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Il libro

D all’acclamato autore bestseller Jay Kristoff, il Libro Secondo degli


Accadimenti di Illuminotte.
Mia Corvere, distruttrice di imperi, ha trovato il suo posto tra le Lame di
Nostra Signora del benedetto omicidio, ma sono in tanti all’interno della Chiesa Rosa
a pensare che non se lo meriti.
La sua posizione è fragile, e non si sta affatto avvicinando alla vendetta cui
agogna. Ma dopo uno scontro letale con un vecchio nemico, Mia inizia a sospettare
quali siano i veri moventi della Chiesa Rossa.
Al termine dei grandi giochi di Godsgrave, Mia tradisce la Chiesa e si vende
come schiava per avere la possibilità di mantenere la promessa che ha fatto il giorno
in cui ha perso tutto.
Sulle sabbie dell’arena, Mia trova nuovi alleati, feroci rivali e domande ancora più
incalzanti sulla sua affinità con le ombre.
L’autore

Jay Kristoff è l’autore delle serie pluripremiate The Illuminae Files, Aurora Cycle
e Nevernight. Ha vinto due Aurelian Awards e un ABIA, è stato finalista ai premi
David Gemmell Morningstar e Legend ed è attualmente pubblicato in oltre 25 paesi
(ma nella maggior parte di questi non ha mai messo piede). È esterrefatto da tutto
ciò, tanto quanto voi. È alto più di due metri e gli mancano circa 13.030 giorni da
vivere.
Dimora a Melbourne con la moglie, agente segreto e assassina esperta di kung fu,
e il Jack Russell più pigro del mondo.
Non crede nel lieto fine.
Jay Kristoff

Libro secondo degli accadimenti di Illuminotte

NEVERNIGHT
I grandi giochi

Traduzione di Gabriele Giorgi


per i miei nemici
siete uno dei motivi per cui ce l’ho fatta
Buon cambio a voi, gentili amici. Che piacere rivedervi.
Lo confesso, mi siete mancati durante la nostra separazione. E ora che
ci siamo ritrovati, vorrei potervi salutare semplicemente con un sorriso e
lasciarvi tornare alle faccende di omicidio, vendetta e saltuarie sferzate di
oscenità scritte con gusto. Ma prima di infilarci di nuovo assieme tra le
pagine, dovrei dispensarvi un onesto ammonimento.
La memoria è bugiarda e traditrice: un ladro buono a nulla. E anche se i
personaggi del nostro dramma sono indubbiamente vergati con inchiostro
indelebile nella vostra psiche, a volte dobbiamo effettuare delle concessioni
ai meno dotati tra voi mortali.
Perciò, forse, è necessario un ripasso?
DRAMATIS PERSONAE

Mia Corvere – assassina, ladra ed eroina del nostro racconto, sempre che si
possa affermare che questa storia ne abbia una. Suo padre, Darius, fu
giustiziato per ordine del senato itreyano e, giurando vendetta, lei divenne
una discepola del culto di sicari più temuto della Repubblica: la Chiesa
Rossa.
Pur avendo fallito le prove della Chiesa, Mia fu iniziata come una Lama
(ovvero un’assassina) dopo aver liberato il Culto della Chiesa durante un
attacco portato dai legionari Luminatii.
Mia ha sangue misto itreyano-liisiano. È anche una tenebris, in grado di
controllare la tenebra stessa. Possiede una comprensione limitata dei suoi
poteri, e l’unico altro tenebris che abbia mai incontrato è morto prima di
poterle dare le risposte che lei bramava.
Tragico, lo so.

Messer Cortese – un demone, un passeggero o un famiglio (dipende a chi


lo chiedete) fatto di ombre, che si nutre della paura di Mia. Le salvò la vita
da bambina e afferma di sapere pochissimo sulla sua vera natura, anche se è
risaputo che di tanto in tanto menta.
Indossa la forma di un gatto, anche se è qualcosa di completamente
diverso.

Eclissi – un altro demone d’ombra, che indossa le sembianze di una lupa.


Eclissi era il passeggero di lord Cassius, già a capo della Chiesa Rossa.
Dopo la morte di Cassius per mano dei Luminatii, Eclissi si è vincolata a
Mia.
Come molti cani e gatti, lei e Messer Cortese non vanno d’accordo.
Il vecchio Mercurio – istruttore e confidente di Mia nel periodo precedente
al suo ingresso nella Chiesa Rossa. Mercurio fu una Lama della Chiesa per
anni, ma ora si è ritirato a Godsgrave. Il vecchio itreyano gestisce il negozio
Curiosità di Mercurio e funge da trafficante di informazioni e scopritore di
talenti per i servitori della Madre Nera.
Sotto nessuno dei tre soli si è mai visto un vecchio bastardo più
scontroso di lui.

Tric – un accolito della Chiesa Rossa, nonché amico e amante di Mia. Tric
era di origini miste itreyana-dweymeri. Era in procinto di essere iniziato tra
le Lame, ma Ashlinn Järnheim gli inflisse diverse pugnalate al cuore e lo
gettò giù dal lato della Montagna Silente.
Per onorare una promessa fatta a Tric, Mia assassinò il nonno di Tric,
Spezzaspada, re delle Isole dweymeri, dopo la morte del ragazzo.
Cosa non molto ragionevole, se ci pensate…

Ashlinn Järnheim – un’accolita della Chiesa Rossa e in precedenza una


delle amiche più strette di Mia. Ash è nata a Vaan ed è la figlia di Torvar
Järnheim, una Lama della Chiesa ora ritirata. Come vendetta per la
mutilazione ricevuta al servizio della Madre, lui e i suoi figli concepirono
un piano che per poco non mise in ginocchio l’intera Chiesa, anche se alla
fine la loro cospirazione fu sventata da Mia.
Il fratello di Ash, Osrik, fu ucciso durante la congiura, ma Ashlinn fuggì.
La definizione migliore dei sentimenti di Ash nei confronti di Mia è…
complicati.

Naev – una Mano (ovvero una discepola) della Chiesa Rossa e buona amica
di Mia, che gestisce i viaggi di approvvigionamento nelle desolate
Frusciaride di Ashkah. Naev fu sfigurata dalla Tessitrice Marielle per
gelosia, ma come ricompensa per l’aiuto di Mia durante l’attacco dei
Luminatii, Marielle ripristinò la sua originaria bellezza.
Naev non dimentica e non perdona, uno dei motivi per cui lei e Mia
vanno d’accordo.

Drusilla – Reverenda madre della Chiesa Rossa e, malgrado la sua


apparente età avanzata, una tra i servitori più letali della Madre Nera al
mondo. Drusilla decretò che Mia non aveva superato l’ultima prova e solo
dopo l’intercessione di Cassius, il Signore delle Lame, la ragazza fu
iniziata.
Per usare un eufemismo, non è tra coloro che più apprezzano Mia.

Solis – Shahiid di Canti, istruttore degli accoliti della Chiesa Rossa nell’arte
dell’acciaio. Mia gli scalfì il volto durante la loro prima sessione di
addestramento. Per ritorsione, Solis le tranciò il braccio.
I loro rapporti vanno a meraviglia, come potete immaginare. a

Ammazzaragni – votata come la “Shahiid con le maggiori probabilità di


uccidere i suoi stessi studenti” per cinque anni di seguito, Ammazzaragni è
l’istruttrice dell’Aula di Verità. Mia è stata una dei suoi accoliti più
promettenti, ma dopo il suo fallimento nella prova finale di Drusilla,
l’apprezzamento della Shahiid per la ragazza si è praticamente volatilizzato.

Mouser – Shahiid di Tasche e maestro del furto. Affascinante e arguto, gli


piace il latrocinio tanto quanto indossare intimo femminile. Questo Itreyano
non sembra nutrire alcuna evidente ostilità verso Mia, cosa che lo rende
praticamente il suo maggior sostenitore.

Aalea – Shahiid di Maschere e signora dei segreti. Si dice che esistano solo
due tipi di persone a questo mondo: quelli che sono innamorati di Aalea e
quelli che non l’hanno ancora incontrata.
In effetti, pare che apprezzi Mia.
Sorprendente, vero?

Marielle – una dei due stregoni albini al servizio della Chiesa. Marielle è
maestra dell’antica magika ashkahi della tessitura della carne ed è capace di
scolpire pelle e muscoli come se fossero argilla. Ma il tributo che paga in
cambio del suo potere è elevato: la sua stessa carne ha un aspetto orrendo, e
lei non può fare nulla per cambiarlo.
A Marielle non importa di nessuno tranne di suo fratello Adonai, e lui
ricambia, forse fin troppo.
Adonai – il secondo stregone al servizio della Montagna Silente. Adonai è
un oratore del sangue, capace di manipolare la vitae umana. Grazie alle arti
di sua sorella, è dotato di una bellezza senza pari.
Anche se ricordo un detto su libri e copertine…

Aelius – il Cronista della Montagna Silente, incaricato di mantenere una


parvenza di ordine nel grande Ateneo della Chiesa Rossa.
Come ogni altra cosa nella biblioteca di Niah, Aelius è morto.
Lui pare un po’ ambiguo su questo fatto.

Zitto – già accolito della Chiesa Rossa, ora una Lama a pieno titolo. Zitto
non parla mai e comunica invece con una forma di linguaggio dei segni
nota come Senzalingua.
Il ragazzo itreyano ha aiutato Mia nelle sue prove finali, anche se insiste
che loro due non sono amici.

Jessamine Gratianus – un’accolita della Chiesa Rossa del gregge di Mia


che non è riuscita a diventare una Lama. Jessamine è la figlia di Marcinus,
un centurione itreyano giustiziato per la sua lealtà al padre di Mia, Darius
“l’Incoronatore” Corvere. Jess incolpa Darius – e per estensione Mia stessa
– per la morte di suo padre, anche se in realtà le due ragazze hanno
parecchio in comune.
Il desiderio di vedere il console Julius Scaeva sbudellato come un
maiale, tanto per fare un esempio.

Julius Scaeva – Console del senato itreyano al suo terzo mandato


consecutivo. Scaeva ha mantenuto il ruolo di console unico fin dalla
Ribellione degli Incoronatori, risalente a sei anni prima rispetto agli eventi
qui narrati. Tale posizione di solito viene condivisa e i consoli servono per
un solo mandato, ma per Scaeva pare che le regole non si applichino.
Presiedette all’esecuzione del padre di Mia e condannò sua madre e il
suo fratellino a morire nella Pietra Filosofale. Ordinò anche che Mia fosse
affogata in un canale.
Sì, è decisamente una fregna.
Francesco Duomo – Gran cardinale della Chiesa della Luce, nonché
membro più potente del clero del Semprevigile. Assieme a Scaeva e Remus,
fu responsabile della sentenza di morte emessa contro i ribelli Incoronatori.
Duomo è la mano destra di Aa sulla terra. La semplice vista di una
reliquia sacra benedetta da un uomo dotato della sua fede è sufficiente a far
contorcere Mia dal dolore.
Di conseguenza, avvicinarsi per trafiggerlo a morte potrebbe dimostrarsi
problematico.

Tribuno Marcus Remus – già tribuno della legione dei Luminatii che
guidò l’attacco alla Montagna Silente. Durante il suo confronto finale con
Mia, Remus fece alcuni commenti criptici sul di lei fratellino Jonnen.
Mia pugnalò a morte l’Itreyano prima che potesse spiegarsi a dovere.
Lui non ne fu compiaciuto.

Alinne Corvere – madre di Mia. Pur essendo nata a Liis, Alinne conquistò
una posizione di rilievo nelle sale del potere itreyano. Era un genio politico,
e una domina molto stimata e dalla notevole forza di volontà. Imprigionata
nella Pietra Filosofale assieme al suo lattante dopo la fallita ribellione
guidata dal marito, morì pazza, circondata dallo squallore.
Sì, anche a me piaceva.

Darius “l’Incoronatore” Corvere – padre di Mia. Già tribuno della


legione dei Luminatii, Darius forgiò un’alleanza con il generale Gaius
Maxinius Antonius che avrebbe dovuto portare all’incoronazione di
quest’ultimo come re. Assieme, i due Itreyani radunarono un esercito e
marciarono sulla loro stessa capitale, ma furono catturati entrambi alla
vigilia della battaglia. Privo di una guida, il loro esercito andò in pezzi. Le
truppe furono crocifisse e Darius stesso fu impiccato accanto al suo
aspirante re Antonius.
Tanto vicini da potersi quasi toccare.

Jonnen Corvere – fratello di Mia. Un infante al momento della ribellione


di suo padre, Jonnen fu imprigionato con la madre nella Pietra per ordine di
Julius Scaeva. Morì lì dentro prima che Mia avesse una possibilità di
liberarlo.
Aa – il Padre della Luce, noto anche come il Semprevigile. Si dice che i tre
soli, Saan (il Veggente), Saai (il Sapiente) e Shiih (il Sorvegliante), siano i
suoi occhi, e nel cielo di solito è presente uno o più di essi, con il risultato
che la notte vera e propria, anche detta verobuio, si verifica solo per una
settimana ogni due anni e mezzo.
Aa è un dio benevolo, gentile con i suoi sudditi e pietoso verso i suoi
nemici. E se credete a questo, gentili amici, ho giusto un ponte a Godsgrave
da vendervi.

Tsana – Signora del fuoco, Colei che brucia il nostro peccato, la Pura,
protettrice di donne e guerrieri, primogenita di Aa e Niah.

Keph – Signora della terra, Colei che sempre dorme, il Focolare, protettrice
di sognatori e folli, secondogenita di Aa e Niah.

Trelene – Signora degli oceani, Colei che trangugerà il mondo, il Fato,


protettrice di marinai e furfanti, terzogenita di Aa e Niah e gemella di
Nalipse.

Nalipse – Signora delle tempeste, Colei che ricorda, la Pietosa, protettrice


di guaritori e condottieri, quartogenita di Aa e Niah e gemella di Trelene.

Niah – la Madre della Notte, la Nostra Signora dell’omicidio benedetto,


nota anche come la Mannaia. Sorellamoglie di Aa, Niah governa una
regione senza luce dell’aldilà nota come l’Abisso. Lei e Aa all’inizio
condividevano in parti uguali il dominio del cielo. Nonostante le fosse stato
ordinato di partorire solo figlie femmine, Niah disobbedì al mandato di Aa e
procreò un figlio maschio. Come punizione, Niah fu esiliata dai cieli dal
suo amato, che le concesse di tornare solo per breve tempo a intervalli di
anni.
E cosa ne fu del loro figlio?
Come ho detto l’ultima volta, gentili amici, ciò vorrebbe dire rovinare la
sorpresa.
a. Sì, gentili amici, questo era sarcasmo. Ammettetelo, vi sono mancato, vero?
NEVERNIGHT

I GRANDI GIOCHI

Il lupo non commisera l’agnello.


E la tempesta non chiede perdono agli affogati.

MOTTO DELLA CHIESA ROSSA


LIBRO 1
LA PROMESSA SCARLATTA
CAPITOLO 1
PROFUMO

Nulla puzza quanto un cadavere.


Ci mettono un po’ per cominciare a emanare davvero fetore. Oh, ci sono
buone probabilità che se non insozzate le vostre brache prima di morire, lo
farete poco dopo: i vostri corpi umani funzionano semplicemente così,
temo. Ma non intendo la puzza di merda che si trova per le strade, gentili
amici. Parlo del profumo da lacrime agli occhi della semplice mortalità. Gli
ci vogliono un cambio o due per scaldarsi, ma una volta che il banchetto ha
raggiunto il suo apice, non è qualcosa che si dimentica facilmente.
Prima che la pelle inizi ad annerirsi, gli occhi sbianchino e il ventre si
gonfi come una specie di orripilante pallone, il processo ha inizio. In esso
c’è una certa dolcezza, che vi scivola giù per la gola e vi agita il petto come
una zangola per il burro. In verità, penso che parli a qualcosa di primitivo
che avete dentro. La stessa parte di voi mortali che ha paura del buio. Che
sa, senza ombra di dubbio che, chiunque voi siate e qualunque cosa
facciate, alla fine i vermi avranno il loro banchetto e arriverà un cambio in
cui voi e tutto ciò che amate morirete.
Tuttavia, ci vuole del tempo perché i corpi si guastino a un punto tale da
poterli fiutare a miglia di distanza. E così, quando Bevilacrime colse una
zaffata del forte e dolciastro fetore di decomposizione sui venti fruscianti di
Ashkah, seppe che i cadaveri dovevano essere morti da almeno due cambi.
E dovevano essercene un sacco.
La donna tirò le redini, facendo fermare il suo cammello mentre
sollevava il pugno verso la sua squadra. Il carrettiere sul convoglio dietro di
lei vide il segnale: la lunga e serpeggiante catena di veicoli e animali
rallentò tra sputi, ringhi e passi pesanti. Il calore era violento: due soli
facevano ardere il cielo di un azzurro accecante, e tutto il deserto attorno a
essi era increspato di rosso. Bevilacrime allungò la mano verso l’otre che
aveva sulla sella e prese una sorsata tiepida mentre il suo secondo si
arrestava accanto a lei.
«Problemi?» chiese Cesare.
Bevilacrime annuì verso sud lungo la strada. «Ne sento la puzza.»
Come tutto il suo popolo, la donna dweymeri era alta: sei piedi e sette
pollici, non uno di meno, e ognuno di quei pollici era muscoli. Aveva la
pelle di color marrone intenso, i lineamenti adornati con gli intricati
tatuaggi facciali portati da tutta la gente delle Isole dweymeri. Una lunga
cicatrice le divideva in due la fronte, passando sopra l’occhio sinistro color
bianco latte e poi lungo la guancia. Era vestita come un marinaio: un
tricorno e una redingote da vecchio capitano. Ma gli oceani che navigava
adesso erano fatti di sabbia e l’unico legno su cui camminava era quello del
suo convoglio di carri. Dopo un naufragio che aveva ucciso il suo intero
equipaggio e disperso il carico anni fa, Bevilacrime aveva deciso che la
Madre degli oceani la odiava visceralmente tanto quanto l’imbarcazione su
cui navigava.
E così viaggiava nei deserti.
Il capitano si schermò di nuovo l’occhio contro il bagliore,
socchiudendolo per guardare in lontananza. I venti fruscianti graffiavano e
artigliavano attorno a lei, pizzicandole i peli sulla nuca. Erano ancora a sette
cambi di distanza dai Giardini Pensili, e non era insolito che gli schiavisti
battessero questa strada perfino a caldestate. Tuttavia, in cielo c’erano due
dei tre soli, ed essendo così prossimi alla veraluce, sperava che avrebbe
fatto troppo caldo per le tragedie.
Ma il fetore era inconfondibile.
«Dogger» urlò. «Graccus, Luka, prendete le vostre armi e venite con me.
Camminapolvere, tu occupati di quel cantaferro. Se un kraken delle sabbie
finisce per divorarmi la passera, tornerò dal ’bisso per mangiare te.»
«Sì, capitano!» replicò il grosso Dweymeri. Voltandosi verso il
marchingegno di cilindri di ferro inchiodato al carro di coda del convoglio,
Camminapolvere sollevò un grosso tubo e cominciò a percuoterlo come un
segugio disobbediente. La melodia discordante del cantaferro si unì ai
sussurri esasperanti che soffiavano dalle regioni aride settentrionali.
«E io?» chiese Cesare.
Bevilacrime sogghignò al suo braccio destro. «Non ti rischierei mai: sei
troppo grazioso. Resta qui. Tieni d’occhio il bestiame.»
«Non se la passano bene in questa calura.»
La donna annuì. «Abbeverali mentre aspetti. Fagli sgranchire un po’ le
gambe. Non troppo lontano, però. Questa regione è pericolosa.»
«Sì, capitano.»
Cesare si tolse il cappello mentre Dogger, Graccus e Luka in groppa ai
loro cammelli andavano a unirsi a Bevilacrime sul davanti della colonna.
Ogni uomo era vestito con uno spesso farsetto di cuoio malgrado la calura,
e Dogger e Graccus portavano balestre pesanti. Luka impugnava le sue
fiondalame come sempre, un sigaretto che gli pendeva dalla bocca. Il
Liisiano pensava che le frecce fossero per i codardi, e lui era talmente abile
con le sue frombole che Bevilacrime non si lamentava. Però non riusciva
proprio a capire come potesse sopportare di fumare con quel caldo.
«Occhi aperti, bocche chiuse» ordinò Bevilacrime. «Andiamo.»
Il quartetto si diresse in basso tra calanchi rocciosi, e il fetore diventava
più forte ogni secondo che passava. Gli uomini di Bevilacrime erano il
gruppo di bastardi più duri che si potessero trovare sotto i soli, ma anche i
tipi tosti nascevano con il senso dell’olfatto. Dogger si premette un dito sul
naso, sparando fuori un filo di moccio da ciascuna narice e imprecando su
Aa e tutte e quattro le sue figlie. Luka si accese un altro sigaretto e
Bevilacrime fu tentata di chiedergli una tirata per sbarazzarsi di quel sapore,
caldo maledetto o no.
Trovarono i resti a circa due miglia lungo la strada.
Era un convoglio di carri piuttosto corto: due rimorchi e quattro
cammelli, che si gonfiavano alla soliluce. Bevilacrime annuì ai suoi uomini
e quelli smontarono, poi si aggirarono tra i rottami con le armi in pugno.
L’aria era densa dell’inno di minuscole ali.
Un massacro, a giudicare dalle apparenze. C’erano frecce sparpagliate
sulla sabbia e conficcate nelle pareti dei carri. Bevilacrime vide una spada
per terra. Uno scudo rotto. Una lunga scia di sangue secco come lo
scarabocchio di un pazzo e una danza frenetica di orme attorno a una buca
per cucinare ora fredda.
«Schiavisti» mormorò. «Alcuni cambi fa.»
«Già» annuì Luka con una tirata del suo sigaretto. «Così sembra.»
«Capitano, qui una mano mi farebbe comodo» chiamò Dogger.
Bevilacrime fece il giro attorno agli animali morti, con Luka al suo
fianco che scacciava un nugolo di mosche. Vide Dogger, la balestra in
pugno ma non sollevata, che teneva l’altra mano alzata in segno di supplica.
E anche se era il tipo d’uomo la cui unica preoccupazione quando tagliava
la gola di un altro essere umano era quella di non sporcarsi le scarpe, ora
stava parlando in tono gentile, come a una giumenta spaventata.
«Ehi, piano» sussurrò. «Calma, ragazza…»
Qui c’era altro sangue, sparso sulla sabbia, marrone scuro su rosso
intenso. Bevilacrime notò i monticelli che indicavano una dozzina di fosse
appena scavate nei paraggi. Guardando oltre Dogger, lei vide chi stava
parlando con voce così dolce.
«Cazzo infuocato di Aa» mormorò lei. «Questo sì che è uno spettacolo.»
Una ragazza. Diciott’anni al massimo. Carnagione pallida, appena
arrossata dal bruciore della soliluce. Lunghi capelli neri tagliati in frange
nette sopra occhi scuri, il volto macchiato di polvere e sangue secco. Ma
Bevilacrime riusciva a vedere che era bella sotto quello scompiglio, con
zigomi alti e labbra carnose. Impugnava un gladio a doppio filo, intaccato
da un uso recente. Aveva una coscia e le costole avvolte di stracci,
macchiati di un vitigno diverso rispetto al sangue che risaltava sulla tunica.
«Sei proprio un bel fiorellino» disse Bevilacrime.
«S-statemi lontani» ammonì la giovane.
«Calma» mormorò Bevilacrime. «Non hai più bisogno di acciaio,
ragazzina.»
«Lascia che sia io a giudicare, se ti compiace» replicò lei con voce
tremante.
Luka si avvicinò alla ragazza su un fianco, allungando rapidamente una
mano. Ma lei si voltò con un movimento veloce, gli assestò una ginocchiata
e lo fece finire steso sulla sabbia. Con un rantolo, il Liisiano ritrovò la
ragazza dietro di sé, il gladio posato sulla giuntura tra spalla e collo. Il
sigaretto gli pendeva da labbra improvvisamente secche.
“È veloce.”
Gli occhi della ragazza lampeggiarono quando ringhiò a Bevilacrime.
«Statemi lontani o giuro sulle Quattro Figlie che lo ammazzo.»
«Dogger, vieni via, da bravo» gli ordinò Bevilacrime. «Graccus, metti
via la balestra. Date un po’ di spazio alla giovane domina.»
Bevilacrime osservò i suoi uomini obbedire e indietreggiò per lasciare
che la ragazza esalasse il proprio panico. Poi fece un passo avanti, a mani
vuote e alzate.
«Non desideriamo farti del male, fiorellino. Sono solo una commerciante
e questi sono i miei uomini. Siamo diretti ai Giardini Pensili. Abbiamo
sentito l’odore dei corpi e siamo venuti a dare un’occhiata. E questa è la
verità. Per la Madre Trelene, io lo giuro.»
La ragazza guardò il capitano con occhi cauti. Luka trasalì quando la
lama gli graffiò il collo e del sangue si imperlò sull’acciaio.
«Cos’è successo qui?» domandò Bevilacrime, conoscendo già la
risposta.
La ragazza scosse il capo, le lacrime che si addensavano nelle sue ciglia.
«Schiavisti?» chiese Bevilacrime. «Si sa che infestano questa regione.»
Il labbro della giovane tremolò e lei serrò la stretta sulla lama.
«Stavi viaggiando con la tua famiglia?»
«M-mio padre» rispose lei.
Bevilacrime squadrò la ragazza. Era magra e piuttosto bassa, ma dura e
in forma. Si era rifugiata sotto i carri e aveva strappato un brandello di tela
per ripararsi dai venti fruscianti. Malgrado la puzza, era rimasta vicino ai
rottami, dove c’erano provviste in abbondanza e dove sarebbe stato più
facile ritrovarla, perciò doveva essere una persona sveglia. E anche se le
tremava la mano, impugnava quell’acciaio come se conoscesse il modo per
usarlo. Luka era caduto più velocemente delle parti innominabili di una
sposa la prima notte di nozze.
«Tu non sei la figlia di un mercante» dichiarò il capitano.
«Mio padre era un mercenario. Lavorava per i convogli in partenza da
Nuuvash.»
«Dov’è tuo padre ora, Fiorellino?»
«Laggiù» disse la ragazza con voce rotta. «Con g-gli altri.»
Bevilacrime guardò verso le fosse scavate da poco. Erano profonde forse
tre piedi. Sabbia secca. Il calore del deserto. Non c’era da meravigliarsi che
quel posto puzzasse così tanto.
«E gli schiavisti?»
«Ho seppellito anche loro.»
«E ora cosa stai aspettando, qui?»
La giovane lanciò un’occhiata in direzione del cantaferro di
Camminapolvere. Così a sud non c’erano molti rischi di imbattersi nei
kraken delle sabbie. Ma il cantaferro voleva dire carri, e i carri volevano
dire soccorsi, e restare qui con i morti non sembrava passarle per la testa,
padre sepolto o no.
«Posso offrirti cibo» disse Bevilacrime. «Un passaggio fino ai Giardini
Pensili. E nessun approccio indesiderato da parte dei miei uomini. Ma
dovrai abbassare quella spada, Fiorellino. Il giovane Luka non è solo una
guardia: è anche il nostro cuoco.» Bevilacrime arrischiò un sorriso
accennato. «E come ti direbbe mio marito se fosse ancora tra noi, non vuoi
che sia io a cucinarti la cena.»
Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime quando guardò di nuovo
le fosse.
«Gli intaglieremo una lapide prima di partire» promise piano
Bevilacrime.
Allora le lacrime colarono e il volto della ragazza si accartocciò come se
qualcuno l’avesse rincagnato con un calcio. Lasciò cadere la spada e Luka
si divincolò rotolando via sul terreno. La ragazza rimase lì come un ritratto
distorto, il viso incorniciato da una coltre di capelli sporchi di sangue.
Il capitano provò quasi pena per lei.
Si avvicinò lentamente attraverso il terreno incrostato di sangue,
contornata da un alone di mosche. Togliendosi il guanto, allungò una mano
callosa.
«Mi chiamano Bevilacrime» si presentò. «Del clan Lanciamarina.»
La ragazza allungò dita tremanti. «M…»
Bevilacrime afferrò la ragazza per il polso, ruotò sul posto e se la fece
volteggiare sopra la spalla. La giovane urlò, andando a sbattere sul terreno.
Bevilacrime la bloccò lì con lo stivale, premendolo ma non troppo: solo
quanto bastava per farle uscire dai polmoni tutta la voglia di combattere.
«Dogger, prepara i ceppi, da bravo» disse il capitano. «Mani e piedi.»
L’Itreyano si tolse le manette che portava appese in vita e le serrò attorno
alla ragazza. Quella riprese i sensi e si mise a urlare e a dibattersi mentre
Dogger avvitava i ceppi sempre più stretti, mentre Bevilacrime le conficcò
lo stivale con tanta forza nella pancia da farla vomitare sul terreno, poi le
diede un altro calcio tanto per sicurezza, che andò vicino a incrinarle le
costole. La ragazza si appallottolò con un lungo gemito senza fiato.
«Tiratela su» ordinò il capitano.
Dogger e Graccus trascinarono in piedi la ragazza. Bevilacrime l’afferrò
per i capelli e le tirò indietro la testa per poterla guardare negli occhi.
«Ho promesso che non avresti ricevuto nessun deplorevole approccio da
parte dei miei uomini e manterrò la parola. Ma continua ad agitarti e ti farò
del male in modi che troverai assolutamente indesiderabili. Mi hai sentito,
Fiorellino?»
La ragazza riuscì solo ad annuire, i lunghi capelli neri aggrovigliati agli
angoli delle labbra. Bevilacrime annuì a Graccus, e l’omone trascinò la
ragazza attorno al convoglio di carri in pezzi, poi la gettò sulla groppa del
suo cammello brontolante. Dogger stava già depredando i carri, passando in
rassegna barili e forzieri. Luka stava controllando il taglio che lei gli aveva
inflitto e lanciò un’occhiata al gladio della ragazza nella polvere.
«Permetti di nuovo a un fuscello del genere di avere la meglio su di te»
lo ammonì Bevilacrime «e ti lascerò qui fuori per i fottuti pulvispettri, mi
hai sentito?»
«Sì, capitano» borbottò lui, imbarazzato.
«Aiuta Dogger a recuperare i resti che possono esserci utili. Riportate
tutta l’acqua alla carovana. Arraffate tutti gli oggetti che valga la pena
depredare. Bruciate il resto.»
Bevilacrime sputò sul terreno, scostò le mosche dall’occhio buono e
camminò per la sabbia incrostata di sangue per andarsi a unire a Graccus.
Salì in groppa al suo cammello e, con un calcio brusco, i due si avviarono
verso il loro convoglio.
Cesare era in attesa al posto di guida, il volto grazioso piegato in una
smorfia amara. Si ravvivò un po’ quando vide la ragazza che gemeva mezza
svenuta sopra la gobba dell’animale di Graccus.
«Per me?» chiese. «Non avreste dovuto, capitano.»
«Degli schiavisti hanno attaccato una carovana ma hanno trovato pane
per i loro denti.» Bevilacrime indicò la ragazza con un cenno del capo. «Lei
è l’unica sopravvissuta. Graccus e Dogger stanno riportando acqua dai resti
del convoglio. Vedi di distribuirla al bestiame.»
«Ne è morto un altro per un colpo di caldo.» Cesare indicò verso il fondo
della carovana. «L’ho trovato quando ho liberato gli altri per sgranchirsi le
gambe. Con questo fanno un quarto del nostro inventario in questo
viaggio.»
Bevilacrime si tolse il tricorno e si passò la mano sul cuoio capelluto
madido di sudore. Osservò il bestiame che si muoveva dentro le gabbie:
uomini, donne e una manciata di bambini, che sbattevano le palpebre verso
quei soli spietati. Solo pochi di loro avevano i ceppi: molti erano così
accaldati da non avere la forza per scappare, perfino se avessero avuto un
posto dove andare. E qui fuori, nelle Frusciaride ashkahi, non ce n’era
nessuno: si poteva morire e basta.
«Non temere» disse lei indicando la ragazza. «Guardala. Un trofeo come
lei coprirà le nostre perdite e non solo. Una delle Figlie ci ha arriso.» Si
voltò verso Graccus. «Rinchiudila con le donne. Assicurati che mangi
razioni doppie finché non arriveremo ai Giardini. Voglio che sembri matura
per l’asta. Toccala in qualunque altro modo e ti taglierò quelle fottute dita
per dartele da mangiare, intesi?»
Graccus annuì. «Intesi, capitano.»
«Riportate gli altri nelle loro gabbie. Lasciate quello morto per gli spiriti
irrequieti.»
Cesare e Graccus si misero al lavoro, lasciando Bevilacrime a
rimuginare.
Il capitano sospirò. Tra pochi mesi si sarebbe alzato il terzo sole.
Probabilmente questo sarebbe stato il suo ultimo viaggio fin dopo la
veraluce e le divinità avevano cospirato perché andasse alla malora.
Un’epidemia di ematoflusso aveva spazzato via un intero carro del suo
bestiame solo una settimana dopo la loro partenza da Rammahd. Il giovane
Cisco era stato colpito e ucciso quando si era allontanato per una pisciata,
probabilmente da un pulvispettro, a giudicare da ciò che rimaneva di lui. E
questo calore minacciava di far avvizzire il resto del suo raccolto prima
ancora che arrivasse al mercato. Tutto ciò che le occorreva era una brezza
fresca per qualche altro cambio. Magari una breve spruzzata di pioggia.
Aveva sacrificato un vitello giovane e forte sull’altare delle tempeste a
Nuuvash, prima di partire. Ma la signora Nalipse l’aveva ascoltata?
Dopo il naufragio di anni prima che l’aveva quasi rovinata, Bevilacrime
aveva giurato di restare lontano dall’acqua. Commerciare carne per mare
era una faccenda più rischiosa che trasportarla via terra. Ma poteva giurare
che la Madre degli oceani stesse ancora cercando di renderle la vita uno
strazio, perfino se ciò voleva dire coinvolgere sua sorella, la Madre delle
tempeste, in quella tortura.
Non un alito di vento.
Non una goccia di pioggia.
Eppure quel fiorellino era fresco, e curve come le sue avrebbero fruttato
una bella sommetta al mercato. Era stato un colpo di fortuna trovarla lì
fuori, non guastata in mezzo a tutta quella merda. Tra i predoni, gli
schiavisti e i kraken delle sabbie, le Frusciaride ashkahi non erano un posto
dove una ragazza potesse vagabondare da sola. Bevilacrime credeva che
una delle Figlie le stesse sorridendo, per avergliela fatta trovare prima che
lo facesse qualcun altro… o qualcosa d’altro.
Era quasi come se qualcuno fosse intenzionato a farla andare a questo
modo…

La ragazza fu gettata nel carro più avanti con le altre donne e i bambini. La
gabbia in ferro arrugginito era alta sei piedi. Il pavimento era macchiato di
escrementi e la puzza di corpi sudati e alito pestilenziale era marcia quanto
quella dei cadaveri dei cammelli. Il tipo grosso di nome Graccus non era
stato gentile, ma si era attenuto alla parola del suo capitano, e quelle mani
avevano soltanto gettato lei a terra, chiuso la porta della gabbia e sigillato la
serratura.
La ragazza si raggomitolò sul pavimento. Percepì gli sguardi delle donne
attorno a lei, gli occhi curiosi di ragazzini e ragazzine. Le facevano male le
costole per i calci che aveva ricevuto; le lacrime che aveva pianto
tracciavano solchi tra il sangue e lo sporco sulle sue gote. Lottò per restare
calma. Gli occhi chiusi. Solo il respiro.
Infine avvertì mani gentili che la aiutavano ad alzarsi. La gabbia era
affollata, ma c’era abbastanza spazio da consentirle di sedersi in un angolo,
la schiena premuta forte contro le sbarre. Aprì gli occhi e vide un volto
giovane e amichevole, macchiato di sudiciume, gli occhi verdi.
«Conosci il liisiano?» chiese la donna.
La ragazza annuì senza parlare.
«Come ti chiami?»
La ragazza sussurrò tra labbra gonfie. «… Mia.»
«Quattro Figlie» borbottò la donna, scostandole i capelli dal volto.
«Come ha fatto una bambola graziosa come te a finire in un posto come
questo?»
La ragazza abbassò lo sguardo sull’ombra sotto di sé.
Poi di nuovo su in quegli occhi verdi scintillanti.
«Be’» sospirò. «È proprio questa la domanda, no?»
CAPITOLO 2
FUOCOMESSA

Quattro mesi prima

Re Francisco XV, sovrano assoluto di tutta Itreya, prese posto al limite del
palco. Era agghindato con farsetto e brache di un bianco immacolato, le
guance imbrattate di pittura rosa. Le gemme della sua corona scintillavano
mentre parlava, una mano sul petto.
«Cercai sempre di regnare in un modo saggio e giusto
Ma or devo genuflesso chinar il mio capo augusto
A baciar la terra nera e…»
«No!» giunse un urlo.
Tiberius il vecchio entrò dalla sinistra del palco, circondato dai suoi
cospiratori repubblicani. Un pugnale argenteo scintillò nella mano
dell’anziano, l’espressione decisa, gli occhi intensi. Senza una parola,
attraversò a lunghi passi il palco e affondò la lama in profondità nel petto
del suo monarca, una volta, due, tre. Il pubblico sussultò quando sangue
rosso vivido sprizzò, schizzando sulle assi lucide ai loro piedi. Re Francisco
si tenne stretto il cuore perforato e crollò in ginocchio. E, con un ultimo
gemito (un po’ esagerato, come disse poi qualcuno), chiuse gli occhi e
morì.
Tiberius il vecchio tenne sollevato il pugnale e pronunciò le sue ultime,
decisive battute.
«Sangue del cuor versato fu e ciò che dev’esser sia.
Nessun prezzo è troppo alto a osteggiar la tirannia.
E sappiate, cari amici, che la mano fu la mia,
Lordai la mia lama retta: che la libertà vi dia.»
Tiberius fece spaziare lo sguardo sul pubblico, il coltello insanguinato
tra le mani. E mentre si piegava in un inchino profondo, il sipario si chiuse
e pesante velluto rosso cadde sulla scena.
Gli ospiti applaudirono quando la musica crebbe per indicare che la
tragedia era terminata. Candelieri arkemici sul soffitto si illuminarono,
scacciando l’oscurità che aveva accompagnato l’ultimo atto. Gli applausi
si diffusero per la sala affollata, sopra il mezzanino e fino al fondo del
locale. E lì trovarono una ragazza con lunghi capelli corvini, incarnato
pallido e perfetto e un’ombra scura abbastanza per tre.
Mia Corvere si unì agli applausi degli ospiti, anche se per la verità i
suoi occhi erano stati ovunque tranne che sullo spettacolo. Un freddo
gelido svolazzò sulla sua nuca, nascosto nelle ombre proiettate dai suoi
capelli. Il sussurro di Messer Cortese al suo orecchio fu soffice come
velluto.
«… è stato incredibilmente atroce…» disse l’umbragatto.
Mia replicò piano, aggiustandosi sulla faccia la maschera della misura
sbagliata.
«Però il sangue di pollo mi è sembrato un tocco simpatico.»
«… sono stati trenta minuti della nostra esistenza che non riavremo mai
più, te ne rendi conto…»
«Almeno hanno riacceso le dannate luci.»
Dopo aver lasciato che la folla applaudisse per un altro po’, finalmente
il sipario si aprì, rivelando re Francisco tutto intero e in salute: la vescica
perforata con il “sangue del cuor” era appena visibile sotto la camicia
imbrattata. Unì le mani con il suo assassino e, tenendo entrambi il pugnale
caricato a molla, Tiberius il vecchio e Francisco XV si profusero in un
lungo inchino.
«Felice Fuocomessa, gentili amici!» urlò il sovrano assassinato.
L’applauso scemò lentamente mentre gli attori lasciavano il palco. Ora
che la rappresentazione era terminata, ripresero chiacchiere e risate. Mia
sorseggiò la sua bevanda e fece spaziare lo sguardo per la sala. Con le luci
del locale di nuovo accese, poteva vedere un po’ meglio.
«D’accordo, lui dov’è…» borbottò.
Era arrivata tardi, un’abitudine di moda, e la sala da ballo era affollata,
ma non era stata una sorpresa: le serate del senatore Alexus Aurelius erano
sempre ritrovi popolari. Una volta concluso lo spettacolo, l’orchestra di
dodici elementi attaccò una melodia vivace sul suo mezzanino dorato sul
fondo della stanza. Mia osservò i rampolli dell’aristocrazia midollana in
eleganti redingote dirigersi sulla pista da ballo con aggraziate dominae
sottobraccio, i loro lunghi abiti cremisi, argento e oro che scintillavano alla
luce dei lampadari arkemici.
Le loro facce erano nascoste dietro una sconcertante miriade di
maschere, cento diversi motivi e forme. Mia riusciva a vedere vulti
squadrati, pulcinelli sghignazzanti e bautae a mezza faccia, tutti pittura
ingioiellata, avorio scintillante e ventagli di piume di pavone. I tipi più
diffusi tra la folla presente in sala erano il triplo sole di Aa o splendide
varianti della Faccia di Tsana. Dopotutto era Fuocomessa, e molti
facevano almeno un tentativo di venerare il Semprevigile e la sua figlia
primogenita prima che l’inevitabile edonismo del banchetto serale
prendesse il sopravvento. a
Mia era vestita con un abito color rosso sangue che le lasciava scoperte
le spalle, strati di seta liisiana che ricadevano sul pavimento. Il suo mezzo
bustino era legato stretto e una fila di rubini scuri le scendeva nella
scollatura; per quanto apprezzasse l’effetto del corsetto e delle gemme per
evidenziare le sue risorse, le occhiate di ammirazione che aveva ricevuto
tutta quell’illuminotte non le rendevano più facile respirare. I suoi
lineamenti erano coperti da una Faccia di Tsana, una maschera che
raffigurava l’elmo della dea guerriera, con un pennacchio di penne di
uccello di fuoco attorno al bordo. Labbra e mento erano scoperti, cosa che,
se non altro, le rendeva un po’ più facile bere. E fumare. E imprecare.
«’Bisso e fottuto sangue, dov’è?» borbottò, gli occhi che vagavano tra la
folla.
Sentì di nuovo quel brivido, il lieve sussurro nel suo orecchio.
«… i palchetti…» disse Messer Cortese.
Mia spostò lo sguardo dalle folle ondeggianti alle pareti sopra la pista
da ballo. La sala dei ricevimenti del senatore Aurelius era stata costruita
come un anfiteatro, con il palco da un lato, i sedili disposti in anelli
concentrici e palchetti che si affacciavano sulla pista. Attraverso il fumo e i
lunghi rotoli di seta appesi al soffitto, Mia vide finalmente un uomo alto e
giovane, abbigliato con una lunga redingote bianca e un foulard nero, con i
cavalli gemelli della sua familia ricamati in filo d’oro sul petto.
«… gaius aurelius…»
Mia sollevò il suo bocchino d’avorio e prese una tirata pensierosa dal
sigaretto. Il volto del giovane era mezzo nascosto dietro una bauta dorata
con un motivo a tre soli, ma riuscì a vedere una mascella volitiva e un
sorriso piacente quando l’uomo sussurrò all’orecchio di una stupenda
giovane donna con un abito alla moda accanto a lui.
«Pare che si sia fatto un’amica» sussurrò Mia, esalando grigio dalle
labbra.
«… be’, dopotutto è il figlio di un senatore. È improbabile che passi
l’illuminotte da solo.»
«Non se posso impedirlo. Eclissi, vai a dire a Colombo di stare pronto.
Potremmo dover andarcene di fretta.»
Un basso ringhio provenne dalle ombre sotto il suo vestito.
«… COLOMBO È UN IDIOTA …»
«Un motivo in più per assicurarsi che sia sveglio. Penso che andrò a
salutare il nostro stimato primogenito di un senatore. E la sua amica.»
«… certe cose si fanno in due, mia…» la ammonì Messer Cortese.
«È vero. Ma in tre ci si diverte ancora di più.»
Scivolando via dal suo angolo, Mia attraversò la sala da ballo come il
fumo che le usciva dalle labbra. Sorrise ai complimenti, declinando
educatamente gli inviti a ballare. Passò serenamente tra due guardie con
giacche eleganti in fondo alle scale, comportandosi come se quel posto
fosse suo, e dando esattamente quell’impressione. Dopotutto non c’era
nessun altro in quella sala che non si sarebbe dovuto trovare lì. Le erano
servite cinque illuminotti di pazienza per rubare l’invito dalla casa di
Domina Grigorio. b E le maschere che questi sciocchi midollani insistevano
per indossare a ogni serata festiva le rendevano semplice aggirarsi tra loro
inosservata. In particolare grazie alle sue curve strozzate da una moda
concepita per attirare l’occhio lontano dal viso.
Mia si controllò il trucco in uno specchietto d’argento e si mise altro
rosso scuro sulle labbra. Prese un’ultima boccata del suo sigaretto, poi lo
schiacciò sotto il tacco dello stivale e attraversò le tende di velluto per
entrare nel palchetto di Aurelius.
«Oh, le mie scuse» disse.
Dominus Aurelius e la sua compagna alzarono lo sguardo, lievemente
sorpresi. I due erano seduti su un lungo divanetto di velluto riccio, bicchieri
mezzi vuoti e una bottiglia di ottimo rosso vaaniano sul tavolo davanti a
loro. Mia si portò la mano al seno per fingere spavento.
«Pensavo che questo palco fosse vuoto. Vi chiedo perdono.»
Il giovane dominus annuì appena. Il suo sorriso attraente era scuro di
vino. «Non ci pensate, Mea Domina.»
«Ma voi…» Mia esalò un sospiro, incerta. Sollevò una mano per
togliersi la maschera, usandola per sventolarsi il volto. «Le mie scuse, vi
crea problemi se mi siedo per un attimo? Qui dentro fa più caldo che alla
veraluce e questo vestito rende spaventosamente difficile respirare.»
Aurelius fece scorrere gli occhi sui lineamenti scoperti di Mia. Gli occhi
neri contornati da artistiche linee di kajal. La pelle bianco latte e le labbra
increspate color rosso scuro, la collanina di gemme attorno alla gola
snella, uno sguardo rapido come una volpe alla pelle nuda lì sotto quando
Mia, a bella posta, fece il gesto di aggiustarsi il bustino.
«Fate pure, Mea Domina» sorrise lui, indicando un secondo divanetto.
«Sia benedetto Aa» disse Mia, affondando sul velluto e sventolandosi di
nuovo.
«Permettetemi di presentarmi. Sono Dominus Gaius Neraus Aurelius, e
la mia adorabile complice è Alenna Bosconi.»
La compagna di Aurelius era una bellezza liisiana più o meno coetanea
di Mia. Dall’aspetto, probabilmente era la figlia di un administratii locale.
Capelli e occhi neri, carnagione olivastra, lo chiffon dorato del suo abito
intonato alla polvere metallica su labbra e ciglia.
«Quattro Figlie, adoro il vostro vestito» sospirò Mia. «È un Albretto?»
«Avete buon occhio» replicò Alenna, sollevando il suo bicchiere. «I miei
complimenti.»
«La settimana prossima devo andare da lei per prendere le misure» disse
Mia. «Sempre che mia zia mi consenta di uscire nuovamente dal palazzo.
Ho il sospetto che domani voglia mandarmi in convento.»
«Chi è vostra zia, Mea Domina?» domandò Aurelius.
«Domina Grigorio. Vecchia vacca noiosa.» Mia indicò il vino. «Posso?»
Aurelius la osservò con sguardo divertito riempire un bicchiere e
tracannarlo altrettanto rapidamente. «Perdonatemi, non sapevo che la
domina avesse una nipote.»
«La cosa non mi stupisce affatto, Meus Dominus» sospirò Mia. «Sono a
Galante da quasi un mese e lei non mi lascia uscire dal palazzo. Ho dovuto
sgattaiolare fuori per essere qui stasera. Mio padre mi ha mandato a
trascorrere l’estate con lei, insistendo che mi insegnasse a comportarmi
come una figlia timorata di Aa.»
«Il che significa che ora non vi comportate come tale?» sorrise Aurelius.
Mia fece una smorfia. «Sul serio, pensereste che mi sia portata a letto
uno stalliere, dal modo in cui ne parla lui.»
Aurelius sollevò la bottiglia verso il bicchiere di Mia inclinando la testa
con aria interrogativa.
«Un altro?»
«Molto generoso, signore.»
Aurelius versò il vino e le passò il bicchiere pieno. Mia lo prese con un
sorriso d’intesa, lasciando che le punte delle dita sfiorassero il polso del
giovane dominus: una corrente arkemica fece pizzicare la loro pelle.
Alenna sollevò il proprio bicchiere alle labbra dorate, la sua voce tinta di
lieve irritazione.
«Non ne resta molto, Gaius» lo avvertì, lanciando un’occhiata alla
bottiglia.
Mia guardò la ragazza e si infilò una ciocca di capelli ribelle dietro
l’orecchio. Qualunque paura potesse aver provato fu inghiottita dalle
ombre ai suoi piedi. Si alzò dal suo divanetto con grazia delicata, poi si
accomodò su quello di fianco, proprio accanto a quella bellezza dorata.
Guardò Alenna negli occhi e sorseggiò il vino. Era intenso, morbido come
velluto, e le danzava scuro sulla lingua. Togliendole di mano il bicchiere
vuoto, Mia premette il suo nel palmo di Alenna, intrecciando le dita e
sollevandolo verso quelle labbra dorate.
Si girò a guardare Aurelius e lo vide che osservava rapito. Sorrise
quando lei sussurrò, abbastanza forte da essere udita sopra la musica più
in basso.
«Non mi dispiace condividere.»

Aurelius era in piedi alle sue spalle, le mani che vagavano sulle sue
braccia nude, sui suoi seni. Mia percepì le labbra dell’uomo contro
l’orecchio, che le sfioravano la linea della mascella, e allungò una mano
all’indietro per intrecciare le dita fra i suoi capelli. Appoggiandosi contro
la durezza del suo inguine, cercò la sua bocca, sospirando quando lui le
lasciò una scia di baci ardenti lungo la gola, la barba corta che le
pizzicava la pelle. Aurelius trovò il nastro di seta che allacciava il dorso del
bustino e lo tolse con mani lente e salde.
Alenna era dietro di lui: gli sbottonò la giacca, lasciandola cadere a
terra. Aveva le guance arrossate non solo per aver bevuto, e con le sue
unghie lunghe gli strappò la camicia di seta, lasciandogli scoperto il
torace. Mia tastò la durezza del suo petto e le sue dita scivolarono lungo le
depressioni e le increspature dell’addome. Aurelius aveva le labbra sulla
sua nuca, e lei avvertì la pressione dei denti. Sospirò quando lui morse più
forte, cercando di nuovo la bocca dell’uomo. Ma con la mano libera, lui le
afferrò le lunghe trecce, piegandole la testa all’indietro, ancora di più, la
pelle che le si accapponava mentre l’uomo le toglieva il corsetto.
La musica era debole e distante, quasi persa sotto il canto dei loro
sospiri. Si erano precipitati giù per le scale, con Aurelius che aveva
condotto Mia e Alenna davanti a sé dando loro buffetti giocosi sul
posteriore. Le guardie della casa avevano finto di non prestare attenzione
quando quel terzetto era passato loro davanti ma avevano visto Mia
premere le labbra contro la gola di Aurelius mentre lui si era fermato per
dare un lungo bacio alla bellezza liisiana. Poi l’uomo aveva spinto Mia
contro il muro e aveva allungato una mano tra le sue gambe, mettendosi
all’opera con dita esperte proprio lì nel corridoio. Erano arrivati a stento
nella camera.
Come molti palazzi midollani, le camere da letto erano sottoterra: il
punto migliore per schermarle dall’implacabile soliluce. Qui l’aria era più
fresca, la luce dei globi arkemici bassa e fumosa. Il corsetto di Mia cadde
sulle assi del pavimento mentre Aurelius le insinuava la mano dentro il
vestito. Lei sospirò, le mani dell’uomo erano avvolte attorno ai suoi seni,
impegnate a stimolare un capezzolo ingrossato con tanta forza da
strapparle un rantolo. Poi lui le tolse l’abito, lasciandolo cadere in un
mucchio scomposto attorno alle sue caviglie. Lei cercò la sua cintura e
scoprì che anche le mani di Alenna erano lì: le loro dita si intrecciarono
armeggiando per aprire la fibbia. Mia percepì le mani di Aurelius vagare
più in basso e una corrente arkemica le danzò sulla pelle mentre le dita di
lui le scivolarono sulla pancia, poi scesero attraverso i suoi riccioli morbidi
fino ad arrivare alle sue labbra vogliose.
Gemette quando Aurelius iniziò a lavorare con le dita, facendole cedere
le ginocchia. Voltando la testa, cercò la sua bocca con la propria, ma il
modo in cui lui le strinse i capelli la bloccò, lasciandola ansimante e
gemente mentre spingeva il sedere all’indietro, sfregandoglielo contro
l’inguine allo stesso ritmo che lui stava strimpellando sul suo corpo.
La cintura di Aurelius venne finalmente via e la sua bellezza gli strappò
via i bottoni delle brache, permettendo alle dita di Mia di scivolare dentro.
Trovò il suo obiettivo dopo un attimo e sorrise al gemito di Aurelius quando
gli prese la virilità nella mano. Avvertì anche le mani di Alenna ed
entrambe stuzzicarono il suo turgore mentre lui faceva scivolare il dito
dentro di lei, facendo scoppiare stelle dietro gli occhi di Mia, tanto che per
poco le gambe non le cedettero nuovamente.
Aurelius si voltò; la sua bocca trovò quella di Alenna e le loro lingue si
intrecciarono. Mia gli districò la mano che le teneva tra i capelli e avvolse
le dita tra i suoi, desiderando disperatamente di baciarlo. Ma la pelle fu
percorsa da un pizzicore quando lo percepì fare un passo di lato, poi labbra
calde furono sulla sua spalla, sulla sua nuca, mani calde le scivolarono
attorno alla vita.
“Non…”
I polpastrelli di Alenna le danzarono sulle braccia, guizzando sul
rigonfiamento dei suoi seni. Il suo respiro accelerò quando sentì la mano
della ragazza sul suo mento, che la faceva voltare lentamente. Col cuore
che martellava, Mia si girò per guardarla.
La ragazza era bellissima, quelle labbra carnose socchiuse, gli occhi
scuri traboccanti di desiderio nella luce fumosa. Il suo petto si sollevò
mentre si premeva contro di lei, ancora vestita contro il corpo seminudo di
Mia. Aurelius cominciò a baciare la nuca di Alenna mentre lei scostava una
ciocca di lunghi capelli scuri dalla guancia di Mia, facendole provare un
brivido fino ai piedi quando quella bellezza si sporse a baciarla. Vicina. Più
vicina. Più vici…
«No» disse Mia ritraendosi.
Gli occhi di Alenna si annebbiarono dalla confusione e scoccò
un’occhiata dietro di sé verso Aurelius. Il giovane dominus inarcò un
sopracciglio con aria interrogativa.
«Non sulla bocca» disse Mia.
Le labbra dorate della bellezza si arricciarono in un sorriso complice.
Occhi scuri vagarono per il corpo nudo di Mia, affascinati.
«Qualunque altro posto, allora» mormorò.
Alenna fece scorrere le mani sulle guance di Mia, poi scese sulle gemme
attorno alla sua gola, facendola rabbrividire. Poi, lenta come un’agonia, si
sporse in avanti e le premette le labbra contro il collo.
Lei sospirò, priva di qualunque paura, la pelle percorsa da un fremito.
Inclinò la testa all’indietro e si arrese, sbattendo le ciglia quando le mani di
Alenna si avvolsero attorno ai suoi seni, fluttuarono sopra le anche, le
accarezzarono le natiche. Mia non riusciva a percepire nulla eccetto quelle
mani, quelle labbra, quei denti mordicchianti, quell’alito tiepido sulla sua
pelle, la bocca di quella bellezza che vagava per i suoi seni ingrossati.
Gemette quando la ragazza le prese il capezzolo nella bocca e la lingua
guizzò sulla punta gonfia, facendo ondeggiare la stanza.
Le unghie di Alenna fecero scorrere brividi sulla schiena di Mia mentre
le sfioravano la pelle, guidandola all’indietro. Sentì l’intelaiatura del letto
dietro le ginocchia e si piegò come un fuscello davanti alla tempesta,
ruzzolando all’indietro sulle pellicce con un rantolo.
Alenna gemette quando Aurelius le mordicchiò il collo da dietro,
slacciandole le corde del bustino. Il giovane dominus le sfilò l’abito dalle
spalle e lasciò che lo chiffon dorato rotolasse via in un’onda scintillante,
seguito dagli indumenti intimi.
Gli occhi di Mia vagarono per il corpo della ragazza, che si era messa a
gattonare sul letto. Alenna si genuflesse sopra di lei, e il giovane dominus si
inginocchiò alle sue spalle, tracciando una scia di baci lungo la sua
schiena, fino al sedere. Mia percepì le mani della ragazza scorrere
all’interno delle sue cosce frementi e il suo respiro accelerò quando quelle
dita sfiorarono le sue labbra. Anche il respiro di Alenna era accelerato:
Aurelius le premette la bocca tra le gambe e si mise al lavoro con la lingua.
La ragazza gemette, gli occhi luminosi di desiderio quando si sporse più
vicino, di nuovo in cerca della bocca di Mia.
Ma lei si girò e le posò una mano sulle labbra.
«No.»
Allungò la mano sulla pelle di Alenna e trovò la mano di Aurelius
sull’anca della ragazza. Intrecciò le dita con quelle dell’uomo, ma la
bellezza protestò quando Mia lo trascinò via dal suo trofeo. Aveva gli occhi
nei suoi. Era senza fiato.
«Baciami» lo implorò.
Aurelius sorrise quando Alenna scese, i baci della Liisiana come
ghiaccio e fuoco su gola, seni e pancia di Mia. Il giovane dominus strisciò
su per il materasso mentre la ragazza scendeva ancora di più, leccando
l’orlo dell’ombelico di Mia, gli incavi delle anche. Mia avvertì denti gentili
sull’interno coscia, mani che vagavano sulla sua pelle, poi guaì quando
Alenna soffiò piano su di lei, le labbra solo a un sussurro dalle sue. Mia
allungò una mano verso l’alto e l’altra verso il basso, intrecciando le dita
tra i loro capelli. Trascinò Aurelius verso di lei, supplicando, tirando
Alenna a sé. E la bocca del dominus si chiuse sopra la sua, soffocando il
suo gemito strozzato quando lei avvertì il primo tocco della lingua della
bellezza.
Entrambi si misero all’opera e Mia si contorse sulle pellicce mentre la
adoravano. Un calore che non aveva mai conosciuto arse tra le sue gambe
quando Alenna la baciò come non aveva mai fatto alcun uomo. Inarcò la
schiena, le dita annodate nelle trecce della ragazza. Riuscì ad assaggiare il
sapore della ragazza sulla lingua di Aurelius, dolce e salato allo stesso
tempo. Lo baciò intensamente, mordendogli il labbro con tanta forza da
mischiare pittura rosso scuro con il sangue sulle loro bocche. Con le labbra
soffocò il suo rantolo di dolore, con la lingua trovò la sua, stuzzicandolo,
assaggiandolo, danzando in una pallida parvenza di ciò che stava facendo
la bellezza tra le sue gambe.
Il tempo smise di scorrere, il mondo smise di girare. Staccandosi dalla
sua bocca, il dominus le lasciò una scia di baci insanguinati lungo il collo.
Mia ansimò quando lui scese, leccando, succhiando, mordendo, poi chiuse
gli occhi con uno sfarfallio quando Alenna si mise all’opera sul serio,
lappando il suo bocciolo rigonfio.
Aurelius sollevò la testa.
Un rapido tremore lo attraversò.
Un debole gemito gli fuoriuscì dalle labbra.
Prendendo un respiro ansimante, il giovane dominus espettorò una
boccata di sangue rosso acceso sopra i seni di Mia.
«Q-quattro Figlie…»
Aurelius fissò inorridito lo scarlatto sulla pelle di Mia e sulle proprie
mani. Mia si puntellò sui gomiti quando lui cadde all’indietro con un altro
sfogo rosso, le dita attorno alla gola. Alenna si accorse di ciò che stava
accadendo: anche la sua faccia era schizzata di cremisi. Inarcandosi
all’indietro, prese fiato per urlare quando Mia balzò lungo il letto e
l’afferrò per la gola, trascinandola in una presa soffocante.
«Ora zitta» le sussurrò, sfiorandole l’orecchio con le labbra.
La ragazza si dibatté nella stretta di Mia, ma l’assassina era più forte,
più dura. Le due ruzzolarono sul pavimento, nel groviglio dei loro vestiti
sparpagliati mentre Aurelius iniziava a contorcersi, artigliandosi il collo
con le unghie mentre tossiva un’altra boccata di sangue.
«So che è difficile da guardare» sussurrò Mia alla bellezza. «Ma dura
solo un momento.»
«I-il vino…?»
Mia scosse il capo. «Non sulla bocca, ricordi?»
Alenna fissò la ferita sul labbro di Aurelius provocata dal morso di Mia,
la pittura rossa macchiata di sangue attorno alla bocca dell’uomo. Il
giovane dominus si dimenava sul letto come un pesce spiaggiato, ogni
muscolo percorso da fitte, il viso distorto. Le labbra di Alenna si aprirono
per urlare quando un’ombra si mosse sulla testiera e un’altra ai piedi del
letto: due sagome uscite dall’oscurità stessa. La mano di Mia si chiuse di
nuovo attorno alla bocca della ragazza mentre Messer Cortese ed Eclissi
presero forma, fissando rapiti il giovane dominus che gemeva in preda
all’agonia, con il sangue che gli gorgogliava tra i denti. E a occhi sgranati,
con le labbra arricciate all’indietro in un urlo silenzioso, il primo e unico
figlio del senatore Alexus Aurelius esalò il suo ultimo respiro.
«Ascoltami, Niah» sussurrò Mia. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il
tuo banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio
dono per te. Tienilo stretto.»
Messer Cortese inclinò la testa, osservando il giovane dominus morire.
Le sue fusa sembravano quasi un sospiro.

Mia era assetata.


Quella era la parte peggiore. La gabbia, la calura, il fetore… erano tutte
cose che poteva sopportare. Ma per quanto i suoi carcerieri le dessero da
bere, in questo deserto bastardo non era mai sufficiente. Quando Dogger e
Graccus facevano passare il mestolo attraverso le sbarre della sua gabbia,
quell’acqua tiepida sembrava un dono da parte della Madre in persona. Ma
tra l’afa, il sudore e la calca del carro, presto le sua labbra cominciarono a
screpolarsi, la lingua a seccarsi e ingrossarsi.
I prigionieri erano ammassati assieme come strisce di maiale salato in un
barile, e la puzza era nauseante. Il primo cambio che aveva passato a
cuocersi in quella gabbia rovente come un forno, Mia aveva cominciato a
pensare di aver commesso un terribile errore.
A pensarlo. Ma non a temerlo.
“Mai tirarsi indietro.
“Mai avere paura.”
Mia provava a non parlare molto. Non voleva affezionarsi agli altri
prigionieri, sapendo cosa li aspettava ai Giardini Pensili. Ma osservò come
si prendevano cura l’uno dell’altro: una donna anziana confortava una
bambina che piangeva per sua madre, una ragazza dava la propria misera
razione a un giovane che si era vomitato il pasto sugli stracci che indossava.
Piccole gentilezze che tradivano grandi cuori.
Mia si domandò dove potesse essere il suo.
“Qui fuori non c’è posto per quello, ragazza.”
I suoi carcerieri erano un gruppo eterogeneo. Il loro capitano,
Bevilacrime, sembrava portarsi a letto il suo secondo, Cesare, anche se Mia
non aveva dubbi su chi tenesse le redini in quella particolare cavalcata.
Nessuna donna poteva guidare una combriccola di schiavisti tagliagole nel
deserto ashkahi senza avere denti davvero affilati.
Gli Itreyani, Dogger e Graccus, sembravano i tipici bastardi che si
potevano trovare in una qualunque delle cento cricche di mercanti di carne
che operavano ad Ashkah. Come da ordini del capitano, non posavano
nemmeno un dito sulle donne. Ma dagli sguardi famelici che lanciavano
nella sua direzione, Mia immaginava che detestassero enormemente
quell’ordine. Passavano il loro tempo libero giocando a sculaccio con un
mazzo di carte sgualcite e puntando una manciata di mendicanti
ammaccati. c
Il grosso Dweymeri, Camminapolvere, sembrava un tipo più cauto.
Suonava il flauto e deliziava i prigionieri con una melodia quando non
aveva altro lavoro da sbrigare. L’ultimo era Luka, il giovane Liisiano che
Mia aveva fatto finire nella polvere. Capelli corti e un sorriso con le
fossette. La sbobba che cucinava aveva lo stesso saporaccio del culo di un
maiale, ma Mia l’aveva visto aggiungere di nascosto del pane in più per i
bambini a ogni ultimopasto.
E basta. Sei schiavisti vestiti di cuoio e una fila di sbarre di ferro tra lei e
quella libertà che qualunque dei prigionieri che la circondavano avrebbe
ucciso per assaggiare. Tutto era sudore e vomito. Merda e sangue. Almeno
la metà delle donne del suo carro piangeva fino allo sfinimento, anche se
tutte loro riuscivano a dormire solo per poco. Ma non Mia Corvere.
La ragazza si sedette contro la porta e attese. La frangia frastagliata
pendeva davanti a occhi cupi e intensi. Il lezzo di sudore e sporcizia era
inevitabile, la calca dei corpi attorno a lei sufficiente a darle la nausea. Ma
Mia teneva a bada il vomito, così come il suo orgoglio, pisciava sulla strada
quando le veniva ordinato e si imponeva di rimanere in silenzio. E se
l’ombra addensata sotto di lei era troppo scura – abbastanza per due, forse –
l’interno del carro coperto era troppo buio per consentire di notarlo.
Mancavano altri quattro cambi ai Giardini Pensili. Altri quattro cambi di
questo calore tremendo, di questa puzza empia, di questo dondolio
traballante e nauseante. Altri quattro cambi.
“Pazienza” diceva a se stessa, sussurrando quella parola come una
preghiera.
“Se la Vendetta ha una madre, il suo nome è Pazienza.”
Mancava forse un’ora al termine dell’illuminotte e la carovana accostò
sul lato della lunga strada polverosa. Sbirciando attraverso uno strappo nella
copertura del carro, Mia riuscì a vedere una serie di promontori di roccia
che proiettavano ombre sulla sabbia del deserto. Era un posto ovvio – e
pertanto pericoloso – dove ripararsi, ma meglio fermarsi qui all’ombra che
procedere per un’altra ora e passare tutto il tempo a cuocersi ai soli.
Come accadeva sempre, Mia udì Camminapolvere nel carro delle
provviste, intento a suonare qualche occasionale rintocco del cantaferro per
spaventare eventuali kraken delle sabbie tanto audaci da viaggiare così a
sud. d Intravide Graccus che ispezionava gli affioramenti rocciosi dalla
groppa di quella ringhiante fabbrica di merda che era il suo cammello.
Sembrava amareggiato, con il volto che colava mentre osservava i soli a
occhi stretti e inveiva contro il Semprevigile, definendolo un bastardo.
La prima freccia lo colpì nel petto.
Sibilò fuori dalla soliluce, perforandogli il farsetto con un tonfo. Un
cipiglio istupidito rabbuiò la fronte di Graccus, ma le altre due frecce che
volarono dalle rocce gli tolsero quell’espressione dalla faccia, facendolo
ruzzolare all’indietro giù dal suo animale in uno zampillo di rosso brillante.
«Predoni!» urlò Bevilacrime.
Le donne nel carro di Mia gridarono quando una pioggia di frecce si
abbatté sulla carovana, perforando la copertura. Mia udì un rantolo e sentì
la carne attorno a lei spostarsi. Una ragazzina si afflosciò nella calca, una
freccia nell’occhio. Un’altra si prese una freccia nella gamba e cominciò a
urlare, così l’intera massa attorno a lei si agitò come un mare in tempesta,
schiacciandola contro le sbarre.
«’Bisso e sangue…»
Mia udì zoccoli al galoppo, il suono di una pioggia dall’impennaggio
nero. In qualche punto lontano, Camminapolvere gridava di dolore,
Bevilacrime urlava ordini. Il frastuono dell’acciaio sovrastò i versi dei
cammelli feriti, il sibilo degli schizzi di sabbia. Mia imprecò di nuovo
quando fu sbattuta con la faccia contro le sbarre dalle persone in preda al
panico attorno a lei.
«Ehi, cazzo» sbraitò.
Allungando una mano verso il suo stivale, Mia torse il tacco e recuperò i
suoi fidati grimaldelli. In un attimo si liberò delle manette e si protese
attraverso le sbarre arrugginite. Si mise a convincere la serratura ad aprirsi,
la lingua che spuntava dalla bocca per la concentrazione. Una freccia
fendette la copertura a poca distanza dalla sua testa, un’altra si conficcò nel
legno vicino alla sua mano.
«… forse faresti meglio a sbrigarti…»
Il sussurro era delicato come il respiro di un poppante, inteso solo per le
sue orecchie.
«Non sei d’aiuto» gli bisbigliò a sua volta.
«… ti sto offrendo sostegno morale…»
«Ti stai comportando come uno stronzetto irritante.»
«… anche quello…»
La serratura si aprì con uno scatto nella sua mano e Mia diede un calcio
alla porta, poi ruzzolò fuori nella luce ardente. Rotolò sotto il carro mentre
le altre donne si rendevano conto che la loro gabbia era aperta e si
accalcavano nel tentativo di fuggire.
Mia riuscì a vedere mezza dozzina di predoni girare attorno alla
carovana. Erano vestiti di cuoio scuro e con i colori del deserto, un
miscuglio di sessi e toni di pelle. Cesare era morto, trafitto dalle loro frecce.
Mia non vide alcun segno di Luka, ma Dogger era accucciato dietro il carro
di coda, il cadavere di Camminapolvere accanto a lui. Il cammello di
Bevilacrime si era preso una freccia nella gola e la donna era accovacciata
dietro il suo corpo, la balestra in mano.
«Puzzolenti figli di puttana!» ruggì. «Sapete chi sono?»
I cavalieri si limitarono a sbeffeggiarla. Continuavano con quel cerchio
costante, spingendo le donne in fuga di nuovo verso i carri e facendo
schiumare dal panico i prigionieri nelle altre gabbie.
«Un diversivo» si rese conto Mia.
«… da cosa…?»
Dogger uscì dalla copertura e scagliò un rapido colpo con la sua balestra.
Da qualche parte tra le rocce guizzò una freccia con l’impennaggio nero che
lo centrò al petto. Dogger cadde, e bolle scarlatte gli comparvero sulle
labbra.
«Da quel cecchino lassù» borbottò Mia.
La ragazza allungò la mano verso le ombre sotto il carro, raccogliendole
come una sarta che stesse tirando un filo. Lì fuori tutto era così luminoso,
così diverso dalle viscere della Montagna Silente. Ma lentamente, molto
lentamente, cucì assieme le ombre, intessendole in un mantello. E sotto di
esso divenne poco più di una macchia, come un’impronta di grasso su un
ritratto del mondo.
Naturalmente, lei stessa riusciva a stento a vedere qualcosa. Aveva
sempre ritenuto crudele che la Dea della notte le concedesse il dono di non
essere vista ma nel frattempo la rendesse quasi cieca. Tuttavia, sempre
meglio cieca che ammazzata.
Mia si avvicinò di soppiatto alla ruota, muovendosi a tentoni e
preparandosi a fare uno scatto lontano dalla copertura.
«… cerca di non farti colpire…»
«Un consiglio eccellente, Messer Cortese. I miei ringraziamenti.»
«… supporto morale, come ho detto…»
E poi si mosse. Stando accucciata, le mani davanti a sé, lontano dai carri
e verso l’affioramento più avanti. Tutto il mondo era indistinto, nero come
caffè e bianco come latte. La forma scura di un cavallo e di un cavaliere si
stagliò dal nulla e la colpì con forza quando le passò accanto. Lei barcollò,
ondeggiando alla cieca finché non andò a sbattere con gli stinchi contro un
affioramento roccioso e poi ruzzolò dietro una copertura con una
maledizione.
«Oh, cazzo.»
«… oh, povera piccola. dove ti fa male…?»
La ragazza si rialzò con un sussulto e si diede una pacca sul didietro.
«Vuoi darmi un bacino proprio lì?»
«… forse prima sarebbe meglio un bagno…»
Mia ripartì, aggrappandosi agli appigli del pendio roccioso, muovendosi
solo grazie al tatto e all’udito. Riusciva ancora a sentire Bevilacrime urlare
la sua sfida, ma era in allerta per il sibilo caratteristico delle frecce, lo
schiocco di una corda d’arco. E poi giunse… e ancora, mentre Mia faceva il
giro per salire, silenziosa come un ghiro particolarmente silenzioso che
fosse stato appena nominato Maestro del Silenzio presso il Collegio di
Ferro. e
Un’altra freccia. Un altro schiocco dell’arco. Mia riusciva a sentire
deboli sussurri tra un colpo e l’altro, e si domandò se lassù ci fosse più di un
cecchino. Adesso si trovava alle loro spalle, nascosta dietro un gruppo di
macigni. Gettando da una parte le sue ombre, sbirciò oltre la copertura per
scoprire quanti uomini avrebbe dovuto uccidere.
Pareva che non ce ne fosse nessuno.
Oh, c’era un arciere, ovvio. Ma non era un uomo più di quanto lo fosse
Mia. Si trattava di una donna vestita di cuoio grigio e marrone chiazzato, i
capelli biondi tagliati corti. Ogni volta che si presentava un’opportunità, si
premeva una freccia contro le labbra, sussurrava una preghiera e poi
scagliava. E qualunque divinità pregasse, pareva che le stesse dando
ascolto: quando Luka scattò verso uno dei cammelli, la donna gli conficcò
una freccia nella spalla, e un’altra nello stinco mentre quello si precipitava a
tornare al riparo.
La roccia le fracassò la testa al primo colpo, ma Mia gliene diede altri
due sulla nuca, giusto per essere sicura. La donna cadde con un rumore
gorgogliante, le dita che si contraevano. Raccogliendo il suo arco, Mia tese
la corda fino alle labbra, prese la mira e conficcò una freccia
dall’impennaggio nero nella schiena di uno dei predoni lì sotto.
La donna si torse sulla sella e cadde con un grido insanguinato. Uno dei
suoi compagni la vide rovinare a terra, si voltò verso le sporgenze lì sopra e
ruzzolò giù dal suo cavallo con una freccia nella gola. Un altro predone urlò
un avvertimento: «’Tenzione alle rocce! Alle rocce!» mentre Mia lo centrò
alla coscia e poi in pancia. Una fiondalama scintillò dalla copertura del
carro centrale, e quasi staccò la testa dell’uomo dalle spalle.
Adesso i predoni erano in preda alla confusione: il loro cecchino non
c’era più, e assieme a lei il loro piano. Bevilacrime scagliò un dardo con la
sua balestra, uccidendo un cavallo e facendo mordere la polvere al suo
cavaliere. Mia ammazzò un altro predone con due colpi nel petto. I
superstiti andarono in rotta, raccogliendo il loro compagno caduto e
galoppando via a tutta la velocità consentita dai loro destrieri.
«… bella strage…»
Mia guardò l’ombra seduta sopra il cadavere dell’arciere. Era piccola e
indossava la forma di un gatto, pulendosi una zampa semitrasparente con
una lingua semitrasparente.
«Ti ringrazio» si inchinò Mia.
«… era sarcasmo…» replicò Messer Cortese. «… te ne sei lasciata
sfuggire quattro…»
Mia fece una smorfia e fece il gesto delle nocche all’umbragatto.
«… mentre siamo ancora soli, probabilmente dovrei approfittare di
questa opportunità per evidenziare di nuovo la follia di questo tuo
piano…»
«Oh, sì, che le Figlie non lascino passare un cambio senza che tu mi
rompa le palle al riguardo.»
Mia si pulì la mano insanguinata sulle brache della donna morta, poi si
mise in spalla la faretra piena di frecce. Arco in mano, scese con cautela giù
per il pendio fino alla carneficina attorno alla carovana.
Le donne prigioniere erano ancora rannicchiate attorno alla loro gabbia.
Graccus, Dogger, Camminapolvere e Cesare erano morti. Luka era
accasciato vicino al carro centrale, due frecce nella spalla e nello stinco.
Mia lo osservò cercare di alzarsi in piedi, ma accontentarsi di un ginocchio.
Aveva gli occhi fissi nei suoi e la sua seconda fiondalama in mano.
Bevilacrime si era presa una freccia nella gamba a un certo punto della
mischia. Aveva il volto schizzato di sangue, ma puntò comunque la balestra
con mano ferma verso Mia. La ragazza si fermò a quaranta piedi di distanza
e sollevò il suo arco. Era di buona fattura: corno e frassino, istoriato con
preghiere alla Signora delle tempeste. Da questa distanza avrebbe potuto
trapassare un pettorale di ferro. E il capitano Bevilacrime non indossava
nulla di simile al ferro.
«Tuo padre ti ha insegnato bene, ragazza» le urlò il capitano. «Bella
strage.»
«… umph…» sussurrò la sua ombra.
Mia diede un calcio al buio attorno ai suoi piedi, intimandogli il silenzio
con un sibilo.
«Non ho alcuna voglia di ucciderti, capitano» le gridò Mia.
«Be’, questo sì che è un colpo di fortuna. Nemmeno io ho alcuna voglia
di morire.»
Il capitano guardò i cadaveri che la circondavano, i resti della sua
squadra, la freccia che aveva nella gamba, poi la lunga strada verso i
Giardini Pensili.
«Suppongo che dovremmo considerarla patta» le urlò. «Avevo in
programma di ottenere una bella sommetta per te al mercato, ma avermi
salvato la vita sembra una giusta contropartita. Che ne dici di cavalcare con
me per il resto del viaggio e farci arrivare sani e salvi ai Giardini? Posso
darti una fetta dei profitti. Il venti per cento?»
Mia scosse il capo. «Non voglio nemmeno quello.»
«Bene, cosa vuoi allora?» sbraitò Bevilacrime, lo sguardo fisso sull’arco
che Mia stringeva. «Hai delle buone carte, ragazza. Sta a te decidere come
giocare questa mano.»
Mia guardò le altre donne assiepate attorno al carro di testa. Erano
sudicie e smunte, i vestiti ridotti a poco più di stracci. La strada polverosa si
estendeva in mezzo alla sabbia rosso sangue, e lei sapeva bene che destino
le attendeva alla fine di quel tragitto.
«Voglio tornare nella gabbia» disse Mia.
Bevilacrime rimase sorpresa. «Ma ne sei appena uscita…»
«Ti ho scelto con molta attenzione, capitano. La tua reputazione è ben
nota. Non lasci che i tuoi uomini rovinino la mercanzia. E hai un accordo
con i Leoni di Leonides, giusto?»
«Leonides?» L’esasperazione si insinuò nella voce di Bevilacrime. «Nel
nome del cazzo ardente di Aa, cos’ha a che fare una stalla di gladiatii con
tutto questo?»
«Be’, è proprio questo il problema, vero?»
La ragazza abbassò l’arco con un sorrisetto.
«Voglio che tu mi venda a loro.»

a. Fuocomessa è una festività che segna il cambio di ingresso a caldestate nel calendario itreyano.
Dedicata a Tsana, la Signora del fuoco, cade l’ottavo mese prima della veraluce, la più sacra tra le
feste di Aa, quando tutti e tre i soli ardono nel cielo.
Tsana è la figlia primogenita di Aa, una dea vergine, patrona sia dei guerrieri sia delle donne.
Fuocomessa è caratterizzata da una messa di quattro ore nella cattedrale ed è concepita per essere
un cambio di riflessione e casta contemplazione. Naturalmente, gran parte dei cittadini della
Repubblica la usa come una scusa per indossare maschere e darsi a turbolente bevute, lasciandosi
andare proprio al tipo di comportamento esecrato da Tsana.
Ma per le spose vale lo stesso che per le dee, gentili amici: spesso è meglio chiedere il perdono
che il permesso.
b. I tre dram della tossina nota come “Inghippo” che Mia aveva sciolto la sera precedente nel tè della
domina assicuravano che non avrebbe partecipato al ricevimento del senatore Aurelius: essere
preda di fuoriuscite esplosive da qualunque orifizio tende a smorzare l’attitudine di socializzare.
Di solito, Mia avrebbe usato una dose più piccola, in particolare su una persona così attempata.
Ma nei cinque cambi in cui aveva ispezionato il palazzo dei Grigorio, la vecchia si era rivelata una
despota di prim’ordine, i cui unici piaceri sembravano apostrofare il ritratto del suo defunto marito
e picchiare i suoi schiavi. Perciò Mia trovava difficile sentirsi in colpa per aver somministrato a
quella vecchia baldracca una dose maggiorata.
Anche se provava pena per chiunque avrebbe dovuto pulire il casino, dopo.
c. Vi ricorderete che il conio di Itreya viene soprannominato secondo le persone che lo maneggiano
più spesso, gentili amici. I pezzi di rame sono chiamati “mendicanti.” Quelli d’argento sono
chiamati “preti.” A seconda del rango della persona a cui lo chiedete, le monete d’oro sono
chiamate “coglioni” o “allontanati da me, sudicia plebaglia, prima che ordini al mio uomo di
spezzare le tue fottute gambe”.
d. Tipicamente, i predatori delle Frusciaride ashkahi non viaggiano molto oltre il Grande Sale, e i
kraken delle sabbie più grossi si trovano solo più in profondità nel deserto. Ogni tanto, degli
esemplari più piccoli sconfinano a sud quando le prede scarseggiano e, in anni recenti, diverse
cricche intraprendenti che operano nell’Ashkah meridionale hanno iniziato a dare la caccia a
questi kraken vaganti, vendendoli perché possano essere usati in spettacolari scontri durante il
Venatus Magni, i grandi giochi che si tengono in onore di Aa durante la Festa della Veraluce.
I maestri del venatus sono sempre in cerca di modi per offrire scontri più spettacolari (e far
aumentare così il numero degli spettatori) rispetto alle edizioni precedenti, e se il pensiero di
assistere a uno dei gladiatii preferiti che combatte contro un orrore proveniente dalle Frusciaride
ashkahi non incolla i culi alle sedie, c’è ben poco che possa farlo, gentili amici.
e. Forse ricorderete che ai preti di ferro del Collegio viene rimossa la lingua in giovane età per
preservare i segreti del loro ordine. Tecnicamente, non esiste nessun “Maestro del Silenzio” al
Collegio: era semplice esagerazione da parte mia. Ma temevo che altrimenti non avreste colto la
battuta.
… Oh, lasciate stare.
Bastardi.
Che ne sapete voi dell’umorismo, comunque?
CAPITOLO 3
OMBRE

