anch'egli vibrò contro
il liberalismo italiano e che risultarono, in ultima analisi, più a danno che a vantaggio
della libertà italiana; e poté anche parlare di quel liberalismo come di una
«democrazia in cammino», pur se molto lontana dalla meta. Fu forse l'unica vistosa
prevaricazione che la passione politica poté consumare in lui sulla serenità dello
storico; e, anche a questo riguardo, bisognerà ricordare che, scrivendo tutto d'insieme
sul primo cinquantennio unitario e recensendo la Storia d'Italia del Croce, riuscì
giudice migliore. E proprio nella Storia d'Italia del Croce egli poteva leggere un
giudizio che, sceverato della innegabile punta personalistica a cui è intonato, è ancora
esatto. L'Unità di Salvemini, e così anche la precedente Voce, scrisse il Croce,
«sentivano la necessità per l'Italia di un esame storico di coscienza e di una rinsaldata
fede etica e politica; ma tra loro non c'era... la mente robusta che ciò adempiesse». E
come sarebbe potuto venir fuori quell’ «esame storico di coscienza», se al liberalismo
italiano e all'Italia liberale non si faceva la giusta parte che la realtà delle cose
esigeva? Con questo grosso impedimento pregiudiziale Salvemini poteva anche finire
con l'apparire soltanto quale, nella stessa pagina ora citata, appariva al Croce:
«nutriva nel fondo dell'anima idealità mazziniane di equità internazionale e di onestà
popolana, ed esercitava volentieri un'acre polemica moralistica, tra ingenua e
ingiusta, con una punta di utopismo»>. La sua grandezza morale e politica stette nel
riuscire a far sì che anche questi suoi limiti storici e passionali servissero alla causa
della ragione e della libertà; stette, come ha ottimamente scritto Franco Venturi,
nell'alimentare in ultima analisi una «volontà chiara e precisa di trasformare sempre
la protesta in ragione, la rivoluzione in riforma; e perfino lo sdegno in determinazione
concreta ». Che sono poi le vere ragioni per cui Salvemini rimane ancor oggi, a dieci
anni dalla sua morte, dopo di esserlo stato così a lungo nella sua vita, uno dei grandi
maestri di moralità dell'Italia di questo secolo.
La storia della «sfortuna del pensiero di Carlo Cattaneo nella cultura italiana» è
l'argomento di un saggio significativamente amaro di Norberto Bobbio, apparso nel
1970; ma è un argomento che può essere continuato senza variazioni sostanziali
anche per gli anni posteriori, malgrado la continuità di un interesse filologico e critico
e di un riferimento politico che non sono mai venuti meno e che rendono la
bibliografia cattaneana stabilmente cospicua, benché incomparabile con quella di un
Mazzini o di un Manzoni. Cattaneo è, però, anche un caso esemplare della scarsa
capacità di penetrazione in Europa di cui ha dato prova, salvo alcune, peraltro
rilevanti, eccezioni, la cultura italiana post-illuministica. E non certo, o non soltanto,
per deficiente robustezza o originalità di idee. Proprio Cattaneo è un esempio tipico
della formidabile resa di cui, in fatto di problemi della storia e della società, in fatto
di capacità di dar vita ad un discorso da « economista militante» (come suona il titolo
di un altro saggio cattaneano, anch'esso importante, questa volta del Cafagna), la
cultura italiana è suscettibile nelle sue componenti tanto umanistiche e storicistiche
quanto naturalistiche

