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Collana
IMAGINES AGENTES
a cura di
Lina Bolzoni e Sonia Maffei
Coordinamento editoriale a cura di
Carlo Alberto Girotto

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© Copyright 2012 La Stanza delle Scritture


Via Melisurgo 4, 80133 Napoli
www.lastanzadellescritture.it

ISBN 978-88-89254-07-3
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ANDREA TORRE

VEDERE VERSI
UN MANOSCRITTO DI EMBLEMI PETRARCHESCHI
(BALTIMORE, WALTERS ART MUSEUM, MS. W476)
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In linea con gli attuali orientamenti dell’editoria di ambito umanistico,


a partire da questo volume la collana IMAGINES AGENTES disporrà di un co-
mitato di lettura che, in forma anonima, giudicherà preventivamente il vo-
lume in vista della pubblicazione. I nomi dei lettori sono reperibili sul sito
internet della casa editrice (www.lastanzadellescritture.it).

L’Editore e l’Autore desiderano ringraziare la Direzione della Walters Art


Museum di Baltimore per la collaborazione e per le riproduzioni del ms.WAG
476. Un ringraziamento anche alla prof.ssa Elizabeth Cropper e al prof. Char-
les Dempsey per l’aiuto che hanno fornito per l’acquisizione delle immagini.
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CONTENUTO

RERUM VULGARIUM EMBLEMATA

Sigilli della sua fiamma e della sua fama 5

Una questione di sguardi 13

Emblemi in atto e frammenti in progress 25

BALTIMORE, WALTERS ART MUSEUM, MS. WAG 476

FORME DI UN DISCORSO AMOROSO

1. Teme di lei, onde io son for di speme 53


2. So come sta fra ’ fiori ascoso l’angue 65
3. Vomene a guisa d’orbo senza luce 75
4. Amplius non ero 86
5. Quel foco che pensai fose spento 89
6. De laqueo venantium 95
7. Tutto tremar d’uno amoroso gelo 111
8. Ision pel pecato, io per honore 125
9. Di tal legno è l’imagine mia viva 141
10. Mi scrisse entro un diamante in mezo il core 150
11. Amor m’ha posto come segno a strale 167
12. ’Nanci el fin d’un, comincia l’altro stracio 181
13. L’albor ch’amò già Phebo in corpo humano 197
14. De sue bellezze e de mie spoglie altera 212
15. Medusa e l’eror mio m’han fatto un sasso 223
16. Incidit in foveam quam fecit 229
17. Consumetur nequitia 237
18. E più ch’i’ non vorei piena la vela 246
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19. Sue speranze di fé come son vote 265


20. Nil melius 275
21. Omnia subiecisti 281
22. Ond’uscîr già tante amorose punte 287
23. Exemplum dedi vobis 294
24. Insidiatur in abscondito 304
25. Ite sicuri homai, ch’amor vien vosco 316
26. Che a gran speranza huom misero non crede 319
27. Per mostare a lo estremo ogni sua possa 327
28. Mi trovo in alto mar senza governo 335
29. Qui veder puoi l’imagine mia sola 350
30. Derelinquerunt me 368
31. Vedemi arder nel foco e non m’aita 373
32. Si non meminero tui 381
33. Vince amor non pur solo huomini e dei 384
34. Et a me pose un dolce giogo al colo 392
35. Habitabunt recti cum vultu tuo 399

Indice delle illustrazioni 413

Indice dei nomi 427


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per gli occhi di Giacomo


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RERUM VULGARIUM EMBLEMATA


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These little strokes whose syllables confirm


an altering reality for vision

on the blank page, or the imagined frame of


a crisp canvas, are not just his own.
DEREK WALCOTT

Questi frammenti lasceranno traccia nella


storicità. Come nell’amore una curva della
nuca, o un lembo di pelle tra la peluria, così
questi pezzi di poesia o di sogno generano
scrittura, fanno proliferare commenti, origi-
nano un cambiamento di storia. Sono pietre
magiche o reliquie che trasformano i luoghi
successivi nei quali le si trasporta.
MICHEL DE CERTEAU
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Sigilli della sua fiamma e della sua fama

Esigua e discontinua si rivela la fortuna figurativa della


scrittura lirica in confronto alla ricca produzione artistica che
in codici e stampe accompagna visivamente la poesia di im-
pianto narrativo. La prospettiva di articolare in racconto una
serie di eventi incrementa notevolmente le potenzialità del-
l’invenzione fantastica. La sublimazione dei caratteri, l’estremo
rallentamento del flusso temporale, la parcellizzazione degli ac-
cadimenti e, soprattutto, la disarticolazione di un’identificabile
e sequenziale logica narrativa a favore di una sintesi simbolica
sono invece tutti elementi che concorrono a circoscrivere le
possibilità di trasposizione visiva del dettato lirico, a codificar-
la secondo caratteristiche ricorrenti e precise funzioni. Laddo-
ve alla narrazione di eventi, che si succedono legandosi in un
racconto, si sostituisce la rappresentazione di precise situazio-
ni, affetti e in primis di una soggettività, l’illustratore si trova
inevitabilmente ad affrontare il problema non solo di selezio-
nare il materiale da rappresentare ma addirittura di individuar-
lo. A questa sorte non sembra sfuggire neppure il Canzoniere
petrarchesco, forse anche in ragione della forza testimoniale
della redazione autoriale e del sonetto incipitario.1
Gli interventi figurativi rinvenibili in manoscritti e stampe
dei Fragmenta si limitano pertanto a marcare i passaggi-chiave

1 Cfr. LUCIA BATTAGLIA RICCI, Illustrare un canzoniere: appunti, «Cuadernos de fi-


lología italiana», XI (2005), pp. 41-54, in part. p. 47: «Certo comunque che tra le due
opzioni a lui offerte dalla tradizione libraria corrente Petrarca scelse il modello librario
che alla sola parola addebitava il compito di rendere fruibile il prodotto della sua in-
venzione, liberando quella stessa parola, per quanto possibile, dalla sua greve materia-
lità fisica [...]. Dell’assoluto privilegio accordato alla parola, anzi alla parola priva di
corpo grafico – puro suono – è peraltro testimone, in apertura di libro, l’incipit del so-
netto proemiale che, lungi dall’evocare contesti narrativi o immaginari più o meno
convenzionali, punta tutto sulla fonicità del dettato [...]».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

della struttura del liber, presentano il ritratto dell’autore secon-


do le principali varianti del genere, illustrano i miti-guida del
racconto in versi, e ne sottolineano i momenti di più intensa
imagery. Da quest’ultimo punto di vista, testi come la canzone
“delle visioni” e quella “delle metamorfosi” si offrono quali
soggetti elettivi dell’inventio iconica, dal momento che non so-
lo affrontano in modo più approfondito e articolato i princi-
pali nuclei immaginali della raccolta (il potere metamorfico di
Eros e l’allegoria memoriale funeraria) ma giungono anche a
tematizzare direttamente il concetto e l’esperienza della visio-
ne quali motivi e dinamiche della scrittura petrarchesca. Me-
no standardizzati moduli rappresentativi e una più estesa ri-
funzionalizzazione visiva della parola poetica si possono però
rinvenire in alcuni cicli figurativi che testimoniano un incon-
tro tra generiche esperienze di visualizzazione del Canzoniere
e quel fortunato nodo di parole e cose che dà forma ai libri di
emblemi e imprese. Come dichiarano i teorici cinquecenteschi
e confermano le ricostruzioni della critica contemporanea, la
connessione tra emblematica e petrarchismo è infatti solida e
articolata.
Prima di analizzare compiutamente in Studi sul concettismo
le realizzazioni cinque-secentesche degli «emblemi potenziali»
creati dall’immaginario petrarchesco, Mario Praz aveva già
avuto modo di sottolineare in un saggio del 1943 che la for-
tuna emblematica e impresistica della lirica petrarchesca di-
pende dall’intima natura simbolica del linguaggio del poeta,
dal suo parlar per immagini, dalla sua consuetudine ad «adom-
brare, con un’immagine, con un mito, un fatto reale troppo ge-
loso per esser divulgato tale e quale all’aria comune».2 Nello
stesso anno Frances Yates fondava sul presupposto teorico che
«il petrarchismo è davvero una sorta di linguaggio figurato e
che l’interesse preponderante per il petrarchista risiede proprio

2 MARIO PRAZ, Petrarca e gli emblematisti [1943], in ID., Ricerche anglo-italiane, Ro-
ma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 305-319, cit. a p. 309, dove conclude:
«Il Petrarca trasferisce a un testo profano, a un canzoniere le virtù dei sacri testi: an-
ch’egli parla per simboli e per parabole. [...] Parlar per immagini è stato sempre pro-
prio dei poeti: [...] circondare quel fatto di tutto un misterioso rituale arieggiante
quello della religione, ecco l’origine dell’emblematica petrarchesca».

6
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SIGILLI DELLA SUA FIAMMA E DELLA SUA FAMA

nelle immagini o ‘concetti’ in quanto tali» la propria indagine


sulla traduzione emblematica bruniana di motivi del Canzo-
niere.3 Alcuni decenni più tardi (1970), la predisposizione sim-
bolica della scrittura poetica petrarchesca è chiamata diretta-
mente in causa da Robert Klein nel corso della ricostruzione
del dibattito teorico cinque-secentesco intorno alle imprese:
«Ma le imprese e gli emblemi, che erano metafore illustrate, e
le metafore petrarchesche, che erano degli emblemi, se logica-
mente sono possibili solo perché il pensiero è anche immagi-
ne, erano però, agli occhi del pubblico, artisticamente valide per-
ché l’espressione punta su entrambi i colori e perché questo
gioco costituisce un esplicito invito a raggiungere, al di là del-
l’opera, il concetto ambiguo da cui è nata».4
L’elezione dei Fragmenta tra le fonti primarie per la produ-
zione di emblemi e imprese era peraltro un dato di fatto pie-
namente percepito, e anzi evidenziato, già dai teorici cinque-
secenteschi del genere.5 Scipione Ammirato parla di relazione
emblematica per definire i giochi di senso fatti da Petrarca sul
nome di Laura.6 Luca Contile mostra in più punti del suo trat-

3 FRANCES A. YATES, Il contenuto simbolico negli “Eroici Furori” di Giordano Bruno e


nei lirici elisabettiani [I ed. ingl. 1943], in EAD., Giordano Bruno e la cultura europea del Ri-
nascimento, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 59-90, cit. a p. 60.
4 ROBERT KLEIN, La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna,
Torino, Einaudi, 1975 [I ed. fr. 1970], p. 138 (corsivo mio).
5 Così come era un fatto ancor più naturale per chi emblemi e imprese li realiz-
zava; cfr. LEONARD FORSTER, The Icy Fire. Five Studies in European Petrarchism, Cam-
bridge (Mass.), Cambridge University Press, 1969, p. 53: «Another way of actualising
Petrarchan conceits was by embodying them in emblems. [...] The visual character of
Petrarch’s imagery made its transposition into pictorial form extremely easy; the mot-
toes to the emblems are often taken from Petrarch’s sonnets. [...] The influence of em-
blem books on poetic imagery in all languages from the late sixteenth century until
well into the eighteenth is difficult to overstimate, and these books were the vehicles
of petrarchism. They were to be found in nearly every educated family and were po-
red over by young and old alike. Here too the conceits were speedily converted to re-
ligious use [...]. It was in this form that the emblem book survived longest, and pe-
trarchistic imagery with it».
6 SCIPIONE AMMIRATO, Il Rota overo Delle imprese, Firenze, Giunti, 1598, p. 27: «Et
insomma vediamo il Petrarca dal nome di madonna Laura aver preso infiniti suggetti.
In prima spezzando il nome, e facendone tre parti; poi scherzando con lauro arbore,
con Dafne mutata in esso lauro, con l’aura cioè vento, con l’auro metallo, con l’auro-
ra, e cose fatte. Dico adunque che a questa somiglianza, dal nome di colui o di colei,
per cagion de’ quali si fa l’impresa, molte volte si formano l’imprese».

7
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A. TORRE, VEDERE VERSI

tato come la parola poetica petrarchesca si disponesse a venir


tradotta impresisticamente e anche ad esser tradita nel suo sen-
so originario in relazione ai nuovi compiti che la ragion em-
blematica le affidava.7 Commentando il sonetto 190 (Una can-
dida cerva sopra l’erba), Bernardino Daniello si chiede se il si-
gnificato dell’allegoria petrarchesca risieda nel fatto che «la
cerva è fuggitiva di natura, o pure che l’arme di madonna Laura
fosse una cerva».8 E proprio traducendo visivamente il conte-
nuto di questo fragmentum, Antonio Grifo ci offre la più limpi-
da testimonianza del fatto che il famoso Incunabolo Queri-
niano G.V.15 sia un vero e proprio antecedente del fenomeno
delle imprese e degli emblemi. Sul margine della c. 62v trovia-
mo infatti un cartiglio che riporta il verso «libera farmi al mio
Cesare parve»; sotto questa sorta di inscriptio si distende la figu-
ra di una cerva bianca dalle corna d’oro, ornata da un prezio-
so collare e posta sotto un lauro; alla sinistra, lungo l’intero svi-
luppo verticale dell’immagine, si articola il testo del sonetto

7 Cfr. LUCA CONTILE, Ragionamento sopra le imprese, Pavia, Bartoli, 1574, c. 11r:
«[...] Tuttavia l’autorità de’ scrittori italiani mi essorta ch’io citi il Petrarca il quale nel
sonetto che comincia O passi sparsi disse O sola insegna al gemino valore dinotando la
corona di lauro esser testimonianza chiarissima per meriti soldateschi e de scienze; pa-
rimenti il detto Poeta nel primo capitolo del trionfo della morte così canta: Era la lor
vittoriosa insegna, mostrando per essa la purità di Laura, la schiettezza e ’l valor de’ suoi
castissimi pensieri, con animo di mantenersi ella tale fin all’ultimo giorno di sua vita;
ma credo si possa dire che fusse più tosto impresa ch’insegna, essendo uno armellino
col collare d’oro e di topazio, significando la intenzione di così pudica e bella donna,
avendo ornato quel puro animaletto di due preziose cose cantate da Davide Re nel
salmo 118: O Signore i tuoi precetti sono sopra l’oro el topazio; né facendo questa compa-
razione con altre gioie, possiamo credere che la valuta dell’oro e del topazio sia sopra
tutti gli altri ricchissimi metalli e gemme; nel medesimo capitolo segue il Poeta e di-
ce: Quando vidi una insegna oscura e trista. La quale può ancora servire per impresa, es-
sendo fatta in foggia che rappresenta il fine di questa vita mortale, e con tutto ciò che
l’un nome si prenda per l’altro, è tutto nondimeno cagionato dal mal uso come al-
l’ultimo potrà conoscersi nel trattato della vera proprietà dell’Imprese. Canta medesi-
mamente il Petrarca nel capitolo della divinità in questa guisa: Vidi l’insegne di quel-
l’altra vita; la quale similmente scuopre la certezza della vita eterna, et è la croce be-
nedetta nello stendardo, in atto della santissima resurrezione. Scrive pure il Petrarca in
questo medesimo sentimento parlando ad Amore nella canzone Amor se voi ch’io torni
al giogo antico: E ripon le tue insegne nel bel volto; significando che quanto vittoriosamente
Amore s’acquistava era per la pudica e vera bellezza di Laura».
8 Sonetti Canzoni e Triomphi di M. FRANCESCO PETRARCA con la spositione di BER-
NARDINO DANIELLO da Lucca,Venezia, Pietro e Gianmaria Nicolini da Sabbio, 1549, c.
106r (corsivi miei).

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SIGILLI DELLA SUA FIAMMA E DELLA SUA FAMA

190, al contempo fonte e subscriptio9 di una immagine emble-


matica che forse conosce qui la sua prima compiuta espressio-
ne figurativa, ma che sarà spesso ripresa nelle principali raccol-
te cinque-secentesche (fig. I).10

Fig. I. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 62v.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

9 Una lectura in chiave emblematica del fragmentum 190 è presente in MARIA LUI-
SA DOGLIO, Il segretario, la cerva, i versi dipinti. Tre studi su sonetti del Petrarca, Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 19-38, in part. p. 32: «Nel giro della terzina l’immagine
della cerva si accampa come la figura (il corpo) di un’impresa dove il segno letterario
assorbe in sé il segno figurativo che produce direttamente, in modo autonomo, ma do-
ve sussiste il composto metaforico figura-motto che giustifica, una volta di più, la
straordinaria fortuna del Petrarca sia nella “fabrica” che nella trattatistica delle impre-
se fra Cinque e Seicento».
10 Mariani Canova riscontra un precedente iconografico dell’immagine nella
cerbiatta presente a c. 309r della Miscellanea Rothschild dell’Israel Museum (ms.
180/51), codice ebraico caratterizzato da un impianto illustrativo molto simile a quel-
lo dell’esemplare bresciano (GIORDANA MARIANI CANOVA, Antonio Grifo illustratore del
Petrarca Queriniano, in GIUSEPPE FRASSO-GIORDANA MARIANI CANOVA-ENNIO SAN-
DAL, Illustrazione libraria, filologia e esegesi petrarchesca tra Quattrocento e Cinquecento. Anto-
nio Grifo e l’incunabolo Queriniano, Padova, Antenore, 1990, pp. 145-200, in part. p. 169).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

È ad esempio il caso dell’impresa di Lucrezia Gonzaga rea-


lizzata proprio sulla scorta di RVF 190 e così commentata da
Girolamo Ruscelli:

Questa impresa mostra senza alcun dubbio esser


tratta da quel bel sonetto del Petrarca Una candida
cerva sopra l’erba [...]. Ma perché il Petrarca con quel
sonetto volle narrar la pura istoria dell’innamora-
mento suo sotto quella bella allegoria, e vi ebbe da
narrar le due riviere, Sorga e Durenza, e per le cor-
na d’oro intese le trecce di Laura, questa signora
nella sua impresa n’ha tolto solamente quello che fa
al proposito dell’intentio sua, cioè la candidezza del-
la cerva, l’ombra dell’alloro, et ancora il monile al
collo, che pur nella sua descrive il Petrarca [...]. Et
ha questa signora voltato poi leggiadramente l’in-
tenzion del significato del lauro. Percioché ove il Pe-
trarca volle con quello accennare al nome della
donna sua, che era Laura, questa col lauro sacrato ad
Apollo, tenuto il sole e dio delle scienze, par che
debba voler intendere il lume dell’intelletto conce-
dutole da Dio per conservazione dell’onor suo, e
della sua castità. [...] Onde si può finir di conchiu-
dere, che questa signora con tal impresa, per il lau-
ro, per la candidezza, e per il monile di diamanti e
topazi, abbia voluto intender la prudenza, il sapere,
la purità, la castità, e la fermezza, che a lei conveni-
va d’aver in se stessa.11

È comunque Nicolò Franco, fin dal 1539, a sancire l’auctoritas


petrarchesca in materia di emblemi, promuovendo una leggenda
che riconosce lo stesso Petrarca inventor di tre imprese collocate
su sigilli e accompagnate da motti desunti dal Canzoniere.12 L’a-

Casi come questo costituiscono però una netta minoranza all’interno dell’incunabo-
lo, permanendo ancora troppo debole e implicita una strutturazione emblematica del-
l’immagine, e ancora troppo forte la relazione didascalica tra figura e parola. L’imma-
gine parla forse ancora troppo del testo, e ancora troppo poco col testo.
11 GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,Venezia, De’ Franceschi, 1584, pp. 273-277.
12 NICOLÒ FRANCO, Il Petrarchista, Venezia, Giolito, 1539, cc. 20v-21r.

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SIGILLI DELLA SUA FIAMMA E DELLA SUA FAMA

neddoto del Petrarchista fa presa tra i teorici della letteratura per


immagini e, rimbalzando dal Discorso di Girolamo Ruscelli sopra
i motti e le imprese (1556),13 ai Discorsi sopra l’imprese di Giovan-
ni Andrea Palazzi (1575) e al Teatro d’Imprese di Giovanni Ferro
(1623), giunge fino alla summa teoretica di Emanuele Tesauro
che, pur con qualche remora fugata solo dalla stima, inserisce
proprio gli emblemi di fattura petrarchesca tra gli esempi di Fi-
gure Ingegnose:

Ma quand’altro non fosse, non son’egli nel nu-


mero delle inscrizioni que’ versi che servono di
motto a molte imprese, per farle populari et intelli-
gibili a coloro che poco alto intendono? Tai furon
quelle, benché semplicette, che l’istesso Petrarca
espose sopra Laura, suggetto della sua fiamma e del-
la sua fama. Una pianta di lauro con questo detto
L’ARBOR GENTIL CHE FORTE AMAI MOLT’ANNI. E
quest’altro sopra un sole, simbolo di lei già morta:
QVEL SOL CHE MI MOSTRAVA ’L CAMIN DRITTO. Et
un altro sopra l’imagine di se medesimo, all’ombra
di un lauro, versante perenni acque da un’urna, da
lui premuta sotto il braccio, alludendo alle sue con-
tinue lagrime: IN QVESTO STATO SON DONNA PER
VOI. I quali versi dapoi tanto gli piacquero, che an-
cora nelle sue canzoni li fè immortali.14

13 Cfr. PAOLO GIOVIO, Ragionamento sopra i motti e disegni d’arme e d’amore che co-
munemente chiamano imprese. Con un discorso di Girolamo Ruscelli intorno allo stesso sogget-
to, Venezia, Ziletti, 1556, pp. 185-186: «Et il Petrarca dicono che solea usar alcuni su-
gelli non con arme ma a guisa d’imprese, sì come era quello ov’era intagliato un Lau-
ro, con questo verso che è nel suo Canzoniere, L’arbor gentil, che forte amai molt’anni. Et
un altro ov’era l’imagine di Madonna Laura, con quest’altro Quel sol che mi mostrava il
camin dritto. I quasi due egli usava doppo la morte di lei. E l’altro, nel quale era inta-
gliata l’imagine di lui stesso, che nudo sedeva a piè d’un lauro con una tempia appog-
giata sopra la mano destra, e sotto a quel medesimo braccio un’urna che versava ac-
qua di continuo, onde egli facea un lago d’attorno, et avea questo verso pur del suo
Canzoniere, In questo stato son donna per voi».
14 EMANUELE TESAURO, Il cannocchiale aristotelico, Torino, Zavatta, 1670, p. 245. Su
questo passo si sofferma EZIO RAIMONDI, Un esercizio petrarchesco del Tesauro, in Petrar-
ca e il petrarchismo, Atti del terzo congresso dell’A.I.S.L.L.I. (Aix-en-Provence e Mar-
siglia, 31 marzo - 5 aprile 1959), Bologna, Libreria Editrice Minerva, 1961, p. 280: «Se
poi gli emblemi petrarcheschi gli sembrano “semplicetti”, questo dipende dal fatto che

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Dovremmo chiederci, con Praz, se queste ultime testimo-


nianze siano davvero necessarie per confermare la predisposi-
zione emblematica della poesia di Petrarca.15 O se sia suffi-
ciente rilevare come la densità dell’immaginario poetico pe-
trarchesco – che trasfigura su un piano di generale e paradig-
matica validità l’intima vicenda dell’io lirico – sappia resistere
alla cantabilità lieve della narrazione in versi, e riesca a rende-
re disponibile il dettato poetico all’invenzione concettistica, il
canto alla figura. Riesca insomma a consegnare all’immagina-
rio dei suoi lettori qualcosa di più di un emblema potenziale.
A leggere un passaggio del fragmentum 155, sembrerebbe pro-
prio di sì. Con disarmante semplicità Petrarca ci mostra infatti in
che modo e con quale fine quel primo poeta che è Amore (cfr.
RVF 127, 5-10: «Collui che del mio mal meco ragiona | mi la-
scia in dubbio, sì confuso ditta. | Ma pur quanto l’istoria trovo
scritta | in mezzo ’l cor [...] dirò») vada a comporre nel cuore
dell’amante una forma espressiva ibrida, fondata sulla relazione
tra una componente iconica (l’incisione dell’immagine del «dol-
ce pianto») e una componente verbale (l’iscrizione dei «detti
soavi»).Vada insomma a comporre un’impresa:

Quel dolce pianto mi depinse Amore,


anzi scolpío, e que’ detti soavi
mi scrisse entro un diamante in mezzo ’l core
(vv. 9-11).

la parola, così come la intende il Tesauro, deve portare alla luce quel tanto di capric-
cioso e di imprevisto che è proprio di una scoperta “arguta” del reale. L’importante è,
però, che il testo del Petrarca non contraddica al principio della squisitezza ingegno-
sa e non escluda la possibilità di una lettura barocca».
15 PRAZ, Petrarca e gli emblematisti, cit., p. 319: «Gl’inventori d’imprese del Cin-
quecento vedevano in Petrarca il loro Santo Padre, citavano i giochi di senso allegori-
ci da lui fatti sul nome di Laura, esaltavano il sonetto in cui la donna balenava dinan-
zi ai loro occhi assetati di fasto, splendida d’oro e di porpora, di bianco e d’azzurro, in
un’alata parafrasi della descrizione pliniana della fenice, “Questa fenice de l’aurata piu-
ma...”, citavano l’impresa (d’epoca posteriore al monumento) sulla tomba di Laura, fo-
glie d’alloro e una croce, col motto Victrix casta fides, e infine immaginavano che Pe-
trarca stesso avesse inventato tre imprese vere e proprie a cui avrebbe messo per mot-
ti tre versi del Canzoniere. Ma c’era bisogno di quest’ultima leggenda per confermare
al Petrarca il merito d’essere stato il primo emblematista?».

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Una questione di sguardi

Al di là del diffuso impiego del Canzoniere quale repertorio


privilegiato delle inscriptiones emblematico-impresistiche, o delle
scontate cooptazioni del poeta tra le auctoritates di tale letteratu-
ra per immagini, ciò su cui vorrei concentrare l’attenzione – in
queste pagine di presentazione e nel saggio che ad esse seguirà
– è una più strutturata elaborazione visiva della parola poetica
petrarchesca, testimoniataci da alcuni documenti collocabili en-
tro questa tradizione culturale. Documenti nei quali alcuni em-
blemi potenziali del Canzoniere trovano una piena traduzione
in emblemi e imprese effettivi, strutturati attraverso l’interferen-
za semantica tra codice iconico e codice testuale. Penso al già ci-
tato incunabolo Queriniano G.V.15, al codice Orsini-Da Costa
delle Rime (ms. M.427 della Pierpont Morgan Library di New
York), a un’edizione aldina de Le cose volgari di Francesco Petrarca
presente nella collezione privata del duca del Devonshire, al ma-
noscritto secentesco delle Cento Imprese fatte da Fra Francesco
Cuomo nella caduta del Cipresso conservato presso la Rare Book
Room della University of Illinois Library, o a una stampa sette-
centesca delle Rime realizzata per i tipi veneziani di Antonio
Zatta (1756). Tutti testi che spesso verranno chiamati in causa
nel corso del commento del codice W476 della Walters Art Gal-
lery di Baltimore, oggetto principale della mia indagine.
Fra questi documenti il caso più complesso e interessante è
rappresentato dall’aldina de Le cose volgari di Francesco Petrarca
(Venezia, 1514) conservata presso la Chatsworth House Li-
brary.16 Joseph Trapp segnala l’esemplare per le stupende illu-

16 Una descrizione dell’esemplare compare nel catalogo The Devonshire Inheri-


tance. Five Centuries of Collecting at Chatsworth, a cura di NICOLAS BARKER, Alexandria
(Virginia), Art Services International, 2003, pp. 256-258, scheda n. 144. Nella storia
delle edizioni petrarchesche questa stampa, la seconda approntata da Manuzio (dopo

13
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A. TORRE, VEDERE VERSI

strazioni monocrome dei Triumphi che ricordano quelle rinve-


nibili in alcuni esemplari curati da Bartolomeo Sanvito.17 Ma
nei margini del Canzoniere si possono rinvenire numerose im-
magini miniate (attribuibili a Vincent Raymond de Lodève, mi-
niaturista della Cappella Sistina attivo sotto Leone X)18 che
sembrano instaurare una relazione emblematica con i versi dei
fragmenta.19 Parlo di relazione emblematica, perché qui non ci
troviamo ancora di fronte a emblemi o imprese compiuti, per
quanto si sia già andati oltre una referenziale illustrazione del te-
sto. Siamo con ogni probabilità in un momento di passaggio tra
due modalità di traduzione visiva della parola poetica. La pagina
che si offre al nostro sguardo diviene un’istantanea del processo
di composizione dell’emblema e dell’impresa. Le illustrazioni
sono infatti sempre collegate, attraverso l’inequivocabile segno
grafico di una riga dorata, a uno specifico verso del testo ma,
nella maggior parte dei casi, elaborano visivamente il messaggio
verbale espresso da altri luoghi del medesimo fragmentum. Ossia,
transcodificano un testo (la fonte) e vi associano un altro testo
(il futuro motto). Entrambi però còlti dalla medesima unità te-
stuale. La scelta del motto cade quasi sempre su un verso che da
una parte ben sintetizza il nodo drammatico della singola lirica

quella del 1501), è ricordata soprattutto per il fatto che in essa compare per la prima
volta la cosiddetta Appendix Aldina che conoscerà grande fortuna nelle successive edi-
zioni (cfr. a proposito DOMENICO DE ROBERTIS, Editi e rari: studi sulla tradizione lette-
raria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 27-49).
17 JOSEPH B. TRAPP, Petrarch’s Laura: The Portraiture of an Imaginary Beloved, «Journal
of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIV (2001), pp. 55-192, in part. p. 88, nota
100. Sul Petrarca del calligrafo padovano Bartolomeo Sanvito si veda SILVIA MADDALO,
Sanvito e Petrarca. Scrittura e immagine nel codice Bodmer, Messina, Centro Interdipartimen-
tale di Studi Umanistici, 2002. Sull’illustrazione di altri esemplari aldini del Canzoniere
si ricorra invece a HELENE SZÈPE, The Book as Companion, the Author as Friend: Aldine oc-
tavos illuminated by Benedetto Bordon, «Word and Image», XI (1995), pp. 77-99.
18 Cfr. The Painted Page. Italian Renaissance Book Illumination 1450-1550, a cura di
JONATHAN J.G. ALEXANDER, London-Munich, Prestel, 1994, pp. 238-242, schede nn.
127, 129, 130; MARIA FRANCESCA SAFFIOTTI DALE, Raymond de Lodève, Vincent, in
Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, a cura di MILVIA BOLLATI, Mi-
lano, Sylvestre Bonnard Edizioni, 2004, pp. 899-902.
19 Anticipo qui alcune considerazioni generali sull’aldina di Chatsworth che ver-
ranno riprese ed esemplificate in modo più circostanziato nel corso del saggio di com-
mento. Questo esemplare illustrato sarà oggetto di uno studio monografico di prossi-
ma pubblicazione.

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UNA QUESTIONE DI SGUARDI

(nonché dell’intera raccolta), e che dall’altra si distingue per un


intrinseco tono gnomico che gli infonde autonomia dal testo. Si
tratta di un verso al contempo puntuale e generico, e quindi il
suo prelievo facilita la trasposizione di una vicenda individuale su
un piano esemplare di generale validità. Meditando su queste ve-
re e proprie imagines agentes e affidandole alla memoria, il lettore
può giungere a una migliore comprensione dell’esperienza amo-
rosa in generale e del discorso lirico in particolare, nonché con-
servare un più saldo e immediato ricordo delle poesie (o dei sin-
goli versi) associate a tali illustrazioni. L’apparato illustrativo pro-
pone un’interpretazione del fragmentum petrarchesco e talora sug-
gerisce relazioni tra il passo in questione e altri testi del Canzo-
niere o estranei ad esso. La ricorrenza con minime variazioni di
alcuni motivi iconografici induce infatti il lettore a stabilire con-
nessioni intertestuali tra fragmenta fra loro distanti. Frequente è, ad
esempio, la rappresentazione dello scontro tra predatore e preda,
che visualizza un elemento costitutivo della poetica petrarchesca
nonché un motivo topico del petrarchismo cortigiano. Ugual-
mente insistito è il ricorso al tema della metamorfosi, centrale nel-
la retorica erotica e fondante il discorso poetico di Petrarca.Tra le
illustrazioni dell’aldina di Chatsworth troviamo sia metamorfosi
vegetali o animali di figure umane, sia figure di animali antropo-
morfizzati. E queste connessioni visuali fra testi spesso non conti-
gui ci segnalano talora percorsi di lettura del Canzoniere paralleli
e intrecciati rispetto al racconto lirico delineato da Petrarca. Non
sempre però l’esegesi figurativa è fine e pertinente. Talora l’abbi-
namento delle vignette ai versi si giustifica solo in ragione del fat-
to che le prime raffigurano topici simboli amorosi, e i secondi so-
no formule di repertorio del genere. Un esempio estremo ci vie-
ne offerto alla c. 86v, dove il fragmentum 213 offre i motti a otto fi-
gure di piena spendibilità emblematica (fig. II). Proprio questa il-
lustrazione mi consente però di affrontare un’altra importante pe-
culiarità dell’apparato illustrativo dell’aldina di Chatsworth.
Le vignette non servono infatti soltanto a illustrare il con-
tenuto del testo di Petrarca, a favorire il ricordo dei versi e del-
l’imagery del Canzoniere, e a suggerire l’interpretazione di al-
cuni suoi brani attraverso la creazione di connessioni interte-
stuali. Le vignette servono anche a produrre nuova poesia,
nuovi testi poetici di configurazione emblematica. Alla fine

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. II. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 86v.
Devonshire Collection, Chatsworth.

dell’aldina, e rilegato con essa, troviamo infatti un documento


manoscritto di 4 fogli in pergamena, redatto in un’elegante
cancelleresca formata (mano di Francesco da Monterchi, già co-
pista del Farnese Golden Hours, ms. M.69 della Pierpont
Morgan Library di New York) e introdotto da un frontespizio
che recita NOVE / IMPRESE ET / STRAMBOTTI DI / MESSER /
EURIALI / ASCVL. Attivo tra la corte di Leone X e il circolo se-
nese di Tolomei, citato da Aretino, Cellini e Caro, celebrato da
Ruscelli per l’argutezza delle imprese e dei motti concettosi,
Aurelio Morani de’ Guiderdocchi (1485-1554) è un tipico
esponente del petrarchismo cortigiano di primo Cinquecento.20
Tra le sue opere si ricordano soprattutto due volumi di epi-

20 Cfr. GIUSEPPE CRIMI, Morani, Aurelio (Eurialo da Ascoli), in Dizionario biografico


degli italiani, vol. LXXVI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 499-502.

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UNA QUESTIONE DI SGUARDI

grammi latini, una Vita disperata in ottave, e una raccolta di Stan-


ze sopra vari soggetti. Le poche notizie biografiche possedute ci te-
stimoniano anche la sua abilità di disegnatore, e ricordano che
decorò con alcuni emblemi un codice del Canzoniere di Pe-
trarca. Di questo documento si sono perse le tracce, ma l’ap-
pendice manoscritta all’aldina di Chatsworth sembra conferma-
re l’interesse del letterato per le dinamiche di elaborazione sim-
bolica dell’immaginario petrarchesco, e per le modalità di atti-
vazione degli emblemi potenziali insiti nella sua scrittura lirica.
Il manoscritto riporta sedici stanze. Ogni stanza è introdotta da
un verso di Petrarca. Accanto a questa specie di intitolazione
viene indicata la carta dell’aldina in cui si trova il fragmentum re-
lativo al verso. Di seguito a questo abbiamo la dichiarazione del
soggetto simbolico che in quella precisa carta viene visualizzato
e associato al verso. Infine c’è la stanza, il cui ultimo verso ri-
produce quello petrarchesco prima selezionato. Vediamo, ad
esempio, una delle stanze manoscritte, implicata proprio con l’il-
lustrazione del sonetto 213:

c. 86 Grazie ch’a pochi il ciel largo destina


Parla la Fenice
Chi porta al nido suo sì ricchi odori?
E chi more e rinasce e vive sola?
Chi nel collo e ne l’ali ha li ostri e li ori?
E chi tanta beltà dal cielo invola?
Chi con sue penne fa sì bei lavori?
E chi pel almo ciel s’altera e vola?
Se non io, ch’aggio in me sì pelegrina
Grazia, ch’a pochi il ciel largo destina.

Assistiamo dunque a un processo che prevede: la lettura di un


fragmentum petrarchesco; la selezione di un suo verso; l’associa-
zione di questo verso a un’immagine che illustra e/o interpreta
il contenuto del fragmentum; e infine, la dinamizzazione dell’im-
magine, il cui soggetto iconografico diventa il soggetto lingui-
stico o testuale (l’enunciatore o il contenuto) di un nuovo testo,
che serve al contempo da memoria poetica dell’opera di Petrar-
ca. Collegando fra loro, secondo le coordinate fornite da Mora-
ni, i frammenti iconici e testuali sparsi nello spazio fisico dell’al-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

dina, ogni lettore si trova di fatto implicato in un processo di


composizione impresistica e, in un certo senso, rivive l’esperien-
za di appropriazione simbolica del dettato lirico petrarchesco
realizzata nella prima età moderna dall’emblematista (l’autore e
il lettore di emblemi); da chi anatomizza il corpo dei testi e del-
le immagini per estrapolarne un segno da ricontestualizzare, co-
me nuovo fragmentum, in una differente esperienza espressiva.
Il caso dell’aldina di Chatsworth – tutt’altro che piano, e an-
cora da decifrare appieno nella sua complessità – mi sembra par-
ticolarmente significativo nel quadro, anche teorico, di una ri-
cerca che vuole essere duplice. Primariamente, essa intende ana-
lizzare le modalità di realizzazione di un’esperienza di ricezione
del testo petrarchesco che si configura come una sua transcodi-
ficazione (e per estensione, quindi, indagare il meccanismo di
composizione emblematica tout court). In seconda istanza, mira a
leggere il testo petrarchesco alla luce di queste sue traduzioni vi-
sive, nella speranza di cogliere punti di vista interpretativi sfug-
giti a un’ermeneutica concentrata sul solo dominio verbale. Os-
servando come le singole componenti testuali e le loro moda-
lità di interrelazione sono state percepite, interpretate e poi tra-
dotte dal codice testuale al codice iconico, si potrebbe infatti
tentare: 1) di ricostruire un ulteriore punto di vista rinascimen-
tale sulla poesia petrarchesca; 2) di passare da un’indagine sulla
ricezione a un’indagine attraverso la ricezione.21 Per quest’ulti-
mo aspetto, potremmo forse ricorrere a quella pratica analitica
di iconologia dello sguardo che, secondo Hans Belting, si fonda
sulla dialettica immagine/sguardo, e suggerisce un approccio
performativo alla lettura dell’immagine:

[...] i nostri sguardi producono autonomamente


immagini del mondo, immagini che noi conserviamo
per classificarle poi ad un secondo sguardo. Eppure su

21 Si ricordi, a proposito, una considerazione di buon senso formulata da GIO-


VANNI POZZI, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981, p. 84: «[...] il fatto che le paro-
le non soccorrano in modo esplicito, ma vogliano essere disserrate con chiavistelli di
fortuna, non toglie che l’interprete non possa emettere ipotesi che accrescano il si-
gnificato del messaggio; il rischio che si attribuiscano all’autore significati da lui non
previsti è uguale al suo rovescio, di non riconoscergli quanto egli affidò a riferimenti
che sfuggono alla nostra percezione».

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UNA QUESTIONE DI SGUARDI

schermi, fotografie e dipinti – dunque su dispositivi


mediali – troviamo concorrenti in forma di immagi-
ni che noi abbiamo prodotto e di cui ci dobbiamo ap-
propriare affinché anche per noi si trasformino in im-
magini. Qui il nostro sguardo si ritrova – da ogni pun-
to di vista – in società, cioè impegnato come sguardo
del singolo in un’esperienza collettiva.22

Se applicassimo lo stesso schema analitico alla nostra ri-


cerca, il mondo reale aperto allo sguardo coinciderebbe col
testo verbale di Petrarca, testo/mondo che noi potremmo
leggere/guardare direttamente, generando una relazione er-
meneutica testo verbale-interprete; oppure indirettamente,
generando una relazione ermeneutica testo verbale-testo ico-
nico-interprete.23 In questa relazione ermeneutica gli emble-
mi e le imprese si offrono come dispositivi mediali che co-
stituiscono uno sguardo sociale sul testo.24 Uno sguardo al-
ternativo, concorrente, ma soprattutto integratore, rispetto al
nostro personale sguardo interpretativo.25 Uno sguardo che si

22 HANS BELTING, Per una iconologia dello sguardo, in Cultura visuale. Paradigmi a con-
fronto, a cura di ROBERTA COGLITORE, Palermo, duepuntiedizioni, 2008, pp. 5-28, cit.
a p. 5. Si veda anche HANS BELTING, Image, Medium, Body: A New Approach to Iconology,
«Critical Inquiry», XXXI (2005), 2, pp. 302-319, in part. p. 302: «Images are neither
on the wall (or on the screen) nor in the head alone. They do not exist by themselves,
but they happen; they take place whether they are moving images (where this is so ob-
vious) or not. Thay happen via transmission and perception».
23 Cfr. DANIEL RUSSELL, Emblematic Structures in Renaissance French Culture,Toron-
to, University of Toronto Press, 1995, p. 7: «The emblematic image is a detachable, or-
namental image, but by the very fact that it can stand alone, detached from the deve-
lopment it is intended to support and illuminate, it is also indipendent from that de-
velopment, and provides an open field for the free association of the reader. It is no
longer held captive by this signifié, and as if absorbed by it».
24 Cfr. MEYER SHAPIRO, Parole e immagini. La lettera e il simbolo nell’illustrazione di un
testo, Parma, Pratiche, 1985 [I ed. ingl. 1973], p. 12: «Se gli studi iconografici sono di par-
ticolare interesse è proprio perché, indagando le trasmutazioni pittoriche di un singolo
testo nel corso del tempo, rivelano il mutare delle idee e dei modi di pensare».
25 Cfr. PETER M. DALY, Literature in the Light of the Emblem,Toronto,Toronto Uni-
versity Press, 1998, p. 205: «The emblem books provide an important cross-reference
for the meaning of motifs in poetry. The compilers of emblem-books were frequen-
tly poets themselves, and when that was not the case, they shared the same kind of
education and world-picture. The emblem-books indicate what educated readers
knew about nature, history, and mythology, and furthermore how they interpreted
this knowledge. [...] By comparing literature with emblem-books we may determine

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A. TORRE, VEDERE VERSI

permette la rifunzionalizzazione simbolica del testo petrar-


chesco, contando sul fatto che sia il Canzoniere sia la strati-
ficata memoria poetica che esso veicola sono ormai compo-
nenti stabili di una memoria culturale collettiva.26 Per com-
prendere al meglio la riscrittura emblematica, dovremmo
dunque tener sempre presente il testo di Petrarca, leggerlo in
funzione del testo iconico, e concentrarci sulle strutture ver-
bali e sui nuclei concettuali del testo poetico messi in evi-
denza nelle strutture visive delle illustrazioni. Il nostro sguar-
do dovrà farsi strabico per cogliere appieno il dialogo tra il-
lustrazioni e testi, e indagare i rapporti di forza tra codice te-
stuale e codice iconico, tra parola petrarchesca e immagine
emblematica.27
Un caso esemplare di circolarità ermeneutica tra testo
petrarchesco e immagine simbolica si registra, a mio avviso,
tra le pale della Crusca. A suggerirlo, senza però poi illu-
strarlo nella sua compiutezza, è la magistrale lettura che di
esse ci offre Giovanni Pozzi. Impegnandosi a «reperire i mo-
vimenti della macchina concettuale che genera il senso» di
queste imprese e fa di esse un complesso fenomeno d’inter-
testualità, Pozzi riesce a delineare la grammatica attraverso
cui gli accademici attingevano liberamente dai Fragmenta

which words and objects were capable of visualization, and establish the basic mea-
nings associated with those objects, all of which can increase our understanding of six-
teenth and seventeenth-century literature».
26 Cfr. JOHN SHEARMAN, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. «Only con-
nect...», Milano, Jaca Book, 1995 [I ed. ingl. 1992], p. 78: «Non di rado si ripete che le
arti visive differiscono da quella letteraria in quanto non possono affrontare una se-
quenza di momenti, tranne che per mezzo di una narrazione multipla, ed è interes-
sante vedere se questa dichiarazione è proprio vera. La mia idea è che gli artisti del
tardo Rinascimento abbiano cominciato a descrivere una sequenza, o degli episodi
consecutivi, approfittando della familiarità dello spettatore con tipi d’immagini usate
d’abitudine nel momento successivo o precedente di una vicenda narrativa. Familia-
rità e aspettativa consentono, allora, di capire la ‘genealogia del momento’, la sequen-
za che vi è implicita anche se non viene illustrata».
27 Cfr. ÒLIVIA ROSENTHAL, Donner à voir: écritures de l’image dans l’art de poésie au
XVIe siècle, Paris, Honoré Champion, 1998, p. 13: «Car si le poème cherche à se don-
ner comme une image, s’il cherche à devenir un objet appréhendable par le sens de la
vue, il lui faut, pour ce faire, inventer ses modes de présentation. Le poète invente ain-
si des stratégies, “feintises” par lesquelles il fait comme si le texte était offert au regard,
comme si le texte était portrait, tableau ou monument. Se met donc en place ce qu’on
pourrait appeler des fictions du visuel».

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UNA QUESTIONE DI SGUARDI

versi, emistichi o parole, per generare un motto, il cui signi-


ficato «può essere deviato (e spesso lo è) a indicare o il ro-
vescio o almeno altro da quello che significa il testo origi-
nale».28 Tra le imprese analizzate vi è quella di Baldassarre
Suarez, il Mantenuto (fig. III).

Fig. III. Imprese dell’Accademia della Crusca. Impresa di Baldassarre Suarez, il Mantenuto.

Il corpo è costituito da una forma di ricotta entro la quale


è inserita una fetta di pane. L’anima è l’emistichio petrarche-
sco PER ME NON BASTO, tratto da RVF 125, 33-37: «Ch’aver
dentro a lui parme | un che madonna sempre | depinge e de
lei parla: | a voler poi ritrarla | per me non basto, e par ch’io
me ne stempre». Il senso di questo ritratto cifrato e manifesto
d’intenti del neo-accademico Suarez è intelligibile tramite
proporzione: così come, secondo il sapere popolare, la ricotta

28 GIOVANNI POZZI, Imprese di Crusca [1985], in ID., Sull’orlo del visibile parlare, Mi-
lano, Adelphi, 1993, pp. 349-382, cit. a p. 349 e 355.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

non si mantiene se non vi si inzuppa del pane, l’individuo Bal-


dassarre Suarez non è nulla in sé se non viene mantenuto dalla
comunità accademica della Crusca e, integrandosi in essa, se
non ridefinisce la propria identità. Pozzi illustra il medesimo
messaggio parafrasando in termini analoghi la fonte petrar-
chesca del motto: «se levo (ritraggo) il pezzo di pane, per me
(ricotta) non basto (non mi conservo) e par ch’io me ne stem-
pre (mi disfaccia); dove stemprare ha senso analogo nei due
testi, ma metaforico nella fonte e proprio nell’impresa, [...]
mentre “ritraggo” ha nei due casi senso diverso».29
Proprio su quest’ultima figura di aequivocatio vorrei con-
centrare l’attenzione. Il distico che fa da ponte tra canzone
e impresa è parte di un più esteso passaggio in cui Petrarca
riprende sia il motivo provenzale dell’immagine memoriale
dell’amata dipinta nel cuore, sia la trovata dantesca di un
Amore pittore di questa imago. L’accezione artistica del pre-
dicato ritrarre è pertanto pienamente contestuale, e trova in-
fatti concordi tutti gli interpreti antichi e contemporanei
del Canzoniere. Rileggendo però questi versi con negli oc-
chi l’impresa del Mantenuto e nelle orecchie la parafrasi di
Pozzi – ossia proprio nella prospettiva di un emblematista
(di un autore e di un lettore di emblemi) – non pare più co-
sì peregrino chiedersi se anche all’interno del testo di Pe-
trarca non si possa cogliere il predicato nel senso di ‘toglie-
re, levare’. Avviando un ciclo di canzoni dal forte investi-
mento metaletterario, il fragmentum 125 affronta il problema
dello stile come possibile soluzione espressiva, e quindi li-
beratoria, alla congestione di immagini di Laura che occu-
pa il cuore, ossia la memoria, del poeta-agens e che, per ma-
no dell’artifex Amore, costantemente cresce su sé stessa (cfr.
vv. 30-32: «chi verrà mai che squadre | questo mio cor di
smalto | ch’almen com’io solea possa sfogarme?»). Si af-
fronta qui uno snodo chiave del Canzoniere, ossia l’ossimo-
rica, paradossale fluctuatio animi tra desiderio di Laura e fu-
ga dal suo dominio; fluctuatio che s’incarna nell’incapacità
e/o nella non-volontà dell’io lirico di conservare e ordina-

29 POZZI, Imprese di Crusca, cit., p. 364.

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UNA QUESTIONE DI SGUARDI

re – ossia comprendere e illustrare – i frammenti memoriali


dell’amata sparsi, senza soluzione di continuità, nel paesag-
gio fenomenico esterno e nell’interiorità psichica del pro-
tagonista.30 Sulla scorta dell’Augustinus del Secretum, po-
tremmo indifferentemente definire questo difetto di me-
moria una impossibilità di dimenticare o una impossibilità
di ricordare con metodo. Sulla scorta dell’io lirico, potrem-
mo parimenti leggerlo come una voluttà del ricordo, inte-
so quale unica forma di annullamento del tempo «in forza
della permanenza della visione»:31 «Ovunque gli occhi vol-
go | trovo un dolce sereno | pensando: “Qui percosse il va-
go lume”» (vv. 66-68). Sicché, parafrasando a nostra volta i
versi del fragmentum 125, si può dire: il poeta-amante non
riesce a ritrarre (estirpare) dalla propria memoria l’imma-
gine, per quanto ossessiva, di Laura perché senza di essa
non potrebbe sopravvivere. Come l’io lirico afferma nella
contigua canzone 127 – laddove Amore è ancora rappresen-
tato come colui che «ditta» il romanzo lirico entro il cuore-
memoria –: «Amor col rimembrar sol mi mantene» (RVF
127, 18, corsivo mio). Anche il Petrarca-agens potrebbe dun-
que ritrarsi simbolicamente nelle vesti di un Mantenuto.

30 Cfr. FREDI CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca, Firenze, Olschki, 1971,
p. 31: «L’invenzione è sollecitata nell’idea di ritrovare in ogni orizzonte, e sulla più va-
ria gamma di apparenze, l’emblema, lo schema simbolico di un avvenimento che fu
così netto e decisivo da modificare appunto ogni orizzonte, ogni apparizione possibi-
le dell’esistenza».
31 SABRINA STROPPA, Francesco Petrarca. L’artista da vecchio, «Nuova informazione
bibliografica», VI (2009), pp. 633-660, in part. pp. 648-649: «La memoria è la facoltà
quasi unicamente e visibilmente attiva nelle rime, giacché per suo mezzo l’Io non so-
lo ripensa la visione, ma ritorna, letteralmente, nel giorno in cui essa avvenne, annul-
lando il tempo. Del resto, “piaga per allentar d’arco non sana”, ragiona con lucido spa-
vento l’amante alla fine del sonetto che pare presentare la visione più attuale e viva
dell’intero canzoniere, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Rvf 90, con pronuncia segreta
del Nome di lei), e che invece è pur esso attualità e presenza di memoria, di quella
memoria che non è tanto, a questa altezza, dolente misura del tempo trascorso, ma
piuttosto annullamento d’esso in forza della permanenza della visione. Non incide sul-
la “piaga” inferta il fatto che ‘ora’ siano “scarsi” di ardore quegli occhi che ‘allora’ ne
sfavillavano; né importa che non sia più “tale” quel “vivo sole” veduto in quel giorno
lontano (vv. 4, 13): il tempo può modificare il volto della donna, ma non la profondità
di una ferita inferta una volta per sempre, e rinnovata non dalla quotidianità, ma dal-
la memoria […]».

23
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A. TORRE, VEDERE VERSI

E dichiarare, con questa nuova voce, un progetto poetico,


un’intrapresa, posti sotto il segno della memoria: «Ad una ad
una annoverar le stelle, | e ’n picciol vetro chiuder tutte
l’acque, | forse credea, quando in sì poca carta | novo pen-
ser di ricontar mi nacque» (vv. 85-88).32

32 Cfr. KARLHEINZ STIERLE, Un manifesto del nuovo canto (RVF 120-129), in Il


Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a cura di MICHELANGELO PICONE, Ravenna,
Longo, 2007, pp. 295-312, in part. p. 304: «In Petrarca quest’immagine diviene me-
tafora dell’impossibilità di racchiudere gli aspetti infiniti del mondo – confrontati con
la bellezza incomparabile della donna – nello spazio ristretto di una canzone: [...]. Il
componimento fallisce nella rappresentazione della totalità del mondo e quindi nella
lettura dei segni della presenza unica di Laura disseminata nella memoria; l’autore in-
vece non fallisce nel suo “novo penser di ricontar” (v. 88), con cui non segue più l’or-
dine della narrazione ma l’ordine lirico di un mondo frammentato che si relaziona coi
frammenti della memoria».

24
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Emblemi in atto e frammenti in progress

Attraverso un continuo e bidirezionale movimento analiti-


co dal testo poetico all’immagine simbolica e dall’immagine
simbolica al testo poetico si è cercato di indagare il significato
dei trentacinque emblemi33 conservati nel ms. W476 della
Walters Art Gallery di Baltimore – qui di seguito riprodotto
anastaticamente –, nonché ovviamente di individuare il senso
complessivo, o prevalente, dell’intero corpus.
Il manoscritto statunitense – segnalato da Joseph Trapp –34
consta di 35 fogli pergamenacei modernamente numerati, del-
la dimensione di 235 × 170 mm ca., ognuno dei quali riporta
sul recto un medaglione, contraddistinto da una cornice in tin-
ta Siena bruciata. Ogni medaglione contiene un’immagine raf-
figurante di volta in volta animali o esseri umani che agiscono
all’interno di un paesaggio. A completare la struttura emble-
matica, ogni illustrazione è seguita da un motto in caratteri
maiuscoli e da un brano in scrittura corsiva che, più o meno
diffusamente, descrive e tenta d’interpretare il significato del-
l’immagine simbolica. Il commento, che s’interrompe brusca-
mente al f. 33 e tradisce una pàtina linguistica d’area padana

33 Per comodità chiamerò ‘imprese’ solo quelle denunciate come tali o quelle di
cui è dichiarato un possessore; in tutti gli altri casi si ricorrerà invece al termine ‘em-
blemi’, da cogliere però nell’accezione più estesa di ‘espressione simbolica’.
34 Cfr. JOSEPH B. TRAPP, The Iconography of Petrarch in the Age of Humanism, «Qua-
derni petrarcheschi», IX-X (1992-1993), pp. 1-74, in part. p. 26: «In general, the arti-
sts – such as the English miniaturist Nicholas Hilliard – do better with what is loo-
sely called Petrarchan imagery: of the lover in flames, tortured, constant and unconsu-
med, for example, like the indico lin of the emblem, which also derives from Petrar-
chan sources. Interesting in its own right, and reminiscent of the illustration of the
Brescia incunable (including its artistic quality), is a remarkable Italian sixteenth-cen-
tury Petrarchan emblem-book, in which a series of twenty images drawn from the
Canzoniere and the Trionfi, with a dozen or so others from the Ovid and the Psalms
are illustrated and moralized».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

orientale, si presenta in forma più semplificata rispetto alle


esplicazioni che accompagnano le maggiori raccolte a stampa
di emblemi e imprese. Rari sono i riferimenti alle fonti classi-
che del concetto simbolizzato, del tutto assenti i richiami ad al-
tre occorrenze dei motivi emblematici presentati. L’intervento
si limita alla segnalazione della fonte letteraria del motto e al-
la spiegazione del messaggio morale veicolato dall’emblema,
messaggio quasi sempre circoscritto all’ambito amoroso.
Il codice è stato acquistato dalla Walters Art Gallery presso
la libreria antiquaria di Leo Olschki, e riporta il numero di in-
ventario 33557. Non mi è stato possibile reperire altre infor-
mazioni circa la sua provenienza. De Ricci e Dutschke, nella
schedatura dell’esemplare per i loro censimenti di manoscritti
conservati presso le biblioteche statunitensi, sono propensi ad
attribuire la composizione e la miniatura del manoscritto a
uno o più artisti attivi nell’Italia settentrionale durante la se-
conda metà del XVI secolo.35 Oggetto prezioso ma incom-
piuto, il codice conosce con ogni probabilità la collaborazione
di vari artefici, sull’identità dei quali le scarsissime notizie in
nostro possesso non hanno fornito alcuna delucidazione. Il
tratto delle figure può forse essere accostato a quello manieri-
sta di autori formatisi nell’ambiente farnesiano di metà Cin-
quecento, dominato dai vari Perin del Vaga, Francesco Salvia-
ti, Guglielmo della Porta, Federico e Taddeo Zuccari, etc. Per
l’illustrazione è impiegata una tecnica di tempera a guazzo, ben
curata ma forse non sempre compiuta, come mostrano i casi in
cui mancano i contorni delle figure, sempre eseguiti dopo la
loro colorazione. Potrebbe essere questo un ulteriore indizio
del carattere di incompiutezza dell’opera; incompiutezza già
peraltro segnalata dall’interruzione repentina della stesura del-
le didascalie di commento in prossimità degli ultimi fogli del
codice. Per rendere ancor più complesso il quadro delle mae-
stranze coinvolte possiamo inoltre notare che le didascalie di
commento sono opera di due differenti mani che intervengo-

35 Cfr. SEYMOUR DE RICCI, Census of Medieval and Renaissance Manuscripts in


the United States and Canada, New York, Kraus, 1961, 3 voll., vol. I, p. 828; e DENNIS
DUTSCHKE, Census of Petrarch Manuscripts in the United States, Padova, Antenore,
1986, pp. 45-49.

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

no alternativamente all’interno dell’esemplare. La prima mano,


che chiameremo A, è rinvenibile in 19 carte (cc. 1-6, 10-11,
14-15, 18-19, 25-28, 30-32) caratterizzati da una grafia corsi-
va cinquecentesca più piccola e inclinata nonché da un regi-
stro di scrittura molto compatto che riduce al minimo l’inter-
linea. La seconda (B) interviene invece su 13 carte (cc. 7-9, 12-
13, 16-17, 20-24, 29), disponendosi generalmente in modo più
curato, disteso e regolare nello spazio della pagina. Entrambe le
mani si collocano ben dentro il XVI secolo, e più precisamen-
te tra la metà e il terzo quarto del secolo; con la minima dif-
ferenza che la mano B ricorda di più esempi degli anni Ses-
santa/Settanta, mentre la mano A, più formale, sembra ancora
legata a processi educati nei decenni precedenti. Più tarda an-
cora sembra la rilegatura, collocabile con ogni probabilità en-
tro il XVII secolo.36
L’incertezza sull’assetto codicologico del volume, la cui
forma attuale risale a un momento successivo alla scrittura
delle carte, lascia aperto il problema dell’ordinamento dei
singoli emblemi entro la macrostruttura della raccolta, ossia il
problema del senso di una possibile lettura sintagmatica del-
la serie simbolica còlta nella sua interezza o franta in sequen-
ze più circoscritte. Come si mostrerà meglio nel saggio di
commento – che si pone rispetto a questa introduzione in un
rapporto dialettico analogo a quello inscriptio-subscriptio attivo
nell’emblema – la semplice ricorrenza di alcuni motivi ico-
nografici in espressioni simboliche differenti suggerisce con-
nessioni semantiche tra di esse, e induce a verificare l’ordine
e il significato di discorsi che si articolano in più momenti.
Allo stesso tempo la presenza pertinente di queste micro-se-
quenze lascia intravvedere la possibilità di ricostruire un or-
dine sintattico e un discorso complessivo all’interno della sil-
loge. La serie relativa alla ruota di fortuna (emblemi 8, 20 e

36 Cfr. DUTSCHKE, Census of Petrarch Manuscripts in the United States, cit., p. 45:
«Binding, green parchment over paper boards, double gold fillet border on sides and
on spine: similar to the Archinto binding». L’ipotesi di Dutschke potrebbe implicare
l’appartenenza del volume alla biblioteca del conte Carlo Archinto di Milano (1669-
1732), ma nel codice non vi è traccia del monogramma «Archintea Laus» che di soli-
to marca i libri da lui posseduti.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

21) è, in tale prospettiva, un caso indicativo e un testimone


convincente, dal momento che, oltre al dettaglio iconografi-
co, i tre emblemi sembrano condividere anche l’estraneità del
motto dalla fonte petrarchesca. Se decidiamo di ricomporre
la sequenza (ma anche se la leggiamo, come tale, nel suo di-
sarticolato intrecciarsi col restante contenuto della silloge), ci
si prospetta un messaggio complessivo chiaro, e che non sem-
bra variare a seconda dell’ordine di lettura adottato. Con l’u-
nica avvertenza che, in un caso, dobbiamo concentrarci mag-
giormente sulla componente iconica, e nell’altro sull’ele-
mento testuale. La successione dei motti secondo l’ordine del
manoscritto (ossia, dall’8 al 21) ci racconta una storia di af-
fanni, peripezie e vittoria finale, in cui il soggetto rappresen-
tato (e, auspicabilmente, il soggetto utente che in tali emble-
mi si specchia per rinvenirvi un indirizzo di vita) si trova,
dapprima, a partecipare all’immutabile condizione di Issione
(vincolato però alla ruota non per scontare un peccato ma per sal-
vaguardare il proprio onore); successivamente, a credere che nul-
la è meglio che affidarsi alla virtù dopo esser stato in balìa del-
la sorte; infine, a divenire egli stesso ruota della fortuna, sog-
getto padrone di sé e governatore di ogni elemento del rea-
le (omnia subiecisti). Se invece leggiamo la sequenza in senso
invertito rispetto alla disposizione entro il codice (dall’em-
blema 21 all’8, quindi), il progressivo articolarsi dell’illustra-
zione sembra testimoniare il medesimo graduale affranca-
mento dal dominio del destino: assente nella prima immagi-
ne (dove campeggia sola e onnipotente la ruota), l’individuo
viene infatti immortalato nella seconda proprio mentre si
sforza strenuamente di resistere al movimento della sorte
(cercando l’aiuto dell’esatto contrario di questa, la ragione o
la virtù), e nella terza viene infine ritratto alla guida di essa,
nell’atto di girare egli stesso la ruota di fortuna, di farsi effet-
tivo faber fortunae suae. Come sembra indicare anche la data-
zione della rilegatura del codice, la proposta più economica
e plausibile da formulare circa la generale morfologia della
raccolta pare allora quella che ne riconosce una configura-
zione composita, determinata dalla collazione non logica (o
narrativa) di frammenti emblematici, i quali però tradiscono,
per aree e gruppi, la predisposizione ad aggregarsi tra loro,

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

nella tensione a comunicare più o meno esplicitamente un


unico (o principale) messaggio.
Seppur con un differente grado di intensità e di obliquità
d’espressione, pressoché tutti i medaglioni sembrano infatti
preposti alla strategica stigmatizzazione dell’amore sensuale
che attanaglia l’amante con i suoi perniciosi effetti; all’altret-
tanto programmatica esaltazione del potere di un’amata ritrat-
ta nelle vesti trionfali della Pudicizia (che sola riesce a vincere
l’onnipotente Cupido); e all’insistita celebrazione del vincolo
coniugale quale più opportuna e fertile forma di relazione
amorosa. Un’indicazione interessante, che conferma una siffat-
ta dialettica tra amor casto e amor lascivo, ci viene offerta dal-
l’esame delle fonti delle inscriptiones, che segnala la presenza di
due esclusivi ambiti di riferimento. I trentacinque motti degli
emblemi del codice si dividono infatti, non equamente ma
proporzionalmente, tra la produzione lirica petrarchesca e le
sacre scritture. Nello specifico, possiamo rilevare che diciotto
motti derivano dal Canzoniere (3, 5, 7, 9, 10, 11, 13, 15, 18, 22,
25, 26, 27, 28, 29, 31, 33, 34), quattro dal terzo capitolo del
Triumphus Cupidinis (1, 2, 14, 19), dieci dai Salmi davidici (4, 6,
16, 17, 20, 21, 24, 30, 32, 35) e uno dal vangelo di Giovanni
(23); in due casi non mi è stato possibile identificare la fonte
poetica volgare (8, 12). Che l’inventor della serie simbolica mi-
rasse probabilmente alla definizione di un esemplare ed enco-
miastico triumphus pudicitiae, lo rivela anche il ricorrere di temi
iconografici e concettistici che contribuisce a ordire una tra-
ma di connessioni semantiche tra gli emblemi. Penso al moti-
vo iconografico della palma (presente negli emblemi 1, 20, 33),
simbolo di castità e insegna del matrimonio, che si contrappo-
ne a topici figuranti dei tormenti della lussuria, quali il ser-
pente (2, 16) e il fuoco (5, 29, 31). Penso anche alle occorren-
ze, spesso dialoganti a distanza, di metafore primarie della scrit-
tura lirica, che visualizzano icasticamente la paradossale condi-
zione dell’amante: la già citata ruota della sorte (8, 20, 21) ma
anche la barca (18, 28) e la prigione corporea (6, 15, 19, 26).
Penso infine all’immagine della pantera che, nel breve giro di
due emblemi contigui, delinea la rappresentazione del passag-
gio (moralisticamente strategico) dal pericoloso amore dei
sensi (24) al misericordioso amore della carità (23), dall’oblio

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A. TORRE, VEDERE VERSI

indotto dalla voluttà alla grata memoria dei benefici ricevuti.


La presenza di alcune costanti tematiche, e il ruolo da esse gio-
cato nella definizione di un discorso interno alla silloge, lascia
dunque intravvedere nella raccolta gli estremi di un dono ga-
lante (già offerto o ancora da confezionare) che celebra la ca-
stitas di una donna e l’effetto benefico (quasi salvatore) da essa
prodotto in una relazione amorosa della quale si constata, o
prospetta, il pieno compimento in un vincolo matrimoniale.
Se questa può essere una plausibile linea di lettura del corpus
simbolico, ancora non chiara (e forse difficile da stabilire con
certezza) risulta la modalità attraverso cui l’ideatore del ciclo
intendesse comunicare il messaggio. Affrontare la questione
implica anche interrogarsi sulla natura del documento che si
sta analizzando nel suo complesso e nella sua materialità, non-
ché sullo statuto degli oggetti che sono in esso rappresentati.
Dovremmo pertanto chiederci se la narrazione simbolica per-
cepibile lungo i trentacinque emblemi sia stata delineata per
dimorare all’interno di un libro, oppure – come sembra più
probabile – per approdare a una delle varie forme artistiche
che possono ospitare un emblema o un’impresa. Un pur rapi-
do sguardo alle arti applicate (nelle diverse tecniche e tipolo-
gie: dall’oreficeria alla numismatica) o alla pittura (nei cicli di
affreschi e nella ritrattistica) lascia infatti emergere l’aspetto più
strettamente materiale di questa forma comunicativa, e ne sug-
gerisce l’articolata funzionalità pratica all’interno delle molte-
plici esperienze culturali, tanto sacre quanto profane, del Ri-
nascimento e del Barocco. Fin dagli albori della trattatistica re-
lativa alla letteratura per immagini,37 ma anche in più neutri
documenti letterari, ci viene ricordato che nella civiltà corte-
se emblemi e imprese erano applicati ad armature e scudi, era-
no dipinti su stendardi, incisi su medaglie, oppure esposti su
abiti e cappelli, ricamati o in forma di gioiello:

37 Cfr., ad esempio, questa affermazione di Girolamo Ruscelli riportata in GIO-


VIO, Ragionamento, cit., p. 172: «Nellanostra lingua molto leggiadramente si accomo-
dano i versi interi, come i sopraposti essempi. Et in mezi versi ancora ne sono alcuni
[motti] molto vaghi. Sì come è quello che in una cartiglia d’oro porta sopra la berretta il mio
signor Curzio Gonzaga, che è in quel mezo verso del Petrarca CHIVSA FIAMMA È PIV
ARDENTE» (corsivo mio).

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

Ora per narrarvi l’istoria che v’ho promessa, vi


dico che in Milano fu, e ancora forse è, un giova-
ne nobile e molto ricco, il cui proprio nome per
ora vo’ tacere per buon rispetto, e lo domandere-
mo fintamente Simpliciano. Era egli bello de la
persona e vestiva molto riccamente, e spesso di ve-
stimenta si cangiava, ritrovando tutto il dì alcuna
nuova foggia di ricami e di straffori e altre inven-
zioni. Le sue berrette di velluto ora una medaglia e ora
un’altra mostravano.38

Gli studi di Yvonne Hackenbroch hanno ben illustrato l’e-


stensione e la complessità del fenomeno di costume descritto
da Bandello, e tra le testimonianze da lei riportate possiamo
rinvenire valide suggestioni per definire, se non la natura, al-
meno lo statuto dell’oggetto che si va qui a presentare. Pensia-
mo, ad esempio, ai disegni di Hans Holbein il Giovane prepa-
ratori la realizzazione di spille e medaglioni offerti alle dame
della corte Tudor: le scene allegoriche e mitologiche ivi illu-
strate appartengono, per forme e funzioni, al ricco repertorio
della produzione emblematico-impresistica (fig. IV). Pensiamo,
anche, allo smalto di Limoges sovra cui un artista della botte-
ga di Pierre Reymond dipinge a metà del XVI secolo la sce-
na di un dono floreale dell’amante all’amata, e la correda del
motto PRENES ANGRE SE PETIT DONT: al netto dell’ambienta-
zione cortese, lo smalto illustra in forma emblematica una si-
tuazione di omaggio amoroso assai affine a quelle presentate
nel, e rappresentate dal, nostro codice (fig. V). Oppure, pensia-
mo a uno dei vari casi di medaglie da berretto visibili nella ri-
trattistica cinquecentesca; ad esempio, all’effigie di un membro
della famiglia Gonzaga, eseguita da Bartolomeo Veneto e dove
è possibile vedere sul medaglione che decora l’elegante copri-
capo l’immagine di un naufragio accompagnata dal cartiglio
ESPERANCE ME GUIDE (figg. VI-VII). L’uomo che osserva sconso-
lato l’albero maestro abbattuto e cerca di salvarsi aggrappando-
si a una pianta verde non sembra molto diverso dal naufrago

38 MATTEO BANDELLO, La seconda parte de le novelle, a cura di DELMO MAESTRI,


Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993, novella XLVII p. 459 (corsivo mio).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. IV. HANS HOLBEIN IL GIOVANE, Disegni per spille o medaglie.


Devonshire Collection, Chatsworth.

Fig. V. PIERRE REYMOND (bottega di), Smalto di Limoges dipinto,


Basel, Historisches Museum, Amerbach Kabinett.

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

Fig. VI. BARTOLOMEO VENETO, Giovane gentiluomo, Houston, Texas,


Museum of Fine Arts, Edith A. and Percy S. Strauss Collection.

Fig. VII. BARTOLOMEO VENETO, Giovane gentiluomo, Houston, Texas,


Museum of Fine Arts, Edith A. and Percy S. Strauss Collection (particolare).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ritratto nell’emblema 28 del codice di Baltimore; emblema che


individua icasticamente il senso del motivo petrarchesco della
navigatio nella constatazione che l’abbandono alle passioni non
può che condurre a «desperar del porto» (RVF 189, 14).39 En-
tro un contesto di emblematica applicata, entro una generale
grammatica simbolica che investe ogni esperienza sociale del
vivere, il codice di Baltimore potrebbe dunque configurarsi
come la bozza di un programma iconografico ancora da rea-
lizzare, o come il resoconto di un’esperienza artistica già com-
piuta.40
Le pochissime informazioni reperite intorno al mano-
scritto e le risultanze dell’analisi degli emblemi non ci con-
sentono di fornire una risposta esauriente alle questioni sol-
levate, semmai solo di delimitare il campo delle possibilità at-
traverso la formulazione di alcune ipotesi. Un dato di cui te-
ner conto per definire il contesto dell’indagine è sicuramen-
te la ricorrenza del termine «medaglia» nelle didascalie di
commento degli emblemi. Il vocabolo fa la sua comparsa in
12 delle 32 subscriptiones che accompagnano le immagini del
codice, e interessa sia gli emblemi di esibita pertinenza pe-
trarchesca, sia quelli che desumono il motto da altra fonte.
Otto sono le occorrenze in testi vergati dalla mano A, quat-
tro in quelli della grafia B. «Medaglia» è impiegato quattro
volte da solo, mentre nei restanti casi l’espressione viene spe-
cificata più nel dettaglio. In cinque didascalie (quattro della
mano A, una della B) si parla di «sopra depinta» medaglia,
precisazione che riverbera anche nelle più generiche affer-
mazioni «il sopra depinto» e «il sopradepinto atto» (sempre di
A). In due didascalie (entrambe della mano A) abbiamo poi
l’espressione la «sopra scritta» medaglia, mentre in un unico

39 Cfr. YVONNE HACKENBROCH, Enseignes. Renaissance Hat Jewels, Firenze, S.p.e.s.,


1996, esempi riportati rispettivamente alle pp. 332-334, 80-81 e 101-104. Si veda an-
che MARIO PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni, 1946, p. 55, nota 4.
40 Cfr. RUSSELL, Emblematic Structures in Renaissance French Culture, cit., p. 191:
«The notion of ‘applied emblematics’, then, encompasses both the use of symbolic
motifs in ways that can be characterized as emblematic in settings other than emblem
books, and the reception of discourse and art objects in ways that are conditioned by
a familiarity with the structure of emblems or other emblematic forms such as the im-
presa».

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

caso, per l’emblema 9, il commentantore B fa genericamen-


te riferimento a «lo inventore de la medaglia». Il termine
«medaglia» è comunque l’unico a cui si ricorre per definire
l’oggetto figurativo commentato nella didascalia. Resta da ca-
pire se esso vada inteso in un’accezione stretta o in termini
più generici.
In prima istanza pare del tutto plausibile riconoscere nel
vocabolo la definizione più corretta della tipologia formale
scelta per strutturare l’illustrazione, quella del medaglione, mo-
tivo ornamentale che delimita pitture o bassorilievi attraverso
un’incorniciatura circolare. Tipologia formale, peraltro, impie-
gata di frequente, nei libri e su ogni altra superficie, come “cor-
nice” di imprese ed emblemi:

Sì come nella gran volta, che in sei quadri scom-


partita era, si vedeva in ciascuno di essi, in vece di
que’ rosoni che comunemente metter si sogliono,
una impresa, o per più propriamente favellare un rovescio
di medaglia, accomodato alle due descritte istorie
delle pareti; et era in un di questi dipinto diverse sel-
le curuli con diversi fasci consolari, e nell’altro una
donna con le bilance, presa per l’Equità, significar
con ambi volendo le giuste leggi dover sempre alla
severità della suprema potestà congiugnere l’equità
del discreto giudice [...].41

La vita pre-letteraria delle imprese, la cui nascita precede di


oltre un secolo il primo trattato ad esse dedicato da Paolo Gio-
vio, si gioca anche negli spazi architettonici e artistici entro i
quali la società di corte costruiva e rendeva visibile una rap-
presentazione di sé: un caso fra gli altri, fortunatamente so-
pravvissuto alle ingiurie dei tempi, è la Rocca Estense di San
Martino in Rio, dove si conservano due cicli impresistici risa-

41 Il passo è tratto dalla Descrizione dell’Apparato delle Nozze di don Francesco dei
Medici e di Giovanna d’Austria presente nell’edizione giuntina delle Vite vasariane
(GIORGIO VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del
1550 e 1568, a cura di ROSANNA BETTARINI e PAOLA BAROCCHI, Firenze, S.p.e.s.,
1966-1967, vol. VI, p. 305, corsivi miei).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. VIII. ANONIMO, Impresa, Rocca Estense di San Martino in Rio (Reggio Emilia).

lenti al XV e al XVII secolo (fig. VIII). Ma il modello di riferi-


mento, in tal senso, è senza dubbio rappresentato dall’apparato
decorativo del palazzo di Borgo Vico, vicino a Como, in cui
Paolo Giovio allestì un vero e proprio templum virtutis, fonda-
to sulla sapiente giustapposizione di ritratti di uomini illustri,
di immagini simboliche e di iscrizioni latine. Queste ultime
due forme espressive potevano dialogare con la prima, poten-
ziandone il portato encomiastico; oppure potevano partecipa-
re alla definizione di un’autobiografia cifrata, in cui l’ospite-in-
ventor Paolo Giovio vedeva rispecchiata (e mostrava rispec-
chiabile) la propria vita in quelle delle esemplari individualità
effigiate. Descrivendo dal vivo le stanze del museo gioviano, un
esperto visitatore come Anton Francesco Doni ricordava pro-
prio che

ne l’uscir di quella stanza s’entrava nella sala del-


l’Onore: sopra la porta dentro in questo luogo, e di-
pinto sopra un’aquila con una ghirlanda di lauro in
bocca con un verso in questa forma scritto: IVPITER
MERENTIBVS OFFERT. E sopra il camino, dove si fa il
fuoco, era questo verso: FIDEM FATI VIRTVTE SEQVE-

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

MVR. Poi un fregio sotto l’architrave molto inge-


gnoso, diviso in molti tondi con i suoi motti [...].42

Alla luce di questi modelli formali potremmo dunque spin-


gerci a vedere nelle trentacinque immagini del codice di Balti-
more le singole componenti di un integrato progetto iconogra-
fico vòlto alla decorazione di un edificio, o di un suo specifico
ambiente, magari uno di quelli più contestuali alla declinazione
virtuosa del sentimento amoroso qui illustrata. Un altro illustre
esempio di riferimento per l’esperienza artistica che andiamo
analizzando ci viene offerto da uno dei più celebri trattati di im-
presistica del Cinquecento, Il Rota overo de le imprese, composto
nel 1562 da Scipione Ammirato. Nel dar vita a una civil conver-
sazione sulla teoria e la pratica dell’impresa i vari interlocutori di
questo dialogo colgono l’occasione per descrivere minuziosa-
mente la residenza di Pizzofalcone, trasformata da Rota in una
sorta di mausoleo per la moglie, Porzia Capece, morta nel 1559
e che lo scrittore napoletano (sempre con l’aiuto di Ammirato)
aveva già celebrato attraverso una silloge di Sonetti in morte (Na-
poli, Mattia Cancer, 1560). Proprio congiuntamente con questo
letterario templum memoriae va letta l’esperienza artistico-seman-
tica di cui il dialogo di Ammirato ci dà testimonianza, ossia quel-
la dimora «ossessivamente ornata di quarantasei imprese funebri
dedicate alla moglie: sei nella loggia, otto nella sala e quattro in
ognuna delle otto camere interne, in base a una studiata conca-
tenazione che ha fatto giustamente pensare a un forte inter-
scambio con l’organicità del coevo canzoniere, a una sorta di ri-
specchiamento su registri diversi».43 Differente pare il tono di

42 ANTON FRANCESCO DONI, Lettera ad Agostino de’ Landi, in ID., Pitture del Do-
ni academico pellegrino, a cura di SONIA MAFFEI, Napoli, La stanza delle scritture, 2004,
p. 319 (corsivi miei). Si veda anche SONIA MAFFEI, «Iucundissimi emblemi di pitture». Le
imprese del Museo di Paolo Giovio a Como, in ‘Con parola brieve e con figura’. Emblemi e
imprese fra antico e moderno, Atti del Convegno di Pisa (9-11 dicembre 2004), a cura di
LINA BOLZONI e SILVIA VOLTERRANI, Pisa, Edizioni della Normale, 2008, pp. 135-184.
43 MASSIMILIANO ROSSI, Impresistica monumentale di Berardino Rota, in ‘Con parola brie-
ve e con figura’. Emblemi e imprese fra antico e moderno, cit., pp. 295-318, cit. a p. 297. Sul dia-
logo di Scipione Ammirato si vedano: ARMANDO MAGGI, Identità e impresa rinascimentale,
Ravenna, Longo, 1998, pp. 135-146; GUIDO ARBIZZONI, ‘Un nodo di parole e cose’. Storia e
fortuna delle imprese, Roma, Salerno, 2002, pp. 37-57; MAIKO FAVARO, Sulla concezione del-
l’impresa in Scipione Ammirato, «Italianistica», XXXVIII (2009), 2, pp. 285-298.

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fondo delle espressioni simboliche riportate dal codice di


Baltimore, ma il registro celebrativo e l’omogeneità tematica
della struttura discorsiva che esse vanno articolando – non-
ché la presenza, anche qui, di un ancor più monumentale
templum memoriae, qual è il Canzoniere petrarchesco – con-
tribuiscono a non escludere a priori, per i nostri emblemi,
un’elaborazione applicativa analoga a quella delle architettu-
re impresistiche citate.
A questa ipotesi di contestualizzazione del documento non
può poi che affiancarsene un’altra, fondata su un’accezione più
stretta del termine «medaglia», ossia quella che lega le espressio-
ni simboliche e le arti applicate dell’antiquaria, della numisma-
tica e della sfragistica.44 È infatti parimenti plausibile l’idea che
il codice si configuri come un’esposizione di rovesci di meda-
glia, oppure come un programma iconografico per la realizza-
zione di una serie numismatica. Questa seconda possibilità sem-
bra più probabile, anche in relazione allo scarso numero di oc-
correnze dei motivi iconografici delle nostre illustrazioni entro
il censimento fornito dai principali repertori della medaglistica
rinascimentale.45 Solo in tre casi è stato possibile rinvenire qual-
che minima ‘traccia’ del nostro manoscritto. Una medaglia rea-
lizzata da Martino Pasqualigo per il nobile genovese Daniele
Centurione ci consegna infatti l’iconografia – come vedremo,
però, assai diffusa – del lauro non colpito dai fulmini, che ricor-
re anche nell’emblema 13.46 Una medaglia del cremonese Ga-
sparo Cambi in onore di papa Clemente VIII riporta invece nel
verso lo stesso motto dell’emblema 23 (EXEMPLVM DEDI VOBIS)

44 Cfr. almeno KRISTEN LIPPINCOTT, “Un Gran Pelago”. The Impresa and the Me-
dal Reverse in Fifteenth-Century Italy, in Perspectives on the Renaissance Medal, a cura di
STEPHEN K. SCHER, New York, Garland, 2000, pp. 75-96.
45 Si sono consultati: GEORGE FRANCIS HILL, A Corpus of Italian Medals of the Re-
naissance before Cellini, London, British Museum Publications, 1930; ID., Medals of the
Renaissance, revised and enlarged by GRAHAM POLLARD, London, British Museum Pu-
blications, 1978; Monete e medaglie di Mantova e dei Gonzaga dal XII al XIX secolo. Stem-
mi imprese e motti gonzagheschi, a cura di GIANCARLO MALACARNE e RODOLFO SI-
GNORINI, Milano, Electa, 1996; GIUSEPPE TODERI-FIORENZA VANNEL, Le medaglie ita-
liane del XVI secolo, Firenze, Edizioni Polistampa, 1994, 5 voll.; PHILIP ATTWOOD, Ita-
lian Medals c. 1530-1600 in the British Collection, London, The British Museum Press,
2003.
46 TODERI-VANNEL, Le medaglie italiane del XVI secolo, cit., vol. I, p. 66, n. 115.

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ma una differente iconografia, quella relativa al brano del van-


gelo di Giovanni sull’episodio della lavanda dei piedi (da cui è
infatti tratto il breve).47 Infine, l’ultimo emblema del codice ri-
porta l’immagine di un uomo seduto in trono e che riceve l’o-
maggio di quattro messaggeri: si tratta, fatte salve alcune mini-
me variazioni, della medesima iconografia rinvenibile nel rove-
scio della medaglia realizzata nel 1553 da Alessandro Vittoria per
Pietro Aretino. Si noti però che in nessuna delle didascalie dei
tre emblemi ricorre il termine «medaglia».
Pur nell’assenza di maggiori riscontri documentari, è a un
siffatto contesto artistico d’utilizzo che sembrerebbe rinviare la
definizione assai precisa con cui viene delineato il tondo che in-
cornicia l’immagine. Il dettaglio potrebbe in questo caso essere
inteso come la riproduzione realistica della cornice di legno en-
tro cui spesso vengono incastonate medaglie e/o monete, e che
forse nella circostanza specifica degli oggetti qui progettati do-
veva contenere inciso il motto riportato quale inscriptio. La con-
statazione non è però probante, e altri dubbi si affacciano circa
l’interpretazione del corpus illustrativo come progetto per la
realizzazione di manufatti numismatici. È infatti parimenti so-
spetta l’assenza di un qualsiasi riferimento al dedicatario di que-
ste ipotetiche “medaglie”, dal momento che la sua ostensione
(anche fisica, nel ritratto che canonicamente occupa il diritto del-
la medaglia) è intimamente connessa col concetto stesso di rove-
scio di medaglia.48 La stessa definizione di «medaglia» che talora
compare nel commento non è poi priva di ambiguità, dal mo-
mento che nella storia degli emblemi il loro nesso con le me-
daglie risulta di biunivoca ingerenza,49 e che nella letteratura
normativa loro dedicata assai sfumati appaiono i confini fra illu-

47 TODERI-VANNEL, Le medaglie italiane del XVI secolo, cit., vol. II, p. 782, n. 2439.
48 Cfr. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese, Venezia, Sarzina, 1623, p. 284: «Il Ro-
vescio è inseparabile dalla medaglia, così s’addimanda per istare a dietro dell’Imagine
di colui, i cui fatti e le cui azioni si sogliono per memoria del Rovescio dipingere».
49 Ad esempio, il Dialogo di Domenichi muove proprio dalla visione di una me-
daglia che portava nel recto il ritratto di Domenichi stesso e nel verso un’impresa, se-
condo una pratica assai comune fra i letterati dell’epoca: «Sogliono gli huomini litte-
rati anchora far delle Imprese, massimamente ne’ rovesci delle medaglie, per esprime-
re i concetti de gli animi loro» (LODOVICO DOMENICHI, Dialogo delle imprese,Venezia,
Giolito, 1562, p. 16).

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strazione emblematica e disegno del rovescio di medaglia (anche


su un piano terminologico).50 Il quadro generale del problema
non consente dunque di formulare ipotesi forti circa la natura
dell’oggetto ritratto o progettato dal nostro codice.
Vi è però un’ultima testimonianza che vorrei ricordare non
tanto a supporto di una delle ipotesi di definizione del nostro
oggetto di studio, bensì per il suo valore esemplificativo circa le
funzionalità semantiche probabilmente detenute anche da que-
st’ultimo. Si tratta di una delle due medaglie realizzate da Do-
menico Poggini per Benedetto Varchi, quella in cui al profilo del
letterato, coi capelli corti e la barba, si accompagna sul rovescio
l’immagine di un uomo, probabilmente lo stesso Varchi, sdraiato
sotto un albero di alloro (fig. IX). La figura è associata al motto
petrarchesco COSI QVAGGIV SI GODE, còlto dalla canzone Italia
mia (RVF 128, 111).51 Se nel fragmentum politico il verso sug-
gella il cambio di registro del messaggio poetico (da lamentatio a
exhortatio), prospettando il superamento della discordia civile at-
traverso quegli honesta studia che aprono la strada al cielo:

e quel che ’n altrui pena


tempo si spende, in qualche atto più degno
o di mano o d’ingegno,

50 Si vedano, ad esempio, GIOVANNI ANDREA PALAZZI, I discorsi sopra l’imprese, Bo-


logna, Benacci, 1575, p. 91: «vi dirò solo che questi Rovesci non solo ammettono figu-
re humane e favolose ma vere, non pur due sole ma molte come anco nell’Emblema si
vede»; GIULIO CESARE CAPACCIO, Trattato delle Imprese, Napoli, Carlino e Pace, 1592, cc.
12r-13v: «Mi maraviglio oltre modo che molti da questa voce Riverso prendono il giam-
bo nel dir che tanto egli è differente dall’Impresa, quanto è l’huomo dal sasso; [...] ne-
cessario sarà che diciamo una delle due cose: o che i Riversi sono Imprese, o che que-
ste Imprese non sono vere, e sono Riversi; il che tanto è lungi dal vero, che di queste
qualità d’Imprese si sono serviti i primi huomini del mondo nel valor dell’Armi, o del-
le Lettere, che non l’hanno sdegnate insino a i Regi»; ANTONIO AGOSTINI, I discorsi so-
pra le medaglie et altre anticaglie, Roma, Donangeli, 1592, p. 17r: «Sì come non tutte le im-
prese di Paolo Giovio e di Girolamo Ruscelli sono rovesci, così ne manco tutti li rove-
sci delle medaglie sono imprese. Ma l’imprese che sono nelle medaglie sono rovesci, fuo-
ri che nelle medaglie senza testa»; e FERRO, Teatro d’imprese, cit., pp. 284-285: «A’ Rove-
sci si possono ridurre quegli Emblemi, ch’io chiamo con nome generale di Simboli, e
sono quei che mostrano qualche cosa senza altra instruzione come per lo più sono quel-
li del Paradino, da cui da per noi possiamo cavare alcuna moralità, benché essi non la di-
chiarino. [...] Là onde se considereremo la sola derivazione di cotal voce Rovescio, non
ripugnerà a lei niuna cosa sia Animale, Pianta, Emblema, Impresa, Geroglifico...»;
51 TODERI-VANNEL, Le medaglie italiane del XVI secolo, cit., vol. II, p. 495, n. 1467.

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

Fig. IX. DOMENICO POGGINI, Medaglia di Benedetto Varchi.

in qualche bella lode,


in qualche onesto studio si converta:
così qua giù si gode,
e la strada del ciel si trova aperta (vv. 106-112);

nella medaglia esso viene reinterpretato su di piano individua-


le, quale insegna di un indirizzo di vita sotto la quale Varchi in-
tende rappresentare e rendere riconoscibile la propria identità.
Così come accade nel manoscritto di Baltimore, Varchi ha
estrapolato dal Canzoniere il frammento di fragmentum che
meglio risponde alle sue esigenze espressive, e lo ha collocato
in un sistema di significati che si estende oltre quello del rac-
conto in versi petrarchesco, pur restando strettamente ancora-
to ad esso. Condensare questa memoria poetica nell’ibrido se-
mantico di un’impresa (peraltro calata nell’ancor più comples-
so meccanismo espressivo del doppio ritratto – realistico e
simbolico – della medaglia) non è poi così diverso dal diluirla
a germinare un nuovo testo; e magari proprio un testo che
quell’impresa descrive e interpreta:

Tal dentro il petto mio virtù rimase


Quel dì che ’n sacra, eccelsa e verde cima
La verde, eccelsa e sacra stirpe, prima
Mirai ch’ogni viltà del cor mi rase;
Che nulla poi toccommi, o persuase
Ad altro mai ch’a spregiar quel che stima
La gente, e sol far delle cose stima,

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Che ’ndrizzan l’alme alle stellanti case.


Ond’io dove altro non si vede et ode
Che frondi e venti et onde, a piè d’un fonte
Vivo, mi corco sotto l’ombra incerta
D’un verde alloro, e verso il sol la fronte
Alzando dico: «Così qui si gode,
E la strada del ciel si truova aperta».52

Anche i frammenti iconici del manoscritto di Baltimore non


si limitano soltanto a svolgere il significato dei fragmenta pe-
trarcheschi, ma contribuiscono anche ad ampliarlo, fanno da
cassa di risonanza, e lo complicano. A fianco di fedeli illustra-
zioni di versi petrarcheschi o di noti motivi iconografici già
pienamente inseriti nelle dinamiche dell’inventio emblematica,
registriamo infatti più di un caso di stringente interespressività
tra i codici, in cui il nodo parola-immagine funge quasi da
«postilla ermeneutica» del testo di Petrarca.53 E in tale espe-
rienza d’esecuzione del dettato lirico petrarchesco – così co-
me nell’intero impianto strutturale del codice – sembra a vol-
te riverberarsi quella tensione «tra una dispersiva pluralità di
frammenti di vita [...] e un’istanza di ricomposizione», sulla
quale si fondano gli stessi Fragmenta; una dialettica creativa do-
ve «l’istanza centrale e unitaria dell’io-protagonista è conti-
nuamente evocata ma anche continuamente frustrata entro
una rappresentazione autobiografica che non riesce a risolvere

52 BENEDETTO VARCHI, Rime, I, LXV (A messer Galeazzo Alessi, architetto), in ID.,


Opere, ora per la prima volta raccolte, II, Trieste, 1859, p. 841. Sulla medaglia di Varchi si
veda MARCO COLLARETA, Varchi e le arti figurative, in Benedetto Varchi 1503-1565, Atti
del convegno (Firenze, 16-17 dicembre 2003), a cura di VANNI BRAMANTI, Roma,
Edizioni di storia e letteratura, 2007, pp. 173-184.
53 Valgano, da un punto di vista metodologico, le considerazioni formulate da
VITTORE BRANCA, Il narrar boccacciano per immagini dal tardo gotico al primo Rinascimen-
to, in Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento,
a cura di VITTORE BRANCA, Torino, Einaudi, 1993, vol. I, p. 3: «C’è del resto nel Tre-
cento una serie di letterati impegnati a suggerire illustrazioni alle opere più affermate
in omaggio e in servizio a un’aristocrazia di nascita o di censo amante di buoni libri
in latino e in volgare. E quei letterati – da Guido d’Arezzo e Francesco da Barberino
fino a Zanobi da Strada e al Boccaccio – spesso si sforzano di indirizzare la stessa ar-
te della miniatura al commento dei testi, superandone la funzione puramente decora-
tiva e promuovendola a un ruolo quasi di postilla ermeneutica».

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

l’ossimoro esistenziale che oppone l’esigenza ordinatrice del


recolligere alla concreta ed emozionale resa agli sparsa fragmenta
che la compongono».54 È infatti a un’intima esigenza automi-
tografica che il cantore di Laura sembra funzionalmente ri-
spondere quando viene riplasmando il proprio vissuto per tra-
durlo in una storia universalmente valida da affidare alla poste-
rità.
Oltre che col ricorso al repertorio mitologico, tale strategia
autorappresentativa è perseguita da Petrarca anche attraverso
una ricercata diluizione del registro sentenzioso entro la pro-
pria scrittura poetica, attraverso un minuzioso lavorìo di defi-
nizione stilistica che opera sia a livello di inventio (cogliendo
dall’ampio bacino di formulaicità gnomica già approntato per
opere latine quali i Rerum memorandarum, il De remediis o il De
viris), sia soprattutto a livello di dispositio ed elocutio. Come ci
mostra Elena Strada in un’attenta disamina della questione, i
detti e i concetti sono infatti quasi sempre collocati in sedi se-
manticamente sensibili del testo (l’explicit, ma anche i momen-
ti di passaggio interni al componimento: a fine stanza nelle
canzoni, alla fine delle quartine nei sonetti) e organizzati attra-
verso il dispiego degli stereotipi sintattici, dei meccanismi sti-
listici e degli artifici retorici (ma anche fonetici e ritmici) che
ne consente un’agevole percezione e una tenace memorizza-
zione:

La costruzione sintattica più ricorrente nelle


sentenze petrarchesche è l’iterazione di due ele-
menti, la quale opera su tutti i piani, da quello
morfo-sintattico a quello semantico, ed appare gio-
cata, di regola, sulle figure della simmetria, dalla me-
ra ripetizione di segmenti brevi al parallelismo e al
chiasmo, dall’antitesi al poliptoto: tali figure nella
maggior parte delle sentenze petrarchesche convi-
vono e si intrecciano fra loro. Abbiamo dunque a
che fare, per lo più, con costruzioni binarie, cosic-
ché l’attenzione del lettore risulta polarizzata intor-

54 ENRICO FENZI, Petrarca, Bologna, il Mulino, 2008, p. 106.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

no a due fuochi, come se sintassi e retorica concor-


ressero a porre in evidenza i segmenti che il senso
vuole privilegiare.55

Ovviamente un tale habitus autoriale, per sostanziarsi come


fenomeno significativo, e non solo come adesione ad una tra-
dizione gnomica attiva fin dall’Antichità, richiede un pubblico
particolarmente incline a leggere il Canzoniere non tanto, o
non solo, nella sua complessa unità di racconto macrotestuale,
quanto piuttosto nella sua frammentarietà di micronarrazioni,
immagini, concetti.56 A leggerlo, dunque, da una prospettiva
paradigmatica e verticale, portata a considerare ogni verso co-
me un’unità autonoma per sé stessa significante.57

55 ELENA STRADA, “Suggelli ingegnosi”. Per un avvio d’indagine sullo ‘stile sentenzio-
so’ del Petrarca, «Atti e memorie dell’Accademia galileiana di scienze lettere ed arti in
Padova», CXV (2002-2003), parte III, pp. 371-401, cit. a p. 377. A questo proposito già
Mario Praz ricordava che «un altro impulso alla diffusione degli emblemi venne dalla
cristallizzazione della morale degli antichi in quelle sillogi di proverbi e di massime
(specialmente i Distici morali di Catone, gli Adagia di Erasmo, l’Antologia di Stobeo) che
godettero tanta voga nel Cinquecento» (PRAZ, Studi sul concettismo, cit., pp. 19-20).
56 Cfr. RUSSELL, Emblematic Structures in Renaissance French Culture, cit., p. 166:
«[...] the world of emblem is a world of allegorical fragments; it is a landscape clut-
tered with a debris of a collision of sign systems. Lacking the narrative framework of
a complete allegory, the structure of the early emblem picture provides no context to
guide the viewer’s understanding of the signs before him. The sense of the sign is then
initially polysemous because of its tacitly acknowledged place in more than one sign
system. So its intended meaning remains undecidable without some interpretative
text, and the picture, or even the surrounding emblems in the collection, generally
provide nothing to indicate within which sign system it should be considered».
57 Si veda ROSENTHAL, Donner à voir, cit., pp. 183-184: «Le texte de poésie pré-
sente ainsi au lecteur une composition, c’est-à-dire un ensemble composite pour le-
quel il faut, non seulement traverser le texte, mais s’arrêter dans cet espace segmenté
qui se présente comme une série, une galerie d’images à regarder. La vogue des devi-
ses (et dans une moindre mesure sans doute celle des emblèmes) vient confirmer cet-
te hypothèse (penser par images) et vient travailler le texte de poésie. Mais, penser les
images savantes comme des modèles pour l’expression poétique, ce n’est pas dire seu-
lement que la poésie se pense comme une expression figurée, comme une image, c’e-
st préciser encore la nature de cette image. L’image n’est pas un ensemble de figurants
immobiles et immutables qui nous regardent pour indiquer une vérité fixe et intan-
gible, elle est toujours cet espace en mouvement, qui tremble, se fissure, dans lequel
s’insinue le doute et l’inquiétude, et plus précisemént un doute et une inquiétude sur
le personnes (les lecteurs, les créateurs, les personnages représentés). Ce tremblement
de l’image définit son mode d’apparition. [...] Il n’y a pas d’image unitaire, il n’y a que
des images an morceaux, des images composites».

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

La dimensione sentenziosa che spesso assume il dettato


poetico petrarchesco può essere a buon diritto considerata uno
dei motivi della vasta fortuna conosciuta dai Rerum vulgarium
fragmenta come fonte della letteratura emblematica ed impresi-
stica; e le strategie stilistico-compositive che tale dimensione
mette in campo hanno senza dubbio catturato l’attenzione di
una ricezione petrarchesca particolarmente affascinata da tutte
quelle simmetrie e contorsioni sintattiche, illusioni prospetti-
che e tessiture fonico-ritmiche, che spingono quasi a cercare,
nei territori del simbolo o della figurazione, il correlativo ico-
nico della parola poetica. Come ha mostrato Giovanni Pozzi,
tutte le principali figure retorico-stilistiche che presiedono a
una collocazione artificiosa delle unità linguistiche all’interno
del corpo del messaggio non intervengono infatti solo a livel-
lo metrico-sintattico ma rendono percepibile (seppur con dif-
ficoltà) anche una configurazione iconica del materiale verba-
le disteso in scrittura:

Tutte le figure linguistiche attinenti alla colloca-


zione artificiosa delle unità nel corpo del messaggio,
quelle di natura sintattica e metrica non meno che
quelle di natura fonica, non sono mai state servite da
un tratteggio adeguato; cioè la nostra scrittura non
le ha mai rappresentate. Eppure contengono una
virtualità iconica rilevante, perché per loro mezzo si
costituiscono nel corpo linguistico masse omogenee
o calcolatamente eterogenee, posizioni e corrispon-
denze, simmetrie e correlazioni.58

In quanto descrizioni analitiche di un’idea delineate attra-


verso gli elementi astratti di un’immagine, ognuno dei quali
assume un determinato significato, gli emblemi del manoscrit-
to sembrano dunque offrire una via di fuga dall’impasse che in-
teressa, reciprocamente, le immagini verbali sbiadite dalla «re-
duction to literalness» dell’illustrazione59 e le immagini visive

58 POZZI, La parola dipinta, cit., p. 49.


59 TRAPP, Petrarch’s Laura, cit., p. 66: «Not only did they have no cycle of pictures
to use a model, but the images of lyric poetry also suffer more from the inevitable re-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

troppo spesso miopi di fronte alla stratificazione di senso della


parola lirica. Una via di fuga originata dalla fertile conflittua-
lità tra un testo e un’immagine indipendentemente fabbricati
a partire dal concetto comune che si intende esprimere, e dia-
letticamente cooperanti a formare una traduzione simbolica di
tale concetto originario.
I singoli elementi intorno a cui vengono costruite le varie
espressioni simboliche «ritagliano significati con cui è possibi-
le formare traiettorie, modi diversi di tracciare scritture».60 Es-
si emergono dalla scena come dettagli solo parzialmente go-
vernabili che, al contempo, suggeriscono un punto di vista sul
testo petrarchesco e guidano a una sua ricontestualizzazione
all’interno di un nuovo sistema di senso,61 creando così du-
rante l’esperienza di visione «un effetto di rimbalzo» che in-
nesca «fuori da ogni possibile controllo la dispersione dell’o-
pera attraverso uno sguardo indiscreto e passionale».62
Sono frammenti che, nella memoria e nell’immaginazione,
connettono e contrappongono, condensano ed espandono al-
tri fragmenta, che a loro volta si offrono quali metonimie di una
storia, di un’immagine e di un individuo non riconducibili a
una loro piena unità visibile;63 vagheggiabili semmai, come re-
liquie, nella provvisorietà e parzialità del ricordo.64

duction to literalness implied by illustration, however touching or accomplished, than


those of narrative, even such a dream-allegorical narrative as Dante’s Divina Commedia
or, indeed, as Petrarch’s Trionfi».
60 MICHEL DE CERTEAU, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (secoli
XVI e XVII), a cura di CARLO OSSOLA, Firenze, Olschki, 1989, p. 151.
61 Cfr. RUSSELL, Emblematic Structures in Renaissance French Culture, cit., pp. 237-
239: «The emblematic process was an act of contextualization. [...] Providing such a
signal was the function of the emblematic: it fitted an image into a setting that would
transform it from a simple part of nature into a metaphorical ornament of some idea».
62 DANIEL ARASSE, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Milano, il Saggiatore, 2007
[I ed. fr. 1992], p. 57.
63 Sulle implicazioni antropologico-culturali di tale moderna strategia narrativa si
veda LINDA NOCHLIN, The Body in Pieces.The Fragment as a Metaphor of Modernity, New
York, Thames and Hudson, 1995.
64 Cfr. STEFANO AGOSTI, Gli occhi le chiome. Per una lettura psicoanalitica del Can-
zoniere di Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 38-39: «Tra le parti del corpo morcelé e
le cose o sostanze della natura si può dare perciò una correlazione reciproca di pie-
nezza di essere. L’essere delle cose passa sulle parti del corpo, e l’essere di queste, sulle
cose. In questa migrazione di essere dalle cose alle parti del corpo e viceversa, consi-

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EMBLEMI IN ATTO E FRAMMENTI IN PROGRESS

Tracce di una lettura del Canzoniere che non avverte o tra-


scura il lavorìo autoriale di strutturazione di un racconto in
versi. Tracce di una lettura che osserva il testo poetico come
una struttura visiva, e che affianca al suono dei sospiri anche la
forma dei sospiri. Tracce che – come ha scritto Francisco de
Quevedo nel poema Desde la Torre – ci consentono di «escu-
char a los muertos con los ojos». Di ascoltare con gli occhi le
voci del passato.

ste ciò che in psicanalisi si designa come situazione feticistica. Per cui il feticcio non
è altro che uno dei termini di una struttura opposizionale che vede, all’altro estremo,
un termine del manque (di sottrazione di essere). È il simulacro di una pienezza par-
ziale, contrapposto al manque che segna una totalità, contrapposto a una totalità man-
cante di una qualche sua parte. Come ricorda Freud nel saggio sul feticismo: “Il fetic-
cio è un monumento alla memoria: alla memoria di questa parte assente, di cui il si-
mulacro restaura la presenza”».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Giunto alla conclusione della presentazione dei materiali e


dei nuclei problematici della ricerca, e prima di lasciare spazio
a un’analisi in trentacinque piccoli saggi risolta più con le im-
magini che con le parole, desidero ricordare tutti coloro che,
in occasioni e forme differenti, mi hanno aiutato nell’indagine
sulla visualizzazione della scrittura lirica petrarchesca, ed espri-
mere loro tutta la mia gratitudine: Alvise Andreose, Guido Ar-
bizzoni, Laura Baschieri, Alessandro Benassi, Maren Bieder-
bick, Lina Bolzoni, Fabrizio Bondi, Antonio Ciaralli, Marcello
Ciccuto, Marco Collareta, Elena Cappa, Nicola Catelli, Eliza-
beth Cropper, Alessandro Della Latta, Charles Dempsey, Maria
Pia Ellero, Marco Faini, Gianluca Genovese, Kathryn Gerry,
Claudio Griggio, Laura Iseppi, Sonia Maffei, Monia Manescal-
chi, Diane Naylor, Andrew Peppitt, Serena Pezzini, Federica
Pich, Stephen Rawles, Giovanna Rizzarelli, Massimiliano Ros-
si, Dennis Sears, Carlo Severi, Karlheinz Stierle, Sabrina Strop-
pa, Stefano Tomassini, Martyna Urbaniak, Elena Vaiani, Rita
Varriano, Silvia Volterrani. Un ringraziamento a parte rivolgo,
in fine, a Carlo Alberto Girotto per la pazienza e l’acume con
cui ha accompagnato la realizzazione del volume.

Per la trascrizione delle didascalie degli emblemi del codi-


ce e di ogni altro testo antico citato in commento sono stati
adottati criteri improntati a un ammodernamento ortografico
del testo e a una chiarificazione della sintassi; è stata regolariz-
zata l’accentazione, e spesso modificata, soprattutto con ag-
giunte, la punteggiatura.
Per le citazioni dal Canzoniere si è ricorsi alla recente edi-
zione curata da Sabrina Stroppa (Torino, Einaudi, 2011); per
quelle dai Triumphi a FRANCESCO PETRARCA, Triumphi, a cura
di MARCO ARIANI, Milano, Mursia, 1988. Con le abbreviazio-
ni “STROPPA, Commento” e “BETTARINI, Commento” si fa riferi-
mento alle annotazioni ai singoli fragmenta presenti rispettiva-
mente nell’edizione appena citata e nel volume FRANCESCO
PETRARCA, Rerum vulgarium fragmenta – Canzoniere, a cura di
ROSANNA BETTARINI, Torino, Einaudi, 2005.

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FORME DI UN DISCORSO AMOROSO


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Il commento testuale, che si pone dapprima


come fine al nostro interesse di lettori, di-
viene, una volta che lo si sia compiuto, il
modo attraverso cui s’interpreta e si com-
prende il nostro stesso interesse.
JEAN STAROBINSKI

Ciò che mi ferisce sono le forme della rela-


zione, le sue immagini; o meglio, ciò che gli
altri chiamano forma, io la sento come forza.
L’immagine – come l’esempio per il sogget-
to ossessivo – è la cosa stessa. L’innamorato è
dunque artista e il suo mondo è effettiva-
mente un mondo alla rovescia, poiché ogni
immagine vi ha la sua propria fine (niente al
di là dell’immagine).
ROLAND BARTHES
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1. Teme di lei, onde io son for di speme

Le immagini che nel manoscritto di Baltimore traducono


visivamente i concetti della scrittura lirica petrarchesca – tan-
to quella che sostanzia il Canzoniere quanto quella che talora
traluce dalla «lunga pictura» narrativa dei Triumphi – elaborano
tutte in chiave emblematico-impresistica la tematica amorosa.
La compresenza di interpretazioni grafiche di entrambe le
opere petrarchesche, anzi la superiorità di emblemi che visua-
lizzano versi del Canzoniere, costituisce già un motivo d’inte-
resse, poiché se i Triumphi conoscono una lunga fortuna visi-
va,1 manoscritti e stampe dei Fragmenta presentano invece as-
sai raramente un apparto illustrativo. Gli interventi figurativi
rinvenibili in manoscritti e stampe dei Rerum Vulgarium Frag-
menta sono generalmente connotati da caratteristiche ricor-
renti e precise funzioni. Si limitano a marcare i passaggi-chia-
ve del liber (le sezioni in vita e in morte), presentano il ritrat-
to dell’autore secondo le principali varianti del genere (il poe-
ta musico, il sapiente allo scrittoio, l’amante malinconico), illu-
strano i miti-guida del racconto in versi (in primis quello daf-

1 Per un’introduzione alla questione, e i relativi rinvii bibliografici, si ricorra a


LUCIA BATTAGLIA RICCI, Immaginario trionfale: Petrarca e la tradizione figurativa, in I
Triumphi di Francesco Petrarca. Atti del Convegno (Gargnano del Garda, 1-3 ottobre
1998), a cura di CLAUDIA BERRA, Milano, Cisalpino 1999, pp. 255-297. Sulla storia
dell’illustrazione e della ricezione dei Triumphi si vedano tra gli altri: [VINCENT MAS-
SENA] PRINCE D’ESSLING-EUGÈNE MÜNTZ, Pétrarque. Ses études d’art, son influence sur
les artistes, ses portraits et ceux de Laure, l’illustration de ses écrits, Paris, Gazette des Beaux-
Arts, 1902; SERGIO SAMEK LUDOVICI, Francesco Petrarca. I Trionfi, Roma, Poligrafico del-
lo Stato, 1979; ALISON HOLCROFT, Francesco Xanto Avelli and Petrarch, «Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes», LI (1988), pp. 225-234; Petrarch’s Triumphs. Allegory
and spectacle, a cura di KONRAD EISENBICHLER e AMILCARE A. IANNUCCI,Toronto, Do-
vehouse, 1990; ALEXANDRA ORTNER, Petrarcas Triumphi in Malerei, Dichtung und Fe-
stkultur. Untersuchungen zur Entstehung und Verbereitung eines florentinischen Bildmotivs auf
cassoni und deschi da parto des 15. Jahrhunderts, Weimar, VDG, 1998.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

neo) e ne sottolineano i momenti di più intensa imagery (la


canzone delle visioni e quella delle trasformazioni).2 L’esiguità
e l’omogeneità delle situazioni visualizzate sono la naturale
conseguenza dell’essenziale quadro di eventi passibili, nel Can-
zoniere, di rappresentazione; nonché della statutaria difficoltà
di illustrazione della scrittura lirica, che vive proprio sull’evo-
cazione di immagini non immediatamente percepibili nella
lettera del testo, e sull’elaborazione soggettiva di quelle ivi pre-
sentate. Per tentare di ovviare a questa difficoltà costitutiva, gli
illustratori si affidano talora a una resa letterale del sistema sim-
bolico dispiegato nel testo (con metafore, allegorie, miti, etc.,
raffigurati per ciò che sono e non per ciò che in quel preciso
contesto hanno il compito di significare); talora a una tradu-
zione molto libera del dettato verbale, che fa vedere più di
quanto in esso venga descritto o alluso.
Nel caso dei Triumphi invece il registro narrativo della scrit-
tura poetica e la presenza del motivo trionfale già nella cultu-
ra figurativa classica rendono il testo più immediatamente e
più facilmente visualizzabile. Manoscritti, edizioni a stampa e
oggetti artistici di varia natura riportano così, fin dagli anni
Trenta del Quattrocento, illustrazioni relative all’allegorico
percorso trionfale petrarchesco, e vanno a definire un vero e
proprio modello espressivo, di lì in poi costantemente (e con
minime variazioni) utilizzato e riprodotto. Nel contesto speci-
fico dell’illustrazione di codici o libri, il modello prevede la

2 Cfr. LUCIA BATTAGLIA RICCI, Illustrare un canzoniere: appunti, «Cuadernos de fi-


lología italiana», XI (2005), pp. 41-54. Sulla questione della visualizzazione del detta-
to petrarchesco si vedano, anche per ulteriori rinvii bibliografici e per le testimonian-
ze figurative: JOSEPH B. TRAPP, Petrarch’s Laura: The Portraiture of an Imaginary Beloved,
«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIV (2001), pp. 55-192; ID., Stu-
dies of Petrarch and his influence, London, Pindar, 2003; Petrarca nel tempo. Tradizione letto-
ri e immagini delle opere. Catalogo della Mostra di Arezzo (22 novembre 2003 – 27 gen-
naio 2004), a cura di MICHELE FEO, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 2003; ALESSAN-
DRO GIACOMELLO-FRANCESCA NODARI, Le Rime del Petrarca. Un’edizione illustrata del
Settecento (Venezia, Antonio Zatta, 1756), Gorizia, Leg, 2003; FRANCESCA TONIOLO, Pe-
trarca e l’umanesimo: l’illustrazione delle Rime e dei Trionfi nella miniatura veneta del Ri-
nascimento, in Petrarca e il suo tempo. Catalogo della Mostra di Padova (8 maggio – 31
luglio 2004), a cura di GILDA P. MANTOVANI, Milano, Skira, 2006, pp. 87-106; Italy’s
Three Crowns: Reading Dante, Petrarch, and Boccaccio, a cura di ZYGMUNT G. BARANSKI
e MARTIN MCLAUGHLIN, Oxford, Bodleian Library, 2007.

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TEME DI LEI, ONDE IO SON FOR DI SPEME

collocazione dell’immagine trionfale in incipit, a segnare icasti-


camente l’oggetto delle varie stazioni narrative. Già questa or-
ganizzazione paratestuale del documento sembra in un certo
senso declinarlo quale estrema e paradossale forma di struttu-
ra emblematica, dal momento che l’illustrazione viene a porsi
come la pictura di un’espressione simbolica che riconosce nel
titolo del capitolo una inscriptio denotativa, e nel testo petrar-
chesco una diffusa subscriptio poetica.

