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di Antonio Cantaro
Al contrario di quanto accade nelle stagioni piovose (un tempo, anche di quelle siamo ormai
orfani) quando funghi e tartufi si moltiplicano beneficamente senza nessuna logica
apparente, nel mondo dell’orrore, in cui siamo precipitati ben prima del 7 ottobre, le mezze
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verità si impadroniscono maleficamente delle nostre menti; di ciò – ben poco – che ne è
rimasto. Come in una fiera delle menzogne in cui ogni venditore pronuncia la sua mezza
verità che mai comunica con le altre mezze verità.
Un frastuono di menzogne infinite. Tante, ci vorrebbero mille delle Lame di fuoricollana.it per
raccontarle. Si accontenti il nostro (im)paziente lettore delle prime due che ci vengono a
mente.
La prima menzogna. Quella secondo cui Hamas ricorre all’eccidio e alla tortura più brutali di
anziani e bambini, di donne e uomini di tutte le età, in nome di una buona e sacrosanta
causa della lotta di liberazione. Ha scritto con la consueta nitidezza Domenico Quirico «gli
ostaggi di Gaza non sono ostaggi di un movimento nazionalista o che esige l’indipendenza in
base ad antiche rimembranze o torti recenti, sono ostaggi della jihâd, di una guerra santa
che pretende di purificare il mondo (…), non scandiscono Siria libera o Palestina libera,
lodano un Dio che non rifiuta loro nulla, persino di servirsi del male. I Palestinesi laici l’Olp,
che pure sconta anche corruzione e inefficienze, sono bersagli e vittime di questa guerra
santa» (Abbandonati in un buco e disperati, l’angoscia di chi è nelle mani della jihâd, La
Stampa, 10 ottobre, 2023).
La seconda menzogna è quella di tutti i Biden dell’occidente secondo cui Israele ha il diritto
di difendersi “costi quel che costi”, un “costi quel che costi” accompagnato da un tombale
“punto e basta”. Di quale diritto? Di certo non di quello internazionale che dice esattamente il
contrario. Così come il contrario dicono i pronunciamenti degli ultimi anni dell’Onu, della
Corte internazionale di giustizia, del Comitato internazionale della Croce Rossa, sull’illegalità
di un’occupazione crudele dove la potenza occupante avrebbe dovuto procedere alla
protezione dei cittadini dei territori occupati e non, come ha scientificamente e
irresponsabilmente fatto, alla trasformazione di Gaza “nella prigione più grande del mondo”.
Un tempo c’era una espressione che metteva in forma questi opposti diritti. Il suo nome era
questione israelo-palestinese. Presupponeva un aspro e drammatico conflitto, persino il
ricorso alla guerra e singoli atti terroristici, ma postulava nel contempo l’esistenza di una
opposta ragione con cui bisognava giungere, presto o tardi, a un compromesso. Questione
israeliana e questione palestinese indissolubilmente legate da quel trattino. Questione, la
parola che più di ogni altra restituisce la cosa che ci rende umani: la capacità di interrogarsi
(questione: dal latino quaestio -onis, derivato. di quaerĕre, chiedere). Vado a memoria
dall’Enciclopedia Treccani. Questione: situazione, caso, che costituisce un problema e che
viene proposto a sé stessi e ad altri per una valutazione e soluzione.
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Tutto quello che tanto nella politica interna quanto nella politica internazionale non facciamo
più. Non ci sono più questioni, ma solo risposte immediate da dare alle diverse emergenze.
Concretismo, la cattiva e orizzontale ideologia dei nostri giorni. Mezze verità, menzogne
infinite, ingiustificabili anche quando, come in queste ore, c’è l’urgenza dell’azione, del
decidere. La fretta non salverà nessuna vita umana. Fretta chiama fretta, altro orrore.
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