e positive. A che cosa è, dunque, dovuta la « sfortuna >> almeno la << sfortuna»>
italiana del pensiero di Cattaneo? E come conciliarla con la ricorrente qualifica di
militante che ai varii aspetti della sua personalità (filosofo, linguista, economista)
attribuiscono studiosi di competenza pari al rigore (Bobbio, Timpanaro, Cafagna)?
Nessuno dubbio è possibile sulla sorte particolarmente negativa che il corso delle
cose riservò alla posizione federalistica ispirata e teorizzata dal Cattaneo nella
soluzione finale del moto risorgimentale e in tutti i successivi sviluppi. Da questo
punto di vista si era determinato uno iato che non si sarebbe più colmato. Lo stesso
ordinamento regionale dato allo Stato italiano con la Costituente repubblicana aveva
un significato. diverso dal federalismo cattaneano. Quest'ultimo puntava
all'aggregazione federale dei vecchi nuclei storici italiani, dei vecchi Stati preunitari
in un organismo nazionale dalla trasparente impronta elvetica o americana. Il
regionalismo attuato un secolo dopo in Italia sanciva non già il recupero di
un'aggregazione federale degli antichi Stati italiani che sarebbe stato, come è
evidente, impresa senza fondamento e senza costrutto -; bensì un decentramento di
competenze legislative e amministrative, politiche e finanziarie su una scala regionale
legata alla consuetudine di un secolo di vita unitaria, che aveva identificato le regioni
con alcuni raggruppamenti, di assai varia organicità, di province vicine. La retorica
che ravvisa nell'attuazione del regionalismo nell'Italia repubblicana l'avveramento del
«sogno» di Cattaneo non vale più di ogni altra mal fondata retorica. Ma, intanto, nel
pensiero politico di Cattaneo il federalismo era una struttura portante. Ne derivava
per intero il modello di organizzazione politica che egli riteneva congruo tanto alle
idee di libertà quanto alle esigenze della vita moderna. A questo primo iato se ne
accompagnò un secondo, di non minore rilievo. A nessuno può sfuggire il rigoroso
accento democratico che anima le pagine di Cattaneo e il respiro che ad esse ne
deriva nell'ambito del pensiero politico contemporaneo. Ma di quale tipo di
democrazia si tratta? La risposta non può essere dubbia: si tratta di una democrazia
che ha a suo campo e a suo oggetto le istituzioni, i diritti civili, l'esplicazione della
libertà in quanto principio della vita politica e amministrativa. L'egalitarismo
giacobino, la petizione socialista sempre più viva nell'Europa romantica, le
preoccupazioni che facevano trovare a un Mazzini insoddisfacente lo stesso termine
di «democrazia» e preferibile quello di «governo sociale»>, le idee di riscatto
popolare o di superamento dell'antitesi fra capitale e lavoro non rientrarono, se non
incidentalmente e in maniera non caratterizzante, nell'orizzonte del pensiero
cattaneano. La sua economia politica come la sua politica economica erano ispirate
ad un sostanziale liberismo, e, anzi, attingevano a ciò la loro indubbia e seducente
nota di vigore e di modernità. Si verificava il paradosso di un pensatore pienamente
assorbibile, per questo verso, nel panorama del pensiero liberale, e che, tuttavia, ne
fuoriusciva, in Italia, per le sue istanze istituzionali e politico-amministrative, dato
l'orientamento monarchico, unitario e centralistico a cui il liberalismo italiano si era
legato con l'unificazione del paese. Il confronto con Mazzini aveva a sua volta un
significato evidente. Ben presto «superato»> anche lui dalla affermazione di Marx e
di Bakunin, Mazzini rimaneva, tuttavia, sempre un esponente di statura e di risonanza
europee, se non altro, di quello che i marxisti finirono col denominare,
spregiativamente, « socialismo utopistico». Come tale, egli combatté e fu combattuto
fino ai suoi ultimi, e specialmente nei suoi ultimi anni di vita; e lasciò nel paese una
tradizione che doveva rivelarsi duratura, per quanto esigua e localizzata, di
organizzazione e di lotta politico-sociale. Da Cattaneo sarebbe discesa una tradizione
di influenze politico-culturali di grande rilievo, che sarebbe passata, fra l'altro, per
Ghisleri e per Salvemini, ma nulla di paragonabile al carattere veramente cospicuo,
sul piano delle fedi come su quello delle tradizioni politiche italiane, dell'eredità
mazziniana. Un terzo punto può, poi, essere ancora additato, per la storia della
fortuna di Cattaneo, in Italia, nel modello di sviluppo economico che la sua analisi e
la conseguente proposta indicavano al paese agli inizi della sua unità: un modello,
ancora una volta, indiscutibilmente moderno e pregnantes ma strettamente legato,
nello stesso tempo, all'esperienza lombarda, di una Lombardia considerata assai più
nei suoi molti, attuali o potenziali, nessi europei che in quelli in cui effettivamente lo
sviluppo della regione avrebbe avuto, e poteva avere, luogo nel quadro dell'Italia in
cui essa venne ad essere compresa con l'unità. Per Cattaneo economista «la dinamica
dominante del capitale è quella di un capitalismo di forma commerciale, la tradizione
condizionante è quella di una possidenza agraria florida di rendite differenziali
vecchie e nuove, la tentazione è quella della tecnica e dell'industria» (Cafagna). Ma
era una triplice ispirazione, che rivelava «una aderenza completa, una immersione
totale in una prospettiva regionale»> (idem). Lo sviluppo lombardo si sarebbe,
invece, prodotto come sezione di uno sviluppo nazionale, obbedendo a
condizionamenti e avvalendosi di opportunità che la linea additata dal Cattaneo non
poteva contemplare. Nello stesso tempo questa linea non poteva parlare, oltre
determinati limiti, ad una classe economica che maturava largamente in un ambito
che andava oltre i confini della Lombardia cattaneana. Essa, pur praticando, per più
aspetti e a più riprese, le vie dello sviluppo rientranti nella logica del modello
lombardo di Cattaneo, seguiva, però, la logica di un modello complessivamente assai
diverso, in cui avevano ben altro posto la politica e il controllo dello Stato e in cui,
anche nella relazione capitale-commercio-terra-manifatture, l'elemento parassitario e
privilegiato della rendita avrebbe avuto per l'espansione del sistema troppo largo
spazio rispetto a quello del profitto e dell'accumulazione. Insomma, se è vero che la
borghesia come la voleva Cattaneo in Italia non nacque mai (Bobbio), è vero pure che
Cattaneo non vide la borghesia che in Italia poteva nascere e nasceva. Tutto ciò non
può ovviamente essere interpretato come una malaugurata congiura di circostanze
avverse o un effetto della forza delle «scole braminiche» in Italia, ma implica una
valutazione del giudizio che Cattaneo si fece delle forze storiche agenti nell'Italia di
allora e del loro rapporto con le tendenze di fondo della storia contemporanea. E da
questo punto di vista non si può dire che la capacità di penetrazione specifica di
Cattaneo si rivelasse pari alla eccezionale acutezza della sua intelligenza critica e
all'ampiezza della sua preparazione. Oltre l'orizzonte lombardo la pregnanza
dell’«osservazione critica degli avvenimenti del suo tempo» (Einaudi) si stempera in
lui, per quanto riguarda l'Italia e le sue sorti, in una petizione non meno dottrinaria di
quelle che finirono con l'accentuare l'emarginazione subìta da tutta la sinistra italiana
nella conclusione del moto risorgimentale. Ciò fa ricordare, una volta di più, che egli
alla politica «non era nato, e ciò sapeva e diceva» (Idem). Ma è, dunque, questa, una
carenza di effettualità, di concretezza del giudizio storico-politico che è sufficiente a
far intendere perché non fosse in lui, nella sua proposta politico-istituzionale, nel
modello lombardo da lui così sagacemente elaborato una forza di richiamo e di
aggregazione pari a quella delle visioni idealizzanti (per voler stare alle formule) di
un Mazzini, se non a quella del realismo di un Cavour. E ciò senza contare che quel
non esser «nato alla politica >> voleva dire minore sensibilità al momento
carismatico, religioso, missionario e passionale della stessa politica in cui era tanta
parte della forza, ad esempio, di Mazzini, della sua capacità di mettere dietro di sé un
popol morto e i giovani e tante schiette energie e individualità in ogni settore della
società e in ogni parte d'Italia. E voleva dire pure ed era più grave sensibilità assai
minore (ancora una volta) di quella di Mazzini, se non addirittura, come vuole
Romeo, una «cecità»> (il che sarebbe poi troppo) «davanti al significato che la
instaurazione dello Stato nazionale ebbe per lo sviluppo in senso moderno di tutta la
società italiana >>. pure