Analizzando i quattro passi trionfali su cui poggiano le oc-


correnze emblematiche del manoscritto di Baltimore, possia-
mo subito notare che essi non sembrano scelti a caso. Tutti
fanno riferimento alla prima stazione, quella in cui sulla scor-
ta del modello classico del trionfo si celebra la potenza di
Amore, il suo dominio sull’amante e la sua alleanza con Lau-
ra: ossia la scaturigine della vicenda esistenziale e dell’espe-
rienza lirica di Petrarca.3 Tutti i passi prescelti si collocano in-
fatti tra i vv. 123 e 180 di Triumphus Cupidinis III, ossia nella
seconda e conclusiva parte del capitolo. Quella in cui il det-
tato poetico petrarchesco abbandona momentaneamente il
tono impersonale della narrazione enciclopedica per cedere a
una più sentita espressione dell’intimo dissidio amoroso;4

3 Il primo capitolo si distingue dai seguenti anche per morfologia artistica: «Nei
suoi Trionfi Petrarca rappresenta solo il primo trionfo come un trionfo antico. Gli altri
trionfi seguono ancora l’idea medievale della Psychomachia di Prudenzio, che implica la
vittoria di un’allegoria sull’altra. Questo è molto evidente nel secondo trionfo, in cui
la Pudicizia e il dio Amore combattono, e alla fine Pudicizia ne esce trionfante. [...] Il
dio Amore forma l’inizio di una serie, cioè è l’unica personificazione che, in base alla
composizione dell’opera letteraria, trionfa solo per se stessa. In quanto primo, ha biso-
gno di un attributo che lo fa diventare un trionfante: il carro antico. La conseguenza è
che i Trionfi del Petrarca implicano due significati della parola trionfo: uno antico e uno
medioevale» [ALEXANDRA ORTNER, I Trionfi del Petrarca: origine e sviluppo del tema nel-
l’arte fiorentina, «Rivista di storia della miniatura», IV (1999), pp. 81-96, cit. a p. 82].
4 Di questo scarto della visio trionfale verso un maggior investimento soggettivo
dell’io poetante rende conto CARLO VECCE, La “lunga pictura”: visione e rappresentazio-
ne nei Trionfi, in I Triumphi di Francesco Petrarca, cit., pp. 299-315, in part. pp. 307-308:
«L’ingresso di Laura nella storia non poteva essere marcato dal semplice “vidi”, che l’a-
vrebbe collocata sullo stesso piano prospettico delle altre figure: il suo corpo e la sua
anima si pongono “dallato”, in contiguità con il corpo e l’anima dell’amante, così co-
me “dallato” erano apparse le amanti accanto ai loro eroi. Da quel momento la loro
vicenda è strettamente congiunta: e Petrarca fa parte della stessa schiera che descrive,

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A. TORRE, VEDERE VERSI

quella in cui le dinamiche memoriali di archiviazione poeti-


ca degli exempla si dispiegano in una registrazione dell’intera
fenomenologia amorosa attraverso la giustapposizione, per
immagini, delle sue più note forme, dei suoi più topici «figu-
ranti oggettuali»;5 quella che si offre come un concentrato di
tutta l’imagery metaforica del Canzoniere, come un suo distil-
lato ostentatamente marcato da una martellante struttura
anaforica che «assomma, quasi in un autocommento poetico
con funzione metadiscorsiva, tutto l’apparato dei fantasmi più
traumatici del romanzo amoroso che istituisce lo scheletro
diacronico dei Fragmenta».6 A conferma di tali constatazioni si
può inoltre rilevare che in alcuni commenti cinquecenteschi
– quello di Vellutello, ad esempio – questa lunga sezione ri-
sulta anche tipograficamente marcata dall’impaginazione, che
riconosce un lungo blocco di testo affiancato da un’unica
glossa di commento. In relazione a ciò appare ovvia la doppia
osservazione che, da un lato, avranno «avuto un loro ruolo, nel
configurarsi più preciso dell’imagery trionfale, elementi icono-
logici e allegorizzanti che erano propri alla cultura medieva-
le»;7 e che, dall’altro lato (della tradizione), questo «ruolo di
contenitore sintetico del Petrarca lirico in appaganti forme al-
legorico-romanzesche, se è la ragione principale dell’immen-
so successo pittorico e letterario dei Trionfi fino al Romanti-
cismo e al Decadentismo compresi, ne spiega anche i limiti, o
quantomeno il disegno consapevolmente progettato e perse-
guito».8 Il testo e questa sua specifica porzione costituiscono

e partecipa dello stesso fatale andare. Non c’è forza per vedere altro, in questo capito-
lo (“Gli occhi dal suo bel viso non torcea, | come uom ch’è infermo”, vv. 106-107).
Il verbo che marca in anafora il finale del canto non è il “vedere”, ma la suprema con-
sapevolezza del “so”».
5 Cfr. l’Introduzione di Marco Ariani a Triumphus Cupidinis III, in FRANCESCO PE-
TRARCA, Triumphi, a cura di MARCO ARIANI, Milano, Mursia, 1988, p. 133: «Alla ca-
denza dell’elenco succede una scansione ancora esemplaristica, la segnatura minuzio-
sa, ossessiva, della scienza amorosa e dei suoi fenomeni paradossali, identificati nei lo-
ro figuranti oggettuali, sintomatici della fluctuatio degli “stati” e dei tempi, secondo uno
speciale andamento espositivo che conferma, per l’ennesima volta, la natura ostensiva
e sommatoria dei T.».
6 MARCO ARIANI, Introduzione, in PETRARCA, Triumphi, cit., p. 36.
7 Ibidem, p. 49.
8 Ibidem, p. 40.

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TEME DI LEI, ONDE IO SON FOR DI SPEME

dunque uno snodo significativo della secolare tradizione di


rapporti tra letteratura e arti visive.
Permane dunque la struttura elencativa, ma al posto dei no-
mi esemplari, che finora si sono incessantemente succeduti come
istantanee comparse e che già in Triumphus Pudicitiae torneran-
no (anche se non subito) ad abitare la scena, veniamo a registra-
re una significativa sequenza di metafore relative all’amore, alla
sua assurdità, alla sua onnipotenza, alla sua violenza; ossia, come
afferma ancora Ariani, ricordando la lettura di Contini:

L’elenco delle “sostanze” (Contini), le pluralità, i


grappoli metaforici, altre microcellule anaforiche
[...] acuiscono una procedura compositiva per ad-
dentellati, aggregazioni, antitesi, nella quale P. si è
come preoccupato di concentrare, in sintesi emble-
matica, la materia dei Fragmenta.9

Scorrendo questi versi, si assiste infatti a un massiccio tra-


vaso di toni, immagini e motivi propri del codice lirico del
Canzoniere entro una porzione ben delimitata del tessuto nar-
rativo trionfale, a «una specie di metadiscorso sintetico e ful-
minante» – incalza ancora Ariani ricordando la fitta interte-
stualità tra le due opere relativa a questi versi, anche a livello di
“officina degli abbozzi” – «presente assoluto dell’io poetico
che detta e segna per emblemi definitivi, inalterabili nella “me-
moria innamorata”»:

La fitta compresenza intertestuale, nell’officina vol-


gare di P., di RVF e Triumphi tocca in TC III uno dei
suoi apici, per la volontà di esibire, innanzi tutto in in-
delebili misure fonico-ritmiche, un consuntivo epigra-
fico della “dolce memoria” come memoria formale,
attiva all’interno del codice di referenti che si è data.10

9 ARIANI, Introduzione a Triumphus Cupidinis III, cit., p. 134.


10 Ibidem, pp. 134-136. E cfr. in part. p. 134: «La presenza, nel codice degli ab-
bozzi, di postille con rimandi al Canzoniere evidenzia l’intertestualità operativa di TC
III e RVF: clamorosa, in tal senso, l’autocitazione del v. 168, che affida al paradosso del
fuoco-ghiaccio una funzione di senhal allusivo del repertorio tecnico adottato».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Di conseguenza, anche all’interno del corpus emblematico


qui analizzato non sembra registrarsi un significativo stacco tra
le elaborazioni simboliche dei testi petrarcheschi, quasi che fos-
se stata percepita dall’autore del manoscritto di Baltimore l’affi-
nità tematica e stilistica della seconda parte di TC III con i Re-
rum Vulgarium Fragmenta. Ciò pare riconducibile anche a una
poetica del frammento che in entrambi i casi pare tanto proble-
maticamente avvertita dall’autore, quanto sottolineata strategica-
mente dai suoi lettori (soprattutto nella prima età moderna).11
La stessa densità gnomica, pienamente funzionale a una tradu-
zione emblematica, sembra condivisa sia dal Canzoniere, sia dal
capitolo trionfale, che in talune zone (e TC III è una di queste)
tende a configurarsi come un vero e proprio repertorio memo-
riale di motti «con una sterminata esibizione di binomi ossimo-
rici e sinestetici, a imprimere nella memoria il vero come ma-
nuale sintetico di epigrafi definitorie dense di senso».12 Anche in
ragione di questa affinità di fondo con i Fragmenta, il nostro
commento agli emblemi di matrice trionfale cercherà di essere
unitario ma non disattenderà l’ordine della sequenza emblema-
tica così come ci è trasmessa dal codice; sequenza che potrebbe
a sua volta detenere un proprio significato, costituito sì ma an-
che indipendente da quello dei singoli fragmenta simbolici. Ri-
spetto al commento degli altri emblemi di pertinenza petrar-
chesca (e non solo) rinvenibili nel codice, quello che accompa-
gnerà i casi trionfali sarà talora più conciso, dando per acquisite
le considerazioni generali e comuni qui formulate. Costante-
mente ribadito sarà però lo sforzo di evidenziare gli eventuali
nessi morfologico-semantici tra le espressioni simboliche di
questa circostanziata area del racconto lirico petrarchesco.

11 ARIANI, Introduzione, cit., pp. 16-17: «Del resto, è sintomatico che nonostante
l’impressionante compattezza e congruenza dell’esempio dantesco e l’immane sforzo
petrarchesco di adeguarvi una vena più portata alla “rima sparsa” che al continuum di
un grande organismo poematico, i Trionfi manchino proprio in quel costruttivismo a
cui più ansiosamente Petrarca puntava, per stare almeno alla pari di cotanto maestro
volgare [...]. Ma forse nessuno dei suoi testi si presenta così drammaticamente irrisol-
to come i Trionfi: è la sola, altra opera volgare accanto al Canzoniere, ma, incompiuta,
deve subire il confronto proprio con l’imperfettibilità di un’opera circolarmente
adempiuta, nonostante sia fatta solo di “rime sparse”».
12 Ibidem, p. 38.

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TEME DI LEI, ONDE IO SON FOR DI SPEME

Tav. 1

Il primo emblema del manoscritto di Baltimore traduce vi-


sivamente il v. 126 del terzo capitolo del Triumphus Cupidinis
(«teme di lei, ond’io son fuor di spene»), rappresentando il ti-
more e la deferenza di Cupido di fronte a una figura femmini-
le, avvolta in un drappo e con le chiome incoronate, che lo mi-
naccia con una fronda di palma (tav. 1).Timore e deferenza che,
per un Petrarca ancora scosso dall’improvvisa epifania laurana
registrata al v. 85 del capitolo (e per qualsiasi amante che vedrà
riflesse nel medaglione le proprie pene d’amore), si tramutano
in piena comprensione del destino di irrealizzabilità del proprio
desiderio amoroso. Questa è la situazione testuale che l’immagi-
ne visualizza. Questo sembra essere il messaggio dell’espressione
simbolica che anche la didascalia di commento conferma: «Vuo-
le intendere esser fuor d’ogni speranza di gioir de la sua amata,
poscia ch’ei vede che Cupido medesimo teme di lei, servendo-
si del verso del Petrarca sopra scritto». D’altronde l’immagine del
medaglione illustra prima di tutto, e a prescindere dall’identità
dei soggetti ritratti, una relazione di sudditanza, un condiviso
rapporto gerarchico tra una (generica) figura femminile e una
(particolare) figura maschile. Leggendo l’espressione simbolica
quale rappresentazione didascalica del dettato testuale da cui è

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A. TORRE, VEDERE VERSI

stato estratto il motto, risulta naturale riconoscere nell’io lirico


l’emittente della disillusa affermazione posta a inscriptio, e nella
figura femminile il ritratto di una Laura triumphans che «così sel-
vaggia e rebellante suole | da le ’nsegne d’Amore andar solin-
ga» (vv. 131-132). Per giungere all’agognato fine della propria
quête, l’amante non può più contare sull’intercessione di Cupi-
do che, prono ad ogni volontà di madonna, abbandona la con-
dizione di complice in amore, per conservare solo quella di
agente dei tormenti erotici inflitti all’agens dalla superba domina
(vv. 127-129: «ch’a mia difesa non ho ardir né forza, | e quello,
in ch’io sperava, lei lusinga, | che me e gli altri crudelmente
scorza»). La sudditanza di Cupido a Laura determina, in un cer-
to senso, la sudditanza dell’amante all’amata; e proprio in ragio-
ne di ciò, il significato del gesto di deferenza immortalato nel-
l’illustrazione potrebbe essere esteso oltre la lettera dell’immagi-
ne, e andare a contemplare anche il vincolo di assoluta dipen-
denza che colpisce il protagonista. Il Cupido deferente diver-
rebbe così figura del Petrarca-agens – dal momento che costui si
qualifica innanzitutto come soggetto innamorato –, condividen-
do entrambi lo stesso timore e la stessa disperazione di fronte al-
l’onnipotenza di Laura.
Attraverso questa prima elaborazione, l’immagine vedrebbe
così sovrapposta una più prospettica funzionalità morale al suo
didascalico valore di fedele illustrazione di un testo. Risultereb-
bero infatti più chiare la situazione esistenziale e la relazione
psicologica da stigmatizzare mediante l’emblema. Situazione e
relazione peraltro duramente censurate anche da Augustinus in
un affondo critico tra i più decisi ed espliciti del Secretum. È la
parte conclusiva del dialogo e il grande inquisitore sta incal-
zando l’imbarazzato discipulus circa la scaturigine di ogni suo
male – la passione amorosa che lo ha accompagnato lungo l’in-
tera esistenza. Passione che egli può ormai arginare solo attra-
verso un inflessibile, razionale sentimento di vergogna verso le
resistenze di un passato di errori («Pudeat ergo, pudeat animum
nunquam mutari, cum corpus mutetur assidue»); e a cui egli
può ormai opporre soltanto un indefesso esercizio spirituale di
meditazione condotto sulle immagini memoriali di tali errori,
e finalizzato alla constatazione della loro inconsistenza, alla loro
rimozione violenta («pelle omnem preteritarum memoriam

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TEME DI LEI, ONDE IO SON FOR DI SPEME

curarum; omnem cogitatum, qui transacti temporis admonet,


excute et, ut aiunt, ad petram pavulos tuos allide»):

[...] idque intenta cogitatio prestabit, quam ex tribus


animum ab amore deterrentibus collocavi. Nunc au-
tem ad illam arcem te vocari noveris, in qua sola tutus
esse potes ab incursibus passionum, et per quam ho-
mo diceris. [...] Ad hec et illud cogita, quam turpe sit
digito monstrari, et in vulgi fabulam esse conversum;
cogita quam professio tua discordet a moribus: cogita
quantum illa tibi nocuerit animo, corpori, fortune; co-
gita quam multa propter illam nulla utilitate perpessus
es. Cogita quot blanditias in ventum effuderis, quot la-
menta, quot lacrimas. Cogita illius inter hec altum se-
pe ingratumque supercilium, et siquid humanius,
quam id breve auraque estiva mobilius! Cogita quan-
tum tu fame illius addideris, quantum vite tue illa sub-
traxerit; quantum ve tu de illius nomine solicitus,
quantum illa de statu tuo semper negligens fuerit.13

L’immagine dell’emblema di Baltimore potrebbe costituire


un’efficace sintesi visiva della sequenza monotematica di salu-
tares cogitationes suggerite da Augustinus, delle varie situazioni di
umiliazione che l’amante ha dovuto patire nel suo insano pro-
strarsi dinanzi alle voglie dell’amata. Meditando sul gesto che

13 FRANCESCO PETRARCA, Secretum, III, a cura di ENRICO FENZI, Milano, Mur-


sia, 1992, p. 254: «A. [...] E ciò l’otterremo con quell’intensa meditazione che ho posto
come ultima delle tre cose che distolgono l’animo dall’amore. Ora ti vedrai dunque
richiamato a quella rocca ch’è l’unica entro la quale tu possa essere al sicuro dagli as-
salti delle passioni, e per la quale tu possa essere definito un uomo. [...] Medita inoltre
su quanto sia turpe essere mostrato a dito e diventare la favola di tutti; medita su quan-
to la tua professione ripugni con i tuoi comportamenti; medita su quanto lei ti abbia
danneggiato nell’anima, nel corpo, nella fortuna; medita su quante cose hai sofferto per
lei senza alcuna utilità; medita quante volte sei stato evitato, disprezzato negletto; medi-
ta quante attenzioni hai sparso al vento, quanti lamenti, quante lacrime, e medita insie-
me sul suo atteggiamento spesso sgradevole e altezzoso: e se ha avuto qualche tratto
più umano, quanto è stato rapido, fuggevole più di una brezza estiva! Medita quanto tu
hai incrementato la sua fama, e quanto della tua vita lei ti ha sottratto; quanto tu ti sei
preoccupato del suo buon nome, e quanto lei sia sempre stata indifferente verso la tua
condizione» (corsivi miei).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

la connota, contestualizzandola attraverso la presenza di Cupi-


do entro un discorso sull’amore, e leggendola quale prefigura-
zione dei danni che esso può arrecare (la definitiva perdita del-
la «spene», intesa in termini assoluti) – il lettore dell’emblema
di Baltimore può dunque dar luogo allo stesso esercizio men-
tale prescritto a Franciscus e condividerne il moto introspettivo
d’indagine, innescato questa volta dall’emblema. L’espressione
simbolica fungerebbe così da macchina cognitiva che, attraver-
so l’imago agens di una generica situazione di violento domi-
nio, ripropone costantemente alla memoria del proprio letto-
re (ossia, di tutti coloro che condividono lo status di sofferen-
za di Franciscus) la scena primaria delle sue pene.
L’illustrazione ci offre però anche un’altra possibilità di let-
tura, che poggia ancora sulla sovrapponibilità tra i simulacri del-
l’amante e di Cupido, e sull’identità del personaggio trionfan-
te. Se infatti associamo le due figure maschili in ragione della
loro subalternità a quella femminile, il disperato lamento del
protagonista potrebbe essere messo in bocca anche all’amorino
inginocchiato, ad amplificazione del messaggio che il gesto co-
munica. Ma l’amplificazione sfocerebbe forse in ridondanza, se
non provassimo a metter meglio a fuoco anche l’identità del
soggetto destinatario della deferenza di Cupido. Se non provas-
simo, ad esempio, a vedere nella figura femminile non solo un
simulacro di Laura-oggetto principe del desiderio erotico (deu-
teragonista del Triumphus Cupidinis) ma anche un’icona di
quella Laura-Pudicizia che, di lì a pochi versi, prevarrà su Amo-
re dando così avvio alla seconda stazione del viaggio trionfale.
Le avvisaglie di quanto avverrà in TP, ossia un Cupido «preso»
da «lei che ’l cor di pensier m’empie», si registrano già in coda
a TC IV: «materia di coturni, e non di socchi, | veder preso co-
lui ch’è fatto deo | da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi!» (vv.
87-90). Ma è nel secondo capitolo che la resa del dio Amore,
così icasticamente rappresentata nell’emblema statunitense, vie-
ne descritta in tutta la sua rivoluzionaria paradossalità, e soprat-
tutto presentata come l’immagine di un vero e proprio rove-
sciamento del mondo che suscita un’impressionata reazione nel
protagonista: «Con queste e con certe altre anime chiare |
triumfar vidi di colui che pria | veduto avea del mondo trium-
fare» (TP, 145-147). Si noti lo scarto dei tempi verbali che de-

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TEME DI LEI, ONDE IO SON FOR DI SPEME

clina la visione del trionfo della pudicizia come il punctum tem-


poris di svolta, unico e irripetibile, rispetto ad un passato e ite-
rativo corso degli eventi. In questo momento oltre il tempo (e
vivo solo nell’epos, ad esempio nelle figure di Lucrezia e Pene-
lope che «gli strali | avean spezzato e la faretra a lato | a quel
protervo, e spennachiate l’ali», vv. 133-135) l’amante-viator ve-
de la schiera virtuosa di «Mille e mille famose e care salme |
tòrre» dal dominio di Cupido, e strappare a costui «di mano |
mille vittoriose e chiare palme» (vv. 94-96).
È un po’ la situazione visualizzata in uno degli Amoris Divini
Emblemata di Otto van Veen (Pia amoris lucta), dove è l’anima uma-
na a contendere a Cupido la palma della vittoria (fig. 1).14 Al net-
to dell’iperbole esemplaristica e con un transito dalla metafora let-
teraria alla rappresentazione visiva, possiamo riconoscere nell’atto
descritto dal testo petrarchesco proprio l’iconografia realizzata
dall’immagine emblematica. La palma, che Laura-Pudicizia bran-
disce con decisione, riduce Cupido all’obbedienza, ne frena gli ec-
cessi, ne inibisce il potere (e l’emblema vuole ovviamente river-
berare tale effetto anafrodisiaco anche ai ‘servi d’Amore’, in primis
all’io lirico). Lo rende, insomma, «com’uom ch’è sano e ’n un
momento amorba | che sbigottisce e duolsi, o còlto in atto | che
vergogna con man da gli occhi forba | [...] | che paura e dolor,
vergogna et ira | eran nel volto suo tutte ad un tratto» (vv. 106-
111). Lo fa, in un certo senso, divenire come quell’«homo» che
proprio nella vergogna e nella ragione dovrebbe trovare – secon-
do le prescrizioni di Augustinus a Franciscus – un efficace riparo al-
le incursioni delle passioni. Il fuoco della meditazione memoria-
le, attivata dall’emblema, dovrebbe in questo caso cadere sulla fun-

14 Cfr. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl & Morsl, 1615,
p. 30: «Cum Dei Amore, amans anima de palma decertat. Bonum certamen certavi,
cursum consummavi, fidem servavi: in reliquo reposita est mihi corona iustitiae; non
solum autem mihi, sed & iis qui diligunt adventum eius». Su questa raccolta emble-
matica si vedano: ANNE BUSCHHOFF, Die Liebesemblematik des Otto van Veen. Die
Amourm Emblemata (1608) und die Amoris Divini Emblemata (1615), Bremen,
Hauschild, 2004; PETER BOOT, A Mirror to the Eyes of the Mind. Metaphor in Otto van
Veen’s Amoris Divini Emblemata, in Emblemata sacra. Rhétorique et herméneutique du dis-
cours sacré dans la littérature en images / The Rhetoric and Hermeneutics of Illustrated Sacred
Discourse. Actes du colloque international de l’Université Catholique de Louvain (27-
29 janvier 2005), a cura di RALPH DEKONINCK e AGNES GUIDERDONI-BRUSLÉ, Bre-
pols, Turnhout, 2007, pp. 291-303.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 1. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 30.

zione positiva espletata da Laura (non più causa di traviamento ma


angelica salvatrice) e, anche a dispetto del motto, dovrebbe riuci-
re a offrire un messaggio di speranza più forte di ogni timore.
Non è possibile affermare con certezza che la sequenza degli em-
blemi nel manoscritto coincida con un ordine sintagmatico di let-
tura, e che un tale ordine sia proprio quello architettato dall’in-
ventor. Nonostante ciò, la declinazione dei protagonisti della scena
lirica e la situazione relazionale prospettate in questo primo em-
blema sembrano suggerire una precisa linea di decifrazione delle
espressioni simboliche che lo seguono.

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SO COME STA FRA ’ FIORI ASCOSO L’ANGUE

Tav. 2

2. So come sta fra ’ fiori ascoso l’angue

Anche la seconda espressione simbolica ci offre, sulla scor-


ta dell’emblema d’apertura, una visualizzazione di quella psyco-
machia tra ragione e passione che costituisce lo sfondo concet-
tuale di tutto il poema petrarchesco, e che nei Triumphi, a dif-
ferenza che nel Canzoniere, conosce un esito. O meglio, la se-
quenza diegetica dispiegatasi lungo l’intero viaggio onirico
suggerisce un esito, diversamente da quanto accade nei Fragmen-
ta, dove l’intrinseca frammentazione prospetta a tale dissidio
psicologico dell’io lirico una circolarità senza residuo e senza
requie. Eppure anche nella struttura compositiva del terzo ca-
pitolo di TC – a cui appartengono tutti i motti trionfali della
raccolta di Baltimore – si è rinvenuta una dinamica circolare,
attiva però a più livelli, ossia aperta come una spirale piuttosto
che conclusa come una circonferenza. Il primo e più generale
piano sarebbe, secondo Dennis Dutschke, la rappresentazione
narrativa impersonale del corteo delle vittime d’amore (vv. 1-
84); il secondo, la più dettagliata rappresentazione narrativa
personale dell’incontro con Laura (vv. 85-144: caratterizzato
dall’insorgenza del modulo compositivo petrarchesco delle

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A. TORRE, VEDERE VERSI

pluralità); e il terzo, sarebbe il piano, al contempo personale e


interpersonale, della riflessione teorica sugli effetti d’amore
(vv. 145-187), intervallata dal ritratto di Amore (vv. 175-
177).15 Ognuno di questi piani si costruisce semanticamente a
partire dal rispecchiamento negli altri. Tale implicita circolarità
strutturale sembra peraltro dialogare con la circolarità conclu-
sa ed esplicita della forma-terzina, determinante eredità for-
male dantesca che ha consentito a Petrarca «di sanare quel suo
irrisolto oscillare tra narrazione e stasi contemplativa, tra ro-
manzo e radicale atemporalità lirica».16 Lo scarto dall’irripeti-
bile modello diegetico dantesco e al contempo la modalità at-
traverso cui anche nella linearità del percorso trionfale risulta
viva e attiva la struttura dei fragmenta risiedono però nella dif-
ferente funzione attribuita agli exempla che intessono il rac-
conto:

I Trionfi rispondono ad un versante dell’intelli-


genza petrarchesca, ad un assillo primario e fondan-
te, e cioè il confronto tra la propria, individuale, sto-
ria amorosa e tutte le storie d’amore dell’antichità (e
anche moderne, ma poche). Se nel Canzoniere il ro-
manzo è assolutamente autosignificante, nei Trionfi
vuole e deve commisurarsi ad una fantasticata mito-
grafia erotica, ricalcarsi sull’esemplarità dei grandi
uomini e delle grandi donne a ritagliare il margine
di eccezionalità e novità della propria, inconfondi-
bile, storia. Gli exempla non funzionano più o non
soltanto come direttive morali, ma come emblemi
di un passato che si ripete nel presente e rivela l’ec-

15 Cfr. DENNIS DUTSCHKE, Triumphus Cupidinis III (“Era sì pieno il cor di meravi-
glie”), «Atti e memorie dell’accademia patavina di scienze, lettere ed arti», CIV (1991),
3, pp. 257-298, e in part. a p. 272, dove lo studioso conclude: «Il culmine è costituito
da un riepilogo, che parte dalla ripresentazione della figura e della forza di Amore (vv.
175-177), seguìta da un concentrato e progressivo susseguirsi degli effetti dell’amore
per gli amanti in generale e per il Petrarca in particolare, un amore che finisce fatal-
mente (ogni verso è introdotto dalla congiunzione e) in brevissimo riso e lunghi pianti,
per cui il poeta chiude con la riflessione filosofica “e qual è ’l mel temprato coll’as-
sentio”».
16 ARIANI, Introduzione, cit., p. 12.

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SO COME STA FRA ’ FIORI ASCOSO L’ANGUE

cezionale assolutezza del proprio rapporto col fan-


tasma di Laura.17

Complice anche la loro disposizione nel poema – per nul-


la rispettosa della sequenzialità crono-logica della temporalità
mondana –, gli exempla vengono infatti destoricizzati dal con-
fronto coll’emblema atemporale di Laura, vengono ricondotti
all’eterno presente della vicenda amorosa del poeta, vengono
tradotti in simboli memorandi, in emblemi:

[...] in TC III sarà chiaro (ma la Guida si pre-


mura di lanciargli già prima segnali allusivi) che il
nerbo funzionale dei Triumphi è appunto una nar-
ratio in sogno, post factum (e dunque con l’indi-
spensabile lucidità etica e retorica), di una serie di
eventi (o mitologemi personali) esistenziali che
guidano il giovane Francesco all’incontro fatale, da
cui conseguiranno accadimenti tali da indurre l’io
poetante (sognante) a contemplare la morte del
Tempo e un’Eternità emblematizzata nel “bel vi-
so” (TE 142) reincarnato nel “suo bel velo” (TE
143). La “dolce memoria” (TC I, 2) è dunque l’al-
tra grande chiave ermeneutica della struttura oni-
rica dei Triumphi: la “memoria innamorata” (RVF
LXXI, 99), se vorrà rappresentarsi i suoi fantasmi
(secondo Agostino) in una fictio costruita da una
scrittura che tutto rammemora (dunque, secondo
una retorica della descriptio e della evidentia), dovrà
affidarli “al tempo” passato tramite un artificio
evocativo (il sogno) dove il futuro abbia un preci-
so statuto funzionale, appunto perché in somniis
prolessi e verità coincidono.18

Il secondo emblema del corpus statunitense (e della micro-se-


rie trionfale) offre una rappresentazione delle insidie amorose e

17 Ibidem, p. 19.
18 Ibidem, p. 73.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

della perfidia dell’amata attraverso l’immagine scritturale del


campo fiorito della vita celebrato dagli empi (Sap. II, 6-8: «Ve-
nite ergo [...] coronemus nos rosis antequam marcescant, nullum
pratum sit quod non pertranseat luxuria nostra») e attraverso l’i-
conografia, già virgiliana (Ecl. III, 93), del serpente nascosto tra
i fiori (tav. 2). Il concettismo compare anche nel dettato comi-
co dantesco (Inf. VII, 84: «ch è occulto come in erba l’angue»),
da cui probabilmente Petrarca trae la sequenza rimica con figu-
ra di equivocatio (l’angue:sangue:langue). L’immagine ricorre al-
tresì in più di un luogo del Canzoniere. «Quasi un prato» den-
so di nascoste insidie è definita la «vita terrena» nel fragmentum
99, e in esso «’l serpente tra ’ fiori e l’erba giace»; ossia, il peri-
colo risulta latente ovunque, anche nei suoi aspetti più innocenti
o nei caratteri più piacevoli; anzi, proprio in questi ultimi la sua
presenza sia fa più subdola e dannosa, dal momento che «s’alcu-
na sua vista agli occhi piace, | è per lassar più l’animo invesca-
to» (RVF 99, 5-8).19 Le viste cui l’io lirico fa qui riferimento non
sono infatti altro che le varie visioni evocate nella sua memoria
dall’imago agens della «fenestra» presente nel successivo fragmen-
tum 100; e l’invescamento qui paventato diviene nel terzo mo-
mento della microsequenza – il sonetto 101 – piena consapevo-
lezza (con ripresa, si noti, del modulo trionfale «so») dell’impos-
sibilità di svincolarsi da una contemplazione di Laura fine a sé
stessa (vv. 7-8: «per tutto questo Amor non mi spregiona, | che
l’usato tributo agli occhi chiede»). Il concettismo è dunque gio-
cato sulla dialettica tra apparenza e realtà, tra deficit conoscitivo

19 Cfr. PAOLO CHERCHI, Verso la chiusura. Saggio sul “Canzoniere” di Petrarca, Bo-
logna, Il Mulino, 2008, in part. p. 64: «Ecco dunque, l’immagine del prato dove pare
che gli amici, come tutti gli uomini, si siano smarriti. La constatazione è a prima vi-
sta sorprendente perché una lunga tradizione associa lo smarrimento al bosco, alla fo-
resta, alla selva, dove cavalieri e peccatori in genere perdono la diritta via. Però nel pra-
to e non nel bosco late il serpente, emblema archetipico delle tentazioni mondane fin
da quando apparve tra le erbe del Paradiso terrestre; e per questo nel prato, nella pie-
na dolcezza dei beni terreni, ci si smarrisce senza averne la consapevolezza e quindi
senza erigere alcuna difesa. [...] Nel prato, invece, tutto sembra ovvio, chiaro, facil-
mente accessibile e senza pericolo: anche per questo la foresta favorisce la conoscen-
za delle proprie risorse morali (il coraggio e la giustizia nella lotta contro eventuali in-
giustizie) mentre la pianura e la dolcezza del prato assopiscono i sensi lusingandoli; e
poiché il prato non presenta alcuna sfida, esso può creare l’illusione di contenere il be-
ne più alto».

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SO COME STA FRA ’ FIORI ASCOSO L’ANGUE

sensoriale (in particolar modo visivo) e dipendenza anche mo-


rale dagli affetti. Quel che nel sonetto 99 è dato come poten-
ziale viene compiutamente realizzato nella canzone 323 (seppur
in forma di visio, elaborazione fantasmatica condotta sulla scor-
ta della memoria), dove la morte di una «leggiadra e bella don-
na | [...] | punta poi nel tallon d’un picciol angue, | come fior
colto langue» (vv. 62 e 69-70) costituisce uno dei sei quadri at-
traverso cui l’io lirico cerca di elaborare, almeno espressivamen-
te, la scomparsa di Laura, sublimandola attraverso la memoria
poetico-mitologica di Euridice, e innalzandola a episodio supre-
mo della caducità dell’esistenza umana: «Ahi, nulla, altro che
pianto, al mondo dura!» (v. 72).
L’immagine del serpente, con tutta la memoria di simbolo
scritturale che porta con sé, gioca un ruolo centrale anche in
quell’importante esperienza di visualizzazione dell’opera pe-
trarchesca che rappresenta il più prossimo antecedente del fe-
nomeno iconografico «delle imprese, dei simboli, delle allego-
rie, delle decorazioni, delle marche tipografiche, delle iniziali,
etc., accompagnati da versi e distici provenienti dal Canzoniere
del grande poeta aretino»:20 ossia il famoso Incunabolo Que-
riniano G.V.15, postillato e miniato dal letterato Antonio
Grifo, già illustratore della Commedia dantesca.21 In questo
esemplare il corredo iconografico accompagna l’intero testo,
traducendo visivamente i contenuti di ogni singolo componi-
mento, e condividendo con esso responsabilità narrative e se-
mantico-linguistiche.22 Sfogliandone le carte, incontriamo dif-

20 LAMBERTO DONATI, L’influenza petrarchesca nella grafica del libro, «La Bibliofilia»,
LXXV (1973), 3, pp. 283-292, cit. a p. 285.
21 Sull’incunabolo queriniano (di cui nel 1995 è stata realizzata una riproduzio-
ne anastatica a cura di Ennio Sandal per l’editore Grafo di Brescia) si vedano: GIU-
SEPPE FRASSO, GIORDANA MARIANI CANOVA, ENNIO SANDAL, Illustrazione libraria, filo-
logia e esegesi petrarchesca tra Quattrocento e Cinquecento. Antonio Grifo e l’incunabolo Que-
riniano, Padova, Antenore, 1990; PIETRO GIBELLINI, Il Petrarca per immagini del Dilettan-
te Queriniano, «Annali Queriniani», I (2000), pp. 41-62; GIOVANNA ZAGANELLI, La sto-
ria del Petrarca e la favola del Grifo. Costruzioni narrative, «Annali Queriniani», III (2002),
pp. 85-129; FABIO COSSUTTA, Tra iconologia ed esegesi petrarchesca. Note sulla Laura Que-
riniana, «Humanitas», LIX (2004), 1, pp. 66-82.
22 Cfr. GIOVANNA ZAGANELLI, Narrare per immagini: il caso del Petrarca illustrato da
Antonio Grifo, «Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze»,
n.s., LXVII-LXVIII (2005-2006), pp. 275-287.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ferenti gradi di interazione tra i codici: talora una piana tra-


sposizione visiva della poesia petrarchesca, talora una sua più o
meno originale esegesi, talora una sua più tendenziosa riscrit-
tura simbolica. E tra le invenzioni visive di Grifo che meglio
ne rivelano la matrice simbolica vi è senz’altro la particolare
configurazione attraverso cui, lungo quasi l’intero percorso li-
rico, viene ritratto il protagonista. Il Petrarca-agens assume in-
fatti solitamente le fattezze di un libro trafitto da una freccia e
avvolto nelle spire di un serpentello. Il serpente è qui il tradi-
zionale simbolo biblico del traviamento erotico, e l’intero pit-
togramma intende offrire un ritratto morale, interiore, del
poeta ferito dallo strale amoroso e continuamente tentato dal-
la lussuria. Per la funzione identitaria che svolge all’interno
del commento visivo queriniano, l’immagine simbolica sem-
bra condividere lo statuto di (auto)ritratto in aenigmate rico-
nosciuto alle imprese, e di certo implica una precisa interpre-
tazione dell’agens del Canzoniere e della sua vicenda: quella di
un individuo consapevole dell’errore che segna la sua esisten-
za, e intenzionato a seguire un percorso di salvazione morale
e spirituale. Forse anche in ragione di tale progettualità Fabio
Cossutta, nel commentare il pittogramma di Grifo, ha rico-
nosciuto come sua fonte non le due occorrenze del motivo
interne al romanzo lirico, bensì quella proposta dal verso 157
del terzo Triumphus Cupidinis («so come sta tra ’ fiori ascoso
l’angue»).23
Questo verso partecipa alla lunga serie anaforica che – pro-
prio in nome di un’acquisita consapevolezza esperienziale esi-
bita dal protagonista (so) – struttura l’intera sezione centrale del
capitolo (la più lunga dei Triumphi, vv. 151-187). La sezione ci
offre una dettagliata fenomenologia del sentimento amoroso e
della passione erotica attraverso l’elenco delle loro più topiche
immagini ed espressioni: il cuore separato dall’amante come

23 FABIO COSSUTTA, Il Maestro Queriniano interprete di Petrarca, «Critica Lettera-


ria», XXVI (1998), pp. 419-448, in part. p. 425: «sul serpente [...] ci troviamo di fron-
te sicuramente alla ripresa di una simbologia ricorrente, ma anche, in questo specifico
caso, ad una citazione precisa di un verso del Petrarca, e precisamente “so come sta tra
fiori ascoso l’angue” [...] inserito in una più lunga elencazione di acquisizioni cogni-
tive maturate una volta colpito dalla fatal freccia e reso schiavo».

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SO COME STA FRA ’ FIORI ASCOSO L’ANGUE

un’entità dotata di forza e coscienza propria; le reazioni fisiche


ai sentimenti di paura e vergogna che nascono con l’innamo-
ramento; la dura vita dell’amante stretto fra timore e speranza;
la malattia d’amore; la ricerca delle tracce dell’amata; l’identi-
ficazione (quasi metamorfica) tra amante e amato; il contrasto
ardore-gelo (vv. 167-168: «so, seguendo ’l mio foco ovunque
e’ fugge, | arder da lunge et agghiacciar da presso», identico a
RVF 224, 12 e anch’esso di grande fortuna emblematica); l’i-
dentificazione Amore-leone (v. 169); l’immagine del laccio
d’amore (qui metonimicamente canape); Amore come dio on-
nipotente e violento; l’indissolubile e indistinguibile mistione
di dolce e amaro nelle faccende amorose (vv. 186-187: «che
poco dolce molto amaro appaga, | di che s’ha il mèl tempra-
to con l’assenzio»).24 Rispetto alle altre due occorrenze pe-
trarchesche, quella trionfale si connota per un più esibito tono
gnomico-sapienziale, definendosi di fatto come l’attestazione
di una consapevolezza dei tormenti d’amore acquisita per di-
retta esperienza, ossia dopo che il soggetto lirico (colui che
quasi con apotropaica ripetizione dice «so») è stato ferito dal
serpente che «tra ’ fiori e l’erba giace» (RVF 99), e per il mor-
so di questi ha visto perire anche la propria «leggiadra e bella
donna» (RVF 323):

24 ARIANI, Introduzione a Triumphus Cupidinis III, cit., pp. 165-166: «L’esasperata


fenomenologia ossimorica e sinestetica della fisiologia erotica, nel suo impasto di con-
cettismo e sensualità moralizzata, ambedue violenti e devastanti, segnano una delle
punte più avanzate su di un versante sperimentale, già ben radicato nella tradizione
medievale, che agirà, in ambito europeo, fino al Barocco [...]. Lo strenuo esercizio del-
l’antitesi è, si sa, travatura essenziale dei Fragmenta [...], ma in TC IV l’ossimoro sine-
stetico dell’astratto-concreto, implicati senza mediazione similare o metonimica, toc-
ca i vertici inauditi del Palazzo di Amore costruito con sostanze morali oggettivizza-
te, con catacresi simbolicamente figurate. Se in TC III, con la grande anafora dei vv.
151 ss., P. si era esercitato su moduli ritmico-sintattici, in TC IV ha voluto, in pendant
(e in esatta corrispondenza speculare), agire su strutture fono-semantiche, ma sempre
sulla falsariga di una petrosità baluginante e concettistica, tanto che molti commenta-
tori cinquecenteschi, non poco imbarazzati, si chiedevano se TC IV, 115-9, non esi-
bisse, semplicemente, emblemi dipinti sulle insegne di Amore. In realtà, l’emblemati-
smo petrarchesco qui ha raggiunto l’acme di una contaminazione di astratto e con-
creto che, se ha significativi precedenti medievali [...] propone una nuova formulazio-
ne iconica e paradossale delle “sostanze” (Contini) che punta diritto, vista à rebours, al-
l’emblematismo e al concettismo manierista e barocco».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

I vv. 91-187 di TC III hanno avuto, nel tempo, la


fortuna assicurata ad una sorta di breviario dell’amore
petrarchesco: l’autore stesso, nell’adottare una scrittura
epigrafica e percussiva, ha inteso costituire una sorta di
“manuale” fenomenologico riassuntivo, con una luci-
dità formale autoriflessiva che ha avuto ben pochi
eguali. Intanto i vv. 151-84 esibiscono la più lunga
anafora (quattordici so, sedici come) del P. volgare [...].
Che l’intavolatura percussiva (una sorta di mimesi fo-
no-simbolica delle “percosse” – v. 176 – di Amore?)
sia il portato di un preciso progetto ritmico-sintattico,
è dimostrato, in sede correttoria, dall’ulteriore acqui-
sto di tre so [...] e proprio verso la clausola del capito-
lo, quando una residua preoccupazione attenuativa
avrebbe potuto, per amor di variatio, auggerire solu-
zioni alternative. Ma P. non ha deflettuto dall’asprezza
del martellato erotico, perché l’intera sequenza dove-
va incidersi nei T. come chiave risolutiva, come indi-
catore multiplo dai RVF ai T. e viceversa.25

Il verso – soprattutto in quanto motto, estratto dal contesto


ben più problematico dell’intero capitolo – rappresenta dun-
que un efficace interlocutore dialettico dell’immagine ritratta
nel medaglione. Se, nell’economia comunicativa dell’emblema,
quest’ultima funge da implicito, muto avviso della precarietà
insita in ogni condizione di felicità, del pericolo latente dietro
ogni apparenza di serenità e bellezza (il campo fiorito della vi-
ta)26 – il motto dichiara con sfrontato vigore l’unica verità, l’u-
nica arma da opporre al destino: il sapere fondato sull’espe-
rienza (so). Strutturata su questa sinergia, la forma simbolica si
fa espressione di un insegnamento morale di valore universale,
e si presta anche a divenire insegna, impresa di quell’individuo

25 Ibidem, p. 134.
26 Così recita infatti la didascalia di commento all’immagine simbolica: «La sopra
depinta medaglia servirebbe a uno che volesse mutuamente far conoscere a la sua in-
namorata ch’egli conosce a più presso la perfidia del suo cuore, anchor ch’ella gli fac-
cia buona cera e gli mostra d’amarlo, servendosi d’un verso del Petrarca qua sopra
scritto».

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SO COME STA FRA ’ FIORI ASCOSO L’ANGUE

che con meditata prudenza sa opporsi alle fatalità della vita. La


linearità del suo funzionamento semantico ha fatto di questo
emblema una presenza costante delle principali raccolte cin-
que-secentesche. Riprodotto, con minime variazioni, da Para-
din e Camilli (figg. 2 e 3), questo fortunato motivo iconogra-

Fig. 2. CLAUDE PARADIN, Devises heroiques et emblemes,


Paris, Millot, 1614, p. 89.

Fig. 3. CAMILLO CAMILLI, Imprese illustri di diversi,


Venezia, Ziletti, 1586, II, 78 (Giulio Contarini), p. 79.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

fico dà luogo a un vero e proprio ritratto simbolico della pru-


denza, a un tangibile (e, grazie anche al verso petrarchesco, me-
glio memorizzabile) memento della cautela che deve guidare
tutti i nostri affari, specialmente quelli amorosi.27 Ricorda, ad
esempio, Camilli:

Potrebbe ancora essere che egli nel formarsi


questa Impresa, avesse avuto l’occhio alla bellezza di
qualche donna, della quale, stando in pensiero d’in-
namorarsi, egli si consigliasse con tal considerazione
a non entrare in lacci amorosi, come cosa piena di
travagli continui e di quelle pene delle quali tuttavia
nelle loro poesie fanno querela gli innamorati. E
però ch’egli per l’herba intendesse la bellezza di lei,
e dicesse col motto LATET, perché come chi mette il
piede sopra l’herba, dove stia nascosto il serpente, ne
rimane ferito, così chi si dà preda a bellezza di don-
na, vive sempre in quei martiri che sono benissimo
noti a chi prova in effetto una simil vita.28

Sembra che a parlare sia proprio quell’amorino-amante che


nel primo emblema dimostra di conoscere, per diretta espe-
rienza (so), l’auctoritas di Laura-Pudicizia.

27 Si veda almeno: CLAUDE PARADIN, Devises heroiques et emblemes, Paris, Millot,


1614, pp. 89-90: «Latet anguis in herba. En cueillant les fleurs, et les Fraizes des champs,
se faut d’autant garder du dangereus Serpent, qu’il nous peut en venimer, et faire
mourir nos eors. Et aussi en colligeant les belles autoritez, et graves sentences des li-
vres, faut eviter d’autant les mauvaies opinions, qu’elles nous peuvent pervertir, dam-
ner et perdre nos ames» (l’illustrazione raccolta in questo volume presenta un’icono-
grafia minimamente variata, con la serpe che s’arrampica sullo stelo d’erba). L’imma-
gine di un serpente attorcigliato a una pianta di giglio che lascia cadere a terra la vec-
chia pelle (accompagnata dal motto NOVVS EXORIOR) compare come marca del tipo-
grafo fiorentino Bernardo Giunti.
28 CAMILLO CAMILLI, Imprese illustri di diversi,Venezia, Ziletti, 1586, II, 78 (Giulio
Contarini), pp. 79-80.

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VOMENE A GUISA D’ORBO SENZA LUCE

Tav. 3

3. Vomene a guisa d’orbo senza luce

Col terzo emblema assistiamo per la prima volta nel mano-


scritto alla transcodificazione emblematica di un testo del
Canzoniere. Attraverso l’immagine di un uomo bendato che
procede ignaro verso uno strapiombo (tav. 3), ma anche in ra-
gione delle sue inscriptiones (il motto VOMENE A GVISA D’ORBO
SENZA LVCE, e la didascalia di commento «Il sopra depinto si-
gnifica ch’uno che seguita le tracce amorose è simile ad un or-
bo; servendosi d’un verso del Petrarca»), l’espressione simboli-
ca ci offre una trasposizione figurativa del fragmentum 18 con-
densato sinteticamente nei suoi elementi, concettistici ed
esemplari, più rilevanti. Questo sonetto declina la dialettica
tensione-timore, costitutiva dell’intero tessuto lirico del Can-
zoniere, in una dimensione visiva (più precisamente, luministi-
ca) e attraverso una dinamica di movimento. Si instaura qui
una dialettica tra il desiderio di vedere Laura in tutto il suo ful-
gore, e la paura che l’intensità di tale abbacinante visione possa
risultare fatale; tra la speranza riposta in una necessaria ma il-
lusoria fuga, e il disincanto lasciato dalla razionale constatazio-
ne dell’onnipotente forza attrattiva dell’amata. La metonimia

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visualizzante della benda viene a mutuare nell’illustrazione


emblematica l’oscuramento dell’intelletto proprio del travia-
mento sensuale, così come l’incedere a tentoni dell’uomo dà
corpo all’incertezza psicologica implicita nella paradossale vo-
luptas dolendi che guida chiunque «seguita le traccie amorose».
E la scelta di rappresentare la sospensione del movimento nel-
l’attimo immediatamente precedente lo sprofondare dell’indi-
viduo in una definitiva ombra del peccato risponde forse alla
volontà di non vanificare in un eccessivamente didattico por-
tato moralistico il dissidio psicologico tra istinto di sopravvi-
venza e abbandono al desiderio messo in versi da Petrarca.
Il nucleo concettuale antifrastico si dispiega con efficacia
nella definizione architettonica del componimento, intera-
mente calibrata su un rispecchiarsi di parallelismi e opposizio-
ni che trova la sua primaria traccia nello schema rimico costi-
tuito – caso unico nei RVF – da cinque parole rima con ae-
quivocatio: parte, luce, morte, desio, sole. La figura stilistica «interes-
sa l’intero piano semantico del componimento, che condizio-
na e coordina»,29 rendendo particolarmente percepibili la di-
namica luministica, entro cui si sviluppa il dettato poetico, e il
percorso del movimento psicologico indotto dalla situazione
lirica. Così come il dettaglio della benda cattura immediata-
mente lo sguardo dell’osservatore dell’emblema, l’attenzione
del lettore del sonetto viene da subito orientata sulla funzio-
nalità concettistica del termine «luce», da seguire nella sua pro-
gressiva dissolvenza lungo i versi interni delle quartine. La cen-
tralità semantica di questa parola è testimoniata anche dalla sua
costante presenza (sempre in sede rimica) in fragmenta limitro-
fi al sonetto, e che con esso contribuiscono a definire una coe-
rente microsequenza incentrata sull’ambivalente relazione visi-
va (di attrazione e repulsione), che si instaura tra l’amante e

29 STEFANO AGOSTI, Il testo poetico.Teoria e pratiche d’analisi, Milano, Rizzoli, 1972,


pp. 64-67, cit. a p. 65; cfr. anche p. 67: «Il testo si costituisce, quindi, dal rispetto se-
mantico, come espansione di virtualità di senso immanenti ai singoli vocaboli in rima,
attualizzate tramite la collusione omonimica. In altre parole: sono appunto le serie di
omonimi che liberano le possibilità significative dei vocaboli che le compongono, or-
dinando, dentro lo spettro così aperto, le sequenze che dilatano – attraverso l’instaura-
zione di distanze fra i lessemi di superficie, tutti convergenti verso quei punti-chiave
– i nuclei semantici originari».

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l’oggetto del desiderio. Tanto la «luce» verso cui in RVF 14 il


poeta orienta il proprio sguardo anelante un «porto de [...] sa-
lute» (e si noti qui l’uso del possessivo che, per proprietà tran-
sitiva, allude a un sperata unione con l’amata: «Occhi miei»,
«vostra luce», e quindi: luce mia), quanto la «luce | di questa
donna» che in RVF 19 l’amante non riesce a mirare fisamente
(«aspectar») – implicano un risvolto opposto e complementa-
re. Non possiamo infatti dimenticare che l’astro d’orientamen-
to della ballata è anche il «bel viso di quella che v’ha morti»
(RVF 14, 2), e che il destino dell’io del sonetto, novella farfal-
la, è comunque quello di andar «dietro a quel che m’arde»
(RVF 19, 14). In RVF 18 il termine «luce» si fa, in prima istan-
za, espressione della bellezza unica di Laura e, in ragione della
sovrapposizione tra il predicato del secondo verso e il sostan-
tivo del terzo, mostra con evidenza il passaggio di Laura (pa-
rallelo all’allontanamento spaziale dell’amante dall’amata) dal-
lo status di potenza attiva (salvifica fons lucis, costante faro – co-
me le «fatali stelle» di RVF 17, 11 – che investe i luoghi del-
l’esistenza del poeta e il suo paesaggio interiore, intesi comun-
que entrambi come spazi altri, spossessati all’individuo – «quel-
la parte» –) a quello di essenza passiva, quasi inerte copia del
reale. Nei vv. 3-4 Laura sembra infatti ridursi a reliquia, river-
bero memoriale che occupa però senza residuo («a parte a par-
te») la mente del poeta (provocando una saturazione degli spa-
zi mnestici analoga a quella riscontrata in RVF 11, 4: «ogni al-
tra voglia d’entr’al cor mi sgombra»; e RVF 23, 169: «ogni men
bel piacer del cor mi sgombra»); riverbero che testimonia, o
meglio prefigura, l’evento di una perdita («m’è rimasa»). Il già
evidente oscuramento che si percepisce nel passaggio, interno
alla prima quartina di RVF 18, dal fulgore originale («bel vi-
so») al suo ricordo (la «luce» riprodotta/ridotta «nel pensier»
del poeta) viene poi inesorabilmente ad acuirsi nella seconda
strofe, quando il nostro termine è presentato solo per negazio-
ne, quando la lontananza dell’amata provoca il venire meno dei
sensi interni (il cuore che abbandona l’individuo decretando
«il fin de la [...] luce») ed esterni del Petrarca («orbo, senza lu-
ce»). Con un graduale adombramento il vocabolo prepara
inoltre il passaggio alle terzine, delle quali tramite perifrasi ave-
va già prefigurato il concetto-guida (nonché una delle tre cop-

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pie omonimiche, «morte»). Bettarini ha notato, sulla scorta di


Agosti, come la «rete di parole rima» si configuri anche quale
«sintomo d’una prigionia dei sentimenti contraria al movi-
mento di fuga (pur si parte ... fuggo) portato da verbi interni al
verso, similmente omonimici: vommene, non sa ove si vada, meco
non venga, Tacito vo»;30 ossia, sottolinei anche l’altro asse seman-
tico del sonetto, quello che articola il nucleo dialettico deside-
rio-paura in forma di moti opposti del pensiero.
Inconscio e quasi connaturato è il movimento che apre il
componimento con una torsione dell’anima che rappresenta una
vera e propria proiezione del desiderio («io son tutto volto in
quella parte»). A designare la stessa irresistibile tensione lo trovia-
mo anche in RVF 14 («Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro |
nel bel viso») e 15 («Io mi rivolgo indietro a ciascun passo»), do-
ve condivide la sede incipitaria, e in RVF 17, 3 («quando in voi
adiven che gli occhi giri»). Ci si può chiedere se la scelta della fi-
gura di profilo da parte dell’illustratore del manoscritto di Balti-
more non possa esser dipesa anche dalla percezione di tale sfu-
matura di senso del passo petrarchesco. Ma questo primo movi-
mento è appunto solo una tensione, e a compierlo non sarà tan-
to il poeta quanto il suo «cor» che, secondo il topico motivo stil-
novista (più correttamente reso in RVF 17, 12: «l’anima esce del
cor per seguir voi»), da lui «si parte» per ricongiungersi a Laura.
L’io lirico sceglie invece la direzione opposta, in una fuga scrite-
riata e cieca che sfuma nel giro di pochi versi come la brusca fre-
nata di chi comprende l’inutilità del proprio gesto. Dall’impe-
tuoso «vommene» (col predicato che anticipa il soggetto e apre il
verso) al successivo «fuggo» (frenato ritmicamente dall’enjambe-
ment tra i vv. 9-10, e sintatticamente dalla perifrasi avverbiale «ma
non sì ratto») fino al conclusivo «vo» (dislocato in seconda posi-
zione dietro un aggettivo, «Tacito», semanticamente molto pre-
gnante) si percepisce tutta una progressiva attenuazione che tro-
va compimento nella rimozione del movimento dal soggetto, e
nella sua attribuzione solo a ciò che del soggetto rimane: «le la-
grime mie si spargan sole» (v. 14). Posto al centro del sonetto (v.
7), e ad apertura dell’appena ripercorsa parabola psicologica del-
l’io lirico, la similitudine scelta come motto dell’emblema («vom-

30 BETTARINI, Commento, p. 80.

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mene in guisa d’orbo, senza luce») rappresenta dunque il nucleo


drammatico del componimento e, anche grazie al suo corollario
esegetico («che non sa ove si vada e pur si parte»), visualizza in
sintesi la storia dispiegata lungo i quattordici versi, storia di una
«donna che splende nella sua abbagliante bellezza e perciò sgo-
mina i sensi del poeta amante» – sottolinea Figurelli – e del «poe-
ta che, tramortito, cerca salvezza nella fuga, muovendosi come au-
toma privo degli spiriti vitali, mentre il desiderio di veder la don-
na già rinasce e lo punge».31
Così configurato, il messaggio dell’emblema sembra alli-
nearsi a quello più volte espresso mediante il motivo alessan-
drino della farfalla che, attirata dalla luce, brucia alla fiamma
della candela. L’immagine concettistica ritorna spesso nella let-
teratura emblematica e impresistica,32 ed è rinvenibile anche
nel sonetto Son animali al mondo de sì altera, che segue il com-
ponimento petrarchesco qui emblematizzato e che con esso
stabilisce un’evidente continuità tematica. Peraltro, nell’edizio-
ne delle Rime petrarchesche curata e commentata da Vellutel-
lo l’ordine dei due sonetti è invertito e il curatore, dopo aver
spiegato il senso dell’immagine concettistica della farfalla, non
manca di sottolineare la liaison con RVF 18:

31 FERNANDO FIGURELLI, Note su dieci rime del Petrarca (nn. 14, 18, 22-24, 28, 29,
35, 37 e 39 del “Canzoniere”), «Studi petrarcheschi»,VI (1956), pp. 201-221, cit. a p. 203.
32 Cfr. ad esempio GABRIELE SIMEONI, Imprese eroiche et morali, Lyon, Guglielmo
Rouillio, 1574, pp. 186-187: «Un gentil’huomo amico mio mi ricercò di ritrovargli un’im-
presa d’amore, ond’io gli feci disegnare una farfalla intorno a una candela accesa con que-
ste parole, COSÌ TROPPO PIACER CONDVCE A MORTE, seguendo la natura di così semplice
animale, che i Greci dall’amar naturalmente il fuoco han chiamato pujauz, avvertendo che
’l senso di questa impresa può essere inteso doppiamente, conciò sia che appropriandolo
al corpo, ei non è dubbio alcuno (secondo Platone) che uno innamorato è morto in se
stesso, vivendo il suo pensiero (che è la propria vita dell’anima) intorno alla cosa amata.
Onde il detto filosofo soleva dire quand’ei trovava un innamorato, COLVI VIVE IN VN ALTRO
CORPO. Ma attribuendo moralmente questo amore all’anima, egli è certissimo che men-
tre che l’huom si diletta intorno a una bellezza corporale (figurata qui da me per lo splen-
dore della candela) dimenticando bene spesso il Creator per la creatura, e cadendo in qual-
che scandolo, vengono finalmente a perdere il corpo e l’anima. Il che accade ordinaria-
mente a certi ricchi sciocchi innamorati, che volendo parlar di amore non sanno in qual
parte del corpo eglino s’abbian la testa». Su questo motivo topico della produzione em-
blematico-impresistica si veda ARI WESSELING, Devices, Proverbs, Emblems. Hadrianus Junius’
Emblemata in the Light of Erasmus’ Adagia, in ‘Con parola brieve e con figura’. Emblemi e im-
prese fra antico e moderno, Atti del Convegno di Pisa (9-11 dicembre 2004), a cura di LINA
BOLZONI e SILVIA VOLTERRANI, Pisa, Edizioni della Normale, 2008, pp. 87-134.

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Nel precedente sonetto il poeta ha dimostrato


com’egli non era forte da poter aspettar la luce del
bel viso di madonna Laura e che da quella era con-
sumato et arso. Hora in questo dimostra, che non
solamente per tal cagione fugiva di quello, ma il suo
se stesso anchora, quando a la propria luce si senti-
va approssimare.33

Girolamo Ruscelli nelle sue Imprese scelte ricorre proprio a


questo fragmentum petrarchesco (RVF 19, 14: «E so ben ch’io
vo dietro a quel che m’arde») per accompagnare l’impresa di
Giovan Battista Palatino, e nell’espletare tale encomiastico atto
di inventio non può che cogliere il concetto centrale in un’ac-
cezione ottimistica e virtuosa:

Ora, comunque sia, noi abbiamo che questa nota-


bilissima natura e proprietà di cotal animaletto è sta-
ta illustremente celebrata da gli scrittori antichi e
moderni, ma principalmente dal nostro Petrarca con
quel leggiadrissimo sonetto Son’animali al mondo di sì
altera. [...] Onde con molto più convenevole esposi-
zione di quella che fin qui si vede fatta da infiniti, si
ha da dire che in quell’avvicinarsi alla celeste luce de
gli occhi della donna amata, quel grido che fa l’a-
mante, dicendo di saper molto bene che egli s’ap-
pressa a quel che l’arde, sia grido non di spavento ma
d’allegrezza, e che la parola M’ARDE egli dica in otti-
ma parte, quasi voglia dire: mi mortifica alle cose vi-
li, mi purifica, e mi rinova, per farmi poi viver sem-
pre glorioso e lieto nel cospetto di tutti i secoli, co-
me veramente vivono le persone virtuose e chiare.34

33 Il Petrarcha con l’espositione di m. Alessandro Vellutello,Venezia, Nicolò Bevilacqua,


1563, c. 7r.
34 GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri, Venezia, Francesco de’ Franceschi,
1584, p. 431. Cfr. a proposito LEONARD FORSTER, The icy fire. Five studies in european
petrarchism, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1969, p. 7: «Petrarch’s
conceits use simple concepts and concrete images: heat-cold, flame-ice, peace-war; the
candle (the beloved) wich attracts the moth (the lover); the salamander (the lover liv-

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All’interno della letteratura emblematica risulta invece


poco frequente il ricorso al soggetto iconografico presentato
nell’immagine di Baltimore (l’uomo bendato che procede
verso il dirupo). Parzialmente accostabile ad esso potrebbe
forse essere il sesto emblema del Thronus Cupidinis (fig. 4),

Fig. 4. Thronus Cupidinis, Amsterdam,


Willem Ianszoon, 1620, emblema 6.

anonima raccolta secentesca che riproduce molti emblemi


amorosi di Heinsius e Vaenius «con una notevole innovazio-
ne, però, che i costumi dei personaggi, toltone Amore, sono
costumi contemporanei (mentre in Vaenius erano vagamente
classici), e gli sfondi s’animano di figurette, come quadretti di
genere».35 Con una dinamica di movimento apparentemente
affine e col ricorso al particolare della benda (che qui è at-
tributo canonico dell’identità del suo portatore), l’illustrazio-
ne ci mostra però Cupido che si muove verso due donne (la
Ragione e Minerva) e si allontana da una terza cui ha lascia-
to le proprie armi (con ogni probabilità Venere). Seguendo le
indicazioni della subscriptio («Cæce quid a recto declinas cal-
le Cupido? | Audi, quod ratio quodque Minerva monet. |

ing amid the flames of his passion); the hooked fish (the lover); the sun (the beloved);
so concrete in fact that they could later form the basis of love emblems, wich ex-
ploited them pictorially, and could be codified into dictionaries of epithets and pe-
riphrases [...]».
35 MARIO PRAZ, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni, 1946, p. 146.

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Cæcus es, et cæcos pariter tu reddis amantes: | Qui clausis


oculis in sua fata ruunt»), potremmo leggere dunque l’icono-
grafia come una rappresentazione della follia amorosa che,
data la sua potenza, questa volta colpisce proprio il suo tradi-
zionale primo agente. La pazzia di Cupido consiste qui nel
paradossale ripudio dei sensi e nell’abbandono alla saggezza e
all’intelletto.
In una forma più denotativa, ma non priva di suggestioni
semantiche, l’immagine compare anche nell’incunabolo que-
riniano G.V.15. L’apparato iconografico ci presenta infatti alla
c. 5r (fig. 5) il già ricordato “pittogramma” del libro trafitto da
una freccia e avvolto nelle spire di un serpentello, pittogram-
ma che qui si dirige verso uno strapiombo sovrastante una val-
le fiorita (locus amoenus che visualizza la «parte | ove ’l bel vi-
so di madonna luce»), da cui fuoriescono un lauro e una fon-
te, la causa quindi e l’effetto della scelta di sofferenza assunta
dal poeta col movimento. Si noti, a testimonianza dell’origina-

Fig. 5. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 5r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

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le sforzo interpretativo realizzato da Antonio Grifo – artista e


letterato attivo alla corte di Ludovico il Moro che con ogni
probabilità ha postillato e commentato visivamente il Canzo-
niere per donarlo a Beatrice d’Este –, che mentre il simbolo di
Laura si erge nella parte superiore dello strapiombo, la vena di
dolore scaturisce dall’estremo limite inferiore del dirupo (se-
condo una costruzione degli spazi che segue chiare coordina-
te morali e rispecchia le dinamiche antifrastiche presenti nel
testo), e procede a perdersi oltre l’illustrazione verso il margi-
ne del foglio, dove letteralmente quindi le lacrime di Petrarca
si spargono sole.
Raro tra le pagine dei testi a stampa di emblemi e impre-
se, il motivo che nel nostro manoscritto visualizza il sonetto
petrarchesco conosce però un’interessante occorrenza extra-
testuale all’interno del coro ligneo di Santa Maria Maggiore
a Bergamo, dove Lorenzo Lotto tra il 1524 e il 1532 ideò un
sistema di relazioni significanti tra le tarsie riportanti storie
dell’antico testamento e quelle, a soggetto emblematico-ge-
roglifico, che dovevano fungere da coperte lignee delle pri-
me. Se, causa l’ampliamento del coro, le tavole non fossero
state utilizzate come tarsie isolate per coprire tutti gli stalli, le
“imprese” intagliate avrebbero infatti dovuto svolgere la du-
plice funzione memoriale di conservare e rammemorare in
forma sintetica e intuitiva importanti concetti contenuti nei
passi delle scritture sacre illustrati.36 Tra le undici imprese
consegnate da Lotto il 18 febbraio 1527 a Vettor Cossa com-
pare anche quella «relativa alla “storia” di “como Architophel
se apicò et morse per dolor del consiglio men grato al suo si-
gnor”». Come narra l’Antico Testamento, il consigliere Ar-
chitofel sta congiurando insieme ad Absalon contro re Davi-
de, ma con abile doppio-gioco Cusai sventa il piano, spin-
gendo Architofel al suicidio e Absalon a cader vittima di un
agguato del re.37 L’impresa raffigura «un giovane che indossa

36 Cfr. CLARA ALBANI LIBERALI, Una tarsia del coro di S. Maria Maggiore a Bergamo:
il tema della fortuna e Lorenzo Lotto, «Artibus et Historiae», II (1981), 3, pp. 77-83; e
FRANCESCA CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Mag-
giore in Bergamo, Bergamo, Ed. Amilcare Pizzi, 1987.
37 CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri, cit., p. 422.

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sul corpo nudo un mantello ed ha gli occhi bendati; avanza a


tentoni sino al ciglio di un dirupo al limite di uno stretto
sentiero: egli sta per porre un piede in fallo e rischia di se-
guire l’uomo che è già caduto nel precipizio, del quale si ve-
dono soltanto le gambe e un lembo del mantello svolazzan-
te nel vuoto» (fig. 6).38 Nel giovane bendato è pertanto rav-

Fig. 6. Bergamo, Santa Maria Maggiore, LORENZO LOTTO, Tarsia del coro: Absalon,
Cusai e Achitonfel in consiglio (coperto simbolico).

visabile Absalon accecato dal desiderio di potere e destinato


a seguire nella morte il suo iniquo consigliere; così come,
amplificando il messaggio della figurazione su di un piano di
universale esemplarità morale (ed evocando la parabola evan-
gelica del cieco che guida nella fossa un altro cieco), tale ico-
nografia può dar corpo anche a ogni peccatore di superbia
che vede la propria inesauribile brama ribaltarsi nell’impo-
tenza di una cecità spirituale, e condurre a un’inevitabile ca-
duta. Netta è la distanza di tono e di contesto tra l’emblema
di materia petrarchesca e l’impresa di soggetto scritturale, ma

38 Ibidem, p. 423.

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la sostanziale identità delle illustrazioni può indurci a rileva-


re una convergenza di senso tra situazioni psicologico-mora-
li differenti che mettono in scena la dialettica tragica, interna
all’individuo, fra libertà e destino. Nonché ovviamente un’af-
finità morfologica tra meccanismi cognitivi iconico-testuali
che inducono chi li osserva a memorizzare e ricordare, con-
servare e ricreare conoscenza.39 Sotto questo punto di vista,
forse, anche l’immagine del manoscritto di Baltimore, con la
sua attuazione di uno dei tanti emblemi potenziali insiti nel
dettato poetico di Petrarca, può rappresentare, al pari della
tarsia di Lotto, «una delle più suggestive immagini simboliche
che l’“antirinascimento” abbia prodotto», anch’essa inducen-
do «alla percezione tutta interiore dell’incerto, del vuoto, del
nulla della condizione umana».40 Ma anche, prefigurando
icasticamente il destino di chi non sa «come sta fra ’ fiori asco-
so l’angue».

39 Cfr. DIANA GALIS, Concealed Wisdom. Renaissance Hieroglyphic and Lorenzo Lot-
to’s Bergamo Intarsie, «The Art Bulletin», LXII (1980), 3, pp. 363-375, in part. p. 375:
«All of Lotto’s designs for coperti conceal yet reveal “sacred wisdom”. [...] They are sen-
tential and didactic, and their lessons have universal application, being the lessons of
history, philosophy, and theology. In particular, the lessons are those of biblical history
and of moral and theological commentary on it. The coperti are therefore functionally
hieroglyphic». Un caso morfologicamente e funzionalmente analogo è rappresentato
dal coro della basilica di Santa Giustina a Padova, per cui si rinvia ad ANDREA TOR-
RE, Forme e funzioni dell’immagine di memoria nel Cinquecento: due casi, «Intersezioni»,
XXIX (2009), 1, pp. 47-68.
40 CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri, cit., p. 422.

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Tav. 4

4. Amplius non ero

Il quarto emblema del corpus raffigura un uomo che si


muove verso destra in direzione contraria rispetto alle armi
d’amore intrecciate fra loro (tav. 4). La postura dell’indivi-
duo è simile a quella del protagonista della precedente
espressione simbolica, ma tale analogia non sembra com-
portare evidenti legami di senso tra i due emblemi al di là
del comune contesto tematico di critica dell’amor profano.
Come chiarisce la didascalia, l’immagine illustra infatti un
atto di rifiuto del sentimento amoroso che si giustifica in
ragione della troppa sofferenza patita: «Vuole il sopradepin-
to atto inferire che non più intende esser sugetto a li strali
et a le saette d’amore, servendosi de un verso del psalmista
che qua di sopra è scritto».
Il motto è desunto da Salmi 38, 14 e, seppur in tutt’altro
contesto, esprime la stessa tensione al movimento catturata
dall’immagine. Il tema del salmo è la caducità della vita, de-
scritta come un soffio («verumtamen universa vanitas omnis
homo vivens alma») entro il quale l’uomo passa veloce come
un’ombra e si agita vanamente («verumtamen in imagine

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AMPLIUS NON ERO

pertransit homo sed et frustra conturbatur»). Aperto allo


sguardo di Dio, che osserva i suoi peccati e lo punisce, l’uo-
mo implora misericordia dal Signore, chiedendogli di disto-
gliere da sè il suo insostenibile sguardo indagatore, di lasciar-
lo respirare prima che – ombra e soffio qual è – non scom-
paia definitivamente («Avertere a me, ut refrigerer, | priu-
squam abeam et non sim amplius»). Se oltre al singolo sin-
tagma trasferiamo anche l’intera situazione relazionale dal
contesto biblico a quello emblematico, il proposito di cam-
biamento e fuga implicito nella figura viene confermato pu-
re dal motto («amplius non ero»).
L’entità sovrana da cui l’uomo si ripropone di fuggire
non è però più lo sguardo minaccioso e onnisciente di Dio,
bensì l’occhio infallibile del nume tutelare del sentimento
amoroso; dall’opprimente dominio di quest’ultimo l’aman-
te cerca scampo – se estendiamo il parallelismo – prima di
dissolversi sotto i suoi tormenti. Quali attributi fondamen-
tali di Eros, l’arco e le frecce valgono chiaramente da auto-
sufficiente metonimia dell’impertinente fanciullo. Tra le De-
vises et emblemes di Daniel de la Feuille compare, ad esem-
pio, l’impresa Tracta magis feriunt costituita unicamente da
un arco che scaglia frecce; e fra i motti associabili vi è an-
che l’italiano Le parole non feriscono più di me (fig. 7).41 In al-
cune occorrenze del concettismo il rifiuto dell’amante è
ancor più risoluto e si concretizza nell’incendio delle arma
Amoris. «Con l’impresa d’un vasto fuoco, entro il quale ar-
devano alcuni strali, un arco, una faretra, ed una face col
motto IGNE IGNEM» – ricorda Filippo Picinelli – «fu chi di-
notò d’avere col fuoco dell’amor celeste, estinto, e consu-
mato affatto ogni affezione terrena [...]».42 Giovanni Ferro
precisa la notizia riportata, dichiarando che «Giovan Pietro
Airoldo Marcellini figurò la fiamma, dove s’abbruciano al-
cuni strali con motto IGNE IGNEM».43 Al di là di una gene-
rica contestualità relativa alla tematica amorosa, e nello spe-

41 DANIEL DE LA FEUILLE, Devises et emblemes, Augsburg, Kroniger und Goebels,


1697, p. 11.
42 FILIPPO PICINELLI, Mondo simbolico, II, 1, Milano, Francesco Vigone, 1680, p. 42.
43 GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese, Venezia, Sarzina, 1623, p. 319.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 7. DANIEL DE LA FEUILLE, Devises et emblemes,


Augsburg, Kroninger und Goebels, 1697, p. 11.

cifico alla condizione di piena subalternità dell’amante al


volere di Cupido o, ancor più, dell’amata – è difficile rin-
venire un collegamento stringente tra questo emblema e le
altre espressioni simboliche di esibita pertinenza petrarche-
sca. D’altra parte però la moralità ad esso sottesa, ossia la ne-
cessità di un volontario abbandono dei domìni erotici, ri-
sulta perfettamente coerente con l’avvertimento e l’inse-
gnamento ribaditi lungo l’intera raccolta (e, in questi docu-
menti iniziali, espressi con chiarezza dalle occorrenze trion-
fali).

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QUEL FOCO CHE PENSAI FOSE SPENTO

Tav. 5

5. Quel foco che pensai fose spento

Il nucleo concettuale dell’ineluttabilità del destino è svi-


luppato nuovamente nel quinto emblema del manoscritto di
Baltimore che trae figura e motto dalla ballata 55 del Canzo-
niere (v. 1: «Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento»), incentra-
ta sul tema dell’inevitabile disincanto di fronte alle speranze
terrene. Nel caso specifico, l’immagine del fuoco, che si ravvi-
va improvvisamente dopo aver dato l’impressione di essersi so-
pito, traduce visivamente il venire meno nel poeta dell’illusio-
ne di ritenersi finalmente libero dalla propria passione (secon-
do l’archetipo della Medea ovidiana di Met. VII, 76-83). Que-
sto fragmentum è spesso letto in relazione dialettica col madri-
gale che lo precede, quale prudenziale memento a non abbassa-
re mai la guardia di fronte al traviamento amoroso. Il ritorno
alla piena coscienza di sé proprio un attimo prima del cedi-
mento ai demoni erotici dell’ora meridiana, o secondo un’al-
tra lettura proprio all’indomani dell’abbandono della giovani-
le età (RVF 54, 10: «e tornai indietro quasi a mezzo ’l giorno»),
sembra infatti indurre il poeta a sottovalutare l’ardore della
passione che ancora cova sotto le ceneri prodotte «dal freddo

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A. TORRE, VEDERE VERSI

tempo e da l’età men fresca» (RVF 55, 2), rischiando così di ca-
dere in un «secondo error» più grave nei suoi presupposti (per-
ché recidiva di un traviamento ben consapevole: «sia peggio»)
e più devastante nei suoi effetti (v. 10: «non pur qual fu, ma pa-
re a me che cresca») di quel «primo giovenile» (RVF 1, 3) da
cui scaturisce l’intero romanzo lirico.
Come ci conferma anche il breve testo di commento, l’il-
lustrazione del manoscritto di Baltimore coglie il nucleo con-
cettuale del componimento e lo esprime con icastica sintesi,
raffigurando un uomo seduto che ha invano tentato di spe-
gnere un focolare gettandovi sopra una pietra (tav. 5):

Questo vuole inferire che, avendo messo più


pietre sopra il suo fuoco, cioè più ragioni salde co-
me pietre sopra le fiamme d’amore, e quando pen-
sava aver del tutto amorzate le fiamme, le vede rav-
vivarsi e farsi più ardente che mai; accomodandosi
del sopra scritto verso tolto dal Petrarca.

Assente nel testo poetico (e solo alluso dal participio «rico-


perte»), il particolare della pietra funge con ogni probabilità da
secondo elemento agente della moralità, espressione di quella
Ratio che dovrebbe spegnere il fuoco di ogni vana e pertur-
bante concupiscentia carnis et oculorum. A meno che, del tutto
plausibilmente peraltro, non si voglia cogliere nel masso una
reificazione degli attributi di fredda aridità imputati all’età ma-
tura («freddo tempo», «età men fresca»; indicazioni atmosferi-
che significativamente antifrastiche rispetto a «l’erbe verdi» di
RVF 54, 4), l’aggiunta può configurarsi come un’integrazione
ermeneutica al dettato poetico che esplicita e amplifica, con
funzione pedagogico-moralizzante, ciò che tra i versi è dato
per scontato anche perché, dal punto di vista dell’autore,
espressione di uno sforzo inutile. Se in Petrarca il concetto rap-
presenta la registrazione di un dato di fatto (ossia, l’incapacità
del poeta di sottrarsi al giogo amoroso di Laura), in ogni suo
possibile lettore – e a maggior ragione in chi legge questo Pe-
trarca nella forma moralizzata dell’emblema – la visualizzazio-
ne della Ratio costituisce invece il passaggio fondamentale per
l’evidente ed efficace espressione di un messaggio morale che,

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QUEL FOCO CHE PENSAI FOSE SPENTO

nelle intenzioni e negli auspici dell’emblematista, detiene an-


cora una piena e attiva valenza parenetica, oltre che didattica.
Da questo punto di vista risulta interessante anche la partico-
lare configurazione della pietra posta sulle fiamme. Non si trat-
ta infatti di un masso irregolarmente sferico, uno dei tanti su
cui lo stesso io lirico – nel testo e nelle sue illustrazioni – se-
deva e mirava pensieroso, e che di fatto erano metonimie ono-
mastiche dell’amante impietrito. La pietra è invece quadrata,
perché la quadratura, contraria alla volubilis rota della Fortuna,
indica stabilità, come testimonia anche la visione della nuova
ed eterna Gerusalemme (Apocalisse 21,10: «Et civitas in quadro
posita est» [Bettarini]).
Nel quadro dei rapporti tra micro- e macrotesto del Can-
zoniere, e tra fonte testuale ed elaborazione figurativa, non ri-
sulta poi priva d’interesse la postura caratterizzante la figura
umana ritratta (o dovremmo forse dire il “manichino” che dà
corpo all’anima del soggetto poetante), che sembra per certi
aspetti debitrice del passo in cui nel madrigale 54 – come s’è
detto, “primo atto” della storia dell’anima qui messa in scena –
si segnala la presa di coscienza dell’errore da parte del prota-
gonista: «Allor mi strinsi a l’ombra d’un bel faggio, | tutto pen-
soso; e rimirando intorno, | vidi ...» (RVF 54, 7-9). Questa
pathosformel risente con ogni probabilità anche dell’interferen-
za dell’explicit della contigua canzone 50 (vv. 76-78: «ch’assai ti
fia pensar di poggio in poggio | come m’à concio ’l foco | di
questa viva petra, ov’io m’appoggio»). Nell’emblema l’uomo, se-
duto al modo di molti topici “riposi idillici” (secondo un mo-
dulo iconografico adottato anche in codici e stampe per ri-
trarre l’auctor/agens Petrarca), pare infatti osservare pensieroso e
indicare le fiamme che rinvengono da sotto le pietre, guidan-
do così l’attenzione del lettore verso il fulcro semantico della
narrazione visiva. La stessa sostituzione della pietra al «bel fag-
gio», quale sostegno dell’individuo, potrebbe intendersi come
ulteriore traccia del generale inaridimento tonale che accom-
pagna l’evolversi della narrazione dall’illusione al disincanto. Il
nucleo concettuale sottolineato dalla dialettica contrapposizio-
ne tra i due fragmenta contigui – ossia l’idea di una coazione a
ripetere gli errori quasi consustanziale al destino del protago-
nista – trova puntuale conferma anche nella struttura rimico-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ritmica e nelle spie linguistico-stilistiche della ballata. L’esibito


contrasto tra tempi verbali (ad es., pensai/rinfresca, fur spente/veg-
gio: dove, peraltro, la struttura a chiasmo articolata nel giro dei
quattro primi versi evidenzia lo scarto di consapevolezza del-
l’io lirico, il passaggio da una soggettiva presunzione a un da-
to oggettivo), nonché l’uso insistito del prefisso iterativo nei
predicati (rinfresca, ricoperte, rinvesca) e l’anafora sintagmatica
che replica l’incipit programmatico nel verso 11 («Qual foco
non avrian già spento e morto»), sono solo alcuni degli ele-
menti che contribuiscono a sviluppare nell’ottica sovraccenna-
ta il senso complessivo del componimento.
Un discorso a parte merita poi la ripetizione in sedi rimi-
che non casuali di termini cruciali per la semantica dell’intero
testo, ripetizione effettuata col costante ricorso a procedimen-
ti di elaborazione della rima (rima ricca, derivativa, equivoca),
e strategicamente collocata nei punti estremi del testo, luoghi
sensibili della comunicazione letteraria. Possiamo ad esempio
notare che, in avvio, il sintagma qualificante l’auspicato assopi-
mento senile dei sensi (v. 2, «men fresca») confluisce, negando-
si, nel predicato che rivela tutta l’inattendibile apparenza di ta-
le status affettivo (v. 3, «rinfresca»). Tale movimento di senso si
distende in un tessuto sonoro che ne accompagna strenua-
mente la percezione da parte del lettore (foco, fosse, freddo, fre-
sca, fiamma, rinfresca). Non diversamente, la voce verbale che
lascia intravvedere la «speranza» di una via di fuga dai «lacci»
dell’amata («n’esca») s’annulla a sua volta nel predicato sostan-
tivale che in explicit sancisce l’irrevocabile destino di cattività
dell’amante («rinvesca»). Si noti qui peraltro come la stessa fi-
gura di aequivocatio che crea la relazione rimica (èsca/-ésca) ac-
quisti quasi significato in sé quale autoironica realizzazione,
nell’atto di scrittura poetica, dell’ambiguità di pensiero e di
sentimenti sofferta dal poeta: volere la libertà e desiderare la
prigionia. Tale manierato lavorìo sulla struttura rimica produ-
ce anche un’amplificazione fonica che evidenzia la funziona-
lità concettistica di un termine-chiave della ballata – ésca –, pa-
rola-rima del verso posto nel centro esatto del componimen-
to (v. 9). In questo punto essa compare accanto all’altro im-
portante termine faville (non a caso evidenziato come petrosa
rima interna dei precedenti mille e distille), e offre risalto (e me-

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QUEL FOCO CHE PENSAI FOSE SPENTO

moria) a una coppia che sintetizza in sé il piano dialettico il-


lusione-disillusione, già denunciato a livello di microtesto dal-
l’analoga dittologia «fiamma e martir» del v. 3, e a livello di ma-
crotesto dal nesso logico tra i fragmenta 54 e 55.44
Proprio la centralità di senso offerta da Petrarca al concet-
tismo di “esca”, rende peraltro plausibile l’ipotesi di Mario
Praz che riconosceva in questa ballata l’arguzia che aveva dato
origine a un’altra, forse più fortunata, immagine emblematica,
quella dell’amorino che ravviva col mantice la fiamma di un
fornello, immagine cara a Serafino Aquilano e da lui diffusa tra
i petrarchisti francesi.45 E alla fortuna emblematica e impresi-
stica del motivo del mantice, quale più immediata visualizza-
zione concettistica del dettato poetico di RVF 55, si può forse
imputare la rarità di un’esegesi figurativa come quella propo-
sta nel manoscritto di Baltimore, esegesi figurativa che non
compare neppure nell’incunabolo queriniano G.V.15, dove nel
margine della ballata si dà invece spazio al tema del pianto, qui
trascurato. Con una scelta rara nell’apparato iconografico (e si-
gnificativa della volontà di mostrare una riflessione introspetti-
va del poeta) l’illustrazione ci offre il solito pittogramma del li-
bro presentandolo però spalancato a metà e rivolto frontal-
mente verso il lettore (c. 24r), senza freccia e senza serpente, e
con due pagine occhiute che versano copiose lagrime sopra
un fuoco (fig. 8). Impegnato a costruire con piglio esegetico
una coerente narrazione visiva parallela della vicenda dispiega-
ta liricamente dal Petrarca, l’illustratore dell’incunabolo

preferisce tradurre in immagini due distici comple-


mentari e precisamente collocati all’inizio delle due
stanze, ovvero: «Non fur mai tutte spente a quel
ch’io veggio | ma ricoperte alquanto le faville» e

44 Cfr. ARNALDO BRUNI, Petrarca dalla frequentazione al rifiuto del mito (RVF 51-
60), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, a cura di MICHELANGELO PICONE, Ra-
venna, Longo, 2007, pp. 141-160, in part. p. 147: «La contiguità rispetto a 54 eviden-
zia il carattere drammatico della ricaduta, esaltando l’andamento imprevedibile e mi-
sterioso dell’evento. La vischiosità del processo drena nel distico finale a rima baciata,
per giunta inclusiva, che affida al bisticcio di rimanti in rotta di collisione semantica
l’andamento avvolgente dell’interferenza».
45 PRAZ, Studi sul concettismo, cit., pp. 106-110.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

«qual foco non avrian già spento et morto | l’onde


che gli occhi tristi versan sempre», ottenendo in tal
modo una variante originale e nello stesso tempo
carica di valenze simboliche e retoriche, non essen-
dosi mai visto prima un libro che piange (adynaton),
né che sia ad un tempo arso dalle fiamme e inumi-
dito dalle lacrime (oxymorum). Contemporaneamen-
te il pittogramma aperto con gli occhi gementi ac-
quista un’anima, e rivela la vita che ivi entro s’a-
sconde.46

L’istanza rappresentativa prevale dunque in questo passag-


gio dell’esemplare bresciano, e l’elaborazione del materiale
poetico sembra meno incline che altrove a rifunzionalizzazio-
ni emblematiche simili a quella che di RVF 55 ci offre il co-
dice di Baltimore.

Fig. 8. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 24r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

46 COSSUTTA, Il Maestro Queriniano interprete di Petrarca, cit., pp. 435-436.

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DE LAQUEO VENANTIUM

Tav. 6

6. De laqueo venantium

Puossi la sopra depinta medaglia apropriare a di-


versi sugetti ma il senso che noi gli daremo sarà: co-
me un’anima, intesa in questo per un buon intelet-
to, non se avrà lasciato pigliare a questi piaceri ve-
nerei e tereni, ma avrà messo ogni sua cura e studio
ne le cose alte e divine; servendosi di un verso del
psalmista qua di sopra notato.

La didascalia di commento offre in questo caso indicazioni


preziose per comprendere il significato dell’espressione simbo-
lica e contestualizzarne l’area di intervento entro un discorso
moralistico di matrice religiosa. L’indicazione della fonte bibli-
ca del motto ci consente infatti di rinvenire un’occorrenza del
concettismo in Salmi 9, 16 («Infixae sunt gentes in fovea, quam
fecerunt; | in laqueo isto, quem absconderunt, | comprehen-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

sus est pes eorum») e di leggere correttamente l’immagine co-


me rappresentazione di una virtuosa fuga dell’anima dall’insi-
dia delle terrene passioni amorose, visualizzate in forma di
quattro amorini che predispongono una trappola; la rete del
motto, appunto (tav. 6).
Il motivo non è nuovo all’iconografia emblematico-impre-
sistica, anche se generalmente viene utilizzato, tanto in ambito
sacro quanto profano, per sottolineare l’ineludibile condizione
di cattività cui l’anima è costretta per il proprio bene o in ra-
gione di un malevolo destino. Come spesso accade, l’occor-
renza primaria del concettismo appartiene al contesto dell’a-
mor profano, e da lì viene attinta e riconvertita per successivi
impieghi spirituali. Il Canzoniere petrarchesco è ovviamente il
primo repertorio da cui attingono gli emblematisti. Negli Em-
blemata amatoria (1607) di Daniel Heinsius, ad esempio, la pic-
tura dell’emblema 21 ci presenta un amorino che compiaciuto
osserva il proprio trofeo di caccia, un uccellino che volonta-
riamente sceglie di entrare in una gabbia appesa a un ramo
(fig. 9). Minimamente variata l’iconografia ricorre anche nei
Sinne-en minnebeelden di Jacob Cats (1627, embl. 14, fig. 10),
dove il motto AMISSA LIBERTATE LAETIOR accompagna il mo-
mento successivo della vicenda (l’uccellino è già felicemente
prigioniero) e riecheggia il verso petrarchesco adottato da
Heinsius – PERCH’IO STESSO MI STRINSI –; frammento di un
passaggio del fragmentum 266, in cui Petrarca sviluppa la me-
tafora per descrivere il doppio servaggio volontario (a Laura e
al cardinal Colonna) cui si è sottoposto nella piena consapevo-
lezza degli affanni inestricabilmente connessi a quei piaceri:
«Carità di signore, amor di donna | son le catene ove con mol-
ti affanni | legato son, perch’io stesso mi strinsi» (vv. 9-11).
Negli Emblemata amatoria (1611) di Pieter Cornelisz Hooft la
situazione narrativa qui prospettata si arricchisce di dettagli e
rende più complesso il proprio messaggio. Il quadro ci mostra
infatti un uccellino chiuso in una gabbia, sotto gli occhi di un
bellicoso Cupido e lo sguardo rapace di un’aquila e di un gat-
to che ne attendono famelici l’uscita (fig. 11). Sullo sfondo, al-
l’ombra dalla topica calura bucolica, un giovane dorme sereno
adagiato sul grembo di una bella donna. Anche lei sembra os-
servare la gabbia posta in primo piano al centro dell’immagi-

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DE LAQUEO VENANTIUM

Fig. 9. DANIEL HEINSIUS, Emblemata amatoria,


Amsterdam, Boeckvercooper, 1608, emblema 21.

Fig. 10. JACOB CATS, Sinne-en minnebeelden,


Leiden, Deyster, 1779, emblema 14.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 11. PIETER CORNELISZ HOOFT, Emblemata amatoria,


Amsterdam, Willem Ianszoon, 1611, p. 67.

ne. Il distico di commento, che esplicita il parallelismo tra il


piano narrativo e quello simbolico («Inclusam accipiter frustra,
felisque volucrem | Rapturiunt. Nequeo captus amore mo-
ri»),47 e il motto SERVA SED SECURA, che sulla scorta del pe-
trarchesco «Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio» (RVF
244, 1) dichiara il portato morale del soggetto, costituiscono la
cornice necessaria entro la quale l’illustrazione partecipa alla
delineazione in forma di emblema dell’episodio mitologico di
Adone e Venere, di una sintesi figurale delle varie opzioni di
sviluppo della fabula ovidiana, e delle implicazioni di senso che
ognuna di esse suscita: in primis, della vicenda di Adone come
espressione mitica di una scelta, esiziale, tra l’azione e la stasi,
tra una razionale volontà produttiva e un’istintiva energia di-
spersiva. Questo snodo tragico accompagna il mito fin dall’an-
tichità (orientale, greca e latina) dove Adone è costantemente
chiamato a decidere: se stare nell’emisfero superiore con Vene-
re o nell’oltremondo infero insieme a Proserpina, se cedere al-
le profferte amorose di Venere o preservare la propria adole-

47 PIETER CORNELISZ HOOFT, Emblemata amatoria, Amsterdam,Willem Ianszoon,


1611, p. 67.

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DE LAQUEO VENANTIUM

scenziale verginità, se continuare senza sosta i piacevoli trastul-


li con la dea o dedicarsi alla pericolosa arte della caccia, se af-
frontare il cinghiale o cercare scampo nella fuga. Adone può
dunque scegliere. E il racconto visivo di Hooft riflette tale po-
tenzialità presentandoci l’istante in cui la vicenda sta per mu-
tare, e prefigurando il valore di tale cambiamento. Il giovane è
prigioniero dell’abbraccio di Venere (in una posa che più tardi
caratterizzerà la tradizione figurativa del compianto sul suo
corpo morto) ma da un momento all’altro potrebbe alzarsi e
partire per la caccia; l’uccellino è chiuso in gabbia, ma da un
momento all’altro potrebbe volare via e cadere vittima dei suoi
predatori. Il servitium Amoris parrebbe dunque, nella proposta
di Hooft, non solo inevitabile ma anche preferibile.48
Nell’emblematica sacra il concettismo tende a rielaborare la
situazione, spostando l’attenzione dalla figura del volatile pri-
gioniero a quella del cacciatore, non più un Cupido predatore
di amanti, ma vera figura Christi che col proprio vivo esempio
attira a sé le anime allo sbando. Ne Il Memoriale, panegirico sa-
cro che Emanuele Tesauro dedica al tema delle stigmate, la pas-
sione di Cristo viene illustrata metaforicamente anche come
una caccia al «Divino Amore» che si conclude con la trappola
della Croce:

[...] et ogni piaga fu un laccio teso per darlo a


morte: Venatione ... me quasi Avem inimici mei gratis.
Dimandate voi dunque Quid sunt Plagae istae? e vi
dirà Sant’Ambrogio, che elle son reti, e lacci, dove il
Divino Amore hoggi restò intricato su l’Arbore del-
la Croce da color ch’egli amava.49

48 Un’analisi della morfologia della fabula di Adone vòlta a far emergere, per ogni
variazione (testuale e iconica), le specifiche strategie autoriali che concorrono alla ri-
definizione del personaggio mitologico come moderna figura di anti-eroe è proposta
in Variazioni su Adone. I. Favole lettere idilli (1532-1623), a cura di ANDREA TORRE,
Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009.
49 EMANUELE TESAURO, Il Memoriale, in ID., Panegirici et Ragionamenti,Venezia, G.F.
Valvasense, 1671, III, pp. 333-360, cit. a p. 355. Su questo testo e più in generale sulla
metaforica memoriale delle stigmate mi permetto di rinviare ad ANDREA TORRE, «Ri-
mirandolo coll’occhialino». Piaga, straforo, protratto, «Testo. Studi di teoria e storia della let-
teratura e della critica», LVIII (2009), pp. 35-56.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Poche pagine dopo Tesauro ribalta l’assetto canonico del-


l’immagine, facendo di Cristo non più una preda ma un pre-
datore che «sopra l’arbore istesso disponendo amorose insidie,
aspetta al varco le Anime fugaci, e con le medesime reti delle
sue piaghe salutevolmente le coglie» (p. 355). La sofferenza di
Cristo sulla Croce, ben testimoniata dalle piaghe, attira infatti
le anime misericordiose, e fa che esse meditino compassione-
volmente sul suo destino come specchio del proprio:

E, oh quante, oh quante anime intenerite a quel-


le voci, mentre compassionevolmente van meditan-
do l’acerbità di quelle piaghe, dalle piaghe medesi-
me dolcemente restano prese, e guadagnate da Cri-
sto a Dio.50

Le dinamiche di proselitismo qui esemplificate sono spesso


visualizzate in ambito emblematico e impresistico a ritrarre il
modello virtuoso di Cristo crocifisso o di chi si è fatto marti-
re in suo nome. Paolo Aresi ricorda, ad esempio, la figura di
santa Caterina, vergine e martire, attraverso l’immagine del
cardellino, uccello che nel suo «color porporeggiante» ben rap-
presenta chi è «stata sovente bagnata del proprio sangue» e ha
«acquistata la corona del martirio [...] ornata di molte gemme
di straordinari tormenti»; uccello che, altresì, in ragione della
sua docilità, facilmente si presta ad essere ammaestrato e a di-
venir efficace strumento per l’uccellagione, poiché «col suo
canto gli altri invita, e fa cader nelle reti». Allo stesso modo in
cui, quindi, «Santa Caterina Vergine, e Martire molto eloquen-
te» ha «guadagnato molte anime a Dio» attraverso però non «il
saper portar, o moderar la voce, quanto al suono, ma sì bene
[attraverso] il favellar sensatamente, il dir parole piene di sapien-
za celeste, il convertir col suo dire le anime a Dio» (fig. 12).51
La stigmate (qui iperbolizzata nel corpo sanguinante, e sangui-
gno, di Caterina martirizzata) si propone dunque come segno
significante e come memoria eloquente dell’exemplum Christi.

50 TESAURO, Il Memoriale, cit., p. 357.


51 PAOLO ARESI, Imprese sacre, Tortona, P.G. Calenzano et E. Viola, 1630, libro V,
impresa CXXXVIII, pp. 362-378.

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DE LAQUEO VENANTIUM

Fig. 12. PAOLO ARESI, Imprese sacre,


Tortona, P.G. Calenzano e E. Viola, 1630, V, impresa CXXXVIII, p. 362.

L’emblema di Baltimore elabora il concettismo da un dif-


ferente punto di vista e si offre così come una testimonianza,
fra le altre, del forte sincretismo tra filosofia platonica e pen-
siero cristiano. Il moto ascensionale dell’anima in fuga dai «pia-
ceri venerei e terreni» non può infatti che rinviare in prima
istanza alla conflittuale immagine platonica dell’anima incarce-
rata nel corpo.52 Nel Fedone Platone ricorre al pretesto narra-
tivo del racconto delle ultime ore di vita di Socrate per af-
frontare il tema della conoscenza della verità, conoscenza rag-
giungibile solo quando l’anima non viene ostacolata o appe-
santita dagli elementi sensibili (il corpo in primis, ma anche
ogni sostanza materiale esterna ad esso e che da esso viene per-
cepita a livello sensoriale), e può così perseguire la contempla-
zione del mondo ideale. Il postulato da cui muove la riflessio-

52 Su questa fortunata immagine metaforica si vedano almeno: PIERRE COUR-


CELLE, Traditionplatonicienne et tradition chrétienne du corps-prison, «Revue des études la-
tins», XLIII (1965), pp. 406-433; e ILARIO TOLOMIO, “Corpus carcer” nell’Alto medioevo.
Metamorfosi di un concetto, in Anima e corpo nella cultura medievale, a cura di CARLA CA-
SAGRANDE e SILVANA VECCHIO, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 1997, pp. 3-19.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ne socratica è dunque che la serena accettazione della morte,


o addirittura la sua volontaria ricerca, rappresenta la condizio-
ne propria dei veri sapienti e la necessaria conquista da parte
di chi tende a tale titolo. Concepita la morte come oggetto e
come fine della filosofia, ogni atto umano dovrebbe conse-
guentemente declinarsi come una continua tensione verso la
purificazione dell’anima da tutti quegli elementi sensibili che
oscurano in essa la visione della verità. Ma una siffatta quoti-
diana tensione, si chiede retoricamente Socrate, «non consiste
nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a
raccogliersi e a concentrarsi sola in se stessa, a prescindere da
ogni parte del corpo, e a dimorare, per quanto è possibile, in
presente e in futuro, sola in se stessa, quasi sciolta dalle catene
del corpo?».53 E dunque, continua, questo atto di separazione
deve essere il vero e ultimo compito «di quelli che filosofano
rettamente»?54 A queste interrogazioni fittizie, che il filosofo
rivolge con fine maieutico all’allievo Simmia, ha più volte cer-
cato di rispondere anche Francesco Petrarca; e vista la centra-
lità della poesia e dell’immaginario petrarchesco per l’elabora-
zione delle immagini simboliche del manoscritto di Baltimo-
re, mi sembra opportuno riprendere – a commento del pre-
sente emblema – alcune riflessioni di Petrarca sul tema plato-
nico del corpus carcer, riflessioni che nascono dalla sua diretta
lettura dei codici platonici e che – a testimonianza del peso

53 Plato latinus II. Phaedo interprete Henrico Aristippo, 67c-d, a cura di LORENZO
MINIO-PALUELLO, London, The Warburg Institute, 1950, p. 18: «Mundificacio esse igi-
tur numquid non hoc contingit, quod dudum in sermone dicitur, separare quam
maxime a corpore animam et assuefacere ipsam secundum se ipsam ab undique ex
corpore colligique et coartari, et habitare iuxta quod possibile et in nunc presenti et
in deinceps solam secundum se ipsam, absolutam tamquam vinculis a corpore» [«Di
conseguenza la purificazione, come da tempo diciamo nel nostro discorso, non con-
siste nel separare il più possibile l’anima dal corpo e nell’abituarla a raccogliersi e a
concentrarsi sola in se stessa, a prescindere da ogni parte del corpo, e a dimorare, per
quanto è possibile, in presente e in futuro, sola in se stessa, quasi sciolta dalle catene del
corpo?»].
54 Phaedo interprete Henrico Aristippo, cit., 67d, p. 18: «Solvere vero ipsam, ut di-
cimus, affectant semper precipue et soli philosophantes recte, et meditacio ipsum
hoc est philosophorum, solucio et separacio anime a corpore; necne?» [«Ma scio-
glierla, come dicemmo, desiderano sempre e soltanto quelli che filosofano retta-
mente: questo è l’esercizio proprio dei filosofi, lo scioglimento e la separazione del-
l’anima dal corpo; o no?»].

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DE LAQUEO VENANTIUM

anche biografico di tale questione – abitano soprattutto le pa-


gine dell’epistolario e del Secretum, ma trovano una declinazio-
ne lirica anche nel Canzoniere.
Petrarca lesse e postillò il Fedone sull’odierno manoscrit-
to Par. lat. 6567 A.55 A c. 6v troviamo due postille (con ogni
probabilità a lui attribuibili) di sintesi dei concetti espressi:
«de m[un]dificatio[n]e mentis» e «unde ysaac. li[ber]. de
diff[initi]onib[us]. phi[losophi]a e[st] cura [et] sollicitudo
mentis». Il rinvio bibliografico della seconda postilla è a Isaac
ben Salomon Israeli, medico e filosofo neoplatonico vissuto
tra l’832 e il 932, noto soprattutto per il suo Liber de defini-
cionibus tradotto in latino da Gerardo da Cremona. Il passo
cui si fa riferimento è quello che nella versione latina recita
«Et propter hoc dixit Plato quod philosophia est taedium et
cura et studium et sollicitudo mortis».56 Balza all’occhio la

55 Sul “platonismo” di Petrarca si vedano: MARCEL RAYMOND, Le platonisme de


Pétrarque à Léon Hebreu, in Actes du V Congrès de l’Association Guillaume Budé (Tours et
Poitiers, 3-9 septembre 1953), Paris, Le belles lettres, 1954, pp. 293-319; ROBERTO
WEISS, Medieval and Humanist Greek. Collected Essays, Padova, Antenore, 1977; DANIE-
LA GOLDIN FOLENA, Petrarca e il medioevo latino, «Quaderni petrarcheschi», IX-X
(1992-1993), pp. 459-487, in part. pp. 478-487; SEBASTIANO GENTILE, Le postille pe-
trarchesche al Timeo latino, «Quaderni petrarcheschi», IX-X (1992-1993), pp. 129-139;
CLEMENS ZINTZEN, Il platonismo del Petrarca, «Quaderni petrarcheschi», IX-X (1992-
1993), pp. 93-113; LUIGI DE VENDITTIS, Il platonismo agostiniano del Petrarca, in ID., Vo-
ci di antichi e di moderni, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1995, pp. 7-27; ENRICO FEN-
ZI, Platone, Agostino, Petrarca, in ID., Saggi petrarcheschi, Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 519-
542; LUCA MARCOZZI, Petrarca platonico, Roma, Aracne, 2004. Per analisi e descrizio-
ni del codice parigino 6567 A si vedano: PIERRE DE NOHLAC, Pétrarque et l’Humani-
sme, vol. II, Paris, Libraire Honoré Champion, 1965, p. 146; GIOVANNI GENTILE, Le tra-
duzioni medievali di Platone e Francesco Petrarca, in ID., Studi sul Rinascimento, Firenze,
Sansoni, 1936, pp. 23-88, in part. pp. 36-43; GEORGE LACOMBE, Aristoteles Latinus, Co-
dices, Pars Prior, Roma, Libreria dello Stato, 1939, p. 523, n. 590; AUBREY DILLER, Pe-
trarch’s Greek Codex of Plato, «Classical Philology», LIX (1964), pp. 270-272; ANTONIO
CARLINI, Studi sulla tradizione antica e medievale del Fedone, Roma, Edizioni dell’Ateneo,
1972, in part. pp. 163-164 e 176-177; SEBASTIANO GENTILE, Marginalia umanistici e tra-
dizione platonica, in Talking to the text: marginalia from papyri to print. Proceedings of a
Conference held at Erice, 26 september – 3 october 1998, as the 12th Course of In-
ternational School for the Study of Written Records, a cura di VINCENZO FERA, GIA-
COMO FERRAÙ, SILVIA RIZZO, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanisti-
ci, 2002, I, pp. 407-432.
56 ISAAC ISRAELI, Liber de definicionibus, I, a cura di JOSEPH T. MUCKLE, «Archives
d’histoire doctrinale et littéraire du moyen age», XII-XIII (1937-1938), pp. 299-340,
cit. a p. 305.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

variante «mentis» per «mortis» che può esser sì stata indotta


nel lettore del codice da un difetto della tradizione (sia es-
sa diretta o citata), o da un erroneo ricordo magari condi-
zionato dal brano immediatamente precedente sulla mundi-
ficatio animae, ma potrebbe anche rinviare a un concetto car-
dine della prassi meditativa medievale, quello dell’intentio o
sollicitudo, una sorta di solerzia emotiva che aiuta la mente a
non perdersi dietro a pensieri devianti e a concentrarsi sul-
l’oggetto della meditazione. La pratica della meditatio, della
continua riflessione sulla natura mortale dell’uomo, rappre-
senta peraltro in Petrarca l’esito logico dell’accettazione del
conflitto, prima platonico e poi ciceroniano e agostiniano,
tra corpo e spirito; nonché, come per i suoi predecessori,
l’unica ragion d’essere del lavoro intellettuale che, muoven-
do proprio dalla constatazione che «la morte è fin d’una
pregione oscura | all’anima gentile» (TM II, 34), intende
contemplare ciò che giace sotto il velo delle fictiones terre-
ne:

A. Quotus ergo fuerit qui omnes cupiditates ex-


tinxerit quas ne dicam extinguere sed vel enumera-
re longum sit; qui animo suo frenum rationis admo-
verit; qui dicere audeat: «nil michi iam comune cum
corpore; que videntur cunta sordescunt; ad feliciora
suspiro!» [...] necesse est enim ut, quantum animus
ad celum propria nobilitate subvehitur, tanto mole
corporea et terrenis pregravetur illecebris; ita, dum
et ascendere et in imis permanere cupitis, neutrum
impletis in alterna distracti. [...] Ad hunc terminum
profecto meditatio illa perducit, quam primo loco
nominaveram, cum mortalitatis vestre recordatione
continua.57

57 PETRARCA, Secretum, I, cit., pp. 118-120: «A. Quanto saranno dunque rari
quelli che saranno riusciti a spegnere tutti quei cattivi desideri: che non dico a spe-
gnerli, ma pur solo a numerarli sarebbe lungo! E quelli che avranno messo il loro
cuore sotto il freno della ragione! E quelli che potranno dire: “non ho più niente da
spartire con il corpo, ciò che si vede è solo marciume: aspiro a cose più belle!” [...]
È fatale, infatti, che l’animo quanto più si eleva al cielo per la sua propria nobiltà,

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DE LAQUEO VENANTIUM

L’affermazione socratica circa la necessità di una costante


opera di purificazione dell’animo dai turbamenti sensibili, e
in particolar modo dalle passioni, non risulta però fine a se
stessa. Con l’articolato ragionamento che la genera, essa rap-
presenta un denso prologo che articola l’impalcatura logica
entro la quale nel proseguimento del dialogo verranno af-
frontati questioni fondanti la filosofia platonica, quali la na-
tura immortale dell’anima e la teoria gnoseologica della re-
miniscenza. Una volta mostrato che l’apprendimento altro
non è che reminiscenza, Socrate conduce Simmia alla com-
prensione delle ragioni fondanti tale pensiero attraverso la so-
lita sequenza logica di domande. Petrarca segue il ragiona-
mento senza sottolinearne alcun passaggio e interviene solo
alla fine, quando il filosofo – dopo aver constatato che la co-
noscenza nasce dalla capacità di distinguere due cose uguali
o simili o differenti, e quindi dal presupposto che innate ri-
siedano in noi le idee di uguale, simile e differente – giunge
ad affermare che:

[...] scire hoc est, sumentem alicuius scienciam


habere et non perdidisse. Vel nonne hoc dicimus
oblivionem, o Simmia, sciencie amissionem. [...]
Sin autem, reos, sumentes ante quam gigneremus,
geniti perdidimus, posterius quippe sensibus usi
circa hec ipsas iterato cepimus sciencias quas ali-
quando eciam prius habuimus, igitur nonne quod

tanto più sia gravato dal peso del corpo e dalle lusinghe terrene: così, mentre ora vo-
lete salire e ora volete restare in basso, tirati di qua e di là non riuscite a fare né una
cosa né l’altra. [...] A questa meta porta senza dubbio quella meditazione che ho ri-
cordato sin da principio, il pensiero continuo che dovrete morire». Cfr. a proposito
ZINTZEN, Il platonismo del Petrarca, cit., p. 107: «Che la filosofia sia distacco dal cor-
po, riflessione ascetica della morte, è idea che non proviene a Petrarca direttamente
dal Fedone; egli l’ha letta nelle Tusculanae di Cicerone e l’ha messa in bocca al suo
interlocutore Agostino. L’immagine del Fedro, che l’anima sia tirata in basso dal cor-
po, deve essere stata radicata nella tradizione medievale, così come il pensiero del-
l’ascesa dell’anima “propria nobilitate” gli è stato sicuramente trasmesso da Agosti-
no, che con ciò aveva fatto proprio un pensiero neoplatonico. Questo primo esem-
pio mostra come Petrarca, pur senza conoscere direttamente Platone, si colleghi tut-
tavia consapevolmente ad una tradizione che fa del pensiero platonico l’impalcatu-
ra fondamentale del proprio filosofare».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

voco discere propriam scienciam resumere utique


erit? Hoc autem reminisce dicentes recte utique
dicemus?58

La postilla di Petrarca riassume, anche grazie a un’efficace


soluzione grafica, i termini fondamentali della questione. Di-
slocate su due livelli di scrittura e tenute insieme dall’infrap-
posto termine «Desc[ri]pt[i]o», sono infatti riportate le parole-
chiave «sci[r]e» e «oblivim[u]s» (f. 11v), estremi entro i quali si
dispiega l’azione anamnestica, che di fatto conduce la coscien-
za umana dall’assenza di memoria (oblio) al massimo grado di
ricordo (sapere), ma che d’altra parte può avviarsi solo dopo
che l’anima ha interamente dimenticato gli archetipi iperura-
nici grazie al balsamo obliante di Lete. Condizione necessaria
affinché l’anima possa dar corretto compimento al moto di re-
miniscenza, e così giungere alla piena conoscenza – ossia diri-
gersi «verso ciò che è simile ad essa, verso l’invisibile, il divino,
l’immortale e l’intelligente» – è per Platone il conseguimento
di un’integrale purificazione interiore, raggiungibile attraverso
una diuturna attività di meditazione e il rifiuto di tutti gli ele-
menti di disturbo sensibili. Solo allora l’anima potrà uscire dal
‘carcere del corpo’ e liberarsi dagli illusori vincoli della con-
cupiscenza e delle voluttà, perdere insomma tutti quei deter-
minanti condizionamenti sensibili che la rendono «commacu-
lata et immunda».59 Un’esplicita eco di tale contemptio corporis
è rinvenibile in un noto passo del Secretum:

A. [...] Quid enim aliud celestis doctrina Plato-


nis admonet, nisi animum a libidinibus corporeis arcen-

58 Phaedo interprete Henrico Aristippo, 75d-e, cit., p. 30: «[...] il sapere, infatti, è con-
servare la scienza di qualcosa, dopo averla acquistata, e non perderla. Non chiamiamo
oblio, Simmia, la perdita di scienza? [...] Se invece, avendola acquistata prima di na-
scere, appena nati la perdiamo, ma poi, servendoci delle sensazioni, riacquistiamo quel-
le conoscenze di esse che un tempo e prima avevamo, ciò che chiamiamo apprende-
re non è riacquistare una scienza che già ci appartiene? E non è giusto chiamarlo re-
miniscenza?».
59 Phaedo interprete Henrico Aristippo, 81b, cit., p. 38. Nel manoscritto Par. lat. 6567
A, a margine di tale passo (f. 14v), compare la postilla, di probabile autografia petrar-
chesca, «De a[n]i[m]a im[mun]da».