Mia giaceva nuda sul pavimento, schizzata di rosso, Alenna tra le braccia.
La musica si diffondeva ancora debolmente dal ricevimento al piano di
sopra, ma nessuno degli ospiti del senatore era al corrente che il suo unico
figlio era stato assassinato proprio sotto i loro talloni. Messer Cortese
sedeva sulla testiera, fissando il cadavere del giovane dominus. Eclissi si
leccò le labbra con una lingua trasparente e il sospiro dell’umbralupa si
riverberò per il pavimento.
La ragazza tra le braccia di Mia rabbrividì nel vedere le creature.
«Ora toglierò la mano, amore» sussurrò Mia. «Non ho intenzione di
farti del male. Ti legherò, mi rimetterò i vestiti e poi sgattaiolerò fuori alla
soliluce e tu non mi rivedrai mai più. Va bene?»
Alenna annuì in modo frenetico, scacciando le lacrime dagli occhi.
«… È UN’ASSURDITÀ …»
«… e da quando in qua sei un’esperta di assurdità, cucciola…?» la
schernì Messer Cortese.
«… MEGLIO SBARAZZARSI DI LEI. NON ABBIAMO MOTIVO PER
LASCIARLA IN VITA …»
«E nessun motivo per ucciderla» replicò Mia. «A meno che qualcuno
non mi paghi. Ora, uno di voi non dovrebbe piantonare il corridoio in caso
una guardia venga quaggiù?»
«… ho montato io la guardia l’ultima volta, quando hai assassinato quel
magistrato…»
«… BUGIARDO, IO SONO STATA LÌ FUORI DI GUARDIA PER TUTTO IL
TEMPO. TU TI STAVI INGOZZANDO COME UN SUINO A UN TROGOLO …»
«… e tu come faresti a saperlo, se eri fuori a montare la guardia tutto il
tempo…?»
«Avete finito, voi due? Non me ne frega un cazzo di chi lo fa, ma uno di
voi due farebbe meglio a uscire là fuori perché qualcuno ver…»
Qualcuno bussò piano alla porta. Da fuori, una voce profonda chiamò.
«Meus Dominus?»
Mia imprecò sottovoce, serrando la stretta sulla gola di Alenna.
«Meus Dominus» disse una seconda voce. «Vostro padre richiede la
vostra presenza.»
“Guardie, a giudicare dal suono. Almeno un paio…”
«… ERA IL TUO TURNO …» sussurrò Eclissi in tono feroce.
«… cagnaccio bugia…»
Mia sibilò loro di fare silenzio mentre ponderava rapidamente una
soluzione. Con le guardie fuori dalla camera da letto, le sue possibilità di
sgattaiolare via non vista erano bruciate. Colombo la stava aspettando di
sopra con la carrozza, ma non le sarebbe stato di alcuna utilità quaggiù.
Lei poteva combattere piuttosto facilmente, ma era nuda come un verme,
praticamente disarmata, e il rumore avrebbe soltanto attirato altre guardie.
Le ombre quaggiù erano scure, ma dato che le camere da letto erano nel
seminterrato, non c’erano finestre da cui potersi arrampicare fuo…
Mia emise un rantolo quando il gomito di Alenna andò a sbattere contro
le sue costole, poi, con un’imprecazione oscena, la ragazza diede uno
strattone all’indietro con la testa, impattando contro il naso di Mia. Ora
che la stretta era momentaneamente allentata, Alenna prese un respiro e
urlò, smorzata solo in parte dalle dita di Mia.
«Omicidio!» urlò. «Aiutatemi!»
Mia sbatté il pugno contro la tempia della ragazza, una volta, poi due,
facendola svenire. Udì un’imprecazione e un tonfo pesante quando
qualcosa impattò contro la porta.
«Meus Dominus?» gridò qualcuno. «Aprite!»
«… era il tuo turno…»
«… BUGIARDO …»
«Voi due volete stare zitti?»
Mia si infilò l’abito dalla testa mentre la porta tremolava sui cardini.
Frugando nel bustino lì a terra, recuperò il suo pugnale di necrosso, il
corvo sull’elsa che la rimproverava con il suo sguardo d’ambra
scintillante. Protendendosi verso le ombre attorno a lei, le trascinò sopra la
testa, gettando il mondo intero nell’oscurità e scomparendo completamente
sotto di essa.
La porta si aprì con uno schianto e due sagome indistinte si stagliarono
contro la luce. Una di esse urlò il nome di Aurelius, muovendosi verso
quella che Mia sperava fosse la direzione del letto. L’altra vide la ragazza
liisiana nuda e schizzata di sangue, per terra, rannicchiata accanto a lei. E
con la porta ora sgombra, Mia gettò via il suo manto d’ombra e corse.
Le guardie le urlarono di fermarsi, ma lei non diede loro ascolto,
scattando per il sontuoso corridoio verso le ampie scale. In alto apparvero
altre due guardie, in preda alla confusione nel vedere quella ragazza sporca
di sangue che saliva di gran carriera verso di loro. Uno alzò una mano per
fermarla quando il pugnale di Mia guizzò, dentro e fuori, ficcato nella sua
pancia fino all’elsa. L’uomo cadde con un rantolo, ruzzolando giù per le
scale mentre il suo compagno urlava un avvertimento e sollevava la sua
spada corta. Mia ruotò di lato, ansimando quando quella lama le si
conficcò in profondità nella spalla e nella parte superiore del braccio, ma il
suo contrattacco fischiante tranciò di netto il collo dell’uomo.
L’uomo crollò gorgogliando, ma Mia era già lontana, e stava salendo le
scale per arrivare a pianterreno. Irruppe nella sala principale, domini e
dominae midollani che urlarono allarmati quando la videro, lama
insanguinata in una mano, i capelli scuri sparsi attorno a occhi ancora più
scuri, sgranati dalla furia.
«Perdonatemi, Mea Domina» si scusò lei, sbattendo da una parte una
graziosa giovane mentre si faceva largo per la sala. Altre guardie si
precipitarono nella stanza, incerte su chi inseguire o sul perché farlo. Le
due della camera da letto di Aurelius comparvero in cima alle scale,
esaminando la folla confusa e individuando infine Mia mentre si muoveva
sgomitando nella calca.
«La ragazza in rosso!» tuonò uno di loro. «Fermatela!»
«Assassina!» urlò l’altro. «Il figlio del senatore, l’ha ucciso!»
La sala piombò nel caos: alcune persone protendevano le mani verso
Mia, altre fuggivano davanti a lei. La ragazza tagliò un administratii
benestante dalla coscia all’inguine quando l’uomo cercò di afferrarla, poi
diede una gomitata in faccia a un altro gentiluomo facendolo finire a terra
svenuto. Il coltello che aveva in mano e lo sguardo nei suoi occhi
dissuasero gli altri che volevano provarci e, con un passo di lato, uno
spintone e una capriola, attraversò le doppie porte, scattando per l’atrio
sontuoso. Ghermì un bicchiere dal vassoio di un servitore esterrefatto, poi
tracannò l’aureovino che conteneva prima di scagliarlo contro la guardia
che si stava avventando su di lei; il cristallo pesante rimbalzò contro la sua
testa e lo mandò lungo disteso.
Varcò le porte correndo e uscì nel cortile fuori dal palazzo di Aurelius.
Le grida di “Assassina!” riecheggiavano alle sue spalle e tre guardie
accorsero su per le scale per venirle incontro. I soli gemelli nei suoi occhi
erano quasi abbaglianti.
«Merda…»
Ciascuna delle guardie aveva un gladio corto a doppio filo e uno
sguardo omicida. La sua spalla sanguinava copiosamente e il suo abito era
zuppo. Mia fu costretta a difendersi: si protese verso l’ombra del loro capo
e gli attaccò gli stivali al pavimento, poi superò le loro lame con una
scivolata, scalciando contro un paio di gambe mentre passava, per poi
rimettersi in piedi. Scattò verso i cavalli e le carrozze parcheggiati attorno
al cortile anteriore di Aurelius, cercandone una in particolare in mezzo alla
folla.
«Colombo!» ruggì.
Un adolescente tra la calca sollevò la testa. Portava una semplice
maschera rettangolare, un vultus, indossava una livrea da servitore e aveva
i capelli scuri tagliati corti. Un sigaretto gli pendeva da un angolo della
bocca. Tre lacrime di sangue scendevano lungo la guancia destra della sua
maschera. Non aveva proprio l’aria di una Mano della Chiesa della Nostra
Signora dell’omicidio benedetto, ma quando udì il secondo urlo di Mia si
mise improvvisamente dritto al posto di guida.
«Tutto bene?» chiamò.
«Come cazzo fa a sembrarti che vada tutto bene?» urlò Mia, scattando
verso di lui.
La Mano di Mia notò che la sua Lama era ferita e tallonata dalle
guardie. Sputando via il sigaretto, il ragazzo mise la mano dentro il suo
pastrano ed estrasse due piccole balestre. Prendendo attentamente la mira,
abbatté le guardie più vicine a Mia con due rapidi colpi.
«Corri!» le urlò, facendole cenno.
«Dici? Bella idea!»
Un sibilo vicino all’orecchio di Mia la avvertì che erano arrivate altre
guardie, armate a loro volta di balestre, e lei si precipitò tra i cocchieri
stupefatti, anche se un dolore incandescente nel posteriore le diceva che
almeno uno degli inseguitori era un tiratore piuttosto bravo.
Incespicò, cadendo con un’imprecazione e scorticandosi palmi e
ginocchia come formaggio sul lastricato. Sibilando di dolore, si rimise in
piedi e afferrò il dardo di balestra che le spuntava dal didietro.
«Denti della Mannaia, ti hanno sparato proprio nel…»
«E sparagli anche tu, fottuto cazzone!»
Colombo sparò di nuovo, abbattendo un’altra guardia con un quadrello
in gola. Il ragazzo si abbassò per ricaricare e una pioggia di dardi volò
sopra la testa di Mia, perforando due dei cocchieri spaventati e uno
stallone particolarmente irritato. Purtroppo, mentre Colombo si alzava con
le balestre di nuovo cariche, uno dei dardi lo centrò nel petto, scagliandolo
all’indietro contro la carrozza in uno schizzo di sangue. Mia osservò la sua
Mano cercare di rialzarsi, ma alla fine il ragazzo crollò con un gemito
gorgogliante.
«… TI AVEVO AVVISATO CHE ERA UN IDIOTA …»
«… per una volta, siamo assolutamente d’accordo…»
Mia era in piedi, a cercare riparo tra i cavalli imbizzarriti e i cocchieri
in preda al panico. Ma con il braccio tagliato a fettine, non c’era modo in
cui potesse far girare una carrozza e usare la frusta allo stesso tempo… e le
guardie di Aurelius stavano rapidamente guadagnando terreno.
Con un guizzo del suo pugnale di necrosso, staccò cinghie di cuoio e
agganci di un alto stallone bianco. Sussultando per il dolore, si trascinò in
groppa al destriero.
«… hai dimenticato quanto ti odiano i cavalli…?»
«Pare proprio di sì.»
«… GALOPPA …!»
Mia scalciò contro i fianchi del cavallo e lo stallone partì, con gli
zoccoli che sollevavano la ghiaia compatta del cortile del senatore mentre
le guardie le intimavano di fermarsi. a Quadrelli di balestra volarono vicino
alla sua testa, scalfendo il fianco del cavallo, ma un dardo gli si conficcò in
una delle zampe posteriori. L’animale urlò e cercò di sbalzarla via, ma Mia
si aggrappò come un’ombra ai piedi del suo possessore. Lo stallone corse a
tutta velocità, schizzando oltre il cancello principale e uscendo negli ampi
viali della città di Galante. In lontananza risuonarono campane,
riecheggiando da dozzine di cattedrali, cupole e minareti diversi. Le strade
erano affollate per Fuocomessa e la gente festante imprecò contro di lei
quando Mia passò al galoppo sul suo stallone sanguinante.
La Lama si guardò alle spalle e vide mezza dozzina di guardie che la
inseguiva a cavallo. Il sangue che usciva dalla ferita alla spalla era
appiccicoso sulla sua schiena, il vestito zuppo incollato alla sua pelle.
Iniziava a provare un senso di vertigini per l’emorragia. Con
un’imprecazione colorita, si strappò via il dardo di balestra dal gluteo, la
testa che le ondeggiava in preda all’agonia. Doveva allontanarsi dalle
strade, arrivare in qualche posto buio, nascondersi finché il caos non si
fosse placato.
Le strade di Galante erano affollate perfino qui nel distretto dei
midollani, troppo per continuare un inseguimento a perdifiato. L’impeto di
velocità data dal terrore che aveva spinto al galoppo il suo stallone stava
volgendo al termine e il cavallo adesso zoppicava per il dardo ricevuto.
Mia scivolò giù dall’animale claudicante, gettandosi tra la folla di festanti
ubriachi; le urla delle guardie le risuonavano nelle orecchie. Arrancò fino
a un vicolo tra una delle innumerevoli cattedrali della città e un
torreggiante palazzo degli administratii, che serpeggiava nel dedalo di
viuzze di Galante. Respirava a fatica, la sua vista ondeggiava e la perdita
di sangue le faceva tremare le mani. Il suo braccio sinistro era
completamente insensibile e la voce di Messer Cortese nelle orecchie la
spronava ad andare avanti. Infine trovò una recinzione in ferro battuto oltre
la quale c’era un mare affollato di tombe e lapidi, inframmezzate da
erbacce scure e fiori brillanti.
“La necropoli di Galante.”
Zoppicò attraverso il cancello e arrancò lungo le file fitte di marmo e
granito ricoperto di muschio, con mausolei torreggianti che ospitavano
generazioni di midollani morti. Infine si abbassò sotto la sporgenza di una
tomba che apparteneva a qualche ricco bastardo, ormai dimenticato da
molto tempo. Allungandosi verso le ombre, Mia le colse con dita abili e se
le intessé attorno alle spalle.
Come faceva sempre, il mondo piombò nell’oscurità sotto il manto, ma
lei udì comunque le guardie di Aurelius mentre entravano nella necropoli,
con i loro passi pesanti sul selciato. Il capitano sbraitò un ordine e il
gruppo si divise, zigzagando nel sovraffollato labirinto di cripte, ossari e
tombe: le urla di “Assassina” risuonavano sulla pietra pallida.
Una guardia, però, rimase.
Mia riusciva a vederla solo a malapena tra il velo di ombre, ma intuiva
dalla sua sagoma indistinta che l’uomo era enorme. I suoi stivali
scrocchiarono sulla ghiaia quando si diresse furtivo ai mausolei,
borbottando piano. Mia trattenne il fiato mentre quello si avvicinava al suo
nascondiglio, cercandola con lo sguardo da un lato all’altro. Avvertì un
gocciolio caldo colarle lungo la schiena e la sua vampata di terrore fu
inghiottita dal suo passeggero quando si rese conto che, malgrado il manto
d’ombra, il suo sangue doveva aver lasciato una traccia che ora si stava
raccogliendo proprio lì, ai suoi piedi.
La guardia andò verso la cripta di Mia. Invece di pregare che la
superasse, la ragazza gettò semplicemente via il suo manto d’ombra e le si
avventò addosso, stiletto in pugno.
La guardia indossava una cotta di maglia sotto la livrea, ma Mia
perforò con la sua lama di necrosso gli anelli d’acciaio come se fossero
burro. Affondò il colpo fino all’elsa, ma dato che attaccava il tizio alla
cieca, non riuscì a trapassargli il cuore. Il colosso lanciò un urlo quando
lei colpì di nuovo, ferendolo al collo. Uno spruzzo di rosso caldo e umido la
centrò in faccia, ma la guardia l’afferrò per il polso e le assestò un gancio
poderoso alla mascella. Mia fu scagliata all’indietro contro la parete della
tomba e aggredì la mano che la stava trattenendo: entrambi finirono a terra
ruzzolando.
La trachea dell’uomo era ancora intatta e la guardia si mise a urlare
mentre la ragazza, ringhiando, lo accoltellava più e più volte. Rotolarono
sul selciato, con Eclissi e Messer Cortese che le sussurravano per
avvertirla che le altre guardie stavano tornando. Ma il suo avversario era
enorme e, malgrado tutto il suo addestramento, Mia era ferita,
sanguinante, e chi crede che non ci sia nessun vantaggio a essere grandi il
doppio del proprio nemico non ne ha mai affrontato uno grosso la metà di
lui.
Mia udì un frastuono di stivali e il suo volto si contorse quando la
guardia le afferrò i capelli in un pugno. La sua lama trovò di nuovo il collo
dell’uomo, facendolo crollare all’indietro sull’acciottolato in uno spruzzo
schiumante di rosso. Mia si rimise dritta e vide altre quattro guardie
avvicinarsi.
«… scappa…!»
«Come?» ansimò lei.
«… NASCONDITI …!»
«Dove?»
«Alt!»
Le quattro guardie abbigliate con la livrea del senatore Aurelius si
aprirono a ventaglio attorno a lei. Mia poteva sentire fischi sulla strada in
lontananza e il trepestio di stivali dei legionari. Impavida, fissando la morte
negli occhi, guardò torvo la guardia più alta e si rigirò lo stiletto tra le dita.
Pensò al console Scaeva e al cardinale Duomo. Alla sua familia che ancora
attendeva vendetta. Ma il rimpianto in definitiva nasceva dalla paura, e
perfino qui, alla fine, non riusciva a trovarne alcuno dentro di sé. Solo
rabbia che potesse terminare così.
«Chi muore per primo?» chiese, sfidando apertamente gli uomini lì
riuniti.
La guardia più suscettibile alzò una balestra carica verso il suo petto.
«Tu, puttana» sbraitò.
Un brivido si insinuò dentro di lei, cupo e vuoto. La pelle coperta di
sangue le si accapponò a ondate. I soli ardevano alti nel cielo, ma qui nella
necropoli le ombre erano scure, quasi nere. Una sagoma si sollevò dietro le
guardie, ammantata e incappucciata, impugnando lame di quello che
avrebbe potuto essere soltanto necrosso. Attaccò la guardia con la balestra,
quasi spiccandogli la testa dal collo. I suoi commilitoni urlarono e
sollevarono le spade, ma la figura si mosse fulminea, colpendo una volta,
due, tre. E quasi più velocemente di quanto Mia potesse sbattere le
palpebre, tutte e quattro le guardie giacquero morte a terra.
«Denti della Mannaia» sussurrò lei.
Le ombre ai suoi piedi rabbrividirono ed Eclissi prese forma con un
ringhio. Messer Cortese fu sulla sua spalla, soffiando con la schiena
inarcata. Mia sentì un brivido nelle ossa e i suoi passeggeri divorarono la
paura quando il suo salvatore si voltò a fronteggiarla.
Non era umano, poco ma sicuro. Oh, sotto quel mantello aveva la forma
di un uomo, alto e con le spalle ampie. Ma le sue mani… ’bisso e sangue, le
mani avvolte attorno alle else delle spade erano nere. Tenebrose e quasi
trasparenti, le dita attorcigliate sulle impugnature come serpenti. Mia non
riusciva a vedere il suo volto, ma piccoli tentacoli neri si agitarono e si
contorsero dall’interno del cappuccio, trascinandolo più in basso a
coprirne le fattezze. E anche se era quasi caldestate, con due soli che
ardevano alti nel cielo, il suo respiro si condensava in nuvolette bianche
davanti alle labbra, e il corpo di Mia era percorso da brividi a quel gelo.
«… Chi sei?»
«CHIEDILO A TE STESSA » replicò la figura. La sua voce era cupa,
sibilante, caratterizzata da uno strano riverbero. «MIA CORVERE .»
La ragazza sbatté le palpebre.
«… Mi conosci?»
La figura si avvicinò in un modo che Mia poteva descrivere solo come…
strisciante. Una patina di brina si diffuse sulle tombe e sulle cripte attorno
a loro.
«SO CHE SEI DESTINATA A MOLTO PIÙ DI QUESTO » disse. «LA TUA VERITÀ
GIACE SEPOLTA NELLA TOMBA . EPPURE DIPINGI LE TUE MANI DI ROSSO PER
LORO, QUANDO DOVRESTI DIPINGERE I CIELI DI NERO. »
«… oh, che gioia: un tipo criptico…»
«LA TUA VENDETTA È COME I SOLI , MIA CORVERE . SERVE SOLO AD
ACCECARTI .»
«Di cosa cazzo stai parlando?»
Mia udì delle urla e si voltò verso il suono di stivali in avvicinamento.
«CERCA LA CORONA DELLA LUNA. »
La ragazza si girò nuovamente, solo per scoprire che quella cosa era
scomparsa, come se non ci fosse mai stata. Il suo respiro aleggiava ancora
bianco nell’aria, e il gelo abbandonò lentamente le ossa di Mia; la voce
dell’essere risuonava nel buio dietro i suoi occhi. Si guardò attorno nel
cimitero, vedendo solo cadaveri e cripte, e domandandosi se stesse
sognando a occhi aperti.
«… mia, stanno arrivando…»
«… DOBBIAMO ANDARE …»
Altri fischi. Stivali che si avvicinavano. Sangue sulla faccia e sulla pelle.
Mia agguantò uno dei mantelli delle guardie, il meno insanguinato di tutti.
Poi si tirò il cappuccio sopra la testa e attraversò zoppicando la necropoli,
più veloce che poteva, arrampicandosi sulla recinzione in ferro battuto e
scomparendo nel dedalo di viuzze di Galante.
Lasciando solo corpi nella sua scia.

I Giardini Pensili di Ashkah sono uno spettacolo inimitabile sotto i soli.


A Godsgrave, i vasti giardini sui tetti di Piccola Liis traboccano di
solisposa e mellirosa, aiutando a soffocare il fetore fognario del fiume Rosa
con il loro meraviglioso profumo. A Whitekeep, i labirinti floreali che re
Francisco III costruì per intrattenere le sue amanti si estendono per miglia, e
un esercito di schiavi lavora per mantenerli in ordine, perfino un secolo
dopo la caduta della monarchia. Le Torri Spinate di Elai si innalzano per
settanta piedi, coperte di affiledera. Quando i rampicanti sbocciano appena
prima di caldestate, le torri sono ricoperte di boccioli che si possono vedere
in tutta la città. Ma nessun giardino nell'intera Repubblica può competere
con i Giardini Pensili di Ashkah, gentili amici.
Né per la loro magnificenza, né per il loro orrore.
L’odore fu la prima cosa a colpire Mia. Sovrastava la puzza nella sua
gabbia a miglia di distanza dalla città. Sangue, sudore e la miseria più nera.
Fissò la metropoli che sorgeva dalla foschia più avanti, mordendosi il
labbro. Alcuni bambini nel suo carro cominciarono a piangere, seguiti dalle
donne più giovani. Mia avvertì la propria ombra sollevarsi mentre guardava
verso la loro destinazione.
“Mai avere paura.”
I Giardini Pensili erano stati colonizzati da esploratori liisiani dopo la
caduta dell’Impero ashkahi. Nei secoli seguiti al crollo, il porto era
diventato la città più estesa della costa e ora fungeva da centro nevralgico
nei mari meridionali per il carburante che alimentava il cuore della
Repubblica itreyana.
“Lo schiavismo.”
La città portuale era di pietra rossa, annidata al margine di una baia
naturale. L’architettura era un misto di vecchie rovine ashkahi e guglie e
cupole aggraziate di foggia liisiana costruite sopra i resti dell’antica città. E
attorno alle mura cittadine pendevano migliaia di gabbie di ferro, piene di
migliaia di corpi umani.
Alcune gabbie erano lì da decenni e contenevano solo ossa ricoperte da
brandelli. In altre i morti erano recenti. Ma dalle urla pietose che si
levavano dalla metropoli indaffarata più avanti, Mia sapeva che a centinaia
erano ancora vivi. Lasciati appesi nelle loro gabbie finché non fossero
periti.
I Giardini Pensili di Ashkah. I suoi fiori erano fatti di carne e ossa. b
E finalmente Mia era arrivata qui.
Il convoglio procedette lento attraverso ampi cancelli di legno, e la puzza
andò aumentando con il calore. Le strade erano affollate, il porto più avanti
pieno di navi da ogni angolo della Repubblica, alcune che scaricavano, altre
che salpavano con il loro carico da rivendere. Era la stagione del mercato,
quando le bande di schiavisti tornavano dai loro viaggi su per la costa
ashkahi e più a est, con le stive piene di carne fresca. Legionari itreyani
camminavano fianco a fianco con mercanti liisiani, e il frastuono di monete
e dolore riempiva l’aria.
Mia sentì qualcuno spingere accanto a lei. Girandosi, vide una donna
magra che fissava le strade, il volto pallido.
«Che il Semprevigile ci aiuti…»
Mia strinse gli occhi per guardare i due soli in cielo.
«Non credo stia ascoltando» mormorò.
Il carro si arrestò al margine brulicante della piazza del mercato.
Bevilacrime balzò giù dal posto di guida e zoppicò fino al retro del carro
delle donne, togliendo la copertura e indicando Mia.
«D’accordo, ragazza» disse. «Andiamo alla Fossa.»
Il capitano aprì la gabbia e indietreggiò con la balestra in mano. I
mercanti erano già assiepati attorno al carro, pungolando la mercanzia
all’interno per giudicarne il valore. Degli omoni al servizio del mercato
iniziarono a scaricare schiavi dal carro di coda e i ceppi cantarono una
canzone arrugginita quando i prigionieri balzarono sul terreno compatto.
Mia scese dal carro, osservando la folla attorno a loro.
“Sono qui.”
Nascose il suo sorriso sotto le ciocche arruffate dei suoi capelli.
“Un passo più vicina.”
La Fossa era scavata all’altra estremità del mercato e Mia riuscì a
sentirla bene ancora prima di posarvi gli occhi. Roche grida di esultanza e
grugniti di dolore, il tintinnio di monete e il rumore di ossa che si
spezzavano. Mentre si facevano strada nella piazza affollata, Bevilacrime fu
fermata almeno una dozzina di volte da mercanti che si informavano sulla
vendita di Mia. La ragazza dovette fare appello a tutta la sua forza di
volontà per tenere a bada la collera mentre li sentiva tastare le sue curve e
controllarle i denti con mani sporche. Ma Bevilacrime declinò tutte le
offerte per l’acquisto di Mia, indicando che presto sarebbe stata in vendita
nella Fossa. Ai rifiuti del capitano, gli interessati parevano increduli o
sconcertati: un mercante dichiarò che era uno “spreco di buone tette”. Ma
Bevilacrime tenne il punto e le due proseguirono.
La Fossa era esattamente quello: un buco profondo dieci piedi e largo
cinquanta, contornato da pareti calcaree. Un ampio recinto per il bestiame
era costruito lì accanto, sbarre di ferro arrugginite che tenevano segregata
una moltitudine di schiavi muscolosi. Era circondato da tribune calcaree, su
cui erano assiepati scommettitori e allibratori urlanti. E nell’anello più
interno, assistiti da secondi e servitori, vide oltre una dozzina di sanguila. c
Mia era in piedi a capo chino ai cancelli di ferro della Fossa. Dei
legionari itreyani con elmi piumati stavano ispezionando la mercanzia di un
altro schiavista prima di permettergli di passare. La ragazza sussurrò da
sotto il suo groviglio di capelli.
«Riesci a vedere Leonides?»
«Sì, è lì.» Bevilacrime indicò col capo dall’altra parte del recinto. «Quel
grasso bastardo.»
«… Sono tutti grassi bastardi.»
«Quello più grasso, allora.»
Mia strinse gli occhi e notò infine un uomo itreyano seduto sotto un
ampio parasole. Era vestito con una lunga redingote malgrado il caldo, il
foulard annodato stretto, tenuto fermo da una spilla a forma di testa di
leone. Era di carnagione scura, il corpo grassoccio a causa di svariati anni
all’insegna del troppo cibo e vino. Accanto a lui sedeva un altro Itreyano,
ampio e muscoloso, che scrutava la Fossa con occhio acuto.
«Quello è Titus» disse Bevilacrime. «Ha il ruolo di executus: colui che
addestra tutta la mercanzia di Leonides.»
«So cosa fa un executus» borbottò Mia.
«Ne sei certa? Perché se fossi una a cui piace scommettere, punterei il
mio ultimo mendicante sul fatto che tu non abbia una fottuta idea di quello
in cui ti stai cacciando.»
«Te l’ho detto» replicò Mia. «Leonides ha addestrato due degli ultimi tre
campioni del Venatus Magni. Dispone di posti nelle eliminatorie di tutte le
arene. Corrompe i funzionari giusti, conosce la gente giusta. Se dovessi
vincere la mia libertà, l’opportunità migliore sarebbe addestrarsi sotto di
lui.»
«Ma perché, ragazza?» domandò Bevilacrime. «Avresti potuto andartene
libera nel deserto! ’Bisso, se volessi, ti lascerei andar via ora! Mi hai
salvato la pelle da quei predoni e io ripago i miei debiti. Nel nome del
Semprevigile, perché vuoi essere una gladiatii?»
«Ho fatto una promessa» disse Mia. «E intendo mantenerla.»
«Che genere di promessa si potrebbe mantenere in un posto come
questo?»
«Una promessa scarlatta.»
Bevilacrime sospirò e scosse il capo. «Questa è follia.»
«… è più saggia di quanto sembra…»
Il sussurro provenne dall’ombra sotto i capelli di Mia, troppo debole
perché il capitano lo udisse. Bevilacrime si tolse il tricorno e si passò la
mano sul cuoio capelluto. Guardò Mia in tralice e sospirò.
«Una ragazza come te non ha parte in questo genere di affari.»
«Credimi, capitano» replicò Mia. «Non hai mai incontrato una ragazza
come me.»
Bevilacrime imprecò, ma tenne fede alla parola data e si fece strada fino
ai legionari all’ingresso. Entrambi le rivolsero un segno di saluto e
guardarono sollevando un sopracciglio quel fuscello ossuto che portava in
catene accanto a sé.
«Ti sei persa, capitano?» chiese quello grosso.
«I recinti di piacere sono più avanti» disse quello ancora più grosso,
indicando in direzione della baia.
Bevilacrime tirò su forte col naso e sputò nella polvere. «Fatevi da parte,
puzzolenti figli di puttana. Ho una vera combattente da piazzare e non ho
tempo da perdere in chiacchiere, a meno che non abbiate monete da
sganciare.»
Quello più grosso guardò Mia con aria sorpresa. «… Hai in mente di
vendere questo fuscello a un sanguila?»
I legionari scoppiarono in una risata sguaiata, tenendosi i fianchi come
dei pessimi attori in una pantomima. Mia tenne il capo chino quando
Bevilacrime fronteggiò la prima guardia. Per quanto lui fosse grosso, la
donna riuscì a guardarlo fisso negli occhi.
«Ho mai venduto degli scarti qui dentro, Paulo?» Spostò lo sguardo
sull’altro uomo. «Non insegnarmi il mestiere, arrogante segaiolo. Lo
conosco bene, ed è lì nella fottuta Fossa.»
I soldati si scambiarono uno sguardo, un po’ imbarazzati. Poi, con
piccole scrollate di spalle, i due si fecero da parte e lasciarono entrare
Bevilacrime e Mia nel recinto degli schiavi. Un uomo untuoso con una
tavoletta di cera segnò il nome di Bevilacrime, mentre un giovane con un
occhio storto segnava con vernice blu un numero sul braccio di Mia e sul
retro della sua tunica. Lei lo guardò mentre lavorava, domandandosi da
dove provenisse e come fosse arrivato qui. Fissò l’unico cerchio arkemico
tatuato sulla sua guancia. d
Prendendo Mia per le catene, il ragazzo iniziò a trascinarla verso gli altri
schiavi. La ragazza fece resistenza per un momento e guardò Bevilacrime
negli occhi.
«Un’altra cosa, capitano» disse piano.
«Ah sì?» Il capitano sollevò un sopracciglio. «Ti devo così tanti favori?»
«Mi devi la tua vita. Lo definirei il tipo più grande di favore che esiste.
Potrebbe arrivare un cambio in cui esigerò che mi sia restituito. E
apprezzerei se non dovessi chiedertelo due volte.»
Bevilacrime inspirò a fondo. «Come ho detto, ragazza, io ripago i miei
debiti.»
Soddisfatta, Mia si lasciò trascinare via, in mezzo all’altro bestiame
umano nella calura asfissiante. Guardandosi attorno, si accorse che c’era
solo un’altra donna: una Dweymeri con le mani delle dimensioni di vassoi.
Teneva gli occhi dritto di fronte a sé, osservando quello che accadeva nella
Fossa ed evitando gli sguardi curiosi dei suoi compagni di recinto.
Sembrava un procedimento piuttosto semplice. I venditori di carne come
Bevilacrime si aggiravano per le tribune, decantando le lodi della loro
mercanzia ai sanguila. E, una dopo l’altra, alle loro offerte veniva data una
spada di legno e venivano gettate a capofitto in un combattimento mortale.
C’erano mezza dozzina di combattenti professionisti che lavoravano al
centro della Fossa, ciascuno una montagna di muscoli e cicatrici. Quando
un nuovo aspirante veniva spinto nell’anello, un combattente a caso
sollevava immediatamente una spada di legno e attaccava cercando di
fracassargli la testa. Si piazzavano scommesse, la folla si metteva a urlare e
incitare; se il contendente era ancora in piedi dopo alcuni minuti, ai sanguila
veniva data l’opportunità di avanzare le loro offerte per l’acquisto. Coloro
che combattevano in maniera promettente venivano accaparrati
rapidamente. Quelli che fallivano venivano trascinati via per essere
rivenduti da qualche altra parte nei Giardini Pensili.
Mia lanciò un’occhiata al sanguila Leonides. L’uomo stava analizzando
gli incontri proprio come un ragno fa con le mosche, ma non avanzava mai
un’offerta. I Leoni di Leonides erano i gladiatii migliori della Repubblica, e
Leonides passava sei mesi all’anno a setacciare i mercati costieri,
selezionando solo i più promettenti. Se Mia voleva chiamarlo Dominatii,
doveva impressionarlo.
Per fortuna, non si diventava una Lama della Chiesa Rossa se non si
sapeva maneggiare una spada.
Il funzionario del registro chiamò il numero di Mia. La porta del recinto
si aprì. Il ragazzo con un occhio storto le tolse le catene e le porse un gladio
di legno ammaccato che, in circostanze normali, lei avrebbe usato come
legna da ardere. E senza tante cerimonie, Mia si ritrovò spintonata nel
centro della Fossa.
Urla di scherno risuonarono per gli spalti, soffocando risate fragorose e
fiumi di ingiurie. La vita dell’esile ragazza dai capelli neri che se ne stava
con le gambe storte al centro dell’anello non parve impressionare la
plebaglia tra la folla, tanto meno i maestri del sangue.
«Cazzo ardente di Aa, è uno scherzo?» gridò uno.
Sputi e improperi piovvero sulla Fossa e i vari sanguila voltarono occhi
privi di interesse sui loro registri: qualunque cosa fosse questo scherzo, era
chiaro che nessuno di loro lo trovava divertente. Uno dei combattenti della
fossa guardò il funzionario del registro sollevando un sopracciglio, ma
quello si limitò ad annuire. L’uomo scrollò le spalle e sollevò la sua spada
di legno, avanzando verso Mia. Era un Dweymeri, largo come un ponte, con
la pelle bruna lustra di sudore.
«Stai ferma, ragazzina» ringhiò. «Durerà poco.»
Mia fece come le era stato ordinato, restando immobile mentre l’omone
si avvicinava. Ma quando il gigante sollevò la sua lama per fracassarle il
cranio, la ragazza si mosse. Rapida come ombre.
Un passo di lato e la lama sibilò accanto alla sua testa. Mia calò il suo
gladio di legno sul polso dell’uomo, rompendo l’osso. Diversi sanguila si
voltarono a guardare quando l’omone urlò. Mia gli assestò un calcio brutale
al ginocchio e fu ricompensata con uno scrocchio nauseante quando la
giuntura si piegò completamente dalla parte sbagliata. L’omone crollò con
un muggito e, con deliberata veemenza, Mia sbatté la lama di legno
direttamente contro la sua gola, riducendogli in pappa la laringe.
Una schiuma rossa schizzò sulle labbra dell’uomo mentre voltava occhi
stupefatti verso Mia. La ragazza si scostò i capelli sopra la spalla.
«Ascoltami, Niah» sussurrò. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il tuo
banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio dono
per te. Tienilo stretto.»
E, con un gorgoglio, il combattente della fossa rovinò a terra morto.
Mormorii stupefatti si diffusero tra la folla. Mia fece una riverenza ai
sanguila, come una nuova domina al suo ballo di debutto. Poi si voltò verso
il combattente successivo nella fila e spianò la spada verso la sua testa.
«Ora è il tuo turno, carino.»
Il combattente (che era piuttosto carino) guardò i suoi compagni, il
cadavere sul terreno e infine il funzionario. Il tizio untuoso scoccò
un’occhiata verso l’alto ai sanguila, che adesso stavano fissando Mia con
interesse. Poi, tornando a voltarsi verso lo spadaccino, annuì.
Il combattente venne avanti e Mia gli andò incontro saltellando. Il loro
scontro durò meno di dieci secondi, terminando con l’impronta dello stivale
di Mia impressa nell’inguine dell’uomo e la sua spada di legno infilata per
la sua gola graziosa, giù fino all’elsa. La ragazza si girò verso la folla e si
profuse in una nuova riverenza.
«Cento preti» si levò un grido.
«Centodieci.»
Mia sorrise dietro i suoi capelli mentre i sanguila cominciavano ad
avanzare offerte. Entro pochi istanti, il suo prezzo era di duecento monete
d’argento: una somma decente secondo ogni canone. Ma quando alzò lo
sguardo verso le tribune, vide che Leonides e Titus non avevano
pronunciato una parola. Anche se i sanguila la osservavano con attenzione,
anche se Bevilacrime stava sussurrando all’orecchio di Titus e lui stava
annuendo lentamente, Leonides non fece sentire offerta.
“È il momento di rinfocolare la fiamma.”
Mia recuperò la lama di legno dalla gola del combattente morto, si voltò
verso il terzo e parlò tanto forte da farsi udire sugli spalti.
«Tu. Sei il prossimo.»
L’omone guardò i due cadaveri ai piedi di Mia.
«’Fanculo» la sbeffeggiò.
«Porta i tuoi amici.» Mia sorrise ai combattenti accanto a lui. «Ne ho
sempre voluti provare tre assieme.»
La ragazza gettò la spada di legno per terra.
«O siete tutti codardi?»
La folla urlò e fischiò, mentre i combattenti si irritavano. Essere battuti
sul loro stesso terreno era un conto, ma mangiare un vassoio di merda da
una ragazza disarmata grande la metà di loro era un altro. Con occhi
lampeggianti e spade alzate, gli uomini avanzarono nella Fossa.
Con un sorriso cupo, la ragazza andò loro incontro.

a. Una nota per gli aspiranti membri delle forze dell’ordine: questa tattica non funziona mai.
b. La storia dei Giardini Pensili è lorda di sangue. Fondata come una città commerciale, divenne
rapidamente un centro del commercio della carne dopo l’ascesa dei re itreyani. Ma il porto in
origine era chiamato Ur-Dasis, che significa “Città cinta da mura” nella lingua della Vecchia
Ashkah, e fu solo dopo una rivolta durante il regno di Francisco II che ricevette il suo nuovo
nome.
Con la schiavitù che fungeva da spina dorsale del suo regno, Francisco non poteva permettersi
alcun tipo di ribellione. Quando un gruppo di schiavi si rivoltò contro i loro aguzzini e occupò Ur-
Dasis, il re inviò un’intera legione sotto il comando del famigerato generale Atticus Dio per sedare
la rivolta. Anche se i ribelli assediati combatterono con coraggio, alla fine furono ridotti alla fame
e acconsentirono ad arrendersi se Atticus avesse promesso clemenza. Il generale accettò, giurando
che i ribelli sarebbero solo stati riportati alla loro condizione di schiavitù.
Come previsto, Atticus non mantenne la parola. Quando i ribelli posarono le armi, furono
appesi alle mura cittadine a migliaia come monito a chiunque osasse rivoltarsi in futuro. Alcune
delle gabbie di ferro originali decorano ancora la città, e perfino adesso gli schiavi ribelli
subiscono lo stesso destino: rinchiusi nelle gabbie appese alle mura per morire sotto i soli ardenti.
Francisco fu compiaciuto della prestazione del suo generale e rinominò Ur-Dasis come
Giardini Pensili in suo onore.
Fatto interessante, Atticus, quasi vent’anni dopo, avrebbe guidato una rivolta contro il nipote di
Francisco, il re ragazzino Francisco IV. E quando quella rivolta fallì, il generale venne portato ad
Ashkah e appeso alle stesse mura che aveva liberato due decenni prima.
La storia, gentili amici, non è priva del senso dell’ironia.
c. Letteralmente “maestri del sangue.” Custodi di stalle umane, che fanno combattere la loro
mercanzia nelle varie arene di gladiatii per tutta la Repubblica.
I sanguila di successo hanno una popolarità che rivaleggia perfino con i senatori itreyani più
apprezzati, anche se difettano del sangue nobile che permetterebbe loro di essere eletti a cariche
politiche.
Molti si accontentano di piangere fino a addormentarsi tra le braccia di bellissime concubine
sopra vaste pile di denaro.
d. La schiavitù nella Repubblica itreyana è una questione estremamente codificata, con un’intera
sezione degli administratii a sovrintenderla. Gli schiavi sono di tre tipologie e sono marchiati con
un simbolo arkemico sulla guancia per indicare il loro rango.
Gli schiavi con un cerchio sono quelli ordinari: operai, servitori domestici, semplice carne da
bordello e simili. Due cerchi indicano una persona addestrata nelle faccende militari: gladiatii,
guardie di una casa, membri della legione di schiavi itreyana, la famigerata Tredicesima
Sanguinosa. Gli schiavi marchiati con tre cerchi sono i più rari e preziosi; il loro marchio indica
che possiedono un’istruzione o delle capacità eccezionali: scribi, musicisti, maggiordomi e
cortigiane molto apprezzate.
E se vi state domandando perché le prostitute qualificate siano tenute in tale considerazione
nella Repubblica, gentili amici, è evidente che non avete mai passato la notte con una prostituta
esperta.
CAPITOLO 4
OFFERTA

«Denti della Mannaia, resteremo qui fino alla veraluce?» ringhiò Mia.
Pietro inarcò un sopracciglio e versò un’altra dose di aureovino sulla
sua spalla insanguinata. Mia sussultò di dolore e prese una tirata del suo
sigaretto con una mano tremante. Era seduta su una panca di pietra bassa,
la Mano alle sue spalle, avvolta nelle sue consuete vesti nere. Pietro era
occupato a ricucire il buco insanguinato nella sua spalla e le aveva avvolto
una striscia di garza attorno al posteriore, che ormai era inzuppata di
rosso.
La camera era spoglia, pareti di roccia scura e fiochi globi arkemici.
Come molte stanze nella Cappella di Galante, era profumata del debole
lezzo di merda. I servitori della Nostra Signora dell’omicidio benedetto qui
nel Porto delle Chiese a avevano costruito il loro nascondiglio nella vasta
rete fognaria sotto l’epidermide di Galante, ed era difficile sfuggire alla
puzza. Negli otto mesi in cui aveva servito qui, Mia ci si era abituata, ma
preferiva comunque passare meno tempo possibile quaggiù. A meno che
non avesse bisogno di rattoppi o approvvigionamenti, faceva visita solo
quando le occorreva parlare con…
«Be’, che io sia fottuta fino in fondo all’incontrario» disse una voce
familiare. «Guarda cos’ha portato l’umbragatto.»
Mia vide una donna sulla soglia, vestita con brache di cuoio, lunghi
stivali e una camicia di velluto nero. Era magra come un fuscello, i capelli
castano chiaro tagliati in uno stile decisamente mascolino, ombre scure
sotto gli occhi. Camminava con una singolare spavalderia e portava più
coltelli di quanti qualunque persona di buon senso avrebbe saputo come
usare.
«Vescovo Diecimani» disse Mia, inclinando la testa. «Mi alzerei per
inchinarmi, ma il dardo di balestra che ho nel sedere non è troppo
piacevole.»
«Un’illuminotte interessante, allora» sogghignò la donna.
«Qualcuno potre… oh, cazzo!» Mia lanciò un’occhiata torva alle sue
spalle. «’Bisso e sangue, Pietro, stai rattoppando me o stai cucendo un
vestito?»
«D’accordo, d’accordo, smamma» disse Diecimani al chirurgo in
difficoltà. «Ci penserò io a finire. Vorrei scambiare una parola con la
nostra Lama in privato.»
«Mio vescovo» annuì Pietro, schiaffando un rotolo di garza senza tante
cerimonie sulla spalla sanguinante di Mia e lasciando la stanza. Diecimani
girò attorno a lei e le tolse la benda che il sangue aveva appiccicato alla
pelle; la ragazza sussultò.
Diecimani era una figura famigerata all’interno della Chiesa Rossa, una
Lama della Madre da lungo tempo, con quasi venti uccisioni santificate in
suo nome. Il vecchio Mercurio aveva raccontato a Mia storie di quella
donna quando lei era più giovane, e Mia era diventata una specie di sua
ammiratrice. b Servendo nel Porto delle Chiese, aveva appreso che il suo
vescovo non era tipo da cortesie. O frivolezze. Ma le piacevano i risultati,
perciò fortunatamente Diecimani la apprezzava.
«Sembra far male» borbottò Diecimani, fissando l’orrenda ferita che
correva lungo la schiena e la spalla di Mia.
«Di sicuro non è un prurito.»
Il vescovo prese l’ago d’osso e cominciò a cucire la ferita di Mia con
dita ferme. «Confido che sia valsa la pena patire questa sofferenza?»
Mia trasalì e prese una lunga boccata del suo sigaretto ai chiodi di
garofano. «Mentre noi parliamo, stanno prendendo le misure per la
maschera di morte del figlio del senatore Aurelius.»
«Hai usato il lamento?»
Mia annuì. «Sulle labbra, proprio come hai proposto tu.»
«Allora non chiederò come hai avuto accesso alla bocca del giovane
dominus.»
«Non parlo mai delle mie conquiste.»
«E dov’è il giovane Colombo?»
«Purtroppo,» sospirò Mia «la mia giovane Mano non tornerà per cena.
Mai più.»
«Un vero peccato.»
«Non è mai stato la spada più affilata della rastrelliera, vescovo.»
«Questo è quello che passa la Cappella.» Diecimani infilò l’ago per un
altro punto. «Da quando gli Järnheim ci hanno decimato, la qualità qui
scarseggia. Presenti esclusi, ovviamente.»
Mia si morse il labbro e sospirò. Il vescovo Diecimani diceva il vero:
abili Mani e Lame erano difficili da trovare nella Chiesa Rossa di questi
tempi. Galante non era mai stata un’assegnazione entusiasmante e molti
dei servitori di Niah di stanza qui sognavano imprese più illustri. Ma le
cose erano peggiorate come non mai dall’attacco dei Luminatii.
Erano passati otto mesi e la congregazione della Nostra Signora
dell’omicidio benedetto stava ancora sanguinando per il colpo inferto da
Ashlinn Järnheim e suo fratello su incarico di loro padre. Non era stato
semplicemente l’omicidio di lord Cassius a far sbandare la Chiesa, anche
se la perdita del Principe Nero era già di per sé un lutto sufficiente. Ma
Torvar Järnheim non aveva soltanto usato i suoi figli per consegnare il
Culto ai Luminatii: il vecchio assassino aveva anche rivelato l’ubicazione
di ogni Cappella della Chiesa Rossa all’interno della Repubblica.
E così, mentre il tribuno Remus stava invadendo la Montagna Silente, i
Luminatii avevano lanciato attacchi simultanei in tutta quanta Itreya. Le
Cappelle di Dweym e Galante erano rimaste indenni. c Ma ogni altra
Cappella era stata distrutta.
Peggio ancora, Torvar aveva fornito nomi. Identità segrete. Ultime
residenze note. Fra il suo tradimento e gli attacchi dei Luminatii, la Nostra
Signora dell’omicidio benedetto aveva perso quasi tre quarti dei suoi
assassini in un’unica illuminotte.
Come diceva il vescovo, la Chiesa Rossa era stata decimata;
probabilmente quello era l’unico motivo per cui a una Lama giovane come
Mia erano state affidate offerte come quella di Gaius Aurelius. Negli otto
mesi da quando era stata assegnata a Galante, aveva eliminato tre uomini e
una donna nel nome della Madre Nera. Molte Lame della sua età sarebbero
state fortunate a essere inviate alla loro prima uccisione.
Mia era grata per l’opportunità di mostrare il proprio valore. Ma il
problema era che la sua lista di gole da tagliare diventava sempre più
lunga, non più corta. Aveva ucciso il tribuno Remus, ma il console Scaeva e
il Gran cardinale Duomo erano ancora vivi. La sua familia non era ancora
stata vendicata. E con l’omicidio di Tric per mano di Ashlinn durante
l’attacco dei Luminatii, ora aveva una trachea in più da aprire prima che la
sua vendetta fosse completa.
Ed essere bloccata qui a Galante non la avvicinava a nulla di tutto
questo.
Mia serrò la mascella mentre il vescovo continuava a ricucirla,
pensando a quella… cosa che le si era avvicinata nella necropoli. Per la
verità, le aveva salvato la vita. Il suo incontro ravvicinato con la morte
avrebbe dovuto lasciarla scossa, ma come sempre i suoi passeggeri
divoravano qualunque sensazione di paura dentro di lei, ora due volte più
velocemente rispetto a quando portava solo Messer Cortese. Non si sentiva
affatto spaventata. E così le rimanevano solo le domande.
Cos’era?
Cosa voleva da lei?
“La Corona della Luna”?
Aveva già visto prima quella particolare frase, sepolta tra le pagine di…
«Ho sentito che hai avuto qualche problema con le guardie di Aurelius»
osservò Diecimani, interrompendo il suo cucito quanto bastava per bere un
sorso dell’aureovino medicinale.
«Nulla che non potessi gestire» replicò Mia.
«Di solito operi con maggiore discrezione.»
«Chiedo perdono, vescovo, ma non hai chiesto discrezione» disse Mia,
con un accenno di irritazione che traspariva dalla sua voce. «Hai chiesto il
figlio di un senatore morto.»
«Una cosa non preclude necessariamente l’altra.»
«Ma se dovessi scegliere, cosa preferiresti?»
Mia sibilò quando il vescovo versò altro alcol sulla sua ferita ora
richiusa, poi la avvolse in lunghe strisce di garza.
«Mi piaci, Corvere» disse Diecimani. «Mi ricordi me stessa quando ero
più giovane. Più palle della maggior parte degli uomini che abbia mai
incontrato. E porti a termine le tue uccisioni, perciò ti sei costruita una
certa autostima. Ma ti do un consiglio: farai meglio a lasciarti alle spalle
quella tua parlantina quando tornerai alla Montagna. Il Culto non ti
apprezza come me.»
«E perché mai dovrei tornare alla Montagna? Sono assegnata a…»
«L’Oratore Adonai ti ha appena inviato una missiva di sangue» la
interruppe Diecimani. «Sei stata richiamata dal Culto.»
Mia strinse gli occhi, sospettosa. Le si accapponò la pelle.
«… Perché?» domandò.
Diecimani fece spallucce. «Tutto quello che so è che mi lasciano con
un’assassina di meno e con un mucchio di gole ancora da tagliare. Se
potessi usare le Lame su più di un’Offerta alla volta, sarebbe già qualcosa.
Ma ciò infrangerebbe la Promessa. d Perciò, quando vedi quel bastardo di
Solis, fammi un favore e dagli una ginocchiata nella conchiglia da parte
mia, d’accordo?»
La mente di Mia era in subbuglio, sospetto ed eccitazione intrecciati
nelle sue viscere. Essere richiamata dal Culto poteva voler dire qualunque
cosa. Riassegnazione. Ammonimento. Castigo. Aveva servito bene la Madre
Nera negli ultimi otto mesi, ma ogni Shahiid della Montagna sapeva che lei
aveva fallito la sua prova finale, rifiutandosi di uccidere un innocente.
L’unico motivo per cui era diventata una Lama era perché lord Cassius
l’aveva battezzata mentre giaceva morente sulle sabbie di Ultima Spes.
Forse la benevolenza che il suo appoggio le aveva concesso si era infine
esaurita…
Chi poteva sapere cosa la attendeva al suo arrivo?
«Quando devo partire?» chiese Mia.
Diecimani sollevò l’ago d’osso e guardò con aria eloquente il posteriore
di Mia.
«Non appena potrai camminare.»
Mia sospirò. Non aveva senso agitarsi per ciò che non poteva cambiare.
E tornando alla Montagna, avrebbe potuto parlare di nuovo con il Cronista
Aelius, rivedere Naev. Forse trovare alcune delle risposte che cercava.
«Piegati» le ordinò il vescovo. «Cercherò di essere gentile.»
Mia prese la bottiglia di aureovino medicinale e bevve una lunga
sorsata.
«Scommetto che lo dici a tutte le ragazze.»

Tre uomini assieme erano quasi più di quanto Mia poteva gestire.
La battaglia era cominciata piuttosto bene. I combattenti della Fossa
erano venuti avanti, spronati dai fischi della folla e dal fatto che Mia avesse
gettato a terra la sua spada di legno. Il primo – un Itreyano corpulento –
aveva emesso un grido di guerra e aveva menato un fendente contro la sua
testa. E, con un’occhiata, Mia si era protesa verso la tenebra ai suoi piedi.
Qui fuori, alla luce di due soli, le ombre erano pesanti e fiacche. Ma ora
Mia era più forte in sé, in quello che era, e dopotutto erano anni, ormai, che
giocava a questo trucco particolare. Con un’occhiata, fissò gli stivali del
grosso Itreyano alla sua stessa ombra, arrestandone di colpo la carica.
Avvicinandosi a zig zag mentre lui perdeva l’equilibrio, gli diede un bel
calcio sul ginocchio, poi gli assestò un pugno nella gola e, mentre quello
ruzzolava all’indietro, Mia piroettò e afferrò la spada che gli volava via di
mano alla melodia della folla esultante.
«… ora ti stai mettendo in mostra…» giunse un sussurro al suo
orecchio.
«È proprio quello il pu…»
Il colpo la centrò alla nuca e la fece sbandare. Riuscì a malapena a
girarsi e a bloccare il turbine successivo, indietreggiando in una parvenza di
difesa. I combattenti della Fossa rimasti – un grosso Liisiano con la faccia
butterata e un Dweymeri più alto con sole sette dita – avanzarono, non
dandole tempo di riprendere fiato. Fu costretta a indietreggiare per la Fossa,
sangue caldo che le colava dalla nuca.
Settedita venne avanti e portò colpi a faccia, gola e petto. Mia
controbatté bloccandolo e scivolando all’interno della sua guardia, ma la
spada di Butterato si schiantò sulle sue costole prima che lei potesse colpire
e una gomitata la fece finire lunga distesa per terra.
Mantenne la stretta sulla spada, rotolando di lato mentre i due tentavano
di sfondarle la testa con un calcio. Raspando a terra, lanciò una manciata di
sabbia rossa negli occhi di Butterato, poi si allungò con lo stivale e fece
cadere a terra Settedita. Rimessasi in piedi, piantò il piede nelle palle di
Butterato, momentaneamente cieco, con tanta forza da strappare un gemito
di solidarietà da parte di ogni uomo della folla. E, per la loro esultanza, gli
sbatté contro la faccia l’elsa della spada, schiacciandogli il naso sulle
guance.
«… dietro…»
Mia si voltò, parando per un soffio un colpo che le avrebbe fracassato il
cranio. L’Itreyano corpulento era di nuovo in piedi, il mento macchiato di
vomito e saliva. La giovane danzò con lui nella polvere, attacco e risposta,
finta e gragnola. Ragazzone era enorme, forte il doppio rispetto a lei. Ma
quello che a Mia mancava come taglia, lo compensava con velocità e pura,
sanguinosa ferocia. L’Itreyano menò un fendente poderoso e spezzò a metà
il suo gladio quando lei parò. Ma con un urlo amorfo, Mia balzò all’interno
del suo colpo successivo, si accucciò e gli sbatté la spada rotta sotto il
mento. Il legno scheggiato gli perforò la gola e zampilli di sangue
cosparsero le mani di Mia quando Ragazzone cadde.
«… a sinistra, a sinistra…!»
Il sussurro di Messer Cortese la fece girare, ma era troppo tardi: un
gladio la colpì alla spalla, facendola barcollare mentre la folla ruggiva.
Settedita vibrò di nuovo la sua arma, centrandola alle costole. Mia emise un
rantolo sofferente. Intercettò il braccio che reggeva la spada, bloccandolo e
tirandolo vicino. Fiutò sudore, alito fetido, sangue. Settedita le assestò un
pugno in faccia, una volta, poi due, e con un urlo strozzato lei si protese
verso le ombre, bloccandogli i piedi mentre lo spingeva con tutta la forza
che aveva. A causa di quell’intralcio, l’uomo rovinò all’indietro e Mia gli
cadde addosso: gli infilò le dita in bocca, facendole scivolare all’interno
delle guance e torcendole come ami da pesca prima di squarciare verso
l’esterno.
L’uomo urlò quando le sue labbra si spaccarono, fra i latrati della folla.
La ragazza iniziò a percuotergli la mascella con i pugni, una volta, due, tre.
Le sue mani erano rosse. I denti digrignati. Aveva sangue nella bocca. Si
immaginò un console sorridente, con occhi scuri e attraenti. Un Gran
cardinale con la barba come una siepe e voce simile a miele. Le loro facce
ridotte in poltiglia sotto i suoi pugni, ancora
«… mia…»
e ancora, figurandosi sua madre, suo fratello, suo padre, tutto ciò che
aveva perduto, tutto ciò che le avevano portato via, che quest’uomo sotto di
lei fosse solo un altro nemico, solo un altro ostacolo tra lei e il cambio in
cui avrebbe sputato su tutte le loro fottute tom…
«… mia…»
Rimase immobile. Madida di sudore. Il respiro bruciante. Coperta di
rosso caldo e appiccicoso. Riusciva a percepire il gelo di Messer Cortese,
misto al sangue sulla sua nuca. Il mondo tornò a fuoco e i suoni crebbero
nelle sue orecchie. E sotto il battito tonante e gli echi del suo passato, lei li
udì. Montavano nel suo petto e le facevano pizzicare le punte delle dita.
“Applausi.”
Si alzò, dipinta di rosso fino ai gomiti. La folla sulle tribune era in piedi,
con Bevilacrime che si stava occupando di una raffica di offerte da parte dei
sanguila al bordo della Fossa. “Trecento pezzi d’argento.”
“Trecentocinquanta.” “Quattrocento.” E, su gambe tremanti, la ragazza
attraversò la Fossa e si andò a mettere davanti a Leonides. Guardò il suo
futuro padrone negli occhi e si profuse in una riverenza perfetta davanti a
lui.
«… mia…»
«Dominatii» disse.
I sanguila la fissarono a occhi stretti. Il suo executus gli sussurrò
all’orecchio. E mentre una tempesta di farfalle si levava in volo nella pancia
di Mia, Leonides alzò la mano e parlò con una voce che riecheggiò per
l’intera Fossa.
«Mille pezzi d’argento.»
Un mormorio sommesso si diffuse tra il pubblico e Mia ebbe un tuffo al
cuore. Che somma enorme! A dire la verità, era un’offerta esagerata:
probabilmente quell’uomo avrebbe potuto battere molti dei suoi contendenti
con la metà. Ma Mia sapeva che il Dominatii dei Leoni di Leonides
apprezzava la teatralità, e la sua offerta faceva capire a tutti i presenti nella
Fossa che non era dell’umore di mercanteggiare.
Leonides la voleva. E così l’avrebbe avuta. E alla malora il prezzo.
Era andata alla perfezione. Se Mia avesse combattuto tra i Leoni di
Leonides, avrebbe avuto un posto quasi assicurato nel Venatus Magni. E
una volta terminati i giochi, quando si fosse trovata vittoriosa sul podio…
«Mille e uno» giunse una voce.
Mia provò freddo alla pancia. Alzò lo sguardo verso gli spalti e vide una
figura farsi avanti tra la folla. Avvolta in un lungo mantello malgrado il
caldo, tirò indietro il cappuccio per rivelare un viso giovane e grazioso,
lunghi capelli ramati e pallida carnagione itreyana.
Una donna.
«… chi è quella…?»
«Non ne ho la minima idea» sussurrò Mia.
«Mille e uno pezzi d’argento» ripeté la donna.
Mia strinse gli occhi. Non aveva mai sentito parlare di un sanguila
donna: anche se c’erano stati alcuni famosi gladiatii femmina, il palco del
venatus era sempre stato gestito dalle mani attente di uomini. Forse la
nuova arrivata era l’agente di un altro Dominatii? Un piano da parte dei
funzionari per alzare il suo prezzo?
Mia guardò trepidante verso Leonides. Chiunque fosse questa donna, il
più grande sanguila della storia dei giochi non si sarebbe lasciato battere per
una singola moneta d’argento.
La faccia di Titus era una maschera. Leonides guardò il suo executus,
poi ancora la nuova arrivata, parlando come se quelle parole gli inacidissero
la bocca.
«È piuttosto infantile, non credi, mia cara?»
Il sorriso della donna si espanse sul suo volto come veleno.
«Infantile? Cosa intendi?»
«Ho sentito dire che hai solo una manciata di pezzi di rame da sfregare
assieme» disse Leonides. «Se il tuo intento è mettere in imbarazzo il patriis
familia della tua stessa Casata, non ci sono modi meno costosi per farlo?»
Il sorriso della donna si allargò ancora di più e Mia ebbe un tuffo allo
stomaco.
«Ti ringrazio davvero molto per la tua preoccupazione» disse lei. «Ma
questi sono solo affari, padre.»
«… oh, cielo…»
«Te l’ho detto in passato, Leona» la ammonì Leonides. «Il venatus non è
posto per donne. E il palco dei sanguila non è posto per te.»
«Hai paura che i miei Falconi possano oscurare i tuoi Leoni, caro
patriis?»
Leonides la schernì. «Un alloro da vincitore in una rissa di periferia non
fa un collegio.»
«Allora non t’importerà se mi prendo la tua sanguinosa bellezza?»
Leona lanciò un’occhiata a Mia. Anche Leonides si voltò a fissarla. Mia
venne avanti, le suppliche che si agitavano dietro i suoi denti. Ma il
sussurro di Messer Cortese la trattenne.
«… ricorda chi sei e chi dovresti sembrare…»
Il non-gatto aveva ragione. Questo era il suo copione, dopotutto, e il suo
era il ruolo più difficile da interpretare. Se voleva combattere sulle sabbie al
servizio di un collegio di gladiatii, poteva solo farlo come una schiava. E gli
schiavi non parlavano a meno che non fosse rivolta loro la parola. Di sicuro
non si intromettevano in un battibecco pubblico tra padre e figlia…
“Merda.”
Mia fissò il sanguila Leonides con occhi imploranti. Aveva calcolato
tutto così bene. Aveva combattuto come un demone, si era conquistata
l’approvazione di ogni maestro del sangue nella Fossa. Le mancava
un’unica parola, un’unica offerta per accedere al miglior collegio della
Repubblica. Sarebbe stata un passo più vicina alle gole del console Scaeva e
del cardinale Duomo. Tutto ciò che serviva era che Leonides dicesse…
«Molto bene, Leona.»
Leonides, scrollando le spalle con ostentata disinvoltura, voltò le spalle a
sua figlia.
«Prendila, allora. Per quanto ti potrà servire.»
Leona mostrò un sorriso radioso. Mia afflosciò le spalle. Dei legionari
marciarono nell’anello e il ragazzo con l’occhio storto le schiaffò i ceppi
attorno ai polsi. Allora avrebbe potuto fuggire. Nascondersi sotto il suo
manto d’ombra, sgattaiolare via dalla Fossa seguita soltanto da urla
sgomente e preghiere al Semprevigile.
Ma così sarebbe stata punto e a capo. Le erano occorse settimane per
orchestrare un viaggio clandestino ad Ashkah, la carovana distrutta, la sua
vendita nei Giardini. Avrebbe sprecato altre settimane per cercare di essere
venduta a un collegio più potente, e con i grandi giochi che si avvicinavano,
erano settimane che semplicemente non poteva permettersi.
Aveva posto fine a troppe vite, rischiato così tanto per trovarsi qui solo
per abbandonare completamente il suo piano. E anche se Leona era un
fattore sconosciuto, Mia aveva comunque fiducia nelle proprie capacità e
nessuna reale paura di poter fallire. Dietro di lei c’erano soltanto sangue e
una Montagna piena di intrighi. Davanti a lei c’erano la sabbia del venatus e
la vendetta.
Questa era la sua strada, ora. Nel bene o nel male, doveva percorrerla.
I legionari si separarono. Mia alzò lo sguardo e vide Domina Leona in
piedi davanti a lei. Così da vicino, poteva notare che la donna era sulla
ventina. Vividi occhi azzurri e capelli ramati arricciati in boccoli delicati, la
pelle spolverata di lentiggini. Indossava gioielli d’oro e una fascia nuziale
con un rubino. Sotto il mantello, il suo abito era di morbida seta liisiana.
Ogni parte di lei urlava “ricchezza”, tranne gli occhi. Quando Mia arrischiò
uno sguardo in quelle pozze di azzurro brillante bordate di kajal, riuscì a
pensare soltanto a una parola per descriverli.
“Affamati.”
«Mia bellezza sanguinosa» sorrise lei. «Che coppia saremo.»
Mia rimase immobile, incerta su cosa dire. Leona lanciò un’occhiata ai
soldati, l’irritazione nello sguardo. Uno degli uomini estrasse un
manganello e colpì Mia alle gambe. La ragazza lanciò un grido e cadde in
ginocchio. Strinse i denti e appallottolò le mani macchiate di sangue. Ma
riusciva a percepire Messer Cortese, che si aggirava fresco all’interno della
sua ombra, sussurrarle nelle orecchie.
«… chi sei e chi dovresti sembrare…»
E così Mia rimase lì nella polvere, gli occhi bassi, silenziosa e immobile.
«Io sono Domina Leona» disse la donna. «Anche se tu mi chiamerai
Dominatii.»
La donna protese la mano. Mia vide un anello dorato sul dito del sigillo
di Leona: un falcone ad ali spiegate, incoronato con un serto della vittoria.
Il manganello calò sulle sue scapole. Mia rantolò di dolore.
«Mostra il tuo rispetto, schiava!» sbraitò un soldato.
Mia fissò quel rapace con il suo serto dorato. Era orgoglioso, feroce e
selvaggio come lei. Eppure lei era qui, inginocchiata nella polvere come un
gattino frustato.
“Pazienza” pensò.
“Se la Vendetta ha una madre, il suo nome è Pazienza.”
Mia prese un respiro profondo.
Chiuse gli occhi.
«Dominatii» mormorò.
E, sporgendosi in avanti, baciò l’anello.

a. Galante vanta il maggior numero di chiese e templi di tutta la Repubblica, con un conteggio che
supera perfino quella di Godsgrave.
Prima che il Grande Unificatore, re Francisco I, conquistasse la nazione, gli abitanti di Liis
adoravano una sacra trinità nota come il Padre, la Madre e il Figlio. Ma una volta assimilati dalla
monarchia itreyana, il culto del Dio della Luce prese piede tra la gente comune come un incendio
in una distilleria ben fornita.
Un tipo scaltro, un mercante di nome Carlino Grimaldi, decise che il modo migliore per
distinguersi nel nuovo ordine mondiale era elargire vagonate di denaro alla Chiesa itreyana.
Costruì la prima cattedrale di Aa in tutta Liis, una struttura imponente nota come Basilica Lumina,
proprio nel cuore di Galante. Scolpita con raro marmo rosa e bellissimo vetro colorato, la
costruzione fece finire quasi in bancarotta il suo mecenate. Comunque, il risultato finale fu così
impressionante che il cardinale di Galante fece nominare Grimaldi governatore dell’intera città.
Presto i nobili di Galante si fecero in quattro per accaparrarsi il favore del clero di Aa e le chiese
intitolate al Semprevigile e i templi per le sue quattro figlie cominciarono a spuntare come uno
sfogo nei bassifondi di una deliziatrice dopo l’arrivo in porto della marina.
Anche se in seguito fu crocifisso per aver evaso le tasse, Carlino fu comunque annoverato nella
storia liisiana come un Bastardo Straordinariamente Astuto. Ancor oggi, ingraziarsi il favore tra i
tonacati di Liis è noto come “fare un Grimaldi.”
b. Diecimani cominciò la sua carriera come una ladra per le strade di Elai, e anche dopo essere
diventata una Lama della Madre, non perse mai il suo talento per l’arte della furtività. Si diceva
che si muovesse come l’oscurità stessa e che fosse capace di slogarsi entrambe le spalle a volontà,
permettendole di passare nei punti più stretti con poca difficoltà.
La sua Offerta più famigerata fu un senatore di nome Phocas Merinius, un uomo così
incredibilmente paranoico sull’assassinio che si diceva mantenesse una scorta di mezza dozzina di
guardie in servizio al lato del suo letto quando faceva l’amore con sua moglie. Si narra che
Diecimani ottenne l’accesso alla villa di Phocas strisciando dentro attraverso il sistema fognario e
risalendo lo scarico della latrina – un ingresso largo otto pollici al massimo – e rimanendo lì in
attesa dentro il tubo. Quando il povero Phocas rispose al richiamo della natura nel mezzo
dell’illuminotte, si sedette sul gabinetto e si ritrovò entrambe le arterie femorali recise prima
ancora che potesse cominciare le sue faccende.
Si dice che Diecimani passò i sette cambi successivi nei bagni della Cappella cercando di
lavare via la puzza.
Cosa non si fa per la propria Madre…
c. Le incursioni dei Luminatii avevano mancato entrambe: la Cappella di Galante era stata costruita
solo di recente e, all’insaputa degli Järnheim, la vecchia Cappella di Dweym era stata spostata
l’inverno precedente, quando, a causa di forti piogge e tubature di scarsa qualità, la cantina si era
allagata (e con essa la sua pozza di sangue).
Invece di riempire di nuovo la pozza, il Culto aveva deciso di costruire una nuova struttura su
un terreno più elevato nella città portuale di Seawall e aveva abbandonato quella danneggiata a
Farrow. Se costruire una Cappella completamente nuova per la Nostra Signora dell’omicidio
benedetto, in segreto, nel mezzo di un’importante metropoli vi sembra una questione scomoda e
costosa, considerate quanto segue:

1. Servono duemila piedi cubici di vitae per riempire ogni pozza di sangue della Chiesa.
2. Ci sono circa sette galloni e mezzo di liquido per piede cubico.
3. Il maiale medio contiene approssimativamente un gallone di sangue nel suo corpo.

Fate voi i conti, gentili amici. E chiedetevi se vorreste mai riempire una di queste dannate pozze due
volte.
d. È risaputo tra coloro che ingaggiano assassini che la Chiesa Rossa agisce secondo un codice che,
se non può essere definito d’onore, può almeno essere di condotta, noto come la Promessa
Scarlatta. Le restrizioni sono le seguenti:

Ineluttabilità: nessuna Offerta accettata nella storia della Chiesa è mai rimasta insoddisfatta.
Sacralità: chi ingaggia la Chiesa non può essere scelto come bersaglio della Chiesa.
Segretezza: la Chiesa non discute l’identità di chi la ingaggia.
Fedeltà: una Lama può servire solo un datore di lavoro alla volta.
Gerarchia: tutte le offerte devono essere approvate dal Signore/dalla Signora delle Lame o
dal/dalla Reverendo/a Padre/Madre.

Le prime tre restrizioni erano già efficaci alla nascita della Chiesa, ma le restrizioni di Fedeltà e
Gerarchia furono codificate dopo un famigerato avvenimento, narrato agli accoliti come “Il
racconto di Flavius e Dalia”.
Mettetevi seduti, gentili amici.
Flavius Apullo era un generale itreyano che fu tra i cospiratori che rovesciarono re Francisco
XV e forgiarono la Repubblica. Quindi divenne senatore e, come accade di solito, estremamente
ricco.
Il periodo attorno al crollo della monarchia itreyana fu piuttosto indaffarato nell’arte
dell’omicidio professionale, e ai singoli vescovi delle Cappelle locali fu concessa l’autorità di
accettare offerte. Il senatore Flavius Apullo iniziò a temere di essere assassinato all’incirca nello
stesso momento in cui i suoi rivali iniziarono sul serio a provare a eliminarlo e, in un cambio
imbarazzante, la Chiesa Rossa assunse l’incarico di uccidere Flavius la stessa illuminotte in cui lui
ingaggiò una Lama della Chiesa al suo servizio come guardia del corpo.
Facce rosse ovunque, gentili amici.
In un ulteriore accumulo di cazzate, la Lama designata per entrambe queste offerte fu una
donna di nome Dalia. Bella, manipolatrice e impareggiabile con un coltello a spinta, Dalia servì
come guardia del corpo di Flavius per tre anni. In quel periodo, i due divennero amanti e Dalia
eliminò un sacco di rivali di Flavio… tutti tranne il suo avversario più esplicito, Tiberius il
vecchio. Tiberius era il senatore che aveva ingaggiato la Chiesa per assassinare Flavius e, per la
legge della Sacralità, era intoccabile finché il suddetto omicidio non fosse stato portato a termine.
Tiberius, però, stava morendo della Vecchia Madre Sifilide, perciò aveva abbastanza fretta di
vedere Flavius sgozzato prima di lasciare le sue spoglie mortali.
La Chiesa Rossa era sull’orlo di un imbarazzo politico che avrebbe potuto porre fine alla sua
reputazione.
Astutamente, Flavius propose a Dalia di sposarlo per consolidarne la posizione al suo fianco:
presumeva che una fidanzata lo avrebbe tenuto più al sicuro da qualunque aspirante assassino
rispetto a una semplice persona assoldata. Non così astutamente, lasciò scadere il suo patrocinio
alla Chiesa Rossa nello stesso cambio in cui Dalia accettò la sua proposta di matrimonio.
Dalia pugnalò a morte suo marito sul loro talamo nuziale. Circolano voci contrastanti sul fatto
che abbia pianto o meno al compimento di quell’atto. Poi portò la testa di Flavius al capezzale di
Tiberius il vecchio per dimostrare che il contratto era stato onorato. Quindi, soddisfatta che la
reputazione della Chiesa fosse intatta, ma ancor di più per il fatto che Tiberius non fosse più un
datore di lavoro della Chiesa protetto dalla legge della Sacralità, Dalia sollevò il suo pugnale a
spinta e risparmiò il disturbo alla Vecchia Madre Sifilide.
Le voci su un suo improbabile pianto in quel momento sono piuttosto univoche.
Dopo questo incidente, fu deciso di mettere per iscritto alcune dannate regole su come gestire
le cose da queste parti.
CAPITOLO 5
DEVOZIONE

Il sangue di porco ha un sapore molto peculiare.