una

Il Timpanaro ha colto assai bene, in riferimento specifico alla figura del Cattaneo
linguista ed etnografo e ai risultati degli studi di lui in questi campi, la fisionomia
complessiva che ne deriva al pensiero cattaneano nella sua effettiva e dterminata
collocazione storica. Con una «rivendicazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini,
fondata non su una mitica 'fratellanza' originaria ma sulla capacità, posseduta da tutti,
di superare le primitive dimensioni e di prender parte all'opera comune della
civiltà»>, scriveva, infatti, il Timpanaro nel 1961-62, «il Cattaneo toccava il culmine
dei suoi studi storico-etnografici e, insieme, del suo pensiero democratico. Per andare
oltre, egli avrebbe dovuto accorgersi che l'umanità del suo tempo era agitata non solo
da contrasti etnici e da lotte tra la borghesia progressista e le vecchie forze assolutiste,
teocratiche, e feudali, ma anche, all'interno del fronte del 'progresso',
dall'antagonismo sempre più forte tra il terzo e il quarto stato, e che questo
antagonismo non era risolubile con una pura azione di filantropia o di diffusione della
cultura. Ma a questo aspetto della realtà contemporanea, che fu così prontamente
avvertito non solo da socialisti delle più disparate tendenze, ma anche da tanti
conservatori e liberali di sguardo acuto, il Cattaneo rimane completamente chiuso.
L'esperienza stessa del Quarantotto, che per molti democratici e molti moderati fu, sia
pure in due sensi opposti, rivelatrice, lasciò sostanzialmente immutato il suo
liberismo economico e il suo illuminismo sociale. Di qui il suo isolamento e
l'astrattezza della sua pur così splendida polemica contro i moderati, la quale colpiva
le ambiguità della politica moderata con ineccepibile rigore logico e morale, senza
però individuarne ragioni profonde. Una astrattezza tanto più sconcertante in quanto
(come più tardi nel Salvemini dell'Unità) si accompagnava a un esasperato amore del
particolare concreto, a una straordinaria conoscenza di dati e di statistiche». Giudizio,
questo del Timpanaro, che nella linea delle cose fin qui dette merita una
sottolineatura particolare, anche se su qualche punto ha bisogno di una qualche
integrazione: ad esempio, innanzitutto, per quanto riguarda la sensibilità del Cattaneo
in fatto di problemi sociali, che non può essere definita, certamente, in termini di
«chiusura completa >>. Il pensiero del Cattaneo sull'argomento è più articolato, e
come tale va prospettato e ricostruito, per quanto indubbiamente esiguo sia il margine
di attenzione e di elaborazione da lui riservato, come si è già osservato, ai problemi
sociali del suo tempo. La opportunità di una riforma agraria (egli parla delle
«improvvide leggi di successione che profondono tanta terra a chi non ne fa uso,
contendendone la minima parcella alle scarne braccia che implorano lavoro»),
l'importanza degli scioperi nell'Inghilterra già vittoriana, la nascita delle associazioni
operaie italiane salutate come grandi speranze d'Italia, alcune osservazioni sui
problemi del salario e varii altri aspetti e momenti del suo pensiero attestano la sua
attenzione, e anche il suo impegno, in questa direzione. Non è, però, tanto la
specificazione dei contenuti quella che qualifica la posizione del Cattaneo in materia
sociale. Questa specificazione fuori dei limiti della discrezione e del conveniente
potrebbe soltanto portare acqua al mulino di una sterile polemica fra chi volesse
affermare << chiusure complete» e chi volesse, invece, rivendicare magari un vero e
proprio «socialismo» di Cattaneo. La posizione cattaneana in materia sociale va
piuttosto richiamata nei suoi termini di principio, che, partendo da una affermazione
di rigoroso liberismo, prospettano, tuttavia, il mondo storico e sociale come un
mondo in movimento e in mutamento perenni, sotto l'azione degli elementi (le classi
sono solo uno di questi elementi) che in esso sono presenti e attivi. Nell'urto o,
almeno, nel confronto inevitabile di questi elementi si determinano gli equilibri che
configurano come più democratica o meno democratica, più avanzata o più arretrata,
più giusta o meno giusta una società, un'epoca, una realtà storica. L'appiglio
democratico del pensiero di Cattaneo sta tutto nel carattere dinamico che egli postula
per l'equilibrio della società, indipendentemente dalla maggiore o minore durata di
esso. Società senza storia non esistono. Il carattere avanzato o non avanzato di una
posizione politico-sociale è definito dai contenuti che essa assume in una determinata
società e in una determinata epoca; non è definibile, nello storicismo e nel realismo di
Cattaneo, una volta per tutte in nessuna società e in nessuna epoca. La storia è sempre
una potenzialità; è sempre, appunto, la realizzazione di un equilibrio o di una serie di
equilibri determinati, che dipendono dalla molteplicità degli elementi in gioco e dal
condizionamento storico. In altri termini, il momento democratico del pensiero
sociale di Cattaneo sta tutto nella possibilità e nella fiducia che esso postula di
un'azione calcolata e realistica, è tutto nel dinamismo della sua visione storica, è
questione di programma politico e non di filosofia della storia. <<Consapevole (come
ha scritto Mario Boneschi) della forza delle istituzioni e dei residui storici, conscio
che i popoli sono fatti in gran parte del loro passato, non poteva non tenere conto
delle strutture tradizionali»>; e perciò «gli erano estranee le visioni audaci di
rovesciamento di quel sistema economico capitalistico, che vedeva sorgere tanto
vigoroso e fecondo, e che poteva generare una borghesia libera, liberalistica,
europeizzante, laica »>. Questa borghesia egli avrebbe voluto vedere anche in Italia,
ma come si è già detto non riusciva qui a coglierla nella sua effettiva connotazione
storica. L'apertura sociale del Cattaneo (il momento democratico del suo pensiero
sociale, come lo abbiamo definito) è concretamente rapportato a questa sua visione
del capitalismo e della borghesia come forze storiche agenti della trasformazione,
dello sviluppo, del progresso. Il suo programma politico può comportare un
contenimento della loro spinta entro i limiti dell'equità, dell'opportunità, della
convenienza, e può quindi comportare varii temperamenti dell'equilibrio sociale
fondato, o da fondare, su tali forze. In questo senso nessuna << chiusura»> ai
problemi sociali è in lui: vi è, anzi, il contrario. Ma, certo, non basta questo a fare di
Cattaneo un pensatore, un esponente, una espressione del movimento democratico
europeo del suo tempo in quanto movimento inteso a proporre un modello di società
nel quale il rapporto sociale dominante del tempo, quello fra capitale e lavoro,
ricevesse sistemazioni nuove e diverse, non fondate sull’equilibri «naturale»> delle
forze, né tanto meno sul riconoscimento della prevalenza capitalistico-borghese. C'è
solo da aggiungere, per questo verso, che «il capitalismo del Cattaneo è competitivo,
deve trasformare la natura con l'industria, unificare il mondo con il commercio,
distribuire a tutti il benessere, liberare la vita dai vincoli del tradizionalismo
economico e giuridico» (Boneschi). E anche così la sua si conferma, dunque, come
una «concezione pervasa dal senso della relatività delle strutture economiche, che
sono determinate dalla storia, ma condizionate dalle istituzioni politiche e giuridiche»
(Idem). Perciò «la polemica di Cattaneo contro le industrie che fioriscono all'ombra
delle dogane e che stanno a carico ed imbarazzo dello Stato' è nel solco del libero-
scambismo; ma in nessun pensatore come in Cattaneo essa si saldava ad un sistema
politico coerente di libertà politica, di unificazione dei popoli e di pacifismo >>
(idem). Ed è questa connessione di liberismo economico, di liberalismo politico, di
autonomismo nazionale e di pacifismo con la dottrina della democrazia federale e
dell'autogoverno locale a dare la cifra storica del pensiero cattaneano e la sua più
autentica collocazione. Limiti di Cattaneo? Limiti, certamente; come quelli che da
lui, «in ogni campo insigne»> dei molti di studio e di ricerca a cui attese, non ci
hanno fatto avere «<l'opera di gran lena che si suol attendere dagli uomini di genio»
(Einaudi). Ma che, pure, non tolgono nulla alla portata tuttora rilevante della lezione
di metodo e dell'indicazione ideologica scaturente dalle sue pagine e dalla sua
riflessione: il metodo di un'analisi storica e positiva delle situazioni in cui l'azione
politica deve intervenire; l'indicazione della libertà concepita come «pianta di molte
radici» e delle riforme come strategia più congeniale ad essa, perché la vita delle
società umane, anche negli urti frontali e totali dei momenti rivoluzionari, in realtà
una perenne, innumerevole, inevitabile «transazione»> tra il vecchio e il nuovo; o,
ancora, «la capacità di cogliere il germogliare e l'intreccio delle varie forze della
società civile, il senso inarrivabile della diversità e molteplicità, l'attitudine a cogliere
nelle istituzioni e nelle tecniche le radici che le congiungono alla vitalità e alla
creatività delle forze sociali» (Romeo); e così via. ha egregiamente scritto Norberto
Bobbio, il pensiero politico in alcuni dei suoi aspetti < dalle sparse osservazioni
sull'agitato sorgere delle nazioni civili e sul rapido e turbinoso mutarsi della società
del tempo ha tratto una visione generale della storia che rifiuta l'ipotesi dell'unico
principio, ed anzi vede nella varietà l'unico criterio possibile di spiegazione del
diverso destino dei popoli e la condizione del progresso. Profondamente convinto che
la varietà è naturale e l'uniformità, al contrario, artificiale, che la libertà nasce dalle
differenze e dal contrasto delle idee, mentre il dispotismo prospera sul livellamento
imposto dall'alto e sull'unificazione forzata, egli trae dalla continua riflessione sul
perenne contrasto fra popoli liberi e progressivi e popoli servi e retrogradi uno dei
motivi più profondi per sostenere il proprio programma politico federalistico, mirante
ad una società articolata, decentrata e policentrica, in continua polemica contro
l'unitarismo astratto, cioè contro l'unità senza distinzioni. Ancora una volta, visione
storica e programma politico sono strettamente connessi, e insieme spiegano e
illuminano l'assidua passione del riformatore>>. Cattaneo sintetizzandone
fondamentali