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DE LAQUEO VENANTIUM

dum et eradenda phantasmata, ut ad pervidenda divini-


tas archana, cui proprie mortalitatis annexa cogitatio est,
purus expeditusque consurgat? Scis quid loquor, et
hec ex Platonis libris tibi familiariter nota sunt,
quibus avidissime nuper incubuisse diceris. F. In-
cubueram, fateor, alacri spe et magno desiderio;
sed peregrine lingue novitas et festinata precepto-
ris absentia preciderunt propositum meum. Cete-
rum ista michi, quam memoras, disciplina et ex
scriptis tuis et ex aliorum platonicorum relatione
notissima est.60

Come possiamo vedere, la testimonianza dell’interesse pe-


trarchesco per la filosofia platonica è accompagnata dalla con-
statazione della necessità di coglierne gli insegnamenti attra-
verso la mediazione dei platonici latini, in ragione della sua
scarsa conoscenza della lingua greca.61 Nel caso specifico del
passo del Secretum, il testo-ponte con gli analoghi concetti
espressi nel Fedone è stato con ogni probabilità l’agostiniano De
vera religione, che nei capitoli iniziali dà direttamente voce a
Platone fingendo con lui un dialogo che va oltre i tempi; un
brano specifico colpisce la nostra attenzione, lo stesso che sui

60 PETRARCA, Secretum, II, cit., p. 170: «A. [...] La celeste dottrina di Platone
non c’insegna altro che questo: l’anima deve essere tenuta lontana dalle voluttà del cor-
po e le immagini di queste vanno da essa erase, sì che possa salire pura e libera alla con-
templazione dei misteri della divinità, cui è legato il pensiero della propria mortalità. Sai
di che parlo: queste cose ti sono diventate familiari dai libri di Platone, sui quali
si dice che tu da qualche tempo ti sia concentrato. F. È vero, mi ci ero applicato
con alacre speranza e gran desiderio, ma la novità della lingua straniera e l’antici-
pata partenza del mio maestro hanno interrotto il mio proposito. Ma mi richiami
a teorie che conosco benissimo, sia dai tuoi scritti che da quello che ne dicono al-
tri platonici» (corsivi miei).
61 ZINTZEN, Il platonismo del Petrarca, cit., p. 98: «E, come gli scritti di Platone, mu-
ta rimase per Petrarca la letteratura greca; egli poté conoscerla solo in traduzioni e at-
traverso gli autori latini. Eppure è strano che nemmeno una volta Petrarca abbia trat-
to excerpta dalle traduzioni e che non ne abbia mai citato pezzi di una certa lunghez-
za. Ciò si spiega con il suo fondamentale atteggiamento nei confronti degli antichi au-
tori: li usa a consolidamento della sua visione del mondo essenzialmente cristiana,
piuttosto che per reali interessi filosofici. Tutto sommato il numero degli scritti plato-
nici noti si rivela più consistente di quelli realmente utilizzati, e Petrarca è sempre di-
peso dagli intermediari latini».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

margini del codice Par. lat. 2201 Petrarca evidenzia con la po-
stilla «Nota»:

Si enim Plato ipse viveret, et me interrogantem


non aspernaretur, vel potius, si quis eius discipulus
eo ipso tempore quo vivebat, eum interrogaret: cum
sibi ab illo persuaderetur, non corporeis oculis, sed
pura mentem veritatem videri; cui quaecumque
anima inhaesisset, eam beatam fieri atque perfectam;
ad quam percipiendam nihil magis impedire, quam
vitam libidinibus deditam et falsas imagines rerum
sensibilium, quae nobis ab hoc sensibili mundo per
corpus impressae, varias opiniones erroresque gene-
rarent.62

Agostino è d’altronde anche l’autore entro cui vengono a


fondersi le due linee interpretative della metafora del corpus car-
cer trasmesse dalla tradizione: quella fisico-naturalistica di deri-
vazione neoplatonica che, come s’è visto, postula la radicale e
assoluta alterità tra anima e corpo (col secondo identificato co-
me “tomba” della prima); e quella di derivazione monastico-
liturgica che relativizza invece la condanna del corpo vedendo
non nella sua essenza ma nei peccati individuali la zavorra che
trattiene l’anima nella sua ascesa.
Il sincretismo agostiniano si ripropone anche in Petrarca
e conosce un’interessante manifestazione proprio nei Frag-
menta, con la prima parte caratterizzata soprattutto da occor-
renze dell’allegoresi neoplatonica (dove il carcere del corpo
diviene tutt’uno con quello d’amore e si assiste a un ampio

62 AGOSTINO, De vera religione, III, 3, a cura di MARCO VANNINI, Milano, Mursia,


1987, pp. 30-32: «Se, infatti, Platone stesso fosse vivo e non disprezzasse le mie do-
mande; o, piuttosto, se qualcuno dei suoi discepoli, nel tempo stesso in cui viveva, lo
avesse interrogato, egli lo avrebbe persuaso di questi principi: “La verità non si vede
con gli occhi del corpo, ma con l’intelletto puro; qualsiasi anima ad essa aderisca, di-
viene beata e perfetta; ma nulla impedisce di coglierla più della vita dedita ai piaceri e
delle false immagini delle cose sensibili, che, impresse in noi attraverso il corpo da
questo mondo sensibile, generano le varie opinioni e gli errori”». Per la lettura pe-
trarchesca del De vera religione cfr. FRANCISCO RICO, Petrarca y el ‘De vera religione’, «Ita-
lia medioevale e umanistica», XVII (1974), pp. 313-364, postilla n. 81, p. 324.

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DE LAQUEO VENANTIUM

dispiego delle arma Cupidinis: cfr. RVF 72, 16-21; 86, 5-6;
105, 63) e con la seconda dominata invece da una correzio-
ne dell’immagine in senso spirituale, correzione funzionale
alla strutturazione di una storia di redenzione morale. In que-
sta accezione, il carcere torna ad essere quasi esclusivamente
quello che imprigiona l’anima; si vedano RVF 264, 7-8; 266,
9-11; 364, 12-14; ma soprattutto il passaggio iniziale del frag-
mentum 278 che potremmo cogliere come un’efficace dida-
scalia della nostra immagine: «Ne l’età sua piú bella e piú fio-
rita, | quando aver suol Amor in noi piú forza, | lasciando in
terra la terrena scorza, | è l’aura mia vital da me partita, | e
viva e bella e nuda al ciel salita»:

La presenza della metafora del corpus carcer nei


Rerum vulgarium fragmenta realizza dunque un siste-
ma metaforico compatto, piuttosto importante nel-
l’impianto dell’opera poiché determina il transito
da un sistema di valori mondano e terreno a uno
più elevato sotto il profilo spirituale. L’assenza del-
l’immagine dalla tradizione precedente, antica e
stilnovistica, contribuisce a dimostrare l’unicità del-
l’esperienza poetica e spirituale di Petrarca rispetto
ai suoi predecessori latini e romanzi; il suo accogli-
mento, molto parziale, nella poesia lirica del Quat-
tro e Cinquecento (se si escludono alcuni casi in
poesie di argomento morale e religioso, la metafo-
ra del corpus carcer è quasi del tutto assente) dimo-
stra l’alterità di Petrarca anche rispetto ai suoi emu-
li, che molto imitano delle sue forme e della sua
lingua poetica, e poco comprendono dei sensi na-
scosti nella sua lirica.63

Il manoscritto di Baltimore sembra dunque cogliere an-


cora una volta nel segno, poiché da una parte sottolinea – an-
che se indirettamente, passando per il testo biblico – la spe-
cificità e ricchezza dell’immaginario petrarchesco quale ma-

63 MARCOZZI, Petrarca platonico, cit., pp. 32-33.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

trice della successiva produzione concettistica. Dall’altra, per-


ché getta luce su un passaggio fondamentale della storia del-
l’anima narrata lungo il Canzoniere, un passaggio-chiave pro-
prio per chi intende leggere – e far leggere – l’opera petrar-
chesca come «un’autobiografia lirica sotto il segno di una
mutatio vitae».64

64 Cfr. GERHARD REGN, La decade della bipartizione (RVF 261-70), in Il Canzo-


niere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 569-593, in part. pp. 589-590: «Nei sonetti
conclusivi del resto le modalità dell’inversione dimostrativa rimette in scena tutti i
motivi centrali che avevano caratterizzato i due sonetti di Laura e del Colonna. Giun-
to al termine l’io lirico cerca finalmente e definitivamente la liberazione dal “carcer”
(364, 12) del mondo e quindi dalle “catene” che in 266 (v. 10) lo tenevano prigionie-
ro. Questa liberazione porterà a “fuggir” quegli “affanni” (364, 11) che l’io di Signor
mio caro (266) aveva rivendicato con tanta enfasi. Il “destino” (362, 12) ormai non è
più, come in 269 (v. 9), quella perdita dolorosa cui occorre rassegnarsi, bensì l’attesa fi-
duciosa dell’aldilà. [...] Il dittico costituito da Signor mio caro e Rotta è l’alta colonna è
l’elemento portante di un’architettura che ha per base la bipartizione e la cui com-
plessità scaturisce dalla duplice poetica del libro lirico petrarchesco. Il Canzoniere è
un’autobiografia lirica sotto il segno di una mutatio vitae. L’orizzonte che traspare a li-
vello intertestuale è quello della conversione agostiniana, in cui il pensiero cristiano si
connette all’etica pagana – in particolare stoica».

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

Tav. 7

7. Tutto tremar d’uno amoroso gelo

Per il motto del settimo emblema l’anonimo autore del


manoscritto del Walters Art Museum attinge dal primo ma-
drigale del Canzoniere (52, 8: «tutto tremar d’un amoroso
gielo»).65 Il testo ci propone una variazione petrarchesca sul
racconto ovidiano del tragico incontro tra Diana e Atteone,
e presenta più di un punto di contatto tematico-stilistico con
la stanza conclusiva della “canzone delle trasformazioni”
(RVF 23, 141-160);66 ossia di uno dei fragmenta petrarcheschi

65 Cfr. GUIDO CAPOVILLA, I madrigali (LI, LIV, CVI, CXXI), «Atti e memorie del-
l’Accademia Patavina di scienze lettere ed arti», XCV (1982-1983), parte III, pp. 449-
484, p. 479: «Il madrigale LII, del resto, risulta essere il più compromesso dei quattro
con i requisiti del “genere” se, oltre all’impiego di una chiusa ad effetto (la percezio-
ne simultanea di ardore e gelo, frequente ossimoro sensoriale che trova esso pure la
prima occorrenza nel madrigale), vengono anche coniugati i due motivi della “ba-
gnante” e della “pastorella”, che rientrano senza dubbio fra le risoluzioni tematico-de-
scrittive più care alla madrigalistica settentrionale».
66 Per considerazioni generali sull’intertestualità dei madrigali all’interno del
Canzoniere cfr. sempre CAPOVILLA, I madrigali, cit., p. 477: «Ritorni di scrittura come
quelli sin qui osservati possono, beninteso, identificarsi con le peculiarità stesse del lin-
guaggio poetico petrarchesco, fatto esso com’è di segni densi e allusivi, di emblemi

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A. TORRE, VEDERE VERSI

che, come ci conferma allusivamente il gesuita Claude


François Menestrier nell’introdurre la sua riflessione teorica
sul genere, più di ogni altro hanno attirato l’attenzione degli
emblematisti:

Dieu a tellement dispose la vue agreable de ces


objets [gli emblemi], qu’il veut que l’esprit se rem-
plisse de ce qui flatte le yeux, et que nous appre-
nions de sa conduite ce qu’il demande de la nostre.
Il ne parla guere aux Prophetes que de cette manie-
re figurée leur faisant voir en Images, ce qu’il vou-
loit qu’ils annonçassent de sa part. C’est ce qui fit
donner le nom de Visions aux communications se-
cretes qu’il leur fit de ses mysteres et des choses à
venir.67

Il madrigale 52 si articola in una geometria strutturale che


esalta precisi parallelismi formali e semantici tra i suoi elemen-
ti, e rende ben perspicuo il processo dialettico che conduce il
racconto dell’io lirico a riflettersi con nuove implicazioni an-

verbali ricorrenti, ossessivi, tali da creare agli occhi del lettore serie illimitate – e, ap-
punto, disorientanti, labirintiche – di rifrazioni lessicali e stilematiche, di tensioni te-
matiche e simbologiche. Eppure si sarà constatato come i quattro testi in esame in-
staurino una lista di rimandi “forti” non tanto con la massa dei sonetti, quanto con le
canzoni tra le più rilevanti, con una sestina, e con taluni passaggi dei Trionfi. Non sarà
allora un rapporto in certo senso privilegiato quello che i quattro fragmenta intratten-
gono col resto del liber? Non sarà cioè il sistematico rifluire, entro organismi istituzio-
nalmente più espansi ed impegnativi, di spunti tematico-formali in precedenza affida-
ti ad un modulo squisitamente “leggero” e breve? [...] Del resto a spiegare siffatte dif-
fuse parentele con testi di rango superiore contribuisce indirettamente la stessa volontà
di valorizzazione che si riconosce dietro l’ubicazione dei quattro pezzi: i primi due
oppositivamente correlati, sulla base della polarità peccato/redenzione che impronta
di sé l’intera materia del liber; e il CVI, col CXXI, a diretto preludio di sonetti d’an-
niversario, come per esaltare la fissità della situazione sentimentale di partenza».
67 CLAUDE F. MENESTRIER, L’art des emblemes, Paris, R. J. B. de la Caille, 1684, pp.
5-6. Sul fragmentum 23 si vedano almeno: BORTOLO MARTINELLI, Petrarca e il ventoso,
Bergamo, Minerva Italica, 1977, pp. 19-102; PIERRE BLANC, Une réécriture égotiste de la
mythologie: Pétrarque et la chanson des métamorphoses, «Cahiers d’Etudes Romanes», XIII
(1988), pp. 145-162; DENNIS DUTSCHKE, Francesco Petrarca Canzone XXIII from first to
final version, Ravenna, Longo, 1997; MARC FÖCKING, Petrarcas “Metamorphoses”: Philo-
logie versus Allegorische Verwendung in ‘Canzone 23’, «Germanisch-romanische Monats-
schrift», L (2000), pp. 271-297.

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

tropologico-esistenziali nell’episodio mitico-letterario. Tale


progetto porta la vitale esperienza soggettiva della poesia ad
alimentare il piano sovraindividuale dell’exemplum.68 Una sif-
fatta percezione del testo poetico dovette appartenere anche
all’anonimo autore del manoscritto di Baltimore.
I versi delle due terzine (rispettivamente comparatum e com-
parandum, secondo la codificazione arsnovistica della forma
madrigale) si rispecchiano infatti puntualmente per la posizio-
ne, e riverberano nelle tre proposizioni in cui si articola il con-
clusivo distico di sintesi.Vediamo sinteticamente questo tripli-
ce parallelismo:
1) attraverso la figura stilistica dell’iperbato si stabilisce una
relazione tra i vv. 1 («Non al suo amante più Dïana piacque»),
4 («che a me la pastorella [piacque]») e 7 (o, più precisamente,
col suo primo isocolo «tal che mi fece»), relazione che mette
in rilievo il soggetto protagonista del componimento e, trami-
te il parallelismo evocato dall’amplificazione mitologica di
un’intima esperienza amorosa, anche l’oggetto del desiderio
espresso liricamente (amante /«me»/ [Atteone]: amata / «pa-
storella» / «Dïana»);
2) il parallelismo tra i vv. 2 e 5 è gestito anch’esso a livello
sintattico in ragione dell’affinità funzionale tra l’avverbio
«quando» e il participio «posta», entrambi collocati in sede ini-
ziale ed entrambi segnali di una situazione temporalmente ben
determinata e semanticamente ben connotata: l’ora meridiana
di rigoglio dei sensi ricordata per perifrasi anche nel secondo
membro del v. 7 («or quand’egli arde ’l cielo»; indicatore situa-

68 Cfr. LUIGI VANOSSI, Petrarca e il mito di Atteone, «Romanische Zeitschrift für Li-
teraturgeschichte», X (1986), 1-2, pp. 3-20, in part. p. 3: «Nella struttura del Canzonie-
re il mito riveste una funzione fondamentale: allontanamento dell’esperienza autobio-
grafica in una sfera di verità intemporale, prodigiosa comunicazione tra la vicenda im-
memoriale antica e la profondità dell’esperienza lirica. Proprio il trasferimento del mi-
to dall’originaria sfera epico-narrativa a quella lirica del divenire del soggetto appare
come uno dei fatti più rivoluzionari del linguaggio petrarchesco, come una scintilla
prodigiosa da cui si produce un duplice effetto di rigenerazione. Da un lato la lirica
ne risulta mirabilmente potenziata, sollevata in una sfera di significazioni e implica-
zioni esistenziali e antropologiche nuove, con ostensione e assolutizzazione del senso
rispetto alle metafore tradizionali dell’amore cortese e stilnovistico. Dall’altro il mito
subisce a sua volta una vitalizzazione, trasferito sul versante della soggettività, dell’io li-
rico, investito delle energie profonde del soggetto».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

zionale presente anche in RVF 23, 150-151: «in una fonte


ignuda | si stava, quando ’l sol più forte ardea»). Notiamo qui
come l’attenzione si concentri unicamente sull’oggetto del de-
siderio, e come questi conosca, di verso in verso, un moto pro-
gressivo di rarefazione e generalizzazione: dal corpo («tutta
ignuda») al «velo» all’astratta situazione erotica;
3) l’ultimo parallelismo, quello che si instaura tra i vv. 3 e
6, evidenzia una relazione di natura esclusivamente semantica
e di carattere propriamente antifrastico, poiché accosta due
azioni di segno opposto e senso reciproco (Atteone vede Dia-
na nell’acqua / il velo impedisce di vedere «il vago e biondo ca-
pel»); quest’antifrasi si radicalizza poi nell’ossimoro implicito
del verso di chiusura che topicamente ritrae l’amante tremare
per l’intensità del fuoco amoroso («tutto tremar d’un amoroso
gielo»).
Dopo l’ostensione del soggetto lirico realizzata nel primo
gruppo di versi, e la rappresentazione dell’oggetto del deside-
rio nel secondo gruppo, si dichiara dunque in quest’ultimo la
natura visiva della relazione attivata tra i due, e l’effetto irrazio-
nale e destabilizzante che tale rapporto genera. Una progressi-
va attenuazione caratterizza la tensione narrativa dell’episodio
nel passaggio dagli esametri ovidiani (dove viene rappresenta-
ta la feroce punizione spettante a chi ha avuto l’incontinenza
di svelare il sacro) alla stanza della canzone “delle visioni” (do-
ve la visione tragica s’interrompe sulla metamorfosi disuma-
nizzante del poeta-amante: v. 157, «ch’i’ senti’ trarmi de la pro-
pria imago») fino ai versi del presente madrigale (dove non v’è
traccia del violento epilogo). L’attenuazione non implica però
necessariamente un integrale ripiegamento sulla tradizionale
levitas del metro, permanendo in tutta la sua essenziale dram-
maticità il nucleo tragico dell’appropriazione petrarchesca del
motivo mitico, ossia quella perdita di una piena coscienza di sé
da parte dell’individuo amante, che l’ossimoro conclusivo
compendia climaticamente e di cui la didascalia dell’emblema
sottolinea tutto il portato morale:

Suole ben spesso adivenire ad uno inamorato


che, se gli è dato da amore di potere godere de la sua
donna, così si perde ne la felicità che non sa egli

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

stesso quello che si fazza; e però dice che, trovando


la sua donna adormentata e nuda de tutte l’arme de
honestà, tremò tutto de un gelo amoroso: il verso è
del Petrarca.

Possiamo subito notare che la scansione in tre cicli della


struttura poetica (che s’intreccia con la tripartita struttura stro-
fica propria della morfologia del metro)69 e il riferirsi di ognu-
no di questi cicli ad un solo preciso elemento del discorso li-
rico vengono entrambi fedelmente trasposti nell’immagine
emblematica, che raffigura un uomo che si avvicina a una don-
na nuda sdraiata, e all’apparenza dormiente, con un amorino
accovacciato alle sue spalle (tav. 7). A livello strutturale dunque
l’unico intervento interpretativo dell’illustratore riguarderebbe
la resa della relazione erotica tra l’amante e l’amata attraverso
la personificazione allegorica di un amorino. L’episodio miti-
co non trova però nell’emblema una traduzione visiva lettera-
le, dal momento che la figura femminile non è ritratta nel fon-
te,70 intenta a lavarsi (come Diana) o a bagnare un velo (come
la pastorella); la vediamo invece distesa in una languida posa
che esalta la sua funzione di oggetto del desiderio. Rivolta ver-
so l’esterno della scena, la fronte adagiata sul braccio destro
sembra quasi aprire il corpo alla vorace contemplazione del
novello Atteone (o, più prudentemente, tenta un’ultima pudi-
ca fuga di fronte alla rivelazione). Nel frattempo la mano sini-

69 Cfr. CAPOVILLA, I madrigali, cit., p. 455: «È inoltre da rilevare come tale stabi-
lizzazione tematica si accompagni a non meno specifiche modalità di organizzazione
del contenuto, per cui il procedere accelerato ed ellittico che è tipico del genere ten-
de a giovarsi della lineare semplicità di una tripartita struttura strofica, a fare tutt’uno
con l’istituzionale morfologia del metro, distribuendo l’introduzione e il suo sviluppo
narrativo o argomentativo sui terzetti (solitamente due), e riservando al cosiddetto ri-
tornello (per lo più in forma di distico a rima baciata) la pointe finale che, fatta di un
rapido aforisma, di una formula d’omaggio, di un ammiccamento ecc., fonda quel gu-
sto per la conclusione concettosa e rilevata, per la sigla arguta e brillante, che finirà per
costituire il solo e proverbiale contrassegno degli omonimi prodotti cinquecenteschi».
70 Peraltro l’acqua non è un elemento secondario, tanto per la storia generale
quanto per il singolo concettismo, poiché è la causa del gelo, di quel sintomo fisiolo-
gico che accomuna l’amata-causa della passione e l’amante-oggetto della passione. La
prima trema per il freddo dell’acqua; il secondo, ossimoricamente, per l’intensità del
fuoco amoroso.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

stra cattura lo sguardo dell’amante indirizzandolo fra le carno-


se cosce. Non un’allegoria della castità dunque, come ci si po-
trebbe aspettare da un riuso del mito ovidiano polarizzato sul-
la figura della divinità violata dal voyeurismo passionale e cono-
scitivo del cacciatore; bensì un ritratto della voluttà, una mes-
sa in scena del desiderio, che ci consegnano una figura femmi-
nile consentanea col coté erotico del genere “pastorella” a cui
s’ascrive questo madrigale. A livello letterario si può forse rin-
venire un’altra e forse pià cogente testimonianza della situa-
zione prefigurata dal madrigale e illustrata dall’emblema nella
prima novella della quinta giornata del Decameron, quella in cui
il rozzo Cimone si innamora scorgendo una fanciulla dormire
in un boschetto e «amando divien savio»:

Andatosene adunque Cimone alla villa, e quivi


nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne
che un giorno, passato già il mezzo dì, passando egli
da una possessione ad un’altra con un suo bastone
in collo, entrò in un boschetto il quale era in quel-
la contrada bellissimo, e, per ciò che del mese di
maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andan-
do s’avvenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in
un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’
canti del quale era una bellissima fontana e fredda,
allato alla quale vide sopra il verde prato dormire
una bellissima giovane con un vestimento in dosso tan-
to sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea,
ed era solamente dalla cintura in giù coperta d’una
coltre bianchissima e sottile; e a’ piè di lei similmen-
te dormivano due femine e uno uomo, servi di que-
sta giovane. La quale come Cimone vide, non altra-
menti che se mai più forma di femina veduta non avesse,
fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna co-
sa, con ammirazione grandissima la incominciò inten-
tissimo a riguardare.71

71 GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, V, 1, a cura di VITTORE BRANCA, Torino,


Einaudi, 1992, p. 487 (corsivi miei).

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

Il passaggio boccacciano è interessante non solo perché esi-


bisce le stesse dinamiche scopiche rinvenibili anche nel frag-
mentum petrarchesco ma anche perché conosce una traduzio-
ne visiva che presenta un impianto assai prossimo a quello del-
l’emblema di Baltimore. Come ha perfettamente mostrato Vit-
tore Branca, Boccaccio volle «integrare nel suo capolavoro
l’impegno di narratore in parole con quello di narratore in fi-
gure e la gestualità descritta con quella rappresentata», e ciò è
ben visibile nei «disegni a tre colori coi quali verso il 1360-65
volle arricchire e rafforzare la narratività della redazione gio-
vanile del Decamerom», quella risalente al 1349-51 e ora con-
servata nel codice It. 482 della Bibliothèque Nationale di Pa-
rigi. I disegni si riferiscono quasi sempre alla prima novella
delle varie giornate e ciò fa sì che proprio le vicende di Ci-
mone, e anche il momento dell’incontro (visivo) con Efigenia,
siano illustrati nel manoscritto (fig. 13).72
L’iconografia dell’episodio boccacciano è probabilmente
debitrice del motivo archetipico e archeologico della cosid-
detta Ninfa delle acque (forse rappresentante Arianna svelata da
un satiro); motivo che in età moderna, oltre alla famosa Venere
di Giorgione,73 trova una tra le sue più celebri elaborazioni (e

72 VITTORE BRANCA, Il narrar boccacciano per immagini dal tardo gotico al primo Ri-
nascimento, in Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rina-
scimento, a cura di VITTORE BRANCA, Torino, Einaudi 1993, vol. I, pp. 3-37, cit. a p. 5;
ma sulla struttura compositiva delle illustrazioni si veda anche p. 8: «Le trasposizioni
dell’oggetto dal registro verbale a quello figurativo tendono però qui, secondo la poe-
tica della narrativa boccacciana giovanile, a fissare l’attenzione non tanto sull’uomo
quanto sull’azione, non tanto sulla caratterizzazione, si può dire esclusiva, della perso-
na (come sarà vent’anni dopo nell’autografo) quanto sulla narrazione, con un’ispira-
zione e una impostazione a sequenza analoga a quelle che saranno dei cassoni e delle
predelle e delle spalliere. Sono sequenze fitte ma fluide, che si basano su poche azioni
chiave con un’efficace sintesi visiva della narrazione e delle sue articolazioni, con un
deciso valore interpretativo».
73 Si veda a proposito, anche per più diffusi rinvii bibliografici, HELENA K. SZÉPE,
Desire in the Printed Dream of Poliphilo, «Art History», XIX (1996), 3 pp. 379-392, in
part. p. 386: «Giorgione may or may not have culled the motif of the sleeping nude
from the Poliphilo woodcuts. Perhaps more important than the appropriation of an iso-
lated motif is the unresolved suggestiveness of that image, as if a meditation on the re-
lationship of vision to desire, that also informs the Poliphilo as a whole. Furthermore,
Giorgione adapted the dream setting as a stimulus to identify erotic desire with long-
ing for an arcadian dream world».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 13. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. It. 482,


GIOVANNI BOCCACCIO, Decameron, c. 102v.

culturalmenti affini all’esperienza artistica qui proposta) nella


Fontana di Venere dell’Hypnerotomachia Poliphili (fig. 14):

La quale bellissima nympha dormendo giacea


commodamente sopra uno explicato panno. Et sot-
to il capo suo bellamente intomentato et complica-
to in puvinario grumo era. Et una parte poscia del
dicto aptissimamente fue conducta ad coprire quel-
lo che conveniente debi stare caelato. Cubendo et
sopra il fianco dextro ritracto il subiecto brachio
cum la soluta mano sotto la guancia il capo ociosa-
mente appodiava. Et l’altro brachio libero et sencia
officio distendevasi sopra il lumbo sinistro derivan-
do aperta al medio dilla polposa coxa.74

In un’indagine volta a identificare con maggior precisione il


soggetto della Allegoria di Lorenzo Lotto conservata alla Natio-
nal Gallery of Art di Washington, Enrico Maria Dal Pozzolo ha
intravisto proprio nel modulo rappresentativo della ninfa il cor-
rettivo necessario per infondere maggior compostezza ed ele-
ganza alla primigenia e principale iconografia di riferimento del
dipinto, ossia la Laura di Chiare, fresche e dolci acque (RVF 126).

74 FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di MARCO ARIANI e


MINO GABRIELE, Milano, Adelphi, 1998, vol. I (ripr. anast. dell’edizione aldina 1499),
cit. a p. 71.

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

Fig. 14. FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili,


Venezia, Aldo Manuzio, 1493.

Oltre a esplicitare i riscontri testuali transcodificati da Lotto, Dal


Pozzolo ricorre anche all’incunabolo queriniano G.V.15, per
rinvenire in questa prima esemplare mise en figure della poesia
petrarchesca alcune soluzioni stilistiche e strutturali adottate dal
pittore veneto per superare le difficoltà insite nella trasposizione
visiva del testo letterario.75 La ricostruita contaminazione lotte-
sca tra fragmentum, miniature e silografia ha ricadute d’interesse
anche per lo studio del nostro emblema. A margine di RVF 52
l’illustratore dell’incunabolo queriniano sceglie infatti, attento
alla lettera, di raffigurare il comparandum: una donna col capo ve-

75 Cfr. ENRICO M. DAL POZZOLO, “Laura tra Polia e Berenice” di Lorenzo Lotto,
«Artibus et Historiae», XIII (1992), 25, pp. 103-127, in part. p. 111: «Da esse [le radio-
grafie della tavola] emerge che in un primo momento egli concepì la donna con il cor-
po più inclinato e con lo sguardo rivolto direttamente all’amorino. Poi invece la im-
maginò nell’atto di cogliere con il drappo i petali che scendevano dall’alto, in modo
non difforme dalla miniatura appena vista. Alla fine si decise ad atteggiarla in manie-
ra più composta ed elegante, più aderente forse, ad altre immagini che aveva innanzi».
Si veda anche la scheda di MARGARET BINOTTO in Lorenzo Lotto, Catalogo della mo-
stra di Roma (2 marzo - 12 giugno 2011), a cura di GIOVANNI CARLO FEDERICO VIL-
LA, Milano, Silvana Editoriale, 2011, pp. 266-269.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

lato intenta a bagnare un panno che solo l’assenza di calzatura


identifica come una pastorella (fig. 15). Manca dunque anche
qui, come nel manoscritto di Baltimore, una precisa rappresen-
tazione dell’episodio mitologico che funge da sottotesto alla ri-
flessione lirica petrarchesca e che conosce invece una puntuale

Fig. 15. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 22r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

visualizzazione nella carta dell’incunabolo riportante RVF 23,


141-160 (fig. 16), nonché famose attestazioni figurative nella di-
mora di Arquà e nel suo doppio librario, il Petrarcha redivivus di
Giacomo Filippo Tomasini (fig. 17).76 Si noti però che Antonio
Grifo marca una relazione tra i due testi accomunati dal mito
ovidiano, ricorrendo alla stessa fisionomia per dare un volto alle
due figure femminili attraverso cui Petrarca parla qui di Laura
(Diana e la pastorella). Non pago, esplicita poi definitivamente la
propria interpretazione, riproponendo la medesima “modella”
(uno dei tipi mediante cui è ritratta Laura nell’esemplare brescia-

76 Cfr. GIACOMO FILIPPO TOMASINI, Petrarcha Redivivus, Padova, Pasquati & Bor-
toli, 1635, p. 152.
77 COSSUTTA, Tra iconologia ed esegesi petrarchesca, cit., p. 67: «E, per cominciare, va
affrontato l’apparente viluppo delle sembianze “cangianti” di Madonna Laura, nel sen-
so che da c. 2r a c. 114v ci sembra, a una disamina semplice, neppur frettolosa, di in-
contrare almeno un paio (se basta) di fattezze femminili alquanto diverse tra loro, qua-
si che il ritrattista avesse cambiato modella, oppure che avesse lavorato di fantasia pri-
vilegiando i vestiari, oppure: che avesse in mente una continua metamorfosi, in linea
per altro con tanti luoghi della poesia petrarchesca?».

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

Fig. 16. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 9v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

Fig. 17. GIACOMO FILIPPO TOMASINI, Petrarcha Redivivus,


Padova, Pasquati & Bortoli, 1635, p. 152.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

no)77 anche per l’illustrazione delle «belle membra» dell’amata


distese accanto le «Chiare, fresche et dolci acque» di RVF 126
(fig. 18). L’esegesi figurativa compiuta da Antonio Grifo evi-
denzia dunque una triangolazione di senso tra i suddetti frag-

Fig. 18. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 45v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

menta, che anche di recente la critica ha ritenuto poter esser


comprovata da «salde persistenze d’ordine semantico-formale»
(come la condivisione di sintagmi, parole-rima e del “nome se-

78 CAPOVILLA, I madrigali, cit., p. 474: «Sono ricorsi la cui compresenza non sem-
bra davvero liquidabile come semplice “effetto” dovuto all’elevato grado di omoge-
neità e stilizzazione proprio del dettato petrarchesco. Piuttosto, la loro concentrazione
fa pensare ad un particolare atteggiarsi del processo compositivo: una sorta di inerzia
metrico-semantica conseguente all’intensità del recupero immaginativo iniziale. Un
saggio di adesione al genere, esile e stilizzato, del madrigale risulta dunque tra i ne-
cessari presupposti di una cantio extensa in cui il gusto trecentesco per i soggetti idilli-
co-epifanici e per le ambientazioni naturalistiche tocca un vertice storico, pervenen-
do alla versione più rarefatta, e più prossima alla sensibilità romantico-moderna, che
di quel motivo topico abbia fornito il medioevo romanzo».

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TUTTO TREMAR D’UNO AMOROSO GELO

creto” l’aura / Laura).78 Ma soprattutto essa mostra come attra-


verso l’apparato iconografico si vada qui dispiegando una «lettura
attenta dei metri e delle parole (concetti, metafore, allusioni), non
solo quelle contenute nel singolo carme, ma anche quelle che, in
carmi diversi, vicini o lontani, possono essere “criticamente” lega-
te da un filo interpretativo».79 Si vada insomma articolando una
nuova narrazione visiva parallela al racconto poetico.80

79 COSSUTTA, Tra iconologia ed esegesi petrarchesca, cit., p. 66, e si veda anche a p. 75:
«Così, ogniqualvolta se ne presenti l’opportunità, il Ritrattista non manca di integra-
re la prima traduzione visiva dei versi con il sottil senso profondo, che si ricava dal re-
cupero e dalla rilettura dei particolari, per agire con sicurezza sui quali occorre avere
bene in testa l’intero corpus poetico volgare». Già in un suo precedente intervento Cos-
sutta aveva sottolineato che «le miniature sono concepite e strutturate in modo da le-
gare liriche e versi il più possibile, tanto all’interno del Canzoniere quanto nel rappor-
to tra Rime e Trionfi» (COSSUTTA, Il Maestro Queriniano interprete di Petrarca, cit., p. 447).
80 L’illustratore sembra dunque aver pienamente còlto l’intenzione autoriale che,
come ci conferma Laura Paolino, si è andata rafforzando durante l’opera di colloca-
zione degli sparsa fragmenta all’interno del liber: «In una precedente redazione del ma-
drigale questi versi, che descrivono la “pastorella” protagonista del testo “posta a ba-
gnar un leggiadretto velo, | ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda” suonavano in
modo diverso, e cioè: “fixa a bagnar el suo candido velo | ch’al sol e a l’aura el vago
capel chiuda.” [...] I filologi si sono chiesti, allora, perché Petrarca procedesse a questa
revisione, che, in effetti, poco o niente apporta all’eleganza dell’espressione e sicura-
mente niente al concetto espresso nel testo. A un’attenta analisi, però, risulta che il
cambiamento introdotto dalla variante interessa il versante simbolico-allusivo del ma-
drigale. Aggiungendo, infatti, l’aggettivo “biondo” per indicare il colore dei capelli del-
la “pastorella”, Petrarca conferiva alla protagonista del madrigale un tratto, cioè, che
permetteva a quel testo, non scritto per Laura, di entrare nel Canzoniere di Laura»
(LAURA PAOLINO, Ancora qualche nota sui madrigali di Petrarca (RVF 52, 54, 106, 121),
«Italianistica», XXX [2001], 2, pp. 307-323, cit. a pp. 308-309). D’altronde l’anonimo
miniatore-postillatore denuncia la propria volontà di incidere ermeneuticamente nel-
la presentazione dell’opus fin dalla carta iniziale dell’incunabolo, quella che sottolinea
la contiguità dei sonetti I e III (ossia quello che definisce come racconto la parabola
esemplare dell’amore del poeta, e quello che ricorda l’evento da cui essa è scaturita)
attraverso la loro inscrizione in un cartiglio elaborato a trompe l’oeil (secondo un mo-
tivo tipico della miniatura rinascimentale soprattutto padovana); cartiglio che con ogni
probabilità è lo stesso trasportato in ogni dove dagli uccelli-messaggeri che svolazza-
no nel paesaggio bucolico di sfondo (visualizzazione del concetto di “rime sparse” o
“vulgarium fragmenta” che ritorna costantemente nel corso del volume). L’annota-
zione visiva del Queriniano sembra dunque volerci presentare la confessio del perso-
naggio agens formalizzata in scrittura come un messaggio universale redatto dall’indi-
viduo auctor (figure queste allusivamente sintetizzate qui dal satiresco cantore silvanus);
e l’utilizzo del medesimo cartiglio incorniciato anche per il commento del miniatore
al Canzoniere dichiara senza imbarazzi quest’ultimo come un’esegesi d’autore (al con-
tempo iconica e testuale) che aspira a presentarsi su un piano decentrato ma ugual-
mente significativo rispetto al testo principale.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Nell’incunabolo la connessione ideale fra i tre testi viene


dispiegata sintagmaticamente attraverso il ricorrere della stessa
figura per la rappresentazione realistica di tre personaggi diffe-
renti (anche se allusivamente correlati via paragone). Nell’e-
spressione emblematica del codice statunitense essa si offre in-
vece in forma sintetica e paradigmatica. Il messaggio poetico
(universale sentenza sapienziale e sublimato ricordo individua-
le) fa infatti risuonare il racconto per similitudini di RVF 52 in
un nuovo spazio visuale costruito, senz’alcuna intenzione di ri-
produzione letterale, mediante la giustapposizione di dettagli
che compendiano i fragmenta correlati, reciprocamente conta-
minandoli. La pastorella non sarà più dunque vestita rustica-
mente come nella miniatura queriniana, ma si mostrerà «ignu-
da», come la Diana del madrigale e la Laura-Diana della can-
zone “delle visioni” di Grifo. Non sarà immersa nell’acqua se-
condo i dettami del mito (né metonimicamente – la mano im-
pegnata a bagnare il panno –, né integralmente) ma si offrirà
alla contemplazione adagiata a un supporto (pietra o tronco)
che farà «al bel fiancho colonna», come il lauro alla Laura del-
la canzone 126 di Petrarca. Non sarà impegnata a lavare «un
leggiadretto velo» (potremmo intendere: a purificare il velo
che dovrà impedire la fruizione della sua bellezza), ma svelerà
il proprio corpo all’amante (si noti che il probabile panno del
testo è riposto sotto il braccio che regge il capo della donna)
pur conservando un atteggiamento di ferma ritrosia. Non sarà
un’everywoman (la pastorella) né una dea (Diana), ma sarà
un’interpretazione di Laura, everywoman e dea, sorgente di pas-
sione e porto di salvezza. Infuocato gelo.

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

Tav. 8

8. Ision pel pecato, io per honore

Ision, come recita Ovidio, perché volse usare con


Iunone, è ne lo inferno voltato da una ruota, quasi
volesse dire che per il pecato la fortuna lo tormen-
ta senza requie. Il contrario, questo di sopra per ho-
nore e megi virtuosi move egli stesso la ruota de la
fortuna come più gli piace. È vestito di verde per di-
mostrare la speranza che egli ha de governare fortu-
na così bene che sarà honore a lui e profitto a suoi.
È nudo de le brazza e de gambe per esser più espe-
dito nel voltar de la ruota di detta fortuna.

Come abbiamo già visto in precedenza, rientrano nel ma-


teriale emblematico (apparentemente) non petrarchesco del
nostro codice anche concetti e figure topici all’interno del va-
sto panorama della letteratura delle immagini. È ad esempio il
caso dell’episodio mitologico di Issione, oggetto dell’illustra-
zione emblematica riportata dalla c. 8.
Figlio di Flegia e re dei Làpiti, Issione sposò Dia, figlia del re
Deioneo, che gli generò Piritoo. Quando Issione chiese la mano

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A. TORRE, VEDERE VERSI

della giovane, promise a Deioneo ricchi doni nuziali. Ma, allorché


questi, dopo il matrimonio, pretese i doni pattuiti, Issione scavò
una fossa dinanzi alla soglia del palazzo, con delle braci accese sul
fondo, e a tradimento vi precipitò Deioneo, che morì. Reo di aver
partecipato all’assassinio del suocero, Issione venne comunque
portato in cielo da Giove che, una volta purificatolo dalla macchia
del peccato, lo scelse come proprio segretario. Insuperbito per il
prestigioso incarico e dimentico del perdono di Giove, Issione
non riuscì a resistere alla tentazione di sedurre Giunone. Il termi-
ne «usare», che compare nella didascalia di commento, viene spes-
so impiegato fin dalle origini anche nell’accezione di ‘avere rap-
porti sessuali’, e quindi non stupisce che qui ricorra in forma as-
soluta per indicare il tentativo di violenza operato da Issione nei
confronti della consorte di Giove. Proprio il capo degli dèi fece
fallire il piano di Issione. Giove diede infatti a una nuvola (Nefe-
le) le fattezze di Giunone, e lasciò che l’ingrato traditore sfogasse
con quel simulacro il proprio impeto amoroso. Dalla finta Giu-
none Issione ebbe un figlio, Centauro, che accoppiandosi alle ca-
valle venne a creare la stirpe dei Centauri. Sdegnato dal compor-
tamento di chi aveva in precedenza aiutato ed elevato ai più alti
onori, Giove ricacciò Issione sulla terra e di lì agli inferi dove ven-
ne condannato da Plutone ad essere perpetuamente girato e stra-
ziato da una ruota piena di serpenti.
La storia di Issione viene narrata anche da Pindaro nella se-
conda ode pitica, dove il sovrano dei Lapiti è innanzitutto intro-
dotto come modello di ingratitudine contrapposto agli esempi di
riconoscenza offerti dai poeti che cantano Cinira loro benefatto-
re, e dalle fanciulle locresi che cantano in Ierone chi le ha libera-
te dal pericolo. Ben presto però Pindaro lascia questo tema per
trattare l’altro grande peccato associato a Issione, quello di ybris.
Come Tantalo, Bellerofonte e altre figure del mito pindarico, an-
che Issione non ha resistito al desiderio di oltrepassare i limiti im-
posti dalla sua condizione umana. Graziato dalla divinità e bene-
ficiato del diritto di vivere una vita felice fra gli dei, egli dimenti-
ca la propria natura e osa recare oltraggio a una dea.81 Inoltre al-

81 Cfr. GIOVANNI TARDITI, Studi di poesia greca e latina, Milano, Vita & Pensiero,
1998, p. 36.

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

la sua figura possono essere associati anche i peccati di spergiuro


(per il mancato rispetto dei patti matrimoniali) e, soprattutto, di
omicidio perpetrato ai danni di un membro della propria fami-
glia, sacrilega rottura di un legame – umano ma anche religioso –
che nessuno prima di lui aveva osato commettere. E questo det-
taglio non può che porlo sotto l’ombra di Edipo.82
Nel De genealogiae deorum Boccaccio interpreta il mito so-
prattutto come un’allegoria politica della diabolica avidità di
potere che caratterizza la tirannide. L’oggetto del desiderio ses-
suale di Issione, ossia il vaporoso simulacro di Giunone, divie-
ne quindi figura del regno e del potere politico che, se gestiti
virtuosamente, fanno di un uomo un re; se viziosamente, lo
configurano come un tiranno, un despota senza sosta tormen-
tato dall’ansia di conquista e dalla paura di perdere ciò che con
violenza ha fatto proprio:

[...] poiché, come il re comanda ai suoi sudditi,


così colui che possiede con la violenza, finchè gli
bastano le forze, sembra comandare i suoi. Ma come
vi è gran differenza tra l’aria limpida e la nube ad-
densata, così fra il re e il tiranno. L’aria è chiara co-
me il nome regio, la nube è oscura come è sordida
la tirannide. Il nome di re è amabile, quello di tiran-
no è tetro e odioso. Il re ascende al trono, insignito
di simboli regali; il tiranno occupa il dominio, cir-
condato da armi orrende. Il re dura nella quiete e
nella letizia dei sudditi; il tiranno nel sangue e nella
miseria degli stessi. Il re cerca la pace e l’accresci-
mento dei propri fedeli con tutte le forze: il tiranno

82 MARIO DOMENICHELLI, Il mito di Issione. Lowry, Joyce e l’ironia modernista, Pisa,


Ets, 1982, p. 132: «Il problema fondamentale del mito di Issione è, naturalmente, e tan-
to per cambiare, quello edipico: l’uccisione del suocero (sostituto paterno) e la viola-
zione tentata della madre (Era). Issione viene punito per questa seconda colpa ma, al-
lo stesso tempo, anche per la prima, da Zeus padre degli dei e padre resuscitato anche
di Issione: resuscitato forse perché mai ucciso o ucciso solo in desiderio, così come pu-
ro desiderio rimane il congiungimento con la madre, Era, “una nube” appunto, una
congiunzione ‘immaginaria’ con un fantasma, il proprio. È dunque essenzialmente per
colpa di un desiderio, potremmo dire, che Issione viene orrendamente punito con il
vorticare attorno a se stesso, al proprio, a questo punto, inesistente, mancante, centro».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

cura i propri affari con la rovina degli altri. Il re ri-


posa nel seno degli amici; il tiranno, allontanati gli
amici e i fratelli, pone la propria anima nel seno di
satelliti scellerati. Perciò, poiché – come è chiaro –
queste due condizioni sono diversissime, il re può
essere correttamente rappresentato dall’aria limpida
e gli è concessa qualche stabilità, se si può parlare di
qualcosa di stabile nelle cose caduche; al contrario il
tiranno è nube torbida, non connessa ad alcuna sta-
bilità e che facilmente si scioglie, o per il furore dei
sudditi o per l’ignavia degli amici. [...] Se questi tor-
menti, per qualche intesa, cessassero mentre uno oc-
cupa la tirannide, egli non sarebbe condannato nel-
l’inferno al supplizio della ruota che gira; ma poiché
nel suo petto, senza alcuna tregua, si volgono con
moto circolare le cure, e le antiche si rinnovano e
nuove se ne aggiungono, mentre timido di qua pa-
venta le insidie di questo, di là le forze di quello e il
giudizio di Dio, il tiranno si dice infisso alla ruota
che gira; ed essa è immaginata piena di serpenti,
perché il tiranno è agitato da ansie, non solo conti-
nue, ma anche mordaci.83

83 GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, IX, XXVII, 3-6, a cura di


VITTORIO ZACCARIA, in ID., Tutte le opere, voll. 7-8, t. 1, a cura di VITTORE BRANCA,
Milano, Mondadori, 1998, pp. 938-940: «[...] uti rex suis subditis dominatur, sic et is,
qui violenter possidet, dum vires suppetunt, suis imperare videtur. Sed uti inter limpi-
dum aerem et condensatam nubem grandis est differentia, sic inter regem atque ty-
rannum. Aer fulgidus est, sic et regium nomen, nubes obscura est, sic et caliginosa ty-
rannides. Regis amabile nomen, tyranni tetrum et odibile. Rex thronum conscendit
suum regiis insignitus notis, tyrannus occupat dominium, armis horridis circum sep-
tus. Rex per quietem et laetitiam subditorum, tyrannus per sanguinem et miseriam
subiacentium. Rex pacem augmentumque fidelium totis exquirit viribus, tyrannus
rem suam curat per exterminium aliorum. Rex in sinu amicorum quiescit, tyrannus,
amicis fratribusque semotis, in satellitum scelestrumque hominum animam suam po-
nit. Quam ob rem cum in se, ut patet, diversissima ista sint, rex splendidus aer merito
fingi potest, et ei est aliquid stabilitatis annexum, si quid dici potetst stabile in caducis;
ubi tyrannus respective turbulenta nubes est, nulle stabilitati annexa, et que facile re-
solvatur, seu a furore subiacentium, seu ob desiddiam amicorum. [...] Qui cruciatus, si
pacto aliquo eo tenente tyrannidem finirentur, non apud inferos supplicio rote volu-
bilis damnaretur, sed quoniam in pectore talis absque quiete aliqua circulari motu as-
sidue circumvolvuntur, ‹cure› et veteres innovantur, et nove superadduntur, dum hinc

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

La pena infernale che sancisce la storia ben stigmatizza


dunque il diabolico carattere di iteratività dell’errare e di di-
sprezzo verso gli altri, che segna la condotta peccaminosa di
cui Issione si macchiò. Il continuo movimento alternato di
ascesa e discesa che la ruota realizza si offre infatti come mi-
mesi della vita del personaggio che dagli abissi dell’omicidio è
stata innalzata agli onori dell’Olimpo per poi subito ricadere
nelle profondità dell’inferno a causa di uno smodato desiderio
di possesso. Gli istinti viscerali dominano l’ingordo agire di Is-
sione, e un’insaziabile fame lo porta a bramare ogni bene altrui
(la dote di Dia, il corpo di Dia, i segreti di Giove, il corpo di
Giunone, la fama di amante della moglie di Giove) prima an-
cora di, e senza, aver gustato la conquista appena realizzata. Di
questa ansia che inibisce ogni possibile appagamento dei sen-
si, o lo rende solo momentaneo (proprio dell’attimo zenitale
della parabola); di questa vorace corsa all’accaparramento, al di-
voramento di tutto ciò che è altro da sé, ma che null’altro che
la solitudine di sé lascia (cfr. Met. IV, 461: «volvitur Ixion et se
sequiturque fugitque»), il movimento circolare della ruota è
dunque un’efficace espressione simbolica.
Non stupisce quindi che proprio la conclusione della vi-
cenda di Issione – per l’intrinseca funzionalità moralistica del-
la pena di contrappasso cui è condannato – sia il momento che
ha maggiormente colpito l’immaginario, non solo poetico. Il
mito viene infatti solitamente (e fedelmente) visualizzato at-
traverso l’immagine del protagonista imprigionato a una ruo-
ta che gira straziandolo. Se nelle occorrenze moderne Issione
è legato alla circonferenza della ruota, in molte rappresenta-
zioni antiche il suo corpo viene invece inscritto nella circon-
ferenza – infernale uomo vitruviano: gli arti sono posti sim-
metricamente nei suoi quattro quadranti, e la ruota fa perno,

huius insidias, inde vires illius, illinc Dei iudicium timidus expavescit, rote infixus vo-
lubili dicitur, que ideo plena serpentem fingitur, quia curis non solum assiduis, sed
etiam mordacibus agitatur». Cfr. a questo proposito DOMENICHELLI, Il mito di Issione,
cit., p. 131: «Irato, Zeus punì poi Issione condannandolo ad essere legato con serpi a
mo’ di croce di Sant’Andrea ad una ruota vorticante in perpetuo nel Tartaro. Prima di
procedere ricorderemo che la posizione di Issione dentro la ruota di fuoco è simme-
trica a quella dei vari reggenti la ruota del mondo, del tempo, della legge, dell’univer-
so e quante altre».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

naturalmente, al centro del corpo, laddove si situano la colpa,


la paura e lo smodato desiderio che rendono quel corpo dia-
bolico. Alcune interpretazioni allegoriche della situazione mi-
tica non si lasciano sfuggire la potenzialità moralistica del det-
taglio e sottolineano il fatto che Issione fu «messo in l’inferno
ed ène posto sopra una rota, la quale sempre se volge, e volgela
uno dimonio, e così sempre fugge e seguita».84
In ragione del suo alto tasso di esemplarità la vicenda di Is-
sione compare spesso anche all’interno della produzione emble-
matica e impresistica. L’iconografia tradizionale dell’episodio è
ad esempio commentata da Filippo Picinelli, che correda l’in-
terpretazione dei molteplici significati morali dell’emblema con
la ripresa delle principali fonti (ed elaborazioni) del soggetto:

Giovanni Ferro, figurandolo su la rota tutto circon-


dato dalle fiamme, lo introdusse a dire: E SOLO A DAN-
NO MIO PERPETVO IL GIRO. Col quale si rappresentano
al vivo le inquietudini de i mondani, ben dicendo Se-
neca l. de Vita beata c. 28: Turbo quidam animos vestros ro-
tat, et involvit fugientes, petentesque eadem, et nunc in subli-
me alligatos, nunc in infima allisos rupit. Lucretio lib. 5:
Nunc aurum, et purpura curis | Exercent hominum vitam,
belloque fatigant. E Pietro Blesense ep. 91: Non deest tibi
rota Ixionis, dum cupiditate torqueris. Nelle rivolte d’Issio-
ne conosce Plutarco le inquietudini d’un ambizioso,
che si raggira con vertiginoso affanno da cento lati per
giungere alla dignità bramata, e nella vita d’Agide scri-
ve Non absurde sane, neque imperite in ambitiosos Ixionis fa-
bulam convenire nonnulli arbitrati sunt. Col quale concet-
to Fulvio Testi p. 2 ode 2 esprime l’inquietudine del
suo amoroso pensiero: «Vagabondo pensiero | Ove
vai? E che pretendi? | Tu su l’ale leggero | Ora parti,
ora torni, or poggi, or scendi, | E nel tuo moto eter-
no, | Se’ l’Ission de l’amoroso inferno».85

84 GIOVANNI BONSIGNORI, Ovidio Metamorphoseos Vulgare, libro IV, cap. 25, ed. cri-
tica a cura di ERMINIA ARDISSINO, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2001,
p. 235 (corsivo mio).
85 PICINELLI, Mondo simbolico, III, 17, cit., p. 80.

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

Nell’evocato Teatro d’imprese di Giovanni Ferro compare


anche l’illustrazione tradizionale, che raffigura Issione incate-
nato alla circonferenza della ruota e immerso nelle fiamme
dell’inferno (fig. 19). La presenza diretta del personaggio mi-
tologico nel corpo simbolico fornisce anche a Ferro l’occasio-
ne per sollevare dubbi sulla correttezza di tale immagine nel
quadro dei caratteri formali e strutturali dell’impresa definiti
ad esempio, ma non solo, da Girolamo Ruscelli. Al contempo
la breve scheda del Teatro riservata ad Issione ci segnala anche
il possibile impiego del motivo in un contesto amoroso, sia li-
rico, sia emblematico:

Nota la favola gli ambiziosi, i sediziosi, i tiranni


che bramano gli honori, e il regno inteso per Giu-
none con modi violenti et indiretti. Può ancora si-
gnificare gli heretici e sofisti della Chiesa. Giulio
Mosti se lo pigliò per mostrare passione amorosa, e
lo figurò tormentato sopra la ruota con motto PVR
CHE ALTAMENTE, e contra quei che non vogliono
corpi humani. Non so se il Ruscelli l’accettasse per
essere ignudo e non avere habito stravagante, come
egli pur vuole, che l’humana forma abbia impresa.
Io per figurare anco in questo capo una impresa gli
ho scritto E SOLO A DANNO MIO PERPETVO GIRO.86

A tale contesto amoroso appartiene con ogni probabilità


l’applicazione moralistica del motivo di Issione offerta nel-
l’ottavo emblema del codice statunitense. Essa si caratterizza
per un interessante tratto di originalità. La visualizzazione ca-
nonica viene infatti ripresa qui solo per allusione e virata in
chiave esemplarmente positiva. L’iconografia ci presenta non
direttamente Issione ma il suo doppio ‘virtuoso’, significati-
vamente vestito di verde («per dimostrare la speranza che egli
ha de governare fortuna cossì bene che sarà Honore a lui e
profitto a suoi») e impegnato nello sforzo di girare egli stes-
so la ruota; di guidare insomma il timone della propria sorte,

86 FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 420.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 19. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese,


Venezia, Sarzina, 1623, p. 420.

piuttosto che farsi travolgere da essa (tav. 8). In un sol colpo


l’immagine emblematica riscrive la memoria iconica dell’e-
semplare vicenda mitologica di Issione, sostituendo ai due
elementi destabilizzanti un’unica rassicurante figura con cui
il lettore è chiamato a identificarsi. Questa figura di riferi-
mento è un nuovo Issione che, liberatosi dai vincoli del pro-
prio ingordo desiderio, si è sostituito al demonio nell’opera
di avanzamento della vita ricevuta in sorte. Il nuovo Issione
non condivide dunque più la condizione di coloro che, co-
me il ‘vecchio’ personaggio del mito – ricorda anche Boc-
caccio, citando l’autorità di Macrobio –, «nulla prevedendo
con senno e nulla moderando con la ragione e nulla espli-
cando con la virtù, e affidando se stessi e tutti i loro atti alla
fortuna, sono sempre volti in giro da accidenti fortuiti».87 Lo
scarto di senso e di valore dell’immagine risiede anche nel

87 BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, IX, XXVII, 8, cit., p. 942: «“Illos scili-
cet radiis rotarum pendere districtos, qui nichil consilio previdentes, nichil ratione
moderantes, nichil virtutibus explicantes, seque et omnes actus suos fortune commic-
tentes, casibus fortuitis semper rotantur”».

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

dettaglio del perno centrale della ruota, che da viscerale abis-


so delle passioni si trasforma in cardine della volontà e della
ragione.
È in questa particolare configurazione che il motivo della
ruota (e la memoria della vicenda mitologica di Issione che es-
sa porta con sé) compare anche nell’opera petrarchesca. Ma
per meglio comprendere la funzione semantica che questo, co-
sì come altri dettagli simbolici, rivestono nel sistema espressi-
vo dell’autore trecentesco, è preventivamente necessario illu-
strare più in generale le modalità e il senso della rilettura a cui
Petrarca sottopone la cultura classica. Si consideri, a questo
proposito e con valore esemplificativo, un passo del secondo li-
bro del Secretum in cui Francesco legge l’Eneide attraverso lenti
proprie all’esegesi biblica. Agostino riconosce nell’ira il princi-
pale, e più temibile, fra quei moti dell’animo «così violenti e
istantanei che, se la ragione non li frena appena si manifestano,
distruggono l’anima e il corpo e l’uomo tutto intero», e indi-
vidua nella ragione posta nel capo il suo unico controllo. Fran-
cesco, con l’orgoglio del discepolo che una volta tanto riesce a
tener testa al proprio maestro, confessa di aver riflettuto a lun-
go sulla devastante potenza di queste passioni, e sulla ancor
maggiore forza della facoltà razionale, in seguito a un’attenta
lettura della descrizione virgiliana dell’antro in cui Eolo tiene
rinchiusi i venti (Eneide, I, 52-63):

Consulte quidem; quod ut me non tantum ex


philosophicis sed ex poeticis etiam scripturis eli-
cuisse pervideas, per illam ventorum rabiem, quam
Maro describit, speluncis abditis latitantem supe-
riectosque montes et regem in arce sedentem atque
illos imperio mitigantem, iram atque impetus animi
posse denotari mecum sepe cogitavi [...]. Ex adver-
so, autem montes regemque presidentem, quid nisi
capitis arcem et rationem esse, que illic inhabitat?
[...] Ego autem, singula verba discutiens, audivi in-
dignationem, audivi luctamen, audivi tempestates
sonoras, audivi murmur ac fremitum. Hec ad iram
referri possunt. Audivi rursum regem in arce seden-
tem, audivi sceptrum tenentem, audivi imperio pre-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

mentem et vinclis ac carcere frenantem; que ad ra-


tionem quoque referri posse quis dubitet?88

Mary Carruthers sottolinea la dimensione tropologica del-


la lettura compiuta da Petrarca per voce di Francesco. Egli ha
sottoposto un brano da lui ben conosciuto (e forse memoriz-
zato) a un’indagine ermeneutica volta a farne emergere il mes-
saggio etico, a mostrarne l’insegnamento velato sotto la storia
(«quod ut me [...] elicuisse pervideas»). L’interpretazione è qui
riconosciuta da Francesco innanzitutto come un atto di appro-
priazione del testo («mecum sepe cogitavi»), atto che non im-
plica solo il raggiungimento di una sua perfetta conoscenza in-
tellettuale ma che significa anche una sua piena esperienza da
parte dei sensi e dell’immaginazione: l’astratto concetto dell’i-
ra si riveste così dell’immagine del vento e si offre, vivo, alla
percezione sensoriale del lettore («audivi [...] audivi [...] audi-
vi [...]»). Non a caso Petrarca utilizza il termine «discutiens»
per designare l’esegesi a cui Francesco sottopone il passo, in
quanto nella sua primaria accezione di ‘rompere, spezzare’ il
verbo esprime con precisione la traduzione-dissoluzione del-
l’originale continuum testuale nella fitta sequenza di immagini
tracciata nella memoria dall’immaginazione. L’intervento di
Francesco sembra destrutturare un testo di sole parole e ricom-
porre un testo di sole immagini.89

88 PETRARCA, Secretum, II, cit., pp. 192-193: «E perché tu veda bene quello
che ho ricavato non solo dai testi filosofici ma anche da quelli poetici, sappi che
in cuor mio ho spesso riflettuto che la furia dei venti nascosta in profonde caver-
ne, descritta da Virgilio, e i monti sovrastanti e il re seduto nella rocca che li tie-
ne a bada con il suo potere, possano significare l’ira e le impetuose passioni del-
l’animo [...]. Per contro, i monti e il re che vi domina, che significano se non la
rocca della testa e la ragione che vi abita? [...] E io, interpretando una per una le
parole, ho sentito quell’insofferenza, ho sentito il tumulto, ho sentito il fragore
delle tempeste, il sordo brontolío, il fremito: e tutto questo può essere riferito al-
l’ira. Ho sentito il re che siede nella rocca, ho sentito che tiene lo scettro, ho sen-
tito che impone il suo potere e l’esercita con catene e carcere: chi dubiterà che si
possa intendere la ragione?».
89 MARY CARRUTHERS, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval
Culture, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1990, p. 169: «The psy-
chology of the memory phantasm provides the rationale for the ethical value of
the reading method which Petrarch describes. A properly-made phantasm is both
a “likeness” (simulacrum) and one’s “gut-level response” to it (intentio), and it is an

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

Lo stesso tipo di lettura per immagini sembra venir ri-


chiesta da Petrarca a chi affronta la scrittura fortemente
allegorica del De remediis utriusque fortunae; e tra le nu-
merose immagini che Petrarca propone nel proemio del
secondo libro di quest’opera ritorna proprio quella che
visualizza come venti le quattro passioni perturbanti l’a-
nimo umano: «Quenam tandem illa passionum quattuor
tempestas ac rabies, Sperare seu Cupere et Gaudere, Me-
tuere et Dolere, que rerum inter scopulos, procul a por-
tu miserum alternis flatibus animum exagitat?».90 Insieme
ad essa, nelle prime battute del prologo del primo libro,
incontriamo però anche la rappresentazione della sorte co-
me una ruota che implacabilmente innalza e abbatte sen-
za sosta gli individui:

Ut vero sileam reliqua, quibus undique trudi-


mur, quod illud est bellum quamque perpetuum,
quod cum fortuna gerimus? Cuius nos facere pote-
rat virtus sola victores, nos ab illa volentes sciente-
sque descivimus: soli igitur, imbecilles, exarmati,
non equo Marte cum implacabili hoste congredi-
mur, quos illa vicissim ceu leve aliquid attollit ac deicit et
in gyrum rotat ac de nobis ludit.91

emotional process that causes change in the body. The insistently physical matrix
of the whole memorative process accounts for Petrarch’s slow, detailed refashion-
ing of Virgil’s description. The active agency of the reader, “discutiens”, “breaking
up” or “shattering” (one could even translate “deconstructing”) each single word
as he recreates the scene in his memory, is emphasized: “Ego autem audivi [...] au-
divi [...] audivi”. He re-hears, re-sees, re-feels, experiences and re-experiences. In
this way, Virgil’s words are embodied in Petrarch’s recollection as an experience of
tumult and calm that is more physiological (emotional, passionate) than “mental”,
in our sense».
90 FRANCESCO PETRARCA, De remediis utriusque fortune, II, praef., a cura di
CHRISTOPHE CARRAUD, Grenoble, Jérôme Millon, 2002, p. 550.
91 PETRARCA, De remediis utriusque fortune, I, praef., cit., p. 8: «E tacendo degli al-
tri pericoli da cui siamo circondati, quanto grande e continua è la battaglia che noi
abbiamo con la Fortuna? Contro la quale noi solo grazie alla Virtù possiamo risultare
vincitori, noi che però da questa Virtù ci siamo allontanati volontariamente; sicché so-
li, indeboliti e disarmati presumiamo di combattere alla pari contro questo implacabi-
le esercito, che come una cosa leggera ci leva in alto e ci getta a terra, come una ruota ci fa gi-
rare e si prende gioco di noi» (corsivi miei).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Il motivo della ruota della Fortuna compare più volte nel


corso del De remediis,92 e in alcune occorrenze si qualifica pro-
prio in rapporto al personaggio mitico che ad essa ha legato la
sua drammatica fine. Nella dura reprimenda contro il ballo in
De rem. I, 24 la Ratio condanna i movimenti inconsulti e ste-
rili dell’arte coreutica che rivelano in pubblico gli «occulti af-
fectus» dell’animo e lasciano trasparire tutta la sua insana insta-
bilità. Come testimonia una lunga tradizione soprattutto cri-
stiana, il moto del corpo fine a sé stesso (per piacere o spetta-
colo) costituisce un atto peccaminoso, un movimento simile a
quello della ruota che volge il vizioso Issione e che neppure il
saggio Orfeo può frenare («nec ullus Orpheus Ixioniam rotam
sistit – sed visibilius in choreis ubi animorum volubilitas cor-
pora secum volvit»).93 Se la volubilità del desiderio è l’errore
qui stigmatizzato attraverso la memoria della figura di Issione,
nel dialogo CXII del primo libro il re dei Lapiti viene esibito
in avvio come esempio supremo di falsità, di peccatore che
non mantiene le promesse date e inganna senza rimorsi chi si
fida di lui. Parimenti fedifraghi sono gli indovini – ammonisce
la Ratio –; e coloro che ripongono fiducia nelle loro vane pro-
messe, e a queste fanno dipendere il proprio fragile agire e spe-
rare, non possono che essere paragonati al personaggio mito-
logico quando questi viene punito e imprigionato alla ruota:

Invenisti ecce aliud genus hominum, cui si cre-


das semper pendeas, semper speres; nam res unquam
aderunt promisse, neque enim unquam deerunt

92 Ecco alcuni passaggi: «Ita vero vicissitudo hec et conditio statuum humano-
rum variabilis atque inconstans est, ut iterabilis quoque sit semel et pluries, ne mireris
si vel arator ad militiam vel miles redeat ad aratrum. Ingens rerum mortalium rota est
et, quia tractus est longior, brevis hunc vita non percipit» (I, 16, 22); «Scilicet ut tua
navis fluctibus maris, sic animus vite curis explicitis portum attigit laborum ac terro-
rum. Sed non ita est, nunc maxime metuendum: nescis quod res hominum non stant.
Qui volubili in rota sedet altior, is proximus est ruine» (I, 90, 2); «Ubi queso? In hare-
nis ac fluctibus, an in vento, an in ipsa, ut perhibent, fortune rota? Quin tu, amice, ma-
le susceptam pone fiduciam. Nulla hic stabilis potentia, utque vel improprie exprimam
quod sentio, nulla potentia potens est» (I, 91, 20); «Proinde utcunque alios fortuna ro-
taverit, tu virtutis gubernaculum, si michi obsequi volueris, nec in pace, nec in bello,
nec in vita destitues, nec in morte» (II, 72, 2).
93 PETRARCA, De remediis utriusque fortune, I, 24, 10 (De choreis), cit., p. 126.

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

promissores. Sic res hinc profugas captans, hinc


promissis impulsus ixionio semper more rotaberis.94

La memoria dell’exemplum moralistico di Issione abita il De


remediis non solo a livello testuale ma anche iconico. Le due
immagini della ruota di Fortuna e dei venti delle Passioni co-
noscono infatti un’efficace sintesi visiva nel frontespizio del
Von der Artzney bayder Glück, des guten und widerwertigen, prima
traduzione tedesca dell’opera, pubblicata ad Augsburg nel 1532
per i tipi di Steyner.95 Questa edizione è dotata di un ricco ap-
parato illustrativo di natura emblematica e di valenza mnemo-
nica.96 Due sono le occorrenze illustrative che ci interessano.

94 PETRARCA, De remediis utriusque fortune, I, 112, 2 (De promissis aruspicum), cit.,


p. 490: «Hai trovato un’altra tipologia di uomini ai quali, se tu riporrai fiducia in loro,
sempre sarai dipendente e sempre con vane speranze. Poiché le cose da loro promes-
se non si verificheranno mai, e mai mancheranno coloro che fanno promesse. Andan-
do dietro a queste cose fallaci e restando sempre in attesa che le promesse si realizzi-
no, tu girerai senza sosta al modo di Issione».
95 Cfr. GIUDITTA MOLY FEO, Il «De remediis utriusque fortunae» tradotto da Peter
Stahel e Georg Spalatin («Von der Artzney bayder Glück, des guten und widerwertigen», Aug-
sburg 1532) e le illustrazioni del “Petrarca- Meister”, in Petrarca nel tempo, cit., pp. 409 e
413: «Classificato dagli storici dell’arte come partecipe di un certo “stile di Augusta”
(identificabile con la maniera di Burgkmair), pure, nelle illustrazioni per il De remediis,
se ne distacca, secondo un modo narrativo che rammenta l’atmosfera di alcune tavo-
le düreriane come quelle dell’Apocalisse (1498) o della Passione di Cristo (1511), com-
positivamente certo più distese e sicure fino nelle situazioni narrative più convulse. [...]
Alle molte immagini allegoriche o di soggetto antico, spesso di difficile interpretazio-
ne, nelle quali si fondono i temi, i simboli e i gesti di una tradizione figurativa secola-
re con una materia erudita che non poteva pervenire che da un consulente come
Brandt, fanno da contraltare l’abbondanza e la minuzia dei particolari e la vivacità di
alcune scene di vita quotidiana del XVI secolo». Una diffusa presentazione del testo
(che peraltro è stato riprodotto anastaticamente per cura, e col commento, di MAN-
FRED LEMMER, Hamburg, Leipzig Friedrich Wittig, 1984) compare in DANIEL W. FI-
SKE, Bibliographical Notices, III. Francis Petrarch’s Treatise De Remediis Utriusque Fortu-
nae, Text and Versions, Firenze, Le Monnier, 1888, pp. 32-33. Una parziale riproduzione
dell’apparato iconografico è presente in JOACHIM KNAPE, Die ältesten deutschen Über-
setzungen von Petrarcas ‘Glücksbuch’, Bamberg, H. Keiser Verlag, 1986; dello stesso stu-
dioso si veda anche Mnemonik, Bildbuch und emblematik im Zeitalter Sebastian Brants, in
Mnemosyne. Festschrift für Manfred Lurker zum 60. Geburtstag, Baden Baden, Koerner,
1988, pp. 133-178. Sulle xilografie si vedano anche: WILHELM FRÄNGER, Altdeutches
Bilderbuch. Hans Weiditz und Sebastian Brant, Leipzig, Herbert Stubenrauch, 1930;
WALTHER SCHEIDIG, Die Holzschnitte del Petrarca-Meisters zu Petrarcas Werk Von del
Artzney bayder Glück, des guten und widerwertigen – Augsburg 1532, Berlin, Henschel,
1955.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

La prima è la tavola del frontespizio. Essa risulta interamente


occupata da una ruota della Fortuna mossa dai venti delle pas-
sioni che soffiano imperiosi dai quattro angoli, e che di fatto
determinano il successo e la rovina dei quattro individui ag-
grappati alla ruota (fig. 20). Ad apertura del dialogo 90 (De
tranquillo statu) del primo libro abbiamo invece la sola ruota
mossa nel suo cardine centrale da una donna bendata (ovvia-
mente personificazione della Fortuna) che «non può vedere
come durante l’ascesa l’uomo si trasformi in asino, né come
chi, arrivato in alto, anche se porta lo scettro e la corona, abbia
ormai perduto la figura umana; e chi la ruota fa precipitare a
terra non ritroverà mai immagine di uomo» (fig. 21).97 L’u-
manista tedesco Sebastian Brant è il probabile inventor delle xi-
lografie dell’edizione tedesca e non stupisce quindi rinvenire
quest’ultima immagine, minimamente variata, anche nel suo
capolavoro poetico, la Narrenschiff. La xilografia realizzata da
Albrecht Dürer per il capitolo LVI, dedicato alla fine degli im-
peri, riproduce il medesimo modello della ruota che segna la
differente sorte di inasinamento degli uomini, e si differenzia
dall’illustrazione del De remediis per il dettaglio dell’agente che
avvia la ruota, non più una Fortuna personificata ma un’em-
blematica mano divina che dal cielo ne regola il fatale moto:
«Attenti dunque, sovrani coronati: | Legati siete di Sorte alla
ruota! | E che la sposti Dio basta d’un iota, | Perché sia certa
la vostra caduta. | [...] | D’Ission la ruota mai ferma vedrete,
| Ché ad ogni soffio si muove di vento» (fig. 22).98 Il dettaglio
della mano modifica il significato dell’immagine della ruota,

96 Cfr. LINA BOLZONI, Tra Petrarca e Sebastian Brant. Il De Remediis e le immagi-


ni di memoria, in LEA RITTER SANTINI, Sorte e ragione: Petrarca in Europa. Lezione Sape-
gno 2003, con interventi di JEAN BALSAMO e LINA BOLZONI, Torino, Nino Aragno,
2008, pp. 183-211, in part. p. 206: «A partire dal 1539 ogni immagine è accompagna-
ta da un distico latino, a sua volta tradotto in tedesco, che offre una lettura sintetica e
morale del testo in prosa. Costruito in questo modo, con questa costante traduzione
del testo in un’immagine commentata, il libro diventa in un certo senso un libro di
emblemi e, come si osserva sopra, un sistema di arte della memoria dei contenuti che
offre al lettore/spettatore».
97 LEA RITTER SANTINI, Della Ragionevole Sorte. Goethe incontra Petrarca in biblio-
teca, in EAD., Sorte e ragione, cit., pp. 3-160, cit. a p. 72.
98 Cfr. SEBASTIAN BRANT, La nave dei folli, a cura di FRANCESCO SABA SARDI, Mi-
lano, Spirali edizioni, 1984, cit. a pp. 135-137.

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ISION PEL PECATO, IO PER HONORE

Fig. 20. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück,


des guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, frontespizio.

Fig. 21. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück,


des guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, I, p. 106.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 22. SEBASTIAN BRANT, Der Narrenspiegel. Das große Narrenschiff,


Strassburg, Cammer-Lander, 1545.

che da rappresentazione dell’aleatorietà del destino diviene


simbolo della sua commissione alla provvidenza (e/o alla vo-
lontà) di Dio
Pur mutando il soggetto che ne regola il movimento, l’im-
magine del manoscritto di Baltimore ripropone un’analoga
rappresentazione di controllo della Fortuna. L’elaborazione del
personaggio mitico qui sviluppata dipende però anche dal par-
ticolare impiego che lungo l’intero codice si fa del motivo ico-
nografico della ruota di fortuna. La ricorrenza del simbolo
mette infatti in dialogo tre emblemi – oltre al presente, anche
il 20 e il 21 – e costruisce una microsequenza governata da
nessi logici e da una, seppur minima, articolazione sintagmati-
ca. Per questo motivo si rinviano all’analisi dell’ultimo emble-
ma del trittico considerazioni più circostanziate sul messaggio
specifico di questa forma simbolica e su quello, più generale,
delle breve serie.

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DI TAL LEGNO È L’IMAGINE MIA VIVA

Tav. 9

9. Di tal legno è l’imagine mia viva

Solevano gli antichi fare le imagine degli loro dei


de uno legno chiamato cedrolate il quale mai si co-
rompe e dura eterno.Vol dire lo inventore de la me-
daglia che la imagine de la sua donna, che gli sta vi-
va ne la mente, è di tal legno, zoè che gli starà et-
ternamente nel cuore.

La didascalia illustra limpida ed esauriente il messaggio del


nono emblema, che ritrae una figura femminile intagliata nel
tronco di un cedro in frutto (tav. 9). Si tratta di un’ulteriore va-
riazione sul motivo – ricorrente anche in altre espressioni sim-
boliche della raccolta – della potenza del sentimento amoroso;
della profondità con cui esso radica nell’animo dell’innamorato
il phantasma della donna amata, e ne rende incorruttibile l’osses-
sivo ricordo. Il contesto concettuale entro cui si colloca l’em-
blema è dunque quello della formazione e della funzione del-
l’immagine dell’amata come spazio di memoria. La correlazio-
ne metaforica (immagine-ricordo, legno-memoria) è garantita
in questo caso dalla qualità, riconosciuta fin dall’antichità alla

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A. TORRE, VEDERE VERSI

pianta di cedro (cfr. Plinio, Naturalis Historia XIII, 5), di resistere


integra allo scorrere del tempo, e di sfidarne l’eternità. E proprio
in ragione della sua proverbiale resistenza all’invecchiamento,
questa pianta viene spesso impiegata per la creazione di emble-
mi e imprese. Compulsando le principali raccolte del genere, ve-
niamo a sapere che questo albero dall’intenso aroma è «nimico
a’ serpi» e gran produttore di frutti, sicché pare il simbolo adat-
to, per esempio, a rappresentare un luogo di educazione e for-
mazione; e infatti Giovanni Ferro (fig. 23) ricorda che

Marc’Antonio Bonciario per certo luogo in Pe-


rugia detto il Collegio di San Bernardo, dove egli
era capo e maestro, figurò per impresa un cedro ca-
rico di frutti e di fiori col verso del Tasso, MENTRE
CHE SPVNTA L’VN L’ALTRO MATVRA, stampata in
fronte al libro delle sue epistole. Impresa vaga e gen-
tile et appropriata a’ giovani, che ivi andavano acer-
bi per imparare et uscivano maturi et intendenti.99

Alle paradigmatiche doti di inalterabilità e fertilità del ce-


dro si può poi ricorrere per rappresentare virtù individuali, an-
ziché collettive (come quelle, precedentemente sottolineate, di
una comunità di accademici). È il caso dell’impresa ideata per
celebrare il voto di castità saldamente rispettato dal cardinale
Orazio Spinola, e quindi divenuto suo segno identitario:

Per inferire che il cardinale Orazio Spinola mai


sempre vergine si mantenne, nell’esequie sue fu al-
zata una pianta di cedro che, per sua naturale pro-

99 FERRO, Teatro d’imprese, cit., pp. 201-202, dove afferma anche: «Crede il Pon-
tano che i nostri cedri sieno gli antichi pomi dell’Hesperidi col color dell’oro di Dio-
gene che impallidisce. [...] Il cedro dunque albero molto apprezzato et odorifero, ni-
mico a’ serpi si vede tra l’imprese de gli Affidati sotto nome di Augusto Bottigella Aca-
demico Aprico col motto SOLVM A SOLE, et è depinto con frutti e fiori. [...] Il Cedro
carico di frutti maturi e pesanti è d’Aduardo Simoni col motto QVOD SENSIM CREVE-
RINT; bella impresa ma rende ragione per esplicare uno assuefarsi a’ travagli, perché a
poco a poco gli vengono, o cosa altra tale, significando che l’accrescimento fatto così
a tempo non si sente né si vede. A Jacomo Altoviti diede il Percivallo il cedro carico
di neve, con le frondi e frutti in terra, e vi si leggeva QVANTE SPERANZE SE NE PORTA
IL VENTO, ma doveva dire la neve».

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DI TAL LEGNO È L’IMAGINE MIA VIVA

Fig. 23. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese,


Venezia, Sarzina, 1623, p. 201.

prietà non soggiacendo al tarlo né alla corruzione,


portava il motto A PVTREDINE TVTA. [...] Ben è però
vero che non basta il preservare il corpo dalla cor-
rottela ma l’anima non meno dalle viziose affezioni
deve conservarsi esente. [...] La pianta di cedro cari-
ca di frutti, col motto NVNQVAM SPOLIATA, può ser-
vire di perfetto essemplare d’ogni anima amica d’Id-
dio, che non mai depone gli habiti interni virtuosi
ed i costumi incolpabili e santi.100

«Nimico a’ serpi» e «non soggiacendo al tarlo», pare dunque


inevitabile che il cedro venga còlto quale simbolo di una incor-
ruttibilità che è fisica e spirituale insieme, di una verginità dal vi-
zio e dal peccato che appare miracolosamente naturale. Paolo
Aresi lo riconoscerà, ad esempio, tra gli emblemi di Maria, dal
momento che unisce in sé i fiori della verginità e il frutto della
maternità.101 E questo ne fa – come si chiarirà meglio in segui-

100 PICINELLI, Mondo simbolico, IX, 8, cit., p. 282.


101 Ibidem, p. 282: «Una pianta di cedri, carica di fiori e frutti fu posta con le parole
DELECTANT ET IVVANT; idea de gli evangelici che dilettano con la vaghezza dell’eloquen-
za, e giovano con l’efficacia della dottrina. [...] Monsignor Aresio ad honore di Maria [...]
figurò una pianta di cedro, con fiori e frutti, ed il motto NOVA ET VETERA SERVAVI TIBI».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

to – un simbolo pienamente contestuale al messaggio comples-


sivo del discorso delineato nel codice statunitense.
In relazione alle caratteristiche intrinseche del simbolo e al-
le sue modalità generali d’impiego, non stupisce quindi rinve-
nirlo anche all’interno di una raccolta di emblemi che propone,
quasi uniformemente, una revisione moralistica della passione
amorosa; ed in specie una revisione moralistica di quella specifi-
ca passione amorosa su cui si fonda il romanzo lirico del Can-
zoniere petrarchesco. Il motto del nono emblema di Baltimore
pare infatti un’elaborazione dal secondo verso del fragmentum
157, condotta sulla scorta di quella metaforizzazione vegetale di
Laura tanto cara al poeta e centrale nella sua ideologia poetica:
«Quel sempre acerbo e onorato giorno | mandò sì al cor l’ima-
gine sua viva | che ’ngegno o stil non fia mai che ’l descriva, |
ma spesso a lui co la memoria torno» (vv. 1-4, corsivi miei). Come
si illustrerà più diffusamente col commento all’emblema 10, il
sonetto fa parte di un ciclo dedicato al pianto di Laura (RVF
155-158) e si colloca in un’area del Canzoniere in cui la rifles-
sione petrarchesca sulla funzione e le dinamiche della memoria
risulta strategicamente perseguita. Il fragmentum in questione co-
stituisce un tassello essenziale di tale riflessione, articolato com’è
nella definizione (vv. 1-4) e nell’esemplificazione (vv. 5-14) di
un processo mnestico complessivo – memorizzazione e remini-
scenza – che si declina nella forma di una descriptio rammemo-
rativa. L’illustrazione dell’emblema statunitense sottolinea infatti
esplicitamente la dimensione memoriale del dettato poetico, ed
evidenzia così il nucleo concettuale condiviso con l’espressione
simbolica che lo segue. Nel giro di due carte contigue del ma-
noscritto di Baltimore (la 9 e la 10) abbiamo l’illustrazione dei
due principali campi semantici entro cui è possibile organizzare
una metaforica memoriale, quello della scrittura e quello del the-
saurus.102 Del primo, l’incisione sulla superficie lignea costituisce

102 Cfr. HARALD WEINRICH, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna, Il


Mulino, 1976, pp. 49-53; CARRUTHERS, The Book of Memory, cit., pp. 16-45; LINA BOL-
ZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino,
Einaudi, 1995, pp. 154-164; FRANCESCA RIGOTTI, Il velo e il fiume. Riflessioni sulle
metafore dell’oblio, «Iride», VIII (1995), 14, pp. 131-151; DAVID COWLING, Building the
Text. Architecture as Metaphor in Late Medieval and Early Modern in France, Oxford,

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DI TAL LEGNO È L’IMAGINE MIA VIVA

una delle molte varianti, rinvenibili peraltro anche all’interno


dell’opera petrarchesca. In essa possiamo parlare anche di “pittu-
ra” e “scultura della memoria”, nonché ampliare il concetto di
stilo memoriale a strumenti quali il chiodo o l’uncino, e inte-
grare l’immagine della pagina della mente con quella del corpo
segnato da particolari tracce memoriali come le stigmate, le fe-
rite e le cicatrici.103 Il modello dantesco del libello della memoria
è ineludibile, ma come ci testimonia la canzone 127 lo stesso li-
ber fragmentorum petrarchesco pare l’esito momentaneo e aperto
(v. 4: «Quai fien ultime, lasso, e qua’ fien prime?») della trascri-
zione e dispositio di ciò che, con analoga programmatica preca-
rietà di senso e di forma, già compare nel liber cordis: «Collui che
del mio mal meco ragiona | mi lascia in dubbio, sì confuso dit-
ta. | Ma pur quanto l’istoria trovo scritta | in mezzo ’l cor [...]
dirò» (vv. 5-10).104 Così configurata, la riflessione di poetica qui

Clarendon Press, 1998, pp. 109-138; DOUWE DRAAISMA, Metaphors of Memory. A His-
tory of Ideas about the Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; ALEIDA
ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 125-144 (I ed. ted. 1999); JÖRG J. BERNS, Gedächtnislehren und Gedächtniskunst in
Antike und Frühmittelalter, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2003, pp. 523-597. Sulla
metaforica memoriale petrarchesca si rinvia anche ad ANDREA TORRE, Petrarcheschi se-
gni di memoria. Spie, postille, metafore, Pisa, Edizioni della Normale, 2007, pp. 209-302.
103 Per un’introduzione alla questione cfr. ANDREA TORRE, Corpo ferito, memoria aper-
ta, in Per violate forme. Rappresentazioni e linguaggi della violenza nella letteratura italiana, a cura
di FABRIZIO BONDI e NICOLA CATELLI, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2009, pp. 183-201.
104 Su questo aspetto della canzone si veda BORTOLO MARTINELLI, Memoria e sce-
na dell’amore nella canzone In quella parte dove Amor mi spona (RVF 127), «Italianisti-
ca», XXXIII (2004), 2, pp. 61-75, cit. a p. 71: «La menzione del liber cordis rivela tutta-
via come al fondo della concezione dell’operazione libraria presupposta dalla canzo-
ne si celi una profonda dicotomia: da un lato, abbiamo infatti l’indicazione relativa al-
l’istoria la quale è registrata in mezzo al cuore, e, in quanto essa è scritta, è da ricon-
durre senza equivoci all’archetipo del liber interiore; dall’altro, le rime, le diverse pièces
costituiscono il tessuto di un altro libro, per l’allestimento del quale il poeta confessa
di avere dei dubbi di natura organizzativa (ordo, dispositio). I due libri sono tra loro del
tutto equiparabili quanto alla materia: le rime hanno come contenuto la “doglia”;
l’“istoria”, scritta nel cuore, ha quale contenuto i “martiri”; ma quanto alla loro arti-
colazione e struttura devono essere considerati dissimili. I due libri non sono per nul-
la tra loro omologhi e sovrapponibili, giacché il liber cordis fa riferimento al poeta in
qualità di personaggio, vale a dire come ad un elemento capitale della materia, e in
qualità di fruitore-lettore (egli legge e rilegge ripetutamente la sua storia); mentre il
corpus delle ‘rime’ fa riferimento al poeta in qualità primaria di autore, oltre che di per-
sonaggio. Ed è propriamente a questo secondo livello che s’instaura il collegamento
con i processi relativi alla costituzione del liber fragmentorum».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

sviluppata da Petrarca costituisce, senza programmatico intento


polemico, una «citazione e decostruzione della poetica dante-
sca».105 Materia dell’inventio interiore di Petrarca è la stessa vi-
sione dell’uno nel molteplice che connota ogni percezione sen-
sibile dell’io lirico e costituisce, in chiave agostiniana, il punto
critico dell’immaginario erotico petrachesco: «Dico che, per-
ch’io miri | mille cose diverse attento e fiso, | sol una donna
veggio, e ’l suo bel viso» (vv. 12-14).106
L’immagine, con la sua valenza memoriale, ritorna spesso
nella tradizione lirica, costituendo una tipologia del più ampio

105 ADELIA NOFERI, Frammenti per i fragmenta di Petrarca, a cura di LUIGI TASSO-
NI, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 175-196, in part. pp. 181-182: «In Dante l’area metafo-
rica del libro da “essemplare” (la canzone “E m’incresce di me”, il capitolo introdut-
tivo della Vita Nuova), di Amore che “ditta dentro”, del poeta “scriba”, corrisponde
esattamente all’area teorica del fondamento supremamente oggettivo della operazione
poetica: la dettatura di Amore, il libro già scritto, sia esso il libro della memoria o il li-
bro di Dio, costituiscono la garanzia assoluta sia del fondamento di verità, sia della cer-
tezza della storicizzazione, quindi della narratività. È nella autorità di colui che detta,
nella fedeltà dello scriba al dettato, nella esemplarità del libro già scritto da ri-scrive-
re, che si appoggiano in Dante non soltanto la inventio, ma anche la dispositio, secondo
una consecuzione logico-cronologica garantita in ogni punto dal “dittare” e dal “Li-
bro”, come esemplare itinerario attraverso tappe necessarie, in un ordine irreversibile.
Ma con Petrarca, e l’esordio di questa canzone indica esplicitamente il punto di crisi,
proprio quel fondamento viene meno. Il dettato di Amore è confuso (“sì confuso dit-
ta”), non genera certezza ma dubbio (“mi lascia in dubbio”), e viene sottratta in que-
sto modo ogni garanzia per la costruzione di una “storia”. Il dubbio non investe solo
un problema di dispositio, ma la possibilità appunto logico-cronologica, lineare e pro-
gressiva, di una “storia”». Si integri con le osservazioni, direi, più complementari che
oppositive di CLAUDIA BERRA, La canzone CXXVII nella storia dei «Fragmenta» petrar-
cheschi, «Giornale storico della letteratura italiana», CVIII (1991), 168, pp. 161-198, in
part. pp. 164-166.
106 Cfr. ancora BERRA, La canzone CXXVII nella storia dei «Fragmenta» petrarche-
schi, cit., p. 193: «[...] la violenza con cui l’immagine di Laura si presenta alla vista del
poeta (“et vix dimota in ictu oculi rursus aderat”) impedendogli ogni altra riflessione
(“nichil animo videre poterant”), l’insistenza sull’azione del “vedere” e sugli “occhi”
(“omnia ad oculos referebant”) e sulla molteplicità degli aspetti naturali, l’incapacità di
sottrarsi alla “luce” di Laura, “sparsa” in tanti luoghi (al contrario dell’unica vera luce
“nec distentam locis”) che preclude il tema lirico della visione della donna nella na-
tura all’ossessione sensuale caratteristica della poesia petrosa, ma volle anche avvicina-
re tale ossessione alla “pestis fantasmatum”, conseguenza negativa della passione nel-
l’interpretazione agostiniana. Se, dunque, le libere associazioni della canzone riprodu-
cono la fenomenologia sensoriale della “pestis fantasmatum”, la dispositio abnorme (la
pretesa mancanza di ordo) del componimento si configura, e si spiega compiutamen-
te, come l’effetto e il traslato letterario della confusio morum cui soggiace chi ama la
creatura invece del creatore, “ordine pervertito”».

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DI TAL LEGNO È L’IMAGINE MIA VIVA

tema del ritratto dell’amata o dell’amato.107 Petrarca non vie-


ne meno all’impiego del figurante, ed anzi ne sperimenta le
principali varianti e contaminazioni.108 Per affinità strutturali e
funzionali con i documenti che stiamo trattando nella nostra
ricerca, possiamo ricordare almeno il famoso caso del codice
M 819 della Pierpont Morgan Library, una miscellanea troba-
dorica del XIII secolo, corredata da numerosi marginalia figu-
rati, fra i quali spicca l’immagine di una figura maschile che
porta nel petto un volto femminile (fig. 24). Posta a commen-
to visivo del componimento di Folchetto di Marsiglia En chan-
tan m’aven a membrar, l’immagine è «one of the earliest attempts
to give visible form to the idea of the heart as a record of per-
sonal memory», esperienza nella quale «the poet’s recorded
song and pictorial image collaborate on the manuscript page
to leave a vivid impression of individual identity».109 L’imma-

107 Cfr., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche: FRANCO MANCINI, La fi-
gura in cuore fra cortesia e mistica. Dai Siciliani allo Stilnuovo, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1988; e MARIA LUISA MENEGHETTI, Il ritratto in cuore: peripezie di un tema me-
dievale tra il profano e il sacro, in Riscritture del testo medievale: dialogo tra culture e tradizio-
ni, a cura di MARIA GRAZIA CAMMAROTA, Bergamo, Bergamo University Press, 2005,
pp. 73-85.
108 Fra queste dobbiamo ricordare almeno l’immagine dell’ostensione del cuore
sulla fronte del poeta innamorato, espressione che configura il dominio del ricordo
dell’amata sulla memoria dell’amante come un’unica ed esaustiva scrittura della men-
te: «e ’l cor negli occhi e ne la fronte ò scritto» (RVF, 76, 11); «[...] le paure e gli ardi-
menti | del cor profondo ne la fronte legge» (147, 5-6); «Ma spesso ne la fronte il cor
si legge» (222, 12); «se ne la fronte ogni penser depinto» (224, 5). Come ha mostrato
l’ultima occorrenza, non solo di scrittura si dovrebbe parlare ma anche di pittura o di
scultura; e ciò vale soprattutto laddove il ricordo trascritto nei domìni dell’interiorità
non sia tanto il sentimento dell’amante quanto piuttosto la pervasiva imago memoriae
della persona amata: «per cui nel cor via più che ’n carta scrivo» (RVF, 105, 88); «Ma
’l bel viso leggiadro che depinto | porto nel petto, e veggio ove ch’io miri» (96, 5-7);
«Misero me, che volli | quando primier sì fiso | gli tenni nel bel viso | per iscolpir-
lo imaginando in parte | onde mai né per forza né per arte | mosso sarà, finch’i’ sia
dato in preda | a chi tutto diparte» (50, 63-9); «Tu deeras, votis quotiens precibusque
petitus, | mente tamen, memorique animo tua dulcis imago | certe aderat, semper-
que aderit, nec tempore sedes | deseret acceptas; sic illam pectore in alto. | Sculpsit
amor, fixamque adeo vetitamque moveri | maximus artificium vivoque adamante
peregit» (Epyst., II, 1, 75-80).
109 ERIC JAGER, The Book of the Heart, Chicago-London, University of Chicago
Press, 2000, p. 70. Sul codice newyorkese si vedano anche: SYLVIA HUOT, Visualization
and Memory: The Illustration of Troubadour Lyric in a Thirteenth-Century Manuscript, «Ges-
ta», XXXI (1992), 1, pp. 3-14; STEPHEN G. NICHOLS, “Art” and “Nature”: Looking for

147
049 balti_layout 14/04/13 21:15 Pagina 148

A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 24. New York, Pierpont Morgan Library, ms. 819,


Miscellanea provenzale (Canzoniere N), c. 59r.

gine dà forma visibile all’idea del cuore come sede della me-
moria individuale, e soprattutto indica al lettore la destinazio-
ne ultima di tutte le illustrazioni che commentano visivamen-
te il manoscritto. Meditando su queste reali imagines agentes e
affidandole alla propria memoria, il lettore può infatti giunge-
re a una miglior comprensione dell’esperienza amorosa in ge-
nerale e del discorso lirico in particolare, nonché conservare
un più saldo e immediato ricordo delle poesie associate a tali
illustrazioni.
Il dettaglio emblematico del legno di cedro vale da ulterio-
re, iperbolica intensificazione della già di per sé incancellabile
traccia mnestica rappresentata dall’imago viva di Laura, scolpitasi
nel «cor» del poeta in «quel sempre acerbo e onorato giorno».
Questa intensificazione non concerne però solo la potenza del
ricordo ma anche la sua natura. Pensiamo alla metamorfosi ve-
getale che sostanzia uno dei miti-guida del Canzoniere, quello

(Medieval) Principles of Order in Occitan Chansonnier N (Morgan 819), in The Whole Book.
Cultural Perspectives on the Medieval Miscellany, a cura di STEPHEN G. NICHOLS e
SIEGFRIED WENZEL, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1996, pp. 83-123; LINA
BOLZONI, Il cuore di cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Tori-
no, Einaudi, 2010, pp. 308-325.

148
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DI TAL LEGNO È L’IMAGINE MIA VIVA

di Apollo e Dafne.110 Come semplice memoria iconografica si


può ricordare anche l’emblema CIX dell’edizione 1534 di Al-
ciato («In oblivionem patriae») che propone una pianta antro-
pomorfa dalle fattezze muliebri quale simbolo del potere
obliante della sensualità femminile.111 Ma soprattutto, dire che
l’immagine memoriale di Laura è fatta di una sostanza resisten-
te come il legno di cedro, non vuol inferire soltanto una gene-
rica incorruttibilità del ricordo (e, transitivamente, dell’oggetto
che esso conserva) di fronte alle insidie del tempo. Significa an-
che, e soprattutto, affermare la sua specifica incorruttibilità di
fronte al peccato, la sua consustanziale alterità da ogni vizio. La
rappresentazione memoriale di Laura, che l’incisione sul tronco
ci consegna, intende dunque offrirsi alla contemplazione del let-
tore-spettatore dell’emblema come un ritratto della casta Laura,
di quella Laura-Pudicizia che – come testimoniano altri docu-
menti del corpus – trionfa su Cupido. Ossia su quell’amore sen-
suale che Petrarca stesso nella canzone 360 visualizza attraverso
l’immagine del tarlo: «ché legno vecchio mai non róse tarlo |
come questi ’l mio core, in che s’annida, | e di morte lo sfida»
(vv. 69-71). E il legno di cedro, ci insegna Picinelli, non soggia-
ce ai tormenti del tarlo.

110 Per l’equivalenza Laura-laurea-alloro che alimenta la versione petrarchesca


del mito dafneo si rimanda a: CARLO CALCATERRA, Nella selva del Petrarca, Bologna,
Cappelli, 1942, pp. 35-87; UGO DOTTI, Petrarca: il mito dafneo, «Convivium», XXXVII
(1969), pp. 9-23; FREDI CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca, Firenze, Olschki,
1971, pp. 51-74; MARGA COTTINO-JONES, The Myth of Apollo and Daphne in Petrarch’s
Canzoniere. The Dynamics and Literary Function of Transformation, in Francis Petrarch. Six
Centuries later. A Symposium, a cura di ALDO SCAGLIONE, Chapel Hill-Chicago, De-
partment of Romance Languages et the University of North Carolina – The New-
berry Library, 1975, pp. 152-176; PETER R. HAINSWORTH, The Myth of Daphne in the
“Rerum Vulgarium Fragmenta”, «Italian Studies», XXXIV (1979), pp. 28-44; MARJORIE
O’ROURKE BOYLE, Petrarch’s Genius. Pentimento and Prophecy, Berkeley-Los Angeles-
Oxford, University of California Press, 1991, pp. 113-152; NICHOLAS MANN, Pétrarque
et les metamorphoses de Daphne, «Bulletin del’Association Guillaume Budé», IV (1994),
pp. 382-402; LUCA MARCOZZI, La biblioteca di Febo. Mitologia e allegoria in Petrarca, Fi-
renze, Franco Cesati, 2002, pp. 248-254; CARLO VECCE, Francesco Petrarca. La rinascita
degli dèi antichi, in Il mito nella letteratura italiana, diretta da PIETRO GIBELLINI, vol. I Dal
Medioevo al Rinascimento, a cura di GIAN CARLO ALESSIO, Brescia, Morcelliana, 2003,
pp. 177-228, in part. pp. 211-228.
111 Per la riproduzione e il commento dell’immagine cfr. ANDREA ALCIATO, Il
libro degli Emblemi secondo le edizioni del 1531 e del 1534, embl. 109, a cura di MINO
GABRIELE, Milano, Adelphi, 2009, pp. 551-555.

149
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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 10

10. Mi scrisse entro un diamante in mezo il core

Il decimo emblema del manoscritto di Baltimore coglie ani-


ma e corpo dal sonetto 155. Questo testo apre un ciclo di quat-
tro fragmenta incentrati sul motivo del pianto di Laura, e parte-
cipa – forse in posizione di non trascurabile centralità – a più
ampie sequenze di componimenti disposte in una struttura a
scatole cinesi. Il ciclo sul pianto (RVF 155-158) si incastona in-
fatti in una serie dedicata agli occhi di Laura (154-160), serie a
sua volta estendibile ad una zona del Canzoniere – distesa al-
meno dal 150 al 160 – che ospita testi fra loro affini per tradi-
zione testuale (8 su 11 si distribuiscono in fogli attigui del Codi-
ce degli abbozzi), per opzione formale (tutti sonetti), e per conti-
guità tematica (quasi uno specimen dell’intero Canzoniere, per
l’insistenza sulle pene del poeta stretto tra l’assoluta bellezza di
Laura e l’implacabilità di un Amore sempre personificato).
Un’altra costante della sequenza – per noi non trascurabile – è
l’attenzione rivolta al campo tematico della vista, con affondi di
volta in volta concentrati sulla minor o maggior potenzialità
della facoltà visiva (RVF 151 e 152), sull’ineffabile meraviglioso
degli occhi di madonna (154, 159 e 160), e sull’eloquenza vi-
suale del pianto nella comunicazione degli affetti (155-158).

150
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MI SCRISSE ENTRO UN DIAMANTE IN MEZO IL CORE

La coerenza rinvenibile nel gruppo di fragmenta trova un


suo riflesso nell’uniformità dell’impianto grafico adottato da
Antonio Grifo per tradurli visivamente all’interno dell’incuna-
bolo queriniano G.V.15. Il nucleo concettuale della sudditan-
za del Petrarca-agens alla coppia Amore-Laura, ad esempio, vie-
ne sempre rappresentato attraverso l’organizzazione della sce-
na su due piani giustapposti lungo l’asse verticale, e rispettiva-
mente occupati dai soggetti dominanti (registro superiore) e
dal soggetto sottomesso (registro inferiore) (fig. 25). Le super-
fici parallele dell’orizzonte celeste (o marino) e della porzione
di terreno (metonimia del destino tutto immanente del prota-
gonista) sottolineano il carattere gerarchico della relazione il-
lustrata. Su un fondale naturalistico così organizzato, il prota-
gonista della situazione lirica viene canonicamente raffigurato
attraverso il pittogramma del libro trafitto da una freccia e oc-
cupato da un serpente; un libro, spesso chiuso talora aperto,
che vive in costante dipendenza da quanto accade sopra di lui,
si tratti di un assalto di Cupido, della visione beatifica di Lau-
ra (RVF 154), del pianto dell’amata, o anche di un perturban-
te nulla. Quest’ultima variante caratterizza la vignetta del frag-
mentum 152, dove il dissidio interno al poeta (quella fluctuatio

Fig. 25. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, cc. 64v-65r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

151
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A. TORRE, VEDERE VERSI

agostiniana fra passioni contrastanti che lì si testualizza nel pro-


tratto uso dell’antitesi) è enfatizzato dal ripiegamento del ser-
pente sul libro e dall’assenza dell’abituale punto di riferimen-
to superiore. «Qui le pene d’amore non portano all’epifania
delle parole del poeta negli occhi dell’amata come in 151»,112
sul margine del quale Grifo ha invece riportato un Cupido
bendato che dall’alto rivolge minaccioso una torcia contro il
libro-Petrarca, e con tale gesto stabilisce un contatto diretto (e
bidirezionale?) tra gli occhi di Laura (il «bel dolce soave bian-
co e nero | in che i suoi strali Amor dora e affina», vv. 7-8) e
il corpo testuale dell’impotente amante (v. 14, «quant’io parlo
d’Amore, e quant’io scrivo»).
Una dialettica verticale degli spazi soggiace anche alle illu-
strazioni del ciclo di sonetti sul pianto di Laura (155-158). Il
viso dell’amata fa capolino dal registro superiore, lasciando ca-
dere le proprie lacrime sul libro faretrato e (quasi sempre)
chiuso (fig. 26). Dalle pressoché identiche strutture delle vi-
gnette poste sui margini di questi fragmenta si distanzia mini-

Fig. 26. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, cc. 65v-66r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

112 Cfr. MARTIN MCLAUGHLIN, Struttura e sonoritas in Petrarca (RVF 151-60), in


Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 361-382, in part. p. 365.

152
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MI SCRISSE ENTRO UN DIAMANTE IN MEZO IL CORE

mamente l’immagine relativa al sonetto 155, e lo scarto risul-


ta significativo tanto nell’economia comunicativa dell’esegesi
visiva queriniana, quanto nella prospettiva della transcodifica-
zione emblematica che del testo ci offre il manoscritto di Bal-
timore. Al variare dell’iconografia di Laura, infatti, varia anche
la configurazione del libro-Petrarca, che in apertura di se-
quenza (e solo qui) si mostra completamente squadernato di
fronte a un’amata non ancora ridotta a pura personificazione
del pianto (come sui margini di 156, 157 e 158) bensì ritratta
a mezzo busto, anch’essa in posizione frontale rispetto al libro,
e con un velo che dal capo scende fin oltre le spalle (fig. 27).
Allargando lo sguardo oltre il ciclo lacrimale, si vede però che

Fig. 27. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 65v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

una siffatta visualizzazione dei protagonisti della situazione li-


rica caratterizza anche i sonetti 154 e 160, ossia le estremità
periferiche del corpus omotematico in lode dei begli occhi di
madonna. Nel testo di incipit Laura compare nella stessa foggia,
più naturalistica e compiuta, della vignetta di 155 ma è priva
di velo e più distante, nonché leggermente fuori asse, rispetto
al libro aperto. In quello di explicit il «miracolo» laurano ha in-
vece assunto le fattezze del suo correlativo simbolico per ec-
cellenza, e una rigogliosa pianta di lauro emerge dal libro an-
cora aperto (fig. 28). Come ci ricorda Fabio Cossutta, que-
st’ultimo dettaglio è spesso determinante nel sistema semanti-

153
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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 28. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, cc. 66v-67r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

co del commento visuale di Grifo; una spia che di volta in vol-


ta segna

il particolare pathos della lirica illustrata nonché la


condizione descritta dall’Autore. Prevalentemente il
codice si presenta chiuso, anzi quasi sempre, a indi-
care appunto l’assillo del Poeta che, confinato nei
languori del suo animo, non ha la forza di sprigio-
narsi da quella solida copertina di cuoio rosso e di
manifestarsi apertamente; però ci sono dei momen-
ti in cui, mutata per un attimo la situazione, il codi-
ce tende ad aprirsi, o per far trapelare o per assorbi-
re qualcosa.113

Analizzando la sequenza marcata da tale motivo grafico,


potremmo allora scorgervi una dinamica di progressivo avvici-
namento tra soggetto e oggetto del desiderio, con il libro che
si apre per mostrare qualcosa o, più probabilmente, per acco-

113 COSSUTTA, Il Maestro Queriniano interprete di Petrarca, cit., p. 435.

154
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MI SCRISSE ENTRO UN DIAMANTE IN MEZO IL CORE

gliere qualcosa; ossia con Petrarca che, attraverso il canale visi-


vo (e la facoltà memoriale), si apre a madonna Laura per trasfi-
gurarla nell’emblema centrale della propria mitografia umana
e poetica (il lauro). Il magistero agostiniano pare determinan-
te anche in questo specifico caso, come ci testimonia Conf. V,
6: «coram te cor meum et recordatio mea».
La stretta relazione tra i sonetti 154 e 160 – suggerita an-
che dal commento visivo dell’esemplare queriniano – è peral-
tro testimoniata già dal Codice degli abbozzi, che li vede conse-
cutivi (c. 4r). Il dittico è stato successivamente “aperto” (ma
non infranto) e l’inserimento dei fragmenta 155-158 porta con
sé una correzione dell’oggetto mirabile contemplato dal poe-
ta nonché, conseguentemente, dell’intera esperienza di visione
narrata in questa zona del Canzoniere. Come osserva Rosanna
Bettarini, «quegli occhi si erano specializzati, e da occhi sede
deputata di Amore erano divenuti occhi sede di pianto o, per
dirla con Dante, occhi dolenti».114 La seconda quartina del so-
netto 155 rappresenta il punto di svolta115 e dichiara le moda-
lità e il fine del ricorso a una nuova immagine di Laura (vela-
ta dalle lacrime, potremmo dire con un occhio all’incunabo-
lo). Lo confermano i numerosi contatti che essa stabilisce con
gli altri elementi della sequenza. Ad esempio, il movimento
deittico che segna l’avvio dell’intera serie (RVF 151, 12: «[Cu-
pido] Indi mi mostra quel ch’a molti cela») compare anche qui,
accompagnato però da un più intenso investimento dell’io li-
rico che, come rivela anche l’intreccio di soggetti e predicati,
partecipa immediatamente all’atto di visione suggerito da
Amore: «[...] e ’l mio signor ch’i’ fossi | volse a vederla, e i suoi

114 ROSANNA BETTARINI, Lacrime e inchiostro nel Canzoniere di Petrarca, Bologna,


Clueb, 1998, pp. 168-169, dove prosegue: «Lo scambio interno e la fusione di due se-
rie affini e in un certo senso predestinate al contatto (occhi-pianto) era del resto già
in sinopia ridotta nella carta 5v del Vaticano, dove quel sonetto CLVI amputato delle
terzine, e quindi di una parte delle lacrime che si sono poi deversate in CLV, era pre-
ceduto dal sonetto In qual parte del ciel, in quale ydea (con postilla del 18 ottobre 1359),
che porta il puro tema degli occhi come visione assoluta, e che nello stadio finale fun-
ziona da fanalino di coda insieme ad Amor et io, caselle CLIX e CLX».
115 Ciò è testimoniato anche dall’intenso lavorìo cui Petrarca sottopone i sonet-
ti 155 e 156 con scambi e soppressioni di versi, motivati anche da un’interessante po-
stilla autografa relativa a considerazioni di poetica che si basano innanzitutto su aspet-
ti fonetici (cfr. MCLAUGHLIN, Struttura e sonoritas in Petrarca, cit., pp. 369-375).

155
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A. TORRE, VEDERE VERSI

lamenti a udire» (155, 5-6). Come si vede, anche il moto per-


cettivo è affinato, e contempla un’integrazione uditiva al con-
tatto visivo, integrazione sempre ribadita poi negli altri frag-
menta del ciclo lacrimale, e mai in sedi neutre: «e vidi [...] | [...]
| e udì [...]» (156, 5 e 7), «[...] l’imagine sua viva | [...] | e ’l
dolce amaro lamentar ch’i’ udiva» (157, 2 e 6), «oltra la vista,
agli orecchi orna e ’nfinge» (158, 7). La finalità (o la naturale
conseguenza) di questo nuovo sguardo su Laura non è però
più solo – per il poeta – la scoperta della propria parola (voce
e scrittura) riflessa nello specchio degli occhi dell’amata (151,
13-14: «ch’a parte a parte entro a’ begli occhi leggo | quant’io
parlo d’Amore, e quant’io scrivo») ma anche, e soprattutto, la
penetrazione nello spettacolo mirabile e doloroso della propria
interiorità e, nello specifico, della propria memoria: «per col-
marmi di doglia e di desire, | e ricercarmi le medolle e gli ossi»
(155, 7-8).
L’intero ciclo lacrimale si colloca sotto il segno del nucleo
concettuale della memoria, delineandosi come un’estatica
(156), ricercata (157), ossessiva (158) reminiscenza della visio-
ne del pianto di madonna; o, meglio ancora, come la remini-
scenza di un intero processo memoriale relativo alla visione del
pianto di madonna così come ci viene limpidamente descritto
nel sonetto 155. Il prevalente registro verbale del passato re-
moto (156: vidi, vidi, udì; 157: mandò l’imagine; 158: vidi) dispo-
ne infatti su di un’uniforme superficie temporale l’esperienza
di visione mentale. Così, al ricordo della percezione che con-
sentì la memorizzazione (156) seguono, senza soluzione di
continuità, quello di una dinamica anamnestica costantemente
in atto (157), e quello degli effetti stabilmente impressi nel sog-
getto lirico e che da lui si riverberano nella percezione del rea-
le (158). Ma l’esplicita declinazione memoriale del racconto li-
rico inizia già con la seconda quartina di 155, a partire dalla
quale possiamo peraltro notare la sintetica prefigurazione del-
le tre situazioni su cui si concentrano i fragmenta successivi. At-
traverso un’accurata autopsia dei tessuti (medolla) e delle im-
palcature (ossi) della propria memoria – e dunque di ciò che al
contempo cede e oppone resistenza alle passioni (le doglia e il
desire, in sede parallela e fonicamente abbinati ai suddetti loci
memoriae) – l’Io lirico apre infatti sé stesso e gli altri:

156
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MI SCRISSE ENTRO UN DIAMANTE IN MEZO IL CORE

1) alla rinnovata percezione degli «angelici costumi | e ce-


lesti bellezze al mondo sole | tal che di rimembrar mi giova e
dole» (156, 1-3);
2) alla rinnovabile esecuzione delle tracce mnestiche di
un passato (acerbo e onorato giorno) «che ’ngegno o stil non fia
mai che ’l descriva, | ma spesso a lui co la memoria torno»
(157, 3-4);
3) alle possibili disseminazioni ed elaborazioni dell’origina-
ria imago agens in simulacri dipinti, «per far sempre mai verdi i
miei desiri» (158, 4).
La struttura concentrica sembra dunque ripetersi dalla ma-
cro- alla microsequenza, riverberando sul piano dell’organizza-
zione formale un nucleo tematico-concettuale centrale non
solo per i quattro fragmenta sul pianto. E la lettura delle rela-
zioni intertestuali che legano i versi 5-14 di 155 ai tre fragmenta
successivi e che visualizzano l’incorporarsi di componimenti
autonomi sembra quasi mimare il moto di penetrazione ed
estrazione compiuto dal poeta che ricorda «quel dolce pianto»
per «trarne fore | lagrime rare e sospir lunghi e gravi»; ossia,
fuor di metafora, per riportare alla coscienza i ricordi insieme
agli affetti da essi conservati e riattivati. Come hanno mostra-
to anche gli studi di neurologia dell’emozione, i ricordi ven-
gono marcati emotivamente, e in ragione di ciò riescono sem-
pre a innescare le stesse reazioni fisiologiche scatenate dagli
eventi originari; sicché ogni volta che piangiamo per un epi-
sodio del passato, ciò avviene perché il ricordo di tale episodio
è marcato dalle lacrime, e piangendo lo marchiamo nuova-
mente.116

116 Cfr. a questo proposito ANTONIO DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione,


ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995. Da questo punto di vista risulta im-
portante anche il dialogo tra sapere umanistico e sapere scientifico, concretizzatosi
in quegli studi sulla visione, sulla percezione e sull’empatia, che hanno saputo fon-
dere le metodologie offerte dalla storia dell’arte con i risultati delle recenti scoper-
te neuroscientifiche (si veda, ad esempio, DAVID FREEDBERG–VITTORIO GALLESE,
Empathy, motion, emotion in esthetic experience, «Trends in cognitive sciences», XI
[2007], 5, pp. 197-203). Sullo statuto pragmatico e performativo delle immagini, sul-
la loro capacità di provocare emozioni, si ricorra ovviamente a DAVID FREEDBERG,
Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino, Ei-
naudi, 1993 (I ed. ingl. 1989).

157
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A. TORRE, VEDERE VERSI

L’organizzazione e la dinamica memoriali che presiedono il


ciclo testuale incontrano una precisa illustrazione nell’emblema
di Baltimore che, come in altri casi, ci offre una transcodifica-
zione visiva differente, e per certi aspetti complementare, ri-
spetto a quella dell’incunabolo queriniano. L’immagine emble-
matica raffigura un uomo che si apre il petto per mostrare il
diamante che risiede nella sede cardiaca (tav. 10). Come spiega
la didascalia, il diamante si offre quale superficie disponibile a
portare incisi il volto o il nome dell’amata:

Può l’huomo in questa sopra depinta medaglia


figurare la prima lettera de la persona ch’egli ama
sopra un diamante et incassarlo al dritto del cuore,
come si vede depinto; e scrivergli all’intorno il ver-
so qua sopra scritto tolto da un sonetto del Petrar-
ca, dicendo come amor gli scrisse in un diamante
cioè ne la etternità (com’hanno scritto gl’antichi) il
nome de la persona ch’egl’ama.

E in seguito a questa traduzione l’immagine concettistica si


svincola dalla contingenza della vicenda petrarchesca, e ne dif-
frange il portato morale entro un contesto più ampio. Rende
insomma esemplare (e dunque ripetibile) la situazione descrit-
ta poeticamente,117 e la unisce alle altre fonti della tradizione
del tropo e dell’immagine della finestra aperta sul cuore. L’em-

117 Nel far ciò, l’emblematista ripercorre di fatto la strada seguita da Petrarca nel-
la sua esperienza di riconversione della tradizione lirica. Come ricorda Rita Librandi,
commentando RVF 96, 5-6 («Ma ’l bel viso leggiadro che depinto | porto nel petto,
e veggio ove ch’io miri»), Petrarca «non si limita a contenere il “depinto” di madon-
na, ma prolunga gli effetti e i coinvolgimenti della visio sovrapponendo le sue fattez-
ze a tutta la realtà che lo circonda (veggio ove ch’io miri). L’amore per Laura non si su-
blima nella razionalità e non dà l’illusione della beatificazione, in grazia di un’espe-
rienza unica e miracolosa qual’era quella della Vita Nuova, è piuttosto accettato nella
sua doppia capacità di esaltare o di avvilire. In questo senso l’avventura dei RVF è mol-
to più realistica di quanto la medietas linguistica non lasci trasparire; [...]. Proprio da
questo contrasto di concretezza e rarefazione nasce probabilmente la possibilità di uni-
versalizzazione dell’esperienza amorosa del Canzoniere (del tutto opposta all’unicità
della “beatrice”) [...]» (RITA LIBRANDI, Dal cuore all’anima nella lirica di Dante e Petrar-
ca, in Capitoli per una storia del cuore, a cura di FRANCESCO BRUNI, Palermo, Sellerio,
1988, pp. 119-160, cit. a p. 149).