Il sangue umano è meglio berlo caldo e lascia una traccia di sodio e
ruggine attaccata ai denti. Il sangue di cavallo è meno salato, con uno
strano gusto amaro simile a quello del cioccolato scuro. Ma il sangue di
porco ha una qualità quasi burrosa, come ostriche e ferro oliato, e ti
scivola giù per la gola lasciando un gusto untuoso nella sua scia.
Mia lo odiava con veemenza, a dire il vero.
Uscì dalla pozza di rosso ansimando, un battito pulsante che le
risuonava ancora nelle orecchie, la testa che le girava. Era nuda, a
eccezione di uno stiletto di necrosso al polso e una spada di necrosso in
vita, i lunghi capelli neri incollati come funi di alghe alla pelle ricoperta di
sangue. Un pacchetto rettangolare avvolto nella tela cerata era stretto tra
le sue dita. Due Mani in vesti scure si trovavano nella pozza accanto a lei e
la aiutarono a rimettersi in piedi mentre prendeva fiato, sputacchiava e si
toglieva il sangue dalle ciglia.
Si guardò attorno per la stanza sbattendo le palpebre, trovandosi
immersa fino alla vita in una pozza scarlatta triangolare, in marmo, di
trenta piedi di lato: le camere dell’Oratore Adonai all’interno della
Montagna Silente. La stanza era istoriata di glifi da stregoni e nell’aria
aleggiava pesante l’odore di carneficina. Mappe di ogni città della
Repubblica erano dipinte sulle pareti col sangue.
Mia si leccò i denti e sputò, poi si scostò i capelli dagli occhi.
Guardando il vertice della pozza, Mia vide l’Oratore di sangue Adonai
inginocchiato sulla pietra. Anche se non l’avrebbe mai ammesso con
nessuno, provò un senso di eccitazione nella pancia quando lo guardò. La
Tessitrice Marielle poteva rendere la faccia di chiunque un ritratto, ma suo
fratello era il suo capolavoro: zigomi alti e mascella cesellata. L’incarnato
aveva un pallore spettrale, i suoi capelli scompigliati di un bianco niveo.
Indossava una vestaglia di seta rossa aperta sul davanti, le sporgenze e gli
avvallamenti del suo petto intagliati nel marmo. Le sue brache di cuoio
cadevano così basse sui fianchi da essere quasi indecenti e il taglio a “v”
del suo addome…
«Buon cambio a te, Lama Mia» disse lo stregone.
Mia fece risalire lo sguardo fino a quegli occhi color del sangue.
«Anche a te, Oratore.»
Le labbra graziose di Adonai erano increspate in un sorriso complice,
ma Mia mantenne il volto impassibile. L’Oratore era un ritratto, senza
dubbio. E Mia aveva accarezzato la propria dose di fantasie: stesa a letto,
si era immaginata quelle dita pallide e abili mentre le sue vagavano sempre
più in basso. Aveva perfino salvato la sua vita e quella di sua sorella
durante l’attacco dei Luminatii. Ma Mia non poteva ingannarsi fino a
pensare a lui come qualcosa di diverso da un bastardo dal cuore nero.
“Eppure. Un bastardo tutto da scopare…”
«Il Culto ti attende nella Sala degli Elogi» disse Adonai.
Mia uscì al guado dalla pozza, ancora zoppicando per le ferite, stando
attenta a non scivolare sulle piastrelle insanguinate. Era consapevole dello
sguardo dell’Oratore sul suo corpo nudo, il sangue che sciabordava come
un mare gentile. Mia spostò lo sguardo lungo il corridoio, fino alla
scalinata che saliva verso il Culto in attesa. Si domandò perché ’bisso fosse
stata convocata qui.
Con un’ultima occhiata all’Oratore, Mia uscì dalla stanza. Si lavò il
sangue che si stava seccando e si cambiò in silenzio; cuoio nero e stivali di
pelle di lupo, una camicia di lino scuro. Nascose il suo stiletto di necrosso
nella manica, poi appese la bellissima spada lunga di necrosso al fodero
attorno alla vita. Il primo era appartenuto a sua madre, la seconda a suo
padre, presa dalle mani morte del tribuno Remus. Entrambe le lame
avevano le else foggiate come corvi in volo, gli occhi di ambra rossa.
Erano tutto ciò che le rimaneva dei suoi genitori, a parte il nome.
Supponeva che ci fosse una metafora, lì da qualche parte…
Aprendo il suo pacchetto di tela cerata, si mise il malconcio libro
rilegato in cuoio sottobraccio e si accinse a salire le scale. a La voce di un
coro spettrale aleggiava nell’oscurità e Mia non riuscì a trattenere un
sorriso nell’udire quel canto familiare. Dopo mesi passati a Galante, era
tornata nelle sale sacre degli assassini più temuti di tutta la Repubblica
itreyana.
Di nuovo a casa, finalmente.
Dopo una salita interminabile, sbucò nella Sala degli Elogi. Lo spazio
era vasto, circolare, intagliato nel cuore di granito della Montagna Silente.
Una stupenda statua di Niah, Madre della Notte e Nostra Signora
dell’omicidio benedetto, torreggiava quaranta piedi sopra la testa di Mia.
Aveva una bilancia nella mano destra e una spada estremamente affilata
nella sinistra. Ovunque Mia si trovasse nella stanza, gli occhi di Niah
parevano seguirla.
Quello spazio era attorniato da pilastri più spessi dei più antichi alberi
di legnoferro. Le pareti erano fiancheggiate da tombe e una luce scarlatta
si riversava attraverso enormi finestre di vetro colorato. Sul pavimento
lastricato, Mia poteva vedere i nomi di ciascuna vittima della Chiesa
Rossa, migliaia di vite reclamate nel nome della loro Madre Nera. Per
contrasto, le tombe erano prive di iscrizioni. Contenevano i corpi dei
servitori della Madre e, nella morte, era solo la Madre a piangerli.
Gli occhi di Mia vagarono fino a un cenotafio nella parete occidentale.
Verso le quattro piccole lettere che aveva graffiato nella pietra con una
lama di necrosso otto mesi fa.
«Lama Mia» disse una voce profonda. «Benvenuta a casa.»
Mia si voltò verso i piedi della statua. L’intero Culto della Chiesa Rossa
era riunito, e la osservava con sguardi trepidanti.
Tutti tranne il Reverendo Padre Solis, naturalmente.
Il grosso Itreyano era in piedi, gli occhi ciechi rivolti verso i timpani
svettanti. Era abbigliato in una veste di elegante tessuto grigio, il
cappuccio tirato all’indietro. Cortissimi capelli biondo pallido ricoprivano
uno scalpo sfregiato e la barba era acconciata in quattro punte fissate con
la resina. Il fodero perennemente vuoto pendeva al suo fianco, cuoio
sbalzato con cerchi concentrici.
Alla destra di Solis c’era Ammazzaragni, Shahiid di Verità. L’elegante
Dweymeri era vestita in verde smeraldo, oro alla gola. Le sue salciocche
erano avvolte in modo artistico in cima alla testa. Mani e labbra erano
macchiate di nero per la sua arte nei veleni.
Alla sinistra di Solis c’era Mouser, Shahiid di Tasche, il volto piacente
che tradiva gli anni nei suoi occhi scintillanti. Una lama di neracciaio
ashkahi pendeva al suo fianco, due figure nude con teste feline intrecciate
sull’elsa. Stava facendo rotolare una moneta tra le nocche della mano
destra, mentre la sinistra stringeva un elaborato bastone: le gambe gli
erano state spezzate malamente durante l’invasione dei Luminatii, e lo
Shahiid avrebbe zoppicato per il resto della vita.
Poi veniva Aalea, Shahiid di Maschere. Pelle bianco latte e labbra rosso
sangue, una coltre di capelli neri a incorniciare un viso che avrebbe fatto
chinare il capo dalla vergogna alla parola “bellezza”. Sorrise a Mia come
se il mondo intero fosse un segreto e solo lei conoscesse la risposta.
Prometteva di condividerla non appena loro due fossero state sole.
Al momento, non era stato scelto nessun nuovo Shahiid di Canti: Solis
stava ancora insegnando ai nuovi accoliti l’arte dell’acciaio, finché non
fossero riusciti a trovare un sostituto adatto. Le ferite dell’attacco degli
Järnheim erano ancora fresche e anche qui, nella sede del potere della
Chiesa all’interno della Repubblica, restavano le cicatrici.
«Shahiid» esordì Mia, profondendosi in un inchino. «Sono tornata come
richiesto.»
«Come ordinato» ringhiò Solis.
«… Perdono, Reverendo Padre. Ordinato.»
Quel titolo suonava strano sulla lingua di Mia. Dopo la morte di
Cassius, era giusto che la Reverenda madre Drusilla diventasse la Signora
delle Lame, ma la sua decisione di nominare Solis come Reverendo aveva
tormentato Mia non poco. Solis aveva ancora la minuscola cicatrice sulla
faccia da quando Mia aveva avuto la meglio su di lui nell’Aula di Canti, e a
lei talvolta pizzicava ancora il braccio nel punto in cui lui gliel’aveva
tranciato per ripicca. A dire la verità, Mia lo odiava come il veleno, e
l’idea di prendere ordini da lui le andava a genio quanto un collare su un
gatto.
Solis assunse un’espressione arcigna, gli occhi bianchi al soffitto e la
veste che si tendeva contro l’ampiezza delle sue spalle. Sovrastava gli altri
membri del Culto, facendoli sembrare bambini. Mia supponeva che si
sarebbe dovuta sentire intimidita, ma scoprì che era semplicemente un altro
promemoria di quanto Solis sembrasse inadatto al suo ruolo.
“Non entra nemmeno nella veste che dovrebbe indossare…”
«Dunque» chiese Ammazzaragni senza preamboli. «Gaius Aurelius è
morto?»
«… Sì, Shahiid» rispose Mia.
«Corre voce che tu sia stata quasi uccisa nel tentativo» rimuginò
Mouser.
«Solo un graffio, Shahiid.» La ragazza scrollò le spalle, trasalendo
quando i punti sulla schiena tirarono. «Anche se non potrò danzare per un
po’.»
«Riesci a malapena a camminare, accolita» ringhiò Solis.
«Con tutto il dovuto rispetto, Reverendo Padre» disse Mia, il suo umore
che si sfilacciava. «Ma sono stata consacrata da lord Cassius con il suo
ultimo respiro. Non sono un’accolita. Sono una Lama.»
Solis sogghignò. «Questo resta da vedere.»
«Ho già quattro uccisioni nel mio nome.»
Mouser inclinò la testa. «Non intendi cinque?»
«Di sicuro non hai dimenticato l’assassinio di un re dei Dweymeri nella
sua stessa fortezza senza il nostro permesso?» chiese Ammazzaragni.
Mia si rimangiò la replica. Lanciò una nuova occhiata al nome che
aveva intagliato nella tomba spoglia sulla parete occidentale.
TRIC .
Avevano fatto una promessa. Lui a lei, e lei a lui. Se Mia fosse morta,
Tric aveva giurato di uccidere Remus, Scaeva e Duomo per lei. E se fosse
morto lui, lei aveva giurato di uccidere quel miserabile bastardo di suo
nonno, Spezzaspada. In verità, Mia pensava che le fosse dovuta una morte
a sua scelta dopo aver salvato le vite di ogni uomo e donna in quella
stanza. Ma forse era quello il motivo per cui era stata inviata in un posto
isolato come galante?
Il silenzio risuonò nella sala, mentre Mia stava lì a ribollire.
«Posso chiedere perché sono qui?» azzardò infine.
Il labbro di Solis si arricciò. «Hai un seguace, piccola Lama.»
La ragazza alzò un sopracciglio verso il Reverendo Padre. «Se si tratta
di qualcuno in questa stanza, lo nasconde molto bene.»
Aalea sorrise, le labbra scure come sangue. «Forse “mecenate” è una
parola migliore. Le ultime tre offerte che hai portato a termine – il figlio del
senatore Aurelius, il magistrato Phillip Cicerii e l’amante di Armando Tulli
– sono state tutte richieste dallo stesso cliente della Chiesa. Ha preteso
specificamente i servigi di “colei che ha ucciso il tribuno della legione dei
Luminatii assieme alle sue migliori centurie”. E ha pagato
profumatamente, per te.»
«Chi è questo mecenate, Shahiid?»
«Irrilevante» si accigliò Solis. «Tutto ciò che ti occorre sapere è che,
miracolo dei miracoli, è compiaciuto dei tuoi risultati. Verrai mandata a
cacciare una preda più grossa.»
Mia squadrò Solis, riflettendo. Dal cipiglio sulla sua fronte e dalla
tensione della mascella, lei avrebbe scommesso fino all’ultima moneta che
il Reverendo Padre avesse obiettato con forza alla sua assegnazione. Ma
malgrado ciò, lei era stata scelta comunque. Ciò voleva dire che questo
mecenate era potente. O ricco. O entrambe le cose.
“Be’, questo restringe le possibilità…”
«Allora, in quale nuovo posto sperduto mi manderà il mio illustre
mecenate?» chiese Mia. «Ultima Spes? Amai? Sto…»
«Godsgrave» replicò Mouser.
La lingua di Mia aderì ai denti, il suo cuore prese a battere più veloce.
“Denti della Mannaia. A ’Grave…”
La capitale di Itreya. Solo le Lame migliori della Chiesa servivano nella
città di ponti e ossa. Lì vivevano il Gran cardinale Duomo e il console
Scaeva. Se Mia voleva vendicare la sua familia, il primo passo era
avvicinarsi agli uomini che l’avevano assassinata.
Se per qualche colpo di fortuna era stata assegnata al posto che
sognava…
«So cosa stai pensando» ringhiò Solis. «So perché sei venuta in questa
Chiesa e cosa cerchi. Perciò, anche se ti sto mandando nella capitale
contro il mio parere, ora ti dirò questo, e te lo dirò una volta sola.» Solis
torreggiò sopra di lei, gli occhi ciechi che perforavano quelli di Mia. «Il
console Julius Scaeva non dev’essere toccato.»
Mia si accigliò. «Perch…»
«Non tollererò che tu insegua la tua vendetta personale mentre sei al
servizio di questo Culto» la interruppe Solis. «Hai già assassinato un Bara
dei Dweymeri per una qualche malriposta solidarietà per il ragazzo che ti
portavi a letto. Non voglio che nessun’altra uccisione non autorizzata sia
perpetrata dalla tua mano. O dalla tua vagina.»
«Chi mi porto a letto è una mia preoccupazione. E tu non puoi deci…»
«Io decido!» ruggì Solis. «Sono il Reverendo Padre di questa
congregazione! Non me ne frega un maledetto medicante con chi bagni le
pellicce, ma Spezzaspada era un fottuto re! E se fosse stato un mecenate di
questa Chiesa? Avremmo infranto la Sacralità! La nostra reputazione
sarebbe andata in frantumi per il capriccio di una ragazzina.»
«Non era un capriccio, era una promessa!»
«Allora parliamo di promesse, ragazza» sbraitò Solis. «Disobbediscimi,
e ti prometto una morte da cui perfino la Dea in persona distoglierà lo
sguardo. Scaeva non va toccato!»
«E perché no?» Mia spostò lo sguardo sul resto del Culto, e alla fine la
sua rabbia ebbe la meglio su di lei. «I Luminatii hanno ucciso lord Cassius,
hanno quasi ammazzato tutti voi! Pensate che non sia stato Scaeva a
ordinarlo? Remus era un fottuto tirapiedi. Credete che non avrebbe chiesto
il permesso del console anche per una semplice pisciata?»
«Ora ascoltami!» Solis sollevò un dito ammonitore, gli occhi ciechi che
lampeggiavano. «Ci occuperemo di Scaeva. Ma a modo nostro. E a tempo
debito. Tu sei una servitrice della Nostra Signora dell’omicidio benedetto,
e, nel nome della Madre, ciò significa che devi servire e basta!»
Mia sentì le gote avvampare di rabbia. Fissò negli occhi ciechi di Solis e
immaginò di estrarre lo stiletto di necrosso che celava nella manica. Di
tagliargli la gola. Di versare le sue viscere fumanti sul pavimento. Ma in
mezzo a quell’oltraggio, un unico pensiero freddo la prese per la collottola
e la agitò finché non rimase immobile.
“… Ha ragione.”
Era stata infantile.
Aveva messo a rischio la reputazione della Chiesa uccidendo
Spezzaspada.
Aveva pensato di uccidere Duomo e Scaeva se fosse tornata a ’Grave.
Le sue nocche erano bianche sul libro che stringeva tra le mani. Ma
costrinse le dita ad aprirsi, pronunciando parole che riecheggiarono
pesanti nel buio silenzioso.
«Nel nome della Madre. Io servirò.»
L’enorme figura di Solis si rilassò lentamente: Mia si rese conto che
aveva davvero sperato che lei si ribellasse. Ma dopo un silenzio lungo e
pesante, l’omone mise una mano all’interno della veste e tirò fuori una
custodia per pergamene in cuoio, sigillata con cera nera.
«Un’uccisione. Una donna che si fa chiamare “la Domina”. È a capo di
una banda di braavi che imperversa per le strade di Piccola Liis. Sei
cresciuta lì, vero?»
«… Sì.» Mia allungò una mano verso la custodia.
«Una stipula» disse Solis, sollevando un dito. «Un oggetto importante
per il tuo mecenate. Una mappa, scritta in ashkahi antico e decorata con un
sigillo a forma di lama di falcetto. La domina sta organizzando uno
scambio con il possessore attuale della mappa. Tu devi prendere la mappa,
assieme alla sua vita.»
«… Cosa raffigura la mappa?»
«Fornisce indicazioni dettagliate per l’impero di Nonsonocazzituoi.»
«Lo scambio avverrà nella base dei Damerini» disse Ammazzaragni.
«Prima della fine del mese.»
«Sono otto cambi da ora» disse Mia.
«Sia lodata la Madre Nera» replicò Solis. «La ragazza sa contare.»
«Su entrambe le mani, Reverendo Padre.»
Solis le consegnò la custodia della pergamena con aria accigliata. Mia
si succhiò il labbro mentre si arrovellava sul da farsi. Otto cambi non erano
molti per pianificare un’uccisione come questa. Le occorrevano rinforzi su
cui poter fare affidamento.
«Posso portare una Mano di mia fiducia a ’Grave?» chiese. «L’ultima
che ho avuto ha incontrato un dardo di balestra non molto amichevole.»
«Temo di no» disse Aalea, come leggendole nella mente. «Naev è
richiesta qui. Ora che molte delle nostre pozze di sangue sono state
distrutte, la situazione delle nostre provviste è critica. È in corso la
costruzione di una nuova Cappella nella necropoli sotto Godsgrave. Il
vescovo locale ti metterà a disposizione una Mano. Adonai ha già inviato
una missiva di sangue per informarlo del tuo arrivo.»
Solis inclinò il capo, gli occhi bianco latte puntati da qualche parte
sopra la spalla di Mia.
«Hai otto cambi per eliminare questa domina e recuperare la mappa. Il
tuo mecenate potrebbe avere altre offerte per te, sempre che tu non crepi nel
portare a termine questo primo incarico.»
«Sono troppo graziosa per creparmi.» Mia si scostò la frangia dagli
occhi.
Solis sogghignò. «Marielle si occuperà delle tue ferite. Adonai
organizzerà il tuo trasporto a Godsgrave. Di’ i tuoi addii e fatti trovare
nelle sue stanze per la campana mediana.»
C’erano troppe domande che le rimbalzavano nel cranio. Chi era questo
mecenate? Perché uccidere un membro dei braavi? Perché aveva chiesto di
lei specificamente? Cosa c’era su quella mappa?
“Non ha importanza” si rese conto.
Non stava a lei chiederlo. Il suo ruolo era servire. Prima avesse dato
prova di sé, prima avrebbe ottenuto un’assegnazione permanente nella
Cappella di Godsgrave. E da lì, qualunque cosa dicesse Solis, sarebbe stata
un passo più vicina alla sua vendetta.
Il lupo non commiserava l’agnello.
La tempesta non chiedeva perdono agli affogati.
«Non fallirò» promise Mia. «Nel nome della Madre Nera, lo giuro.»
Solis incrociò le braccia, il suo volto imperscrutabile nell’oscurità.
«Vai» disse infine. «Che la Nostra Signora ti trovi tardi. E quando lo
farà, che possa accoglierti con un bacio.»
Mia prese la custodia e se la infilò sottobraccio, assieme al suo libro
malconcio. Dopo un inchino profondo, indietreggiò lentamente fuori dalla
sala. Mentre si allontanava per i corridoi bui, superando bellissime finestre
di vetro colorato e grottesche sculture di osso, due forme scivolarono fuori
dall’oscurità e si misero al passo con lei.
Un gatto fatto di ombre. E, accanto a esso, una lupa della stessa
materia.
«Riuscite a crederci?» sibilò Mia. «Mi ha chiamata “accolita”, il
bastardo.»
«… ti comporti come se la bastardaggine di solis fosse una specie di
rivelazione…» replicò Messer Cortese.
Il ringhio di Eclissi giunse da qualche punto sotto il pavimento.
«… CASSIUS L’HA SEMPRE RITENUTO UN BRUTO ARROGANTE. DI TUTTO
QUANTO IL CULTO, SOLIS ERA QUELLO CHE GLI PIACEVA DI MENO. UN
CAMBIO, DOVREMMO INSEGNARGLI UN PO’ DI BUONE MANIERE …»
«… esistono forme meno plateali di suicidio, cucciola…»
«… HAI COSÌ POCA FIDUCIA NELLA NOSTRA PADRONA, MICETTO …»
«… lei non è tua, brutta…»
«Madre Nera, basta» sbottò Mia, sfregandosi le tempie. «L’ultima cosa
che mi occorre sentire adesso siete voi due che bisticciate come un paio di
vecchie zitelle.»
I suoi passeggeri tacquero, lasciando solo il coro incorporeo a
riecheggiare nel buio. Mia prese un respiro profondo e cercò di tenere sotto
controllo la sua famigerata collera. La stavano trattando ancora come una
novizia. Malgrado tutto quello che aveva fatto. Ma se non altro, era diretta
a Godsgrave. Il patrocinio di questo misterioso benefattore era inatteso, ma
in verità era lieta che qualcuno riconoscesse il talento che c’era voluto per
uccidere un tribuno e cento dei suoi uomini. Se questo l’avesse aiutata ad
avvicinarsi a Scaeva e a Duomo, tanto meglio.
Tuttavia, nella sua mente si agitavano immagini del combattimento nella
necropoli. Quella cosa con le lame di necrosso, i tentacoli che si
contorcevano ai margini del cappuccio. Anche se non riusciva a provare
dentro di sé la paura, con le ombre così dense ai suoi piedi, sapeva che
c’era in ballo qualcosa di più grande.
Guardò il libro che aveva sottobraccio, facendo scorrere le dita sulla
copertina logora e sul fermaglio d’ottone ossidato.
«Cerca la corona della luna» borbottò.
«… abbiamo tempo fino alla campana mediana…»
La ragazza agganciò i pollici alla cintura.
Si rese conto che moriva dalla voglia di fumare una paglia.
«Tempo sufficiente per restituire i libri della biblioteca.»

La sua cella puzzava di piscio e miseria stantia.


La paglia era ammuffita, il secchio nell’angolo incrostato di sudiciume e
mosche. Mia era stata scortata via dalla Fossa e Bevilacrime le aveva
rivolto un cenno d’addio col capo mentre veniva portata attraverso i
cancelli. Quattro imponenti legionari l’avevano fatta marciare attraverso il
caos del mercato per poi rinchiuderla in un recinto all’interno di un grosso
edificio degli administratii. Anche se il suo prezzo era stato fissato, il
denaro doveva ancora essere corrisposto. Aveva alcune ore prima che la sua
nuova Dominatii prendesse pieno possesso. Alcune ore per mettere assieme
i fili sbrindellati del suo piano.
«… dobbiamo informare la vipera…»
Mia guardò torvo Messer Cortese. Era solo una sagoma più scura contro
le ombre proiettate dalle sbarre sul pavimento. Le celle accanto a quella di
Mia erano vuote, ma lei mantenne la voce bassa.
«Vorrei che non la chiamassi così.»
«… hai un altro termine meno lusinghiero…?»
«Potresti usare il suo dannato nome.»
Il non-gatto emise un suono simile a un’annusata: impressionante per
una creatura senza polmoni.
«… avremmo dovuto essere acquistati da leonides, invece è stata la
figlia di leonides a comprarti. la vipera non ha modo di saperlo. lei ed
eclissi ci staranno aspettando al collegio di leonides a whitekeep come
previsto…»
«Quella è stata una svista» ammise Mia.
«… l’intero piano non è che una folle svista, tenuto assieme solo da
trucchetti e cazzate varie…»
«So quel che sto facendo.»
«… allora è un peccato che la vipera non lo sappia…»
Mia sospirò. «Dovrai andare a dirglielo tu. Puoi arrivare fino a
Whitekeep?»
«… sono certo di poter trovare una nave su cui salire come clandestino,
ma tu cosa farai…?»
«Che altro posso fare?» Mia scrollò le spalle. «Allenarmi nella stalla di
Leona. Combattere. Vincere. La destinazione non è cambiata. Solo il punto
di partenza.»
«… e dove devo dire alla vipera di incontrarti? dov’è il collegio della
tua nuova dominatii…?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«… oh, sì, sai davvero quel che stai facendo…»
Mia rivolse il gesto delle nocche all’umbragatto e trascinò i capelli
arruffati dietro le orecchie. Era ancora coperta di sangue secco, sudore
vecchio e polvere. Seduta sulla paglia, cercò di non immaginarsi le facce
degli uomini che aveva ucciso nella Fossa. Era stato necessario che facesse
colpo, e c’era riuscita… in un certo senso. In precedenza aveva ucciso
dozzine di persone che si frapponevano tra lei e il suo obiettivo. Tuttavia,
quei combattenti della fossa avevano fatto solo ciò che era stato loro
ordinato…
«Mi sento una merda» sospirò.
«… e non hai nemmeno un odore particolarmente piacevole…»
«Non è quello che…»
«… non puoi permetterti di commiserare quegli uomini, mia. quando
nuoti così in profondità, la tua compassione servirà solo ad affogarti. devi
essere dura e affilata come gli uomini a cui dai la caccia…»
«Se non fosse stato per la compassione che ho provato nella mia prova
finale alla Chiesa Rossa, sarei stata al banchetto dell’iniziazione quando
Ashlinn e Osrik hanno avvelenato il Culto. E ora saremmo tutti morti.»
«… hai intenzione di continuare a rimarcarlo, ver…»
Dei passi riecheggiarono lungo il corridoio e il non-gatto scomparve
come fumo. Mia alzò lo sguardo e vide un administratii che apriva la sua
cella. L’uomo era tarchiato, barbuto e abbigliato con vesti bianche
contrassegnate dai tre soli della Repubblica itreyana. Accanto a lui c’era un
ragazzo giovane, con un abito da novizio a maniche corte, che trasportava
una sedia alta e una scatola di mogano.
Domina Leona entrò a passi leggeri nella cella, seguita da uno degli
uomini più muscolosi che Mia avesse mai visto. Era Itreyano, sui
trentacinque anni, la barba fitta ingrigita alle estremità e i folti capelli
raccolti in alto e all’indietro in una lunga coda. Aveva la pelle come cuoio e
una cicatrice particolarmente orribile che gli divideva fronte, guancia e
labbro, distorcendo le sue fattezze in un cipiglio perpetuo. Il suo sguardo
era iniettato di sangue e si appoggiava pesantemente su un bastone da
passeggio con il manico a forma di testa di leone. Abbassando lo sguardo,
Mia notò che gli mancava la gamba sinistra sotto il ginocchio, dove era
fissato invece un arto di ferro.
L’uomo guardò torvo Mia con occhi grigio acciaio, la voce come pietra
crepata.
«È una ragazza.»
Domina Leona sollevò una mano perfettamente curata. «L’avevo
notato.»
«’Bisso e sangue, domina, avete gettato mille pezzi d’argento per questo
fuscello? Non faccio miracoli. Ho bisogno di buona creta con cui lavorare.»
«Ha ucciso cinque uomini in cinque minuti» disse Leona. «Vale ogni
moneta.»
«Allora è un fottuto bene. Dato che non ci resta in tasca nemmeno un
mendicante.»
«Abbiamo altri due acquisti in questo viaggio, entrambi ottima
mercanzia. E non hai alcun motivo per rimproverarmi, executus. Se non
fossi stato fuori a berti tutto l’alcol dei Giardini ieri sera, questa mattina
saresti stato con me quando ho fatto l’acquisto.»
L’omone grugnì, poi guardò di nuovo Mia.
«In piedi, schiava.»
Mia obbedì senza parlare e si alzò con le mani serrate. L’uomo le girò
attorno zoppicando, la gamba di ferro che emetteva un suono metallico
sulla pietra. Pungolò i muscoli sul suo addome, poi le strinse il bicipite con
mani enormi e le controllò i denti. Mia sopportò in silenzio quell’ispezione,
gli occhi bassi. Riusciva a fiutare aureovino nel suo alito.
«È troppo bassa» dichiarò lui. «Non c’è allungo in queste braccia.»
«È veloce come il vento» replicò Leona.
«È troppo giovane. Passeranno anni prima che sia pronta per la sabbia.»
«Cinque uomini» ripeté Leona. «In cinque minuti.»
«È una ragazza» ringhiò l’omone.
«Anch’io lo ero» ribatté piano la domina. «E questo non mi ha mai
sminuito ai tuoi occhi.»
«Agli uomini basterà annusarla per perdere la testa.»
«Mio padre non diceva lo stesso su di me quando venivo in visita al
collegio? E non sei stato tu a chiedere che mi fosse permesso di restare? Per
imparare?»
«È una storia diversa, Mea Domina. Voi eravate la figlia del Dominatii.
Questo fuscello dovrà andare nella caserma con tutti gli altri.»
«E finché non darà prova di sé nella Sfrondatura, ti assicurerai che al
mio investimento non sia fatto alcun male» disse Leona in tono freddo.
«Non sopravvivrà mai alla Sfrondatura.»
«Allora avrai il chiaro piacere di dirmi “Ve l’avevo detto”, executus.»
L’omone guardò torvo Mia. Lei incontrò i suoi occhi, solo per un
secondo. La furia arse nel nero delle sue pupille mentre un giuramento
silenzioso le riecheggiava nella mente.
“Ti rimangerai quelle parole quando arriverà la veraluce, bastardo.”
«Come ti chiami?» chiese lui.
«Mi chiamano Corvo, Meus Dominus» rispose lei, riportando gli occhi
sul pavimento.
«Ti sembro un fottuto dominus, ragazza? Ti rivolgerai a me come
executus.»
Mia riuscì a stento a trattenersi dal ficcargli un ginocchio nelle palle.
Prenderlo a pugni sulla mascella fino a fargli cadere i denti e danzare sulla
sua testa.
«Sì, executus» replicò.
L’uomo la guardò in cagnesco, la sua espressione resa ancora più cupa
dalla cicatrice. Era stata una Lama, immaginò. Probabilmente l’aveva
ottenuta da qualche parte sulla sabbia. Si muoveva come un combattente.
Aggraziato e potente, malgrado la gamba mancante.
«Partiremo con la marea del mattino» disse Leona. «Prima torniamo a
Crow’s Nest per iniziare il suo addestramento, meglio è.»
Il cuore di Mia le balzò nel petto.
«… Crow’s Nest?» mormorò.
Il ceffone la sbatté all’indietro contro il muro. La sua testa colpì la pietra
e lei crollò in ginocchio, ansimando. Tornò in piedi in un attimo, gli occhi
che lampeggiavano di odio mentre guardava torvo l’uomo che l’aveva
schiaffeggiata. Ma, rapidissimo, il pugno dell’executus le impattò contro la
pancia, facendola finire di nuovo in ginocchio.
“È veloce…”
Mia avvertì una mano rozza tra i capelli, che le trascinava la testa
all’indietro mentre rantolava di dolore.
«Dimentichi qual è il tuo posto, ragazza» disse l’omone. «Se dovessi
parlare di nuovo in presenza della tua Dominatii senza essere stata
interrogata, userò la mia lama sulla tua lingua e la darò in pasto al mio
fottuto cane. Mi hai sentito?»
“Pazienza…”
«Sì, executus» sussurrò lei.
L’uomo grugnì e lasciò la stretta. Mia alzò gli occhi su Leona e vide la
donna che la fissava con uno sguardo freddo e imperioso. Qualunque fosse
la sua opinione riguardo alle capacità marziali di Mia, era chiaro che la sua
nuova Dominatii non aveva alcun problema con i metodi brutali del suo
uomo.
Dopo un momento di silenzio teso, Domina Leona si rivolse
all’administratii, che attendeva ancora con pazienza nel corridoio.
«Allora, vieni a fare il tuo lavoro.»
L’administratii entrò nella cella, il novizio al suo fianco. Il ragazzo lasciò
cadere l’alta sedia accanto a Mia, poi aprì la scatola di mogano che portava
e la porse all’administratii. All’interno, Mia vide una collezione di aghi di
ferro. Polveri in fiale chiuse da turaccioli, boccette d’inchiostro. La sua
ombra si impennò quando la paura le crebbe nella pancia. Sapeva cosa stava
per succedere. Faceva tutto parte del gioco. Eppure…
«Siediti» disse l’administratii.
Mia si trascinò su dal pavimento, poi lanciò un’occhiata alle fibbie e alle
cinghie sui braccioli della sedia. Era evidente che intendevano legarla per
quello che sarebbe accaduto. Sapeva che, se avesse parlato di nuovo,
avrebbe ottenuto solo un altro ceffone. Così fissò lo sguardo sulla finestrella
a sbarre e sul cielo azzurro là fuori. E rimase in piedi.
L’executus emise un ringhio profondo e sollevò la mano per colpirla.
«Fai come ti…»
«No» lo interruppe Domina Leona, osservando Mia con occhi curiosi.
«Lasciala stare in piedi.»
«Con tutto il rispetto, Domina Leona,» disse l’administratii «qui non si
tratta di semplici tatuaggi. Il processo è arkemico. Il dolore è immenso. È
probabile che la ragazza svenga.»
Mia ripensò a quando era stata flagellata dalla Tessitrice Marielle e per
poco non rise a quelle parole. La stessa risata scintillò negli occhi di
Domina Leona.
«Cento pezzi d’argento che non farà nulla del genere.»
L’executus grugnì piano. L’administratii sembrava sbalordito.
«Non sono un uomo che gioca d’azzardo, Mea Domina.»
«Ma siete un uomo che insiste a dirmi quello che so già?» il tono di
Leona divenne tagliente come un rasoio. «Sono cresciuta nel miglior
collegio di gladiatii di tutta la Repubblica itreyana. So come funziona un
dannato marchio da schiavo. Ora procedete.»
L’administratii riuscì quasi a trattenere il suo sospiro. Si voltò verso la
scatola e si mise a stappare alcune fiale, mischiando dei componenti in una
ciotola di vetro poco profonda. La venomologa dentro Mia osservò con
interesse, notando il modo in cui la mistura arkemica si amalgamava,
gorgogliando, sibilando e sputacchiando nero. b
L’administratii intinse l’ago e lo sollevò sulla faccia di Mia. Il novizio
era in piedi dietro di lei, e le teneva ferma la testa. La ragazza si impose di
rimanere immobile e strinse i denti. Allineando l’acciaio contro la guancia
di Mia, l’administratii sollevò un sottile martelletto da gioielliere. La
ragazza trattenne il fiato. E senza ulteriori preliminari, l’administratii
conficcò l’ago nella guancia di Mia, dritto fino all’osso.
Fuoco nero. Dolore bruciante. Mia sgranò gli occhi, le pupille dilatate e
il dolore che le trafiggeva il cranio rubandole il respiro. Le sue ginocchia si
piegarono e stelle nere scoppiarono nei suoi occhi. L’administratii fece un
passo indietro, evidentemente aspettandosi che cadesse. Ma la sua ombra si
gonfiò, così come il suo petto, e la ragazza rimase in piedi.
Mia guardò Leona. La domina la stava osservando con un sorriso sempre
più largo.
«Ebbene?» chiese la donna all’administratii. «Procedete!»
L’uomo scrollò le spalle e, senza altre pause drammatiche, cominciò a
martellare l’ago nella guancia di Mia, più e più volte. Piccole serie di tre
colpetti, ciascuna come un tuono nella sua testa.
tapTAPTAP
tapTAPTAP
Unghie conficcate nei palmi.
Punti bianchi che si ingrossavano davanti ai suoi occhi.
La stanza che ondeggiava sotto di lei come una nave in una tempesta.
tapTAPTAP
tapTAPTAP
L’attesa era la parte peggiore. Il momento tra una sequenza e la
successiva. Quella minuscola tregua che sembrava un’eternità, in attesa che
il dolore ricominciasse. La flagellazione di Adonai, la tessitura di
Marielle… nulla che avesse mai provato nella sua vita era arrivato così
vicino, il tutto reso peggiore dal pensiero amaro che in questo momento, per
il mondo fuori da questa cella, la sua vita non le apparteneva più.
tapTAPTAP
Se non fosse stato per Messer Cortese, era certa che si sarebbe spezzata.
tapTAPTAP
Ma alla fine
dopo tutto il dolore
tutte le preghiere
la guancia sanguinante
le gambe tremanti
Mia era ancora in piedi.
«È un bene» dichiarò Domina Leona «che non vi piaccia scommettere,
signore.»
L’administratii ripose il suo equipaggiamento senza una parola.
Scoccando un’occhiata velenosa a Mia, rivolse un secco inchino alla
domina e, seguito dal suo novizio, uscì dalla cella in un fruscio di stoffa
nera. Leona si voltò verso il suo executus con un sorriso trionfante.
«Chiedevi creta con cui lavorare, executus? Ti do acciaio.»
L’omone guardò Mia a occhi stretti. «L’acciaio si spezza prima di
piegarsi.»
«Quattro Figlie, non sei mai contento?» sospirò Leona. «Andiamo.
Dovremmo lasciarla riposare. Le serviranno le forze nei cambi a venire.»
La domina mise una mano attorno al viso di Mia, asciugandole la
guancia ferita con un pollice delicato. Quegli occhi blu zaffiro arsero dentro
i suoi.
«Faremo sanguinare le sabbie, tu e io» disse. «Sangue e Gloria.»
Donandole un ultimo sorriso, Leona uscì dalla stanza in un turbinio di
seta azzurra. L’executus la seguì zoppicando, chiudendosi la porta alle
spalle. Il clangore della sua gamba di ferro scomparve assieme alla sua
domina lungo il corridoio.
Mia crollò in ginocchio. Aveva la guancia gonfia, pulsante di dolore. Le
sanguinavano i palmi per avervi premuto le unghie. Fece scorrere i
polpastrelli sopra la pelle, tastando i bordi rialzati dei due cerchi intrecciati
marchiati proprio sotto il suo occhio destro. Ma superando il ricordo del
dolore, la sua mente corse alle parole della domina che le rimbalzavano nel
cranio assieme agli echi dei colpi di martelletto.
“Mi stanno portando a…”
«… crow’s nest…?»
Mia lanciò un’occhiata al non-gatto, che si stava pulendo ancora una
volta la non-zampa con la sua non-lingua. Umettandosi le labbra secche,
cercò di ritrovare la voce.
«Era la casa della Familia Corvere. La mia familia. Il console Scaeva la
diede al tribuno Remus come ricompensa per aver soffocato la ribellione di
mio padre contro il senato.»
«… e ora leona la possiede…?»
Mia scrollò le spalle in silenzio. Il non-gatto inclinò la testa.
«… stai bene…?»
Suo padre, che la teneva per mano mentre camminavano in campi di alte
solicampanule. Sua madre in piedi sui bastioni di pietra color ocra, il vento
fresco che giocava tra i suoi lunghi capelli scuri. Mia era cresciuta a
Godsgrave: il ruolo di suo padre come tribuno implicava che non potesse
restare mai troppo tempo lontano dalla città di ponti e ossa. Ma per alcune
caldestati avevano viaggiato a Crow’s Nest per una settimana o due,
semplicemente per stare assieme. Quelli erano stati i cambi più lieti della
vita di Mia. Lontano dalla calca di Godsgrave, dalla sua politica velenosa. I
suoi genitori sembravano più felici, lì. Più vicini, in qualche modo. Suo
fratello Jonnen era nato in quel luogo. Si ricordava le visite del generale
Antonius, l’aspirante re che era stato impiccato accanto a suo padre. Lui e i
suoi genitori rimanevano alzati fino a tarda illuminotte, a bere e a ridere.
Oh, erano stati così vivi.
E adesso, di tutti loro, non restava più nessuno.
«… dovrei andare. trovare una nave diretta a whitekeep. dire alla vipera
di venirti a cercare a crow’s nest…»
«… Sì» annuì lei.
«… starai bene mentre io non ci sono…?»
Quel pensiero avrebbe dovuto terrorizzarla. Sapeva che sarebbe stato
così, se Messer Cortese non fosse stato presente. Per sette anni, fin dalla
morte di suo padre, l’umbragatto era stato al suo fianco. Mia sapeva che
doveva andare, che lei non poteva fare tutto questo da sé. Ma il pensiero di
essere da sola, di vivere con la paura che di solito lui beveva fino in
fondo…
«Starò bene» replicò. «Ma tu non metterci troppo.»
«… sarò celere. non avere paura…»
Lei sospirò. Premette la mano contro il marchio sulla sua guancia
pulsante.
«E mai, mai dimenticare.»
a. Mia contava spesso le scale della Montagna quando le saliva. Non rimaneva mai sorpresa quando
il conteggio cambiava. Certe rampe più “volubili”, come quella che conduceva all’Aula di Canti,
variavano di continuo, mentre la rampa che portava all’Altare del Cielo sembrava quasi pigra, a
paragone. Cosa interessante, le scale che salivano fino alle stanze della Sala degli Elogi restavano
sempre costanti.
Trecentotrentatré.
b. L’arkemia dei marchi da schiavo è un segreto custodito gelosamente dagli administratii itreyani. Il
procedimento non marchia solo la pelle di una persona, ma anche l’osso al di sotto, e il tatuaggio
sanguina attraverso il tessuto cicatriziale e si ripresenta nel caso in cui chi lo porta decida di
rimuovere il marchio con un coltello o una fiamma.
Esistono solo quattro modi per rimuovere un marchio arkemico.
Il primo per mano degli administratii, dopo aver acquistato o guadagnato la propria libertà. Il
secondo con la stregoneria ashkahi. Il terzo facendo a pezzi il proprio cranio, ma dato che
andarsene in giro con uno zigomo di meno è una dimostrazione dell’essere un fuggitivo, il dolore
non vale certo la pena. L’ultimo modo è morire: attraverso qualche vaga somiglianza con la
magika del sangue della Vecchia Ashkah, il marchio arkemico è legato alla vita stessa di chi lo
porta e, una volta terminata, tale marchio sulla guancia si dissolve nel giro di pochi minuti.
Perciò, l’unica libertà che molti schiavi ottengono è tra le braccia della morte.
CAPITOLO 6
MORTALITÀ

L’Ateneo si aprì al tocco del dito di Mia e le colossali porte di pietra si


spalancarono come se fossero fatte di piume. Prendendo un respiro
profondo e tenendo stretto il tomo contro il seno, zoppicò nel suo posto
preferito al mondo.
Mentre faceva spaziare lo sguardo dal mezzanino agli interminabili
scaffali lì sotto, la ragazza non riuscì a trattenere un sorriso. Era cresciuta
dentro i libri. Per quanto la vita diventasse cupa, chiudere fuori il dolore
era facile come aprire una copertina. Era figlia di genitori assassinati e di
una ribellione fallita, ma si metteva comunque nei panni di eruditi e
guerrieri, regine e conquistatori.
I cieli ci concedono solo una vita, ma grazie ai libri ne viviamo mille.
Sorridendo, Mia si voltò e vide un vecchio accanto a un carrello con alte
pile di libri. Indossava un panciotto trasandato e due masse di capelli
bianchi cercavano di sfuggire al suo scalpo sempre più calvo. Occhiali
spessi erano posati su un naso a becco, la schiena curva come un falcetto.
La parola “antico” gli rendeva giustizia quanto la parola “stupenda” alla
Shahiid Aalea.
«Buon cambio a te, Cronista» si inchinò Mia.
Senza fare domande, il Cronista Aelius prese il suo onnipresente
sigaretto di riserva da dietro l’orecchio, lo accese col suo e lo offrì a Mia.
Appoggiandosi contro la parete con un sussulto quando i punti le tirarono,
lei inalò ed espirò una nebbiolina di grigio appagato.
Aelius si appoggiò accanto a lei, il sigaretto che gli ballonzolava sulle
labbra mentre parlava.
«Tutto bene?»
«Tutto bene» annuì lei.
«Com’era Galante?»
Mia trasalì di nuovo per una fitta di dolore delle sue suture al posteriore.
«Una vera rottura» borbottò lei.
Il vecchio sorrise con la paglia in bocca. «Allora, cosa ti porta
quaggiù?»
Mia sollevò il tomo che aveva portato con sé attraverso il Cammino del
Sangue. Era rilegato in cuoio macchiato, lacero e malconcio. Gli strani
simboli sbalzati sulla copertina le facevano male agli occhi quando li
guardava e le sue pagine erano ingiallite dal tempo.
«Ho pensato di riportare questo. Ce l’ho da otto mesi.»
«Stavo cominciando a credere che avrei dovuto inviare una squadra di
ricerca.»
«Sarebbe stato spiacevole per tutte le parti coinvolte, scommetto.»
Il vecchio sorrise. «Le multe per i ritardi sono decisamente esorbitanti,
in una biblioteca come questa.»
Il Cronista aveva lasciato il libro nella stanza di Mia appena prima che
lei fosse assegnata a Galante. Nei mesi successivi, lei aveva meditato su
quelle pagine più volte di quante riuscisse a contarne. Purtroppo, ancora
non ne capiva nemmeno la metà e, a dire il vero, in cambi più recenti era
diventata non poco disillusa al riguardo. Ma il suo incontro nella necropoli
di Galante aveva rinnovato il suo interesse dieci volte tanto.
Il libro era stato scritto da una donna di nome Cleo, una tenebris come
Mia, che parlava alle ombre proprio come faceva lei. Cleo era vissuta in
un’epoca precedente alla Repubblica e il libro era una specie di diario, che
dettagliava il suo viaggio per Itreya e oltre. Parlava di incontri fra lei e
altri tenebris… incontri che all’apparenza terminavano con Cleo che
mangiava i suoi simili. La cosa strana era che, da ciò che scriveva Cleo, lei
aveva incontrato dozzine di altri tenebris nei suoi viaggi. E a giudicare
dagli autoritratti tratteggiati dalla donna, era accompagnata da dozzine di
passeggeri che indossavano una moltitudine di forme diverse: volpi, uccelli,
serpenti e altro ancora. Un intero zoo di ombre al suo comando.
In tutta la sua vita, l’unico tenebris che Mia avesse incontrato era lord
Cassius. E gli unici due demoni erano Messer Cortese ed Eclissi.
Perciò dove ’bisso erano tutti quanti gli altri?
Tra scarabocchi privi di senso e pittogrammi che lasciavano intendere
come la sua follia andasse aumentando, la seconda metà del libro verteva
sulla ricerca da parte di Cleo di qualcosa che lei chiamava “la Corona
della Luna”… proprio come la creatura d’ombra nella necropoli di
Galante aveva detto di fare a Mia. Sfogliando le illustrazioni dopo il suo
incontro, Mia ne aveva visto diverse che mostravano una misteriosa
somiglianza con la figura che le aveva salvato la vita.
Purtroppo, Cleo non menzionava chi o cosa potesse essere questa
“Luna”.
Il libro era scritto in un linguaggio arcano che Mia non aveva mai visto,
ma sia Messer Cortese sia Eclissi erano in grado di leggerlo. La cosa più
strana, però, era che conteneva una mappa del mondo di un’epoca
precedente alla Repubblica; un’epoca in cui la Baia di Godsgrave mancava
del tutto. Al suo posto, dove ora si trovava la capitale di Itreya, c’era una
massa di terra. La penisola era contrassegnata da una X e da
un’affermazione inquietante:
QUI PRECIPITÒ .
«L’hai letto, prima di darlo a me?» chiese Mia.
Il vecchio scosse il capo. «Non sono riuscito a capire una dannata
parola. L’unica cosa che mi ha fatto pensare a te sono stati i disegni. Per te
ha qualche senso?»
«… Nemmeno la metà di quanto mi piacerebbe.»
Aelius scrollò le spalle. «Mi hai chiesto di cercare libri sui tenebris e
così ho fatto. Non ho promesso che ne avresti saputo di più una volta che li
avessi letti.»
«Non serve rigirare il coltello nella piaga, buon Cronista.»
Aelius sogghignò. «Sono sempre in cerca di altri volumi. Se dovessi
trovare qualcosa di interessante quaggiù, lo manderò alle tue camere. Ma
non mi farei troppe illusioni.»
Mia annuì, prendendo una tirata dalla sua paglia. L’Ateneo di Niah in
realtà era una biblioteca dei morti. Conteneva una copia di qualunque libro
che fosse mai stato distrutto nella storia del linguaggio scritto. Inoltre,
ospitava tomi che non erano mai stati nemmeno scritti. Memoriali di tiranni
assassinati. Teoremi di eretici crocifissi. Capolavori di geni morti
prematuramente.
Il Cronista Aelius le aveva detto che nuovi libri apparivano di continuo,
che gli scaffali erano sempre in mutamento. E anche se come risultato
l’Ateneo di Niah era un posto meraviglioso, il lato negativo era evidente:
trovare un libro particolare qui dentro era come cercare di rintracciare un
pidocchio sullo scroto di un deliziante del porto.
«Cronista, hai mai sentito parlare di Luna? O di una qualche corona che
potrebbe appartenere alla suddetta Luna?»
Lo sguardo di Aelius divenne cauto.
«Perché?»
«Rispondi dannatamente spesso a domande con altre domande» sospirò
Mia. «Perché mai?»
«Ricordi cosa ti dissi il primo cambio in cui venisti qui?»
«Vedi, ecco che lo fai ancora.»
«Ricordi?»
«Dicesti che ero una ragazza con una storia da raccontare.»
«E che altro?»
Il fumo vagò fuori dalle labbra della ragazza mentre il vecchio la fissava
intensamente.
«Dicesti che forse questo non era il mio posto» rispose infine. «Che
puzzava di merda di cavallo tutto il tempo, e adesso ancora di più. Io ho
dato prova di me stessa. Tutto il Culto sarebbe stato inchiodato sulle croci a
’Grave, se non fosse stato per me. E sono dannatamente stanca che tutti da
queste parti sembrino dimenticarsene.»
«Non trovi ironico aver ottenuto il tuo posto in un culto di assassini
avendo salvato mezza dozzina di vite?»
«Per farlo ho ammazzato quasi cento uomini, Aelius.»
«E come ti senti al riguardo?»
«Cosa sei, la mia bambinaia?» sbottò Mia. «Sono un’assassina. Il lupo
non commisera l’agnello. E la…»
«Sì, sì, conosco la solfa.»
«E sai perché sono qui. Mio padre fu giustiziato come traditore per far
divertire una folla. Mia madre morì in una prigione e il mio fratellino
accanto a lei. E gli uomini responsabili si meritano dannatamente di essere
uccisi. Ecco come mi sento.»
Il vecchio agganciò i pollici nel suo panciotto. «Il problema di essere un
bibliotecario qua dentro è che esistono alcune lezioni che non puoi
imparare dai libri. E il problema di essere un assassino qui dentro è che
esistono alcuni misteri che non puoi risolvere semplicemente prendendoli a
coltellate.»
«Parli sempre per enigmi» ringhiò Mia. «Sai di questa Luna o no?»
Il vecchio inspirò dal suo sigaretto e la squadrò. «So questo. Alcune
risposte vanno ricercate. Le più importanti vanno meritate.»
«Oh, Dea Nera, adesso sei anche un poeta?»
Il Cronista si accigliò e spense il suo sigaretto contro la parete.
«I poeti sono dei segaioli.»
Aelius lasciò cadere il mozzicone spento della sua paglia dentro il
panciotto. Abbassò lo sguardo sul libro che Mia teneva in mano. Poi lo alzò
di nuovo nei suoi occhi.
«Puoi tenerlo. Nessun altro può leggerlo comunque.»
Con un piccolo cenno del capo, afferrò il suo carrello dei RESI .
«Aspetta, questa è tutta la spiegazione che ottengo?» chiese Mia.
Aelius fece spallucce. «Troppi libri. Troppo pochi secoli.»
Il vecchio spinse il carrello nell’oscurità. Osservandolo svanire tra le
ombre, la ragazza prese una lunga boccata del suo sigaretto, la mascella
serrata.
«… be’, è stato illuminante…»
«… AELIUS È SEMPRE STATO COSÌ. ESSERE CRIPTICO LO FA SENTIRE
IMPORTANTE …»
Mia guardò torvo l’umbralupa che si era materializzata al suo fianco.
«Sei sicura che lord Cassius non abbia mai appreso nulla di tutto
questo, Eclissi? Era a capo dell’intera congregazione. Mi stai dicendo che
non sapeva nulla di cosa volesse dire essere un tenebris? Di Cleo? Di
Luna? Di tutto quanto?»
«… TE L’HO DETTO, NON ABBIAMO MAI CERCATO. CASSIUS TROVAVA UN
SIGNIFICATO SUFFICIENTE NELLA VITA METTENDO FINE A QUELLE DEGLI
ALTRI. NON GLI OCCORREVA ALTRO …»
Messer Cortese sbuffò. «… piccole cose e piccole menti…»
«… NON TI CRUCCIARE, PICCOLO AILURO. LUI ERA MIO AMICO QUANDO
TU ERI ANCORA INFORME. ERA BELLO COME LA TENEBRA E AFFILATO COME
I DENTI DELLA MADRE. NON PARLAR MALE DI LUI …»
Mia sospirò, stringendosi il naso tra le dita. Non riusciva a capire
perché Cassius non avesse mai cercato la verità su se stesso. Lei si era
interrogata in proposito fin da bambina. Il vecchio Mercurio e la Madre
Drusilla avevano detto che era stata prescelta dalla Dea.
“Ma prescelta per cosa?”
Si ricordò il combattimento nelle strade di Ultima Spes con Ashlinn. Il
suo attacco alla Basilica Grande quando aveva quattordici anni. In
entrambe le occasioni, semplicemente guardare la Trinità – il simbolo sacro
di Aa – le aveva provocato dolore. Il Dio della Luce la odiava. Mia l’aveva
avvertito chiaramente. Era certo quanto il terreno sotto i suoi piedi. Ma
perché? E cosa ’bisso aveva a che fare questa “Luna” con tutto quanto?
E Remus.
“Fottuto Remus.”
Era morto per mano sua su una polverosa strada di Ultima Spes. Il suo
attacco alla Montagna era fallito. I suoi uomini trucidati sulle sabbie
tutt’attorno a lui. Ma durante il loro scontro, ben prima che lei gli
affondasse nella gola la lama di necrosso, il tribuno aveva pronunciato
poche parole che avevano ribaltato il suo intero mondo.
«Porterò a tuo fratello i tuoi saluti.»
Mia scosse il capo.
“Ma Jonnen è morto. Me l’ha detto mia madre.”
Così tante domande. Mia poteva sentire sulla lingua il sapore della
frustrazione mischiarsi al fumo. Ma le sue risposte erano a Godsgrave. E
che fosse lodata la Madre Nera, quello era esattamente il posto dove questo
suo misterioso mecenate la stava mandando.
“È ora di smettere di lamentarsi e cominciare a muoversi.”
Mia zoppicò fuori dall’Ateneo. Scese per le scale tortuose fino al ventre
della Chiesa. Tra le pozze di luce dei vetri colorati, con Messer Cortese
sulla spalla ed Eclissi che procedeva davanti a lei. Il coro della Chiesa
risuonava mentre percorrevano le scale a chiocciola, i lunghi corridoi
sinuosi, fino a raggiungere le camere della Tessitrice Marielle.
Prese un respiro profondo e bussò alla pesante porta. Si aprì dopo un
momento e Mia si ritrovò a guardare dentro occhi scarlatti, poi verso un
sorriso bellissimo ed esangue.
«Lama Mia» disse Adonai.
L’Oratore del sangue era abbigliato con le sue brache indecenti e la
vestaglia di seta rossa, aperta come sempre sul petto. La stanza era
illuminata da un’unica lampada arkemica, le pareti decorate con centinaia
di maschere diverse, di ogni forma e dimensione. Maschere di morte, da
bambini e di Carnivalé. Di vetro, ceramica e cartapesta. Una stanza di
facce, senza nemmeno uno specchio in vista.
«Tu sei quivi per una tessitura» disse Adonai.
«Sì» annuì Mia, incontrando quegli occhi rosso sangue senza paura. «Le
ferite guariscono col tempo, ma non ne avrò molto dove sono diretta.»
«La città di ponti e ossa» rifletté l’Oratore. «Non vi è loco più
pericoloso nell’intera Repubblica.»
«Non hai mai visto il mio cesto della biancheria» replicò Mia.
Adonai sogghignò e si guardò alle spalle.
«Amata sorella, sorella mia? Hai compagnia.»
Mia vide una sagoma deforme avanzare nel bagliore arkemico. La
donna era di un pallore albino come suo fratello, ma quel poco che Mia
poteva vedere della sua pelle era gonfio e crepato, con sangue e pus che
fuoriuscivano dalle bende attorno a mani e faccia. Era ricoperta da una
veste di velluto nero e le sue labbra si spaccarono quando guardò Mia e
sorrise.
«Lama Mia» sussurrò Marielle.
«Tessitrice Marielle» disse Mia con un inchino.
«A ’Grave costei va. A un ordine di Padre Solis, alle braccia di un nuovo
mecenate. E, seppur cucita, ancora sanguina.» Adonai fu percorso da un
lieve fremito. «Lo fiuto su di lei.»
«Tutti i tuoi malanni saranno sanati, piccola tenebris» biascicò
Marielle. «Come nuova sarai.»
La Tessitrice indicò con un cenno la terribile lastra di pietra che
dominava la sua stanza. Era completa di cinghie di cuoio e fibbie di acciaio
lucidato: anche se Marielle poteva tessere la carne come creta e guarire
quasi qualunque ferita, il procedimento in sé era doloroso. Mia odiava il
pensiero di essere bloccata mentre lei lo faceva, a dire la verità. Legata
come un porco allo spiedo, le brache calate attorno alle caviglie. Ma
rassegnandosi al dolore, sentendo le ombre dentro la sua ombra bere la sua
paura, zoppicò nella stanza.
Quando si chiuse la porta alle spalle, l’Oratore Adonai la prese per un
braccio.
Mia alzò lo sguardo nei suoi occhi scintillanti, su quelle ciglia pallide
come neve. Lui si sporse vicino, più vicino, e per un momento terribile ed
eccitante lei pensò che stesse per baciarla. Invece Adonai parlò a bassa
voce, le labbra che le sfioravano l’orecchio, a malapena un sussurro.
«Due vite salvasti, il cambio in cui i Luminatii premettero il loro
solacciaio alla gola della Montagna. La mia e quella della mia amata
sorella. Il debito di Marielle nei tuoi confronti è stato ripagato il cambio in
cui ha dato a Naev il suo nuovo volto. Ma il mio debito, piccola Lama, ti è
ancora dovuto. Sappi questo, nelle illuminotti a venire. Per quanto cupe e
profonde possano divenire le acque in cui nuoti, nelle faccende del sangue
tu puoi fare affidamento sul voto di un oratore.»
Adonai la fissò con il suo sguardo scarlatto, la voce affilata come il
necrosso che lei portava al polso.
«Sangue ti è dovuto, piccolo Corvo» bisbigliò lui. «E sangue sarà
ripagato.»
Mia lanciò un’occhiata a Marielle. Poi spostò di nuovo lo sguardo negli
occhi rossi e scintillanti di Adonai. La sua mente si agitò con pensieri di
Godsgrave. Braavi. Mappe rubate, mecenati misteriosi e un Culto che
sembrava provare solo ira nei suoi confronti.
«… Sai qualche cosa che non so, Oratore?»
La sua unica risposta fu un sorriso bellissimo ed esangue. Con un
fruscio della sua vestaglia scarlatta, l’Oratore Adonai fece un cenno alla
sorella. Mia si voltò verso la Stanza delle Facce e la sua signora, che
torreggiava su quella lastra orrenda. Marielle la chiamò con dita contorte.
Qualunque cosa sarebbe successa, adesso era troppo tardi per tornare
indietro.
E, con un sospiro, Mia si sdraiò sulla pietra.

Per poco non pianse quando la vide.


Si innalzò dalla cima delle scogliere trafiggendo il cielo, pietra ocra che
sbiadiva in oro alla luce dei due soli ardenti. Una fortezza scavata dai dirupi
stessi, un tempo residenza di una delle dodici familiae più importanti della
Repubblica.
Crow’s Nest.
Il nido del corvo.
Mia si inginocchiò sul ponte della Mastino Glorioso e la fissò,
sopraffatta dai ricordi. Camminare nel porto movimentato, mano nella
mano con sua madre. I bottegai che la chiamavano “piccola domina” e le
portavano dolci. Suo padre che percorreva i bastioni sopra l’oceano, la
brezza marina che giocava con i suoi capelli mentre fissava le onde.
Sognando forse la ribellione che sarebbe stata la sua rovina.
Lei era stata troppo giovane per capire, troppo piccola per…
Crac!
La frusta schioccò sulle sue scapole e un dolore rosso intenso la strappò
dal suo sogno a occhi aperti.
«Non ti ho dato il permesso di fermarti! Mento sulle assi!»
Mia arrischiò un’occhiata carica d’odio all’executus, che torreggiava
sopra di lei con una lunga frusta da bestiame in mano. Il sudore le colava
lungo la faccia, i capelli erano appiccicati alla pelle. Un secondo colpo sulla
schiena fu la ricompensa per la sua esitazione. Con le braccia che le
bruciavano per la fatica, fece un altro piegamento e si alzò di nuovo. Punti
neri si agitavano davanti ai suoi occhi. I due uomini accanto a lei fecero lo
stesso, grugnendo per lo sforzo.
Il viaggio dai Giardini Pensili era durato quasi tre settimane. Ogni
cambio, lei e gli altri due schiavi che Leona aveva comprato al mercato
venivano portati sulla tolda per una serie di esercizi, e il suono della frusta
da bestiame dell’executus stava cominciando a tormentare i suoi sogni.
Il suo primo compagno di prigionia era un duro ragazzo liisiano di nome
Matteo, dai capelli riccioluti, le braccia forti e il sorriso grazioso. Sembrava
avere qualche anno più di Mia. Malgrado il fisico impressionante, Matteo
era stato male come un cane durante la loro prima settimana in mare: Mia
ipotizzava che non avesse mai messo piede su una nave in vita sua.
Il secondo compagno di sventura era un corpulento Itreyano chiamato
Sidonius. Era sulla ventina avanzata e sembrava duro come un chiodo da
bara. Occhi azzurro brillante e una testa rasata. Pareva il più cattivo dei due,
e a Mia dava l’impressione di volerla fottere e/o uccidere. Non era certa in
quale ordine. Non era sicura che lo sapesse nemmeno Sidonius. Cosa più
strana di tutte, l’uomo aveva un marchio rozzo che sembrava essere stato
impresso a fuoco sulla sua pelle con una lama incandescente. Un’unica
parola incisa sul petto.
CODARDO .
Lui non aveva fornito alcuna spiegazione, e a Mia non piaceva
abbastanza da chiedergliene una.
Dopo altri trentadue piegamenti, l’executus fece cenno ai tre di fermarsi
e Mia crollò faccia a terra sul ponte, le braccia tremanti.
«La forza della tua parte superiore è ridicola» le ringhiò contro l’uomo.
«Eppure sulle mie labbra non compare una risata.»
«È abbastanza per questo cambio, executus» chiamò Domina Leona dal
suo posto sul lato anteriore del ponte. «Dovranno poter camminare quando
incontreranno la loro nuova familia.»
«In piedi.»
Mia si alzò lentamente e fissò l’oceano. I segni sulla sua schiena
pizzicavano per il sudore. I capelli brizzolati dell’executus ondeggiavano
alla brezza dell’oceano e la sua barba era irta mentre li guardava torvo.
Passarono lunghi minuti in silenzio, soltanto i versi dei gabbiani e i suoni
del porto in lontananza come compagnia.
«Bevete» grugnì infine l’executus.
Mia si voltò e praticamente corse in direzione del barile d’acqua legato
all’albero maestro. Il grosso Itreyano, Sidonius, la spintonò via con
un’imprecazione, afferrando il mestolo e bevendo a sazietà. Mia ribolliva di
rabbia, quasi tentata di gettare quel bruto col sedere a terra mentre attendeva
il proprio turno, ma la parte assennata del suo cervello le consigliò
pazienza. Quando Sidonius ebbe finito, Matteo le rivolse quel suo sorriso
grazioso e fece cenno al barile.
«Dopo di te, Mea Domina.»
Crac!
Il ragazzo sussultò quando la frusta dell’executus trovò la sua schiena.
«Non ti ho dato il permesso di parlare!»
Il ragazzo strinse i denti e si chinò in segno di scuse. Mia annuì come
ringraziamento, si voltò verso il barile e tracannò una dolce sorsata d’acqua
dopo l’altra.
Inchinarsi a queste persone la infastidiva quasi al punto di urlare. Le
dicevano quando mangiare, quando bere, quando cagare. Il disprezzo
dell’executus nei loro confronti era pari solo all’ambivalenza di Domina
Leona. Da un lato, la donna li trattava con una specie di affetto e parlava
della gloria che avrebbero ottenuto sulle sabbie del venatus. Ma d’altro
canto, li faceva frustare alla minima infrazione. A loro non era permesso
guardarla negli occhi. Dovevano parlare solo quando interrogati. Eseguire
gli ordini.
“Come cani fedeli” si rese conto Mia.
I genitori di Mia avevano avuto schiavi quando lei era una ragazzina:
ogni famiglia nobile della Repubblica ne aveva. Ma la balia di Mia,
Caprice, era trattata praticamente come una consanguinea, e il
maggiordomo di suo padre, un Liisiano di nome Andriano Varnese, rimase
a servire il tribuno perfino dopo aver comprato la propria libertà. a
Perfino nella sua fuga per salvarsi la vita da bambina, perfino quando si
era votata al servizio della Madre Nera, Mia non aveva mai compreso
davvero cosa comportasse non appartenere a se stessa. Quel pensiero le
bruciava, come il ricordo dell’ago che le veniva martellato dentro la pelle.
Ancora e ancora. L’indegnità. La vergogna.
Ma non puoi vincere se non giochi.
La Mastino Glorioso gettò l’ancora nel porto e, poche vogate più tardi,
Mia si ritrovò con gli altri prigionieri sui moli affaccendati della città
portuale sotto Crow’s Nest, nota come Crow’s Rest, il Riposo del Corvo. I
suoi polsi ammanettati erano infiammati, i suoi abiti sudici, i capelli un
groviglio arruffato. L’assenza di Messer Cortese era come una ferita di
pugnale in pancia, da cui fuoriusciva tutto il suo calore. Abbassò lo sguardo
sulla sua ombra, una volta scura abbastanza per due, perfino per tre. Ora
non era diversa da qualunque altra attorno a lei. La paura le aleggiava
attorno su ali nere e, per la prima volta da molto tempo, doveva affrontarla
da sola.
E se avesse fallito?
E se non fosse stata abbastanza forte?
E se questo stratagemma fosse stato insensato come l’aveva ammonita
Messer Cortese?
«Muoviti!» giunse l’ordine, sottolineato dal bruciore di cuoio annodato
sulla sua schiena.
Stringendo i denti, come adesso era sua abitudine, Mia fece come le
veniva detto.
Dopo una corsa a bordo di un carro, si ritrovò ad arrancare per il cortile
di Crow’s Nest, con il cuore che le doleva nel petto. La fortezza sembrava
così familiare: il luogo, i suoni… Madre Nera, perfino gli odori erano gli
stessi. Ma a decorare la pietra ocra delle mura del cortile, dove un tempo
sventolava il corvo dei Corvere, vide l’insegna della familia di Marcus
Remus: un falcone rosso su un campo incrociato bianco e nero.
“Ho decisamente una brutta sensazione, su tutto questo…”
Ricordi della fanciullezza inondarono la testa, mischiandosi a immagini
della fine dei suoi genitori. Suo padre giustiziato assieme al generale
Antonius davanti a una folla urlante. Sua madre e suo fratello morti nella
Pietra Filosofale. Una parte di lei aveva sempre saputo che questo castello
non le apparteneva più, che la sua casa non era più casa sua. Ma vedere i
colori di quel bastardo di Remus ancora sulle mura, perfino dopo che
l’aveva seppellito… provò la sensazione che il mondo intero si stesse
spostando sotto i suoi piedi. Un senso di nausea le crebbe nella pancia,
untuoso e ondeggiante. Ma non aveva tempo per rimuginare sulla fine della
sua vecchia familia.
Quella nuova la stava aspettando.
Erano in fila sull’attenti, come legionari in attesa dell’ispezione. Tredici
uomini e due donne, vestiti con perizomi e pezzi sparsi di armatura di
cuoio; spallacci, parastinchi imbottiti e cose simili. Pelle madida di sudore
scintillava alla luce dei due soli ardenti, dando loro l’aspetto di statue fuse
nel bronzo. Uomini e donne che combattevano sulle sabbie del venatus, che
vivevano e morivano tra le acclamazioni di un pubblico ebbro di sangue.
“Gladiatii.”
Mentre Domina Leona scendeva dal carro, tutti loro si portarono un
pugno contro il petto e urlarono all’unisono.
«Dominatii!»
Leona si portò le dita alle labbra e soffiò loro dei baci.
«Miei Falconi.» Sorrise. «Avete un aspetto magnifico.»
L’executus fece schioccare la frusta e ordinò a Mia e ai suoi compagni di
scendere dal carro. Sidonius sgomitò per essere il primo a farlo, come suo
solito. Matteo sorrise e le fece cenno di precederlo. Mia scese a terra e
percepì quindici coppie di occhi che la valutavano. Vide labbra arricciarsi,
occhi stringersi per deriderla. Ma i gladiatii erano disciplinati quanto
qualunque soldato, e nessuno mormorò una parola in presenza della loro
padrona.
«Ti lascio alle presentazioni, executus» disse Domina Leona. «Ho un
appuntamento con un registro e un bagno lungo e intenso.»
«Il vostro sussurro, la mia volontà» si inchinò l’uomo.
La donna scomparve sotto un’alta arcata di pietra, entrando nella
fortezza. Gli occhi di Mia la seguirono, osservando il modo in cui parlava
con i servitori, come si muoveva. Alla ragazza ricordò un po’ sua madre.
Leona er…
Crac!
Lo schiocco della sferza dell’executus richiamò la sua più completa
attenzione.
L’omone si trovava di fronte a loro, la frusta in una mano. Nell’altra,
teneva una manciata di terra ocra appena raccolta, che lasciava scivolare
lentamente tra le dita. Guardò Mia e gli altri nuovi arrivati negli occhi, poi
parlò con una voce simile a una roccia che si frantumava.
«Cos’ho in mano?»
Mia capì immediatamente lo stratagemma. Lo notò negli occhi bramosi
dei gladiatii radunati dietro l’executus. Era nuova a questo gioco, ma non
tanto sciocca da farsi freg…
«Sabbia, executus» rispose Matteo.
Crac!
La frusta guizzò nell’aria in mezzo a loro e lasciò un segno sanguinante
sul torace di Matteo. Il ragazzo barcollò, il volto grazioso distorto dal
dolore. I gladiatii lì riuniti sogghignarono come uno solo.
Mia esaminò i combattenti, valutando ciascuno a turno. Il più vecchio
non poteva avere più di venticinque anni. Ciascuno portava i cerchi gemelli
intrecciati di un marchio da schiavo combattente impressi sulla guancia.
Ciascuno era un esemplare dal fisico stupendo, tutti muscoli sodi e pelle
luccicante. Ma a parte quello, ciascuno era diverso come ferro e argilla.
Vide una donna dweymeri, con salciocche così lunghe da toccare quasi
terra. I suoi tatuaggi, che di solito marchiavano solo il volto di un
Dweymeri, le coprivano tutto il corpo, fluendo sopra la sua pelle color
bruno intenso come cascate nere. Accanto a lei c’era una ragazza vaaniana
più o meno della stessa età di Mia, i capelli raccolti in una crocchia bionda
e vividi occhi verdi. Era scalza, quasi esile a paragone dei suoi compagni.
Mia guardò in direzione di queste donne per vedere se provassero una
specie di affinità o solidarietà con lei, ma lo sguardo di entrambe la
attraversò come se fosse vetro.
«Cos’ho in mano?» ripeté l’executus.
Mia rimase in silenzio, e quel senso di nausea nella pancia crebbe.
Dubitava che esistesse una risposta giusta o, se gli fosse stata data, che
l’executus l’avrebbe ammesso. Ed era certa che uno dei suoi due compagni
di viaggio sarebbe stato tanto stupido da…
«Gloria, executus» disse Sidonius.
Crac!
I gladiatii lì riuniti ridacchiarono quando Sidonius crollò a terra,
tenendosi con la mano labbra rotte e insanguinate. L’executus sapeva
maneggiare quella frusta come un duellante dello stile Caravaggio usava un
fioretto, e aveva assestato al grosso Itreyano un colpo proprio su quella sua
stupida bocca.
«Tu non sei nulla» ringhiò l’executus. «Non sei nemmeno degno di
leccare la merda dal mio stivale. Che ne sai della gloria? È un inno di
sabbia e acciaio, intessuto dalle mani di leggende e cantato dalla folla
acclamante. La gloria è la specialità dei gladiatii. E tu?» Il suo labbro si
arricciò. «Tu non sei altro che un semplice schiavo.»
Mia spostò gli occhi di nuovo sulla fila, studiando gli uomini dietro i
loro sorrisi.
Erano un gruppo assortito, tutti grossi come orsi. Un biondo attraente
catturò la sua attenzione: sembrava così simile alla ragazza vaaniana che
quasi sicuramente erano imparentati. Vide un enorme Dweymeri con la
barba intrecciata come le sue salciocche, gli stupendi tatuaggi facciali
guastati dal marchio da schiavo. Un corpulento Liisiano con la faccia simile
a una torta spiattellata dondolava sui talloni come se non riuscisse a stare
fermo. E poi vide il primo della fila, un alto uomo itreyano.
Sentì freddo nello stomaco.
Il fiato le si mozzò nel petto.
Lunghi capelli scuri gli scorrevano attorno alle spalle, incorniciando un
volto così delicato che poteva essere stato scolpito solo dalla Tessitrice in
persona. Era muscoloso e sodo, ma più flessuoso dei suoi compagni, il
sussurro di una velocità spaventosa attorcigliata nelle linee tese delle sue
braccia, i muscoli increspati del suo addome. Portava un sottile torque
argenteo attorno al collo, l’unico gioiello in mezzo a quel mucchio. Ma
quando Mia guardò nei suoi occhi scuri e ardenti, percepì la nausea che
aveva nella pancia crescere, le viscere brontolare come se all’improvviso
fossero disperatamente affamate.
“Ho già provato questa sensazione…”
Quando si era trovata alla presenza di lord Cassius, il Principe delle
Lame…
L’executus si voltò verso i guerrieri radunati, lasciando cadere la sabbia
dalle dita.
«Gladiatii» chiese. «Cos’ho in mano?»
Tutti gli uomini e le donne ruggirono come uno solo.
«Le nostre vite, executus!»
«Le vostre vite.» L’uomo si girò ancora verso i nuovi arrivati, gettando a
terra la sua manciata di sabbia. «E per quanto siano inutili, un cambio
potrebbero essere cantate come una leggenda.
«Non m’importa chi eravate prima. Mendicanti o domini, fornai o
deliziatrici. Quella vita è finita. E ora siete meno di nulla. Ma se sarete
attenti come sanguifalchi e imparerete quello che insegno, un cambio
potreste trovarvi tra i prescelti sulle sabbie del venatus. Come gladiatii! E
allora…» indicò con la frusta il sanguinante Sidonius… «allora potresti
apprendere il sapore della gloria, cucciolo. Allora potresti conoscere il
canto del tuo battito mentre la folla acclama il tuo nome, come fa con
Furian, l’Imbattuto, primus del Venatus Tsana e campione del Collegio
Remus!»
«Furian!» I gladiatii tuonarono come un sol uomo, sollevando i pugni e
voltandosi verso l’alto Itreyano a capo della fila.
L’uomo dai capelli corvini aveva ancora lo sguardo fisso su Mia, senza
mai sbattere le palpebre.
«I gladiatii non temono la morte!» continuò l’executus, saliva sulle sue
labbra. «I gladiatii non temono il dolore! I gladiatii temono una sola cosa:
l’eterna vergogna della sconfitta! Ricordate le mie lezioni. Restate al vostro
posto. Addestratevi fino a sanguinare. Poiché se porterete tale vergogna su
questo collegio, sulla vostra Dominatii, giuro per l’onnipotente Aa e tutte e
quattro le sue sacre fottute Figlie che rimpiangerete il cambio in cui vostra
madre vi ha cagato fuori dalla sua pancia.»
Si voltò verso i suoi combattenti e levò il pugno in aria, la cicatrice che
gli distorceva il volto mentre ruggiva.
«Sangue e Gloria!»
«Sangue e Gloria!»
I gladiatii risposero come un sol uomo, sbattendo i pugni contro il petto.
Tutti tranne uno.
Il campione che chiamavano Furian.
L’uomo teneva lo sguardo su Mia, intriso di rabbia, desiderio, o qualcosa
nel mezzo. Il respiro della ragazza accelerò, la pelle le pizzicava come se
stesse congelando. La fame si agitava dentro di lei, aveva la bocca secca
come polvere e le cosce che dolevano di desiderio.
Mia guardò il terreno ai piedi del ragazzo e vide che la sua ombra non
era più scura delle altre. Ma conosceva quella sensazione, proprio come
conosceva il suo nome.
E guardandolo negli occhi, seppe che la provava anche lui.
“Quest’uomo è un tenebris…”

a. Nelle case dei midollani e in alcuni luoghi di lavoro consolidati, non è insolito che gli schiavi siano
pagati per il loro lavoro: l’idea è che uno schiavo che abbia la capacità di ricomprare la propria
libertà lavorando sodo, lavorerà davvero sodo.
Il livello di salario però è del tutto privo di regole e molti schiavi guadagnano una miseria. I
padroni senza scrupoli spesso fanno pagare a uno schiavo i costi di mantenimento e li deducono
dai loro “guadagni”, con il risultato che una vita di fatiche non permette loro di ottenere la somma
pagata per il loro acquisto iniziale.
Ingiusto? Assolutamente. Ma se il sistema fosse giusto, non sarebbe un granché come sistema,
gentili amici.
CAPITOLO 7
BRAME

Il tonfo di un batticuore. Un mare di rosso. Un impeto di vertigini che le


riempiva la testa.
Mia eruppe dalla pozza di sangue, alzandosi in piedi. Le ferite alla
spalla e al posteriore erano state guarite, ma perse comunque l’equilibrio,
e fu salvata soltanto dalle due Mani accanto a lei. Aiutarono Mia a mettersi
in piedi, tenendole un braccio ciascuna finché non furono certe che fosse
stabile. Mia sputò via il sangue che aveva sulla lingua e sospirando se lo
tolse dagli occhi con le mani.
Guardandosi attorno, si ritrovò in una pozza triangolare che traboccava
di liquido scarlatto, identica a quella che aveva appena lasciato nella
Montagna Silente. Le pareti erano ricoperte di glifi stregoneschi e su una di
esse era dipinta col sangue una mappa di Godsgrave. L’arcipelago si
estendeva sulla pietra, le isole frammentate intervallate da disegni di
canali, incredibilmente simile a un gigante senza testa steso sulla schiena.
Mia prese un respiro profondo, ritrovò i suoi piedi e scosse i capelli
insanguinati sopra la spalla.
«Denti della Mannaia, non mi ci abituerò mai» gracidò.
«Smettila di frignare, Corvere. È mille volte meglio che viaggiare per
nave.»
A Mia si rivoltò lo stomaco quando riconobbe la voce. Voltandosi verso
il vertice della pozza, trovò una rossa snella che la fissava. La ragazza
aveva più o meno la sua età, ma era più alta e spigolosa. I suoi occhi erano
verdi e scintillavano di un’astuzia selvaggia da cacciatrice. Aveva il volto
spolverato di lentiggini, e teneva le braccia incrociate all’interno delle
maniche voluminose di una lunga veste nera.
Una veste da Mano.
Mia l’avrebbe riconosciuta ovunque: la ragazza che era stata una spina
nel fianco durante tutto il suo addestramento alla Montagna Silente. La
ragazza che incolpava il padre di Mia per la morte del proprio. La ragazza
che aveva giurato di ucciderla.
«Jessamine» mormorò Mia, uscendo dalla pozza su gambe instabili.
La rossa inclinò la testa. «Benvenuta nella città di ponti e ossa.»
«Sei stata assegnata a Godsgrave?» chiese Mia. «Dopo l’iniziazione?»
«Brillante osservazione, Corvere» ribatté la rossa. «Da cosa l’hai
capito?»
Mia si limitò a fissarla, le ombre sotto di lei che ribollivano. Jessamine
la squadrò dall’alto in basso, poi le gettò un involto di lino contro il petto.
«I bagni sono da questa parte.»
Il tessuto arrotolato era una veste e Mia se la mise attorno al corpo
inzuppato di sangue, lasciando appiccicose orme rosse mentre seguiva
Jessamine lungo un corridoio tortuoso. La temperatura era soffocante, la
puzza di ferro e sangue quasi opprimente.
Mia vide che le pareti e il soffitto erano fatti di migliaia e migliaia di
ossa umane. Femori e costole, spine dorsali e teschi, che formavano un
labirinto scuro fitto di ombre: era evidente che chiunque avesse pensato di
costruire la nuova Cappella della Nostra Signora dell’omicidio benedetto
all’interno della vasta necropoli di Godsgrave nutriva un profondo
apprezzamento per il valore dell’atmosfera. Globi arkemici tenuti su mani
scheletriche alle pareti fornivano un’illuminazione soffusa. Ma nonostante
fosse circondata dai resti di innumerevoli migliaia di esseri umani, gli occhi
di Mia erano fissi sulla ragazza davanti a lei. Sputando via dalla lingua
residui di sangue untuoso, osservò Jessamine come se alla ragazza stesse
per spuntare una seconda testa.
Mia sapeva che dopo l’iniziazione Jessamine era stata consacrata come
Mano, ma era stata così occupata dal suo lavoro a Galante che non aveva
mai scoperto dove era stata assegnata. Pareva che, tra tutte le città della
Repubblica, la sua vecchia nemesi fosse stata mandata a lavorare proprio a
Godsgrave.
“La solita fottuta sfiga…”
Il corridoio terminava con una porta fatta completamente di spine
dorsali, che Jessamine aprì con un tocco gentile. All’interno, Mia vide tre
vasche; nell’aria aleggiavano un lieve fumo di legno di frassino e fragranza
di caprifoglio. Mia grattò via il sangue che si incrostava sulla faccia, senza
che i suoi occhi lasciassero mai quelli della rossa. Il criptico avvertimento
di Adonai le risuonava nella testa. Le bastava un guizzo del polso per
estrarre la lama di necrosso che portava sempre assicurata
all’avambraccio.
«Io sarò qui fuori.» Jessamine indicò le vasche con la testa. «Non
metterci troppo. Il vescovo sta aspettando, ed è di umore più cupo del
solito.»
Mia rimase dov’era fissando negli occhi la rossa.
«Ti stai chiedendo se voglio provare ad affogarti, vero?» Le labbra di
Jessamine si contorsero in un sorriso. «Pugnalarti non appena mi volterai
le spalle?»
«Cosa ti fa pensare che ti volterò le spalle, Rossa?»
Jessamine scosse il capo, la sua voce dura e fredda.
«C’è ancora una faida fra te e me. Ma il cambio in cui verrò a prenderti,
non sarai nuda in una vasca con il sapone negli occhi. Sarai sveglia e con
la lama in mano. Te lo prometto.» Il sorriso di Jessamine si allargò da un
orecchio all’altro. «Perciò non avere paura, Corvere.»
Mia guardò i bagni fumanti. Poi l’ombra ai suoi piedi. E ricambiò il
sorriso.
«Non ce l’ho mai.»