Fa parte, tuttavia, della reale dimensione storica di Cattaneo anche la molteplicità di


indicazioni operative, che l'esperienza di più di un secolo di riflessione politica
italiana è andata traendo da lui in misura piuttosto crescente nei varii settori di una
vita sociale sempre più complessa: dai problemi del territorio a quelli degli enti
locali, dalla concezione dell'agricoltura come «edificazione della terra coltivata» a
quella della città come cellula di tutto l'assetto civile, e così via. È la stessa
molteplicità che dalle pagine cattaneane fa uscire tuttora le innumerevoli suggestioni
di storiografia, di filosofia della storia, di antropologia, di glottologia, di sociologia
ecc. per cui egli è nella tradizione degli studi italiani incomparabilmente più vivo di
quanto la sua «sfortuna >> di «ideologo» non possa far pensare. E non si va certo
lontani dal vero, né si lavora di fantasia, se si afferma che questa presenza di Cattaneo
è destinata piuttosto a crescere che a diminuire. Già appare cresciuta oggi rispetto a
mezzo secolo e, ancor più, rispetto a un secolo, fa. Da questo punto di vista, la storia
postuma di Cattaneo appare singolarmente vicina a quella di un altro grande
scrutatore del mondo storico, della sua fenomenologia e delle sue «leggi»; vicina alla
storia postuma del Vico, anch'egli sempre più presente nella cultura italiana ed
europea dei tempi posteriori dopo un'eco assai limitata, e, anzi, un sostanziale
isolamento, nell'età che fu sua. Ma per quanto riguarda in particolare il Cattaneo
politico, le cose stanno poi in maniera anche più complessa. Le sue idee sulla libertà
come pianta di molte radici; sul comune come cellula della vita civile e del regime di
libertà; sulle articolazioni territoriali del potere indispensabili ad una sua gestione
veramente democratica; sul buon governo e sulla civiltà come connessioni «in cui
nessuna delle domande nell'esito suo soverchia le altre e nessuna è del tutto negata
>>; sull'intima relazione che stringe insieme federalismo e nazionalità, libertà e
sviluppo economico; sulla giustizia sociale come realizzazione sempre possibile di
equilibri più avanzati e non come palingenesi catastrofica e totale; sulla realtà del
mutamento spontaneo e di quello indotto dall'azione riformatrice e sulla
problematicità, invece, delle soluzioni rivoluzionarie e dei loro effettivi e non solo
formali ed esteriori sviluppi, sono tutte idee che configurano, in ultima analisi, una
serie di elementi teorici e critici, se non proprio un'organica ed unitaria filosofia, della
democrazia come partecipazione etico-politica, come struttura istituzionale e sociale
e come realtà pluralistica. Elementi che, pur tra mille incertezze, difficoltà,
involuzioni e reazioni, sono venuti delineandosi sempre più nella coscienza, prima
ancora che nel fatto, del mondo e del pensiero contemporaneo. E questo può
contribuire a spiegare perché la vita sotterranea e quella palese delle idee di Cattaneo
siano state così ricche di svolgimenti, di riprese, di echi, di suggestioni, di
arricchimenti, anche se, nel suo insieme, può sembrare che Cattaneo non abbia fatto
scuola né in politica né negli studi (e non è poi neppure tanto vero) e che perciò la
storia della sua «fortuna»> sia puttosto la storia di una «sfortuna». Una «sfortuna»,
comunque, che ha attinenza, tra l'altro, anche col fatto che, se il pensiero di Cattaneo
«dà per molti aspetti l'impressione di non avere ancora dispiegato interamente la sua
ricchezza, ciò dipende in buona parte dal carattere frammentario e asistematico della
sua presentazione», sicché «ricomporre i frammenti e scoprire le strutture profonde di
questo pensiero» appare come «il compito della moderna ricerca cattaneana»
(Romeo). Dopo di che non può sorprendere che studiosi quali Bobbio, Timpanaro,
Cafagna, parlando di Cattaneo, abbiano usato lo stesso, significativo aggettivo,
pregno della carica dell'attualità: filosofo militante, linguista militante, economista
militante. Ossia, portatore di una cultura che nasce dalla vita e dall'esperienza e ad
esse vuole indirizzarsi e servire, con una ispirazione che trascende ogni contingente
limitazione o frammentarietà dei giudizi, dei punti di vista e dei convincimenti
dell'uomo Cattaneo e fa certamente di lui << uno dei rari e felici momenti in cui la
nostra cultura, scendendo dal cielo delle grandi astrazioni..., tocca terra, esplora il
terreno prima di avventurarsi nella selva, si foggia gli strumenti adatti per
abbatterla»>. Che è precisamente un giudizio di Bobbio.