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blema dà corpo a uno dei più diffusi tópoi della cultura occi-
dentale, e a uno dei numerosi figuranti utilizzati, non solo da
Petrarca, per rappresentare il concetto di memoria. Viene pe-
raltro così a compiersi il dittico emblematico sulle metafore
della memoria avviato dall’espressione simbolica riportata nel-
la carta precedente del manoscritto di Baltimore.
Nello specifico il dettaglio del diamante incastonato nel
cuore rinvia al campo metaforico memoriale del deposito. Da
questo punto di vista, l’immagine complessiva diviene rap-
presentazione della memoria, intesa al contempo come fa-
coltà e come ricordo; ossia come un contenitore ove collo-
care le res memorandae (quello scrinium cordis o scrinium memo-
riae che evoca il dantesco Pier delle Vigne: «ove con salde ed
ingegnose chiavi»)118 e come un prezioso contenuto degno
di essere gelosamente custodito (il diamante inciso). Il ricor-
so all’immagine del diamante porta inoltre con sé – a quali-
ficare i concetti figurati – le qualità di inscalfibilità119 e tra-
sparenza: tanto il contenuto quanto il contenitore memoria-
li vengono pertanto presentati come durevoli in eterno, e
intrinsecamente sinceri. Al pari del ricordo dell’immagine
di Laura piangente, ricordo che Petrarca distilla proprio in
lagrime di cristallo (157, 14). Il motivo del diamante ricorre al-
tresì più volte nel Canzoniere. Nella sestina 30 esso parteci-
pa alla rappresentazione dell’immutabilità del destino dell’a-
mante, assediato eternamente da un simulacro mentale e
memoriale dell’amata (vv. 1, 5-6: «Giovene donna sotto un
verde lauro | Vidi [...] | mi piacquen sì ch’i’ l’ho dinanzi agli
occhi, | ed avrò sempre [...]») che conosce proprio nel det-
taglio del diamante il referente simbolico della glaciale per-

118 Bettarini imputa infatti alla stretta convergenza con Inferno XIII 58-60 la cor-
rezione della redazione presente nel codice degli abbozzi: «nel qual come colui che
tien le chiavi» (c. 5v), per cui vd. Lacrime e sangue, cit., p. 166. Restando sempre nel-
l’ambito di interferenze Dante-Petrarca e per una lettura del ciclo lacrimale condotta
in parallelo con la Vita Nuova si vedano: DOMENICO DE ROBERTIS, Storia della poesia
e poesia della propria storia nel XXII della “Vita Nuova”, «Studi danteschi», LI (1978), pp.
153-177; e NATASCIA TONELLI, «Piangea Madonna» (da Vita Nuova XXII a Rerum Vul-
garium Fragmenta CLV-CLVIII), «Studi danteschi», LVII (1985), pp. 29-48.
119 Con la memoria del passo ovidiano da Met. XV, 813-4: «invenies illic incisa
adamante perenni | fata tui generis».

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fezione di Laura, il prezioso emblema della sua inflessibile


castità (30, 22-24: «onde procede lagrimosa riva | ch’Amor
conduce a pie’ del duro lauro | ch’ha i rami di diamante, e
d’òr le chiome»). Nel sonetto 124, l’immagine del diamante
svolge ancora una funzione comparativa ma va questa volta
a marcare la polarità positiva del parallelismo e la connota
come il figurante ideale ma irraggiungibile della «speranza»
del poeta, fragile ed effimera invece come un «vetro» (vv. 12-
14: «Lasso, non di diamante, ma d’un vetro | veggio di man
cadermi ogni speranza, | e tutti miei pensier romper nel
mezzo»). Nel fragmentum 171 l’immagine è utilizzata per
esprimere la durezza del cuore di Laura, la sua impenetrabi-
lità da parte del sentimento dell’amante, la sua resistenza a
qualsiasi tentativo da parte di costui di mitigarne la durezza
o di modellarlo (e così farlo un po’ proprio); la stessa occor-
renza dell’immagine si ha nella canzone 325, dove scolpito
nel diamante è il trono cardiaco collocato ben visibile al
centro del tempio corporeo di Laura, di una Laura visualiz-
zata come mirabile tempio di memoria (vv. 24-26: «D’un bel
diamante quadro, e mai non scemo, | vi si vedea nel mezzo
un seggio altero | ove, sola, sedea la bella donna»).
Nel sonetto 108, invece, il motivo del diamante compare
proprio quale figurante del ricordo saldo e indelebile, sebbe-
ne sia còlto come termine di confronto estremo e perdente
per celebrare il radicamento assoluto e perenne dell’imago
agens di Laura (vv. 5-8: «prima poria per tempo venir meno
| un’imagine salda di diamante | che l’atto dolce non mi stia
davante | del qual ho la memoria e ’l cor sì pieno»). La per-
vasiva immagine di memoria dell’«atto dolce» si è stampata
nella mente del poeta nell’istante in cui l’amata ha vòlto ver-
so di lui le «luci sante», e da allora guida la cogitatio che egli
conduce su ogni elemento del reale che reca ancor viva la
traccia della passata presenza di Laura. Cruciale in questo ri-
specchiamento tra interiorità psichica e realtà fenomenica è
un’altra metafora memoriale, quella dell’«Aventuroso più
d’altro terreno». Su questa superficie al contempo reale e
mentale si sono ‘stampate’ le «orme» di Laura; in essa il poe-
ta va continuamente a «ricercare» (proprio come nel sonetto
155, o come nel dittico memoriale 99-100) le vestigia pedum

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di quell’«atto dolce», e lo fa con una postura del corpo che


ben esprime la dimensione volontaristica e l’intensità psico-
fisica della sua perpetua indagine memoriale («m’inchini»,
forse prefigurazione dell’atto di contrizione interiore che ac-
compagna l’invocazione alla Vergine nell’ultimo fragmentum:
«Con le ginocchia della mente inchine», v. 63). Vera e pro-
pria immagine dialettica, l’impronta visualizza la paradossale
coincidenza fra l’idea di appropriazione memoriale (il con-
tatto con il substrato, in cui l’impronta si forma) e l’idea di
perdita che precede ogni atto di reminiscenza (la lontananza
dal substrato, in cui l’impronta resta presente).120 E in tal sen-
so costituisce anche un’efficace rappresentazione del deside-
rio, in primis del desiderio di vedere ciò che si è una volta ri-
velato e poi sottratto alla vista.
Il substrato del terreno, sovra cui si stampa l’impronta di
Laura, è inoltre di per sé una metafora memoriale quanto mai
pregna di significato nell’economia concettuale dei Fragmenta,
soprattutto in relazione alla natura vegetale del principale
senhal della donna amata.121 «Arido terreno» è il «petto» del
poeta – come vediamo nel sonetto 64 –, petto nel quale la
«gentil pianta» del «primo lauro» trova la sua sede elettiva e cre-
sce per progressivi innesti di memoria e immaginazione ope-
rati da Amore. Un terreno arato dal vomere del dolore, venti-
lato dai sospiri e irrigato dal pianto, è ancora il «core» entro il
quale, nel fragmentum 228, Amore pianta «un lauro verde» do-
po aver aperto «il lato manco» dell’amante.122 Nel contesto di

120 Cfr. GEORGES DIDI-HUBERMAN, La somiglianza per contatto. Archeologia, ana-


cronismo e modernità dell’impronta, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 (I ed. fr. 2008).
121 Su questo aspetto si veda KENNETH E. COOL, The Petrarchan landscape as
palimpsest, «The Journal of Medieval and renaissance Studies», II (1981), 1, pp. 83-100,
in part. pp. 94-97.
122 Cfr. NICHOLAS MANN, Il Petrarca giardiniere (a proposito del sonetto CCXXVIII),
«Atti e memorie dell’accademia patavina di scienze, lettere ed arti», CIV (1991), 3, pp.
235-256, e in part. a p. 251: «A ben osservare, il nostro sonetto sposta l’attenzione dal-
l’Amore che pianta all’amante che coltiva, esaltando un alloro terrestre al cielo, sco-
prendo delle radici nelle virtù che promettono la vita eterna. Così il giardiniere dolo-
roso diviene il cultore felice, l’albero la donna beata, il vulnere dell’amore la speranza
della salute: in questo modo l’alloro fa da intermediario fra questo mondo e l’altro.
Notiamo inoltre che lo spazio in cui questo dramma si svolge viene chiaramente in-
dividuato come il corpo del poeta, ed è un corpo molto passivo: il lato sinistro aper-

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un processo di rifunzionalizzazione di strutture simboliche


cristiane, l’immagine è dunque una delle tante che descrivono
la natura memoriale della ricreazione lauracentrica del mondo
realizzata da Petrarca nel Canzoniere.123 E se la vignetta che la
illustra sui margini dell’incunabolo queriniano può valere da
sinonimo visivo dell’emblema di Baltimore (fig. 29);124 la ri-
comparsa del motivo in due luoghi di un’altra assai importan-
te esperienza di visualizzazione della parola petrarchesca – la
già citata prima traduzione tedesca illustrata del De Remediis
utriusque fortunae – porta inevitabilmente con sé una profonda
revisione del problematico nodo concettuale che la fonda.
Ogni dialogo di quest’opera è introdotto da un’illustrazio-
ne, accompagnata a sua volta da un distico latino che, insieme
a questa, offre una sintetica e memorabile lettura morale del
testo in prosa. Per morfologia e per funzioni, abbiamo dunque
a che fare con qualcosa di simile agli emblemi. Le due xilo-
grafie che accompagnano i dialoghi I, 121 (Paci animi sperata)
e II, 75 (De discordia animi fluctuantis) – come le altre ispirate
probabilmente da Sebastian Brant – propongono infatti l’ico-
nografia analoga di un uomo dal cui petto aperto cresce una
pianta. Nell’emblema dell’(apparente) sorte propizia è un gi-

to dall’Amore, il cuore dove l’alloro si pianta, il fianco da dove escono i sospiri, gli oc-
chi da cui scorrono le dolci lacrime, il petto sul quale pesa il felice incarco; solo all’ulti-
mo momento il poeta lascia questa passività per prendere con tutto il corpo un ruo-
lo più attivo, sebbene sommesso, inchinandosi nella preghiera».
123 Sulla scorta di due saggi di JOACHIM KÜPPER (Schiffreise und Seelenflug. Zur
Refunktionalisierung christlicher Bilderwelten in Petrarcas Canzoniere, «Romanische For-
schungen», CV [1993], pp. 256-281; e Mundus imago Laurae. Petrarcas Sonett “per mezz’i
boschi” und die Modernitaet des Canzoniere, «Romanische Forschungen», CIV [1992], pp.
52-88), Manuela Boccignone ricorda che «il creato, da “vestigium Dei”, “signum” del-
la bellezza e bontà divina diventa “vestigium Laurae”, non conduce più al Creatore,
ma si fa segno di Laura, portata alla vetta della scala gerarchica dell’Essere. Petrarca è
cosciente di questa perversione, teologicamente molto grave, che si riflette anche in
altre immagini metaforiche di Laura che deformano strutture codificate, e perciò vin-
colanti, dell’allegoresi cristiana» (MANUELA BOCCIGNONE, Un albero piantato nel cuore,
«Lettere italiane», LII [2000], pp. 225-264, cit. a p. 229, n. 18).
124 La postilla testuale che accompagna la glossa visiva a fianco del fragmentum è
in tal senso esplicita: «Narra l’auctor a che modo amor puose nel petto suo la eterna
e continua memoria del nome de madonna Laura etc.» (edita in GIUSEPPE FRASSO,
Antonio Grifo postillatore dell’Incunabolo Queriniano G V 15, in FRASSO-MARIANI CA-
NOVA-SANDAL, Illustrazione libraria, filologia e esegesi petrarchesca tra Quattrocento e Cin-
quecento. Antonio Grifo e l’incunabolo Queriniano, cit., p. 119).

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Fig. 29. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 86v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

glio che fuoriesce dal petto a visualizzare una pace dell’animo


tanto sperata quanto illusoria (e infatti l’immagine si comple-
ta con uno sciame di insetti – i «discordes affectus» – che av-
volge e distrugge il fiore, fig. 30). In quello dell’avversa fortu-
na il tormento della coscienza divisa è invece simboleggiato
da un albero che dai «praecordia» si sviluppa in tre rami (rap-
presentanti le perturbazioni intellettive, spirituali e amorose);
e il necessario rimedio a tale tormento consiste nella risoluta,
violenta amputazione della pianta con una sega (fig. 31). Il ra-
zionale controllo delle passioni predicato dal testo petrarche-

Fig. 30. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück,


des guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, I, p. 143.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 31. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück,


des guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, II, p. 89.

sco125 è stato radicalizzato dall’illustrazione, che nella sua


drammatica sintesi memoriale risente forse dell’«impietoso ri-
gore protestante delle leggi morali, applicate all’invisibile vita
dell’anima e a quella del corpo senza indulgenza o assoluzio-
ne»;126 e soprattutto ricorre al motivo della ferita, del ‘ricer-
care fra le medolle e gli ossi’, per sintetizzare icasticamente lo
statuto memoriale di ogni indagine della coscienza. Circo-
stanziata al discorso lirico una siffatta ars oblivionalis impliche-

125 Cfr. PETRARCA, De remediis utriusque fortune, II, 75 (De discordia animi fluctuantis),
8, cit., p. 856: «Quid agendum igitur tibi sit vides. Fac quod Menennius ille, cuius paulo
ante memini: persuasit plebi ut subesse patriciis in animum induceret; quo impetrato, ur-
bem scissam in duas ad unitatem salubri consilio reduxit. Et tu coge, vel consilio, vel vi,
partes ignobiles parere nobilibus: tum demum, et non aliter, animi pacem spera; qua su-
blata, quid aliud quam vaga semper et propositi inscia et fluctuans et inconstans vita ho-
minum est, et ceca prorsus et misera? Multi ex hac vita abeunt, quam quid velint sciant».
126 RITTER SANTINI, Sorte e ragione: Petrarca in Europa, cit., p. 86.

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MI SCRISSE ENTRO UN DIAMANTE IN MEZO IL CORE

rebbe ovviamente la resezione del fantasma di Laura, lo stesso


doloroso sradicamento della sua imago memoriae predicato dal
«penser» razionale in quella strategica messa in scena della fluc-
tuatio animi che è la canzone 264: «Prendi partito accorta-
mente, prendi: | e del cor tuo divelli ogni radice | del piacer
che felice | nol po’ mai fare, e respirar nol lassa» (vv. 23-26).
Tenendo a mente questa drammatica immagine, torniamo
ora, e per concludere, alle due esperienze di visualizzazione
del sonetto 155.
La sequenza visiva delle vignette queriniane ci pone dinan-
zi agli occhi le cause (esterne) che attivano il processo memo-
riale, ossia la situazione esposta nelle quartine di 155. Il singo-
lo frammento emblematico statunitense attira invece il nostro
sguardo sugli effetti (interni) di una strenua memorizzazione e
di una naturale reminiscenza – ossia il quadro tratteggiato nel-
la prima terzina –, e sulle istruzioni per una loro efficace re-
miniscenza indicate nella seconda. Attraverso l’introduzione di
minimi scarti rispetto a una sequenza uniforme, il commento
visivo dell’incunabolo ben evidenzia il ruolo pivotale giocato
dal sonetto 155 in questa area tematica del Canzoniere, e ci in-
duce a leggere tutti i testi limitrofi in relazione al moto intro-
spettivo da esso postulato. La netta selezione visiva realizzata
dall’emblema ci costringe invece a cogliere il sonetto quale va-
riante di una forma simbolica di lunga durata, a verificarne le
peculiarità rispetto a questa tradizione, nonché le ricadute di
senso che essa ha nel testo petrarchesco. Le due visualizzazio-
ni del sonetto paiono dunque complementari, così come per-
fettamente speculare potremmo definire il movimento di aper-
tura che connota le due rappresentazioni del soggetto lirico.
Ad un libro aperto che accoglie Laura in persona, rivelandole
forse la propria intima natura umana, risponde un corpo aper-
to che mostra Laura in figura, rivelandocene forse il destino di
oggetto del desiderio. Il differente orientamento di questi due
dettagli rispetto al nostro punto di vista di lettori-spettatori
(analogo nell’incunabolo, opposto nell’emblema), il variare del
destinatario dell’ostensione (Laura o noi), e la diversa localiz-
zazione di Laura o dei suoi feticci (fuori o dentro il libello car-
diaco della memoria), ci confermano nella convinzione che
Grifo e l’anonimo emblematista abbiano voluto concentrare la

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A. TORRE, VEDERE VERSI

luce delle loro illustrazioni su momenti differenti (e successi-


vi) della lirica petrarchesca. Prima e dopo la ricerca fra «le me-
dolle e gli ossi». Ciò va posto anche in relazione con lo scarto
– di statuto e di funzioni – che si registra nel passaggio da una
modalità didascalica di visualizzazione del Canzoniere ad una
sua elaborazione simbolica. La prima accompagna passo dopo
passo il racconto in versi, aspira a condividerne responsabilità
espressive e, come qui, evidenzia precise sequenze, suggeren-
done percorsi di attraversamento. Quello dell’incunabolo que-
riniano è uno sguardo che vive in funzione del testo. La se-
conda estrapola il frammento di fragmentum che meglio ri-
sponde (per fortuna o efficacia dell’immagine) alle esigenze
dell’emblematista, all’uso moralistico dell’espressione simboli-
ca, e nel far ciò lo colloca in un sistema di significati che si
estende anche oltre a quello del racconto in versi. Quello del-
l’emblema di Baltimore è uno sguardo che rifunzionalizza il
testo. Proprio per questo il diamante è collocato ben visibile
all’interno della cavità cardiaca e, da chi ricorre all’emblema
quale macchina memoriale di analisi delle proprie passioni
amorose, può essere a seconda delle necessità esibito con or-
goglio, oppure violentemente rimosso. E in ragione di questa
sua disponibilità performativa l’immagine di memoria visua-
lizzata dall’emblema dinamizza anche l’immagine poetica del
sonetto, proiettando su di essa questa doppia opzione memo-
riale, e stigmatizzando il dissidio interiore, la fluctuatio animi,
che lì, come in altri fragmenta, la presiede.

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

Tav. 11

11. Amor m’ha posto come segno a strale

È caratteristica del pensiero poetico del Petrarca


la tendenza a conformarsi in pluralità. Ed è caratte-
ristica delle pluralità del Petrarca la tendenza a di-
stribuirsi in un verso secondo certe norme, in un
modo più o meno perfetto; o a disseminarsi, in ma-
niera più o meno regolare, in un insieme di versi.127

Attraverso una capillare analisi del fenomeno della pluralità


– intesa come tendenza della mente umana a considerare uni-
tariamente una serie di oggetti dotati tutti di una caratteristica
in comune e ciascuno di un elemento che li differenzia –128

127 DÀMASO ALONSO, La poesia del Petrarca e il petrarchismo (Mondo estetico della plu-
ralità), «Studi petrarcheschi», VII (1961), pp. 73-120, cit. a p. 77.
128 Cfr. FEDERICO MENINNI, Il ritratto del sonetto e della canzone [1677], a cura di
CLIZIA CARMINATI, Lecce, Argo, 2002, vol. I, p. 101: «Questa figura [la correlazione], che
pure suol chiamarsi compartimento e distribuzione, è quando doppo aver detto mol-
te cose insieme, altre si soggiungono da attribuirsi a ciascheduna di loro separatamen-
te, e ciò fassi o nella fine o in tutto il sonetto». Tra gli esempi riportati, Meninni si sof-
ferma proprio sul sonetto petrarchesco 133, apprezzandone l’artificiosità («Osserva

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Dàmaso Alonso ha rinvenuto nella scrittura poetica petrarche-


sca l’esperienza fondante e l’espressione più limpida di una
concezione dello stile come riflesso di istintivi schematismi
mentali che, attivi su base inconscia nel ribollire pre-creazione
del pensiero, trovano forma consapevole nelle simmetrie strut-
turali del verso.129 Per verificare come e in che misura il feno-
meno della pluralità partecipi alla complessa tessitura di un
componimento attraverso la formazione di relazioni verticali
plurimembri, che da un lato ne consolidano la struttura e dal-
l’altra contribuiscono a variarne il ritmo, Alonso ha concen-
trato la sua attenzione su alcuni sonetti petrarcheschi, e fra
questi su un fragmentum ostentatamente fondato su insistiti pa-
rallelismi, correlazioni e reiterazioni.
Si tratta del sonetto 133, da cui l’undicesimo emblema del
manoscritto di Baltimore coglie il motto (v. 1: «Amor m’ha
posto come segno a strale») e il concettismo dell’amante fat-
to bersaglio dei tormenti d’Amore; concettismo qui illustra-
to attraverso l’immagine di una figura femminile che punta
l’arco contro un uomo nudo con un elmo in testa (tav.
11).130 Nella sua essenzialità l’illustrazione riproduce fedel-
mente la lineare situazione narrativa alla base delle variazio-
ni metaforiche delineate nel testo petrarchesco, ossia un rap-

questo sonetto la gradazione, ma ampliando e dichiarando le cose dette nel primo


quaternario») ma non la «vaghezza e la felicità, perché l’artificio sta intralciato da una
borra d’empitura di versi» (ivi, p. 102).
129 ALONSO, La poesia del Petrarca e il petrarchismo, cit., p. 99: «Ho voluto, dunque,
richiamare l’attenzione verso una specie di ritmica più profonda, anteriore a ciò che
si vuole intendere per ritmo, e che è allo stesso tempo il suo elemento vivificatore e
il suo contenuto pregnante, forma più profonda legata a intime espressioni estetiche,
e alla modellazione che emana dal nostro pensiero. L’analisi di pluralità eccede del tut-
to dai limiti di una possibile scienza della letteratura; interessa tutte le arti; plurimem-
brazione e variazione nota immediatamente chi contempla un edificio sia rinasci-
mentale, sia barocco. Ma esula anche dai limiti letterari, verso una direzione più im-
portante: le pluralità (e soprattutto i sintagmi non progressivi) dovrebbero essere og-
getto base di una logica psicologica: sono unicamente riflessi verso questo lato, non
solo del pensiero – come ogni linguagggio – ma anche delle elementari possibilità del
fluire del nostro pensiero».
130 Così descrive l’espressione simbolica la didascalia di commento: «Lo inven-
tor de la presente medaglia figura un huomo posto come si vede per segno a quelli
che tirano d’arco, come se volesse dire che per amor de la sua donna si è fatto bersa-
glio a tutte saette amorose; servendosi d’un verso del Petrarca qua di sopra scritto».

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

porto di forza tra l’amata e l’amante che si configura come


l’accanimento della prima (che colpisce con tutte le topiche
arma amoris) sul secondo (che subisce impotente l’attacco). Il
sonetto si struttura infatti secondo una pluralità quadrimem-
bre distesa, in modo più o meno compatto, lungo tutti e
quattordici i versi, ad interessare questi due soggetti e le azio-
ni che li mettono in relazione. Il ritratto reale dell’amata
(tratteggiato nelle terzine mediante i suoi elementi distintivi:
pensieri-viso-desir-spirto-canto-parole, e soprattutto l’aura) viene
anticipato in incipit dalla sua versione figurata (dove tali pro-
prietà di Laura si mostrano a tutti gli effetti come strumenti
di Amore, divenendo strale-sole-foco-vento) e viene messo in
relazione col ritratto dell’amante, ottenibile componendo la
rappresentazione diffratta dell’effetto che tali armi esercitano
su di lui (punge-abbaglia-distrugge-[fa fuggire]). Ridotto a pura
cosa (segno-neve-cera-nebbia), l’io lirico acquista dunque un
senso solo se considerato in funzione della propria ragion
d’essere, dell’oggetto del proprio desiderio.131
Analizzando il sonetto, Stefano Agosti ha giustamente par-
lato di «una sorta di sprofondamento del senso», o forse do-
vremmo dire ‘di sprofondamento nel senso’, dal momento che
durante l’attraversamento verticale del componimento (dall’in-
cipit in giù verso l’explicit) si assiste a un progressivo svestimen-
to del linguaggio dal velo metaforico; svestimento che, oltre ai
nudi figurati, mostra anche in corso d’opera «il processo di so-
stituzione degli elementi o, meglio [...] la procedura delle so-

131 Cfr. ALONSO, La poesia del Petrarca e il petrarchismo, cit., p. 117: «La poesia del
Petrarca è caratterizzata da un gioco o cambiamento tra fluenza indivisa e fluenza
plurale [...]. Questo predominio della visione plurale del mondo della realtà o del-
l’immagine (che suscita conseguentemente un’idea di pluralità nella mente del let-
tore) doveva portare il Petrarca a non fermarsi nelle pluralità che potremmo chia-
mare statiche, ora di nomi, ora di aggettivi, ora di verbi. No: la considerazione plu-
rale del mondo lo portava facilmente, insensibilmente, alle pluralità costituite da in-
tere azioni: in questo tipo speciale, una pluralità è formata da tutti i soggetti delle
diverse azioni, un’altra da tutti i verbi, un’altra da tutti i complementi diretti, ecc.
Con le pluralità di azioni il Petrarca oltrepassa il limite oltre il quale comincia la
poesia correlativa. L’estetica di pluralità e l’estetica di correlazione sono fondamen-
talmente la stessa cosa: quello che viene espresso come plurale nelle pluralità, sono
nozioni; quello che viene espresso come plurale nelle correlazioni, sono giudizi e
azioni più o meno complesse».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

vrapposizioni oggettuali».132 La gradualità della metamorfosi è


puntuale ed equilibrata; ed evidente risulta il carattere autori-
flessivo di questo esercizio poetico. Nella prima quartina la
condizione psicologica dell’amante viene illustrata (e raziona-
lizzata) in termini naturalistici attraverso un accumulo di figu-
ranti distribuiti secondo una precisa gerarchia che si ripete
lungo l’intero sonetto, esplicitandosi in termini sia quantitativi
che di ordinamento spaziale. Il concettismo dello strale amo-
roso si concentra infatti, e con generosità, nella parte iniziale
del sonetto, del verso o della serie enumerativa. Segue regolar-
mente in sede mediana la dittologia ossimorica che sottolinea
la radicale alterità fra i due soggetti (neve/sole, cera/fuoco), ditto-
logia mai eccedente la misura del singolo verso (se non per
enjambements, vv. 9-10) e spesso confinata nello spazio di un
emistichio. Chiude infine ogni serie l’immagine del vento del-
le passioni che, minoritaria nei primi 11 versi, occupa l’intera
terzina conclusiva. Se il passaggio dal registro metaforico a
quello letterale rende sempre più chiara la connessione tra cau-
sa, modalità ed effetti della relazione erotica descritta, lo svi-
luppo del componimento (e la distribuzione della materia al
suo interno) sposta progressivamente il fuoco della narrazione
dal soggetto passivo al soggetto attivo, dall’amante all’amata. Al
rarefarsi del primo (i pronomi io e me si riducono al più vago
oggetto «mia vita») risponde infatti l’opposto movimento di
consolidamento dell’identità di Laura, che da domina generica
(«donna») si identifica prima per i suoi attributi specifici («gli
occhi vostri»), poi per la sua assoluta unicità («voi sola»), e ac-
quisisce infine la marca distintiva del nome («l’aura»). La pro-
gressione, che interessa in senso reciprocamente opposto la
carriera dei due protagonisti, sembra peraltro leggibile anche
nella radicale differenza che segna, agli antipodi del testo, le
condizioni della vocalità di Laura e del Petrarca-agens, la loro
capacità di formulare un’espressione, ossia di riuscire ad affer-
mare linguisticamente se stessi di fronte al mondo. Di un vero
e proprio deficit fonico possiamo infatti parlare ad apertura di
fragmentum in relazione alla voce dell’amante, che un uso esa-

132 AGOSTI, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, cit., p. 61.

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

sperato («mercé chiamando») e vano («voi non cale») ha reso


inadatta alla propria funzione comunicativa, rivelando così l’i-
nadeguatezza e la precarietà generali dell’intero individuo
(«son già roco»).133 Che si tratti di una delle tante forme ossi-
moriche attraverso cui il poeta esibisce il proprio paradossale
stato di alienazione ci viene confermato anche dal fragmentum
successivo: «Veggio senza occhi, e non ho lingua e grido» (134,
9). L’esplicita causa di questo deficit – Laura – conosce invece
alla fine del sonetto una piena consacrazione della posizione di
dominio ricoperta sull’amante, e ciò avviene proprio nella for-
ma di una sua rappresentazione identitaria come espressione
linguistica articolata e modulata con limpida eleganza («e l’an-
gelico canto e le parole [..] son l’aura»). Inoltre, se il senhal
omonimico sembra quasi testimoniare la vitalità linguistica
della sezione testuale illuminata dalla figura di Laura, il cento-
ne biblico che dà forma alla quartina incipitaria pare invece ri-
badire tutta la difficoltà di un discorso che, riuscendo a espri-
mersi solo attraverso parole altrui, gira a vuoto intorno alla
stessa ossessiva immagine.
D’altra parte però, per quanto riguarda la fortuna anche em-
blematico-impresistica del concettismo, proprio questa insistita
memoria scritturale ha forse giocato un ruolo non secondario,
rendendo più immediato il riuso moralistico di una topica tes-
sera lirica profana, nonché la sua nuova ricontestualizzazione
negli spazi del sacro.134 Iconografia e motto dell’emblema di
Baltimore (nella versione di Lam. 3, 12: «Tetendit arcum suum;
et posuit me quasi signum ad sagittam») ritornano ad esempio
nella raccolta Amoris divini et humani anthipatia di Ludovicus van
Leuven (1629), dove l’emblema 62 (Vulnus Amoris, fig. 32) fon-

133 Cfr. MCLAUGHLIN, Struttura e sonoritas in Petrarca, cit., pp. 369-375.


134 Cfr. a proposito GIOVANNI POZZI, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, in ID.,
Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 143-190, in part. p. 167: «A parte il divario che
sempre corre fra i vocaboli di senso corrispondente in lingue diverse, soprattutto se as-
sunti in sede poetica, e fra le rispettive strutture sintattiche, traducendo poeticamente
la Scrittura il Petrarca non forza mai la lettera primitiva, non le conferisce colori e toc-
chi diversi. Realizza dunque la forma più dimessa di parodia, che consiste nella cita-
zione di un passo immutato, ma impiegato in una situazione diversa, che però rispet-
ta lo stesso regime dell’originale; si passa da serio a serio, da serio, patetico o senten-
zioso a un’uguale serietà».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 32. LUDOVICUS VAN LEUVEN, Amoris divini et humani anthipatia,


Antwerp, Snyder, 1629, emblema 62.

de in sé il ricordo di due differenti, ma connesse, immagini sim-


boliche di Otto Vaenius, appartenenti agli Amorum Emblemata
(1608) e agli Amoris Divini Emblemata (1615). Nella prima un
cupido faretrato coglie il centro di un bersaglio posto sul petto
di una figura maschile appoggiata contro un muro (n. 77, Pectus
meum amoris scopus, fig. 33). Mentre nella seconda un angioletto
assiste un’infante femminile (probabile personificazione dell’ani-
ma) nell’atto di colpire un’armatura appesa a un albero (p. 91,
Omnia vincit Amor, fig. 34). Quest’ultima immagine viene a du-
plicare in un contesto sacro la situazione già illustrata da Vaenius
nei profani Amorum Emblemata (n. 12, Nihil tam durum et ferreum,
quod non amoris telis perfringatur, fig. 35). La potenza dell’amore è
tale da piegare ogni possibile resistenza, sicché fin dall’inizio il
destino dell’amante non può essere che quello della vittima de-
signata. Questo è dunque il concettismo di sintesi leggibile nel-
l’emblema di van Leuven al netto del travestimento sacro che
spesso interessa l’emblematica amorosa cinque-secentesca. Que-
sto è anche il messaggio che veicola l’emblema di Baltimore at-

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

Fig. 33. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 77.

Fig. 34. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 91.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 35. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 23.

traverso la riscrittura visiva del verso petrarchesco. Ma per espli-


citare ancora meglio la connessione tra il fragmentum 133 e il
concettismo fondante queste rappresentazioni simboliche sarà
necessario ricorrere anche a un’altra variante dell’immagine,
rinvenibile sempre negli Amorum Emblemata di Vaenius.135 Nel-
l’emblema 76 (Amor, ut lacryma, ex oculis oritur, in pectus cadit), la
pictura è dominata in posizione centrale ed eretta da una bellis-
sima donna che si sostuisce a Cupido (dormiente di lato) come
infallibile arciera che dagli occhi scocca strali e colpisce nel pet-
to la figura maschile di amante sdraiata alla sua sinistra. L’imma-
gine transcodifica con precisione i vv. 5-6 del sonetto 133, non-
ché un topos fra i più connotanti la tradizione lirica pre- e post-
petrarchesca (fig. 36).
In ragione di questa notevole fortuna e dell’estrema fedeltà
del motivo iconografico al dettato poetico, non sorprenderà al-
lora reperire l’immagine (e le sue varianti) già nella precoce
esperienza illustrativa dell’incunabolo queriniano G.V.15. Si è
detto che la freccia è uno dei simbola amoris più ricorrenti nel

135 Su questa raccolta emblematica si veda, tra gli altri, il contributo di SEBASTÀN
LOPEZ, Lectura critica de la Amor Emblemata de Otto Vaenius, «Boletìn del Museo e Insti-
tuto Camón Aznar», XXI (1985), pp. 5-112.

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

Fig. 36. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 76.

commento visivo di Antonio Grifo e, soprattutto, insieme al


serpente uno degli attributi principali attraverso cui lungo tut-
ta l’opera viene rappresentato pittograficamente l’io lirico. La
vignetta posta a margine del sonetto 133 esplicita senza residui
il ritratto emblematico del protagonista e illustra con fedeltà il
fragmentum. Un cupido bendato sta per scoccare una freccia in
direzione del libro rosso aperto, appeso a un ramo di lauro per
uno dei due legacci, e arroventato nella parte inferiore da un
fuoco che fuoriesce dalla pianta (fig. 37). Possiamo notare che
una felice, per quanto casuale, distribuzione tipografica del te-
sto isola i primi due versi del sonetto, ossia quelli che conten-
gono tutti i figuranti poi illustrati. Nel margine inferiore della
carta 49r essi vengono quasi a creare un’unica entità iconico-
verbale con l’immagine, che così da una parte rende piena-
mente conto della serie metaforica relativa alla condizione del-
l’amante, e dall’altra integra il messaggio del distico – e prefi-
gura la continuazione, anche materiale, del testo – attraverso la
rappresentazione simbolica della causa di tale condizione (con
variatio di senhal omonimico nel passaggio dal sonetto all’illu-
strazione: l’aura vs. lauro). In un certo senso, l’arbitraria impa-
ginazione del testo sembra quasi consegnarci già nell’incuna-
bolo queriniano una compiuta elaborazione emblematica del

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 37. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 58r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

fragmentum, ma soprattutto l’identificazione del lacerto testua-


le più funzionale a un riuso emblematico-impresistico della
materia petrarchesca. Per quanto tale soluzione compositiva sia
più probabilmente imputabile a ragioni tecniche dell’illustra-
zione libraria, resta comunque il fatto che Grifo ha material-
mente concentrato il commento visivo intorno ai due versi
d’apertura, lasciando bianco lo spazio della pagina che ospita il
resto del sonetto. Altre, più esplicite, tracce della fortuna em-
blematico-impresistica del motivo si rinvengono nei repertori
del genere, come quello di Girolamo Ruscelli:

Chiamavano i latini Scopum, e Scopon lo diceano


anco i greci, quel luogo o quel segno, al quale si di-
rizzano le saette o altre sì fatte cose nell’aventarsi.
Noi in italiano a tal parola Scopus non abbiamo al-
tra voce nostra propria che corrisponda, ma com-
modissimamente potremo usar la medesima Scopo, sì
come tant’altre delle greche, e delle latine ne abbia-
mo utilmente già fatte nostre. Ma ben abbiamo noi
una voce, la quale essendo generale a più altre cose,
se ne fa poi particolare, a questa sola, e mettesi nel-
lo stesso significato dello Scopo latino, così nel senti-

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

mento traslato o metaforico, come nel proprio. Et è


molto usato sicuramente da i buoni scrittori. E que-
sta è la parola SEGNO. Petrarca: Amor m’ha posto come
SEGNO a strale, E fiera donna che con gli occhi suoi e con
l’arco a cui sol per SEGNO piacqui [...] e nel traslato Io
rivolsi i pensier tutti ad un SEGNO.136

Interessante per tutti i motivi sopra esposti, la vignetta que-


riniana non costituisce però l’unica illustrazione del concetti-
smo di RVF 133 presente nell’incunabolo. Un’occorrenza an-
cor più suggestiva si registra infatti nella c. 33v a fianco del so-
netto 87 (Sì tosto come aven che l’arco scocchi), e ci mostra di pro-
filo i due protagonisti della vicenda erotica (fig. 38). Laura sta
scagliando dai propri occhi uno strale infuocato, e con un elo-
quente gesto della mano lo indirizza verso un Petrarca raffigu-

Fig. 38. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 33v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

rato sia in persona (uno dei pochi casi nell’incunabulo) sia in


simbolo (il solito libro rosso stretto al petto quasi come un’ar-
matura di difesa). I richiami di senso tra i due fragmenta sono
evidenti nonché evidenziati («destinato segno», «il colpo de’
vostr’occhi», «Ecco lo strale onde Amor vòl che mora»). Mol-
to probabile risulta la filiazione dell’emblema 77 di Vaenius –

136 RUSCELLI, Le imprese illustri, cit., p. 38.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

e degli altri a questo connessi – se non direttamente dall’illu-


strazione dell’incunabolo del Canzoniere, almeno dal generale
contenuto di questo componimento petrarchesco. Al di là di
possibili derivazioni risulta però interessante notare che anche
in questa circostanza il commento visivo di Antonio Grifo mi-
ra a fare emergere le relazioni intertestuali tra i fragmenta, la tra-
ma narrativa della vicenda lirica. La variabile condizione di
Laura che si registra lungo il trittico 86-87-88 – da fiera e ac-
corta arciera a vittima de «l’extremo ardore» («e lei vid’io feri-
ta in mezzo ’l core) – trova ad esempio una precisa rappresen-
tazione nel sistema illustrativo delle cc. 33v-34r attraverso la sa-
piente giustapposizione da sinistra a destra di tre vignette in-
centrate sul motivo-guida della vista. La già citata illustrazione
di RVF 87 è infatti collocata tra due ritratti simbolici di Lau-
ra in forma di finestra: una «fenestra» che prima investe di
«mille strali» l’amante-libro, e poi vede azzerata dietro una ge-
losia tutta la sua potenza (e «ferita» la sua stessa ragion d’esse-
re come soggetto di fieri sguardi e oggetto visivo del deside-
rio, fig. 39). Analogamente, anche i nessi tra i fragmenta 133 e
135 – che partecipano a una più ampia sequenza della dissimi-
litudo (RVF 132-135) – sono evidenziati da Grifo attraverso
l’ostentazione della presenza figurale di Laura: al lauro di 133
corrisponde infatti la catopleba con volto femminile della can-
zone “dei prodigi” (che, come l’arciere del sonetto, «pianto | e
doglia e morte agli occhi porta», fig. 40).
In due luoghi del Canzoniere caratterizzati da una scrittu-
ra lirica fortemente allusiva, simbolica, a tratti enigmatica,137 il
commento visivo di Grifo sembra dunque concentrarsi sulla
rappresentazione di Laura, e ne fa emergere la presenza anche
laddove il testo si limita a sottintesi e metafore. La stessa dina-
mica di trasformazione della lettera in metafora esplicita mi
sembra rinvenibile nell’emblema di Baltimore. L’immagine si
inserisce a perfezione nella rete di riferimenti e riusi, iconici e
verbali, che si è rapidamente delineata. Rispetto a questo, pur
limitato, panorama di occorrenze essa però presenta anche una

137 Cfr. STEFANO CARRAI, Il devinalh di Petrarca: Rerum vulgarium fragmenta


CXXXIV, «Atti e Memorie dell’Accademia patavina di Scienze Lettere e Arti», CVII
(1985), pp. 287-300.

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AMOR M’HA POSTO COME SEGNO A STRALE

Fig. 39. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, cc. 33v-34r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

Fig. 40. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 59v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

variante, forse non banale, nella forma di un dettaglio che ne


caratterizza il senso e ne rivela lo stretto rapporto (esegetico)
col sonetto 133. Nelle varie immagini di Grifo,Vaenius e Leu-
ven, il bersaglio (uomo, libro o armatura) si presenta sempre
già trafitto da uno strale. Nel nostro emblema no. L’immagine
sembra dunque inquadrare la vicenda, e soprattutto la relazio-
ne che essa mette in scena, ad un differente stadio temporale
del suo sviluppo: quello iniziale, quello in cui l’arciere-cupido-
amata sta ancora tendendo l’arco per scoccare il colpo morta-
le. La rappresentazione viene così a focalizzarsi più sulla causa
che sugli effetti, più sugli occhi penetranti della donna che sul
petto sofferente del protagonista, più su Laura che su Petrarca.
Lo sbilanciato rapporto di forza tra i soggetti ritratti, che tale
scelta rappresentativa apparentemente evidenzia, sembra dun-
que riprodurre quello che si palesa durante la lettura del so-
netto man mano che il registro metaforico lascia il posto a
quello letterale; man mano che il nostro sguardo si sposta dal
corpo bersagliato alla mirabile origine di quello strazio; man
mano che il rantolo di una voce impotente viene coperto
dall’«angelico canto e le parole». Per quanto meno funzionale
alla comunicazione della moralità che un siffatto motivo ico-
nografico andrà topicamente veicolando, la minima variante
della configurazione del nostro emblema risulta invece interes-
sante e significativa nel segnalarci in questo caso una più at-
tenta rilettura della fonte petrarchesca da parte dell’anonimo
illustratore del manoscritto di Baltimore.

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’NANCI EL FIN D’UN, COMINCIA L’ALTRO STRACIO

Tav. 12

12. ’Nanci el fin d’un, comincia l’altro stracio

Questo arbore produce lo Egitto, chiamasi Silli-


gua et è di tal nattura che mai un frutto non cade
che l’altro non sia nato; e però dice, servendosi de la
comparazione de tale pianta, che mai tormento de
amore non se gli parte del cuore ch’uno altro non
sia nato; il verso è del Petrarca.

Nel dodicesimo emblema del corpus viene raffigurato un al-


bero di carruba carico di frutti quale illustrazione allegorica
dei tormenti amorosi che continuano a riprodursi lasciando
senza requie l’amante (tav. 12). I frutti della Ceratonia siliqua
permangono infatti per parecchio tempo sull’albero dove per-
tanto possono essere presenti sia frutti essiccati di colore mar-
rone sia frutti acerbi di colore verde. A dispetto dell’iconogra-
fia – molto rara e, a mia conoscenza, non censita dai principa-
li repertori cinque-secenteschi di emblemi e imprese –, il con-
cettismo visualizzato è abbastanza piano nonché ricorrente
sotto altre forme. Lo troviamo, ad esempio, sviluppato antifra-
sticamente in un altro motivo simbolico vegetale, quello del le-
gno della palma che grazie all’estrema flessibilità resiste ai pe-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

si, naturali o artificiali, che piegano i rami della pianta. Girola-


mo Ruscelli vi ricorre per celebrare la virtù di Francesco Ma-
ria della Rovere («la quale non avea potuto opprimere la furia
della fortuna contraria»), illustrando più nel dettaglio l’impre-
sa INCLINATA RESVRGIT, ideata da Paolo Giovio per il medesi-
mo destinatario (fig. 41):

E tornando all’impresa, dico che si ha da con-


chiudere che ella in tutti i modi sia regolata e bellis-
sima, poiché serve pienamente all’intenzione dell’au-
tore, la quale è di mostrar la grandezza e fortezza del-
l’animo suo, e della sua buona fortuna, con l’essem-
pio di quell’arbore, il cui legno è di così rara e mera-
vigliosa natura. Anzi tanto è più maravigliosa quella
sua proprietà di vincere e respingere in suso ogni pe-
so, quanto ella lo fa dapoi che è privata del suo vege-
tabile e dell’umore e nodrimento della terra, sua ma-
dre. Una bellissima consierazione potè ancor esser
nell’intenzion di questo gran signore con questa sua
impresa. E questa è il mostrar con somma innocenza
e sincerità di natura una vittoria giustissima, e contra
quei soli che cercano di offendere et opprimer noi.
Percioché il legno della palma in travi o in tavole si
sta per se stesso equalmente senza torcere o piegar in
suso né in giuso. Ma vedendosi poi sopraposto qual-
che peso che cerchi di romperla, o inchinarla e pie-
garla in giuso, ella non si contenta di solamente resi-
stere, e star salda a non lasciarsi piegare o vincere, ma
quasi da magnanimo sdegno commossa, si mette a ri-
spingere in suso il peso che è un vero vincerlo e
confonderlo, e quasi scornarlo e vituperarlo, poiché
lo fa fare contra non solamente la sua intenzione, che
mostrava di vincere e piegar lei, ma ancor contra la
sua natura, essendo la propria natura, o il proprio na-
tural istinto o desiderio, di ciascuna cosa grave di di-
scendere in giuso verso il centro del mondo.138

138 RUSCELLI, Le imprese illustri, cit., pp. 258-259.

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’NANCI EL FIN D’UN, COMINCIA L’ALTRO STRACIO

Fig. 41. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,


Venezia, De’ Franceschi, 1584, p. 258.

Paolo Aresi sviluppa il medesimo concettismo all’interno


del discorso sacro e fa della virtuosa flessibilità della palma uno
degli attributi simbolici di Cristo, il quale

ebbe parimente la forza della palma nel sostenere il


gravissimo peso de’ tormenti e delle nostre colpe, al
quale tanto è lontano ch’egli cedesse che s’inarcò
contra di loro mostrandosi desideroso di patire mag-
giormente, e meritando assai più di quello che de-
meritavano i nostri peccati. Non mai eziandio perdè
le frondi delle sue virtù e sempre fu verde per l’in-
nocenza e per il desiderio di patire che legno verde
nella sua passione si chiamò egli stesso.139

La moltitudine di frutti è dunque causa di sofferenza per


l’individuo che si cela dietro la pianta, e talora essa va a signi-
ficare non tanto l’addensarsi di tormenti interiori quanto piut-
tosto i pericoli derivanti da un eccesso di beni esteriori. COPIA
ME PERDIT è, ad esempio, il motto che Joachim Camerarius ac-
compagna all’immagine di una pianta i cui rami, carichi di

139 ARESI, Imprese sacre, libro I, impresa XXXVIII, cit., pp. 140-156, cit. a p. 155.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

frutti, non riescono a reggere il peso e si spezzano (fig. 42).


L’emblema intende ovviamente mettere in guarda dallo smo-
derato accumulo del superfluo a discapito di un sobrio e tota-
le godimento dell’essenziale: «Ut haec eo quod superfluunt,
nocent, sic segetem nimia sternit ubertas, sic rami onere fran-

Fig. 42. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres,


I, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 13.

guntur, sic ad maturitatem non pervenit nimia foecunditas».140


In ogni caso, l’iperbole materializzata dei tormenti risulta fun-
zionale a render ben percepibile la virtuosa pazienza del sog-
getto, se non addirittura – come nel caso di Cristo – il suo sal-
vatore abbandono al martirio. Maggiori sono i tormenti, me-
glio funziona la moralità, dal momento che più intensa divie-
ne l’esaltazione dei meriti del portatore dell’impresa.
Se però la logica comunicativa dell’espressione simbolica
pertiene a un contesto paradossale come quello che presiede la
vicenda petrarchesca, anche il sistema di valori verrà sovverti-
to nella sua dimensione di ragionevolezza. Proprio perché l’a-
more che il soggetto lirico prova per Laura costituisce nello

140 JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres, Norimberga,


Voegel, 1605, libro I, embl. 13, p. 23.

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’NANCI EL FIN D’UN, COMINCIA L’ALTRO STRACIO

stesso tempo la colpa che lo divide da lei, il tormento – unico


ma assoluto – della lontananza (o del rifiuto) dell’amata sarà
per lui un peso ben più grave di tutti gli altri possibili piaceri
della vita messi insieme. In quanto sublime alimento del desi-
derio, tale tormento diverrà però per l’amante anche il bene
più prezioso. Intorno a questo paradossale nodo concettuale
Anton Francesco Doni costruisce l’impresa «di Petrarca», e la
raccoglie fra le sue manoscritte Imprese reali.141 Per quanto svi-
luppi in una forma differente il concettismo alla base dell’em-
blema 12 di Baltimore, questa testimonianza di elaborazione
simbolica del dettato petrarchesco (e, più in generale, della sua
poetica) risulta particolarmente interessante e merita una più
distesa riflessione.
Innazitutto questa impresa ha una storia, interna ed
esterna all’esperienza doniana di creazione di forme simbo-
liche. Il motivo dell’urna ricolma di pietre nere e di una so-
la bianca compare infatti per la prima volta nel Dialogo di
Giovio (1559), associato però non a Petrarca bensì a Sanna-
zaro (fig. 43),

il quale, essendo fieramente innamorato e stimando


che ciò gli fusse honore con allegare il Boccaccio
che lodò Guido Cavalcanti, Dante e M. Cino da
Pistoia, sempre innamorati fino all’estrema vec-
chiezza, stette ogn’hora in aspettazione d’esser ri-
compensato in amore, come gli avvenne, e portò
per impresa un’urna piena di pietruzze nere con

141 ANTON FRANCESCO DONI, Le imprese reali, Wellesley (Mass.), Wellesley Col-
lege Library, Plimpton Collection, ms. 897, cc. 7v-8r. Per una descrizione del codi-
ce si ricorra a GIORGIO MASI-CARLO ALBERTO GIROTTO, Le carte di Anton Francesco
Doni, «L’Ellisse. Studi storici di letteratura italiana», III (2008), pp. 171-218, in part.
p. 191. Su quest’opera e sull’intera, vasta produzione impresistica doniana si vedano:
ANNA PAOLA MULINACCI, Un «laberinto piacevole»: le ‘libere imprese’ di Anton Francesco
Doni, in «Una soma di libri». L’edizione delle opere di Anton Francesco Doni. Atti del se-
minario di Pisa (14 ottobre 2002), a cura di GIORGIO MASI, Firenze, Olschki, 2008,
pp. 167-235, in part. pp. 224-230; SONIA MAFFEI, Autografi con immagini: il caso di An-
ton Francesco Doni, in «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani. Atti del con-
vegno internazionale di Forlì (24-27 novembre 2008), a cura di GUIDO BALDAS-
SARRI, MATTEO MOTOLESE, PAOLO PROCACCIOLI, EMILIO RUSSO, Roma, Salerno
Editore, 2010, pp. 379-422.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 43. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 151.

una sola bianca, con un motto che diceva AEQVABIT


NIGRAS CANDIDA SOLA DIES. Volendo dire che quel
giorno, che sarebbe fatto degno dell’amor della sua
dama, avrebbe contrapesato quegli che in vita sua ave-
va provato sempre neri e disaventurati. E questo al-
ludeva all’usanza de gli antichi, i quali solevano
ogn’anno segnare il successo delle giornate loro
buone e cattive con le pietruzze nere e bianche, et
al fine dell’anno annoverarle per fare il conto, se-
condo quelle che avanzavano, se l’anno era stato lor
prospero o infelice.142

Nell’identificare il suo illustre portatore quale poeta lirico le-


gittimato da una travagliata vicenda amorosa, l’impresa sviluppa il
concettismo della mutevole sorte dell’amante in una dimensione
di contabilità, governata da un’unità di misura che solo nella fon-
te (l’«usanza de gli antichi») è puramente quantitativa, ma che qui
è soprattutto qualitativa. Così come la virtuosa palma riesce a sop-
portare i pesi senza cedere – anche l’improvviso assenso dell’ama-
ta (la pietra bianca) ha il potere di equilibrare, e addirittura sbilan-
ciare nel senso opposto, la partita doppia del commercio amoro-

142 PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione, Rouille, 1577, pp.
151-152 (corsivo mio).

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so («avrebbe contrapesato»). Come nell’immagine della carruba,


anche qui la quantità è sinonimo di sofferenza, e la sofferenza è
inerente la sfera di Eros. Col medesimo portatore e nella presso-
ché identica configurazione, l’impresa transita dall’opera gioviana
alla prima raccolta del genere approntata da Anton Francesco Do-
ni, la Nuova opinione circa alle imprese militari e amorose, conservata
manoscritta presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
(ms. Nuovi Acquisti 267) e realizzata nel 1561 (fig. 44).143

Fig. 44. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Nuovi Acquisti 267,
ANTON FRANCESCO DONI, Nuova opinione circa alle imprese militari e amorose, c. 69v.

L’unica differenza di rilievo rispetto all’immagine di Gio-


vio consiste nella collocazione della pietra bianca all’esterno
del vaso sulla sommità del cumulo di pietre nere (prima essa
era posta all’interno del vaso). La correzione è stata forse in-
dotta dallo stesso commento gioviano che, subito dopo il pas-
saggio citato, si sofferma sul carattere «alquanto preternaturale»
dell’immagine (come è possibile vedere la pietra bianca se
questa giace entro l’urna?) e risolve il problema attraverso
«l’arguta risposta» di Sannazaro: «a quel tempo l’urna mia fu di
vetro grosso, per lo quale molto bene trasparere dette pietruz-

143 Per una descrizione del codice cfr. MASI-GIROTTO, Le carte di Anton Francesco
Doni, cit., pp. 186-187.

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ze».144 La stessa esplicazione del significato dell’impresa formula-


ta da Doni sembra riprodurre fedelmente quella di Giovio, so-
prattutto laddove interpreta l’intenzione di Sannazaro di mostra-
re «che questa nostra vita era tutta nera d’angustie, di afflizioni, e
di pena. E che quel lieto, candido e felice dì, che de’ travagli di
questo mondo l’huomo usciva fuori, valeva più che tutti gli altri».
Anche qui però assistiamo a un minimo, ma significativo scarto,
dal momento che Doni riconosce quale fonte del concettismo di
Sannazaro il quarto verso del fragmentum 231 («Jacopo aveva ben
letto et inteso il Petrarca di quel motto sì mirabile: “Mille piaceri
non vagliono un tormento”»). Così facendo, Doni stabilisce (o
evidenzia) una doppia correlazione tra quei «Mille piaceri» e le
numerose pietre nere dell’anfora, e tra quell’unico «tormento» e la
pietra candida; ossia legge secondo la logica paradossale che go-
verna la riflessione lirica petrarchesca, la dialettica tra le migliaia di
giorni della vita che trascorrono sereni ma indifferenti e quell’u-
nico dì che rivoluziona l’esistenza dell’amante dando inizio ai suoi
compiaciuti tormenti. Da tale constatazione è una conseguenza
quasi ovvia, per Doni, dare corpo visibile anche all’emblema po-
tenziale di Petrarca, e quindi associare al motto MILLE PIACERI
NON VAGLIONO VN TORMENTO (elegantemente dispiegato in car-
tiglio) il disegno di «un altro vaso pieno di bianche pietre dove
una sola nera stava di sopra» (fig. 45).145 È questa l’impresa di Pe-
trarca che nel 1563 Doni colloca nel manoscritto delle Imprese rea-

144 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., p. 152.


145 Tutte le ultime citazioni sono tratte da ANTON FRANCESCO DONI, Nuova opi-
nione circa alle imprese militari e amorose, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ms.
Nuovi Acquisti 267, cc. 68v-70r. L’impresa di Petrarca – così come quella di Sannazaro
– compare anche in un altro manoscritto doniano di imprese, Le dimostrazioni de gli ani-
mi de gli uomini, risalente sempre al 1561 e conservato anch’esso alla Biblioteca Nazio-
nale Centrale di Firenze con la segnatura ms. Palat. E.B.10.8 striscia 1392. È da notare
che in entrambe queste raccolte Doni offre anche un’interpretazione parodica dell’e-
spressione simbolica, un’interpretazione che peraltro sembra dipanarsi narrativamente da
un manoscritto all’altro. Nella Nuova opinione Doni ricorda infatti che secondo alcuni
l’origine del concettismo petrarchesco risalirebbe al fatto «che la sua madonna Laura gli
mandasse a donare una panieruzzola di coccole d’alloro confettate, e che l’erano mille e
una, ma quell’una non era altrimenti concia ma naturale; e sua Eccellenza nel gustarla
conobbe la grande amaritudine e disse: MILLE PIACERI NON VAGLIONO VN TORMENTO»
(c. 70r). Nelle Dimostrazioni l’autore fiorentino s’immagina invece che «quella paniera
che gli donò Laura piena di coccole d’alloro, [...] lui empiè poi di pietruzze bianche rac-
colte dal fiume Sona; et una sola nera vi messe dentro» (c. 31r).

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Fig. 45. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Nuovi Acquisti 267,
ANTON FRANCESCO DONI, Nuova opinione circa alle imprese militari e amorose, c. 70r.

li, dichiarandola «invenzione [...] ritrovata nello studio suo» (fig.


46). Solido e articolato è il nesso tra linguaggio emblematico e
poesia petrarchesca attivo all’interno della produzione doniana (si
pensi almeno ai frontespizi interni e alle medaglie rinvenibili nei
Mondi marcoliniani), e questo nesso testimonia la complessità del
suo atteggiamento nei confronti dell’autore del Canzoniere. Il
verso petrarchesco che funge da motto dell’impresa ricorre, ad
esempio, tanto nei Mondi (Mondo piccolo) quanto negli Inferni (In-
ferno terzo del Pazzo) a conferma della sua forte incidenza nella
memoria poetica di Doni.146
La «più destra fortuna» di qualsiasi altro amante appagato
non è dunque paragonabile a quel sublime «tormento» che l’io

146 Cfr. ANTON FRANCESCO DONI, I Mondi e gli Inferni, a cura di PATRIZIA PEL-
LIZZARI, Torino, Einaudi, 1994, pp. 44 e 276. Per un’analisi delle strutture emblemati-
che a matrice petrarchesca dei Mondi sopra le Medaglie si rinvia a: GIORGIO MASI,
«Quelle discordanze sì perfette». Anton Francesco Doni 1551-1553, «Atti e memorie del-
l’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», n.s. XXXIX, LIII (1988),
pp. 9-112, in part. pp. 94-97; e GIOVANNA RIZZARELLI, «Se le parole si potessero scorge-
re». I Mondi di Doni tra Italia e Francia, Manziana,Vecchiarelli, 2007, in part. pp. 45-55.

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Fig. 46. Wellesley (Mass.), Wellesley College Library, Plimpton Collection, ms. 897,
ANTON FRANCESCO DONI, Le imprese reali, cc. 7v-8r.

lirico ha ricevuto dal destino (unicità dell’oggetto del deside-


rio); tormento che nella sua incomparabilità diviene per rifles-
so marca d’identità dell’individuo stesso che lo esperisce (uni-
cità del soggetto desiderante) e, infine, del poeta che canta ta-
le esperienza (unicità del soggetto narrante). Sulla scorta di un
concettismo molto frequentato nel Canzoniere – laddove il
gioco onomastico (pietra-Petrarca) attiva il nesso mitologico
Laura-Medusa e allude alle principali keywords della vicenda
narrata: durezza, accidia, resistenza, immobilismo, etc. – Doni
ricorre allo statuto iconico e verbale dell’impresa per ritrarre
un’individualità, per esprimerne qualità e aspirazioni, proprio
come prescriveva la teoresi del genere. Nonostante la dichiara-
ta intestazione dell’impresa, non sembra però così azzardato ri-
conoscere nello stesso corpo simbolico la compresenza di ben
tre referenti identitari, rispettivamente collocati sui tre livelli di
leggibilità dell’espressione emblematica: il nucleo concettuale
del ‘tormento’, che identifica l’oggetto dell’ossessione lirico-
erotica (Laura); l’immagine simbolica della ‘pietra’, che di tale
ossessione rivela allusivamente il soggetto (il Petrarca-agens); e

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l’identità nominale dell’effettivo portatore dell’impresa (il Pe-


trarca-auctor). La sovrapposizione identitaria dei tre protagoni-
sti della situazione lirica conosce poi un’ulteriore amplifica-
zione in una testimonianza impresistica apparentemente con-
nessa con quella doniana. In un’altra (questa volta anonima)
raccolta manoscritta è infatti possibile rinvenire la stessa im-
presa del codice di Wellesley; essa compare però sul recto di un
foglio il cui verso è occupato da un’altra devise, intestata invece
a Laura.147
L’impresa «del Petrarca» si differenzia da quella del mano-
scritto doniano perché presenta non una ma due coppe, con-
tenenti la prima molte pietre bianche e la seconda una sola ne-
ra. Un cartiglio le avvolge, e il motto petrarchesco si dipana,
senza soluzione di continuità, tra questo elemento decorativo
e le etichette delle due anfore (rispettivamente «MILLE» e «VN»,
fig. 47). Il senso complessivo del messaggio simbolico non va-
ria, ma la duplicazione delle coppe (e la loro ‘marcatura’ qua-
litativa) scioglie la felice ambiguità dell’immagine doniana, e
sembra prospettare un dualismo oppositivo invece che testi-
moniare una lacerante, irrisolta sintesi. L’immagine dell’impre-
sa «di Laura» raffigura una cornice con un coperchio a scom-
parsa dietro il quale vi è il nulla, o più probabilmente uno
specchio (fig. 48). Il motto CANDIDA CANDIDIS148 costituisce
un immediato indizio del nesso che lega le due forme simbo-
liche sovrapposte nella pagina manoscritta, dal momento che
ribadisce la stessa idea di unicità prima illustrata dal motivo
della pietra nera. Còlta nel suo complesso, l’impresa detiene
motivi d’interesse in sé, e per il dialogo che crea con la tavola
precedente.
Disposte recto/verso le due immagini sembrano infatti deli-
neare una sorta di impresistico ritratto doppio del poeta e della

147 Imprese di Sovrani e di altri Personaggi delineate a penna l’anno MDLXXII e segg.,
Genova, Biblioteca Universitaria, ms. E.VII.16, cc. 237-238. Ritornerò su questo in-
teressante documento nel corso del commento all’ultimo emblema del manoscritto di
Baltimore.
148 Il motto CANDIDA CANDIDIS conta un posessore illustre in Claudia di Francia
(1499-1524), figlia di Luigi XII e prima moglie di Francesco I, che l’aveva scelto per
completare la “luna piena” della propria devise.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 47. Genova, Biblioteca Universitaria,


ms. E.VII.16,
Imprese di Sovrani e di altri Personaggi
delineate a penna l’anno MDLXXII
e segg., c. 237.

Fig. 48. Genova, Biblioteca


Universitaria, ms. E.VII.16,
Imprese di Sovrani e di altri Personaggi
delineate a penna l’anno MDLXXII
e segg., c. 238.

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’NANCI EL FIN D’UN, COMINCIA L’ALTRO STRACIO

sua creatura letteraria. Un ritratto doppio che sviluppa in forma


simbolica quella dinamica comunicativa di rivelazione e occul-
tamento già realizzata in una nota medaglia quattrocentesca. At-
tribuita all’incisore Lysippus, essa riporta sul verso il profilo del-
l’amante (contornato dalla dedica-invito DI LÀ IL BEL VISO E QVI
IL TVO SERVO MIRA) e sul recto una superficie levigata in cui può
rispecchiarsi il volto dell’amata.149 La struttura dello specchio a
scomparsa intensifica ulteriormente il gioco concettistico tra
nascondimento, esibizione e rispecchiamento delle identità, im-
plicito nella dinamica di significazione impresistica. Un gioco
peraltro ricercato anche dalla coeva esperienza culturale dei Pri-
vatporträts, dei ritratti conservati/celati da coperchi scorrevoli.150
Alcune volte infatti il coperchio (anch’esso talora decorato da il-
lustrazioni simboliche, o da altri ritratti) regolava la fruizione vi-
siva non di un dipinto ma di un semplice specchio.151 In altri

149 Cfr. FEDERICA PICH, I poeti davanti al ritratto. Da Petrarca a Marino, Lucca, Ma-
ria Pacini Fazzi, 2010, p. 140: «[...] l’esortazione a guardare ha in sé il riconoscimento
di un’esperienza doppia e divisa («di là» / «e qui») e della disomogeneità tra una qua-
lità (bellezza) e una condizione (sudditanza e fedeltà). In assenza del ritratto, la sem-
bianza dell’amata può essere evocata nello specchio, oggetto ambiguo e magico, al
quale si attribuisce la facoltà di trattenere l’immagine di chi vi si riflette». Su Lysippus
si veda ULRICH PFISTERER, Lysippus und seine Freunde. Liebesgaben und Gedächtnis im
Rom der Renaissance – oder Das erste Jahrhundert der Medaille, Berlin, Akademie Verlag,
2009.
150 Per una lettura transdisciplinare di questa esperienza artistica si veda ora BOL-
ZONI, Il cuore di cristallo, cit., pp. 233-234: «Si tratta infatti di prodotti che si collocano
in una zona di confine, nel senso che sperimentano possibilità e limiti dei diversi co-
dici espressivi, fino a mettere in discussione le tradizionali opposizioni fra parole e im-
magini, fra la durata che la lettura richiede e l’immediatezza che la vista permette (o
sembra permettere), e dunque fra tempo e spazio. [...] La struttura del prodotto ri-
chiede infatti una ricezione in due tempi: il corpo dell’osservatore è messo in gioco,
perché deve compiere l’azione di guardare anche il retro del quadro, o di spostare il
coperchio, così da vedere, in sequenza, le due immagini e farle interagire fra loro. La
vecchia dottrina retorica dei sensi riposti, della necessità di non fernarsi alla superficie
del testo, ma di compiere un viaggio ulteriore, che faccia penetrare nelle midolla, al di
là della corteccia, trova così una versione singolare: la struttura doppia del quadro
prende quella dottrina alla lettera e le dà una consistenza materiale, coinvolgendo l’u-
tente in un percorso in due tempi, che poi può crescere su se stesso, nutrendosi di ana-
logie, di corrispondenze, di associazioni».
151 Di questa variante possiamo vedere un esemplare francese di metà Cinque-
cento riportato nel catalogo della mostra newyorkese Art and Love in Renaissance Italy,
a cura di ANDREA BAYER, New York-New Haven-London,Yale University Press-Me-
tropolitan Museum of Art, 2008, scheda 115, pp. 225-226.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

casi lo stesso coperchio era proprio uno specchio.152 Una sug-


gestiva testimonianza di questa interazione artificiosa (e artigia-
nale) tra documenti testuali (poesie), opere visive (ritratti) e ma-
nufatti artistici (specchi, cornici, coperti, cassette etc.), ci è offer-
ta dalla storia dei “sonetti del specchio” di Baldassar Castiglione;
sonetti che una volta inquadrati nella «macchina dello specchio»
ben si prestano «a dar forma a una evocazione in cui la possibi-
lità di ripercorrere i lineamenti dell’amata si nutre del rimpian-
to della sua assenza e la possibilità di rispecchiarsi nel viso della
donna viene conquistato nel segreto [...], e usando “l’artificio”
che [...] permette di aprire e di chiudere quello spazio “al-
tro”».153 Grazie a una siffatta interazione artificiosa si attiva in-
fatti un sistema di segni «articolato e disomogeneo in cui l’im-
magine è se stessa e insieme parte di una situazione e di un di-
scorso».154 Di questo sistema l’impresa «di Laura» ci lascia un si-
mulacro visivo; e, in combinata con quella «del Petrarca», un’am-
plificata eco del suo funzionamento.
Nello specifico contesto petrarchesco il motivo dello
specchio risulta poi quanto mai significativo, e proprio quale
cifra concettistica scelta dal poeta per identificare l’indivi-
dualità di Laura nel quadro relazionale che struttura l’intera
raccolta lirica. Come possiamo vedere anche soltanto dai frag-
menta 45-46, lo specchio costituisce infatti la rappresentazio-
ne più fedele di Laura, della sua natura visiva (icona da con-
templare e proiezione del desiderio del poeta), della sua in-
differente spietatezza (che esclude l’amante, limitandolo a un
parziale, mediato vagheggiamento dall’«exilio»), della sua au-
tonoma esistenza di oggetto del desiderio che si fa anche nar-

152 Lina Bolzoni ricorda alcuni passaggi del Libro di spese diverse di Lorenzo Lot-
to che testimoniano il ricorso a coperchi di specchio per celare/conservare immagini
di soggetto tanto profano quanto sacro (BOLZONI, Il cuore di cristallo, cit., p. 222).
153 Una ricostruzione della vicenda dei due sonetti di Castiglione e una loro let-
tura attraverso la macchina ottica che li conserva e li nasconde ci vengono offerte da
LINA BOLZONI, Lo specchio del ritratto fra Petrarca e Marino, in EAD., Poesia e ritratto nel
Rinascimento, testi a cura di FEDERICA PICH, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 5-69, in
part. p. 58-63, cit. a p. 61.
154 FEDERICA PICH, Specchi, ritratti, sonetti: ellissi dell’immagine e memoria degli og-
getti nella lirica del Cinquecento, in La rappresentazione allo specchio.Testo letterario e testo pit-
torico, a cura di FRANCESCO CATTANI e DONATA MENEGHELLI, Roma, Meltemi, 2008,
pp. 87-102, cit. a p. 100.

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cisistico soggetto del desiderio (45, 11: «a voi stessa piacendo


[...]»; e 46, 11: «veggendo in voi finir vostro desio»).155 Que-
st’ultimo aspetto è, secondo Furio Brugnolo, «un tratto in-
novativo di Petrarca rispetto alla tradizione lirica medievale,
dove l’indifferenza, l’orgoglio e la spietatezza di madonna so-
no semplicemente dei dati a priori, che non necessitano di
spiegazioni che non siano quelle che l’amante [...] cerca di
trovare in se stesso, nelle proprie insufficienze, mancanze, er-
rori, inadempienze»; «uno scatto inventivo straordinario»,
quindi, che problematizza il rapporto tra amante e amata, fa-
cendo di Laura «una specie di “doppio” del poeta-amante,
che proietta in lei, tramite il richiamo al tema di Narciso (45,
12-14), uno dei nodi centrali della lirica medievale, quello
dell’autoreferenzialità del desio [...]».156 Proprio in ragione
dell’ambiguo statuto referenziale che l’immagine dello spec-
chio detiene all’interno della riflessione lirica petrarchesca
potremmo dunque rilevare che anche il corpo dell’impresa
«di Laura» sembra estendere i domìni della sua esibita inte-
stazione, e per sovrapposizione accogliere in un’unica forma
le identità dell’amante e dell’amata, del poeta e di quel phan-
tasma che catalizza tutti i suoi sparsi desideri. Doni prima, e

155 Cfr. BEATRICE RIMA, Lo specchio e il suo enigma. Vita di un tema intorno a Tasso
e Marino, Padova, Antenore, 1991, pp. 28-29: «La figura altamente simbolica dello spec-
chiamento, inteso come sdoppiamento nel son. 45 (vv. 3; 5-6; 10) e come identifica-
zione nel son. 46 (v. 11), conduce alla similitudine fra Laura che s’innamora di se stes-
sa e Narciso, dove lo straniamento le viene nel primo caso da parte dello specchio (45,
3: «colle non sue bellezze v’innamora») e nel secondo da parte di lei stessa (46, 11:
«veggendo in voi finir vostro desio»)». Sullo specchio, e il suo simbolismo, si veda an-
che JURGIS BALTRUŠAITIS, Lo specchio, Rivelazioni, inganni e science-fiction, Milano,
Adelphi, 2007 (I ed. fr. 1978). Sul valore metalinguistico del motivo iconografico cfr.
DANIEL RUSSELL, The Device and the Mirror, in ‘Con parola brieve e con figura’. Emblemi e
imprese fra antico e moderno, cit., pp. 5-28, in part. a p. 28: «The Mirror, in a certain re-
spect, is the perfect explanatory metaphor for the impresa. It expresses or reflects so-
mething of the self, the owner. It projects ideals and intentions; it is supposed to re-
flects the best in a person. But since an impresa can be changed depending on cir-
cumstances, it clearly reflects fragments of the self, like small, metonymic images in
Renaissance mirrors».
156 FURIO BRUGNOLO, Il «Desio che seco non s’accorda»: sintonie, rispecchiamenti e
fraintendimenti (RVF 41-50), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 115-
140, cit. a p. 128 dove conclude: «Specularità, autoidentificazione, autoreferenzialità: un
vertiginoso gioco di specchi [...] che porta in definitiva non al compimento del desi-
derio, ma al suo isolamento e alla sua estenuazione».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

l’impresista del codice genovese poi, hanno forse inteso leg-


gere sub specie emblematica la vicenda dei Fragmenta come una
lucida riflessione sull’incolmabile distanza tra l’amore e il suo
oggetto, e sull’autoreferenzialità cui è conseguentemente,
drammaticamente destinato il sentimento. L’emblematista di
Baltimore ne ha invece strategicamente stigmatizzato tutta la
paradossalità.

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

Tav. 13

13. L’albor ch’amò già Phebo in corpo humano

Nell’emblema riportato a c. 13 il motivo iconografico del


lauro, cruciale per la poetica petrarchesca,157 compare a illu-
strare il concettismo dell’intangibilità della pianta sacra ad
Apollo (tav. 13). Questa referenziale espressione dell’unicità di

157 Si veda almeno JOHN FRECCERO, The Fig Tree and the Laurel: Petrarch’s Poetics,
«Diacritics», V (1975), 1, pp. 34-40, in part. pp. 34-35 e p. 37: «The two emblems, the
[Augustinian] fig tree and the laurel, may be said to stand respectively, as we shall see, for
different modes of signification: the allegorical and the autoriflexive. [...] We have seen
that the fig tree is an allegorical sign. It stands for a referential series of anterior texts
grounded in the Logos. It is at once unique, as the letter must be, and yet referential,
pointing to a truth beyond itself, a spiritual sense. While it is true that the being of the
letter cannot be doubted, its meaning transcends it in importance. As all signs point
ultimately to God, so it may be said that all books, for the Augustinian, are in some sen-
se copies of the God’s Book. [...] On the other hand, for the laurel to be truly unique,
it cannot mean anything: its referentiality must be neutralized if it is to remain the pro-
perty of its creator. Petrarch makes of it the emblem of the mirror relationship Laura-
lauro, which is to say, the poetic lady created by the poet, who in turn creates him as poet
laureate. This circularity forecloses all referentiality and in its self-contained dynamism
resembles the inner life of the Trinity as the Church fathers imagined it. One could scar-
cely suppose a greater autonomy.This poetic strategy corresponds, in the theological or-
der, to the sin of idolatry».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Laura viene ripresa in tale contesto anche come paradigmati-


ca evocazione visiva della resistenza delle persone virtuose di
fronte agli attacchi della cattiva sorte. La pictura di un gruppo
di piante di lauro solo sfiorate dalle folgori è infatti introdotta
dal secondo verso del fragmentum 41 («l’albor ch’amò già Febo
in corpo umano»), ma è anche accompagnata da una breve de-
scriptio che ne esplicita la funzione moralistica:

Questo lauro ha tal prerogativa che mai è tocco


dal fulmine et è solo di che si corona i virtuosi. Se-
guita che quelle persone che sarano virtuose non
sarano fulminate, cioè non temeranno di cattiva
fortuna: il verso è del Petrarca. Se ci potria ancor
porre un verso del psalmista, zoè CADENT AD LATE-
RE TVVM, come volesse dire che ad un virtuoso gli
caderà da gli lati tutti quelli che lo vorranno per-
cotere.

Suggerito da Plinio (Nat. Hist. II, 56, 146 e XV, 135), Sve-
tonio (Tiberius LXIX)158 e Isidoro (Etymol. XVII, VII, 2-3), il
motivo è più volte sviluppato all’interno dei Fragmenta: cfr. al-
meno RVF 24, 1-2 («Se l’onorata fronde che prescrive | l’ira
del ciel, quando ’l gran Giove tona»); 29, 46-49 («[...] e come
in lauro foglia | conserva verde il pregio d’onestade, | ove non
spira folgore, né indegno | vento mai l’aggrave»); 60, 12-13
(«Né poeta ne colga mai, né Giove | la privilegi [...]»); 113, 5-
6 («Qui son securo; e vo’vi dir perch’io | non come soglio il
folgorar pavento»); 142, 12 («ma de la pianta più gradita in cie-
lo»). Esso è poi ripreso da Petrarca in altri luoghi della sua pro-
duzione letteraria.159 Frequente è anche l’impiego di tale con-

158 Nel codice Lat. fol. 337 della Staatsbibliothek di Berlino, accanto a questo
passaggio di Svetonio (f. 21 vb: «Tonitrua tamen expavescebat extra modum et turba-
tiore celo numquam non coronam lauream capite gestum, quod fulmine afflari nege-
tur id genus frondis») Petrarca ha riportato la postilla «Laurea» (cfr. GIUSEPPE BILLA-
NOVICH, Uno Svetonio del Petrarca, in ID., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Anteno-
re, 1996, pp. 251-261, cit. a p. 257).
159 Cfr. Coll. laur. 11, 19 [«Tertia et ultima harum proprietatum est quia, ut inter
omnes convenit, qui de naturis rerum scripserunt, arbor hec non fulminatur – ma-
gnum et insignem privilegium –; et hec quoque, ut, sicut incepimus, usque in finem

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

cettismo nella successiva letteratura emblematica e impresisti-


ca, da Pittoni a Camerarius, da Valeriano ad Alciati.160 È Gio-
vanni Ferro nel suo enciclopedico Teatro d’imprese (1623) a of-
frirci una precisa rassegna delle principali occorrenze del mo-
tivo, sottolineandone il comune debito all’imagery poetica pe-
trarchesca:

[...] Oltre all’essere segno di vittoria, e di trionfo,


è indicio altresì, per esser ella intatta da’ folgori, di
sicurezza, di castità per la giovanetta Dafne [...]. An-
drea Palazzi pose l’impresa del lauro fatta dal Fran-
co (dice egli) al Petrarca con un de’ suoi versi per
motto L’ARBOR GENTIL, CHE FORTE AMAI MOLTI AN-
NI. [...] Luigi Ferro mio fratello, senza vedere questa
del Conte, ne fece altra simile, facendo figurare l’al-
loro picciolo, et alcuni alberi d’attorno spezzati, e
fracassati da folgori cadenti con motto INTACTA
TRIVMPHAT, o VIRESCIT s’ad altri più piacesse, per di-
notare l’ingegno d’un giovanetto che ad onta di
malvagi, e di fortuna, cresceva ed avanzava gli altri

procedamus, occultior cerimonie causa fuit ut arbor [...] quod est enim in rebus hu-
manis violentius fulmen quam temporis diuturnitas, omnia consumens et opera et res
mortalium et famam»]; Epyst. I, 10, 116-122 [«Tu michi fasciculum iubeas, pater in-
clite, ferri | Frondis apollinee, namque istos pulcra per agros | (Tam longinquus amans
hunc non terit ethera curru) | Laurea nulla viret, cuius iacuisse sub umbra | Dulce
sit, aut gremio caras abscondere frondes, | Aut ramum tenuisse manu, dum fulminat
ingens | Iupiter, et celo clipeum monstrasse furenti»]; Secr. III, 248 [«Si michi igitur
exprobrasses quod adversus fulminis fragorem timidior sim, quia id negare non pos-
sem (est enim hec michi non ultima causa lauri diligende quod arborem hanc non ful-
minari traditur), respondissem Augustum Cesarem eodem morbo laborasse]; Afr. 9,
117-119 («Preterea hanc frondem rapido non fulmine vexat | Iupiter ex cuntis, ta-
lemque meretur honorem | Laurus [...]»); Buc. Carm. 3, 77-79 («Te vates magnique
duces, te Jupiter altus | Diligit, ac iaculo refugit violare trisulco, | Quo ferit omne ne-
mus [...]»), e 10, 362-363 («Hanc, superum rapido dum fulmine rex quantit orbem, |
Liquerat intactam, solio veneratus ab alto»).
160 GIOVAN BATTISTA PITTONI, Imprese nobili, et ingeniose di diuersi prencipi, et d’al-
tri personaggi illustri, Venezia, Porro, 1578, p. 24; CAMERARIUS, Symbolorum et emblema-
tum centuriae tres, cit., libro I, 35, cc. 45r-45v (INTACTA VIRTVS, con iconografia mini-
mamente variata che presenta un solo albero e fiumi che piovono a lato d’esso). Per
un’inquadratura critica del motivo nell’ambito della letteratura emblematica si veda
WILLIAM S. HECKSCHER, Andrea Alciati’s Laurel Tree and its Symbolic Traditions, «Emble-
matica», VI (1992), 2, pp. 207-218.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

in virtù col nome di Delio. [...] Al semplice arbore


pose il Bargagli NEC AESTAS, NEC HYEMS, o con pa-
role tolte dal Petrarca, NÉ SOL CVRA, NÉ GELO, quan-
do scrisse De l’arbor, che né Sol cura, né gelo.161

Il riferimento a Giovanni Andrea Palazzi è relativo al passag-


gio dei Discorsi sopra l’imprese (1575) in cui il letterato bologne-
se riconosce nell’immagine del lauro accompagnata dall’incipit di
RVF 60 una delle prime invenzioni impresistiche moderne:

[...] le più antiche imprese, che mi sovenghino


sono tre, che ’l Franco pone del nostro Petrarca; il
quale essendo secondo ’l Vellutello stato insino al-
l’anno MCCCLXXIII, fiorì ne’ medesimi tempi che i
detti principi le loro imprese pubblicarono al mon-
do; la prima delle quali un lauro fu con questo mot-
to L’ARBOR GENTIL, CHE FORTE AMAI MOLTI ANNI
[...]. Queste imprese, benché non siano perfette, ho
voluto nondimeno ricordarvi, acciò che vediate il
progresso e l’accrescimento c’hanno a poco a poco
fatto [...]; talché se noi vorremo [...] l’imprese con-
siderare come un huomo, e tener ben conto dell’età
loro, come abbiano avuto principio, come siano cre-
sciute, e come alla virilità siano giunte, tre gradi e tre
progressi di quelle ritroveremo: il primo serà (per ta-
cer delle sacre cose) dal principio de’ segni hierogli-
fici fin a Proteo, ad Agamennone, et a quei tempi
della troiana guerra, e questa sarà la Fanciullezza; il
secondo da costoro fin’al Petrarca, e questa serà la
Gioventù; il terzo dal Petrarca a questa nostra feli-
cissima età, in cui questa pregiata professione essere
in quella suprema eccellenza vediamo [...].162

Palazzi riprende dunque a sua volta, elaborandolo, un fa-


moso passo del Petrarchista (1539) di Nicolò Franco dove si

161 FERRO, Teatro d’imprese, cit., pp. 50-55.


162 GIOVANNI ANDREA PALAZZI, I discorsi sopra l’imprese, Bologna, Benacci, 1575,
p. 29.

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

promuove la leggenda di un Petrarca autore di tre imprese col-


locate su sigilli e accompagnate da motti desunti dal Canzo-
niere:

E perché erano diversi sigilli, è da credere che il


Petrarca in vari propositi se ne servisse. Era in un di
loro l’imagine di Laura, e di questo tenni per fermo
ch’egli servito si fusse in morte di lei, per queste let-
tere che d’intorno vi stavano, QVEL SOL CHE MI MO-
STRAVA IL CAMIN DESTRO. Perché il verbo «mostra-
va» significa esser già tramontato quel sole suo e fat-
togli notte oscura. Ne l’altro sigillo era la medesma
testa di Laura, il quale innazi che ella si morisse è da
stimare che il Petrarca tenesse in uso, per lo verso
che similmente v’era scolpito attorno, L’ARBOR
GENTIL, CHE FORTE AMAI MOLT’ANNI. E ciò si prova
per essere questo verso tra i sonetti che scrisse in vi-
ta. Oltre questi dui sigilli, ve n’erano molti grandi, e
secondo i soggetti di che parlava quando scrivea a
quegli monsignori di Cà Colonna. Tra gli altri ve
n’era uno ove egli scolpito si vedeva sotto l’ombra
d’un lauro, disteso in terra, a guisa d’huomo che
parli, pensi e scriva. [...] Con altri infiniti segni di
miserie, e di dolori. Tal che ben ci convenivano le
lettere scolpite che diceano IN QVESTO STATO SON
DONNA PER VVI.163

L’identificazione tra Laura e lauro è percepita come una so-


vrapposizione totale, senza residui, in grado di consentire, nel
passaggio da un testo all’altro, la perfetta sostituzione (e sugge-
rire l’automatica interscambiabilità) tra referente e figurante
simbolico, tra un ritratto di Laura (in Franco) e un’immagine
del lauro (in Ferro che cita Palazzi che cita Franco). A com-
pletare il messaggio iconico in tutti i documenti citati è co-
munque lo stesso verso petrarchesco, desunto però proprio da
quel fragmentum 60 in cui il poeta, sfinito dalla spietatezza del-

163 NICOLÒ FRANCO, Il Petrarchista, Venezia, Giolito, 1539, cc. 20v-21r.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

l’amata, giunge ad augurarsi che la pianta prediletta perda la


propria proverbiale intangibilità («né Giove | la privilegi»).164
Attraverso i presunti emblemi di matrice petrarchesca Franco
e Palazzi intendevano soprattutto illustrare il concettismo a ba-
se paronomastica lauro/Laura,165 e nella sua referenzialità l’in-
cipit del sonetto risultava più che sufficiente allo scopo; l’atten-
zione cadeva principalmente sul nomen del lauro, piuttosto che
su una sua precisa qualità (come la resistenza alle intemperie).
Su questo specifico aspetto si concentra l’emblema del mano-
scritto di Baltimore, che infatti integra la pictura col fonda-
mentale dettaglio dei fulmini.
Questo dettaglio è invece assente nell’illustrazione didasca-
lica di RVF 60 rinvenibile in un altro manoscritto illustrato del
Canzoniere, il cosiddetto codice Orsini-Da Costa, pergamena-
ceo del XV sec. conservato presso la Pierpont Morgan Library
di New York (ms. M.427) e corredato da coeve miniature au-
reo-purpuree che rinviano a differenti tipologie figurative.166
Il codice è al centro di una querelle originata dalla disinvolta e
altamente fuorviante operazione editoriale realizzata per il se-
sto anniversario della nascita di Petrarca. Nel 1904 Domenico
Ciampoli ha infatti curato un’edizione anastatica del mano-
scritto, integrandone però l’originale apparato iconografico

164 Cfr. SARA STURM-MADDOX, Petrarch’s Laurel, Philadelphia, Pennsylvania State


University Press, 1992, pp. 292-293: «The evergreen property of the laurel unique
privilege of the plant most favored in Heaven, is repeatedly affirmed in the collection.
It is also in term of this property, one that protects the tree from time and change
while underwriting its status as poetic symbol, that the poet imagines a vengeance for
Laura’s indifference [...]. This display of vengeful frustration is unique in the collec-
tion; in the poet’s world the loss of the laurel’s leaves would be a loss unthinkable and
irretrievable, a portent of its destruction».
165 Per cui si veda FRANÇOIS RIGOLOT, Nature and Function of Paronomasia in the
Canzoniere, «Italian Quarterly», XVIII (1974), pp. 29-36.
166 Cfr. SEYMOUR DE RICCI, Census of Medieval and Renaissance Manuscripts in the
United States and Canada, New York, Kraus, 1961, vol. II, p. 1446, n. 427; ERNST H.
WILKINS, The Making of ‘Canzoniere’ and Other Studies, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1951, pp. 207, 209, 214-215, 219, 221, 236, 238, 249, 251; BERTHOLD L.
ULLMAN, Petrarch Manuscripts in the United States, «Italia medioevale e umanistica», V
(1962), pp. 443-475; MICHAEL JASENAS, Petrarch in America. A Survey of Petrarchan Ma-
nuscripts, New York, Pierpont Morgan Library, 1974, pp. 28-29, n. 9, tav. 5; GEMMA
GUERRINI, Per uno studio sulla diffusione manoscritta dei ‘Trionfi’ di Petrarca nella Roma del
XV secolo, «La Rassegna della letteratura italiana», LXVI (1982), pp. 90-94.

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

con la riproduzione di otto tavole desunte rispettivamente da


un codice delle Rime petrarchesche (Varia 3) e da un incuna-
bolo dei Trionfi (Pietro Pacini, Firenze, 1499), conservati en-
trambi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.167
Tra le illustrazioni effettivamente presenti nel codice della
Morgan Library possiamo ricordare: una topica rappresenta-
zione del poeta allo scrittoio, un ritratto doppio di Petrarca e
Laura (incorniciato in una sorta di “cammeo” che si chiude “a
libro”), nonché alcune illustrazioni puramente didascaliche e
iniziali decorate. Ma tra un fragmentum e l’altro abbiamo anche
immagini di più compiuta fattura emblematica, come la tar-
ghetta col motto OGNOR PRESENTE che incornicia il profilo di
Laura e rinvia al v. 5 del sonetto 143 («Trovo la bella donna al-
lor presente»); o anche come un’altra targhetta col motto
«SEMPER VRIT» che incornicia questa volta la figura di Amore
e visualizza il protratto concettismo del fuoco amoroso che in-
nerva l’intero sonetto 122; o infine, come il fregio raffiguran-
te un lauro con cartiglio che riporta le lettere iniziali delle pa-
role del terzo verso del fragmentum 60: F.F.I.M.D.I., «FIORIR FA-
CEVA IL MIO DEBOLE INGEGNO» (fig. 49).
L’espressione simbolica conservata nel manoscritto di Bal-
timore coglie il motto dal sonetto 41, primo momento di una
sequenza di fragmenta incentrata sulla coincidenza fra la lonta-
nanza di Laura e l’avvento del maltempo. Si tratta infatti di tre
sonetti che rivelano più di un legame stilistico-tematico col
componimento 60, e che – come ci conferma anche la dispo-
sizione materiale nei codici Vat. Lat. 3195 (ad aprire la c. 10r)
e 3196 (ad occupare la c. 8r) –, «formano un insieme talmente
unitario e coeso – e senza alcun rapporto con i componimen-
ti che lo precedono – da costituire [...] un momento forte di

167 Il Codice Orsini-Da Costa delle Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca integral-
mente riprodotto in fotoincisione e tricromia con ventisette miniature e otto tavole aureo-purpu-
ree più tre facsimili dei codici Vaticani 3195, 3196, 3197, a cura di DOMENICO CIAMPOLI,
Roma, Danesi, 1904. Per una puntuale ricostruzione della vicenda editoriale, nonché
una precisa descrizione del codice newyorkese, si ricorra a GEMMA GUERRINI, Fatti e
misfatti su un manoscritto dei Trionfi (New York, Morgan Library, ms. M.427), «Scrineum.
Saggi e materiali on line di scienze del documento e del libro medievale»,VII (2010),
accessibile al sito internet http://scrineum.unipv.it/rivista/7-2010/guerrini.pdf (url
consultato il 27 aprile 2012).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 49. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427,


Rime e Trionfi di Francesco Petrarca.

demarcazione nell’ordito testuale del Canzoniere».168 La logi-


ca narrativa del discorso poetico sviluppato nello spazio dei tre
testi presenta l’alternarsi di differenti condizioni atmosferiche
come rappresentazione simbolica di un unico, armonioso, mo-
vimento emotivo tra sentimenti contrastanti; e tale logica nar-
rativa si concretizza in precise strategie retoriche e metrico-sti-
listiche, vòlte a saldare i tre blocchi testuali in un flusso narra-
tivo omogeneo. La coerenza testuale è rafforzata dal ricorso dei
tre fragmenta al medesimo schema rimico, presentato però in
sequenza alternativamente invertita, a confermare l’andamen-
to contenutistico-tonale del racconto. L’oscuramento emotivo
dei sonetti in cui Laura non è visibile (41 e 43) viene infatti
ribaltato specularmente – proprio come la sequenza rimica –
nel rinnovamento primaverile dei sensi illustrato nel fragmen-
tum mediano (42). La percezione di un naturale continuum nar-
rativo è inoltre alimentata da un impiego dell’enjambement non
rinvenibile con analoga frequenza in altri cicli di sonetti (in

168 FURIO BRUGNOLO, Il «Desio che seco non s’accorda»: sintonie, rispecchiamenti e
fraintendimenti (RVF 41-50), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 115-
140, cit. a p. 130. Sulla connessione tra i quattro fragmenta insiste anche ROSANNA BET-
TARINI, Esperienze d’un commentatore petrarchesco, in Il commento ai testi. Atti del Semina-
rio di Ascona (2-9 ottobre 1989), a cura di OTTAVIO BESOMI e CARLO CARUSO, Ba-
sel, Birkhäuser Verlag, 1992, pp. 235-263, in part. pp. 237-244.

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

RVF 41 ai versi 1, 10, 12, 13; in 42 ai vv. 1, 3, 7; in 43 ai vv. 1,


3, 5, 10), nonché dalla ripresa elaborata di parole-rima da un
testo all’altro. Si noti soprattutto la rima interna viso:riso che le-
ga, nell’immagine dell’oggetto primo del desiderio, explicit e
incipit dei primi due fragmenta (suggerendo peraltro anche un
parallelismo tra le tre terzine conclusive, tra il bel viso di 41, 14,
il bel viso di 42, 13, e il viso laudato di 43, 10). Il secondo e il
terzo sonetto sono invece interconnessi attraverso i sospiri di
43, 4 che, anche per posizione nel verso, fanno da controcan-
to sinonimico alle lagrime di 42, 14. Ma strategie analoghe ven-
gono impiegate anche per sottolineare la connessione deriva-
tiva rimove:move:commove tra le tre quartine iniziali, e quella al-
trove:ove tra 41, 8 e 43, 5; connessione che denuncia il medesi-
mo sforzo di visione, prima efficace (il sole vede dove è «la sua
cara amica»), poi vano (neppure nel vagheggiamento di una
lontananza il sole riesce a relativizzare il dolore di un’assenza).
È poi da registrare la liaison rimica che lega nome ed epiteto
(Vulcano:fabbro ciciliano); e la rima identica relativa all’avverbio
lontano (41, 7 e 43, 6); o quella equivoca tra le tre terzine con-
clusive, costruita sull’eclettico uso grammaticale del termine
parte (rispettivamente verbo, sostantivo, avverbio). Tutte le sim-
metrie e contorsioni sintattiche, le tessiture fonico-rimiche, le
architetture della sintassi qui evidenziate, presiedono a una col-
locazione artificiosa delle unità linguistiche all’interno del cor-
po del messaggio, a un posizionamento degli elementi misura-
bili del testo che rende percepibile una configurazione anche
iconica del materiale verbale disteso in scrittura. In questo spe-
cifico caso, l’estenuata forma a spirale di un pensiero ossessivo.
La strutturazione del trittico è perseguita anche attraverso una
scelta dei tempi verbali che lega i primi due fragmenta e oppone
a questi il terzo. In 41 e 42 vi è l’uso esclusivo di un presente in-
dicativo che accompagna il resoconto di una serie di eventi or-
mai cristallizzatisi nel tempo (nell’eterno presente della narrazio-
ne), di una serie cronologica organizzata però come sequenza di
due periodi principali attraverso i due indicatori temporali op-
posti in incipit (Quando, Ma poi). Di contro, il sonetto 43 vede l’al-
ternarsi di passati prossimi, passati remoti, imperfetti, a riassume-
re invece alcune puntuali, esiziali azioni di un tempo non più re-
cuperabile. La ricercata sequenzialità narrativa tra i componi-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

menti non oscura però, anzi esalta, le opposizioni fra essi rinve-
nibili, a illustrare un preciso articolarsi della vicenda intorno a
una difficoltosa esperienza di visione. Quando Febo «ved’altrove»
vòlta «la sua cara amica», lascia la terra, il mare e tutti «noi» in balìa
dell’«aspre saette» di Giove e del «turbato» di Eolo. Non appena
però Laura sembra concedere «sue bellezze nove» al «bel guardo
d’Apollo», ogni elemento «par» rasserenarsi. Si tratta invece del
rinnovarsi di un’illusione, e il vano guardare del «figliuol di La-
tona» (che «avea già nove | volte guardato dal balcon sovrano», e
«cercando stanco» «non vide il viso») sfuma nuovamente in un
oscuramento cosmico («però l’aere ritenne il primo stato»). Per
evidenziare, contrastivamente, le peculiarità dell’espressione em-
blematica di Baltimore, possiamo prima mostrare come il com-
mento visivo dell’incunabolo queriniano G.V.15 scandisca con
precisione i momenti della narrazione.
A fianco del primo sonetto, sul margine esterno della carta, si
distende un’illustrazione che nel registro superiore mostra le con-
seguenze meteorologiche dell’assenza di Laura («or tona, or nevi-
ca e or piove») e, in quello inferiore,Vulcano che forgia le saette
infuocate di Giove. Nella continuazione del margine abbiamo la
traduzione visiva dei principali attori del fragmentum 42, ossia
Apollo-sole, Laura e il poeta-agens (raffigurato simbolicamente
come un libro rosso colpito da una freccia e abitato da un ser-
pente). Sul margine esterno della carta successiva, in perfetta cor-
rispondenza col blocco testuale del terzo componimento, l’ultima
illustrazione sintetizza l’esito della vicenda attraverso le immagini
dell’oscuramento del sole e del ritorno del maltempo che afflig-
ge il lauro (fig. 50). Comune ai tre quadri è un dettaglio iconico:
una finestra, che in due illustrazioni ospita Laura còlta a mezzo-
busto prima di profilo e poi frontalmente, e che nella terza resta
inesorabilmente vuota.169 Bucando prospetticamente la bidimen-

169 Anche la postilla di Grifo che accompagna l’illustrazione di RVF 41 ricor-


da esplicitamente questo dettaglio, interpretando la situazione non attraverso la con-
tingenza storica (l’allontanamento di Laura da Avignone) ma nei termini assoluti di
una sottrazione alla vista: «Quando Madonna Laura si partiva dala finestra, vol l’auc-
tor che il cielo ne mostri segno de esser irato, fulminando etc.» (GIUSEPPE FRASSO,
Antonio Grifo postillatore dell’Incunabolo Queriniano G V 15, in FRASSO, MARIANI CA-
NOVA, SANDAL, Illustrazione libraria, filologia e esegesi petrarchesca tra Quattrocento e Cin-
quecento, cit., p. 97, corsivo mio; ma cfr. anche le postille a RVF 86 e 323). Si dispie-

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

Fig. 50. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, cc. 18v-19r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

sionalità dell’illustrazione, la finestra è la visualizzazione di un se-


condo livello della pagina, un’efficace rappresentazione dello sfor-
zo ermeneutico compiuto dal commento visivo e testuale di
Grifo per indagare in profondità la poesia petrarchesca. Allo stes-
so tempo, la finestra si offre anche come rappresentazione di un
secondo piano dell’immagine, parallelo ma intrecciato a quello
che raffigura gli eventi narrati nel testo. Nel dettaglio di profon-
dità vi è la causa che genera l’effetto rappresentato in superficie.
Oggetti del riquadro saranno pertanto, nell’ordine:

ga qui peraltro una strategia illustrativa che caratterizza l’intera operazione cultura-
le di Grifo; cfr. a proposito GIOVANNA ZAGANELLI, Dal ‘Canzoniere’ del Petrarca al
Canzoniere di Antonio Grifo: percorsi metatestuali, Perugia, Guerra, 2000, p. 27: «Segna-
li di narrazione, in questo senso, sono presenti (o piuttosto individuabili) anche nel
flusso di continuità che il Grifo riesce a creare tra i componimenti, strutturando una
sorta di rete intertestuale attraverso procedimenti di diverso tipo: mediante la ripe-
tizione di elementi iconici significativi (i quali rinforzano i motivi tematici) e il lo-
ro posizionamento in luoghi testuali strategici. Ad esempio alla fine di un compo-
nimento e all’inizio del successivo, quasi a eliminare lo spazio bianco tra un com-
ponimento e l’altro; o ancora lateralmente, di fianco ai versi con il risultato di crea-
re (ciò accade frequentemente) una linea in cui l’occhio possa scorrere orizzontal-
mente passando dalla illustrazione al componimento in maniera quasi “naturalmen-
te” automatica».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

1) una Laura che volge le spalle al sole-Febo (posto sullo


stesso asse orizzontale e rispetto a cui, perpendicolarmente, si
dispiega il piano verticale degli eventi meteorologici indotti);
2) un’immagine di Laura che il sole-Febo può finalmente mi-
rare, immagine che, come specchio, riflette sull’amante i benefi-
ci effetti del tempo sereno: si noti infatti come la contiguità tra
la finestra e la personificazione del vento «del lito occidental»
(probabile allusione al concettismo Laura-l’aura) crei quasi l’illu-
sione di un movimento riflesso, di una continuità grafica tra i
raggi del sole che investono Laura e il fascio di fiori diretto ver-
so l’amante-libro, questa volta eccezionalmente aperto;170
3) un fondale nero, vuoto e impenetrabile.
I tre riquadri sembrano peraltro fra loro differenti; o me-
glio, il primo si configura a tutti gli effetti come una finestra
entro cui il profilo di Laura si staglia su uno sfondo naturalisti-
co; mentre per i fragmenta 42-43 abbiamo qualcosa di più si-
mile alla cornice di un quadro.171 Le due tipologie di inqua-
dramento si rinvengono anche nelle illustrazioni di altri frag-
menta. A margine del sonetto 140 (c. 61v) l’immagine di Lau-
ra, che si affaccia da una finestra (o un quadro) con sfondo scu-
ro, reifica probabilmente la reazione di «Quella ch’amare e sof-
ferir ne ’nsegna» (v. 5) di fronte all’audacia dell’amante nell’o-
stentare la propria passione (vv. 1-4). Una finestra vera e pro-
pria – che lascia intravvedere il paesaggio e che reca sul da-
vanzale un vaso con un ramo di lauro – ricorre invece ben tre
volte nello spazio delle contigue cc. 117v-118r ad accompa-
gnare i fragmenta 329, 330, 331.Tale formula iconografica ritrae

170 Lo stesso movimento si riscontra anche sul margine di carta 37v – a com-
mento visivo di RVF 86 (Io avrò sempre in odio la fenestra) – dove però il libro aperto è
bersagliato da una pioggia di frecce provenienti da una finestra con sfondo scuro (coe-
rente con la tonalità ‘negativa’ del sonetto illustrato).
171 Cfr. a questo proposito PHILIPPE HAMON, La letteratura, la linea, il punto, il pia-
no, in Cultura visuale. Paradigmi a confronto, a cura di ROBERTA COGLITORE, Palermo,
duepuntiedizioni, 2008, pp. 63-80, in part. p. 70: «L’inquadratura e la geometrizzazio-
ne di ciò che è inquadrato polarizzano e attirano l’attenzione del lettore sull’oggetto
descritto, creano un effetto di composizione logica (a beneficio dell’autore e della sua
padronanza dei sistemi descrittivi), mettono in rilievo il soggetto della visione (il per-
sonaggio che la prende in carico) come origine e mezzo di questa visione, attraverso
il lessico della geometria fanno riferimento indiretto alla pittura (plus-valore supple-
mentare) e organizzano, distribuendolo razionalmente, il reale rappresentato».

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

Laura come un’assenza che ormai si concede solo sublimata in


forma di ricordo agli occhi pieni di rammarico del poeta. Fi-
nestra e quadro coesistono infine nel commento visivo al so-
netto 100 (fig. 51), dove un’icona di Laura (molto simile a

Fig. 51. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 41r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

quella che in Grifo accompagna RVF 42) è posta esattamente


a metà fra l’illustrazione delle due finestre evocate nella prime
strofe, quella che contiene i due soli (identificata nell’incuna-
bolo da un ramo verde di lauro che si staglia dal solito paesag-
gio naturale) e quella che ne patisce la mancanza (il ramo è
secco ed emerge da un fondale scuro).172 Lo statuto memoria-
le di questo fragmentum173 pare dunque esser stato còlto da
Grifo che, seguendo Petrarca nella sua quête visiva di Laura, al-
le opzioni della constatazione di un’assenza reale e della per-
cezione di una mancanza simbolica sembra affiancare anche

172 Cfr. GIORGIO BERTONE, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura oc-
cidentale, Novara, Interlinea, 2000, p. 140, n. 9: «Quanto alla finestra, essa poi acquista
pure valore autonomo: non più metafora degli occhi [...] , ma strumento essenziale per
guardare il mondo o per incorniciare, alla moderna, il ritratto di Madonna. Insomma
conquista di un criterio di divisione per cui la cornice riquadrata è parametro spazia-
le, ottico: e simbolo».
173 Esemplarmente indagato e illustrato in SABRINA STROPPA, Composizione di
luogo con donna che pensa. Lettura di Rvf 100, «Per leggere», VIII (2008), 14, pp. 5-24.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

quella della meditazione sul ritratto mentale, sull’imago mne-


monica.174 Ritornando allora all’illustrazione del trittico 41-
43, la distinzione che caratterizza il dispositivo scopico della
cornice (finestra o quadro) potrebbe forse implicare anche la
segnalazione del diverso statuto dell’oggetto rappresentato. Ad
una Laura in carne ed ossa che vediamo allontanarsi (o co-
munque negare lo sguardo agli spasimanti), si sostituirebbe in-
fatti un’icona (mentale più che reale) di Laura, un feticcio me-
moriale della sua presenza effettiva, e al contempo l’espressio-
ne del desiderio che nasce dalla sua assenza. Quasi che il com-
mento visivo dell’incunabolo voglia imputare l’oscillazione to-
nale riferita dai tre fragmenta non tanto a un reale ritorno del-
l’amata ma solo a un suo vagheggiamento interiore, momen-
taneamente raggiunto dall’amante attraverso il potere immagi-
nifico della poesia.
Nell’emblema del codice statunitense la vicenda, coi suoi
tempi e i suoi spazi, si contrae drasticamente; e la traduzione
visiva del dettato poetico si concentra invece sul dettaglio del
lauro evitato dai fulmini. Il dettaglio che meglio consente di
percepire la moralità sottesa all’espressione simbolica. L’unico
dettaglio in grado di raffigurare simultaneamente l’identità dei
tre protagonisti della situazione lirica: ovviamente Laura (l’og-
getto del desiderio), ma anche Febo (che in ragione del mito
dafneo qui si fa più che mai controfigura dell’io lirico, del sog-
getto desiderante), e soprattutto Petrarca laureatus Poëta (il sog-
getto narrante). Ad un’illustrazione fedele del percorso narra-
tivo che si dispiega nei tre sonetti viene dunque preferita nel-
l’emblema di Baltimore la focalizzazione di un solo (ma fon-
damentale) elemento della vicenda, di un suo significativo

174 La logica rappresentativa che presiede questo sistema simbolico è spiegata, per
quanto concerne il dettato petrarchesco, in STEFANO AGOSTI, Gli occhi le chiome. Per
una lettura psicoanalitica del Canzoniere di Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 12: «[...] la
rappresentazione della finestra vuota, in quanto elemento “vuoto” che si oppone a tut-
ti gli altri pieni del testo, corrisponde semplicemente alla designazione della mancan-
za simbolica, della mancanza allo stato puro. In altre parole, è la casella vuota (diciamo,
il jolly del mazzo di carte) che, in quanto tale e solo in quanto tale, può liberare i pro-
cessi di sostituzione di cui danno atto tutte le altre caselle. È il termine a quo che con-
sente la produzione di rappresentazioni che con la realtà esterna non hanno niente a
che fare, ma che hanno tutto a che fare con la realtà interna: la sola realtà del Sogget-
to, che condiziona l’altra e vi imprime il suo marchio, la sola realtà del Canzoniere».

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L’ALBOR CH’AMÒ GIÀ PHEBO IN CORPO HUMANO

frammento. Tale scelta rappresentativa da una parte svincola il


portato morale del concettismo arboreo dalla contingenza del-
la storia petrarchesca (ne fa dunque un indirizzo di vita uni-
versalmente valido); e dall’altro lo àncora a una precisa memo-
ria testuale per circoscriverne l’elettivo ambito d’applicazione
alla sfera erotica e alle sue dinamiche. Ma tale ancoraggio non
è neutro. Porta con sé il ricordo di tutti i fatti narrati nel trit-
tico, di tutte le reazioni emotive indotte da tali eventi, di tutte
le elaborazioni intellettive di tali reazioni. E soprattutto porta
con sé, anzi, mette in scena quel “desiderio di vedere ciò che
si sottrae alla vista” che costituisce non solo il nucleo concet-
tuale della specifica sequenza di fragmenta, ma anche il destino
generale della figura dell’amante nella lirica petrarchesca e pe-
trarchista. Differentemente da quanto accade nell’incunabolo
queriniano, a esser tradotti visivamente non sono però i pre-
supposti e gli effetti di questa tensione vitale, le sue dinamiche
attuative (la “cornice”), quanto piuttosto il suo stesso oggetto
e fine (il “lauro”); quell’oggetto verso cui si orienta invano lo
sguardo dei vari soggetti attivi nel trittico («Febo», «noi», «io»);
quel centro invisibile intorno a cui si avvita il tempo (anche
meteorologico) della narrazione; quell’immagine del “lauro
evitato dai fulmini” che dà corpo a un’assenza, raffigura una
condizione indifferente al tempo (e alle logiche di un suo rac-
conto), e rappresenta una risposta alla drammatica interrogazio-
ne che si distende lungo lo spazio di 42 versi: dov’è Laura?175
L’immagine emblematica non illustra dunque una storia. Piut-
tosto la legge, suggerendo di rimbalzo ipotesi che accrescono
il significato del suo messaggio.

175 Cfr. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca, cit., p. 117: «Una delle più
istruttive nozioni che risultano dall’esame di queste varianti è che nel mondo poeti-
co petrarchesco non è Laura ad adattarsi passivamente alle diverse figure simboliche
nel processo inventivo, anche se nel prodotto finale esse corrispondono ad incarna-
zioni; il processo inventivo mostra che quel complesso di idee, sentimenti e immagi-
ni che è Laura infonde i suoi singoli caratteri reali alla fenice, al lauro, etc. dando loro
progressivamente forma e vita, ed evitando sempre l’espediente semplificatorio della
applicazione esornativa».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 14

14. De sue bellezze e de mie spoglie altera

Col quattordicesimo emblema della raccolta si ritorna alla


micro-serie trionfale, ed è il v. 123 del terzo Triumphus Cupi-
dinis («di sue vertuti e di mie spoglie altera» presentato nella
variante «De sue bellezze et de mie spoglie altera») ad esser let-
to figurativamente secondo un’interpretazione piuttosto diffu-
sa nei commenti petrarcheschi del Cinquecento. Così, ad
esempio, illustra il passo Giovanni Andrea Gesualdo:

E per sua pena vede quella leggiadra e FIERA, e


crudele ver lui, Madonna Laura intendendo: perché a
gli amanti ogni atto di castità pare fierezza, perciò che
temono di non essere amati come essi disiano. NON
curando di lui, qualunque egli si sia, che certo era de-
gno d’essere amato, né di sue pene, che lei amando
portava. ALTIERA, e superba di sua virtute, colla qua-
le in lui et amor vinceva, e di sue spoglie, ciò è d’a-
verlo vinto, e di triompharne. Da l’altra parte, il che
era più suo cordoglio, s’egli discerne ben, QUESTO Si-
gnore Amore dimostrando, il quale sforza tutto, TEME

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DE SUE BELLEZZE E DE MIE SPOGLIE ALTERA

di lei veggendola di tanta virtute armata, sì che non


ebbe ardire di mostrarle pur l’arco. ONDE perché te-
me amore, egli è fuor di speranza, né spera conse-
guirne il suo disio, o difendendosene che poteva fare
egli, temendo il suo signore? sì come s’è detto nel So-
netto Amor che nel pensier mio vivo e regna.176

Come nel caso del primo emblema della raccolta, l’espres-


sione simbolica intende visualizzare tanto l’onnipotenza quanto
la superbia dell’amata, che ostenta orgogliosamente i trofei del-
la propria caccia amorosa, appendendo al tronco di un albero le
vesti, lo scudo, le armi del dio dell’amore (o dello stesso aman-
te) e calpestandone l’armatura (tav. 14).177 Si è già avuto modo
di notare che il giro di terzine da 121 a 137 di TC III si predi-
spone particolarmente per una traduzione emblematico-impre-
sistica in ragione dell’esplicita spendibilità moralistica che detie-
ne il motivo del dominio di Laura su Cupido. Dominio leggi-
bile sia come avvertimento all’estremo spossessamento di sé cui
può condurre la lussuria, sia come testimonianza della possibilità
di vincere la passione amorosa attraverso la pudicizia.
La predisposizione moralistica di questo passaggio trion-
fale ci viene confermata anche da un altro interessante docu-
mento che propone traduzioni simboliche (nello specifico,
impresistiche) del dettato poetico petrarchesco. Si tratta del
manoscritto delle Cento Imprese di Francesco Cuomo conser-
vato presso la Rare Book Room della University of Illinois
Library di Urbana-Champaign.178 Ricorrendo a motti de-
sunti, in pari misura, da Virgilio e da Petrarca, tutte le cento
imprese raffigurano con minimi scarti (e talora alcune ripeti-

176 Il Petrarcha con la spositione di M. Giovanni Andrea Gesualdo, Venezia, Giglio,


1533, p. 583.
177 Questa è la didascalia di commento che accompagna l’emblema: «Costui ap-
plaude a la sua innamorata con dirgli ch’ella va superba de le sue spoglie e de la bel-
lezza immortale che è in lei; e servesi del sopra scritto verso del Petrarca». Sull’icono-
grafia dello scudo appeso a un albero o tronco arboreo si veda il commento di Mino
Gabriele al primo emblema di Alciato (ALCIATO, Il libro degli Emblemi secondo le edizioni
del 1531 e del 1534, cit., embl. 1, pp. 24-25).
178 Una descrizione del codice si trova in THOMAS MCGEARY, Manuscript Em-
blem Books at the University of Illinois, «Emblematica», II (1987), 2, pp. 357-370, in part.
pp. 360-366.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

zioni) un cipresso piegato e abbattuto dai venti; e in tal mo-


do celebrano un evento registratosi realmente a Lecce il 2
marzo 1615 nel giardino di Vittorio Priuli. Il motivo-guida
di questa esercitazione barocca sul principio di variazione al-
lude ovviamente alle elaborazioni concettistiche di Petrarca
intorno al sublime valore del lauro e alla sua paradossale mor-
te, in particolare il lungo racconto di Buc. Carm. X, il frag-
mentum 318 e la terza strofa della canzone delle visioni (con
le memorie poetiche classiche che trasmettono, e le tradu-
zioni visive che ispirano.179 E col suo ripetuto, ossessivo
sguardo su tale motivo strutturale del Canzoniere, Francesco
Cuomo ci testimonia forse un preciso punto di vista sulla
scrittura petrarchesca. Il lauro è infatti uno dei dettagli, dei
frammenti, attraverso cui si può costruire una rappresenta-
zione di Laura, un simulacro dell’amata vagheggiabile nella
memoria e continuamente rielaborabile nel senso e nelle
funzioni.180 Proprio nella sua impossibilità a divenire ritratto
fedele, realistico, completo, e soprattutto unitario, questa rap-

179 Per il nostro specifico caso, tra le prime andrà sicuramente ricordato ORA-
ZIO, Carmina IV, 6, 9-11 («Ille, mordaci velut icta ferro | pinus aut impulsa cupres-
sus Euro, | procidit late [...]»), e tra le seconde almeno quelle rinvenibili nel codice
ginevrino Bodmer 130 (f. 107v) e nel berlinese Phillips 1926 (f. 21r, quest’ultimo
riprodotto nella fig. 52). A queste possiamo poi accostare anche l’impresa di «un ar-
bore di pino percosso, e spezzato dal fulmine» ricordata da Girolamo Ruscelli nel
quadro proprio di un discorso simbolico di tema amoroso e di memoria petrarche-
sca: «Onde si può congetturare che ritrovandosi lui forse altamente ingannato di
qualche sua principale speranza dalla sua Donna, riducesse con molta leggiadria a
forma d’impresa quello del Petrarca, Allor che fulminato e morto giacque | Il mio sperar,
che troppo alto montava. Ma perché poi non potendosi rimaner di farle servitù, par che
gli fusse detto da lei che egli male si ricordava della sentenza del divino Ariosto, Che
l’amar senza speme è sogno, e ciancia. Et che essendo del tutto morta la speranza in lui,
se gli conveniva d’uccider parimente il desiderio, egli in un tempo levò quest’altre
due vaghissime imprese [...]» (RUSCELLI, Le imprese illustri, cit., p. 454). Sull’interfe-
renza fra questi tre testi di Petrarca, còlta nel quadro complessivo della poetica pe-
trarchesca (e del suo inesauto dialogo umanistico coi classici), si ricorra a: MICHELE
FEO, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del
Convegno di studi nel VI Centenario (1370-1374), a cura di GIUSEPPE BILLANOVI-
CH e GIUSEPPE FRASSO, Padova, Antenore, 1975, pp. 117-148; e (anche per una ras-
segna della bibliografia critica) a MICHELANGELO PICONE, Morte e temporanea rinasci-
ta dei miti dell’eros (RVF 321-30), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp.
701-723, in part. pp. 714-716. Sul fragmentum 318 si veda, nello specifico, ANTONIO
DANIELE, Lettura del sonetto petrarchesco «Al cader d’una pianta che si svelse», «Revue des
études italiennes», XXIX (1983), pp. 42-57.