Un’ora dopo, Mia era in piedi fuori dalle camere del vescovo della
Cappella di Godsgrave. Era vestita con stivali fino al ginocchio e cuoio
nero, un farsetto di velluto nero riccio, i capelli ben pettinati. La spada
lunga di necrosso di suo padre al fianco, lo stiletto di sua madre nel fodero
all’interno della manica pieghettata.
Le camere del vescovo erano nascoste in un intrico di cunicoli d’ossa: le
viscere della Cappella erano un labirinto, e Mia aveva rapidamente perso
l’orientamento. Se non fosse stato per Jessamine, dubitava che sarebbe
stata in grado di ritrovare la strada per la pozza di sangue, cosa che la rese
ancora più cauta alla presenza della ragazza.
La porta della camera si aprì senza un suono e un giovane snello uscì
nelle ombre del corridoio, vestito di velluto nero. Il suo viso era stato
intessuto dall’ultima volta che Mia l’aveva visto, ma era ancora troppo
esile, e lei avrebbe riconosciuto ovunque quei penetranti occhi azzurri.
Capelli scuri, pallido come un fantasma, labbra lievemente increspate
contro le gengive prive di denti.
«Zitto» sorrise Mia.
Il ragazzo si fermò e la squadrò, come se fosse sorpreso di vederla. Un
sorrisetto gli incurvò le labbra mentre le comunicava a gesti in
Senzalingua.
salve
Lei rispose a segni, le mani che si muovevano rapide.
tu servi qui? a godsgrave?
Zitto annuì.
otto mesi
è bello vederti
anche per me
dovremmo bere qualcosa assieme
Il ragazzo guardò Jessamine, poi rivolse a Mia una scrollata di spalle
evasiva.
«Ascoltate, detesto interrompere questo incontro commovente» disse
Jess. «Ma sul serio, sto per mettermi a piangere dall’emozione e il vescovo
sta aspettando.»
Zitto annuì e guardò Mia.
che la madre vegli su di te
Con un piccolo inchino, il ragazzo premette assieme i polpastrelli e si
allontanò lungo il corridoio, silenzioso come un’ombra. Mia lo osservò
andare, un po’ rattristata. Era stata un’accolita con Zitto. Lui l’aveva
aiutata nelle prove finali e in cambio lei gli aveva salvato la vita durante
l’attacco dei Luminatii. Ma come sempre, lo strano ragazzo si teneva a
distanza.
“Un assassino, sempre e comunque.”
Jess bussò all’uscio tre volte.
«Cosa cazzo vuoi?» domandò una voce aspra dall’interno.
Jessamine aprì la porta e fece cenno a Mia di entrare. La ragazza si
introdusse nella camera del vescovo e si guardò attorno. Mura d’ossa
erano fiancheggiate da librerie cariche di carte impilate a casaccio. Fasci
di cartapecora e pergamene inserite nelle loro custodie o semplicemente
ammassate l’una sull’altra, centinaia di libri impilati senza alcuna cura o
sparpagliati sul pavimento… sembrava che un globo di mutavitrum fosse
esploso dentro la biblioteca di un ubriaco. Lungo una parete c’era una fila
di armi da tutti gli angoli della Repubblica: una lama di solacciaio dei
Luminatii; un’ascia da battaglia vaaniana; un gladio a doppio filo da
un’arena di gladiatii; un fioretto d’acciaio liisiano. Tutte quante
scintillavano nella soffusa luce arkemica.
Seduto a una grossa scrivania di legno, quasi nascosto dietro una pila
ondeggiante di scartoffie, Mia vide il vescovo di Godsgrave, una penna
d’oca tenuta fra le dita segnate da macchie dell’età.
«Denti della Mannaia» mormorò. «… Mercurio?»
Il vecchio alzò gli occhi dalle sue carte e si spinse gli occhiali su per il
naso. La sua massa di folti capelli grigi sembrava più ribelle dall’ultima
volta che lo aveva visto, gli occhi azzurro ghiaccio circondati dal suo
perpetuo cipiglio. Era evidente che non dormiva a sufficienza da mesi.
«Bene, bene» sogghignò Mercurio. «Pensavo che fossi il Taciturno,
tornato a lamentarsi ancora. Come va, piccolo Corvo?»
Mia guardò il suo ex mentore con aria stupita.
«Cosa ’bisso ci fai qui?»
«Cosa cazzo ti sembra stia facendo?»
«Ti hanno fatto vescovo di Godsgrave?»
Mercurio scrollò le spalle. «Il vescovo Thalles è stato tolto di mezzo
quando i Luminatii hanno epurato la città. Per qualche strano motivo,
quegli stronzi non hanno mai attaccato il negozio di curiosità, ma non
potevo arrischiarmi a tornarci. Perciò, una volta ricostruita la Cappella,
lady Drusilla mi ha convinto a tornare in attività. Senza il negozio, non
avevo un cazzo da fare.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Eri a Galante. E in caso i tuoi fottuti occhi abbiano smesso di
funzionare, sono stato un tantino occupato. Dunque, senza altri preamboli,
Adonai mi ha inviato la missiva per avvertirmi che saresti arrivata. Tu sai i
particolari?»
Mia fu presa un po’ alla sprovvista. Mercurio non aveva mai davvero
superato il fatto che lei avesse fallito l’ultima prova. Anche se era sempre
stato affezionato a lei, sembrava comunque… deluso, in qualche modo.
Come tutti gli altri membri del Culto, il suo vecchio maestro sapeva come
portare rancore. Ciò la addolorava, certo: il vecchio l’aveva accolta e
aveva badato a lei per sei lunghi anni. Anche se non l’avrebbe ammesso
con nessuno, amava quel vecchio bastardo.
Tuttavia lei era una Lama e lui adesso era il suo vescovo, e quel tono le
ricordò bruscamente dove si trovava. Mia tirò fuori la custodia della
pergamena che Solis le aveva dato. Era di cuoio, perciò poteva attraversare
il Cammino del Sangue: nulla in cui non avesse mai pulsato la vita poteva
viaggiare tramite la magika di Adonai. Mia osservò Mercurio srotolare la
pergamena ed esaminarla a occhi stretti.
«La Domina» mormorò.
«Quella che capeggia i Damerini» replicò Mia. «Gironzolano per la
Baia dei Macellai.»
Il vescovo annuì, poi prese lo schizzo che raffigurava il bersaglio di Mia.
Mostrava una donna con un cipiglio cupo e occhi ancora più scuri.
Indossava una redingote dal taglio elegante e aveva i capelli acconciati in
boccoli artistici, com’era la moda tra le nobildonne midollane nelle
stagioni recenti. Sull’occhio destro aveva fissato un monocolo (Mia pensò
che fosse una cosa piuttosto ridicola).
Mercurio lasciò cadere la pergamena sulla scrivania.
«Un peccato seppellire un coltello così affilato.» Il vecchio prese una
lunga sorsata del suo tè. Da quella breve distanza, Mia poteva fiutare che
conteneva aureovino. «Bene. I particolari sono dettagliati e sai dove
cominciare a cercare. Hai otto cambi per eliminarla e sgraffignare questa
mappa, e la clessidra sta scorrendo. Cosa ti serve da me?»
«Un posto per dormire. Mutavitrum. Armi. Una Mano che conosca
’Grave tanto quanto me e che possa muoversi alla mia stessa velocità.»
«Hai la tua Mano: si trova proprio dietro di te.»
Mia si voltò a guardare Jessamine. Poi si girò di nuovo verso il vecchio
Mercurio. Il vescovo ovviamente era all’oscuro della rivalità tra le due
ragazze, e tirarla in ballo sembrava una cosa davvero meschina. Ma Mia si
fidava di Jessamine come del fatto che i soli non brillassero, e le piaceva la
sua compagnia allo stesso modo in cui agli eunuchi piace guardare
litografie oscene.
“Come sollevare la questione…”
«Forse c’è qualcuno con maggiore… esperienza?»
Mercurio scrutò Mia da sopra gli occhiali con espressione amareggiata.
«Lama Mia. Godsgrave è l’unica Cappella della Chiesa Rossa che
siamo riusciti a ricostruire negli otto mesi successivi all’attacco dei
Luminatii. Grazie al Gran cardinale Duomo e a quei fanatici religiosi dei
suoi leccapiedi, io sono uno dei due soli vescovi in carica nell’intera fottuta
Repubblica, in effetti. E con Scaeva che sta servendo un quarto mandato
come console e tutta la politica di Godsgrave in agitazione, non c’è fine ai
bastardi da uccidere. Perciò, dal momento che sono più indaffarato di un
bordello che fa una promozione due per uno, fammi l’onore di dire grazie e
di prendere quello che ti viene dannatamente concesso.»
Mia guardò il suo ex mentore negli occhi. Riconobbe il suo tono: era lo
stesso che usava quando lei era una ragazzina e lui la beccava a rubare i
suoi sigaretti. Lanciò un’occhiata dietro di sé verso Jessamine, poi sospirò
piano.
«Grazie, vescovo.»
«È un fottuto piacere.»
«Che la Ma…»
«Sì, sì, baci neri per tutti. Ora smamma, dài.»
Mia uscì indietreggiando dalla stanza con un inchino, cercando di non
prendere troppo sul personale l’umore di Mercurio. Era sempre stato un
acido vecchio bastardo, e gestire la Cappella di Godsgrave in un momento
come questo non poteva avere un buon effetto sul suo atteggiamento.
Jessamine condusse Mia lungo un passaggio tortuoso e lei la seguì da
presso. Una volta che furono decisamente fuori dalla portata d’udito del
vescovo, Mia prese la Mano per il braccio e la fece voltare verso di lei.
«Avremo problemi, tu e io?»
«Cosa intendi, Corvere?»
«Intendo che non è un segreto che ci odiamo come fottuto veleno. Ma
ora sei la mia Mano. Devo potermi fidare di te, Jess.»
Gli occhi verdi della rossa scintillarono quando parlò.
«Tu non mi piaci, Corvere. Ti ritieni scaltra. Pensi di essere speciale.
Hai avvelenato Diamo e mi hai ingannato facendomi perdere il mio posto in
cima a Canti. Ma io servo la Madre, servo il Culto, proprio come te. Non
mettere più in dubbio la mia devozione.»
La rossa si voltò e si avviò nell’oscurità.
Le ombre ai piedi di Mia si incresparono e udì un sussurro freddo
nell’orecchio.
«… hai sempre avuto un talento per farti degli amici…»
«… BE’, A ME PIACI, SE CONTA QUALCOSA …»
«… ringrazio la madre di non essere realmente in grado di vomitare…»
«… STAI ZITTO …»
«… che risposta arguta…»
«… L’ARGUZIA È SPRECATA CON I TONTI …»
«Avete finito?» chiese Mia.
«… cagnaccio…» giunse un basso sussurro.
«… BASTARDO …» fu la risposta ancora più bassa.
Mia incrociò le braccia, tamburellando il piede sulla pietra. Il silenzio
calò sul corridoio, interrotto solo dai passi di Jessamine che si
allontanavano.
«Sbrigati, Corvere» la chiamò la Mano. «Non abbiamo tempo da
perdere.»
Infilando i pollici nella cintura, Mia non ebbe altra scelta tranne seguire
Jessamine lungo il corridoio.

“Tenebris…”
Mia fissò il gladiatii di nome Furian dal lato opposto del cortile. L’uomo
incontrò il suo sguardo, la brezza calda che gli soffiava i lunghi capelli scuri
attorno alla faccia. Quegli occhi ardenti la penetravano con un’intensità
che…
Be’, a dire la verità, senza Messer Cortese al suo fianco, quell’intensità
la spaventava.
Ma Madre Nera, cosa poteva voler dire? Mia aveva incontrato solo uno
della sua specie, prima d’ora, e lord Cassius era morto prima di darle
risposte su chi o cosa fosse. Forse Furian sapeva qualcosa di più? Forse
aveva tutte le veri…
L’executus fece schioccare la sua frusta.
«Gladiatii! Tornate a addestrarvi!» Si voltò verso Mia, Sidonius e
Matteo. «Voi tre. Con me.»
I gladiatii ruppero le righe e si disposero su una formazione perfetta,
marciando lungo il cortile verso il retro dell’edificio. L’executus li seguì
zoppicando, appoggiandosi al suo bastone con la testa di leone. Mentre Mia
gli andava dietro, lo vide prendere un sorso da una fiasca metallica alla
cintura.
Nel cortile posteriore, dove una volta il padre di Mia teneva una stalla di
cavalli orgogliosi, lei vide che il terreno era stato completamente
ristrutturato. Le sabbie color ocra erano piene di fantocci da addestramento,
rastrelliere di scudi e armi di legno. Il terreno era irregolare, lo spazio
suddiviso tra livelli diversi da ponteggi e buche, da dieci piedi di altezza a
dieci di profondità. Un ampio cerchio era contrassegnato da pietre bianche,
e gli emblemi della Familia Remus sventolavano fieri sui bastioni.
I gladiatii si divisero a coppie per esercitarsi. Mia vide diverse
combinazioni di armi, vari stili di combattimento. La ragazza vaaniana
impugnò un arco di legnoferro e cominciò a crivellare bersagli all’altro lato
del cortile. Furian prese delle spade gemelle e iniziò a percuotere uno dei
fantocci da addestramento come se quello avesse insultato sua madre.
L’executus zoppicò fino alla veranda, salutando un grosso cane seduto
all’ombra. Era un mastino, maschio, con la pelliccia scura e un collare
borchiato. Il cane era evidentemente entusiasta e l’omone si inginocchiò
con un sussulto per permettere che gli slinguazzasse la faccia.
«È bello rivederti, vecchio amico» mormorò, accarezzando il cane. «Hai
fatto la guardia al collegio mentre ero via?»
Mia e i suoi compagni sudavano ai soli ardenti mentre l’executus finiva
di fare le coccole al cane. Era la prima volta in un mese che vedeva quel
bastardo sorridere, anche se con quella cicatrice che gli deturpava la faccia
era difficile capirlo. Una volta terminate le effusioni, l’executus zoppicò nel
cerchio di pietra e schioccò le dita.
«Verme» sbraitò. «Spada e scudo.»
Mia notò un movimento con la coda dell’occhio e vide una ragazzina
schizzare fuori dall’ombra di un piccolo edificio a un angolo del cortile. Era
Liisiana: ossuta e abbronzata, con capelli scuri arruffati. Non poteva avere
più di dodici anni, ma tre cerchi arkemici le marchiavano la guancia,
contrassegnandola come una schiava del livello più alto.
“Per quale capacità è tanto preziosa una bambina così giovane?”
La ragazza corse alle rastrelliere delle armi, prese una lama di legno da
esercitazione e un ampio scudo di quercia e li portò all’executus. L’omone
puntò la lama verso Matteo.
«Vieni. Mostrami di che pasta sei fatto, ragazzo. Verme, porta al
novellino un cazzo e qualcosa dietro cui nascondersi.»
La ragazza annuì, corse di nuovo alle rastrelliere e tornò con un’altra
spada e un altro scudo. Matteo si preparò a lottare, adottando una posa di
combattimento quasi decente.
«Attacca!» ruggì l’executus.
Matteo agitò la sua lama di legno con un urlo, ma l’executus parò
l’attacco con facilità.
«Non ho chiesto un fottuto bacio. Ho detto attacca!»
Il ragazzo si accigliò e lanciò una serie di colpi diretti a testa, petto e
pancia dell’avversario. L’executus era forte come un toro, ma si muoveva
lento su quella sua gamba di ferro, e i movimenti di Matteo si rivelarono
sorprendentemente buoni. Il ragazzo spinse indietro l’uomo più vecchio,
spada che impattava contro spada, polvere che si sollevava dai loro scudi
quando cozzavano. Mia notò che i gladiatii stavano combattendo
svogliatamente, osservando lo scambio con interesse.
Matteo diventò più aggressivo: come Mia, era evidente che si era
aspettato che l’executus fosse un maestro spadaccino. Ma di fronte agli
attacchi furibondi del ragazzo, l’uomo si mise in difesa totale. Matteo
assestò un colpo dopo l’altro contro la guardia dell’uomo, prevalendo in
modo completo finché l’executus non fu spinto contro il limite del cerchio.
E allora, come un orso risvegliato troppo presto dal suo letargo, il
vecchio gladiatii si destò.
Spostò il peso dal piede posteriore a quello anteriore in un batter
d’occhio, muovendosi in modo rapido e aggraziato malgrado la gamba di
ferro. E nel giro di pochi secondi aveva sbattuto via la spada dalla mano di
Matteo, gli aveva percosso la pancia con la lama e lo aveva lasciato steso
nella polvere.
L’executus torreggiò sopra il ragazzo ansimante; sulla sua fronte, solo
una sottile patina di sudore.
«Cos’hai imparato?»
Matteo si tenne la pancia dolorante, troppo privo di fiato per parlare.
«La sabbia non è posto da attaccabrighe» disse l’executus, la cicatrice
increspata in un cipiglio. «È una scacchiera. E su di essa partecipiamo al
gioco più importante di tutti. Un avversario scaltro può simulare debolezza.
Consentirti di sfogarti e apprendere i tuoi movimenti, tutto senza versare
una goccia di sudore. La presunzione è stata la fine di migliaia di folli che si
facevano chiamare gladiatii. Ricordatelo, o sarà anche la tua fine. Ora
togliti dalla mia fottuta sabbia.»
L’executus si voltò verso Mia, puntando la sua lama di legno.
«Tu sei la prossima, ragazza. Mostrami quanti di quei mille preti vali.»
La ragazzina di nome Verme porse a Mia una lama da addestramento e
uno scudo con un sorriso timido. Ma Sidonius ghermì l’arma dalla mano
della piccola e spostò Mia con uno spintone.
«Vaffanculo» ringhiò. «Nessuna cagna mette piede sulla sabbia prima di
me.»
Forse era per via del caldo o delle tre settimane passate a subire angherie
da parte di quell’uomo in mare. Forse fu per la sua collera leggendaria che
stava per uscire a giocare senza Messer Cortese a tenerla a bada, oppure a
causa degli occhi scuri di Furian che la stavano seguendo nel cortile.
Qualunque fosse il motivo, Mia si ritrovò le mani sulle spalle di Sidonius e
il ginocchio sepolto tra le sue palle.
«Sono una cagna, eh?» sussurrò.
Sidonius strabuzzò gli occhi mentre si piegava in due. Mia intrecciò le
dita dietro la sua testa e gli calò la faccia contro il ginocchio. Fu sopra di lui
in un attimo, martellandogli la mascella di pugni, i denti serrati, sangue
nella sua…
Crac!
La frusta incise una linea dolorosa sulle sue scapole. Un altro colpo la
fece balzare via con un rantolo, a contorcersi fuori dalla sua portata. Una
risata risuonò tra i gladiatii presenti. L’executus la guardò torvo, la frusta
srotolata in mano.
«Quella che hai appena danneggiato è la proprietà della tua Dominatii.
Se ora dovesse cadere nella Sfrondatura, le ripagherai tu la perdita della sua
vita?»
Mia si sfregò la frustata sulla schiena, ringhiando. «Nessun uomo può
parlarmi in quel modo.»
«Lui non è un uomo!» sbraitò l’executus. «È uno schiavo. Come te. Ed
entrambi dimenticate il vostro posto. Finché non sopravvivrete alla
Sfrondatura nel prossimo venatus, siete meno di niente. Ora raccogli quelle
armi e mostrami un briciolo di quella promessa che la tua Dominatii vede in
te, prima di mettere davvero a dura prova la mia pazienza.»
La ragazzina chiamata Verme aiutò Sidonius a rialzarsi e, con mani
gentili, lo condusse fuori dal cerchio. L’executus arrotolò la frusta alla sua
cintura, poi prese un altro sorso della sua fiasca mentre Mia raccoglieva
spada e scudo, scura in volto. La furia ardeva nella sua pancia, i denti erano
serrati con forza. Mia riusciva a percepire Furian che la osservava con
quegli occhi scuri scintillanti, provando fame e nausea nelle proprie viscere.
E, senza una parola, colpì.
I suoi attacchi erano aggressivi, accecanti. Danzava sulle sabbie ocra,
scivolava tra i colpi dell’executus. Ma durante il suo addestramento nella
Montagna, aveva passato gran parte del suo tempo a imparare lo stile
Caravaggio, combattendo con una spada in ciascuna mano. Era improbabile
che una Lama della Madre se ne andasse in giro con un grosso, dannato
scudo fissato al braccio, perciò in tutto il tempo trascorso lì, Mia non aveva
mai imparato a usarne uno.
Era peso morto. Ogni impatto le scuoteva il gomito, la spalla. E disperata
com’era di dare prova di sé, era comunque abbastanza consapevole da
sapere che l’executus stava giocando con lei. Lasciava che schivasse,
zigzagasse e si stancasse ogni momento che passava, studiando nel
frattempo i suoi schemi e preparandosi al colpo letale.
Ma lei non era un inutile sacco o fantoccio da addestramento. Che fosse
dannata se avesse permesso che la trattassero come tale. E così, cercando di
mostrare a quest’uomo di cos’era davvero capace, strinse gli occhi e si
protese verso l’ombra ai suoi piedi.
Nessuno l’avrebbe notato: l’ombra dell’executus si increspò appena. Mia
non riuscì ad afferrare per bene la gamba di ferro: i soli qui erano troppo
luminosi, la sua stretta sulle ombre troppo debole. Ma tenne con forza
sufficiente la suola del suo stivale, proprio come aveva fatto nella Fossa e
nella Montagna almeno cento volte. L’executus sgranò gli occhi quando la
sua posizione venne meno. Mia mirò alla sua gola, serrando la stretta sulle
ombre e concentrata sul pensiero di insegnare il suo valore a quest’uomo
che la riteneva meno di nulla.
E poi perse la presa.
Le ombre scivolarono via dalla sua stretta come sabbia tra le dita,
liberando il piede dell’uomo. L’executus le sbatté in faccia lo scudo,
facendola barcollare all’indietro. Mia cercò di ruotare di lato, lanciando un
grido di dolore quando la spada dell’uomo la colpì alla schiena, gettandola
nella polvere. La lama di legno si abbatté accanto alla sua testa quando
rotolò da una parte e lanciò una manciata di terra in faccia all’executus. Ma
lui sollevò lo scudo con noncuranza, rispondendo con un calcio violento di
quella gamba di ferro, dritto nella sua pancia.
Mia si piegò in due e vomitò, accecata dal dolore. L’executus conficcò la
spada da addestramento nella sabbia accanto alla sua testa, la fissò dall’alto
in basso e ringhiò.
«Mille pezzi d’argento? Io non ne avrei pagato nemmeno uno.»
Mia si rimise in ginocchio artigliando il terreno, con i capelli impolverati
che si attaccavano al vomito che aveva sul mento. Gli altri gladiatii la
ignorarono con ghigni sulle labbra, tornando al loro addestramento. Mia si
tolse lo scudo dal braccio e sputò sangue nella polvere.
«Ancora» pretese.
«No» disse l’executus. «Volevo una valutazione. E ora ne ho a badilate.
Vai a lavarti la sconfitta. Si sta facendo tardi. Il tuo addestramento comincia
domani.»
Matteo venne avanti lentamente e aiutò Mia a rialzarsi. Mettendosi in
piedi con un sussulto, lei guardò per il cortile polveroso, la rabbia che le
ardeva dentro. Era riuscita ad afferrare il piede dell’executus, l’aveva stretto
per bene. Era un trucco che aveva eseguito innumerevoli volte: avrebbe
dovuto riuscire a sconfiggerlo facilmente. Ma qualcosa… no, qualcuno, le
aveva sottratto il controllo delle ombre, facendo in modo che la sconfitta
fosse lei.
Furian stava facendo volar via l’imbottitura dal suo povero fantoccio da
addestramento e alzò lo sguardo, il sudore che scintillava sul suo volto
piacente. Lunghi capelli scuri sventolavano nella brezza calda. Il torque
d’argento brillava. Fissò gli occhi scuri su di lei.
«Bastardo» bisbigliò Mia.
L’Imbattuto tornò al suo addestramento senza un’altra occhiata.
CAPITOLO 8
PREGHIERE

«Be’, questo non sarà facile.»


Mia prese una lunga tirata del suo sigaretto, guardando giù verso la
casa di piacere dalla loro stanza nella locanda di fronte. Jessamine era alla
finestra accanto a lei, e osservava la porta del bordello a occhi stretti.
«Ti aspettavi che il capo di una banda di braavi camminasse
semplicemente per la strada con una mappa in mano per potersi far
infilzare dalla tua spada, Corvere?»
«So più di chiunque altro quanto ami il sarcasmo, Jessamine» sospirò
Mia. «Ma siamo rintanate in questa stanza da una settimana, e un cambio
di tono sarebbe gradito.»
«… be’, forse potremmo litigare fino a domattina e mancare
completamente la nostra opportunità…?»
Mia lanciò un’occhiata a Messer Cortese, che si leccava la zampa
trasparente sul letto.
«I tuoi commenti sono sempre apprezzati.»
«… ed elargiti gratuitamente…»
«Sei un coglioncello, lo sai?»
«… oh, lo so benissimo…»
Erano passati sette cambi da quando era arrivata nella città di ponti e
ossa, e l’unica cosa a impedire che la pancia di Mia si dissolvesse in una
pozza di nervi erano i passeggeri che viaggiavano nella sua ombra.
Chiedendo in giro nei posti che lei bazzicava un tempo a Piccola Liis, Mia
e Jessamine avevano rintracciato il loro obiettivo dopo un cambio: il covo
dei Damerini era noto a molti dei malviventi che popolavano Piccola Liis.
Ma trovare dov’erano rintanati non era un problema. L’enigma era come
avrebbe fatto a entrare.
La fortezza dei Damerini era un palazzo di cinque piani ben arredato,
chiamato la Cena del Cane. I livelli inferiori sembravano una taverna come
tante altre, piena di gente e di canzoni oscene. Il secondo piano sembrava
un covo di inchiostrambi, e gli ultimi due erano un bordello. Bruti grossi
quanto piccole case sorvegliavano le porte principali, con costose
redingote e parrucche incipriate che non riuscivano a nascondere le
cicatrici sulle loro facce o i muscoli sotto il tessuto. Anche se non c’era
alcun segno che distinguesse l’edificio da quelli vicini, questo era territorio
di braavi, e la gente del luogo sapeva con esattezza cosa accadeva dietro
quelle porte. a
La loro ricognizione era andata alla perfezione: poter inviare due fili di
ombre viventi nell’edificio ad ascoltare ogni conversazione ed esaminare
ogni anfratto implicava che sapevano tutto ciò che sarebbe successo quella
sera. Ma ciò non voleva dire che portare a termine l’operazione sarebbe
stato facile.
Mia avvertì un fremito nella sua ombra, il bacio di una brezza fresca.
Eclissi prese forma dall’oscurità ai suoi piedi, scuotendosi dalla testa alla
coda.
«Novità?» chiese Mia, il sigaretto che le ballonzolava sulle labbra.
«… LEI È AL PIANO PIÙ ALTO, L’UFFICIO ALL’ANGOLO. HA PASSATO IL
CAMBIO DANDO ORDINI, BEVENDO, FUMANDO E FACENDO MOLTO SESSO …»
«Il lavoro migliore che si possa avere» disse Jess.
«La mappa deve ancora essere consegnata qui?» chiese Mia.
«… L’ARRIVO DEL VENDITORE È PREVISTO ENTRO LA PROSSIMA ORA. LO
SCAMBIO AVVERRÀ NELL’UFFICIO DELLA DOMINA …»
«Perciò abbiamo due alternative» borbottò Mia. «O intercettiamo la
mappa prima che arrivi e uccidiamo la Domina in seguito, oppure
aspettiamo il venditore e li ammazziamo tutti e due assieme.»
«… NON SAPPIAMO CHE ASPETTO ABBIA IL VENDITORE …»
«Presumibilmente un bastardo sfuggente che porta la custodia di una
mappa.»
«… comunque sia dovresti entrare in quell’ufficio per eliminare la
domina…»
«E qui sta il problema.»
«Riusciresti a intrufolarti dentro?» propose Jessamine. «Nascosta nelle
tue ombre, magari.»
Mia scosse il capo. «Non riesco a vedere un bel niente lì sotto.
Brancolare in giro cieca dentro un covo di braavi sembra un ottimo modo
per prendersi una spada tra le tette. E la Tessitrice ha fatto un lavoro
particolarmente buono con queste due. Sarebbe un peccato rovinarle.»
Jessamine osservò l’altro edificio a occhi stretti.
«Potresti lanciare un uncino da questo tetto al palazzo vicino. Saltare il
vicolo, introdurti attraverso il tetto della Cena e scendere giù.»
«È il fine settimana. Ci sono molte persone in strada. Se una guarda in
alto…»
«La porta principale, allora?»
Mia guardò la strada di fuori, borbottando: «Sono pessima, con la porta
principale».
«… stai migliorando…»
«Bugiardo.»
«… oh, donna di poca fede…»
«La fede non ha mai impedito a un uomo che annaspava di affogare.»
Mia prese una lunga boccata del suo sigaretto. «Ma in effetti non abbiamo
molte alternative.»
«… potremmo restare quassù tutta l’illuminotte a farci le trecce e parlare
di ragazzi…»
«… DEVI SEMPRE FARE LO SCEMO, MICETTO …?»
«… fa parte del mio fascino…»
«… DEV’ESSERE UNA NUOVA DEFINIZIONE DI FASCINO CON CUI NON HO
FAMILIARITÀ …»
«Se voi due avete finito,» ringhiò Mia «andate a montare la guardia,
eh?»
Un vuoto la riempì quando i passeggeri se ne andarono, sostituiti dalle
farfalle. Mia cercò di mettere a tacere i nervi, fissando il covo dei braavi e
domandandosi cosa la attendesse lì. Un combattimento in un ambiente
ristretto. Una locanda piena di criminali incalliti. E chiunque stesse
vendendo la mappa, difficilmente non avrebbe portato con sé la propria
scorta. Le probabilità non erano a suo favore.
Mettendo da parte le domande e con l’avvertimento di Adonai che le
risuonava nella testa, spense il sigaretto sotto il tacco.
«Bene» disse. «Mi serve un abito lungo.»
Mia attraversò la strada affollata come se fosse sua, passando sul selciato
dissestato fino alla porta della Cena del Cane. b
Era scesa l’illuminotte e il vento ululava lungo l’ampia strada. Una
tempesta improvvisa era arrivata dall’oceano rovesciando sulla città una
pioggia tiepida in scrosci sottili, i due soli nascosti dietro una maschera di
grigio. Ma il tempo inclemente di rado era un motivo per indurre gli
abitanti di Godsgrave a rimanere in casa il fine settimana, e le strade erano
piene di gente diretta a fare baldoria.
Piccola Liis era una delle parti più squallide di ’Grave, ma i Liisiani
avevano il loro fascino e, quando Mia aveva vissuto qui da ragazzina,
aveva sempre trovato stupendi i colori e gli stili dei loro abiti. Le
ricordavano sua madre, a dire la verità, e qualcosa nella musica e negli
aromi di questo posto faceva appello al sangue nelle sue vene. Il suo vestito
era stato rubato dal guardaroba della Cappella per permetterle di
confondersi tra la gente del luogo: brache di cuoio e stivali al ginocchio;
un corsetto sopra una camicia di velluto, un girocollo scintillante, tutti di
varie tonalità rosso sangue. Se fosse stata assassinata con quegli abiti,
almeno il suo cadavere avrebbe avuto un aspetto elegante.
Da vicino, gli uscieri sembravano ancora più minacciosi. Erano sotto la
copertura del tendone anteriore della Cena, ma entrambi sembravano un
po’ umidi e decisamente imbronciati. Il gentiluomo sulla sinistra era largo
quasi quanto era alto, e il suo compagno sembrava aver mangiato i propri
genitori per colazione.
Largone alzò una mano, arrestando Mia. «Ferma lì, Mea Domina.»
«Felice illuminotte, miei adorati gentiluomini» sorrise Mia,
inchinandosi in una piccola riverenza.
«Non puoi entrare qui dentro» disse Orfanello, scuotendo il capo.
«Niente marmaglia» concordò Largone.
Mia abbassò lo sguardo sui propri abiti e parlò con tono lievemente
offeso. «Marmaglia?»
Quattro marinai ubriachi che si sarebbero seduti comodamente accanto
alla definizione di “marmaglia” nel libro più venduto di Dominus Fiorlini,
Dizione itreyana: la guida definitiva, si avvicinarono alla porta.
«Buonasera, gentili amici» disse Largone. «Benvenuti, benvenuti.»
L’uomo aprì le porte e dall’interno provenne un suono di flauto e di
risate; i marinai entrarono senza un’occhiata alle spalle.
Mia rivolse un sorriso tenero a Largone. «Ho degli amici che mi
aspettano den…»
«Non puoi entrare qui dentro, stasera» disse l’omone.
«Non serviamo le persone come te» concordò Orfanello.
«… Come me?»
I malviventi grugnirono e annuirono all’unisono.
«Fatemi capire bene» disse Mia. «Siete una banda di ladri, papponi,
estorsori e omicidi. E state dicendo a me che io non vado bene per questo
posto?»
«Già» disse Largone.
«Smamma» fece seguito il suo compagno.
Mia si aggiustò il corsetto con il gesto più plateale possibile. I due
braavi la fissarono senza battere ciglio. Infine lei incrociò le braccia e
sospirò. «Quanto volete?»
Orfanello strinse gli occhi. «Quanto hai?»
«Due preti?»
L’usciere guardò su e giù lungo la strada, poi annuì. «Dammeli, allora.»
Mia frugò nel borsello e gettò un pezzo per uno ai buttafuori. L’argento
scomparve nelle loro tasche più rapido di un’oncia di tabacco nella pipa di
un fumatore incallito in un giorno di paga.
Mia fissò i due, sollevando le sopracciglia.
«Non puoi entrare stasera» disse Orfanello.
«Non serviamo le persone come te» concordò Largone.
I due si fecero da parte per un secondo gruppo di festaioli (portavano
con sé un cartello stradale e una pecora dall’aria piuttosto impensierita),
che li salutarono mentre entravano. Tutti quanti erano uomini. Sbirciando
all’interno, Mia vide che anche ogni altro avventore era un maschio. E da
qualche parte nella sua testa, la Comprensione inclinò il cappello verso di
lei.
«Ohhh» disse. «Giuuusto.»
«Giusto» disse Largone.
Orfanello si grattò il mento e annuì con aria saggia.
«Bene» disse lei.
«… Bene cosa?»
«Bene, posso avere indietro il mio denaro?» chiese la ragazza.
«Sei terribile, in queste cose» disse Largone.
«Davvero pessima» concordò Orfanello.
Mia fece una smorfia. «Messer Cortese ha detto che stavo migliorando.»
«Chiunque sia Messer Cortese, è un fottuto bugiardo.»
I buttafuori incrociarono le braccia come un paio di ballerini
sincronizzati.
Mia sospirò. «Lieta illuminotte, miei adorati gentiluomini.»
E, con un altro inchino, si allontanò nella pioggia.

«Non dire una fottuta parola» ammonì Mia.


Era accovacciata su un tetto di fronte alla Cena, fissando un balcone al
terzo piano. Il non-gatto era seduto accanto a lei, la coda che ondeggiava
da un lato all’altro.
«… considerando la tua infanzia, non c’è da meravigliarsi che ti
manchino le capacità per socializzare…»
«Non. Una. Fottuta. Parola.»
«… miao…»
«… TECNICAMENTE, QUELLA È COMUNQUE UNA PAROLA …» ringhiò
Eclissi.
«Già.» Mia sollevò un dito ammonitore. «Ancora una e inserirò
ufficialmente il tuo nome nel Libro dei Rancori.»
Messer Cortese sollevò una zampa trasparente e se la mise sopra il
punto dove si sarebbe potuta trovare la sua bocca. La pioggia cadeva
ancora, tiepida e umida sulla pelle di Mia. Jessamine terminò di legare una
corda di seta a un rampino di ferro e la porse servizievolmente alla sua
Lama.
«Non dimenticare la mappa» le rammentò la rossa. «E aspetta finché
non sarò giù in strada prima di partire: nessuno guarderà in alto, se
staranno guardando me.»
«Lo so. È stata una mia idea, Jess.»
«Anche quelle brache sono state una tua idea?» Jessamine squadrò Mia
dall’alto in basso. «Perché non stanno facendo alcun favore al tuo sedere.»
«Oh, smettila, ho paura che mi si romperà la pancia dalle risate.»
«È proprio…»
«Proprio quello che hanno detto le brache?» Mia roteò gli occhi. «Sì, sì.
Brava, Mea Domina.»
«Ti aspetterò qui sul tetto quando uscirai. E cerca di non farti
ammazzare, eh?» la avvisò Jess. «Sarei davvero delusa se non potessi
occuparmene io stessa.»
Mia le mostrò le nocche. La rossa sogghignò, poi scese per le scale
senza ulteriori insulti. La folla si era diradata a causa della pioggia, ma
c’erano gentiluomini che stavano ancora uscendo dalla Cena e altri che
barcollavano a casa dopo un’allegra illuminotte. Mia osservò Jessamine
attraversare la strada diretta verso un giovane uomo che stava appena
lasciando la casa di piacere.
«Tuuu bastardo!» urlò la ragazza, puntandogli in faccia un dito
accusatore.
«Eh?» disse il giovane, sorpreso.
«Mi hai detto che andavi da tua cugina!» urlò Jessamine. «Invece eccoti
qua, a bere e ad andare a puttane alle mie spalle!»
Il gentiluomo in questione si accigliò, confuso. «Mea Domina, io non…»
«Non osare chiamarmi “Mea Domina”!» Jessamine si avvicinò con
l’aria di essere davvero fuori dai gangheri. «È questo l’esempio che vuoi
dare al nostro bambino? Oh, Quattro benedette Figlie, perché non ho dato
ascolto a mia madre? Mi aveva avvertito su di te!»
I festaioli e i buttafuori braavi osservarono mentre Jess si lanciava in
un’invettiva feroce e il tizio a cui stava strepitando riusciva a stento a dire
una parola ogni tanto. E con tutti gli occhi fissi sulla povera amante tradita
e sul suo bello ubriaco, Mia colse l’opportunità.
Lanciando l’uncino per quindici piedi, riuscì a impigliarlo nella
ringhiera di ferro battuto e lo legò stretto dal suo lato. Era un tuffo di
quattro piani fino a una morte appiccicosa sul selciato sottostante, e la
ringhiera era scivolosa per la pioggia. Tuttavia, rapidissima, si mosse nel
vuoto tra gli edifici e cominciò l’attraversamento.
Impavida.
Raggiunto il tetto del bordello accanto alla Cena, scrutò oltre una
ciminiera e non fu del tutto sorpresa di trovare due braavi dall’aria infelice
sotto un unico ombrello, a sorvegliare la porta sul tetto. Mia era certa di
poterli colpire entrambi con il mutavitrum bianco che aveva nel borsello:
scagliare i globi arkemici ai piedi degli uomini avrebbe prodotto una nube
di Deliquio grande abbastanza da far perdere i sensi a entrambi. Ma il
mutavitrum emetteva un boato notevole quando scoppiava, e il rumore
poteva far scattare un allarme.
«… mpfglm…» disse Messer Cortese.
«Cosa?»
«… HA DETTO MPFGLM …»
«Figlie, d’accordo, d’accordo, puoi parlare.»
Il non-gatto si schiarì la gola.
«… qual è la stanza della domina…?»
Eclissi indicò con un cenno le finestre all’angolo del piano più alto. Le
tende erano tirate, nessun segno di cosa potesse accadere all’interno.
«… AVEVA CINQUE UOMINI LÌ DENTRO, L’ULTIMA VOLTA CHE HO
GUARDATO …»
«Non mi piace l’idea di fare irruzione alla cieca» borbottò Mia. «E la
mappa potrebbe non essere ancora qui.»
«… e se cominciassi dal covo degli inchiostrambi, poi salissi e ti
nascondessi finché non arriverà…?»
«Suona sospettosamente simile a un piano.»
Mia si lasciò cadere su uno stretto davanzale al secondo piano del
bordello e balzò oltre il varco zuppo di pioggia fino al balcone della Cena.
Aspettando un istante per sentire se provenisse qualche rumore
dall’interno, sbirciò attraverso la toppa nella camera da letto. Quattro
figure in vari stadi di nudità erano addormentate in un intrico di arti su un
letto a baldacchino, con aghi di inchiostro vuoti sulle pellicce accanto a
loro. Dormivano della grossa.
Silenziosa come le ombre, Mia recuperò i suoi grimaldelli dal tacco
dello stivale, poi sussurrò parole dolci alla porta del balcone e si intrufolò
all’interno. I quattro non si riscossero dai loro sogni d’inchiostro. Mia si
scrollò di dosso la pioggia e stava superando furtiva il letto quando udì
qualcuno bussare piano alla porta. Attraversò la stanza in un lampo,
nascondendosi dietro l’uscio mentre quello si apriva piano.
«Servizio?» disse una voce giovane. «Mei Domini? Ho la vostra
dolceacqua.»
Entrò una ragazza con una maschera dorata da cortigiana sulla faccia.
Sembrava a malapena adolescente, ma era vestita come una donna, taffettà
nero riccio e chiffon economico. Portava un vassoio d’argento con quattro
calici raffinati e una caraffa di liquido azzurro mare. Abbassò la voce
quando vide gli inchiostrambi addormentati sul letto, poi si voltò per
chiudere la porta e tacitare i festeggiamenti da basso.
Un fulmine lampeggiò nel cielo lì fuori. Una mano si allungò dietro la
ragazza, a reggere il suo vassoio. L’altra si posò sulla sua bocca.
«Ora zitta» sussurrò Mia.
La giovane rimase immobile come una statua in Via del Tiranno.
«Non voglio farti del male, amore» disse Mia. «Hai la mia parola.
Toglierò la mano se prometti di non urlare, va bene?»
La ragazzina annuì, il petto che si gonfiava. Mia tolse lentamente la
mano dalle sue labbra e fece un passo indietro, l’altra sulla sua spada di
necrosso. La giovane si voltò lentamente, poi la squadrò dall’alto in basso
– le lame, il nero, lo sguardo – e il suo respiro accelerò quando si rese
conto del motivo per cui Mia si trovava lì. Lanciò un’occhiata verso il letto,
cercando segni di omicidio.
«Non sono qui per loro» promise Mia.
«Sei… qui per me?»
Mia la esaminò: scollatura bassa, il bustino stretto forte, la maschera
dorata. Una donna con il doppio dei suoi anni si sarebbe potuta trovare a
suo agio con un abbigliamento del genere. Avrebbe potuto bearsi del potere
che dava. Ma questa era poco più di una bambina.
… Poco più di una bambina?
“Figlie, e io cosa sono?”
Sarebbe dovuta andarsene per portare a termine il suo compito, lo
sapeva. La Domina era di sopra, la mappa in arrivo, e Mia doveva
eliminare una e rubare l’altra entro l’indomani. Ma c’era qualcosa in
questa ragazza. Era solo una delle dozzine che lavoravano tra queste mura.
Lei sarebbe potuta finire in un posto del genere se Mercurio non l’avesse
trovata? Se la sua vita fosse stata diversa solo di poco?
Era debolezza, e lei lo sapeva. Doveva essere acciaio. Eppure…
«Quanti anni hai?» chiese involontariamente.
«Quattordici» rispose la ragazza.
Mia scosse il capo. «È questo che vuoi?»
Lei sbatté le palpebre. «Cosa?»
«È questo che sognavi di essere?» chiese Mia. «Quando eri più
giovane?»
«Io…» Gli occhi della ragazza erano fissi sulla spada che Mia aveva
alla cintura. La sua voce divenne fredda, deridendo se stessa. «Una volta
pregavo Aa di rendermi una principessa.»
Mia sorrise. «Nessuna di noi diventa una principessa, amore.»
«No» disse semplicemente la ragazza. «Purtroppo no.»
Il silenzio aleggiò nella stanza come nebbia mattutina. Mia rimase
semplicemente a fissarla, come faceva spesso, lasciando che fosse quel
silenzio a porre le domande al posto suo.
«Cavalli» disse infine la ragazza, strattonandosi il vestito più in alto.
«Una volta sognavo di lavorare con i cavalli. Il carro di un piccolo
mercante, forse. Qualcosa di semplice.»
«Sembra un bel sogno.»
«Avrei avuto uno stallone nero chiamato Onice» proseguì la ragazza. «E
una giumenta bianca di nome Perla. E avremmo cavalcato ogni volta che
soffiava il vento, senza nessuno a fermarci.»
«Allora perché non lo fai?»
La ragazzina si guardò attorno per la stanza e verso il bordello oltre la
porta. La luce morì negli occhi quando scrollò le spalle inerme. «Non ho
scelta.»
«Potresti scegliere i borselli che portano in vita.» Mia indicò il quartetto
di midollani sul letto a baldacchino. «I gioielli attorno alla loro gola.
Conosco un uomo chiamato Mercurio che vive nella necropoli. Se gli
dicessi che ti ha mandato Mia, potrebbe aiutarti a rimetterti in sesto.
Qualche posto con dei cavalli, forse. Qualche posto dove vorresti essere.»
Un’occhiata al piano di sopra. Paura negli occhi in ombra. «Mi
prenderebbero.»
«Non se sei veloce. Non se sei furba.»
Un tuono rombò dietro la finestra.
«Non lo sono» disse la ragazza.
«Quella che parla è Paura. Non darle ascolto. Paura è una codarda.»
La ragazza squadrò Mia dall’alto in basso, scuotendo la testa. «Io non
sono come te.»
Mia riuscì a vedere il proprio riflesso negli occhi della servitrice quando
il fulmine descrisse un arco nel cielo là fuori. L’incarnato pallido come
morte. Il necrosso al suo fianco. Ombre nei suoi occhi.
«Non sono sicura che tu voglia essere come me» disse. «Dubito solo che
questa» allungò la mano e slegò la maschera dorata «assomigli a te.»
La faccia dietro l’oro era esile. Aveva un vecchio livido sul labbro.
Occhi graziosi ma stanchi.
«Ma la scelta è tua. Sempre tua.»
La ragazza guardò gli inchiostrambi. Poi di nuovo gli occhi di Mia.
«Ce ne sono molti di sopra?» chiese lei.
La ragazza annuì. Si leccò il livido sulla bocca. «I peggiori.»
«Un pacco dev’essere consegnato qui stasera. Ne sai nulla?»
La ragazza scosse il capo. «Non mi dicono molto.»
Mia abbassò lo sguardo sui calici di cristallo, la caraffa e il vassoio
d’argento. Poi lo alzò di nuovo sulla ragazza e sui suoi occhi stanchi. Stava
fissando un borsello tra gli abiti sparpagliati degli inchiostrambi. Un
anello d’oro al dito di un altro.
«Come ti chiami?» le chiese Mia.
La ragazza sbatté le palpebre e tornò a guardarla. «Belle.»
«Potresti farmi un favore, Belle?»
Un’improvvisa cautela spuntò negli occhi della ragazza. «Che genere di
favore?»
Mia le girò attorno in un lento cerchio. Poi annuì, una volta sola.
«Posso prendere in prestito quel vestito?»

Mia e Matteo furono scortati dopo la loro sessione di esercitazione da due


guardie che indossavano il tabarro della Familia Remus. Fissando
l’emblema del falcone sui loro petti, Mia avvertì quella sensazione
irrequieta nel petto peggiorare. Sidonius uscì zoppicando da un’infermeria
sul retro della fortezza. Il suo naso era stato fissato con una stecca di legno
dopo il pestaggio di Mia, e aveva punti di sutura nuovi sulla fronte. La
ragazza chiamata Verme lo seguì, poi si diresse dal grosso mastino e lasciò
che leccasse il sangue dell’uomo dalle sue dita. Guardò Mia, regalandole
ancora quel piccolo sorriso timido.
Non sapendo cosa pensare con esattezza della ragazza e nonostante
l’amaro bruciore della sua sconfitta per mano dell’executus, Mia le sorrise a
sua volta.
Le guardie andarono a prendere Sidonius e le nuove reclute furono
scortate fino alle grandi doppie porte sul retro della fortezza. Lì venne loro
incontro una donna esile con lunghi capelli grigi e tre cerchi marchiati sulla
guancia. Era sulla quarantina avanzata e aveva un portamento quasi regale.
Un abito fluente di raffinata seta rossa le fasciava il corpo, e il collo era
circondato da un torque d’argento, simile a quello di Furian.
«Io sono Anthea, governante di questa casa» disse. «Gestisco gli affari
della Dominatii tra queste mura. Vi riferirete a me come magistrae. Dovrete
essere lavati e nutriti prima di essere rinchiusi per l’illuminotte. Se avete
domande, potete parlare.»
Sidonius si sfregò una mano contro il mento insanguinato e squadrò la
donna.
«Mi laverai tu la schiena, domina?»
La magistrae lanciò un’occhiata alle guardie. Gli uomini tirarono fuori
manganelli di legno e picchiarono a sangue Sidonius proprio lì nell’atrio.
Mia roteò gli occhi, domandandosi come l’Itreyano potesse essere così
tonto. Dopo quel pestaggio – il secondo della giornata – Sidonius giacque
sulle piastrelle del pavimento tra schizzi del suo stesso sangue.
«S-suppongo… che sia un no…?»
«Non confondermi con una semplice servitrice, cane» disse la magistrae,
i suoi occhi scuri che vagavano sul CODARDO impresso a fuoco sul suo
petto. «Conosco la nostra Dominatii da quando era bambina e, in sua
assenza, io sono la sua voce in questa casa. Ora smettila di sanguinare sulle
mie piastrelle e seguimi.»
Sidonius si rialzò in piedi barcollando, fronte e labbra che colavano
rosso. Mia osservò la magistrae con la coda dell’occhio. La donna le
ricordava il maggiordomo di suo padre – un Liisiano di nome Andriano –
che gestiva questa casa quando i colori dei Corvere sventolavano ancora
sulle mura. Anche lui viveva come uno schiavo, ma aveva l’atteggiamento
di un uomo libero. Anthea sembrava fatta della sua stessa pasta.
“Più le cose cambiano…”
«Posso farvi una domanda, magistrae?» chiese Mia.
Anthea la esaminò con occhio cauto prima di rispondere. «Parla.»
«Vedo falconi che pendono dalle mura del cortile.» Mia sussultò,
massaggiandosi le costole contuse. «Ma la nostra Dominatii non appartiene
alla Familia Leonides?»
«Il falcone è l’emblema di Marcus Remus» annuì la donna. «Che Aa lo
benedica e lo preservi. Questa era la sua casa, concessa per il suo servizio
alla Repubblica dopo la Ribellione degli Incoronatori. Ora che è andato al
suo riposo eterno presso il Focolare, la tenuta è stata ereditata dalla sua
vedova, la vostra nuova Dominatii.»
La sensazione di inquietudine nella pancia di Mia le arrivò fino ai piedi.
“Lo sapevo, cazzo…”
Mia non aveva idea di dove potesse essere l’umbragatto, ma le parve
quasi di sentire il rimbrotto di Messer Cortese nelle orecchie. Non solo non
era riuscita a ottenere un posto nel collegio che aveva voluto, ma era
diventata una schiava della moglie del tribuno che aveva assassinato? Il suo
piano stava scivolando sempre più nella fogna a ogni cambio che passava…
“Mantieni la calma. Sii paziente. Leona non lo saprà mai.”
Mia chinò il capo e seguì obbediente la magistrae. Furono scortati
attraverso un ampio corridoio nella parte posteriore della fortezza, tutti e tre
malconci dopo essere stati malmenati. Mia era sbigottita per la notizia su
Leona e per la presenza di un altro tenebris, ma, da qualche parte in fondo
alla sua mente, la bambina che aveva camminato per questi corridoi rimase
colpita da quanto Crow’s Nest era cambiato. La disposizione era la stessa,
ma l’arredamento…
Domina Corvere aveva preferito un aspetto opulento, ma adesso i
corridoi erano semplici: gli stupendi arazzi e tappeti erano stati rimpiazzati
da completi di armatura e armi di guerra. Mia avrebbe desiderato vedere la
sua vecchia stanza, con il panorama dell’oceano dal balcone, ma lei e i suoi
compagni furono guidati giù per una scala a chiocciola fino a un’anticamera
fuori dal seminterrato. Una saracinesca di ferro impedì loro di proseguire.
Sul muro accanto a essa c’era un complesso congegno mekana. Una guardia
inserì una strana chiave e azionò una serie di leve. La saracinesca si alzò e
la magistrae fece entrare Mia e gli altri.
Darius Corvere aveva usato quel vasto seminterrato come una zona
abitabile durante i brutali mesi estivi, ma Mia poteva vedere che era stato
ristrutturato come una caserma. Lo spazio era stato diviso in celle sei per
sei, fiancheggiato da lunghe file di pesanti sbarre di ferro.
“Molto generoso da parte della domina permettere ai suoi animaletti di
vivere sottoterra…”
Superando le gabbie, Mia notò la paglia, le catene spesse. I globi
arkemici brillavano alle pareti. La caserma puzzava di sudore e merda, ma
almeno era fresca. Le guardie li fecero continuare a muoversi, fino ad
arrivare alla fine di un lungo corridoio, dove trovarono un grosso bagno in
cui aleggiava vapore denso. Mia e i suoi compagni furono fatti entrare dalla
magistrae e le guardie rimasero fuori. La donna più vecchia li guardò in
attesa.
«Toglietevi i vestiti» ordinò.
Un’altra ragazza della sua età forse sarebbe arrossita. Avrebbe tremato
oppure si sarebbe semplicemente rifiutata. Ma Mia considerava il proprio
corpo un’arma come un’altra, pericoloso quanto qualunque lama. La
Tessitrice Marielle le aveva donato curve tanto affilate da poter quasi
uccidere un uomo se l’avesse desiderato, e Mia aveva ammazzato più
uomini di quanti ne potesse contare.
Che importanza aveva ora mostrare un po’ di pelle?
E così si tolse gli stracci e gli stivali senza esitazione e rimase nuda nel
vapore. Sidonius era ancora troppo scosso per il suo pestaggio per
curarsene, ma lei vide Matteo ammirare il suo corpo con la coda
dell’occhio. La magistrae indicò una panca di pietra vicino alla vasca. Mia
vide rasoi, pettini e parecchi saponi.
«I gladiatii si lavano assieme, mangiano assieme, combattono assieme»
spiegò la donna. «Ma finché non sopravvivrete alla Sfrondatura, vi
occuperete separatamente delle vostre abluzioni, Ascoltatemi bene: non
tollererò alcun sudiciume sotto questo tetto. E cura quei tuoi capelli,
ragazza.» La magistrae guardò i boccoli lunghi e sporchi di Mia. «Se ci
trovo una sola pulce, te li farò tagliare tutti.»
La donna sollevò un unico sopracciglio cesellato, a segnalare che era
loro concesso di fare domande. Dopo un momento di silenzio, annuì in
modo brusco.
«Tornerò tra venti minuti. Se mi farete aspettare, assaggerete la frusta
come ricompensa.»
La magistrae si allontanò a grandi passi e le guardie rimasero appostate
fuori dalla porta. Mia entrò nella vasca e si immerse prendendo un bel
respiro. La temperatura era perfetta, e lei si beò di quella sensazione,
passandosi le mani sulla pelle. Spingendo indietro i capelli, alla fine
riaffiorò, sbattendo le palpebre per asciugarsi le ciglia. Fissò Matteo e si
sollevò nell’acqua quanto bastava per mostrare i seni sopra la superficie. Il
ragazzo aveva le mani sull’inguine, nel vano tentativo di coprire l’erezione
sempre più evidente mentre entrava nella vasca.
«Quattro Figlie, caverai l’occhio a qualcuno con quello» ringhiò
Sidonius. «Chiunque penserebbe che non hai mai visto un paio di poppe
prima d’ora.»
Matteo gli fece il gesto delle nocche e Mia non riuscì a trattenere una
risata. Allungò la mano verso una saponetta al miele, domandandosi come
potesse essere presa un’offerta di pace. I bulli spesso smettevano di
angariarti quando ti opponevi alle loro cazzate…
«Se non fossi un tale porco, ti troverei più divertente, Sidonius.»
«Sì, be’, se tu non fossi una tale stronza, ti troverei più attraente, piccolo
Corvo.»
«Credo di poter vivere con questo patema d’animo.»
L’Itreyano sogghignò, toccandosi con cautela il naso rotto. Anche se lei
gliele aveva date di santa ragione, sembrava che non l’avesse presa sul
personale, e Mia capì che Sidonius era uno di quegli individui che
esprimevano i propri sentimenti attraverso la violenza. Il tipo che entrava in
una taverna e malmenava di brutto il primo uomo che lo guardava storto,
ma una volta terminata la zuffa lo chiamava “fratello” e gli pagava da bere.
Adesso che lei lo aveva pestato a dovere, sembrava che fosse più ben
disposto. Mentre osservava Sidonius tastare le sue nuove suture, non era
ancora disposta a scommettere se avrebbe preferito fotterla o ucciderla.
«Chi ti ha messo i punti?» gli domandò, togliendosi la schiuma dagli
occhi. «Quella ragazzina?»
«Sì» annuì Sidonius. «La chiamano Verme.»
«Che genere di nome è?»
L’omone si immerse nell’acqua fino al mento. «Non ne ho idea. Ma è
veloce, con un ago. Ed è un bene. Dovrà mettere parecchi punti dopo la
Sfrondatura.»
Matteo distolse finalmente gli occhi dal seno di Mia e si accigliò.
«Cos’è questa Sfrondatura di cui parlano?»
Sidonius lo sbeffeggiò. «Da dove vieni, ragazzo?»
«Da Ashkah. Vicino alle Cascate di Polvere.»
«Non ci sono arene da quelle parti?»
Matteo scosse il capo. «Non avevo mai visto l’oceano fino a un mese fa.
Non avevo nemmeno lasciato il mio villaggio. E ora sono qui. Rinchiuso
con porci itreyani e bruti dweymeri.»
«Bada a come parli.» Sidonius sollevò un sopracciglio. «Io sono
Itreyano.»
«Già» disse Mia. «E il ragazzo più intelligente che abbia mai conosciuto
era dweymeri.»
Sidonius annuì. «Io lascerei quelle stronzate nelle fogne, se fossi in te,
campagnolo.»
Matteo borbottò delle scuse e tacque. Passarono i minuti e il ragazzo
armeggiò con il sapone, che alla fine gli cadde in acqua costringendolo a
ripescarlo.
«Come sei finito qui?» chiese Mia.
Il ragazzo scrollò le spalle, i suoi riccioli scuri appiccicati alla pelle dal
vapore. «Mio padre mi ha venduto. Debiti di gioco. Mi ha dato via per
soldi.»
«Cazzo di Aa» ringhiò Sidonius. «E io che pensavo di essere crudele.»
«Sei abbastanza bravo con una lama» disse Mia. «Dove hai imparato a
combattere?»
«Mio zio.» Matteo si passò una mano tra i capelli, e Mia ne osservò
distrattamente i muscoli muoversi sul braccio mentre lei si pettinava i suoi.
«Avevo intenzione di unirmi alla legione. Speravo di essere assegnato a una
grande città, un cambio. Ho sempre voluto vedere la città di ponti e ossa.»
«Forse lo farai» disse Mia. «Il Venatus Magni si tiene a Godsgrave.»
«Di che si tratta?»
«Sono i giochi più importanti in calendario» rispose Sidonius. «Si
tengono alla veraluce, quando tutti gli occhi di Aa sono aperti in cielo. I
borselli traboccano per il sanguila che li vince. E il gladiatii che trionfa nel
magni? Lui ottiene il premio più grande di tutti.»
La speranza scintillò negli occhi castano intenso di Matteo. «La libertà?»
Il grosso Itreyano annuì. «Un gladiatii può comprarsi la libertà, se vince
abbastanza denaro. Ma al gladiatii che vince il magni la libertà viene
concessa da dio in persona.»
Il ragazzo si accigliò confuso, evidentemente ignaro. Sidonius roteò gli
occhi.
«Hai mai sentito il racconto del mendicante e dello schiavo?» c
«Sì.»
«Be’, per onorare il Dio della Luce durante la veraluce, ogni mendicante
di ’Grave viene nutrito con i forzieri della Repubblica. E al vincitore del
magni viene concessa la libertà dal Gran cardinale in persona. Vestito solo
di stracci, com’era Aa nel vangelo.»
Sidonius si sporse in avanti, gli occhi che scintillavano.
«E poi, come se non fosse abbastanza, il dannato console ti dà il tuo
alloro da vincitore. Immaginatelo. La folla in visibilio. Quel fanatico
religioso di Duomo vestito come un mendicante e quel segaiolo midollano
di Scaeva che ti bacia il culo di fronte all’intera arena.» Sidonius ghignò
come un folle. «Tutte le donne di ’Grave conoscerebbero il tuo nome.
Nuoteresti nelle fiche per il resto della tua vita, campagnolo.»
Mia guardò le increspature nell’acqua davanti a sé. Lo immaginò,
proprio come faceva ormai da mesi. Il Gran cardinale Duomo, in piedi a
poca distanza da lei, ricoperto solo con le sue vesti da mendicante.
Nessuna cattedrale attorno a lui.
Nessun paramento sacro sulle sue spalle.
“E nessuna Trinità appesa al collo…”
E accanto a lui il console Scaeva, con l’alloro del vincitore che attendeva
nelle sue mani…
«E tutto quello che devo fare è vincere il magni?» chiese Matteo.
Sidonius sbottò a ridere. «Tutto? Sì, è tutto quello che devi fare. Solo
vincere i più grandi giochi della Repubblica. Contro i migliori gladiatii
sotto i soli. Questo collegio non ha ancora vinto nemmeno un posto per i
grandi giochi.»
«Bene, e allora come facciamo?»
«Con difficoltà» sospirò Mia. «Un collegio che ottiene abbastanza allori
prima della veraluce può mandare dei gladiatii. Ma a quanto pare questa è
la prima stagione in cui gareggia la nostra Dominatii e sembra che abbia
conquistato solo un alloro da vincitore.» Mia si accigliò. «Quello di
Furian.»
«E noi tre siamo ancora molto lontani dalle sabbie» ringhiò Sidonius.
«Prima ancora di essere annoverati tra i gladiatii, dobbiamo sopravvivere
alla Sfrondatura.»
«Allora arriva alla spiegazione» pretese Matteo. «Cos’è la Sfrondatura?»
«Una selezione» disse Sidonius. «Si tiene prima di ogni competizione
importante per arrivare al magni. Si separa il grano dalla pula.»
«Nessuno sa che forma assumono le Sfrondature» spiegò Mia. «Gli
editorii cambiano la formula ogni volta. Ma la prossima è tra due settimane.
A Blackbridge.»
Matteo deglutì forte e i muscoli della sua mascella si contrassero.
«Ma se non sappiamo quale sarà la formula, come possiamo
prepararci?»
«Tu preghi?» chiese Mia.
«… Sì.»
Mia scrollò le spalle.
«Allora comincia a farlo.»

a. I braavi sono un gruppo variegato di bande che gestiscono gran parte delle attività criminali a
Godsgrave: prostituzione, furti e violenza organizzata. Anche se furono una spina nel fianco dei re
di Itreya e del senato per secoli, la storia della città abbonda di episodi sanguinosi in cui i vari capi
locali provarono (invano) a scalzarli dai loro covi tradizionali nei bassifondi di Godsgrave.
Fu il console Julius Scaeva a proporre per primo l’idea di dare alle bande di braavi più potenti
uno stipendio ufficiale, e finanziò il primo pagamento con la propria ricchezza personale. Da
allora, la città ha goduto di un lungo periodo di pace e stabilità, e Scaeva ha ottenuto uno
straordinario aumento della propria popolarità.
E come Mia affermò memorabilmente nella nostra prima avventura, il cosiddetto Senatore del
Popolo è un’odiosa fregna, gentili amici.
Ma non una fregna stupida.
b. Una taverna affermata nella parte inferiore occidentale di Godsgrave, che ha visto cambiare il
nome uno stupefacente numero di volte nel corso degli anni. Inizialmente chiamata Il Cespuglio
Rovente, il suo primo proprietario era stata la tenutaria di un bordello in pensione con un
atteggiamento piuttosto allegro sui malanni che i numerosi anni in sella le avevano procurato.
Acquistata da un leale monarchico anni più tardi, fu rinominata Il Re Dorato poco prima che
Francisco XV fosse spodestato. Dopo il brutale omicidio del buon sovrano, la taverna fu
rinominata Il Tiranno Trucidato, con quella che molti abitanti del luogo considerarono una mossa
davvero astuta.
Decenni dopo, una serie di proprietari successivi rinominarono la taverna Il Monaco Ubriaco, Il
Seno della Figlia, il divertente ma inspiegabile Sette Grassi Bastardi (c’erano solo due proprietari
all’epoca, nessuno dei quali particolarmente obeso). Fu infine acquistata da un capo dei braavi di
nome Guiseppe Antolini e dalla sua nuova sposa, Livia, e rinominata Il Voto dell’Amante.
Guiseppe sparì poco dopo aver acquistato la taverna, però, e Livia divenne l’unica proprietaria
della locanda e della gestione della banda, dando a se stessa il nome di La Domina e alla taverna
quello di La Cena del Cane. Si dice che avesse scoperto che il suo amato se la spassava con una
delle cameriere e, stando alle chiacchiere da focolare, gli avesse tagliato il gingillo per darlo da
mangiare al suo cane, Oli.
Che questa diceria sia vera oppure no, bisogna osservare che la prima cosa che vede un nuovo
avventore del locale è un barboncino ben pasciuto seduto accanto al fuoco e una mannaia affilata
appesa sopra il bancone.
c. Una parabola dei Vangeli di Aa. Nella sua saggezza, in un bel fine settimana, il Dio della Luce
volle mettere alla prova i suoi sudditi per vedere se erano degni. E così, travestito da mendicante,
si sedette fuori dall’imponente tempio eretto in suo nome, indossando stracci e con una ciotola
delle offerte davanti a sé.
Il re passò con la sua corona dorata e il mendicante lo implorò di dargli una moneta. Ma il re
gli disse no.
Il cardinale passò con la sua veste di seta e il mendicante implorò di nuovo. Ma il cardinale non
gli diede nulla.
Poi passò uno schiavo e, nella sua saggezza, Aa non chiese nulla, perché l’uomo non aveva
niente da dare. Ma vedendo il mendicante in difficoltà, lo schiavo prese il proprio mantello –
l’unica cosa che possedeva al mondo – e lo avvolse attorno alle spalle del vecchio mendicante. E
Aa si tolse il travestimento e si alzò in piedi, e lo schiavo cadde in ginocchio, meravigliato.
«Alzati, ti prego» disse l’onnipotente Aa. «Poiché perfino nella tua povertà, tu hai dignità. E ti
dico che tu non dovrai inchinarti mai più a nessuno.»
E il Dio della Luce concesse allo schiavo la libertà. E lo schiavo fu estremamente contento. E
nessuno si fermò per chiedersi cosa aveva in mente di dare lo schiavo al mendicante successivo se
avesse scoperto che il primo non era un dio, o come per un re non fosse una pratica economica
seria andare in giro a elargire denaro dei contribuenti ai poveri quando le infrastrutture pubbliche
hanno un bisogno tanto estremo di essere ristrutturate, o perché il creatore dell’universo non
avesse nulla di meglio da fare in un pomeriggio di un fine settimana che scendere sulla terra a
cazzeggiare con la gente.
Pfui.
Parabole.
CAPITOLO 9
PASSI

Mia camminava lentamente con il vassoio in equilibrio sui palmi rivolti


verso l’alto. Altre ragazze la incrociarono nel corridoio, portando bevande,
scodelle di sonnolfiore viola o fiale di inchiostro. Aveva lasciato la sua
camicia nella stanza, ma indossava ancora le sue brache sotto il corsetto e
l’abito, con spada, stiletto e un borsello di mutavitrum assicurati alla
coscia. Procedette con cautela lungo il corridoio, sperando di trasmettere
un’immagine di compostezza, invece di quella di una ragazza con una
piccola armeria che sbatteva contro le sue parti basse.
Raggiunse le scale al termine del corridoio, poi superò i due ammassi di
muscoli che le fiancheggiavano senza dire nulla. Uno parlò mentre lei
passava, facendola fermare di colpo.
«Buona sera, Belle.»
Mia aveva legato la maschera dorata della cortigiana sopra la propria e
si era messa sulla testa la parrucca incipriata di Belle. Era più alta di un
pollice o due rispetto alla servitrice, e più muscolosa, ma le loro curve
erano piuttosto simili, ed era lì che gli occhi del colosso passavano buona
parte del loro tempo.
«Lazlo» disse lei con una piccola riverenza.
«È uno stupido» le aveva detto Belle. «Fagli una moina e ti lascerà
passare.»
«Hai un aspetto attraente come sempre» sorrise Mia.
«Dove stai andando con quello?» chiese il secondo uomo, fissando il
vassoio.
«Dario» l’aveva avvisata Belle. «È un tipo cattivo. Ma perfino più
stupido di Lazlo.»
Mia fece cenno verso il piano di sopra. «Toliver e Vespa hanno ordinato
una bottiglia per la Domina.»
«Cazzo di Aa, lasciala in pace» gli disse Lazlo. Fece scorrere
delicatamente un dito lungo il braccio di Mia, e la ragazza dovette
trattenersi per non staccargli la mano dalla sua spalla. «Vai di sopra,
colombella.»
Con la pelle d’oca al pensiero di un uomo adulto che chiamava una
quattordicenne la sua “colombella”, Mia iniziò cautamente a salire le
scale. Da quello che aveva detto Dario, la mappa non era ancora lì, ma il
venditore doveva essere sul punto di arrivare. Ora poteva udire la pioggia
sul tetto e procedette per un corridoio raffinato alle cui pareti erano appesi
nudi di bellissimi uomini e donne. Al termine del passaggio, la attendeva
una porta doppia fiancheggiata da due guardie e, grazie alla ricognizione
di Eclissi, sapeva che l’ufficio della Domina si trovava proprio lì.
Dai suoi piedi giunse un ringhio basso: «… CINQUE UOMINI E IL TUO
BERSAGLIO ALL’INTERNO …».
«… anche se uno di loro si rivelerà un po’ problematico…»
Quattro uomini, più la Domina, più chiunque il trafficante di mappe
avesse portato con sé.
“Madre Nera, non me la rendono facile, eh?”
Mia aveva pensato di poter aspettare in una stanzetta laterale fin
quando non avesse udito il venditore arrivare, ma le guardie alla porta
dell’ufficio stavano guardando dritto verso di lei.
«Eclissi» sussurrò. «Scendi da basso e cerca il nostro venditore.»
Sentendo la sua ombra incresparsi, Mia si aggiustò la parrucca e si
diresse allegramente verso l’ufficio, salutando entrambi gli uomini con un
sorriso.
«Maxis, Donato, buona sera» disse con una riverenza.
«Belle, non dovresti e…»
Prima che Donato potesse terminare la sua obiezione, Mia bussò alla
porta con il piede. Dopo un attimo, quella si aprì e lei alzò gli occhi su un
alto Dweymeri, i lineamenti tatuati con disegni artistici e l’ampio torace
avvolto in un elegante panciotto con i bottoni dorati. L’uomo guardò torvo
le due guardie alla porta.
«Avevo detto niente visitatori, ed eccone qui una.»
«Ho cercato di fermarla. La colpa è di quel fottuto Laz…»
«Chi è?» chiamò una voce bassa e musicale dall’interno.
Con un’ultima occhiataccia alle guardie, il Dweymeri si girò a
rispondere.
«Belle. Con dell’alcol.»
«Quattro Figlie, falla entrare. Potrei bere il Mare delle Stelle.»
Quel braavi fissò Mia per un altro momento, poi si fece da parte.
Mia gli scivolò accanto, a notando fioretto e stiletto infoderati alla
cintura del malvivente. La stanza era un sontuoso boudoir, con altri tre
braavi che attendevano attorno al perimetro. Anche se erano tutti vestiti
come damerini midollani, ciascuno aveva addosso una piccola armeria.
Quadri stupendi erano appesi alle pareti e seta rossa era drappeggiata su
ogni superficie. L’ambiente era dominato da un grosso letto, su cui giaceva
addormentato un uomo giovane e grazioso.
«Mettilo lì, Belle. E fai in fretta, da brava.»
Una figura nelle ombre parlò, una voce bassa e scura che Mia identificò
infine come una donna. Quando avanzò alla luce, Mia vide capelli scuri e
zigomi affilati come pugnali. Portava un monocolo su una catenella
d’argento attorno al collo e si stava infilando una camicia di seta raffinata
dalla testa. Mia la riconobbe immediatamente dallo schizzo sulla
pergamena di Solis: la Domina, il capo dei Damerini.
«Non badare a lui: dormirà per un bel po’.» La Domina sorrise,
indicando la figura che sonnecchiava sul letto. «Ragazzi di oggi. Non
hanno resistenza.»
Mia rispose con quella che sperava fosse una risata di cortesia e posò il
vassoio dove le era stato ordinato. Le guardie le stavano a malapena
prestando attenzione: due erano abbastanza vicine da poter essere
eliminate con un’esplosione di mutavitrum, e la sua ombra poteva tenerne
bloccata almeno un’altra. Il deliziante sul letto non sarebbe stato un
problema. Solo cinque passi e avrebbe potuto squarciare la gola della
Domina. Dipendeva tutto da chi avesse portato con sé il trafficante di ma…
«… ECCOLA CHE ARRIVA …» giunse un sussurro al suo orecchio.
«Domina» chiamò una delle guardie alla porta. «Compagnia.»
La donna annuì e fece cenno a Mia di spostarsi nell’angolo.
Lei acconsentì, sgattaiolando tra le ombre. Udì brevi mormorii alla
porta del boudoir e il boato di un tuono fuori dalla finestra. Una figura
superò le guardie; era bassa, decisamente femminile, abbigliata con un
completo ampio color grigio malta, un po’ umido a causa della pioggia. Il
volto era coperto da un cappuccio, un paio di scintillanti occhi azzurri
visibili tra le pieghe. Un assortimento di lame era assicurato al suo corpo e
il cuore di Mia accelerò i battiti quando notò che portava appesa in spalla
una custodia per mappe in legno.
«Bene, bene» disse la figura. «Ma che bell’atmosfera drammatica, eh?»
«Sei venuta da sola» rifletté la Domina.
«È così che lavoro» replicò la nuova arrivata, addentrandosi nella
stanza. Le sue parole erano ovattate sotto il cappuccio, ma c’era
qualcosa…
Quegli occhi…
Quella voce…
“Non può essere…”
La nuova arrivata guardò il giovane nudo sul letto, poi Mia con il suo
bustino troppo stretto. «Bella vista. Ma è un po’ affollato, non pensi?»
«È così che lavoro» ribatté la Domina. «E ho due regole d’oro in questa
vita, piccolina: mai fidarti di un uomo che parla della madre senza
gentilezza, e mai fidarti di una donna che indossa una maschera senza un
motivo.»
La nuova arrivata roteò gli occhi, ma abbassò comunque il cappuccio,
lasciando uscire lunghe bellitrecce color biondo dorato. E mentre lo
stomaco di Mia faceva un giro completo su se stesso, la donna rivelò un
volto che Mia conosceva bene quasi quanto il proprio.
Un fulmine lampeggiò e le unghie di Mia morsero il suo palmo.
“Fottuta Madre Nera…”
Era Ashlinn Järnheim.
L’ultima volta che si erano viste, si erano affrontate su una strada
polverosa di Ultima Spes. L’invasione dei Luminatii era fallita e il tribuno
era stato ucciso. Ma una Trinità attorno al collo di Ashlinn aveva tenuto a
bada Mia per il tempo necessario a consentirle di scappare.
E adesso lei era qui a Godsgrave.
E aveva proprio l’oggetto che Mia era stata inviata a rubare…
“Cosa ’bisso sta succedendo qui?”
«Hai la mappa?» chiese la Domina.
«Tu hai i soldi?» replicò Ashlinn.
La Domina annuì a una guardia, che lanciò un borsello tintinnante in
direzione della ragazza. Ashlinn lo afferrò al volo, aprì i cordoni e tirò
fuori un’unica moneta. Non un mendicante di rame, non un prete d’argento,
ma…
“Oro.”
Mia scosse il capo.
“Dea, è una fortuna…”
«E adesso» disse la Domina. «La tua metà dell’accordo, se ti
compiace.»
Ashlinn si tolse la custodia della mappa dalla spalla e la lanciò alla
Domina. La donna aprì un’estremità con un debole scatto e tirò fuori una
parte di un pezzo di cartapecora arrotolata. Mia riuscì a intravedere delle
strane scritte e un simbolo a forma di falcetto nell’angolo.
«Bene» sospirò Ashlinn. «Per quanto tutto questo sia piacevole, ho
notato una rossa graziosa da basso, perciò me ne…»
Ashlinn lasciò la frase a metà quando le guardie all’ingresso chiusero la
porta con un effetto drammatico. Mia scosse il capo, meditando se mettere
mano prima al mutavitrum o alla spada. Optando per l’arkemia, imprecò
contro la dabbenaggine di Ashlinn. Entrare in un covo di braavi e
comportarsi come se quel posto fosse suo. Credeva sinceramente che
questa storia sarebbe finita in un modo diverso?
La sciocca in questione si guardò sopra la spalla, stringendo gli occhi
azzurri.
«Potresti chiedere ai tuoi bellimbusti di farsi da parte, per cortesia,
Domina?»
«Temo di no» replicò il capo dei braavi. «Il Gran cardinale è stato
piuttosto specifico su cosa fare con te una volta che il denaro fosse passato
di mano.»
Mia ebbe un tuffo al cuore alle parole della Domina.
“Il cardinale Duomo? Com’è coinvolto in tutto questo?”
Un tuono risuonò di nuovo fuori dalla finestra, e il fulmine balenò
attraverso le fessure tra le tende. La Domina si appoggiò alla scrivania e
sorrise.
«Lo confesso, sono sorpresa che tu me l’abbia reso così facile, piccola.
Duomo mi aveva avvisato che tu e tuo padre avevate un’intelligenza affilata
come un rasoio.»
«Avevo sentito dire lo stesso di te» replicò Ashlinn, tenendo gli occhi sui
braavi che ora si stavano aprendo a ventaglio attorno a lei. «Immagina la
mia delusione.»
«Tranquilla: non sentirai alcun dolore» sorrise la Domina.
Ashlinn annuì verso la custodia della mappa tra le sue mani.
«Sai almeno dove porta?»
«No. Non metto il naso dove non mi compete.»
«Potresti volerci lavorare» sorrise Ashlinn. «Perché una persona
curiosa avrebbe potuto notare il doppiofondo della custodia che le era stata
data. E una persona che non amasse così tanto la sua stessa fottuta voce
avrebbe potuto udire l’acciarino che ha acceso la miccia sulla bomba-
lapide all’interno.»
La Domina sgranò gli occhi. Ashlinn si gettò immediatamente da una
parte e Mia ebbe a malapena la presenza di spirito di lanciarsi dietro il
letto prima che la custodia della mappa esplodesse con un boato
assordante. La Domina fu scagliata dalla parte opposta della stanza, morta
ancora prima di colpire il pavimento. Tre guardie furono catturate in quella
palla di fuoco arkemica: il Dweymeri mandò in frantumi le doppie porte, il
suo panciotto in fiamme, mentre gli altri malviventi furono sbalzati attorno
come paglia che andava a fuoco.
La stanza si riempì di fumo soffocante. Il cranio di Mia le martellava per
l’esplosione.
«Denti della Mannaia» sbraitò, cercando di alzarsi.
«… MIA …!»
«… stai bene…?»
Ashlinn si tolse le mani dalle orecchie e si rialzò da terra. Afferrò il suo
sacchetto d’oro, poi estrasse una lama corta dalla cintura e la conficcò nel
braavi che gemeva sul pavimento accanto a lei. Soddisfatta che la Domina
fosse già morta, eliminò rapidamente qualunque altra guardia si stesse
ancora muovendo, poi si voltò verso la cameriera stesa accanto al letto nel
suo chiffon fumante.
«Le mie scuse, Mea Domina, ma…»
Mia rotolò sulla schiena. La maschera era stata sbalzata via
nell’esplosione, le fischiavano le orecchie e aveva la vista appannata.
Messer Cortese prese forma sulla sua spalla ed Eclissi ai suoi piedi,
mostrando le zanne trasparenti in un ringhio che si poteva avvertire
attraverso il pavimento.
«’Bisso e sangue» mormorò Ashlinn.
Occhi azzurri come cieli vuoti erano fissi sull’umbragatto sopra la
spalla di Mia. Poi si concentrarono sulla sua padrona.
«… Mia?»
«Quattro fottute Figlie…» giunse un’altra voce.
Mia strinse gli occhi tra il fumo e vide Lazlo, Dario e altri tre Damerini
alla porta dell’ufficio, a osservare inorriditi quel massacro. Gli occhi di
Dario si posarono sul cadavere del loro capo, quelli di Lazlo sulla figura
vestita di grigio.
«Uccidetela!» ruggì uno dei bruti.
Senza una parola, Ashlinn si precipitò verso la finestra, scagliando un
pugnale e mandando in frantumi il vetro. I Damerini caricarono in massa e,
più per istinto che per premeditazione, Mia mise una mano sotto l’abito e
scagliò uno dei globi di mutavitrum bianco ai loro piedi. La sfera arkemica
scoppiò con un boato fragoroso e una nube di denso Deliquio bianco
avvolse i malviventi.
Ashlinn si arrampicò fuori dalla finestra e afferrò una fune di seta legata
a una gargolla di pietra in alto. Senza guardarsi indietro, salì su per il
muro e scomparve.
Mia si rimise in piedi barcollando, con la testa che le ronzava ancora, e
ondeggiò fino al davanzale. Aveva un bustino stretto e un abito lungo: non
era l’abbigliamento più facile con cui scalare le pareti di un bordello,
anche senza la botta in testa. Ma, impavida come sempre, afferrò la fune e
dondolò sopra quella caduta di cinque piani, arrampicandosi sul tetto
appena in tempo per vedere Ashlinn balzare sulla casa di piacere accanto.
«Eclissi, vai a prendere Jessamine» sbraitò. «Messer Cortese, con me!»
L’umbralupa scomparve e Messer Cortese scattò lungo il tetto dietro la
loro preda. Scuotendo la testa per allontanare il ronzio, Mia si sforzò di
tallonarla. La verità era che i suoi stivali non erano fatti per un
inseguimento, e la pioggia aveva reso le tegole del tetto insidiose come il
serpente a cui stava dando la caccia. Mentre Ashlinn si lasciava cadere giù
dal tetto del bordello, Mia slittò fino a fermarsi imprecando, tagliando un
pezzo delle sue gonne con lo stiletto di necrosso per poter correre più
veloce.
Mia era sbigottita. Erano passati otto mesi dall’ultima volta che aveva
posato gli occhi su Ashlinn Järnheim, e riusciva a stento a credere che la
ragazza fosse qui, ora. Lei e suo padre erano stati in combutta con il
tribuno Remus per distruggere la Chiesa Rossa. E adesso era alleata con il
Gran cardinale?
Mia spinse via quelle domande dalla sua mente, si strappò il resto delle
sue gonne zuppe e continuò a correre. Sbirciando oltre il tetto del bordello,
vide Ashlinn lasciarsi cadere sul selciato sottostante, troppo lontana perché
lei potesse raggiungere la sua ombra. Non temendo la caduta, scivolò oltre
il bordo, arrampicandosi da una finestra all’altra, le dita bianche sulla
pietra resa scivolosa dalla pioggia. Raggiunto il terreno, partì di corsa per
le strade di Godsgrave e sopra il Ponte delle Lacrime. b
Ashlinn correva come se avesse alle calcagna la Madre in persona,
zigzagando tra la folla come fumo. Mia scattò all’inseguimento dietro di
lei, perdendola di vista almeno due volte, distratta in quell’intrico di canali
e vicoletti. Ma Messer Cortese volava da un tetto all’altro, balzando su
tendoni e timpani come il vento, urlando per farsi sentire in quel temporale
estivo.
«… sinistra, sinistra…»
«… il vicolo accanto ai candelai…»
«… no, l’altra a sinistra…»
Mia sbucò su una strada principale, scivolando sotto l’assale di un
carretto trainato da un cavallo al galoppo e scartando le manciate di
zoppichelli che Ashlinn stava gettando alle sue spalle. c File dopo file di
case, templi con finestre come occhi vuoti, ponticelli e canali serpeggianti.
Erano dirette verso il distretto dei midollani di Godsgrave ora, con le
Costole che si innalzavano nei cieli in tempesta. Ashlinn scattò lungo un
vicolo cieco, poi balzò contro la parete a sinistra e si arrampicò sul muro,
facendosi strada sopra i vetri rotti in cima.
Mia la seguì, tagliandosi i palmi fino a far uscire il sangue. Adesso Ash
stava correndo di nuovo sui tetti, la terracotta resa insidiosa dalla pioggia.
Superando con un balzo lo spazio tra un tetto e un altro, Mia quasi scivolò
quando una tegola si ruppe sotto i suoi stivali fradici. Se fosse caduta, si
sarebbe rotta una gamba come minimo, oppure la spina dorsale nella
peggiore delle ipotesi.
“Dove cazzo sono Eclissi e Jessamine?”
Mia vide la Basilica Grande torreggiare più avanti: era un capolavoro
architettonico di guglie di marmo e vetro colorato. I tre soli della Trinità
scintillavano su ogni finestra, brillavano in cima a ogni pinnacolo. Mia non
riuscì a fare a meno di ricordare il verobuio di quando aveva avuto
quattordici anni, e le dozzine di uomini che aveva ammazzato nel suo
tentativo fallito di uccidere il console Scaeva. Ash conosceva il punto
debole di Mia per i simboli sacri del Semprevigile: era evidente che
sperava che i terreni della basilica fossero consacrati quanto bastava per
respingere la tenebris che aveva alle calcagna.
“Ragazza sveglia. Ma non funziona così…”
Ash portò una mano alla cintura e prese un’altra fune sottile con un
rampino. Scagliandolo verso le grondaie della basilica, Ash volteggiò fino
ad arrivare sul tetto dall’altra parte. Mia corse più veloce, sperando di
riuscire a balzare fin lì, ma perfino con Messer Cortese che consumava la
sua paura, sapeva che lo spazio era troppo ampio. Slittò fino a fermarsi
vicino al bordo e osservò Ashlinn arrampicarsi sulle tegole. Ansimava. Il
cuore le martellava nel petto.
Mia tirò fuori dallo stivale un coltello da lancio e prese la mira. Aveva
avvelenato le sue lame col Deliquio, e perfino un graffio sarebbe stato
sufficiente per far crollare la ragazza come un sacco di patate. Ma, per
quanto lo volesse, Mia si rese conto che…
“Mi serve viva.”
Abbassò la lama e guardò il selciato trenta piedi più in basso. Un
novizio che vagava per i terreni della cattedrale alzò lo sguardo e la vide,
rimanendo a bocca aperta dalla sorpresa.
«Merda…» mormorò Mia.
«… una distanza come questa non dovrebbe impensierirti…»
Mia guardò l’umbragatto ai suoi piedi. Poi di nuovo il salto.
«Non posso saltare così lontano: è impossibile.»
«… non molto tempo fa, ti sei spostata dalla cima della pietra filosofale
fino all’isola di godsgrave a questa stessa cattedrale, balzellando per la città
come un bambino con le pozzanghere…»
«È stato durante il verobuio, Messer Cortese.»
«… l’hai rifatto nella montagna silente…»
«Già, e i soli non hanno mai visto l’interno di quel posto.»
«… sta piovendo. gli occhi di aa sono nascosti dietro le nuvole…»
«Non sono abbastanza forte qui fuori, non capisci?»
Il non-gatto sospirò e scosse il capo.
Ashlinn aveva raggiunto il vertice del tetto della cattedrale e si voltò per
guardare Mia. I suoi capelli biondi erano più lunghi, umidi di pioggia e
appiccicati alla pelle abbronzata. I suoi occhi graziosi erano dell’azzurro
di cieli riarsi dai soli. Mia sentì le dita appallottolarsi in pugni ricordando
quello che lei aveva fatto a Tric.
Ashlinn sorrise. Portandosi due dita agli occhi, indicò Mia sull’altro
tetto e parlò nel linguaggio dei segni privo di parole del Senzalingua.
io ti vedo.
Poi, con un sorrisetto, la ragazza vaaniana soffiò un bacio a Mia.
Allora giunse la rabbia. Osservò Ash sgattaiolare via verso il campanile
della basilica. Messer Cortese poteva ancora seguirla; Mia poteva
scendere al livello della strada e correrle dietro. Ma adesso il vantaggio di
Ash era troppo grande e la verità era che tutti i sigaretti che fumava di
recente non stavano facendo alcun favore alla forma fisica di Mia.
Era stanca di correre.
“D’accordo, ’fanculo allora…”
Mia si protese per quel divario, sotto il torbido cielo grigio. Con la
soliluce velata, le ombre erano indistinte, ma lei poteva comunque
percepire due degli occhi di Aa che ardevano nei cieli. Una sottile patina di
nuvole e pioggia non era sufficiente per tenere a bada l’ira di un dio, e Mia
poteva percepirla bruciarle la nuca. Eppure…
“Eppure…”
Lei conosceva la tenebra. Conosceva il suo canto. Ricordava il modo in
cui l’aveva percepita nel verobuio. Si infiltrava nelle fessure dei pori di
questa città, addensandosi nelle catacombe sotto la sua pelle. La tenebra
che lei proiettava ai suoi piedi, la tenebra che viveva dentro il suo petto, il
suo ventre, in tutti i posti che la luce non aveva mai toccato. E, a denti
stretti, tremando, si protese verso quei luoghi caldi e vuoti, allungò la mano
verso l’ombra del campanile

e Passò

attraverso
lo spazio vuoto

in mezzo.