3.

Circostanze accidentali hanno fatto talora sì che il meridionalismo fosse l'aspetto o


meno echeggiato o dato più facilmente per scontato dell'opera e della personalità di
Salvemini.

Salvemini era una natura così poliedrica, vulcanica e, tuttavia, sempre tesa ed attenta
a raggiungere esiti ragionati e razionali dei suoi sforzi di riflessione e dei suoi
interessi, anche i più spontanei e immediati, che, da qualunque parte lo si prenda, si è
sempre sicuri di coglierne l'essenziale. Nel cuore di Salvemini, al centro del suo
mondo morale e affettivo, si vedono subito l'incontenibile passione libertaria, appena
avvolta da una esigenza elementare di giustizia assoluta; il bisogno indifeso e
scoperto di calore umano, appena mascherato da un piglio di ruvidezza campagnola;
la propensione atavica ad una completa verità e semplicità di pensiero («la chiarezza
è l'integrità morale della mente»: è una sua fase).*

E questo fa sì che Salvemini sia tutto vero e tutto intero in ogni parte della sua opera:
lo storico, il pensatore politico, il militante socialista, l'antifascista, lo studioso dei
problemi della scuola, il meridionalista, sono sempre ciascuno per sé, tutto Salvemini.
È, però, altrettanto indubbio che è impossibile parlare di lui e non pensare,
innanzitutto, alla sua battaglia per il mezzogiorno. Nel meridionalista Salvemini si
rivelò, infatti, più precocemente e immediatamente l'uomo pubblico di pensiero e di
azione quale egli sempre fu.

Tanto più è opportuno, poi, insistere sul Salvemini meridionalista in quanto, con tutta
probabilità, è questo l'aspetto della sua opera e della sua personalità verso cui si sono
avuti nel recente passato forse più frequenti e immotivati disdegni.

Eppure, si tratta di un aspetto di primario rilievo. Fu grazie ad esso che, nel breve giro
di quindici o venti anni, Salvemini portò alla storia della questione meridionale e a
tutto quanto della vita italiana si legava ad essa un contributo fondamentale per cui si
vorrebbe usare, se non fosse abusatissima, la definizione di “svolta “.

Salvemini giunse alla formulazione del nucleo originale del suo pensiero
meridionalistico quasi di colpo, con i saggi scritti sulle riviste del socialista Turati e
del repubblicano Ghisleri tra il 1898 e il 1900, quando appena si trovava fra i
venticinque e i ventisette anni. Si era stati fermi fino ad allora alla tesi del vecchio
socialismo, secondo cui il destino del Mezzogiorno si decideva dove si combatteva la
lotta socialista, ossia nell'Italia progredita e avanzata del Centro-Nord, teatro di un
grande sforzo di organizzazione politica e sindacale delle masse nel momento in cui
l'Italia passava dalla condizione di paese prevalentemente agricolo a quella di paese
ad economia mista agricolo-industriale.

Quando il socialismo avrebbe vinto, anche il Mezzogiorno avrebbe visto cambiare le


sue condizioni di inferiorità e di sottosviluppo, non dovute ad altro che alla struttura
capitalistica dell'economia e della società in Italia. «Col tramonto dell'era capitalistica
scriveva Ettore Ciccotti scompariranno i caratteri degenerativi del Mezzogiorno >>*.

A questa meccanicità e a questo attendismo reagì Salvemini, e vi reagì


(evidentemente, poiché non se ne ha alcuna traccia nei suoi scritti precedenti) sulla
base di una intuizione maturata in lui a cavaliere dei drammatici avvenimenti che
nella primavera del 1898 sconvolsero il paese e per l'ennesima volta misero in rilievo
le grandi difformità tra Nord e Sud anche dal punto di vista del modo come era
condotta la lotta politica e sociale. Nell'intuizione di Salvemini la questione
meridionale cessava di essere il problema di una singola parte del paese e diventava
un nodo centrale nella vita italiana e nei suoi equilibri politico-sociali.

La lotta che poteva riscattare il Mezzogiorno era solo quella che insieme potesse
aiutare la trasformazione generale del paese in senso democratico e progressivo.
Salvemini recuperata così, rispetto alle formulazioni di un Ciccotti e dei socialisti del
suo tempo, un valore pienamente autonomo del Mezzogiorno come protagonista della
propria storia non solo futura, ma anche presente. D'altro canto, egli trasformava
radicalmente il problema, facendo delle lotte interne al Mezzogiorno uno dei termini,
anzi il termine fondamentale intorno a cui doveva girare l'asse della lotta politico-
sociale in Italia sia per il Mezzogiorno che per tutto il paese. Dall'intuizione nasceva
anche una proposta. Lungi dal pensare, come negli anni precedenti, che l'Italia da
Firenze in giù fosse per il socialismo nazionale un enorme quartiere proibito,
Salvemini ne faceva ora il teatro di una grande manovra a tenaglia che avrebbe potuto
e dovuto schiacciare il cattivo assetto della società italiana e dello Stato unitario.

Il proletariato contadino del Sud era una delle due branche della tenaglia. L'altra
avrebbe dovuto costituirla il proletariato industriale del Nord, già organizzatosi nel
movimento socialista. Nasceva così lo schema famoso dell'alleanza fra contadini del
Sud e operai del Nord; e nasceva come schema di una lotta da condurre insieme, e nel
comune interesse, sia al Nord che al Sud sotto la guida Salvemini nelle sue prime
formulazioni è al riguardo chiarissimo del proletariato industriale del Nord. Ma già la
trasformazione generale auspicata da Salvemini come frutto dell'alleanza da lui
indicata non è più, sin da queste prime formulazioni, una trasformazione socialista
della società e dello Stato. Si trattava, infatti, di una trasformazione incentrata
sull'ordinamento federalistico dello Stato, sulla formazione di una piccola proprietà
rurale di coltivatori diretti e su una riforma elettorale avente per fine l'istituzione del
suffragio universale.