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DE SUE BELLEZZE E DE MIE SPOGLIE ALTERA

Fig. 52. Berlin, Deutsche Staatsbibliothek, ms. Phillips 1926,


Six visions messire François Petracque.

presentazione di Laura si lascia fruire solo come collezione e


collazione di dettagli.181 L’assenza di un’immagine intera, in-
tegra ed esaustiva di Laura è anche rappresentazione formale
della sua mancata conquista da parte dell’amante-poeta, del
suo statuto di oggetto del desiderio. Inoltre, questa sua natu-
ra rappresentativa frammentaria, artificiosa, ci presenta Laura
essenzialmente come il prodotto dello sguardo del poeta, co-
me un oggetto di visione.

180 Cfr. SARA STURM-MADDOX, Petrarch’s Metamorphoses. Text and subtext in the
Rime sparse, Columbia, University of Missouri Press, 1985, p. 35: «If Laura dies, the
laurel of course remains; as it had been an eternal remainder of Apollo’s love for the
transformed nymph Daphne, so it continually recalls the Italian poet’s lost Laura. But
it acquires a new function. As a symbol in Petrarch’s classical source of poetic fame, it
receives in part 2 of the Rime a moralizing Christian interpretation that owes less to
Ovid than to his later commentators. In his allegorical transformation of the pagan
laurel into a Christian symbol of virtue, Petrarch followed the precedent of a rich me-
dieval exegetical tradition, of a proliferation of glosses, the story of a Daphne’s flight
from Apollo was a favored text, and prominent among the multiple interpretations of
her transformation into the laurel was that of exemplarity chastity: the laurel signifies
virginity in that it is ever live and redolent [...]».
181 Cfr. STURM-MADDOX, Petrarch’s Laurel, cit., pp. 25-26. Ma si vedano anche
GIUSEPPE MAZZOTTA, The “Canzoniere” and the Language of the Self, «Studies in Philo-
logy», LXXV (1978), pp. 271-296, e NANCY VICKERS, Scattered Woman and Scattered
Rhyme, «Critical Inquiry», VIII (1981), 2, pp. 265-279.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tra le cinquanta imprese di pertinenza petrarchesca del


manoscritto di Cuomo, 41 motti sono tratti dai Fragmenta (19
dalla sezione ‘in vita’ e 22 da quella ‘in morte’) e 9 dai
Triumphi (nello specifico, due da TC II, due da TC III, uno da
TF I, TM I, TM II e TT). I versi che fungono da motto del-
le due elaborazioni impresistiche di TC III sono stati còlti
proprio dall’area evidenziata anche dagli emblemi di Balti-
more. Si tratta dei versi 127 «Che a mia difesa ardir non ho,
né forza» (impresa 40), e 129 «Che me, e gli altri crudelmen-
te scorza» (impresa 14). Non si può escludere che la comune
appartenenza dei due versi alla medesima terzina, e quindi il
legame rimico che li lega, possa (o addirittura intenda) con-
sentire dei richiami mnemonici (e, soprattutto, delle associa-
zioni logiche) anche tra i corpi simbolici che li hanno adotta-
ti come anima. Lette nella prospettiva sintagmatica suggerita
dalla fonte comune, le due imprese transcodificano con pre-
cisione il testo di Petrarca e divengono a tutti gli effetti i fo-
togrammi essenziali della breve sequenza narrativa illustrata,
le istantanee dei due nuclei concettuali lì disposti quasi in re-
lazione di causa-effetto. La logica tra i concetti verbali viene
radicalizzata nelle due immmagini. Il cipresso che nell’im-
presa 40, flettendosi, cerca invano di opporre resistenza alla
furia del vento (delle passioni) offre infatti un’efficace rap-
presentazione di quel deficit di forza e coraggio che – di fron-
te all’onnipotenza di madonna e dopo aver constatato la ca-
pitolazione di Cupido – il protagonista del cammino trion-
fale ammette con piena disillusione (fig. 53). Non diversa-
mente, nell’impresa 14, il cipresso completamente abbattuto
e smembrato in vari tronchi costituisce il fedele correlativo
visivo dell’atto descritto al v. 129, ossia di quei violenti feri-
menti e scorticamenti che Cupido infligge agli amanti (in un
certo senso, vendicando su di essi la frustrazione per gli ste-
rili attacchi rivolti contro Laura (fig. 54). Ovviamente una
lettura condotta a partire dalla fonte testuale di entrambe le
imprese non è rispettosa dell’eventuale valore semantico e/o
narrativo della raccolta di Cuomo, dal momento che le di-
spone fra loro distanti e in ordine invertito rispetto ai versi
della terzina trionfale. Nonostante ciò, resta una lettura plau-
sibile, e le ricadute di senso che segnala debbono essere fatte

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DE SUE BELLEZZE E DE MIE SPOGLIE ALTERA

Fig. 53. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare Book Room,


Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella caduta del Cipresso, c. 40.

Fig. 54. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare Book Room,


Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella caduta del Cipresso, c. 14.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

dialogare con quelle di qualsiasi altra interpretazione delle


due espressioni simboliche, della più complessa silloge che li
ospita, e dei testi che, in parte, li generano.
A questo proposito, e con un occhio rivolto anche all’em-
blema di Baltimore, possiamo rinvenire nel predicato «scorza»
il termine chiave del motto dell’impresa 14: quello che funge
da nesso mnemonico (perché rimico) con l’impresa 40; quello
che sembra sovrapporre soggetto e oggetto del desiderio in
nome di un analogo figurante vegetale; e quello che getta un
ponte tra il racconto trionfale e il romanzo lirico di Petrarca.
«Scorza» è infatti hapax tanto nel poema trionfale (TC III, 129)
quanto nel romanzo lirico. In RVF 278, 7, il termine rima –
come in TC – con i termini sforza e forza, e in più con se stes-
so, equivocando tra sostantivo («terrena scorza») e voce verba-
le («non scorza»). È probabilmente un caso, ma anche questo
sonetto presta un verso (l’incipit «Ne l’età sua più bella e più
fiorita») a una delle Cento imprese di Cuomo, la 20 (fig. 55). E
nell’incunabolo queriniano G.V.15 l’avvenuta liberazione di
Laura dal carcere terreno viene visualizzata attraverso l’assun-
zione in cielo del suo elettivo figurante vegetale: un mazzo di
foglie verdi di alloro si staglia infatti alto nel cielo (fig. 56). Ma
quel che più ci interessa è che il fragmentum propone lo stesso
triangolo relazionale e gli stessi rapporti di forza descritti nel
brano trionfale. Nel pieno dell’età giovanile l’anima di Laura
ha abbandonato la propria «terrena scorza» e lasciato solo l’a-
mante. Così facendo, ha trionfato su «Amor», lo ha umiliato
proprio nel momento della vita in cui egli sembra poter eser-
citare «in noi più forza»; ‘in noi’, cioè ‘nel poeta e nella sua ani-
ma’ (per chi legge il sonetto), ma anche ‘nel poeta e in tutti co-
loro che ne condividono la condizione’ (per chi legge il so-
netto attraverso una sua elaborazione simbolica). «Viva e bella
e nuda», perché libera dal corpus carcer e assunta al «ciel», l’ama-
ta «signoreggia» e «sforza» Petrarca, invitandolo ad abbandona-
re la «grave salma», e a risolvere drasticamente ogni residuo in-
dugio con la risposta a un’ultima, esiziale domanda: «Deh per-
ché me del mio mortal non scorza | l’ultimo dì, ch’è primo a
l’altra vita?» (vv. 7-8).
Il distico interrogativo potrebbe campeggiare come motto
di una qualsiasi delle forme simboliche citate nella nostra ana-

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DE SUE BELLEZZE E DE MIE SPOGLIE ALTERA

Fig. 55. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare Book Room,


Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella caduta del Cipresso, c. 20.

Fig. 56. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 102v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

lisi, dal momento che nel suo dialogo con TC III, 129 propo-
ne la determinante correzione, il radicale cambio di prospetti-
va, rispetto all’immagine lì delineata. L’amante potrà finalmen-
te congiungersi all’oggetto del proprio desiderio solo se accet-
terà di sostituire l’intermediario del loro rapporto, solo se allo
scorticamento doloroso ma sterile di Amore preferirà lo scor-
poramento definitivo realizzato dal giorno ultimo e primo. E
ciò vale per il protagonista dei Triumphi (o per l’agens del Can-
zoniere), così come per tutti quegli «altri», già peraltro con-
templati dallo stesso Petrarca, che costituiscono i fruitori po-
tenziali di ogni elaborazione simbolica e moralistica della poe-
sia petrarchesca. Sotto questo differente punto di vista potreb-
be acquistare senso anche la dispositio del dittico impresistico di
Cuomo che inverte l’ordine dei versi trionfali. Solo lo svuota-
mento del corpo vegetale, il suo totale smembramento terre-
no (impresa 14), può infatti preluderne una rinascita spiritua-
le e consentirgli con rinnovato vigore di opporre i pur preca-
ri «ardir» e «forza» alla violenza delle passioni (impresa 40).
Ma è all’interpretazione del significato dell’emblema di
Baltimore che l’effettuata (e arbitraria) connessione tra TC III
127-129, RVF 278 e Cento imprese sembra inaspettatamente of-
frire un importante sostegno. E lo fa, una volta ampliato di
un’altra unità il lotto dei propri componenti. L’ascensione di
Laura è infatti ricordata, con pieno dispiegamento del sottote-
sto evangelico, anche nel sonetto 301. Solo per inciso, una cu-
riosità, anzi due. Al margine di questo fragmentum l’incunabo-
lo queriniano illustra l’avvenuta liberazione di Laura dal carce-
re terreno attraverso la scissione tra le componenti del suo
elettivo figurante vegetale: una pianta secca di alloro fa infatti
compagnia all’amante-libro in terra, mentre in cielo si staglia il
solito mazzo di foglie verdi (fig. 57). Il verso 8 «Ove Amor per
usanza ancor mi mena», icastica sintesi dell’intero testo, è inve-
ce adottato da Cuomo come motto dell’impresa 18 (fig. 58).
Ma torniamo al dettato petrarchesco. In questo sonetto di ri-
membranza Petrarca ripercorre con la mente tutti luoghi abi-
tualmente visitati dall’amata, riconoscendo in essi le vive trac-
ce della sua passata presenza («l’usate forme») e confrontando
queste tracce col doloroso svuotamento indotto in lui dalla di-
partita della donna. La sua esistenza – simile a quella di un con-

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DE SUE BELLEZZE E DE MIE SPOGLIE ALTERA

Fig. 57. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 108r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

Fig. 58. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare Book Room,


Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella caduta del Cipresso, c. 18.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

tenitore vuoto, di un «albergo d’infinita doglia» – è resa più


amara proprio dal fatto che, seppur assente in corpo, Laura abi-
ta ancora questi luoghi in spirito; e differentemente dall’esito
del vano cercare dentro di sé – o dell’amara conoscenza di-
chiarata in TC III, 160-161: «so de la mia nemica cercar l’or-
me | e temer di trovarla [...]» – è proprio seguendo «queste or-
me» che egli riesce di nuovo a «vedere ond’al ciel nuda è gita,
| lasciando in terra la sua bella spoglia» (vv. 13-14). L’explicit
potrebbe essere sostituito, senza sostanziale perdita di senso,
dalla «terrena scorza» di RVF 278, 3.
Se dopo questo girovagare tra testi e immagini torniamo al
quattordicesimo emblema di Baltimore, possiamo almeno por-
ci alcune domande, credo, non troppo peregrine sul significa-
to dell’espressione simbolica còlta in sé e/o affiancata alle altre
del micro-ciclo trionfale. Le arma Amoris («spoglie») che la fi-
gura femminile appende con fierezza al tronco potrebbero es-
sere intese anche come la «terrena scorza» dell’amante? Ossia,
a fianco dell’identificazione del soggetto ritratto con una Lau-
ra triumphans (che supera perfino Cupido nel suo dominio cir-
ca gli affari amorosi) possiamo porre anche quella di una Lau-
ra salvatrice (o Laura-Pudicizia) che, con la sua stessa espe-
rienza, mostra all’amante l’unica possibile via di scampo dai
suoi travagli interiori («del mio mortal»)? E quindi, l’emblema
nella sua complessità potrebbe sia stigmatizzare gli eccessi del-
la passione erotica (illustrando la totale perdita di sé cui essi
conducono l’individuo), sia prospettare il corretto atteggia-
mento fisico e morale che li limita e previene? Il tono retori-
co di questi interrogativi valga da commento esplicativo e pro-
posta interpretativa del quattordicesimo emblema della nostra
silloge.

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MEDUSA E L’EROR MIO M’HAN FATTO UN SASSO

Tav. 15

15. Medusa e l’eror mio m’han fatto un sasso


Medusa, come vuole Ovidio, fu una femina che chi
prima ella guardava si trasformava in sasso; a imitazion
de la qual favola il sopra depinto vuol dire che in parte
il suo errore et in parte gl’occhi de la sua donna lo han-
no trasformato in pietra; il verso è preso sul Petrarca.
Questa didascalia di commento accompagna, sul quindicesimo
foglio del manoscritto di Baltimore, l’immagine di un uomo par-
zialmente pietrificato che volge gli occhi al cielo e incontra lo
sguardo del capo anguicrinito di una figura femminile (tav. 15).
La moralità desunta dall’espressione simbolica è topica nella pro-
duzione lirica e viene spesso ripresa anche dalla tradizione emble-
matico-impresistica, che ne fa, a seconda dei contesti, rappresenta-
zione della pericolosa negatività della bellezza delle donne,182 o
pretesto comparativo per una loro iperbolica celebrazione:

182 Cfr. PICINELLI, Mondo simbolico, cit., III, 18, p. 80: «Sì come dunque il volto di
Medusa rendeva gli huomini stupidi, e gli cangiava in pietre, così la voluttà e bellezza
sensuale toglie ogni sentore così della virtù come della divozione, ed anco della ra-
gionevolezza, e lascia gli huomini quasi che disanimati».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

[Le Gorgoni] cangiavano gli ammiratori ne’ sassi


quando, soprapresi da maraviglia di cosa oltre ogni
ordine bella, stavano stupidi et attoniti come immo-
bili pietre a vederle; contrario effetto (se m’è lecito
fare il poeta a lode del sesso) fanno le donne di Vi-
negia, d’Italia, la beltà delle quali non priva gli huo-
mini del senso, né gli trasforma ne’ sassi, ma dà anzi
vita, dà virtù loro nell’operare maggiormente, gli
rende agili, pronti et ardenti nelle azioni loro.183

Al netto dell’infiorettatura galante di Ferro, l’ambigua po-


sizione circa il valore e il giudizio riconosciuti allo sguardo di
Medusa, quale estremo agente erotico, appartiene già a Pe-
trarca, che lungo il Canzoniere ricorre più volte all’identifica-
zione tra Laura e la gorgone, e nel farlo non può non affron-
tare il nodo problematico delle implicazioni visive della pas-
sione proprie di questo personaggio mitologico.184 Nel so-
netto 51 il motivo di Medusa è affrontato indirettamente at-
traverso il ricordo di una delle vittime del suo sguardo, Atlan-
te, trasformato nell’omonima catena montuosa. Espressione di
una passione ormai sopita, di un destino di sudditanza amo-
rosa pienamente elaborato, la figura del «vecchio stanco» è
agognata immagine di serenità (v. 14: «fa co le sue spalle om-
bra a Marrocco») per chi ancora ha la vista abbacinata dal de-
siderio (vv. 1-2: «Poco era ad appressarsi agli occhi miei | la
luce che da lunge gli abbarbaglia»). Impossibilitato a condurre
a termine, proprio per un deficit della visione, l’ovidiana me-
tamorfosi nell’amata – ossia la piena comunione spirituale e
dei sensi nella forma di una metamorfosi vegetale, di una lau-
rizzazione –, l’io lirico giunge dunque ad auspicare la propria
trasformazione nella pietra più dura che sia possibile scolpire,

183 FERRO, Teatro d’imprese, cit., pp. 480-481.


184 Cfr. STURM-MADDOX, Petrarch’s Metamorphoses, cit., p. 33: «In Petrarch’s adap-
tation, it is specifically Laura’s eyes that are capable of effecting the lover’s transforma-
tion; to the conventional praises of the lady’s eyes he adds the new and frightful pow-
er of reversing the order of nature. And the peril of transformation in the Rime is spe-
cific to the situation of the fearful, perennially rejected lover: it lies in Laura’s anger at
too bold an approach, be it physical or verbal».

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MEDUSA E L’EROR MIO M’HAN FATTO UN SASSO

tanto da darle riconoscibile sembianza umana, tanto da non


portare all’estreme conseguenze lo straniamento da sé: «E s’io
non posso transformarmi in lei | più ch’i’ mi sia (non ch’a
mercé mi vaglia), | di qual petra più rigida si ’ntaglia | pen-
soso ne la vista oggi sarei» (vv. 5-8).185 Laura è dunque una
novella Medusa, ma a quest’altezza del racconto lirico l’agens
è ancora lungi dal divenire un altro Atlante. Lo scarto del pa-
rallelismo sembra attenuarsi nel sonetto 197, ma forse solo
perché esso circoscrive la memoria mitologica all’attimo pre-
ciso della pietrificazione del re della Mauritania (vv. 5-6:
[L’aura] po’ quello in me, che nel gran vecchio mauro | Me-
dusa quando in selce transformollo»). Comunque anche qui il
travestimento mitico è soprattutto funzionale a comunicare
l’incapacità da parte dell’amante di sostenere lo sguardo di
Laura (v. 14: «ma li occhi hanno virtù di farne un marmo»),
nonché la sua radicale alterità, ossia l’incolmabile distanza, ri-
spetto all’amata. Icastica è a questo proposito l’estrema dislo-
cazione, entro lo spazio materiale del fragmentum, dei senhal
che identificano i due protagonisti; dislocazione che ne river-
bera anche l’incomparabilità fisica. Prima e ultimo, eterea e
greve: «L’aura [...] un marmo».186

185 Cfr. NORBERT JONARD, I miti dell’Eros nel «Canzoniere» del Petrarca, «Lettere
italiane», XXXIV (1982), pp. 449-465, in part. pp. 455-456: «In tal modo, l’amante per-
de la sua qualità d’uomo per appartenere al regno minerale, cosa che gli permette di
sfuggire al dolore d’amare. È una soluzione di fuga di fronte all’angoscia che nasce dal-
l’alienazione amorosa. Così, si tratti della paura o del desiderio di essere pietrificato, è
sempre la stessa apprensione di fronte alla donna amata che sottende il mito meduseo,
la stessa manifestazione dell’Eros tendente al possesso nello stesso tempo in cui lo te-
me. Questa apparente contraddizione, legata alla figura di Medusa, può spiegarsi con
l’interpretazione che Freud dà del mito. Egli vede nella testa di Medusa ad un tempo
il simbolo della castrazione – da ciò lo spavento ch’essa provoca – e dell’erezione – e
quindi, la pietrificazione che permette di preservarsene. Immagine del desiderio, la
Medusa è dunque oggetto di sentimenti ambivalenti. Essa è nel contempo la donna
bramata e la donna temuta. Ne risulta una separazione tra il desiderio ed il godimen-
to: da un lato, c’è l’angoscia provocata dall’impossibilità di raggiungere il godimento
che contrasta sempre con la freddezza della donna amata; dall’altro, il rifugio contro
l’angoscia rappresentato dalla metamorfosi desiderabile».
186 Cfr. GORDON BRADEN, Petrarchan love and the continental Renaissance, New
Haven, Yale University Press, 1999, p. 24: «For the petrarchan lover is not merely the
frustrated lover but to a new degree the paralyzed lover, incapable not only of satisfy-
ing but even of acting on his desire. The mythic version of this impotence identifies
Laura with Medusa, whose mere visage is catastrophically debilitating».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Un «sasso» non pacificato è ancora il poeta-amante nel pas-


so di commiato del Canzoniere; un «sasso | d’amor vano stil-
lante» che inoltra alla Vergine una litania di soccorso. Al frag-
mentum 366 appartiene anche il verso selezionato come mot-
to del nostro emblema: «Medusa e l’error mio m’han fatto un
sasso» (v. 111). Denuncia di un concorso di colpe, il passaggio
si colloca in una strofe interamente costruita sul contrasto tra
amor profano e amor sacro, tra la lascivia di una Laura imme-
dusizzata e la purezza della Vergine. Una strofe che si struttura
ancora intorno al motivo del guardare e, precisamente, si fon-
da sull’intreccio degli sguardi tra i protagonisti. Petrarca ha in-
fatti guardato Laura-Medusa ed è diventato un sasso che trasu-
da soltanto inutili lacrime; la Vergine è invitata a non rivolge-
re il suo sguardo verso Petrarca ma verso Dio; quest’ultimo si
definisce come un immagine perfetta da cui deriva per rifles-
so la copia-uomo-Petrarca, poiché solo così (attraverso il ri-
flesso, il passaggio intermedio attraverso l’origine, divina, di
ogni creato) riuscirà a infondere di nuovo in lui la vita mo-
mentaneamente svanita (sotto forma di lacrime sante). Poco
prima il soggetto lirico era però già ricorso a Laura quale com-
parandum soccombente della Vergine, «vera beatrice» (v. 52)
quest’ultima che, a differenza di quell’altra «dolce del mio pen-
sier ora beatrice» (RVF 191, 7), è pienamente degna di «veder
Dio» (ivi, v. 1).187 Le tre occorrenze della figura di Medusa che
abbiamo appena ricordato valgono dunque tutte a stigmatizza-
re la pericolosità della sublime bellezza di Laura. Sembra inve-
ce uscire dal coro il sonetto 179 che, focalizzandosi sull’epilo-
go della vicenda mitologica (Perseo sconfigge la gorgone), la-
scia intravvedere un margine di salvezza per l’io lirico. Nel ri-
spondere ai quesiti in materia d’amore sottopostigli da Geri
Gianfigliazzi, il poeta-amante mostra infatti l’ardire di voler
opporre allo sguardo della domina i propri occhi «pien d’umiltà
sì vera, | ch’a forza ogni suo sdegno indietro tira» (179, 7-8);
ossia di reagire a uno spettacolo con un altro spettacolo, pro-

187 Cfr. KENELM FOSTER O.P., Beatrice o Medusa, Milano, Lampi di stampa, 2004
(I ed. ingl. 1962), p. 23: «Qui è Laura che è indicata; una Laura sotto un aspetto parti-
colare e, rispetto alla religione, sotto un aspetto pericoloso: l’aspetto della sua possibi-
lità di essere paragonata a Dio».

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MEDUSA E L’EROR MIO M’HAN FATTO UN SASSO

prio come fece Perseo attraverso lo scudo che restituì a Me-


dusa l’immagine terrificante del suo volto. Il riflesso dell’u-
miltà abbaglia dunque più di quello della bellezza. È la vitto-
ria della Pudicizia sulla Voluttà, della Laura triumphans sulla
Laura che sempre «’n fuga è volta» (RVF 6, 2). Non a caso, pro-
prio a un preciso dettaglio iconografico della vicenda mitolo-
gica Petrarca ricorre per delineare il ritratto della «sua donna»
quale capofila del corteo trionfale delle «sacre e benedette |
vergini»: «Ell’avea in dosso, il dì, candida gonna, | lo scudo in
man che mal vide Medusa» (TP, 118-119). Non a caso, il me-
desimo dettaglio diviene nella canzone 366 emblema metoni-
mico proprio di colei che è «del bel numero una | de le bea-
te vergini prudenti | anzi la prima», ossia di Maria ausiliatrice:
«o saldo scudo de l’afflitte genti | contra ’ colpi di Morte e di
Fortuna, | sotto ’l qual si trïunfa» (vv. 14-19).
La frontalità tra Laura e Maria non è dunque così netta, so-
prattutto se alla funzione-Medusa affidata a Laura lungo l’e-
semplare percorso lirico accostiamo anche la funzione-Sapien-
za (Minerva) che il poeta riconosce all’amata non solo nei
Triumphi ma anche in più di un punto del Canzoniere. Tale
constatazione è ovviamente centrale per l’interpretazione del
nostro emblema. Se infatti la lettura moralistica del commento
manoscritto può risultare sufficiente a decrittare l’espressione
simbolica còlta in sé, la collocazione di quest’ultima entro un
sistema semantico più articolato può lecitamente sollevare
qualche dubbio sul suo messaggio. Inserita nel contesto di di-
verse rappresentazioni visive di Laura in qualità di una Pudici-
zia triumphans, la testa di Medusa può esser fatta coincidere tout
court, e soltanto, col tormentoso oggetto del desiderio che vaga
inafferrabile tra i fragmenta? Oppure, potremmo anche coglierla
quale configurazione plastica di quel vessillo di umiltà e castità
che si oppone alla lascivia? Ossia, coglierla quale attributo e
metonimia di una Minerva (Sapienza-Pudicizia) assente dalla
scena? Coglierla, insomma, quale sintesi mnemonica della si-
tuazione concettistica che, ad esempio, troviamo più compiuta-
mente illustrata nell’emblema CHASTETÉ VAINCQ CVPIDO, rac-
colto nella Hecatomgraphie di Gilles Corrozet (1540). Come qui
mostra la pictura e conferma la subscriptio poetica, Cupido sca-
glia invano i propri dardi contro Minerva, perché costei si pro-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

tegge dietro a uno scudo che esibisce l’effigie di Medusa (fig.


59). Memore forse del passaggio trionfale poc’anzi citato, Cor-
rozet delinea il ritratto di una «Saincte Pallas, déesse très pudi-

Fig. 59. GILLES CORROZET, Hecatomgraphie, Paris, Denis Janot, 1540, p. 10.

que», e proprio sulla scorta dell’esemplare esperienza petrar-


chesca («Comme a bien sceu coucher en son histoire, | Ton
grand ami, le tres scavant Pétrarque») lo offre quale simulacro
da opporre agli assalti di Venere («Sy vous voyez que Vénus vous
assaille, | Prenez pour vous l’escu de chasteté»).188 Allo stesso
modo, forse, l’anonimo emblematista di Baltimore colloca in
cielo il volto di Medusa non tanto per pietrificare l’amante, ma
per indicargli l’alternativa celeste, eterea, dell’umiltà rispetto a
quei tormenti di Eros che lo vincolano a un’esistenza solo ter-
rena: «L’aura [...] un marmo», ancora.

188 Cfr. GILLES CORROZET, Hecatomgraphie, Paris, Denis Janot, 1540, pp. 10-11.

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INCIDIT IN FOVEAM QUAM FECIT

Tav. 16

16. Incidit in foveam quam fecit

Il sedicesimo emblema raffigura un elefante nel mentre sta


cadendo e schiacciando il serpente che gli aveva attorcigliato le
gambe (tav. 16). Come ricorda la didascalia, l’immagine vale da
rappresentazione delle conseguenze di un atto di presunzione:

È scritto che il serpente ha mortale inimicizia


con l’elephante e per abbatterlo gli si avilupa a le
gambe et intaccalo nel naso; la bestia cade a la fine
e, cadendo per il suo gran peso, ammazza il drago-
ne, e così la medesima nequizia del serpente lo ca-
stiga; il motto è del psalmista.

Il serpente confida infatti eccessivamente sulla propria astu-


zia e, sicuro di poter immobilizzare un animale più grande di lui,
non considera l’eventualità della caduta dell’elefante. Il motto è
tratto dal settimo Salmo, di cui la pictura costituisce peraltro
un’efficace illustrazione. Il canto scritturale stigmatizza l’empietà
che può caratterizzare il comportamento di se stessi e degli al-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

tri, e lo fa utilizzando espressioni assai prossime all’iconografia


sviluppata nell’immagine. Lo sguardo di Dio è giusto – dice Da-
vide – e se ho ripagato il mio amico con il male o ho a torto
spogliato i miei avversari, è giusto che il nemico mi catturi, cal-
pesti a terra la mia vita e trascini nella polvere il mio onore (7,6:
«et conculcet in terra vitam meam et gloriam meam in pulve-
rem deducat»); ossia mi riservi lo stesso trattamento a cui fin dal-
l’alba dei tempi è destinato il serpente. Perché se l’empio, chiun-
que esso sia, produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce
menzogna, egli non fa altro che costruirsi una fossa sotto i pie-
di, dal momento che – secondo la stessa logica che presiede al
contrappasso dantesco – la sua stessa malizia ricade sul suo capo
e la sua violenza gli piomba sulla testa (7,16-17: «lacum aperuit
et effodit eum et incidet in foveam quam fecit; convertetur do-
lor eius in caput eius et in verticem ipsius iniquitas eius descen-
det»). Non diversamente, allora, il serpente maligno che aveva
cercato di far cadere l’elefante (di farlo ‘sprofondare in una bu-
ca’ mortale) si trova imprigionato nella propria trappola e viene
schiacciato dal frutto della propria malizia.
La perspicua morale che il concettismo sottende ne assicura il
frequente e articolato impiego all’interno della tradizione em-
blematico-impresistica. Pressoché la medesima immagine com-
pare, ad esempio, nei Symbolorum et emblematum di Joachim Ca-
merarius (II, 3, NON IMPVNE FERES, con la subscriptio: «Contemnit
mortem, qui non moriturus inultus, | Una etiam est hostis certa
ruina sui», fig. 60), dove vengono ricordati come fonti Strabone
e Plinio il Vecchio, e come principali testimonianze del motivo
simbolico quelle di Johannes Sambucus e di Paolo Giovio.189
Quest’ultimo ricorre al motivo (sostituendo però il dragone col
serpente e modificando la dinamica dello scontro tra i due ani-
mali) per delineare l’impresa di Ottobono e Sinibaldo Fieschi, e
sviluppare quindi la moralità in un contesto politico (fig. 61):

Ma poiché siamo entrati in menzione de’ signori


genovesi, ve ne voglio nominar tre assai belle ch’io fe-
ci a richiesta di due signori della Flisca, Sinibaldo e

189 CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum, cit., libro II, embl. 3, p. 11.

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INCIDIT IN FOVEAM QUAM FECIT

Fig. 60. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres,


II, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 3.

Fig. 61. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 86.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Ottobuono, ai quali fu molto familiare e grato. Essi mi


dimandarono un’impresa che significasse la vendetta
da lor fatta della morte del conte Gieronimo lor fra-
tello, crudelmente ammazzato da’ Fregosi per emula-
zione dello stato, e fu tale che ne restarono spenti del-
la vita i percussori Zaccaria Fregoso, il signor Fregosi-
no, i signori Lodovico e Guido, laonde si racconsola-
rono della perdita del fratello, dicendo che i nemici
non si potevano vantare d’aver usato contra lui tanta
crudeltà, non essendo solito tra’ Fregosi, Adorni e Fli-
schi insanguinarsi le mani del sangue de’ contrari, ma
solamente esser lecito di contendere del principato tra
loro civilmente o vero a guerra aperta. Io feci lor dun-
que un elefante assaltato da un dragone, il quale attor-
cendosi alle gambe del nemico suol mettere il morso
del veleno al ventre dell’elefante, per la qual ferita ve-
lenosa si muore; ma egli per natura conoscendo il pe-
ricolo, gira tanto intorno che trova qualche sasso o
ceppo d’albero dove appoggiatosi tanto frega che
stiaccia e ammazza il detto dragone. L’impresa ha bel-
la vista per la varietà de’ due animali e il motto la fa
chiarissima dicendo in spagnuolo: NON VOS ALABA-
REIS, volendo dire ai Fregosi: voi non avete a vantarvi
d’aver commesso tanta impietà nel sangue nostro. 190

Proprio la variante della vicenda che concerne la vittoria


dell’elefante sul serpente (ottenuta non per schiacciamento
sulla terra ma contro un albero) è utilizzata da Paolo Aresi per
rifunzionalizzare l’immagine all’interno del discorso sacro,
poiché l’albero contro cui trova la morte il simbolo principe
del maligno è sì quello che nel paradiso terrestre ne aveva ospi-
tato il trionfo ma anche il lignum vitae del cristianesimo:

Monsignor Aresio è di parere che l’elefante uccida


il serpente, schiacciandolo col peso del corpo contra
quell’albero, per lo quale il serpente discese a procu-

190 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., p. 93.

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INCIDIT IN FOVEAM QUAM FECIT

rarsi la morte [...]. Perché il serpente calando giù dal-


la pianta, di quella si servì per instrumento della sua
malvagità, io della pianta medesima mi prevaglio per
istrumento della sua perdizione; e l’applica al Crocifis-
so, che si valse dell’albero della croce contra il serpen-
te d’inferno, perché anch’esso con l’albero vietato sol-
lecitò le ruine di tutta la discendenza humana.191

Sulla scorta di Plinio e dei fisiologi medievali, Giovanni


Ferro riconosce nell’elefante «segni di bontà, di prudenza, di
giustizia, di religione» e ci conferma che per «le molte e sin-
golari sue proprietà è stato usurpato da molti nell’Imprese, do-
ve riesce anche con bella apparenza». Fra le varie occorrenze
riportate, oltre a quelle già viste in Giovio e Aresi, ne regi-
striamo anche una che – per quanto si scosti dalla situazione e
dall’iconografia del nostro emblema – viene a interferire col
dettato poetico petrarchesco:

Muzio Manfredi aveva il medesimo [elefante] ap-


poggiato ad un arbore per dormire, il quale era dal
piede stato segato, e perciò cadendo al peso di quel
grande animale, cade insieme con lui, avendo per
soprascritta un verso del Petrarca, O CHE LIEVE, IN-
GANNAR CHI S’ASSECVRA.192

La citazione dal fragmentum 311 (v. 9: «O che lieve è ingannar


chi s’assecura!») appare suggestiva in sé, e anche in relazione al no-
stro emblema. L’incredulo dolore di Petrarca di fronte all’improv-
visa morte di Laura costituisce infatti la naturale reazione al venir
meno di una sicurezza assoluta – oggettiva agli occhi dell’amante
(v. 8: «ché ’n dee non credev’io regnasse Morte») –; una sicurezza

191 Si cita il passaggio di Aresi secondo l’epitome che ne fornisce PICINELLI, Mon-
do simbolico, cit., V, 22, p. 172. Picinelli ricorda anche che: «Rapportano i Naturalisti
che mentre l’elefante dorme appoggiato all’albero, il dragone insidiosamente lo mor-
de; e suggendogli il sangue, l’astringe alla caduta, ed alla morte. Ma cadendo addosso
a quel mostro, col suo peso lo schiaccia, e l’uccide. A questo corpo d’impresa Barto-
lomeo Rossi soprascrisse VICTOREM VINCO, alludendo alla vittoria che Cristo, moren-
do, ottenne della morte e del demonio».
192 FERRO, Teatro d’imprese, cit., le citazioni riportate si trovano alle pp. 295-297.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

analoga a quella che consente all’elefante di appoggiarsi ad un al-


bero, e forse proprio a quella pianta di alloro che costituisce il fi-
gurante principe di Laura. L’adynaton della caduta dell’albero, sa-
cro a Febo e per natura intangibile dai fulmini (e infatti è qui «se-
gato», è una maligna trappola di Morte), non può allora che far
sprofondare nel dolore l’elefante-Petrarca, indurlo incessantemen-
te a ripercorrere l’incredibile vicenda con la propria proverbiale
inesausta memoria (v. 6: «e mi rammente la mia dura sorte»), e a
dedurre da essa l’unico, amaro insegnamento possibile (vv. 12-14:
«Or cognosco io che mia fera ventura | vuol che vivendo e la-
grimando impari | come nulla qua giù diletta e dura»). Nell’em-
blema di Baltimore il motto proverbiale «O che lieve è ingannar
chi s’assecura!» andrebbe invece inteso quale enunciato del ser-
pente che vede ritorcesi contro la trappola in cui aveva confidato.
Sovrapponendo all’espressione simbolica la velina filigranata del-
l’imagery petrarchesca, potremmo allora intendere la moralità, qui
visualizzata, quale dichiarazione progettuale della sconfitta
dell’«[angue] tra’ fiori ascoso» (TC III, 157; per cui cfr. emblema n.
2); ossia di quell’usuale agente del male che è al contempo incar-
nazione della lussuria (il principale vizio contro cui opera la mac-
china meditazionale della presente raccolta) e metonimia della
morte della casta Laura (cfr. RVF 323, 61-72).
Se queste sono però le risultanze di senso di un incrocio so-
lo virtuale tra due espressioni simboliche affini, il motivo icono-
grafico della lotta tra l’elefante e il serpente compare, in esplicita
connessione con il dettato lirico petrarchesco, tra gli emblemi
potenziali in corso di realizzazione sulle carte di un’aldina de Le
cose volgari di Francesco Petrarca (1514), appartenuta ai Medici e ora
conservata nella collezione privata del duca del Devonshire a
Chatsworth. Come già si ricordava nell’introduzione, sui margi-
ni di questo esemplare del Canzoniere si possono infatti rinveni-
re numerose immagini miniate che sembrano instaurare una re-
lazione emblematica con i versi di 96 fragmenta (di cui solo tre ap-
partenenti alla sezione in morte). Parlo di relazione emblematica,
perché qui non ci troviamo ancora di fronte a emblemi o imprese
compiuti, per quanto si sia già andati oltre una referenziale illu-
strazione del testo. Siamo con ogni probabilità nel momento del
transito tra le due modalità di traduzione visiva. E la pagina che
si offre al nostro sguardo è forse un’istantanea del processo di

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INCIDIT IN FOVEAM QUAM FECIT

composizione dell’emblema e dell’impresa. Le illustrazioni sono


infatti sempre collegate, attraverso l’inequivocabile segno grafico
di una riga dorata, a uno specifico verso del testo ma, nella mag-
gior parte dei casi, elaborano visivamente il messaggio verbale
espresso da altri luoghi del medesimo fragmentum.193 Ossia, trans-
codificano un testo (la fonte) e vi associano un altro testo (il fu-
turo motto): entrambi però còlti dalla medesima unità testuale.
Due occorrenze del concettismo dell’elefante, ad esempio, si rin-
corrono nel giro di poche carte (da 4v a 6r), a stabilire una rela-
zione emblematica con i fragmenta 7 e 13. A fianco di quest’ulti-
mo ritroviamo tutti e tre i dettagli simbolici incontrati nel corso
dell’analisi del nostro emblema. Un elefante grigio viene infatti
minacciato da un serpente bianco attorcigliato sul tronco di una
pianta (di lauro?), e la sua proboscide è collegata al v. 14 («sì ch’io
vo già de la speranza altero») per mezzo del canonico filo d’oro,
che come abbiamo visto associa enunciante ed enunciato del-
l’impresa in fieri (fig. 62). Con un occhio al motivo emblemati-
co sviluppato nel manoscritto di Baltimore e altrove, potremmo
dire che qui siamo di fronte agli antefatti; al momento della sto-
ria in cui l’anima del Canzoniere confida ancora nel buon esito
delle proprie speranze, e il serpente ancora latet in herba (o me-
glio, sul lauro, a connotare come potenzialmente pericoloso
un’insana passione per l’amata). Sui margini del fragmentum 7 os-
serviamo invece l’immagine di un dragone con ali rosse e una
lunga coda attorcigliata; sta agguantando un elefante, e il filo d’o-
ro parte dalle sue ali per estrapolare dal sonetto il verso «nostra
natura vinta dal costume» (v. 4). La lotta tra i due animali simbo-
lici mette in scena la riflessione sul destino dell’uomo sviluppata
nel fragmentum. Alla voluptas (v. 1: «La gola e ’l sonno e l’ozïose
piume») e alla cupiditas (v. 11: «[...] la turba al vil guadagno inte-
sa») che «hanno del mondo ogni virtù sbandita» e che hanno de-
viato per opera delle cattive abitudini (il «costume», cioè il ser-
pente) la «nostra natura» (ossia il saggio elefante) «dal corso suo»
verso il bene – Petrarca oppone «l’altra via» degli studi liberali. La

193 Il segno grafico può in un certo senso essere accostato alle maniculae che tro-
viamo nelle pagine dell’incunabolo queriniano G.V.15 a segnalare quasi sempre versi
di evidente spendibilità gnomica. Ovviamente nell’aldina di Chatsworth è ben più
evidente, anzi indiscutibile, il trait d’union che esso crea tra vignetta e verso.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 62. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 6r.
Devonshire Collection, Chatsworth.

trasposizione simbolica del messaggio poetico si compie infatti


sul margine dell’aldina, facendo seguire al fotogramma della pars
destruens della polemica petrarchesca (l’allegoria della natura sog-
giogata dai vizi) quello di una più speranzosa pars construens, do-
ve un mostro simile al precedente sembra essere morso al petto
da una specie di coccodrillo. Dalla bocca di quest’ultimo parte il
filo d’oro che unisce l’immagine al verso d’explicit «Non lassar la
magnanima tua impresa», suo futuro motto nonché vera e pro-
pria dichiarazione di un’intrapresa di vita (fig. 63).

Fig. 63. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 4v.
Devonshire Collection, Chatsworth.

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CONSUMETUR NEQUITIA

Tav. 17

17. Consumetur nequitia

Scrive Plinio che, subito che il leone ha coperto


gli occhi, non ha più ferocità che se abbia uno
agnello e lassesi legare a un fanciullo, e così si con-
suma la sua nequizia. Possi dire de una donna il si-
mile, che subito che il volto è coperto, cioè che le
bellezze se ne siano andate, non hanno più di pos-
sanza su gli uomini e sono di poco valore; il verso è
del psalmista.

Nel diciassettesimo emblema della serie vediamo raffigura-


ti due fanciulli nudi (con ogni probabilità amorini, però privi
di ali) che giocano con un leone, gli copreno la testa con un
velo e gli legano una gamba con lacci (tav. 17). Sulla scorta
della didascalia e di una solida tradizione iconografica, Dut-
schke interpreta l’immagine dell’animale bendato – e quindi
privato della fierezza e della ferocia comunicate dal suo aspet-
to – come una rappresentazione allegorica della donna amata

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A. TORRE, VEDERE VERSI

che, quando perde la bellezza, vede improvvisamente venir


meno tutto il proprio potere sull’amante.194 Il leone è, d’altra
parte, una presenza costante all’interno della produzione em-
blematica; e la situazione specifica qui illustrata compare spes-
so nelle raccolte di emblemi e imprese amorosi, tanto che può
essere intesa come una delle varianti espressive del concetto
dell’omnia vincit amor, più volte visualizzato attraverso l’intera-
zione tra Cupido (e/o gli amorini) e un leone.
Prima di conoscere un’autonoma vita editoriale in raccol-
te monografiche come quelle di Heinsius o Vaenius, gli em-
blemi d’amore trovano spazio in sillogi dal contenuto più ar-
ticolato; e in alcune di queste la precisa organizzazione dei
soggetti in sequenze tematiche ben definite consente la per-
cezione di un corpus emblematico omogeneo. Nella traduzio-
ne italiana degli Emblemata di Alciato pubblicata a Lione nel
1551, ad esempio, l’intestazione AMORE segnala la sequenza
tematica compresa fra le pagine 102 e 115, connotando im-
mediatamente in senso erotico il contenuto simbolico della
serie. In questo vero e proprio libro dentro il libro si susseguo-
no gli emblemi costruiti da Alciato sulla scorta degli epi-
grammi dell’Antologia greca che narrano le varie gesta dell’on-
nipotente Cupido. A pagina 102 l’intensità della forza di
Amore è illustrata proprio dalla figura del dio-bambino che
governa con piglio da domatore un carro trainato da leoni: «Il
pargoletto Amor su ’l carro siede | E i superbi Leon’ scuo-
tendo gira» – recita la subscriptio poetica – «Sciocco è dunque
colui che vincer crede | Guerrier sì forte quand’altrui s’adi-
ra; | Ché non pur noi, et i ripari nostri | Ma vince e doma i
più feroci mostri» (fig. 64).195 Il concettismo ha come proba-
bili fonti l’epigramma 221 del IX libro dell’Antologia Greca
(Marco Argentario, Cupido e il leone) e il Dialogo degli dei di
Luciano (XII, 2). Viene ripreso negli Emblemata amatoria di
Heinsius (embl. 1: OMNIA VINCIT AMOR), e – con minima va-

194 Cfr. DENNIS DUTSCHKE, Census of Petrarch manuscripts in the United States,
Padova, Antenore, 1986, p. 47.
195 Diverse imprese accommodate a diuerse moralità, con versi che i loro significati dichia-
rano insieme con molte altre nella lingua italiana non piu tradotte. Tratte da gli Emblemi del-
l’ALCIATO, Lyon, Rouille, 1551, p. 102.

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CONSUMETUR NEQUITIA

Fig. 64. ANDREA ALCIATI, Diuerse imprese,


Lyon, Rouille, 1551, p. 102.

riazione – in quelli di Giorgio Camerari (dietro la patina ita-


lianizzante del nome si nasconde l’esule cattolico scozzese
George Chalmers, o Chambers). Quest’ultima raccolta, pub-
blicata a Venezia e presentata nel classico formato orizzontale
oblungo delle sillogi emblematiche d’argomento amoroso, si
colloca nella scia delle opere di Heinsius e Vaenius, ripropo-
nendo in 75 emblemi l’intera fenomenologia erotica. Ancora
una volta è Cupido a farla da padrone, offrendo il proprio biz-
zoso volo tanto a evidenti reminiscenze mitologiche quanto a
curiosi quadretti di vita quotidiana, con l’unico scopo di af-
fermare la propria assoluta potenza. Questo è anche, con ogni
evidenza, il messaggio dell’emblema VTER SAEVIOR?, in cui il
dubbio confronto tra un leone e Amore (ritratti ad armi inver-
tite) non fa che riaffermare per amplificazione il dominio del
secondo su ogni elemento del reale (fig. 65).196 Tale dominio
viene tematizzato anche nelle Symbolorum et emblematum centu-

196 GIORGIO CAMERARI, Emblemata amatoria, Padova, Tozzi, 1627, p. 112.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 65. GIORGIO CAMERARI, Emblemata amatoria,


Padova, Tozzi, 1627, p. 112.

riae tres del medico e botanico tedesco Joachim Camerarius jr.


Vasta raccolta di emblemi, approntata in un arco di tempo che
va dal 1593 al 1604, l’opera si presenta come un ambizioso
progetto enciclopedico che sfrutta l’ordinata struttura del
mondo naturale e la facile memorabilità dei simboli da esso
desunti per conservare e trasmettere la sapienza dell’Antichità.
Vera e propria realizzazione su carta del Libro della Natura
composto da Dio, il testo si suddivide in quattro centurie ri-
spettivamente dedicate al mondo vegetale, agli animali qua-
drupedi, ai volatili e insetti, ai pesci e ai rettili. L’ultimo em-
blema della seconda serie (AMOR CAVSSA OMNIVM) esprime
l’assoluta supremazia di Eros, raffigurando gli animali-simbo-
lo dei quattro elementi (aria-aquila, acqua-sirena, fuoco-dra-
gone, terra-leone) prigionieri delle catene di Amore e im-
mersi nella sua inestinguibile fiamma (fig. 66). Dietro questo
primo livello di significato si apre però una serie di ulteriori
letture dell’immagine. Il commento rivela infatti che i quattro
esseri rinviano anche alle quattro tipologie di amore (aquila-
amore per la gloria, leone-per la virtù, sirena-bellezza, drago-
ne-ricchezza), e la loro disposizione su due differenti ordini di
altezza porta con sé la distinzione fra un’idea superiore di
amore e una sua più viziosa e terrena declinazione. Il micro-
cosmo amoroso delineato da Camerarius diviene così spec-
chio del microcosmo-uomo, e di esso riflette anche la spen-

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CONSUMETUR NEQUITIA

Fig. 66. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres, II,


Norimberga, Voegel, 1605, emblema 100.

dibilità morale (aquila-testa-intelligenza, leone-petto-forza,


sirena-ventre/dragone-piedi-concupiscenza).197
Nella raccolta di Camerarius rinveniamo anche l’immagine
del leone col capo coperto (vol. II, embl. 10, fig. 67), riprodotta
dall’emblema di Baltimore. Mancano però gli amorini, ai quali
si sostituisce invece la figura, semanticamente più neutra, di un
cacciatore munito di catene («Si licet obiecto sagulo tractare
leonem, | Quid tandem est, iram nolle domare suam?»). A sè-
guito di tale variazione l’espressione simbolica vede il proprio
messaggio estendersi oltre il contesto erotico, e diviene così rap-
presentazione di una condotta di vita segnata dalla prudenza
(IRAM PRVDENTIA VINCIT);198 di una condotta di vita che ri-
muove (vela e dimentica) il vizio, come sembra suggerirci l’em-
blema per voce del motto tratto dai Salmi (7, 10: «Consumatur

197 CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum, cit., II, embl. 100, c. 102r.


198 CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum, cit., II, embl. 18, c. 18v; e sul verso
della carta il commento illustra la possibile applicazione morale dell’immagine sim-
bolica: «Leonem quidem mitigas reddisque tractabilem, furorem vero animi tui omni
prorsus efficis leone saeviorem. Ponamus iram quoque bestiam esse, quantum igitur ab
aliis erga mitigandum leonem studium datur, tantam tu erga iracundiam impende cu-
ram, et effice huiusmodi cogitationem mitem ac mansuetam, siquidem haec fera et
unguibus saevibus armatur ac dentibus. Nisi illam solicite mansuefeceris, cuncta simul
disperdet ac lacerabit. Quidam generalius ascribunt SVPERAT SOLERTIA VIRES».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 67. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres, II,


Norimberga, Voegel, 1605, emblema 10.

nequitia peccatorum; | et iustum confirma: | scrutans corda et


renes Deus iustus»). Questa più generale elaborazione moralisti-
ca del motivo è ricordata anche da Giovanni Ferro:

Il leone coperto la testa con un panno lascia la


sua fierezza, e si lascia legare dall’huomo, il quale si
scorge, che se gli accosta per legarlo con una catena
(doveva figurare una corda ché il Leone non vuole
sentire catena, né ferro) fu posto in emblema con
sentenze generali SVPERAT SOLERTIA VIRES, overo
VESTRA PRVDENTIA VINCIT.199

Tra le numerose occorrenze impresistiche del leone, Giulio


Cesare Capaccio ricorda invece una testimonianza che, dal
punto di vista tematico e iconografico, costituisce una curiosa
variante dell’emblema di Baltimore. Sulla scorta della creden-

199 FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 437. Sul concettismo si veda anche RUSCELLI,
Le imprese illustri, cit., pp. 277-278.

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CONSUMETUR NEQUITIA

za che il leone, una volta catturato col tranello di una fossa,


non osa per vergogna uscire dalla propria prigione pur aven-
done la possibilità – Capaccio descrive (e visualizza, fig. 68)
l’impresa di un leone che nasconde il capo in una fossa, rico-
noscendone la causa ispiratrice nell’imbarazzo di

un cavaliere, che dalla bellezza d’una gentildonna


preso, volendo poi dal suo amore, per utile dell’ani-
ma e riputazione, allontanarsi, no ’l volse fare, di-
cendo ch’era dalla vergogna di lasciarla ritenuto; co-
me a molti non honorati cristiani accader suole, che
dopo saziato l’appetito, dicono che amano per ho-
nore; e ’l motto dicea NELL’ENTRAR CIECO E NEL-
L’VSCIR PROTERVO.200

Fig. 68. GIULIO CESARE CAPACCIO, Trattato delle imprese, II,


Napoli, Carlino e Pace, 1592, c. 12r.

L’occultamento del capo va dunque a sottolineare, in tutti


gli esempi riportati, il concetto di una avvenuta perdita, sia es-
sa riferibile alla bellezza dell’amata e alla fierezza del leone
(perdite entrambe di qualità naturale, quindi), o all’onore del-
l’amante (perdita, invece, di una qualità morale). Ma occulta-

200 GIULIO CESARE CAPACCIO, Trattato delle imprese, Napoli, Carlino e Pace, 1592,
II, cc. 12r-v.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

mento del capo significa soprattutto occultamento degli occhi;


ossia di quelle finestre dell’anima attraverso cui le fiere (l’amata
e il leone) esprimono all’esterno tutta la loro potenza; e attra-
verso cui l’amante rende invece visibili i poco dignitosi trava-
gli della coscienza, aprendo la propria interiorità agli sguardi
altrui. Qui abbiamo la rimozione di una colpa attraverso il ma-
scheramento dell’identità del suo artefice. Là vengono invece
disinnescate le armi che tradizionalmente esibiscono la peri-
colosità di quei soggetti.
Cercando di rinegoziare il senso dell’emblema nel contesto
del corpus di cui è membro, e in cui il dettato petrarchesco fun-
ge da fil rouge tematico – il dettaglio agente della moralità ri-
sulta dunque quanto mai suggestivo poiché:
1) ammantata di un velo, Laura preserva la propria castità
alla prima reale comparsa nel Canzoniere e lungo tutta l’esi-
stenza che esso celebra (RVF 11, 1-2: «Lassare il velo o per so-
le o per ombra, | donna, non vi vid’io»);
2) rimuovendolo una volta dal proprio viso e da quello del-
l’amante, Laura si rivela a lui in tutta l’insostenibile grazia del-
la sua natura di incarnazione della Gloria o della Sapienza
(RVF 119, 26-28 e 35-37: «I’ dico che pur dianzi | qual io non
l’avea vista infin allora, | mi si scoverse [...] ed ella, che re-
mosso avea già il velo | dinanzi a’ miei, mi disse: – Amico, or
vedi | com’io son bella [...]»);
3) infine, abbandonandolo momentaneamente «in terra»,
l’amata lo lascia quale simulacro memoriale da richiamare «in
cielo» insieme al suo più fedele cantore e innamorato (RVF
302, 9-11: «Mio ben non cape in intelletto umano: | te solo
aspetto, e quel che tanto amasti | e là giù è rimaso, il mio bel
velo»).
Il velo non lascerà dunque mai Laura «né nei versi di più
solare, dispiegata visione, né in quelli di più ardua, oscura, ‘om-
brosa’ lontananza», proprio perché – osserva Stroppa, richia-
mando un passaggio di Africa IX, 99-102 – «un velo deve sten-
dersi sulla materia poetica, sì da mostrarla e alternativamente
celarla».201 Nella ballata 11 l’immagine del velo, con le dina-

201 STROPPA, Commento, p. 22.

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CONSUMETUR NEQUITIA

miche di occultamento-svelamento che esso attiva, investe an-


che la figura dell’amante che, prima di dichiararsi, «portava i
be’ pensier celati» (v. 5); ossia, frenato da vergogna (come il «ca-
valiero»/leone di Capaccio, ma senza scheletri nell’armadio)
sottraeva il proprio sguardo da madonna. Di fronte a lui si sta-
glia una Laura anch’essa velata, e triumphans più per pudicizia
che per superbia (vv. 9-10: «fuor i biondi capelli allor velati, |
e l’amoroso sguardo in sé raccolto»); una rappresentazione del
desiderio che – proprio come il leone di Baltimore – ricono-
sce nella sua apparente rimozione («consumetur nequitia») la
forma più funzionale e sensata in cui manifestarsi (vv. 11-12:
«Quel ch’i’ più desïava in voi m’è tolto: | sì mi governa il ve-
lo»):

La presenza del velo governa l’amante (v. 12): e se


il significato del latino gubernare è quello di “dirige-
re” e “moderare”, anche nel senso di indurre al be-
ne, e se nel ‘grande codice’ biblico è la Sapienza che
governa il lignum del giusto (cfr. Sap 10, 4; ma anche
Is 48, 17 “Ego Dominus tuus [...] gubernans te in
via, qua ambulas”), nel “governo del velo” bisognerà
dunque vedere il senso del “dirigere verso il proprio
fine”, verso il proprio compimento, attuato dal “ve-
lo” togliendo all’amante ciò che più desidera. L’as-
senza, il nascondimento, il velame di Laura sono il
suo ‘vero’ e provvidenziale senso.202

202 Ibidem, p. 23.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 18

18. E più ch’i’ non vorei piena la vela

La pregnanza concettistica del campo metaforico nautico e


la sua ricorrenza strategica all’interno del Canzoniere ne giu-
stificano appieno la scelta da parte dell’emblematista di Balti-
more per dar corpo a ben due fragmenta, l’80 e il 132, visualiz-
zati rispettivamente alle carte 18 e 28. La costante del motivo
iconografico e i non pochi, né banali, nessi tra i due compo-
nimenti petrarcheschi attivano il confronto fra questi emblemi,
e pongono il problema del significato di una loro eventuale
connessione. Potremmo infatti chiederci se le illustrazioni – ri-
spettivamente concernenti un’imbarcazione che procede a ve-
le spiegate con un uomo al governo e un’imbarcazione inca-
gliata contro uno scoglio e prossima a un naufragio che colpi-
sce anche il suo disperato timoniere – debbano vincolare an-
che il loro significato alla sequenza di presentazione che li col-
loca nel corpus manoscritto. E quindi, se le immagini visualiz-
zino due attimi della medesima storia disposti secondo una re-
lazione sintagmatica di nessi logico-causali. Oppure, se esse
rappresentino, come alternative paradigmatiche, le due possibi-

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

lità di sviluppo di una storia, le due facce della stessa medaglia,


quelle che potrebbero petrarchescamente dar corpo all’utriu-
sque fortuna, e proporre l’esemplare bivio tra la bona e l’adversa.
Infine, se la disposizione non immediatamente contigua dei
due emblemi interferisca in qualche modo nella soluzione di
tali quesiti.
Per affrontare le questioni sarà innanzitutto necessaria un’a-
nalisi dei due emblemi che operi tanto a livello delle specifi-
che relazioni che ognuno di essi instaura coi rispettivi fragmen-
ta petrarcheschi, quanto a livello dei nessi più generici che ar-
ticolano il dialogo tra le espressioni simboliche nel contesto
macrostrutturale dell’intera collezione emblematica. Da que-
st’ultimo punto di vista possono peraltro risultare interessanti
le occorrenze del motivo iconografico della barca presenti in
altre esperienze di visualizzazione del dettato poetico dei Frag-
menta. Ne possiamo rinvenire una, relativa proprio alla sestina
80, nel codice M.427 della Morgan Library. Alla c. 37v com-
pare un’illustrazione (fig. 69), posta tra i fragmenta 80 e 81, che
raffigura una barca con le vele tese dal vento, e che è proba-
bilmente legata ai versi conclusivi della sestina («Signor de la
mia fine e de la vita, | prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli
| drizza a buon porto l’affannata vela»). Alla metà del Sette-
cento risale invece un’altra testimonianza parimenti pregiata
per fattura e contenuti. Si tratta di un’edizione dei Fragmenta
realizzata per i tipi di Antonio Zatta (Venezia, 1756); due vo-
lumi che rappresentano una assai generosa esperienza di visua-
lizzazione del dettato poetico petrarchesco, dal momento che

Fig. 69. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427,


Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ospitano una traduzione visiva di quasi tutti i sonetti e di ben


sette canzoni. Fra questi abbiamo anche il fragmentum 272 (La
vita fugge, e non s’arresta una ora), per la resa visiva del quale il
disegnatore Gaetano Zompini si concentra sui vv. 10-14 («[...]
e poi da l’altra parte | veggio al mio navigar turbati i venti; |
veggio fortuna in porto, e stanco omai | il mio nocchier, e rot-
te àrbore e sarte, | e i lumi bei, che mirar soglio, spenti») e li
raffigura attraverso l’immagine di una «nave disancorata, e di-
salberata dall’empito de’ venti, che la portano a rompersi alle
rive del Porto dove erasi ricovrata» (fig. 70).203 Anche nel
commento visivo dell’incunabolo queriniano G.V.15 il moti-
vo della barca trova spesso una rappresentazione: lo rinvenia-
mo ai margini di RVF 50 (f. 21v), 135 (f. 59r), 68 e 208 (ff. 28r
e 81r, dove le barca che trasporta il libro-agens pare una cita-
zione del naviglio dantesco, peraltro fatta proprio da un com-
mentatore e illustratore della Commedia quale fu Antonio
Grifo), nonché di RVF 189 (f. 74r, dove Grifo glossa che «Di-
chiara per metaphora l’auctor qual sia il suo stato in pericolo»)
e ovviamente di RVF 323 (f. 114r, fig. 71). Quale quadro del-
la canzone-polittico delle visioni, il tema del naufragio è infat-
ti componente fissa delle varie illustrazioni manoscritte e a
stampa del più rappresentato tra i fragmenta petrarcheschi, non-
ché di quello più intrinsecamente implicato col concetto stes-
so di immagine e con l’atto del vedere.204

203 Alla realizzazione della stampa zattiana del 1756 presiede un nutrito team di ar-
tisti: per i disegni preparatori, Francesco Fontebasso, Giovanni Battista Moretti, Gaetano
Zompini, Giovanni Magnini e Michelangelo Schiavoni; per le incisioni, oltre ai già ci-
tati Zompini e Magnini, anche Giovanni Cattini, Bartolomeo Crivellari, Giovanni Bat-
tista Brustolon e Giacomo Antonio Leonardis. Le tavole dei disegni e delle incisioni,
nonché le relative didascalie, sono state riproposte con puntuali analisi storico-artistiche
nel volume di GIACOMELLO-NODARI, Le Rime del Petrarca. Un’edizione illustrata del Set-
tecento, cit.: le illustrazioni e la didascalia del fragmentum 272 compaiono alla p. 161.
204 Si veda l’intensa e approfondita lectura di SABRINA STROPPA, «Quid vides?». La can-
zone delle visioni e Ugo di San Vittore, «Lettere italiane», LIX (2007), 2, pp. 153-186, in part.
pp. 160-161: «Se “vedere” appartiene alla sfera passiva della ricezione delle immagini dal-
l’esterno,“mirar” indica invece la fase attiva della phantasia che ‘guarda’ e rielabora, e “m’ap-
parve” apre alla subitanea irruzione di un oggetto nel campo visivo, che colpisce un’atten-
zione già segnata dalla stanchezza catturandola appieno. La “fenestra” del v. 1 si pone così
come medium necessario di quel vedere: è la cornice della visione, il mezzo con cui gli og-
getti rientrano di volta in volta in un “quadro” compositivo e percettivo. L’invenzione pe-
trarchesca avrà conseguenze incalcolabili per l’idea stessa di paesaggio nella lirica occiden-

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

Fig. 70. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756.

Fig. 71. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 114r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

Esemplari in tal senso sono le due immagini che – con una


scelta prolettica molto significativa per la storia del Canzoniere
– Bartolomeo Sanvito pone ad antiporta della seconda sezio-
ne delle Rime (prima di RVF 264) in due codici realizzati nel-
l’ultimo decennio del Quattrocento. Il primo si trova a Londra

tale, o meglio di “paesaggio intellettuale”, la cui percezione è forgiata dalla disciplina degli
organi sensoriali: la vista non è organo solo recettivo, ma crea l’oggetto organizzandolo en-
tro la sua cornice. La linea che segna i confini della visione – il quadro, limitante e illimi-
tato, della “fenestra” a cui il poeta si affaccia – e anche quella che la fa, propriamente, esi-
stere». Su RVF 323 cfr. ovviamente anche: CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca, cit.;
MARCO SANTAGATA, Il naufragio dei simboli (Rvf 323), «Cenobio», XLI (1992), pp. 133-151;
e BORTOLO MARTINELLI, Veduta con naufragio: Rerum Vulgarium Fragmenta CCCXXIII, 13-
24, «Italianistica», XXI (1992), 2-3, pp. 511-535.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

presso una collezione privata (già Library of Major J.R. Abbey,


ms. 7368, c. 98v), mentre il secondo è conservato presso la Bi-
blioteca della Fondazione Bodmer a Gineva-Cologny (ms. it.
130, c. 116r).205 L’illustrazione londinese è una miniatura ta-
bellare che traduce visivamente solo quattro strofe della can-
zone 323: quella relative al cervo in sembianze umane inse-
guito dai cani e diretto verso il sarcofago (I), quella del bo-
schetto di lauro (III), quella della fonte (IV) e quella della na-
ve (II, fig. 72). La splendida tavola a piena pagina dell’esem-
plare ginevrino rinvia invece a tutte le stanze del fragmentum
pur illustrandone solo parzialmente il contenuto, ossia focaliz-
zandone la resa visiva sul momento della comparsa dell’ele-
mento perturbante che conduce alla morte/sparizione dei
simboli di Laura (fig. 73). Ancor più della dimensione quanti-
tativa, è questo spostamento del baricentro temporale della
narrazione a marcare la differenza tra le due illustrazioni di
Sanvito. I dettagli della miniatura londinese sembrano infatti
presentare la vicenda ad uno stadio evolutivo anteriore, quello
dell’apparizione dell’oggetto del desiderio: la «fera» è sì braccata
dai cani ma ancora lontana dalla tomba, il lauro è sempre in pie-
di, la fonte non pare in rovina e la barca non si è ancora schian-
tata contro gli scogli. Quest’ultimo particolare divergente è per
ovvi motivi quello che maggiormente attira la nostra attenzio-
ne, perché se accostiamo le rappresentazioni del figurante della
barca presenti nelle tavole di Sanvito, abbiamo proprio le due vi-
sualizzazioni del concettismo nautico (prima e dopo il naufra-
gio) testimoniateci anche dal manoscritto di Baltimore.
Proprio da questo punto di vista, un caso ancora più inte-
ressante per la nostra indagine ci è offerto dai codici Phillips
1926 della Staatsbibliothek di Berlino e S.M.M.2 della Glasgow
University Library, entrambi testimoni della versione francese
della canzone 323 realizzata nel 1533 da Clément Marot.206

205 Le due illustrazioni sono riprodotte e commentate, insieme a molte altre, in


SILVIA MADDALO, Sanvito e Petrarca. Scrittura e immagine nel codice Bodmer, Messina, Cen-
tro interdipartimentale di studi umanistici, 2002, pp. 80 e 99.
206 Su Petrarca e Marot si veda FRANÇOIS RIGOLOT, L’intertexte du dizain scévien:
Pétrarque et Marot, «Cahiers de l’Association internationale des études françaises»,
XXXII (1980), pp. 91-106.

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

Fig. 72. Collezione privata


(già London, Library
of Major J.R. Abbey, ms. 7368),
FRANCESCO PETRARCA,
Rime, c. 98v.

Fig. 73. Gineva-Cologny, Bibliotheca


Bodmeriana, ms. it. 130,
FRANCESCO PETRARCA, Rime, c. 116r.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Il codice berlinese è stato realizzato intorno al 1560 e, insieme


alla canzone delle visioni, riporta anche una serie di emblemi
relativi a Le six triumphes Françoys Petracque, tutti correttamente
composti da titolo, pictura e subscriptio poetica. Le successive
Six visions messire François Petracque visualizzano invece la can-
zone Standomi un giorno solo a la finestra e sono costituite da do-
dici illustrazioni disposte a coppia una in faccia all’altra (e col
restante verso di pagina bianco). Ogni immagine mostra dun-
que i due tempi della vita di Laura (prima gloriosa, poi im-
provvisamente troncata) che i sei figuranti ribadiscono di stro-
fa in strofa. Anche quella dedicata al naufragio della nave è tra-
dotta visivamente, e mostra in due quadri la stessa nave che pri-
ma procede nel mare calmo e poi affonda nella tempesta (fig.
74).207 Il codice di Glasgow porta il titolo, più tardo, di Emble-
mes en rime françoise anche se la struttura delle forme simboli-
che, analoga a quelle berlinesi, non è però completa come quel-
la dei Six triumphes. Rispetto al codice della Staatsbibliothek
l’esemplare scozzese presenta poi alcune varianti tanto nella le-
zione di RVF 323 quanto nei dettagli delle immagini, e soprat-
tutto si caratterizza per una differente organizzazione di queste
ultime, disposte sempre sullo stesso verso della pagina e in-
frammezzate dai fogli riportanti i versi di riferimento. Le se-
zioni relative alla strofa della nave registrano un ulteriore scar-
to, dal momento che la medesima imbarcazione del codice ber-
linese compare qui specularmente ribaltata (fig. 75). Se questo
dettaglio, insieme alle varianti testuali, ha indotto Myra Orth e
Richard Cooper a ipotizzare la derivazione delle illustrazioni di
Glasgow da quelle di Berlino per tramite di un’incisione in-

207 Cfr. LUTZ S. MALKE, La metafora della nave nella poesia e nelle arti figurative ro-
manze. Da Petrarca a Magritte, «Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Ar-
ti e Scienze», LXVII-LXVIII (2005-2006), pp. 195-234, in part. a p. 205: «Le due fi-
gure dei fogli 14v e 15r illustrano rispettivamente una nave che procede nel mare cal-
mo a gonfie vele e, successivamente, la stessa nave, con i tre alberi spezzati e semi-
sommersa dalle acque in tempesta, mentre sta affondando. Le due situazioni vengono
efficacemente evidenziate dalle due diverse cornici ambientali che permettono un’e-
satta percezione dei due opposti agenti atmosferici». Del codice è stata realizzata un’e-
dizione anastatica corredata da saggi critici; per la nostra indagine è soprattutto inte-
ressante il contributo di ANNE-MARIE LECOQ, Le ms. Phill. 1926 et les emblèmes, in Le
six triumphes et les six visions Messire Francoys Petracque, Reichert Verlag, Wiesbaden,
1988, pp. 90-130.

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

Fig. 74. Berlin, Deutsche Staatsbibliothek, ms. Phillips 1926,


CLEMENT MAROT, Six visions messire François Petracque.

Fig. 75. Glasgow, Glasgow University Library, ms. S.M.M.2,


CLEMENT MAROT, Six visions messire François Petracque.

termedia,208 minori dubbi sussistono sul ruolo di modello ri-


vestito dal codice scozzese per le illustrazioni presenti in al-
cune coeve edizioni a stampa. Nello specifico, si tratta delle

208 MYRA ORTH-RICHARD COOPER, Un manuscrit peint des visions de Pétrarque


traduites par Marot, in Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, a cura di JEAN BAL-
SAMO, Genève, Droz, 2004, pp. 53-71, in part. p. 59: «Nous supposons donc que les
quatre séries d’illustrations dérivent de la même source artistique, qui nous paraît fran-
caise. Le manuscrit de Berlin aurait influencé celui de Glasgow; par la suite Gheraerts
aurait utilisé le volume de Glasgow, qui se trouvait peut-être alors à Londres, pour ses
eaux-fortes de 1568, et l’artiste de 1569 aurait consulté le manuscrit de Glasgow
quand il reprit et retravailla les gravures de Gheraerts».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

acqueforti dell’olandese Marcus Gheraerts il Vecchio rinveni-


bili nel Het Theatre oft toon-neel di Jan van der Noot (London,
Dee, 1568); e delle anonime incisioni presenti nella versione
inglese del testo, quel Theatre for Worldlings (London, Bynne-
man, 1569) che viene peraltro considerato il primo libro
d’emblemi realizzato in Inghilterra – e dove il testo di Petrar-
ca compare in una traduzione attribuita, pur non senza dub-
bi, ad Edmund Spenser –.209 Le acqueforti e le incisioni si di-
stinguono per le immagini specularmente ribaltate, ma al di là
di ciò ripropongono la medesima cospicua variante rispetto
alle illustrazioni manoscritte. Nei testi a stampa abbiamo in-
fatti non dodici ma sei figure, poiché i due opposti momenti
della storia narrata in ciascuna strofa non sono sviluppati in
quadri distinti ma convivono giustapposti in un unico spazio
visivo (fig. 76).210 Di fatto dunque le illustrazioni a stampa ra-
dicalizzano la relazione tra le due situazioni di ogni strofa che

209 Cfr. MICHAEL BATH, Verse Form and Pictorial Space in Van der Noot’s Theatre
for Worldlings, in Word and Visual Imagination. Studies in the Interaction of English Litera-
ture and the Visual Arts, a cura di KARL J. HÖLTGEN, PETER M. DALY e WOLFGANG LOT-
TES, Erlangen, Erlangen Forschungen, 1988, pp. 73-105, in part. a p. 85: «Moreove, if
we are looking for a model for the type of space-coding for temporal sequence whi-
ch we have described in the Van der Noot illustrations, in which the succession of pa-
st and present events (in this case worldly glory followed by worldly vanity) is depic-
ted in the same frame, as foreground and background motifs, we have to look no
further than the illustrated Aesops. A good example would be the fable of the stag and
reflection, which tells how a stag grew exceedingly proud of its fine antlers when it
glimpsed them reflected in a fountain whilst drinking. [...] To read this picture accu-
rately, we need to realise that there are not two stags, but one, shown at different sta-
ges of a narrative which illustrates the sequence of hubris and peripeteia, or fable and
moral. The same is true of each of the Theatre illustrations [...]».
210 Cfr. The English Emblem Tradition, a cura di PETER M. DALY, Toronto-Buffa-
lo-London, University of Toronto Press, 1988, vol. I, pp. 8-13, per il nostro emblema
cfr. p. 9. Su quest’opera si veda anche il contributo recente di PAUL J. SMITH, Petrarch
Translated and Illustrated in Jan van der Noot’s Theatre, in Petrarch and his Readers in the
Renaissance, a cura di KARL A.E. ENENKEL e JAN PAPY, Leiden-Boston, Brill, 2006, pp.
289-326; a p. 318, sulla scorta di dettagli iconografici, lo studioso prende posizione sul
quadro genealogico dei vari cicli illustrativi: «On the basis of these facts it seems logi-
cal to suggest two hypotheses: either the Berlin manuscript was manufactured
between the Glasgow manuscript and the printed illustrations, or the Berlin manu-
script is posterior both to the Glasgow manuscript and the printed illustrations. In this
last case the painter of the Berlin manuscript had as a second model one of the prin-
ted versions of the Theatre, the first model, of course, being the Glasgow manuscript.
This last hypothesis seems the best [...]».

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

Fig. 76. JAN VAN DER NOOT, Theatre for Worldlings,


London, Bynneman, 1569.

anche il manoscritto berlinese (non si sa se prima o dopo)


aveva prospettato come stretta e significante, tale insomma da
giustificare una presentazione a dittico.
Se tale relazione semantica tra le illustrazioni non fa che ri-
specchiare la connessione logica del dettato poetico petrarche-
sco all’interno della canzone delle visioni, è anche vero che le
due possibili configurazioni del motivo della nave ricorrono
sovente nel restante corpus del Canzoniere, presentandosi di
volta in volta in alternanza o in coabitazione. Quali rappresen-
tazioni generali dei due possibili stati della sorte potremmo
forse considerare anche i due emblemi di Baltimore, non a ca-
so svincolati da RVF 323 (anche se in costante dialogo con
questo fragmentum di sintesi della poetica e del racconto pe-
trarcheschi) e ancorati ad altri componimenti che elaborano il
motivo nautico per via di similitudine e/o metafora. Se – ve-
dremo più avanti – l’emblema 28 presenterà come avvenuto il
naufragio solo minacciato nel sonetto 132, l’elaborazione sim-
bolica della sestina 80 ritrarrà invece come rapida e apparente-
mente prosperosa la navigazione che lungo l’intero fragmentum
è rappresentazione metaforica dell’esistenza del protagonista.
La sestina 80 gioca infatti interamente sulla comparazione
tra navigante (amante) e nave (vita amorosa), a sottolineare la

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A. TORRE, VEDERE VERSI

completa dipendenza del primo elemento dal secondo, dipen-


denza che talora può risultare proficua, talora soffocante (ed è
la maggioranza dei casi, nonché il portato morale dell’emble-
ma amorosamente inteso). Insieme ai contigui fragmenta 76, 79
e 81, il testo va infatti a comporre una microsequenza incen-
trata sulla constatazione della furia incontrollabile e mortale
della passione amorosa e sulla speranza di un’agognata ma non
realizzata conversione.211 Nello specifico, si stende qui «il bi-
lancio di una esperienza, dall’illusione iniziale dell’amore alla
grazia di una prima intuizione del traviamento, dal dissidio in-
teriore che minaccia il “fraile legno” della vita alla preghie-
ra».212 Analogamente, è stato notato che, insieme alle altre due
sestine “centrali” 142 e 214, il fragmentum 80 testimonia anche
un radicale cambio di prospettiva tematico-stilistico nei con-
fronti della forma-sestina. Questo cambio di prospettiva si se-
gnala tramite precisi indicatori stilistici (astrattezza delle paro-
le-rima non relative alla natura o a fenomeni climatici; costan-
te modificazione aggettivale della parola-rima; soppressione
della tenuta stagna della strofa; sviluppo narrativo del testo che
offre l’impressione del dispiegarsi lineare di una vicenda; as-
senza di un registro “petroso”; finalità moralistico-penitenziale

211 Cfr. JOHANNES BARTUSCHAT, Il ritratto di Laura (RVF 76-80), in Il Canzonie-


re. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 207-223, in part. p. 207: «Il segmento macrote-
stuale che affrontiamo è preceduto da due unità testuali contraddistinte da una forte
compattezza tematica e lessicale: mi riferisco alle tre canzoni degli occhi (71-73), e ai
sonetti 74 e 75 dedicati entrambi al tema della “stanchezza” (stanco è la parola chiave
del primo verso del son. 74 e l’ultima parola del son. 75). In una retorica di tipo an-
tifrastico, il cui principio viene subito esibito nei primi due versi del son. 74, i due
componimenti affermano che il poeta non potrà mai stancarsi di amare (74) e di poe-
tare (75). Possiamo notare, ad ulteriore riprova della densità dei legami che si tessono
tra i componimenti di questa sezione, che la parola chiave stanco aprirà poi il son. 81,
con un significato radicalmente diverso, d’ispirazione penitenziale; pertanto il son. 81
si presenta come una palinodia dei sonetti 74 e 75 (e d’altronde anche il son. 82 ri-
prende la parola chiave stanco). Dall’affermazione della perennità del canto d’amore al-
la volontà di sfuggire al giogo della condizione amorosa: questo è il primo arco di ten-
sione che sottostà alla sezione 76-80». In associazione al campo metaforico nautico il
topico inciso petrarchesco sulla fiacchezza morale dell’agens ricorre anche in RVF 151,
1-4 (sebbene mediato attraverso la similitudine): «Non d’atra e tempestosa onda ma-
rina | fuggìo in porto già mai stanco nocchiero, | com’io dal fosco e torbido pense-
ro fuggo [...]».
212 GIORGIO FULCO, Lezioni sul Canzoniere, Napoli, Liguori, 1971, p. 202.

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

che prevale sul registro erotico), e sviluppa il tema del «conflit


intérieur entre la passion pour la créature et l’amour pour
Dieu, ainsi que l’urgente nécessité d’un changement de direc-
tion».213 Gabriele Frasca ha riconosciuto proprio in questa se-
stina il veicolo di un «sospetto (etico e religioso) giusto sui
contenuti propri della forma», e quindi la consapevole circo-
stanza di un «ripensamento formale» sugli aspetti tecnici, logi-
co-relazionali e semantici della sestina; sospetto rivelatore for-
se anche di un più generale percorso di riconfigurazione della
poetica (e della spiritualità) petrarchesca.214 Sulla scorta della
lettura della parola-rima vita effettuata da Andrea Pulega,215
proviamo allora ad illustrare lo svolgimento discorsivo della se-
stina attraverso un’analisi delle diverse accezioni che assumono
nelle varie stanze le parole-rima afferenti al campo metafori-
co-semantico della navigatio, quello su cui si fonda l’elabora-

213 Cfr. BARTUSCHAT, Il ritratto di Laura (RVF 76-80), cit., p. 210: «Come noto, le
nove sestine del Canzoniere si articolano in tre gruppi di tre componimenti. Le pri-
me tre (22, 30, 66) sono di stampo arnaldiano e dantesco, impregnate da una forte sen-
sualità e espressione di una disperata passione erotica; le tre sestine centrali (80, 142,
214) sono poesie d’ispirazione morale e penitenziale, mentre le tre ultime sestine (237,
239, e la doppia 332) costituiscono un ritorno alla prospettiva del primo gruppo (ri-
torno segnalato dalle numerose corrispondenze tra la 237 e la prima sestina 22). La se-
stina 80 apre quindi questo secondo ciclo di sestine che è di notevole importanza an-
che per la storia redazionale del Canzoniere poiché la sestina 142, racconto di una cri-
si spirituale, chiudeva la prima parte della redazione Correggio in cui precedeva im-
mediatamente la canz. 264».
214 GABRIELE FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli, Bibliopo-
lis, 1992, in part. p. 279: «L’intera strutturazione logico-sintattica risente dello stravol-
gimento delle tematiche proprie della forma: qui Petrarca abbandona (ed è una mu-
tazione radicale) il primato ipotattico delle stanze dantesche, così come l’oscillazione
temporale all’interno del mondo commentato. Il trionfo dei tempi narrativi s’accom-
pagna alla decurtazione del futuro, cui si sostituiscono le forme verbali della preghie-
ra (4 presenti congiuntivi e addirittura, nel congedo, un imperativo)».
215 ANDREA PULEGA, Da Argo alla nave d’amore: contributo alla storia di una metafo-
ra, Firenze, La Nuova Italia, 1989, in part. p. 105; «Anche il solo esame della parola-ri-
ma vita ci consente di concludere che [...] un ampio arco semantico è stato percorso:
dal significato di “esistenza dell’uomo in generale” (oggettivazione, propria della I stro-
fa) a quello di amorosa vita come fatto positivo e negativo insieme del poeta (soggetti-
vizzazione, propria della II strofa); dalla sintagmatica referenzialità a Dio stesso (nella
III strofa) alla emblematizzazione della croce come insegna dell’altra vita (nella IV stro-
fa); dalla eticizzazione di poca vita della V strofa a quella di usata vita della VI che, en-
trambe, rappresentano la fondamentale autoaccusa petrarchesca in ordine alla propria
scarsa volontà, cioè alla propria abituale accidia».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

zione emblematica, nonché quello esplicitamente preposto al-


la costruzione analogica di un discorso morale sull’esistenza e
il destino dell’uomo.216
Il dettaglio dello scoglio sembra rivestire – tanto a livello te-
stuale quanto a livello iconico – un ruolo di secondo piano,
mentre sarà determinante nella situazione narrativa visualizza-
ta dall’emblema 28. Assente nella pictura dell’emblema 18, l’e-
lemento non incide neppure come parola-rima, limitandosi a
segnalare la condizione di pericolo cui sembra destinato il pro-
tagonista. Il concetto di legno è costante immagine della ‘vita’,
e tale connotazione viene resa esplicita nell’emblema di Balti-
more dalla presenza di un uomo sul naviglio (tav. 18).217
È questo un ulteriore elemento di distinzione dei nostri
emblemi da tutti quelli che, ad esempio, hanno elaborato sim-
bolicamente il dettato poetico di RVF 323. Forse con un’in-
genua volontà di chiarificazione del proprio messaggio mora-
le, l’emblematista sceglie di esibire la compresenza di figuran-
te e figurato nelle alterne vicende della loro comune storia, e
di esplicitare così il valore sovraindividuale e la funzione di
exemplum morale sintetizzati nella figura visibile dell’io lirico.
Alle rappresentazioni di una vita fragile (v. 3 «picciol legno», v.

216 FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, cit., p. 280: «All’interno del-
l’isotopia metaforica centrale (ESISTENZA TERRENA = CONDUZIONE DI UNA NAVE), si
può reperire per ogni parola-rima un significato privilegiato (che, naturalmente, non
è l’unico), così che legno vale ‘corpo’ (ed è dunque la fragilità della materia), vela indi-
ca le ‘spinte della volizione’ (il libero arbitrio, si potrebbe dire), scogli sono inevitabil-
mente i ‘peccati’ e porto la ‘retta conduzione dell’esistenza’, se non addirittura la ‘sal-
vezza eterna’». Alla nota 40 di p. 294 Frasca riporta alcune testimonianze della fortu-
na quattro-cinquecentesca di RVF 80 come modello di sestina morale, fra le quali va-
le almeno la pena di ricordare Crudele stella, anzi crudele arbitrio di Michelangelo, per la
quale cfr. ivi p. 343: «Le tematiche sono dunque debitrici, a ben vedere, dalle sestine
petrarchesche dichiaratamente ‘morali’: da un lato la fortunata allegoria del vano legno
(v. 6) è chiaramente desunta da Chi è fermato (dei cui relitti lessicali, a partire dalle stes-
se parole-rima legno e vela, la sestina è tutta intessuta; né andrà dimenticato dai vv. 13-
14 della sestina del Canzoniere, “chiuso gran tempo in questo cieco legno / errai”, so-
prattutto se si analizza la sua prima occorrenza al v. 5: “ond’io errando e vagabondan-
do andai”); [...]».
217 Questa è la didascalia di commento all’emblema 18: «La sopra scritta meda-
glia può servire a diversi suggetti: può dire ch’egli ha più favore che non vuole, ch’e-
gli ha più desio che forza, et altre cose che l’huomo se ne potrà accomodare, inferen-
do a un fine sopra scritto; il verso è tolto dal Petrarca».

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

20 «legno», e v. 28 «fraile legno») si accompagnano infatti quel-


le di una vita compromessa dal dèmone erotico nella sua più
intima sede (v. 12 «dentro al legno», v. 13 «cieco legno», v. 35
«acceso legno»). Analogamente bifronte è l’immagine-parola
rima del porto, esito metaforico della vicenda che risulta com-
plementare a quello del naufragio, e a cui Petrarca ricorre an-
che in un’opera strettamente connessa col Canzoniere come il
Secretum. L’immagine compare infatti in due passaggi a sottoli-
neare esemplarmente la differenza esistenziale tra il magister
Augustinus e il discipulus Franciscus.218 Nel corso della sestina 80
il concetto oscilla tra il polo negativo di un’esistenza fine a se
stessa e vòlta alla sola dimensione terrena (v. 5 «ritrarsi in por-
to», v. 9 «miglior porto», v. 13 «in alcun porto»), e il polo posi-
tivo di un approdo a una più solida e compiuta salvezza mora-
le e spirituale (v. 18 «il porto», v. 26 «essere a porto», v. 34 «in
qualche porto», v. 39 «a buon porto»).219 Di particolare inte-
resse pare infine essere l’elaborazione (testuale prima e simbo-
lica poi) del dettaglio iconografico della vela. Esaltato dall’em-
blema per tramite di un vento personificato che la gonfia, es-
so visualizza una parola-rima che si riveste di significati positi-
vi o negativi secondo il senso generale della strofa. Le prime
due occorrenze del termine sono ancorate a predicati che
condividono il medesimo campo semantico (‘riporre la pro-

218 PETRARCA, Secretum, I, p. 114 («Fr. Consulte; neque enim aut pluribus res
egebat aut aliud quodlibet in pectus hoc profundius descendisset; eo presertim quia,
licet per maximis intervallis, quanta inter naufragum et portus tuta tenentem, inter-
que felicem et miserum esse solent, quale quale tamen inter procellas meas fluctua-
tionis tue vestigium recognosco»); e p. 132 («Fr. [...] Et ego, in mari magno sevoque
ac turbido iactatus, tremulam cimbam fatiscentemque et rimosam ventis obluctanti-
bus per tumidos fluctus ago. Hanc diu durare non posse certe scio nullamque spem
salutis superesse michi video, nisi miseratus Omnipotens prebeat ut gubernaculum
summa vi flectens antequam peream litus apprehendam, qui in pelago vixerim mo-
riturus in portu»).
219 DOMINIQUE DIANI, Canzoniere 132, «Révue des études italiennes», n.s.,
XVIII (1972), pp. 111-165, a p. 159: «Le port est de son côté un noyau fondamental
au même niveau que la barque et la mer; à l’antithèse port-navigation et port-tempê-
te qui inciterait à mettre porto au niveau des éléments secondaires tels que venti ou sco-
gli, s’ajoutent en effet des antithèses telles que port-chemin. Une image de ce type est
toujours, et dans les conxtes les plus divers, explicitée par Pétrarque (ici les aperta ver-
ba : saver-error), qu’il l’emploie pour signifier l’opposition entre amour et paix de l’âme,
entre vie du monde et asiles ou ailleurs désirés, entre luxure et continence».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

pria fiducia’, ‘affidarsi’) ma esprimono due differenti condizio-


ni di fiducia. Ad una vela (v. 6) che ancora confida nella sal-
dezza del timone (ossia, della volontà) e spera di riuscire a «ri-
trarsi in porto», succede infatti un’altra vela (v. 7) che già pare
scissa dal soggetto e in piena balìa dell’«aura soave».220 Si assi-
ste poi a un vero e proprio ammutinamento interiore, in rela-
zione al quale l’iniziale vincolo di fiducia viene meno, e la ve-
la (ormai irrimediabilmente altra rispetto all’agens) assume il
comando assoluto e indisturbato della nave dell’esistenza (v.
14: «la vela [...] mi trasportava al fine»). Solo il richiamo del-
l’auctor celeste svela la natura illusionistica del potere di Eros-
Laura (ridotta a «gomfiata vela», v. 22), e sprona il protagonista
a riprendere il governo della propria vita superando ciò che ne
ostacola il corso («di su da [...] vid’io»). Si tratta però di una
reazione momentanea e non sufficientemente risoluta per
contrastare il rinvigorito assalto di una passione che da «aura
soave» è divenuta «vento» e ha ripreso con furia il controllo
della vela (ora non più solo gonfiata, ma quasi «piena» di so-
stanza, v. 29).221 L’ultima strofa ribadisce il desiderio di salvez-

220 Cfr. MARIANNE SHAPIRO, Hieroglyph of Time. The Petrarchan Sestina, Min-
neapolis, University of Minesota Press, 1980, in part. pp. 212-213: «The policing of the
will would culminate in centrality and repose, yet the poem is motivated by the in-
flated sail of enamorment. Against the indexical “insegne di quell’altra vita” (strophe
IV) it describes an icon of desire. “L’aura soave”, metamorphosed to a violent wind,
causes both the body-ship’s deviation from its appointed course and the excess full-
ness that produces the poem. Now the verbal correlate of Laura is revealed as a trans-
forming agent, messenger between the members of Petrarch’s duality. [...] The parono-
masia on Laura’s name exists to revivify, metonymically, the ship-allegory. Laura’s in-
trusion into the store of texts internalized by Petrarch transforms the nautical dis-
course contextually, hence metonymically, refreshing the senescent connections of its
meaning».
221 Cfr. RAFFAELLA PELOSINI, Il sistema-sestine nel Canzoniere (e altre isotopie di
Laura), «Critica del testo», I (1998), 2, pp. 665-721, in part. pp. 697-699 e 702-703: «Tra
tutti, il contesto più utilizzato in cui compaia il lemma “vento” è quello della naviga-
zione, che, inserito in componimenti in cui prevalgono riflessioni gnomiche e mora-
li e privo di agganci espliciti con momenti della narrazione, è impiegato da Petrarca
come allegoria della vita, e principalmente, come si vedrà, della vita amorosa. [...]. È
dunque nella sestina 80, tutta ampiamente incentrata sull’allegoria della navigazione,
che, per la prima volta in questa analisi, il vento denota, in virtù delle precise corri-
spondenze descritte con la sestina 66, la donna amata, Laura, già d’altra parte evocata
al v. 7 della medesima sestina tramite l’isotopia dell’aura. [...] Questa schematica anali-
si dei significati assunti dal lemma “vento” nell’intero Libro petrarchesco porta innan-

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

za e autonomia dell’agens, ma lo fa nella forma di una debole


speranza, di una pura presunzione cui non corrisponde alcuna
vigorosa volontà (cfr. v. 33 «ch’i’ sarei vago di voltar la vela»,
dove l’atto di riconquista del proprio destino è dato solo co-
me possibile dalla doppia attenuazione esercitata del condizio-
nale e dall’attributo «vago»). Solo una preghiera, ossia solo il
completo affidarsi al vero Signore, resta al travagliato agens qua-
le ultima, fragile via di salvezza attraverso cui lenire i tormen-
ti di un’«affannata vela» (v. 39), ora a tutti gli effetti ritornata
figurante dell’io lirico. Proprio analizzando l’ultima stanza,
Giorgio Fulco nota che essa «contrappone all’ottativa dei pri-
mi quattro versi, in cui il naufrago, l’esule, aspira ad invertire la
rotta e a gettare le àncore “in qualche porto”, la remora del-
l’ardore tenace che inchioda all’“usata vita”».222
Curiosamente l’immagine della remora cui Fulco ricorre
per illustrare il contenuto del passo – ossia l’abitudine ai dolci
tormenti erotici quale ostacolo a una piena conversione spiri-
tuale – è anche uno degli elementi caratterizzanti alcune ela-
borazioni emblematiche dell’isotopia metaforica della nave.
Fin dall’edizione 1531 gli Emblemata di Alciato riportano in-
fatti l’emblema In facile a virtute desciscentes, nel quale le diffi-
coltà che la vita può presentare ai giovani, e in particolare alla
loro formazione etica e intellettuale, sono raffigurate attraver-
so il motivo di una barca frenata nel suo cammino da una re-
mora (fig. 77). Questo piccolo animaletto, ricordato dalla let-
teratura zoologica classica e dai bestiari medievali, diviene
dunque espressione di un ostacolo apparentemente insignifi-
cante ma che determina il ritardato, o addirittura impossibile,
conseguimento di ambiziosi progetti. Il contesto in cui Alcia-
to colloca tale impedimentum risulta peraltro particolarmente
pregnante nella prospettiva di traviamento erotico-passionale
cui l’«acceso legno» e «l’usata vita» di RVF 80 alludono, dal

zitutto a concludere che in soli due luoghi – rispettivamente della sestina 66, v. 32 e
della sestina 80, v. 30, le cui relazioni stilistiche e lessicali d’altra parte sono state sopra
descritte, “vento” costituisce l’isotopia semantica del personaggio femminile del Can-
zoniere. In tutti gli altri casi, sebbene si verifichi un rapporto di contiguità con Laura,
non pare possibile instaurare una completa sovrapposizione semantica tra il “vento” e
la donna amata».
222 FULCO, Lezioni sul Canzoniere, cit., p. 203.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 77. ANDREA ALCIATI, Emblematum libellus,


Paris, Wechel, 1534, p. 53.

momento che – afferma l’epigramma della subscriptio – «Parva


velut limax remora spreto impete venti, | Remorumque ratem
sistere sola potest. | Sic quosdam ingenio et virtute ad sidera vec-
tos | Detinet in medio tramite causa levis. | Anxia lis veluti est,
vel qui meretricius ardor, | Egregijs iuvenes se vocat a studijs».223
Nel quadro concettistico del figurante esistenziale della naviga-
tio la remora svolgerebbe dunque una funzione simile a quella
dello scoglio (perfettamente esemplificata nell’emblema 28 di
Baltimore), sarebbe inteso quale perturbamento amoroso (o
comunque terreno) di una condotta di vita eticamente limpi-
da e spiritualmente indirizzata, ossia petrarchescamente quale
«aura» o «vento» che rallentano o deviano il corso verso il
«buon porto» della cristiana salvezza. Sempre all’interno del
corpus alciatiano compare anche un’altra occorrenza dell’im-
magine nautica accostabile a quella dell’emblema 18 di Balti-
more. Si tratta del XLIII emblema, Spes proxima, presente in
pressoché tutte le principali edizioni e traduzioni degli Emble-
mata compresa quella patavina del 1621. L’immagine della bar-
ca in alto mare è qui visualizzato termine di comparazione del
Rei publicae Status costantemente «pluribus interturbatur afflic-

223 ANDREA ALCIATI, Emblemata, Augsburg, Steyner, 1531, c. C5r-v (corsivi miei).

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E PIÙ CH’I’ NON VOREI PIENA LA VELA

tionibus» (p. 225). Con la mente al nostro emblema e soprat-


tutto alla sua natura di riscrittura simbolica del fragmentum pe-
trarchesco, può però forse risultare interessante il fatto che l’u-
nica variante – riportata dalla tradizione testuale dell’opera di
Alciato – a questa declinazione politica dell’emblema ci venga
offerta proprio dalla prima versione italiana degli Emblemata,
quella realizzata da Giovanni Marquale e stampata a Lione nel
1551 per i tipi di Guillaume Rouille (fig. 78). Il dissidio inte-
riore petrarchesco tra il potente desiderio di lasciarsi traspor-
tare dalle passioni e la debole volontà di resistere ad esse per
trovare scampo in un’«altra vita» sembra infatti innervare in
profondità l’epigramma-ottava dell’emblema Che la speranza
dee venir di sopra. E tutte le keywords della sestina 80 trovano
puntuale, e forse non casuale, ripresa in esso: «Come da l’on-
de, e dal furor de’ venti, | In mezzo ’l mare combattuto legno: |
Tal percossa da pene e da tormenti | È nostra vita senza un sol
ritegno; | Se bei lumi di sopra almi e lucenti | (Nel pelago mortal
solo sostegno) | Non la reggono ogn’hor, sí che dal torto | Suo
camin speri di ridursi in porto» (p. 44, corsivi miei). Se in questo
esempio possiamo riscontrare l’ennesima conferma dell’onni-
potenza modellizzante dell’imagery petrarchesca sulla lirica (an-
che epigrammatica) italiana moderna, pure la leggibilità poli-
tica e sovraindividuale del figurante nautico non pare del tut-
to aliena dal campo della nostra indagine.

Fig. 78. ANDREA ALCIATI, Diverse imprese,


Lyon, Rouille, 1551, p. 44.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Commentando le paradigmatiche immagini dell’agens alla


finestra e della barca in mare poste in apertura della canzone
delle visioni, Rosanna Bettarini ricorda infatti un passaggio di
Seniles IV, 3, 7 in cui Petrarca narra a Pietro da Bologna di aver
assistito il 4 giugno 1364 all’entrata di una galea trionfante nel
porto di Venezia.224 Sulla scorta di tale testimonianza, Sabrina
Stroppa ci consegna una riflessione fortemente suggestiva per
il capitolo di ricezione emblematica petrarchesca che si è cer-
cato di ricostruire intorno alla rappresentazione simbolica del-
la sestina 80 offertaci dall’emblema 18 di Baltimore:

[...] il trasferimento dell’immagine dal registro


della cronaca a quello del simbolo potrebbe insi-
nuarsi nell’annotazione petrarchesca che la nave ap-
parve ai suoi occhi “hora ferme diei sexta”, nell’ora
del disvelamento del mezzodì; nell’ora canonica di
Laura e delle sue apparizioni. Non è peregrino pen-
sare che la descrizione ‘politica’ dei trionfi di Vene-
zia legati all’arrivo di quella nave abbia trascinato
con sé una visione morale dello stesso spettacolo,
nell’ottica, perfettamente congeniale al Petrarca liri-
co, della considerazione della natura effimera dei
trionfi umani. 225

224 FRANCESCO PETRARCA, Rerum senilium libri, IV, 3, 7, a cura di ELVIRA NOTA,
Paris, Les belles lettres, 2002, vol. II, p. 59: «Cum ad secundo Nonas Iunias anni huius
millesimi trecentesimi sexagesimi quarti, hora ferme diei sexta, forte ad fenestram sta-
rem maria alta prospectans, [...] subito longarum una navium, quas galeas vocant, ra-
mis circumfulta frondentibus portus ostia remis subit [...]».
225 STROPPA, «Quid vides?». La canzone delle visioni e Ugo di San Vittore, cit., p. 170.

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SUE SPERANZE DI FÉ COME SON VOTE

Tav. 19

19. Sue speranze di fé come son vote

Venendo ora all’ultimo degli emblemi ‘trionfali’ della raccol-


ta, possiamo riscontrare in coda alla già ricordata sequenza
anaforica relativa alle immagini di Amore (so) la presenza del
verso 180 («sue promesse di fé come son vòte») a cui dà corpo,
sul manoscritto di Baltimore, l’emblema 19. Questa espressione
simbolica raffigura Cupido nell’atto di indicare un cespuglio di
rose e viole, e offrire un paio d’ali a un uomo seduto fra i rovi
con mani e piedi imprigionati (tav. 19). Il motto riporta la le-
zione «speranze» (invece di «promesse»), poiché con ogni proba-
bilità la memoria poetica dell’inventor dell’emblema è stata qui
condizionata dal verso precedente che, in certi testimoni della
tradizione manoscritta e nella Vulgata cinquecentesca dei
Triumphi, recita «le speranze dubbiose e ’l dolor certo» invece di
«le mani armate, e gli occhi avolti in fasce». La variante «speran-
ze» potrebbe però esser spiegata non solo come difetto di me-
moria poetica da parte dell’autore dell’emblema (lectio facilior
questa, valida anche, e forse a maggior ragione, per altre citazio-
ni scorrette dai Triumphi). Ricordiamo infatti che per la difficile
situazione testuale del capitolo e soprattutto dei suoi versi con-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

clusivi (dal v. 178 almeno) sono state avanzate proposte di lezio-


ne differenti. Come sottolinea Ariani, la variante relativa al v.
179, riportata dalla Vulgata, viene accettata anche da Beccadelli
(ossia dalla redazione ritenuta definitiva dagli editori moderni
Appel e Chiorboli).226 Al di là di tali questioni filologiche, è da
notare che l’emblema rappresenta un interessante caso di equi-
librio tra esegesi figurata del dettato poetico trionfale e riuso
emblematico del concettismo petrarchesco. Se infatti da una
parte il motto condensa incisivamente il portato morale di gran
parte della riflessione lirica petrarchesca (ossia, la tensione fra
speranza e timore, tra fiducia e disinganno); dall’altra l’immagi-
ne può esser còlta come un’efficace sintesi dei versi conclusivi
del capitolo (vv. 172-187), andando a visualizzare sinotticamen-
te il tópos dei lacci d’amore (ricordato ai vv. 172-174), l’icono-
grafia di Cupido come dispettoso fanciullo alato (v. 175: «so co-
me Amor saetta, e come vola»), e la tradizionale natura ambigua
del sentimento amoroso. Si potrebbe affermare che, nella sua cu-
ra di riprodurre i dettagli relativi ai principali nuclei concettisti-
ci del testo, l’espressione simbolica venga costruita secondo un
processo di agglutinamento di topoi ed immagini esemplari, ana-
logo a quello che in alcune zone dei Triumphi articola la strut-
tura ad elenco dei cortei osservati dall’amante-viator:

L’indifferenza petrarchesca verso una scansione


nitida del racconto o anche del semplice elenco, la
dice lunga non solo sulle sue impazienze diegetiche,
ma sulla natura squisatamente antiquaria ed etica
della biblioteca figurata nei Triumphi. L’elenco non
ha dunque sempre una funzione diegetica, è piutto-
sto un contenitore diacronico di emblemi conse-
gnati alla memoria poetica del lettore, figurati indif-
ferentemente come attori del trionfo o come cita-
zioni squisitamente letterarie. L’ambiguità (non ov-
viata, in sede di rielaborazione, dalla cassatura di al-
cuni “vidi” che, ai vv. 157-62 [di TC II], avrebbero
reso anche più surreale lo sconcerto fra tempo nar-

226 ARIANI, Commento, p. 162 n.

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SUE SPERANZE DI FÉ COME SON VOTE

rativo e fissazione emblematico-citazionale) dei di-


spositivi adusati da Petrarca trasferisce di peso, nella
narrazione, una Biblioteca di classici offerti in vol-
gare e appena drammatizzati in serialità espositive: la
dinamica di gran parte dei Triumphi è tutta qui.227

A commento del presente emblema, vorrei soffermarmi in


particolar modo su due dei motivi sopra citati – il dissidio pas-
sione-ragione e la definizione iconografica di Amore –, in
quanto temi che possono aiutarci a meglio comprendere il si-
gnificato dell’espressione simbolica presa in sé o messa in rela-
zione con le altre occorrenze emblematiche di matrice trion-
fale. A proposito di quest’ultimo aspetto pare soprattutto inte-
ressante la soluzione figurativa adottata dall’emblematista per
transcodificare il concettismo espresso nel testo dalla finale
coppia antinomica “mèl-assenzio” (v. 187). L’intrinseca natura
agrodolce del sentimento amoroso viene infatti illustrata me-
diante la contrapposizione tra il groviglio di rovi, su cui è se-
duto l’amante-prigioniero, e il cespuglio di rose e viole indi-
cato da Amore. La didascalia suggerisce una lettura dell’icono-
grafia pienamente coerente con la profonda revisione morali-
stica che della situazione erotica narrata nel testo petrarchesco
ci offre l’intera raccolta emblematica statunitense:

Questo è una persona a la qual fu promesso che,


rendendosi ad amore, non solo si riposarebbe fra le
rose e le viole ma che d’avantaggio amore gli da-
rebbe ale da salire al cielo; e tutto al contrario gl’a-
venne che in vece de le rose ebbe le spine, et in
cambio de le ali per volare al cielo fu constituto et
incatenato su la bassa e nuda terra; e però dice il so-
pra scritto verso tolto dal Petrarca.

Siamo dunque di fronte a una critica dei topici inganni di


Amore, che mai mantiene fede alle promesse di esaudire i de-
sideri dell’amante (le rose e le viole) o almeno di liberarlo dai

227 ARIANI, Introduzione, cit., p. 109.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

tormenti della passione (le ali), anzi ne frustra impietosamen-


te ogni speranza di conquista (i rovi secchi) e ne intensifica il
doloroso asservimento (i ceppi). L’uomo incatenato è dunque
nella sua indeterminatezza («una persona») l’imago agens fon-
damentale del meccanismo cognitivo predisposto dall’emble-
matista. Egli viene offerto agli spettatori dell’immagine sim-
bolica come speculum entro cui riconoscere se stessi (e il pro-
prio inevitabile destino) una volta che si è completamente ce-
duto agli inganni della lussuria. Nell’individuo rappresentato
è però da riconoscere anche l’io lirico dei Triumphi; colui che
a quell’altezza del poema sta dichiarando tutta la conoscenza
(so) acquisita attraverso una dolorosa esperienza diretta del
sentimento amoroso (e delle sue trappole); colui nel quale chi
medita sull’emblema, tenendo ben a mente il dettato petrar-
chesco, può rinvenire l’unica via di fuga possibile dai ceppi
della passione. Come gli altri emblemi trionfali, anche questo
pare infatti avere una doppia possibilità di lettura; peraltro
suggerita quest’ultima dal confronto con l’iconografia di altri
emblemi, non trionfali, della raccolta (ad esempio, i già ana-
lizzati emblemi 6 e 14).
Due sono le polarità da cui il lettore può evincere l’assiologia
proposta dall’espressione simbolica (vizio-virtù, passione-ragione,
pudicizia-lussuria). Una è esplicitata dalla disposizione, sull’asse
orizzontale, del rovo di spine (a sinistra) e dalla macchia di rose e
viole (a destra). L’altra viene evocata soltanto per allusione dai det-
tagli delle ali («per volare al cielo») e delle catene (che legano alla
«bassa e nuda terra»), e la proiezione della scelta sull’asse verticale
è visualizzata anche dalla loro sovrapposizione perpendicolare.
Svincolata da un discorso interno al dominio di Cupido, l’imma-
gine potrebbe allora voler comunicare la necessità di abbandona-
re i perturbamenti dell’esistenza terrena per (ri)trovare la serenità
perduta nella spiritualità delle ragioni celesti. A sostenere una let-
tura ‘neoplatonica’ dell’emblema potrebbe altresì concorrere l’ico-
nografia di Cupido, che gioca un ruolo cruciale tanto nell’imma-
gine quanto nel correlato passaggio trionfale. Il dio dell’amore ri-
tratto nel poema condivide tratti del modello classico (cfr. TC I,
23-24: «sovr’un carro di foco un garzon nudo | con arco in man
e con saette a’ fianchi») e dettagli della cultura letteraria e grafica
contemporanea a Petrarca (la variante a TC III, 179: «le mani ar-

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SUE SPERANZE DI FÉ COME SON VOTE

mate, e gli occhi avvolti in fasce»).228 La sua definizione, inoltre,


rivela il costante dissidio petrarchesco tra necessario rigore filolo-
gico ed esigenze della personale coscienza creatrice: «Cieco non
già, ma faretrato il veggo; | nudo, se non quanto vergogna il vela;
| garzon con l’ali: non pinto, ma vivo» (RVF 151, 9-11). Un’ana-
loga libertà sembra appartenere anche all’immagine emblematica,
che nella resa dell’iconografia oscilla tra fedeltà e tradimento. L’in-
tensa policromia con cui vengono ritratte le ali di Cupido è, ad
esempio, un’attenta traduzione figurativa del dettato testuale pe-
trarchesco (TC I, 26-27: «ma su gli omeri avea sol due grand’ali |
di color mille, tutto l’altro ignudo»; e in TC IV, 94 si parla di «pur-
puree penne»), che a sua volta costituisce però «il segno di massi-
mo distanziamento dall’iconografia classica, che non conosce ali
policrome di Cupido, che sono caratteristica tutta medievale per
una contaminatio con le ali degli angeli».229
Proprio questo dettaglio può risultare cruciale per dinamizza-
re l’interpretazione dell’espressione simbolica, dal momento che

228 Per il ruolo non secondario giocato dalla fonte trionfale petrarchesca nella defi-
nizione di questo modello iconografico (utilizzato anche nell’emblema qui analizzato) si
veda BATTAGLIA RICCI, Immaginario trionfale, cit., pp. 259-263: «[...] nell’analisi iconografi-
ca occorre tener conto della vischiosità della tradizione e delle convenzioni proprie del lin-
guaggio figurato. [...] Si guardi, ad esempio, Cupido. Radicalmente remoto dall’immagi-
nario dell’Alighieri, che nella Vita Nova aveva raffigurato Amore come “un giovane vesti-
to di bianchissime vesti” non troppo dissimile dagli angeli del Vangelo della resurrezione,
Petrarca offre di Cupido un’immagine prossima a quella classica, ma con alcune interes-
santi oscillazioni, che rivelano come egli guardi la cultura letteraria e grafica dell’età che fu
sua. Per Francesco da Barberino, che rivendica la novità iconografica del suo Cupido,
Amore è rappresentato da un adolescente nudo, provvisto di ali, espressamente “non cie-
co”, e dotato di piedi di falcone. [...] la presenza nella tradizione manoscritta di una va-
riante significativa per TC III 179, che al verso che contiene il particolare più compro-
messo con la cultura coeva, le bende, appunto, sostituisce un anodino, ma ben petrarche-
sco “le speranze dubbiose, e ’l dolor certo”, autorizza il sospetto che le differenze si deb-
bano imputare ad un processo di progressiva messa a fuoco dell’iconografia d’Amore, con
recupero filologico dell’immagine classica e conseguente adeguamento di TC III 179 a TC
I 23-27». Battaglia Ricci fa ovviamente riferimento al classico ERWIN PANOFSKY, Cupido
cieco, in ID., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento,Torino, Einaudi, 1975
(I ed. ingl. 1939), pp. 134-183, in part. p. 152: «Verso la stessa epoca [nel medioevo, n.d.r.],
però, e forse anche un po’ prima, la cecità aveva cominciato a denotarsi mediante un sim-
bolo nuovo: la benda. Questo attributo appartiene alla medesima classe di altri motivi spe-
cificamente medievali come la Ruota della Fortuna, lo specchio della Prudenza o la Scala
della Filosofia, che differiscono dagli attributi delle personificazioni classiche in quanto
conferiscono forma visibile ad una metafora, anziché indicare una funzione».
229 ARIANI, Commento, cit., p. 85n.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

mette in prospettiva l’identità del fanciullo che mostra le ali (e


contemporaneamente le rose e le viole) all’amante incatenato.
Senza arrivare a riconoscere in esso una figura angelica o una rap-
presentazione dell’anima umana svincolatasi dalla prigione cor-
porea, possiamo però almeno chiederci se il Cupido ritratto non
sia più (o solo) l’insidioso nume della lussuria, bensì (o anche)
l’addomesticato agente della Pudicizia. Quel «protervo» a cui le
«sacre e benedette | vergini» Penelope e Lucrezia hanno poi
«spennachiate l’ali» (TP 127-135), e che – con probabile memo-
ria di un’ecfrasi presente nel Cupidus cruciatus di Ausonio – in
un’incisione uscita dalla bottega fiorentina di Baccio Baldini vie-
ne mostrato legato a una pianta, punito e privato delle ali da par-
te di quattro figure femminili (fig. 79).230 Quel presunto onnipo-
tente che la stessa amata «nemica» di Petrarca aveva ridotto in
«abito» tale da impressionare ogni innamorato, «sì tolte gli eran l’a-
li e ’l gire a volo» (TP 15-18). Quella sorta di Anteros, infine, che
nel primo emblema di Baltimore si inginocchia, come umile ser-
vitore, di fronte a una Laura-Pudicizia triumphans. Questo tipo
iconografico conosce una notevole fortuna anche in ambito em-
blematico-impresistico, come ci testimonia almeno il CX emble-
ma di Alciato («Anteros, id est, Amor Virtutis»): «Dic ubi sunt in-
curvi arcus? ubi tela Cupido? | Mollia quis iuvenum figere corda
soles. | Fax ubi tristis? ubi pennae? [...]» (fig. 80).231 Anche l’as-
senza del tradizionale attributo della cecità (morale) e del detta-
glio della benda contribuisce a smarcare l’illustrazione dalla fonte
testuale e a rifunzionalizzarne il messaggio in questa direzione.232

230 Su cui cfr. ABY WARBURG, La rinascita del paganesimo antico, Firenze, La Nuova
Italia, 1966 (I ed. ted. 1932), pp. 179-191; e CHARLES DEMPSEY, Inventing the Renaissan-
ce Putto, Chapel Hill & London, University of North Carolina Press, 2001, pp. 163-172.
231 ANDREA ALCIATI, Emblemata, embl. 110 (Anteros, id est, Amor Virtutis), Padova,
Tozzi, 1621, p. 457. Ma per un commento si ricorra anche all’edizione moderna: AL-
CIATO, Il libro degli Emblemi, cit., embl. 81, p. 427. Sulla figura di Anteros si vedano: RO-
BERT V. MERRIL, Eros und Anteros, «Speculum», XIX (1944), pp. 265-284; ANDREA COM-
BONI, Eros e Anteros nella poesia italiana del Rinascimento. Appunti per una ricerca, «Italique»,
III (2000), pp. 7-21; GUIDO ARBIZZONI, «Pictura gravium ostenduntur pondera rerum». Per le
immagini degli emblemi, «Letteratura & Arte», III (2005), pp. 125-139; e, anche per una più
dettagliata bibliografia, FRANCESCO LUCIOLI, «D’ogni cortese amor nimico vero». Della (s)for-
tuna di Anteros nel Rinascimento, «Lettere italiane», LXII (2010), 3, pp. 395-422.
232 Si ricorra ancora a PANOFSKY, Cupido cieco, cit., pp. 169-170: «Da questa si-
tuazione alquanto ingarbugliata emergono due fatti: in primo luogo (come poteva già
inferirsi dalle nostre citazioni da Lydgate, Chaucher e Petrarca) che nel quattordicesi-

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SUE SPERANZE DI FÉ COME SON VOTE

Fig. 79. London, British Museum,


BACCIO BALDINI (attribuito), Il castigo di Amore.