A Mia girava la testa, il senso di vertigini le cresceva nella pancia e


aveva il vomito in gola. Ondeggiando all’indietro, barcollò mentre tutto il
mondo si muoveva sotto di lei, tanto che rischiò quasi di morire cadendo
sulla recinzione in ferro battuto lì sotto. Si rese conto che si trovava sul
tetto della basilica, con la pioggia che rendeva scivolose le tegole sotto i
piedi; sbatté le palpebre con forza e cercò di ritrovare l’equilibrio mentre
Ashlinn usciva dalla luce accecante, pugnale in mano.
«… mia…!»
Schivò a malapena, piegandosi all’indietro mentre la lama fendeva
l’aria. Mia sollevò la sua spada di necrosso, cercando di ritrovare
l’appoggio. Aveva bile nella bocca. Sudore negli occhi.
«… mia…!»
Ash colpì di nuovo, costringendo Mia a indietreggiare contro il muro del
campanile. Mia alzò la spada in posizione di difesa, ansimando, sbattendo
le palpebre e cercando di far smettere al mondo di girare.
«Hai imparato dei trucchetti nuovi, amore?» sorrise Ashlinn, pugnale in
mano.
La ragazza abbassò una mano per frugare dentro lo stivale. Le occorse
un momento, ma infine trovò quello che stava cercando e tirò fuori una
lunga catena dorata in fondo alla quale ruotava quello che per Mia fu come
un ardente calcio in pancia.
La Trinità di Aa.
Mia sibilò come se fosse stata ustionata. Messer Cortese gnaulò,
strisciando via per i tetti. Le campane della basilica iniziarono a
rintoccare, unendosi a innumerevoli altre cattedrali che suonavano le ore
per tutta la città di ponti e ossa. Mia crollò in ginocchio, vomitando. Quel
dolore la fece quasi urlare: la vista di quei tre soli – oro bianco, oro rosa,
oro giallo – era accecante. Indietreggiò contro la torre campanaria, le
mani sollevate per schermarsi gli occhi da quell’orrenda luce bruciante.
«Pare che i vecchi trucchi funzionino ancora, dunque» disse Ashlinn.
Le campane tacquero, ma la pioggia continuava a cadere. Ash si guardò
attorno, verso la grondaia della basilica fino al terreno sottostante. Nel
cortile ora c’era un altro novizio di Aa, che indicava al suo compagno le
ragazze sul tetto.
«È bello rivederti, Mia» disse Ash piano.
«F-fottit…»
«Mi chiedevo se Drusilla ti avrebbe mandato a darmi la caccia. Credo
che tra tutti loro, tu mi conoscessi meglio.» Ash rigirò il simbolo sacro
attorno al dito. «Mi sono tenuta questo, per ogni evenienza. Ma di’ a quella
burbera vecchiaccia che se mi vuole morta, può venire di persona. Perché
io verrò sicuramente a ucciderla. Lei e tutta la sua fottuta allegra
combriccola.»
Si mise il medaglione attorno al collo, la sua sagoma che si stagliava
contro quell’orrendo odio rovente. La furia di un dio, che accecava Mia
con il suo bruciore.
«Mi dispiace che sia stata tu, Mia» sospirò Ash. «Mi sei sempre
piaciuta. Sei migliore di quel posto. Quegli assassi…»
Il pugnale centrò la spalla di Ashlinn. Schizzò sangue, rosso vivo tra la
pioggia. Ash ruotò da un lato e un’altra lama sibilò accanto alla sua
guancia, tagliandole una ciocca di capelli.
«Traditrice!»
E mentre quel boccolo biondo cadeva roteando verso le tegole,
Jessamine si issò dalla grondaia e si gettò su Ashlinn con il fioretto
sguainato.

Il profumo di cibo caldo li investì quando uscirono dal seminterrato.


La magistrae si era incontrata con loro nel bagno dopo venti minuti
precisi, portando loro abiti nuovi. Nemmeno Sidonius era tanto stupido da
farla aspettare.
Non appena Mia si fu vestita con tutto quello che le era stato dato, fu
tentata di chiedere dove fosse il resto del completo. Indossava un perizoma
di lino grigio imbottito, con una cintura di cuoio a tenerlo fermo. I suoi seni
erano fissati con un’altra striscia di grigio imbottito e sandali di cuoio erano
legati fino a metà dei suoi stinchi. I suoi compagni erano ancora più
discinti: solo perizomi e sandali per Sidonius e Matteo, con pesanti
conchiglie di cuoio a proteggere i loro pendagli dalle peggiori eventualità
dell’addestramento. Ora che si avvicinava la veraluce, il clima era così
caldo che la mancanza di tessuto non avrebbe infastidito nessuno. Ma
veniva lasciato pochissimo all’immaginazione…
Sidonius rigirò la sua conchiglia da un lato all’altro. «Ho sentito che è
quello che tutti i nobili midollani indossano a ’Grave quest’anno.»
In un lampo, una guardia estrasse il manganello e lo vibrò dietro le
gambe di Sidonius, che crollò in ginocchio con un urlo.
«Per l’ultima volta, parlerai solo quando interrogato, in mia presenza»
disse la magistrae. «Dimentica di nuovo il tuo posto e ti darò io un modo
per ricordartelo. Puoi morire sulle sabbie anche senza quella linguaccia che
ti ritrovi in bocca.»
Sidonius mugugnò delle scuse e Mia lo aiutò ad alzarsi con un sospiro. Il
grosso Itreyano non era la spada più affilata che avesse mai incontrato, ma
quando vivevi come un cane, non avevi il privilegio di sceglierti le pulci.
Le guardie della casa scortarono il terzetto di sopra, fino alla veranda. I
gladiatii erano radunati su lunghe panche, impegnati a ficcarsi in bocca
ciotole di farinata con tutto l’appetito di gente che aveva passato il cambio a
sudare sotto i soli ardenti. La magistrae indicò con un cenno del capo un
uomo magro come un fuscello con un grembiule di cuoio che serviva il
cibo. Aveva un occhio sbilenco, un unico cerchio impresso sulla guancia e
pochissimi denti in bocca. La madre di Mia l’aveva avvisata di non fidarsi
mai di un cuoco magro. Ma di nuovo, quando vivevi come un cane…
«Mangiate» ordinò la magistrae, gettando sopra la spalla la sua lunga
treccia grigia. «Domani vi serviranno le forze.»
Sidonius si diresse verso il cuoco con aria determinata, seguito da Mia e
Matteo. La ragazza si rese conto che non mangiava dalla sera precedente,
ma sotto la fame provava ancora quella nausea fredda del primo
pomeriggio. Esaminando le facce dei gladiatii, trovò Furian a un’estremità
della prima panca. L’uomo aveva i lunghi capelli neri legati in una treccia e
parlava con il Dweymeri tra un boccone e l’altro.
Alzò lo sguardo quando lei arrivò, poi lo distolse altrettanto rapidamente.
Le domande ardevano nella mente di Mia, accumulandosi dietro i suoi
denti.
“Pazienza.”
Seguì Sidonius fino alla pentola della farinata e afferrò una scodella di
legno, quasi sbavando per il profumo. L’uomo magro servì una bella
mestolata acquosa a Matteo.
«Ehi, c’ero prima io, stronzo rachitico» ringhiò Sidonius.
Una mano carnosa spinse da una parte il cuoco. Mia riconobbe il grosso
gladiatii liisiano con la faccia come una torta spiattellata quando afferrò il
mestolo. Aveva la testa rasata e gli restavano solo pochi capelli scuri e
dritti, come una cresta di gallo. Aveva il volto butterato e un sorriso
sghembo, ma con un’aria per nulla sbarazzina. Sembrava uno che avesse
battuto troppe volte la testa quando era bambino.
«Piacevole cambio a voi, gentili amici» si inchinò. «Benvenuti al
Collegio Remus.»
Sidonius annuì in segno di saluto. «Molte grazie, fratello.»
Mia notò che tutti gli altri gladiatii stavano osservando. Le si rizzarono i
peli sulla nuca.
«Oh, non ci pensare» disse l’uomo-torta. «Mi chiamano Macellaio. Il
Macellaio di Amai.» Il Liisiano li guardò con un sorriso. «Il viaggio dai
Giardini è stato lungo? Dovete essere più affamati di una sgualdrina col
ciclo in fila alla mensa dei poveri, eh?»
«Già» annuì Sidonius. «È da ieri che non mangiamo.»
«Oh, farò in modo che tutte le vostre esigenze siano soddisfatte subito.
Non c’è sbobba migliore in tutta la Repubblica di quella servita dalla nostra
Dominatii.» Si sfregò il mento, pensieroso. «La farinata può essere un
tantino insipida, però. Ma non temete, ho proprio la spezia giusta.»
Il grosso Liisiano si mise una mano nel perizoma con un sogghigno. Poi,
senza ulteriori indugi, tirò fuori l’uccello e fece una lunga pisciata rumorosa
dentro la pentola della farinata.
I gladiatii proruppero in risate fragorose, picchiando i pugni sui tavoli e
urlando il nome di Macellaio. Il grosso Liisiano guardò Mia dritto negli
occhi e munse le ultime gocce dalla sua vescica, poi si voltò di nuovo verso
Sidonius. Il suo sorriso era scomparso del tutto.
«Chiamami di nuovo “fratello” e piscerò nella tua cena, poi ti ci
affogherò dentro. I miei fratelli e sorelle sotto questo tetto sono gladiatii.»
Macellaio si batté un pugno sul petto. «Finché non sopravviverai alla
Sfrondatura, tu non sei nulla.»
Macellaio tornò al proprio pasto, ricevendo pacche sulle spalle da molti
altri. Mia rimase con la scodella in mano, la puzza di urina fresca nelle
narici.
«All’improvviso non ho più tanta fame come pensavo» confessò.
«Già» disse Sidonius. «La pensiamo allo stesso modo, piccolo Corvo.»
I tre trovarono una panca vuota. Mia e Sidonius fissarono gli altri
gladiatii mentre mangiavano a sazietà. Dopo un’occhiata alle loro
espressioni afflitte, Matteo prese una cucchiaiata dal proprio pasto e la mise
nella ciotola di Sidonius, poi un’altra in quella di Mia. Il grosso Itreyano
osservò incredulo e Mia fissò Matteo negli occhi.
«Sei sicuro?»
«Mangia, Mea Domina» sorrise lui. «Tu faresti lo stesso per me.»
Mia scrollò le spalle, poi lei e Sidonius ingurgitarono il cibo senza
esitazioni. Il grosso mastino vagava per l’area della mensa, annusando il
pavimento in cerca di avanzi. Ciondolò da Matteo, fissando la sua scodella
ora vuota e agitando la coda tozza.
«Spiacente, amico» sospirò Matteo. «Se mi rimanesse una briciola, te la
darei.»
Mia osservò il ragazzo di sottecchi mentre accarezzava il cagnone,
grattandolo dietro gli orecchi e sorridendo quando la zampa posteriore
cominciò a percuotere il pavimento.
«Si chiama Zanna» disse una voce.
Mia alzò gli occhi e vide la ragazzina chiamata Verme seduta sulle travi
sopra le loro teste. Mia si ricordò di essersi arrampicata su quei timpani
quando era una ragazzina: sua madre la rimproverava e suo padre
applaudiva. Era sempre stato così per loro: il tribuno Corvere le permetteva
di cedere a quegli impulsi da maschiaccio, mentre la domina cercava di
plasmarla in un trofeo che un cambio sarebbe stato adatto come moglie.
Mia si domandò come sarebbe potuta essere la sua vita se le cose fossero
andate in modo diverso. Dove sarebbe stata se il generale Antonius fosse
diventato re per mano di suo padre. Probabilmente non certo con un
marchio sulla guancia e la puzza di piscio nel naso…
«Zanna» sorrise Matteo, dando una pacca sulle spalle del cane. «Un bel
nome.»
«Gli piaci» disse la ragazzina.
«Avevo dei cani, a casa. Ci so fare con loro.»
Il sorriso di Matteo si allargò e gli occhi scuri scintillarono. Era fin
troppo grazioso per questo posto. Ma Verme sembrò approvare, abbassando
la testa per nascondere il suo rossore mentre sgattaiolava via.
Terminato il pasto, i gladiatii furono condotti nello scantinato. Mia,
Sidonius e Matteo procedettero nelle retrovie; a loro non veniva rivolta una
parola che non fosse un ordine o dedicata alcuna attenzione che non fosse
uno spintone o un sogghigno. Dopo solo poche ore a vivere sul fondo del
barile, per Mia la novità si era esaurita. Si domandò dove fosse Messer
Cortese, se fosse già arrivato a Whitekeep e avesse incontrato…
«Pare che il nostro campione sia troppo bravo per dormire con il resto di
noi plebaglia» borbottò Sidonius. «Segaiolo effeminato.»
Mia seguì lo sguardo dell’Itreyano e vide Furian che veniva scortato più
avanti all’interno della fortezza, invece che giù nella caserma.
La ragazza vaaniana si girò verso Sid con aria accigliata.
«Bada a come usi quella lingua, Itreyano.»
«Di solito le donne mi offrono da bere, prima» sogghignò Sidonius. «Ma
sì. Se vuoi che la usi, domina, dimmi solo dove vorresti che la mettessi.»
Mia roteò gli occhi e sospirò. La ragazza allungò la mano nella
conchiglia di Sidonius e strizzò forte mentre lui squittiva.
«Su per il tuo culo, stupido cazzone» lo apostrofò. «Furian l’Imbattuto è
il campione di questo collegio. Dorme separato da noi, com’è suo diritto.
Potrai parlar male di lui quando lo sconfiggerai nel venatus. Fino ad allora,
chiudi la bocca o la chiuderò io per te.»
«Muovetevi!» sbraitò la guardia dietro di loro.
La ragazza lasciò andare la stretta sui gioielli di Sidonius e scese per le
scale a passi pesanti. Il grosso Itreyano si afflosciò contro Mia, e dato che
quel cambio gli aveva già dato una ginocchiata nei pendagli, lei fu tanto
caritatevole da aiutarlo a camminare.
«Ci sai proprio fare con le donne, Sid» sospirò Matteo, puntellando
l’altra spalla del grosso Itreyano.
«P-proprio quello che ha detto tua madre» sussultò l’Itreyano.
I gladiatii si radunarono nell’anticamera e, quando quella strana chiave
fu girata nella serratura mekana alla parete, la saracinesca si aprì sulla
caserma. Mia fu condotta in un’ampia cella dove era sparsa paglia fresca,
Sidonius e Matteo dietro di lei. Una volta che ciascun gladiatii fu nella
gabbia a lui destinata, la guardia nell’anticamera lì fuori azionò una leva.
Ogni porta si chiuse e le serrature mekana si bloccarono con uno scatto: in
un attimo, ogni guerriero fu rinchiuso dietro una griglia di sbarre di ferro
spesse più di tre pollici.
Ora Mia capì il motivo per cui la domina lasciava che la sua proprietà
dormisse quaggiù al buio e al fresco. Malgrado tutto l’amore per i suoi
preziosi “Falconi”, Leona non voleva che qualcuno di loro lasciasse la
voliera.
Le luci arkemiche si abbassarono e i gladiatii parlavano tra loro nella
penombra. Mia ascoltò i guerrieri mormorare, notando il miscuglio di
accenti e timbri. La donna dweymeri con i tatuaggi estesi aveva la cella
dall’altro lato del corridoio, con vere e proprie pareti di pietra che fornivano
un minimo di intimità. Sotto la porta, Mia poteva sentire un canto
sommesso.
Senza alcun preavviso, le chiacchiere si spensero e il silenzio calò come
nebbia. Mia udì un familiare clink-tonfo, clink-tonfo sulla pietra. Vide la
figura torreggiante dell’executus che zoppicava tra le celle, impugnando
quell’odiosa frusta. I suoi lunghi capelli brizzolati erano disposti attorno
alle spalle come una criniera, la barba appena pettinata. L’orrenda cicatrice
gli divideva la faccia, lanciando un’ombra lunga sui suoi lineamenti.
«A quanto pare, sono stato lontano da queste mura per troppo tempo»
ringhiò. «Se avete la forza per stare seduti a chiacchierare come fanciulle al
telaio, è chiaro che non vi siete esercitati abbastanza duramente.»
Passando davanti alla cella di Mia, la degnò a malapena di uno sguardo.
L’executus zoppicò di nuovo fino alla saracinesca, gli occhi azzurri che
scintillavano nella penombra.
«Riposate le vostre teste, Falconi» urlò. «Domani sarà un cambio molto
lungo. Ve lo prometto.»
La saracinesca si richiuse con un gemito mekana. Mia scosse il capo,
borbottando sottovoce. Anche Sidonius bofonchiò, la voce ingrossata dal
naso rotto.
«Spero di avere un’opportunità nel cerchio con quel bastardo, domani.
Gli taglierò la zucca e poi fotterò il suo cadavere prima che diventi freddo.»
«Per farlo ti servirà un cazzo, codardo.»
La frecciatina provenne dall’altro lato del corridoio. Mia alzò gli occhi e
vide Macellaio, il Guastatore di farinate, che li osservava con la faccia tra le
sbarre della sua gabbia. Il volto era tutto naso storto e pelle butterata, il
corpo un mosaico di tessuto cicatriziale.
Sidonius guardò torvo il gladiatii. «Chiamami di nuovo codardo e
ucciderò te e tutta la tua fottuta famiglia.»
«Parla, parla, piccoletto.» Le labbra di Macellaio si incresparono in un
sorrisetto orrendo. «Vedrai a cosa ti servirà quando entrerai nel cerchio con
l’executus.»
«Pfui, credi che non sappia danzare con un vecchio cane zoppo come
quello?»
Macellaio scosse il capo. «Stai parlando di uno dei più grandi gladiatii
che abbia mai calcato le sabbie, stupido ignorante. Ti masticherà e userà le
tue ossa come stuzzicadenti.»
Sidonius sbatté le palpebre. «Eh?»
«Non hai mai sentito parlare del Leone Rosso di Itreya?»
«’Bisso e sangue.» Mia guardò il cancello da cui era uscito l’executus.
«Quello è Arkades?»
Matteo si sfregò gli occhi e si mise a sedere più dritto. «Chi è Arkades?»
Macellaio lo derise. «Nessuno di loro sa un cazzo…»
«Il Leone Rosso, lo chiamavano» disse Mia.
«… L’executus era uno schiavo come noi?» chiese Matteo.
«Non come te, inutile pezzo di merda» ringhiò Macellaio. «Era un
fottuto gladiatii.»
«Vincitore del Venatus Magni dieci anni fa.» Mia parlò piano, la voce
bassa per la meraviglia. «L’Ultimae fu un tutti contro tutti. Ogni gladiatii
che era stato iscritto ai giochi fu liberato sulla sabbia per quello scontro
finale. Un guerriero mandato fuori ogni minuto, finché non smisero di
uccidersi. Devono essere stati quasi duecento.»
«Duecentoquarantatré» precisò Macellaio.
«E l’executus li uccise tutti quanti?» mormorò Matteo.
«Non da solo» disse Mia. «Ma fu l’ultimo a restare in piedi quando il
massacro terminò. Dicono che la sabbia dell’arena di Godsgrave non fu più
dello stesso colore, da allora.»
«Perciò lo soprannominarono il Leone Rosso» disse Macellaio. «Vinse la
libertà sotto i colori di Leonides, capisci? Rimase in piedi su una gamba
così malandata che dopo dovettero amputargliela.» Sogghignò a Sidonius.
«Vuoi ancora danzare con lui, ometto?»
Sidonius si accigliò, ma rimase in silenzio.
«Vi ho ordinato di dormire!» tuonò l’executus dalla saracinesca.
Macellaio tirò su col naso e si rotolò sulla sua paglia. Matteo lo imitò e,
dopo alcune imprecazioni colorite, Sid si raggomitolò dando la schiena a
tutti quanti. Mia sedette nella penombra a rimuginare.
Il bagliore diminuì lentamente, e i globi arkemici si spensero. L’oscurità
calò sulla caserma e solo debolissimi fasci di luce solare giungevano dalla
soglia, provenienti dalle scale che conducevano al piano di sopra. Mia
avvertì un formicolio sullo scalpo, la pelle che si accapponava. L’aria là
sotto era soffocante, densa della puzza di paglia e sudore. Ma almeno era
buio.
Sembrava quasi casa.
Attese un’ora, fino a quando ogni petto non si alzava e abbassava al
ritmo del sonno. Matteo mormorava. Sidonius russava piano. Mia si guardò
attorno nell’oscurità, accertandosi che tutti i suoi compagni fossero
immobili. Chiuse gli occhi. Trattenne il fiato

e Passò

fuori dalle ombre

nella sua cella

per arrivare in
quelle

dell’a
nticamer
a.

La stanza ondeggiò e lei si puntellò contro la parete. Poteva sentire il


calore di quei due soli ardenti nel cielo. Accovacciandosi, scrutò attraverso
la saracinesca, verso le celle. Lieta che la sua assenza non fosse stata notata,
si mosse furtiva come un sussurro nella fortezza.
Senza Messer Cortese o Eclissi nella sua ombra, il cuore le martellava e i
palmi erano sudati per la paura. Conosceva la disposizione dell’edificio
come il suo stesso nome, ma senza altri occhi eccetto i suoi si sentiva
completamente sola. Avrebbe potuto attendere fino al ritorno
dell’umbragatto da Whitekeep con delle novità, ma le sue domande non
potevano aspettare. Dal cambio in cui suo padre era morto, si era
domandata cosa fosse. Ora tutte le risposte potevano trovarsi solo a un
batticuore di distanza…
Si mosse rapida, con tutte le lezioni impartite dallo Shahiid Mouser che
le riecheggiavano nella testa. Ascoltò i passi delle guardie che pattugliavano
i piani inferiori. Ce n’erano solo due che facevano la ronda all’interno e fu
facile evitarle, intrufolandosi tra le tende di seta e scomparendo alla vista,
diretta verso le cucine.
Le trovò vuote: il cuoco macilento non si vedeva da nessuna parte. Ma
nella dispensa c’era cibo in abbondanza e Mia vi si gettò a capofitto,
mangiando a sazietà. Se voleva sopravvivere alla Sfrondatura, avrebbe
avuto bisogno di ogni briciolo di forza che poteva ottenere. Rubò due
forchette d’acciaio, poi sgattaiolò via dalla cucina senza un suono.
Evitò di nuovo la pattuglia, dando ascolto alla nausea nel suo stomaco e
procedendo a tentoni. Superò un lungo arazzo che raffigurava il venatus:
gladiatii che combattevano con belve fantastiche. Armature da gladiatii
fiancheggiavano il corridoio e la soliluce scintillava su elmi con pennacchi
e pettorali di acciaio lucidato. Ora la paura crebbe, agitandosi nella sua
pancia quando raggiunse una stanza con una fessura a sbarre e una serratura
di ferro.
E al di là…
Prese le due forchette dal perizoma e piegò i rebbi contro la parete.
Stando attenta ai rumori delle guardie, si inginocchiò davanti alla toppa e si
mise all’opera. Cedette in fretta, poi fu la volta della porta, e guardandosi
alle spalle per sincerarsi che non ci fossero guardie, Mia si intrufolò
all’interno.
Due mani si avvolsero attorno al suo collo, torcendo con forza e
facendola volteggiare sopra una spalla per poi sbatterla sul pavimento. Vide
le stelle quando il cranio impattò contro le pietre del pavimento e un gomito
spinse contro la sua gola. Sbatté le palpebre e notò un paio di occhi bruni
scintillanti e un volto bellissimo incorniciato da ciocche fluenti di un nero
corvino.
Furian, l’Imbattuto.
Si sedette su di lei, togliendole l’aria dai polmoni. Da questa distanza
ravvicinata, la nausea attanagliante che avvertiva in sua presenza la
divorava, diventando meno simile a un malanno e più a una fame terribile.
Ma la necessità di respirare era ancora più incalzante.
Mia punse con una delle forchette l’ascella del campione. Un
bell’affondo e sarebbe scivolata sopra la sua gabbia toracica e poi nel cuore.
La picchiettò contro l’incavo, cercando di non sputacchiare quando Furian
premette il gomito ancora più a fondo contro la sua laringe.
Lei spinse l’acciaio con più forza, guardandolo torvo senza poter parlare.
E infine Furian allentò la presa, scostandosi solo quanto bastava per
consentirle di respirare.
La sua voce era profonda e melodiosa. Il suo sguardo era del colore
marrone del cioccolato scuro, delizioso ma con una traccia di amarezza.
Mia si sforzò di non soffermarsi sul fatto che il corpo premuto contro di lei
era completamente nudo.
«Cosa ci fai qui dentro, schiava?»
Lei gli mise la mano libera sul gomito e lo spinse via lentamente.
«Dobbiamo parlare» replicò. «Fratello.»

a. Be’, per quanto una persona con una spada di necrosso e un borsello di esplosivi arkemici premuti
contro l’inguine possa scivolare.
b. Situato vicino ai bordelli e alle case di piacere di Piccola Liis, si dice che il Ponte delle Lacrime
debba il suo nome ai dispiaceri di mille amanti respinti, che nel corso degli anni sono stati su quel
ponte a piangere quando hanno scoperto che i loro amati avevano cercato la compagnia di un
deliziante o di una deliziatrice nel quartiere dei bordelli.
In verità, il ponte ottenne il suo soprannome molto prima che il distretto circostante diventasse
un covo di nequizie, e lo deve al motivo in pietra a forma di lacrima che sostiene la sua arcata
principale.
Tuttavia, mai lasciare che la verità sia un ostacolo per una buona storia, gentili amici.
c. Zoppichelli: gergo di Godsgrave per i triboli, così chiamati perché assomigliano all’esercizio
ginnico dei saltelli e al fatto che le persone che decidono di correrci sopra tendono a finire… Oh,
avete capito il concetto.
CAPITOLO 10
SEGRETI

Un tuono ruppe i cieli mentre Ash e Jessamine si scontravano sul tetto della
cattedrale.
Nessuna delle due emetteva un suono. Niente urlo di battaglia, né
un’imprecazione. Non un commento sarcastico. Entrambe erano state
addestrate nell’arte della morte dai migliori assassini della Repubblica ed
entrambe avevano imparato bene le lezioni. Ashlinn estrasse due stiletti
dalle maniche e respinse la carica di Jessamine. Mia sbatté le palpebre tra
la pioggia battente e quell’orrenda luce ardente, notando che le armi di Ash
erano scolorite a causa del veleno in cui erano state intinte. Anche se
Jessamine aveva il vantaggio di una lama più lunga, sarebbe bastato un
taglietto da parte di Ash per ucciderla.
Mia cercò a tentoni la sua spada lunga e provò ad alzarsi. Ma non riuscì
a fare nessuna delle due cose… non con quella maledetta Trinità attorno
alla gola di Ashlinn. Ogni volta che Ashlinn si muoveva, la soliluce soffusa
toccava la superficie del medaglione, trafiggendo gli occhi di Mia.
Serrando i denti, riusciva soltanto a trattenere un piagnucolio: non poteva
certo alzarsi e combattere.
Messer Cortese era fuggito e nemmeno Eclissi poteva avvicinarsi alla
Trinità. Mia era sola. Una paura tremenda crebbe nella sua pancia, un
terrore davanti a questo dio e al suo odio.
Tutto il suo potere. Tutto il suo addestramento. Tutti i suoi doni.
Ed era completamente inerme.
Jessamine balzò in avanti sulle tegole scivolose, mostrando la velocità e
l’istinto selvaggio che l’avevano resa l’alunna preferita di Solis. Ash
indietreggiò, con la paura che le brillava negli occhi quando si rese conto
di essere in difficoltà. Ma la sua voce era calma e fredda.
«Che bello rivederti, Jess. Come ti trovi nelle retrovie?»
Le note armoniose di acciaio su acciaio.
La percussione del tuono.
«Dimmi…» Ashlinn evitò a malapena il colpo di Jessamine «cos’hai
provato quando ti hanno accoppiata con la ragazza che ti ha impedito con
l’imbroglio di diventare una Lama?»
Jessamine rimase in silenzio, rifiutando di lasciarsi provocare. Spinse
Ashlinn all’indietro, tentando un affondo quando la sua avversaria scivolò
sulle tegole rese sdrucciolevoli dalla pioggia. Ashlinn si rimise in piedi
rapidamente, perdendo la stretta su uno dei suoi coltelli. Il pugnale
avvelenato slittò giù per lo spiovente del tetto, impigliandosi sull’orlo della
grondaia.
«Cos’hai provato quando Mia ha ucciso Diamo?»
Jessamine esitò per un attimo, poi rinnovò il suo attacco con intensità
furibonda. Ashlinn sorrise, indietreggiando più vicino al punto dove Mia
giaceva indifesa. Tenne la lama avvelenata di fronte a sé, ma era dalle sue
labbra che colava la sostanza più letale.
«Te lo scopavi?» chiese Ash. «Non l’ho mai scoperto. Cos’hai provato a
inginocchiarti davanti alla ragazza che lo ha assassinato?»
«Sta’ zitta» sussurrò Jessamine.
«È morto in modo disgustoso» incalzò Ashlinn. «Vomitando sangue.
Cagandosi nelle brache. Riuscivi a sentire la puzza dal cerchio della
prova? A me è arrivata una zaffata sulle tribune.»
«Sta’ zitta!»
Jessamine affondò, il volto contorto dalla rabbia. Ashlinn ruotò da una
parte e, con la sua avversaria sbilanciata, trovò il tempo per infilare una
mano in un borsello alla cintura. Prese una manciata e la gettò: un lampo
brillante di polvere arkemica scoppiò negli occhi di Jessamine. La rossa
indietreggiò barcollando, accecata e sputacchiante. Ashlinn si avvicinò per
ucciderla, ma, pur con lo stomaco in subbuglio, Mia riuscì ad allungare
una gamba e a sbalzare i piedi di Ashlinn da sotto di lei.
Jessamine e Ashlinn caddero assieme, fioretto e lama insanguinata a
sferragliare sulle tegole. Le ragazze si accapigliarono, artigliandosi la
faccia a vicenda, tra pugni, calci e imprecazioni. Ruzzolarono giù per il
tetto in pendenza, fermandosi sul bordo della grondaia. Ashlinn era stesa
sotto Jessamine, le mani strette attorno alla gola della rossa. Jessamine le
assestò un pugno forte, spaccandole il labbro. Ancora mezza accecata,
cercò a tentoni il colletto di Ash, avvolgendo la catena d’oro nel pugno e
strangolandola a sua volta. Vi fu un rombo di tuono e il fulmine squarciò i
cieli quando il medaglione scomparve alla vista di Mia: il dolore nel cranio
e la nausea nella pancia scemarono lentamente.
«Fottuta traditrice» sbraitò Jessamine, dando un pugno sulla mascella
di Ash.
«Levati… di d-dosso.»
Jessamine avvolse le dita attorno alla gola di Ash e le assestò un altro
pugno con la mano libera. Lo stava alzando per dargliene un altro quando
una voce si levò sopra la tempesta.
«Jess, è s-sufficiente.»
La rossa si rifiutò di guardarsi alle spalle e tenne gli occhi iniettati di
sangue su Ashlinn. Mia era in piedi: non sembrava affatto stabile, ma stava
scendendo lentamente per il tetto con la spada di necrosso in mano.
«Fottiti, Corvere» inveì Jessamine.
«Ci s-serve viva.» Mia sputò il sapore di vomito che aveva sulla lingua.
«Ha fatto il doppio gioco con i braavi. Ma loro hanno p-pagato una
fortuna. È impossibile che abbia semplicemente incenerito una mappa tanto
preziosa. Presumendo che ce l’abbia davvero, non la troveremo mai se la
uccidi.»
«Non prendo ordini da te.»
Mia sospirò. «Sei la mia Mano, Jess. È esattamente quello che fai.»
Jessamine si voltò per scoccare un’occhiataccia a Mia, ciocche di
capelli fradici davanti agli occhi. La sua frustrazione, la rabbia delle sette
illuminotti in compagnia di Mia, alla fine, ebbero la meglio su di lei.
«Dovrei essere io a consegnare questa Offerta. Dovrei essere io la Lama
qui, non tu.»
«Nessuno ha mai detto che la vita è giusta, Rossa.»
«Giusta?» Jessamine rise. «Chi caz… ghgh…»
Jessamine sbandò all’indietro, sprizzando sangue dalla gola. Ashlinn
pugnalò di nuovo la ragazza, la lama avvelenata caduta nella grondaia che
le lampeggiava nella mano. Jessamine emise un rantolo e si portò le mani
al collo perforato: rosso sangue arterioso zampillò tra le sue dita per poi
imbrattarle la tunica fradicia. Ashlinn colpì ancora. E ancora.
Mia ruggì il nome di Jess mentre il tuono rombava e Ashlinn prese la
Mano per il colletto e la lanciò in avanti. Jessamine afferrò il polso di Ash,
cercando con un tentativo disperato di fermare la propria caduta. Ma con
uno scrocchio nauseante, la ragazza ruzzolò giù dal tetto e rovinò sulla
recinzione che delimitava i terreni della basilica, impalandosi sulle punte in
ferro battuto.
I novizi là sotto urlarono dall’orrore e scapparono chiamando a gran
voce i Luminatii, il cardinale, chiunque. Archi seghettati color bianco-blu
illuminarono i cieli mentre Ashlinn si trascinava in piedi, zuppa del sangue
di Jessamine.
«Brutta puttana» sussurrò Mia.
Ashlinn si passò le nocche sulle labbra spaccate. Tastandosi la gola, si
rese conto che la Trinità non c’era più.
«Mia, tu non capisci cosa sta succedendo qui.»
Mia sollevò la sua lama. «L’hai uccisa.»
Le mani di Ashlinn erano insozzate di sangue.
Negli occhi di Mia si agitava la rabbia.
Il fulmine si rifletteva sul bordo pallido della sua spada lunga, nello
sguardo della ragazza morta impalata sulla recinzione in ferro battuto sotto
di loro.
Le campane della basilica ricominciarono a suonare, stavolta come
avvertimento. Gli accoliti si erano radunati nel cortile sottostante, urlando:
«Un omicidio! Un omicidio!». Mia venne avanti, la lama pronta. Con la
Trinità oltre il bordo dell’edificio, Messer Cortese ed Eclissi erano tornati,
colmando il vuoto terrificante che lei aveva provato con la forza di freddo
acciaio. I piedi di Ash erano intrappolati nella sua stessa ombra: non
poteva fuggire da nessuna parte. Ma Mia aveva detto il vero a Jessamine:
se avesse ucciso la ragazza ora, non avrebbe mai visto quella mappa. E
dopo la sua ultima flagellazione davanti al Culto, che fosse dannata se
fosse tornata da loro a mani vuote.
Ma se invece fosse tornata con la ragazza che aveva messo in ginocchio
il Culto?
“Madre Nera, immagina l’espressione sulla faccia di Solis…”
Così, Mia colpì la mascella di Ashlinn con l’elsa a forma di corvo della
spada. La ragazza crollò sul sedere, mezza stordita. Mia si mise a cercare
nei vestiti di Ash, negli stivali, nelle maniche, trovando lame, tossine e
polveri arkemiche e gettando tutto quanto giù dal tetto. Ash si mise a
sedere, frastornata, e Mia premette la punta della spada sul cuore della
ragazza. Riuscì a udire il debole suono di passi pesanti sopra il tuono.
«… luminatii, mia…»
«… BRUTTI FANATICI RELIGIOSI. LASCIA CHE VENGANO …»
«… hai così voglia di sangue, caro cagnaccio…?»
«… HAI COSÌ VOGLIA DI SCAPPARE, MICETTO …?»
«Apprezzo l’intenzione, Eclissi» sussurrò Mia. «Ma probabilmente
l’obiettivo qui è vivere per combattere un altro cambio.»
L’umbralupa ringhiò il suo assenso riluttante e Mia si voltò verso
Ashlinn.
«Bene. Puoi scendere da questo tetto in due modi. Con i piedi o con la
faccia in avanti…»
«È… una domanda t-trabocchetto?»
Mia conficcò la punta acuminata della sua lama nella pelle di Ashlinn. Il
necrosso era più duro dell’acciaio, tanto affilato da perforare la pietra.
Una spintarella e…
«Cerca di fuggire o perfino di respirare in un modo che non mi piace e
verniceremo il selciato di un’interessante tonalità di Ashlinn. Sono stata
chiara?»
«… mia, dobbiamo andare…»
La lama si mosse. «Chiara?»
Ash sussultò. «Come cristallo dweymeri.»
Mia si tolse la cintura dalla vita. «Porgimi i polsi.»
«Non sapevo che avessi queste inclinazioni» sogghignò Ash.
«Sinceramente, tutto quello che d…»
La lama penetrò più a fondo e Ashlinn trasalì dal dolore. Con
un’occhiata ferita, le porse i polsi. Mia vi fece girare attorno la cintura e li
strinse forte. Riusciva a udire chiaramente i legionari, ora, e una
moltitudine di cittadini si era radunata oltre i cancelli della cattedrale a
guardare inorridita il corpo penzolante di Jessamine.
Mia si alzò e tirò la cinghia di cuoio.
«Muoviti.»
Condusse Ashlinn fino a un tubo di scolo dietro la torre campanaria.
Una gargolla sputava acqua piovana dalla bocca nel cortile due piani più
in basso.
«Prima i traditori» insistette Mia.
«Sarà difficile calarmi con le mani legate, non credi?»
«Te la caverai. E non pensare nemmeno di scappare quando arriverai a
terra. I coltelli da lancio corrono più veloci di te, e ne porto sei della tua
misura.»
Ash si accigliò, ma nonostante tutte le sue lamentele, si calò giù per il
tubo senza troppi problemi. Mia la seguì, con Messer Cortese che le
sussurrava avvertimenti urgenti nell’orecchio. Le ragazze corsero per i
terreni della basilica, superando una necropoli disseminata di tombe di
varie familiae. Superarono con un balzo la recinzione di ferro mentre una
truppa di Luminatii circondava la cattedrale e urlava «Alt!». Mia afferrò la
cintura attorno ai polsi di Ash e trascinò in strada la sua prigioniera.
I legionari indossavano corazze d’acciaio e portavano spade di
solacciaio ardente, ma volteggiarono oltre quella recinzione più
rapidamente di quanto Mia avrebbe riconosciuto loro: un omicidio sul
terreno sacro ad Aa non era una questione da poco per i suoi fedeli. Mia
guardò la folla attorno a lei, soffermandosi per prendere la borsa piena
d’oro dei braavi dalla cintura di Ashlinn.
«Corvere, cosa cazzo…»
Mia lanciò il sacchetto in un ampio arco, sparpagliando monete d’oro
scintillante sulla folla. La reazione fu istantanea e sorprendentemente
violenta: le persone attorno a loro diedero in escandescenze quando si
resero conto che dal cielo stava piovendo una fortuna. Si precipitarono in
strada dalla taverna e dalle botteghe tutt’attorno: mendicanti, fornai,
macellai tagliarono la strada al drappello di Luminatii, urlando e menando
calci e pugni per contendersi l’oro di Ashlinn.
La ragazza urlò mentre Mia la trascinava via attraverso la pioggia
battente. Scattarono lungo un ampio ponte e giunsero nel dedalo di viuzze
dietro gli edifici degli administratii, e lì finalmente Mia trascinò Ashlinn in
una piccola rientranza.
«Ti rendi conto di quanto…»
«Fa’ silenzio» le sibilò Mia. Protendendosi verso le ombre attorno a
loro, Mia le colse con dita abili, torcendole e intessendole in un mantello
che posò sulle proprie spalle. Con un guizzo del polso, avviluppò anche
Ashlinn, proprio come aveva fatto il cambio in cui si erano intrufolate nelle
camere dell’Oratore Adonai. I ricordi del tempo trascorso nella Chiesa
Rossa indussero Mia a ripensare a Jessamine: la scena del corpo della
Mano che pendeva da quelle punte in ferro battuto le bruciava nella mente.
Jess, Tric, ogni Lama assassinata nel massacro dei Luminatii, la cattura
del Culto… Ashlinn era responsabile di tutto quanto. La ragazza tra le sue
braccia era come una serpe, attorcigliata e pronta a colpire.
«Nemmeno un suono» sussurrò Mia, premendo la lama di necrosso
contro la gola di Ash.
Il mondo era nero sotto il manto di Mia, ma lei udì comunque i legionari
che urlavano tra loro mentre perlustravano i vicoletti di Godsgrave. Le
ragazze attesero, premute l’una contro l’altra sotto le ombre di Mia per
interminabili minuti.
Finalmente un sussurro si levò sopra il picchiettio della pioggia.
«… se ne sono andati, mia…»
Ashlinn deglutì contro la lama premuta sulla sua gola. «Se mi uccidi
ora, giuro per la Madre che non vedrai mai la mappa che ti hanno mandato
a recuperare.»
«Allora è un bene che non abbia intenzione di ammazzarti adesso» disse
Mia. «Messer Cortese, controlla i tetti. Eclissi, tu perlustra più avanti e
assicurati che la strada fino alla Cappella sia sgombra.»
«… E SIA. MA SE UCCIDI QUALCUNO MENTRE NON CI SONO, SARÒ MOLTO
CONTRARIATA …»
Mia percepì le ombre attorno a lei incresparsi quando il non-gatto e la
non-lupa scivolarono via dall’oscurità ai suoi piedi. Messer Cortese guizzò
su per il muro, da ombra a ombra, mentre Eclissi si mosse lungo il selciato
e poi uscì in strada. Mia poteva sentire il cuore di Ash battere, e fiutava un
debole profumo di lavanda e sudore recente sulla sua pelle.
«Mi stai riportando alla Cappella?» chiese la ragazza.
«C’è una dose di Deliquio sulla lama contro la tua gola, Ash. Non sono
molto propensa a farti perdere i sensi e trasportarti sulle spalle, ma lo farò,
se devo. Ora, chiudi il becco.»
«Sono otto mesi che mi danno la caccia. Se mettono le mani su di m…»
«Puoi contare il cazzo che me ne frega senza mani, Ashlinn.»
«Non volevo uccidere Tric, Mia.»
Ashlinn sussultò quando Mia spinse il suo stiletto di necrosso sotto il suo
mento.
«Non osare pronunciare il suo nome.»
Ashlinn alzò le mani e parlò in modo lento e cauto. Mia poteva udire la
paura nella sua voce, il lieve tremolio che le rivelava che, malgrado la
facciata di Ash, la ragazza non voleva morire.
«Io volevo il Culto, Mia. Tutti gli altri si trovavano solo nel posto
sbagliato, al momento sbagliato.»
«Incluso il tuo stesso fratello?»
«Allora sei stata tu a uccidere Osrik.»
«No» replicò Mia. «Ma solo perché Adonai l’ha eliminato prima che io
ne avessi la possibilità. Siete stati voi due a uccidere Tric. Avete tradito i
vostri voti. Avete tradito la Chiesa.»
«Per vendicare mio padre! Tu in particolare dovresti capirlo.»
«Non sfidare la sorte, Ashlinn.» Mia serrò la sua stretta. «Mio padre è
morto.»
«Ah sì?» ringhiò Ash. «Be’, anche il mio.»
Quelle parole fecero esitare Mia. Domande non poste aleggiarono
nell’aria. Ora la pioggia stava diminuendo, i cieli ancora di un grigio
imbronciato. Ashlinn prese un lungo respiro esausto.
«Abbiamo evitato la Chiesa e le loro Lame per otto mesi» mormorò.
«Alla fine ci hanno preso a Carrion Hall. Mio padre era abile. Una delle
migliori Lame ad aver mai servito la Madre Nera. Ma chiunque esaurisce
la fortuna, prima o poi.»
Mia si limitò a scuotere il capo, rifiutandosi di infierire. Ashlinn
Järnheim era fatta di bugie. Aveva mentito per tutto il suo addestramento
alla Chiesa. Aveva mentito al Culto, a Mia, a chiunque avesse mai
incontrato. Aveva colpito al cuore Jessamine sul tetto della basilica e
adesso stava colpendo al cuore Mia. Ogni parola che pronunciava era
veleno.
«Non ho intenzione di dirti nuovamente di chiudere il becco, Ash.»
Ashlinn sospirò e il suo atteggiamento si sfaldò. «Non hai una fottuta
idea di cosa stia succedendo qui, vero? Io ti conosco, Mia. Pensi di sapere
cosa sia davvero la Chiesa Rossa? Credi che ti permetteranno mai di
uccidere Scaeva quando è lui a pagare i loro salari?»
Mia avvertì il nome del console come un pugno in pancia.
«Dici solo stronzate.»
«Perché pensi che Scaeva non sia già morto? Mezzo senato lo vuole
sottoterra. Credi che non possano permettersi di ingaggiare una Lama per
dargli il benservito se non fosse protetto dalla Sacralità? Julius Scaeva è un
fottuto bastardo, ma non è un fottuto sciocco. Sono anni che è un mecenate
della Chiesa.»
«Loro non…»
«Sono assassini, certo che lo farebbero! Non esiste alcuna sacralità in
quello che fa la Chiesa Rossa. Uccidono persone per denaro. Metà di loro
sono psicopatici e gli altri sono semplicemente dei sadici bastardi. Non
sono servitori di una qualche Dea della notte ultraterrena: sono solo fottute
puttane.»
La mente di Mia era in subbuglio. Sapeva di non potersi fidare affatto di
quello che diceva Ash… ma da qualche parte nelle sue parole, Mia poteva
udire il suono della verità. Le persone che rappresentavano una minaccia
per Scaeva venivano uccise come suo padre o comprate come i braavi. Non
avrebbe avuto senso che avesse comprato anche la Chiesa? Perché mai le
avrebbero ordinato che Scaeva non andava toccato?
«Come fai a sapere tutto questo?» le chiese.
«Perché sono una cagna subdola, Mia.»
«Tu sei una fregna bugiarda, ecco cosa sei.»
«C’è una cripta di ossidiana nelle camere della Reverenda madre»
rivelò Ash. «E in quella cripta tengono un registro di ogni Offerta accettata
dalla Chiesa. Tutti i loro clienti. Tutta la loro merda. Quando ho avvelenato
il Culto al banchetto dell’iniziazione, ho rubato il registro, Mia. È quello il
motivo per cui hanno dato la caccia a me e a mio padre negli ultimi otto
mesi. Non perché li avevamo traditi. Perché conosciamo tutti i loro piccoli,
sporchi segreti.»
Ashlinn voltò lievemente la testa, malgrado la lama contro la sua gola.
Quanto bastava per poter guardare Mia negli occhi.
«Incluso quello su di te e su tuo padre.»
Ashlinn tacque mentre Mia tornava a premerle la lama contro la gola.
Ash aveva ucciso Jessamine. Aveva ucciso Tric. Mia sapeva che avrebbe
fatto di tutto, detto qualunque cosa per evitare di essere riportata alla
Cappella.
«Sei una bugiarda» disse Mia.
«Lo sono. Ma non su questo, Mia. Se mi riporterai alla Chiesa, mi
uccideranno e tu non saprai mai la verità su quello che hanno fatto.»
«E dovrei prendere semplicemente per buona la tua parola come
garanzia?»
«Puoi vedere con i tuoi occhi.»
«… Hai il registro?»
«Qualcosa mi dice che i nomi su una pagina non ti faranno cambiare
idea. Ma posso dirti con esattezza dove andare per trovare una prova
scritta in qualcosa di più che semplice inchiostro.»
«Ah sì? E dove sarebbe, con esattezza?»
Ashlinn alzò lo sguardo su Mia, gli occhi azzurri che scintillavano come
zaffiri rotti.
«Alla Chiesa.»

«Non abbiamo nulla di cui parlare» sbraitò Furian.


Mia era ancora stesa sotto il campione del Collegio Remus, con il suo
braccio contro la gola. I muscoli si increspavano sull’arto e sul suo petto.
Premette di nuovo la forchetta contro le costole di Furian, tanto forte da
rompergli la cute.
«Non sono sicura delle altre donne che hai conosciuto,» disse piano «ma
a me non piace farlo sdraiata. Lasciami alzare.»
«Dovrei spaccarti i denti solo per avermi rivolto la parola. Come sei
entrata qui dentro?»
«Fammi. Alzare. Coglione.»
Furian lanciò un’occhiata alla porta ora socchiusa. Mia non aveva idea
delle conseguenze se fossero stati scoperti in reciproca compagnia, ma
dubitava che sarebbero state piacevoli. Poteva udire le guardie di pattuglia,
che si avvicinavano lentamente.
Con un’imprecazione, Furian si staccò da Mia e chiuse la porta con una
spinta. Ascoltò per un momento, con l’orecchio sul legno mentre le guardie
passavano. Mia squadrò il campione dall’alto in basso e la sua pelle si
accapponò d’istinto. Non aveva mai visto un uomo come lui, tutto pelle
dura e abbronzata e muscoli guizzanti. Ma era anche dotato di una certa
velocità. Flessuoso e feroce, come un grosso felino. Il suo corpo era
completamente glabro – rasato, ipotizzò lei – per mostrare il fisico alle folle
adoranti. La mascella era volitiva, i fiumi e le valli del suo addome
attiravano i suoi occhi verso il basso, mordendosi il labbro mentre si
abbeverava di quella vista.
Non aveva idea di cosa le fosse preso. Anche se lord Cassius le era
sembrato attraente, la reazione che aveva avuto in sua presenza non era
stata così… carnale. Forse perché non si era mai trovata a distanza così
ravvicinata con il Signore delle Lame? Forse perché all’epoca era più
giovane? Qualunque fosse il motivo, mentre guardava Furian ora, scoprì
che il respiro era più veloce. Le facevano male le cosce. Ondate di farfalle
si agitavano nella pancia.
La sua camera era scarsamente ammobiliata. Una finestrella a sbarre
guardava sull’oceano, un letto semplice era addossato alla parete e in un
altro angolo c’era un fantoccio di addestramento con spade di legno. Un
piccolo sacrario a Tsana, prima figlia del Semprevigile e patrona dei
guerrieri, si trovava sotto la finestra, e i tre cerchi intrecciati della Trinità di
Aa erano vergati sulla parete a carboncino. Anche se erano solo le Trinità
benedette dai credenti più fedeli di Aa a farla sentire male, la vista del
simbolo sacro era comunque un po’ inquietante.
Tutto sommato, gli alloggi di Furian non erano certo una villa da
midollani. Ma paragonati alla caserma, erano decisamente lussuosi. E, cosa
più importante, privati.
Quando le guardie furono passate oltre portata d’udito, il campione si
voltò verso Mia. Aveva la mascella serrata. Lunghi capelli scuri
incorniciavano quei deliziosi occhi color cioccolato.
«Lo senti, vero?» sussurrò Mia.
Furian attraversò la stanza e prese una striscia di lino grigio dal letto,
avvolgendosela attorno alla vita per avere un aspetto decoroso.
«Sento cosa?»
Mia si tirò su dal pavimento e si scostò i capelli dietro l’orecchio. Vide
un movimento con la coda dell’occhio e sbirciò le ombre proiettate sulla
parete dal lume di candela del reliquiario. La sua. Quella di Furian.
«Denti della Mannaia» mormorò. «Guarda…»
Le loro ombre si stavano muovendo di volontà propria.
I capelli ondeggiavano come a una brezza invisibile, sospinti avanti e
indietro come onde su una spiaggia solitaria. L’ombra di Mia si protese
verso quella di Furian, anche se la ragazza in carne e ossa non aveva mosso
un muscolo. L’Imbattuto allungò una mano e toccò la parete, come per
accertarsi che la sua ombra fosse reale. Ma quella non si mosse quando lui
lo fece, protendendosi invece verso Mia.
Il campione barcollò all’indietro, poi sollevò tre dita: il segno di
protezione di Aa contro il male. A quel gesto, le ombre rimasero immobili,
tremolando solo per la fiammella della candela.
«Tu sei come me» disse Mia.
Furian sbatté le palpebre e si voltò di nuovo verso Mia.
«Io non sono affatto come te» ringhiò. «Io sono un gladiatii.»
«Intendo che sei tenebris» precisò Mia. «Proprio come me.»
«Te lo ripeto, non sono affatto come te, ragazza.»
«Dov’è il tuo passeggero?»
«Il mio… cosa?»
«Il tuo demone» disse Mia. «Io ne ho due che vivono nella mia ombra.
Di solito, per lo meno. Che forma indossa il tuo? E dov’è?»
«Non conosco nessun demone,» bofonchiò «tranne quello che si trova
davanti a me ora.»
La squadrò da capo a piedi con un’espressione simile a disgusto in viso.
Ma Mia riusciva a vedere la sua pelle accapponarsi, proprio come stava
accadendo a lei stessa. Il respiro di Furian era più irregolare, le pupille
dilatate… tutti i segni rivelatori che la Shahiid Aalea le aveva insegnato a
riconoscere in un uomo. O in una donna.
“Desiderio.”
«Come sei uscita dalla tua cella?» domandò.
Mia scrollò le spalle. «Sono Passata tra le ombre.»
«Stregoneria» sbraitò lui.
«Non è stregoneria. È quello che siamo. Tu non riesci a fare lo stesso?»
«Non voglio avere nulla a che fare con l’oscurità.» Furian alzò di nuovo
quel segno di protezione.
«Ma lo hai già fatto» disse lei, avvicinandosi. «Questo stesso cambio
sulle sabbie, quando ho combattuto contro l’executus. Mi hai impedito
di…»
«Esci di qui, ragazza. Io sono il campione di questo collegio e un figlio
timorato di Aa. I gladiatii non si mischiano con la pula, e io non mi mischio
con gli eretici.»
Mia lanciò un’occhiata al sacrario dedicato a Tsana e alla Trinità di Aa
sulla parete.
“È mai possibile?”
«… Sei un credente? Come puoi…»
«Vattene» sibilò lui. Non osava alzare la voce per timore che le guardie
lo sentissero, ma Mia poteva vedere la furia nei suoi pugni serrati, nei
tendini rigidi sul collo. «Se le guardie ti trovano nella mia cella, l’executus
toglierà la pelle dalla schiena di entrambi. E io non verserò sangue per una
come te. Ora vattene, prima che ti spezzi il collo e decida di rischiare la
sorte con la pietà della Dominatii.»
La sua ombra fremette lungo la parete, le mani tese verso la gola di
quella di Mia. Lei indietreggiò, ma la sua ombra rimase immobile, i capelli
che si muovevano e si attorcigliavano come un covo di serpenti. La fame
crebbe di nuovo dentro di lei, insieme alla nausea, ora mista a una sorda
rabbia ribollente.
Quest’uomo non sapeva nulla sui tenebris. Non sapeva nulla su se stesso.
Non c’erano risposte, qui. Solo altre domande.
E quanto più tempo rimaneva nella sua stanza, più aumentavano le
probabilità che la scoprissero.
Mia indietreggiò lentamente, senza voltare le spalle, ascoltando per
sentire se le guardie fossero vicino alla porta. Non udendo nulla, la aprì
senza fare rumore e controllò che il corridoio lì fuori fosse sgombro.
Soddisfatta, si girò a guardare il campione del collegio, la cui ombra
tremolava sulla parete.
Ricordò a se stessa perché si trovava qui. Per risultare vincitrice nel
magni avrebbe dovuto sconfiggere quest’uomo, tenebris o no. E qualunque
legame oscuro potesse avere con lui, era secondario alla consapevolezza
che il campione si frapponeva tra lei e la vittoria.
Tra lei e la vendetta.
“E sia.”
«Questa è una bella stanza» osservò guardandosi attorno.
«Che vuoi dire?» la apostrofò Furian.
Mia scrollò le spalle.
«Io non mi ci abituerei troppo, se fossi in te.»
La ragazza sgattaiolò fuori dalla porta e se la chiuse alle spalle.
La sua ombra impiegò qualche attimo prima di seguirla.
Crac!
«I gladiatii non temono nulla, tranne la sconfitta!»
Crac!
«I gladiatii non hanno sete di nulla, tranne della vittoria!»
Crac!
«I gladiatii non hanno nessun motivo per vivere, tranne la gloria!»
Quella era la melodia che segnava le ore di Mia, a soffocare sotto i soli
cocenti. La voce dell’executus era la strofa, lo schiocco della frusta il ritmo,
e i grugniti, i sospiri e le imprecazioni degli uomini e delle donne attorno a
lei il ritornello.
Era trascorsa una settimana dal suo arrivo a Crow’s Nest, ma quei sette
cambi erano sembrati lunghi come anni. L’executus non aveva mostrato
alcuna pietà, facendo esercitare lei, Matteo e Sidonius con ogni arma, ogni
forma di combattimento, ogni trucco e inganno che i suoi anni nei giochi gli
avevano insegnato. Combattevano nel cerchio oppure sui livelli irregolari
del cortile, perfino nel sonno. Assaggiavano la sua frusta ogni volta che
incespicavano. A ogni passo falso. A ogni minimo errore.
Crac!
Crac!
Crac!
Loro tre venivano tenuti separati dai gladiatii: erano ultimi anche per i
bagni e i pasti. Macellaio aveva rovinato almeno altri tre dei loro
ultimipasti, due volte pisciandoci dentro e una volta con una manciata di
merda di cane che era andato a raccogliere dopo che Zanna aveva fatto i
suoi bisogni nel cortile. Mia aveva rubato cibo ogni illuminotte durante le
sue gitarelle tra le ombre nelle cucine; una volta era riuscita perfino a
passare di nascosto del pane a Sidonius e Matteo con la scusa che l’aveva
trovato nella mensa. Ma stava comunque dimagrendo. Le altre due reclute
erano in condizioni perfino peggiori.
«Inutili figli di puttana!» ruggì l’executus al terzetto. «Entro pochi cambi
uscirete sulle sabbie del venatus sotto i colori di questo collegio. Se pensate
che la folla non urlerà per avere altro sangue quando verserete la prima
goccia, siete degli sciocchi ancora più grossi di quanto credessi. Ora,
attaccate con intenzione!»
«Executus?» giunse una voce da sopra.
Mia alzò lo sguardo e vide Domina Leona in piedi sull’ampia balconata.
Era vestita con frusciante seta bianca, oro ai polsi e i capelli ramati
intrecciati lungo la schiena.
«Attenti!» ruggì l’executus.
I gladiatii si fermarono e si portarono i pugni al petto.
«Dominatii?» chiese l’executus.
La donna incurvò un dito per chiamarlo.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» si inchinò l’uomo.
Poi si voltò verso Mia e i suoi compagni.
«Sidonius, esercitati con i fantocci di legno.» Guardò torvo Mia e
Matteo. «Voi due, combattete nel cerchio. Ragazza, porti ancora lo scudo
come se fosse un mazzolino di fiori. E Matteo agita la spada come un
bambino di tre anni sventola l’uccello. Se volete tenere quelle teste graziose
sulle spalle durante la Sfrondatura, entrambi fareste meglio a lavorare
sodo.»
L’executus si accarezzò la barba, poi si allontanò zoppicando nella
fortezza. Sidonius si mise al lavoro con i fantocci da addestramento, mentre
Verme andò a prendere spade e scudi di legno per Mia e Matteo e i due
cominciarono a esercitarsi, scontrandosi nella polvere e danzando attorno al
cerchio.
«Lavorare sodo?» sbraitò Matteo. «Cosa ’bisso pensa che abbiamo fatto
tutta la settimana?»
Mia non rispose, concentrata sull’addestramento. Malgrado fosse un
completo bastardo, ora che lei sapeva che l’executus era Arkades, pendeva
da ogni sua parola. Se il Leone Rosso le diceva di esercitare il braccio con
cui reggeva lo scudo, allora, Madre Nera, lei avrebbe esercitato il suo
fottuto braccio che reggeva lo scudo.
«Colpisci più forte» ringhiò. «Incalzami.»
«Lo sto facendo!» urlò Matteo, affondando con la sua lama.
Mia deviò i suoi attacchi con facilità, e una gragnola di colpi fece
saltellare il ragazzo all’indietro sulla sabbia. Lei percosse di nuovo il suo
scudo, sputando polvere dalla lingua.
«’Bisso e sangue, mi stai attaccando come se fossi fatta di vetro.
Colpiscimi!»
Matteo parò un altro colpo e reagì con una risposta debole. Lame di
legno sbatterono contro scudi di legno e i loro piedi danzarono a quel ritmo
frenetico.
«Non voglio farti del male, Corvo» disse Matteo.
«E perché no? Perché potrei fartene anch’io?»
«Perché… sei una ragazza» disse lui.
Mia sgranò gli occhi a quelle parole. Strinse i denti, poi avanzò
trascinando i sandali nella polvere e schivando l’affondo di Matteo.
Ruotando sul posto, lo centrò con forza sulle scapole, facendolo barcollare.
Mentre lui si voltava per fronteggiarla, gli assestò un colpo in faccia con lo
scudo che fece schizzare sangue quando cadde a terra.
Mia torreggiò sopra di lui, premendogli la lama di legno contro la gola.
«Tieniti stretti i tuoi fottuti gioielli» disse. «Forse tua madre ti ha
allevato dicendoti di trattarci tutte come fiorellini delicati, o forse stai solo
pensando con l’uccello. Ma non ci sono ragazze sulla sabbia. Niente madri
o figlie. Figli o padri. Solo nemici. Passa un momento a preoccuparti di
cos’ha il tuo avversario in mezzo alle gambe e ti ritroverai la testa staccata
dal corpo. E a cosa ti servirà il tuo stupido uccello, allora?»
Il ragazzo si asciugò il sangue dalla faccia, deglutendo forte.
«Perdono» borbotto. «Io…»
«Gladiatii! Attenti!»
Mia girò le spalle alla faccia insanguinata di Matteo, voltandosi verso il
balcone. Vide l’executus Arkades con Domina Leona accanto a lui. La
donna sorrise come i soli e parlò con voce chiara e forte.
«Miei Falconi! Domani partiremo per Blackbridge e per i grandi giochi
tenuti in onore del governatore Salvatore Valente! Questo è il secondo
evento ufficiale della stagione del venatus, e tutti gli occhi saranno puntati
su di esso. Il Collegio Remus ora gode di grande considerazione, grazie alla
vittoria del nostro campione a Talia il mese scorso.»
A quelle parole, indicò Furian con un ampio gesto della mano. I gladiatii
ruggirono il suo nome, percuotendo le spade sugli scudi.
«Ma il trionfo di Furian non ci ha ancora assicurato un posto nel magni!»
continuò Leona. «Le folle sono ancora più assetate di sangue e gli editorii
cercano solo i migliori per il loro magnifico spettacolo. Dobbiamo ottenere
la vittoria. Noi otterremo la vittoria!»
«Vittoria!» urlarono.
«I seguenti gladiatii si sono guadagnati il diritto di partecipare al venatus
di Blackbridge e di combattere per i Falconi di Remus. Vieni avanti,
Macellaio di Amai!»
Il Guastatore di farinate venne avanti con il suo sorriso da bambino che
aveva preso troppe botte sulla testa, sollevando le nocche verso gli uomini
dietro di lui.
«Cantalame, la Mietitrice di Dweym!»
La donna con i tatuaggi su tutto il corpo fece un passo avanti e si
inchinò.
«I nostri equillai, Byern e Bryn, entusiasmeranno la folla ancora una
volta!»
I biondi fratelli vaaniani si piegarono in un inchino profondo. Guardando
più da vicino i due fianco a fianco, Mia capì che erano gemelli: erano
semplicemente troppo simili per essere qualcosa di diverso.
«La nostra leggenda delle sabbie, il più potente Falcone di questo
collegio, vincitore di Talia: Furian, l’Imbattuto!»
Il campione venne avanti alle acclamazioni dei suoi compagni, le spade
gemelle in mano. I suoi occhi erano fissi sul balcone quando si profuse in
un inchino, i lunghi capelli neri che scendevano attorno agli zigomi alti e
alla mascella squadrata. Mia guardò verso la sua ombra e non vide nulla di
particolare. Ma la sua si increspò lievemente, come acqua immobile quando
vi viene gettato un sasso.
«E infine» chiamò Leona. «Le nostre tre nuove reclute scommetteranno
le loro vite nella Sfrondatura, guadagnandosi il loro posto tra voi o morendo
nel tentativo. Pregate che Aa conceda loro il suo favore, che Tsana guidi le
loro mani alla vittoria.» Leona fece spaziare lo sguardo tra il suo gregge e
spalancò le braccia. «Sangue e Gloria!»
«Sangue e Gloria!» ripeterono tutti urlando.
Mia li ascoltò gridare, i pugni levati in alto. In verità, lei non voleva
avere nulla a che fare con la gloria. Il suo scopo, il suo sogno, il suo unico
premio era il sangue. Il cardinale Duomo e Scaeva a poca distanza sul podio
del vincitore. Ma per trovarsi davanti a loro, doveva accumulare abbastanza
vittorie da garantirle un posto nel magni. E in qualche modo, in mezzo a
quel bagno di sangue e a quella carneficina, doveva uscire vincitrice.
I gladiatii attorno a lei guardarono verso il cielo, appellandosi ad Aa e
alla sua primogenita perché concedessero loro la vittoria. Ma a Mia non
serviva a nulla il Semprevigile, né sua figlia guerriera. Aa si era dimostrato
suo nemico, e Tsana non l’aveva mai aiutata prima.
Perché avrebbe dovuto cominciare a farlo ora?
E così, Mia voltò gli occhi verso la sabbia. Verso l’ombra nera addensata
attorno ai suoi piedi. Domandandosi se la dea avrebbe risposto dopo tutto
ciò che aveva fatto.
Tutto quello che aveva distrutto.
Si domandò se le preghiere potessero aiutarla in qualche modo.
«Madre Nera» mormorò. «Concedimi forza.»
CAPITOLO 11
TUONO

Mia emerse dalla pozza di Adonai con un respiro profondo.


Aveva sangue negli occhi e sulla lingua, e le pulsava nelle tempie. In
piedi, nuda in quella pozza, guardò l’Oratore al vertice. Carnagione
pallida e capelli ancora più bianchi, le labbra increspate in un sorrisetto.
Aprì gli occhi, le cornee chiazzate di rosso.
«Sei tornata, Lama Mia. Il tuo obiettivo è perito, la tua Offerta
completata?»
«Non ancora.»
Adonai inclinò il capo e il suo sorriso si allargò. «Allora ti sono
mancato, nevvero?»
Mia si girò e uscì al guado dalla pozza, sentendo gli occhi dell’Oratore
vagare sulle sue curve. Gocciolando rosso sulla pietra, si diresse ai bagni
per lavar via il sangue, immergendosi sotto la superficie dell’acqua con un
sospiro.
«… non mi piace tutto questo, mia…»
Messer Cortese era seduto a un angolo della sua vasca, e la fissava con
i suoi non-occhi.
«Nemmeno a me. Ma che alternativa ho?»
«… ashlinn è una bugiarda e noi siamo degli sciocchi a fidarci di lei…»
«Noi non ci fidiamo di lei. Eclissi la sta sorvegliando.»
«… io non mi fido nemmeno di eclissi…»
Mia si asciugò, poi si avvolse in cuoio e velluto nero, pensando a dove
aveva lasciato Ash: incatenata a un letto a baldacchino in una locanda
scadente di Godsgrave, con una lupa fatta di ombre sopra di lei, che le
mostrava le zanne trasparenti. Eclissi non poteva davvero toccare la
ragazza, naturalmente. Ma Mia non sentiva il bisogno di farlo sapere ad
Ashlinn.
«… ti sta menando per il naso, mia…»
«Credi che non lo sospetti anch’io? Non sono una fottuta idiota, Messer
Cortese. Ma se stesse dicendo la verità?»
«… allora ci ritroveremmo in acque interessanti…»
«Io devo sapere…»
L’umbragatto sospirò.
«… capisco. e sono con te, mia. non aver paura…»
Lei controllò la lama di necrosso alla cintura e l’altra nella manica.
«Non con te al mio fianco.»
Sgattaiolò fuori dal bagno, nella penombra della Chiesa Rossa. Gli inni
del coro spettrale aleggiavano nell’aria mentre saliva per scale tortuose e
percorreva corridoi di pietra nera, su cui erano intagliati interminabili
motivi a spirale. Naev una volta le aveva detto che quei motivi alle pareti
erano un canto che permetteva di trovare la strada al buio. Pensando a
tutto quello che Ashlinn le aveva detto, scoprì che desiderava conoscere le
parole. Se la ragazza aveva detto il vero, Mia sarebbe stata completamente
perduta.
“Non può essere vero.”
Proseguì tra la tenebra affamata.
“Non può…”
Su e giù per scale a chiocciola finché non la raggiunse.
La Sala degli Elogi.
Alzò lo sguardo sulla statua torreggiante di Niah, spada e bilancia in
mano. Forse si trattava di un trucco della luce, ma la dea sembrava più
arcigna del solito.
I passi di Mia riecheggiarono per la sala silenziosa mentre percorreva il
perimetro, facendo scorrere i polpastrelli sul cenotafio con inciso il nome di
Tric. Allora ripensò al suo amico. Ai consigli che le aveva dato. Al conforto
che lei aveva trovato tra le sue braccia. Lui era stato una roccia in un
mondo che diventava sempre più incerto ogni illuminotte…
«Ti manca» giunse una voce.
Mia si voltò e vide la Shahiid Aalea in piedi sotto l’arcata, gli occhi
scuri che scintillavano. Era vestita completamente di rosso sangue, lo
stesso colore delle sue labbra. Riccioli neri le ricadevano attorno alle
spalle, il suo incarnato pallido come alabastro. Una donna come lei poteva
sembrare gelida come freddinverno nella luce sbagliata. Ma il sorriso di Aa
era caldo come un bicchiere di aureovino.
«Shahiid» disse Mia con un inchino profondo.
«Sei tornata.» Occhi scuri guizzarono sul volto di Mia. «Ma senza
vittoria, a giudicare dalla tua espressione.»
«Mi serviva un’illuminotte nel mio letto» disse Mia. «Ma la Domina è
morta. E la mappa è quasi nelle mie mani.»
«Scommetto che avresti preferito trovare lì il ragazzo.»
Aalea annuì e fece un cenno verso il cenotafio di Tric. Anche Mia lo
fissò senza dire nulla. La Shahiid fece scorrere le punte delle dita sul nome
di Tric, intagliato nella pietra.
«Ti manca?» domandò.
Mia pensò che non avesse senso negarlo.
«Non come se mi mancasse un pezzo di me.» Scrollò le spalle. «Ma sì.
Mi manca.»
Aalea increspò le labbra, come se non fosse sicura di voler parlare.
«Ho amato qualcuno, una volta» disse infine. «Pensare a questo posto,
alla vita che ho scelto, non potrebbe macchiare ciò che sapevo essere così
puro.» La Shahiid fece scorrere le dita sulle labbra. «Amavo quell’uomo
come la Notte amava il Giorno. Gli promisi che saremmo stati assieme per
sempre.»
«Cosa accadde?» domandò Mia.
«Morì» sospirò Aalea. «La morte è l’unica promessa che tutti noi
manteniamo. Questa vita che viviamo… in essa c’è spazio per l’amore,
Mia. Ma un amore come foglie d’autunno. Bellissimo un cambio. Un falò il
successivo. Ma poi solo ceneri.»
Mia rimase senza parole all’immagine evocata da Aalea. Spostò gli
occhi sulle tombe. Non aveva intenzione di destare sospetti, ma l’ultima
cosa al mondo che voleva era stare qui a parlare di amore e perdita con
una persona che si era macchiata di innumerevoli omicidi. Non se quello
che le aveva detto Ashlinn aveva una minima correlazione con la verità…
«Pensavi che un cambio ti saresti potuta ritrovare accanto a un allegro
focolare?» chiese Aalea. «Con uno spasimante al tuo fianco e dei nipotini
sul ginocchio?»
«Non sono più certa di cosa immagino.»
«Non è questo il destino di una Lama» disse Aalea, prendendo la mano
di Mia e premendosela contro le labbra. «Ma esiste una bellezza nel sapere
che tutte le cose finiscono, Mia. Le fiamme più luminose bruciano più
veloci. Ma in esse c’è un calore che può durare una vita intera. Perfino da
un amore che dura solo per un’illuminotte. Per persone come noi, non ci
sono promesse che durano per sempre.»
Mia guardò la statua sopra di loro. Quegli occhi che la seguivano
ovunque si muovesse. «Mio padre era solito dire che l’arte di narrare una
buona storia consiste nel sapere quando fermarsi. Se continui a parlare,
troverai che non esiste nessun lieto fine.»
Aalea sorrise. «Un uomo saggio.»
Mia scosse il capo. Ricordò il modo in cui era morto. Per cosa era
morto.
«Non così saggio.»
Le parole di Ashlinn le risuonavano nelle orecchie. Serrò la mascella.
Aalea guardò di nuovo il cenotafio di Tric.
«Sarebbe stato un’ottima Lama» sospirò lei. «Ed era bellissimo. Ma non
c’è più. Non permettere ai tuoi dolori di farti deviare dal tuo cammino,
Mia.»
Mia guardò Aalea in profondità negli occhi. La sua voce era ferro.
«Conosco il mio cammino, Shahiid. A volte, il dolore è tutto quello che
mi mantiene su di esso.»
Aalea sorrise nuovamente, dolce e scura come cioccolato.
«Perdonami. Le abitudini di una vecchia insegnante sono dure a morire,
suppongo. Tu sei una Lama, per ora. E una donna. Una donna bellissima.»
Aalea si sporse in avanti, gli occhi fissi in quelli di Mia, le labbra solo a un
alito dalle sue. «Ti ho sempre apprezzata. Sappi che se mai ti dovesse
servire un consiglio, avrai il mio. E se mai desiderassi accendere un falò
per tenerti al caldo un’illuminotte, io sono qui.»
Il battito del cuore di Mia accelerò e la sua pelle formicolò. Così da
vicino, poteva fiutare il profumo di rosa e miele della Shahiid. Fissando in
quegli occhi scuri pitturati di kajal, si domandò di nuovo se nell’aroma di
Aalea fosse all’opera qualche arkemia o se…
“Occhi sul premio, Corvere.”
Mia fece scivolare via la mano da quella di Aalea. Poi si umettò le
labbra improvvisamente secche.
«Grazie, Shahiid» mormorò. «Ci penserò su.»
«Sono certa che lo farai, amore mio» disse Aalea, sorridendo ancora di
più. «Ma ora ti lascio ai tuoi ricordi. Fai in modo che il Reverendo Padre
non ti trovi qui senza la tua preda, a meno che non ti piaccia realmente
sentirlo infuriarsi.»
La Shahiid di Maschere inclinò il capo e scivolò fuori dalla sala,
lasciando il suo profumo ad aleggiare nell’aria. Mia la osservò
allontanarsi e l’attrazione per la donna per poco non le fece perdere
l’equilibrio. Ma la consapevolezza del perché si trovava qui mitigava tutto
quanto, schiacciando le farfalle nel suo stomaco. Percepì la sua ombra
incresparsi, la tenebra ingrossarsi ai suoi piedi.
«… pericolosa, quella…»
«Lo stesso si potrebbe dire di ogni donna che conosco.»
«… da dove cominciare…?»
«Tu inizia da questo punto e dirigiti verso l’interno. Io comincerò ai
piedi della Madre. Tieni bene aperte le orecchie. Non vogliamo alcuna
compagnia.»
«… non ti aspetti sinceramente che questa ricerca dia frutto…»
«Non so più cosa aspettarmi. Cominciamo.»
Mia si accovacciò ai piedi della statua di Niah e, alla luce di quei
dannati vetri colorati, iniziò a esaminare i nomi incisi nella pietra. Uno a
uno. Erano migliaia. Una spirale che si dipanava dai piedi della dea. I
nomi di re, senatori, legati, lord. Preti e deliziatrici, mendicanti e bastardi. I
nomi di ogni vita presa al servizio della Madre Nera.
Il coro e Messer Cortese erano la sua unica compagnia mentre lavorava
in silenzio. Si domandò cosa avrebbe fatto se tutto ciò che Ashlinn le aveva
detto si fosse rivelato vero. Una volta o due fu costretta a nascondersi sotto
il suo manto d’ombra quando una Mano o nuovi accoliti passarono per la
sala. Ma per la maggior parte del tempo non fu interrotta e rimase lì in
ginocchio al buio mentre i nomi dei morti si fondevano indistinti dentro la
sua testa.
Si ricordò il cambio in cui era morto. Suo padre. In piedi davanti al
cappio e alla folla strepitante. Il cardinale Duomo sul patibolo, quella
barba come una siepe e le spalle ampie. Julius Scaeva che stava in alto,
con i suoi capelli nerissimi, i profondi occhi scuri e le vesti da console
inzuppate di porpora e di sangue. Era lì per guardare i capi della ribellione
giustiziati per i loro crimini contro la grande Repubblica itreyana. Il
tribuno Darius Corvere e il generale Gaius Antonius avevano radunato un
esercito e l’avevano fatto marciare sulla loro stessa capitale. Ma alla
vigilia dell’invasione era giunta la salvezza e i capi della ribellione erano
stati consegnati nelle mani della Repubblica.
Mia era stata troppo giovane per chiederlo. E poi troppo accecata per
domandarlo.
Ma come?
Come era stato possibile che i capi della ribellione fossero caduti nelle
grinfie del senato quando erano rifugiati al sicuro all’interno di un
accampamento armato? Antonius non era uno sciocco. E nemmeno il padre
di Mia. Ci sarebbe voluto Dio in persona per violare le loro difese e
portarli via di nascosto…
Dio. O forse qualcuno al servizio di una dea…
«… mia…»
Alzò lo sguardo al tono della voce di Messer Cortese e le sue pupille si
dilatarono al buio.
«… oh, mia…»
Si precipitò sul pavimento dove si trovava l’umbragatto. Esaminò i nomi
incisi nel granito. Suo padre e Antonius erano stati impiccati davanti alla
folla di Godsgrave: anche se la Chiesa Rossa avesse avuto qualcosa a che
fare con la loro cattura, non li avevano uccisi effettivamente. Ma se altri
fossero caduti durante la loro cattura, allora forse…
La pancia di Mia divenne come ghiaccio untuoso.
«’Bisso e sangue» mormorò.
Inciso nella pietra, proprio come aveva promesso Ashlinn. Un unico
nome tra quelle migliaia. Il nome di uno schiavo che aveva acquistato la
propria libertà eppure era rimasto al fianco di suo padre anche dopo. Il
braccio destro di Darius Corvere. Il suo maggiordomo. Un uomo che
doveva essere stato con il suo tribuno mentre si preparava per marciare
sulla propria capitale. Un uomo che si sarebbe dovuto trovare con suo
padre fino alla fine.
“Andriano Varnese.”
«… è vero, allora…»
Il gelo si diffuse nella sua pancia mentre seguiva il nome nella pietra
con le dita.
In bocca aveva ceneri e polvere.
La Chiesa Rossa aveva giocato un ruolo nella cattura di suo padre. Nel
fallimento della ribellione. Per quale altro motivo il nome del maggiordomo
di suo padre sarebbe stato inciso su quella pietra? In quale altro modo un
generale e il suo tribuno potevano essere stati catturati in mezzo a
diecimila uomini?
Per tutto questo tempo, si era addestrata in un covo di assassini per
vendicarsi degli uomini che avevano giustiziato suo padre. Non aveva mai
immaginato, nemmeno per un momento, che gli assassini con cui si stava
addestrando avessero avuto un ruolo in quella stessa esecuzione.
E tutto per conto dell’uomo che lei voleva eliminare più di chiunque
altro.
Quello che Ash aveva detto era vero.
Ogni cosa.
In un attimo, tutto era stato disfatto.
«Oh, Dea» mormorò Mia.
Guardò la statua sopra di lei. La spada e la bilancia che aveva in mano.
I gioielli che scintillavano sulla sua veste, come stelle nell’immobilità del
verobuio. Quegli occhi neri e spietati.
«Oh, Madre Nera, cosa faccio ora?»