A questi tre punti si sarebbero legate poi le posizioni via via assunte da Salvemini
negli anni successivi. Essi sembrano attestare in lui già ora, fra il 1898 e il 1900, una
chiara posizione di democrazia radicale, e rafforzano quindi la tesi di coloro che di
fatto considerano esaurita adesso, e non nel 1911, l'esperienza socialista di Salvemini.
Ciò dà a Salvemini un grande posto nella formazione del pensiero democratico
nell'Italia contemporanea, senza togliergli, peraltro, quello da sempre giustamente
riconosciutogli nella storia del socialismo italiano, e sembra rispondere meglio
all'evoluzione delle sue idee e dei suoi orientamenti.

Le grandi acquisizioni di principio del meridionalismo salveminiano andarono


incontro, nell'immediato, ad un fallimento pratico pressoché completo: non se ne
impadronì e non ne nacque nessuna forza significativa di democrazia radicale e non
se ne trassero né suggestioni né sviluppi adeguati in campo socialista. La riflessione
di Salvemini parve iscriversi al margine delle grandi vicende della lotta sociale in
Italia negli anni del grande balzo industriale del paese. Fu quasi il commento di uno
spirito che aveva abbastanza forza di ingegno e trasporto operativo per inserirsi nel
dibattito fra i contendenti e in qualche modo condizionarlo e orientarlo; ma che non
aveva, d'altro canto, abbastanza legami con la realtà e con la spinta delle cose per
tirare dietro di sé la quantità di forze sociali adeguata all'acutezza delle linee che
indicava.

Ma la forza creativa della sua riflessione sul Mezzogiorno non si sarebbe conclusa
con la sua uscita dal partito socialista nel 1911. La fase creativa si sarebbe prolungata
fino all'avvento del fascismo e avrebbe portato Salvemini alla individuazione degli
aspetti naturalistici e tecnici dei problemi del Mezzogiorno, al superamento del mito
della piccola proprietà contadina e ad una definizione degli interessi generali come
dimensione etica e sociale superiore a quella delle parti in lotta e tale da imporre di
lottare non solo contro i privilegi della borghesia, ma anche contro quelli delle
categorie proletarie che si staccano dalla massa e tendono ad entrare nel sistema dei
privilegi: e a questa lotta il Mezzogiorno era interessato in prima linea per il
frequente convergere di interessi settoriali e corporativi del mondo imprenditoriale e
di quello sindacale.
Quando nel 1922 arrivò al potere Mussolini, Salvemini era giunto intanto
all'affermazione dell'alleanza e dell'unità di azione fra popolari e socialisti come
prospettiva ultima che l'esperienza di sessant'anni di vita liberale in Italia veniva a
suggerire: una prospettiva, anche questa, che sarebbe diventata attuale solo
quarant'anni dopo.

Ma nel caso di Salvemini l'isolamento politico non avrebbe significato un isolamento


storico. Superata la reazione fascista, sarebbero emersi in tutta la loro ricchezza gli
sviluppi derivati dalla sua lunga riflessione, ed egli si sarebbe ritrovato alle origini,
attraverso Gramsci, del meridionalismo di sinistra e, attraverso Dorso, Rossi Doria e
altri, del meridionalismo democratico. *

3.3

La formazione politica di Carlo Rosselli si mosse consapevolmente tra Salvemini e


Turati, radicalismo e socialismo riformista. Ma nella formazione politica le vicende
personali e il temperamento di Rosselli avevano fatto sì che avesse una lucida e assai
tempestiva consapevolezza della necessità di con giungere all'analisi politica quella
economica per venire a capo di problemi, come quello del sindacalismo, a cui, con
scelta molto significativa, si era volto già al momento di scegliere e di redigere la sua
tesi di laurea.

L'opinione comune secondo cui, con la sua brevità, il periodo degli studi economici
di Rosselli segnerebbe quasi una parentesi nella sua biografia sostanzialmente e
squisitamente attivistica, va proprio perciò ancor più riveduta e corretta di quanto gli
ultimi studi già non abbiano fatto.

Nel breve triennio del suo noviziato accademico, che non doveva poi tradursi in una
carriera della quale non mancavano, e furono anzi riconosciute, le premesse,
maturarono, infatti, nel pensiero e nella sensibilità di Rosselli tensioni e convinzioni
che dovevano farsi poi sentire sino alla fine nel suo atteggiamento circa i rapporti tra
politica ed economia, tra riflessione e volontà politica e conoscenza e lezione dei fatti
e dei condizionamenti della vita economica. Ed è a queste tensioni e convinzioni che
si riporta un aspetto particolare, ma, peraltro, fondamentale della vicenda,
complessivamente tutta breve, di Rosselli, e cioè il suo rapporto e il suo
atteggiamento verso il marxismo.

Il tratto caratteristico del pensiero rosselliano nel dispiegarsi della sua piena maturità
sta nello sforzo generoso e consapevole di accordare i motivi libertari, democratici e
socialisti correnti in Europa da oltre un secolo con i motivi del più avanzato e
spregiudicato liberalismo; e di conciliare così le esigenze di una forte direzione della
vita pubblica nel senso della giustizia e dell'eguaglianza con le esigenze della libertà
politica e con quelle del libero sviluppo delle energie e delle possibilità di ogni
individuo. Di fronte a questa semplicità se si vuole di ispirazione anche
l'osservazione, in sé stessa giusta, che Socialismo liberale è «un libro in cui l'autore
più citato è Bernstein e l'influenza di Croce si intreccia con quella di Rodolfo
Mondolfo» * può portare fuori strada. L'ottica nella quale quel libro, e con esso tutti
gli altri scritti rosselliani, vanno letti non è l'ottica della revisione del marxismo. Con
espressioni da lui stesso adoperate nello scambio di idee con Mondolfo nel 1923, può
dirsi che la riflessione di Rosselli subentra, per quanto riguarda il marxismo, «a
revisione compiuta

La presa di coscienza, l'assunzione teorica di un superamento già realizzatosi nelle


cose degli schematismi dottrinari marxistici si palesano, a questo punto, in Rosselli,
completi e chiari. Una volta assorbiti nel fronte socialista, o almeno rivendicati
«come forze potenziali dell'armata proletaria i ceti medi e la piccola borghesia», una
volta operata, cioè, la revisione gradualistica e riformistica del marxismo, « ciò che
resta egli prosegue dell'antico avversario del Manifesto sono allora solo i cosiddetti
ceti plutocratici, e qualche categoria di proletari e di rentiers non rientrati nei ceti
medi. Ceto plutocratico, si badi, difficilissimo a delimi tarsi nel caso concreto, e
resistente più per un processo di astrazione che per un'organizzazione sociale di fatto.
Anche perché le caratteristiche, gli estremi 'plutocratici' si trasferiscono negli anni da
una categoria all’altra» *.