Fig. 80. ANDREA ALCIATI, Emblemata,


Padova, Tozzi, 1621, p. 457.

Non stupisce pertanto ritrovare la scena del castigo di Eros affian-


cata al motivo del corteo delle «sacre e benedette | vergini» in una
vignetta che l’illustratore dell’aldina di Chatsworth pone sul mar-
gine della sestina 142. Con precisione filologica e consapevolez-
za ermeneutica, il miniatore riproduce qui visivamente il conte-
nuto di TP 120-144. Ad infierire sul terribile fanciullo è infatti
una Laura triumphans, personificazione della Pudicizia. Il dettaglio

mo secolo la cecità di Cupido aveva un senso tanto preciso che la sua immagine po-
teva mutarsi da una personificazione dell’Amore Divino ad una personificazione del-
l’illecita Sensualità, e viceversa, semplicemente aggiungendo, o rimuovendo, la benda».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

iconografico del serto di fiori e l’intera composizione della scena


ricorda anche il motivo, semanticamente affine, dello scontro tra
Eros e Anteros. In omaggio ai simboli-chiave del Canzoniere,
scompare la colonna di «bel diaspro» ed è a un lauro che «legarlo
[scil. Cupido] vidi, e farne quello strazio | che bastò bene a mille
altre vendette».233 Laura-Pudicizia è seguita, nell’ordine: da una
donna che si sta suicidando con una spada («Lucrezia da man de-
stra era la prima», e cfr. RVF 260, 9-10: «la bella romana che col
ferro | apre il suo casto e disdegnoso petto»); da un’altra figura
femminile che reca in mano un panno («l’altra Penelopè»); segue
in seconda fila un’altra donna dall’aspetto pensieroso («Verginia a
presso»); e poi sullo sfondo altre due, di cui una impiccata (sinte-
si, con ogni probabilità, delle due «tedesche che con aspra morte
| servaron lor barbarica onestate») [fig. 81]. Rappresentando il nu-
cleo concettuale primario del secondo triumphus (la vendetta su
Cupido perpetrata da chi ha perso la vita in nome della castità)
come commento visivo di un fragmentum del Canzoniere, l’illu-
stratore dell’aldina intende forse stabilire (o evidenziare) un nesso
semantico tra i due testi di Petrarca, e nello specifico va a inter-
pretare in chiave trionfale il progetto penitenziale e di conversio-
ne del poeta-agens predicato nella sestina 142 proprio nella forma
di un estremo segno di fedeltà verso l’amata:

Che tale ‘altro’ cammino sia il germe di una con-


versione (che induce a scegliere l’amore di Cristo, la
lux vera portata dal Verbo nel mondo, e poi ancora
un’altra ascesi, quella del “poggio” del Golgota, e “al-
tri rami”, quelli dell’albero della Croce: in una sosti-
tuzione, punto per punto, che fa dell’albero laurano
un’esatta prefigurazione del lignum vitae, e una via a
quello), oppure l’inveramento del lume e del vero già
visibili nei rami del lauro, rimane il fatto che rivol-
gersi a un “altro” lauro è il solo mezzo per rimanere

233 Ma cfr. ancora il commento di Mino Gabriele all’emblema di Alciati: «An-


gelo Poliziano riprende nelle Stanze per la giostra, edite per la prima volta nel 1494,
l’immagine di Cupido legato a un ulivo, “felice pianta di Minerva”, con la dea che gli
“spennacchia” le ali e rompe “al meschin l’arco e li strali”» (ALCIATO, Il libro degli Em-
blemi, cit., embl. 72, p. 389).

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SUE SPERANZE DI FÉ COME SON VOTE

Fig. 81. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 65v.
Devonshire Collection, Chatsworth.

fedele al primo, per non trasfigurarlo in “altre frondi”,


che di quelle prime costituiscono il compimento.234
Tornando al nostro emblema, sulla scorta dei documenti ap-
pena analizzati, vediamo che la nuova configurazione di Cupido,
da despota erotico a messo di virtù, potrebbe portare con sé una
revisione del significato dell’intera espressione simbolica. Essa po-
trebbe offrire alla meditazione dei suoi fruitori non solo la rap-
presentazione esemplare delle conseguenze di un’ingenua fede
nel sentimento amoroso, ma anche un invito visuale a liberarsi da-
gli impedimenti dell’eros e dei ceppi del corpo per elevarsi alle
delizie dell’amore spirituale, o almeno alla serenità di quello con-
templativo. È questo anche l’augurio che Girolamo Ruscelli ri-
volge a «un amante mal fortunato, e mal aggradito dalla sua don-
na», il quale però «volse riconfermar alla sua signora con l’impre-
sa dell’ale amorose, mostrando che con quelle alzato alla contem-
plazione dell’ideal divina bellezza dell’animo di lei, si rapiva in tut-
to a se stesso, et a questo mondo terreno, e conseguentemente
non poteva né credeva di poter esser mai se non felice dell’amor
suo» (fig. 82).235 In tale revisione perfino il motto andrebbe ag-
giornato, ribaltando la sentenza petrarchesca «sue promesse di fé
come son vòte» nella formula proverbiale «Amor vuol fé» che –
oltre ad esser ricamata sulla veste di una delle caste vergini della

234 STROPPA, Commento, p. 270.


235 RUSCELLI, Le imprese illustri, cit., p. 456.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 82. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,


Venezia, De’ Franceschi, 1584, p. 456.

citata incisione di Baccio Baldini – conosce una delle sue prime


enunciazioni nel ternario XXII delle Rime di Boccaccio:

Amor, che con sua forza e virtù regna,


nel summo cielo ardendo sempre vive
e l’anima gentil di lui fa degna,
regge mia vita e quel che la man scrive,
dimostra el cuor divoto a sua deitade
e del suo regno el fa ministro e cive.
Amor vuol fede e con lui son legade
Speranza con timor e gelosia,
e sempre con leanza umanitade.
[...]
Non è, come altrui pinge sua figura,
crudele, iniusto, faretrato e nudo,
né ha de’ suoi suggetti poca cura;
anzi è di vera pace eterno scudo.236

236 GIOVANNI BOCCACCIO, Rime, XXII, 1-9 e 22-25, a cura di VITTORE BRAN-
CA, in ID., Tutte le opere, vol. V/1, a cura di VITTORE BRANCA, Milano, Mondadori,
1967-1998, p. 42 (corsivi miei). Sulle fonti e la fortuna di questa formula si vedano
CHARLES DEMPSEY, Il ritratto dell’amore. La Primavera di Botticelli e la cultura umanistica
al tempo di Lorenzo il Magnifico, Napoli, La stanza delle scritture, 2007 (I ed. ingl. 1992),
pp. 189-190; e FRANCESCO LUCIOLI, «Amor vuol fede». Un motto nella Firenze lauren-
ziana, in «Tout est dit». Teoria, problemi, fenomeni della riscrittura, a cura di RENZO BRA-
GANTINI, Bulzoni, Roma, 2011, pp. 113-132.

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NIL MELIUS

Tav. 20

20. Nil melius

Il ventesimo emblema della raccolta raffigura un uomo


che, muovendosi in precario equilibrio su una ruota, si ag-
grappa ai rami di una palma (tav. 20). Chiara espressione del-
la lotta tra la virtù (palma) e la fortuna (ruota), l’immagine si
collega all’emblema 8 e al successivo 21, andando così a de-
finire una microsequenza articolata intorno al dettaglio ico-
nografico della Ruota della Fortuna. Le opzioni di lettura di
tale serie dipendono strettamente dalla difficile decifrazione
della struttura del manoscritto statunitense (casuale o preor-
dinata?), e al contempo ci offrono indicazioni per avanzare
ipotesi su di essa. La proposta più economica e plausibile da
formulare circa la generale configurazione della silloge pare
quella che ne riconosce una configurazione composita, de-
terminata dalla collazione non logica (o narrativa) di fram-
menti emblematici, i quali però tradiscono, per aree e grup-
pi, la predisposizione ad aggregarsi tra loro in una sfumata
esperienza di racconto. La sequenza relativa alla ruota di for-
tuna è, in tale prospettiva, un caso indicativo e un testimone
convincente, dal momento che, oltre al dettaglio iconografi-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

co, i tre emblemi sembrano condividere anche l’estraneità a


un esplicito richiamo alla fonte petrarchesca: dell’ottavo em-
blema il motto in volgare non mi è noto, mentre sia l’emble-
ma 20 sia il 21 colgono la loro inscriptio dai Salmi. Se però de-
cidiamo di ricomporre la serie (ma anche se la leggiamo, co-
me tale, nel suo disarticolato intrecciarsi col restante conte-
nuto della silloge), almeno un’altra scelta interpretativa si of-
fre alla nostra attenzione. Dovremmo infatti chiederci in qua-
le ordine disporre le tre forme simboliche; e, quindi, secon-
do quale progressione sintagmatica leggerne l’eventuale mes-
saggio complessivo. D’altra parte, se quest’ultimo esiste, non
può che essere determinato, per frizione dialettica, dai signi-
ficati specifici dei suoi singoli frammenti. Sarà pertanto op-
portuno sospendere qui la riflessione sul senso della sequen-
za, e ritornarvi solo dopo aver analizzato più in profondità i
significati rinvenibili negli emblemi 20 e 21.
Il senso generale del ventesimo emblema sembra sufficien-
temente esplicitato dal commento, che di fatto legge l’espres-
sione simbolica come illustrazione di una condotta di vita im-
prontata alla prudenza, e la coglie quale ammonimento a saper
scegliere volontariamente il momento più propizio per accon-
tentarsi dei doni offerti dalla sorte. Secondo una scelta, quindi,
determinata dalla sagacia e dalla sobrietà:

Non è cosa megliore che, a presso che la fortu-


na, presa per la ruota qua di sopra dipinta, ha eleva-
to l’huomo a la più alta cima, attaccarsi a la palma
zoè a le virtù; perché si dice che chi ha la virtù, per
baculo, mai pò cadere; il motto è del psalmista.

Come ricorda la didascalia, il motto probabilmente deri-


va da Salmi 37, 16 («Melius est modicum iusto | super divi-
tias peccatorum multas»). Il passaggio scritturale conferma
dunque l’invito alla moderazione, suggerito attraverso l’illu-
strazione delle due forze contrarie cui l’uomo può scegliere
di affidarsi. Se la sua cupiditas lo porta a desiderare più del
giusto, egli non fa che abbandonarsi al dominio volubile del-
la Fortuna che, come una ruota, «hor s’avvanza, hor si ritira,
hor piega alla destra della prosperità ed hora alla sinistra del-

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NIL MELIUS

la sciagura».237 Se invece riesce a frenare l’ambizione entro il


dovuto, egli può rinvenire nel proprio sobrio e cauto com-
portamento un appiglio prezioso cui aggrapparsi; e può così
preservarsi dalle imprevedibili cadute che la sorte riserva.238
Paolo Giovio riconosce una siffatta virtù deliberativa a
Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino, e la celebra at-
traverso l’impresa di

una palma ch’aveva la cima piegata verso terra per


un gran peso di marmo che v’era attaccato, volendo
isprimere quel che dice Plinio della palma, che ’l le-
gno suo è di tal natura che ritorna al suo essere, an-
chor che sia depresso da qual si voglia gran peso,
vincendolo in ispazio di tempo col ritirarlo ad alto;
col motto che diceva INCLINATA RESVRGIT. Allu-
dendo alla virtù del Duca, la quale non aveva potu-
to opprimere la furia della fortuna contraria, benché
per alcun tempo fusse abbassata.239

Il corpo dell’impresa gioviana si presenta però in una confi-


gurazione più semplice rispetto alla pictura dell’emblema di Bal-
timore, limitandosi a illustrare una rigogliosa palma che vede un
proprio ramo flettersi ma non spezzarsi per il peso di una pietra
(che, rispettivamente, è ad esso legata e vi grava sopra (fig. 83).
All’iconografia del nostro esemplare sembrano invece più pros-
sime le occorrenze del concettismo rinvenibili negli Emblemata
di Alciato e nell’Hecatomographie di Corrozet. Il XXXVI emble-
ma di Alciato (Obdurandum adversus urgentia) raffigura infatti un
fanciullo nudo, sospeso nel vuoto e aggrappato a una foglia di
palma (fig. 84). Al di là dell’affinità posturale riscontrabile tra le
figure umane di questo e del nostro emblema (e, più in genera-
le, delle somiglianze rinvenibili nell’impianto generale delle due
immagini), quel che emerge in comune è la relazione di rispec-

237 PICINELLI, Mondo simbolico, XXIV, 9, cit., p. 539.


238 Cfr. CAPACCIO, Trattato delle imprese, II, 25, cit., p. 129v: «Che [la palma] sia
simbolo della Vittoria è cosa notissima, ma per questa cagione che per qualsivoglia pe-
so che se gli imponga mai non cede».
239 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., pp. 81-82.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 83. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 81.

Fig. 84. ANDREA ALCIATI, Emblemata,


Padova, Tozzi, 1621, p. 198.

chiamento che si stabilisce tra il simbolo vegetale (saldo e reat-


tivo contro le avversità: «Nititur in pondus palma, e consurgit in
arcum; | Quo magis et premitur, hoc magis tollit onus») e l’in-
dividuo rappresentato (anch’egli costante nelle imprese difficili:
«I, puer, et reptans ramis has collige: mentis | Qui constantis erit,
praemia digna feret»). Le paradigmatiche qualità naturali della

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NIL MELIUS

pianta vogliono qui tradursi, senza soluzione di continuità, in ac-


quisite qualità morali dell’uomo, affinché dalla rappresentazione
di costui non emerga così evidente la sua viziosa condizione di
peso (freno della virtù, impedimento alla vittoria), quanto piut-
tosto sia ben percepibile l’intenzione allo (e l’intensità dello)
sforzo che riserva alla propria impresa.
L’emblema rinvenibile nell’opera di Corrozet si collega in-
vece all’iconografia dell’esemplare statunitense poiché, come
questo (ma con una significativa variante), mette in scena la
dialettica fortuna–virtus mediante l’opposizione tra i simboli
della ruota e della palma: un individuo ha infatti la schiena pie-
gata dal peso di una ruota ma, sostenendosi ad un bastone con
incastonata una sfera armillare, guarda fiducioso in direzione di
una palma (fig. 85). Un ulteriore elemento entra qui in gioco,
dal momento che – come ricorda anche il motto (Espérance

Fig. 85. GILLES CORROZET, Hecatomgraphie,


Paris, Denis Janot, 1540, p. 98.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

conforte l’homme) – è solo grazie a una salda speranza nella pro-


pria ragione (o in un aiuto superiore, secondo i significati at-
tribuibili alla sfera armillare) che il corpo dell’uomo può resi-
stere alle flessioni cui lo costringe la sorte (la ruota); ed emulo
della palma può quindi aspirare alla vittoria finale: «Si fortune
soustiens et porte | Qui m’a faict un tour inhumain, | Je tiens
espérance en la main, | Qui me conduict et me conforte».240
Di fronte a una sostanziale affinità di soggetto e struttura co-
municativa, i due emblemi paiono dunque minimamente di-
versificarsi nell’identificazione della polarità positiva che viene
opposta al dominio della Fortuna. Se le capacità intellettive o
il soccorso divino costituiscono per Corrozet l’unico bastione
contro gli assalti della sorte avversa, l’emblematista di Baltimo-
re (sulla scorta di Alciato) sembra maggiormente insistere sul
ruolo giocato dalla voluntas nella possibilità per l’homo di esse-
re faber fortunae suae e, così facendo, intensifica la funzione co-
nativa e la dinamicità moralistica dell’emblema, più che impie-
garlo come la semplice espressione di un luogo comune e di
un dato di fatto.

240 Cfr. CORROZET, Hecatomgraphie, cit., p. 98.

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OMNIA SUBIECISTI

Tav. 21

21. Omnia subiecisti

Il motivo iconografico della ruota della Fortuna ricorre


con frequenza sia nella tradizione figurativa sia in quella lette-
raria, ed è spesso sfruttato nella costruzione di immagini em-
blematiche e impresistiche. Anche solo nel nostro assai circo-
scritto corpus presenta ben tre occorrenze. Quella rinvenibile al
foglio 21 del codice è la più semplice, poiché il simbolo della
sorte non è accompagnato da alcun altro elemento figurativo,
né caratterizzato dal ben minimo attributo integrativo (tav.
21).241 Nella medesima configurazione la ruota viene visualiz-
zata anche all’interno del Teatro d’imprese, dove Giovanni Fer-
ro introduce l’espressione simbolica evidenziandone subito
l’effettiva caratteristica di funzionamento (il suo vero e proprio
nucleo essenziale) da cui si può elaborare ogni significazione
emblematica ed ogni interpretazione moralistica (fig. 86):

241 E infatti la didascalia di commento è lapidaria: «A questa non ci va molto co-


mento perché egli è cosa chiara che sotto a la ruota di fortuna è sottoposto ogni co-
sa; il motto è del psalmista».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 86. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese,


Venezia, Sarzina, 1623, p. 607.

Ha il suo moto nel giro la ruota, e quanto più af-


fretta l’andata, tanto meno le parti et i razzi si rag-
giungono insieme. Non si muove se non in tondo,
e prima che si muova si piega, e dal suo piegarsi co-
mincia l’andare, e così va che seco tira sovra posta
mole quantunque carica e grave, la cui maniera di
giro fu spiegata da Pandolfo Ghini Bandinelli, scri-
vendo sopra la ruota in piano et in atto di muover-
si INCLINATA PROGREDITVR.242

L’inevitabilità meccanica del movimento e l’assoluta poten-


za che esso produce rendono la ruota il correlativo simbolico
ideale per visualizzare sia i concetti di arbitrarietà e onnipo-
tenza (riconosciuti attributi della Sorte, ad esempio), sia quelli
di fermezza e volontà (che possono invece rappresentare l’altra
faccia della medaglia, il lato positivo e propositivo dell’imma-
gine simbolica). Quanto alla prima lettura, è Girolamo Ru-
scelli – tra gli altri – a fornire un’efficace illustrazione del det-
taglio iconografico, ricordando a proposito dell’impresa di
Carlo, arciduca d’Austria (fig. 87), che

242 FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 607; per la specifica declinazione impresistica
di una “Ruota della Fortuna” Ferro ricorda che la «ruota segno della Fortuna tenuta
ferma da due mani, una di sotto l’altra di sopra, con le parole ADVERSIS ADVERSA SO-
LATIO, si legge sotto nome di Giulia Varana, moglie di Guidubaldo d’Urbino» (Ibidem,
p. 608).

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OMNIA SUBIECISTI

Fig. 87. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,


Venezia, De’ Franceschi, 1584, p. 96.

Usasi ancora con la stessa vaghezza di attribuire


alla Fortuna una ruota, come quella de’ carri, la qua-
le non le sta sotto i piedi, percioché essa Fortuna
non s’intende allora che sia mutabile in se stessa, ma
le sta da un lato, per mostrar che gli effetti et i doni
suoi son posti sopra la ruota mutabilissimi, secondo
i meriti o demeriti, et il valore o la dapocagine di
coloro a chi si danno.243

Tra le innumerevoli occorrenze del motivo, una fedele re-


sa figurativa di questa descrizione si può rinvenire tra le carte
dell’incunabolo queriniano, e precisamente a margine del frag-
mentum 274 (fig. 88), in concomitanza con l’atto d’accusa e la
richiesta di clemenza rivolti da Petrarca a quei ‘nemici esterni’
che insieme ai «duri [...] pensieri» pongono sotto assedio il suo
«cor»: «In te i secreti suoi messaggi Amore, | in te spiega For-
tuna ogni sua pompa, | e Morte la memoria di quel colpo |
che l’avanzo di me conven che rompa; | in te i vaghi pensier
s’arman d’errore» (274, 9-13).
Il ritratto della Fortuna offerto da Ruscelli illumina di sen-
so, per contrasto, il ventesimo emblema della nostra raccolta,
dove l’individuo rappresentato oscilla invece sulla sommità

243 RUSCELLI, Le imprese illustri, cit., p. 96.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 88. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 101v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

della ruota, in precario equilibrio tra il successo e la sconfitta.


Come sottolinea l’autore viterbese, essi dipendono dai suoi
«meriti o demeriti». Una condotta di vita che quindi si mostra
indifferente agli accidenti del destino, e continua – incurante
del loro imperversare – a perseguire il proprio obiettivo, può
essa stessa venire correttamente visualizzata dal motivo icono-
grafico della ruota. Con tali parole, proprio a questo proposi-
to, Paolo Giovio accompagna un’altra occorrenza impresistica
dell’immagine (fig. 89):

Monsignor della Trimoglia, che vittorioso nella


giornata di Santo Albino di Brettagna, dove restò
prigione il Duca d’Orliens, che fu poi re Lodovico,
usò per impresa una ruota con questo motto SANS
POINCT SORTIR HORS DE L’ORNIERE, per significar
ch’egli caminava per camin dritto nel servire il suo
re senza lasciarsi deviare da alcuno interesse.244

Il motto dell’emblema di Baltimore è tratto da Salmi 8, do-


ve il verso suggella un canto interamente dedicato a celebrare
la magnanimità del Signore per aver eletto proprio l’uomo, tra

244 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., p. 100.

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OMNIA SUBIECISTI

Fig. 89. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 100.

tutte le meraviglie della Creazione, a governare ogni essere:


«quoniam videbo caelos tuos; opera digitorum tuorum | lu-
nam et stellas quae tu fundasti | quid est homo quod memor
es eius | aut filius hominis quoniam visitas eum; | minuisti
eum paulo minus ab angelis; | gloria et honore coronasti eum
| et constituisti eum super opera manuum tuarum; | omnia
subiecisti sub pedibus eius» (4-7). Il verso si presta a dar voce
ad entrambe le istanze semantiche, implicite nel motivo della
ruota, che qui abbiamo ricordato. Còlto quale anima dell’em-
blema 21, il sintagma può infatti da una parte andare a inferi-
re l’assoluto dominio della Fortuna su ogni elemento del crea-
to (rafforzando così un messaggio che la tradizione figurativa
già assegna al simbolo della ruota); e dall’altra parte suggerire
la sovrapposizione tra il proprio referente (l’uomo) e l’imma-
gine cui si associa (focalizzando quindi l’attenzione sulle qua-
lità di tenacia e costanza auspicabili in ogni individuo).
La doppia opzione di lettura dell’espressione simbolica si
riflette anche sull’interpretazione della breve serie costruita, al-
l’interno della silloge, intorno al motivo della ruota. Per quan-
to non perfettamente sequenziale (in relazione al salto tra le
posizioni 8, 20 e 21), mi sembra comunque che il trittico pre-
senti i suoi elementi in un corretto ordine progressivo. Tale or-
dine è però percorribile in senso bidirezionale. Il messaggio
complessivo non sembra variare, anche se per esprimerlo dob-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

biamo in un caso concentrarci maggiormente sulla compo-


nente iconica, e nell’altro sull’elemento testuale. Leggiamo, ad
esempio, la sequenza in senso invertito rispetto all’ordine di
comparsa nel codice (dall’emblema 21 all’8, quindi). Il pro-
gressivo articolarsi dell’illustrazione sembrerebbe allora testi-
moniare un altrettanto graduale affrancamento dal dominio
del destino da parte del soggetto rappresentato (e, auspicabil-
mente, del lettore che in tali emblemi si specchia per rinvenir-
vi un indirizzo di vita). Sembrerebbe sottolineare la sua sem-
pre più salda volontà di svincolarsi dalla Fortuna e di gover-
narne il corso. Inesistente nella prima immagine (dove cam-
peggia sola e onnipotente la ruota), l’individuo viene infatti
immortalato nella seconda proprio mentre si sforza strenua-
mente di resistere al movimento della sorte (cercando l’aiuto
dell’esatto contrario di questa, la ragione o la virtù), e nella ter-
za viene infine ritratto al governo di essa, nell’atto di girare egli
stesso la ruota di fortuna, di farsi effettivo faber fortunae suae. La
successione dei motti secondo l’ordine del manoscritto (ossia,
dall’8 al 21) ci racconta la medesima storia di affanni, peripe-
zie e vittoria finale. Il soggetto protagonista si trova infatti: 1)
dapprima, a partecipare all’immutabile condizione di Issione
(vincolato però alla ruota non per scontare un peccato ma per sal-
vaguardare il proprio onore); 2) successivamente, a condividere la
medesima speranza comune anche all’individuo ritratto da
Corrozet (fiducioso come quest’ultimo che nulla è meglio di af-
fidarsi alla virtù dopo esser stato in balìa della sorte); 3) infine,
ad affrontare il destino con la medesima virtuosa risolutezza
esibita dal Monsignor della Trimoglia, e come lui a divenire es-
so stesso ruota della fortuna, soggetto padrone di se stesso e go-
vernatore di ogni elemento del reale (omnia subiecisti).

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OND’USCÎR GIÀ TANTE AMOROSE PUNTE

Tav. 22

22. Ond’uscîr già tante amorose punte

La traduzione visiva del fragmentum 297, realizzata nell’em-


blema 22, ci mostra delle api impegnate a raccogliere il netta-
re dai fiori di una pianta che la didascalia qualifica come il car-
do (tav. 22). Il commento manoscritto chiarisce la moralità
implicita e giustifica l’adozione dell’ottavo verso petrarchesco
(«onde uscîr già tant’amorose punte»):

Vuole dire la presente medaglia che, così come le


ape da gli cardi e spinosi et amari ne cavano mèle,
così lo presente amante, quantunque abbia patito
molte amare passione e punture acerbissime, pur ne
ha a la fine metuto il mèle, o spera de lo trarre; ser-
vendose d’il verso preso dal Petrarca.

Lo stesso concettismo, espresso però attraverso un’altra


coppia organica (ape e timo), viene sviluppato da Giovanni
Ferro: «L’ape col timo herba amara figurò il Bargagli col mot-
to EX ACERRIMA ARIDISSIMAE, volendo inferire il concetto che

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A. TORRE, VEDERE VERSI

del male si cava il bene come fa l’ape».245 Filippo Picinelli de-


scrive una analoga versione del motivo, fornendoci però mag-
giori informazioni sulle sue fonti e occorrenze simboliche:

Bartolomeo Rossi, per inferire la dolcezza che


san Carlo ricavava dal meditar la passione di Cristo,
figurò un’ape sul timo, herba che tutta è amarezza,
col cartello ETIAM EX AMARO. Quadra l’impresa a
persona paziente, della quale il beato Umberto de
utilit. patientiae cap. 42: «Homo patiens, de felle fa-
vum mellis elicit, malum in bonum convertit». Plu-
tarco ammaestrò con questo concetto i buoni udi-
tori a cavar sugo prezioso dalle dottrine, quali elle si
siano che loro vengono somministrate: «Ut apes
etiam amarissimo thymo insident, atque inde melli-
ficium colligunt, sic oportet auditorem, non floscu-
los orationis, voluptatis causa sectari, sed vim sen-
tentiarum, et utilitatem».246

Così declinata, l’immagine potrebbe allora esser intesa qua-


le efficace rappresentazione del fortunato topos della mellificatio,
topos che avvicina la pratica imitativa dello scrittore classicista
al quotidiano lavorìo delle api che combinano in un’unica, ar-
moniosa e nuova miscela il nettare còlto da fiori differenti. Il
valore etico e memoriale di tale operazione è chiaro, e fa del-
l’immagine una valida espressione dell’idea di memoria come
vis, come esperienza che, soprattutto nella fase della remini-
scenza, rielabora creativamente il sapere e gli insegnamenti in
precedenza archiviati con l’atto di memorizzazione. Il motivo
della mellificatio conosce una notevole fortuna in ambito uma-
nistico, ed è spesso ripreso da Petrarca, che vi ricorre nella Fa-
miliare XXII, 2 e, più diffusamente, nella I, 8:

Cuius summa est: apes in inventionibus imitan-


das, que flores, non quales acceperint, referunt, sed

245 FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 70.


246 PICINELLI, Mondo simbolico, cit., VIII, 1, p. 253.

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OND’USCÎR GIÀ TANTE AMOROSE PUNTE

ceras ac mella mirifica quadam permixtione confi-


ciunt. [...] Hec visa sunt de apium imitatione que
dicerem, quarum exemplo, ex cuntis que occurrent,
electiora in alveario cordis absconde eaque summa
diligentia parce tenaciterque conserva, nequid exci-
dat, si fieri potest. Neve diutius apud te qualia de-
cerpseris maneant, cave; nulla quidem esset apibus
gloria, nisi in aliud et in melius inventa converte-
rent. Tibi quoque, siqua legendi meditandique stu-
dio reppereris, in favum stilo redigenda suadeo; hinc
enim illa profluent que tibi iure optimo et presens
et ventura etas attribuet.247

Fonte del passo è con ogni probabilità Seneca che in Epi-


stole a Lucilio 84, 3-5, stabilisce la correlazione tra la meticolo-
sa disposizione del nettare nei favi ad opera delle api e la ne-
cessaria azione classificatoria e ordinatrice a cui la nostra men-
te deve sottoporre ogni dato della percezione. Seneca ricorre a
un verso delle Georgiche (IV, 164) per visualizzare meglio l’o-
perazione: «[...] liquentia mella | stipant et dulci distendunt
nectare cellas».248 Picinelli riscontra però anche una valenza

247 FRANCESCO PETRARCA, Rerum familiarium libri, I, 8, 3 e 23-24 (a Tommaso da


Messina, aprile 1350), a cura di VITTORIO ROSSI, Firenze, Sansoni, 1923-1942, vol. I,
pp. 274 e 279: «Ecco in due parole: si debbono nelle invenzioni imitare le api, che non
rendono i fiori quali li hanno ricevuti, ma con le loro manipolazioni li trasformano
mirabilmente in cera e miele [...]. Questo ho creduto dirti sulla imitazione delle api;
sull’esempio delle quali, di tutto ciò che ti cade sotto gli occhi il meglio rinchiudi nel-
l’alveare del tuo cuore, e usa con gran diligenza, e con tenacia conserva, perché nulla
vada perduto, se è possibile. Ma cerca che non rimanga a lungo in te così come tu l’hai
raccolto: nessun merito avrebbero le api, se non trasformassero in meglio ciò che han-
no preso. Così tu, se leggendo e meditando t’imbatti in cosa degna, fa’ di trasformar-
la con la tua penna in un favo, e da esso verrà fuori di pieno diritto ciò che a te i coe-
tanei e i posteri attribuiranno».
248 Cfr. SENECA, Ad Lucilium, XI, 84, 3-5, a cura di FRANÇOIS PRÉCHAC, Paris,
Les belles lettres, 1956, t. III, pp. 122-123. Il passo senecano è riportato in margine al-
l’opera di Virgilio conservata nel manoscritto ambrosiano: «Alit lectio ingenium et stu-
dio fatigatum, non sine studio tamen, reficit. Nec scribere tantum nec tantum legere
debemus: altera res contristabit vires et exhauriet, de stilo dico, altera solvet ac diluet.
Invicem hoc et illo commeandum est et alterum altero temperandum, ut quicquid
lectione collectum est, stilus redigat in corpus. Apes, ut aiunt, imitari debemus que va-
gantur et flores ad mel faciendum ydoneos carpunt, deinde quidquid attulere dispo-
nunt ac per favos digerunt et, ut Virgilius noster ait, “liquentia mella | Stipant et dul-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

amorosa nel motivo dell’ape che sugge il nettare dagli amari


fiori del timo:

All’ape figurata sul timo, herba amara, parvemi


che si potesse dare CANGERÒ L’AMAREZZE IN DOL-
CI FAVI; inferendo che la divina grazia sa condire di
soavissima dulcezza le più abhorrite amaritudini
del nostro cuore [...]. Suole operar queste maravi-
glie il vero e il vivo amore, che qual ape ingegnosa
cava dolce succo dalle più nauseabili amarezze, e
cangia in soavità preziosa ciò che pareva velenoso
assenzio.249

Letto da questo punto di vista l’emblema diviene dunque


illustrazione concettistica di una delle più antiche formule
create dalla poesia lirica per definire icasticamente l’ossimori-
ca, paradossale condizione dell’amante, quella cristallizzatasi
nel gioco di parole catulliano «quae dulcem curis miscet ama-
ritiem» (68, 18).
L’antinomia dolce/amaro conta 25 occorrenze nel Canzo-
niere (cfr. almeno RVF 157, 6; 205, 6; 296, 3; 319, 4; 329, 11; 358,
1; 363, 11) ma solo una volta – nella canzone 129, vv. 21-22 –
Petrarca riproduce il bisticcio verbale amore/amaro, degnando
peraltro i suoi elementi dell’evidenza fornita dalla sede rimica e
dalla relazione fonica di consonanza creata, solo in questa stro-
fe, in tale precisa posizione: «[e a pena vorrei] | cangiar questo
mio viver dolce amaro, | ch’i’ dico: – Forse ancor ti serva Amo-
re». Non apertamente relati ma comunque contigui risultano
invece i due termini nella canzone 360, dove il concettismo ol-
tre ad essere ripetutamente ribadito (vd. vv. 45 e 106-109) vie-
ne anche visualizzato attraverso un rinvio al campo sensoriale

ci distendunt nectare c(ellas)” et cetera. Seneca 84 epystola» (FRANCESCO PETRARCA,


Le postille del Virgilio ambrosiano, a cura di MARCO BAGLIO, ANTONIETTA NEBULONI
TESTA, MARCO PETOLETTI, Roma-Padova, Antenore, 2006, vol. I, postilla n. 206, pp.
262-263). Il valore allegorico del paragone con le api è ricordato da Petrarca anche in
margine all’Orazio laurenziano: «Apis imitator» (f. 46v, postilla riferita a Carmina IV, 2,
27-28: «ego apis Matine | more modoque»).
249 PICINELLI, Mondo simbolico, cit., VIII, 1, p. 257.

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OND’USCÎR GIÀ TANTE AMOROSE PUNTE

del gusto, analogo a quello suggerito dall’immagine del nostro


emblema: «O poco mèl, molto aloè con fele! | In quanto ama-
ro ha la mia vita avezza | con sua falsa dolcezza, | la qual m’at-
trasse a l’amorosa schiera!» (vv. 24-27). La coppia assonante mie-
le/fiele intensifica dunque nella materialità del visibile il gusto
ambiguo della dittologia consonante amore/amaro, e inserisce
quest’ultima in un preciso ma anche estendibile campo me-
taforico. Ossia, in un repertorio di immagini. Ad esempio, tra-
slato da un contesto revisionistico dei propri affanni (come è il
tribunale allestito contro Amore nel fragmentum 360) ad un
contesto di non ancora esausta celebrazione per impossibilia del-
l’unicità di Laura (com’è invece il sonetto 215) – il nostro fi-
gurante sensoriale va a qualificare l’essenza sovraumana e mi-
steriosa («un non so che») degli occhi di Laura, capaci in un
tempo fuori dal tempo («’n un punto») di rendere «’l mèl ama-
ro, e adolcir l’assenzio» (RVF 215, vv. 12-14).
Nel mentre redigeva la scheda sulle occorrenze emblema-
tico-impresistiche del motivo dell’ape sul timo, Picinelli deve
aver avuto in mente questo passaggio petrarchesco. Così come
deve averlo tenuto presente anche l’anonimo emblematista di
Baltimore. Spogliato dal velo metaforico, dire che lo sguardo
di Laura sa rendere dolce l’assenzio, equivale ad affermare che
ogni pena d’Amore è nulla di contro alle gioie che esso può
elargire, ossia che l’«amante quantunque abbia pattitto molte
amare passione e punture acerbissime pur ne ha a la fine met-
tuto il mèle o spera de lo trarre». Siamo dunque nel medesi-
mo campo semantico petrarchesco elaborato nel già commen-
tato emblema 12. D’altronde nell’economia di senso dell’im-
maginario lirico petrarchesco il confine tra danni e benefici
prodotti dalla vista di Laura (dai suoi occhi, così come dal ve-
dere lei) è talmente labile e sfrangiato da risultare inesistente:
«Così sol d’una chiara fonte vive | move ’l dolce e l’amaro
ond’io mi pasco; | una man sola mi risana e punge» (RVF 164,
9-11). Quest’ulteriore elaborazione dell’espressione topica ci
fornisce altri dettagli utili a ricomporre il puzzle del nostro
emblema. Innanzitutto, i concetti di dolce e amaro (che porta-
no con sé la memoria di alcune loro reificazioni organiche, co-
me il miele e l’assenzio) vengono qui connotati come alimen-
ti che sostengono la vita dell’agens, rifocillandone l’insaziabile

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A. TORRE, VEDERE VERSI

memoria con i fantasmi del desiderio.250 Questa estensione


della nostra immagine metaforica di riferimento potrebbe al-
lora entrare in contatto col motivo della mellificatio visualizza-
to dall’emblema? Abbiamo poi l’interferenza col campo se-
mantico determinato dal sintagma «mi risana e punge». Sog-
getto di una perduta tragedia di Euripide (Telefo), il mito della
lancia di Peleo che ferisce e risana nello stesso tempo (o «’n un
punto» potremmo dire) è ricordato anche in Apollodoro (Bi-
blioteca, epitome 17-21) e applicato da Ovidio alla fenomeno-
logia amorosa (Rem. Am. 47-48). Sulla scorta anche della sua
fortuna tra i poeti trobadorici, Petrarca vi ricorre spesso tanto

250 L’espressione pascere è impiegata più volte nel Canzoniere, dove in prima
istanza non presiede alla topica costruzione metaforica che delinea la memoria come
un organo – il ventre – deputato alla formazione dei ricordi mediante la rielabora-
zione (masticazione) e l’assimilazione (digestione) dei dati sensoriali, quanto piuttosto
alla definizione dell’immagine del ricordo come cibo offerto all’anima. Già nel sonet-
to 193 il poeta, confessando di nutrire la propria memoria («mente») con la visione e
l’ascolto di Laura, riconosce la pervasività di tale ricordo che occupa ogni spazio del-
la mente e rassegna all’oblio i restanti aspetti della sua vita: «Pasco la mente d’un sì no-
bil cibo, | ch’ambrosia e nectar non invidio a Giove, | ché, sol mirando, oblio ne l’al-
ma piove | d’ogni altro dolce, e Lete al fondo bibo». Nel sonetto 305 vediamo inve-
ce Petrarca rivolgersi a un’angelicata Laura («Anima bella da quel nodo sciolta», v. 1)
e chiederle di fissare dal cielo lo sguardo verso «un che sol tra l’erbe e l’acque | di tua
memoria e di dolor si pasce» (vv. 10-11), ossia verso chi trae dalla proiezione imma-
ginaria di sé in un passato, tanto ideale quanto irrecuperabile, l’unico sostentamento
per la fragilità di un presente privo di sviluppi. Nella canzone 331 il concetto viene
riproposto in termini non molto differenti anche se la partizione della stanza sulla
scorta dei due fondamentali momenti della vita del poeta (prima e dopo la morte di
Laura) suggerisce il confronto fra due diverse condizioni della sua memoria e, come
risvolto formale, fra due versioni della metafora del pasto della memoria. Una dimen-
sione più marcatamente inventariale caratterizza infatti il nostro topos nell’espressione
«di memoria e di speme il cor pascendo», dove il cuore come un ventre accoglie vo-
racemente e quasi meccanicamente gli illusori fantasmi dell’errore amoroso di Petrar-
ca (cfr. anche RVF, 108, 6-8: «Un’imagine salda di diamante | che l’atto dolce non mi
stia davante | del qual ho la memoria e ’l cor sì pieno») e ne consente la continua,
perturbante rievocazione alla coscienza (come in TE, 138-139: «Amor mi die’ sì lun-
ga guerra | che la memoria anchora il cor accenna»). L’improvvisa notizia della mor-
te di Laura investe però con la sua lacerante onda d’urto anche l’immaginario mne-
monico del poeta, sottraendo alla sede degli affetti il suo «caro nutrimento» – così da
renderla «frale e digiuna» come un «corrier» affamato lungo il cammino (vv. 12-15) –
e volgendo il flusso ristoratore dei ricordi all’alimentazione della sfera del desiderio, di
quel «gran desir» che è sì l’immenso desiderio di rivedere l’amata ma anche l’altret-
tanto immenso desiderio di raccontarla dalla distanza – anche moralizzante – che
un’esperienza memoriale consente.

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OND’USCÎR GIÀ TANTE AMOROSE PUNTE

nei testi latini quanto nelle scritture liriche volgari (cfr., oltre
al passo citato, almeno RVF 75, 1-2: «I begli occhi ond’i’ fui
percosso in guisa | ch’e’ medesmi porian saldar la piaga»).
Ripristinando il velo metaforico, dovremmo allora chie-
derci in che senso gli occhi – luogo in cui si «tempra il dolce
amaro, che n’ha offeso, | col dolce onor che d’amar quella hai
preso» (RVF 205, 6-7) – possano provocare «punture acerbis-
sime», ovvero scagliare lance che feriscono e al contempo sa-
nano. A questo punto, se ricollochiamo il motto dell’emblema
di Baltimore nel contesto originario del fragmentum 297, ve-
diamo che esso può anche, per aequivocatio, mettere in relazio-
ne l’immagine con il senso generale del componimento. Nel
sonetto si esprime infatti il contrasto tra le due “bellezze” di
Laura «per Morte [...] sparse e disgiunte» (v. 5). Si tratta, da una
parte, della bellezza spirituale ed eterna, ossia l’Onestà di Lau-
ra che dopo la morte ascende a gloriare di sé il cielo; e, dal-
l’altra parte, della bellezza corporale ed effimera che rimane
invece a ornare le membra, senza vita, della sepolta Laura.
Questa bellezza corporale sembra cristallizzarsi negli occhi
dell’amata che – finché fu viva Laura – come frecce ferirono
senza requie il poeta. Si veda anche solo il contiguo fragmentum
296 che, complice la struttura rimica (amaro:raro), collega effet-
to a causa: la piacevolmente insanabile ferita memoriale dell’io
lirico (vv. 3-4: «del dolce amaro | colpo») agli occhi dell’ama-
ta che hanno scoccato l’eternamente mortale saetta (vv. 7-8:
«quello aurato e raro | strale, onde morte piacque oltra nostro
uso»). Quelle stesse frecce ora, potremmo dire con lo sguardo
rivolto all’emblema statunitense, come cardi appuntiti che
spuntano dal suolo (cfr. RVF 297, 7, «l’altra sotterra»), conti-
nuano a incidere dolorosamente la memoria di Petrarca. La so-
vrapposizione delle dualità fin qui incontrate potrebbe dunque
aver suggerito l’immagine emblematica della coppia oppositi-
va api-cardo, complice l’ambiguità del termine «punte», tra-
dotto dalla dimensione metaforica di frecce amorose a quella
iperrealistica di punte spinose del cardo. Come le api riescono
a trarre miele dagli amari fiori del cardo, e come dalla morte
corporale di Laura nasce il suo celeste corpo glorioso, così l’a-
more riesce a generare la dolcezza nelle più amare passioni.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 23

23. Exemplum dedi vobis

Democrito phisico scrive che uno huomo pas-


sando per un bosco rancontrò una pantera che gli
andava intorno e lo tirava a sé con le ungia; costui
pauroso la seguitò e così la bestia lo menò sopra una
fossa dove erano caduti i suoi nati; l’huomo intese la
fera e disese e gli rendette i figlioli; la qual bestia
memore del benefizio lo acompagnò fuori de la fo-
resta, e cossì si vede esser vero il sopra scritto verso.

L’immagine simbolica offertaci a c. 23 pare essere una felice


elaborazione del topico motivo del mutuo soccorso fondato
sull’altrettanto ricorrente concetto della memoria beneficiorum.
Qui espresso dall’immagine dello scambio di favori tra il pasto-
re, che ha ricondotto i cuccioli alla madre, e la pantera che ha
indicato all’uomo la via per uscire dalla foresta (tav. 23), il topos
dell’aiuto reciproco conosce le sue prime occorrenze in tre epi-
grammi dell’Antologia Planudea, dove viene sviluppato il mo-
tivo della solidarietà tra uno storpio e un cieco. Come ci mo-
stra anche l’elaborazione emblematica che di questo concetto

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EXEMPLUM DEDI VOBIS

proverbiale ci offre Alciato (ed. 1531, embl. XXII, Mutuum aux-


lium), il primo guida il cammino del secondo e nel frattempo si
appoggia a lui per muoversi (fig. 90).251 Il correlato concetto
della memoria beneficiorum è stato invece formulato in ambiente
stoico da Cicerone e da Seneca, poi venne più compiutamente
sviluppato nelle riflessioni del cristianesimo latino e dell’uma-
nesimo, e infine recuperato con amplificazione esemplaristica
dalla retorica sacra cinque-secentesca.

Fig. 90. ANDREA ALCIATI, Emblematum libellus,


Paris, Wechel, 1534, p. 26.

Petrarca è particolarmente interessato alle fonti di questo


motivo e ne offre continue elaborazioni all’interno della pro-
pria opera. Muovendo dalla ripetuta sottolineatura della con-
clamata magnanimità di Giulio Cesare, che nulla dimenticava
al di fuori delle ingiurie,252 egli dichiara ad esempio che tale

251 Così commenta l’emblema XXII Mino Gabriele: «Il paradigmatico episodio
vuole alludere, infatti, all’importanza del mutuo soccorso sociale e della reciproca ami-
cizia: condizioni giuste che sole possono generare il bene comune.Viceversa il singo-
lo individuo, prigioniero dei suoi limiti, non può che rimanere arido, incapace di ‘ve-
dere’ e di ‘camminare’ verso una meta più nobile della propria umana miseria» (AL-
CIATO, Il libro degli Emblemi, cit., embl. XXII, p. 144).
252 Cfr. MARCO TULLIO CICERONE, Pro Ligario, XII, 35, a cura di MARCEL LOB,
Paris, Le belles lettres, 1968, p. 87: «Sed parum est me hoc meminisse, spero etiam te,
qui oblivisci nihil soles nisi iniurias – quam hoc est animi, quam etiam ingeni tui! –
te aliquid de huius illo quaestorio officio, etiam de aliis quibusdam quaestoribus re-
minescentem, recordari».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

virtù conosce il suo naturale completamento in un salda me-


moria dei benefici ricevuti. Sulla scorta di Aristotele,253 Pe-
trarca è inoltre ben consapevole del fatto che l’oblivio iniuria-
rum può essere anche solo una faccia della medaglia, faccia che
rischia di dissolvere in orgogliosa affermazione di sé una ge-
nerosa apertura verso il prossimo. La risposta a tale rischio si
avrà allora solo col compimento della lodata figura di Cesare
in quella, eternamente degna di lode, di Cristo, e attraverso
l’integrazione del concetto di durevole oblio delle offese con
quello di pronta memoria della misericordia: «Se in lode di
Cesare disse già Cicerone non essere solito dimenticarsi di
nulla fuor che delle ingiurie, quanto più giustamente questo
non dovrà dirsi di Cristo, che dimentica le nostre ingiurie e ri-
corda la sua misericordia»; e fa questo per porsi nei nostri con-
fronti come un indelebile esempio da seguire in ogni momen-
to della vita, come un emblema mentale formato da un’im-
magine memorabile per la sua unicità e da un motto ov’è in-
dicata l’opportuna direzione del nostro cammino terreno:

Contra vero tuarum, ne dubites, offensarum


obliviscetur omnium, modo tu malarum volunta-
tum et male consuetudinis oblivisci velis; oblivisce-
tur, inquam, et delebit iniquitatem tuam et, quan-
tum distat Ortus ab Occidente, longe faciet a te, et
a peccato tuo mundabit te, et proiciet illud ut que-
situm non inveniatur.254

253 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IV, 3, 1124b, a cura di ARMANDO PLEBE,
Bari, Laterza 1983, p. 531: «I magnanimi poi appaiono ricordarsi di quelli a cui fece-
ro del bene e non di quelli da cui ne ricevettero; infatti chi riceve il bene è inferiore
a chi lo fa, mentre il magnanimo vuol essere superiore». Il passo era presente a Petrar-
ca che lo ricorda in De remediis, cit., I, 93, 8 (De beneficiis in multos collatis), p. 402: «R.
Aristotelica quedam magnanimitas fertur meminisse collati, accepti autem beneficii
oblivisci».
254 PETRARCA, Rerum senilium, cit., X, 1, 25 e 27 (a Sacramoro de Pommiers, 18
marzo 1367), vol. III, pp. 223-225: «Delle offese che tu gli recasti non dubitare che egli
vorrà dimenticarsi, purché tu riesca a dimenticarti delle tue pessime abitudini e delle
perverse inclinazioni. Egli cancellerà ogni memoria delle tue colpe, da te le manderà
più lontane di quanto sia lontano l’oriente dall’occidente, e purgandoti da ogni pec-
cato ne distruggerà il ricordo al punto che pur volendone cercare le tracce non ne tro-
verai alcuna».

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EXEMPLUM DEDI VOBIS

Con la sovrapposizione figurale di Cesare (non dimenti-


chiamo «summus dux») e Cristo il dettato dell’aneddoto cice-
roniano acquista dunque una più radicale investitura psicolo-
gico-esistenziale255 e una più complessa prospettiva pedagogi-
co-dottrinaria che dota il concetto fondamentale, ‘il virtuoso
oblio delle offese’, di una piena autonomia dalla maschera, al
contempo storica e metaforica, che ne aveva conservato il ri-
cordo. Naturale sarà dunque per Petrarca, esortando Giovanni
Barilli e Niccolò Acciaiuoli a tornare all’amicizia di un tempo,
proporre loro un volontario atto di memoria che ponga la
consapevole cancellazione delle passate incomprensioni come
fondamento per una rinnovata concordia:

Contra autem siquid forsan asperius intervenit


quam teneriores animi pati solent, quod in longa
amicitia vitare felicitati potiusquam humane pru-
dentie tribuerim, illud penitus ex imis precordiis
abolete. Duo hec sunt et perpetuas faciunt amicitias
et magnum claris animis lumen adiciunt: beneficio-
rum memoria et oblivio offensarum; utrunque a vo-
bis exigo, quod si prestiteritis, voti optimi compos
evadam et dextro pede, ut aiunt, ad scribendum ve-
nero.256

255 Cfr. PETRARCA, Rerum familiarium, cit., XXIII, 1, 14 (senza destinatario, 1361
ca.), p. 1187: «Itaque postquam nulli hominum loqui iuvat, ad Te, ultima et maxima
spes mortalium, preces verto. Si Tibi, creator omnium, beneficiis tuis parum memoriter usi
sumus, si supercilium altius forte quam decuit tanto et tam presenti divinitatis favore
sustulimus, et contrario vis ulcisci, rebus faciem muta» [«Perciò, non potendo volger-
mi ad alcun uomo, rivolgo le mie preghiere a Te, ultima e più grande speranza dei
mortali. Se dei tuoi benefici, o creatore del mondo, immemori abusammo, se osammo
per tanto e così largo favore alzare superbamente la testa, e Tu vuoi con sorte contra-
ria punirci, muta pure la nostra condizione», corsivi miei].
256 PETRARCA, Rerum familiarium, cit., XII, 16, 14-15 (a Giovanni Barilli e Nic-
colò Acciaiuoli, 1352), p. 758: «che se poi vi torni a mente qualche asprezza che i vo-
stri animi delicati male sopportano – e in una lunga amicizia soltanto per un caso e
non per deliberata prudenza è dato evitarle – cacciatele via dal fondo dell’animo vo-
stro. Queste sono le due cose che rendono eterne le amicizie e aggiungono gloria
grande alle anime nobili: la memoria dei benefici e l’oblio delle offese; l’una e l’altra
io esigo ora da voi, e se voi me la darete, sarò pago del mio voto e con fortuna o, co-
me dicono, col destro piede, avrò preso a scrivervi».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Per quanto sia cosa risaputa che «la memoria delle offese ri-
sulti più salda e più tenacemente infissa nell’animo rispetto a
quella dei benefici»,257 un’amicizia prospera eternamente – ci
suggerisce Petrarca – solo se la qualità attribuita a Cesare si ar-
ricchisce del suo ideale completamento, ovvero proprio di
quella ‘memoria dei benefici’ così difficile da rinvenire ma che
cristianamente non può non dover accompagnare ogni anima
misericordiosa nella paziente sopportazione dei danni: «Acce-
dit quod damni tui memoria quotiens ante oculos mentis re-
dit, totiens divine liberalitatis admoneat, equissimus est; ingra-
tus enim est qui ablati memor, obliviscitur accepti»;258 e nella
generosa disponibilità all’offerta: «Ego autem nichil minus ho-
minis puto quam amoris aut beneficii oblivisci vicemque non
reddere cum possis»;259 tanto da divenire una delle categorie in
base alle quali formulare un giudizio morale su un individuo:

Quod cum ita sit, quid consequitur aliud nisi


prudentem fore, castam, sobriam et modestam, su-
scepti benefici memorem, piam, largam, preterea li-
beralem et in omni actione iustissimam, proinde
contemptricem hominum reliquorum, unique dun-
taxat amoris vices fide purissima referentem;260

e tanto da risultare l’unico ricordo degno di affacciarsi alla


mente dell’individuo nel momento del suo trapasso:

257 PETRARCA, De remediis, cit., I, 93, 10 (De beneficiis in multos collatis), p. 404: «R.
[...] Est autem, nescio quidem unde, firmior offensarum quam beneficiorum tena-
ciorque memoria: sepe singulis beneficiis aut nullos aut singulos amicos obliviosos et
tepidos, hostes autem tibi multos feceris, memores ac ferventes».
258 PETRARCA, Rerum familiarium, cit., IV, 12, 26 (a Giovanni Colonna, 5 gen-
naio 1342), p. 414: «Si aggiunga che quante volte davanti al tuo pensiero torna il ri-
cordo del danno sofferto, altrettante è giusto che ti ammonisca della divina bontà; poi-
ché è ingrato chi ricorda quel che gli è stato tolto e dimentica quel che ha ricevuto».
259 PETRARCA, Rerum familiarium, cit., XII, 3, 14 (a Zanobi da Strada, aprile
1352), p. 736: «Nulla più indegno dell’uomo io stimo del dimenticarsi dell’amore e del
benefizio e non rendere, quando è possibile, il contraccambio».
260 PETRARCA, Lettere disperse, cit., 6, 72-77 (a Gabrio Zamorei, 1344-45 ca.), p.
28: «Date tali premesse, che ne consegue se non che costei sia savia, casta, frugale e pu-
dica, memore dei benefici ricevuti, virtuosa, generosa sino alla liberalità, giustissima in
ogni sua azione e, in ragione di ciò, sdegnosa verso tutti gli altri uomini e di uno so-
lo, come è giusto, corrispondente l’amore con fedeltà purissima».

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EXEMPLUM DEDI VOBIS

Itaque, ut articulum hunc absolvam, tunc vero


oppetitur mors equissimo animo, cum se profecto
non suis, que, si verum fateri volumus, nulle sunt,
sed alienis, hoc est Creatoris sui, laudibus, miseri-
cordia scilicet et venie spe et innumerabilium bene-
ficiorum memoria vita occidens consolari potest.261

Le numerose elaborazioni petrarchesche del motivo ci han-


no fornito una testimonianza di tutta la sua valenza gnomica,
e quindi l’intrinseca disponibilità ad essere sviluppato anche in
quelle forme simboliche – come sono emblemi ed imprese –
funzionali all’espressione esemplare di contenuti morali. Ri-
corrente soprattutto nella letteratura per immagini di caratte-
re sacro, il tema della memoria beneficiorum compare anche in
contesti profani, come ad esempio nell’enciclopedia iconolo-
gica di Cesare Ripa, laddove si descrive l’immagine della «Me-
moria grata de’ beneficii ricevuti» (fig. 91):

Una graziosa giovane incoronata con ramo di


ginepro folto di granelle; tenga in mano un gran
chiodo, stia in mezzo d’un leone, et un’aquila. Inco-
ronasi con ginepro, per tre cagioni, l’una, perché
non si tarla, né s’invecchia mai. Plinio lib. 6 cap. 40.
Cariem, et vetustatem non sentit iuniperus, così la grata
memoria per tempo alcuno non sente il tarlo del-
l’oblivione, né mai s’invecchia, però la figuriamo
giovane. La seconda perché al ginepro non cascano
mai le foglie, come narra Plinio lib. 16 cap. 21, così
una persona non deve lasciarsi cadere di mente il
beneficio ricevuto. La terza perché le granella del
ginepro stillate con altri ingredienti giovano alla

261 FRANCESCO PETRARCA, De otio religioso, in ID., Opere latine, a cura di ANTO-
NIETTA BUFANO, con la collaborazione di BASILE ARACRI e CLARA KRAUS REGGIANI,
Torino, UTET, 1975, vol. II, p. 798: «Per concludere dunque su questo punto, allora si
affronta la morte in tutta tranquillità, quando la vita che è prossima alla fine può con-
solarsi non con i suoi propri meriti che, se vogliamo riconoscerlo, sono nulli, ma con
i meriti altrui, cioè del suo Creatore, con la misericordia, naturalmente, con la speran-
za del perdono e col ricordo degl’innumerevoli benefici ricevuti».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 91. CESARE RIPA, Iconologia


Venezia, Cristoforo Tomasini, 1645 (Memoria dei Benefici).

memoria. Il chiodo, che tiene in mano, è tolto da gli


Adagii in quel proverbio, Clavo traballi figere benefi-
cium, conficcare il beneficio con un chiodo da trave,
per denotare la tenace memoria del beneficio rice-
vuto. Ponesi in mezzo al leone, et all’aquila perché
questi animali, ancor che privi di ragione, hanno
mostrato di tener grata memoria de’ beneficii rice-
vuti.262

Sempre come espressione del concetto di memoria – e in


questo specifico caso, di una memoria che non funziona – rin-
veniamo il motivo anche tra le imprese repertoriate da Filip-
po Picinelli e (proprio grazie alla segnalazione di quest’ultimo)
anche tra gli emblemi politici di Guido Casoni:

Ad un vaso che sparge e diffonde per le sue spac-


cature quel licore che gli è versato nel seno, io die-
di QVANT’ACCOGLIE DIFFONDE, idea di prodigio od
anco di persona ingrata che riceve i beneficij e poi
gli getta in disparte, perdendone la memoria, nel

262 CESARE RIPA, Iconologia, Venezia, Cristoforo Tomasini, 1645, pp. 392-393.

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EXEMPLUM DEDI VOBIS

qual proposito Guido Casoni Embl. 18: «Sfortunati


sudori, opere neglette, | Industrie vane, e infruttuo-
si studi | Son di colui che i beneficij getta, | Quasi
in cupa voragine, in un core | Ingrato ch’avidissimo
gli accoglie, | E per i fori de l’oblio gli sparge».263

Spostandoci in un contesto sacro, un’interessante declina-


zione del motivo ci viene fornita dal vescovo Paolo Aresi.
Spiegando le ragioni dell’attribuzione dell’impresa delle mac-
chie solari a «San Francesco dal Nostro Redentore Impiagato»,
egli ricorda il racconto dell’Antico Testamento sui due uccelli
offerti al lebbroso (rappresentazione dell’umanità malata) –
uno ucciso e uno segnato in cinque punti dal sangue del pri-
mo «accioché veduto rinfrescasse la memoria dell’altro ucciso,
e del beneficio dal leproso ricevuto»; e ne interpreta l’attualiz-
zazione nella figura del santo di Assisi (l’uccello macchiato dal
sangue salvifico di Cristo sacrificato), affermando che «così ha
voluto Dio che in questi ultimi tempi comparisse San France-
sco con le sue piaghe, accioché rinovasse ne gli uomini la me-
moria della Passione del Signore, e del beneficio della Reden-
zione, la quale pareva che si avessero gettata dietro le spalle».264
Della funzione delle stigmate di Francesco come «memoriale»
dell’amore divino verso gli uomini, Aresi ci offre un’analisi ric-
ca di aperture metaforiche; un’analisi che elabora l’immagine

263 PICINELLI, Mondo simbolico, cit., XV, 26, p. 410.


264 ARESI, Imprese sacre, cit., II, libro IV, impresa CII, pp. 1278-1293, cit. a pp.
1284-1285; nel paragrafo precedente Aresi aveva già affermato che «Christo No-
stro Signore [...] scorgendo che la memoria della sua sagratissima passione era
molto trascurata da gli uomini, far ne volle in Francesco una immagine vivente,
per cui fossero gli uomini sollecitati a ricordarsene sovente, e tenerne quel conto
che si conviene». Cfr. ERMINIA ARDISSINO, Il barocco e il sacro. La predicazione del
teatino Paolo Aresi tra letteratura, immagini e scienza, Città del Vaticano, Libreria Edi-
trice Vaticana, 2001, pp. 239-260. Per un’introduzione sulla presenza, e il senso,
della figura di Francesco stigmatizzato nella letteratura sacra (in prosa e poesia)
cinque-secentesca si vedano almeno: MARIA LUISA DOGLIO, Immagini di San Fran-
cesco nella letteratura del Seicento, «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXV
(1989), 3, pp. 423-443; GIORGIO FORNI, Florilegi fiorentini del primo Seicento in lode
di san Francesco, in Rime sacre tra Cinquecento e Seicento, a cura di MARIA LUISA DO-
GLIO e CARLO DELCORNO, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 141-186; e ARMANDO
MAGGI, Francesco d’Assisi e le stimmate alla luce del barocco, «Studi secenteschi», XLIX
(2008), pp. 79-130.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

della stigmate nella forma di un concetto sintetico che, per va-


lore e finalità, stratifica in sé più variazioni figurali dell’idea di
segno, più tracce dell’incidenza metaforico-conoscitiva del cor-
po leggibile:

Conchiudiamo dunque che la cagione efficiente


di queste sacre piaghe altra non fu che Christo Si-
gnor Nostro il quale, accioché il mondo sapesse
quanto gli era simile Francesco nell’interno, volle
eziandio lo somigliasse nell’esterno, e come a caris-
simo soldato gli diede l’armi sue proprie, come ad
alfiero la sua insegna, come a segretario il suo sigil-
lo, come ad ambasciatore la sua cifra, e lettera di cre-
denza [...].265

Le stesse immagini testuali delineate da Aresi ritornano


anche nel già citato panegirico sacro Il Memoriale di Ema-
nuele Tesauro, dove si afferma che l’umano ricordo dei bene-
fici ricevuti – alimentato da tutti quei «Memoriali perpetui»
che costituiscono la memoria collettiva di una comunità
(«trofei [...] piramidi [...] attuose statue [...] simboliche divi-
se»), e che sostengono l’individuale memoria biologica di ap-
partenenza a un processo storico («perché di stirpe in stirpe,
ancora la memoria de’ posteri si trasmettano [...] il beneficio
dagli antenati ricevuto, nella memoria de’ nipoti successiva-
mente si eterni») – deve essere indelebile quanto quello di
Dio, che ha ripetutamente sottolineato i propri benefici con
segni memoriali tangibili; o quanto quello del Figlio di Dio,
che ha lasciato a futura memoria una viva testimonianza della
propria benefica venuta attraverso il mistero delle stigmate
memoriali, di quelle ferite che ogni credente deve conserva-
re nella propria memoria vive (quali imagines agentes mai iner-

265 ARESI, Imprese sacre, cit., II, libro IV, imp. CII, p. 1284. Si noti la ripresa del-
l’immagine del sigillo con cui Dante designa le stigmate di Francesco nell’XI del Pa-
radiso (vv. 106-108: «nel crudo sasso intra Tevero e Arno | da Cristo prese l’ultimo si-
gillo, | che le sue membra due anni portarno»); Dante è peraltro, insieme a Petrarca e
Tasso, l’autore più citato dall’Aresi nella sezione dell’Arte di predicar bene dedicata all’e-
locutio.

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EXEMPLUM DEDI VOBIS

ti, mai pacificate) e vivide (risplendenti di un cromatismo che


investe i sensi, e l’intelletto):

Vermiglie et aperte serbò le piaghe nelle mani,


ne’ piedi, e nel costato, per memorial sempiterno,
accioché chiunque le mira, interrogando «Che cosa
son queste piaghe?», apprenda il ricevuto beneficio,
et altamente l’imprima nella memoria.266

Sebbene tutte contestuali al concettismo illustrato dall’e-


spressione simbolica, le letture fornite sembrano però inserirsi
con difficoltà nel discorso visuale fin qui delineato dalla sillo-
ge. Per rinsaldarne l’interpretazione possiamo però anticipare
che la pantera sarà la protagonista anche dell’emblema succes-
sivo; e, soprattutto, che lì il felino sarà leggibile anche come fi-
gura di Laura, visualizzazione ferina dell’amore voluttuoso che
tende una trappola all’amante. La contiguità non è forse ca-
suale, e rappresenta con ogni probabilità uno dei vari accop-
piamenti giudiziosi attraverso cui l’emblematista struttura il
corpus in microsequenze. Come in altri casi, la definizione del-
l’ordine di lettura è determinante. Se estendiamo all’emblema
23 la metafora amata-pantera, ci accorgiamo subito che radi-
calmente mutata è la situazione relazionale tra i due protago-
nisti del discorso lirico. La polarizzazione conflittuale dell’em-
blema 24 (predatore e preda) non appartiene al rapporto di
mutuo ausilio illustrato nell’emblema 23. Contestualizzando la
microsequenza nell’impianto semantico generale della raccol-
ta, potremmo allora invertire l’ordine dei due emblemi e co-
glierli come la rappresentazione del passaggio (moralistica-
mente strategico) dal pericoloso amore dei sensi (emblema 24)
al misericordioso amore della carità (emblema 23), dall’oblio
della voluttà alla memoria dei benefici. Il motto che accompa-
gna il ventitreesimo emblema – tratto dal vangelo di Giovan-
ni 13,15 – vale forse da glossa dell’intero dittico.

266 TESAURO, Il Memoriale, cit., p. 341.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 24

24. Insidiatur in abscondito

È scritto che la pantera è così bella di corpo e di


testa tanto orribile che ne nasce un tale effetto che
la asconde la testa fra le fronde e che gli animali in-
vaghiti del resto del corpo gli vanno apresso, e così
se gli piglia e gli mangia; possi dire a simile compa-
razione che una femina di dolci sembianti e di mal-
vagio cuore è da equipararsi a la sopra dipinta me-
daglia; il verso è del psalmista.

Il motivo letterario e iconografico della pantera che nascon-


de la testa in un cespuglio per celare la propria identità e lascia-
re che le prede, attratte dal suo odore, le si avvicinino (tav. 24) –
affonda le proprie radici nell’Antichità e attraversa l’intera tra-
dizione occidentale, oscillando tra il versante sacro e quello
profano, e conoscendo proprio durante questo oscillare mini-
me ma continue variazioni. Aristotele sottolinea l’abilità vena-
toria della pantera legata ad un’astuta pratica di dissimulazione
(Historia animalium, IX, 6, 612a: «si rende conto che agli ani-
mali selvatici piace fiutare il suo profumo; essa, quindi, per cac-

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

ciare, si nasconde»), ed Eliano ne illustra con precisione la stra-


tegia di caccia (Sulla natura degli animali, V, 40: «quando ha bi-
sogno di cibo, si nasconde in una fitta boscaglia oppure in
mezzo a un denso fogliame, rendendosi invisibile; respira sol-
tanto»). Con Plinio il Vecchio viene meglio definendosi l’ico-
nografia che possiamo rinvenire anche nel nostro emblema, dal
momento che nella Naturalis Historia si ricorda anche il parti-
colare che l’occultamento della fiera dietro i cespugli riguarda
essenzialmente il capo, essendo questa la parte che maggior-
mente ne denota la ferocia e spaventa le prede (VIII, 23:
«Pantheris in candido breves macularum oculi. Ferunt odore
earum mire sollicitari quadrupedes cunctas, sed capitis torvita-
te terreri; quamobrem occultato eo reliqua dulcedine invitatas
conripiunt»). Come in seguito spiega più diffusamente il Phy-
siologus, il soave profumo emesso dall’animale col respiro gli
deriva dal lauto pranzo e da un ristoro durato tre giorni (I, 16:
«Dopo che ha mangiato e si è saziata, si addormenta nella pro-
pria tana, e il terzo giorno si desta nel sonno, e ruggisce chia-
mando a gran voce, e le fiere lontane e vicine odono la sua vo-
ce: dalla sua voce esce ogni profumo d’aromi»).267 La compar-
sa del dettaglio cronologico («il terzo giorno») ci fa già intui-
re il mutamento di prospettiva che ha interessato a questa al-
tezza temporale la pantera.
Da mirabile naturae essa verrà progressivamente trasforman-
dosi in figura Christi, e questo doppio binario ermeneutico ac-
compagnerà il simbolo per secoli, trovando proprio nella pro-
duzione emblematico-impresistica un fertile campo di elabo-
razione.268 Ogni caratteristica fisica e comportamentale della

267 Cfr. FRANCIS KLINGENDER, Animals in art and thought to the end of the Middle
Ages, a cura di EVELYN ANTAL e JOHN HARTHAN, London, Routledge & Kegan Paul,
1971, pp. 388-389.
268 Per una sintetica ricapitolazione delle possibili accezioni di lettura del sim-
bolo si ricorra, ad esempio, alla relativa voce dell’enciclopedico FERRO, Teatro d’impre-
se, cit., p. 540: «Conforme al taccato pelo ha fiato odoroso, e dall’aprir di bocca si sen-
te ella olire arabi odori; da cui gli altri allettati vanno alla volta di quella non veduta,
e nascosta, ch’esce poi dalle macchie, e ne fa strage, e quanto è male, che la voglia, e
la natura interna non si conformi al dosso indaniato, o a quella questo; ciò intese Fran-
cesco Lanci, formando di lei impresa, per donna crudele, in atto di ascondere il capo,
dicendo ALLICIT OMNES. Il Camerarius, ALLICIT VT PERIMAT, rende ragione della pro-
prietà esposta contra quello che vuole il Taegio. La stessa nel medesimo atto aveva Ber-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

pantera sarà dunque riletta quale traccia memoriale del Salva-


tore e degli eventi a lui legati. Sicché, ad esempio, il risveglio
della fiera dopo tre giorni diviene immagine della Resurre-
zione («Così anche il Signore nostro Gesù Cristo il terzo gior-
no è risuscitato dai morti e ha gridato: “Oggi è arrivata la sal-
vezza per il mondo, per quello visibile e per quello invisibile”
[Lc. 19, 9], ed è divenuto per noi ogni profumo e “pace per gli
uomini vicini e lontani” [Is. 57, 19; Ef. 2, 17], come ha detto
l’Apostolo»). Il profumo che esce dalla sua bocca – come spe-
cificato in una versione latina del Physiologus – va ad esprime-
re il potere balsamico degli insegnamenti di Cristo per la re-
missione dei peccati che travagliano i mortali («Et sicut de ore
panthere odor suavitatis egreditur, et omnes qui prope sunt et
qui longe [id est Iudei, qui aliquando sensum bestiarum habe-
bant, qui prope erant per legem; et gentes, que longe erant si-
ne lege], audientes vocem eius et repleti et recreati suavissimo
odore mandatorum eius, sequuntur eum, clamantes cum
Propheta et dicentes: “Quam dulcia faucibus meis eloquia tua,
Domine, super mel et favum ori meo” [Ps. 118, 103]»). Il dra-
go, unico animale che non sopporta il profumo, viene inter-
pretato ovviamente come imago diaboli, e gli esseri umani sono
invece le prede della caccia salvatrice della pantera eseguita at-
traverso l’arma aromatica della «santa preghiera» (così nel Be-
stiaire di Philippe de Thaün, vv. 501-506 e 555-556: «Pantere
mustre vie | del fiz sante Marie, | e nus signefium | les bestes
par raisun, | e li draguns diable | par semblant cuvenable | [...]
E sainte unreisun | par l’odur entendum»).
Nella forma dei bestiari, così come nell’emblematica sacra
e profana, le nature degli animali abbandonano la loro origi-
naria significazione fisiologica per rendersi disponibili alle più

nardo Tasso col dire PER ALLETTARMI; e con l’ALLICIT INTERIVS è di Monsignor Odet-
to Fussio, scrive il Capaccio; come altri voglia ch’ella fosse di Roberto Primo Conte
di Sicilia figliuolo di Guiscardo. Nel medesimo modo la figurò l’Aresi con l’OMNIA
TRAHAM, parole di San Giovanni dette da Christo della esaltazione della sua Croce, e
quivi applicate a un tal corpo rappresentante Christo, non già crocifisso, ma nascosto
nell’eucarestia, dove non solo nasconde il capo, ch’è la sua divinità, ma eziandio l’hu-
manità sua. Il Bargagli ne formò due l’una per ninfa finta, et era della pantera seguita
con vaghezza da più sorti d’animali, che diceano DALL’ODOR SVO RAPITI; l’altra per
donna animosa, e vi scrisse FEROCITATE, HAVD MORIBVS IMPAR».

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

varie applicazioni simboliche ed allegoriche; nella maggior


parte dei casi per comunicare, far meglio comprendere e più
efficacemente ricordare i comportamenti che conducono ogni
buon cristiano alla vita eterna. Nell’anonimo Libro della natura
degli animali – composto in Italia settentrionale verso la fine del
XIII secolo – si ricorre, ad esempio, alla pantera per rappre-
sentare la figura positiva e salvifica del buon predicatore:

Questa pantera significa alquanti boni homini di


questo mondo, li quali gridando ferventemente e
predicando le paraule dolcissime che conduceno
l’anime a vita eterna, sì trageno a lloro per aulimen-
to tutte le creature che credeno in Dio veramente.
Secondo che lo serpente fugge della pantera, cusì
fugeno tutti li mescredenti iniquitosi da udire le pa-
raule delli boni predicatori aulimentosi. E sì como
la pantera se notricha di chelle fere che lui più pia-
ceno, simile fae lo bono predicatore: ché quando el-
li vede boni homini e le bone femine che piaceno
loro, si è loro grande vita e grande notricamento.269

Ne L’Acerba di Cecco d’Ascoli si sviluppa invece il paralle-


lismo drago-male, raccogliendo sotto la figura dell’animale an-
tagonista della pantera il generale tipo del «cattivo | che fug-
ge dalli buon sempre l’aspetto, | perché di conoscenza è ceco
e privo» (vv. 7-9), ed esplicitando nel distico di chiusura del ca-
pitolo la morale sottesa all’articolata similitudine: «fuggi li pra-
vi e colli buoni conversa, | se vuo’ che tuo virtù non sia so-
mersa» (vv. 19-20).270
Già nei bestiari latini sono presenti delle miniature che
spesso svolgono la duplice funzione di sottolineare visivamen-
te la partizione della materia (tra sezione descrittiva e sezione
allegorica) e di fornire una sintesi dei tratti fisici degli anima-

269 Cfr. Libro della natura degli animali, XXI (Della natura de la pantera), in Bestia-
ri medievali, a cura di LUIGINA MORINI, Einaudi, Torino, 1996, p. 448. Si noti la sosti-
tuzione del drago col serpente, ancor più specifica personificazione del peccato origi-
nale per la religione cristiana.
270 CECCO D’ASCOLI, L’Acerba, cap. XLII, in Bestiari medievali, cit., p. 608.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

li. In un esemplare manoscritto del Bestiaire di Guillaume le


Clerc conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi (ms. fr.
1444b) l’illustrazione ci mostra il dragone che fugge dall’alito
profumato della pantera e si rifugia in una caverna (porta infe-
ri, accesso a quell’universo sotterraneo che – come vediamo
anche nel Bestiaire di Gervaise, vv. 158-163 – è dimora eletta
del male: «Li dragons autremen le fait | car il ne puet l’odor
sosfrir: | en terre s’en vait enfoïr | – c’est sa desfanse et ses
conforz – | iluec se git, pres est de mort; | vancuz est, ne se
puet movoir» (fig. 92). Con la mente al nostro emblema, e al-
l’accezione negativa che in esso – proprio da un punto di in-
terpretazione sacra – è riservata alla pantera, pare significativa
l’opzione illustrativa della miniatura (rinvenibile peraltro anche
in altri codici miniati di bestiari) che ferma icasticamente la
narrazione dell’episodio nell’istante in cui il drago sta entran-
do nei sotterranei inferi, e per questo motivo nasconde alla
pantera (e a tutti noi) il solo capo. Verrebbe pertanto da chie-
dersi se l’impostazione grafica tràdita in numerosi esemplari di
bestiari possa aver influito nella definizione di un modello ico-
nografico che, oltre a caratterizzare l’immagine di Baltimore,
ritorna anche, ad esempio, nell’emblema 37 (ALLICIT VT PERI-
MAT) del secondo volume dei Symbolorum et emblematum di
Joachim Camerarius; emblema che, al pari del nostro, oltre a
rendersi disponibile per moralizzazioni erotiche (il motto reci-
ta infatti: «Luxuriem juvenes, malefidos spernite amores, |
Nam necat illectas Pardus odore feras») vede nella pantera la
personificazione dell’uomo «sceleratum et malitiosum [...] qui
animum suum subdole occultet [...] alia animalia persequen-
tem» (fig. 93).271
La funzionalità comunicativa e mnemonica della stretta
collaborazione fra parole e immagini (sia effettive che testuali)
all’interno della struttura espressiva dei bestiari viene aperta-
mente dichiarata, e sottolineata nelle sue costitutive ragioni, da
Richard de Fournival (1201-1260) nell’ampio prologo a Li Be-
stiaires d’amours. Riprendendo formule proprie delle riflessioni
classiche e medievali sulla memoria e sull’efficacia didattica

271 CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum, cit., libro II, embl. 37, p. 46.

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

Fig. 92. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Fr. 1444b,


GUILLAUME LE CLERC, Bestiaire.

Fig. 93. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae tres, II,


Norimberga, Voegel, 1605, emblema 37.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

delle immagini, l’autore afferma infatti che l’«estremo bando»


(«arierebans») con cui sta dichiarando il suo infinito amore po-
trà più agevolmente radicarsi in profondità nella memoria del-
l’amata (così come ella non verrà mai meno entro la sua, sen-
za che vi appaia almeno la cicatrice della ferita: «si ke je n’en
porroie estre si garis ke au mains n’i parust la sorsanure de la
plaie») solo se riuscirà attraverso le vie dell’immagine e della
parola («cemin [...] painture et parole») a varcare entrambe le
porte che conducono alla «maison de memoire», ossia la vista
e l’udito:

E a questo risultato si perviene sia per mezzo


dell’immagine che per mezzo della parola. Infatti
quando si vede dipinta una storia, per esempio quel-
la di Troia o un’altra, si vedono le imprese dei prodi
cavalieri che vissero nel passato come se fossero pre-
senti davanti a noi. E lo stesso vale per la parola. In-
fatti quando si sente leggere un romanzo, si assiste
alle avventure come se si svolgessero davanti a noi.
E poiché si può rendere presente ciò che è passato
per mezzo di queste due cose, immagine e parola,
appare chiaro che per mezzo di queste due cose si
può giungere alla memoria. [...] E soprattutto que-
sto scritto tratta una materia che richiede immagi-
ni. Riguarda infatti la natura di bestie e di uccelli
che si possono conoscere meglio per mezzo di im-
magini che di descrizioni.272

Nel ragionamento persuasivo di Fournival (che nel Be-


stiaire d’amours sostituisce la struttura staticamente descritti-

272 RICHARD DE FOURNIVAL, Li Bestiaires d’amours, a cura di FRANCESCO ZAM-


BON, Parma, Pratiche, 1987, pp. 34-36: «Et a che meïsme vient on per painture et per
parole. Car quant on voit painte une estoire, ou de Troies ou d’autre, on voit les fais
des preudommes ki cha en ariere furent, aussi com s’il fussent present. Et tout ensi est
il de parole. Car quant on ot .i. romans lire, on entent les aventures, aussi com on les
veïst en present. Et puis c’on fait present de chu ki est trespassé par ces .ij. coses, c’est
par painture et par parole, dont pert il bien ke par ces .ij. coses poet on a memoire
venir. [...] Et meesmement cis escris est de tel sentence k’il painture desire. Car il est
de nature de bestes et d’oisaus ke miex sont connissables paintes ke dites».

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

va dei suoi predecessori medievali) il motivo della pantera


viene citato subito dopo che l’autore ha ricordato il costu-
me dell’unicorno di addormentarsi al dolce profumo della
verginità di una damigella («ausi com li unicornes ki s’en-
dort au douc[h] flair de la virginité a la damoisele»). Così co-
me il mitico animale è stato catturato dai cacciatori attra-
verso questo stratagemma, anche l’autore è caduto vittima
del «sages venerres» Amore. Ma soprattutto egli è divenuto
prigioniero della dolcezza di una fanciulla («douc[h]our»,
«m’a elle tenu a flarier, et ai me volenté lassie por le soie
suir»), al pari degli animali che, una volta fiutata la pantera,
non possono più abbandonarla, ma la seguono fino alla
morte attratti dal dolce alito («douce alaine») che emette.273
Il motivo del ‘dolce profumo’ ritorna anche nella Re-
sponse che accompagna il Bestiaire d’amours e in cui l’amata
ripaga il corteggiatore con le sue stesse armi, interpretando
in modo differente, se non addirittura opposto, i simbolismi
animali da lui utilizzati per persuaderla retoricamente della
sincerità del proprio amore. Dopo aver infatti ricordato che
per sua natura la pantera è in grado di sanare una ferita o
una malattia grazie al dolce alito («li vraie pantiere le garist
de se douche alaine»; in ovvio controcanto alla ferita amoro-
sa della memoria dell’amante), la damigella sottolinea che
ben più temibile fiera è quella dolce parola che intende
trarre in inganno («douche parole qui vient en dechevant») al
fine di penetrare un cuore duro («nule chose ne puet si per-
chier .j. dur cuer comme douche parole bien assise»).274 Il
dolce profumo, ossia fuor di metonimia la pantera stessa, è
dunque il testo del Bestiaire, l’arriereban iconico-verbale at-
traverso cui il poeta cerca di entrare e stabilirsi nella me-
moria dell’amata? Se accettassimo come plausibile questa
interpretazione metaletteraria dell’immagine, dovremmo
allora accostare la testimonianza romanza di Richard de
Fournival alla famosa occorrenza del motivo della pantera

273 Cfr. DE FOURNIVAL, Li Bestiaires d’amours, cit., pp. 56-58: «Aussi com le bestes
ke puis k’eles ont une fois sentie au flair le panthere, ja puis ne le lairont, ains le sievent
de si a le mort por le douce alaine ki de lui ist».
274 DE FOURNIVAL, Li response du Bestiaire, cit., pp. 104-106.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

presente nel De vulgari eloquentia, laddove Dante fa esplici-


tamente della bestia profumata una similitudine del volgare
italiano. Proprio come l’inafferrabile ed astuta fiera, la vera
lingua letteraria nazionale fa infatti sentire i suoi dolci ef-
fluvi senza mai palesare il luogo ove risiede:

Abbiamo battuto i boschi e i pascoli d’Italia


senza trovare la pantera che inseguiamo: applichia-
mo dunque per la sua scoperta un metodo di in-
dagine più razionale, nell’intento di avviluppare
nei nostri lacci questa fiera che fa sentire il suo pro-
fumo ovunque senza mostrarsi in nessun luogo.
[...] Ora, le più nobili di queste azioni proprie de-
gli Italiani sono quelle che, senza appartenere ad
alcuna città d’Italia, sono comuni a tutte le città:
fra queste azioni possiamo adesso scorgere quel
volgare che prima abbiamo cercato, quel volgare
che si fa sentire in ogni città, senza aver sede in
nessuna di esse.275

Col Bestiaire d’amours assistiamo dunque al progressivo tra-


sferimento della nostra immagine dall’ambiente didattico-alle-
gorico dei bestiari cristiani medievali al contesto cortese del
discorso intorno alla fin’amor. Questo contesto comprende ov-
viamente anche l’esperienza lirica delle origini, dove la simili-
tudine viene a far parte del ricco repertorio di espressioni vòl-

275 DANTE ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, I, 16, a cura di CLAUDIO MARAZZINI


e CONCETTO DEL POPOLO, Milano, Mondadori, 1990, pp. 58-60: «Postquam venati
saltus et pascua sumus Ytalie nec pantheram quam sequimur adinvenimus, ut ipsam re-
perire possimus, rationabilius investigemus de illa ut, solerti studio redolentem ubique
et necubi apparentem nostris penitus irretiamus tenticulis. [...] Que quidem nobilissi-
ma sunt earum que Latinorum sunt actiones, hec nullius civitatis Ytalie propria sunt,
et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod supe-
rius venabamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla» (corsivi miei). La
metafora della pantera riprende e conclude la metafora della caccia iniziata ad I, 11
(«Quam multis varietatibus latio dissonante vulgari, decentiorem atque illustrem Yta-
lie venemur loquelam; et ut nostre venationi pervium callem habere possimus, perplexos
frutices atque sentes prius eiciamus de silva»); metafora che trova un suo fondamento
anche nel valore etimologico del verbo venati, che in senso proprio vale «cacciare» e
in senso traslato «investigare, ricercare».

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

te a descrivere la paradossalità del sentimento amoroso. La fi-


gura retorica evidenzia la totale subalternità dell’amante di
fronte al potere pressoché infinito dell’amata,276 a un potere
che risiede soprattutto nella propria misteriosa, naturale abilità
di celarsi entro l’apparente innocenza della bellezza: «Sì come
la pantera per alore | comprende l’altre fiere di plagenza; | ur-
lando lei, vi trag‹g›ono a romore, | ed ella le comprende d’incre-
scenza: | a simiglianza poss’io dir d’amore, | ch’aprende i suoi
con amorosa lenza | mostrando bei sembianti sovent’ore, | e
poi li tiene i˙llunga penitenza».277
Sotto l’influenza del forte peso che l’imagery petrarchesca
detiene nel campo simbolico declinato all’interno del codice
di Baltimore risulta difficile resistere alla tentazione di inse-
rire anche i Fragmenta nel repertorio di variazioni sull’imma-
gine della pantera qui sinteticamente delineato. Se è vero che
nel Canzoniere non compare direttamente l’immagine lette-
rale o metaforica della pantera, è altrettanto vero che la rap-
presentazione ferina del desiderio erotico (intesa in sé o cri-
stallizzata nei suoi principali agenti) risulta essere uno dei to-
poi espressivi della tradizione lirica più spesso evocati da Pe-
trarca. A proposito di ciò, sulla scorta di una ripresa lessicale,
si ricordi almeno la serie RVF 56, 13 («e dentro dal mio ovil
qual fera rugge?»), 256, 7 («e ’n sul cor quasi fiero leone rug-
ge») e TC III, 169 («So come Amor sovra la mente rugge»). Per
tacer di RVF 152, 1-2, dove Laura è presentata in tutta quel-
la sua duplice natura che riflette la stessa lacerazione del poe-
ta fra opposte tensioni («Questa humil fera, un cor di tigre o
d’orsa, | che ’n vista humana e ’n forma d’angel vène»).
Dobbiamo inoltre notare che il motivo dell’assoluto potere
del profumo è una connotazione in un certo senso costituti-
va di quella «fitta rete poli-isotopica» di espressioni metafori-

276 Si vedano, ad esempio: CHIARO DAVANZATI, Rime,VI (Lungiamente portai), vv.


7-12: «ché la valenza – di voi, donna altera, | fueme pantera – e presemi d’amore |
come d’aulore | ‹che› d’essa ‹ven› si prende ogn’altra fera: | così di voi mi presi ina-
morando»; e TOMMASO INGHILFREDI, Rime, I (Audite forte cosa che m’avene), vv. 28-32:
«A la mia vita mai non partiragio; | sua dottrina m’afrena, | così mi trage a lena | co-
me pantera le bestie salvage».
277 DAVANZATI, Rime, XXIX (Sì come la pantera per alore), vv. 1-8 (corsivi miei).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

che e temi verbali che presiede alla composizione lirica ed


emblematica dell’oggetto stesso del desiderio.278 Questa «re-
te al cui centro Laura brilla e domina» conosce infatti tra i
suoi nodi fondanti le immagini sinonimico-omofoniche del
lauro e dell’aura con tutte le loro variate e metonimiche ri-
correnze formali che corrispondono anche a ricorrenze sul
piano dei significanti.279 Proprio il motivo del profumo rap-
presenta un elemento di connessione tra le due isotopie,
nonché un tratto distintivo del loro essere al contempo
proiezione illusiva di un desiderio (cfr. RVF 129, 68-70: «mi
rivedrai sovr’un ruscel corrente, | ove l’aura si sente | d’un
fresco e odorifero laureto»; e 246, 1-2: «L’aura che ’l verde lau-
ro e l’aureo crine | soavemente sospirando move») e sinestesi-
co phantasma memoriale (cfr. RVF 327, 1-2: «L’aura e l’odore
e ’l refrigerio e l’ombra | del dolce lauro e sua vista fiorita»; e
337, 1-5: «Quel, che d’odore e di color vincea | l’odorifero e
lucido orïente, [...] dolce mio lauro [...]»).
Modello esemplare della domina «di dolci sembianti e di
malvagio cuore», Laura potrebbe dunque fungere da archetipo
di quella «femina» che l’anonimo emblematista ritrae sotto le
forme affascinanti e infide della pantera. L’emblema andrebbe
dunque interpretato quale ammonimento, rivolto agli amanti,
a non lasciarsi sedurre da una bellezza esteriore che è solo l’e-
sito di abili pratiche di dissimulazione, di astute strategie di

278 Cfr. VINCENZINA MAZZARINO, Le parole dell’ambiguità. Poetiche dell’omonimia,


Bologna, Il Mulino, 1991, in part. p. 289: «Resta da osservare che, seppure piegato ad
effetti tecnici (e poetici) di volta in volta assai diversi, l’equivoco su Laura è, se non al-
tro come mera allusione (al di là, cioè, delle possibilità di parafrasi “letterale”), sempre
scoperto, ed anzi atteso; dopotutto l’omofonia acquista particolare lustro e autorità in
virtù del suo stretto legame con la notatio, del suo insistere su un nome proprio, ed an-
che delle sue mai trascurabili implicazioni emblematico-simboliche».
279 Cfr. CESARE SEGRE, Isotopie di Laura, in ID., Notizie dalla crisi, Torino, Ei-
naudi, 1993, pp. 66-80, e in part. pp. 69 e 76: «Lauro ‘alloro’ costituisce, nella gram-
matica della poesia del Petrarca, il “maschile” di Laura. Maschile e femminile istitui-
scono una isotopia grammaticale. È per questo che la parola è usata dal Petrarca co-
me “impresa” o senhal di Laura. [...] Alla “sinonimia” Laura:‘alloro’ si aggiunge così
la “omonimia” Laura:‘aura’. Se ora precisiamo che Laura e l’aura, nei manoscritti tre-
centeschi, e in particolare nell’autografo del Canzoniere, si scrivono nello stesso mo-
do (la distinzione dell’articolo non era segnata da un apostrofo), comprendiamo che
in questo caso Laura e l’aura sono nello stesso rapporto di due significati diversi del
medesimo lessema».

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INSIDIATUR IN ABSCONDITO

caccia.280 Significativa in tal senso è anche la scelta del motto


che, tralasciando altri passaggi biblici legati all’immagine della
pantera (quelli che – abbiamo visto – ne sottolineano la lettu-
ra di figura Christi), si orienta su un brano del Salmo 10 che
stigmatizza invece la malizia dei malvagi e lo fa invocando la
vigile reazione di Dio: «Se ne sta in agguato fra le siepi, | dal suo
nascondiglio uccide gli innocenti, | con gli occhi spia la gen-
te indifesa. | Si apposta e rimane nascosto | come un leone nel fol-
to dei cespugli. | Resta in agguato per afferrare i deboli: | li atti-
ra nella rete e li cattura. | Si abbassa, si rannicchia | e gli in-
nocenti cadono sotto la sua violenza. | Dice in cuor suo: “Dio
non se ne cura, | chiude gli occhi, non vede mai nulla”. | Al-
zati, Signore, colpisci! | Non dimenticarti degli oppressi!». La
stessa circospezione e la stessa reattività sono dunque richieste
a chi affronta la pantera nascosta nei viluppi della passione amo-
rosa. La stessa prudenza è consigliata a chi deve scegliere a qua-
le amore, o a quale amata, abbandonarsi. Da questo punto di
vista – come ci ha ricordato (e/o prefigurato) l’emblema 23 –
risulta determinante seguire il giusto exemplum.

280 Cfr. a questo proposito il fondamentale studio di MARCEL DETIENNE, Dioni-


so e la pantera profumata, Bari-Roma, Laterza, 1981 (I ed. fr. 1977), p. 68: «Nella sua tec-
nica di caccia, la pantera combina inganno e seduzione: la trappola che essa tende al-
le sue prede non è altro che il suo corpo di fiera il cui profumo fa dimeticare la mor-
te vorace che cela in se stesso. Questa seduzione che si opera attraverso l’odorato do-
veva comportare come conseguenza l’intima associazione della pantera con l’immagi-
ne della donna profumata dal corpo desiderabile».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 25

25. Ite sicuri homai, ch’amor vien vosco

Un amorino che accompagna per mano un uomo e una


donna è il soggetto del venticinquesimo emblema (tav. 25). Il
testo di commento ne fa una rappresentazione del lieto fine di
un amore travagliato. Siamo apparentemente di fronte a un
quadretto di genere, costruito attraverso il referenziale ritratto
dei protagonisti di una relazione amorosa dall’esito felice:

Apresso aver longo tempo travagliato ne l’acqui-


star la grazia d’una persona che si ama, e riuscendo
dopo longo travaglio che a la fine la persona amata
si renda a chi ama sì arditamente, dice: «Ite sicuri
hormai che amor è con vui»; come dice il sopra det-
to verso.

Il ricorso al fragmentum 153 per la definizione del motto


(v. 12: «Gite securi omai, ch’Amor vèn vosco») sembra però
dinamizzare la didascalicità dell’illustrazione, rendendo più
ambigua l’identità dei soggetti posti sulla scena. Se infatti os-
serviamo l’immagine alla luce del testo di Petrarca, quelli che

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ITE SICURI HOMAI, CH’AMOR VIEN VOSCO

– secondo una lectio facilior – paiono a tutti gli effetti i simu-


lacri di due amanti, potrebbero anche configurarsi come le
componenti interiori di un unico soggetto amoroso (l’io e la
propria anima), o come le sue più abituali manifestazioni
esteriori (pensieri, sospiri, lamenti, lagrime, etc.). «Sonetto di
invocazione anaforica ai sospiri e ai pensieri visti come altro
da sé» (Stroppa), il testo di Petrarca potrebbe allora conosce-
re nell’emblema di Baltimore la drammatizzazione allegorica
e personificante del proprio nucleo concettuale; ossia, dell’e-
sortazione – rivolta dal poeta ai propri «caldi sospiri» e «dol-
ci penser» – a rendersi percepibili dall’amata grazie all’aiuto
di Amore.
Senza giungere ad abbinamenti troppo netti e schematici, è
pur vero in generale che la dialogicità e il passo binario del so-
netto ben si rispecchiano nelle figure ritratte. Se non assistia-
mo più all’esplicito colloquio del soggetto con la propria ani-
ma – come invece avviene nel fragmentum 150, e come visua-
lizzerà nel codice il successivo emblema 26 – il ricorrere di
forme verbali imperative va comunque a declinare il testo nel-
la forma di una allocuzione rivolta dall’io lirico verso un “al-
tro da sé”; “altro” che in questo caso coincide coi domìni in-
teriori del soggetto amoroso. Non diversamente, la quasi per-
fetta serie anaforica di imperativi del predicato ‘andare’ posti a
inizio di strofe (con la sola eccezione della perifrasi «Dir se po’
ben per voi» che, però, partecipa alla medesima funzione
grammaticale, vale un “Dite”) sembra a sua volta trovare un ef-
ficace correlativo visivo nel movimento entro cui vengono
cristallizzati i personaggi. Il differente sesso di questi, infine,
potrebbe esser inteso quale reificazione visiva della figura ver-
bale dell’antitesi, assai ricorrente nel Canzoniere e cosparsa qui
lungo l’intero sonetto (caldi sospiri | freddo core, morte | mercé,
speranza | errore, inquieto e fosco | pacifico e sereno). Oltre che
l’happy end di una tormentata storia d’amore, l’immagine del-
l’emblema potrebbe dunque andare ad illustrare anche la spe-
ranza, forse l’auspicio, di un moto di risoluzione di quel con-
flitto interiore che blocca il soggetto nel pantano di una sterile
fluctuatio, di un morboso patiner sur place. Forse la soluzione per
riprendere veramente il cammino, per rimettersi una buona
volta in moto («Gite»), sta proprio nel farsi guidare da Amore.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Un Amore però che, a questa altezza del racconto visivo di-


spiegatosi lungo il codice (o meglio, a questo punto della frui-
zione meditativa di tale serie compiuta dal lettore), sembra es-
sersi già inchinato di fronte a Pudicizia (cfr. il primo emblema
e, in generale, i vari emblemi trionfali); sembra dunque aver già
conosciuto la riconversione da forza destabilizzante (da pertur-
batio: «speranza [...] errore») a scorta fedele contro gli arbìtri
della «ria fortuna». La mutatio Amoris – pare questo il principa-
le messaggio dell’intero ciclo emblematico – non può che av-
venire a sèguito di una meditatio Amoris; ossia, attraverso un’ap-
profondita indagine e una sincera descrizione («parlando fore»:
l’atto poetico, quindi?) di quel luogo «ove ’l bel guardo non
s’estende» (v. 6) ma entro cui il soggetto deve, agostiniana-
mente, riuscire a internarsi. Il proprio animo.
Letta in tal senso l’illustrazione – ossia come ritratto del-
l’interlocutore dell’io lirico (i caldi sospiri, i dolci pensieri, la
loro guida Amore [...]) –, l’emblema 25 è destinato a legarsi
profondamente al successivo emblema 26 che invece delinea
pianamente la situazione di dialogo tra il soggetto e la propria
anima descritta nel sonetto 150. La connessione tra i due frag-
menta, determinata da precise riprese testuali,281 viene eviden-
ziata da Vellutello che, nel suo Petrarcha, compone i due testi in
diretta ed esplicitata sequenza:

Avendo il poeta, a persuasione de la sua anima,


come nel precedente sonetto abbiamo veduto, pur
un poco di speranza preso, ch’a Madonna Laura
debba ’l suo mal dispiacere, hora in questo mostra
voler esperimentar se così fosse.282

281 Sabrina Stroppa ne ricorda alcune a commento del sonetto 153, notando co-
me questo si «lega saldamente ai precedenti secondo la legge della reciprocità che go-
verna il Canzoniere: se la mente dell’amante in 150, 13 non riusciva a “rompere il
duol” rappreso come ghiaccio, qui il medesimo è detto di lei (v. 2); se il pianto della
donna era versato “dove mirando altri nol vede” (150, 11), qui è il non visibile cuore
di lui che deve trovare espressione verbale (v. 6)» (STROPPA, Commento, p. 282).
282 Il PETRARCHA con l’espositione di m. ALESSANDRO VELLUTELLO, Venezia, Ni-
colò Bevilacqua, 1563, p. 43v.

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CHE A GRAN SPERANZA HUOM MISERO NON CREDE

Tav. 26

26. Che a gran speranza huom misero non crede

L’immagine dell’emblema 26 – un uomo nudo sdraiato alla


base di un monte sopra il quale campeggia una sfera armillare
(tav. 26) – sembra visualizzare il dialogo tra un individuo e la
propria anima. La scena illustra didascalicamente la situazione
narrativa sviluppata da Petrarca nel sonetto 150, fonte del mot-
to.283 La composizione dell’immagine non è però neutra, e par-

283 Cfr. ANGELO ROMANÒ, Il sonetto CL delle “Rime” e l’interpunzione della prima
quartina del medesimo, «Lettere italiane», II (1950), 4, pp. 244-247, in part. p. 244: «Il so-
netto CL delle “Rime” è l’unico tra i componimenti petrarcheschi a fruire di un im-
pianto dialogico, l’unico cioè in cui il P. imposti la situazione in modi intelocutori, su
un’apparente struttura drammatica. Dico apparente, perché anche qui, come quasi sem-
pre altrove, gli elementi di una virtuale espressione contrappositiva finiscono per ricom-
porsi e fondersi nell’impasto di una effettiva progressione lirica: avremo non una dispu-
ta per giuoco di contrasti (in discendenza dagli archetipi provenzali come il descort e il
contrasto), ma la consueta conversazione articolata e assorta, di cui testimonio sintattico è
la composizione per membri aggiuntivi, e stilistico un lessico insolitamente familiare e
dimesso, proprio discorsivo». Sul dialogismo, esplicito o meno, di alcuni fragmenta pe-
trarcheschi (e sulla sua connessione col dialogismo del Secretum, sottolineata anche da
Romanò) si veda anche: ANDREA AFRIBO, Petrarca e i suoi doppi (RVF 81-89), in Il Can-
zoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 225-242, in part. a pp. 225-230. Sul valore se-
mantico e poetico di tale dialogismo, verificato sulla scorta di divisioni strutturali che si
riflettono in divisioni interne, riflette JAMES F. MCMENAMIN, Testimonianze di un’anima
divisa nel “Canzoniere” di Petrarca, «Studi di filologia italiana», LXIV (2006), pp. 33-49.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ticolarmente significativa per la spendibilità moralistica dell’in-


tera forma simbolica si rivela la scelta di collocare i protagonisti
del dialogo su due differenti livelli del quadro. Una tale organiz-
zazione verticale del discorso visivo sembra accentuare, più che
semplicemente sancire, la distanza ontologica tra il misero esse-
re umano e la sua anima (entità metafisica denotata dalla sfera).
Essa amplifica inoltre su un piano sovraindividuale il messaggio
di totale sfiducia nella sorte riportato dalla chiusa gnomica (v.
14: «ch’a gran speranza uom misero non crede»):

Uno amante che per longo tempo sia stato poco


grato a la sua patrona, se qualch’uno gli propone di
volerlo far felice, egli è tanto da la miseria et infeli-
cità sbattuto che a quelle buone speranze non pre-
sta fede, e però ben dice il Petrarca nel sopra detto
verso.

Nell’incunabolo queriniano G.V.15 l’illustrazione del nu-


cleo concettuale del fragmentum è differente. Ricorrendo allo
stesso impianto che caratterizza nell’esemplare bresciano l’in-
tera decade 150-160 (e di cui si è già discusso nel commento
all’emblema 10), la vignetta raffigura il pittogramma del libro
frontalmente aperto verso il lettore. La pagina a sinistra ripor-
ta il dettaglio di un cuore ferito da una freccia, quella di destra
un volto femminile e una fiaccola accesa; nel registro superio-
re Cupido cieco e un’altra figura femminile (con ogni proba-
bilità Laura) osservano ciò che accade in basso (fig. 94). Il dia-
logo descritto nel testo sembra qui sostenuto da soggetti equi-
pollenti, e la luce della speranza pare ancora viva (anche se nel-
la vignetta successiva una torcia assai simile sarà l’arma rivolta
da Cupido contro il libro ormai chiuso). Inserita com’è in un
sistema illustrativo complesso e integrale, la vignetta funge da
puntuale raccordo tra il successivo ciclo del pianto e i fragmen-
ta immediatamente precedenti, che registrano in modo ambi-
guo le responsabilità dei vari attori nella vicenda amorosa.
«Nella vicenda amorosa che vede coinvolto il poeta, qual è
l’aggressore e quale il possibile rifugio?» – si chiede infatti Ste-
fano Prandi – «148 identifica in Amore il primo, in Laura il se-
condo; 149 sembra indicare che Amore da avversario divenga

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CHE A GRAN SPERANZA HUOM MISERO NON CREDE

Fig. 94. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 64v.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

alleato; in 150 l’indeterminatezza dei ruoli dei due “attori”


procura una sorta di cortocircuito interiore che genera l’irre-
quieto dialogo del poeta con la propria anima».284 L’esito di
questo dialogo viene dunque illustrato da Grifo come aperto,
problematico, privo di una predeterminata verità (che non sia
la sfiducia nel destino, comune a entrambi gli interlocutori).
L’immagine dell’emblema di Baltimore sembra invece insi-
stere sulla distanza tra i dialoganti, da intendere forse – e coe-
rentemente con la funzione esemplare adempiuta dalla forma
simbolica – come una distanza assiologicamente marcata. Il
dettaglio della sfera armillare è in tal senso significativo. Con
analogo valore connotativo, ad esempio, lo troviamo anche ne-
gli Emblemata di Johannes Sambucus (1564), dove l’emblema
dedicato alla PHYSICAE AC METAPHYSICAE DIFFERENTIA raffigu-
ra «la Natura nelle sembianze della Diana d’Efeso, con la de-
stra alzata ed alata, e la sinistra tenuta bassa da una pendula ro-
sa araldica, simbolo della natura organica» (fig. 95).285 L’illu-
strazione, di origine geroglifica, intende visualizzare il dissidio
che investe l’uomo, diviso tra la tensione verso una metafisica

284 STEFANO PRANDI, Ritorno a Laura: RVF 141-150, in Il Canzoniere. Lettura mi-
cro e macrotestuale, cit., pp. 335-360, cit. a p. 358.
285 PRAZ, Studi sul concettismo, cit., pp. 32-37.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 95. JOHANNES SAMBUCUS, Emblemata,


Antwerp, Plantin, 1564, p. 65.

dimensione di sapere e la sua inaggirabile natura fisica e terre-


na. Ne registriamo un’occorrenza anche tra gli Emblemata di
Alciato (embl. XV dell’ed. 1531, Paupertatem summis ingeniis
obesse ne provehantur), che a sua volta pare debitrice (però con
variazione di forma e significato) a una delle più note illustra-
zioni dell’Hypnerotomachia Poliphili, inerente la nozione di festi-
na lente.286 Le mani della figura vanno infatti verso l’alto e ver-
so il basso, a indicare i due possibili ambiti di indagine e rifles-
sione, quello metafisico (palazzo con sfera armillare immerso
nelle nubi) e quello fisico (tempietto con globo terrestre sulla
cupola). Lo stesso gesto caratterizza anche l’individuo ritratto
nell’emblema statunitense, ma la nudità e la postura di questi
sembrano volutamente accentuarne la natura corporea e terre-
na; o in modo più circostanziato, come scrive Petrarca in un al-

286 COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, cit., p. 133.

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CHE A GRAN SPERANZA HUOM MISERO NON CREDE

tro sonetto dialogico tematicamente affine al 150, quel «duro


e greve | terreno incarco» (RVF 32, 6-7) rappresentato dalle
passioni mondane (v. 11: «e ’l riso e ’l pianto, e la paura e l’i-
ra») ed in particolare dalla perturbazione erotica.287 Proprio in
relazione a quest’ultimo aspetto potremmo allora accostare la
posizione dell’uomo nudo (che dalla didascalia è qualificato
come «amante») a quella che nella pictura del settimo emblema
della serie caratterizza la ninfa-Diana-Laura. Oppure (e negati-
vo) all’emblema EST MISER OMNIS AMANS degli Emblemata ama-
toria di Otto van Veen, dove un amante ferito da Cupido indi-
ca la causa della propria sofferenza (fig. 96). In entrambi i casi
siamo forse di fronte a personificazioni della voluptas alimenta-
ta dai sensi corporei.
Il ventiseiesimo emblema, dunque, non ci presenta sol-
tanto la visualizzazione di «una voce d’accento (per così di-
re) fenomenologico, inserita su una voce metafisica, quella
che si suol dire voce della coscienza [...] da un lato un rit-
mo volentieri spezzato e ansioso, a significare una prover-
biale incertezza, la perplessità, il bisogno della risposta e del-
la conferma; dall’altro un recitativo uguale e un po’ mono-
corde, non privo di sottigliezza intuitiva ma povero di colo-
re e d’impressione».288 Questa è semmai la possibile inventio
di un’altra traduzione visiva del sonetto 150, quella rinveni-
bile alla carta 67r del codice M.427 della Morgan Library, e
recante l’iconografia non nuova del poeta seduto penso-
so, con un libro in mano, all’ombra di un lauro (fig. 97).

287 Analizzando il sonetto 32, Klaus Hempfer riconosce al dialogo-monologo in-


scenato da Petrarca una funzione didattica ed esemplare che può forse essere rinvenu-
ta anche in quello riportato nel fragmentum 150: «Il monologo condotto come un dia-
logo del locutore con i suoi “pensieri” diventa già nel secondo verso, attraverso la te-
matizzazione della “umana miseria” e il verbo “suol”, espressione di una regola certa
implicitamente generalizzata ed estesa all’umanità tutta, una generalizzazione resa
esplicita nella terzina finale attraverso l’ambiguo plurale “vedrem”, che può indicare
sia il locutore ed i suoi pensieri, che il locutore come pars pro toto dell’umanità tutta,
come pure attraverso il termine “sovente” e l’impersonale “altri” che indicano il com-
portamento sbagliato che è possibile osservare spesso» [KLAUS W. HEMPFER, Antinomie
discorsive e concorrenza di modelli alternativi della realtà (RVF 31-40), in Il Canzoniere. Let-
tura micro e macrotestuale, cit., pp. 97-114, cit. a p. 98].
288 Cfr. ROMANÒ, Il sonetto CL delle “Rime” e l’interpunzione della prima quartina
del medesimo, cit., p. 244.

323
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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 96. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 63.

Fig. 97. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427,


Rime e Trionfi di Francesco Petrarca.

324
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CHE A GRAN SPERANZA HUOM MISERO NON CREDE

La vignetta visualizza qui un momento di raccoglimento e


riflessione da parte del poeta. Nel nostro emblema la gerar-
chia tra i due dialoganti è invece radicalizzata, e non più ri-
componibile appare il dualismo tra un corpo gravato dai bi-
sogni terreni e un’anima che anela ai domìni celesti. Se la
leggessimo in tal senso, l’espressione simbolica potrebbe al-
lora offrirsi come un’ulteriore variazione del concettismo
del corpus carcer che all’interno della silloge viene già svilup-
pato dagli emblemi 6 e 19. Concettismo, peraltro, semanti-
camente rilevante nel contesto di una revisione moralistica
del dettato lirico petrarchesco, qual è quella offertaci dall’a-
nonimo emblematista di Baltimore. Come qui, anche nella
miniatura del codice newyorkese vediamo un paesaggio
montagnoso stagliarsi sullo sfondo, alla sinistra dell’indivi-
duo pensieroso. Diversamente da qui, però, i rilievi non so-
no qualificati come sede – superiore – dell’anima dialogan-
te col poeta (come nell’incunabolo queriniano, i due inter-
locutori dimorano invece, invisibili, nell’interiorità dell’uo-
mo). Il valore conativo e la dimensione esemplare dell’em-
blema richiedono invece una siffatta specificazione, dal mo-
mento che proprio il dettaglio iconografico della montagna
rappresenta la necessaria materializzazione di quel principio
di salvezza, di quella «gran speranza», cui solo l’«uom mise-
ro» non crede, e che egli si limita indolentemente a indica-
re (proprio come fa il Petrarca-agens sulla soglia, proverbia-
le, della seconda parte del Canzoniere: «e veggio ’l meglio,
e al peggior m’appiglio» [RVF 264, 136]). La vetta su cui
campeggia la sfera armillare potrebbe dunque essere intesa
come la mèta, verso cui ogni possibile fruitore dell’emble-
ma – sulla scorta del topos biblico del bivio, nonché del più
problematico exemplum petrarchesco della salita sul monte
Ventoso – è chiamato a tendere, abbandonando i pesi e le
perturbazioni dei sensi. Il messaggio dell’emblema 26 ver-
rebbe così ad allinearsi a quello dell’emblema CONSCIENTIA
TESTIS presente negli Amoris divini emblemata di Vaenius, sor-
ta di riscrittura spirituale dell’immagine simbolica prima
incontrata in Sambucus. La topica rappresentazione infanti-
le dell’anima umana è qui riprodotta mentre medita su qua-
le strada prendere. Quella in discesa, indicatagli da un amo-

325
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A. TORRE, VEDERE VERSI

rino sensuale e che conduce a una città in fiamme? O quel-


la in salita, segnalata da un amorino celeste e che porta, sul-
la sommità di una montagna, a una cittadella fortificata? La
risposta è nella subscriptio: «Duas civitates duo faciunt amo-
res. Hierusalem facit amor Dei, Babylonem amor saeculi.
Interroget igitur se unusquisque quid amet, et inveniet ubi
sit civis» (fig. 98).289

Fig. 98. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 110.

289 VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, cit., c. 110r.

326
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PER MOSTARE A LO ESTREMO OGNI SUA POSSA

Tav. 27

27. Per mostare a lo estremo ogni sua possa

L’illustrazione dell’emblema 27 raffigura un fanciullo nudo


(uno di quegli amorini senza ali già incontrati tra le tavole del co-
dice) che con una verga (o una palma) colpisce un’attempata fi-
gura maschile dalle mani incatenate (tav. 27). Solo svincolato dal
significato complessivo del testo che funge da fonte, il motto as-
sume il senso indicato dalla didascalia di commento:

Vuole dimostrare il sopra depinto che amore su


l’estremo incrudelendosi sopra di lui, mostra non
solo averlo legato ma ancora flagellarlo, e però ben
dice il verso del Petrarca qua sopra scritto.

Solo così può esser letto, nel contesto della vulgata emble-
matica, come espressione paradigmatica dell’onnipotenza go-
duta da Amore su ogni elemento del reale. A sostegno di que-
sta ipotesi potrebbe essere invocata anche la netta elaborazio-
ne testuale che conosce il passaggio petrarchesco nel suo im-
piego come motto del medaglione (RVF 326, 1: «Or hai fatto
l’estremo di tua possa»); variante che per intensità rappresenta
un unicum all’interno del manoscritto.