La folla era un tuono.


Riverberava sulla pietra attorno a lei, riecheggiava sulle pareti lustre di
sudore. La polvere calava dalle travi di legno sopra Mia, il rimbombo di
migliaia di piedi, il tremore dei loro applausi, gli scrosci assordanti della
loro adulazione tutt’attorno a lei, che le facevano formicolare la pelle e
vibravano in fondo alla sua pancia.
Mia non aveva mai udito nulla del genere in tutta la sua vita.
Si trovava nella cella di detenzione sotto l’arena, e scrutava le sabbie
attraverso le sbarre. Matteo era al suo fianco, gli occhi scuri sgranati dalla
meraviglia. Sidonius camminava su e giù per la loro piccola cella, come un
animale in gabbia che bramava di essere liberato. O forse di scappare. Mia
guardò la parola CODARDO marchiata sul suo petto. Si domandò cos’avesse
fatto con esattezza per meritarsela.
«Hai mai assistito a un venatus, piccolo Corvo?» chiese.
«Mio padre non me l’ha mai permesso. Pensava che i giochi fossero una
barbarie.»
Sidonius guardò in direzione della folla e annuì. «Un uomo saggio.»
«Non così saggio…»
Il viaggio sul carro da Crow’s Nest a Blackbridge aveva richiesto quasi
una settimana. Come sempre, Mia, Matteo e Sidonius erano stati tenuti
separati dai veri gladiatii e nessuno di loro si era degnato di rivolgerle la
parola. Erano stati ben nutriti, però, e forse per solidarietà per quello che
stava per accadere, Macellaio si era astenuto dal pisciare dentro altri pasti.
Dopo sei cambi, erano arrivati all’ombra delle Montagne Spinadraco ed
erano entrati nella metropoli in espansione di Blackbridge. a
Ora attendevano sotto la grande arena della città. Le prime esibizioni
erano in corso: omicidi pubblici patrocinati dagli administratii locali. Mia
osservò mentre le sabbie venivano battezzate col sangue: criminali
condannati, eretici e schiavi fuggitivi venivano giustiziati ex gladiatii,
stuzzicando l’appetito della folla per l’imminente spargimento di sangue.
L’arena di Blackbridge era enorme, ellittica e lunga centinaia di piedi.
Ospitava almeno ventimila persone e la folla veniva protetta dalla soliluce
grazie a teloni azionati da dispositivi mekana. I palchi e le tribune erano
pieni zeppi: la gente aveva viaggiato dai dintorni per miglia per assistere al
sangue e alla gloria del venatus. Mia poteva vedere ambulanti che
vendevano carne salata e vino. C’erano mogli sedute con i mariti, bambini a
cavalcioni dei genitori per vedere meglio.
“Nulla riunisce la familia meglio di un bel pomeriggio di massacri.”
Essendo schiavi comuni, il combattimento di Mia e delle altre reclute era
programmato per primo. La Sfrondatura era sempre uno spettacolo
sanguinoso, e gli editorii cercavano di mettere in piedi un
bell’intrattenimento per la folla. Ma la folla preferiva comunque gli scontri
tra i suoi beniamini rispetto al massacro di massa di derelitti senza nome,
per quanto le loro uccisioni fossero impressionanti. I combattimenti tra veri
gladiatii si sarebbero tenuti subito dopo, una volta terminata la Sfrondatura.
Fissando la sabbia intrisa di sangue, Mia si ritrovò a tremare. La
sensazione di paura, dimenticata da lungo tempo, stava crescendo nelle sue
viscere, tramutandole le gambe in acqua. L’assenza di Messer Cortese ed
Eclissi era un vuoto assillante. Un dolore quasi fisico. Strinse le sbarre per
frenare le sue mani tremanti, maledicendosi come una codarda.
“Hai combattuto per essere qui. Tutto questo è secondo il tuo piano. E
ora sei qui, che tremi come una fottuta bambina…”
Ricordò Duomo e Scaeva che presiedevano all’esecuzione di suo padre
nel foro. La folla urlante, che ne chiedeva a gran voce il sangue. Guardando
i seggi dell’arena, vide quelle stesse facce, quello stesso orrendo piacere. Lo
stesso genere di persone che avevano esultato per la morte del suo amato
genitore.
“Ma non per la mia, bastardi. Non sarà qui che morirò.”
Strinse le dita a pugno.
“Ho fin troppe persone da eliminare.”
«Reclute» giunse una voce.
Mia si voltò e vide l’executus sulla porta della cella. Invece della solita
armatura di cuoio e frusta, indossava delle brache e un elegante farsetto su
cui era ricamato il falcone rosso della Familia Remus e il leone dorato della
Familia Leonides. I suoi lunghi capelli grigi erano intrecciati, la barba
pettinata: se non fosse stato per la cicatrice che gli tagliava la faccia e la
gamba di ferro, lo avrebbero potuto scambiare per un ricco dominus in giro
per un pomeriggio di svago.
«È il momento» disse con voce grave. «Vi aspetta morte o gloria. Starà a
voi decidere quale dare e quale ricevere.»
Matteo parlò con voce tremante. «Che forma assumerà la Sfrondatura?»
«Gli editorii lo annunceranno non appena sarete in posizione. Ma
qualunque sia la sfida, il modo per uscirne vittoriosi è sempre lo stesso.»
Scrollò appena le spalle. «Non farsi ammazzare.»
Matteo sembrava sul punto di vomitare il primopasto sui suoi sandali.
Sidonius stava camminando di nuovo avanti e indietro, passandosi la mano
sulla peluria dello scalpo. Mia spostava il suo peso da un piede all’altro, un
senso di nausea nello stomaco.
L’executus li guardò e, per la prima volta, a Mia parve di intravedere un
minimo accenno di tenerezza nei suoi occhi.
«Tutti i gladiatii, una volta, si sono trovati dove siete voi ora» disse. «E
anch’io. Qualunque cosa dobbiate affrontare su quelle sabbie, la paura è
l’unico nemico sul vostro cammino. Dominatela e potrete dominare il
mondo.»
Si mise la mano sul petto. Annuì.
«Sangue e Gloria. Ci rivedremo dopo la Sfrondatura come gladiatii nati
nel sangue, oppure presso il Focolare, quando andrò al mio riposo eterno.
Aa vegli su di voi e Tsana guidi la vostra mano.»
Le guardie dell’arena, in armatura nera, marciarono nella cella e
scortarono Mia e gli altri attraverso un lungo corridoio. Lei udì delle trombe
che segnalavano la fine delle esecuzioni. Un ruggito riecheggiò sopra le
loro teste in risposta. Attraverso le pareti e sotto i suoi piedi, Mia sentì il
cigolio e il gemito di metallo su metallo, lo stridio di potenti meccanismi.
«Cos’è quello?» sussurrò Matteo.
«Il mekana sotto il pavimento dell’arena» rispose Mia. «Gli editorii
possono controllare tutto quello che accade sulle sabbie da sotto.»
«Ne sai parecchio sul venatus per essere una ragazza che non ha mai
assistito a uno» borbottò Sidonius.
Mia cercò di rispondere con un sorriso misterioso, ma non ci riuscì del
tutto a causa delle farfalle che le svolazzavano nello stomaco.
Furono scortati in un recinto più ampio, sigillato da una grande
saracinesca in ferro. Oltre, Mia poteva vedere la soliluce rovente e l’arena
che li attendeva. Le sabbie erano imbrattate di cremisi. La folla ondeggiava
e si muoveva come acqua.
Nel recinto c’era forse una quarantina di persone, disposte in file
ordinate. A ciascuna fu dato un elmo di ferro pesante con un’alta cresta di
crine di cavallo scarlatta, un corto gladio d’acciaio e un ampio scudo
rettangolare decorato con una corona rossa. Niente armatura. Nulla per
proteggere il resto della pelle tranne le strisce di stoffa che aveva attorno a
fianchi e petto. Mia si guardò attorno, e vide gente di ogni colore e taglia,
perlopiù uomini ma anche una manciata di donne. Nei loro occhi vide
fervore, vide furia, vide fatalismo.
Ma soprattutto vide paura.
«Quando le porte si apriranno,» tuonò una guardia con un pennacchio da
centurione «prendete posto sulle sabbie e sul palco della storia! Sangue e
Gloria!»
«Quattro Figlie, non sono pronto per questo…» sussurrò Matteo.
«Resta saldo» disse Mia, strizzandogli la mano. «Stammi accanto.»
«Hai un piano, piccolo Corvo?» mormorò Sidonius.
Le trombe suonarono di nuovo e la folla ruggì in risposta.
«Cittadini di Itreya! Onorevoli administratii! Senatori e midollani!
Benvenuti al quarantaduesimo venatus di Blackbridge!»
Il tetto sopra la testa di Mia tremò, e cadde della polvere quando la gente
sugli spalti esultò in risposta.
«In onore del governatore Salvatore Valente, presentiamo un’epica
contesa tra eroici gladiatii dei migliori collegi della Repubblica! Ma prima,
coloro che cercano gloria sulle sabbie devono dimostrare di esserne degni
davanti agli occhi del Semprevigile! Il tempo si avvicina! L’ora è giunta! La
Sfrondatura è qui!»
Mia si spinse l’elmo sulla testa e controllò il suo gladio. L’assenza di
Messer Cortese era come un buco nel petto.
“Dominate la paura, e potrete dominare il mondo…”
«Ecco!» giunse il grido. «Vi presentiamo… l’Assedio di Blackbridge!»
Allora giunsero gli applausi, quasi assordanti. Ma al di là
dell’entusiasmo della folla, Mia udì il fragoroso stridio sotto il pavimento
alzarsi di tono. Tra i ranghi più avanti scoppiò un tumulto, uomini e donne
che spingevano contro la saracinesca per vedere. Davanti agli occhi
incuriositi di Mia, il pavimento dell’arena si aprì e una piccola fortezza fatta
di pietra cominciò a sollevarsi dal meccanismo nel ventre dello stadio.
«Quattro Figlie» mormorò Matteo. «Quello è… un castello?»
Altre parti del pavimento si separarono, facendo salire piattaforme
nascoste mentre i grossi ingranaggi mekana in profondità giravano e
ruotavano. Mia vide torri d’assedio fatte di legno, un ariete coperto da un
tendone di pelle spessa, una ballista pesante e due catapulte equipaggiate
con barili di pece bollente. Stendardi scarlatti si spiegarono sulle mura della
fortezza di pietra; su di essi era ricamato l’emblema del vecchio regno di
Vaan. Mia guardò la corona rossa pitturata sul suo scudo e i pennacchi
scarlatti sugli elmi attorno a lei.
«Oh, merda» mormorò.
«… Cosa?» domandò Matteo.
«Stanno rimettendo in scena l’Assedio di Blackbridge» si rese conto.
«La battaglia fra Itreya e Vaan che segnò l’inizio dell’impero di re
Francisco.» Mia picchiettò la corona rossa sullo scudo di Matteo e il
pennacchio scarlatto sul suo elmo. «E noi siamo i Vaaniani.»
Il ragazzo inclinò il capo. Mia sospirò dentro di sé.
«I Vaaniani persero, Matteo.»
«… Oh, merda.»
Gli ingranaggi mekana rallentarono lentamente fino a fermarsi con uno
stridio, ora che tutti i pezzi della battaglia erano disposti sul campo. La voce
dell’editorii risuonò sulle sabbie.
«Ecco a voi! Le truppe di re Brandr VI, i difensori assediati di Vaan!»
La saracinesca si mosse, scivolando verso l’alto. Le guardie
spintonarono Mia e i suoi compagni, pungolandoli con le lance finché non
uscirono alla soliluce sbattendo le palpebre. Furono accolti da fischi: la
folla in gran parte itreyana ruggiva di disapprovazione alla vista dei loro
antichi nemici. b Le guardie scortarono i contendenti per l’arena, verso i
cancelli aperti della piccola fortezza. Li fecero entrare e poi sigillarono le
porte dietro di loro.
La fortezza era alta una ventina di piedi e lunga cinquanta per lato. Torri
più alte si profilavano a ogni angolo e bastioni merlati sormontavano le
mura. Dall’interno, Mia vide che la struttura non era affatto di pietra, ma di
una densa facciata di gesso rinforzata con una pesante intelaiatura di legno.
Il gruppo si aggirò lì dentro in preda alla confusione, incerti su cosa stesse
per accadere.
«Uomini sulle mura, porca puttana!» urlò qualcuno.
«Salite là sopra, bastardi!»
Un suono di trombe si diffuse nell’arena mentre Mia, Matteo e Sidonius
salivano una scala di legno e occupavano il loro posto su una delle torri.
Mia vide due archi corti fatti di legno di frassino e due faretre piene di
frecce.
«Uno di voi due sa tirare?» chiese ai suoi compagni.
«Io» rispose Matteo.
Mia prese un arco e si mise in spalla una faretra, poi porse l’altro a
Matteo. Gli strinse la mano mentre lui lo prendeva e lo guardò negli occhi.
«Non aver paura» gli disse. «Non sarà qui che moriremo.»
Il ragazzo annuì. Tutt’attorno a loro, una folla oceanica si era alzata in
piedi sulle tribune. Le pareti dell’arena erano alte quindici piedi, con palchi
che ospitavano midollani e politici sparsi per il perimetro. In uno di essi,
Mia vide Domina Leona, seduta con altri sanguila. Era vestita con un abito
dorato, i lunghi capelli ramati avvolti attorno alla fronte come un alloro da
vincitore. Ma nonostante tutta la sua bellezza e l’eredità del suo nome, i
suoi schiavi erano finiti comunque a interpretare il ruolo dei conquistati.
“Non sei nemmeno la metà del politico che è tuo padre, Mea Domina.”
In un grosso palco sul lato occidentale, Mia vide un uomo che ipotizzò
essere il governatore della città, circondato da ufficiali, administratii e belle
donne in abiti stupendi. L’editorii dei giochi era in piedi al margine di
questo palco, abbigliato con una veste rosso sangue, la vita e le maniche
decorate con dozzine di piccoli pugnali dorati. Una scimmia cappuccina
bianca era seduta sulla sua spalla. Parlava in un lungo corno ricurvo, la sua
voce amplificata da altri corni tutt’attorno al bordo dell’arena.
«Cittadini!» urlò. «Ammirate le nobili legioni di Itreya!»
Una saracinesca all’altro capo dell’arena si spalancò e le guardie
scortarono dentro un altro gruppo di contendenti. Avevano armi e armature
come quelle di Mia e compagni, ma i pennacchi sui loro elmi erano dorati e
avevano i tre occhi di Aa dipinti sugli scudi. La folla ruggì di approvazione
quando li vide, pestando i piedi e facendo tremare il pavimento. Molti
membri del gruppo presero posizione nelle torri d’assedio in legno, altri
andarono a mettersi alle balliste e alle catapulte ai bordi dell’arena.
«La contesa terminerà quando rimarrà un solo colore!» annunciò
l’editorii. «I vincitori avranno il diritto di calcare le sabbie del venatus come
gladiatii completi! Gli sconfitti otterranno il sonno eterno della morte! Che
la Sfrondatura… abbia inizio!»
Boati dalla folla. Movimento dalle truppe dorate, che si radunavano a
dozzine alla base delle torri d’assedio e le spingevano in avanti. Mia si
guardò attorno, in cerca di un condottiero delle truppe rosse che
difendevano le mura, ma non riuscì a trovarne nessuno. Voltando di nuovo
lo sguardo verso le torri in avvicinamento, urlò per farsi sentire sopra il
suono della folla.
«Qualcuno di voi gentiluomini ha servito nella legione?»
«Sì» disse un uomo robusto sulla torre opposta.
«Per caso non avresti esperienza di tattiche d’assedio?»
«Ero un fottuto cuoco, ragazzina.»
Mia guardò l’esercito che si avvicinava. Poi posò gli occhi sulla spadina
che aveva in mano.
«Be’, merda» sospirò.
«Arcieri, tirate su quelle torri in arrivo! Mi servono sei di voi pronti al
cancello per quell’ariete, gli altri sulle mura per respingere le loro truppe!
Due uomini per postazione, imbracciate gli scudi e state schiena contro
schiena, chiaro?»
Mia sollevò un sopracciglio e si guardò attorno per vedere chi stesse
gridando.
Era Sidonius. Ma non quel Sid lascivo e smargiasso a cui aveva dato un
calcio nelle palle e che aveva preso a pugni sulla mascella. Quest’uomo era
feroce come un dracobianco, la sua voce tonante, e irradiava un’aura di
comando che non lasciava spazio al dissenso.
«Ah sì?» urlò qualcuno. «E chi cazzo sei tu?»
«Sì» mormorò Mia. «Chi cazzo sei tu?»
«Sono il bastardo che salverà le vostre miserabili vite!» gridò Sid. «A
meno che uno di voi patetici fottipecore abbia un piano migliore!? Ora
impugnate le vostre spade e mandate questi bastardi al ’bisso a cui
appartengono!»
Mia lo fissò ancora per un momento, un sopracciglio sollevato. Ma
vedendo che Sid non era dell’umore di discutere ed essendo stata
annoverata tra i fottipecore senza un piano migliore, puntò il suo arco verso
le torri in arrivo. Matteo incoccò una freccia accanto a lei, parlando con
l’angolo della bocca mentre rivolgeva un sorrisetto a Sid.
«Be’, questo sì che non me l’aspetta…»
Il dardo di ballista lo colpì come un’incudine. La faccia di Mia fu
schizzata di sangue quando Matteo venne scagliato giù dalla torre con un
uffff, precipitando di testa contro la sabbia sottostante. Il ragazzo colpì il
suolo con uno scrocchio nauseante, due piedi di acciaio e legno nel petto, il
collo completamente piegato nella direzione sbagliata.
«’Bisso e sangue» sussurrò Mia.
Un boato fragoroso scosse il castello quando una delle catapulte scagliò
un barile di pece bollente. Il proiettile si infranse contro il muro e fuoco
liquido piovve sugli uomini e sulle donne all’interno. La folla esultò di
approvazione quando la seconda catapulta tirò e il barile andò a rompersi
contro la facciata, incendiando il cancello di legno. Gli uomini caddero dai
bastioni coperti di olio fiammeggiante, urlando mentre cercavano di
spegnersi sulla sabbia. Mia e Sidonius si tennero bassi, guardandosi a occhi
sgranati.
«Quattro Figlie fottute» mormorò l’omone.
«Proposte, generale?» chiese Mia.
«Arcieri! Mirate a quelle torri!»
Mia e alcuni dei suoi compagni si alzarono dalla copertura e scagliarono
una raffica alle torri d’assedio in avvicinamento. Diverse truppe dorate
caddero e la folla urlò quando una seconda salva ne abbatté un’altra
manciata. Fumo nero si levava dalle fiamme sempre più alte, facendo
bruciare la gola e gli occhi di Mia mentre lei scagliava di nuovo.
«Ariete!» urlò. «Sta arrivando!»
«Difendete le porte!» tuonò Sidonius.
Mezza dozzina di Dorati si precipitarono avanti fra le torri e le truppe
nemiche, l’ariete in mezzo a loro. Mia scagliò di nuovo, ma il gruppo era
protetto da una copertura di pelle spessa. Le mura tremarono quando
colpirono il cancello principale, poi ancora di più quando un altro barile di
olio in fiamme centrò una delle torri posteriori della fortezza, per la gioia
della folla. L’esplosione si espanse, vivida e violenta, incenerendo altri tre
Rossi sulle mura. Caddero urlando e un quarto di loro ruzzolò all’indietro
con un dardo di ballista nel petto.
«Quelle macchine d’assedio ci stanno massacrando!» urlò Mia.
«Be’, non abbiamo molto da scagliargli contro tranne le parolacce!»
ruggì Sidonius. «I Vaaniani persero l’Assedio di Blackbridge, piccolo
Corvo! Questi dadi sono truccati!»
Giunse un nuovo boato dal cancello quando l’ariete lo colpì. Mia si alzò
girandosi dalla copertura, sparando tra le volute di fumo e conficcando una
freccia nel piede di uno degli uomini che spingevano l’ariete. Era tutto
quello che poteva vedere di loro sotto quella dannata pelle, ma ebbe
l’effetto desiderato: l’uomo crollò a terra urlando e Mia si abbassò per
schivare un dardo di ballista mentre scagliava un’altra freccia che gli
trapassò la gola.
Esplose un altro barile, e ora la folla esultava ebbra di furia. Il castello
era in fiamme e il cancello si stava staccando dai cardini. La prima torre
d’assedio colpì i bastioni, riversando mezza dozzina di uomini sulle difese
con urla assetate di sangue. Sidonius caricò lungo le mura e conficcò la
spada nella pancia di un uomo con un ruggito. Mia si alzò senza un suono,
protendendosi verso l’ombra di un Dorato e bloccandolo dove si trovava,
poi sbattendo via la spada di un altro uomo e gettandolo giù dalle mura con
una botta dello scudo prima di trapassare il primo con la sua lama. Schizzò
sangue, caldo e dal sapore ramato sulle sue labbra. Si era domandata come
poter usare i suoi doni senza che la folla se ne accorgesse, ma in tutto quel
caos di fumo e fiamme nessuno poteva vedere nulla della sua magika delle
ombre.
Il cancello tremò di nuovo e il legno si spaccò. Un altro colpo e
l’avrebbero abbattuto. Un altro Rosso volò giù dai bastioni con un dardo di
ballista nella pancia e un nuovo barile scoppiò sul terreno di fronte alla
fortezza, schizzando le mura di olio ardente. Restare qui a difendere le mura
andava benissimo – Mia ammazzò un altro Dorato, squarciandogli il ventre
e versando le sue interiora sui bastioni mentre quello crollava urlando – ma
prima o poi quelle catapulte avrebbero incendiato tutto quanto.
“Domina la tua paura e potrai dominare il mondo.”
Ripensò alle sue lezioni nell’Aula di Maschere con la Shahiid Aalea.
L’assassina dentro di lei si fece avanti. Poteva incrociare la spada con il
migliore di loro, lo sapeva, ma il vantaggio che aveva davvero sulle persone
che combattevano e morivano attorno a lei era il suo addestramento nella
Chiesa Rossa. La sua arguzia. La sua furbizia.
“Non pensare come un gladiatii. Pensa come una Lama.”
Guardò le facce attorno a lei. Quella dell’uomo che aveva appena ucciso,
rinchiusa all’interno dell’elmo. Strappandolo dalla testa del Dorato morto,
ficcò la mano nelle sue viscere aperte e ne tirò fuori una bella manciata
fumante. Poi si tolse il copricapo, si mise l’elmo con la cresta dorata e urlò
a Sidonius.
«Assicurati che non mi tirino contro mentre torno!»
Mia si imbrattò di sangue collo e petto, schiaffò la manciata di intestini
lacerati contro la pancia e, prendendo un respiro profondo, si lasciò cadere
dalle mura. Colpì la sabbia fuori dalla fortezza con un grugnito, barcollò e
cadde sul fianco. Attorno a lei ribolliva fumo nero, le travi si ruppero e la
folla esultò quando il cancello andò in frantumi. Un boato riecheggiò per
l’arena mentre un altro barile scoppiava contro le mura, e Mia si
appallottolò il più possibile per proteggersi dai globuli d’olio in fiamme.
Si alzò in piedi, tenendosi quella manciata di viscere lacerate contro lo
stomaco. Poi, con la spada che penzolava dall’altra mano, barcollò verso la
prima catapulta.
La folla le prestò poca attenzione: da lontano, a giudicare dalla sua ferita,
sembrava moribonda. Anche il gruppo sulla catapulta non le prestò la
minima attenzione: il suo elmo dorato diceva che era una di loro, ma
ciascuno stava combattendo per salvare la propria pelle. Perciò nessuno
accorse in suo aiuto o per fermarla mentre si trascinava sulla sabbia, con
sangue e intestini che le infradiciavano il davanti, colando ai suoi piedi.
Incespicò per rendere la scena più credibile, alzandosi con un rantolo.
Adesso era più vicina, la catapulta e i tre uomini che la azionavano solo a
poca distanza. Si trascinò su con un gemito, zoppicando sempre più vicina.
E a pochi piedi dalla squadra, riprese vita, scagliando la sua manciata di
viscere in faccia al primo Dorato e conficcandogli il gladio nel petto.
L’uomo cadde all’indietro con un urlo. Prima che gli altri due potessero
rendersi conto di cos’era accaduto realmente, Mia ne aveva sbudellato un
altro: le sue interiora erano sparse per la sabbia quando cadde con un urlo
raccapricciante. L’ultimo cercò di difendersi con la sua lama, ma Mia gliela
sbatté via, zigzagando da sinistra a destra. Poi, con un guizzo della spada, lo
donò alla Mannaia.
«Ascoltami, Madre» sussurrò, afferrando da terra una delle spade del
caduto.
«Ascoltami ora» mormorò, scattando verso la seconda catapulta.
«Questa carne è il tuo banchetto.»
Uno del gruppo la vide arrivare fuori dal fumo
«Questo sangue il tuo vino.»
e aprì la bocca, forse per lanciare un urlo di avvertimento
«Tienili stretti.»
ma il colpo di Mia gli tagliò la gola fino all’osso, conficcandosi nella
spina dorsale. Lei strappò via l’arma, poi tranciò le gambe di un altro da
sotto e scagliò la sua seconda lama verso il petto dell’ultimo uomo. La
spada attraversò carne e costole, sbalzando l’uomo da terra in uno spruzzo
di rosso, e la seconda catapulta tacque.
La folla cominciò a notare che c’era qualcosa di strano. I Dorati avevano
fatto irruzione nella fortezza e adesso una mischia sanguinosa stava
scoppiando al cancello e sulle mura. Ma sempre più occhi erano puntati
verso la ragazza bassa e pallida, inzuppata di rosso tra le macchine ora
silenti. Si inginocchiò presso i corpi di coloro che aveva ucciso, si tolse
l’elmo e intinse il pennacchio dorato nel sangue addensato sulla sabbia,
macchiandolo di rosso. Poi se lo rimise in testa e corse con le spade in
mano, diretta all’equipaggio della ballista.
Quelli la videro arrivare e ruotarono l’arma, sparandole. Ma il fumo sulle
sabbie si levava denso dalla fortezza in fiamme e, dopotutto, lei era una
ragazza minuta, rapida e affilata come coltelli. Mia ruzzolò da una parte,
poi rotolò di nuovo in piedi quando uno degli uomini corse verso di lei. Era
un tipo gigantesco: un Dweymeri con lunghe salciocche, di due piedi più
alto di lei. Mia incontrò le sue lame con le proprie, subendo un colpo di
striscio all’elmo, ma, essendo molto più bassa di lui, riuscì a infilare la sua
lama sotto lo scudo dell’uomo. Il tendine fu tranciato fino all’osso e Mia
afferrò una manciata delle sue salciocche mentre il Dweymeri cadeva su un
ginocchio. Lo fece rigirare mentre la ballista le sparava di nuovo addosso,
facendosi scudo con il suo avversario, che venne perforato dal dardo, prima
lo scudo e poi il petto.
La folla esultò quando lei salì sulle spalle dell’uomo caduto e balzò
verso le due donne che operavano il macchinario, torcendo le ombre sotto i
piedi della prima e squarciando il petto della seconda. La donna cadde
senza un urlo, ma il suo colpo morse a fondo nel braccio di Mia, facendo
schizzare sangue. La ragazza barcollò; nelle sue orecchie, folla, pulsazioni e
boato erano assordanti mentre lanciava la sua seconda spada verso la testa
dell’altra donna.
Con gli stivali appiccicati a terra, la donna poté solo gettarsi all’indietro
per schivare il colpo, atterrando col sedere nella polvere. Imprecò, gli occhi
sgranati dalla paura mente strattonava gli stivali, ancora attaccati con forza
contro la sabbia. Mia torreggiò sopra di lei, un braccio penzoloni, zuppa di
sangue dalla testa ai piedi, con la seconda spada sollevata.
«No» sussurrò la donna. «Ho una bambina piccola, ho…»
“Niente madri.
“Niente figlie.
“Solo nemici.”
La spada zittì la supplica della donna. La folla attorno a Mia urlò. Con
un sussulto di dolore dal braccio ferito, caricò un altro dardo nella ballista e
azionò il meccanismo per tendere la fune e sparare un altro colpo. Ma i
bastioni dietro di lei adesso erano sgombri, e pareva che gli unici scontri
stessero avvenendo all’interno delle mura.
Mia raccolse una spada con un sospiro stanco. Il braccio destro stava
sanguinando copiosamente dal profondo squarcio sul bicipite e la testa le
ondeggiava. Aggiustandosi l’elmo e fissando uno scudo sul braccio ferito,
tornò indietro per le sabbie insanguinate e ardenti ad affrontare chiunque
fosse ancora vivo lì dentro. La folla stava cantilenando, pestando i piedi a
ritmo con il suo passo: anche se la giovane indossava il colore del nemico,
la fantasia della ricostruzione aveva lasciato spazio a un tipo più puro di
sete di sangue, e questo fuscello di ragazza aveva appena ammazzato quasi
una dozzina di persone nel giro di pochi minuti.
Si fermò a venti piedi dal cancello in un velo di fumo, tra la puzza di
budella squarciate e sangue fumante. Vide quattro figure nella foschia che
marciavano verso di lei. Prendendo un respiro profondo, immaginando tutto
quello che avrebbe perso se avesse fallito, sollevò la spada. Stringendo gli
occhi tra il fumo, distinse il colore dei loro pennacchi.
Rosso sangue.
Mia lasciò cadere lo scudo, scoppiando a ridere quando in mezzo a
quegli uomini riconobbe Sidonius, malconcio e sanguinante. Dietro di loro,
riuscì a vedere che il collo di bottiglia al cancello era diventato un
mattatoio, Dorati e Rossi che giacevano morti a dozzine. Tra loro notò
Matteo, i graziosi occhi spalancati che non vedevano più nulla.
Cercò di mettere da parte la tristezza, sapendo che non le serviva a
niente. Questo era il suo mondo, ora. Vita e morte, divise solo da un colpo
di spada. E con ognuno di quei colpi, lei si trovava un passo più vicino alla
vendetta.
Non c’era spazio per nient’altro, tranne i nemici.
«Cittadini!» urlò l’editorii. «Il governatore Valente vi presenta… i vostri
vincitori!»
La folla esultò in risposta e una fanfara di trombe ruppe l’aria. Sporca di
sangue da capo a piedi, Mia avanzò zoppicando e protese la mano verso
Sidonius. L’omone sogghignò e le strinse l’avambraccio, poi la tirò avanti
in un abbraccio energico.
«Vieni qui, magnifica puttanella» rise lui.
«Lasciami andare, fottuto idiota!» sogghignò lei.
Sidonius sollevò le nocche in aria e ruggì alla folla. «Prendete questo,
bastardi! Nessun uomo può uccidermi, mi avete sentito? NESSUN UOMO
PUÒ UCCIDERMI!»
Mia guardò verso i palchi dei midollani e vide Domina Leona in piedi ad
applaudire. Accanto a lei c’era l’executus con le braccia incrociate, lo
sguardo torvo come sempre. Ma poi l’uomo inclinò la testa in modo quasi
impercettibile. Era la cosa più simile a una lode che avesse mai concesso.
Mia girò su se stessa, assimilando quell’oceano di facce, le acclamazioni
ebbre di sangue, i piedi tonanti. E per un minuscolo momento, cessò di
essere Mia Corvere, l’orfana, l’assassina tenebris, l’incarnazione della
vendetta. Spalancò le braccia, gocciolando rosso sulla sabbia, e ascoltò la
folla ruggire in risposta. E, solo per un attimo, dimenticò cos’era stata.
Seppe solo cos’era diventata.
“Gladiatii.”

a. A Blackbridge, nelle Montagne Spinadraco, ebbe luogo uno degli assedi più famigerati della storia
itreyana.
Intenzionato a formare il più grande regno che il mondo avesse mai visto, il Grande
Unificatore, Francisco I, posò gli occhi sul regno di Vaan. Quando al re vaaniano, Brandr VI,
giunse voce che Francisco stava facendo marciare i suoi Guerrieri Ambulanti verso il regno,
mandò due dei suoi capitani più leali – Halfstad e Ulfr – a fermarlo a Blackbridge.
Annidata in una valle nelle Spinadraco, la città era difesa su tutti i lati da grandi picchi di
granito e accessibile da sud da un unico ponte di pietra da cui la città prendeva il nome. Halfstad,
che all’epoca era anziano, diede il comando delle mura a sua figlia, la fanciulla dello scudo Eydis.
Ulfr, un uomo molto più giovane, era a capo delle truppe che tormentavano sul campo l’esercito di
Francisco con azioni di guerriglia. L’assedio fu duro e il carattere dei Vaaniani fu messo a dura
prova, ma riuscirono comunque a respingere l’assalto degli Itreyani per sei mesi. Con l’arrivo del
freddinverno, il gran generale di Francisco, Valerian, dichiarò Blackbridge inespugnabile.
Purtroppo lo stesso non si poteva dire della figlia di Halfstad, Eydis.
Nei sei mesi in cui erano stati rinchiusi nella città, Eydis e Ulfr avevano sviluppato un certo
affetto reciproco, capite. Ma quando Eydis informò suo padre di essere incinta del suo alleato, il
vecchio Halfstad prese la notizia peggio di come chiunque si potesse aspettare. Dichiarando che
Ulfr aveva infangato l’onore di sua figlia, attaccò il suo compagno hüslaird nella piazza cittadina.
Gli uomini di Ulfr accorsero in difesa del loro lardi, mentre gli uomini di Halfstad si unirono alla
mischia per proteggere il loro, e prima che chiunque si rendesse conto di cosa stava accadendo, le
forze vaaniane si ritrovarono a sfogare sei mesi di frustrazione uccidendosi tra loro a centinaia.
Entrambi gli hüslaird perirono nel tafferuglio. Blackbridge cadde in mano agli Itreyani poco
dopo, cosa che lasciò l’intera nazione aperta alla loro invasione. Nel giro di due anni, Vaan
divenne il primo Stato vassallo del grande regno di Itreya.
E se riuscite a trovarmi un avallo migliore di questo per i metodi anticoncezionali, gentili
amici, mangerò la mia penna.
b. I Vaaniani tra il pubblico tennero le bocche ben cucite.
CAPITOLO 12
EPIFANIA

«Tu lo sapevi?»
Il vescovo di Godsgrave balzò dalla sedia di quasi tre piedi. La tazza da
tè di aureovino gli scivolò dalle dita, rovesciandosi sulla pergamena che
aveva sulla scrivania. Con il cuore che gli palpitava nel petto, Mercurio si
voltò e trovò la sua vecchia pupilla alle sue spalle, ammantata nelle ombre
degli scaffali.
«’Bisso e sa…»
Gli si gelò il sangue quando vide lo stiletto di necrosso nella mano della
sua ex protetta. Nell’oscurità dietro di lei c’era una ragazza bionda, vestita
di cuoio scuro. Sembrava vagamente familiare, ma che Mercurio fosse
dannato se riusciva a collocarla…
Un ringhio basso lo fece girare e vide un lupo fatto di ombre prendere
forma vicino alla porta aperta della stanza. Come per una lieve brezza,
l’uscio si chiuse con un cigolio.
«Tu. Lo. Sapevi?» ripeté Mia.
Mercurio voltò di nuovo gli occhi sulla sua ex pupilla.
«So molte cose, piccolo Corvo» disse con calma. «Dovrai essere pi…»
Con un movimento sfocato, la ragazza attraversò lo spazio tra loro in un
batter d’occhio. Lui sibilò quando gli afferrò la gola e gli premette la lama
contro la giugulare.
«Toglimi dal collo quell’infilzaporci» pretese il vecchio.
«Rispondimi!»
Mercurio puntò la propria lama – che aveva estratto quando aveva
lasciato cadere il suo aureovino – contro l’arteria femorale di Mia.
«Un piccolo movimento e morirai dissanguata in pochi istanti» disse.
«Allora siamo in due.»
«Ti ho dato io quel coltello» disse lui, deglutendo contro la lama di
necrosso.
«No, è stato Messer Cortese a darmelo.»
Mercurio fissò il non-gatto che stava apparendo sulla spalla di Mia.
«… tu gliel’hai solo restituito, vecchio…»
«Comunque sia. Non ho mai pensato che me lo sarei ritrovato contro la
gola, piccolo Corvo.»
«Non ho mai pensato che me ne avresti dato motivo» replicò la ragazza.
«E quale sarebbe?»
«Hanno ucciso mio padre, Mercurio» disse lei con voce tremante. «O è
come se l’avessero fatto. Lo hanno consegnato a Scaeva perché lo
impiccasse!»
«Chi?» si accigliò il vecchio, lanciando un’occhiata alla bionda alle
spalle di Mia.
«Il Culto!» sbraitò Mia. «Drusilla, Cassius, gli altri. Mio padre e
Antonius sono stati catturati in mezzo a un accampamento di diecimila
uomini. Chi avrebbe potuto farlo se non una Lama di Niah?»
«Questo non ha da…»
«Tu lo sapevi?»
Il vecchio guardò la sua giovane pupilla e non vide alcuna paura della
lama che stringeva in pugno. Nessun timore di morire si rifletteva nei suoi
occhi. Solo rabbia.
«Per sei anni ti ho addestrato per le prove della Chiesa» disse in tono
calmo. «Perché mai l’avrei fatto, nel nome della Madre Nera, se avessi
saputo che la Chiesa aveva aiutato Scaeva a uccidere tuo padre?»
«Bene, allora per quale motivo la Chiesa mi avrebbe addestrato se
avevano contribuito a ucciderlo, Mercurio?»
«È questo che intendevo sul fatto che tutto ciò non ha senso, Mia.
Pensaci.»
Le mani di Mia tremarono sul suo stiletto. Lei fissò il suo mentore negli
occhi. Mercurio poteva vedere la Lama in lei, l’assassina che avevano
tirato fuori dalla ragazza che lui aveva dato alla Chiesa. Sapeva che era
ciò che sarebbe diventata, mandandola lì. Conosceva il marchio che
avrebbe lasciato. Non regalavi qualcuno alla Mannaia senza donare anche
un pezzo di te stesso. Ma sotto quella facciata, poteva vedere ancora lei. Il
fuscello che aveva salvato dalle strade di Godsgrave. La ragazza a cui
aveva offerto rifugio sotto il suo tetto, a cui aveva insegnato tutto ciò che
sapeva. Colei a cui pensava comunque come a una sua familiare, perfino
dopo il suo fallimento.
«Io non ti farei mai del male, piccolo Corvo. Lo sai. Lo giuro sulla mia
vita.»
Lei lo fissò ancora per un momento. L’assassina che era diventata
lottava con la ragazza che era stata. E lentamente, molto lentamente, Mia
allontanò il coltello. Mercurio tolse la propria lama dalla gamba della
ragazza e la fece scivolare di nuovo nel bracciolo, poi si appoggiò contro lo
schienale.
«Vuoi dirmi cosa sta succedendo?» chiese.
La ragazza bionda tirò fuori un libro da sotto il mantello e lo posò sulla
scrivania davanti a lui. Era nero. Di cuoio. Disadorno.
«Che cazzo è questo?» domandò lui.
«Il registro della Chiesa Rossa» replicò Biondina.
Il vecchio sgranò gli occhi. All’improvviso tutto ebbe senso.
All’improvviso…
«Ora ti riconosco» mormorò. «Ci siamo incontrati alla Chiesa, quando
sono venuto a prendere Mia. Sei la figlia di Torvar. Sei Ashlinn… fottuta
Järnheim.»
«Be’, in effetti il mio secondo nome è Frija, ma…»
«Ti stiamo dando la caccia da otto dannati mesi!» Mercurio si voltò
verso Mia e alzò la voce. «Ti sei rimbecillita completamente? Grazie a
questa traditrice e a suo padre, molte delle nostre Lame ora sono sotto la
fottuta terra!»
Ashlinn scrollò le spalle. «Chi vive con la spada…»
«È stato un miracolo che non abbiano ucciso anche me!»
«Stronzate» replicò la ragazza. «Quando i Luminatii hanno epurato
Godsgrave, non hanno mai abbattuto la porta della tua piccola bottega di
curiosità, giusto?»
«Ah, e come mai? Dimmelo, per favore» ringhiò il vecchio.
Ashlinn guardò verso Mia. Poi di nuovo il vescovo, rosso in viso.
«Perché io non volevo che le fosse fatto del male.»
Sulla stanza calò il silenzio. Mia guardava ovunque, tranne negli occhi
di Ashlinn. Dopo che quel silenzio si fu protratto spiacevolmente per un
po’, si girò verso il registro, sfogliando le pagine fino a trovare un nome
elencato tra i numerosi clienti e i loro pagamenti. Un nome scritto con una
calligrafia netta e fluente, nerissima contro la pergamena ingiallita.
Julius Scaeva.
«Tu lo sapevi, vero?» chiese Mia. «Il Culto deve aver detto ai vescovi chi
poteva e chi non poteva essere toccato, anche solo per evitare infrazioni
della Sacralità.»
«Certo che lo sapevo» sbottò il vecchio. «Me l’hanno detto non appena
mi hanno fatto vescovo. Perché ’bisso pensi che non abbia mandato una
delle mie Lame a tagliare la gola di quel bastardo? Ora che si presenta per
un quarto mandato come console? È un fottuto re in tutto tranne nel nome.
E lo dico da sempre, ricordi?»
Mia picchiettò quella voce con il dito.
«Diecimila preti d’argento» disse lei. «Mandati alla Chiesa da Scaeva in
persona, datati tre cambi dopo l’esecuzione di mio padre. Pagati dall’uomo
che avrebbe guadagnato più di tutti dal fallimento della ribellione. E il
nome del braccio destro di mio padre è inciso ai piedi di Niah nella Sala
degli Elogi. Spiegamelo, Mercurio.»
Il vecchio si accarezzò il mento, accigliato.
Abbassò lo sguardo sui nomi e sui numeri, sfocati nella luce bassa.
Non poteva essere…
Certo che sapeva che Scaeva pagava in segreto la Chiesa. A dire la
verità, ingrossare i forzieri di Niah aveva senso per le persone che
potevano permetterselo. Era uno dei vantaggi della Sacralità, vedete:
donando alla Chiesa abbastanza soldi da essere considerati un mecenate,
saresti stato protetto in virtù della Promessa Scarlatta. Il re di Vaan lo
aveva fatto per anni. Un colpo di genio, in effetti. I fedeli di Niah potevano
essere pagati senza dover alzare un dito. a
Naturalmente, Scaeva non era soltanto un finanziatore: aveva usato la
Chiesa per sbarazzarsi di una dozzina di spine nel fianco. Ma Mercurio non
aveva mai sospettato che la Chiesa fosse stata coinvolta nella fine degli
Incoronatori. Tutto quello che aveva udito lo portava a credere che Corvere
e Antonius fossero stati traditi da uno dei loro uomini.
Era possibile…?
«La Chiesa Rossa catturò mio padre» disse Mia, la voce intrisa di
dolore. «Lo consegnò al senato. Praticamente è come se l’avessero
assassinato loro stessi.»
Messer Cortese inclinò il capo, facendo debolmente le fusa.
«… quello che non capisco è perché scaeva ha fatto attaccare la
montagna da remus, se aveva già in tasca la chiesa…»
«… COME SE FOSSE L’UNICA COSA CHE NON CAPISCI …»
«… fa’ silenzio, bambina: gli adulti stanno parlando…»
«Remus ha attaccato la Montagna senza il consenso di Scaeva» disse
Ashlinn.
«Stronzate.» Mercurio si voltò accigliato verso la ragazza vaaniana.
«Remus non faceva una pisciata senza prima chiedere il permesso a
Scaeva. Il senato, i Luminatii e la Chiesa di Aa sono i tre pilastri dell’intera
fottuta Repubblica, ragazza.»
«Non chiamarmi ragazza, vecchio cazzone scontroso» sbottò Ashlinn.
«Mio padre era quello in combutta con Remus, ricordi? Il tribuno odiava
visceralmente Scaeva. Oh, sì, obbediva agli ordini del console, ma Remus
era uno dei fedeli di Aa, proprio come Duomo. Usare la Chiesa Rossa per il
suo lavoro sporco rendeva Scaeva un eretico agli occhi di Remus. Ed
eliminare la Chiesa avrebbe impedito a Scaeva l’accesso al suo branco di
assassini a contratto.»
Mercurio si grattò il mento. «Pensavo che Remus e Duomo…»
«Anche Duomo è un cliente della Chiesa.»
«Questo lo so» sbottò Mercurio. «Non sono un sempliciotto nato ieri,
sono un vescovo della Nostra Signora dell’omicidio benedetto.»
«Tranne che il nostro illustre Gran cardinale non assume mai la Chiesa
per uccidere provvidenzialmente un cazzo di nessuno.» Ashlinn sfogliò il
registro, mostrando pagamenti esorbitanti da parte di Duomo che
risalivano a sei anni prima. «Paga semplicemente uno stipendio annuale
con i forzieri di Aa. Lo protegge grazie alla Sacralità, capite? In quel
modo, sa che Scaeva non può semplicemente fargli tagliare la gola mentre
dorme. Il cardinale e il console si odiano, ed entrambi farebbero quasi
qualunque cosa per vedere morto l’altro.»
«… MI VIENE DA PENSARE CHE ANNOTARLO IN UN REGISTRO SIA STATA
UN’IDEA INCREDIBILMENTE SCIOCCA …»
«Lo tenevano in una cassaforte sigillata» disse Ashlinn all’umbralupa.
«Dentro un covo degli assassini più temuti della Repubblica. E l’unica
chiave era appesa attorno al collo di una tra gli assassini più esperti che il
mondo abbia mai conosciuto. Considerato quello che ho dovuto fare per
impossessarmene, forse l’idea non è così sciocca quanto pensi tu.»
«… a questo proposito, piccola traditrice, ti prego di ricordarmi: perché
non ti abbiamo ancora ammazzata…?»
«Per la mia personalità magnetica?» Ashlinn scrutò il non-gatto sulla
spalla di Mia. «O forse è solo perché sono l’unica che abbia uno straccio di
indizio su cosa sta succedendo da queste parti.»
«Allora cosa sta succe…» Il vecchio sbatté le palpebre e si guardò
attorno nella stanza. «… Aspettate, dove ’bisso è Jessamine?»
Mia e Ashlinn si lanciarono una lunga occhiata inquieta. Ash aveva il
labbro gonfio e spaccato per il loro scontro sul tetto, l’occhio livido e nero.
«… ci sono stati… fatti spiacevoli…»
«Davvero meraviglioso, cazzo.» Mercurio guardò storto Ashlinn. «E sei
tu la responsabile?»
«Se ti fa sentire meglio, è stata Jess a infilzarmi per prima.» Ashlinn
scrollò le spalle. «Io l’ho solo infilzata per ultima. E… ripetutamente.»
«Allora cosa ci fai qui?» domandò il vescovo. «Mia è stata inviata sette
cambi fa a uccidere una braavi e a rubare una mappa. Ora torna qui con la
traditrice più ricercata nella storia della Chiesa. Qual è il tuo posto in tutto
ciò?»
Ashlinn fece spallucce. «Io ho la mappa.»
«Tu avevi la mappa. È esplosa, ricordi…?»
La ragazza sogghignò. «Non crederai che sia tanto stupida da lasciare
che qualcosa di tanto prezioso prenda fuoco, vero Messer So-tutto?»
«Faresti meglio a parlare, allora» ringhiò Mercurio.
«Già» concordò Mia. «Dove l’hai presa? Dove porta? E per chi stai
lavorando? La braavi ha detto che stavi vendendo la mappa al cardinale
Duomo.»
«Mi ha ingaggiato lui per recuperarla» disse Ash, appoggiandosi contro
la parete e incrociando le braccia. «Dopo che l’attacco alla Chiesa è
andato in malora, mio padre e io abbiamo passato gli otto mesi successivi a
sfuggire alle Lame inviate per ucciderci. Quando lui è morto, avevamo
bruciato buona parte dei nostri soldi. Duomo e Remus hanno complottato
assieme per eliminare la Chiesa, perciò sapevo come mettermi in contatto
con il cardinale. A quanto pare stava cercando qualcuno con… le mie
capacità.»
«Per cosa? Per rispondere in modo insolente e spocchioso?» la
apostrofò Mercurio.
Le labbra di Ashlinn si incurvarono in quel sorrisetto esasperante.
«Serrature. Trappole. Lavori loschi. Aveva scoperto un altro modo per
poter modificare l’equilibrio e porre fine alla Chiesa Rossa una volta per
tutte. Senza loro tra le palle, sarebbe stato libero di togliere di mezzo
Scaeva, mettere un nuovo console più malleabile al suo posto e avere la
torta tutta per sé.»
Mia strinse gli occhi. «Che tipo di “altro modo”?»
Ash scrollò le spalle. «Non l’ha mai detto. E io non l’ho mai chiesto. Il
mio compito era viaggiare con un gruppo di mercenari e un vescovo del
clero di Aa fino alle rovine di un tempio sulla costa nord della Vecchia
Ashkah. È lì che abbiamo trovato la mappa. E… altre cose.»
«Che genere di altre cose?» domandò Mercurio.
Il volto di Ashlinn era impassibile, ma Mia intravide una traccia di
paura nei suoi occhi.
«Il genere pericoloso.»
«Cos’è accaduto ai tuoi compagni?»
La ragazza fece spallucce. «Non ce l’hanno fatta.»
«Così sei tornata a ’Grave da sola per vendere la mappa a Duomo?»
chiese Mia.
Ash annuì. «I Damerini fungono da suoi intermediari. Duomo ha i soldi
per tenere in tasca parecchie persone. Non so se volessero tentare di
accoltellarmi alle spalle, ma ho ipotizzato il peggio. Io sono un dettaglio in
sospeso. Una delle uniche persone ancora vive a sapere che il cardinale
stava operando contro Scaeva per eliminare la Chiesa.»
«Be’, qualcuno sapeva che Duomo è in combutta con i Damerini» disse
Mercurio. «E che la mappa sarebbe stata consegnata a loro stasera. E quel
qualcuno ha assoldato Mia per…»
Mia incontrò lo sguardo di Mercurio. Il vecchio sgranò gli occhi.
«Non penserai…» esordì.
Mia esaminò le assi del pavimento come in cerca di una verità che aveva
lasciato cadere. Si scostò i capelli dietro l’orecchio. L’agitazione nel suo
stomaco rispecchiava quella sul suo volto.
«Il mio mecenate ha richiesto specificamente me per quest’Offerta»
mormorò. «“Colei che ha ucciso il tribuno della legione dei Luminatii.” O
così ha detto il Culto. E io ho già fatto altre tre offerte su richiesta dello
stesso mecenate.»
«… Chi hai ucciso?»
«Il figlio di un senatore, Gaius Aurelius. L’amante di un altro senatore
liisiano, Armando Tulli. E un magistrato di Galante di nome Cicerii.»
«Madre Nera» ringhiò Mercurio.
«Cosa c’è?» chiese Ashlinn, spostando lo sguardo tra i due.
«Si vociferava che Gaius Aurelius stesse progettando di candidarsi come
console contro Scaeva» disse Mercurio. «E Cicerii stava organizzando
un’inchiesta sulla costituzionalità del quarto mandato di Scaeva.»
Mia si accovacciò, puntellandosi contro le pietre del pavimento. Eclissi
si manifestò accanto a lei e Messer Cortese le leccò la mano con la sua
lingua immateriale.
«Oh, dea…» mormorò.
«Scaeva sta rimettendo in riga le persone» si rese conto Mercurio.
«Minaccia gli oppositori o li uccide. Assicurandosi di essere rieletto.»
«E io lo sto aiutando…» sussurrò Mia.
«… bastardo…»
«Il che significa che sa che Duomo sta lavorando contro di lui. Sa che,
ovunque conduca questa mappa, rappresenta una minaccia per la Chiesa, e
sta usando la Chiesa per eliminarla.»
«Proteggendo il suo piccolo culto di assassini.» Ashlinn guardò mia,
scuotendo la testa. «Che ti dicevo? Sono tutti delle puttane. E non contenta
dell’aiuto fornito per uccidere tuo padre, la Chiesa ti ha fatto tagliare gole
per il bastardo responsabile della sua impiccagione. Solis. Mouser.
Ammazzaragni. Aalea. Drusilla. Devono essere uccisi, Mia. Tutti fino
all’ultimo.»
«Scaeva.»
Mia sputò quella parola come una boccata di veleno. Le labbra si
ritrassero dai denti. Guardò torvo Ashlinn, scuotendo lentamente la testa.
«Scaeva e Duomo per primi.»
Ashlinn venne avanti, gli occhi che scintillavano come acciaio.
«Duomo probabilmente si trova alla Basilica Grande in questo
momento.»
Mia scosse il capo. «Non posso entrare lì dentro. Ci ho già provato una
volta. Le Trinità…»
«Posso eliminarlo io per te» si offrì Ashlinn. «Può anche farsi il bagno
avendola attorno al collo o dormire con uno di quegli affari sotto il
dannato cuscino, ma non c’è Trinità che possa fermare me. Mi intrufolerò
all’interno e gli taglierò la gola, poi ci occuperemo di Scaeva e della
Chie…»
«No» disse Mia. «Loro sono miei. Tutti e due.»
Si alzò lentamente dal pavimento, i capelli neri drappeggiati attorno a
un volto pallido come un fantasma.
«Quei bastardi sono miei.»
«Ora aspetta» le consigliò Mercurio. «Non diciamo cose affrettate.»
«Affrettate?» ringhiò Mia. «La Chiesa Rossa ha contribuito a far
uccidere mio padre, Mercurio. Proprio come Scaeva e Duomo. Il Culto è
colpevole quanto gli altri due.»
«Ma perché mai la Chiesa Rossa ti avrebbe addestrata, se era complice
nell’uccisione di tuo padre?»
«Forse pensavano che non lo avrei mai scoperto? Forse Cassius ha
ordinato loro di addestrarmi sapendo che ero tenebris? Forse quel bastardo
di Scaeva lo trovava divertente? O forse pensavano che quando avessi
ucciso abbastanza persone, quando fossi diventata abbastanza fredda,
semplicemente non me ne sarebbe importato più nulla?»
Il vecchio unì i polpastrelli sotto il mento, fissando il registro.
«Quando dai qualcuno in pasto alla Mannaia, le dai anche una parte di
te stesso» mormorò.
«Sei con me?» chiese lei.
Mercurio guardò il registro. Il nome di Scaeva. L’uomo che si era creato
un trono in una Repubblica che si era sbarazzata dei suoi re secoli prima.
Un uomo che si riteneva al di sopra della legge, dell’onore, della moralità.
Ma a dire il vero, Mercurio stesso si era sbarazzato di molte di quelle cose
anni prima. Tutto nel nome della fede.
«Ho dedicato la mia vita alla Chiesa Rossa» disse il vecchio.
Mia venne avanti, gli occhi ardenti.
«Sei con me?»
Il vescovo di Godsgrave guardò la sua ex pupilla. Sembrava intagliata
dalla pietra, la mascella volitiva, i pugni serrati nel soffuso bagliore
arkemico. Scrutò in quegli occhi scuri, cercando qualcosa della ragazza
che aveva preso sotto la propria ala sei lunghi anni prima. Era stato
arrabbiato con lei dopo che aveva fallito la sua iniziazione. Dopo che lo
aveva deluso. Ma in verità, per quei sei anni, lei era stata sua figlia. E lo
sarebbe stata sempre.
La Chiesa le aveva già tolto un padre.
Lui poteva permettere che gliene portasse via un altro?
«Sono con te.»
La risposta aleggiò nella stanza come una spada sopra le loro teste.
Mercurio sapeva cosa comportava e dove li avrebbe condotti. Quant’era
davvero grosso il nemico contro cui si stavano schierando.
«Dobbiamo farlo non visti, Mia» disse Mercurio. «La Chiesa non potrà
sapere che sei tu quando eliminerai Scaeva, altrimenti si vendicherà. E
dovrai eliminare Duomo con lo stesso colpo, oppure diventerà dieci volte
più difficile da uccidere.»
«Quello è il minore dei nostri problemi» replicò Mia. «La Chiesa vorrà
che torni indietro. La Domina è morta. Scaeva potrebbe avere una nuova
Offerta per me.»
«Ancora non hanno la mappa» disse Mercurio. «Posso inventare una
storia. Dire che la mappa ti è sfuggita, ma che ora la stai inseguendo. A
livello pratico, potrebbe richiedere mesi.»
«Il Culto non ne sarà compiaciuto» disse Ashlinn.
«Che si fottano» si accigliò Mia. «Il Culto non è comunque compiaciuto
di me.»
«Stupendo» disse Ashlinn. «Perciò tutto quello che dobbiamo fare è
escogitare un modo perché tu possa uccidere un cardinale a cui non ti puoi
avvicinare fisicamente, eliminando allo stesso tempo il console più
sorvegliato nella storia della Repubblica itreyana.»
Mia e Mercurio rimasero in silenzio. La fronte del vecchio si corrugò,
pensierosa. Mia strinse gli occhi e li fece vagare sugli scaffali, ma senza
trovare alcuna risposta sulle costole dei libri. Voltò lo sguardo sull’altra
parete, verso la collezione di armi di Mercurio. La lama di solacciaio dei
Luminatii, l’ascia da guerra vaaniana, il gladio di un’arena di gladiatii a
Liis…
I suoi occhi si strinsero ancora di più. Gli ingranaggi nella sua testa
giravano.
Lanciò un’occhiata al suo vecchio insegnante e il suo respiro accelerò.
«Cosa c’è?» chiese lui.
Era un’idiozia.
Una follia.
Impossibile.
«Credo di avere un’idea…»

Tredici gladiatii erano riuniti in cerchio nel cortile di addestramento. Le


mura di Crow’s Nest si innalzavano attorno a loro, gli stendardi della
Familia Remus che si agitavano al vento sempre più forte. Erano tornati
tardi da Blackbridge, ed era quasi arrivata l’illuminotte. Ma prima
dell’ultimopasto, avrebbero riservato del tempo per accogliere nella loro
cerchia i loro nuovi fratello e sorella: era il più sacro dei riti, eseguito qui
sul terreno sacro del loro collegio.
Il votum vitae. b
I soli gemelli battevano sul cortile e Mia sentiva il sudore colarle lungo
pancia e braccia nude. Era in ginocchio nel cerchio, con Sidonius accanto a
lei. Arkades era in piedi di fronte a loro, vestito con una corazza scintillante
su cui erano sbalzati leoni gemelli, graffiati e intaccati da anni di
combattimento. Domina Leona osservava dal balcone in uno stupendo abito
di seta gialla. Quando abbassò lo sguardo sull’executus, sorrise, e il color
zaffiro dei suoi occhi pareva significare: “Te l’avevo detto”.
«Gladiatii» esordì l’executus. «Siamo qui su un terreno sacro, in questo
sacro rito, per accogliere nella nostra cerchia questi due guerrieri che hanno
dato prova di sé. Il nostro vincolo non è solo d’acciaio, ma di sangue.
Poiché sangue siamo e sangue rimarremo.»
«Sangue siamo» giunsero le voci attorno al cerchio. «E sangue
rimarremo.»
L’executus estrasse un pugnale dalla cintura, si passò la lama sul palmo e
lasciò che il sangue colasse sulla sabbia. Poi passò il coltello alla sua
sinistra.
Il Macellaio di Amai prese il pugnale. Ripeté il rituale, tagliandosi il
palmo prima di passarlo a Cantalame. La donna guardò Mia negli occhi
mentre si tagliava la mano. E così continuò tra i tredici. Passò ai gemelli
vaaniani, Bryn e Byern, al Dweymeri, Alzaonda, al resto dei gladiatii nel
cerchio, fin quando finalmente la lama insanguinata non arrivò al loro
campione, Furian l’Imbattuto.
L’Itreyano osservò Mia con occhi scuri e foschi, un nuovo alloro
d’argento posato sulla fronte. Lei l’aveva osservato combattere a
Blackbridge e la sua vittoria (“impareggiabile”, l’aveva definito l’editorii,
“impeccabile”) non aveva fatto che infiammare la sua curiosità. Percepì la
propria ombra tremolare mentre lui si tagliava il palmo, mischiando il
sangue con quello della familia di gladiatii sul bordo affilato. Lasciò che le
gocce scarlatte cadessero sulla sabbia, poi attraversò il cerchio per mettersi
di fronte a Sidonius e Mia. Spostando lo sguardo da quella mascella
attraente a quegli occhi ardenti, poi giù verso l’oscurità ai suoi piedi, la
ragazza vide che anche la sua ombra stava tremando.
“Lui rappresenta un ostacolo per te” ricordò a se stessa.
“Tutti loro.
“Sono un ostacolo.”
«Sangue siamo» disse lui, passandole la lama. «E sangue rimarremo.»
Mia prese il coltello e provò un fremito di eccitazione quando i suoi
polpastrelli sfiorarono quelli di Furian. Poi, rimproverandosi per essere una
sciocca, si voltò verso l’executus e lo guardò negli occhi.
«Non troppo a fondo» la ammonì lui. «Ti rovinerai la presa.»
Mia annuì, passandosi la lama sul palmo. Il dolore fu vivo e reale,
mettendo a fuoco tutto il mondo. Lei era qui. Un membro vincolato col
sangue del collegio. Davanti a lei c’era un deserto di sabbia, un oceano di
rosso. Ma alla fine vedeva il Gran cardinale Duomo nelle sue vesti da
mendicante, senza nessuna Trinità attorno alla gola. Il console Scaeva, che
sollevava le mani per metterle l’alloro del vincitore sulla fronte.
La sua ombra, che si protendeva verso le loro.
«Sangue rimarremo» disse.
Sidonius prese la lama, si tagliò il palmo e ripeté il giuramento.
«Sangue rimarremo.»
Un urlo di esultanza si levò dal cerchio. L’executus fece cenno a Mia e
Sidonius di alzarsi e i gladiatii si avvicinarono. Cantalame sorrise a Mia e la
ragazza vaaniana di nome Bryn la strinse contro il petto, sussurrando: «Hai
combattuto bene». Macellaio le diede una pacca sulla schiena così forte da
farla quasi cadere, gli altri le offrirono mani insanguinate o le diedero
colpetti amichevoli sul braccio. Solo Furian si tenne a distanza, ma Mia non
aveva idea se fosse dovuto alla sua condizione altezzosa di campione o alla
rivalità fra loro.
«Miei Falconi» giunse una voce dalla balconata.
«Attenti!» sbottò l’executus, e tutti gli occhi si voltarono verso l’alto.
Domina Leona sorrise a loro come una dea ai suoi figli, le braccia
spalancate. «Le nostre vittorie a Blackbridge ci fanno ottenere ancora più
fama, e un posto nel venatus a quattro settimane da adesso a Stormwatch!»
I gladiatii esultarono e Sidonius avvolse il braccio attorno al collo di
Mia, stringendo mentre urlava. Mia rise e spinse via l’omone, ma non riuscì
a fare a meno di unire la propria voce alle loro.
«Le competizioni diventeranno sempre più feroci più ci avviciniamo al
magni. Domani tornerete ad allenarvi. Ma per ora, che non si dica che la
vostra Dominatii non ricompensa il vostro valore o l’onore che le fate ogni
volta che uscite sulle sabbie!»
Leona batté le mani e tre servitori spinsero tra i tavoli e le sedie della
veranda un grosso barile.
«Quello è vino?» sussurrò Sidonius.
«Bevete, miei Falconi!» sorrise Leona. «Un brindisi ai vostri nuovi
fratello e sorella. Un brindisi alla gloria! E un brindisi alle nostre numerose
vittorie a venire!»

Tre ore dopo, mentre se ne stava sdraiata nella sua cella, a Mia girava la
testa.
Aveva cercato di bere con moderazione, ma Sid aveva urlato ogni volta
che lei rallentava il ritmo, e tutti gli altri gladiatii sembravano bere come se
la loro vita dipendesse da quello. Aveva perfettamente senso, supponeva:
per persone che non possedevano nulla e rischiavano la vita ogni volta che
mettevano piede sulle sabbie, un momento di tregua e una coppa piena
dovevano sembrare un paradiso. E così aveva fatto del suo meglio per
recitare la sua parte, bevendo a profusione con la sua nuova familia e
sorridendo alle loro lodi.
La donna dweymeri, Cantalame, sembrava averla presa particolarmente
in simpatia, anche se molti membri del collegio avevano avuto una buona
parola. Il suo stratagemma nell’arena – indossare i colori del nemico e
fingersi ferita per arrivare abbastanza vicina da ucciderli – aveva colpito
molti dei suoi nuovi confratelli come una trovata geniale.
Bryn, la bionda ragazza vaaniana, aveva alzato la sua coppa per un
brindisi.
«Un ottimo stratagemma, piccolo Corvo.»
«Già» aveva ribattuto suo fratello Byern. «Quando ti ho visto afferrare
quelle viscere e ho capito cosa avevi intenzione di fare, ho urlato così forte
che ho rischiato di rovinare il tuo gioco.»
«Corvo un cazzo» aveva sogghignato Macellaio. «Dovremmo chiamarla
una dannata Volpe.»
«La Lupa» aveva sorriso Cantalame.
«La Serpe» era giunta una voce.
Tutti gli occhi si erano voltati su Furian, che se ne stava a capotavola con
espressione arcigna. Mia aveva incontrato il suo sguardo, guardando il
labbro arricciarsi in segno di derisione.
«I gladiatii combattono con onore» aveva commentato. «Non con le
menzogne.»
«Fratello, andiamo» aveva detto Cantalame. «Una vittoria ottenuta è una
vittoria meritata.»
«Io sono campione di questo collegio» aveva replicato l’Imbattuto.
«Dico io cosa è meritato. E cosa è rubato.»
Cantalame aveva lanciato un’occhiata al torque attorno al collo di
Furian, poi all’alloro sulla sua fronte, e aveva annuito per acconsentire.
L’Imbattuto era tornato alla sua coppa e non aveva aggiunto parola. I
festeggiamenti erano terminati subito dopo e, per la verità, Mia era stata
contenta. Non era abituata a così tanto vino: qualche altra coppa e avrebbe
dipinto le pareti.
Ora sedeva nella sua cella, le sbarre che roteavano lentamente. Aveva
udito la consueta nenia provenire dalla cella di Cantalame prima che si
spegnessero le luci, e supponeva che potesse trattarsi di una specie di
preghiera. Ma adesso era calata l’oscurità e tutto ciò che riusciva a udire era
il suono del sonno.
Sidonius era sdraiato supino, e russava come un toro moribondo,
fermandosi solo il tempo necessario per scoreggiare così forte che Mia lo
percepì attraverso il pavimento. Si accigliò e diede un calcio al grosso
Itreyano, che rotolò dall’altra parte con un grugnito.
«Fottuto porco» imprecò lei, coprendosi il naso. «Mi serve una dannata
cella tutta per me.»
«… di rado mi ritrovo a dispiacermi perché non ho bisogno di
respirare…»
Mia sgranò gli occhi quando udì il sussurro.
«… particolarmente in questo momento…»
«Messer Cortese!»
«… urlò lei, tanto forte da svegliare i morti…»
Due forme nere si materializzarono dalle ombre all’altro capo della cella.
«… SE IL RUSSARE DI QUESTO IDIOTA NON L’HA GIÀ FATTO, NULLA CI
RIUSCIRÀ …»
Mia sogghignò quando i due demoni si diressero balzelloni verso di lei,
tuffandosi nella sua ombra come se fosse acqua nera. Un’ondata di gelo
tranquillizzante si riversò in lei, espandendosi per tutto il suo corpo e
lasciando nella sua scia una calma ferrea. Percepì Messer Cortese che le
camminava sulla spalla, passando tra i suoi capelli senza disturbare una
singola ciocca. Eclissi si avvolse attorno alla schiena di Mia e mise la testa
incorporea sul grembo della ragazza. Mia passò le mani su entrambi i non-
animali, le cui forme si increspavano come fumo nero. Non si era resa conto
di quanto le erano mancati finché non erano tornati da lei.
«Madre Nera, è bello rivedervi» sussurrò.
«… MI SEI MANCATA …»
«… oh, per favore…»
«… IL MICETTO MI È MANCATO DI MENO …»
Mia fece scorrere le mani lungo il corpo dell’umbralupa. Non aveva la
sensazione di poterla toccare, ma accarezzare Eclissi era come accarezzare
una brezza fresca.
«Quando siete arrivati?»
«… IERI, MA TU NON ERI ANCORA TORNATA DAL VENATUS …»
«… le cose sono andate bene, suppongo…»
«Non sono morta, se vale qualcosa.»
Messer Cortese le toccò l’orecchio con il muso e a Mia formicolò la
pelle. Sembrava di essere baciata dal fumo di un sigaretto.
«… tutto quanto…» bisbigliò lui.
I tre si sedettero nell’oscurità per un po’, godendo semplicemente della
reciproca compagnia. Mia fece passare le dita attraverso i loro corpi
impalpabili e sentì svanire ogni traccia della paura che aveva provato nelle
scorse settimane. Si rese conto che ce l’aveva fatta. Il primo passo verso le
gole di Duomo e Scaeva era completo. E con i suoi passeggeri accanto a lei,
quelli successivi non sembravano così ardui.
«… per quanto questo sia piacevole…»
«… POSSIAMO SEMPRE CONTARE SU DI TE PER GUASTARE L’ATMOSFERA …»
«No, ha ragione» sospirò Mia. «Sta aspettando?»
«… SÌ …»
«Portami da lei, allora.»
I suoi passeggeri svanirono nell’oscurità. Mia li percepì materializzarsi
nelle ombre dell’anticamera e, proprio come aveva fatto la notte in cui
aveva visitato Furian, chiuse gli occhi e si protese nella tenebra. Forse era il
vino, forse era l’esercizio, ma trovò che il Passo era più facile, stavolta,
l’impeto improvviso, le vertigini. Aprendo gli occhi, scoprì che la stanza
girava all’impazzata, ma si ritrovò all’ombra delle scale accanto a loro.
Piegandosi in due, vomitò il vino che aveva bevuto sulla pietra,
coprendosi la bocca per ovattare il suono. Percepì alcuni gladiatii agitarsi
nella caserma, così si tuffò di nuovo nelle ombre lottando contro l’istinto di
vomitare di nuovo. Afferrò il muro per aiutare a farlo smettere di girare. Poi
si passò la mano sulle labbra e sputò sulla pietra.
«Madre Nera, ricordatemi di non farlo se mai dovessi essere di nuovo
mezza ubriaca.»
«… ANDIAMO …»
«… la vipera aspetta, mia…»
Lei lanciò un’occhiata al controllo mekana sulla parete, rimuginando su
come funzionasse. Su gambe malferme, avanzò furtiva per la fortezza, fin
nelle ombre della veranda. Zanna era seduto sotto un tavolo, osservando
con occhi curiosi. Mentre Messer Cortese ed Eclissi gli passavano accanto, i
peli del cane si rizzarono. Mia allungò la mano per calmare il mastino, ma
Zanna scappò via con un lieve guaito.
«… i cani sono stupidi…»
«… DICE LO STUPIDO CHE SI È PERSO PER ARRIVARE QUI …»
«… non mi sono perso, caro cagnaccio: stavo esplorando…»
«… È UNA FORTEZZA ENORME IN CIMA A UN DIRUPO CHE SI AFFACCIA
SULL’INTERA CITTÀ, COME …»
«Sssht» sibilò Mia, abbassandosi in una rientranza. Passi veloci
annunciarono l’arrivo della magistrae, seguita da una servitrice. Le due
erano impegnate in una discussione sulle disposizioni di viaggio per
Stormwatch, con la ragazza che prendeva appunti su un registro di cera.
Mia attese finché le due non furono scomparse, poi sgattaiolò lentamente
lungo il corridoio fino alle porte principali, spalancate su una fresca brezza
marina. Stringendo gli occhi per la soliluce, scrutò le alte mura della
fortezza, pietra rossa contro un cielo azzurro ardente.
Raccogliendo manciate di ombre, Mia se le drappeggiò attorno alle
spalle. Le sue dita erano ancora un po’ goffe per l’alcol, ma alla fine tutto il
mondo fu avvolto in un nero torbido e in un bianco smorzato, e lei fu quasi
cieca quanto il cambio in cui era nata. Con deboli sussurri, i suoi passeggeri
la guidarono per il cortile, superando le guardie di pattuglia fino ad arrivare
a una rientranza in ombra proprio accanto ai cancelli principali. E da lì lei
chiuse gli occhi

e Passò

nell’ombra

dall’altro lato

della strada.