Le circostanze della vita impedirono, privilegiando le esigenze dell'azione politica


con una urgenza indiscutibile, che il socialismo di Rosselli ricevesse da lui la
fondazione critica di politica economica che egli aveva pure iniziato ad elaborare, e
che già lo portò in quell'inizio, a chiarire a se stesso le idee.

Ciò che, tuttavia, venne fuori da questo inizio è sufficiente a delineare il tipo di
proiezione che Rosselli conferiva, al suo pensiero sul terreno non già di una dottrina
economica generale, di una teoria generale della costituzione economica della
società, ma bensì, appunto, su quello della politica economica, dei criteri di politica
economica che possano meglio presiedere ad un'azione qualificabile come socialista.

Il punto fondamentale è anche qui quello empirico, il rifiuto del dottrinarismo


aprioristico, l'accettazione realistica, e in questo senso storicistica, della complessità
dei fattori costitutivi della realtà storica e sociale. Lo spirito di Rosselli è egualmente
lontano dagli ideali di Henry Ford, non molto differenti, come egli dice, «da quelli
degli studenti, che sognano di redimere l'umanità con un piccolo sforzo »*, così come
dall'intento di proporre quelle «tragiche opposizioni e soluzioni di continuità»* che
pretendono di annullare insieme la logica della vita sociale e quella dell'economia. Se
è vero che ci sarà sempre la lotta di classe, è altrettanto vero che nessun dogmatismo
può né coartare, né delimitare tanto le leggi quanto le possibilità di sviluppo
dell'economia.

Lo schema del pensiero rosselliano è, in questo, assai netto; e la critica che egli fa al
liberismo di Einaudi va oltre la sua occasione specifica ed esprime adeguatamente la
sua riluttanza verso ogni posizione o indirizzo che, in qualsiasi settore, si risolva nel
muovere da una premessa statica, conservatrice, nel racchiudere tutte le infinite
possibilità di un domani anche lontano in una sorta di muraglia della Cina teoretica. *

L'approccio empirico che va, perciò, inteso come un canone il cui significato politico
sottostà e non cede di importanza a quello scientifico - permette a Rosselli di
formulare in tesi generale i canoni della sua implicita proposta di governo
dell'economia. Si tratta di un governo in cui tutto è sempre da verificare.

Nnegli scritti del 1923-1926, la linea rosselliana è evidente. Nel pieno dispiegamento
della lotta di classe attraverso l'azione sindacale e la contrapposizione fra
imprenditori e dipendenti si tutelano e si promuovono le ragioni sia della libertà che
della giustizia. Una ragione tecnica esige, secondo Rosselli, che l'azione sindacale
venga condotta nella forma più unitaria possibile, perché soltanto la massima unità
delle leghe può garantire quella relativa parità di condizioni che può portare ad
un'equa soluzione delle vertenze, così come l'unità degli imprenditori consente a
questi ultimi il massimo sfruttamento dei vantaggi della loro posizione. Rosselli si
spinge fino ad affermare che la trattativa sindacale svolta in condizioni di
«monopolio rappresentativo» tanto delle organizzazioni degli imprenditori che dei
dipendenti sia anche la migliore garanzia possibile dell'interesse generale della
collettività, «perché - egli nota - una efficace tutela dei consumatori, interessati al
basso prezzo delle merci, non può sortire che dalla loro coalizione in veste di
produttori» *.

La questione è quella della linea di direzione, di sviluppo tendenziale del pensiero


rosselliano. E da questo punto di vista l'approdo di Rosselli è assai chiaro. Se la
logica della sua analisi economica dei problemi della società contemporanea
attraverso lo studio economico del sindacato e della sua azione ha un senso, questo
sta nella necessità del l'intervento politico per sciogliere i nodi che la pura e semplice
contrapposizione delle classi non può sciogliere e che, d'altro canto, dalla dinamica
inevitabile della vita economica e sociale non possono non sorgere in forma sempre
nuova e solo parzialmente prevedibile. È la politica, sono le forze politiche a dover
accertare in quali casi sia preferibile il monopolio e in quali altri la concorrenza e a
trarne le necessarie conseguenze normative e operative. Sono esse a dover presidiare
il limite economico che neppure l'azione sindacale può superare impunemente; a
dover combattere gli effetti nocivi, economici ed extra-economici, delle grandi
concentrazioni di capitale; a dover vigilare che la contrapposizione fra imprenditori e
sindacati non sia fittizia e non si risolva a danno della collettività e nella creazione di
indebite zone di privilegio economico e sociale e che essa giochi, invece, con tutta la
sua potenziale positività sia nella vita economica che in quella sociale.

L'identificazione progressiva del problema economico-sociale con una serie di nodi


essenzialmente politici si rivela così, nello stesso tempo, un punto di partenza e un
punto di arrivo del pensiero di Rosselli. L'economia portava Rosselli a ritenere che il
sindacato non potesse facilmente evadere dalla morsa di una logica che comprende,
in corrispondenza con ogni aumento indiscriminato di salari, una contrazione della
domanda di lavoro e/o un trasferimento dell'aumentato costo del lavoro sui prezzi al
consumo, per cui solo in minima parte gli aumenti del costo del lavoro vengono a
ricadere e a pesare sul capitale. A meno che, egli osserva, l'aumento salariale «non
trovi un compenso quasi immediato, preveduto e in certo modo contrattato, in un
aumento del reddito nazionale»; oppure che «le unioni avessero la possibilità di
controllare il movimento dei prezzi l'amministrazione delle imprese, cioè di
controllare la vita della impresa in ciò che essa ha di più geloso e di più vita le»*, il
che è impensabile senza «una sostanziale rivoluzione dell'ordine sociale». Ed ecco
anche svilupparsi allora quella che potremmo definire la frontiera, in certo qual
modo, della riflessione economica e politico-sociale di Rosselli, per cui finisce con
l'apparire «probabile che per l'avvenire il problema di un controllo sulle imprese,
sulla produzione, prezzi, profitti abbia a presentarsi in una forma sempre più
imperiosa» *. In altri termini il socialismo che Rosselli desiderava avrebbe dovuto
rendersi compatibile con la civiltà liberale dell'Occidente, nel pluralismo sia
ideologico e politico, sia economico-sociale, con l'accettazione dell'economia di
mercato, corretta, tuttavia, da un saldo nucleo di socializzazione e da una
pianificazione democratica.