327
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A. TORRE, VEDERE VERSI

Per ricordare una testimonianza del medesimo nucleo con-


cettuale entro la produzione emblematico-impresistica, possia-
mo citare almeno gli Amorum Emblemata di Otto van Veen.
Questa importante e fortunata silloge secentesca riporta infat-
ti alla carta 101 l’immagine di un amorino che, brandendo con
la destra una foglia di palma, calpesta un coniglio con l’arco e
col piede (fig. 99). La tracotante esibizione della potenza ero-
tica, che sottomette anche il più timoroso e refrattario fra gli
esseri viventi, è accompagnata dal motto AMOR TIMERE NEMI-
NEM VERVS POTEST e dalla seguente subscriptio poetica: «Adver-
sus pedibus premit, ecce, Cupido timorem. | Non trepidat
duras res animosus amans, | Cui locuples satis est audacia testis
amoris. | Degeneres animos arguit usque timor».290 L’opera
realizzata da Vaenius specularmente a questa, ossia gli Amoris
Divini Emblemata, ci offre invece un’occorrenza iconografica
più prossima al nostro emblema, oltre che ovviamente una ri-
configurazione spirituale del medesimo concettismo. Questa
volta è un amorino celeste a infierire con un fascio di palma
sulla vittima di turno: cioè la personificazione dell’anima uma-
na, qui indotta a inginocchiarsi e a pregare davanti a un croci-
fisso (fig. 100). La violenza dell’atto viene giustificata dal fine
che tramite esso si vuol raggiungere, dal momento che siamo
di fronte all’«AMORIS FLAGELLVM DVLCE»:

Non omnis qui parcit amicus est, nec omnis qui


verberat inimicus; meliora sunt vulnera amici, quam
oscula inimici. Ne putes te tunc amare filium tuum,
quando ei non das disciplinam; aut tunc amare vici-
num tuum, quando eum non corrigis. Non est iste
Amor sed languor; ferveat amor ad emendandum et
corrigendum.291

Ma tra gli Amorum Emblemata compare anche un altro em-


blema che può essere accostato al nostro e che ci suggerisce un
punto di vista differente da cui leggere l’espressione simbolica

290 VAN VEEN, Amorum Emblemata, cit., p. 101.


291 VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, cit., c. 62v.

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PER MOSTARE A LO ESTREMO OGNI SUA POSSA

Fig. 99. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 51.

Fig. 100. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 62.

329
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A. TORRE, VEDERE VERSI

e attraverso cui farla reagire più in profondità col testo di Pe-


trarca. Questa volta, più che l’iconografia, è il motto a fungere
da spia per una relazione di contiguità semantica fra gli em-
blemi. AD EXTREMVM recita infatti l’inscriptio che accompagna
l’articolata rappresentazione di un amorino, còlto di spalle, con
in mano un cerchio sopra cui è avvolto un filo che una mano
dall’alto sembra lentamente sciogliere (fig. 101). Il riferimen-
to al motivo mitologico-letterario delle Parche – che regolano
il corso della vita umana con un imprevedibile taglio del suo
filo – è funzionale ad esprimere la relatività, rispetto alla Mor-
te, del pur assoluto potere di Amore; Amore che comunque
riesce a mostrare «sua possa» fino al limite del mondanamente
possibile («a lo estremo», appunto).292 Il motivo non è nuovo
all’interno della letteratura emblematica, e conosce almeno
una famosa occorrenza negli Emblemata di Alciato. In alcune
edizioni lionesi di metà Cinquecento l’emblema 156 (IN FOR-
MOSAM FATO PRAEREPTAM) viene infatti presentato attraverso
una composizione iconografica affine a quella della nostra for-
ma simbolica (fig. 102). Registrando il perturbante caso della
prematura fine di una giovane donna – ovvia metonimia del
genere umano –, l’emblema vuole inferire l’onnipotenza della
Morte, superiore anche a quella del dio che tradizionalmente
«omnia vincit», nonché la caducità della bellezza femminile. Il
sonno di Amore ha infatti consentito lo scambio delle sue ar-
mi con quelle di Morte, scambio infausto che ha determinato
il destino della donna e ne ha ridotto lo splendore a vanitas
mundi: «Cur puerum Mors ausa dolis es carpere Amorem? |
Tela tua ut iaceret: dum propria esse putat».293
Il messaggio dell’emblema non appare in questo caso molto
differente da quello del sonetto 326, o almeno di gran parte di
esso. Posto da Petrarca in un’area del Canzoniere segnata dal-
l’imponderabile evento della morte di Laura, il sonetto 326 si
colloca sotto il segno di alcuni fragmenta che sancisono la dis-

292 VAN VEEN, Amorum Emblemata, cit., p. 233, questo il testo poetico che ac-
compagna l’emblema: «Quamdiu funis erit, tamdiu flamma manebit, | Deficiente
etiam fomite flamma perit. | Crudelis sic verus Amor nisi morte peribit, | Qui potis
est vitam deficiente mori».
293 ALCIATI, Emblemata, cit., p. 168.

330
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PER MOSTARE A LO ESTREMO OGNI SUA POSSA

Fig. 101. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 117.

truzione dei miti dell’eros: il lauro (RVF 318), il cervo (319),


l’aura (320), la fenice (321), nonché i vari simulacri dell’amata
che si succedono nella canzone delle visioni (323), dove
l’«eclisse di Laura e dei suoi miti ha come inevitabile contrac-
colpo la cessazione della pulsione vitale dell’io lirico, che nel

Fig. 102. ANDREA ALCIATI, Emblemata,


Lyon, Rouille, 1551, p. 168.

331
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A. TORRE, VEDERE VERSI

congedo esprime il suo desiderio di morte».294 I primi 6 ver-


si del fragmentum 326 declinano il medesimo soggetto funebre
nella forma di un’invettiva contro l’estrema prova di Morte che
ha reso più povero e oscuro il mondo (quello reale e quello in-
timo dell’agens). Il tono del sonetto è reso fedelmente dalle
principali visualizzazioni del Canzoniere. Sul margine dell’in-
cunabolo queriniano G.V.15 un teschio sembra duellare col
serpente che accompagna abitualmente il pittogramma del li-
bro quale espressione della lussuria del poeta (c. 117r, fig. 103).
Nell’edizione settecentesca stampata da Antonio Zatta il
sonetto è introdotto da una vignetta che illustra «Amore assiso,
che si affligge per esser stato spogliato dell’armi dalla Morte
che opprime, e calpesta la Bellezza» (fig. 104).295 Come per al-
tre immagini della stampa Zatta, anche qui ci troviamo di fron-
te a una scena allegorica caratterizzata da un impianto com-
positivo e da una retorica della gestualità che richiama alla
mente anche i più intensi esiti dell’emblematica amorosa regi-
stratisi nel primo Seicento olandese (con le inventiones di Hein-
sius, Hooft, van Veen, e le incisioni di Cornelius Boel che ci
consegnano un Cupido a metà strada tra un angioletto raffael-
lesco e un putto barocco). Nel caso specifico l’immaginazione
del disegnatore sembra aver contato anche sulla memoria dei
testi di Alciato. Il contenuto dell’acquaforte settecentesca è
però, rispetto a questi, più articolato e riporta anche «alquanto
lungi la Fama, ed il Valore che la deridono. Il Petrarca che rin-
faccia alla Morte il danno da essa cagionato ad Amore, e alla
Bellezza, e che si consola per non aver’ella potuto soggiogar il
Valore, e la Fama».296 L’immagine dell’io-lirico (un Petrarca ca-
nonicamente raffigurato con la cappa e il capo cinto dalla co-
rona d’alloro) circondato da virtù e sentimenti nella forma per-
sonificata di figure umane (fortemente debitrice al più impor-
tante e diffuso repertorio del genere, l’Iconologia di Cesare Ri-
pa), mette in scena la seconda parte del sonetto.

294 PICONE, Morte e temporanea rinascita dei miti dell’eros (RVF 321-30), cit., pp.
707-708.
295 GIACOMELLO-NODARI, Le Rime del Petrarca. Un’edizione illustrata del Settecen-
to, cit., p. 189.
296 Ivi.

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PER MOSTARE A LO ESTREMO OGNI SUA POSSA

Fig. 103. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira, 1470, c. 117r.


Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

La netta cesura semantica del v. 7 («ma la fama e ’l valor


[...]») annulla infatti di colpo il dominio di Morte, relegando-
lo al solo mondo fenomenico («abbiti ignude l’ossa»). L’anima
di Laura conserva invece «’l cielo, e di sua chiaritate, | quasi
d’un più bel sol, s’allegra e gloria, | e fi’ al mondo de’ buon’
sempre in memoria» (vv. 9-11). Il radicale cambio di prospet-
tiva realizzatosi nel giro di pochi versi è la traccia microtestua-

Fig. 104. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756.

333
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A. TORRE, VEDERE VERSI

le del mutamento che interessa l’intera decade entro la quale


326 è inserito:

La seconda metà della decade, tutta composta di


sonetti, cerca di sfruttare lo slancio di questa ritro-
vata fiducia nella forza d’amore: l’io lirico crede di
poter contrastare la pulsione di morte con la pulsio-
ne vitale iniettata in lui dalla fede cristiana e dal cul-
to della poesia.297

Alla luce delle dinamiche di senso del sonetto e della dia-


lettica anima-corpo, elaborata simbolicamente da più di un
emblema della raccolta, potremmo allora chiederci se la nostra
illustrazione non vada a illustrare il concettismo dell’Omnia
vincit Amor nella particolare declinazione suggerita dal sonetto
di Petrarca. Si potrebbe infatti trattare di una lotta tra le perso-
nificazioni di Amore e Morte; di una punizione inferta dal-
l’onnipotente dio alla «crudel Morte» per aver impoverito il
suo regno. Ma anche, e più convincentemente, la visualizza-
zione dell’effettiva sconfitta di Morte, capace solo di ottenere
le «ignude ossa» di Laura («estremo» relativo «di sua possa»), di
fronte all’eterna sopravvivenza della donna, decretata dalla fa-
ma, e alla gloriosa ascesa della sua anima in cielo (quell’«angel
novo», qui combattente).

297 PICONE, Morte e temporanea rinascita dei miti dell’eros (RVF 321-30), cit., p. 703.

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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

Tav. 28

28. Mi trovo in alto mar senza governo

[...] già fu un gentilhuomo in Pavia, mio grandis-


simo amico, il quale essendo innamorato d’una bel-
lissima e rarissima gentildonna, e d’acutissimo spirito,
facendo una mascherata per comparirle innanzi; e
voler farle intendere il misero e pericoloso stato do-
ve egli era posto per cagione dell’amore che le por-
tava, dipinse una nave in alto mare, senza alcuno ar-
meggio, et appresso, questo verso del Petrarca MI
TRVOVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO. Avendo egli
dunque occasione di ragionare in ballo e trattenersi,
come s’usa, con questa gentildonna, ragionando ven-
ne a farle conoscere come essa gli avea dato cagione
di levar tale impresa; che molto ben se gli conveniva
per non sapere egli trovar riparo al suo infelicissimo
stato. Allhora quella gentildonna, dotata, come io ho
detto, di prontissimo e vivo intelletto, senza troppo
pensare alla risposta che gli dovea fare disse: «Assai
più, Signore, vi si converrebbono i versi che seguono
i quali si come sapete dicono: Sì lieve di saper, d’error sì
carca, Ch’io medesmo non so quel ch’io mi voglio; Et tremo

335
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A. TORRE, VEDERE VERSI

a meza state ardendo il verno». Rimase quel gentilhuo-


mo tutto stordito e confuso e pieno di maraviglia,
pensando alla pronta e pungente risposta che quella
accorta e valorosa signora gli avea fatta.298

L’aneddoto cortigiano narrato da Lodovico Domenichi co-


stituisce un’interessante testimonianza di quella vita sociale ed
extratestuale che la forma espressiva dell’impresa conobbe fin
dal pieno Quattrocento, prima che una trattatistica sempre più
normativa la codificasse come forma principe della letteratura
per immagini. L’uso delle imprese fu in origine assai esteso ed
estensivo, interessò pressoché tutti i generi della produzione
artistica, dalle arti applicate a quelle monumentali (maioliche,
cicli affrescati, arazzi, tappezzerie, medaglie, abiti, armature,
scudi, stendardi, etc.), e – nel mentre umanisti, letterati e uo-
mini di corte elaboravano la dimensione concettuale e la
morfologia di un siffatto “nodo di parole e cose” – esso si af-
fermò nelle corti quale fenomeno mondano, al contempo oc-
casione e pratica di comunicazione pubblica. Come ci ha mi-
rabilmente mostrato Jean Starobinski – attraverso l’analisi del-
l’episodio del “pranzo di Torino” narrato nelle Confessioni di
Rousseau – questo fenomeno mondano si configura peraltro
come un’ottima, protratta messa in scena dell’atto ermeneuti-
co;299 come un’esperienza sociale che, pur nella sua esibita lu-

298 Dialogo dell’imprese militari et amorose di monsignor GIOVIO vescovo di Nocera, et


del s. GABRIEL SYMEONI fiorentino. Con un ragionamento di m. LODOVICO DOMENICHI
nel medesimo soggetto, Lyon, Rouille, 1574, pp. 190-191.
299 Cfr. JEAN STAROBINSKI, L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1997 (I ed. fr. 1970),
pp. 257-258: «Il motto come oggetto da interpretare (interpretandum) è il punto di par-
tenza e il punto d’arrivo di un’operazione il cui artefice (l’interprete) e lo strumento
concettuale (interpretans) mettono in opera un discorso anteriore – discorso che costitui-
sce la persona dell’interprete (o per lo meno una parte importante di esso) e gli per-
mette di aver presa sull’oggetto da interpretare. [...] Così il motto “emblematizzato”
diventa uno strumento interpretativo (interpretans) in un’operazione di autointerpretazio-
ne. Per poter “piegare” e utilizzare il motto in questo modo, bisogna averne prima
chiarito il significato letterale: si richiede quindi una prima interpretazione, di carat-
tere “oggettivo”; inoltre, bisogna che la situazione relazionale abbia ricevuto il senso
di situazione romanzesca: è questa la seconda interpretazione preliminare, di carattere
“soggettivo”, collegata alla presenza stessa del soggetto di fronte agli altri, inseparabile
dal suo sentimento attuale. Il commento emblematico, che viene a occupare il terzo
posto, è un’interpretazione supplementare, una sovrinterpretazione».

336
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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

dicità, mira a far emergere le potenzialità comunicative (poe-


tiche, retoriche e logiche) di ibridi semiotici quali sono le im-
prese e gli emblemi.
Il dialogo riportato da Domenichi è in tal senso esemplare.
All’impresistico autoritratto senza effigie che il gentiluomo pa-
vese distende davanti agli occhi dell’amata, nella speranza di al-
lentarne la ritrosia attraverso pietosi rimorsi, la donna rispon-
de letteralmente per le rime, indicando della medesima fonte
l’anima testuale a suo avviso più adatta a intrecciarsi col corpo
iconico della barca in quel nodo semantico che dovrebbe illu-
strare le qualità, i difetti e le intenzioni dell’amante. Ben con-
sapevole delle dinamiche e delle funzioni dell’impresa, la saga-
ce gentildonna ha di fatto corretto forma e funzione della co-
municazione cifrata esibita dal suo interlocutore galante, sosti-
tuendo all’espressione poetica della condizione di difficoltà
dell’amante un’altra sequenza di versi che lascia invece inten-
dere come gran parte di tale difficoltà debba essere imputata
solo e soltanto all’indolente dissidio interiore che inibisce il
maldestro pretendente. La variazione del motto comporta
dunque che l’associazione di questo con l’immagine della bar-
ca alla deriva non venga più soltanto a riferire un fatto (la-
sciandone allusivamente dedurre le cause al destinatario), ma
di questo fatto riveli anche, e analiticamente, le ragioni (con-
segnando al nuovo destinatario un concetto su cui riflettere).
Astratto dalla sapida contingenza mondana, l’aneddoto di Do-
menichi ben illustra sul piano teorico le modalità compositive
che conducono a una siffatta esperienza mista di comunica-
zione, ma soprattutto palesa – da parte dei teorici/sperimenta-
tori cinquecenteschi del genere – la piena coscienza di avere a
che fare con un atto di intertestualità. Nonché la loro piena
consapevolezza circa la relazione critica che, sulla scorta del va-
riabile incastro di parole e immagini, si instaura tra il discorso
testuale originario (il fragmentum petrarchesco) e il discorso
iconico-testuale derivato (l’impresa). Il dialogo cortigiano ri-
portato da Domenichi potrebbe peraltro essere letto non solo
come l’ostensione pubblica di questo discorso iconico-testua-
le derivato, ma anche come un’efficace visualizzazione scenica
del discorso testuale originario. Nello specifico, come l’icasti-
ca drammatizzazione di un intero sonetto, il 132, che costitui-

337
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A. TORRE, VEDERE VERSI

sce un palmare esempio della poetica duale e correlativa inve-


rata dalla scrittura lirica petrarchesca. Il dialogo per imprese tra
un tormentato amante e la sua fiera – ma non ingenerosa –
amata rappresenterebbe così il riflesso – pubblico, allegorico e
performativo – del confronto tra le componenti pulsionale e
intellettiva di un individuo; del dialogo interiore di un io liri-
co scisso tra l’ostinata volontà di rinvenire una logica nel pro-
prio sentire e la razionale percezione della condizione intima-
mente ossimorica di ogni esistenza.
Incentrato sulla natura dilemmatica del fenomeno amoro-
so e sull’impossibilità di una sua oggettiva, stabile e univoca de-
finizione, il fragmentum 132 si articola infatti in una protratta
fluctuatio animi che, nelle quartine, è formalizzata linguistica-
mente attraverso una colata di interrogative giustapposte se-
condo una logica parasillogistica; e che, nelle terzine, è ritratta
per metafora grazie alla sintesi visiva della «frale barca» in tem-
pesta. Se, nel contesto di un’indagine sulla natura e sulle qua-
lità dell’amore, il ricorso all’immagine della barca e l’allusione
all’idea del viaggio traducono con precisione i nuclei concet-
tuali del pericolo e dell’incertezza inerenti ogni intrapresa av-
ventura di scoperta;300 l’esplicitazione del naufragio non può
allora che dichiarare senza riserve il difetto e la vanità di un ta-
le progetto di conoscenza (ossia, di controllo: omnia vincit
amor). Non tanto dunque sui presupposti («s’egli è amor»: ‘se
dunque amore esiste... ’) o sulle contraddittorie articolazioni
dell’inchiesta (a parte obiecti: i caratteri dell’ente ‘amore’ ai vv.
3-4; e a parte subiecti: l’incoerenza tra volontà e azione ai vv. 5-
8), bensì sul suo finale esito si concentra il fuoco della riscrit-
tura emblematica di RVF 132 presente nel manoscritto di Bal-
timore. Eseguita attraverso l’associazione referenziale tra il v. 11
(«mi trovo in alto mar senza governo») e il motivo iconografi-

300 MICHELANGELO PICONE, Il sonetto CLXXXIX, «Atti e Memorie della Acca-


demia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», IX-X (1989-1990), pp. 151-177, in part. p.
155: «Il mare figurativizza il luogo della quête amorosa e esistenziale, il cui valore e il
cui scopo vengono subito posti sotto il segno dell’ambivalenza, e sono di continuo
messi in discussione. [...] Il campo semantico del viaggio per mare gli offre la possibi-
lità di rappresentare, con la massima precisione e completezza possibili, il pianeta sco-
nosciuto, instabile e contraddittorio, della sua anima».

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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

co dell’imbarcazione in avaria,301 essa riconosce la propria


funzionalità moralistica nel «servire a diversi accidenti di for-
tuna, tanto d’amore come d’altri» (tav. 28).302
La pregnanza concettistica dell’immagine nautica e la
sua ricorrenza strategica nel Canzoniere ne giustificano
pienamente la scelta come corpo del sonetto 132. Con la
suggestiva precisione di un fermo-immagine, il naviglio in-
cagliato nello scoglio visualizza la situazione di stallo intel-
lettuale ed emotivo narrata nel fragmentum. Di un continuo
beccheggio sur place potremmo infatti parlare per le sette
domande che lo aprono, domande nelle quali la protasi in-
terrogativa arretra e attenua sempre lo slancio affermativo
dell’apodosi («Se..., onde... ?»). L’intero testo risulta peraltro
composto, sotto i più vari aspetti stilistici, sulla base del-
l’opposizione grammaticale tra negazione e affermazione, e
dell’opposione semantica tra concetti contrari;303 opposi-
zioni entrambe funzionali – per Dominique Diani – all’og-

301 Anche Giovanni Ferro propone in combinata il motto petrarchesco e


l’immagine della nave travolta dalla tempesta: «Ad una tal nave – figurata co-
me è stata descritta in mezo grandissima fortuna, squarciate le vele, rotte l’an-
tenne, sdruscita tutta, e lacerata per doversi sommergere – non saprei altro scri-
verci che quello che vi scrisse don Guglielmo San Clemente VOTA SVPERSVNT;
che lo mutò poi per avviso del Bargagli in SALVS TANTVM AB ALTO. Vi si con-
viene anco quello che altri di lei disse, MI TROVO IN ALTO MARE SENZA GO-
VERNO, se bene questo vien detto di una nave senza armeggio in alto mare, ma
non turbato, fatta da uno per iscoprire il suo amore alla sua donna: scoperse
bene troppo il concetto dell’impresa, non so come e quanto quello d’amore
[...]» (FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 509).
302 Questo è il testo completo della breve didascalia di commento: «La sopra
scritta medaglia è assai chiara per se stessa; può servire a diversi accidenti di fortuna,
tanto d’amore come d’altri; il verso è tolto dal Petrarca».
303 Cfr. MARIO DE NICHILO, Petrarca, Salutati, Landino: RVF 22 e 132, «Italia-
nistica», XXXIII (2004), 2, pp. 143-161, in part. p. 155: «La figura dell’antitesi si in-
carica di rappresentare attraverso la successione descrittiva di tipo prevalentemente
metaforico i contraddittori aspetti della condizione amorosa e quindi i violenti con-
flitti che tale condizione determina nella interiorità del poeta, costituendo una sor-
ta di casistica della poesia amorosa successiva, così come insieme stile e lingua di
questi sonetti saranno destinati a diventare per secoli i veicoli storici attraverso cui
esprimere la tensione esistenziale». Quali assai prossime testimonianze della fortuna
di questo modulo espressivo, de Nichilo ricorda le traduzioni/riscritture in latino e
inglese che del sonetto 132 hanno approntato Chaucer, Salutati e Landino (cfr. pp.
154-161).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

gettivazione di un io immobilizzato.304 Non diversamente,


ad un avvitarsi a mulinello potremmo assimilare la struttu-
ra logico-sintattica dei vv. 11-12, nei quali il centro di sim-
metria di uno smarrito io lirico («[...] mi trovo [...]»)
sprofonda nel gorgo di una condizione di totale difficoltà
(«[...] in frale barca [...] in alto mar [...]») per la congiunta
azione centripeta di passioni esterne e interiori mutilazioni
(«Fra sì contrari venti [...] senza governo»). In un’analoga
configurazione chiastica si dispiega anche il v. 13, dove la
costitutiva indecidibilità dell’agens petrarchesco («[...] non
so [...]») investe tanto l’analisi della propria individualità
quanto quella dei propri desideri («ch’i’ medesmo [...] quel
ch’io mi voglio»). La lapidarietà dei due presenti indicativi
– in tutta la loro drammaticità di attonite, disperate invoca-
zioni d’aiuto (mi trovo, non so) – non fa poi che assolutizza-
re a status permanente la crisi qui còlta in una contingenza
puntuale (come ratifica peraltro l’explicit «e tremo a mezza
state, ardendo il verno»). Non è forse un caso che il mede-
simo indicatore temporale apra anche un fragmentum, il 189
(«Passa la nave mia colma d’oblio»), tematicamente e for-
malmente collegato al 132; e che in entrambe le ricorrenze
proprio esso contribuisca a creare «il senso di una durata as-
soluta, di una puntualità senza spazio e di una eventualità
senza tempo», nonché a suggerire «al lettore la ripetibilità
della crisi stessa, la sua non appartenenza a una linea evolu-
tiva e/o formativa»; contribuisca inoltre, su di un altro pia-
no, ad evidenziare della parola poetica petrarchesca l’impli-

304 DOMINIQUE DIANI, Canzoniere 132, «Revue des études italiennes», n.s., XVIII
(1972), pp. 111-165, p. 148: «Les phénomènes de l’objectivation du moi et de la pro-
gression dans la raprésentation symbolique (partiellement réalisée dans la démarche
généralisante proposée comme motivation secondaire) sont interdépendants et soli-
daires, et sont à nos yeux la vraie raison d’être du texte, achevé quand le double pro-
cessus est arrivé à son terme: la projection de l’auteur hors de soi dans une apaisante
image objet».
305 PICONE, Il sonetto CLXXXIX, cit., pp. 172-173: «Se dalle strutture del conte-
nuto di Passa la nave mia ci rivolgiamo ora alle strutture formali, ci rendiamo conto
che il sonetto sviluppa una ekphrasis o descriptio, non di una persona o di un oggetto,
bensì di una passione interiore colta in un punto conclusivo, se non del suo sviluppo
lineare, della sua fenomenicità. Petrarca cioè rappresenta la conclusione del suo iter
erotico con “una azione vissuta dalla fantasia”: prima con un’immagine mitica (il te-

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cita disponibilità a venir sublimata in un segno simbolico


universalmente valido.305 La stessa pictura del manoscritto
statunitense pare più prossima alla dettagliata rappresenta-
zione metaforica di 189 che alla parafrasi analitica del con-
cettismo nautico distesa nel sonetto 132. La memoria di
uno dei testi più famosi del Canzoniere deve necessaria-
mente aver interferito nella rappresentazione dei dettagli
del paesaggio in tempesta (per cui RVF 189, 2: «per aspro
mare, a mezza notte il verno»), dell’albero maestro abbattu-
to (189, 7: «la vela rompe un vento umido eterno») e del ti-
mone smarrito nei flutti (189, 3-4: «[...] e al governo | sie-
de ’l signore, anzi ’l nemico mio»); ed in tal senso essa deve
aver esteso anche al fragmentum 132 l’ombra del mito ulis-
siaco – omerico e dantesco – che aleggiava sull’altro testo
di Petrarca.306
L’emblematica immagine della «frale barca» di RVF 132 e
189 occupa un posto di rilievo nella lunga tradizione della me-
taforica nautica, ma soprattutto rappresenta un adeguato corre-
lativo oggettivo della difficile condizione esistenziale cui è sot-
toposto l’amante-poeta. Come ha mostrato Mary B. Hesse, una
reciproca influenza si instaura tra i due significanti legati da un
nesso metaforico: «la metafora opera trasferendo le implicazio-
ni e le idee, associate al sistema secondario, a quello primario»
sicché «il sistema primario è descritto attraverso la struttura del
sistema secondario» e «le idee associate al sistema primario su-

ma ulissiaco), e poi con un’immagine simbolica (l’allegoria della nave). Se l’immagi-


ne mitica si imprime nella mente del lettore per la sua esemplarità; l’immagine sim-
bolica acquista memorabilità per la sua evidentia, per la sua qualità visiva. Il lettore vie-
ne, in altre parole, invitato a ricreare nella sua memoria l’immagine completa (esatta
in tutti i suoi particolari anche minuti) della nave, se vuole eseguire la dinamica della
descriptio che gli viene presentata. Ben presto le “imprese” verranno ad agevolare que-
sta collaborazione fra la creazione e la ricezione del testo; delle figurazioni, spesso con
didascalia, si affiancheranno alla pagina scritta». Una lettura del sonetto 189 focalizza-
ta sulla ricorrenza del motivo nautico nel Canzoniere e nel Secretum è offerta da GIU-
SEPPE ANTONIO CAMERINO, «Per aspro mare». In margine a R.V.F. CLXXXIX, «Italiani-
stica», XXI (1992), 2-3, pp. 503-509.
306 PICONE, Il sonetto CLXXXIX, cit., p. 165: «I riscontri sono irreprensibili; e ci
fanno capire non solo che la quête lirica del poeta medievale è modellata sulla quête
epica dell’eroe di Itaca; ma anche che nel testo medievale confluiscono due episodi
dell’intertesto classico: quello del passage périlleux dello stretto di Messina, e quello cro-
nologicamente precedente dell’allettamento esercitato dalle Sirene».

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biscono una certa trasformazione dovuta all’uso della metafo-


ra».307 Sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, a fianco del-
l’umanizzazione (e petrarchizzazione) della barca, dovremmo
riflettere anche sulla barchizzazione dello stesso Petrarca (agens e
auctor) che in 189 giunge al livello estremo di un arcimbolde-
sco autoritratto nautico, dal momento che «nelle parti della na-
ve e negli elementi che ne contrastano il passaggio l’Io accu-
mula e riconosce i segni di passioni e facoltà dell’anima pertur-
bate» (Stroppa). E a questa barchizzazione dell’individuo – ri-
corda Andrea Pulega – potrebbe corrispondere anche «una sua
femminilizzazione [...] metaforica legata alla fragilità e picco-
lezza della sua consistenza, rapportata alla violenza del mare, e
al suo procedere ondeggiante, dovuto all’agitarsi delle onde».308
Proprio a questo contesto di intrinseca debolezza del pro-
tagonista va forse ricondotta l’elaborazione ideologica del
modello eroico di Ulisse che Petrarca ci offre nei sonetti 189
e 132. Enrico Fenzi ha affrontato la questione sulla scorta del-
la testimonianza di Fam. XIII, 4, 10-11,309 ossia di un ripresa
dell’eroe omerico fortemente influenzata dalla precedente ri-
scrittura dantesca, e tutta incentrata quindi sulla dialettica tra-
gica tra l’impegno delle responsabilità (verso la famiglia, ver-
so la patria) e «il desiderio di conoscenza assolutamente con-
siderato, quale radice ed essenza della natura umana».310 Una
tale impostazione del problema ha ovviamente delle pesanti

307 MARY B. HESSE, Modelli e analogie nella scienza, Milano, Feltrinelli, 1980, pp.
147-160, cit. a p. 151.
308 Nello specifico di questo passaggio Andrea Pulega sta commentando il sir-
ventese No puosc mudar di Bertran de Born, ma più oltre – in margine al fragmentum ge-
mello 189 – la correlazione metaforica bidirezionale viene letta proprio nel contesto
delle estreme fluctuationes animi petrarchesche: «Il Petrarca contempla dunque sé stesso
“navizzato”. Lo sdoppiamento non è che l’estrema trasfigurazione del dissidio petrar-
chesco, che si esprime come psicomachia. L’introspezione si condensa nell’invenzione
allegorica, forma suprema di oggettivazione noetica del conflitto interiore» (PULEGA,
Da Argo alla nave d’amore: contributo alla storia di una metafora, cit., pp. 71 e 107).
309 PETRARCA, Rerum familiarium, XIII, 4, 10-11, cit., p. 771: «quiescere poterat
Ulixes, nisi inexplebile desiderium multa noscendi cuntis illum litoribus terrisque rap-
taret». Cfr. CARLO VECCE, Il mito di Ulisse nelle «Familiari», in Motivi e forme delle «Fa-
miliari» di Francesco Petrarca, Atti del Convegno di Gargnano del Garda (2-5 ottobre
2002), a cura di CLAUDIA BERRA, Milano, Cisalpino, 2003, pp. 149-173.
310 ENRICO FENZI, Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003, pp. 493-517, cit. a
p. 500.

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ricadute non solo sull’immagine di Ulisse che Petrarca ha fat-


to propria, ma anche sull’immagine di Dante che Petrarca ha
elaborato attraverso il velo di Ulisse;311 ossia attraverso il mo-
dello antropologico-esistenziale dell’eroe che non ritorna, del-
l’eroe che agisce e patisce entro un tempo lineare, unico e ir-
ripetibile. L’inexplebile desiderium multa noscendi dell’Ulisse
dantesco (e/o del Dante ulissiaco) traluce anche dal dettato
poetico dei fragmenta 132 e 189, sempre mutato di segno però;
a stigmatizzare il magro bottino di una vana curiositas, dunque,
più che a celebrare le conquiste di un’inesausta ricerca, o an-
che solo a riconoscere la dimensione eroica di un’esistenza in-
tesa come infinita, epica quête (cfr. rispettivamente al v. 12,
«frale barca | [...] | sì lieve di saver, d’error sì carca»; e al v. 11,
«stanche sarte | che son d’error con ignoranzia attorto»).
Questa posizione ha probabilmente decretato la piena spendi-
bilità dei due sonetti in espressioni simboliche come quella di
Baltimore. Ma l’appropriazione petrarchesca dell’Ulisse dan-
tesco va oltre l’elaborazione di una moralità, e partecipa nel
profondo alla configurazione dell’agens del Canzoniere che, al
pari dell’Odisseo Infernale, non avrà «mai la consolazione di
poter toccare il “porto”, di raggiungere la stabilitas della vera
città eterna; per lui invece [...] si prospettano l’erranza come
condizione normale dell’esistenza, il passaggio continuo attra-
verso le prove della vita, e infine la tremenda possibilità del

311 Da questo punto di vista è interessante confrontare il precedente passo epi-


stolare con quest’altro intervento, in cui Petrarca ci offre un ritratto ulissiaco di Dan-
te corredato da esplicite riserve morali: «In primis quidem odii causa prorsus nulla est
erga hominem nunquam michi nisi semel, idque prima pueritie mee parte, monstra-
tum. Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patre autem natu maior, cum quo si-
mul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit. Quo tempore inter par-
ticipes erumnarum magne sepe contrahuntur amicitie, idque vel maxime inter alios
accidit, ut quibus esset preter similem fortunam, studiorum et ingenii multa similitu-
do, nisi quod exilio, cui pater in alias curas versus et familie solicitus cessit, ille obstitit, et
tum vehementius cepto incubuit, omnium negligens soliusque fame cupidus. In quo illum satis
mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non
simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle di-
straheret» (PETRARCA, Rerum familiarium, XXI, 15, 7-8, cit., p. 1129, corsivi miei). La so-
vrapponibilità, evidenziata da Petrarca, tra Dante e il suo anti-eroe implica infatti – co-
me osserva Fenzi – che ci si chieda, per reciprocità, se – dal punto di vista di Petrarca
– Dante abbia effettivamente raggiunto la propria mèta o sia naufragato prima di con-
quistarla (per cui cfr. FENZI, Saggi petrarcheschi, cit., p. 515).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

naufragio».312 Un naufragio nei sensi che in 132 è presentato


come possibile in ragione dell’irrazionale nesso tra desiderio
e dolore (la «frale barca»); che in 189 è evocato come proba-
bile a sèguito dell’abbandono di ogni resistenza da parte del-
la speranza (le «stanche sarte»); e che nell’emblema di Baltimo-
re viene illustrato come sicuro attraverso la cruciale integra-
zione ermeneutica del dettaglio dello scoglio.
L’assenza effettiva (sia letterale che metaforica) di questo
dettaglio all’interno del fragmentum 132 sembra venire par-
zialmente riscattata dall’allusione fonica che ne alimentano le
parole-rima doglio e voglio (vv. 9 e 13), termini che dalla loro
privilegiata sede non possono che dialogare, in assonanza an-
che semantica, con finali di verso di altri fragmenta in cui la
parola scoglio segnala la presenza di una metaforica nautica
vòlta a illustrare le vicissitudini del tormentato protagonista.
Inoltre il termine-immagine scoglio pone sulla scena il pro-
blematico agente principe di tali vicissitudini.313 Lungo tutto
il suo sviluppo la sestina 80 (Chi è fermato di menar sua vita)
condivide infatti col nostro sonetto il motivo della navigazio-
ne e – nel tratteggiare all’insegna della medesima ulissiaca er-
ranza la fisionomia esistenziale dell’agens (vv. 13-14: «Chiuso
gran tempo in questo cieco legno | errai») – riconosce l’ori-
gine dell’infinito oscillare tra volere e non-volere proprio ne
«L’aura soave» che da un lato governa «l’amorosa vita» dell’io
lirico e dall’altro lo porta al naufragio «in più di mille scogli»
(vv. 6-11). La doppia natura di Laura è quindi riflesso dell’in-
teriore dissidio dell’amante-poeta. Se in 132 tale dissidio ap-
pare ancora come una condizione da interpretare nella sua
veridicità e assolutezza – e per ciò si materializza nella pro-
tratta interrogazione iniziale –, nella contigua canzone 135
(Qual più diversa e nova) esso si configura come un dato di fat-

312 PICONE, Il sonetto CLXXXIX, cit., p. 165.


313 A questo proposito si consideri la presenza dell’immagine in uno dei passag-
gi-chiave del Secretum: «Fr. Ego in presens sepe cum lacrimis poposci, sperans simul et
illud eventurum ut, effractis cupiditatum laqueis et calcatis vite miseriis, salvus evade-
rem, et velut in aliquem salutarem portum ex tam multis curarum inutilium tempe-
statibus enatarem. At quotiens postea inter eosdem scopulos naufragium passus sim,
quotiensque, si destituor, passurus intelligis» (II, cit., p. 174).

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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

to, pienamente compreso ma pur sempre necessitante di un


linguaggio a parte per essere espresso; un linguaggio «stra-
nio»,314 articolato per visioni, di fronte alle quali però non è
Petrarca a “stare alla finestra” bensì Amore, cui il protagonista
si rivolge vocativamente nei versi iniziali. Anche nella topo-
grafia simbolica e morale attivata in RVF 135 – come espres-
sione di una regio dissimilitudinis – 315 fa la sua comparsa l’im-
magine della barca in costante pericolo di naufragio. Come
altrove essa è anche qui figurante dell’amante in balìa delle
passioni e soprattutto di «quel bello scoglio» dell’amata (v.
21); scoglio che diviene una «diversa e nova cosa», e nello spe-
cifico «una viva dolce calamita» (v. 30) che conduce l’amante
«ove affondare conven [sua] vita». È importante notare però
che in apertura della strofa-quadro il «bello scoglio» viene
ulissiacamente presentato come «una petra [...] sì ardita | là
per l’indico mar» (vv. 16-17), ossia attraverso il topico figu-
rante minerale che visualizza l’ambigua relazione d’identità
tra amante e amata. Se a questo indizio metaforico accostia-
mo il dato sintattico che i due protagonisti dell’azione si al-
ternano frequentemente nei ruoli di soggetto e oggetto,316 si

314 CLAUDIA BERRA, L’arte della similitudine nella canzone CXXXV dei R.V.F.,
«Giornale storico della letteratura italiana», CLXIII (1986), 522, pp. 161-199, in part.
p. 170: «non casualmente il termine “stranio” – al v. 2 della canzone – ne costituisce,
si può dire, la cifra: “strania” è la condizione dell’amante, “stranio” lo stile scelto a dar-
ne compiuta espressione».
315 SIMONA BARGETTO, Similitudo e dissimilitudo in RVF CXXXV, «Lettere italia-
ne», LI (1999), 4, pp. 617-648, in part. pp. 643-644: «La rottura dell’ordine è ciò che
manifesta il peccato; l’anima umana, allontanatasi da Dio, introduce in sé la divisione,
la disarmonia («in se ipsa tumultuantur»); la materia stessa, cioè, diventa riflesso del di-
sordine spirituale, ne vive in sé la contraddizione e il dolore. [...] L’innaturalità dei sei
mirabilia non è, però, solo espressione canonica degli effetti d’Amore sull’amante, ma
anche specchio del disordine spirituale che consegue l’errore: la regione della dissimi-
litudine è il luogo interiore dove tutto, essendo dissimile dalla sua origine, è anche per-
petuamente dissimile da se stesso, condannato alla mutevolezza e all’alterità [...]».
316 BERRA, L’arte della similitudine nella canzone CXXXV dei R.V.F., cit., pp.
180-181: «In questo quadro, tuttavia, l’oggetto fantastico non “rassembra” il prota-
gonista, ma la donna. [...] Si osservi infine che nel corso della stanza i due protago-
nisti dell’azione si alternano frequentemente nei ruoli sintattici di soggetto e ogget-
to; la struttura del periodo riproduce così il rapporto fra potere attrattivo e possibi-
lità di essere attratto che caratterizza tanto la coppia “minerale” quanto quella uma-
na: ciò suggerisce che il paragone non concerne solo Laura o il poeta, ma entram-
bi, considerati insieme nel destino che li unisce con forza fatale e invincibile». Se-

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può forse congetturare che Petrarca abbia qui voluto da una


parte oggettivare il proprio ossimorico stato psicologico nel-
la figura doppia della donna amata (dolce e crudele), e dall’al-
tra riconoscere che solo e soltanto in se stesso alberga il dè-
mone che «me tenne [...], ch’or son diviso e sparso» (v. 26).
Così come in 132 anche nel sonetto 235 lo “scoglio-duro or-
goglio-Laura” riverbera l’incapacità (non volontà?) dell’agens
a governare il proprio destino (v. 1: «Lasso, Amor mi traspor-
ta ov’io non voglio»): «né mai saggio nocchier guardò da scoglio
| nave di merci prezïose carca, | quant’io sempre la debile
mia barca | da le percosse del suo duro orgoglio» (235, 5-8).Vit-
tima soltanto indiretta del naufragio è invece il protagonista
della canzone delle visioni (RVF 323), testo di sintesi dell’in-
tero apparato figurale e delle soluzioni stilistiche dispiegati
entro il campo semantico della navigazione lungo l’intero
Canzoniere. Lo sfracellarsi della nave contro lo «scoglio» (ri-
mante questa volta con «cordoglio») è qui rappresentazione
cifrata dell’avvenuta morte di Laura.317 Ma il ruolo di testi-
mone ricoperto dall’io lirico non lo sottrae dal decorso cata-
strofico degli eventi, e lo statuto memoriale delle visioni non
preclude una loro evoluzione in prefigurazioni del suo pro-
prio «morir». La marginalizzazione dell’io lirico dalla scena (e
la sua funzionalizzazione come primo soggetto delle visioni)
non implica però la totale rimozione del punto di vista sog-
gettivo che anzi è sempre presente nel processo di definizio-

condo Pierantonio Frare l’elaborazione della sintassi nel corso della canzone ha sì la
funzione di duplicare in Laura il sentimento di disorientamento interiore proprio
dell’io lirico, ma anche quello di rimarcare l’impossibile fusione tra i due protago-
nisti: «Ma il fatto che gli oggetti evocati siano paragonati alternativamente all’io poe-
tico e a Laura dichiara, anche dal punto di vista della sintassi narrativa, l’impossibi-
lità dell’unione: così che il componimento, anziché segnare una tappa di approfon-
dimento del processo identificatorio, ne rappresenta piuttosto una deviazione: i pa-
ragoni approdano a volontaristiche sovrapposizioni più che a una reale identifica-
zione tra l’amante e l’amata mediata dagli oggetti evocati» (PIERANTONIO FRARE,
Dalla contrapposizione alla identificazione: l’io e Laura nella canzone delle visioni, «Stru-
menti critici», XV (1991), 3, pp. 387-403, cit. a p. 399).
317 Un’interessante illustrazione miniata di RVF 323 è stata realizzata da Barto-
lomeo Sanvito quale antiporta della seconda sezione delle Rime trasmesseci in un co-
dice conservato presso la Biblioteca della Fondazione Bodmer a Ginevra-Cologny
(ms. it. 130, c. 116r). Ne possiamo vedere alcune riproduzioni in MADDALO, Sanvito e
Petrarca. Scrittura e immagine nel codice Bodmer, cit., pp. 80 e 101.

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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

ne degli eventi e delle figure narrati.318 Anzi, proprio lo svi-


luppo sintattico-semantico della canzone segnala la progressi-
va trasfusione/trasposizione tra l’amante e l’amato in relazio-
ne alla loro comune, duplice (e interscambiabile?) natura di
soggetti e oggetti della visione.319
Ponendo al centro della scena il dettaglio dello scoglio con-
tro cui si infrange la barca, l’emblematista di Baltimore ha dun-
que apportato una significativa integrazione ermeneutica alla
sua più prossima fonte testuale, un’integrazione che al con-
tempo arricchisce (in prospettiva) e disinnesca (nel suo con-
tingente potenziale) la fruizione del fragmentum 132. Da una
parte infatti essa rivela gli stretti legami della fonte con altri
componimenti del Canzoniere, e sembra quasi suggerire – a
chi osserva l’emblema con pronta memoria della poesia pe-
trarchesca – un percorso di attraversamento intertestuale se-
gnato dalla ricorrenza della metaforica nautica. Dall’altra par-
te, però, la necessità di veicolare un preciso indirizzo morale
implica la rottura di quel mirabile equilibrio, di quel perpetuum
immobile congegnato da Petrarca (qui e in 189), che può esse-
re inteso nella superficialità tecnica come “puro nulla”, o nel-
la profondità concettistica come la contrazione in un indefini-
to e insuperabile punctum temporis di tutte le possibili soluzio-

318 Cfr. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca, cit., p. 172: «[...] secondo l’im-
postazione strutturale dell’episodio i fatti devono avere rilievo in quanto sono regi-
strati nell’intimo dell’osservatore, e devono apparire in questa loro realtà. Non deve es-
sere evidente nella loro successione il ritmo temporale oggettivo; ma il fatto che le
percezioni dell’osservatore devono forzare, una dopo l’altra, quel tanto d’inerzia che è
inscindibile dallo stato estatico, conferisce loro un ritmo soggettivo, di ritardi e di bru-
schi ricuperi».
319 Vd. FRARE, Dalla contrapposizione alla identificazione: l’io e Laura nella canzo-
ne delle visioni, cit., pp. 401-402: «Ora, la medesima situazione di ubiquità spaziale e
funzionale è ricoperta dall’io, il quale inizialmente si presenta come soggetto della
visione, esterno al quadro, ma nel corso del componimento diviene oggetto della
propria stessa visione: e anche proprio fisicamente, visto che nella strofe 4 si siede
accanto alla fontana che sta guardando: 43. Ivi m’assisi. [...] L’io, da esterno al qua-
dro, da soggetto della visione, diviene anche interno ad esso, si fa oggetto visto, il
che lo assimila alle figure di Laura fino ad allora evocate. Allo stesso ma comple-
mentare modo, Laura, qui nella specie della fenice, da oggetto della visione divie-
ne soggetto di essa, da elemento interno al quadro si sposta nella cornice che lo
contiene: ricopre, cioè la funzione fino allora assegnata all’io poetico, diventando
ad esso omologa».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ni esistenziali.320 L’immagine emblematica sceglie invece di


sciogliere l’indecidibilità del dettato testuale e ne esplicita uno
dei possibili messaggi trattenuti sottopelle grazie a ossimori e
pseudosillogismi. Ma soprattutto essa visualizza l’agente re-
sponsabile di uno dei possibili esiti della frantumazione del-
l’impasse, e per la riuscita della comunicazione simbolica poco
importa se nello scoglio si potrà riconoscere soltanto la peri-
colosa aridità di Laura (allusa nel fragmentum dall’aura dei «con-
trari venti») o, con più sottile esegesi del testo, anche la com-
plementare perniciosa acedia del protagonista.
Da questo punto di vista un interessante compromesso ci è
offerto da una miniatura di Francesco d’Antonio del Chierico
presente in un codice parigino del Canzoniere (Bibliothèque
Nationale de France, ms. Ital. 548, realizzato a Firenze tra il
1475 e il 1476).321 Posta prima del sonetto incipitario, e fun-
zionale quindi a orientare in una precisa direzione la lettura
dei fragmenta, la tavola a piena pagina si articola in due quadri.
Il primo è un’elaborata cornice rettangolare a girari floreali e
animali, caratterizzata nei quattro angoli da medaglioni con i
bronconi medicei e nel centro dei lati brevi da altri due me-
daglioni raffiguranti rispettivamente una pianta di lauro (in al-
to) e un malinconico pensatore seduto sotto un lauro (in bas-
so). Il secondo quadro, incastonato nel primo, è un’immagine
che illustra il naufragio di un’imbarcazione contro uno scoglio
e la salvezza del suo conducente che conquista la riva aggrap-
pato al provvidenziale ramo di una pianta di lauro (fig. 105).322
L’immagine sembra aver còlto la storia petrarchesca due foto-

320 Cfr. PICONE, Il sonetto CLXXXIX, cit., p. 167: «Alla linearità consolante del-
la storia dantesca, che divide la vita in due metà, caratterizzate dalla caduta e dalla re-
denzione, con al centro la conversione, succede la puntualità angosciosa della storia
petrarchesca, che vede riunite in un indefinito punctum temporis tutte le possibili so-
luzioni esistenziali, da quella pessimistica del naufragio (che sembra vicino) all’altra
ottimistica del ritorno verso il porto (che sembra però essere scomparso dall’oriz-
zonte)».
321 Cfr. ESSLING-MÜNTZ, Pétrarque, cit., p. 81.
322 MALKE, La metafora della nave nella poesia e nelle arti figurative romanze, cit., p.
203: «Il naufragio del Petrarca è una delle metafore più adatte alla missione ‘bivalente’
di Laura che attrae e respinge, a seconda dei casi, il poeta. Questa missione è inoltre il-
lustrata dall’ancora di salvezza offerta dai rami dell’alloro – prima metaforizzazione di
Laura – che si erge su uno scoglio – seconda metaforizzazione di Laura».

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MI TROVO IN ALTO MAR SENZA GOVERNO

Fig. 105. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Ital. 548,


FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere.

grammi dopo il punctum temporis descritto in RVF 132 (o an-


che in 189) e uno solo dopo quello visualizzato nell’emblema
di Baltimore. Dall’assoluta indeterminatezza del testo, passando
attraverso la strategica interruzione nell’emblema (la salvezza
del naufrago – indifferentemente l’agens, Petrarca o ogni letto-
re – dipende dal suo atteggiamento di fronte ai «diversi acci-
denti di fortuna, tanto d’amore come d’altri»), si giunge dun-
que nell’illustrazione parigina alla compiuta narrazione visiva
della vicenda. Evidente (ed esibita) prolessi mnemonica di
quella storia di un’anima che si dispiega lungo l’intero Canzo-
niere, di un’anima che malinconicamente riflette sulla propria
esistenza tesa tra il naufragio nei sensi e il riscatto attraverso la
poesia.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 29

29. Qui veder puoi l’imagine mia sola

Motivo pliniano e presenza costante nell’araldica cortese,


l’immagine dell’ermellino che preferisce gettarsi nel fuoco
piuttosto che macchiare col fango il proprio candido manto è
simbolo tradizionale della bellezza virtuosa che non accetta
compromessi con ciò che è turpe. Oltre che famose attesta-
zioni nel campo artistico, soprattutto nel contesto della ritrat-
tistica a soggetto femminile,323 esso conosce una significativa

323 Oltre ovviamente alla Dama con l’ermellino di Leonardo, vorrei ricordare al-
meno: il Giovane cavaliere di Vittore Carpaccio (1500-1501, conservato al Museo Thys-
sen-Bornemisza di Madrid) che nell’angolo in basso a sinistra riporta non solo l’im-
magine di un ermellino dal manto candido ma accanto a lui anche un cartiglio col
medesimo motto che vediamo spesso associato a questo simbolo animale (MALO MO-
RI QVAM FOEDARI); e il busto marmoreo di Beatrice d’Aragona realizzato da France-
sco Laurana (1474-1475, conservato alla Frick Collection di New York), che sulla pie-
ga dell’abito riporta l’immagine di due ermellini (cfr. a questo proposito la scheda del-
l’opera realizzata per il catalogo Art and Love in Renaissance Italy, cit., scheda 119, pp.
256-259). Su questo motivo iconografico si veda anche STEFAN WEPPELMANN, Zum
Schulterblick des Hermelins – Ähnlichkeit im Portrait der italienischen Frührenaissance, in Ge-
sichter der Renaissance. Meisterwerke Portrait-Kunst, a cura di KEITH CHRISTIANSEN e STE-
FAN WEPPELMANN, Berlin, Hirmer, 2011, pp. 64-76.

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

fortuna all’interno della produzione emblematica e impresi-


stica,324 con impieghi che travalicano anche il campo seman-
tico lirico-amoroso entro cui si colloca invece l’esemplare di
Baltimore. Paolo Giovio, ad esempio, ricorda che l’impresa
venne utilizzata da Ferdinando I d’Aragona per esprimere la
propria clemenza di fronte al tradimento di Marino di Mar-
ciano (fig. 106):

Fig. 106. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 37.

Ed essendogli dopo alcun tempo venuto alle


mani e posto prigione il detto Marino, si risolse di
non farlo morire, dicendo di non volersi imbrattar
le mani nel sangue d’un suo parente, anchor che
traditore e ingrato, contra il parere di molti suoi
amici e partigiani e consilieri. E per dichiarare
questo suo generoso pensiero di clemenza figurò
un armellino, circondato da un riparo di letame,
con un motto di sopra: MALO MORI QVAM FOEDA-

324 Si veda almeno CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum, cit., libro II, embl.
81 (MORI MALO QVAM FOEDARI, Omnibus antistat recti mens conscia rebus: | Hoc bene emi
vita tu quoque crede decus), p. 89: «Sed Armellini proprietas fertur esse sane mira, quod
nimirum fame aut siti prius moriatur, aut a venatoribus sese capi ferat, quam luto aut
simili re immunda, quibus circumdata sit, suam pellem candidam et elegantem patia-
tur defoedari».

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A. TORRE, VEDERE VERSI

RI, essendo la propria natura dell’armellino di pa-


tire prima la morte per fame e sete che imbrattar-
si, cercando di fuggire e di non passar per lo brut-
to per non macchiare il candore e la politezza del-
la sua preziosa pelle.325

Un passaggio del Ragionamento sopra le imprese di Luca


Contile segnala invece un’occorrenza trionfale del dettaglio
simbolico (TM I, 19-21) e la riconosce quale testimonianza di
un momento della vita della forma-impresa antecedente la sua
codificazione teorica cinquecentesca. L’osservazione di Conti-
le ci ricorda così, implicitamente, anche le varie illustrazioni,
grafiche e pittoriche, del Trionfo della Pudicizia liberamente
ispirate a Petrarca, e costituisce un’ulteriore conferma della
piena consapevolezza, da parte dei teorici dell’epoca, circa la
funzione mediatrice dell’immaginario simbolico espletata dal-
la poesia petrarchesca:

Tuttavia l’autorità de’ scrittori italiani mi essorta


ch’io citi il Petrarca, il quale nel sonetto che comin-
cia O PASSI SPARSI disse «O sola insegna al gemino
valore», dinotando la corona di lauro esser testimo-
nianza chiarissima per meriti soldateschi e de scien-
ze; parimenti il detto poeta nel primo capitolo del
trionfo della morte così canta «Era la lor vittoriosa
insegna», mostrando per essa la purità di Laura, la
schiettezza el valor de’ suoi castissimi pensieri, con
animo di mantenersi ella tale fin all’ultimo giorno
di sua vita, ma credo si possa dire che fusse più tosto
impresa ch’insegna essendo uno armellino col collare
d’oro e di topazio, significando la intenzione di co-
sì pudica e bella donna, avendo ornato quel puro

325 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., p. 37. Cfr. inoltre FERRO,
Teatro d’imprese, cit., p. 102: «È segno il sudetto animaletto d’animo puro e casto, e
con la sua candidezza de’ costumi nobili e gentili; per la qual cosa forse appo i pre-
lati è in uso l’ornarsi d’una tal pelle, per la sincerità e purità de gli animi loro, e de’
corpi. Questo circondato di lettame col motto MALO MORI, o POTIVS MORI, QVAM
FOEDARI ».

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

animaletto di due preziose cose cantate da Davide


Re nel salmo 118.326

L’immagine, associata nel manoscritto di Baltimore al ver-


so conclusivo della canzone 129 (v. 72: «qui veder poi l’imagi-
ne mia sola»), ci consegna invece un’elaborazione del simboli-
smo dell’ermellino più articolata rispetto alla pura ostensione
araldica della rappresentazione zoomorfa della castità che rin-
veniamo nel testo (e nelle illustrazioni) dei Triumphi. L’icono-
grafia presentata dalla silloge statunitense devia inoltre anche
dal tradizionale modello emblematico-impresistico tràdito dal-
le varie raccolte a stampa cinque-secentesche. Al dettaglio del
fango (uno dei due poli della scelta che si offre al soggetto im-
presistico, mori aut foedari) si accompagna infatti (e oppone)
quello della fiamma, possibile causa di quella morte, preferita
dall’animale all’insozzamento (tav. 29). Nelle illustrazioni a
stampa ricorre soltanto l’immagine di un ermellino inscritto in
un cerchio di fango, imprigionato in un (apparentemente ine-
vitabile) destino vizioso, a cui si può sottrarre solo attraverso
l’extrema ratio di una morte che viene però posta fuori dalla
scena visibile e denunciata solo dalla componente testuale del-
l’impresa. L’illustrazione di Baltimore è invece costruita secon-
do una logica binaria che fin dalla componente visuale (e in
completa autonomia, quindi, da quella testuale) presenta come
visibili le due opzioni riservate all’animale, e ne rivela la scel-
ta. Ossia, essa esplicita didascalicamente, attraverso il movi-
mento dell’ermellino, la direzione virtuosa di fronte a un bivio
morale scelta da tutti quegli individui che vorranno essere
identificati simbolicamente come soggetti onesti e casti. L’in-
serimento di un figurante costitutivo del campo semantico
erotico sembra inoltre voler connotare l’immagine più stretta-
mente, e in modo più esplicito, dal punto di vista della tema-
tica amorosa, prevalente nella silloge e propria della fonte te-
stuale di riferimento. Ma su questo aspetto tornerò in seguito,
dopo aver analizzato un’altra originale elaborazione del moti-

326 LUCA CONTILE, Ragionamento sopra la proprietà delle imprese con le particolari de-
gli Academici Affidati et con le interpretationi et croniche, Pavia, Bartoli, 1574, c. 11r (corsi-
vo mio).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

vo iconografico, appartenente questa volta ad un contesto di


emblematica applicata.
Lorenzo Lotto ricorre infatti all’immagine dell’ermellino
per la composizione di uno dei coperti impresistici delle tarsie
del coro ligneo di S. Maria Maggiore a Bergamo, realizzati tra
il 1524 e il 1532. La tavola riporta l’immagine di un ermelli-
no collocato fra due rami incrociati e legati da un nastro. L’a-
nimale si distende sinuoso, poggiando le zampe anteriori a una
foglia di palma e quelle posteriori a un ramo di agnocasto, ra-
mo quest’ultimo a cui è fissato anche il laccio del collare del-
l’ermellino. Completa l’impresa il motto POCIVS MORI, inciso
su una tavoletta appesa al nodo del medesimo nastro che lega
i due rami (fig. 107). Come opportunamente osserva Cortesi
Bosco, Lotto introduce una devise topica dell’ambiente corti-
giano «in un contesto figurativo che intende dilatarne il signi-
ficato spostandolo dal piano morale al piano spirituale mistico,
facendo riferimento ad una specifica condizione di vita reli-
giosa, anziché laica».327 Tale spostamento semantico non è in-
dotto soltanto da specifiche varianti iconografiche rinvenibili
nella tavola, quanto piuttosto dal sistema comunicativo entro
cui essa è calata; ossia dalla posizione che avrebbe dovuto oc-
cupare nella struttura del coro e dal soggetto biblico della tar-
sia che avrebbe dovuto proteggere e conservare (fisicamente, e
nella memoria dello spettatore). La tarsia è infatti dedicata ad
illustrare la storia veterotestamentaria di Susanna (Daniele 13),
giovane e bella moglie del ricco Joachim, insidiata da due giu-
dici mentre fa il bagno all’interno di un giardino privato. La
minaccia dei vecchi giudei – accusare falsamente la donna di
tradimento con un giovane – non sortisce l’effetto sperato
d’incrinare la solida fedeltà di Susanna; la quale preferisce su-
bire un’ingiusta condanna a morte per adulterio piuttosto che
macchiare la propria castità cedendo alle loro voglie (fig. 108).
Lotto aveva già affrontato la vicenda nel 1517 in un dipinto
ora conservato agli Uffizi, che presenta un impianto iconogra-
fico analogo a quello della tarsia (anche se, nello specifico, fo-
calizzato più sul momento della denuncia della donna che su

327 CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri, cit., p. 333.

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

Fig. 107. Bergamo, Santa Maria Maggiore,


LORENZO LOTTO, Tarsia del coro: Susanna (coperto simbolico).

Fig. 108. Bergamo, Santa Maria Maggiore,


LORENZO LOTTO, Tarsia del coro: Susanna (storia).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

quello dell’assalto erotico), e che correda la figura di Susanna


di un cartiglio riportante una variante del canonico motto:
«Satius duco mori quam peccare. Heu me».328 Il coperto im-
presistico sigilla dunque il portato morale della storia biblica,
traducendolo su di un piano simbolico. L’ermellino vede con-
fermata la propria valenza araldica di rappresentazione plastica
della virtus della castità eroicamente impugnata dalla moglie fe-
dele. La palma porta con sé il ricordo del concetto di vittoria
spirituale tramite martirio, vittoria della pudicizia sulla voluptas
e della giustizia sull’inganno (alla fine della storia Susanna
verrà infatti scagionata da un testimone). L’agnocasto declina
infine la storia edificante in exemplum religioso, e lo fa in ra-
gione delle qualità anafrodisiache che già nel Medioevo ne fa-
cevano alimento eletto di coloro che avevano fatto voto di ca-
stità.329 Collocata nel primo stallo dell’ala sinistra del coro dei
religiosi, la coppia di immagini avrebbe dunque dovuto svol-
gere appieno la funzione di memento di uno dei requisiti fon-
damentali richiesti all’uomo di fede.330 Disposte in una se-
quenza rigidamente ordinata e già collegate a un duplice pos-
sibile contenuto edificante da memorizzare (i passi scritturali e
il portato gnomico), queste immagini ad alto appeal mnemo-
nico si offrono, infatti, come prefabbricate imagines memoriae
che il credente può leggere singolarmente o in combinazione,
e utilizzare alla stregua di un vero e proprio sistema locale da
occupare (fisicamente ancor prima che mentalmente) nelle sue

328 Per un’analisi iconologica del dipinto Susanna e i vegliardi si vedano AUGU-
STO GENTILI, Virtus e voluptas nell’opera di Lorenzo Lotto, in Lorenzo Lotto, a cura di PIE-
TRO ZAMPETTI, Atti del convegno internazionale di studi (Asolo, 18-21 settembre
1980), Treviso, Tipografia editrice trevigiana, 1981, pp. 415-424; e MAURICE BROCK,
La Suzanne de Lorenzo Lotto ou comment faire l’histoire, in Symboles de la Renaissance, Pa-
ris, Presses de l’École Normale Supérieure, 1990, pp. 35-64.
329 Cfr. PICINELLI, Mondo simbolico, cit.,V, 4, p. 148 (corsivo mio): «Se questo ani-
male è coperto di bianchissimo pelo, tiene altresì un animo tanto amatore della pu-
rità, che prima vuol morire che imbrattarsi di fangosa lordura; POTIVS MORI, QVAM
FOEDARI, impresa di Ferrante Re di Napoli, o come altri dicono di Alfonso XI Re di
Spagna, applicabile a Susanna ed altri di castità eccellente [...]».
330 CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri, cit., p. 333: «Il ramo di
palma sul quale l’ermellino serra le zampe anteriori è la palma della vittoria che nel-
la vita ultraterrena il martire consegue col sacrificio della vita per amore di Cristo:
l’uomo che nell’anelito divino giudica che sia meglio morire (pocius mori) che infran-
gere il vinculum castitatis si rende degno di essa».

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

singole sedes e da percorrere con la vista (esteriore e interiore).


Contenuti in un vasto spazio mnemonicamente utilizzabile (la
chiesa), questi spazi minori possono essi stessi strutturarsi co-
me contenitori di ricordi edificanti sfruttando le corrispon-
denze compositive e tematiche attivate tra i loro componenti,
e tra i soggetti ritratti. Le dinamiche e le finalità memoriali im-
plicite negli uffici religiosi non possono infatti che essere age-
volate dalla consapevolezza di una naturale osmosi tra luogo
reale e locus memoriae, tra interno ed esterno. Ossia, dalla possi-
bilità di interiorizzare nella mente, come spazio di memoria, lo
spazio reale in cui questi uffici vengono espletati; e viceversa,
dalla possibilità di percepire, con un intenso sforzo di concen-
trazione che è anche un atto di meditazione, lo spazio reale in
cui si opera come un’oggettivazione del thesaurus memoriale.
Tutte le azioni, tutti i movimenti compiuti in questi spazi cor-
risponderanno quindi metaforicamente a continui atti di me-
morizzazione e di reminiscenza, finalizzati alla definizione in-
tellettuale e spirituale dell’individuo orante.
Rispetto alla configurazione del motivo simbolico visualiz-
zata dall’emblema di Baltimore, la tarsia di Lotto sceglie dun-
que di rappresentare non tanto l’opposizione (e la scelta) tra
due condizioni opposte (la morte che preserva il candore o
l’imbrattamento che lo svilisce), bensì la giustapposizione di
due momenti contigui, sequenziali, e comunque successivi a
una già effettuata scelta salvifica (il comportamento casto e la
ricompensa gloriosa). La logica di lettura che presiede l’imma-
gine risulta inoltre sì analoga a quella riscontrata nelle occor-
renze a stampa del motivo dell’ermellino, ma è anche relativa
ad un differente momento della situazione narrativa prospetta-
ta dall’exemplum. Non più quello antecedente la scelta del sa-
crificio ma quello successivo ad essa, quello che la celebra nel-
la gloria cristiana. Proprio la versione parziale del motto («Po-
cius mori») può essere intesa come un’ulteriore conferma del-
l’occultamento della polarità negativa («foedari») di una scelta
ormai compiuta e didatticamente esplicitata nel suo solo esito
esemplare. L’elaborazione lottesca si spiega ovviamente in rela-
zione all’illustrazione della storia di Susanna che sottostà (ma-
terialmente e concettualmente) all’invenzione impresistica del
coperto, e che già sviluppa su un piano narrativo e non sim-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

bolico il nucleo tematico della scelta virtuosa. La corrispon-


denza tra la tarsia biblica e il coperto impresistico non è una
coincidenza limitata al caso appena illustrato, ma è l’esito di un
modus operandi coscientemente adottato da Lotto, e più volte
dichiarato nelle sue lettere relative alla commissione bergama-
sca. In una missiva del 16 settembre 1527, ad esempio, Lotto si
lamenta del ritardo con cui gli giungono le invenzioni delle
imprese e le indicazioni circa la struttura generale del coro, e
sottolinea il pericolo di incoerenza tra l’espressione simbolica
del coperto e il soggetto scritturale della tarsia:

[...] me importa a sapere et dove particularmen-


te se ne li cantoni immediate siano dui o uno et al
pilastro più dentro la quantità perché mi fano biso-
gno per el rispeto tanto de comodar de le istorie
quanto de la luce. Etiam mi bisogna sapere se ’l nu-
mero de la banda de la sacrestia se ’l sia compito, per
el lume o quanti ne mancha et da l’altra parte sotto
l’organo quanti de piccoli bisogna a compir, perché
voglio darli principio a tuti per cavarmene i piedi
con la gratia de Dio. Et de le imprese me siano man-
date perché siano de più che de mancho per ellegere
quelle che siano più al proposito in un sugeto.331

È dunque il movimento di fuga di Susanna – sviluppato da


destra verso sinistra lungo un registro orizzontale – a rappre-
sentare appieno la dinamica morale proverbialmente associata
all’ermellino, e ad indicare la giusta direzione da intraprende-
re di fronte al bivio che oppone le allettanti tentazioni della vo-
luptas (e della menzogna) al difficile e fatale cammino della vir-
tus; la via del male (foedari) a quella del bene (mori). L’organiz-
zazione del movimento entro lo spazio del quadro conferma
l’assiologia e il messaggio didattico veicolati, poiché dal punto
di vista della prospettiva di visione interna all’immagine il mo-
vimento di Susanna procede da sinistra verso destra, verso la

331 LORENZO LOTTO, Lettere inedite su le tarsie di S. Maria Maggiore in Bergamo, a


cura di LUIGI CHIODI, Bergamo, Edizioni “Monumenta Bergomensia”, 1962, lettera n.
26, p. 53.

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

polarità da sempre associata al bene divino e sempre contrap-


posta al luogo (sinistro) dell’errore e del peccato.
L’assiologia dello spazio interna alla tarsia e la dialettica che
questa instaura col coperto impresistico al fine della corretta e
incisiva comunicazione di un messaggio morale, sono due ele-
menti che possono aiutarci a meglio comprendere anche il sen-
so dell’emblema di Baltimore. Così come l’ermellino-Susanna
della stratificata impresa bergamasca anche l’ermellino del nostro
manoscritto fugge infatti verso la propria destra voltando le spal-
le al pericolo (là i vegliardi libidinosi, qui il fango). La polarizza-
zione morale dello spazio è accentuata nell’emblema dalla com-
posizione luministica del quadro che, seguendo il registro oriz-
zontale del movimento dell’animale, procede da una pressoché
completa oscurità (estensione cosmica della macchia – materia-
le e spirituale – di fango) a un’abbacinante luminosità.
Una volta constatate le affinità strutturali dell’emblema con
le immagini lottesche, dobbiamo però fare i conti anche coi dif-
ferenti contesti che ospitano le due espressioni simboliche, e far
triangolare tutti questi elementi dell’analisi con la configurazio-
ne canonica dell’impresa dell’ermellino trasmessaci dalla tradi-
zione. Si è già detto che l’aggiunta del dettaglio della fiamma –
quale visualizzazione della causa della morte preferita dall’ani-
male all’insozzamento – indurrebbe a collocare l’immagine nel
campo semantico lirico-amoroso. L’interferenza della fonte del
motto, il Canzoniere, potrebbe aver suggerito tale integrazione
figurativa, al fine di rendere l’immagine più funzionale a un’ap-
plicazione del concettismo e della relativa moralità all’interno di
un contesto erotico. Alla luce di una siffatta determinazione te-
matica il parallelismo con le tarsie di Lotto diviene però proble-
matico. La polarità destra della virtus viene infatti occupata qui
da un topico simbolo di voluptas, da un figurante a cui Petrarca
spesso ricorre nei Fragmenta per esprimere l’assoluto dominio
che, tramite Cupido, Laura detiene nei suoi confronti. In realtà
la problematicità legata al dettaglio della fiamma risulta tale so-
lo in relazione al soggetto che si associa alla figura dell’ermelli-
no, alla voce che sotto la maschera dell’immagine simbolica af-
ferma di preferire la morte al fango. La didascalia di commento
offre due possibilità di identificazione: «l’huomo parlando di se
stesso» oppure «la pura et intiera vitta de la sua donna»; ossia, un

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A. TORRE, VEDERE VERSI

abituale proposito di comportamento (la complessione dell’uomo)


oppure uno status (la costitutiva purezza della donna).332 Abbia-
mo visto che di per sé l’ermellino, in ragione del candore del
manto, è associabile araldicamente alla donna, ed è stato posto da
Petrarca stesso ad insegna della propria donna. Il suo inserimen-
to in una composizione figurativa più elaborata, e soprattutto in
una situazione rappresentativa che – elaborando peraltro il mo-
dello iconografico più ricorrente – visualizza un movimento
che è al contempo fuga da qualcosa e tensione verso qualcos’al-
tro; tale inserimento, dicevo, può suggerire allora come più
plausibile l’associazione del simbolo a un soggetto maschile.
Nel nostro caso specifico, l’io lirico, il Petrarca-agens – sogget-
to dell’espressione poetica e voce della forma simbolica.
L’adozione come motto del verso «qui veder poi l’imagine
mia sola» è l’altro elemento di novità che, pur dialogando con
l’anima abitualmente legata a questo corpo (e quindi sempre
presente nella memoria dei lettori dell’emblema), induce a
rinvenire nell’immagine un ritratto cifrato del protagonista di
RVF 129. Che l’assunto dell’explicit della canzone potesse es-
sere un facile appiglio per chi ne avesse voluto realizzare un’il-
lustrazione ci viene confermato da un altro caso di visualizza-
zione dei Fragmenta, il già presentato codice M.427 della Mor-
gan Library. La c. 59v, subito dopo la conclusione di RVF 129,
riporta infatti un fregio decorativo costituito da un cammeo
con busto di figura maschile, còlta di profilo e laureata, retto da
due grifoni. È difficile non riconoscere Petrarca in quell’«ima-
gine [...] sola» (fig. 109). L’emblema di Baltimore va invece ol-
tre. Non si limita a una visualizzazione referenziale del conte-
nuto dell’explicit, ma sceglie di tradurre simbolicamente il sog-
getto lirico e collocarlo in una (seppur minima) situazione
narrativa. L’«imagine» non è più soltanto quella di Petrarca, ma
quella di un Petrarca che si sta muovendo verso «quella parte»
(v. 63), ossia di un agens collocato – non solo nel congedo ma
in tutto il fragmentum 129, e addirittura lungo l’intera serie di

332 Così recita la didascalia nel suo complesso: «Questa medaglia ha più significati;
come l’huomo parlando di se stesso: “ecco la mia complesione”, cioè io son come l’ar-
melino che più tosto entra nel fuoco che nel fango; o si vero: “questa è la mia imagine”,
intendendo la pura et intiera vita de la sua donna; servendosi del verso del Petrarca».

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QUI VEDER PUOI L’IMAGINE MIA SOLA

Fig. 109. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427,


Rime e Trionfi di Francesco Petrarca.

canzoni 125-129 – entro un paesaggio che ospita e condivide


il suo inquieto movimento fra i diversi e opposti stati d’animo
indotti dall’amore per Laura.333 Un movimento, fisico e spiri-
tuale insieme (ossia, primariamente visivo: v. 56, «misurar con
gli occhi»), in cui «pensare e andare sembrano seguire la stessa

333 EMILIO BIGI, La Canzone CXXIX, «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina


di scienze lettere ed arti», CCCLXXXIV (1982-83), pp. 523-541, p. 528: «[...] il rap-
porto con le mediazioni sulla “varietas mortifera” delle passioni che assediano e ottun-
dono l’animo si possa avvertire soprattutto nel fatto che i diversi e opposti stati d’ani-
mo rappresentati nella canzone, il riso e il pianto, il timore e la speranza, l’illusione di
vedere Laura viva e presente nella sua bellezza e la constatazione della sua assenza, l’ab-
bandono al sogno di esserle caro e il dubbio sulla vanità di tale sogno, si intrecciano con
una alternanza così inquieta e complessa da non trovare riscontro in altri e tematica-
mente vicini componimenti del Canzoniere». Sulla scorta dell’affioramento stilistico (in
specie, sintattico) di questo nucleo concettuale Marco Praloran riconosce un’opposi-
zione tra le coppie 127-129 e 125-126: «Nell’altra canzone di lontananza, Di pensier in
pensier, di monte in monte, ci troviamo di fronte ad una costruzione in parte differente.
Anche qui, tuttavia, si avverte una forte tendenza alla circolarità, nel senso che non si
assiste ad una risoluzione-progressione come in 125, ma su uno sfondo, appunto, di non
trasformazione, si crea un continuo movimento oscillante tra due poli che sono quelli
della speranza e della disperazione, cioè da una parte l’illusione del ricambio d’affetto
e dall’altra l’ossessione febbrile, negativa, del pensiero d’amore. Questa febbrile staticità
o comunque, questo dinamismo senza sbocco, inserito in uno scambio continuo tra
realtà e immaginario, favorisce i meccanismi di simmetria nella struttura della stanza
che sono molto marcati, una specie di movimento dialettico tra progressione e ripeti-
zione» [MARCO PRALORAN, La canzone CXXV, «Atti e memorie dell’accademia pata-
vina di scienze, lettere ed arti», CXIV (2001-2002), 3, pp. 215-230, cit. a p. 221].

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dinamica di un travagliato girovagare nel labirinto del pensie-


ro e in quello di un paesaggio infinito» (v. 17: «A ciascun pas-
so nasce un pensier novo»):334

L’inizio della canzone 129 dà una formula


strutturale della poesia petrarchesca. La canzone
stessa è la realizzazione di questa formula. Il senso
dell’andare e del meditare nel paesaggio, o, secon-
do un’altra formula di Petrarca, dell’“andare pen-
sando” (“io vo pensando”, “io vo cantando” nel
Canzoniere non sono mai semplici figure gram-
maticali ma sono formule complesse di una com-
presenza organizzata nella forma grammaticale del
gerundio) sono chiariti dal movimento della can-
zone stessa. Tutto il poema è una meditazione in
mezzo al paesaggio. Ogni strofa rende esplicita la
nozione centrale del pensare in una concretizza-
zione poetica che si riferisce ad aspetti diversi del
paesaggio vissuto.335

Nel suo commento alle rime petrarchesche Lodovico Ca-


stelvetro ricostruisce con esattezza l’architettura tematica del-
la canzone, rinvenendovi una precisa struttura a stazioni che
sembra dispiegarsi nella forma di un percorso di ricerca me-
moriale segnato da ben riconoscibili punti di riferimento
spaziali, in cui il paesaggio interiore del poeta rammemoran-
te si riflette in quello della sua più cara geografia, ma a diffe-

334 Cfr. KARLHEINZ STIERLE, Un manifesto del nuovo canto (RVF 120-129), in Il
Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 295-312, cit. a p. 307.
335 Cfr. KARLHEINZ STIERLE, Paesaggi poetici del Petrarca, in Il paesaggio. Dalla per-
cezione alla descrizione, a cura di RENZO ZORZI,Venezia, Marsilio, 1999, pp. 121-137,
cit. a p. 134. Poco prima Stierle aveva definito con precisione la natura del movi-
mento di pensiero realizzato da Petrarca all’interno della propria esperienza poeti-
ca: «Il “pensare” che cos’è? Corrisponde al “cogitare” di Agostino come riflessione
personale e profonda. Ma questo modo della riflessione soggettiva ove si mescolano
memoria, immaginazione e emozione, ha anche radici medievali. [...] “Pensare” in
Petrarca è una riflessione solitaria nel paesaggio, ove percezione, ricordo, immagina-
zione entrano in una sintesi immaginaria. L’essere nel paesaggio è proprio questa
sintesi fra presenza e assenza, fra immagine e memoria, fra riflessione e percezione»
(ivi, p. 126).

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renza di questa conserva indelebilmente presente il simulacro


di Laura:336

Il Petrarca lontano da Laura racconta come tra-


passi con minor noia il tempo. Fugge le persone, per-
ché non gli rompino i suoi pensieri, ed usa in luoghi
solitari, ne’ quali s’acqueta pensando; e i luoghi solitari
divide in monti e selve, in colle e pino, in fonte e pra-
to, in faggio ed in una montagna. Hora nella seconda
stanza dice che cosa faccia in monti e selve, cioè che
pensa d’avere ancora ad avere bene; poi ne despera.
Nella terza, quello che faccia in colle e pino, cioè che
s’imagina di veder Laura in un sasso, e s’allegra; poi
aveggendosi dell’errore, s’attrista. Nella quarta, quello
che faccia in fonte e prato e faggio, cioè che s’imagina di
vedere Laura come una ninfa, o pure in una nube; ma
poi rimane per lo dolore stupido, quando s’avede del-
lo ’nganno. Nella quinta, quello che faccia in una
montagna, cioè che contempla quanto spazio da quel-
la sia lontano da Laura, poi si consola dicendo che
forse Laura si duole della sua partita.337

336 Cfr. la nota introduttiva di Sabrina Stroppa a questo fragmentum: «L’unica sta-
bilità offerta a un volto che segue l’infirma mobilità dell’anima, e dunque “in un esser
picciol tempo dura” (v. 11), è quella della fissità contemplativa, per la quale “la mente
vaga” si astrae da sé, tanto da poter “tener fiso” il pensiero (vv. 33-35) sull’imago di ma-
donna, disegnata “co la mente” nel primo sasso in cui lo sguardo si imbatte (vv. 28-29):
“Per quales formas ire solent oculi mei, per tales imagines ibat cor meum” (Conf. VII,
1, 2), L’”ombra” dei luoghi, in cui “adombrare” la bellezza di madonna con lo stilus del
pensiero (v. 58), offre dunque requie e visione: che è vista di Laura assente come se fos-
se presente e viva» (STROPPA, Commento, p. 248). Sulla funzione della memoria in que-
sta canzone petrarchesca si veda anche BART VAN DEN BOSSCHE, «Del qual ò la memoria
e ’l cor sì pieno»: memoria e fuga del tempo nel Canzoniere di Petrarca, «Rassegna europea
di letteratura italiana», XXVII-XXVIII (2006), pp. 95-106, in part. pp. 99-101.
337 Le rime del Petrarca brevemente esposte da Lodovico Castelvetro, Basilea, Pietro de
Sedabonis, 1582, pp. 252-253 (corsivi miei). Emilio Bigi accoglie con modifiche que-
sto schema, mostrandone il funzionamento attraverso il rilievo delle costanti temati-
che (organizzate nella sequenza «introduzione paesistica; analisi della fluctuatio fra stati
d’animo contrari; conclusione») e la constatazione che «a questa simmetria per così di-
re lineare o seriale si intrecciano altre simmetrie di carattere, invece, prevalentemente
circolare». Lo studioso mostra anche come gli elementi paesistici – i loci memoriae di
Castelvetro – siano quasi sempre messi in rilievo attraverso la ripetuta prolessi del sin-
tagma e della relativa che li indicano (cfr. BIGI, La Canzone CXXIX, cit., p. 534).

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La sovrapposizione tra paesaggio reale e paesaggio vissu-


to, tra luoghi fisici segnati dall’assenza di Laura e luoghi
mentali finalizzati a una sua rappresentazione (ri-presentifi-
cazione), sembra attivare lungo il componimento un dop-
pio ordine di relazioni spaziali, quello tra un “qui” e un
“là”, e quello tra un “fuori” e un “dentro”; doppio ordine
che la strofe iniziale presenta e il congedo riassume e illu-
stra. «L’alma sbigottita» del poeta-amante patisce infatti il
fluttuare senza posa indotto dalla propria dipendenza da
Amore-Laura (v. 11: «e in un esser picciol tempo dura») e
riflette tutta questa sofferenza emotiva nel «volto che lei
[l’anima] segue ov’ella il mena» (v. 9), lasciando dunque vi-
sibilmente emergere in superficie ciò che giace riposto in
profondità. Centrale è qui il ruolo giocato dall’immagina-
zione, sia come alimento della speranza (v. 24: «forse, a te
stesso vile, altrui se’ caro»), sia come matrice di un’illusione
(v. 37: «che del suo proprio error l’alma s’appaga»), sia co-
me fonte d’identità e scrittura (v. 52: «in guisa d’uom che
pensi e pianga e scriva»). Tutta la sua azione pare peraltro si-
tuata – proprio come l’individuo che la esercita – sotto il
segno dello sfumato, del precario, entro i domìni dell’«om-
bra». È questo infatti un termine chiave che ricorre nella
canzone a designare tanto l’ambientazione psico-fisica dei
quotidiani turbamenti del protagonista (v. 5: «se ’nfra duo
poggi siede ombrosa valle») e delle sue altrettanto quotidia-
ne illusioni di risanamento (v. 27 «Ove porge ombra un pi-
no alto od un colle»);338 quanto l’esperienza meditazionale
che – in intimo dialogo con tutti i minimi frammenti del
paesaggio – riproduce nella mente dell’individuo le infini-
te variazioni di questa quotidianità (v. 48: «tanto più bella il
mio pensier l’adombra»). Il venire meno dell’«error» di cui

338 AGOSTI, Gli occhi le chiome, cit., p. 64: «[...] proprio perché il Soggetto è ten-
denzialmente portato a riprodurre una medesima, unica situazione patemica di rap-
presentazione fantasmatica e di denegazione della stessa (nella dinamica euforia/disfo-
ria, con arresto sul secondo termine), la canzone in causa non comporterà [...] nessu-
na complessità d’ordine strutturale [...] il principio compositivo della canzone è sem-
plicemente quello dell’interazione, o della serialità, traduzione, sul piano delle forme,
della coazione a ripetere cui è sottoposto il Soggetto».

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«l’alma s’appaga», ossia la constatazione dell’incolmabile as-


senza di Laura in quei loci, si configura proprio come una
negazione di quell’«ombra» (con la rima inclusiva che è spia
di questa rimozione: vv. 49-50, «Poi quando il vero sgombra
| quel dolce error»). Ed il nuovo orizzonte del desiderio
che si apre davanti agli occhi del poeta segna uno spazio
«ove d’altra montagna ombra non tocchi», uno spazio altro che
viene definendosi essenzialmente per differenza e contrasto
rispetto a quello che ospita l’io-lirico.
Si tratta infatti di un «Ivi» percepibile, e concepibile, solo
nei termini della sua distanza (v. 56, «misurar con gli occhi»;
e v. 60: «quanta aria dal bel viso mi diparte») e della sua mag-
gior luminosità rispetto al «qui» abitato dal Petrarca-agens (v.
67: «là dove il ciel è più sereno e lieto»; là dove vive colei che
abbaglia perfino la proverbiale bellezza di Elena proprio «co-
me stella che ’l sol copre col raggio»; là ove la tersa «aura si
sente» e non la «dolorosa nebbia» delle passioni).339 Pur nel-
la sua estrema semplificazione, pare qui riprodursi la stessa di-
namica relazionale che, attraverso la composizione luministi-
ca, definisce il senso del ritratto leonardesco di Cecilia Gal-
lerani, ossia di quella Dama con l’ermellino (1489-1490) con-
servata al museo Czartoryski di Cracovia. Come ha suggesti-
vamente notato John Shearman, l’«ermellino e la dama si
volgono entrambi verso un fascio di luce insolitamente for-
te, il che significa che si volgono verso il sole o verso la fon-

339 Cfr. RUTH GANTERT, Canzoniere CXXIX: “Di pensier in pensier, di monte in
monte”, in Petrarca e i suoi lettori, a cura di VITTORIO CARATOZZOLO e GEORGES GÜN-
TERT, Ravenna, Longo, 2000, pp. 55-77, in part. pp. 70-71: «Così in un certo senso si
produce il processo contrario a quello dell’illusione: nel momento dell’estasi, l’io non
vedeva più il paesaggio reale, ma aveva davanti a sé la visione interiore della donna
amata – e vi trovava un sollievo alle sue pene, una seppur precaria euforia. Adesso in-
vece vede il paesaggio esterno, mentre si trova offuscata la realtà interna, il “cuore”. Se
prima l’io attribuiva i tratti dell’amata agli elementi naturali, ora ad assumere le carat-
teristiche della natura è lo spazio interiore: il fenomeno meteorologico della nebbia
viene usato metaforicamente per parlare dello stato interiore dell’io. [...] Se la com-
presenza delle due persone nello stesso spazio è impossibile, l’io si aggrappa all’idea di
una congiunzione spirituale, di un amore corrisposto – come se la disgiunzione tra
“questa” e “quella” parte potesse essere compensata da una congiunzione delle istan-
ze passionali, del poeta e della donna amata. Nell’immaginazione amorosa dell’io, l’a-
ria che separa gli spazi degli amanti diventa elemento di congiunzione, circolando in
modo reciproco tra donna e amante».

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te d’illuminazione di Cecilia, il duca» di Milano.340 «Ivi» tro-


va pace il «cor». «Qui» rimane nel continuo travaglio il suo
abitacolo corporeo, la sua «imagine».341 «Ivi» risiede «quella»
che governa l’individuo amante. «Qui» resta solo di lei il si-
mulacro fantastico, la sua «imagine». Si è già annunciato in
precedenza che il medesimo doppio ordine di relazioni –
spaziali e illuministiche – regge semanticamente anche l’im-
magine emblematica. Così come per altri fragmenta visualiz-
zati simbolicamente nel codice, anche qui l’emblematista di
Baltimore sembra aver còlto uno dei nuclei concettuali del
componimento petrarchesco, e averlo sottoposto a un’elabo-
razione concettistica che ne ha distillato una possibile lettura
morale. L’intera canzone, e non solo il semplice verso poi tra-
dotto in motto, interviene dunque a definire l’espressione
emblematica, a guidarne la revisione di forma e messaggio ri-
spetto al modello ricorrente nella tradizione. Se l’ermellino è
dunque il Petrarca-agens, lo è in quanto espressione di un
soggetto animato dalla volontà di sottrarsi dalla problematica
polarità corporea dell’«ombra» (il fango dell’accidia, la mac-
chia umana della voluttuosa tentazione dello «stato [...] in-
certo» e dell’«error» che appaga l’anima) e di dirigersi verso
l’eterea polarità luminosa e numinosa «del mondo delle idee
in senso platonico, della poesia e, naturalmente, anche di un
aldilà cristiano».342 Piuttosto che impantanarsi in una quoti-

340 JOHN SHEARMAN, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. «Only connect [...]»,
Milano, Jaca Book, 1995 (I ed. ingl. 1992), p. 120.
341 Cfr. a questo proposito il commento al passo, presente in MARCO MANTOVA
BENAVIDES, Annotationi brevissime, sovra le Rime di M. F. P. le quali contengono molte cose a
proposito di ragion civile, sendo stata la di lui prima professione, a beneficio de li studiosi, Pa-
dova, Lorenzo Pasquale, 1566, c. 66v: «Qui veder poi l’imagine mia sola, quasi dicat una
statua veder poi, un simulacro, un’ombra non huomo, sanza core, il quale è quello che
’l vivifica; perché innanzi aveva detto già Ivi è’l mio cor, e quella che’l m’invola, et alla can-
zona parla prosopopeiaque est, che possa ella veder l’imagine sua sola, et hyperbole che
un huomo sia sanza core».
342 Cfr. KARLHEINZ STIERLE, «Di collo in collo». La spazialità in Dante e Pe-
trarca, in Studi sul canone letterario del Trecento. Per Michelangelo Picone, a cura di
JOHANNES BARTUSCHAT e LUCIANO ROSSI, Ravenna, Longo, 2003, pp. 99-121, in
part. p. 119: «Dalla montagna più alta l’io vede il luogo lontano ove abita la sua
donna. È, questa, la situazione di una trasposizione immaginaria. L’io, divenuto
corpo senza anima, rimane nel qui, mentre il cuore si traspone in un ivi della feli-
cità, nel luogo in cui Laura e lauro vivono in una metamorfosi continua. Il luogo

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diana e intima fluctuatio animi (v. 8: «or ride, or piange, or te-


me, or s’assecura») il soggetto che si cela dietro all’emblema
dell’ermellino (così come ogni lettore-osservatore che lo sce-
glierà come proprio segno d’identità) dovrà dunque affron-
tare apertamente la causa principale della propria malattia
spirituale, anche a rischio di veder andar in fumo le proprie
speranze, illusioni e rappresentazioni mitopoietiche.

immaginario di questo ivi non è altro che il luogo della poesia stessa. Ivi è sempre
un luogo del desiderio: è luogo della memoria, del mondo delle idee in senso pla-
tonico, della poesia e, naturalmente, anche di un aldilà cristiano che, tuttavia, non
ha più una struttura precisa come in Dante, ma si presenta invece come il sogno,
tutto umano, di una realtà inaccessibile».

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Tav. 30

30. Derelinquerunt me

Si debe notare che, subito ch’un favorito d’un


principe cade ne la mala grazia del patrone, si può
dire poeticamente Giove averlo fulminato, et aviene
quasi che, così subito che ha perduto l’amor del pa-
trone, perde quel de gl’amici; e però canta il verso
del psalmista qua sopra scritto.

La didascalia di commento sembra declinare in contesto


politico il trentesimo emblema della serie di Baltimore, che ri-
trae un uomo atterrato da un fulmine e abbandonato da chi gli
stava accanto (tav. 30). Se leggiamo l’espressione simbolica se-
condo un siffatto punto di vista, potremmo dire di trovarci di
fronte a un emblema che tematizza (e giudica) l’ingratitudine
e la falsa amicizia; a un’immagine che visualizza una situazio-
ne umana “alla Pier delle Vigne”. In tal senso pare però signi-
ficativa la scelta di accompagnare la pictura con un motto còl-
to da Salmi 26, 10: «Quoniam pater meus et mater mea dere-
liquerunt me, | Dominus autem assumpsit me». Se nel passo
biblico il tradimento subìto da parte degli affetti più cari (san-

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DERELINQUERUNT ME

gue del proprio sangue) ha la funzione di esaltare per contra-


sto l’assoluta fedeltà del Signore nei confronti di chi crede in
lui, e in lui cerca un luogo di rifugio «in die malorum»; l’asso-
ciazione del motto all’immagine intende forse sottolineare, e
contrario ed in absentia, l’assoluta magnanimità del dominus cri-
stiano rispetto a qualsiasi divinità pagana («Giove») o a qua-
lunque «patrone» terreno, sia esso il «principe» dello stato o il
capo della famiglia.
È questa, ad esempio, la moralità espressa in un’impresa rin-
venibile nella raccolta di Battista Pittoni e riportante per este-
so il passaggio biblico di cui il motto del nostro emblema ri-
produce solo un lacerto. In essa un cartiglio con il breve PATER
MEVS ET MATER MEA DERELIQVERVNT ME DOMINVS AVTEM AS-
SVMPSIT ME si distende infatti sinuoso fra due piante di palma;
secca e afflosciata l’una (quella disposta sotto la prima, e nega-
tiva, parte dell’inscriptio), rigogliosa e slanciata l’altra (fig. 110).
Il sonetto che accompagna l’impresa con la funzione di com-
mento in versi – come sempre opera di Lodovico Dolce – il-
lustra il senso dell’espressione simbolica in relazione anche al
suo portatore, nello specifico quel Cristoforo Barone la cui
esperienza esistenziale essa ritrae cripticamente. Come infatti
una pianta che, dopo esser stata privata del «terren proprio» e
funestata dalle intemperie, risorge nella «virtù natia», anzi di-
viene più bella di prima, «se man di là su la copre e amman-
ta»; così Cristoforo Barone «con l’aita del suo Signor e donno
| è giunto, ove non può sorte, o destino», sicché per il resto
della sua vita dovrà recargli lode per non averlo abbandonato
(«[...] a quello humile e chino | Oprerà, quanto humane forze
ponno»). Le due palme rappresentano dunque le due con-
dizioni, opposte e consecutive, caratterizzanti l’esistenza del-
l’individuo (particolare e generico), che una volta constatata
l’inconsistenza di ogni vincolo terreno (derelinquerunt) decide
di affidarsi a Dio (assumpsit).343
In relazione all’ambito tematico della raccolta manoscritta
di Baltimore e alle sue finalità moralistiche, potremmo però
chiederci se il comparatum perdente non possa essere individua-

343 PITTONI, Imprese nobili, cit., p. 14.

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Fig. 110. GIOVANNI BATTISTA PITTONI, Imprese nobili et ingeniose di diversi principi,
Venezia, Porro, 1578, p. 14.

to anche in quella particolare forma di dominus terreno costi-


tuito dalla figura dispotica della donna amata. Domina che, do-
po aver innescato i travagli dell’amante, lo lascia solo in balìa
della sofferenza. In questa accezione il motivo iconografico del
fulmine conosce un’analoga occorrenza simbolica nell’impre-
sa (raffigurante il fulmine trifulco di Giove) che Paolo Giovio
delinea per Geronimo Adorno, il quale

come giovane arditamente innamorato d’una


gentil donna di bellezza e pudicizia rara, la quale
io conosceva et anchor vive, mi richiese ch’io gli
facessi un’impresa di questo tenore, ché pensava e
teneva per certo che l’acquisto dell’amor di costei
avesse a esser la contentezza e ’l principio della fe-
licità sua; o che non l’acquistando fusse per met-
ter fine a’ travagli che aveva sopportati per l’ad-
dietro, sì di questo amore come dell’imprese in
guerra e prigionia, con affrettargli la morte. Il che
udendo, mi sovvenne quello che scrive Giulio
Obsequente de’ prodigi, cioè che il fulmine ha
questa natura, che venendo dopo i travagli e le di-
sgrazie ci mette fine, e se viene nella buona fortu-
na porta danni, ruine e morte. E così fu dipinto il

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DERELINQUERUNT ME

fulmine di Giove in quel modo che si vede nelle


medaglie antiche, e con un breve intorno: EXPIA-
BIT AVT OBRVET.344

Leggendo il nostro emblema da questo punto di vista, po-


tremmo forse rinvenire, all’interno della raccolta, un’ulteriore oc-
casione di sviluppo della già esibita dialettica tra amore profano
e amore spirituale, tra perturbazioni sensuali e affrancamento
estatico; nonché, quindi, tra lo sconsolato viator trionfale (che «sa
com’Amor saetta» ma non riesce a modificare il proprio com-
portamento) e il Cupido trionfato e cooptato da Pudicizia. Nel
caso specifico del trentesimo emblema tale dialettica verrebbe
però a scindersi tra le componenti strutturali della forma simbo-
lica. La pictura sembra infatti consegnarci solo il primo tempo del-
la vicenda, la palma afflitta, l’individuo atterrato dai fulmini e ab-
bandonato dai suoi compagni; al motto è invece demandato il
compito di prospettare (per memoria poetica dell’intero passo
dei Salmi) una possibile continuazione e revisione della storia,
che lasci intravvedere un esito differente, una palma risorta.
Rappresentazioni verosimili di questo secondo tempo
della vicenda potrebbero forse essere due dei Divini Amoris
Emblemata di Vaenius. Nel primo, INCIPIENDVM, l’anima uma-
na atterrata dai travagli della sorte (la tempesta che occupa il
lato sinistro dell’immagine) viene aiutata a rialzarsi dall’amor
divino che indica i domìni celesti e, sulla scorta del Cantico
dei cantici, annuncia l’imminente ritorno nel tempo sereno:
«Surge, propera, amica mea, columba mea, formosa mea, et
veni. Iam enim hyems transiit, imber abiit et recessit. Flores
apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit; vox
turturis audita est in terra nostra» (fig. 111).345 Nel secondo,
A MALO TVETVR, l’amor divino protegge l’anima umana con
uno scudo e ne accompagna la fuga lontano da una pioggia
di fulmini che si abbatte sugli altri uomini; Dio infatti non
abbandona i propri fedeli, anzi «scapulis suis obumbrabit tibi,
et sub pennis eius sperabis; scuto circumdabit te veritas eius,

344 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., pp. 84-85.


345 VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, cit., pp. 10-11.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 111. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 10.

non timebis a timore nocturno. Cadent a latere tuo mille, et


decem milia a dextris tuis, ad te autem non appropinquabit»
(fig. 112).346

Fig. 112. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 48.

346 VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, cit., pp. 48-49.

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VEDEMI ARDER NEL FOCO E NON M’AITA

Tav. 31

31. Vedemi arder nel foco e non m’aita

Con l’impresa di un vasto fuoco in cui ardevano


alcuni strali, un arco, una faretra, ed una face col mot-
to IGNE IGNEM, fu chi dinotò d’avere col fuoco del-
l’amor celeste, estinto e consumato affatto ogni affe-
zione terrena. [...] Puossi anche dire che col fuoco
dell’inferno attentamente considerato s’estingue il
fuoco della libidine; [...] Con lo stesso motto, IGNE
IGNEM, s’inferisce che proporzionandosi la pena alla
colpa ben soggiace ai castighi del fuoco chi si valse
del fuoco per instrumento de’ suoi eccessi. [...] Puos-
si anco raccogliere che il fuoco dei vizi, quale divam-
pa nel cuore d’un contumace, esser deve consumato
e distrutto con una correzione ignea e vehemente.347

Come ci testimonia anche questo brano del Mondo simbolico


di Filippo Picinelli, il fuoco è uno dei principali nuclei concet-

347 PICINELLI, Mondo simbolico, II, 1, cit., pp. 34-37.

373
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A. TORRE, VEDERE VERSI

tuali attraverso cui elaborare espressioni simboliche di tema


amoroso. L’emblema 31 ne fa il dettaglio primario sia della pro-
pria componente figurativa sia di quella testuale. L’immagine di
un uomo abbandonato tra le fiamme da una figura femminile e
da un amorino viene infatti accompagnata dal contestuale ver-
so del sonetto 216 del Canzoniere (v. 14: «védem’ arder nel fo-
co, e non m’aita», tav. 31). L’emblema sembra illustrare abba-
stanza pianamente il senso generale del fragmentum, raffigurando
Laura, nelle vesti di una «Pietà viva» che non soccorre l’amante
e viene da lui allontanata per opera di un amorino, forse visua-
lizzazione, per aequivocatio, di quel «fido soccorso» che nella poe-
sia è invece secondo epiteto della donna.348 Il testo di Petrarca
gioca interamente sulla dialettica tra l’inestinguibile passione
dell’amante e l’indifferenza generale ad essa riservata da parte del
resto dell’umanità, e in particolare dall’amata, impassibile a ogni
richiesta di pietoso soccorso. L’ambientazione notturna vale da
intensificazione del carattere straordinario dell’esistenza trava-
gliata del protagonista, poiché mostra la sua estraneità al natura-
le scorrere del tempo e ai normali ritmi biologici.
«Di questa morte, che si chiama vita» (v. 11) Petrarca dà una
rappresentazione ancor più distesa e struggente nel fragmentum
50 (ma anche nella sestina 22 e nel sonetto 164), e il nucleo con-
cettuale che marca entrambi i testi conosce un’efficace visualiz-
zazione all’interno di un’altra interessante esperienza di elabora-
zione emblematica del dettato lirico petrarchesco, la già presen-
tata aldina di Chatsworth. Ai margini della canzone 50 e colle-
gata dalla solita linea dorata all’asserzione del v. 52 («fine non
pongo al mio ostinato affanno») troviamo infatti l’immagine di
un uccello che sembra dirigersi in picchiata entro uno specchio
d’acqua (fig. 113). La visualizzazione del movimento di fuga del
giorno, che costituisce la situazione cosmica di pace crepuscola-
re posta a sottofondo dell’intero componimento (e ribadita nel-
la prima parte di ogni stanza),349 viene connessa a un motto che
condensa invece l’immutabile e volontaria condizione di estra-

348 Sulla referenzialità dell’illustrazione insiste anche la didascalia di commento:


«Questa sopra medaglia è assai nota per se stessa, senza altra commentazione; intende-
si per un amante ch’abbia un’amata che non curi del fuoco che l’arde; il verso è tol-
to dal Petrarca».

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VEDEMI ARDER NEL FOCO E NON M’AITA

Fig. 113. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 24r.
Devonshire Collection, Chatsworth.

neità del poeta a quella pace (condizione a sua volta ribadita nel-
la parte conclusiva di ogni stanza).350 Possiamo notare come la
scelta del motto cada su un verso che da una parte ben sintetiz-
za il nodo drammatico della singola lirica (nonché dell’intera
raccolta),351 e che dall’altra si distingue per un intrinseco tono
gnomico che gli infonde autonomia dal testo. Si tratta di un ver-
so al contempo puntuale e generico, e quindi il suo prelievo fa-
cilita la trasposizione di una vicenda individuale su un piano
esemplare di generale validità. La consapevolezza delle differen-

349 Cfr. vv. 1-2: «Ne la stagione che ’l ciel rapido inchina | verso occidente, e
che ’l dì nostro vola [...]»; vv. 15-16: «Come ’l sol volge le ’nfiammate rote | per dar
luogo a la notte, onde discende | dagli altissimi monti maggior l’ombra»; vv. 29-30:
«Quando vede ’l pastor calare i raggi | del gran pianeta al nido ov’egli alberga»; v. 46:
«perché s’attuffi in mezzo l’onde [...]».
350 Cfr. vv. 12-13: «Ma, lasso, ogni dolor che ’l dì m’adduce | cresce qualor s’in-
via»; vv. 25-28: «Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora | ch’i’ pur non ebbi ancor, non
dirò lieta | ma riposata un’ora, | né per volger di ciel né di pianeta»; vv. 39-40: «Ahi
crudo Amor, ma tu allor più | mi ’nforme a seguir d’una fera che mi strugge»; v. 52:
«fine non pongo al mio ostinato affanno».
351 Su questo fragmentum si vedano le lectures di GIANFRANCO FOLENA, Textus te-
stis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 290-312,
e di SIMONE ALBONICO, Per un commento a «Rvf» 50, Parte prima, «Stilistica e metrica
italiana», I (2001), pp. 3-30.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

ti funzioni espletate dalle varie componenti dell’emblema pare


qui congiunta a una matura sensibilità ermeneutica verso il te-
sto di Petrarca. Potremmo estendere questo giudizio sull’opera-
to del miniatore dell’aldina di Chatsworth anche alle vignetta
che egli colloca sul margine del sonetto 216 (fig. 114). Quale
visualizzazione del soggetto principale del componimento (il
pianto come condizione primaria e assoluta dell’amante) e in
corrispondenza del v. 4 («così spendo ’l mio tempo lagriman-
do»), l’illustratore pone una figura maschile con la parte inferio-
re trasformata in selce (dettaglio criptato dell’identità petrarche-
sca dell’individuo) e con in mano un drappo celeste (dettaglio
metonimico per il pianto, o feticcio di quella Laura sempre ve-
lata al suo sguardo). In corrispondenza del verso finale compare
invece l’immagine di una figura femminile vestita in verde che
osserva ardere un fuoco. Questa volta non c’è l’usuale filo d’oro
ma uno dei ceppi del rogo, il più grosso, segna di fatto la traiet-
toria tra la figura umana e il verso di explicit. Se, come abbiamo
notato in precedenza, le vignette dell’aldina stabiliscono quasi
sempre una relazione emblematica con un verso petrarchesco (e,
più in generale, col contenuto del relativo fragmentum) – questo
caso risulta particolarmente significativo, poiché l’emblema po-
tenziale (o, meglio, in progress) allestito sul margine dell’aldina
conosce una sua definitiva realizzazione, al di fuori del libro e in
un altro oggetto artistico, proprio nell’espressione simbolica te-
stimoniataci dal codice di Baltimore.
In alcuni casi la ricorrenza di un motivo iconografico in
illustrazioni relative a fragmenta differenti ci consente di rin-
venire più facilmente nessi semantico-tematici tra i compo-
nimenti del Canzoniere. Anche da questo punto di vista la vi-
gnetta di Chatsworth appena analizzata risulta interessante.
Proprio l’immagine di un rogo – e questa volta di un rogo
entro cui arde un fanciullo – compare associata al verso 79
sul margine della canzone 207 («Così di ben amar porto tor-
mento»), un testo che condivide più di un nesso col sonetto
216, compreso il costante ricorrere di Petrarca al concettismo
del fuoco per descrivere la propria implacabile sofferenza
amorosa. Un passaggio, in particolare, conosce una più ma-
nierata elaborazione simbolica, e non a caso è divenuta spes-
so la fonte di espressioni emblematiche o impresistiche. Mi

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VEDEMI ARDER NEL FOCO E NON M’AITA

Fig. 114. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio, 1514, c. 87v.
Devonshire Collection, Chatsworth.

riferisco a quei versi in cui Petrarca assimila l’amante alla mi-


tica salamandra. Come l’animale chimerico e immaginario
che, secondo i bestiari medievali, poteva vivere nel fuoco
senza consumarsi, l’innamorato segue follemente le parados-
sali leggi di Amore e cerca il piacere proprio laddove sa di
trovare solo il tormento. Si consuma per la passione amorosa
ma non può fare a meno di nutrirsi di essa: «L’anima poi
ch’altrove non ha posa, | corre pur a l’angeliche faville; | e
io, che son di cera, al foco torno; | [...] | così dal suo bel vol-
to | l’involo or uno, e or un altro sguardo; | e di ciò inseme
mi nutrisco e ardo. | Di mia morte mi pasco, e vivo in fiam-
me: | stranio cibo, e mirabil salamandra» (vv. 30-40). Questo
motivo iconografico ebbe grande fortuna perché Francesco I
di Francia lo scelse come impresa personale, accompagnan-
dolo con il motto NVTRISCO ET EXTINGVO. Sebbene questi
l’avesse ereditata dal padre, Charles di Valois duca d’Angoule-
me che la portava con l’iscrizione NOTRISCO AL BVONO STIN-
GO EL RE (marchio di un giudice retto, che sostiene l’inno-
cente e castiga il colpevole), l’adozione della “salamandra tra
le fiamme” da parte del sovrano francese venne interpretata
da Paolo Giovio come implicita confessione della dipenden-
za di Francesco I dalle passioni amorose (fig. 115):

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 115. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose,


Lione, Rouille, 1577, p. 29.

il quale come portava la giovenile età sua, mutò la fie-


rezza dell’imprese di guerra nella dolcezza e giocon-
dità amorosa; e per significare che ardeva per le pas-
sioni d’amore, e tanto gli piacevano che ardiva di dire
che si nutriva in esse, portava la salamandra, che stan-
do nelle fiamme non si consuma, col motto italiano
NVTRISCO ET ESTINGVO; essendo propria qualità di
quello animale spargere dal corpo suo freddo humo-
re sopra le bragie, onde aviene ch’egli non teme la
forza del fuoco ma più tosto lo tempera e spegne.352

L’altro grande nodo concettuale, intorno cui si organizza


l’impianto visivo dell’emblema di Baltimore, è rappresentato

352 GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., p. 29. Non diversamente si
esprime Paradin: «Nutrisco & extinguo. La Salemandre avec des flammes de feu, estoit la
Devise du feu noble & manifique Roy François, & aussi au paravant de Charles Con-
te d’Angoulesme son pere. Pline dit que telle beste par sa froidure esteint le feu
comme glace, autres disent qu’elle peut vivre en icelui: & la commune voix qu’elle
s’en paist.Tant y ha qu’il me souvient avoir vù une Medaille en bronze du dit feu Roy,
peint en jeune adolescent, au revers de laquelle estoit cette Devise de la Salemandre
enflammee, avec ce mot Italien: Nudrisco il buono, & spengo il reo. Et davantage out-
re tant de lieus & Palais Royaus, ou pour le jourdhui elle est enlevee, je l’ay vuë aus-
si en riche tapisserie à Fonteinebleau, acompagnee de tel Distique: Ursus atrox, Aqui-
laeque leves, & tortilis Anguis: | Cesserunt flammae iam Salamandrae tuae» (PARADIN, Devi-
ses heroiques et emblemes, cit., pp. 16-17).

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VEDEMI ARDER NEL FOCO E NON M’AITA

dal disinteresse di Laura verso la sofferenza dell’amante. L’at-


teggiamento noncurante è presentato dal poeta come un «fal-
lo», e viene a macchiare la definizione di «Pietà viva» che con-
nota l’amata in più punti di quest’area del Canzoniere. Nel so-
netto 203 Laura è evangelicamente ricordata come fons pietatis
(vv. 7-8: «Se non fusse mia stella, i’ pur devrei | al fonte di pietà
trovar mercede») anche se l’incipit descrive la stessa situazione
relazionale incontrata nel fragmentum 216 («Lasso, ch’i’ ardo, e
altri non me ’l crede»). Nella canzone 207, seppur fra mille
dubbi, il poeta affida ancora alla «sua pietà natìa» la guida del-
la «stanca navicella» della propria vita (vv. 36-40). È però pro-
prio col fragmentum della salamandra (RVF 207), – ossia con la
denuncia da parte dell’io lirico del proprio maggior viluppo
entro la passione erotica – che il vincolo di pietà viene a in-
crinarsi (v. 25: «Se le man di Pietà Invidia m’ha chiuse»). Non
a caso, dopo di ciò, Laura viene ritratta come un aspide che
chiude le orecchie al suono dell’incantatore (RVF 210, 7: «che
sol trovo Pietà sorda com’aspe»). Dopo la stupita e sconsolata
constatazione formulata nell’explicit del nostro sonetto, attra-
verso il fragmentum 217 l’io lirico torna però a confidare in un
«foco di pietà» e si dichiara incapace (almeno nel presente) «di
inclinare verso una soluzione (odio per lei, pietà per sé) che
componga gli opposti o esca dalla ‘guerra’» (Stroppa): «Or non
odio per lei, per me pietate | cerco [...]» (vv. 9-10). Un’illu-
strazione dell’edizione settecentesca Zatta delinea perfetta-
mente questo desiderio del soggetto lirico, visualizzando in
pose melodrammatiche Petrarca che «colla Pietà accanto scac-
cia lungi da Laura l’Odio, da cui era tenuta oppressa» (fig.
116).353 Nell’emblema di Baltimore la figura che accompagna
Laura lontano dall’amante in fiamme non sembra una perso-
nificazione dell’odio o dell’invidia, ma ha invece tutti i tratti di
quell’amor casto, dominato da Pudicizia, che ritorna spesso nei
medaglioni del manoscritto: si noti, ad esempio, il ricorrente
particolare dell’assenza delle ali. Ancora una volta, forse, l’ano-
nimo emblematista ha cercato di tradurre in un dualismo visi-

353 GIACOMELLO-NODARI, Le Rime del Petrarca. Un’edizione illustrata del Settecen-


to, cit., p. 137.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 116. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756.

vo (amor casto e amor profano) il dissidio esistenziale che ali-


menta il dettato poetico petrarchesco in modo ben più com-
pleso e irresoluto. Così facendo, lo ha semplificato funzional-
mente e dotato di un neanche tanto implicito messaggio mo-
ralistico. Così facendo, però, ne ha anche forse còlto l’allusio-
ne scritturale, ed evidenziato la relativa proposta assiologica:

[...] quest’ultima terzina potrebbe alludere al rac-


conto evangelico del ricco finito agli inferi, che ve-
de «a longe» Abramo e il povero Lazzaro assunto in
cielo: la crudeltà della colpa (v. 12) della «Pietà viva»
laurana che non soccorre il suo fedele (vv. 13-14) è
dunque coperta figura, traslata nel codice amoroso,
del padre Abramo che nega «soccorso» (cfr. Lc 16, 24
«miserere mei, mitte Lazarum, ut refrigeret linguam
meam, quia crucior in hac flamma») a colui che, se-
condo le Scritture, a quel fuoco è destinato (cfr. Is
47, 14 «non liberabunt animam suam de manu flam-
mae»).354

354 STROPPA, Commento, cit., p. 361.

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SI NON MEMINERO TUI

Tav. 32

32. Si non meminero tui

Questa sopra depinta medaglia può servire ad


uno amante che avesse la sua diva gelosa di lui e fac-
cia sacramento d’abbrusciare come il fuoco se mai
porrà in oblio il suo amore; servendosi d’un verso
del psalmista come si vede scritto.

L’illustrazione dell’emblema 32 ha come protagonista un


uomo che avvicina le mani a un fuoco divampante tra le pie-
tre; egli volge lo sguardo indietro, dove un amorino alato sem-
bra indicare proprio in direzione del rogo (tav. 32). Come
esplicita la didascalia di commento, l’espressione simbolica in-
tenderebbe visualizzare un atto di giuramento circa la fedeltà
promessa dall’amante all’amata. Il dettaglio iconografico del
fuoco è in sé ambiguo, dal momento che serve ad inferire tan-
to la sacralità dell’impegno preso dall’uomo (nonché l’iperbo-
lica pena di un suo tradimento), quanto la principale forza che
può perturbarne il mantenimento. La figura dell’amorino ala-
to varrebbe dunque da intensificazione di questo secondo pos-
sibile sviluppo degli eventi, opposto al vòto sperato e illustra-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

to. Così delineata, la composizione dell’immagine definisce


una specie di accerchiamento dell’individuo ad opera degli
agenti della passione erotica. Si visualizza qui una delle varie
prigioni dell’anima su cui l’emblematista di Baltimore insiste
scientemente per stigmatizzare i rischi della lussuria. In questa
situazione d’assedio la voce del soggetto emblematico – alter
ego spiritualizzata dell’io lirico petrarchesco? – ricorre alla pa-
rola biblica per proferire con ancor maggior autorevolezza il
proprio giuramento: «adhaereat lingua mea faucibus meis, | si
non meminero tui, | si non praeposuero Ierusalem | in capi-
te laetitiae meae». Il motto è infatti tratto da Salmi 136, 6.
«L’esegesi paleocristiana» – ricorda Mary Carruthers, com-
mentando il testo scritturale – «se da una parte individuava
l’ambientazione storica di questo Salmo nell’esperienza della
Cattività, dall’altra lo legava allegoricamente (per usare l’e-
spressione di Agostino, “lo scioglieva ed estendeva”) alla Città
Celeste rappresentata dalla Nuova Gerusalemme, che i cristia-
ni, esiliati sulle rive dei fiumi che costeggiano la città diaboli-
ca, Babilonia, ricordavano nel pianto ed agognavano come mè-
ta del loro ‘ritorno’ celeste».355 Come insegna la studiosa sta-
tunitense, l’ingiunzione “ad essere memore di” è caratteristica
fondamentale della Bibbia ebraica, e proprio il Salmo 136 è un
testo fondativo per l’arte medievale della memoria, in specie
per quella monastica. In questo canto, che inizia con un pian-
to e termina in una rabbiosa invettiva («Super flumina Babylo-
nis illic sedimus et flevimus cum recordaremus Sion | [...] | fi-
lia Babylon vastata beatus qui retribuet tibi vicissitudinem
tuam quam retribuisti nobis»), si predica infatti un’esperienza
memoriale emotivamente connotata, vòlta a persuadere, susci-
tare emozioni, guidare la volontà. Dobbiamo peraltro notare
che tale esperienza memoriale è situata drammaticamente nel
salmo, entro la cornice di un viaggio (la deportazione del po-
polo di Israele). Questo non è un dettaglio secondario, poiché
uno dei concetti-guida della sancta memoria monastica è pro-
prio quello di ductus, espressione tecnica del fluire della com-

355 MARY CARRUTHERS, Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione del-


le immagini (400-1200), Pisa, Edizioni della Normale, 2006 (I ed. ingl. 1998), p. 104.