Mia crollò in ginocchio, tenendosi la pancia e resistendo con tutte le


forze all’impulso di vomitare. Dopo qualche minuto a terra, riprese fiato e
si asciugò le lacrime dagli occhi.
«… stai bene?…»
«La domanda stupida successiva, per favore» mormorò lei.
«… NON DOBBIAMO VEDERLA PER FORZA ORA …»
«No, dovremmo. Ma non possiamo restare via troppo tempo. Non ci
sveglieranno fino al mattino presto, ma se per qualche motivo notano che
non ci sono durante l’illuminotte…»
«… IL VINO TERRÀ IL TUO COMPAGNO DI CELLA NEL MONDO DEI SOGNI
FINO AD ALLORA …»
«Comunque dobbiamo fare in fretta.»
«… non è lontano…»
Si alzò su gambe tremanti e barcollò lungo la strada polverosa, che
scendeva serpeggiando per la collina ripida su cui sorgeva Crow’s Nest.
Mia non aveva altrettanto bisogno di Messer Cortese o di Eclissi qui fuori:
conosceva la strada tanto bene da percorrerla alla cieca. Ma non osava
arrischiarsi a gettare via il manto d’ombra così presto. Era ancora vestita
come un gladiatii, e i cerchi gemelli impressi sulla sua guancia la
contrassegnavano come proprietà. Anche se i padroni spesso potevano
camminare in compagnia di schiavi guerrieri armati, era una rarità trovarne
uno che vagava da solo. Meglio restare nascosta ed evitare del tutto le
domande.
Mia poteva udire il mare a sud, i rintocchi delle campane del porto
sottostante, sentire gli odori familiari della cittadina all’ombra della
fortezza. Nota come Crow’s Rest, ospitava tre o quattromila persone: un
porto commerciale trafficato sorto sotto la protezione della roccaforte. Gli
edifici erano di pietra rossa e intonaco bianco, ammonticchiati sulle ripide
pendici collinari che digradavano verso l’acqua. L’aria risuonava dei versi
dei gabbiani.
I suoi passeggeri la condussero nel dedalo intricato del porto. Lì Mia
gettò da parte il mantello e sgusciò per vicoli tortuosi, pieni di immondizia
e aria salata. Arrivarono a una piccola birreria e Messer Cortese indicò con
la testa le stanze degli ospiti ai piani superiori.
«… primo piano, terza finestra…»
Mia lanciò un’occhiata in giro per assicurarsi che il campo fosse
sgombro, poi cominciò ad arrampicarsi. Raggiunse le terrazze del primo
piano, superò la ringhiera di ferro e bussò una volta sul vetro.
La finestra si aprì e lei si intrufolò all’interno, silenziosa come sussurri.
Gli occhi di Mia impiegarono un momento per adattarsi dopo la soliluce
di fuori. Ma alla fine vide una figura lasciarsi cadere su un vecchio
divanetto, stiracchiando lunghe gambe davanti a sé. Era vestita di nero,
brache di cuoio e un corto corsetto di pelle, con sotto una camicia di seta
scura a maniche lunghe. Si era tinta i capelli per coprire il caratteristico
biondo e adesso li aveva dello stesso color rosso sangue che aveva
Jessamine. Ma quegli occhi erano inconfondibili.
La ragazza si appoggiò contro lo schienale e squadrò Mia dall’alto in
basso.
«Salve, bellissima» sorrise.
«Salve, Ashlinn» replicò Mia.

a. Sì, sì, posso sentire le vostre domande, gentili amici. Proprio come se fossi seduto dietro di voi
(non temete, non sono seduto dietro di voi). Ma probabilmente vi state chiedendo, se la Chiesa
Rossa non uccide chiunque l’abbia attualmente al suo servizio, perché tutti non pagano
semplicemente per i loro servigi e dormono sonni tranquilli l’illuminotte? Una domanda
eccellente, gentili amici, la cui risposta è molto semplice: è fottutamente costoso.
Un re o un console potrebbe permettersi di tenere la Chiesa sul proprio libro paga in maniera
permanente. Ma dovete ricordare, gentili amici, che la Chiesa Rossa è un culto di assassini, non di
estorsori. E sarebbe piuttosto difficile mantenere la reputazione di assassini più temibili della
Repubblica se passassero tutto il loro tempo a essere pagati per non ammazzare nessuno.
b. Le origini del Voto di Sangue sono ammantate nell’antichità, ma molti credono che vadano
ricercate nel vecchio Impero ashkahi e nel mito del famoso principe-guerriero Andarai.
Le gesta di Andarai erano così conosciute che la sua leggenda sopravvisse perfino alla caduta
dell’impero stesso. Era l’archetipo dell’eroe per quell’epoca: saggio senza pari, imbattuto in
battaglia e, si diceva, dotato come un mulo. Trascorreva gran parte del suo tempo andando in giro
a salvare principesse, uccidere belve e procreando bastardi, anche se pareva che avesse trovato il
tempo per inventare la lira, il telaio e, cosa piuttosto strana, lo sgabello da parto. Il suo nemico più
odiato era il leggendario Ladro di Facce, Tariq, che tra le altre imprese rubò la spada di neracciaio
di Andarai e si portò a letto la madre, la sorella e la figlia di Andarai, a quanto pare tutte la stessa
sera.
Andarai rimase piuttosto disturbato da questo. In particolare dalla parte che riguardava sua
madre.
La rivalità dei due durò decenni, e pareva che dovesse terminare solamente con la morte di uno
o di entrambi. Ma quando il re-demone Sha’Annu comparve nel Nord e minacciò tutto l’impero, i
due unirono le forze per sconfiggerlo. Legati dall’affinità che si crea solo in battaglia, i due si
dichiararono fratelli e giurarono con il sangue che sarebbero rimasti tali fino al termine dei loro
giorni. Tariq si astenne perfino dal giacere di nuovo con la madre di Andarai.
Con sua figlia, però…
LIBRO 2
SANGUE E GLORIA
CAPITOLO 13
USCITA

Fumo all’aroma di chiodi di garofano si arricciava nell’aria marina,


scivolando in fili sottili fuori dalle narici di Mia. Prese l’ultima tirata del
sigaretto, poi lo spense contro il muro ed esalò un sospiro soddisfatto.
«’Bisso e sangue, ne avevo bisogno,»
«Sapevo che ti sarebbero mancati.»
Ash sorrise, trascinando una ciocca di capelli rosso sangue dietro
l’orecchio. Se li era tinti come sotterfugio: se per un tremendo scherzo del
destino qualcuno della Chiesa avesse visto lei e Mia assieme da lontano,
avrebbe potuto scambiare Ash per Jessamine. Era uno stratagemma sottile,
ma come a Messer Cortese piaceva dire a Mia, tutto questo gioco era
talmente sottile da essere praticamente trasparente.
Tuttavia, Mia inclinò la testa come ringraziamento e chiuse gli occhi, poi
si appoggiò all’indietro contro il vecchio divano di cuoio, ascoltando il
tabacco ronzarle nel sangue.
«È bello rivederti» disse Ash.
Mia aprì gli occhi, fissando Ash attraverso le ciglia. Messer Cortese
balzò sul divano, drappeggiando la coda sulla spalla di Mia. Eclissi le si
avvolse attorno alla vita, con la testa sul grembo. Nessuno dei suoi
passeggeri si fidava di Ashlinn, e perfino dopo aver messo in moto tutto
questo piano assieme, nemmeno Mia riusciva a convincersi della sua bontà.
Ash aveva ucciso Jess. Aveva ucciso Tric. Aveva ucciso chiunque si fosse
frapposto tra lei e la sua vendetta.
“È così diversa da te?”
Dopotutto non aveva rivelato ai Luminatii la posizione della bottega di
Mercurio.
Ashlinn osservò gli stracci con cui era vestita Mia.
«È bello vederti abbigliata per l’occasione.»
«Hai avuto molti problemi ad arrivare qui?» chiese Mia.
Ash scosse il capo. «Messer Brontolone ci ha trovato piuttosto
rapidamente.»
La risata di Eclissi giunse da sotto il pavimento. Messer Cortese inclinò
la testa verso Ashlinn e sussurrò con voce come fumo.
«… insolente…»
Ashlinn rivolse un sorrisetto all’umbragatto ed estrasse un pugnale dalla
cintura con il quale infilzò una mela dalla scodella di frutta sul tavolo
accanto a lei. Con un’agile mossa del polso, la gettò nella mano protesa di
Mia.
«Abbiamo aspettato a Whitekeep come programmato» disse Ash.
«Quando Leonides è arrivato e tu non eri tra i suoi acquisti, sapevo che
qualcosa era andato a palle all’aria. Anche se non immaginavo che i gioielli
fossero rivolti così orgogliosamente verso l’alto finché Messer Saputello
non ci ha trovato.»
«… smettila…»
«… NO, CONTINUA, TI PREGO …»
Ash ignorò le ombre e sollevò invece un sopracciglio verso Mia. La
ragazza prese un morso rumoroso della sua mela, masticando per un bel po’
prima di rispondere.
«Ammetto che il piano ha subito qualche… intoppo.»
«Hai sempre avuto un talento per minimizzare, Corvere.» Ashlinn infilzò
un’altra mela dalla ciotola e cominciò a sbucciarla con abili colpi della sua
lama. «Vivere nel castello che apparteneva a tuo padre prima che fosse
impiccato per tradimento, come schiava della moglie del tribuno che hai
assassinato. In una stalla che può avere mezzo anno al massimo e con un
solo alloro al suo attivo. Come sta andando?»
«Sono sopravvissuta alla Sfrondatura» scrollò le spalle Mia.
Ash si infilò una fetta di mela tra le labbra. «Avevo notato che non eri
morta.»
«E ho contratto il giuramento di sangue» proseguì Mia. «Ora sono una
gladiatii completa. Il piano rimane invariato. Dovrò solo riuscirci con un
collegio diverso, tutto qua.»
«Dovrai combattere il doppio» fece notare Mia. «Leonides ha già
assicurato al suo collegio un posto nel magni grazie alle vittorie degli anni
precedenti. Leona non ha minimamente lo stesso capitale politico di suo
padre. Le occorre vincere almeno altri tre allori solo per poter combattere
nei grandi giochi.»
«Se mi serve qualcuno per declamare l’ovvio, ho già Messer Cortese,
Ashlinn.»
«… a volte vale la pena di sottolineare certe cose due volte…»
«Ascoltate, nessuno sa meglio di me quant’è profonda la merda in cui ci
troviamo» sbottò Mia. «Ma se uno di voi riesce a escogitare un modo
migliore per eliminare Duomo e Scaeva nello stesso momento senza che la
Chiesa Rossa ne abbia sentore, sono tutta fottute orecchie.»
«Te l’ho già detto, Mia» disse Ash. «Io posso eliminare Duomo per te.
Mi sono addestrata alla Chiesa, proprio come te. Possiamo veleggiare fino a
Godsgrave proprio ora e…»
«No, te l’ho detto» si accigliò la ragazza. «Duomo è mio. Scaeva è mio.
Voglio guardare quei bastardi negli occhi mentre muoiono. Voglio che
sappiano che sono stata io.»
«… SANGUE ESIGE SANGUE …» ringhiò Eclissi.
Ash si ficcò tra i denti un’altra fetta di mela, poi sollevò un sopracciglio
rivolta a Messer Cortese. I due potevano essere ai ferri corti su ogni altra
cosa, ma sulla follia del piano di Mia erano assolutamente d’accordo.
«… mia, fors…»
«No!» sbottò lei. «Si farà così. E questo era il patto, Ashlinn. Tu mi aiuti
a eliminare Scaeva e Duomo, Mercurio e io ti aiutiamo a eliminare il
Culto.»
«Non li elimineresti soltanto per me, Mia. Siamo sinceri.»
«Sei sicura di sapere ancora cosa significa la sincerità, Ashlinn?»
La ragazza si succhiò il labbro e annuì lentamente. «Un bell’affondo.»
«Mi sono esercitata.»
«Dovrei far notare che qui sono io ad aiutare te, Mia.»
«Io elimino Duomo. Io elimino Scaeva. Questo è il patto che abbiamo
sottoscritto.»
E così era. Per quanto il piano fosse sembrato folle, seduti per ore nella
Cappella di Godsgrave, né Mercurio né Ashlinn erano riusciti a escogitarne
uno migliore. Scaeva appariva in pubblico sempre più di rado e Duomo
trascorreva gran parte del proprio tempo nella Basilica Grande. Che i due si
trovassero assieme al magni, a breve distanza, e che nel frattempo Duomo
non indossasse una maledetta Trinità attorno al collo… Per quanto potesse
essere difficile arrivare lì, l’opportunità era troppo ghiotta per sprecarla.
E così Mercurio aveva riferito al Culto che l’affare con i braavi era
andato a rotoli e che Mia ora stava inseguendo la mappa sulla terraferma. I
tre poi avevano fatto ricerche su quali fossero i migliori collegi che
potessero far arrivare Mia al magni, anche se Mercurio non era esattamente
felice del fatto che fosse coinvolta Ashlinn. Sì, la ragazza voleva vendetta
sulla Chiesa Rossa quasi quanto Mia. Sì, era una bugiarda migliore di Mia:
lei e suo fratello avevano quasi distrutto la Chiesa contando unicamente
sulle loro forze. Ma il fatto era che Mia e il suo vecchio mentore si fidavano
di lei solo finché era a portata di sputo.
Tuttavia, Mia aveva messo Eclissi a tenere sotto controllo Ash: la
ragazza non poteva nemmeno respirare senza che il demone fosse lì a
sentirla. E quando nuotavi in acque infestate dai drachi, non faceva mai
male avere compagnia, anche solo perché i drachi avessero qualcun altro da
mangiare a parte te.
Ashlinn si stiracchiò come un gatto e mangiò un’altra fetta di mela.
«E va bene» disse. «Sto solo indicando delle alternative. Ma abbiamo
fatto un patto e io mi ci atterrò. Che non si dica che non sono una donna di
parola.»
Messer Cortese la sbeffeggiò, avvolgendo la gola attorno alla gola di
Mia.
«… al contrario, credo debba essere detto con quanta più forza e
frequenza possibile…»
Ashlinn gli rivolse le nocche. «Nessuno stava parlando con te, Messer
Positività.»
Eclissi sollevò la testa e il suo sussurro riecheggiò tra le assi del
pavimento.
«… COME PUOI AVER IPOTIZZATO, DOMINA JÄRNHEIM E IO SIAMO ANDATE
D’ACCORDISSIMO IN TUA ASSENZA …»
«… chissà perché non ne sono sorpreso…»
«… NON HAI DEI TOPI A CUI DARE LA CACCIA, MICETTO …?»
«… non hai dei genitali da annusare, caro cagnaccio…?»
«D’accordo, basta, basta» disse Mia. «Devo tornare alla mia adorabile
cella puzzolente a Crow’s Nest prima che si accorgano della mia assenza.
Dobbiamo scoprire il più possibile su Leona. Sapevamo tutto su suo padre,
ma la domina stessa è una specie di mistero.»
«Allora è un bene che abbia fatto un po’ di domande in giro» sorrise
Ashlinn.
La ragazza tagliò un’altra fetta di mela e se la premette contro la lingua.
Mia sollevò un sopracciglio. «Sputa, dunque.»
«Di’ per favore» sogghignò Ashlinn.
«Ash…» ringhiò Mia.
La ragazza si appoggiò contro lo schienale con un sorrisetto. «Sono qui
solo da un cambio. Perciò c’è altro da scoprire. Ma so che Leona ha sposato
Remus circa tre anni fa. Attirò la sua attenzione all’ultimo magni, e Remus
poco dopo chiese la sua mano al padre. Per la figlia di un semplice sanguila,
fu un colpaccio andare in sposa al tribuno della legione dei Luminatii. La
dice lunga sul peso politico di suo padre, suppongo.»
Mia prese un morso della mela, parlando mentre masticava.
«Il loro è stato un matrimonio combinato?»
«Lo sono sempre, a quel livello.» Ash tagliò una fettina sottile e se la
infilò tra le labbra. «Anche se da quello che sono riuscita a capire, Leona
non è stata costretta a sposarsi. Remus era ricco. Bello. La sua stella politica
in ascesa. Aveva molto da guadagnare a infilarsi nel letto con lui. Perciò
non mi farei sfuggire che gli hai tagliato la gola, se fossi in te.»
«Oh, dannazione, come se avessi intenzione di farlo.»
Ashlinn sogghignò e si premette un’altra fetta contro la lingua.
«E Arkades?» Mia chiese rumorosamente mentre mangiava. «È stato il
campione di Leonides per anni. Perché serve Leona come executus invece
di suo padre?»
Ashlinn scrollò di nuovo le spalle. «Come ti ho detto, sono qui solo da
un cambio. Dammi tempo.»
«Bene, mi occorre qualunque vantaggio riesca a ottenere.» Mia si pulì le
labbra, poi si alzò e si stiracchiò. «Perciò quanto più riesci a scoprire sulla
mia Dominatii, tanto meglio.»
Ash indicò con il capo gli stracci che Mia stava indossando, fissando con
sguardo eloquente le sue nudità, dalla cintola alle gambe. «Mi piace il suo
senso della moda, se non altro.»
Mia ignorò il commento, si avvicinò alla finestra e guardò fuori in cerca
di occhi ostili. Non trovandone nessuno, fece volteggiare la gamba oltre il
davanzale, accingendosi ad arrampicarsi fuori.
«Mia.»
Lei si voltò per guardare Ashlinn, sollevando un sopracciglio. Le mani
della ragazza fremevano contro i fianchi, toccando l’orlo delle sue brache.
«Stai attenta, là dentro» disse.
Mia lanciò un’occhiata a Eclissi, ancora acciambellata sul divano in una
pozza di nero.
«Tieni gli occhi aperti» disse Mia.
«… PER QUANTO POSSA UNA CREATURA SENZA OCCHI …» replicò la non-
lupa.
Detto questo, se ne andò. Si calò per il muro fino al vicolo, trascinando
le ombre attorno alla sua testa. Ripercorse furtiva la strada per Crow’s Nest
con Messer Cortese a guidarla fino al suo riposo.
Pensò al modo in cui l’aveva guardata Ashlinn. Al bacio che avevano
condiviso il cambio in cui Mia aveva lasciato la Montagna. Era stata tutta
una messinscena da parte di Ashlinn, ne era sicura. Solo una recita per
portare avanti il piano di eliminare il Culto. Mia lo sapeva. Tutti lo
sapevano. Ashlinn Järnheim era veleno. Ma ripensando a quel bacio, la sua
mente vagò a quell’illuminotte nel letto di Gaius Aurelius, a che sapore
avesse avuto quella bellezza liisiana sulle sue labbra. Si domandò se quello
fosse stato solo per finta da parte sua, solo uno stratagemma come un altro
per trovarsi a distanza ravvicinata con il figlio del senatore. Si domandò se
a una parte di lei non fosse piaciuto davvero e se, anche in tal caso, la cosa
avesse importanza.
Si domandò perché se lo stava domandando.
“Occhi sul fottuto premio, Corvere.”
Una volta tornata a Crow’s Nest, trovò il cancello ancora sigillato e le
guardie vigili. L’ora era tarda e c’erano poche speranze che un servitore
potesse essere mandato giù a Rest fin dopo che i gladiatii non fossero stati
svegliati per il primopasto. E così Mia si protese verso le ombre ai suoi
piedi e quelle nel cortile, poi, prendendo un respiro profondo, lei

Passò

per
lo spazio

tra esse.

Cadde in ginocchio nella polvere, la testa che ondeggiava e la luce


ardente dei due soli in cielo che le percuoteva il cranio. Almeno gli effetti
del vino si erano esauriti e non aveva più la tentazione di vomitare, ma
quella sensazione era ancora tutt’altro che piacevole. Il capitano della
guardia privata della domina, un tipo con gli occhi acuti di nome Gannicus,
si voltò al suono di lei che colpiva il terreno. Ma Mia era nascosta sotto il
suo manto nell’ombra del muro e lui non vide nulla di importante, così
lentamente tornò alla sua guardia.
Passarono diversi minuti prima che Mia si sentisse abbastanza salda da
alzarsi, procedendo lentamente lungo il cortile seguendo i sussurri di
Messer Cortese, lungo il fianco dell’edificio fino alla veranda aperta sul
retro. Scendendo silenziosa giù per le scale, muovendosi a tentoni, trovò
finalmente le sbarre di ferro che sigillavano la caserma dal resto della villa.
Prendendosi un momento per prepararsi e temendo l’insorgere delle
vertigini, percepì le ombre della sua piccola, squallida cella. Poi, chiudendo
forte gli occhi, lei

Passò

nel nero

ai suoi piedi

e arrivò nella
cella.

Il calore dei soli non era affatto così intenso nell’oscurità della caserma,
tuttavia lei era quasi in preda alla nausea, con il vomito che le gorgogliava
su per l’esofago e premeva contro le guance. Stava migliorando con i Passi
nelle ombre da quella volta sul tetto della basilica: come ogni muscolo,
supponeva che diventasse più forte man mano che lo usava. Ma pareva che
un secondo Passo così presto dopo il primo fosse troppo, in particolare con i
soli che ardevano così luminosi nel cielo. Deglutì forte, accucciata sulla
paglia, stringendo le pietre sotto di lei per far smettere al mondo di girare.
Ascoltando le celle attorno a lei, non udì nulla tranne sospiri e un russare
sommesso.
«… tutto sembra sgombro…» giunse un sussurro al suo orecchio.
Lei attese ancora un momento mentre il mondo si raddrizzava
lentamente. Infine, al sicuro all’interno della propria cella, Mia gettò da
parte il manto d’ombra e sbatté le palpebre per l’oscurità che la circondava,
incontrando proprio gli occhi di Sidonius che si aprivano.
«Che io sia fottuto» mormorò. «Guarda c…»
Mia attraversò la cella in un lampo e afferrò l’uomo per la gola,
mettendogli una mano sopra la bocca. Sidonius la artigliò a sua volta, i
muscoli che si ingrossavano, ringhiando mentre i due lottavano. Sid era più
grosso e Mia più veloce, e i due si azzuffarono in silenzio nella paglia.
Ciascuno afferrò l’altro in una presa per strozzare, le vene che pulsavano
nelle loro gole; dagli occhi di Sid sgorgavano lacrime.
«P-pa…» gorgogliò lui.
Perfino mentre Mia lo strozzava, la presa dell’uomo si serrò. La gola
della ragazza era sempre più chiusa e aveva un bruciore al petto, l’afflusso
di sangue al cervello interrotto. Era ancora frastornata dal suo Passo nelle
ombre che non aveva idea se il grosso Itreyano avrebbe ceduto prima di lei.
Non aveva idea di cosa lui avrebbe fatto se fosse stata lei a cedere…
«P… pace» riuscì a dire a fatica Sidonius.
Mia allentò la stretta per una frazione di secondo, guardandolo negli
occhi. L’omone fece lo stesso, permettendo a un semplice alito di entrarle
nei polmoni. Lenta come ghiaccio che si scioglieva, lei lo liberò dalla stretta
e le dita di lui lasciarono il suo collo. Mia rotolò giù dal grosso Itreyano e si
ritirò in un angolo della loro cella.
«’Bisso e sangue» mormorò Sid, massaggiandosi la gola. «Q… questo
perché?»
«Hai visto» sussurrò Mia.
«E allora?»
«Tu sai. Cosa sono.»
Sid trasalì, cercando di deglutire. Bisbigliò in tono così basso che lei
quasi non riuscì a sentire.
«Tenebris.»
Mia non disse nulla, gli occhi scuri fissi nei suoi.
«E per questo mi merito di essere dannatamente strozzato?» incalzò lui.
«Tieni bassa quella cazzo di voce» sbraitò Mia, guardandosi attorno
verso le altre celle.
«… un consiglio che tutte le parti interessate farebbero meglio a
seguire…»
Sidonius sgranò gli occhi quando l’umbragatto comparve sulla spalla di
Mia.
«Che mi fottano…» mormorò.
«… un’offerta generosa, ma no, grazie…»
«E grazie a te per avermi detto che tutto sembrava sgombro» sussurrò
Mia.
Il non-gatto inclinò la testa.
«… non posso essere perfetto in ogni senso…»
Mia e Sidonius si guardarono a vicenda dai lati opposti della paglia.
C’era paura nello sguardo dell’uomo: paura dell’ignoto, paura di ciò che lei
era. Ma malgrado ciò, Sidonius rimase in silenzio e trattenne la lingua,
guardandola con occhi incuriositi.
«Non dovresti chiamare le guardie urlando, ora?» chiese Mia.
«Farfugliando che dovrebbero inchiodarmi per stregoneria?»
«Stregoneria?» la sbeffeggiò Sid. «Ti sembro forse un paesano
rincitrullito?»
«… Ammetto che stai ricevendo la notizia meglio di molti altri.»
«Ho visto parecchio di questo mondo, piccolo Corvo. E tu non sei la
cosa più strana. Nemmeno un po’.» L’Itreyano si appoggiò all’indietro
contro le sbarre e incrociò le braccia. «È vero, allora… quello che si dice su
di voi?»
«Che mandiamo a male il latte dove passiamo e defloriamo vergini
ovu…»
«Che passate attraverso i muri, piccola idiota. Mi sono svegliato per
pisciare mezz’ora fa e tu non c’eri. Poi pop, sei comparsa dal nulla.»
«Non è quello che è successo, Sid.»
«So cos’ho visto, Corvo.»
Nella villa sopra di loro si potevano udire i suoni del risveglio. I passi
dei cuochi sulle assi, il cambio della guardia lì fuori. Presto l’executus
sarebbe sceso a svegliarli per il primo giro di esercizi sfiancanti.
Mia guardò Sidonius negli occhi, studiandolo con attenzione.
Quell’uomo era uno smargiasso, un bruto e un completo idiota quando si
trattava di donne. Ma non era uno sciocco. Mia non si fidava di lui,
nemmeno lontanamente. Ma avevano sanguinato assieme sulle sabbie di
Blackbridge, e quello voleva dire qualcosa. Tuttavia, non c’era possibilità
che fosse disposta a condividere qualcosa di sé senza che lui le desse
qualcosa in cambio…
Guardò le nocche sfregiate e i muscoli sodi che rivelavano un uomo che
aveva passato la vita a combattere. Quei freddi occhi azzurri che parlavano
di lunghe miglia e anni ancora più lunghi. La parola CODARDO marchiata a
fuoco sulla sua pelle.
«E quante parti del mondo hai visto?» gli chiese.
«Liis» rispose lui. «Vaan. Itreya. Ovunque la compagnia mi portasse.»
Mia sollevò un sopracciglio. Ricordò il modo in cui Sid si era
comportato durante la Sfrondatura. Sbraitava ordini come un uomo abituato
al comando. Elaborava tattiche come…
«Eri nella legione itreyana» disse lei.
Sid scosse il capo. «Ero Luminatii, piccolo Corvo. Ho servito il tribuno
per cinque anni.»
Mia strinse gli occhi e provò un senso di gelo nella pancia. «Hai servito
Marcus Remus?»
«Remus?» Sid sghignazzò. «Quel viscido infame? ’Bisso, no. Ho servito
il tribuno prima di lui. Il vero tribuno, ragazza. Il fottuto Darius Corvere.»
Il cuore di Mia le sobbalzò nel petto. La lingua si attaccò al palato.
Madre Nera, quest’uomo aveva servito suo padre.
“Ma questo non ha senso…”
«Io…» Mia si schiarì la gola. «Ho sentito che tutto l’esercito degli
Incoronatori fu crocifisso… sulle rive del Coro. Lastricarono i gradini della
casa del senato con i loro teschi.»
«Io non ero lì quando l’esercito di Corvere e Antonius andò in pezzi.»
Sid si sfregò il marchio sul petto e la sua voce divenne lontana. «Mi sono
sempre chiesto se avrei potuto fare qualcosa di buono, se ci fossi stato…»
Si passò una mano sui cortissimi capelli neri. Indicò con il capo le mura
che li circondavano. Le sbarre che li rinchiudevano.
«Questa era la casa di Corvere, sai» sospirò. «Lui e la sua familia erano
soliti trascorrere le estati qui, credo. La ragazzina. Il neonato. Prima che la
dessero a quel serpente di Remus. E pensare che è qui che terminerò i miei
cambi. Rinchiuso nel sotterraneo di quello stronzo. Vincendo sangue e
gloria per la sua vedova finché le mie viscere non dipingeranno la sabbia.»
E così, Sidonius non aveva soltanto servito suo padre. Era rimasto leale
quando l’intera Repubblica si era rivoltata contro di lui…
Denti della Mannaia, non se lo sarebbe mai immaginato. Pensare che
avrebbe incontrato uno degli uomini di suo padre, proprio sotto questo
tetto? Se prima non aveva provato alcuna affinità per quest’uomo accanto a
cui aveva sanguinato a Blackbridge, ora la sentì riempirle il petto. Il modo
in cui Sidonius parlava di suo padre le faceva venire voglia di baciare
quello stupido coglione.
“Il vero tribuno” aveva detto.
Quando chiunque altro si era riferito a Darius Corvere chiamandolo
semplicemente “traditore”.
Mia si massaggiò la gola ammaccata e la sua ombra si increspò mentre
Messer Cortese beveva la sua paura. Non aveva parlato molto del suo dono,
con nessuno. Le persone temevano quello che non capivano e odiavano
quello che temevano. Ma nonostante tutta la stranezza di quel potere,
Sidonius non sembrava minimamente spaventato, non più.
“È un tipo strano…”
«Non posso attraversare le pareti» confessò.
Gli occhi di Sid si misero a fuoco, guardandola dall’altro lato della cella.
«È come se facessi una specie di… Passo. In un certo senso. Tra le
ombre, intendo.»
«’Bisso e sangue» mormorò l’omone.
«Ma dopo mi fa venire da vomitare» aggiunse. «E posso rendermi
invisibile. Ma sono quasi cieca quando lo faccio. Non è un dono così
meraviglioso, a dire la verità.»
«E il tuo passeggero?»
«Di’ ciao, Messer Cortese.»
«… ciao, messer cortese…»
«Perciò puoi lasciare queste celle ogni momento che vuoi?»
Mia scrollò le spalle. «In un certo senso.»
L’Itreyano scosse la testa meravigliato. «Allora, nel nome del
Semprevigile e delle sue Quattro fottute Figlie, cosa ci fai ancora qui,
piccolo Corvo?»
La saracinesca si alzò tremolando quando una guardia tirò una leva
mekana. L’executus marciò nella caserma, la barba ingrigita irta, la frusta
arrotolata nella mano.
«Gladiatii!» sbraitò. «Attenti!»
Con una scrollata di spalle a Sid, Mia si alzò per iniziare il lavoro di quel
cambio.
CAPITOLO 14
RESPIRARE

Due soli ardevano nei cieli tersi, il giallo bruciante di Shiih e il rosso sangue
di Saan contro una coltre di azzurro bellissimo e sconfinato. a Il calore
luccicava sull’oceano infinito e Mia maledisse il Semprevigile per la
centesima volta quel cambio.
Danzava per il cerchio, schivando i colpi di Cantalame, muovendosi
dentro e fuori dalla sua portata. La faccia della donna era inespressiva come
pietra e la sua spada di legno fischiava come se conoscesse il suo nome.
«No!» tuonò l’executus dal margine del cerchio. «Stai balzellando come
una dannata neralepre. Ti stancherai e perderai i sensi se continui a danzare
in questo caldo. Lo scudo è un’arma, proprio come la tua lama. Sbatti via i
colpi della tua avversaria e falle perdere l’equilibrio.»
Mia sollevò il grosso rettangolo di legno e ferro ricurvo sul suo braccio
destro. Era pesante come una pila di mattoni, fissato con una striscia di
corda vecchia. Odiava quel fottuto arnese, a dire la verità, ma quello che
diceva Arkades era vero: stava sudando come un porco a causa di tutte
quelle schivate. Cercò di seguire le sue istruzioni, ma quando Cantalame
sollevò la spada e la calò su Mia come un tuono, la ragazza balzò per istinto
oltre la guardia della donna e le sbatté la propria lama contro il tendine.
«Merda» sbraitò Cantalame. «È più veloce di un drachetto, questa.»
«No!»
L’executus entrò zoppicando nel cerchio, sfoderando il gladio d’acciaio
che portava sempre durante le sessioni.
«Se non la smetti di danzare come una sposa al suo matrimonio, giuro
che ti azzoppo…»
Mia si mise sulla difensiva, pensando forse che Arkades avesse
intenzione di colpirla. Invece lui conficcò la spada nel terreno, proprio al
centro dell’anello. Schioccò le dita per chiamare Verme, che aspettava come
sempre all’ombra del piccolo capanno nell’angolo del cortile.
«Corda» ordinò Arkades.
La ragazza si precipitò alle rastrelliere delle armi, poi staccò una delle
corde che i gladiatii usavano per fare ginnastica. Trascinandola da Arkades,
Verme guardò con occhi curiosi mentre l’executus fissava un capo attorno
all’elsa della sua lama e l’altro alla gamba di Mia.
«Danza con quella, neralepre» la redarguì.
Arkades tornò al bordo del cerchio e sbraitò a Cantalame di attaccare.
Incapace di schivare, Mia fu costretta a usare il suo scudo e i colpi di
Cantalame piovevano come tuoni. Gli impatti scossero il braccio di Mia fin
quando la vecchia fune che fissava lo scudo al suo avambraccio non si
ruppe definitivamente a metà, impigliando la sua mano nella stretta di cuoio
annodata. Con una serie di suoni umidi e schioccanti, tre delle dita di Mia si
spezzarono alla nocca.
«’Bisso e fottuto sangue!» imprecò lei, lasciando cadere lo scudo.
Gli altri gladiatii nel cortile si voltarono a fissarla, osservando mentre si
piegava in due stringendosi la mano. Macellaio rise, mentre Alzaonda si
lanciò in un applauso. Fissando con un’occhiataccia il suo scudo rotto, Mia
gli assestò un calcio furioso («Fottuto aggeggio!») e lo fece volare dall’altra
parte del cortile prima di lasciarsi cadere fra la polvere.
«Aaaahi» gemette, stringendosi forte le dita dei piedi ora lussate con la
sua unica mano sana.
«Fammi vedere» disse l’executus, avvicinandosi per inginocchiarsi
accanto a lei.
Mia sollevò la mano tremante. Il mignolo sporgeva a un angolo
completamente sbagliato, anulare e medio erano entrambi storti. Arkades
girò la mano da una parte e dall’altra mentre Mia si contorceva e
imprecava.
«Mi hai rotto le dita!» esclamò, guardando storto Cantalame.
La donna scrollò le spalle, scostando via dalla faccia le lunghe
salciocche.
«Benvenuta sulla sabbia, Corvo.»
«Smettila di frignare, ragazza» disse Arkades stringendo gli occhi.
«Sono solo slogate. Verme!»
La ragazzina drizzò le orecchie dal suo posto all’ombra vicino al
capanno e accorse da Mia. Slegandole la corda alla caviglia, Verme aiutò
Mia ad alzarsi e lei si sollevò con un sussulto. Gli altri gladiatii tornarono al
loro addestramento mentre Verme conduceva Mia per mano lungo il cortile.
Lei vide Furian che si esercitava con Alzaonda, osservandola con la coda
dell’occhio. Il volto del giovane era una maschera inespressiva, mentre la
pancia di Mia, come sempre quando lui le era vicino, era un nodo di nausea
e fame.
“Io lo faccio sentire allo stesso modo?”
Verme portò Mia in una lunga stanza sul retro della fortezza, che
conteneva quattro lastre di arenaria. La pietra era dell’identico color ocra
bruciato dei dirupi attorno a loro, ma era macchiata di un rosso più intenso,
piccoli spruzzi sulla superficie.
“Macchie di sangue” si rese conto Mia.
«Puoi sederti» disse Verme con una vocina timida.
Mia fece come ordinato, tenendo la mano pulsante contro il petto. Verme
trotterellò per la stanza, frugando in una serie di forzieri. Tornò con una
manciata di stecche di legno e una palla di cotone marrone intrecciato.
«Allunga la mano» le ordinò la ragazzina.
L’ombra di Mia si gonfiò, con Messer Cortese che beveva la sua paura al
pensiero di ciò che stava per accadere. Verme esaminò le sue dita,
accarezzandosi il mento. Poi, delicata come foglie che cadono, afferrò il
mignolo di Mia.
«Non farà male» promise. «Sono bravissima con queste cose.»
«D’accooooaaaaAAAHHH!» strillò Mia quando Verme le rimise a posto
il dito con uno schiocco, rapidissima. Si alzò dalla lastra e si piegò in due,
tenendosi la mano.
«Ha fatto MALE!» urlò.
Verme annuì con solennità. «Sì.»
«Hai promesso che non l’avrebbe fatto!»
«E tu mi hai creduto.» La ragazza le rivolse un sorriso dolce come
zucchero filato. «Te l’ho detto, sono bravissima con queste cose.» Indicò di
nuovo la lastra. «Torna a sedere.»
Mia ricacciò indietro lacrime calde, la mano che pulsava dal dolore.
Però, guardando il dito, riuscì a vedere che Verme l’aveva rimesso a posto,
facendo schioccare la giuntura dislocata nella posizione più corretta
possibile. Inspirando a fondo, tornò a sedersi e offrì servizievolmente la
mano.
La ragazzina prese l’anulare di Mia e alzò lo sguardo su di lei con grossi
occhi scuri.
«Conterò fino a tre» disse.
«D’accoooaaaaaCAZZO!» strepitò Mia quando Verme rimise a posto la
giuntura. Si alzò saltellando in giro per la stanza, la mano ferita tra le
gambe. «Merda cazzo fica fottuta fanculotutto!»
«Imprechi parecchio» si accigliò Verme.
«Hai detto che avresti contato fino a tre!»
Verme annuì tristemente. «E tu mi hai creduto di nuovo, vero?»
Mia sussultò e strinse i denti, squadrando la ragazzina dall’alto in basso.
«… Sei davvero bravissima in questo» si rese conto.
Verme sorrise e diede una pacca sulla lastra. «L’ultimo.»
Con un sospiro, Mia tornò a sedersi, la testa che le ondeggiava dal dolore
quando Verme afferrò delicatamente il dito medio. Guardò Mia con
solennità.
«Ora, questo farà male davvero» la avvisò.
«Aspe…» La Lama sussultò quando Verme rimise a posto il dito.
Mia sbatté le palpebre.
«Ahi?» disse.
«Tutto fatto» sorrise Verme.
«Ma quello era il più facile di tutti?» protestò Mia.
«Lo so» replicò Verme. «Sono…»
«… bravissima in questo» terminarono entrambe.
Verme cominciò a steccare le dita di Mia, legandole strette per limitarne
i movimenti. I tre cerchi marchiati nella guancia della ragazzina non erano
più un mistero…
«Perché ti chiamano Corvo?» chiese mentre lavorava.
Mia guardò la ragazza con attenzione, cercando di ignorare il dolore
caldo e pulsante della sua mano. Verme era liisiana: pelle abbronzata e
intricati capelli scuri, come i suoi grandi occhi. Era ossuta, e il vestito
sottile copriva la sua corporatura magra.
“Non può avere un cambio più di dodici anni” ipotizzò Mia.
Forse era vederla nella fortezza dove lei era cresciuta. Forse era
quell’intelligenza sbarazzina che scintillava in quegli occhi scuri o il modo
così spavaldo in cui parlava alle persone più anziane. Ma a dire la verità, a
Mia quella ragazzina ricordava un po’ lei stessa…
«Perché ti chiamano Verme?» replicò Mia.
«L’ho chiesto prima io.»
«Corvo è un soprannome.»
Mia ripensò alla prima volta in cui qualcuno l’aveva chiamata così. Al
suo incontro con il vecchio Mercurio. L’anziano aveva riempito di lividi di
sette colori alcuni giovani malviventi che avevano rubato la spilla di Mia. Il
cambio dopo che suo padre era stato impiccato. Lei era la figlia di un
traditore, ricercata dagli uomini più potenti della Repubblica. E Mercurio
non ci aveva pensato due volte ad accoglierla, darle un tetto e salvarle la
vita.
“Madre Nera, quanto ha rischiato per me…”
Mia scosse il capo, ripensando al folle piano che aveva escogitato.
“Quanto sta ancora rischiando per me.”
«Me lo diede un amico» disse Mia. «Quando ero una ragazzina. Avevo
un gioiello che raffigurava un corvo. Per questo mi diede quel nome.»
«Io non ho mai avuto nessun gioiello» rifletté Verme.
«Nemmeno io, da allora. Quello era un regalo di mia madre.»
«Dov’è tua madre, ora?»
La domina guardò sua figlia, gli occhi sgranati e un sorriso giallo,
instabile e troppo ampio. Messer Cortese si materializzò sul pavimento
della cella accanto a Mia e Domina Corvere sibilò come se fosse stata
scottata, ritraendosi dalle sbarre e mostrando i denti in un ringhio.
«Lui è dentro di te» sussurrò la domina. «Oh, Figlie, è dentro di te.»
Mia fissò il pavimento di pietra. Gli schizzi di sangue vecchio ormai
marrone.
«Non c’è più» rispose.
Verme guardò Mia e annuì tristemente mentre legava la fasciatura.
«Anche la mia» disse. «Ma mi ha insegnato tutto quello che sapeva. E
così, ogni volta che suturo una ferita, metto a posto un osso o guarisco una
febbre, lei è con me.»
Un bel pensiero, meditò Mia. Uno che senza dubbio veniva cantato agli
orfani di tutto il mondo dal principio del tempo. Ma perfino se ci fosse stata
qualche somiglianza con suo padre nel modo in cui combatteva, e con sua
madre nel modo in cui parlava, i suoi genitori erano comunque morti e
sepolti. Se fossero stati con lei, sarebbero stati come fantasmi sulla sua
spalla, sussurrando nell’illuminotte tutto ciò che sarebbe potuto essere.
Se non fosse stato per loro…
Mia girò la mano ferita da una parte e dall’altra. Era dolorante, ma meno
di prima. In una settimana circa sarebbe stata come nuova.
«Ancora non mi hai detto perché ti chiamano Verme» disse.
La ragazzina guardò in profondità negli occhi di Mia.
«Prega di non scoprirlo mai» disse.
Quindi uscì dall’infermeria, seguita da Mia. Verme si ritirò al suo posto
all’ombra mentre l’executus zoppicava verso Mia, prendendo un piccolo
sorso dalla fiasca che aveva all’anca mentre camminava. Afferrandole il
polso, guardò accigliato la sua mano ferita.
«Non ti eserciterai con questa per alcuni…»
«Executus» giunse una voce delicata.
Arkades alzò lo sguardo verso la balconata. Domina Leona era lì in
piedi, i capelli ramati in lunghi boccoli fluenti, l’abito di seta azzurro come
il cielo sopra di loro. Accanto a lei c’era un Liisiano dall’aspetto piuttosto
azzimato, con una redingote fin troppo elegante per quel posto e fin troppo
calda per quel clima. Era fiancheggiato da due robuste guardie del corpo
con farsetti di cuoio.
«Attenti!» sbraitò Arkades.
Tutto il cortile rimase immobile a quell’ordine e i gladiatii si voltarono
verso la loro padrona.
«Executus, occupati di Matilius.» La domina lanciò un’occhiata a un
grosso Itreyano che si stava esercitando con un Liisiano di nome Otho.
«Deve accompagnare questi uomini alla casa del suo nuovo padrone.»
Le sopracciglia di Arkades si contrassero in un cipiglio. «Nuovo
padrone, Mea Domina?»
«È stato venduto a Varro Caito.»
I gladiatii si scambiarono occhiate imbarazzate e Mia notò l’improvviso
cambiamento di umore. Matilius mise da parte le sue lame da
addestramento e si accigliò mentre alzava lo sguardo verso Leona.
«Dominatii» disse l’Itreyano. «Vi ho forse… deluso?»
Leona fissò l’omone con occhi azzurri scintillanti. Ma con uno sguardo
all’uomo azzimato accanto a lei, la sua espressione divenne dura come la
pietra rossa sotto i suoi piedi.
«Non sono più la tua Dominatii» disse. «Ma non hai comunque alcun
diritto di contestarmi. Resta al tuo posto, schiavo, se non vuoi che ordini
all’executus di darti un regalo d’addio.»
L’omone abbassò lo sguardo, la perplessità che si agitava nei suoi occhi.
«Le mie scuse» borbottò.
Il freddo sguardo azzurro di Leona si posò su Arkades. «Executus,
provvedi a questo trasferimento. Voialtri, tornate a esercitarvi.»
Arkades si inchinò. «Il vostro sussurro, la mia volontà.»
Anche se la nascondeva bene, Mia poteva vedere comunque la
confusione negli occhi dell’executus. Qualunque fosse la natura di questa
“vendita”, era evidente che Leona non si era consultata con lui in proposito.
L’omone si mise dritto e guardò Mia, poi la sua mano ferita.
«Tu non ti eserciterai per i prossimi tre cambi, ragazza.» Indicò con un
cenno del capo i biondi gemelli vaaniani che si stavano allenando con i
fantocci da addestramento dall’altro lato del cortile. «Domani
accompagnerai Bryn e Byern all’equorium. Puoi aiutarli con i loro esercizi,
almeno.»
Voltandosi, il Leone Rosso zoppicò lentamente lungo il cortile. Matilius
stava dicendo rapidi addii agli altri gladiatii negli ultimi momenti che gli
rimanevano. Afferrò il braccio di Furian e lo strinse. Cantalame lo cinse in
un abbraccio fortissimo, Macellaio e Alzaonda gli diedero delle pacche
sulla spalla. Matilius guardò Mia dall’altro lato del cortile e le rivolse un
cenno del capo, che lei ricambiò. Non l’aveva conosciuto bene, ma
sembrava un tipo a posto. Ed era chiaro che aveva amici, qui nel collegio:
fratelli e sorelle con cui aveva combattuto e sanguinato, e adesso era
costretto a dire loro addio.
Mia si diresse verso i fantocci da addestramento e si mise accanto a Bryn
e Byern. La ragazza vaaniana era bassa, quasi graziosa, la sua alta crocchia
zuppa di sudore. Byern era più alto e di bell’aspetto, la mascella squadrata e
le spalle ampie. La sua spada addestramento gli pendeva nella mano mentre
osservava Matilius dire i suoi addii. I Vaaniani avevano più o meno l’età di
Mia, ma per qualche motivo sembravano più vecchi.
Qualcosa negli occhi, forse.
«Chi è Varro Caito?» chiese Mia piano.
I gemelli sobbalzarono: non avevano udito Mia avvicinarsi. Con aria
accigliata, Bryn si voltò di nuovo verso gli addii, lanciando un’occhiata
velenosa al Liisiano azzimato sulla balconata.
«Un mercante di carne» replicò. «Gestisce il Pandemonium.»
Mia sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.
«Una fossa di combattimento» spiegò Bryn. «Sottoterra. Non autorizzata
dagli administratii. Ma le battaglie sono sanguinose. E popolari. Pagano
bene per gli ex gladiatii.»
«Perciò è una specie di arena?»
Byern scosse il capo. «Non c’è onore lì. Niente regole. Nessuna pietà. Il
Pandemonium è più simile a un combattimento di cani che al venatus. E le
contese sono sempre alla morte. Molti guerrieri periscono entro pochi
cambi. Perfino i migliori resistono solo un mese.»
Mia osservò Matilius che stava venendo ammanettato dall’executus e
consegnato al mercante di carne liisiano. Le guardie del corpo controllarono
i ferri e annuirono. E, con un ultimo sguardo, l’uomo fu scortato via dal
cortile nella custodia del suo nuovo padrone.
Bryn sospirò e scosse il capo. «Va alla propria morte.»
«Allora perché ci va?» chiese Mia.
«Cos’altro potrebbe fare?» replicò Byern.
«Fuggire» rispose lei in tono feroce. «Combattere.»
«Combattere?» Bryn guardò Mia come se fosse una bambina. «C’è stata
una rivolta di schiavi giù a Crow’s Rest. Sette o forse otto mesi fa. Ne hai
sentito parlare?»
Mia scosse il capo.
«Due schiavi si erano innamorati» disse Byern. «Volevano sposarsi, ma
il loro Dominatii lo proibì. Così i due tagliarono la gola del loro padrone
durante l’illuminotte e fuggirono. Riuscirono ad arrivare fino a Dawnspear
prima di essere catturati. Sai cosa fecero gli administratii?»
«Li crocifissero, immagino» disse Mia.
«Sì» annuì Bryn, lisciandosi l’alta crocchia. «Ma non solo loro.
Frustarono e crocifissero ogni schiavo nella casata dello stesso Dominatii
assieme a loro per dare l’esempio. L’unico che risparmiarono fu lo schiavo
che disse agli administratii dove trovare gli assassini. E per la sua lealtà alla
Repubblica, quello schiavo fu costretto a impugnare la frusta durante le
fustigazioni.»
«Questo è il prezzo della ribellione a Itreya» disse Byern.
Le labbra di Mia si arricciarono al pensiero. Provò nausea. Aveva saputo
che la vita di uno schiavo nella Repubblica era crudele, spesso breve.
Sapeva che la punizione per chi si ribellava era tremenda. Ma Madre Nera,
quella brutalità…
«Tu le hai viste?» chiese lei piano. «Le esecuzioni?»
Byern annuì. «Le abbiamo viste tutti. Gli administratii ordinarono che
tutti gli schiavi di tutte le casate di Rest venissero ad assistere. Il ragazzo
più giovane che hanno impiccato non poteva avere più di otto anni.»
«Quattro Figlie» mormorò Mia. «Non avrei mai immaginato…»
«Come gladiatii, il tuo destino è migliore di molti altri» disse Bryn.
«Sangue. Gloria. Siine grata.»
Mia scrutò la ragazza in tralice. «Tu sei grata?»
Bryn guardò la spada di legno che aveva in mano. Suo fratello, Byern,
era dritto accanto a lei. Bryn alzò lo sguardo verso il cielo, poi lo abbassò
sulla sabbia ai suoi piedi.
«Noi resistiamo» replicò infine.
Mia guardò Matilius che veniva scortato fino al cancello principale. Si
soffermò davanti al cancello, lanciando un’ultima occhiata ai suoi fratelli e
sorelle e alzando le mani in segno d’addio. Bryn agitò il braccio in risposta
e Byern chiuse il pugno e lo portò sopra il cuore. Poi Matilius fu spintonato
da dietro e sparì alla vista.
Mia scosse il capo, domandandosi cosa avrebbe fatto al suo posto. Si
sarebbe opposta in un futile gesto di sfida, provocando la morte dei suoi
fratelli e sorelle? O avrebbe marciato in silenzio verso la sua morte? Come
si sarebbe sentita se la vita in questo collegio fosse stata davvero il suo
destino? Se invece di poter Passare fuori dalle mura quando avesse voluto
fosse stata realmente intrappolata qui, senza nessun controllo, né voce in
capitolo sul proprio futuro?
«Come?» domandò. «Come sopporti l’insopportabile?»
«A Vaan abbiamo un detto» replicò Byern. «In ogni respiro, dimora la
speranza.»
Bryn si voltò verso Mia.
Un rapido sorriso mascherava il suo dolore.
Una pacca sulla schiena di Mia interruppe quell’orrenda quiete.
«Continua a respirare, piccolo Corvo.»
a. Anche se l’impero ashkahi terminò con una misteriosa calamità dovuta alla magika millenni or
sono, resti del linguaggio sopravvivono nella Repubblica itreyana a tutt’oggi. I nomi dei tre soli,
Shiih (il Sorvegliante), Saan (il Veggente) e Saai (il Sapiente), ne sono l’esempio più evidente, ma
può essere interessante notare come anche i nomi del pantheon itreyano siano parole ashkahi.
Aa è il termine ashkahi per “tutto” e Niah sta per “nulla”. Gli accademici itreyani passano
molto tempo a discutere tra loro ai ricevimenti, dibattendo se entrambi, Aa e Niah, fossero adorati
nella Vecchia Ashkah e se la religione della Repubblica sia molto più antica della Repubblica
stessa. Preferibilmente mentre consumano enormi quantità di vino.
Aa stesso non ha fatto alcun commento, incazzato o meno, al riguardo.
CAPITOLO 15
GIUSTO

L’ultimopasto fu tetro quell’illuminotte, senza le battute sconce o gli


amichevoli sfottò che di solito caratterizzavano la cena attorno ai lunghi
tavoli della veranda. Tutte le menti sembravano rivolte alla vendita di
Matilius. Pensando al destino che aspettava quell’uomo nel Pandemonium,
Mia scoprì di non avere appetito e, invece dei soliti avanzi che dava a
Zanna quando veniva ad annusare in giro, gli elargì quasi il suo intero
pasto.
Il grosso mastino le leccò le dita ferite, agitando la coda tozza. Lei gli
arruffò le orecchie e fece del suo meglio per non rimuginare troppo sulla
faccenda. Pensò invece alle prossime competizioni e alla vendetta che
l’attendeva al termine. Lei era qui per una e una sola ragione. E la vendetta
non sarebbe stata servita se si fosse affezionata troppo a quelli accanto a cui
combatteva. Non aveva importanza quanto l’idea di tutto ciò fosse
devastante.
Come a riecheggiare i suoi pensieri, avvertì una brezza fresca sulla nuca.
Zanna uggiolò e zampettò via da Mia, le orecchie schiacciate e la coda tra le
zampe. Messer Cortese si intrecciò tra le ombre dei suoi capelli e sussurrò
lieve.
«… queste persone non sono la tua familia, né tuoi amici. tutti loro sono
soltanto un mezzo per raggiungere un fine…»
Gli altri gladiatii non sembravano dell’umore di parlare e masticavano il
loro cibo in silenzio. Macellaio era cupo, però, e borbottava tra sé
scuotendo la testa. E verso la fine del pasto non riuscì più a trattenere la
lingua.
«Questa è merda di cavallo» ringhiò, spingendo da parte la sua scodella.
«Io credo sia manzo» disse Alzaonda, piluccandosi i denti.
«Intendevo Mati, brutta fregna sanguinante» disse Macellaio, fissando
torvo l’uomo più grosso. «Venderlo a quel subdolo stronzo di Caito?
Meritava di meglio di quella dannata fossa.»
«Modera il linguaggio, fratello.» Alzaonda agitò un dito ammonitore e il
suo tono di voce divenne più profondo. «Ci sono delle signore.»
Cantalame sollevò un sopracciglio. «E dove?»
«Ora basta» ringhiò Furian. Il campione li fissò con uno sguardo duro,
gli occhi scuri ardenti. Aveva la mascella contratta. I muscoli tesi. «Mangia
il tuo cibo, Macellaio.»
«Non è giusto, Furian.»
L’Imbattuto sbatté un pugno sul tavolo e tutti gli occhi si voltarono a
fissarlo.
«È la volontà della Dominatii» disse. «Lei è la padrona di questo
collegio. Sembrate troppo propensi a dimenticarlo. Ma ricordami, fratello,
cos’eri prima che lei e l’executus ti trascinassero fuori dalla merda?»
«Una guardia del corpo» disse Macellaio con aria decisa.
«Un dannato mulo è quello che eri» lo apostrofò Furian. «Portavi le
borse al mercato per qualche rugosa vecchia domina e la fottevi a comando.
E tu, Alzaonda?»
«Io ero un attore» replicò l’omone con orgoglio.
«Attore? Eri un dannato buttafuori in un teatro da due mendicanti, a far
sloggiare ubriachi e pulire la merda dai cessi tra uno spettacolo e l’altro.»
Alzaonda parve un po’ mortificato. «Dovevo interpretare il Re Ma…»
«Byern era diretto a una miniera di rame ad Ashkah» disse l’Imbattuto
gesticolando per la stanza. «Bryn sarebbe finita in un bordello liisiano.
Cazzo sanguinante di Aa, Cantalame doveva essere impiccata! E la
Dominatii ci ha presi e ci ha forgiati, facendoci diventare dèi!»
Lo sguardo fosco del campione vagò per la mensa, invitandoli a
dissentire.
«La Dominatii ci nutre» disse. «Ci dà un riparo. Ci dà un’opportunità per
combattere per la gloria e l’onore nel venatus invece di vivere in ginocchio
o stesi a terra. E tu dici che non è giusto? Tutti noi le dobbiamo le nostre
vite. Incluso Matilius. Questo lo rende giusto.»
Mia sedette in silenzio, ascoltando l’invettiva dell’Imbattuto. Nessuno
nella stanza espresse dissenso. Si domandò di nuovo chi fosse quell’uomo e
quale fosse la sua ragione di vita. Lei era brava a giudicare i caratteri, ma
Furian era un mistero. Combatteva come un demone nell’arena, questo era
vero. Eppure sembrava assolutamente contento di piegare il ginocchio a
questa vita di sangue e servitù, negando la verità di ciò che era davvero.
“Perché per una volta non posso incontrare un tenebris che non sia un
bastardo o uno sciocco?”
Terminato l’ultimopasto, i gladiatii furono condotti alla caserma e lavati,
quattro alla volta. Spesso lei veniva messa assieme a Sidonius, Macellaio e
Cantalame, anche se Alzaonda era quello con cui preferiva davvero fare il
bagno. Quell’uomo aveva una voce bellissima e cantava spesso mentre si
lavava, brani appresi dal suo breve periodo a teatro, a quanto pareva.
Mia aveva già abbandonato ogni concetto di decoro, dal momento che se
ne andava in giro tutto il cambio indossando due strisce di stoffa imbottita e
un paio di sandali. Trovava strana la facilità con cui si stava abituando alla
vita nel collegio. Nessuna intimità. Nessun pudore. E quando chiudeva gli
occhi, poteva ancora udire il suono che aveva indugiato nella sua mente fin
dai giochi di Blackbridge. Il ruggito che la sollevava su ali di tuono.
“La folla.”
Senza volere, la sua pelle era eccitata al solo pensiero. Quel ricordo
ardeva nell’oscurità dietro i suoi occhi. Tuttavia rammentò a se stessa che
era qui per una ragione, e quella ragione era il magni. Leona aveva venduto
Matilius senza discutere della faccenda con Arkades. Se esisteva qualche
rischio per il collegio, avrebbe fatto meglio a scoprire la verità al riguardo.
Sid sembrava di cattivo umore quando Mia tornò nella loro cella dopo il
bagno, e lei non lo incalzò. Invece si stese contro le sbarre e si assopì,
domandandosi come poteva trasformare la fedeltà del grosso Itreyano verso
suo padre in un qualche genere di vantaggio. Lì al buio, ascoltò il debole
mormorio sotto la porta di Cantalame, seduta in silenzio finché non fu certa
che gli altri gladiatii stessero dormendo. Sussurrò il nome di Sid, ma lui non
si mosse. Avvertì un sussurro freddo alla nuca.
«… dove andiamo…?»
«Dimmelo tu» mormorò lei in risposta.
«… è dall’ultimopasto che vago per la casa…»
«Allora raccontami una storia.»
«… arkades ha richiesto un incontro con leona, e gli è stato detto di
presentarsi dopo che lei si fosse fatta il bagno…»
Mia annuì. «Fai strada.»
La sua ombra si increspò e Messer Cortese scomparve, guizzando fino
alla saracinesca, ora sigillata per l’illuminotte. Mia si protese fino alle
ombre dell’anticamera, proprio come aveva fatto la sera precedente. Non
furono più facili da afferrare, e la sua stretta scivolò per un momento mentre
lei cercava la concentrazione, prese un lungo respiro controllato, poi

Passò

nell’ombra

oltre

la saracinesca.

Il mondo si capovolse e per poco lei non cadde, trattenendo


un’imprecazione mentre si raddrizzava con la mano ferita. Chinò il capo, i
lunghi capelli scuri sparsi davanti a occhi neri come l’inchiostro.
«… vieni…»
Il non-gatto guizzò avanti, controllando che non arrivassero guardie della
casa. Scivolando per la sua vecchia dimora come un coltello tra le costole,
Mia passò tra file di armature e salì l’ampia scalinata fino al primo piano.
Nella testa le si agitavano i ricordi della sua infanzia qui.
Rammentò suo padre che faceva esercitare i cavalli nel cortile. Sua
madre che leggeva presso le finestre a bovindo nella sua stanza. Ricordò
l’illuminotte in cui era nato suo fratello Jonnen, proprio sotto questo tetto.
Suo padre aveva pianto mentre teneva il neonato tra le braccia.
Riusciva a rammentarlo così chiaramente. Il suo odore. Il modo in cui
baciava sua madre, prima su una palpebra, poi sull’altra, poi finalmente
sulla sua liscia fronte olivastra.
Un brav’uomo.
Un marito amorevole.
Un soldato fedele.
Che genere di re sarebbe stato?
Mia scosse il capo, maledicendosi per la sua idiozia. Non aveva
importanza. Il regno di suo padre era largo due piedi e profondo sei, e due
degli uomini che lo avevano ucciso parlavano e respiravano ancora. Quello
era tutto ciò che aveva importanza. Tutto ciò che le sarebbe dovuto
interessare.
Su fino al terzo piano. Quando i genitori di Mia possedevano il Nest,
quello era stato usato come deposito, ma con i Falconi tenuti al sicuro nel
seminterrato, il livello superiore adesso apparteneva alla padrona della casa.
Silenziosa come un sussurro, Mia sgattaiolò per i lunghi corridoi verso voci
sommesse che arrivavano dai bagni.
Scrutando attraverso la porta, vide Domina Leona affiorare da una
profonda piscina fumante, con l’acqua che le scorreva in rivoletti lungo il
corpo nudo. Aveva i capelli umidi e il volto struccato. A Mia sembrò una
bellezza: fianchi pieni e labbra carnose. I suoi occhi vagarono per le curve
di Leona, avvolta nel vapore, e si domandò perché ne fosse eccitata.
Insomma, da basso nella caserma, vedere corpi nudi non significava nulla,
ma qui le formicolava la pelle. Il suo cuore batteva più veloce. Forse
pensava a un’altra bellezza nel letto di Aurelius, il suo assaggio della bocca
del giovane dominus, quei baci dorati che scendevano sempre più in basso.
Pensò ad Ashlinn, allora. Il bacio che avevano condiviso quando Mia
aveva lasciato la Chiesa. Quel bacio era durato un momento di troppo. O
forse non abbastanza?
Mia scosse il capo. Si maledisse per essere una novellina. Ashlinn
Järnheim aveva ucciso Tric. Ashlinn Järnheim aveva tradito la Chiesa e i
suoi sacri voti per vendicare suo padre…
Guardò dall’altro lato del corridoio e notò il proprio riflesso in un
piccolo specchio appeso al muro.
“Ti ricorda qualcun altro che conosci?”
La magistrae attendeva servizievolmente accanto alla vasca di Leona e le
infilò addosso un lungo accappatoio. Leona sembrava meditabonda: si
mordicchiò l’unghia e fissò la statuetta di Trelene che fungeva anche da
cannella per l’acqua. Sospirò quando la magistrae cercò di alleviare la
tensione delle spalle con un massaggio.
«Cosa ti preoccupa, amore?» chiese la donna più anziana.
Leona sorrise. «Come fai a sapere che sono preoccupata?»
«Queste sono le mani che ti hanno portato al mondo» sorrise la
magistrae in risposta. «Questo è il petto che ti ha allattato. Anche se non
posso affermare di sapere sempre cosa pensi, so quando qualcosa di cupo
turba la tua mente, poco ma sicuro.»
Leona chiuse gli occhi mentre la magistrae massaggiava un nodo sul suo
collo.
«… Sto facendo ancora dei sogni, Anthea. Su mia madre.»
«Oh, amore» tubò la magistrae. «Sono passati lunghi anni da allora.»
«Adesso che sono qui lo so. Ma sono sempre una bambina, nei sogni.
Una ragazzina, piccola e spaventata. Proprio com’ero quando…»
Leona si mordicchiò un’unghia e scosse il capo. Il silenzio riecheggiò
all’interno del bagno.
«È una cosa terribile» sospirò infine. «Vivere nella paura.»
«Allora non farlo, amore. Guarda dove sei arrivata. Guarda tutto quello
che hai costruito.»
«Lo faccio. Ma tutto ciò che ho costruito si trova sull’orlo della rovina,
Anthea.» La domina inspirò a fondo e strinse la mascella. «Mi servono
soldi. Marcus mi ha lasciato ben poco oltre a queste mura e ai fondi che ho
speso per ristrutturarle. Non era un uomo accorto con il suo denaro.»
«Voi due eravate ben assortiti, allora.»
Leona sorrise tristemente. «Me lo merito, suppongo.»
«Ti manca, amore?» chiese la magistrae, cambiando rapidamente
argomento.
«… No» sospirò Leona. «Marcus era una brava persona, ma non l’ho
mai amato. E… odiavo aver bisogno di lui. Questo mi rende una persona
orribile?»
«Ti rende sincera» sorrise la donna più anziana.
Il silenzio calò di nuovo mentre Leona si mangiava le unghie e fissava la
parete. La domina sembrava più giovane qui dentro rispetto al cortile, la sua
armatura messa da parte ora che non c’era nessuno a vederla tranne occhi
fidati. Quasi come la ragazzina di cui parlava nei suoi sogni. La magistrae
continuava a massaggiarle le spalle, mordendosi il labbro di tanto in tanto.
Quando la donna parlò di nuovo, fu con evidente trepidazione.
«Leona, so che tu e tuo padre…»
«No, Anthea.»
«Ma lui ha soldi in abbondanza. Sicuramente se tu…»
«No!» si voltò verso la sua balia con gli occhi azzurri che
lampeggiavano. «Dimentichi qual è il tuo posto. E non voglio sentire
un’altra parola al riguardo. Morirò prima di accettare un solo mendicante di
rame da quell’uomo, mi hai capito?»
Gli occhi della magistrae si abbassarono sul pavimento.
«Sì, Dominatii» disse lei.
Osservando dalle ombre, Mia scoprì di essere triste. Poteva percepire che
Anthea era davvero preoccupata per Leona, riusciva a vedere che la barriera
tra loro si era assottigliata nel corso dei decenni. Ma per quanto Anthea
tenesse alla sua padrona, sarebbe sempre stata una serva. Anche se aveva
nutrito Leona al suo seno, Anthea non sarebbe mai stata sua madre.
Tuttavia, un conto era origliare una conversazione che poteva decidere il
suo destino, tutt’altro immischiarsi in un momento così privato.
L’informazione era potere e il potere era un vantaggio. Ma Mia aveva
appreso abbastanza, lì.
Sgattaiolando lungo il corridoio dietro Messer Cortese, trovò la grande
sala da pranzo. Qui c’era tutto il vecchio mobilio: il lungo tavolo da pranzo
dove i suoi genitori avevano ricevuto ospiti, le sedie di legno sotto le quali
era sgattaiolata e si era nascosta da ragazzina. Alle pareti erano appesi
alcuni degli stessi arazzi: la dea Tsana avvolta dalle fiamme, la dea Trelene
coperta di onde avviluppanti.
Passi. Che si avvicinavano. Clink tonfo. Clink tonfo.
Mia e Messer Cortese scivolarono dietro uno dei lunghi e pesanti
tendaggi. Avrebbe potuto semplicemente ammantarsi nelle ombre e
ascoltare il dialogo tra l’executus e Leona, ma per la verità voleva vedere le
loro facce. Capire se l’armatura che Leona indossava fuori da queste mura
era la stessa che portava per questa leggenda dell’arena, che serviva lei
invece dell’uomo che lo aveva fatto diventare un campione.
Arkades zoppicò nella stanza e la trovò vuota. Con la mascella serrata, si
sedette al lungo tavolo per aspettare. Mia vide che si era fatto il bagno,
spazzolato la barba e pettinato i lunghi capelli brizzolati. La cicatrice sulla
sua faccia e la pelle coriacea rendevano difficile capirlo, ma supponeva che
fosse sulla metà della trentina. La vita sulla sabbia non era stata gentile, ma
il suo fisico, il puro magnetismo di una vita trascorsa ottenendo vittorie
davanti alla folla adorante…
Aveva messo via l’armatura di cuoio che portava nel cortile per
indossare abiti eleganti. Il suo farsetto scuro era ricamato con i Falconi di
Remus e i Leoni di Leonides. Anche il suo bastone da passeggio era
decorato con una testa di leone. Mia si domandò ancora una volta a chi
andasse la sua lealtà. Era qui al servizio di Leona. Eppure portava
comunque il leone di suo padre sul petto.
Guardandosi attorno, Arkades sollevò una fiasca dall’interno del farsetto
come un ladro e prese una lunga sorsata.
«Abbiamo dei calici, se preferisci, executus.»
Arkades trasalì e si alzò in piedi quando Leona apparve sulla soglia alle
sue spalle, portando una bottiglia di vino e due calici. Sgranò di poco gli
occhi quando la vide, e la stessa Mia non poté fare a meno di sollevare un
sopracciglio. I capelli di Leona erano umidi e lei era scalza e ancora vestita
con l’accappatoio, legato in modo approssimativo. Guardando con
attenzione dall’angolo giusto, pochissimo era lasciato all’immaginazione.
«Mea Domina» disse Arkades, chinandosi con gli occhi sul pavimento
ed evitando accuratamente di guardare con attenzione da qualunque angolo.
Mia notò il sorrisetto sul volto di Leona quando lei si diresse a
capotavola e si lasciò cadere su una sedia. Si versò un bicchiere e mise il
piede sopra il legno. L’accappatoio scivolò via, lasciando scoperta tutta la
gamba fino alla coscia.
«Serviti pure» sorrise.
«… Mea Domina?»
Leona indicò il secondo calice e la bottiglia.
«È tremendo, temo. Ma raggiunge lo scopo. Ecco.» Leona si sporse in
avanti, gliene versò un bicchiere e lo spinse lungo il tavolo. Arkades tenne
gli occhi fissi ovunque tranne che sul suo petto, praticamente contorcendosi
mentre tornava a sedere.
“Lo fa per tenerlo scombussolato” osservò Mia. “Lui ha dieci anni più di
lei. È grosso il doppio. Un guerriero di cento battaglie, campione del magni,
e il povero bastardo non sa nemmeno da che parte guardare quando lei entra
nella stanza.”
«Allora» esordì Leona, appoggiandosi contro lo schienale e bevendo
dalla sua coppa. «Hai dei pensieri. Così urgenti che devono semplicemente
essere condivisi.»
Arkades annuì e il suo imbarazzo evaporò quando la discussione si
spostò sul collegio.
«Matilius, Mea Domina.»
«A che proposito?»
«La sua vendita a Caito…»
«È stata una necessità» lo interruppe lei. «Il compenso a Blackbridge
non è stato sufficiente per coprire le spese di questo mese. I nostri creditori
premono, e avranno i loro soldi.»
«Ma Caito…» iniziò Arkades. «Il Pandemonium non è un posto dove un
uomo debba morire.»
Leona tracannò il suo calice in un sorso solo.
«Matilius non era un uomo» disse, versandone un altro. «Era uno
schiavo.»
«Voi non ci credete davvero, Mea Domina.»
Arkades fissò la donna più giovane dall’altro lato del tavolo. Mia riuscì a
vedere una traccia di delicatezza nello sguardo di Leona, rapidamente
rimpiazzata da ferro.
«Ah no?» chiese lei.
«Matilius era un gladiatii» disse Arkades. «Ha vinto gloria e onore per
questo collegio. Per voi, domina. Non era la nostra lama migliore, certo, ma
vi serviva con tutto quello che aveva.»
«Non era sufficiente. Ho bocche in abbondanza, e tutte costano soldi. I
nostri debiti aumentano a ogni cambio e la mia borsa è praticamente vuota.»
«E com’è potuto succedere, mi domando?» si accigliò l’executus.
«Quando spendete una vera fortuna per un’unica recluta?»
«Ah» sospirò Leona. «Siamo arrivati in fretta al punto dolente, stavolta.»
«Per i mille pezzi d’argento che avete pagato per quella ragazza, avreste
potuto nutrire questo collegio per il resto dell’anno!»
Mia drizzò le orecchie nel sentirsi nominare e strinse gli occhi.
«L’hai guardata a Blackbridge?» chiese Leona. «Hai visto il modo in cui
ha acceso la folla?»
«Abbiamo Furian per quello!» urlò praticamente Arkades, alzandosi
dalla sedia. «L’Imbattuto è il campione di questo collegio! Quel fuscello
non è nemmeno capace di sollevare un dannato scudo!»
«Allora la faremo combattere con lo stile Caravaggio. Lame gemelle.
Niente scudo. La folla lo adorerà, come adorerà lei. Una ragazza della sua
taglia che sbudella uomini grossi il doppio? E con quel suo aspetto? Quattro
Figlie, la folla non riuscirà a vedere, tanto gli si ingrosseranno gli uccelli.»
Arkades sospirò, spingendosi le nocche negli occhi.
«Quando avete creato questo collegio, domina, avete chiesto il mio
aiuto.»
«È così.» Leona giocherellò con la scollatura del suo accappatoio. «E te
ne sarò sempre grata.»
«Allora, con tutto il dovuto rispetto, il mio consiglio dovrebbe avere
peso. Vi conosco da quando eravate una bambina. Vi ho visto crescere
attorno al venatus. Ma esiste una differenza enorme tra l’assistere dai palchi
e gestire un collegio.»
Gli occhi e la voce di Leona divennero freddi. «Credi che non lo
sappia?»
«Credo che vogliate fare dispetto a vostro padre.»
Leona strinse gli occhi e le sue labbra si assottigliarono. «Stai
travalicando, executus.»
Arkades alzò una mano in un gesto di supplica per lo sdegno di Leona.
«Le Figlie sanno se ricordo come trattava voi e vostra madre. E la vostra
rabbia è assolutamente motivata. Ma temo che puntare più di lui su quella
ragazza dimostri decisamente che la vostra mente è annebbiata quando si
tratta di questioni di familia. La mia mente è sgombra. Ho combattuto per
anni sulla sabbia, poi per anni ho addestrato i gladiatii di vostro padre. E ora
vi dico che quella ragazza non è un campione. Ha l’astuzia di una volpe, ma
non è nemmeno la metà del gladiatii che è Furian. Giungerà un momento in
cui scaltrezza e arguzia non le serviranno. Quando saranno solo lei, una
spada e un uomo che deve uccidere.»
Arkades si sporse sul tavolo, fissando Leona negli occhi.
«E. Lei. Fallirà.»
Mia ebbe un tuffo allo stomaco nel sentire Arkades parlare così. Pensava
di aver fatto colpo su di lui con la dimostrazione che aveva dato a
Blackbridge, ma quell’uomo sembrava completamente cieco ai suoi meriti.
Leona abbassò gli occhi e Arkades ricordò il proprio ruolo,
appoggiandosi contro lo schienale della sedia con un grugnito di scuse. La
domina tracannò il resto del suo vino e fissò nel calice vuoto per minuti
interminabili. Quando parlò, la sua voce fu così flebile che Mia fece fatica a
sentirla.
«Forse è stata una decisione sbagliata, spendere una somma così alta.
Ma… non volevo vederlo vincere ancora una volta. Mia madre mi aveva
avvisata quando ero piccola. “Non opporti mai a tuo padre” mi diceva. “Lui
vince sempre”.»
Alzò occhi ardenti di furia sul suo executus.
«Ma non questa volta» sbraitò. «Mai più. Voglio vederlo in ginocchio.
Voglio che mi guardi dal basso verso l’alto e che sappia che sono stata io a
farlo finire così. Voglio che beva la propria sofferenza come il vino
migliore.» Scagliò la bottiglia contro la parete proprio accanto alla testa di
Mia e quella andò in mille pezzi. «Non questa fottuta brodaglia.»
Chinò il capo e sospirò.
«Anche vendendo Matilius, abbiamo debiti verso un’altra dozzina di
creditori.»
«… Quanto?»
«Tanto. E le cifre aumentano a ogni cambio.» Leona chiuse una mano a
pugno, facendo sbiancare le nocche. «Figlie, se solo Marcus non fosse
morto. Qualche altro anno con lo stipendio di un tribuno e avrei avuto
denaro a sufficienza per fare tutto questo come si deve. Se trovo quelli che
me l’hanno portato via…»
«Non ha importanza» disse Arkades. «Possiamo pagare tutti i debiti con
i soldi che otterremo dalla vendita di Corvo. E poi guideremo Furian fino al
magni. Abbiamo tre venata tra adesso e la veraluce, tre allori da vincere per
ottenere una qualificazione. Voi avrete la vostra vittoria, domina» giurò
Arkades. «Se mi consentirete di darvela. Abbiate fiducia in me. Come io ce
l’ho in voi.»
Mia guardò i due, prima da soli e poi assieme. La vestaglia di Leona, la
sessualità sfacciata, il modo in cui usava il proprio corpo per scombussolare
Arkades… in effetti aveva senso, sapendo che era cresciuta nella casa di un
padre dispotico.
Ma Arkades…
Il fuoco nei suoi occhi. Il fervore della sua voce nel pronunciare il
giuramento. Era il campione della contesa più brutale che la Repubblica
avesse ideato. Aveva dieci anni più di lei. Separati dalla barriera tra una
persona ricca di nascita e una che era stata uno schiavo.
Eppure…
Mia scosse il capo. Cinque minuti con loro da soli e sapeva con esattezza
perché Arkades aveva lasciato Leonides per venire al servizio della sua
figlia ribelle.
“Quel povero sciocco ne è davvero innamorato.”
Leona mise il calice vuoto sul tavolo e sospirò.
“Mi domando se lei lo sappia.”
«Tu sei il mio executus» disse la domina. «So che hai rinunciato a tanto
per venire qui. E farò in modo che tale fiducia sia ricompensata.»
Leona giocherellò con l’orlo della sua coppa e annuì come fra sé.
«Darò ascolto al tuo consiglio. Faremo combattere il Corvo al venatus di
Stormwatch alla fine del mese. Non per l’Ultimae: per quello abbiamo il
nostro campione. Uno scontro minore, per non danneggiarla. Con un po’ di
fortuna, si comporterà abbastanza bene da recuperare una parte del prezzo
che abbiamo pagato per lei.»
Lo stomaco di Mia le finì negli stivali.
“Madre Nera…”
«Poi la venderete?» chiese Arkades.
Leona guardò verso l’arazzo appeso al muro. La dea del fuoco, spada in
mano, scudo sollevato e ammantata di fiamme.
«A meno che non si dimostri Tsana incarnata?»
Leona esalò un sospiro.
«Molto bene. La venderò.»
Arkades annuì e Leona si versò un altro bicchiere.
«Ora, se sei soddisfatto…» disse.
L’executus grugnì delle scuse e si alzò lentamente. Con un inchino
profondo alla sua domina, l’uomo uscì zoppicando dalla stanza, bastone da
passeggio e gambe di ferro che schioccavano una stanca ritirata sui gradini
di pietra. Leona rimase seduta lì da sola, prendendo lunghe sorsate dalla sua
coppa, gli occhi annebbiati fissi su un nulla che solo lei poteva vedere. Fece
scorrere dita indolenti sulla clavicola, poi lungo la pelle candida della sua
gola. Prese un altro sorso e si leccò le labbra.
Mia rimase in silenzio nelle ombre, osservando con attenzione. Cercò di
capire questa donna, di trovare un modo per farle cambiare idea. Se avesse
potuto escogitare qualche maniera per far perdere favore a Furian…
avvelenarlo prima di uno scontro, forse? Se Mia fosse riuscita ad aumentare
la sua stima agli occhi della domina…
Una cosa era certa: lei non poteva essere venduta.
Leona si morse il labbro, sbattendo le palpebre mentre si riscuoteva dalle
fantasticherie. Guardò verso la porta aperta e rimase immobile, come se
fosse in ascolto. L’ora era tarda e la villa silenziosa. Terminato il vino,
Leona si alzò e raccolse l’accappatoio attorno a sé, poi, quasi in punta di
piedi, uscì silenziosamente nel corridoio.
Mia si accigliò e strinse gli occhi.
Leona era la padrona di questo posto.
“Perché sgattaiolare in giro come un ladro nella sua stessa casa?”
Mia scivolò fuori dal riparo della tenda e si mosse furtiva verso la porta,
silenziosa come la morte. Sbirciando oltre l’intelaiatura, vide Leona sulle
scale che scendevano al terzo piano. Si abbassò per non farsi vedere quando
la domina si guardò in giro, poi iniziò a scendere rapidamente.
«… forse abbiamo rischiato abbastanza per stasera, mia…»
Ignorando il monito dell’umbragatto, Mia proseguì a passi lievi come un
sussurro. Muovendosi come un’ombra, seguì Lena al secondo, poi al primo
piano. Qui la domina si soffermò, aspettando per lasciar passare il capitano
Gannicus e un altro membro della guardia, che borbottavano tra loro.
Quando quelli si furono allontanati, Leona riprese a muoversi furtiva e Mia
la seguì come uno spettro finché non raggiunse il pianterreno.
Mia rimase a osservare la domina dalla scala mentre lei si guardava
attorno, immobile, per sentire se arrivassero altre guardie. Sgattaiolando
fuori dalla tromba delle scale, Leona avanzò fino a una porta di legno a una
sola anta al termine del corridoio. Fuori vista. Fuori portata d’udito.
“Ah. Adesso ha una specie di senso.”
L’invettiva a cena. L’insistenza che la volontà della loro Dominatii era
l’unica cosa che importava, malgrado la vendita di Matilius. Il fervore nei
suoi occhi quando parlava della sua padrona, la sua devozione a queste
mura.
“Furian.”
Leona frugò in tasca e tirò fuori una chiave con cui aprì la porta.
L’Imbattuto la attendeva dall’altro lato, lunghi capelli scuri a incorniciare il
volto stupendo, con un sorriso che gli increspò le labbra quando vide la sua
signora. Con un’ultima occhiata nella direzione da cui era venuta, Leona
gettò le braccia attorno al collo di Furian e lo trascinò in un bacio
appassionato. Entrando, la domina della casa si chiuse la porta alle spalle.
«… interessante…» giunse un sussurro freddo al suo orecchio.
«Già» si accigliò Mia in risposta. «Ma solo per una volta, mi piacerebbe
guardarmi in giro e scoprire che la mia vita è un po’ meno interessante.»
«… oh, e dove sarebbe il divertimento…?»
Mia fece il gesto delle nocche all’umbragatto. Messer Cortese si limitò a
ridacchiare come risposta. E senza un altro suono, i due si allontanarono tra
le ombre che amavano così tanto.
CAPITOLO 16
MIELE

Wsssshhthunk.
La freccia colpì il fantoccio impagliato, vicino al cuore.
Wsssshhthunk.
Un’altra andò a conficcarsi più vicino della prima.
Wsssshhthunk.
Una terza centrò il bersaglio proprio nella faccia priva di fattezze.
Mia abbassò il suo arco, le dita della mano destra che pulsavano.
«Ottimo lavoro» disse Bryn accanto a lei. «Dove hai imparato a tirare
così?»
«L’ho letto in un libro» ringhiò Mia. «Quando ho finito di fottere tuo
padre.»
La ragazza vaaniana ridacchiò, sollevando il proprio arco e tendendo la
corda.
«Brutta illuminotte, piccolo Corvo?»
Mia mise da parte l’arco, sussultando per il dolore. «Ne ho avute di
migliori.»
«Non con il mio povero vecchio papà, scommetto» sogghignò Bryn.
La bionda scagliò mezza dozzina di frecce in rapida successione. Tre si
conficcarono nel cuore del fantoccio, due nella gola e l’ultima nella testa.
«Denti della Mannaia…» mormorò Mia.
«Dovresti vederla tirare con la mano buona» disse Byern, passando
accanto alle due con un mucchio di borselli di cuoio in spalla.
«Ah, quello sì che sarebbe darsi delle arie» replicò Bryn.
I gemelli avevano lasciato Crow’s Nest quella mattina presto, proprio
come facevano un cambio ogni due. Come da ordini dell’executus, Mia li
aveva accompagnati, seguendoli come un cane senza un osso. Arkades
aveva zoppicato assieme a loro fino ai cancelli della fortezza e Mia aveva
cercato di non lasciar trasparire il cipiglio dalla sua faccia nel ricordarsi
come l’uomo aveva parlato di lei l’illuminotte prima. Arkades non aveva
fatto parola della sua imminente vendita, la spada che le pendeva sopra la
testa. Lui non le stava offrendo una possibilità di dar prova di sé, no. Era
chiaro che l’executus voleva semplicemente che sparisse.
A dire la verità, feriva il suo orgoglio. Più di quanto avrebbe dovuto. Mia
non sapeva perché volesse la sua approvazione. Ma nelle ore successive,
l’orgoglio ferito era diventato una rabbia bruciante. Non aveva altro tempo
da perdere: essere venduta a un altro padrone era un rischio che non poteva
permettersi di correre. Doveva dare prova di sé. Non ad Arkades, ma a
Domina Leona.
A parte il fatto che si portava a letto Furian, Mia sospettava che la
domina vedesse ancora in lei un certo valore. Mia aveva infiammato il
pubblico a Blackbridge e la reazione della folla aveva acceso piccole braci
di rispetto che ardevano nel petto di Leona. Mia aveva bisogno di un modo
convincente per far sì che quella scintilla si trasformasse in una fiamma.
Il venatus di Stormwatch avrebbe deciso il suo futuro, in questo collegio
e nell’arena. Il suo piano per assassinare Duomo e Scaeva era in bilico.
Ancora non aveva idea di come spostare la bilancia a suo favore.
Mia, Bryn e Byern erano stati scortati da quattro guardie della casa di
Domina Leona nel terreno brullo dietro Crow’s Nest. Dopo mezzo miglio,
avevano raggiunto un percorso oblungo di circa un miglio, contrassegnato
da pietre piatte nella sabbia ocra. Da un lato c’era una stalla e Byern vi
entrò con le briglie e i finimenti mentre Bryn scagliava una faretra di frecce
dopo l’altra nei tre fantocci di paglia.
Le guardie rimasero all’ombra, non prestando attenzione. Mia si rese
conto di quanto sarebbe stato facile scappare per Bryn e Byern: poche
frecce nel petto di ciascuna guardia, due cavalli e i gemelli sarebbero stati
come polvere all’orizzonte. Ma anche se fossero riusciti a farsi strada nella
Repubblica con i marchi sulla guancia, i gemelli avrebbero condannato ogni
altro gladiatii della stalla di Leona a essere giustiziato nell’arena.
Doveva riconoscerlo agli administratii: quei bastardi spietati sapevano il
fatto loro.
Le dita di Mia si stavano ricoprendo di lividi, e le faceva male
impugnare l’arco a lungo, perciò si accontentò perlopiù di guardare Bryn.
La ragazza era in grado di tirare alla cieca, sia con la sinistra sia con la
destra. E in quella che poteva essere la dimostrazione più straordinaria di
destrezza a cui Mia avesse mai assistito, si mise lentamente in equilibrio
sulle mani, inarcò la schiena e scagliò alcuni colpi con i piedi, trafiggendo
l’uomo di paglia nel cuore.
«A proposito di darsi delle arie…» disse Mia.
Bryn si raggomitolò con un movimento fluido e si mise dritta, pulendosi
i palmi dalla polvere.
«È un gioco da ragazzi quando né tu né i bersagli siete in movimento»
disse con una scrollata di spalle. Voltandosi verso le stalle, chiamò suo
fratello. «’Bisso e sangue, Byern, stai mettendo i finimenti a quei cavalli o
gli stai chiedendo di sposarti?»
«Gliel’ho chiesto prima, ma entrambi hanno detto di no» fu la sua
risposta.
«Be’, vuol dire che hanno ottimo gusto.»
Il gemello di Bryn emerse dalla stalla, portando un grosso scudo e
guidando un paio di cavalli legati a una lunga biga slanciata. Gli animali
erano bianchi come nuvole, i muscoli come intagliati nel marmo.
Involontariamente, Mia provò una piccola fitta quando li vide, pensando al
proprio stallone, Bastardo. Dopo che l’aveva salvata da morte quasi certa
nel deserto ashkahi, Mia l’aveva liberato invece di rinchiuderlo nella stalla
della Chiesa Rossa. Sperava che stesse vagabondando in qualche luogo
piacevole, generando quanti più suoi bastardini possibile.
Le mancava.
Le mancavano parecchie cose di quel periodo, per la verità…
«Sorella Corvo,» disse Byern, indicando i cavalli con un gesto plateale
«ti presento Spina e Rosa.»
Mia esaminò la coppia che tirava la biga di Byern. Come ogni cavallo
che aveva incontrato, quegli animali erano irrequieti vicino a lei, perciò Mia
si teneva sempre piuttosto alla larga da loro. Il fatto che avesse chiamato
“Bastardo” l’unico cavallo che l’avesse mai tollerata la diceva lunga su ciò
che pensava di quelle bestie in generale, ma riconosceva un ottimo
esemplare quando lo vedeva.
«Sono giumente» osservò Mia. «Molti degli equillai che ho visto usano
stalloni.»
«Molti degli equillai che hai visto sono idioti» replicò Byern.
Sua sorella annuì. «Gli stalloni pensano con i loro uccelli. Le giumente
sanno tenere la testa a posto in un momento di crisi. Vale tanto per i cavalli
quanto per gli umani, eh, fratello mio?»
Byern alzò un dito come ammonimento. «Rispetta chi è più vecchio di
te, poppante.»
«Sei più vecchio di me di due minuti, Byern.»
«Due minuti e quattordici secondi. Ora, vieni oppure no?»
«Mettiti lì al centro» ordinò Bryn a Mia, annuendo verso il tracciato
polveroso. «Quando te lo dico, scaglia meglio che puoi.»
«… Vuoi che ti tiri una freccia?» chiese Mia, sollevando un sopracciglio.
Bryn scoppiò a ridere. «Voglio che ci provi. E ricordati di respirare.»
Detto ciò, la Vaaniana balzò sulla biga accanto a suo fratello. Con uno
schiocco delle redini e un occhiolino a Mia (sua sorella gli diede un pugno
sul braccio), Byern condusse i cavalli sul circuito.
La biga aveva due ruote ed era abbastanza larga e profonda da
permettere ai fratelli di scambiarsi di posto. Era rossa, rivestita di pittura
dorata, con intagliato il falcone del Collegio Remus. Anche il grande scudo
che portava Byern era dipinto con un falcone rosso e i bordi erano merlati
come le pareti di un castello fortificato.
Mia camminò fino a trovarsi nell’isola di terra ocra, circondata dal
tracciato oblungo. Fantocci di paglia erano disposti su un’unica fila nel
mezzo dell’isola, alla sinistra e alla destra di Mia. A un vero venatus, quei
fantocci sarebbero stati uomini veri: assassini e stupratori che sarebbero
stati giustiziati ex equillai davanti alla folla in adorazione. a
Mia osservò i gemelli fare il giro del circuito, sempre più veloci. La
crocchia alta di Bryn si agitava nel vento dietro di lei, mentre la pelle
bronzea di Byern scintillava alla soliluce.
«Pronta?» urlò Bryn a Mia.
«Sì» replicò la ragazza.
«Tira, piccolo Corvo!»
Mia sospirò, poi mirò al petto di Byern. Seguì la biga, respirando
lentamente come le aveva detto Bryn malgrado il dolore alle dita ferite. E
quando i due svoltarono l’angolo, lei scagliò una freccia dritta al petto
dell’attraente Vaaniano.
Byern sollevò lo scudo, bloccando il colpo con facilità. Tirando
attraverso le merlature dello scudo alzato, Bryn scagliò quattro colpi, due
dei quali atterrarono vicino ai sandali di Mia e gli altri si conficcarono nel
fantoccio di paglia più vicino a lei.
«Ti ho detto di scagliarci delle frecce, non di chiederci di ballare!» urlò
Bryn.
«Io posso danzare con te più tardi, se vuoi» gridò Byern.
Bryn perforò un altro manichino e suo fratello si sporse fuori dalla biga a
un angolo precario, raccogliendo una piccola pietra dal tracciato con la
mano libera. Mia si accigliò, cercando di scrollarsi di dosso la sensazione
che la stessero prendendo in giro.
«D’accordo, ’fanculo…» borbottò.
Mia iniziò a tirare una freccia dopo l’altra mentre i due galoppavano
attorno al circuito. E anche se la sua mira era corretta, presto si rese conto
che Bryn e Byern erano entrambi dei maestri. Lo scudo di Byern era
inespugnabile e la sua abilità nell’indirizzare i suoi cavalli eguagliava quasi
quella di sua sorella con l’arco. Nel momento più umiliante, Byern bloccò
un colpo che sibilava dritto verso la gola di Bryn, sporgendosi al contempo
fuori dalla biga per raccogliere una pietra, tenendo le redini con i dannati
denti. Nel frattempo, Bryn bersagliò tutti i fantocci con una dozzina di
colpi, facendo una pausa ogni tanto per costringere Mia a danzare tirando ai
suoi piedi.
Nove giri più tardi, i due si arrestarono di fronte a lei. Byern balzò giù
dalla biga e le rivolse un profondo inchino. «Preferisci il valzer o la balinna,
Mea Domina?»
Bryn diede un altro pugno al braccio di suo fratello e sorrise a Mia. «Bei
tiri. Mi hai quasi preso, un paio di volte.»
«Bugiarda» disse Mia. «Non ci sono nemmeno andata vicino.»
Bryn sussultò e annuì con aria triste. «Stavo solo cercando di farti sentire
meglio.»
«Dove avete imparato a farlo?»
«Nostro padre allevava cavalli» rispose Byern. «E Bryn è un demonio
con un arco da quando sa camminare.»
Mia scosse il capo. Sapeva che non avrebbe dovuto chiederlo. Sapeva
che non avrebbe dovuto affezionarsi. Ma la verità era che le piacevano,
questi due. Il sorriso facile di Byern e la spavalderia fiduciosa di Bryn.
«Come siete finiti qui?» chiese, guardando il circuito attorno a loro e la
sagoma di Crow’s Nest in lontananza. «In questo posto?»
Bryn tirò su col naso. «Un pessimo raccolto. Tre anni fa. Il villaggio non
aveva il grano per pagare il nostro tributo agli administratii itreyani. Misero
in ceppi il nostro laird e fecero flagellare lui e la sua intera familia alla
gogna.»
«La cosa non ci piacque» spiegò Byern. «Io e Bryn eravamo troppo
giovani perché nostro padre ci lasciasse andare, ma chiunque fosse grande
abbastanza da vibrare una spada si recò alla porta del magistrato. Lo
trascinarono giù alla gogna e fu lui a essere flagellato a sua volta.»
«La cosa non gli piacque» disse Bryn. «Puoi immaginare cosa accadde
dopo.»
«Legionari» disse Mia.
«Sì» annuì Bryn. «Cinquecento di quei bastardi. Uccisero ogni ribelle.
Bruciarono ogni casa. Vendettero chiunque fosse ancora in piedi. Me e mia
sorella inclusi.»
«Ma non avevate nemmeno partecipato» disse Mia. «Vostro padre non
aveva lasciato che insorgeste.»
«E pensi che agli Itreyani sia importato qualcosa?» chiese Byern con un
sorriso sghembo. «Questa intera Repubblica, perfino il regno prima di essa,
si basa sul lavoro gratuito. Ma ora Liis, Ashkah e Vaan sono tutte sotto il
controllo itreyano. Perciò da dove vengono i nuovi schiavi? Quando non
restano terre da conquistare?»
«Costruiscono una Repubblica che è ingiusta fino alle ossa» disse Bryn.
«Che avvantaggia i pochi, non i molti. Ma i pochi hanno l’acciaio. E gli
uomini che loro pagano per brandirlo, senza riflettere. Così, quando
qualcuno dei molti si oppone all’ingiustizia e alla brutalità, il sistema lo
rinchiude in ceppi. Ne fa un esempio per gli altri e, allo stesso tempo,
manda un altro corpo a essere marchiato. Un altro paio di mani a costruire
le loro strade, innalzare i loro muri, lavorare alle loro forge, tutto per una
miseria e per la paura della frusta.»
Mia scosse il capo. «Ma è…»
«Una stronzata?» suggerì Byern.
«Sì.»
«Questa è la vita nella Repubblica» scrollò le spalle Bryn.
Mia sospirò, ciocche di capelli corvini appiccicate alla faccia dal sudore.
Per tutta la vita, non aveva mai messo in discussione che il sistema fosse
giusto. Non si era mai fermata per guardarsi attorno e vedere le persone alle
sue dipendenze. Coloro che camminavano come fantasmi senza voce per la
loro casa, nei loro appartamenti nelle Costole. Gli uomini e le donne che
l’avevano vestita, le avevano preparato i pasti, le avevano insegnato i
numeri e le lettere. Sua madre e suo padre si erano occupati di loro, senza
dubbio. Avevano ricompensato quelli che servivano bene. Ma comunque li
avevano serviti. Non perché volessero. Perché l’alternativa era la frusta o la
morte.
Ebbe l’impressione che le stessero cadendo le scaglie dagli occhi. Il vero
orrore della Repubblica in cui era stata allevata fu svelato in tutta la sua
orrenda maestosità.
Tuttavia…
“Scaeva.
“Duomo.”
I loro nomi ardevano come fiamma nella sua mente. Come un faro che
guidava sempre il suo cammino, per quanto il mondo diventasse buio. Sì,
poteva vedere l’ingiustizia, la crudeltà di questo sistema. Ma cosa poteva
fare in concreto per cambiarlo? Senza rischiare tutto quello per cui aveva
lavorato? Chiudendo gli occhi, poteva vedere suo padre dondolare a un
capo della sua fune nel foro. Sua madre nella Pietra Filosofale, la luce che
svaniva dal suo sguardo mentre spingeva via la mano insanguinata di Mia e
con il suo ultimo respiro sussurrava:
«Non sei… mia figlia… Solo… la sua ombra…»
I ricordi portarono la rabbia, e la rabbia aveva un buon sapore. Le
ricordava chi era, perché si trovava qui. Per sconfiggere i più illustri
gladiatii della Repubblica. Per trovarsi trionfante davanti agli assassini della
sua famiglia e sgozzarli, uno a uno. E le sarebbe risultato difficile farlo se
fosse stata venduta come un cosciotto di manzo al mercato.
Eccellere nel venatus a Stormwatch. Quella era la sua preoccupazione.
La sua prima, la sua unica preoccupazione.
E così, malgrado il dolore alla mano ferita, incoccò un’altra freccia al
suo arco e annuì a Bryn.
«D’accordo. Dimmi cosa sto sbagliando. E poi riproviamo.»