Dal che si vede anche quanto possa portare fuori di strada l'assumere a metro di
valutazione della posizione di Rosselli, su questo piano, la sua accettazione o meno
del marxismo e ritenere che il limite insuperabile del suo pensiero sia nella
contraddittorietà tra il suo postulato di riforma della società capitalistica e il rifiuto
dell'alternativa reale che, in tal senso, soltanto il marxismo garantirebbe.

Il suo problema ha continuato ad essere fino ad oggi uno dei punti nodali nello
sviluppo del pensiero e dell'azione democratica e socialista in Europa. Non si tratta
soltanto del problema storico e politico della democrazia e del metodo democratico
che si è posto al socialismo, e che i socialisti dell'Europa occidentale hanno risolto
con la conferma di una piena accettazione del sistema rappresentativo parlamentare,
mentre i comunisti lo hanno lasciato sostanzialmente indeciso, distinguendo fra le
condizioni concrete dei singoli paesi in cui la loro versione del socialismo abbia ad
attuarsi e mantenendo sempre una riserva politico-ideologica al riguardo. Si tratta,
assai di più, della discussione relativa al modello di società per cui battersi e da
realizzare.

La sovrapposizione, così significativa, che Rosselli opera tra liberalismo, democrazia


e socialismo denuncia chiaramente e inoppugnabilmente tale diversa natura della
questione. Del resto, anche per le deficienze tecniche e per la fragilità delle soluzioni
imputate all'analisi economica che Rosselli abbozzò nel suo triennio di studio
accademico, bisognerebbe adottare un metro diverso: meno attento ai particolari
dell'analisi e della costruzione e più attento al significato generale della proposta che
viene fuori dalle pagine rosselliane. E questo non perché particolari originali e acuti
manchino. Nel 1925, mentre Gobetti torna a discutere sull'etica protestante del
moderno capitano d'industria, Rosselli si addentra con lucidità nella meccanica e
nell'organizzazione di officina.

L'empirismo e la problematica sonosintomi di acutezza e di libertà intellettuale, e


Rosselli ne era pienamente sicuro. Questa concezione così variegata della vita
economica del prossimo avvenire è assai meno brillante di quella di Marx, ma è assai
più rispondente alle linee su cui si sviluppa effettivamente la realtà attuale. Si potrà
discutere sulla rapidità della evoluzione, sul peso delle forme rispettive e sul grado
dell'intervento, ma non sui fenomeni in sé. I socialisti che vogliono incidere sul serio
la realtà del loro tempo e influire su questa evoluzione non possono continuare a
isterilirsi in una critica a priori e lineare, contrapponendo, alla evoluzione di fatto,
una evoluzione ideale che in nessun luogo, Russia compresa, si realizza.

Qui la globalità della proposta è evidente. La questione non era: capitalismo sì,
capitalismo no. Era assai più complessa; comprendeva tutt'insieme la costruzione di
una società più giusta, più libera, più moderna: giustizia per le classi e non dittatura di
una classe, libertà per gli uomini singoli nella loro individualità e non per una astratta
collettività, modernità fatta di validità tecnica e di reale progresso economico e non
soltanto del superamento a tutti i costi di un determinato sistema di produzione.
Anche le conseguenze politiche che Rosselli traeva dalla sua revisione ideologica
erano di sorprendente concretezza e lungimiranza. All'indomani della caduta del
fascismo - egli scriveva sempre nel 1930 - «i socialisti saranno inevitabilmente al
centro del governo», ma ciò li costringerà a rivedere profondamente le loro posizioni:
«il mito socializzatore e il fato proletarizzatore non sorridono infatti a due terzi dei
concreti lavoratori italiani».*

Bisognerà che essi si facciano carico di interessi assai più larghi di quelli di classe,
intesi nel senso ristretto del marxismo tradizionale. Altrimenti, «anche se saliranno al
governo, sarà per compiervi più opera negativa che costruttiva, più per controllare e
prevenire che per fare; e, senza volerlo, finiranno al rimorchio dei gruppi borghesi
progressisti, non legati da formule rigide e da pregiudiziali estemporanee».

E, rincarando la dose, aggiungeva che «sulla base di un programma di classe il


socialismo in Italia né avrà una maggioranza, né avrà il potere», mentre vi avrebbe
potuto aspirare dilatando «il suo fronte a tutta la classe lavoratrice» e governando «in
nome di un valore lavoro il che a buon diritto può dirsi interessi tutti gli uomini,
poiché tutti gli uomini, o quasi, concorrono, in un modo o nell'altro, all'opera della
produzione». Si mira, quindi, alleanza non solo degli operai e dei braccianti, ma degli
artigiani, dei piccoli commercianti, dei piccoli proprietari urbani e rurali, dei
coltivatori diretti, dei ceti emergenti nelle libere professioni e nel mondo
imprenditoriale, dell'affittanza e della mezzadria. Si sarebbe realizzato così un
concetto di «popolo» più alto e più valido di quello che identifica il popolo
unicamente col salariato e, insieme, uno schieramento politico che solo avrebbe
potuto assicurare, in Italia, la vittoria della democrazia e del progresso, visto e
considerato che «lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai
solo i passerotti e gli esercenti e mena acqua al mulino reazionario».

Partendo episodio per ciò stesso fondamentale e caratterizzante da una inserzione di


motivi pragmatici di derivazione anglosassone e da una autentica derivazione di
motivi laburisti sul tronco del pensiero politico-sociale proprio della tradizione
democratica italiana, Rosselli era giunto, così, al di là di ogni diversa o contraria
impressione, ad un rinnovamento profondo del patrimonio ideologico e politico della
democrazia italiana. La sua estrazione sociale, le direzioni della sua ricerca
ideologica, la tensione morale e l'attivismo impavido del suo impegno mostravano
che il fondo democratico borghese della più avanzata società italiana conservava
intera la sua vitalità. L'esperienza dei decenni successivi ha mostrato, a sua volta, che
nella dimensione intuitiva e parziale del suo approccio ai problemi economici della
società contemporanea c'era molto più futuro che in tante costruzioni dottrinarie e
scientifiche di altra ispirazione, e di altre pretese.

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