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SI NON MEMINERO TUI

posizione retorica, qui còlta però nella funzione cognitiva di


movimento, dinamica che conduce una mente lungo un per-
corso (reale, testuale, spirituale) verso qualcuno dei vari obiet-
tivi che essa si prefigge. La sequenza retorica proposta è infat-
ti status-ductus-skopos.356 L’ottica con la quale è osservato tale
concetto sta nel sottolinearne come essenziale l’implicita di-
mensione volontaristica e soggettiva: è l’immagine di una ten-
sione mentale (nel caso specifico, verso Dio). Durante il Me-
dioevo l’ars memoriae non rimane infatti un’operazione mera-
mente tecnica, bensì vede progressivamente potenziata la pro-
pria dimensione esistenziale di ponte tra il passato e il futuro,
al contempo testimonianza perenne di un vissuto e continua
creazione di un’identità.
Letto nel contesto filigranato della fonte originaria e in-
quadrato nel complesso delle pratiche cognitivo-devozionali
che essa ha nel tempo attivato – il motto dell’emblema divie-
ne forse qualcosa di più di una semplice formula di giuramen-
to, e intende con ogni probabilità intensificare l’impegno del
soggetto nel resistere alle pressioni di eros. L’ottenimento di ta-
le scopo, attraverso un saldo controllo dei sensi adiuvato anche
dalla facoltà memoriale, dovrebbe quindi condurre l’io lirico-
emblematico – novello discepolo di Pudicizia – ad un nuovo
triumphus su Amore.

356 Si veda, a questo proposito, anche il recente volume miscellaneo Rhetoric


Beyond Words. Delight and Persuasion in the Arts of the Middle Ages, a cura di MARY CAR-
RUTHERS, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 2010 (in particolare i sag-
gi di Mary Carruthers, Paul Crossley e William T. Flynn).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 33

33. Vince amor non pur solo huomini e dei

Il trentatreesimo emblema della silloge raffigura una palma,


posta sulla sponda destra di un fiume, nell’atto di piegarsi ver-
so un’altra palma collocata sulla riva opposta (tav. 33). L’ico-
nografia compare anche tra gli Emblemes et Devises di Daniel de
la Feuille (1691), col motto IDEM NOS VNIT (c. 17r, fig. 117).
Paolo Aresi illustra il nucleo concettuale dell’espressione sim-
bolica, riconoscendo a questo vegetale (che campeggia nella
XXXVIII impresa sacra, quella «per Christo Signor Nostro san-
tificante l’anime») un livello essenziale di perfezione prossimo
«all’essere de gli animali», e giungendo quasi ad attribuirgli un
«senso, et affetto amoroso». Questa pianta – afferma con l’au-
torità degli Antichi (a cui Aresi associa anche quella di Pierio
Valeriano) – conosce infatti la distinzione di sesso «come negli
animali accade»; e, come in questi, non solo la palma-femmina
è differente dalla palma-maschio, «ma eziandio l’uno senza del-
l’altro rimane sterile»:

Aggiungono altri appresso all’istesso [Valeriano,


n.d.r.] che la palma femina si attrista molto per il

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VINCE AMOR NON PUR SOLO HUOMINI E DEI

Fig. 117. DANIEL DE LA FEUILLE, Devises et emblemes,


Augsburg, Kroninger und Goebels, 1697, c. 17r.

desiderio del maschio assente, e verso di quello ho-


ra spinge le radici et hora inchina la cima; et accio-
ché frutti faccia, essere necessitato il lavorante di
trovar un mezzano, il quale tocchi et abbracci la
palma maschio, e dipoi andando alla femina l’ab-
bracci, e colle mani palpeggi, overo che prenda i
fiori delli maschi, e sopra la cima della femina li ri-
ponga, che lieta di questo pegno et ornamento ma-
ritale sarà fruttifera. Graziosa cosa racconta pari-
mente Filostrato, che essendo una palma femina
piantata dal lato di un fiume, et il maschio dall’al-
tro, distesero i rami l’una verso dell’altra, che insie-
me si congiunsero, e vennero a formare come un
ponte sopra dell’acque.357

Anche Giulio Cesare Capaccio ricorda il racconto di


Filostrato, e visualizza quindi in tal forma (verbalmente, a

357 ARESI, Imprese sacre, cit., libro IV, impresa XXXVII, p. 141. Sulla scorta di ta-
le concettismo, Ferro ne descrive un’applicazione configurata proprio come l’emble-
ma di Baltimore: «Ci è maschio e femina; questa è sterile se non viene ella piantata vi-
cino alla pianta maschio, che all’hora si mostra feconda; sopra che fu fatta impresa di
Hermete Stampa, dopo essere lui stato prelato, essendo creato marchese di Soncino, et
avendo preso moglie, figurò egli due palme, maschio e femina, dove prima aveva il pe-
licano, e diede loro motto MVTVA FAECVNDITAS» (FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 536).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

dire il vero, più che iconicamente) il concettismo delle


due palme, prospettando così un’espressione impresistica,
d’impiego prettamente matrimoniale, che funge da cele-
brazione del desiderio comune e della fede reciproca tra
gli sposi:

Se le nozze avessero voluto dinotare, pingeano


due palme, delle quali l’una chiamavano maschio
e l’altra femina, che quando sono in due rive
piantate, in modo vanno insieme a congiungersi,
che in Filostrato si legge aver una volta fatto un
ponte sopra un fiume; [...]. Il che, oltre alla va-
ghezza, darà materia de’ motti, quando simile im-
presa vorrà fabricarsi alcuno. Ché già quando si
celebrarono le nozze dell’Infante col Duca di Sa-
voia, per l’incontro che tra lo sposo e la sposa si
fece, fu fatta quest’impresa, e dal verso del Ponta-
no, vi giunsero il motto, HAVSERE VENIS SITIEN-
TIBVS IGNEM, che potrà esser materia di tutti quei
che, calandosi di lontano, vanno a condurre le
mogli.358

La fecondità della palma-femmina, acquisita in seguito al-


l’avvicinamento alla palma-maschio, inferisce dunque implici-
tamente il trasferimento di qualità morali e intellettuali da par-
te di un soggetto che ne è ricco, verso uno che ne risulta ca-
rente. Filippo Picinelli sviluppa l’immagine, fornendogli una
più ampia spendibilità moralistica:

Ritrovandosi la pianta della palma scompagnata


e sola, resta sterile; ma quando vicino se le trova l’al-
bero maschio di palma, divien feconda. Che però in
nozze due palme vicine ebbero il motto MVTVA
FOECVNDITAS, o veramente PROXIMITATE FOECVN-
DITAS; e può questo secondo motto adattarsi a di-
mostrare che l’assistenza d’un virtuoso rende abili a

358 CAPACCIO, Trattato delle imprese, II, cit., p. 129.

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VINCE AMOR NON PUR SOLO HUOMINI E DEI

dar frutti di virtù, anco i cuori più sterili ed infe-


condi.359

Nel caso dell’emblema di Baltimore, come sempre, l’interpre-


tazione del messaggio deve scaturire dalla negoziazione tra la
stratificata iconologia della pictura e il senso originario del motto.
Quest’ultimo è còlto, con minime variazioni, da RVF 239, 19-20
(«Ómini e dèi solea vincer per forza | Amor [...]»), dove a sua
volta Petrarca cita da Ovidio (Amores I, 2, 37: «his tu militibus su-
peras hominesque deosque») – magari con la mente rivolta an-
che a Virgilio (Buc. IV, 69: «Omnia vincit Amor, et nos cedamus
Amori») –, e lo fa peraltro esibendo la natura citazionale del pro-
prio verso (v. 20: «[...] come si legge in prose e ’n versi»). Il nu-
cleo concettuale che l’espressione simbolica dispiega è dunque
quello dell’onnipotente forza di Amore, tema ricorrente in più di
un emblema della raccolta, ma soprattutto condiviso dall’intera
decade entro cui si colloca la sestina 239.360 Questa decade, pro-
prio per l’influsso di tale nucleo concettuale, viene adombrata da
una visione marcatamente pessimistica, nella quale ancora una
volta «l’amore diventa un potere dispotico che conduce la nave
dell’io verso il luogo del proprio naufragio». Il dominio di Eros
si estende all’umanità intera, ma «non sembra affatto riguardare la
persona di Laura, che né corrisponde all’amore né fa morire chi
la ama».361 Di fronte alla sua ritrosia nulla possono le faretre di
Cupido, né tanto meno le «lagrime» e le «soavi note» attraverso

359 PICINELLI, Mondo simbolico, IX, 23, cit., p. 293. La “fecondazione” morale per
contiguità, qui postulata, viene inquadrata da Aresi nel contesto della relazione didat-
tico-pedagogica che per intercessione del predicatore lega i santi ai fedeli: «Finalmen-
te ci sono a guisa di scalini i santi co’ loro esempi, esortazioni, orazioni et aiuto, che
perciò diceva l’Apostolo Imitatores mei estote, sicut et ego Christi, e per mezzo del profe-
ta Osea l’istesso Dio, Propter hoc dolevi in Prophetis, et occidi eos in verbis oris mei, cioè per
dar esempio a voi, e per ridurvi alla buona strada, ho squadrato e tagliato i miei pro-
feti, e mandandoli a predicare sono stato occasione della loro morte. Che se i fiori di
palma maschio hanno virtù di fecondar la femina, gli esempi de’ giusti devono aver
forza di tòrre a noi la sterilità [...]».
360 Queso emblema non è corredato da un vero e proprio commento, poiché la
relativa didascalia si interrompe dopo la sola parola «Trovasi».
361 MICHELANGELO PICONE, La forza di Amore e il potere della poesia (RVF
231-40), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit., pp. 501-518, cit. alle pp.
502 e 517.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

cui l’amante-poeta cerca di «temprar [...] i suoi sospiri». Acco-


stando adynata strofe dopo strofe, Petrarca sancisce impietosa-
mente la vanità della propria sofferenza amorosa, nonché l’auto-
referenzialità del progetto lirico che tale sofferenza è chiamato, se
non a risolvere, almeno a raccontare, e dunque a rendere com-
prensibile. La sensibilità di Laura verso i suoni dei sospiri potrebbe
infatti realizzarsi solo in concomitanza con un radicale rivolgi-
mento della natura, in seguito a un letterale rovesciamento del
globo (v. 10: «Ma pria fia ’l verno la stagion de’ fiori»); la sua re-
sistenza alle richieste dell’amante non dovrebbe essere quella di
un personaggio poetico (v. 16: «Ella si sta com’aspr’alpe a l’aura»);
la parola poetica dovrebbe sempre sapere tener fede alla propria
fama (vv. 28-30: «Nulla al mondo è che non possano i versi; | e
li aspidi incantar sanno in lor note, | nonché ’l gelo adornar con
novi fiori»); anche, e soprattutto, quando contro di noi si accani-
sce la «ria fortuna» (v. 36: «e col bue zoppo andrem cacciando
l’aura»).362 Diversamente (e quindi, nella realtà dei fatti), l’io liri-
co è condannato a una continua riattualizzazione rituale dei pro-
pri ricordi, e a perpetuare il proprio moto euforico-disforico en-
tro uno spazio d’azione circolare (v. 10: «Ma pria fia ’l verno la
stagion de’ fiori»; vv. 28-30: «possano i versi [...] ’l gelo adornar
con novi fiori»; v. 37: «In rete accolgo l’aura, e ’n ghiaccio i fio-
ri»: incredulità-illusione-delusione); è prigioniero di quel sisifeo
sforzo di costruzione di sé, che il sistema formale e concettuale
della sestina incarna splendidamente.363

362 Sulla funzione degli adynata in questa sestina e nell’intero Canzoniere si ve-
dano: JOSEPH G. FUCILLA, Petrarchism and the Modern Vogue of the Figure adunaton, «Zeit-
schrift für romanische Philologie», LXVI (1936), pp. 671-681; KATHARINA MAIER-
TROXLER, “In rete accolgo l’aura, e’n ghiaccio i fiori”: zur Adynata-Häufung in Petrarcas Se-
stine “Là ver’ l’aurora” (Canzoniere, CCXXXIX), «Romanische Forschungen», XCIII
(1981), 3-4, pp. 372-382.
363 Cfr. SHAPIRO, Hieroglyph of Time. The Petrarchan Sestina, cit., p. 88: «The ady-
naton, then, in its close relation to Petrarch’s sestina, denotes a substantial stoppage and
reverse movement of nature, whereas in the poem it furnishes end-stoppage for what
would otherwise be a perpetual linear movement of cycles. Time, in substance, is lin-
ear – in any poem and in the referential context of the Christian poet. Its movement
will, therefore, produce history and novelty. Wheter or not it appears in final position,
the adynaton predicts an end. In this respect it epitomizes Platonic desire superseded
by Christian reality. It would be a trivialization of the problem not to note that the
adynata bespeak a conspicuous absence of God».

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VINCE AMOR NON PUR SOLO HUOMINI E DEI

Cosa resta di tale complessità nel riuso emblematico del


passaggio testuale? Forse poco. A prima vista, e complice an-
che l’aggiustamento della lezione del verso, il motto sembra
confermare in modo piuttosto didascalico l’estensione del do-
minio di Amore anche al mondo vegetale, dove pure le piante
così come ogni essere animato sfidano il possibile (e il credibi-
le) per andare incontro alle esigenze del desiderio. La pianta in
questione è però la palma, e il suo status di, non secondaria, fi-
gura Christi condiziona il senso degli usi simbolici che di essa
si fanno. Anche la pur breve rassegna di occorrenze impresisti-
che proposta risulta in tal senso significativa. L’immagine del
sentimento (e perfino dell’atto) amoroso da esse fornita è in-
fatti quella virtuosa del casto amore coniugale vòlto alla pro-
creazione; immagine intesa quale derivazione di quella unica
ed esemplare immagine dell’amore spirituale infuso da Dio
agli uomini attraverso la Parola espressa dai profeti. Quell’a-
more, che vince «non pur sol huomini e dei» ma perfino le
piante, potrebbe dunque essere inteso come l’amore cristiano.
E da questo punto di vista l’emblema verrebbe plausibilmente
a collocarsi accanto a tutte le altre espressioni simboliche (so-
prattutto di matrice trionfale) che lungo la raccolta propongo-
no una revisione moralistica del motivo classico dell’omnia vin-
cit Amor. Lo stesso motto, con la sua revisione della lezione pe-
trarchesca, sembra rivelare questo strato di memoria poetica,
andando a segnalare un ulteriore scatto nella progressione di
dominio già dichiarata da Petrarca nel primo capitolo del
Triumphus Cupidinis: «ché non uomini pur, ma dèi gran parte |
empion del bosco e de gli ombrosi mirti» (vv. 149-150, corsi-
vo mio).
Così riconfigurato, potremmo a questo punto collocare di
nuovo il verso-motto entro il contesto della sestina petrar-
chesca, entro la rete intertestuale che crea con i fragmenta ad
essa contigui, ed entro la più generale riflessione sulla (pro-
pria) poesia e sulle sue possibilità, che Petrarca ci consegna
nel componimento 239. Affermare che non è più possibile, o
al limite è inutile, parlare di amore «come si legge in prose e
’n versi» – e, in tal forma, riuscire a comunicare con l’altro e
ritrarre se stessi – potrebbe allora voler dire che è necessario
modificare l’oggetto del proprio dire. Ossia, con un occhio

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A. TORRE, VEDERE VERSI

alla palma piegata, che è necessario parlare di un un altro ti-


po di amore. L’impasse esistenziale e poetico denunciato dal-
la sestina 239 sembra allora, sotto questo punto di vista, il
correlativo oggettivo dello stato di difficoltà (e, insieme, del-
lo stato di difficoltà a comprendere tale difficoltà) che, nei
primi sonetti della decade (231 e 233), il poeta esprime at-
traverso il motivo simbolico della malattia degli occhi. Que-
sto disturbo (RVF 231, 7: «tal nebbia [...] sì gravosa e bruna»)
colpisce prima Laura e poi contagia anche il poeta-amante
(233, 9-10: «ché dal destr’occhio, anzi dal destro sole, | de la
mia donna al mio destr’occhio venne»).364 Così come in-
comprensibile risulta all’io lirico l’impotenza della parola
poetica di fronte all’indifferenza di Laura (v. 28: «Nulla al
mondo è che non possano i versi»), ugualmente indecifrabi-
le appare a lui la volontà divina di acconsentire alla sofferen-
za oculare dell’amata (e, di riflesso, a quella dell’intero mon-
do che vive sotto la sua luce): «ma Tu come ’l consenti, o
sommo Padre, | che del Tuo caro dono altri ne spoglie?»
(231, 13-14). Sul senso di tale doppio (e correlato) impasse ha
riflettuto Michelangelo Picone, rispondendo al quesito, che
Petrarca rivolge a sé stesso e a noi, in un modo non molto
differente da quello scelto dall’emblematista di Baltimore per
riscrivere simbolicamente il senso della sestina 239:

Gli occhi malati di Laura, oltre ad impedire che


la storia d’amore prosegua nel suo corso normale,
sembrano infatti manifestare una presunta discre-
panza fra la Natura (che ha provocato tale affezione)
e Dio (che non avrebbe dovuto acconsentire che
ciò accadesse). In realtà, però, Dio e la Natura ope-
rano in perfetta armonia. Quello che l’io lirico non

364 Suggestiva è a proposito la lettura di Stroppa: «Il ‘contagio’ del vulnus passa
dall’occhio destro all’occhio destro, come i vv. 9-10 con triplice iterazione simbolica-
mente sottolineano: non avviene dunque in modo speculare (nel senso, cioè, che per-
metteva ad Amore di aprire all’amante il lato sinistro con la mano destra in 228, 1-2),
né quindi per contatto o emanazione fisica, ma per trasmissione spirituale: simile a
quella per la quale, nell’iconografia, san Francesco riceve sul lato destro del petto la
medesima ferita aperta sul fianco destro del Cristo apparso in forma di serafino»
(STROPPA, Commento, cit., p. 379).

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VINCE AMOR NON PUR SOLO HUOMINI E DEI

capisce è che l’azione compiuta dalla Natura è vol-


ta a dimostrare la terrestrità, e quindi la caducità,
dell’oggetto del desiderio. Se riuscisse a comprende-
re ciò, l’io raddrizzerebbe l’asse della propria tensio-
ne amorosa dall’oggetto terreno all’Oggetto celeste,
dalla donna a Dio.365

365 PICONE, La forza di Amore e il potere della poesia (RVF 231-40), cit., p. 504.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Tav. 34

34. Et a me pose un dolce giogo al colo

L’immagine dell’emblema 34 rappresenta i protagonisti fonda-


mentali della situazione amorosa elaborata simbolicamente nei
documenti della raccolta. Una figura femminile (l’amata-vittorio-
sa) pone un giogo al collo di un uomo (l’amante-vinto) sotto lo
sguardo di un deferente Cupido sdraiato fra i due (tav. 34). Il mo-
tivo del giogo ricorre spesso tanto nella produzione emblemati-
co-impresistica quanto in quella letteraria.
DOVCE LA PEINE QVI EST ACCOMPAGNÉE è il motto con
cui Maurice Scève inquadra la devise LXXXVII della Dé-
lie, che ci consegna l’immagine di due tori che trascina-
no insieme il medesimo aratro.366 Non diversamente, Pi-

366 MAURICE SCÉVE, Délie. Objet de plus haute vertu, LXXXVII, a cura di
FRANÇOIS CHARPENTIER, Paris, Gallimard, 1984, p. 100. Cfr. a proposito DOROTHY
GABE COLEMAN, An illustrated Love «Canzoniere». The Délie of Maurice Scève, Genève-
Paris, Slatkine, 1981, p. 22: «Emblem writers in the second half of the sixteenth cen-
tury used the same kind of picture but drew different morals from it: for example
Sambucus sees it as an object lesson in learning to tackle each task in its proper sea-
son. Hadrian Junius on the other hand uses it to illustrate his title “Sero detrectat onus,
qui subit”. Scève’s motto seems to have been suggested by a proverbial saying com-
mon in Italian poetry which has been given a slightly different twist by him».

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ET A ME POSE UN DOLCE GIOGO AL COLO

cinelli ricorda che Bargagli si valse proprio «del giogo (che


vuol esser da due giumenti portato e sostenuto) per sim-
bolo di matrimonio, e gli soprapose NON BENE AB VNO,
concorrendo egualmente lo sposo e la sposa (che appun-
to dai giuristi son chiamati “iugali”) a sostenere i suoi pe-
si».367 La stessa impresa viene citata e riprodotta da Gio-
vanni Ferro che al significato del vincolo coniugale crea-
to dal matrimonio affianca però anche quello più ampio
del servitium amoris indotto dal desiderio erotico: «Ma
l’huomo viene prima dal proprio volere legato poiché,
preso dall’amore di alcuna, fa a sé stesso legge dell’altrui
piacere, il che viene da molti stimato felicità, da molti mi-
seria».368 Il parallelismo è didascalicamente rappresentato
da Giorgio Camerari in un quadretto dei suoi Emblemata
amatoria, dove una coppia di tori vincolati fra loro dal gio-
go è posta accanto a una coppia di amanti legati in un
abbraccio (fig. 118). Un’altra efficace illustrazione di que-
sta accezione più generale del concettismo è anche l’im-
magine che ritrae un amorino mentre doma un toro ap-
plicandogli al collo il giogo che lo lega all’aratro (fig. 119).
Attraverso questa iconografia, negli Amorum Emblemata,
Vaenius intende ribadire il topico motivo dell’onnipoten-
za di Amore, che con pazienza (PEDETEMPTIM è infatti il
motto) riesce ad assuefare a sé anche gli animi più fred-
di e timorosi («Ac veluti primo taurus detrectat aratra, |
Post venit assueto mollis ad arva iugo: | Sic primo iuve-
nes trepidant in amore feroces, | Post domiti, mites aequa
et iniqua ferunt»).369 In tale pervicacia risiede, ovviamen-
te, anche la forza del messaggio cristiano, che libera gli uo-
mini dal peccato originale, rendendoli servi di Dio. NVL-
LVS LIBER ERIT, SI QVIS AMARE VOLET sarà pertanto l’ovvia
sentenza che accompagna la traduzione spirituale di que-
sto motivo negli Amoris Divini Emblemata dello stesso au-
tore, ossia l’immagine di un amorino celeste che pone
questa volta il giogo sul collo dell’anima umana (fig. 120).

367 PICINELLI, Mondo simbolico, XIV, 7, cit., p. 537.


368 FERRO, Teatro d’imprese, cit., p. 368.
369 VAN VEEN, Amorum Emblemata, cit., pp. 26-27.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 118. GIORGIO CAMERARI, Emblemata amatoria,


Padova, Tozzi, 1627, p. 57.

Fig. 119. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata,


Antwerp, s.e., 1608, emblema 14.

La subscriptio dell’emblema, redatta attraverso il richiamo


di auctoritates patristiche, gioca sulla paradossalità della re-
ligio tra umano e divino, ricorrendo allo stesso insistito
impiego dell’ossimoro che, vedremo, caratterizzerà anche
la fonte petrarchesca dell’emblema di Baltimore: «O iu-
gum sancti Amoris, quam dulciter capis, gloriose laqueas,

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ET A ME POSE UN DOLCE GIOGO AL COLO

Fig. 120. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata,


Antwerp, Nutl & Morsl, 1615, p. 86.

suaviter premis, delectanter oneras, fortiter stringis, pru-


denter erudis».370
Veniamo ora a Petrarca. L’impiego della metafora del gio-
go all’interno del Canzoniere è frequente e spazia dal contesto
politico della canzone 28 (vv. 61-65: «Dunque ora è ’l tempo
da ritrare il collo | dal giogo antico, e da squarciare il velo |
ch’è stato avolto intorno agli occhi nostri, | e che ’l nobile in-
gegno che dal cielo | per grazia tien’ de l’immortale Apollo»)
all’atmosfera di pentimento spirituale rispetto alle perturbationes
erotiche che ammanta il sonetto-preghiera 62 (vv. 10-11: «ch’i’
fui sommesso al dispietato giogo | che sopra i piú soggetti è
piú feroce»). La ritroviamo poi, in sintagmi più o meno arti-

370 VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, cit., pp. 86-87. Nello stesso contesto te-
matico Claude Paradin ricorda che all’immagine di un giogo stillante olio e alla pa-
rola SVAVE (da Mt. 11, 30: «Iugum enim meum suave est») ricorre papa Leone X de’
Medici per esprimere in impresa tutta la propria compiaciuta obbedienza alla Chiesa:
«Putrescet iugum. Le Ioug pourrira par l’huile (dit Isaye, prophetisant la liberté spir-
ituelle) par l’avenement de Iesu Christ. [...] Car à ce Iubilé spirituelles [...] les serfs as-
savoir, les hommes vendus, par peché, sont deschargez de ce Ioug servile par Iesu
Christ: vray huile de misericordie, de joie, et de grace» (PARADIN, Devises heroiques et
emblemes, cit. pp. 146-147).

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A. TORRE, VEDERE VERSI

colati, nel quadro dell’analisi della propria vicenda amorosa


compiuta dall’io lirico: in RVF 80 (vv. 5-6: «Amor, con cui
pensier mai non amezzo, | sotto ’l cui giogo già mai non re-
spiro»), in 270 (vv. 1-2: «Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo an-
tico, | come par che tu mostri»), in 355 (v. 12: «né dal tuo gio-
go, Amor, l’alma si parte»), nonché ovviamente, con la già sot-
tolineata elaborazione ossimorica del tema, nella fonte del no-
stro motto, il sonetto 197 (v. 3: «e a me pose un dolce giogo al
collo»).371
«Con 197 si giunge all’immobilità della pietrificazione,
contrapposta al movimento dell’aura», afferma Cesare Segre.372
Ogni strofe insiste infatti su varianti del concetto di immobi-
lizzazione per descrivere gli effetti dello spirare dell’«aura cele-
ste» intorno e dentro all’io lirico. L’aggiogamento del sogget-
to (vv. 3-4) è, ad esempio, il risultato dell’azione congiunta di
più forze o, meglio, dell’azione di un’unica forza che si dif-
frange in più identità. Se osserviamo in sequenza gli incipit del-
la serie – RVF 194 («L’aura gentil, che rasserena i poggi»), 196
(«L’aura serena che fra verdi fronde») e 197 («L’aura celeste che
’n quel verde lauro») – assistiamo infatti a un moto di progressi-
vo avvicinamento tra l’elettivo emblema vegetale dell’amata e

371 Cfr., a proposito di quest’ultimo testo, STEFANO CARRAI, I primi testi autogra-
fi del Vaticano 3195 (RVF 190-200), in Il Canzoniere. Lettura micro e macrotestuale, cit.,
pp. 433-447, in part. p. 441: «Gli effetti del sentimento amoroso sono resi qui mediante
una breve serie di veri e propri supplizi: dal giogo al collo dell’innamorato privato del-
la propria libertà all’anima presa al laccio e legata al cuore che agghiaccia e al volto
che sbianca dalla paura. E soprattutto si tenga presente il parallelo fra la punizione di
Atlante impietrito dallo sguardo di Medusa e quella dell’amante cui gli occhi di Lau-
ra hanno il potere di trasformare in marmo il cuore e il viso».
372 CESARE SEGRE, I sonetti dell’aura, in ID., Notizie dalla crisi, cit., pp. 43-65, cit.
a p. 48. Sul ciclo dell’aura si vedano anche: ANGELO ROMANÒ, I sonetti dell’aura, «L’Ap-
prodo», II (1953), pp. 71-78; GIANFRANCO CONTINI, Prehistoire de l’“aura” de Pétrarque
(1957), in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Ei-
naudi, 1970, pp. 193-199; BEATRICE SPAGGIARI, Il tema “west-östlicher” dell’aura, «Studi
medievali», s. II, XXVI (1985), pp. 185-291; GIUSEPPE CHIECCHI, “Itinerarium mentis ad
Lauram”. Ancora sui sonetti dell’aura, in Studi in onore di Vittorio Zaccaria in occasione del
settantesimo compleanno, a cura di MARCO PECORARO, Milano, Unicopli, 1987, pp. 89-
106; ANDREAS KABLITZ, Die Herrin des «Canzoniere» und ihre Homonyme, «Romanische
Forschungen», CI (1989), pp. 14-41; LUCIANO ROSSI, Per la storia dell’«Aura», «Lettere
italiane», XLII (1990), pp. 553-574; BEATRICE SPAGGIARI, Encore sur le theme de l’“au-
ra”, in Etudes de langue et de littérature médiévales offertes à Peter Ricketts, a cura di DOMI-
NIQUE BILLY e ANN BUCKLEY, Turnhout, Brepols, 2005, pp. 717-726.

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ET A ME POSE UN DOLCE GIOGO AL COLO

il suo omofono medium aereo col poeta-amante; moto che


conduce nel nostro sonetto all’identificazione della mirabile
sede laurana «ov’Amor ferì nel fianco Apollo» (v. 2). Il «dolce
giogo» sembra allora ramificarsi dal «collo» (in forma di «chio-
me» che il chiasmo evidenzia come «laccio») e «soavemente le-
gare e stringere» non solo l’intero corpo ma anche l’«alma», sic-
ché il soggetto non riesce più a liberarsi («dar crollo») da tali
vincoli e diviene in tutto e per tutto simile ad Atlante («gran
vecchio mauro»), trasformato «in selce» da Medusa. Il massimo
della rarefazione («l’aura», «l’ombra») genera dunque il massi-
mo della matericità («selce», «marmo»). L’estrema leggerezza
crea un’immobilità assoluta. L’isotopia che in punti strategici
del romanzo lirico (RVF 23, 51, 129, 135 243, 323, 366) iden-
tifica l’agens per contrasto rispetto all’oggetto del suo desiderio
(pietra: Petrarca) vede qui il proprio significato e il proprio va-
lore intensificati dalla presenza del dettaglio del giogo, con-
giuntamente al quale offre un ritratto simbolico omotematico
della causa e dell’effetto della vicenda amorosa.
Vediamo come questo snodo semantico viene affrontato
dalle principali esperienze di visualizzazione del Canzoniere.
Antonio Grifo sceglie di visualizzare solo uno dei due com-
ponenti di questo ritratto, l’imponente monte contro cui (e
quasi, dentro al quale) il vento della passione spinge il pitto-
gramma del libro (c. 76r, fig. 121). L’autore dell’incisione che
accompagna il sonetto nell’edizione Zatta delle Rime pone in-
vece l’accento dell’illustrazione sul motivo di Amore che «im-
pone al Collo del Petrarca un Giogo formato di un Ramo
d’Alloro». L’immagine raffigura infatti un Cupido cieco e fa-
retrato che, con gesto assai simile a quello degli amorini di Vae-
nius, aggioga il poeta seduto su una pietra all’ombra di un lau-
ro (fig. 122).373 L’anonimo emblematista di Baltimore propo-
ne un’ulteriore interpretazione del concettismo, tralasciando i
motivi dell’aura e della pietra, e costruendo l’intera immagine
intorno al dettaglio iconografico del giogo. È la stessa amata
(con ogni probabilità la Laura-Pudicizia degli emblemi di ma-
trice trionfale) che “imprigiona” l’amante; e questo suo sosti-

373 GIACOMELLO-NODARI, Le Rime del Petrarca. Un’edizione illustrata del Settecen-


to, cit., p. 133.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 121. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spira, 1470, c. 76r.
Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.

Fig. 122. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756.

tuirsi ad Amore (posto ai suoi piedi e quasi calpestato) ci rive-


la forse il carattere primariamente matrimoniale del vincolo
amoroso rappresentato. La dislocazione del simbolo erotico ai
margine della scena lascia infatti intendere l’emblema come
una celebrazione dell’amor coniugale, e induce a presumere
che dopo aver legato l’uomo a uno dei due lacci del giogo, la
stessa amata si sottometterà all’altro per condividere il peso col
compagno.

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Tav. 35

35. Habitabunt recti cum vultu tuo

L’ultimo emblema del manoscritto di Baltimore raffigura


un uomo, mezzo nudo e seduto su una specie di trono, che ri-
ceve preziosi doni da altri tre personaggi (tav. 35). L’iconogra-
fia non è nuova nel quadro generale dell’illustrazione di codi-
ci e volumi a stampa, e viene spesso impiegata come visualiz-
zazione dell’atto di dedica attraverso cui l’autore offre la pro-
pria opera a un più o meno identificato destinatario. Ne tro-
viamo, ad esempio, un’occorrenza in un capolettera miniato
del codice Barb. Lat. 122, c. 1r, conservato presso la Biblioteca
Apostolica Vaticana, che segna l’incipit dei Factorum et dictorum
memorabilium di Valerio Massimo (fig. 123). Un analogo im-
pianto compositivo caratterizza anche una xilografia che mo-
stra un sovrano seduto su di un trono in atto di ricompensare
con una collana d’oro un letterato che gli porge un libro sot-
to lo sguardo di altre tre figure virili. Questa xilografia è inse-
rita da Anton Francesco Doni in un passaggio del primo libro
dei Marmi (1552-1553), ma dallo stesso autore viene già uti-
lizzata nella Zucca (1551-1552) e, ancora prima, è impiegata dal
sodale Francesco Marcolini ne Le sorti intitolate giardino d’i pen-

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 123. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat. 122,
VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium, c. 1 (capolettera miniato).

sieri (1540). In quest’ultima opera l’immagine è legata al que-


sito «Qual sarà meglio pigliar la moglie bella over brutta», e
forse intende inferire i possibili vantaggi economici raggiun-
gibili attraverso il matrimonio. Nella Zucca l’illustrazione ac-
compagna le dediche dei Cicalamenti, delle Baie e delle Chiac-
chere, quale eco figurativa dell’atto di omaggio realizzato in ta-
le soglia paratestuale (fig. 124).374 Nei Marmi essa è invece col-
locata all’interno del seguente passaggio dialogico tra Ciano,
Pandolfino e Lorenzo Scala, incentrato sulla relazione di mu-
tuo sostegno tra letterato e signore:

LOR. Perché gli huomini sono tutti impastati


d’avarizia e d’ignoranza, e non di virtù e di no-
biltà. Che sì che dai gentili e virtuosi principi e
da’ mirabili gentilhuomini ancora voi riceverete
da loro ciò che volete con eloquenza e con dot-

374 Per cui cfr. ELENA PIERAZZO, Iconografia della «Zucca» del Doni: emblematica,
ekphrasis e variantistica, «Italianistica», XXVIII (1998), 3, pp. 403-425, in part. p. 421.

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Fig. 124. ANTON FRANCESCO DONI, La zucca,


Venezia, Marcolini, 1551-1552, c. A7r.

trina! [...] PAN. [...] I libri sono frategli carnali di


questa nobiltà. Quando sono pieni d’un bel nu-
mero dolce di dire, d’un’eloquenza suave e d’una
dotta materia e mirabile, l’huomo non se gli sa
tuor di mano. L’eloquenza con una mano (o per
dir meglio gl’uomini eloquenti) porgano i lor lib-
ri e dall’altra ricevano le catene d’oro. Onde per
far pari la nostra lite con Ciano, diremo, per far-
gli piacere, che un huomo eloquente ha quanto
tesoro egli vuole.375

Il significato dell’immagine non sembra dunque variare


considerevolmente da un suo riuso all’altro, poiché in tutti
questi testi essa si offre come rappresentazione allegorica del-
l’idea di beneficio. Proprio BENEFICIO è d’altronde la dicitura

375 ANTON FRANCESCO DONI, I marmi, parte I, Venezia, Marcolini, 1552-1553,


p. 91. Su quest’opera doniana si veda ora I Marmi di Anton Francesco doni: la storia, i ge-
neri e le arti, a cura di GIOVANNA RIZZARELLI, Firenze, Olschki, 2012.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

che accompagna l’illustrazione nella tavola marcoliniana:376 «i


gesti, la catena retta contemporaneamente dal sovrano e dal
letterato, sottolineano lo scambio e quindi il vicendevole lega-
me che unisce il ricco monarca al povero letterato (modesta-
mente vestito e a piedi nudi)» (fig. 125).377 Enrico Parlato os-
serva opportunamente che la «regalia del sovrano sembra assi-
milabile ai collari cavallereschi, spesso esibiti nei ritratti rina-
scimentali»;378 e, a questo proposito, ricorda quella donata da
Francesco I a Pietro Aretino, immortalata nel ritratto di questi
eseguito da Tiziano nel 1545.379 In un passaggio della Nuova
opinione sopra le imprese amorose e militari Anton Francesco Do-
ni descrive la catena secondo la lente del decifratore di impre-

376 Analizzando nel dettaglio, e sulla scorta di un sinottico quadro comparativo,


la migrazione delle illustrazioni delle Sorti entro la vasta produzione doniana, Giorgio
Masi osserva che «private della didascalia che nel libro delle Sorti rende le allegorie,
propriamente, degli embemi (come quelli dell’Alciato) [queste immagini] diventano
tutt’altro nei libri doniani, in seguito a procedure caratteristiche di adattamento reci-
proco fra testo e immagine. [...] Una distribuzione così vistosamente difforme dimo-
stra che la riutilizzazione non era stata affatto casuale, che c’era un legame stretto fra
la natura (e la genesi) dell’opera e la scelta delle figure, e che attraverso il corredo ico-
nografico si intese dare un’impronta individuale a ciascun libro. La Zucca dovette es-
sere illustrata con le allegorie da un lato per la varietà degli argomenti che essa pro-
pone, dall’altro per le numerose situazioni “esemplari” che ricorrono nelle prime tre
parti del libro e che danno luogo a libere divagazioni morali» (GIORGIO MASI, Le ma-
gnifiche sorti delle immagini, in Studi per le «Sorti». Gioco, immagini, poesia oracolare a Vene-
zia nel Cinquecento, a cura di PAOLO PROCACCIOLI, Treviso-Roma, Edizioni Fondazio-
ne Benetton Studi e Ricerche-Viella, 2007, pp. 139-156, in part. pp. 140-142).
377 ENRICO PARLATO, Le allegorie nel giardino delle «Sorti», in Studi per le «Sorti»,
cit., pp. 113-137, cit. a p. 135. Parlato aveva già affrontato l’analisi dell’immagine del
Beneficio quale caso significativo per attribuire la realizzazione delle allegorie marco-
liniane a Lambert Sustris: «Altrove il modello compositivo va individuato in quel gran-
de serbatoio di espressioni e di “affetti” che per secoli, ma soprattutto nel Cinquecen-
to, sono state le Logge vaticane. Nel Beneficio, in particolare, la figura inginocchiata
che dona il libro al sovrano e riceve in premio una catena riecheggia idee raffaelle-
sche filtrate dalle composizioni all’antica di Polidoro: le facciate dipinte di palazzo
Lancellotti o di palazzo Milesi a Roma, adesso tràdite dai disegni dell’artista lombar-
do. Così gli ampi cappelli frigi indossati dai cortigiani sulla sinistra, le erme satiresche
che sostengono il baldacchino (la seconda si intavede appena sullo sfondo), la sfinge
che affianca il trono, conferiscono alla xilografia un accentuato sapore antiquario e ro-
manizzante. Un’analisi che potrebbe ben attagliarsi alla formazione romana e raffael-
lesca di Sustris» (Ibidem, p. 128).
378 Ivi.
379 Sul quale cfr. FRANCESCO MOZZETTI, Tiziano. Ritratto di Pietro Aretino, Mo-
dena, Panini, 1996.

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Fig. 125. FRANCESCO MARCOLINI, Le sorti intitolate giardino d’i pensieri,


Venezia, Marcolini, 1540, p. 15.

se, e immagina perfidamente la lettera di accompagnamento


che il sovrano francese avrebbe allegato a questo dono:

L’Aretino, mala lingua, fece ancora lui un’impresa


d’una borsa, ed in cambio di coltello usò una lingua,
che l’apriva, ed i denari saltavano fuori; il motto è del-
la santa Scrittura: QVASI GLADIVS; il restante, che va in-
nanzi, vi s’intende: lingua eius acuta, e la mandò ad Ago-
sto d’Adda, tesoriere un poco restìo in Milano, il qua-
le per timore gli rimesse poi i dugento ducati. Il Re
Francesco mandò una catena a Pietro, lavorata a ma-
schere, che cavavano fuori tutte la lingua, ed il breve
che vi andava attorno adornandola, diceva: A LABIIS
INIQVIS LIBERA ME, DOMINE, ET A LINGVA DOLOSA, e
l’accompagnò con questa letterina: «Pietro Bilinguo,
quest’età moderna ti sopporta per pazzia [...]. Riman-
ti adunque di sì fatta professione, perché la catena d’o-
ro in cortesia ch’io ti mando, non si convertisca in fer-
ro di servitù, ch’io non voglio che, offendendomi la
mala lingua tua senza mia colpa, con temerità ed inso-
lenza, la ne resti per tua malizia ed audacia scolpita».380

380 DONI, Nuova opinione circa alle imprese militari e amorose, cit., c. n.n.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Il contesto tematico e di genere entro cui si colloca lo sber-


leffo doniano, nonché l’identità del personaggio cui si indiriz-
za, ci consentono di affrontare un’ulteriore occorrenza del
motivo iconografico sviluppato nel nostro emblema e nei do-
cumenti in precedenza affrontati; e ci consentono di farlo nel
quadro della produzione emblematico-impresistica. Latamente
intesa. L’uso delle imprese, infatti, fu assai ampio ed interessò
quasi tutti i generi della produzione artistica fino a divenire
soggetto di opere ed elemento principe della decorazione di
manufatti. I pavimenti e le maioliche, gli arazzi e le tappezze-
rie, i diversi tipi di arredo, le medaglie, i libri miniati, le arma-
ture, mostrano come motti e imprese si concentrino con va-
lenze e modi diversi, tanti quanti ne imponevano i differenti
generi artistici.381
Le medaglie costituiscono una delle occasioni di vita della for-
ma-impresa, e proprio in un’altra medaglia coniata in onore di
Pietro Aretino è possibile rinvenire l’immagine oggetto della no-
stra indagine. Realizzata nel 1553 da Alessandro Vittoria (1525-
1608), questa medaglia presenta sul recto il profilo vòlto a destra di
Aretino, ed in esso si staglia ben visibile la catena che già ne con-
traddistingueva il ritratto sulla soglia frontespiziale del Libro primo
de le Lettere (Venezia, Marcolini, 1538).382 Il rovescio della medaglia

381 Cfr. a questo proposito GIOVANNI POZZI, Imprese di Crusca (1985), in ID., Sul-
l’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993, pp. 349-382, in part. p. 368: «L’impresa
non è un genere letterario legato al libro. I trattati che ci conservano imprese sono
contenitori di relitti; l’impresa vera era, per la sua attuosità, destinata a un supporto che
in qualche modo la ostentasse in relazione a colui che ne era il destinatore: il suo cap-
pello, il suo vestito, la sua cintura, la sua armatura, l’atrio, la sala, la scala. Il supporto,
come per certe poesie visive, è parte integrante dell’espressione».
382 Testimonia l’efficacia del format ritrattistico promosso da Aretino, nonché ov-
viamente la salda fama dell’individuo effigiato, un aneddoto riportato da Raymond
Waddington: «Nel 1623, l’editore veneziano Alessandro de’ Vecchi pubblicò le Lettere
del signor Francesco Visdomini con una xilografia raffigurante Pietro Aretino sul fronte-
spizio. Visdomini era un ecclesiastico di Ferrara. [...] De’ Vecchi presumibilmente non
riteneva i compratori così interessati ai pii sentimenti dell’ecclesiastico da credere che
il ritratto in eleganti vesti antiche, impellicciato e con catena d’oro, fosse una rappre-
sentazione di Visdomini stesso; piuttosto riteneva che essi riconoscessero la celebre im-
magine e accettassero il ritratto per quello che era: un imprimatur, ossia l’assicurazione
che il prodotto fosse proprio un libro di lettere. E deve aver avuto ragione, perché riu-
sò la xilografia per il frontespizio dell’edizione del 1630» [RAYMOND B. WADDING-
TON, Il satiro di Aretino. Sessualità, satira e proiezione di sé nell’arte e nella letteratura del XVI
secolo, Roma, Salerno Editore, 2009 (I ed. ingl. 2004), pp. 119-120].

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

è invece occupato dall’immagine di un uomo, seduto su una se-


dia curule e con in mano un grosso libro, che riceve l’omaggio di
quattro messaggeri che recano vasi: protagonista della situazione
illustrata è, con ogni probabilità, lo stesso Aretino (fig. 126).383 La
scena è infatti circondata dalla didascalia-motto I PRINCIPI TRIBV-
TATI DAI POPOLI IL SERVO LORO TRIBVTANO; sentenza che, in dia-
logo con l’immagine ma anche col dettaglio iconografico della
catena (e quindi col ritratto del recto), esplicita ed accentua il mes-
saggio ideologico della strategia di self-fashioning dispiegata da Are-
tino attraverso la medaglia, e vòlta a definire identitariamente il
letterato «non come colui che dona, ma come colui al quale si do-
na».384 Aretino stesso dichiarava tale finalità della sua politica cul-
turale in una lettera a Bernardo Tasso dell’ottobre 1549, che di fat-
to parafrasa il motto dell’espressione simbolica:

[...] ho fatto a la vertù tributario qualunche Du-


ce, qualunche Principe, e qualunche Monarca si sia.
E per che in tutto il mondo per me negozia la fa-
ma, in la Persia e ne la India il mio ritratto si pregia,
e il mio nome si stima.385

383 Per la medaglia si ricorra a GIUSEPPE TODERI-FIORENZA VANNEL, Le medaglie


italiane del XVI secolo, Firenze, Edizioni Polistampa, 1994, I, p. 247. Sulla produzione
medaglistica di Alessandro Vittoria cfr. invece FRANCESCO CESSI, Alessandro Vittoria,
medaglista (1525-1608), Trento, Tipografia Saturnia, 1960.
384 GIANLUCA GENOVESE, La lettera oltre il genere. Il libro di lettere, dall’Aretino al
Doni, e le origini dell’autobiografia moderna, Padova, Antenore, 2009, p. 71. Poco prima lo
studioso aveva ricordato che: «È di sicuro un elemento significativo di novità l’assen-
za [tra i ritratti aretiniani, n.d.r.] degli attributi iconografici generalmente associati ai
letterati nei loro ritratti: oltre allo studiolo, che assume il valore di vero e proprio to-
pos, il lauro, la penna o il libro. Coerentemente con la sua professione d’intenti (a Bem-
bo confessa di aspirare a “corone d’auro, e non di lauro”), Aretino sceglie come esclu-
sivo elemento iconografico una delle pesanti catene d’oro donategli dai suoi potenti
e munifici corrispondenti» (pp. 69-70). Tornando sulla stretta connessione tra meda-
glia e frontespizio delle Lettere, Genovese conclude: «La collana ha in ogni caso, a pre-
scindere da chi sia il donatore, un valore prolettico nel gioco di rimandi tra testo e pa-
ratesto: anticipa visivamente l’esito positivo delle numerose epistole incentrate sul te-
ma del dono e avvalora l’immagine bifronte, con tenacia costruita nel libro, dell’auto-
re che vuol essere ad un tempo il virtuoso meritevole di omaggi e il flagello di quei
signori e principi che mostrandosi avari sviliscono il ruolo e la funzione dell’artista e
dello scrittore» (p. 72).
385 PIETRO ARETINO, Lettere.Tomo V. Libro V, a cura di PAOLO PROCACCIOLI, Ro-
ma, Salerno Editore, 2001, p. 279.

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Fig. 126. Santa Barbara, University of California, University Art Museum,


Morgenroth Collection, ALESSANDRO VITTORIA, Medaglia di Pietro Aretino
con scena del tributo sul rovescio (1552-1553), bronzo fuso, 58 mm.

La testimonianza rappresenta un’indiretta inventio dell’im-


magine coniata da Vittoria, e consolida l’opinione secondo cui
quest’ultima si offra come un drastico rovesciamento del con-
venzionale ritratto librario d’autore, che vede l’autore inchi-
narsi davanti al mecenate e donargli la propria opera. Secondo
tale iconografia relazionale, ad esempio, si dispiega il primo ri-
tratto d’autore presente nei libri di Aretino. Il frontespizio del-
la giovanile Opera nova del fecundissimo giovene Pietro Pictore Ar-
retino (Venezia, Zoppino, 1512) è infatti corredato di una xilo-
grafia riportante la figura convenzionale di un giovane poeta
che, inginocchiato, riceve una corona da una donna seduta,
sotto lo sguardo di quattro individui (che, per funzione e par-
zialmente per postura, ricordano i loro omologhi della xilo-
grafia e della medaglia, fig. 127). Trent’anni non sono passati
invano, e l’autorità intellettuale e politica acquisita nel tempo
da Aretino ha indotto anche a questo effettivo ribaltamento di
prospettive (almeno nella coscienza autorappresentativa del-
l’autore). Grazie alla dialettica che s’instaura tra il dritto rappre-
sentativo e il rovescio simbolico, il sistema semantico delle me-
daglie sovviene appieno il letterato nella pratica di proiezione
di sé; pratica anfibia tra pubblico e privato, e articolata nelle
azioni di «trasmettere il ruolo pubblico prescelto» e di «rende-
re pubblica la vita privata dello scrittore». Nell’adempiere a

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Fig. 127. PIETRO ARETINO, Opera nova,


Venezia, Zoppino, 1512, frontespizio.

questa funzione comunicativa, la medaglia rivela tutta la pro-


pria affinità con l’impresa (affinità d’ordine genetico) e con il
ritratto-doppio (affinità d’ordine strutturale), dal momento
che «il diritto rappresenta l’aspetto del soggetto verso l’ester-
no; il rovescio invece simboleggia la sua interiorità attraverso
motti, immagini araldiche o esoteriche, azioni o avvenimenti
caratteristici. Corpo e anima: è la latente metafora dei due la-
ti. [...] La medaglia dichiara che il ritratto sul rovescio è l’“ani-
ma” del soggetto sul dritto».386
È dunque con il ritratto di Aretino ornato di catena aurea
ben fisso nella memoria che dovremmo leggere l’impresa «Di
Pietro Aretino» raccolta tra le Imprese di Sovrani e di altri Perso-
naggi delineate a penna l’anno MDLXXII (fig. 128). Questa corpo-
sa silloge manoscritta – conservata presso la Biblioteca Univer-
sitaria di Genova, ms. E.VII.16 – contiene centinaia di imprese
(fra cui molte di provenienza doniana) eseguite a penna con

386 WADDINGTON, Il satiro di Aretino, cit., pp. 148 e 152.

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Fig. 128. Genova, Biblioteca Universitaria, ms. E.VII.16,


Imprese di Sovrani e di altri Personaggi delineate a penna l’anno MDLXXII e segg., p. 66.

tecniche varie e in alcuni casi colorate a mezza tinta; una sche-


da catalografica afferma che una mano differente da quella re-
dattrice dei motti ha riportato sul margine superiore della pri-
ma carta l’indicazione «Inprese del Cambiagio».387 Non pare di
certo attribuibile a Luca Cambiaso l’impresa che riproduce fe-
delmente iconografia e motto della medaglia di Alessandro Vit-
toria, componendoli in una struttura ovale ai cui piedi è posto
il cartiglio identificativo del possessore (reliquia alfabetica del
ritratto figurativo presente sul dritto della medaglia). Interes-
sante per il suo intrinseco valore documentale, quest’occorren-
za dell’immagine risulta anche utile, perché ci introduce diret-
tamente nel contesto di genere cui appartiene anche l’emble-
ma di Baltimore, e nel quale il soggetto iconografico qui af-
frontato non sembra conoscere altre testimonianze.

387 Sul manoscritto genovese si veda MAURIZIA MIGLIORINI, Un manoscritto ge-


novese di imprese del XVI secolo, in Cesare Ripa e gli spazi dell’allegoria. Atti del convegno
di Bergamo (9-10 settembre 2009), a cura di SONIA MAFFEI, La Stanza delle Scrittu-
re, Napoli, 2010, pp. 271-296.

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Confrontate direttamente, l’immagine del nostro emblema


e l’iconografia comune a tutte i documenti finora ricordati
presentano indubbie affinità d’ordine compositivo e alcune
nette (ma forse più formali che sostanziali) divergenze struttu-
rali. Prima fra tutte è la differenza fra i motti. Quello dell’em-
blema di Baltimore è tratto dalla vulgata latina di Salmi 139,14
(«Verumtamen iusti confitebuntur nomini tuo, | habitabunt
recti cum vultu tuo»), sorta di preghiera del perseguitato, nel-
la quale si inoltra a Dio (riconosciuto difensore della causa dei
miseri e del diritto dei poveri) una richiesta di protezione di
fronte alle insidiose trame dei nemici peccatori (empi, super-
bi, maliziosi, maldicenti). Siamo dunque sempre nel contesto
tematico di un beneficio elargito (da Dio ai suoi più bisogno-
si fedeli), anche se più criptica pare l’elaborazione visiva del
messaggio (soprattutto se la osserviamo con la memoria occu-
pata dai documenti precedentemente affrontati). Stando alla
componente testuale dell’emblema il beneficio dovrebbe esse-
re quello concesso dalla divinità agli uomini; la sua compo-
nente iconica illustra invece un gesto di tributo rivolto a
un’autorità. L’assenza di una didascalia di commento ci priva
dell’usuale esplicitazione del moralismo sotteso all’emblema. Il
senso dell’espressione simbolica nel suo complesso si chiarisce
però, se leggiamo l’iconografia così com’è, al netto delle inte-
grazioni e degli attributi che declinano le analoghe illustrazio-
ni xilografiche e medaglistiche come sue determinazioni di
settore (il beneficio al/del letterato).Venuta meno la figura of-
ferente del letterato inginocchiato, insieme ai dettagli conno-
tativi del libro e della catena aurea (donate o esibiti come mar-
che identitarie), l’immagine esplicita più linearmente il pro-
prio contenuto, e non può che richiamare alla mente il più ce-
lebre e paradigmatico episodio (biblico) di dono, quello dei Re
Magi. Se, a questo punto, ripristinassimo nell’iconografia così
decrittata le varianti e gli attributi che caratterizzano le xilo-
grafie doniane e soprattutto le medaglie-imprese aretiniane,
potremmo rendere ancor più prospettico il messaggio di que-
ste ultime, dinamizzandolo alla luce del sottotesto (verbale e
iconico) biblico. Ovviamente tutto ciò era ben noto ad Areti-
no che, in una lettera del 1542, così commenta l’iperbolica lo-
de rivoltagli dal capitano modenese Francesco Faloppia:

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A. TORRE, VEDERE VERSI

Poco mancò che io non son converso ne le risa


che in me hanno mosso i versi ne i quali dite che,
se i tre Magi fussero al mio tempo, che anche egli-
no sarieno isforzati a tributarmi, come ormai tribu-
tano si può dire tutti i Principi del mondo.388

Le tre figure maschili dell’emblema stanno dunque offren-


do un tributo di ringraziamento a Dio («iusti confitebuntur
nomini tuo») per il beneficio concesso loro di poter dimora-
re al suo cospetto di fianco a chi ne rappresenta il volto, l’in-
carnazione, sulla terra («habitabunt recti cum vultu tuo»). Il
dono è reciproco e si cristallizza nella figura seduta sul trono,
un Cristo non infante (e quindi più immediato simulacro del
Padre) ma che il curioso dettaglio del copricapo verde desi-
gna anche come la viva rappresentazione della Speranza (di
salvezza) personificata in un nuovo nato. Una siffatta lettura
dell’immagine ne potrebbe chiarire la complessa funzionalità
all’interno della narrazione simbolica composta attraverso la
silloge. Da un punto di vista strutturale, l’iconografia potreb-
be pienamente consentire all’emblema di assolvere alla fun-
zione di dedica dell’intera raccolta. Da un punto di vista te-
matico, essa verrebbe inoltre ad evidenziare ancora una volta
il sottotesto sacro che spesso traluce dai documenti della sil-
loge e identifica quest’ultima come una revisione moralistica
del dettato lirico petrarchesco. Da un punto di vista di resa
performativa dell’espressione simbolica, essa potrebbe infine
costituire il necessario sigillo del discorso amoroso disteso
lungo i trentacinque emblemi.

388 PIETRO ARETINO, Lettere. Tomo II. Libro II, a cura di Paolo Procaccioli, Ro-
ma, Salerno Editrice, 1998, p. 368. Per l’ipotesi di questa fonte dell’iconografia della
medaglia di Alessandro Vittoria si rinvia a GENOVESE, La lettera oltre il genere, cit., p. 84.
Pur non citando la missiva aretiniana, anche Waddington riconosce la matrice biblica
dell’immagine del tributo: «L’immagine di Aretino evoca la figura di Mosè, il legisla-
tore dell’Antico Testamento, con tanto di tavole di pietra al suo ritorno dal Sinai; por-
ta la barba di foggia patriarcale e una ciocca di capelli ribelli suggerisce il Mosè “con
le corna”. Inoltre, Mosè è il più illustre modello veterotestamentario del Cristo, una
associazione probabilmente attivata dalle due figure sullo sfondo vestite di mantelli
arabi con cappuccio, il cui viaggio, come quello dei Magi a Betlemme, si indovina lun-
go» (WADDINGTON, Il satiro di Aretino, cit., pp. 157-158).

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HABITABUNT RECTI CUM VULTU TUO

Alla strategica stigmatizzazione dell’amore sensuale che at-


tanaglia l’amante con i suoi perniciosi effetti; all’altrettanto
programmatica esaltazione del potere di un’amata ritratta nel-
le vesti trionfali della Pudicizia (che sola riesce a vincere l’on-
nipotente Cupido); e all’insistita celebrazione del vincolo co-
niugale quale più opportuna e fertile forma di relazione amo-
rosa; non può infatti che seguire – quale logico envoi finale –
l’augurio di una nascita, formulato peraltro attraverso la me-
moria della nascita per eccellenza, quella che in Cristo pro-
spetta una storia universale in un evento individuale.
Il medesimo paradigma semantico è sfruttato dall’emble-
matista nella sua elaborazione dei Fragmenta petrarcheschi. In-
terpretatine i principali nuclei concettuali e visualizzatane con
efficacia l’imagery, la raccolta di Baltimore ci offre infatti una
lettura del Canzoniere che vuole condurre l’io lirico (e con lui
ogni lettore) fuori dall’impasse della fluctuatio animi e anche ol-
tre la tensione verso un amore spirituale compensatorio la per-
dita di Laura. Una lettura che, per servire a probabili usi enco-
miastici e parenetici, dissolve – con intelligenza esegetica ed
emulativa creatività – la complessa, frammentata, spesso para-
dossale storia di un’anima entro le edificanti scene e i quadri
didattici di un marriage plot.

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INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI


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413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 415

Rerum Vulgarium Emblemata

Fig. I. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spira,


1470, c. 62v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. II. Le cose volgari di Francesco Petrarca,Venezia, Aldo Manuzio, 1514,
c. 86v [© Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced by
permission of Chatsworth Settlement Trustees].
Fig. III. Imprese dell’Accademia della Crusca. Impresa di Baldassarre Suarez,
il Mantenuto [riproduzione effettuata dal volume LUCIA TONGIOR-
GI-ROBERTO PAOLO CIARDI, Le Pale della Crusca. Cultura e simbolo-
gia, impresa LXXXV, Firenze, Accademia, 1983, vol. III, p. 325].
Fig. IV. HANS HOLBEIN IL GIOVANE, Disegni per spille o medaglie, De-
vonshire Collection, Chatsworth [riproduzione effettuata dal vo-
lume YVONNE HACKENBROCH, Enseignes. Renaissance Hat Jewels,
Firenze, S.p.e.s., 1996, p. 333].
Fig. V. PIERRE REYMOND (bottega di), Smalto di Limoges dipinto, Ba-
sel, Historisches Museum, Amerbach Kabinett [riproduzione ef-
fettuata dal volume YVONNE HACKENBROCH, Enseignes. Renais-
sance Hat Jewels, Firenze, S.p.e.s., 1996, p. 81].
Fig. VI. BARTOLOMEO VENETO, Giovane gentiluomo, Houston, Texas,
Museum of Fine Arts, Edith A. and Percy S. Strauss Collection
[riproduzione effettuata dal volume YVONNE HACKENBROCH,
Enseignes. Renaissance Hat Jewels, Firenze, S.p.e.s., 1996, p. 103].
Fig. VII. BARTOLOMEO VENETO, Giovane gentiluomo, Houston,Texas, Mu-
seum of Fine Arts, Edith A. and Percy S. Strauss Collection (partico-
lare) [riproduzione effettuata dal volume YVONNE HACKENBROCH,
Enseignes. Renaissance Hat Jewels, Firenze, S.p.e.s., 1996, p. 104].
Fig. VIII. ANONIMO, Impresa, Rocca Estense di San Martino in Rio
(Reggio Emilia).
Fig. IX. DOMENICO POGGINI, Medaglia di Benedetto Varchi [riprodu-
zione effettuata dal volume GIUSEPPE TODERI-FIORENZA VAN-

415
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 416

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

NEL, Le medaglie italiane del XVI secolo, Firenze, Edizioni Polistam-


pa, 1994, vol. III, n. 1467].

Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476

Tav. 1. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 1.


Tav. 2. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 2.
Tav. 3. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 3.
Tav. 4. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 4.
Tav. 5. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 5.
Tav. 6. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 6.
Tav. 7. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 7.
Tav. 8. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 8.
Tav. 9. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 9.
Tav. 10. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 10.
Tav. 11. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 11.
Tav. 12. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 12.
Tav. 13. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 13.
Tav. 14. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 14.
Tav. 15. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 15.
Tav. 16. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 16.
Tav. 17. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 17.
Tav. 18. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 18.
Tav. 19. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 19.
Tav. 20. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 20.
Tav. 21. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 21.
Tav. 22. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 22.
Tav. 23. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 23.
Tav. 24. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 24.
Tav. 25. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 25.
Tav. 26. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 26.
Tav. 27. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 27.
Tav. 28. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 28.
Tav. 29. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 29.
Tav. 30. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 30.
Tav. 31. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 31.
Tav. 32. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 32.
Tav. 33. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 33.
Tav. 34. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 34.
Tav. 35. Baltimore, Walters Art Museum, ms. WAG 476, c. 35.

416
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 417

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Forme di un discorso amoroso

Fig. 1. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 30.
Fig. 2. CLAUDE PARADIN, Devises heroiques et emblemes, Paris, Millot,
1614, p. 89.
Fig. 3. CAMILLO CAMILLI, Imprese illustri di diversi, Venezia, Ziletti,
1586, II, 78 (Giulio Contarini), p. 79.
Fig. 4. Thronus Cupidinis, Amsterdam,Willem Ianszoon, 1620, emble-
ma 6.
Fig. 5. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 5r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 6. Bergamo, Santa Maria Maggiore, LORENZO LOTTO, Tarsia del
coro: Absalon, Cusai e Achitonfel in consiglio (coperto simbolico) [ripro-
duzione effettuata dal volume FRANCESCA CORTESI BOSCO, Il co-
ro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore in Berga-
mo, Bergamo, Ed. Amilcare Pizzi, 1987, p. 258].
Fig. 7. DANIEL DE LA FEUILLE, Devises et emblemes, Augsburg, Kronin-
ger und Goebels, 1697, p. 11.
Fig. 8. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 24r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 9. DANIEL HEINSIUS, Emblemata amatoria, Amsterdam, Boeckver-
cooper, 1608, emblema 21.
Fig. 10. JACOB CATS, Sinne-en minnebeelden, Leiden, Deyster, 1779,
emblema 14.
Fig. 11. PIETER CORNELISZ HOOFT, Emblemata amatoria, Amsterdam,
Willem Ianszoon, 1611, p. 67.
Fig. 12. PAOLO ARESI, Imprese sacre, Tortona, P.G. Calenzano e E.Vio-
la, 1630, V, impresa CXXXVIII, p. 362.
Fig. 13. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. It. 482, GIO-
VANNI BOCCACCIO, Decameron, c. 102v [riproduzione effettuata
dal volume Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini
fra Medioevo e Rinascimento, a cura di VITTORE BRANCA, Torino,
Einaudi 1993, I, p. 11, ill. 12].
Fig. 14. FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Al-
do Manuzio, 1493 [riproduzione effettuata dall’edizione anastatica

417
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 418

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di MAR-


CO ARIANI e MINO GABRIELE, Milano, Adelphi, 1998, I, p. 73].
Fig. 15. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 22r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 16. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 9v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 17. GIACOMO FILIPPO TOMASINI, Petrarcha Redivivus, Padova, Pa-
squati & Bortoli, 1635, p. 152.
Fig. 18. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 45v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 19. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese,Venezia, Sarzina, 1623, p. 420.
Fig. 20. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück, des
guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, frontespizio.
Fig. 21. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück, des
guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, I, p. 106.
Fig. 22. SEBASTIAN BRANT, Der Narrenspiegel. Das große Narrenschiff,
Strassburg, Cammer-Lander, 1545 [riproduzione effettuata dal
volume SEBASTIAN BRANT, La nave dei folli, Milano, Spirali edi-
zioni, 1984, p. 135].
Fig. 23. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese, Venezia, Sarzina, 1623, p.
201.
Fig. 24. New York, Pierpont Morgan Library, ms. 819, Miscellanea pro-
venzale (Canzoniere N), c. 59r. © Pierpont Morgan Library.
Fig. 25. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, cc. 64v-65r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-
li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-
ne con qualsiasi mezzo].
Fig. 26. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, cc. 65v-66r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-
li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-
ne con qualsiasi mezzo].

418
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 419

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 27. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-


ra, 1470, c. 65v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 28. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, cc. 66v-67r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-
li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-
ne con qualsiasi mezzo].
Fig. 29. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 86v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 30. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück, des
guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, I, p. 143.
Fig. 31. FRANCISCUS PETRARCHA, Von der Artzney bayder Glück, des
guten und widerwertigen, Augsburg, Steyner, 1532, II, p. 89.
Fig. 32. LUDOVICUS VAN LEUVEN, Amoris divini et humani anthipatia,
Antwerp, Snyder, 1629, emblema 62.
Fig. 33. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 77.
Fig. 34. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 91.
Fig. 35. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 23.
Fig. 36. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 76.
Fig. 37. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 58r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 38. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 33v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 39. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 33v-34r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-

419
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 420

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-


ne con qualsiasi mezzo].
Fig. 40. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 59v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 41. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,Venezia, De’ France-
schi, 1584, p. 258.
Fig. 42. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae
tres, I, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 13.
Fig. 43. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,
Rouille, 1577, p. 151.
Fig. 44. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Nuovi Acquisti
267, ANTON FRANCESCO DONI, Nuova opinione circa alle imprese
militari e amorose, c. 69v. © Su concessione del Ministero per i Be-
ni e le Attività Culturali. È fatto espresso divieto di ulteriore ri-
produzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
Fig. 45. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Nuovi Acquisti
267, ANTON FRANCESCO DONI, Nuova opinione circa alle imprese
militari e amorose, c. 70r. © Su concessione del Ministero per i Be-
ni e le Attività Culturali. È fatto espresso divieto di ulteriore ri-
produzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
Fig. 46. Wellesley (Mass.), Wellesley College Library, Plimpton Col-
lection, ms. 897, ANTON FRANCESCO DONI, Le imprese reali, cc.
7v-8r. © Wellesley College Library.
Fig. 47. Genova, Biblioteca Universitaria, ms. E.VII.16, Imprese di So-
vrani e di altri Personaggi delineate a penna l’anno MDLXXII e segg., c.
237. © Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cul-
turali. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o dupli-
cazione con qualsiasi mezzo.
Fig. 48. Genova, Biblioteca Universitaria, ms. E.VII.16, Imprese di So-
vrani e di altri Personaggi delineate a penna l’anno MDLXXII e segg., c.
238. © Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cul-
turali. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o dupli-
cazione con qualsiasi mezzo.
Fig. 49. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427, Rime e Trion-
fi di Francesco Petrarca [riproduzione effettuata dal volume Il Codice
Orsini-Da Costa delle Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca integral-
mente riprodotto in fotoincisione e tricromia con ventisette miniature e otto
tavole aureo-purpuree più tre facsimili dei codici Vaticani 3195, 3196,
3197, a cura di DOMENICO CIAMPOLI, Roma, Danesi, 1904].

420
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 421

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 50. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-


ra, 1470, cc. 18v-19r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-
li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-
ne con qualsiasi mezzo].
Fig. 51. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 41r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 52. Berlin, Deutsche Staatsbibliothek, ms. Phillips 1926, Six vi-
sions messire François Petracque [riproduzione effettuata dal volu-
me Petrarca nel tempo. Tradizione lettori e immagini delle opere. Cata-
logo della Mostra di Arezzo (22 novembre 2003 - 27 gennaio
2004), a cura di MICHELE FEO, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi,
2003, p. 59].
Fig. 53. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare
Book Room, Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella ca-
duta del Cipresso, c. 40. © University of Illinois Library.
Fig. 54. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare
Book Room, Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella ca-
duta del Cipresso, c. 14. © University of Illinois Library.
Fig. 55. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare
Book Room, Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella ca-
duta del Cipresso, c. 20. © University of Illinois Library.
Fig. 56. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 102v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. ©
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È
fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione
con qualsiasi mezzo].
Fig. 57. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 108r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. ©
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È
fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione
con qualsiasi mezzo].
Fig. 58. Urbana-Champaign, University of Illinois Library, Rare
Book Room, Cento Imprese fatte da Fra Francesco Cuomo nella ca-
duta del Cipresso, c. 18. © University of Illinois Library.
Fig. 59. GILLES CORROZET, Hecatomgraphie, Paris, Denis Janot, 1540,
p. 10.
Fig. 60. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae
tres, II, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 3.

421
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 422

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 61. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,


Rouille, 1577, p. 86.
Fig. 62. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio,
1514, c. 6r. © Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced
by permission of Chatsworth Settlement Trustees.
Fig. 63. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio,
1514, c. 4v. © Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced
by permission of Chatsworth Settlement Trustees.
Fig. 64. ANDREA ALCIATI, Diuerse imprese, Lyon, Rouille, 1551, p. 102.
Fig. 65. GIORGIO CAMERARI, Emblemata amatoria, Padova, Tozzi,
1627, p. 112.
Fig. 66. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae
tres, II, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 100.
Fig. 67. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae
tres, II, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 10.
Fig. 68. GIULIO CESARE CAPACCIO, Trattato delle imprese, II, Napoli,
Carlino e Pace, 1592, p. 12r.
Fig. 69. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427, Rime e dei
Trionfi di Francesco Petrarca [riproduzione effettuata dal volume Il
Codice Orsini. Da Costa delle Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca
integralmente riprodotto in fotoincisione e tricromia con ventisette minia-
ture e otto tavole aureo-purpuree più tre facsimili dei codici Vaticani
3195, 3196, 3197, a cura di DOMENICO CIAMPOLI, Roma, Da-
nesi, 1904].
Fig. 70. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756 [riproduzione effettuata dal volume ALES-
SANDRO GIACOMELLO-FRANCESCA NODARI, Le Rime del Petrarca.
Un’edizione illustrata del Settecento (Venezia, Antonio Zatta, 1756),
Gorizia, Leg, 2003, p. 161].
Fig. 71. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 114r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. ©
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È
fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione
con qualsiasi mezzo].
Fig. 72. Collezione privata (già London, Library of Major J.R. Ab-
bey, ms. 7368), FRANCESCO PETRARCA, Rime, c. 98v [riproduzio-
ne effettuata dal volume SILVIA MADDALO, Sanvito e Petrarca. Scrit-
tura e immagine nel codice Bodmer, Messina, Centro interdipartime-
tale di studi umanistici, 2002, p. 99].
Fig. 73. Gineva-Cologny, Bibliotheca Bodmeriana, ms. it. 130, FRAN-
CESCO PETRARCA, Rime, c. 116r [riproduzione effettuata dal vo-
lume SILVIA MADDALO, Sanvito e Petrarca. Scrittura e immagine nel

422
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 423

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

codice Bodmer, Messina, Centro interdipartimetale di studi umani-


stici, 2002, p. 80].
Fig. 74. Berlin, Deutsche Staatsbibliothek, ms. Phillips 1926, CLE-
MENT MAROT, Six visions messire François Petracque [riproduzione
effettuata dall’edizione anastatica: Le six triumphes et les six visions
Messire Francoys Petracque, Reichert Verlag, Wiesbaden, 1988].
Fig. 75. Glasgow, Glasgow University Library, ms. S.M.M.2, CLEMENT
MAROT, Six visions messire François Petracque. © Glasgow University
Library.
Fig. 76. JAN VAN DER NOOT, Theatre for Worldlings, London, Bynne-
man, 1569 [riproduzione effettuata dal volume The English Em-
blem Tradition, a cura di PETER M. DALY, Toronto-Buffalo-Lon-
don, University of Toronto Press, 1988, I, p. 9].
Fig. 77. ANDREA ALCIATI, Emblematum libellus, Paris,Wechel, 1534, p. 53.
Fig. 78. ANDREA ALCIATI, Diverse imprese, Lyon, Rouille, 1551, p. 44.
Fig. 79. London, British Museum, BACCIO BALDINI (attribuito), Il
castigo di Amore [riproduzione effettuata dal volume A. VON
BARTSCH, Le peinture graveur, Leipzig, Weigel, 1854-1870 (rist.
anast. Nieuwkoop-Hildesheim, B. de Goof-G. Holms, 1970),
XIII.144.5].
Fig. 80. ANDREA ALCIATI, Emblemata, Padova, Tozzi, 1621, p. 457.
Fig. 81. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio,
1514, c. 65v. © Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced
by permission of Chatsworth Settlement Trustees.
Fig. 82. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,Venezia, De’ France-
schi, 1584, p. 456.
Fig. 83. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,
Rouille, 1577, p. 81.
Fig. 84. ANDREA ALCIATI, Emblemata, Padova, Tozzi, 1621, p. 198.
Fig. 85. GILLES CORROZET, Hecatomgraphie, Paris, Denis Janot, 1540,
p. 98.
Fig. 86. GIOVANNI FERRO, Teatro d’imprese,Venezia, Sarzina, 1623, p. 607.
Fig. 87. GIROLAMO RUSCELLI, Le imprese illustri,Venezia, De’ France-
schi, 1584, p. 96.
Fig. 88. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 101v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. ©
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È
fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione
con qualsiasi mezzo].
Fig. 89. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,
Rouille, 1577, p. 100.
Fig. 90. ANDREA ALCIATI, Emblematum libellus, Paris,Wechel, 1534, p. 26.

423
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 424

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 91. CESARE RIPA, Iconologia, Venezia, Cristoforo Tomasini, 1645


(Memoria dei Benefici).
Fig. 92. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Fr. 1444b,
GUILLAUME LE CLERC, Bestiaire. © BnF.
Fig. 93. JOACHIM CAMERARIUS, Symbolorum et emblematum centuriae
tres, II, Norimberga, Voegel, 1605, emblema 37.
Fig. 94. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere,Venezia,Vindelin da Spi-
ra, 1470, c. 64v [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. © Su
concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È fat-
to espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con
qualsiasi mezzo].
Fig. 95. JOHANNES SAMBUCUS, Emblemata, Antwerp, Plantin, 1564, p. 65.
Fig. 96. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 63.
Fig. 97. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427, Rime e
Trionfi di Francesco Petrarca [riproduzione effettuata dal volume Il
Codice Orsini-Da Costa delle Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca
integralmente riprodotto in fotoincisione e tricromia con ventisette minia-
ture e otto tavole aureo-purpuree più tre facsimili dei codici Vaticani
3195, 3196, 3197, a cura di DOMENICO CIAMPOLI, Roma, Da-
nesi, 1904].
Fig. 98. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 110.
Fig. 99. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 51.
Fig. 100. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 62.
Fig. 101. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 117.
Fig. 102. ANDREA ALCIATI, Emblemata, Lyon, Rouille, 1551, p. 168.
Fig. 103. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da
Spira, 1470, c. 117r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15.
© Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cultura-
li. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazio-
ne con qualsiasi mezzo].
Fig. 104. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756 [riproduzione effettuata dal volume ALES-
SANDRO GIACOMELLO-FRANCESCA NODARI, Le Rime del Petrarca.
Un’edizione illustrata del Settecento (Venezia, Antonio Zatta, 1756),
Gorizia, Leg, 2003, p. 189].
Fig. 105. Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. Ital. 548,
FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere [riproduzione effettuata dal

424
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 425

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

volume PRINCE D’ESSLING-EUGÈNE MÜNTZ, Pétrarque. Ses études


d’art, son influence sur les artistes, ses portraits et ceux de Laure, l’illu-
stration de ses écrits, Paris, Gazette des Beaux-Arts, 1902, p. 81].
Fig. 106. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,
Rouille, 1577, p. 37.
Fig. 107. Bergamo, Santa Maria Maggiore, LORENZO LOTTO, Tarsia
del coro: Susanna (coperto simbolico) [riproduzione effettuata dal vo-
lume FRANCESCA CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Ca-
poferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo, Bergamo, Ed. Amilca-
re Pizzi, 1987, p. 270].
Fig. 108. Bergamo, Santa Maria Maggiore, LORENZO LOTTO, Tarsia
del coro: Susanna (storia) [riproduzione effettuata dal volume
FRANCESCA CORTESI BOSCO, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri
per Santa Maria Maggiore in Bergamo, Bergamo, Ed. Amilcare Piz-
zi, 1987, p. 271].
Fig. 109. New York, Pierpont Morgan Library, ms. M 427, Rime e Trion-
fi di Francesco Petrarca [riproduzione effettuata dal volume Il Codice
Orsini-Da Costa delle Rime e dei Trionfi di Francesco Petrarca integral-
mente riprodotto in fotoincisione e tricromia con ventisette miniature e otto
tavole aureo-purpuree più tre facsimili dei codici Vaticani 3195, 3196,
3197, a cura di DOMENICO CIAMPOLI, Roma, Danesi, 1904].
Fig. 110. GIOVANNI BATTISTA PITTONI, Imprese nobili et ingeniose di di-
versi principi, Venezia, Porro, 1578, p. 14.
Fig. 111. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 10.
Fig. 112. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 48.
Fig. 113. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio,
1514, c. 24r. © Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced
by permission of Chatsworth Settlement Trustees.
Fig. 114. Le cose volgari di Francesco Petrarca, Venezia, Aldo Manuzio,
1514, c. 87v. © Devonshire Collection, Chatsworth. Reproduced
by permission of Chatsworth Settlement Trustees.
Fig. 115. PAOLO GIOVIO, Dialogo dell’imprese militari e amorose, Lione,
Rouille, 1577, p. 29.
Fig. 116. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756 [riproduzione effettuata dal volume ALES-
SANDRO GIACOMELLO-FRANCESCA NODARI, Le Rime del Petrarca.
Un’edizione illustrata del Settecento (Venezia, Antonio Zatta, 1756),
Gorizia, Leg, 2003, p. 137].
Fig. 117. DANIEL DE LA FEUILLE, Devises et emblemes, Augsburg, Kro-
ninger und Goebels, 1697, c. 17r.

425
413 balti indice illustrazioni_layout 18/07/13 13.29 Pagina 426

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

Fig. 118. GIORGIO CAMERARI, Emblemata amatoria, Padova, Tozzi,


1627, p. 57.
Fig. 119. OTTO VAN VEEN, Amorum Emblemata, Antwerp, s.e., 1608,
emblema 14.
Fig. 120. OTTO VAN VEEN, Amoris Divini Emblemata, Antwerp, Nutl &
Morsl, 1615, p. 86.
Fig. 121. FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, Venezia, Vindelin da
Spira, 1470, c. 76r [Brescia, Biblioteca Queriniana, Inc. G.V.15. ©
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È
fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione
con qualsiasi mezzo].
Fig. 122. Le Rime del Petrarca brevemente esposte per Lodovico Castelvetro,
Venezia, Zatta, 1756 [riproduzione effettuata dal volume ALES-
SANDRO GIACOMELLO-FRANCESCA NODARI, Le Rime del Petrarca.
Un’edizione illustrata del Settecento (Venezia, Antonio Zatta, 1756),
Gorizia, Leg, 2003, p. 133].
Fig. 123. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb. Lat.
122, VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium, c. 1
(capolettera miniato) [riproduzione effettuata dal volume Vedere i
classici. L’illustrazione libraria dei testi antichi dall’età romana al tardo me-
dioevo, a cura di MARCO BUONOCORE, Roma, Palombi, 1996].
Fig. 124. ANTON FRANCESCO DONI, La zucca, Venezia, Marcolini,
1551-1552, c. A7r.
Fig. 125. FRANCESCO MARCOLINI, Le sorti intitolate giardino d’i pensie-
ri,Venezia, Marcolini, 1540, p. 15 [riproduzione effettuata dal vo-
lume FRANCESCO MARCOLINI, Le sorti intitolate giardino d’i pen-
sieri. Ristampa anastatica dell’edizione 1540, con una nota di Paolo
Procaccioli, Treviso-Roma, Edizioni Fondazione Benetton Studi
e Ricerche, 2007].
Fig. 126. Santa Barbara, University of California, University Art Mu-
seum, Morgenroth Collection, ALESSANDRO VITTORIA, Medaglia
di Pietro Aretino con scena del tributo sul rovescio (1552-1553), bron-
zo fuso, 58 mm [riproduzione effettuata dal volume GIUSEPPE
TODERI-FIORENZA VANNEL, Le medaglie italiane del XVI secolo, Fi-
renze, Edizioni Polistampa, 1994, I, p. 247].
Fig. 127. PIETRO ARETINO, Opera nova, Venezia, Zoppino, 1512,
frontespizio.
Fig. 128. Genova, Biblioteca Universitaria, ms. E.VII.16, Imprese di
Sovrani e di altri Personaggi delineate a penna l’anno MDLXXII e segg.,
p. 66. © Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Cul-
turali. È fatto espresso divieto di ulteriore riproduzione o dupli-
cazione con qualsiasi mezzo.

426
429 balti indice nomi_layout 18/07/13 13.30 Pagina 427

INDICE DEI NOMI


429 balti indice nomi_layout 18/07/13 13.30 Pagina 428

In ragione della frequente presenza, il nome di Francesco Petrarca


non è stato indicizzato.
429 balti indice nomi_layout 18/07/13 13.30 Pagina 429

Abramo: 380. Altoviti, Jacomo: 142n.


Absalon: 83-84. Ambrogio, santo: 99.
Acciaiuoli, Niccolò: 297 e n. Ammirato, Scipione: 7 e n, 37
Achitophel: 83-84. e n.
Adone: 98, 99n. Antal, Evelyn: 305n.
Adorno, famiglia: 232. Anteros: 270 e n.
Adorno, Geronimo: 370. Apollo (Febo): 10, 14, 197, 206,
Afribo, Andrea: 319n. 208, 210, 215n, 234, 395,
Agide: 130. 397.
Agosti, Stefano: 46n, 76n, 78, Apollodoro: 282.
169, 170n, 210n, 364n. Appel, Carl: 266.
Agostini, Antonio: 40n. Aquilano, Serafino: 93.
Agostino d’Adda: 403. Aracri, Basile: 299n.
Agostino, santo: 105n, 108 e n, Arasse, Daniel: 46n.
259, 362n. Arbizzoni, Guido: 37n, 270n.
Albani Liberali, Clara: 83n. Archinto, Carlo: 27n.
Albonico, Simone: 375n. Ardissino, Erminia: 130n, 301n.
Alciati, Andrea: 149 e n, 199 e Aresi, Paolo: 100 e n, 143 e n,
n, 213n, 238 e n, 261, 262n, 183 e n, 232, 233 e n, 301 e
263, 270n, 272n, 277, 280, n, 306n, 384, 385n, 387n.
295, 322, 330 e n. Aretino, Pietro: 16, 39, 402-405
Alessi, Galeazzo: 42n. e nn, 406, 407 e n, 409, 410
Alessio, Gian Carlo: 149n. e n.
Alexander, Jonathan J.G.: 14n. Ariani, Marco: 56n, 57 e n, 58n,
Alfonso XI: 356n. 66n, 71n, 118n, 266 e n,
Alighieri, Dante: 54n, 155, 158- 267n, 269n.
159nn, 185, 269n, 302n, 312 Arianna: 117.
e n, 343 e n, 367n. Ariosto, Ludovico: 214n.
Alonso, Dàmaso: 167n, 168 e n, Aristippe, Henri (Henricus Ari-
169n. stippus): 102n, 106n.

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INDICE DEI NOMI

Aristotele: 103n, 296n, 304n. Bigi, Emilio: 361n, 363n.


Assmann, Aleida: 145n. Billanovich, Giuseppe: 198n,
Atlante: 396n. 214n.
Atteone: 111, 113-115. Billy, Dominique: 396n.
Attwood, Philip: 38n. Binotto, Margaret: 119n.
Ausonio: 270. Blanc, Pierre: 112n.
Baglio, Marco: 289n. Boccaccio, Giovanni: 42n, 54n,
Baldassarri, Guido: 185n. 116-117 e nn, 127, 128n,
Baldini, Baccio: 270, 274. 132n, 274n.
Balsamo, Jean: 138n, 253n. Boccignone, Manuela: 162n.
Baltrušaitis, Jurgis: 185n. Boel, Cornelius: 332.
Bandello, Matteo: 31n. Bollati, Milvia: 14n.
Baranski, Zygmunt G.: 54n. Bolzoni, Lina: 37n, 79n, 138n,
Bargagli, Scipione: 200, 287, 144n, 148n, 193-194nn.
307n, 339n, 393. Bonciario, Marc’Antonio: 142.
Bargetto, Simona: 345n. Bondi, Fabrizio: 145n.
Barilli, Giovanni: 297 e n. Bonsignori, Giovanni: 130n.
Barker, Nicolas: 13n. Boot, Peter: 63n.
Barocchi, Paola: 35n. Bordon, Benedetto: 14n.
Barone, Cristoforo: 369. Borromeo, Carlo, santo: 288.
Barthes, Roland: 51. Botticelli, Sandro: 274n.
Bartolomeo Veneto: 31. Bottigella, Augusto: 142n.
Bartuschat, Johannes: 256- Braden, Gordon: 225n.
257nn, 366n. Bragantini, Renzo: 274n.
Bath, Michael: 254n. Bramanti, Vanni: 42n.
Battaglia Ricci, Lucia: 5n, 53- Branca, Vittore: 42n, 116n, 117
54nn, 269n. e n, 128n, 274n.
Bayer, Andrea: 193n. Brant, Sebastian: 137n, 138 e n,
Beatrice d’Aragona: 350n. 162.
Beatrice d’Este: 83. Brock, Maurice: 356n.
Beccadelli, Lodovico: 266. Brugnolo, Furio: 195 e n, 204n.
Bellerofonte: 126. Bruni, Arnaldo: 93n.
Belting, Hans: 18, 19n. Bruni, Francesco: 158n.
Berenice: 119n. Bruno, Giordano: 7n.
Berns, Jörg J.: 145n. Brustolon, Giovanni Battista:
Berra, Claudia: 53n, 146n, 248n.
342n, 345n. Buckley, Ann: 396n.
Bertone, Giorgio: 209n. Bufano, Antonietta: 299n.
Bertrand de Born: 342n. Buonarroti, Michelangelo: 258n.
Besomi, Ottavio: 204n. Buschhoff, Anne: 63n.
Bettarini, Rosanna: 35n, 48, 78 e Calcaterra, Carlo: 149n.
n, 155 e n, 159n, 204n, 264. Cambi, Gasparo: 38.

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429 balti indice nomi_layout 18/07/13 13.30 Pagina 431

INDICE DEI NOMI

Cambiaso, Luca: 408. Cats, Jacob: 96n.


Camerari, Giorgio: vd. Chal- Cattani, Francesco: 194n.
mers (Chambers), George. Cattini, Giovanni: 248n.
Camerarius, Joachim: 183, Cavalcanti, Guido: 185.
184n, 199 e n, 230 e n, 240, Cecco d’Ascoli: 306.
241 e n, 242, 305n, 308 e n, Cellini, Benvenuto: 16.
351n. Centauro: 126.
Camerino, Giuseppe Antonio: Centurione, Daniele: 38.
341n. Cerere: 214n.
Camilli, Camillo: 73, 74 e n. Cesare: 8, 296-298.
Cammarota, Maria Grazia: Cessi, Francesco: 405n.
147n. Chalmers (Chambers), George:
Cancer, Mattia: 37. 239 e n, 393.
Capaccio, Giulio Cesare: 40n, Charles di Valois: 377, 378n.
242, 243 e n, 245, 277n, Charpentier, François: 392n.
306n, 385, 386n. Chaucer, Geoffrey: 270n, 339n.
Capece, Porzia: 37. Cherchi, Paolo: 68n.
Capoferri, Giovan Francesco: Chiappelli, Fredi: 23n, 149n,
83n, 354n. 211n, 249n, 347n.
Capovilla, Guido: 111n, 115n, Chiecchi, Giuseppe: 396n.
122n. Chiodi, Luigi: 358n.
Caratozzolo, Vittorio: 365n. Chiorboli, Ezio: 266.
Carlini, Antonio: 103n. Christiansen, Keith: 350n.
Carlo, arciduca d’Austria: 282. Ciampoli, Domenico: 202,
Carminati, Clizia: 167n. 203n.
Caro, Annibale: 16. Ciano, personaggio dei Marmi
Carpaccio, Vittore: 350n. di A.F. Doni: 400.
Carrai, Stefano: 178n, 396n. Cicerone: 105n, 295 e n, 296.
Carraud, Christophe: 135n. Cimone, protagonista di una
Carruthers, Mary: 134 e n, novella del Decameron di G.
144n, 382 e n, 383n. Boccaccio: 116.
Cartesio (René Descartes): Cinira: 126.
157n. Cino da Pistoia: 185.
Caruso, Carlo: 204n. Claudia di Francia: 191n.
Casagrande, Carla: 101n. Clemente VIII papa (al secolo
Casoni, Guido: 300-301. Ippolito Aldobrandini): 38.
Castelvetro, Lodovico: 362, Coglitore, Roberta: 19n, 208n.
363n. Collareta, Marco: 42n.
Castiglione, Baldassarre: 194 e n. Colonna, Francesco: 118n,
Catelli, Nicola: 145n. 322n.
Caterina, santa: 100. Colonna, Giovanni: 298n.
Catone il Censore: 44n. Colonna, Stefano: 96, 110n.

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INDICE DEI NOMI

Comboni, Andrea: 270n. de Certeau, Michel: 3, 46n.


Contile, Luca: 7, 8n, 352, 353n. de la Feuille, Daniel: 87 e n,
Contini, Gianfranco: 57, 71n, 384.
396n. de Nichilo, Mario: 339n.
Cool, Kenneth E.: 161n. de Nohlac, Pierre: 103n.
Cooper, Richard: 252, 253n. De Ricci, Seymour: 26 e n,
Corrozet, Gilles: 227, 228n, 202n.
277, 279, 280 e n, 286. De Robertis, Domenico: 14n,
Cortesi Bosco, Francesca: 83n, 159n.
85n, 354 e n, 356n. de Sedabonis, Pietro: 363n.
Cossa, Vettor: 83. De Vendittis, Luigi: 103n.
Cossutta, Fabio: 69n, 70 e n, de’ Franceschi, Francesco: 80n.
94n, 120n, 123n, 153, 154 e de’ Vecchi, Alessandro: 404n.
n. Deioneo: 125-126.
Cottino-Jones, Marga: 149n. Dekoninck, Ralph: 63n.
Courcelle, Pierre: 101n. Del Popolo, Concetto: 312n.
Cowling, David: 144n. Delcorno, Carlo: 301n.
Crimi, Giuseppe: 16n. della Porta, Guglielmo: 26.
Crivellari, Bartolomeo: 248n. della Rovere, Francesco Maria:
Crossley, Paul: 383n. 182, 277.
Cuomo, Francesco: 213-214, della Rovere, Guidobaldo duca
216, 218, 220. di Urbino: 282n.
Cupido (Eros): 59-60, 62-63, Dempsey, Charles: 270n, 274n.
81-82, 88, 96, 99, 149, 151- Detienne, Marcel: 315n.
152, 155, 174, 213, 216, Dia, moglie di Issione: 125, 129.
220, 238-239, 266, 268, 269 Diana: 111, 113-115, 120, 124,
e n, 270, 271n, 272-273, 323.
320, 332, 359, 371, 387, Diana d’Efeso: 321.
392, 397, 411. Diani, Dominique: 259n, 339,
Cusai: 83-84. 340n.
da Varano, Giulia: 282n. Didi-Huberman, Georges:
Dafne: 7n, 149, 199, 215n. 161n.
Dal Pozzolo, Enrico Maria: Diller, Aubrey: 103n.
118, 119 e n. Diogene: 142n.
Daly, Peter M.: 19n, 254n. Doglio, Maria Luisa: 9n, 301n.
Damasio, Antonio: 157n. Dolce, Lodovico: 369.
Daniele, Antonio: 214n. Domenichelli, Mario: 127n,
Daniele, santo: 354. 129n.
Daniello, Bernardino: 8 e n. Domenichi, Lodovico: 39n, 336
Davanzati, Chiaro: 313n. e n, 337.
Davide, personaggio biblico: Donati, Lamberto: 69n.
8n, 83, 353. Doni, Anton Francesco: 36,

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429 balti indice nomi_layout 18/07/13 13.30 Pagina 433

INDICE DEI NOMI

37n, 185 e n, 187-188 e nn, Fiske, Daniel W.: 137n.


195, 399, 401n, 402, 403n. Flegia: 125.
Dotti, Ugo: 149n. Flynn, William T.: 383n.
Draaisma, Douwe: 145n. Föcking, Marc: 112n.
Dürer, Albrecht: 138. Folchetto di Marsiglia: 147.
Dutschke, Dennis: 26 e n, 27n, Folena, Gianfranco: 375n.
65, 66n, 112n, 237, 238n. Fontebasso, Francesco: 248n.
Edipo: 127. Forni, Giorgio: 301n.
Efigenia: 117. Forster, Leonard: 7n, 80n.
Eisenbichler, Konrad: 53n. Foster, Kenelm o.p.: 226n.
Elena: 365. Francesco d’Antonio del Chie-
Eliano: 305. rico: 348.
Enenkel, Karl. A.E.: 254n. Francesco da Assisi, santo: 301,
Eolo: 133, 206. 302 e n, 390n.
Erasmo da Rotterdam: 44n, Francesco da Barberino: 42n,
79n. 269n.
Eurialo d’Ascoli: vd. Morani Francesco da Monterchi: 16.
de’ Guiderdocchi, Aurelio. Francesco I, re di Francia: 191n,
Euridice: 69n. 377, 402-403.
Euripide: 292. Franco, Nicolò: 10 e n, 200, 201
Faloppia, Francesco: 409. e n.
Favaro, Maiko: 37n. Fränger, Wilhelm: 137n.
Fenzi, Enrico: 43n, 61n, 103n, Frare, Pierantonio: 346-347nn.
342 e n, 343n. Frasca, Gabriele: 257-258nn.
Feo, Michele: 54n, 214n. Frasso, Giuseppe: 9n, 69n, 162n,
Fera, Vincenzo: 103n. 206n, 214n.
Ferdinando I d’Aragona: 351. Freccero, John: 197n.
Ferrante d’Aragona: 356n. Freedberg, David: 157n.
Ferraù, Giacomo: 103n. Fregoso, famiglia: 232.
Ferro, Giovanni: 11, 39-40nn, Fregoso, Fregosino: 232.
87 e n, 130, 131 e n, 142 e Fregoso, Guido: 232.
n, 199 e n, 200 e n, 201, 224 Fregoso, Lodovico: 232.
e n, 233 e n, 242 e n, 281, Fregoso, Zaccaria: 232.
282n, 287, 288n, 305n, Freud, Sigmund: 47n, 225n.
339n, 352n, 385n, 393 e n. Fucilla, Joseph G.: 388n.
Ferro, Luigi: 199. Fulco, Giorgio: 256n, 261 e n.
Fieschi, famiglia: 232. Fussio, Odetto: 306n.
Fieschi, Gieronimo: 230. Gabe Coleman, Dorothy: 392n.
Fieschi, Ottobono: 230, 232. Gabriele, Mino: 118n, 149n,
Fieschi, Sinibaldo: 230. 213n, 272n, 295n.
Figurelli, Fernando: 79 e n. Galis, Diana: 85n.
Filostrato: 385 e n. Gallerani, Cecilia: 365-366.

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INDICE DEI NOMI

Gallese, Vittorio: 157n. Gonzaga, famiglia: 31.


Gantert, Ruth: 365n. Gonzaga, Lucrezia: 10.
Genovese, Gianluca: 405n, Grifo, Antonio: 8, 9n, 69 e n,
410n. 70, 83, 120, 122, 151-152,
Gentile, Giovanni: 103n. 154, 162n, 165, 175, 178,
Gentile, Sebastiano: 103n. 180, 206n, 207 e n, 209,
Gentili, Augusto: 356n. 248, 321, 397.
Gerardo da Cremona: 103. Guerrini, Gemma: 202-203nn.
Gervaise: 308. Guiderdoni-Bruslé, Agnes: 63n.
Gesualdo, Giovanni Andrea: Guido d’Arezzo: 42n.
212, 213n. Guillaume le Clerc: 308.
Gheraerts, Marco il Vecchio: Güntert, Georges: 365n.
253n, 254. Hackenbroch, Yvonne: 31, 34n.
Ghini Bandinelli, Pandolfo: Hainsworth, Peter R.: 149n.
282. Hamon, Philippe: 208n.
Giacomello, Alessandro: 54n, Harthan, John: 305n.
248n, 332n, 379n, 397n. Heckscher, William S.: 199n.
Gianfigliazzi, Geri: 226. Heinsius, Daniel: 81, 96, 238-
Gibellini, Pietro: 69n, 149n. 239, 332.
Giorgione da Castelfranco: 117 Hempfer, Klaus W.: 323n.
e n. Hesse, Mary B.: 341, 342n.
Giovanna d’Austria: 35n. Hill, George Francis: 38n.
Giovanni Evangelista, santo: 29, Hilliard, Nicholas: 25n.
39, 303, 306n. Holbein, Hans il Giovane: 31.
Giove (Zeus): 126, 127n, 129, Holcroft, Alison: 53n.
198, 199n, 202, 206, 292n, Höltgen, Karl J.: 254n.
368-371. Hooft, Pieter Cornelisz: 96,
Giovio, Paolo: 11n, 30n, 36n, 98n, 99, 332.
40n, 182, 185, 186 e n, 230, Huot, Sylvia: 147n.
232n, 233, 277 e n, 284 e n, Iannucci, Amilcare A.: 53n.
336n, 351, 352n, 370, 371n, Inghilfredi, Tommaso: 313n.
377, 378n. Isaac ben Salomon Israeli: 103 e
Girotto, Carlo Alberto: 185n, n.
187n. Isaia: 306.
Giulio Ossequente: 370. Isidoro da Siviglia: 198.
Giunone (Era): 126, 127 e n, Issione: 125-140.
129. Jager, Eric: 147n.
Giunti, Bernardo: 74n. Jasenas, Michael: 202n.
Goethe, Johann Wolfgang: Joachim: 354.
138n. Jonard, Norbert: 225n.
Goldin Folena, Daniela: 103n. Junius, Hadrian: 392n.
Gonzaga, Curzio: 30n. Kablitz, Andreas: 396n.

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INDICE DEI NOMI

Klein, Robert: 7 e n, Leonardo da Vinci: 365.


Klingender, Francis: 305n. Leone Ebreo: 103n.
Knape, Joachim: 137n. Leone X, al secolo Giovanni de’
Kraus Reggiani, Clara: 299n. Medici: 14, 16, 395n.
Küpper, Joachim: 162n. Librandi, Rita: 158n.
La Trémoille, Louis II, («monsi- Lippincott, Kristen: 38n.
gnor della Trimoglia»): 284, Lob, Marcel: 295n.
286. Lopez, Sebastàn: 174n.
Lacombe, George: 103n. Lottes, Wolfgang: 254n.
Lanci, Francesco: 305n. Lotto, Lorenzo: 83-85 e nn,
Landino, Cristoforo: 339n. 118-119 e nn, 354-357, 358
Latona: 206. e n, 359.
Laura, amata di Petrarca: 7-8 e Luca: 306.
nn, 11 e n, 12n, 22-23, 43, Luciano: 238.
45n, 54n, 55 e n, 60, 62-65, Lucioli, Francesco: 270n, 274n.
67-68, 69 e n, 74-80, 83, 90, Lucrezia: 270, 272.
96, 110n, 118, 119n, 120, Lucrezio: 130.
122, 123n, 124, 144, 146n, Ludovico il Moro: 83.
148-153, 155-156, 158n, Luigi XII: 191n, 284.
159-161, 162n, 165, 169- Lydgate, John: 270n.
171, 177-178, 180, 184, Lysippus: 193 e n.
188n, 190-191, 194, 195 e Macrobio: 132.
n, 198, 201-204, 206 e n, Maddalo, Silvia: 14n, 250n,
208-210, 211 e n, 212-216, 346n.
218, 220, 222, 224-226 e Maestri, Delmo: 31n.
nn, 227, 233-234, 244-245, Maffei, Sonia: 37n, 185n, 408n.
250, 252, 256-257nn, 260 e Maggi, Armando: 37n, 301n.
n, 261n, 264, 270-272, 291, Magnini, Giovanni: 248n.
292n, 293, 303, 313, 314 e Maier-Troxler, Katharina: 388n.
n, 318, 320, 321n, 323, 330- Malacarne, Giancarlo: 38n.
331, 333-334, 344, 345n, Malke, Lutz S.: 252n, 438n.
346 e n, 347-348nn, 352, Mancini, Franco: 147n.
359, 361 e n, 363 e n, 364- Manfredi, Muzio: 233.
365, 366n, 374, 376, 379, Mann, Nicholas: 149n, 161n.
387-388, 390, 396n, 397, Mantova Benavides, Marco:
411. 366n.
Laurana, Francesco: 350. Mantovani, Gilda P.: 54n.
Lazzaro: 380. Manuzio, Aldo: 13n,
Lecoq, Anne-Marie: 252n. Marazzini, Claudio: 312n.
Lemmer, Manfred: 137n. Marcellini, Giovan Pietro Airol-
Leonardis, Giacomo Antonio: do: 87n.
248n. Marco Argentario: 238.

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INDICE DEI NOMI

Marcolini, Francesco: 399, Moretti, Giovanni Battista:


401n, 404. 248n.
Marcozzi, Luca: 103n, 109n, Morini, Luigina: 306n.
149n. Mosè: 410n.
Maria: 143 e n. Mosti, Giulio: 131.
Mariani Canova, Giordana: 9n, Motolese, Matteo: 185n.
69n, 162n, 206n. Mozzetti, Francesco: 402n.
Marino di Marciano: 351. Muckle, Joseph T.: 103n.
Marino, Giovanbattista: 194- Mulinacci, Anna Paola: 185n.
195nn. Narciso: 195 e n.
Marot, Clément: 250 e n. Nebuloni Testa, Antonietta:
Marquale, Giovanni: 263. 289n.
Martinelli, Bortolo: 112n, 145n, Nefele: 126.
249n. Nichols, Stephen G.: 147-
Masi, Giorgio: 185n, 187n, 148nn.
189n, 402n. Nicolini da Sabbio, Pietro e
Massena, Vincent, Prince d’Es- Gianmaria: 8n.
sling-Eugène Müntz: 53n, Nochlin, Linda: 46n.
348n. Nodari, Francesca: 54n, 248n,
Mazzarino, Vincenzina: 314n. 332n, 379n, 397n.
Mazzotta, Giuseppe: 215n. Noferi, Adelia: 146n.
McGeary, Thomas: 213n. Nota, Elvira: 264n.
McLaughlin, Martin: 54n, O’Rourke Boyle, Marjorie:
152n, 155n, 171n. 149n.
McMenamin, James F.: 319n. Orazio: 214n, 290n.
Medici, famiglia: 234. Orfeo: 136.
Medici, Francesco de’: 35n. Orth, Myra: 252, 253n.
Medusa: 190, 223-224, 225 e n, Ortner, Alexandra: 53n, 55n.
226-228, 396n. Osea, profeta: 387n.
Meneghelli, Donata: 194n. Ossola, Carlo: 46n.
Meneghetti, Maria Luisa: 147n. Ovidio: 89, 125, 159n, 223, 282,
Menennio Agrippa: 164n. 292, 387.
Menestrier, Claude François: Pacini, Pietro: 203.
112 e n, Palatino, Giovan Battista: 80.
Meninni, Federico: 167n. Palazzi, Giovanni Andrea: 11,
Merril, Robert V.: 270n. 40n, 199, 200 e n, 201.
Migliorini, Maurizia: 408n. Pandolfino, personaggio dei
Minerva: 227, 272n. Marmi di A.F. Doni: 400-
Minio-Paluello, Lorenzo: 102n. 401.
Moly Feo, Giuditta: 137n. Panofsky, Erwin: 269-270nn.
Morani de’ Guiderdocchi, Au- Paolino, Laura: 120n.
relio: 16 e n, 17. Paolo Apostolo, santo: 306.

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INDICE DEI NOMI

Papy, Jan: 254n. Pontano, Gioviano: 386.


Paradin, Claude: 73, 74 e n, Pozzi, Giovanni: 18n, 20, 21n,
378n, 395n. 22 e n, 45n, 171n, 404n.
Parlato, Enrico: 402 e n. Praloran, Marco: 361n.
Pasquale, Lorenzo: 366n. Prandi, Stefano: 320, 321n.
Pasqualigo, Martino: 38. Praz, Mario: 6n, 12 e n, 34n,
Pecoraro, Marco: 396n. 44n, 81n, 93n, 321n.
Peleo: 282. Préchac, François: 289n.
Pellizzari, Patrizia: 189n. Priuli, Vittorio: 214n.
Pelosini, Raffaella: 260n. Procaccioli, Paolo: 185n, 402n,
Penelope: 270, 272. 405n, 410n.
Percivallo, Bernardino: 142n. Proserpina: 98.
Perin del Vaga: 26. Prudenzio: 55n.
Persio da Bologna: 264. Pulega, Andrea: 257n, 342 e n.
Petoletti, Marco: 289n. Quevedo, Francisco de: 47.
Pfisterer, Ulrich: 193n. Raimondi, Ezio: 11n.
Philippe de Thaün: 306. Raymond, Marcel: 103n.
Pich, Federica: 193-194nn. Raymond de Lodève, Vincent:
Picinelli, Filippo: 87 e n, 130 e 14.
n, 143n, 223n, 233n, 277n, Regn, Gerhard: 110n.
288 e n, 290n, 300n, 301n, Reymond, Pierre: 31.
356n, 373 e n, 386, 387n, Richard de Fournival: 308,
393n. 310-311 e nn.
Picone, Michelangelo: 24n, Ricketts, Peter: 396n.
93n, 214n, 332n, 334n, Rico, Francisco: 108n.
338n, 340-341nn, 344n, Rigolot, François: 202n, 250n.
348n, 387n, 390, 391n. Rigotti, Francesca: 144n.
Pier delle Vigne: 159, 368. Rima, Beatrice: 195n.
Pierazzo, Elena: 400n. Ripa, Cesare: 299, 300n, 332.
Pindaro: 126. Ritter Santini, Lea: 138n, 164n.
Piritoo: 125. Rizzarelli, Giovanna: 189n, 401n.
Pittoni, Giovan Battista: 199 e Rizzo, Silvia: 103n.
n, 369 e n. Romanò, Angelo: 319n, 323n,
Platone: 79n, 101-108 e nn. 396n.
Plebe, Armando: 296n. Rosenthal, Òlivia: 20n, 44n.
Plinio il Vecchio: 142, 198, 230, Rossi, Bartolomeo: 233n, 288.
233, 237, 277, 299, 305. Rossi, Luciano: 366n, 396n.
Plutarco: 130. Rossi, Massimiliano: 37n.
Plutone: 126. Rossi, Vittorio: 289n.
Poggini, Benedetto: 40. Rota, Berardino: 37 e n.
Polia: 119n. Rouille, Guillaume: 263.
Pollard, Graham: 38n. Rousseau, Jean Jacques: 336.

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INDICE DEI NOMI

Ruscelli, Girolamo: 10-11 e nn, Simoni, Aduardo: 142n.


16, 30n, 40n, 80 e n, 131, Simpliciano (protagonista di
176, 177n, 182 e n, 214n, una novella di Matteo Ban-
242n, 273 e n, 283 e n. dello): 31.
Russell, Daniel: 19n, 34n, 44n, Smith, Paul J.: 254n.
46n, 195n. Socrate: 101-102, 105.
Russo, Emilio: 185n. Spaggiari, Beatrice: 396n.
Saba Sardi, Francesco: 138n. Spenser, Edmund: 254.
Sacramoro de Pommiers: 296n. Spinola, Orazio: 142.
Saffiotti Dale, Maria Francesca: Stampa, Ermete: 385n.
14n. Starobinski, Jean: 51, 336 e n.
Salutati, Coluccio: 339n. Stierle, Karlheinz: 24n, 362n,
Salviati, Francesco: 26. 366n.
Sambucus, Johannes: 230, 321, Stobeo: 44n.
325, 392n. Strada, Elena: 43, 44n.
Samek Ludovici, Sergio: 53n. Stroppa, Sabrina: 23n, 209n,
San Clemente, Guglielmo: 244n, 248n, 264 e n, 273n,
339n. 318n, 342, 363n, 379, 380n,
Sandal, Ennio: 9n, 69n, 162n, 390n.
206n. Sturm-Maddox, Sara: 202n,
Sannazaro, Jacopo: 185, 187, 215n, 224n.
188 e n. Suarez, Baldassarre (il Mante-
Santagata, Marco: 249n. nuto tra gli Accademici del-
Sanvito, Bartolomeo: 14 e n, la Crusca): 21-23.
249, 250 e n, 346n. Susanna: 354, 356n, 358-359.
Scaglione, Aldo: 149n. Sustris, Lambert: 402n.
Scala, Lorenzo, personaggio dei Svetonio: 198 e n.
Marmi di A.F. Doni: 400- Szépe, Helena K.: 14n, 117n.
401. Taegio, Bernardino: 305.
Scéve, Maurice: 392 e n. Tantalo: 126.
Scheidig, Walther: 137n. Tarditi, Giovanni: 126n.
Scher, Stephen K.: 38n. Tasso, Bernardo: 305-306nn,
Schiavoni, Michelangelo: 248n. 405.
Segre, Cesare: 314n, 396 e n. Tasso, Torquato: 142, 195n,
Seneca: 130, 289 e n, 295. 302n.
Shapiro, Marianne: 260n, 388n. Tassoni, Luigi: 146n.
Shapiro, Meyer: 19n. Tesauro, Emanuele: 11 e n, 12n,
Shearman, John: 20n, 365, 99 e n, 302 e n, 303n.
366n. Testi, Fulvio: 130.
Signorini, Rodolfo: 38n. Toderi, Giuseppe: 38-40nn,
Simeoni, Gabriele: 79n, 336n. 405n.
Simmia: 102, 105. Tolomei, Claudio: 16.

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INDICE DEI NOMI

Tolomio, Ilario: 101n. Villa, Giovanni Carlo Federico:


Tomasini, Giacomo Filippo: 119n.
120 e n. Virgilio: 133, 134n, 213, 289 e
Tonelli, Natascia: 159n. n, 387.
Toniolo, Francesca: 54n. Virginia: 272.
Torre, Andrea: 85n, 99n, 145n. Visdomini, Francesco: 404n.
Trapp, Joseph B.: 13, 14 e n, 25 Vittoria, Alessandro: 39, 404,
e n, 45n, 54n. 405, 408, 410n.
Ugo da San Vittore: 248n. Volterrani, Silvia: 37n, 79n.
Ulisse: 342 e n, 343. Vulcano: 205-206.
Ullman, Berthold L.: 202n. Waddington, Raymond: 404n,
Umberto, beato: 288. 406n, 410n.
Vaenius, Otto: vd. van Veen Walcott, Derek: 3.
(Vaenius), Otto. Warburg, Aby: 270n.
Valeriano, Pierio: 199, 384. Weinrich, Harald: 144n.
Valerio Massimo: 399. Weiss, Roberto: 103n.
Van den Bossche, Bart: 363n. Wenzel, Siegfried: 148n.
van der Noot, Jan: 254 e n. Weppelmann, Stefan: 350n.
van Leuven, Ludovicus: 171- Wesseling, Ari: 79n.
172, 180. Wilkins, Ernst H.: 202n.
van Veen (Vaenius), Otto: 63 e Yates, Frances A.: 6, 7n.
n, 172 e n, 174, 177, 180, Zaccaria, Vittorio: 128n, 396n.
238-239, 323, 325, 326n, Zaganelli, Giovanna: 69n, 207n.
328 e n, 332, 371 e n, 393 e Zambon, Francesco: 310n.
n, 395n. Zamorei, Gabrio: 298n.
Vannel, Fiorenza: 38-40nn, Zampetti, Pietro: 356n.
405n. Zanobi da Strada: 42n., 298n.
Vannini, Marco: 108n. Zatta, Antonio: 13, 56n, 247,
Vanossi, Luigi: 113n. 332, 379, 397.
Varchi, Benedetto: 40n, 41, 42n. Zintzen, Clemens: 103n, 105n,
Vasari, Giorgio: 35n. 107n.
Vecce, Carlo: 55n, 149n, 342n. Zompini, Gaetano: 248 e n.
Vecchio, Silvana: 101n. Zoppino, Niccolò d’Aristotele
Vecellio, Tiziano: 402 e n. detto lo: 406.
Vellutello, Alessandro: 79, 80n, Zorzi, Renzo: 362n.
200, 318 e n. Zuccari, Federico: 26.
Venere: 98, 118. Zuccari, Taddeo: 26.
Vickers, Nancy: 215n.

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Finito di stampare
nel mese di ottobre 2012
presso Zaccaria srl
Napoli

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