«Perciò a quanto pare si è indebitata fino al collo» disse Mia, prendendo


una tirata del suo sigaretto. «E Arkades l’ha convinta a vendermi per tenere
a bada i suoi creditori.»
Ashlinn si appoggiò contro lo schienale del divanetto e si mise un acino
in bocca. «Bastardo.»
«Dopo che ho ucciso una dozzina di persone a Blackbridge. Non
considera nessun altro sulla sabbia tranne Furian. “Lui è il campione di
questo collegio.” “Lui vi porterà la vostra vittoria, Mea Domina.” Oh, sì, ma
certo che le porterà la sua vittoria, stupido coglione. Subito dopo averla
portata all’orgasmo. Avresti dovuto sentire quei due come ci davano
dentro…»
Mia esalò uno sbuffo di fumo grigio come se fosse una fiamma.
«Arkades mi ha messo al guinzaglio nel cerchio, ieri. Mi sono quasi rotta
la mano con quei ridicoli scudi. Mi chiama “ragazza” come se quella parola
volesse dire “merda di cane”.»
«Fottuto bastardo» disse Ash, mangiando un altro acino.
Mia guardò la ragazza seduta di fronte a lei a occhi stretti.
«Ehi, mi stai dando ragione solo per assecondarmi?»
«In buona parte» sogghignò Ash. «Ma è bello togliersi queste cose dalle
tette, Corvere.»
«… confido che ora tu ti senta meglio…»
Mia guardò il non-gatto acciambellato sulla sua spalla. «Ora ti ci metti
anche tu?»
«… lamentarsi o pensare. quale dei due è più produttivo…?»
«Sembra che Messer Allegro e io per una volta siamo d’accordo su
qualcosa» disse Ashlinn.
«… se avessi dei veri artigli, piccola vipera, ti taglierei la lingua da…»
«Eclissi e io abbiamo curiosato in giro» continuò Ash come se
l’umbragatto non avesse parlato. «Sicuramente in giro non si sa che la tua
Dominatii è così indebitata. Compra solo il meglio al mercato. Si veste
come una regina. Sospetto che questo sia metà del problema.»
Eclissi alzò la testa dal grembo di Mia e la sua voce riecheggiò
attraverso il pavimento.
«… È FIN TROPPO INNAMORATA DI QUELLO CHE LA GENTE PENSA DI LEI …»
«Probabilmente non vuole che la voce arrivi a suo padre» disse Mia,
spegnendo la sua paglia. «Non vuole dargli la soddisfazione di vederla in
difficoltà.»
Ash gettò un mucchio di acini a Mia, parlando mentre masticava.
«Per come la vedo io, abbiamo alcune alternative» disse lei.
«… LA PIÙ SEMPLICE È FAR FINIRE NEL FANGO I CREDITORI DI LEONA …»
«Sì» annuì Ashlinn. «Bisognerebbe fare qualche domanda in giro, ma so
per certo che l’unico modo in cui lei ottiene il suo grano è un mercante di
nome Anatolio. E guarda caso lui ama andare a puttane e io so esattamente
dove inzuppa il…»
«Non fotteremo un povero bastardo il cui unico crimine è fare credito
alla mia Dominatii» si accigliò Mia.
«… PARE CHE AVREMMO BISOGNO DI ELIMINARNE PIÙ DI UNO …»
Ash annuì. «Quasi sicuramente è indebitata con il capitano del porto.
Forse con i costruttori che hanno lavorato a Nest. E le sue sarte devono…»
«Sì, sì, capisco» disse Mia. «Probabilmente dovremmo ammazzare metà
di Rest. Cosa che non faremo. Se il collegio riesce a dare un bello
spettacolo, Leona potrebbe assicurarsi il patrocinio di qualche ricco
bastardo midollano dopo il prossimo venatus. Perciò per il momento è più
astuto rivolgere i nostri occhi a…»
«Stormwatch» annuì Ash. «Sì. L’unico modo per assicurare il tuo posto
nel Collegio Remus è vincere al venatus di Stormwatch. E vincere alla
grande.»
«Non sappiamo nemmeno che forma assumerà il venatus lì.»
«… NON ANCORA …»
Ashlinn annuì. «Ecco perché hai me e la lupacchiotta. C’è una nave
diretta a ’Watch che salpa domani. Possiamo arrivarci in una settimana,
ispezionare i lavori nell’arena e sapere con esattezza cosa ti troverai
davanti. Poi ci organizzeremo di conseguenza e ti faremo ottenere una
vittoria che metterà in ombra perfino l’amichetto di Leona.»
«Non l’avrei mai scoperto se non l’avessi visto» sospirò Mia. «Lei si
comporta in modo fin troppo appropriato.»
Ash scrollò le spalle. «Non sarebbe la prima donna ricca a pagare un
bello stallone per levarsi i pruriti. Doverlo tenere segreto probabilmente fa
parte dell’eccitazione.»
Mia masticò la sua uva e corrugò la fronte, pensierosa. Era deliziosa, e
un gradito cambio rispetto alle interminabili varietà di stufato e farinata che
venivano serviti ai gladiatii alla sera e al primopasto di ogni cambio. b
«Buona quest’uva» borbottò.
«Che non si dica mai che non ti amo, Corvere.»
Mia alzò bruscamente lo sguardo a quelle parole, ma Ash se ne stava
stravaccata sul divanetto, lasciandosi cadere acini in bocca. Teneva gli
stivali posati sul bracciolo e le gambe rivestite di cuoio incrociate. I suoi
capelli stavano diventando più lunghi e le ricadevano sulla schiena in
ondate rosse.
“Rosso. Come il sangue sulle sue mani.”
Eppure Mia era qui. A fidarsi di lei. Sapeva che Ashlinn voleva il Culto
morto. E Mia e Mercurio erano la sua migliore opportunità di tornare nella
Montagna per portare a termine quell’impresa. Ma l’odio comune per la
Chiesa Rossa era sufficiente? Oppure Ash stava portando avanti un piano
più lungo? Non che non l’avesse fatto in passato.
Ashlinn Järnheim le aveva mentito.
Ashlinn Järnheim era veleno.
“Allora perché le sue labbra sapevano di miele?”
Mia si passò una mano sugli occhi e annuì lentamente.
«Dirigiti a Stormwatch con Eclissi» disse. «Più ne sappiamo, migliori
sono le possibilità che possa ottenere una vittoria che Leona non potrà fare
a meno di ricompensare. Immagino che arriveremo qualche cambio prima
dell’inizio del venatus. Per allora devo sapere tutto quanto.»
Ash annuì, terminando di masticare e pulendosi le labbra sulla manica.
«Allora» disse. «Lo stallone di Leona. Furian, l’Imbattuto.»
«… IL TENEBRIS …»
«Lui sarà un problema?»
Mia scosse il capo. «Nulla di cui tu ti debba preoccupare.»
«Ma io mi preoccupo.»
«Perché senza di me non arriverai alla Chiesa, giusto?»
Occhi scuri fissarono in un azzurro scintillante. Cercando le menzogne
dietro di essi.
«Ascolta, so che c’è stato sangue nel nostro passato» disse Ashlinn. «Ma
non c’è solo rosso, tra noi. Non sono qui solo per la Chiesa. E di sicuro non
me ne sto rintanata in questo piccolo buco sudicio per il suo fascino. E tu
devi saperlo, oppure non saresti qui con me, non importa quanti umbralupi
metti a controllarmi.»
Mia la fissò. Gli occhi di Ashlinn. Le mani di Ashlinn. Le labbra di
Ashlinn. La ragazza semplicemente la fissò a sua volta, lasciando che fosse
il silenzio a porre le domande per lei.
Mia le ignorò tutte quante.
«Buona fortuna a Stormwatch» disse infine. «Tieni d’occhio il porto.
Manda Eclissi quando arriviamo e fammi sapere come si svolgeranno i
giochi.» Si alzò rapidamente, scostando i capelli sopra la spalla ed evitando
lo sguardo di Ashlinn.
«Te ne vai di già?»
Mia annuì. «È meglio che vada prima che qualcuno si accorga della mia
assenza. Sidonius è un tipo a posto, ma non desidero che qualcun altro
scopra cosa sono.»
Ashlinn non disse nulla e osservò Mia dirigersi verso la finestra,
scavalcare il davanzale e scomparire alla vista. Senza un saluto. Senza uno
sguardo di commiato.
Scrollando la testa, Ash si lasciò cadere un altro acino in bocca.
«È così evidente, Corvere» sospirò.

a. Gli equillai sono una sottocategoria di gladiatii, una tradizione importata da Liis e adottata dalla
Repubblica itreyana con immenso entusiasmo: le corse degli equillai sono un momento saliente
del venatus, e gli uomini e le donne che percorrono il circuito possono ottenere tanta fama quanto
qualunque guerriero sulle sabbie.
Gli equillai combattono a coppie: un cocchiere noto come il sagmae (sella) e un arciere noto
come il flagellae (frusta). Le competizioni di equillai si tengono su un percorso oblungo,
contrassegnato al centro dell’arena, e tradizionalmente coinvolgono quattro squadre. La gara si
corre su nove giri del circuito e i vincitori sono decisi sulla base dei punti accumulati sull’intero
percorso.
I punti si ottengono in diversi modi. Primo, un colpo letale su un qualunque prigioniero al
centro della pista. I prigionieri sono legati ai pali e non possono fuggire, perciò i punti conferiti
sono bassi: solo due ciascuno.
Anche un giro completo del circuito vale due punti. Un colpo che ferisce il membro di una
squadra avversaria di equillai vale tre punti, se letale cinque. Serti di alloro, noti come coronae,
vengono anche gettati sulla pista a intervalli casuali e una squadra di equillai guadagna un punto
per ogni coronae raccolta dal terreno. Un colpo ai cavalli di una squadra avversaria comporta
invece una penalità di dieci punti: la competizione è concepita perché si affrontino gli equillai
stessi, e quelli tra voi che hanno un cuore tenero saranno lieti di sapere che attaccare le cavalcature
è considerato antisportivo.
Uccidere altri equillai nel modo più plateale possibile, però, è perfettamente accettabile e, in
effetti, incoraggiato.
b. Nelle settimane successive a Blackbridge, Mia aveva appreso che il cuoco emaciato al servizio di
Domina Leona si chiamava “Dito”, anche se nessun membro della stalla sembrava sapere perché.
Molti dei gladiatii presumevano che avesse ottenuto quel nome essendo magro come un dito,
anche se Macellaio insisteva che fosse stato membro di una banda di braavi il cui metodo preferito
di delinquenza comportava tagliare le dita meno essenziali della gente e ficcarle in orifizi
solitamente non fatti per essere riempiti.
Qualunque fosse l’origine del suo soprannome, le capacità culinarie di Dito erano solo poco più
impressionanti dell’abilità di un cieco ubriaco di trovare il pitale. La sua farinata aveva la
consistenza di muco gocciolante e, durante un ultimopasto, Mia trovò un ossicino che
assomigliava sospettosamente a una falange umana nel suo stufato.
Inutile a dirsi, Zanna, che girava sempre annusando fra i tavoli in cerca di avanzi, si
affezionava sempre di più a Mia ogni illuminotte che passava.
CAPITOLO 17
STORMWATCH

Mia camminava avanti e indietro nella sua gabbia, gli occhi fissi sulla
sabbia.
Lei, Sidonius, Cantalame, Alzaonda e Macellaio erano tutti rinchiusi in
celle al bordo dell’arena di Stormwatch, infossate sotto il pavimento.
Piccole finestre a sbarre permettevano loro di osservare il venatus mentre
attendevano il loro turno davanti alla folla. Mia si aggirava per la gabbia
meditando sugli eventi che l’avevano portata qui.
Proprio come aveva detto ad Ashlinn, i gladiatii del Collegio Remus si
erano addestrati un’altra settimana sotto i soli prima di partire per
Stormwatch. La mano di Mia era guarita abbastanza per tornare a esercitarsi
dopo pochi cambi, anche se avrebbe potuto non curarsene, visto quante
attenzioni Arkades le dedicava: era chiaro che tutte le speranze erano
riposte su Furian, Bryn e Byern per ottenere il posto nel Venatus Magni.
Origliando Domina Leona e la magistrae, Messer Cortese aveva appreso
che erano già state fatte richieste in merito alla vendita di Mia. C’erano
alcune parti interessate: una casa di piacere a Whitekeep, un magistrato in
cerca di una guardia del corpo in cui poter infilare l’uccello di tanto in
tanto, e naturalmente Varro Caito e il suo Pandemonium. Nessun vero
sanguila tra loro.
Tutto il piano di Mia era appeso alla vittoria a Stormwatch.
Avevano viaggiato fino alla città con la Mastino Glorioso, arrivando
alcuni cambi prima dell’inizio stabilito del venatus. Il porto fremeva
dall’eccitazione, e c’era gente che aveva viaggiato per miglia per assistere
ai giochi; locande, monolocali e capanni traboccavano di gente. a Ashlinn
aveva mandato Eclissi a far visita a Mia nella sua cella e l’umbralupa aveva
parlato di tutto quello che lei e Ashlinn avevano appreso sui giochi
imminenti. Nel corso delle illuminotti successive, passandosi messaggi
tramite il demone, Mia e Ashlinn avevano formulato il loro piano.
Ora non restava che metterlo in pratica.
Mia osservò gli equillai che percorrevano il circuito con gran fragore, la
percussione degli zoccoli dei loro cavalli che riverberava attraverso le pareti
di pietra. Bryn e Byern se la stavano cavando bene: erano secondi quando
mancavano ancora cinque giri. Ma se Mia pensava che i Vaaniani fossero
abili, rimase meravigliata nell’osservare la squadra di Leonides in azione. Il
padre di Leona schierava solo i migliori, e i suoi equillai non facevano
eccezione: un sagmae dweymeri il cui scudo con lo stemma del leone
sembrava impenetrabile e un grazioso flagellae liisiano la cui abilità con
l’arco era uguale a quella di Bryn, se non superiore.
«Ammazzapietra e Armando» mormorò Cantalame, in piedi presso le
sbarre accanto a Mia. «I m-migliori equillai della Repubblica. La… folla li
adora.»
Malgrado uno stupefacente colpo mortale da parte di Bryn sul sagmae di
un’altra squadra, i Leoni di Leonides si dimostrarono semplicemente i
migliori e, dopo nove giri, risultarono vincitori. Ammazzapietra e Armando
smontarono dalla biga assieme, le dita intrecciate e le mani tenute in alto in
segno di vittoria mentre dalla folla attorno a loro si levava un boato. Era
cosa nota che i due fossero amanti, e le loro capacità sbalorditive,
accoppiate all’affetto che mostravano tra loro, li rendevano i preferiti della
folla. Anche il fatto che fossero imbattuti non nuoceva.
Mia era delusa per Bryn e Byern, peggio ancora per il fatto che al
Collegio Remus mancasse ancora il suo terzo alloro. Ma per la verità la sua
mente era altrove. Scoccò un’occhiata in tralice a Cantalame e al pessimo
colorito verdognolo che aveva assunto la pelle della donna sotto i tatuaggi.
«Ti senti meglio?» le chiese.
«C-credo di sì» annuì la donna. «Il p-peggio sembra…»
Cantalame strabuzzò gli occhi e cadde in ginocchio, vomitando ancora
una volta su tutto il pavimento. Sidonius rimase steso dov’era, riuscendo a
malapena a gemere quando il vomito gli schizzò sui sandali. Macellaio
rotolò via dallo schizzo di ritorno, ma anche le sue guance si gonfiarono.
«Almeno svuotati le v-viscere fuori… dalla cella, sorella» gemette.
«Fottiti» lo apostrofò Cantalame, con una lunga striscia di bava e vomito
che le penzolava dalle labbra. «Prima che prenda a s-schiaffi il tuo
orrendo…»
Un altro zampillo di vomito proruppe dalla bocca di Cantalame, stavolta
andando a colpire Alzaonda, che a sua volta scattò in ginocchio e indirizzò
uno schizzo di vomito attraverso le sbarre. La puzza raggiunse Mia in
ondate calde e nauseabonde, così lei si mise in punta di piedi e premette le
labbra tra le sbarre, inspirando a fondo l’aroma di sangue e merda di cavallo
dell’esterno, che a paragone era piacevole.
«Quattro fottute Figlie» imprecò.
«Prega quanto ti pare» giunse un ringhio. «Temo che non stiano
ascoltando.»
Voltandosi, Mia vide l’executus Arkades, in piedi fuori dalle celle con le
mani sui fianchi. Esaminò la paglia intrisa di vomito, i suoi migliori
gladiatii stesi in giro come feriti dopo una guerra. Accanto a lui c’era
Verme, il naso arricciato per la puzza mentre controllava i gladiatii per
terra. Domina Leona rimase indietro, indossando un abito di bellissima seta
scarlatta e con un’espressione decisamente disgustata.
«Benedetto Aa» disse. «Tutti quanti?»
«Tranne Bryn e Byern» replicò Arkades lanciando un’occhiata a Mia. «E
il Corvo. Perfino Furian zampilla da entrambe le estremità. Solo il
Semprevigile sa cosa l’abbia provocato.»
Mia mantenne il volto impassibile e incontrò gli occhi di Arkades con
un’espressione tanto innocente da far vergognare una sorella della
Sorellanza della fiamma. b Ovviamente lei sapeva con esattezza cos’aveva
causato quella scarica di turbolenza intestinale fra i suoi fratelli e sorelle del
collegio. Ashlinn aveva infilato nel loro ultimopasto più Inghippo di quanto
sarebbe piaciuto a Mia: non c’era alcun bisogno che i risultati fossero così
esplosivi, a dire la verità. Ma Ash non era mai stata la migliore studentessa
di Ammazzaragni.
«Avvelenamento da cibo» dichiarò Verme, inginocchiandosi accanto a
una pozza di vomito. Allungando la mano attraverso le sbarre, premette il
palmo contro la fronte madida di sudore di Macellaio. «Non è fatale,
ritengo. Ma vorranno essere morti prima che finisca.»
«M-molto prima di… te, mia c-cara» gemette Alzaonda, trattenendo uno
sbuffo.
«Come mai tu non sei ammalata?» chiese Domina Leona a Mia.
«Non ho mangiato, ieri sera, Dominatii» rispose Mia. «Ero troppo
nervosa per i giochi.»
«’Bisso e sangue» sbraitò Leona. «Dovrei far fustigare quel cuoco. Ci
mancano tre allori al magni, questo è il primo venatus in cui io e mio padre
schieriamo gladiatii l’uno contro l’altro e le mie lame più affilate sono
ammalate come marinai che non sanno stare in equilibrio su una nave?»
Strinse gli occhi per un pensiero improvviso e si voltò verso Arkades. «Non
penserai che sia stato lui a orchestrare tutto questo, vero?»
L’executus si sfregò il mento, pensieroso. «Possibile, anche…»
Sidonius appoggiò la schiena contro il muro quando uno schizzo di
vomito gli eruttò dalle budella, tanto che Verme e Leona fecero un balzo
indietro dal disgusto. La domina tirò fuori un fazzoletto profumato dal
vestito e se lo premette contro la bocca mentre il grosso Itreyano
mugugnava delle scuse quasi indecifrabili e subito dopo si cagava nel
perizoma.
«Non possono combattere in queste condizioni, domina» disse Verme
piano.
«Già» annuì Arkades. «Sarà un massacro. Nessuno di loro riesce a stare
in piedi.»
«Io riesco a stare in piedi» replicò Mia.
I tre la guardarono in silenzio. Leona strinse gli occhi.
«Posso vincere» giurò Mia.
Arkades scosse il capo. «Sposta gli occhi tra quelle sbarre, ragazza.
Qualcosa in questa arena colpisce la tua attenzione?»
Mia scrutò sulle sabbie, esaminando con gli occhi le mura, la folla. I resti
dello scontro tra gli equillai furono raccolti, i bersagli smontati, i segnapunti
rimossi. La folla stava pestando i piedi, impaziente per l’inizio dell’incontro
successivo.
«Vetri rotti» disse Mia, girandosi per guardare l’executus. «E pentole
incendiarie. Sul muro che costeggia il bordo dell’arena.»
«E questo cosa ti dice?»
«Che gli editorii non vogliono che la folla arrivi sulla sabbia, oppure che
non vogliono che qualunque cosa stiano per liberare sulla sabbia raggiunga
la folla» replicò Mia.
«Serraglio» disse Arkades. «È il tema di questo venatus. Animali da tutti
gli angoli della Repubblica, messi a combattere tra loro e contro i gladiatii
per il divertimento della folla.» L’omone incrociò le braccia massicce e il
cipiglio accentuò la cicatrice che aveva in faccia. «Hai idea di cosa
affronteresti là fuori?»
Mia scrollò le spalle, simulando ignoranza.
«Qualunque ’bisso di cosa sia, non può puzzare peggio di qui dentro.»
Guardò Leona con aria decisa. «I vostri equillai hanno appena perso contro
gli uomini di vostro padre, Dominatii. E solo una dei vostri gladiatii può
sollevare una spada. Se avete sete di allori da vincere o qualcosa da
dimostrare, pare che abbiate una sola scelta.»
Gli occhi di Leona si assottigliarono alle parole “qualcosa da
dimostrare”. Ma Mia aveva detto il vero: esisteva un solo modo in cui
Leona avrebbe ottenuto un borsello da vincitore in questo venatus. Un solo
modo per poter recuperare parte dei costi, guadagnarsi un po’ di gloria e
accumulare un altro serto per l’ammissione del suo collegio al magni.
Mia e Ashlinn avevano orchestrato la situazione a quel modo, dopotutto.
Parte di Mia ancora non si fidava della sua compagna di cospirazioni.
Stava ancora attendendo che accadesse l’inevitabile. Ma Ash aveva detto il
vero; Eclissi l’aveva confermato. Aveva avvelenato gli altri gladiatii e
lasciato in piedi Mia, tutto per convincere Leona che lei fosse la sua unica
speranza di ottenere quella vittoria di cui aveva così disperato bisogno.
Tuttavia…
“Tuttavia…”
«Executus» disse Leona, senza che i suoi occhi lasciassero quelli di Mia.
«Riferisci agli editorii che sarà il nostro Corvo a combattere per il Collegio
Remus nell’Ultimae. Non schiereremo nessun altro gladiatii questo
cambio.»
«Mea Domina, Furian era stato programmato per l’Ultimae. Un
cambiamento dell’ultim’ora…»
«Ho pagato per l’ammissione a questo venatus» ringhiò Leona. «Che io
sia dannata se permetterò che la fredda mano del fato mi derubi della mia
vittoria. Se gli editorii hanno problemi con le mie disposizioni, riferisci loro
che possono vedersela personalmente con me. Ma, per il Semprevigile e
tutte e quattro le sue sante Figlie fottute, farai meglio ad avvisarli di portarsi
un paio di palle in più, perché gli strapperò le prime e le indosserò come
orecchini.» Indicò il suo abito con un ampio gesto della mano. «Il rosso
dovrebbe essere un ottimo complemento per il mio vestito.»
Verme sogghignò e Arkades cercò di nascondere il suo sorriso nella
barba.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» mormorò lui.
Inchinandosi con la mano sul cuore, l’executus zoppicò via in cerca degli
editorii, mentre Verme si allontanò per trovare dell’acqua con cui lavar via
tutto quel casino. Leona rimase lì tra la puzza e l’umidità, fissando Mia
attraverso le sbarre con occhi azzurri scintillanti.
«Sto rischiando molto su di te, piccolo Corvo.»
«È un rischio solo se non vinco, Dominatii» replicò Mia. «E, in tutta
sincerità, non avete nulla da perdere.»
«Non ti perdonerò» la ammonì Leona «se mi deluderai.»
Portandosi la mano sul cuore, Mia si piegò in un inchino profondo.
«E confido che non dimenticherete» ribatté «quando non lo farò.»

Gli scontri erano stati brutali, sanguinosi, bellissimi. La folla ne era ebbra: il
vino, il massacro, i ruggiti che riverberavano nella pietra sopra la testa di
Mia. Le guardie stavano già definendo quel venatus il migliore che
Stormwatch avesse mai visto: gli editorii si erano superati di nuovo.
Gli spettatori si erano eccitati quando un gruppo di gladiatii aveva dato
la caccia a un lupo dai denti a sciabola pesante tre tonnellate attraverso un
mare di erba alta fatta crescere a comando dalle sabbie. Avevano urlato di
piacere quando i gladiatii dei collegi di Leonides, Trajan e Phillipi si erano
scontrati su una rete di cavi instabili appesi sopra l’arena mentre un branco
di orsibianchi vaaniani era in attesa lì sotto, pronti a fare a pezzi
sanguinolenti qualunque guerriero fosse caduto. Dei prigionieri di Stato
erano stati legati ai pali e giustiziati da uno stormo di sanguifalchi ashkahi
affamati; gladiatii armati di reti e tridenti avevano affrontato un vero kraken
delle sabbie vivo davanti alla folla in tumulto. c E ora, mentre i venti
dell’illuminotte soffiavano dall’oceano e il cambio si avvicinava alla
conclusione, erano pronti per l’Ultimae.
Nessuno sapeva cosa potesse esserci di più spettacolare del kraken delle
sabbie, anche se tutti quanti avevano la bava alla bocca per quella
prospettiva. Pestarono i piedi a tempo e il ritmo riecheggiò in basso tra le
buche dei mekana sotto le sabbie. E allora, come in risposta, sollevandosi
dalle profondità con un frastuono, giunse un ruggito raggelante.
«Cittadini di Itreya!» arrivò l’annuncio dai corni dell’arena. «Onorevoli
administratii! Senatori e midollani! Ringraziamo il nostro onorato console,
Julius Scaeva, per aver provveduto ai fondi per l’Ultimae a chiusura di
questo straordinario venatus!»
La folla tuonò la sua approvazione e Mia strinse i denti nell’udirli
cantilenare il nome di Scaeva. Scacciò il pensiero del console dalla mente,
concentrandosi solo sul compito che l’attendeva. Nessuno dei combattenti
nelle celle di allestimento attorno a lei aveva il minimo sentore, ma Mia
sapeva con esattezza cosa li aspettava sotto il pavimento. E perfino con il
vantaggio che si era procurata, era consapevole che sarebbe stato comunque
un combattimento in cui avrebbe rischiato la sua stessa vita.
Mia indossò una manica di anelli di maglia sul braccio destro, spallacci e
gambali di ferro per proteggere spalle e stinchi, poi una gonna e un
pettorale di cuoio. L’armatura non sarebbe servita quasi a nulla contro il
nemico che avrebbe affrontato, ma era comunque meglio che combattere a
chiappe nude con un sorriso in faccia. Il suo elmo aveva un pennacchio
rosso, il colore dello stendardo della sua Dominatii. Lo stendardo di Remus.
Quel pensiero la infastidiva, ma di nuovo lo mise da parte. Non c’era posto
per l’orgoglio, qui. Non c’era posto per il dolore. Solo acciaio. E sangue. E
gloria.
Le spade che aveva tra le mani le davano una sensazione familiare: buon
acciaio liisiano, affilate come rasoi. Avrebbe avuto bisogno di quelle e di
tutta la sua forza, se voleva sopravvivere a ciò che l’aspettava.
«Cittadini!» giunse l’urlo. «Ecco i vostri gladiatii! Scelti tra i migliori
collegi della Repubblica, qui per combattere e morire per la gloria dei loro
Dominatii! Dal Collegio Tacitus vi presentiamo Appius, rovina del
Werewood!»
La saracinesca davanti a loro si sollevò con un tremito e un gemito
metallico. Un uomo enorme passò accanto a Mia ed entrò nell’arena,
sollevando lancia e scudo al fragore della folla in fermento. Il suo elmo era
foggiato come una testa di lupo e la soliluce scintillava sulle maniche e sul
pettorale d’acciaio.
«Dal Collegio Livian, Recacenere, il Terrore del Mare Silente!»
Un gladiatii dweymeri si presentò sulle sabbie e sollevò un piccone a due
mani più lungo di quanto Mia fosse alta. Si aggirò per il bordo dell’arena
pestando i piedi e la folla lo imitò a tempo finché il mondo intero non
sembrò fatto di tuono.
E andò avanti così. Ogni collegio veniva annunciato e temibili gladiatii
con titoli altrettanto spaventosi marciavano dentro per prendere il proprio
posto, eccitando la folla con le loro pose teatrali. Mia notò con interesse che
Leonides non schierava un guerriero nell’Ultimae, cosa insolita per un
collegio di quella levatura. Si domandò se avesse qualche sentore della
natura del loro avversario…
Più di due dozzine di guerrieri si trovavano sulle sabbie prima che Mia
udisse l’editorii chiamare: «Dal Collegio Remus…».
«Furian!» giunse un urlo.
«Imbattuuuuto!» arrivò un altro.
«… il Corvo!» ruggì l’editorii.
Mia uscì alla soliluce, sollevando le sue spade gemelle sopra la testa. Fu
accolta da perplessità, applausi sparsi e alcuni fischi da gente che si era
aspettata il campione del Collegio Remus invece di una ragazzetta ossuta
grossa la metà di lui. Nemmeno uno di loro aveva la minima idea di chi lei
fosse.
“Presto.”
Mia strinse i denti, giurandolo in silenzio a se stessa.
“Presto il cielo stesso conoscerà il mio nome.”
In un lussuoso palco al bordo dell’arena, Mia vide il governatore di
Stormwatch, con i maggiorenti della città riuniti attorno alla sua poltrona.
Un editorii era in piedi su un palco separato, abbigliato con la tradizionale
veste rosso sangue ricamata con pugnali dorati. Un gatto grigio fumo era
acciambellato sulla sua spalla, scrutando gli eventi con aria decisamente
annoiata. L’uomo parlò in un grande corno e la sua voce fu amplificata per
il vasto spazio.
«E ora!» urlò. «Gentili amici, controllate i vostri cuori. Bambini,
distogliete lo sguardo! Trascinato dalle profondità delle Frusciaride ashkahi
su ordine del nostro glorioso console, un orrore inquinato dalla corruzione
che mise in ginocchio il vecchio impero. Ecco a voi, cittadini di
Stormwatch, il vostro Ultimae!»
Mia sentì il pavimento tremare e udì i grandi mekana sotto la sabbia
cominciare a muoversi. Affioramenti rocciosi si sollevarono dalla rena
come denti, alti e affilatissimi. Il cuore dell’anfiteatro si divise e la sabbia
cadde nelle profondità mentre si spalancava una fossa. E, come dall’Abisso
stesso, si sollevò un orrore quale Mia non ne aveva mai visti.
«’Bisso e sangue…» disse una voce accanto a lei.
Mia guardò verso il gladiatii dweymeri, l’uomo di nome Recacenere.
Aveva gli occhi sgranati. Il suo grosso piccone gli tremava nelle mani.
Il mostro ruggì, scuotendo la terra stessa. La folla rispose alzandosi in
piedi, esultando e ululando, eccitata. Nemmeno uno tra loro aveva mai visto
nulla di simile, ma tutti avevano udito i racconti. L’incubo dei deserti più
profondi. Più terrificante del kraken delle sabbie. Più spaventoso di cento
pulvispettri. Una parola che infondeva il panico in ogni carovaniere e
commerciante che percorresse la desolazione ashkahi.
«Un rigurgitante…» mormorò Recacenere. d
La bestia ruggì di nuovo, sollevando l’estremità del suo corpo che Mia
supponeva essere la testa. Aveva la pelle bucherellata, crepata e
bruciacchiata come cuoio vecchio. Si muoveva come un bruco osceno,
allungandosi verso la folla urlante. Ma un collare di ferro e spessi pezzi di
catena trattenevano il mostro sul pavimento dell’arena, impedendogli di
arrivare vicino al pubblico. Quando si resero conto di non essere in
pericolo, gli spettatori proruppero in un applauso, esultando e cantilenando.
Con tutti gli occhi sulla bestia, Mia si voltò e avanzò sulla sabbia, altri
trenta passi, fino a trovarsi sotto una statua di Tsana sulla parete interna.
Conficcando le sue spade nel terreno, si inginocchiò e chinò il capo come se
stesse pregando la dea. Ma con la mano destra cominciò a frugare sotto la
sabbia al bordo dell’arena.
All’inizio non percepì nulla. La sua ombra si increspò mentre sentiva
freddo allo stomaco, e il pensiero che Ashlinn potesse averla tradita si
sollevava come un pulvispettro alle sue spalle…
“No.”
Le sue dita tastarono qualcosa di morbido. Cuoio.
“Eccolo.”
Tirò fuori l’oggetto dalla sabbia – un borsello di cuoio pieno di oggetti
sferici – e se lo infilò sotto lo spallaccio.
L’editorii alzò le mani, chiedendo silenzio.
La folla rimase immobile come una gora.
L’uomo prese un respiro che si sentì per tutta l’arena. Il suo gatto si
limitò a sbadigliare.
«Ultimae!» urlò. «Cominciate!»
Dalla folla si levò un boato assordante ed euforico. La bestia incatenata
al cuore dell’arena si contorse come risposta, la testa cieca che ondeggiava
da un lato all’altro mentre lo stomaco le gorgogliava su per la gola,
desiderando disperatamente di consumare la preda che poteva percepire ma
non raggiungere. E, come risposta, emise un altro ruggito così forte da
scuotere il cielo.
E neanche un gladiatii
mosse
un
singolo
muscolo.
«… non riesco a biasimarli, in effetti…» giunse il sussurro all’orecchio
di Mia mentre riprendeva posto accanto ai suoi compagni.
La folla iniziò a diventare irrequieta e molti cominciarono a fischiare i
gladiatii, paralizzati lì, mentre alcuni girarono attorno al rigurgitante che
ringhiava e si dibatteva.
«Uccidetelo!» tuonò qualcuno.
«Combattete, codardi!»
In piedi accanto a Mia, Recacenere si irritò alla parola “codardi”. Si
guardò attorno per gli spalti, fino al suo Dominatii nei palchi dei sanguila.
Poi, alzando il suo piccone, urlò «Con me!» con quanto fiato aveva in corpo
e caricò la bestia con l’arma sollevata. Diversi gladiatii accettarono la sfida
– Mia fra loro – e corsero avanti con urla di battaglia. Attaccarono il verme
da quattro lati, tranciando e infilzando con lancia e spada. Preferendo il
fianco, Mia schizzò fuori dal riparo di una delle zanne di pietra e conficcò
le sue spade fino all’elsa. Recacenere caricò a testa bassa e agitò il suo
piccone, praticando un grosso foro nella pelle della bestia. Allora, con un
rivoltante suono umido simile a un rutto, il rigurgitante si impennò e vomitò
il suo stomaco su tutti gli uomini che aveva davanti.
La carne era di un rosa marcio, quasi liquida, e schizzò sul terreno per
poi protendersi con viticci simili a dita. Appius fu completamente sepolto
sotto quel diluvio di interiora, mentre Recacenere fu avviluppato fino alla
cintola, urlando quando la sua carne cominciò a bruciare nell’acido di cui
erano cosparse le viscere del verme. Lo stomaco continuò a strisciare sul
terreno, quasi come una cosa che avesse volontà propria, allungando
filamenti appiccicosi e catturando i gladiatii lì attorno. E infine, con un
risucchio fragoroso e riecheggiante, la bestia ritirò dentro di sé le proprie
viscere, trascinando una dozzina di uomini urlanti assieme a esse. La folla
lanciò urla di piacere e di disgusto.
Ai fianchi della bestia, Mia conficcò di nuovo la sua lama fino all’elsa,
percependo il mostro tremolare. Il suo sangue era di colore rosso intenso,
quasi nero, e la cosparse fino ai gomiti. Mentre quell’essere colossale
rotolava e sgroppava, mise una mano sotto lo spallaccio, sul sacchetto che
Ashlinn aveva nascosto nella sabbia. Andando a tentoni, afferrò una
manciata e la tirò fuori: tre sfere di vetro rosso acceso nel palmo della sua
mano.
Un regalo di Mercurio prima della loro partenza.
Mutavitrum. e
Liberando la spada con uno strattone, spinse il pugno nella ferita,
seppellendo le sfere nel muscolo della bestia. Il rigurgitante ruggì di dolore
e si rotolò sul fianco per schiacciare Mia. La ragazza si tuffò via, evitando a
malapena di essere schiacciata contro una delle zanne di pietra quando il
verme sferzò la sua coda. Il mutavitrum si attivava grazie alla pressione, di
solito lanciandolo contro il muro o il pavimento, ma Mia sperava che lo
schiacciamento degli stessi muscoli e del peso della bestia sarebbe stato
sufficiente per rompere i legami arkemici che mantenevano il vetro allo
stato solido. Mentre si alzava in piedi barcollando e poi schizzava via, udì
uno schiocco sordo che quasi si perse sotto gli strepiti della folla e i ruggiti
del mostro. Uno zampillo gorgogliante di sangue e carne proruppe dal
fianco del rigurgitante quando il suo mutavitrum esplose.
La folla esultò: non aveva idea di cos’avesse fatto la ragazza, solo che
aveva ferito la bestia. Il rigurgitante ululò, con l’esofago che gli gorgogliava
nella gola e una puzza di sangue, ceneri e acido che si riversava su Mia a
ondate.
«… CREDO CHE TU L’ABBIA FATTO ARRABBIARE …»
«… sei sempre perspicace, caro cagnaccio…»
«… SEI SEMPRE UN SAPUTELLO, MICETTO …»
«… l’adulazione non ti porterà da nessuna parte…»
Il rigurgitante voltò la sua testa cieca verso Mia, poi lanciò un verso
terribile. La ragazza schizzò indietro verso il capannello di altri gladiatii,
cercando copertura tra le rocce e provando ad arrivare oltre la portata della
catena del rigurgitante. Il mostro strisciò dietro di lei, inseguendola e
schiantando la sua massa enorme sul terreno nel tentativo di schiacciarla. Il
suolo tremò e Mia incespicò. Altri gladiatii stavano vibrando colpi e
fendenti alla bestia, ma quella sembrava concentrata sulla ragazza che
l’aveva ferita più degli altri. Per disperazione, Mia si voltò e alzò la mano
mentre scattava all’indietro, cercando di trattenere il mostro con la sua
stessa enorme ombra finché non si trovò oltre la portata della catena.
La reazione fu istantanea. Terrificante. Il colosso si fermò come se ogni
suo muscolo si fosse teso all’improvviso. Con un ruggito agghiacciante,
balzò lungo la sabbia scagliandosi su Mia, la bocca dilatata e la saliva acida
che sibilava mentre si dibatteva contro le sue catene. Poi, con un gemito di
metallo torturato e il suono deciso di acciaio che andava in frantumi, la
catena che legava la bestia al pavimento si spezzò di netto in due.
«… oh merda…»
«… OH MERDA …»
«Oh, merda!»
La bestia si dimenò, troppo colossale perché Mia potesse trattenerla con
la sua magika delle ombre. La ragazza si tuffò di lato quando la coda
descrisse un grosso arco falciante per l’arena, facendo a pezzi la pietra e
riducendo in poltiglia i gladiatii lì attorno. Mia fu scalfita mentre si tuffava
via e andò a sbattere contro un affioramento. Stelle nere le balenarono
davanti agli occhi. Perse la stretta sulle ombre mentre crollava e il
rigurgitante ruggì di una rabbia incandescente.
«Mi…» Mia sbatté forte le palpebre, sputando polvere dalla lingua. «…
Mi ha sentito?»
«… QUANDO HAI CHIAMATO LA TENEBRA …»
«… interessante…»
La bestia ululò di nuovo, furiosa, la pelle che si increspava mentre le
viscere gorgogliavano e si agitavano nella sua gola. Ma adesso che non
c’erano più ombre a distrarlo, rendendosi conto di essere improvvisamente
libero dalle catene, il rigurgitante voltò la testa cieca verso le vibrazione
della folla che gridava e cantilenava. E quando anche il pubblico si rese
conto che la catena del colosso era spezzata, proruppe in urla e schiumò dal
panico.
Mia alzò una mano agli spallacci e si sentì gelare il sangue quando si
rese conto che il sacchetto di mutavitrum non era più lì. Cercò nella sabbia
attorno a lei mentre il rigurgitante strisciava verso il muro dell’arena; i vetri
rotti e le pentole incendiarie che attorniavano la barriera ora sembravano
patetici di fronte alle semplici dimensioni e alla rabbia del mostro. Un
manipolo di mezza dozzina di legionari Luminatii accorse nell’arena, le
spade di solacciaio sguainate, urlando «Per la Repubblica!» e «Luminus
Invicta!» mentre caricavano. Fregandosene all’apparenza di Repubblica,
luce o qualunque altra cosa, la bestia vomitò di nuovo il suo stomaco,
avviluppando l’intero manipolo in un intrico aggrovigliato di rosa marcio e
acido bruciante.
Il dolore faceva bruciare gli occhi di Mia e le urla della folla erano quasi
assordanti. L’arena attorno a lei adesso era una completa baraonda: la gente
correva verso le uscite, mentre altri erano seduti ai loro posti, paralizzati,
gridando di terrore.
Il rigurgitante si impennò e lanciò un urlo, il collare rotto che pendeva
floscio attorno alla sua gola. Venti nuovi legionari con spade e scudi
caricarono da una delle saracinesche di ferro, ma con un’unica spazzata
della sua enorme coda, il mostro li ridusse in poltiglia contro il muro
dell’arena. La sua pelle spessa e coriacea era perforata in una dozzina di
punti da lance e spade, e sangue scuro gocciolava dalle ferite.
«… be’, sta andando alla grande…»
«Sai, è molto facile non fare nulla e criticare» ansimò Mia, rotolando
sulla pancia, ancora rintronata.
«… anche stranamente appagante…»
«… DILLO ALLE PERSONE CHE STANNO PER ESSERE DIVORATE …»
«… e a che scopo, esattamente…?»
Il rigurgitante aveva raggiunto il muro dell’arena e la sua lunghezza di
ottanta piedi ondeggiava come una grottesca larva di falena. Torreggiò
facilmente sopra la barricata alta dieci piedi, la testa priva di fattezze che
dondolava sopra un gruppo di spettatori terrorizzati, l’esofago che
gorgogliava mentre inspirava. Mia, ancora a terra, si trascinò su con il
cranio che le pulsava, corpi di gladiatii morti schizzati e macchiati
tutt’attorno a lei. Cercando tra i cadaveri, trovò una lancia lunga con il
manico ancora intatto. Il suo dannato elmo interferiva soltanto con la vista,
ma non osava toglierlo nell’ipotesi remota che qualche servitore
sconosciuto della Chiesa vedesse la sua faccia. E così, con una preghiera
silenziosa alla Madre Nera, tirò indietro il braccio e scagliò la lancia con
tutta la sua forza.
L’arma si librò in aria in un arco perfetto, la testa d’acciaio scintillante
nella soliluce mentre penetrava la gola del rigurgitante. Il mostro lanciò un
urlo e scosse la testa per rimuovere quello stuzzicadenti tra schizzi di
sangue nero. Protendendosi ancora una volta verso la tenebra addensata
sotto di esso, Mia afferrò l’ombra del mostro.
«Ehi!» gridò. «Bastardo!»
Il rigurgitante sussultò e un profondo gemito rimbombante tremolò per
tutta la sua lunghezza. Dimenticandosi delle persone sugli spalti, la bestia
voltò la testa cieca verso Mia e spezzò l’aria con un ruggito cupo e
assordante.
«… ora hai la sua attenzione…»
«Eccellente.»
Mia raccolse due spade dal terreno insanguinato attorno a lei.
«Ma cosa cazzo ci faccio?»

a. Stormwatch è un porto nel Nordovest di Itreya e una delle città più vecchie della Repubblica. I suoi
inizi furono umili: un semplice faro sulle coste settentrionali della Baia delle Tempeste, usato per
segnalare alle navi le insidiose barriere coralline. Malgrado i migliori sforzi, ci furono così tanti
naufragi che sulla costa lì vicino nacque una comunità di gente che rovistava tra i relitti, e infine
fu eretta una città nota come Stormwall.
Alcuni anni dopo scoppiò uno scandalo: il custode del faro di Stormwall, Flavius Severis, fu
accusato dal suo amico Dannilus Calidius di far virare apposta le navi contro le rocce per
aumentare la propria fortuna. Calidius costruì un secondo faro sull’imboccatura sud della baia e
fondò una seconda città, chiamandola Cloudwatch.
La rivalità tra la Familia Severis e la Familia Calidius e, pertanto, tra Stormwall e Cloudwatch,
divenne leggendaria. Scoppiarono diversi conflitti sanguinosi nel corso degli anni, ed entrambi i
fari furono distrutti. Re Francisco I, il Grande Unificatore, a cui non fregava nulla di “giusto” o
“sbagliato” ma voleva solo che le sue “dannate navi smettessero di infrangersi sulle maledette
rocce”, minacciò di crocifiggere ogni Severis e Calidius che fosse riuscito a trovare per assicurare
che fosse ripristinata la pace.
La soluzione, comunque, non sfociò nella violenza. All’insaputa dei loro genitori, una figlia
della Familia Severis e un figlio della Familia Calidius si incontrarono e, sfidando ogni
buonsenso, caddero follemente nelle spire della lussuria. Anche se la storia ha tutti i canoni di una
classica tragedia itreyana, il racconto si risolse in maniera sorprendentemente pacifica e solo un
miglior amico, un secondo cugino (che non piaceva molto a nessuno, comunque) e un piccolo
terrier chiamato Barone Abbaione furono uccisi nel dramma che ne risultò. I due si sposarono, fu
negoziata una pace e nacquero molti bambini. Nel corso del tempo, la città dal nuovo nome di
Stormwatch divenne uno dei porti più floridi del regno di Francisco.
La città esiste ancora oggi, un testamento duraturo, gentili amici, al potere degli ormoni
adolescenziali e al desiderio dei genitori di avere nipotini adorabili.
b. Una propaggine del clero di Aa, completamente approvata dalla Chiesa, devota all’adorazione
della dea Tsana. Composta esclusivamente da donne, i voti della sorellanza includono Castità,
Umiltà, Povertà, Sobrietà e Generalmente nessun tipo di divertimento.
c. Era lungo solo dodici piedi, ma la bestia uccise comunque sette uomini prima di essere spedita
nella fossa.
d. Anche se il kraken delle sabbie viene comunemente considerato il predatore principale delle
desolazioni ashkahi, in realtà è solo secondo ai veri dominatori delle profondità del deserto. Una
creatura talmente orrenda che sfida ogni credibilità, il rigurgitante fa decisamente del suo meglio
per infrangere l’illusione che esista qualche tipo di benevolenza nel creatore dell’universo.
Arrivando fino a duecento piedi di lunghezza, il rigurgitante è una creatura serpentina senza
occhi o narici distinguibili, con orecchie rudimentali. Gli eruditi al Gran Collegio di Godsgrave
hanno teorizzato che tali bestie percepiscano la preda con la vibrazione o forse tramite una specie
di ecolocalizzazione, simile a varie razze di topi volanti. Comunque, dato che qualunque bastardo
abbastanza sciocco da studiarli di solito finisce dissolto in una pozza di acido solforico
concentrato, questa teoria è rimasta in gran parte indimostrata.
Il rigurgitante ha due bocche corrugate, una a ciascuna estremità del corpo, che fungono anche
da sedere (quale orifizio serva quale scopo in un dato momento sembra completamente arbitrario e
dipendente dall’umore del rigurgitante in questione). Non ha mascelle o denti e non è capace di
afferrare la preda nella bocca. Invece – in quello che è forse il metodo più ributtante per
consumare il nutrimento nell’intero regno animale – il rigurgitante vomita il suo intero stomaco
fuori dalla bocca, avvolgendo la sua preda in un intrico di tentacoli che si contorcono e acido
corrosivo, poi risucchia rumorosamente tutto quanto quel caos, inclusa la sventurata preda.
Capite cosa intendo?
Sul serio, quale genere di bastardo malato può aver concepito una cosa simile?
e. Una delle migliori invenzioni della Shahiid Ammazzaragni. Potreste ricordare che il mutavitrum si
presenta in tre varianti:
Quello nero crea fumo, utile come diversivo.
Quello bianco crea una nube della tossina nota come Deliquio, utile per far perdere i sensi alle
persone.
Quello rosso esplode semplicemente, utile per uccidere la gente.
Tre colori, tre sapori. Tutto piuttosto semplice, anche se rimarreste sorpresi dalla frequenza con
cui una Lama novizia ha messo la mano nel sacchetto sbagliato e ha afferrato il colore sbagliato
nella foga del momento. Può essere un po’ imbarazzante quando ti rendi conto che il mutavitrum
nero che hai gettato ai tuoi piedi per creare un diversivo in realtà è bianco e per sbaglio ti sei steso
da solo… anche se è ancora peggio scagliare a terra una manciata di vetro rosso e accorgerti che ti
sei accidentalmente fatto esplodere le gambe.
Comunque tende a essere il tipo di errore che le Lame commettono solo una volta.
CAPITOLO 18
GLORIA

Nonostante tutti i suoi tentativi, Mia non riusciva a tenere ferma la bestia.
Come un gigante che scostava un neonato inerme, il rigurgitante si liberò
dalle ombre di Mia, poi fece oscillare la sua enorme massa via dalla folla e
strisciò verso di lei. La sua bocca si spalancò e un ruggito tremante si levò
dal buio del suo ventre. Le spade gemelle di acciaio liisiano nelle mani di
Mia erano come coltelli da burro, e la sua ombra si increspava mentre i suoi
passeggeri si abbeveravano della sua paura.
Lasciandola fredda.
Dura.
Impavida.
Pensò rapidamente. Spostò gli occhi sulle pareti dell’arena, le rocce
spezzate, la sabbia insanguinata, il mostro che si avvicinava minaccioso
verso di lei. E infine lo vide, semisepolto tra un cumulo di pietra spezzata e
terra fra lei e quella mostruosità in carica.
Il suo borsello di mutavitrum.
Prese forma un pensiero folle, suicida. Ma senza paura, nessuna
eccitazione e alcun attimo da sprecare, la ragazza sollevò le spade. Con il
sudore negli occhi, i capelli appiccicati alla pelle polverosa e le labbra
arricciate all’indietro, Mia caricò con un urlo agghiacciante, dritta verso il
rigurgitante infuriato.
La folla in preda al panico rimase immobile dallo stupore, osservando il
puntino di quella ragazza correre a capofitto contro l’orrore del deserto
profondo. La bestia impennò all’indietro la sua massa colossale e un rutto
orrendo proruppe dalla sua gola. Mia scattò tra un miscuglio di corpi
spezzati, pietra in frantumi, armi rotte, tutto sparpagliato sulla sabbia, e
balzò con attenzione sopra il suo sacchetto di cuoio con il ’vitrum,
semisepolto tra la polvere. E il rigurgitante aprì le fauci, sputando le sue
interiora per tutto il pavimento.
Avviluppandola completamente.
Nei cambi a venire, i momenti successivi sarebbero stati l’argomento di
innumerevoli racconti da taverna, dibattiti durante la cena e risse da osteria
per tutta la città di Stormwatch.
C’erano quelli che giuravano di aver visto la ragazza tuffarsi di lato,
semplicemente troppo rapida per essere colpita, evitando del tutto lo
spruzzo delle interiora della bestia. C’erano quelli che affermavano che tra
tutta la polvere, il sangue e il caos, era effettivamente troppo difficile capire
cosa fosse accaduto, tranne che lei si era mossa velocissima. E poi c’erano
quelli – presi per pazzi o ubriachi, per la maggior parte – che giuravano sul
Semprevigile e tutte e quattro le sue Sante Figlie che questo fuscello di
ragazza, questo demone avvolto di cuoio e maglia, era semplicemente
scomparsa. Un momento era sepolta nelle viscere del rigurgitante, quello
dopo stava a dieci piedi di distanza nella lunga ombra che il mostro
proiettava sulla sabbia.
Mia barcollò e ci mancò poco che non finisse in ginocchio per le
vertigini improvvise. Solo l’adrenalina e una pervicace forza di volontà la
tennero in piedi, mentre correva ondeggiando con il petto che le bruciava e
la testa che girava. La bestia ingurgitò di nuovo le proprie viscere,
ingerendo quel miscuglio di cadaveri di gladiatii e armi cadute assieme al
borsello di cuoio pieno di scintillanti globi di mutavitrum. Mia si arrampicò
su per una sporgenza di pietra spezzata e si lanciò sulla schiena della
creatura, conficcandole le spade nella carne per rimanere attaccata. Il
colosso si dibatté sotto di lei mentre la ragazza si rimetteva in piedi a
tentoni, poi procedeva barcollando su per la lunghezza della creatura, fino
alla testa gettata all’indietro. La folla urlava, il rigurgitante ruggiva, le sue
stesse pulsazioni martellavano e sotto tutto quanto, in mezzo a quella
cacofonia, a quel caos assordante, le parve di udire qualcosa, in profondità
nel ventre del mostro.
Una serie di minuscoli schiocchi mollicci.
Il rigurgitante si fermò e un tremito gli percorse il corpo. Mia si precipitò
sul suo collo, gettando via una delle sue lame e aggrappandosi a una lancia
spezzata conficcata nella pelle coriacea. Mantenendosi aggrappata alla
bestia con le cosce, le unghie e pura ostinazione, tirò indietro il suo acciaio
liisiano e, con un urlo, lo conficcò nella carne dietro il piccolo orecchio del
mostro.
La creatura urlò, con una bolla di sangue che gli gorgogliava fuori
dall’esofago prorompendo dalla bocca. La folla non ebbe alcun sentore del
’vitrum che aveva inghiottito; nessun indizio dell’esplosione che aveva
trasformato in una zuppa sanguinolenta una parte rilevante delle interiora
del rigurgitante. Tutto quello che gli spettatori sapevano, mentre assistevano
stupefatti con le bocche aperte dalla meraviglia, era che la ragazza aveva
conficcato la sua lama, la bestia aveva ondeggiato avanti e indietro come un
ubriaco alla latrina per poi, con un sospiro gorgogliante, crollare morta e
immobile a terra.
Il tonfo riecheggiò per tutta l’arena, e una nube di polvere si sollevò
quando la creatura impattò. Ma mentre i venti dell’illuminotte soffiavano
sugli spalti e per la sabbia inzuppata di sangue, la coltre si diradò rivelando
un’unica figura, in piedi da sola sulla testa della bestia morta.
Ansimante e sanguinante, Mia si chinò e strappò via la sua lama. Poi,
voltandosi verso gli spettatori esterrefatti, la sollevò lentamente al cielo.
Il silenzio risuonò per le sabbie. Vuoto e immobile. Nessuno nella folla
riusciva a credere ai propri occhi, tanto meno parlare. Finché, finalmente,
un bambino tra le braccia di sua madre indicò la ragazza imbrattata di
sangue nel cuore dell’arena, sgranando gli occhi bruni.
«Corvo!» giunse il suo urletto.
Un uomo lì accanto guardò il bambino, poi gridò a quelli attorno a lui.
«Corvo!»
La parola iniziò a ripetersi come un’eco quando sempre più persone
risposero al richiamo. Decine, poi centinaia, poi migliaia, tutte che
cantilenavano a tempo come un voto, una preghiera. «Corvo! Corvo!
Corvo!» mentre Mia zoppicava lungo l’intera carcassa del rigurgitante, la
spada tenuta in alto, con il pubblico che pestava i piedi a ritmo del suo
canto, ora sempre più veloce: la parola e il boato dei loro piedi si fusero in
un interminabile «CorvoCorvoCorvoCorvoCorvo!»
Mia ruggì con loro, entusiasmo e orgoglio violento che montavano nel
suo petto.
«Qual è il mio nome?» urlò.
«CorvoCorvoCorvoCorvoCorvo!»
«QUAL È IL MIO NOME?»
«CORVOCORVOCORVOCORVOCORVO!»
Mia chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dal suono, permettendo che
le penetrasse nella pelle.
Sangue e Gloria.
Si voltò verso i palchi dei sanguila e vide Domina Leona in piedi,
esultante. Guardò in direzione delle celle dei gladiatii e notò Sidonius,
Cantalame e Macellaio alle sbarre, che urlavano il suo nome e picchiavano
contro il ferro. Infine, alzò gli occhi sulla folla, su quel mare di facce
sorridenti, e vide una ragazza. Lunghi capelli rossi. Occhi azzurri come i
cieli tersi. E con un sorriso raggiante quanto i soli sopra di loro, Ashlinn
sollevò una mano con le dita allargate.
E soffiò un bacio a Mia.

Il Collegio Remus cenò come midollani, quella sera. Un lungo tavolo nelle
celle sotto l’arena fu ricoperto di cibo e vino; i fratelli e le sorelle di Mia
brindarono alla sua vittoria come antichi nobiluomini. Furian sedeva a
capotavola come un re, il suo posto in qualità di campione. Ma se questo
era un regno, adesso aveva una regina. Seduta all’altro capo del tavolo, con
un alloro d’argento da vincitore a incoronarle i lunghi capelli scuri, Mia
Corvere sollevò il suo vino e sorrise come una pazza.
I gladiatii si erano ristabiliti a sufficienza dal loro avvelenamento ed
erano rinfrancati dall’adrenalina per la vittoria di Mia. Bevvero molto e
mangiarono molto poco, raccontando la battaglia più e più volte. Sidonius
strepitò così forte che sembrava fosse stato lui stesso a sconfiggere la bestia,
avvolgendo il suo braccio forzuto attorno al collo di Mia e affermando che
era il più grande trionfo che avesse mai visto sulle sabbie.
«Questa magnifica puttanella!» ruggì.
«Togliti di dosso, grosso bove» sorrise Mia, spingendolo via.
«Non ho mai visto nulla di simile!» tuonò Sid. «E tu, Canta?»
«Nah» sorrise la donna, alzando la sua coppa. «Mai così.»
«Alzaonda?»
«Una vittoria degna di Pithia e Prospero!» dichiarò l’omone. a
«E tu, Macellaio? E tu, Otho?»
«No» replicarono. «Mai.»
«Al Corvo!» ruggì Sid, e tutta la stanza sollevò le coppe in risposta.
Solo Furian rimase in silenzio, centellinando il suo vino come se fosse
avvelenato. b I suoi occhi non lasciarono mai quelli di Mia, colmi di accusa
e furia fredda. Per quanto fosse stato male, lei sapeva che doveva averla
guardata combattere e probabilmente l’aveva percepita chiamare la tenebra.
Tuttavia, non si poteva negare che la sua vittoria fosse stata gloriosa, e per
quanto la vista di quell’alloro argentato sulla sua fronte gli bruciasse,
l’Imbattuto tenne saggiamente a bada la sua ira.
Ogni tanto Mia guardava all’altro capo del banchetto con occhi neri
come l’inchiostro, perforando quelli del campione mentre la nausea e la
fame che percepiva ogni volta che si trovava vicino a lui le crescevano nella
pancia. Dando un’occhiata al posto di Furian a capotavola, fece una
promessa in silenzio.
“Presto.”
«Attenti!»
I gladiatii tacquero e si alzarono in piedi quando l’executus Arkades
marciò nella stanza, assieme alla magistrae. Domina Leona camminava
dietro di loro, raggiante.
«Dominatii!» urlarono i gladiatii.
«Fermi, miei Falconi» disse alzando le mani e invitandoli a riprendere
posto. «Non vi sottrarrò ai vostri festeggiamenti. Le strade risuonano del
nome del Collegio Remus, e vi siete guadagnati la gioia di questo momento,
tutti quanti.»
La domina sorrise mentre loro sollevavano le coppe e brindavano alla
sua salute. Si era presa del tempo per cambiarsi, e indossava un abito a
spalle scoperte e un bustino abbinato di bellissimo velluto riccio, della
stessa tonalità rosso ruggine dei suoi capelli. Mia si domandò con esattezza
quanti pezzi d’argento ci avesse speso quella donna. Quanto le stava
costando questo dannato banchetto celebrativo e dove ’bisso avesse preso i
soldi. Per una persona così a corto di denaro che era stata disposta a vendere
Mia a una casa di piacere solo un cambio fa…
Mia lanciò un’occhiata ad Arkades e vide l’executus fissare il cibo e il
vino con la stessa preoccupazione. Mia guardò i gioielli attorno alla gola
della domina, l’oro ai suoi polsi, e quella consapevolezza attecchì ancora di
più.
“Non ci sa fare con i soldi. È stata allevata ricca, perciò non ha mai
imparato il vero valore di una moneta o capito davvero la vita che ti aspetta
quando rimani senza. Tutto quello che le importa è il modo in cui appare
agli altri.
“A suo padre.”
Mia squadrò Leona dall’alto in basso, sospirando dentro di sé.
“Forse sarei cresciuta anch’io così, se i miei genitori non fossero stati
uccisi?”
Mia vide Furian guardare la sua Dominatii con la coda dell’occhio, forse
cercando qualche cenno di riconoscimento. Ma l’alta e orgogliosa Leona,
fedele al suo stratagemma e, oh, così per bene, non lo degnò nemmeno di
un’occhiata.
«Mio Corvo» disse la domina, sorridendo a Mia. «Una parola.»
«Dominatii.»
Mia si incamminò dietro Leona fuori dalla stanza, consapevole dello
sguardo ardente di Furian alle sue spalle. Arkades e la magistrae li
seguirono e la donna più anziana chiuse la porta mentre Sidonius
ricominciava a raccontare la battaglia, usando una caraffa di vino e uno
stuzzicadenti come oggetti scenici.
«Stai bene?» chiese Leona.
«Piuttosto bene» rispose Mia. «Vi ringrazio, Dominatii.»
«Sono io quella che dovrebbe ringraziare te» disse Leona con occhi che
danzavano di felicità. «Il nostro collegio è sulla bocca di chiunque
nell’intera città. Il governatore di Stormwatch, Quintus Messala in persona,
ha dichiarato che questa è stata la migliore contesa che la Repubblica abbia
mai visto, e tu…» Leona strinse le spalle di Mia «tu, mia sanguinosa
bellezza, ne sei il cuore.»
«Io vivo per onorarvi, Dominatii» disse Mia.
Arkades strinse gli occhi a quelle parole, ma Leona pareva quasi in
estasi.
«Il governatore Messala tiene un tradizionale banchetto l’illuminotte
dopo il venatus» disse la domina. «Ogni midollano e administratii si reca al
suo palazzo, e lui invita ogni sanguila che schiera gladiatii nei giochi,
assieme al proprio campione.» Gli occhi di Leona scintillarono di
impetuoso piacere. «Ma mi ha mandato personalmente una missiva,
chiedendo che oltre a Furian, io porti te, affinché tutti possano posare gli
occhi sul Salvatore di Stormwatch.»
«… Il Salvatore di Stormwatch?» mormorò Mia.
«Suona bene, eh?» ridacchiò Leona. «I menestrelli stanno già cantando
la tua vittoria nelle taverne della città. Sarai l’orgoglio della festa, il gioiello
nella mia corona. E ci copriranno di soldi: i maggiorenti della città
getteranno offerte di patrocinio ai miei piedi. Gli occhi di ogni sanguila
saranno su di te, bruciando di gelosia.»
Ogni sanguila…
«Messala ha sempre preferito i combattenti del collegio di mio padre»
disse Leona. «Per anni ha ricoperto di encomi i Leoni di Leonides. Quanto
brucerà a mio padre vedermi al posto d’onore alla destra di Messala.»
La domina si premette le dita sulle labbra, coprendo il suo ghigno folle.
«Immagina l’espressione sulla faccia di quel vecchio bastardo.»
«Mea Domina» la ammonì la magistrae, lanciando un’occhiata a Mia.
«Non dovreste parlare così…»
«Hmmm… sì.» Leona si ricompose, annuendo e lisciando le pieghe del
suo vestito. «Ma ti sto trattenendo dai festeggiamenti, mio Corvo. Vai e
celebra la tua vittoria. Ma non troppo vino, eh? Voglio che tu sia nella tua
forma migliore per il banchetto di domani.»
“Come l’animaletto preferito” si rese conto Mia. “Come un cane ai piedi
della sua padrona. Che può essere venduto in un istante se non abbaia a
comando.
“Siediti.
“Rotola.
“Fai il morto.
“Muori.”
Mia strinse forte le labbra. Pensò a suo padre che dondolava in fondo
alla sua corda. A sua madre mentre moriva dissanguata tra le sue braccia.
Al suo fratellino che muoveva i primi passi in una fossa senza luce e moriva
lì al buio.
Pensò a Duomo.
Pensò a Scaeva.
“Occhi sul premio, Corvere.”
E guardando Leona, lei si inchinò, la mano sul cuore.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» disse. «Dominatii.»

«Fottuta Madre Nera, sei stata straordinaria!»


Ashlinn andò a sbattere contro Mia non appena lei entrò dalla finestra
della taverna e la strinse forte tra le braccia. Mia annuì «Sì, sì» e si districò
dalla stretta della ragazza, poi richiuse le tende alle sue spalle. Era la
persona più nota di Stormwatch, dopotutto, e le strade erano ancora piene di
gente festante che celebrava il venatus. I soli le bruciavano gli occhi, i colpi
che aveva subito quel pomeriggio stavano lasciando i lividi e, dopo il
banchetto con i suoi fratelli e sorelle gladiatii, Mia si sentiva un po’ brilla.
Guardandosi attorno per la camera minuscola, vide che non c’erano sedie:
solo un’unica branda con un materasso sottile come una fetta di formaggio
pregiato.
«Non è esattamente la villa del console, vero?»
«Tutte le locande, i capanni e i bordelli erano pieni per il venatus» disse
Ash con una scrollata di spalle. «La Madre mi ha arriso per aver trovato
posto in questo tugurio. Non chiedere quanto lo stiamo pagando. È un bene
che Mercurio ci abbia dato così tanto denaro. Ma comunque, al ’bisso
questa camera. Hai appena ucciso un colosso! L’intera città sta parlando di
te!»
Mia si accasciò sul letto, massaggiandosi le costole doloranti.
«Già» fu l’unica parola che riuscì a spiccicare.
«’Bisso e sangue, Corvere» disse Ash, lasciandosi cadere sul materasso
accanto a lei. «Hai ucciso un rigurgitante! Hai salvato centinaia di persone
di fronte ad altre diecimila! Leona dovrebbe essere pazza fino al midollo e
completamente ubriaca solo a pensare di venderti ora! Non sei felice?»
Mia si era posta quella stessa domanda mentre era diretta qui,
sgattaiolando fuori dalle celle dell’arena e Passando tra le ombre. Avrebbe
dovuto essere felice. A parte il fatto che il rigurgitante aveva spezzato la sua
catena, tutto era andato più o meno secondo il piano. Aveva ottenuto il
favore di Leona. Il patrocinio per il collegio era assicurato. Il suo nome
risuonava nelle strade. Era un alloro più vicina al magni e alle gole di
Scaeva e Duomo.
Ma c’era una sensazione sbagliata che si insinuava dentro di lei come un
cancro. Ogni cambio che passava con questo marchio sulla guancia le
rendeva sempre più difficile ignorare la gente che non poteva
semplicemente balzar via dalle catene attraverso le ombre come lei. Non
solo i gladiatii. L’intera Repubblica era un macchinario oliato dalla miseria
umana. Adesso che aveva aperto gli occhi su quel fatto, non poteva fingere
di non averlo visto. Non voleva.
Ma sapeva anche di non poterlo aggiustare. Non poteva nemmeno
aiutare gli altri membri del collegio senza condannare il suo piano al
fallimento. Aveva rischiato già fin troppo per essere qui. E non solo lei.
Mercurio. Anche Ashlinn. E tutto per il bene superiore, giusto? Non
riusciva semplicemente a dire quello? Che la Repubblica sarebbe stata un
posto migliore senza un tiranno sulla sedia del console?
Che tutti sarebbero stati meglio quando Julius Scaeva fosse morto?
Ma cosa sarebbe successo ai suoi fratelli e sorelle del collegio se in
qualche modo il suo piano avesse avuto successo? Due schiavi uccidono il
loro padrone e gli administratii giustiziano ogni schiavo della loro casa.
Cos’avrebbero fatto a quelli che lei avrebbe lasciato indietro a Crow’s Nest,
se avesse ucciso un cardinale e un fottuto console? Perfino se lei fosse
riuscita in quel miracolo, Sidonius, Bryn e Byern, Cantalame… sarebbero
stati tutti giustiziati.
Mia guardò la ragazza, che la fissava a sua volta con quei brillanti occhi
azzurri.
«È stato un cambio lungo, tutto qua» sospirò. «Hai una paglia?»
Ash sorrise, poi frugò nella camicia e tirò fuori la sua sottile custodia per
sigaretti d’argento. C’era sbalzato l’emblema della Familia Corvere: un
corvo in volo su due spade incrociate. Era stato un regalo di Mercurio,
l’illuminotte in cui Mia aveva compiuto quindici anni. Il metallo era caldo
per la pressione della pelle di Ashlinn.
Mia accese il sigaretto con un acciarino ed esalò grigio.
«Dove sono Eclissi e Messer Saputello?» chiese Ash.
«Eclissi sta sorvegliando la strada. Messer Cortese sta seguendo Domina
Leona. Domani ci sarà un grosso ricevimento al palazzo del governatore.
Leona sta tentando di ottenere un patrocinio, per mettere fine una volta per
tutte ai suoi problemi finanziari. Il governatore le ha chiesto di portarmi con
sé.»
«Ma certo» annuì Ash. «Avresti dovuto vederlo con i tuoi occhi. Il
dannato rigurgitante sembrava sul punto di divorare metà della folla, poi tu
lo hai apostrofato con una parolaccia e lui si è voltato verso di te come un
serpente. Incredibile.»
«Già» borbottò Mia. «Riesco a stento a crederci io stessa.»
Prese un’altra tirata del suo sigaretto e scosse il capo. Ash stava ancora
sorridendo e gli occhi azzurri scintillavano al ricordo della sua vittoria.
Allungò una mano per massaggiare la fronte corrugata di Mia, come per
cancellarne il cipiglio. Mia le spinse via la mano.
«Denti della Mannaia, cosa c’è che non va?» sospirò Ash in tono
esasperato. «Sei l’idolo della città. Hai vinto un alloro, ottenuto il favore
della tua domina e hai garantito il futuro del collegio. Tutto è andato come
avevi pianificato, e sei ancora accigliata come una tempesta estiva.»
Mia si morse il labbro. Era incerta se dire qualcosa oppure no. Guardò
Ashlinn e gli occhi scuri si accesero con minuscole fiammelle quando prese
una tirata dal sigaretto. Il vino nella pancia le aveva sciolto la lingua, ma la
sfiducia nelle sue vene le teneva la mascella serrata forte.
«’Bisso e sangue, Mia, cosa c’è?» chiese Ashlinn.
«Il rigurgitante» disse infine Mia.
«Cosa intendi?»
«… Nel deserto fuori dalla Montagna Silente, quando stavo dando la
caccia a te e Remus fino a Ultima Spes…» Espirò fumo, aspettando un
qualche tipo di reazione al sentir parlare del loro confronto dell’anno
precedente, ma Ashlinn stava solo ascoltando. «Un kraken delle sabbie
attaccò il carro dei Luminatii. Uccise gli uomini di Remus a decine.»
«Mi ricordo.»
Mia prese un respiro profondo e lo trattenne per un lungo momento
significativo.
«Sono stata io a provocarlo» espirò infine.
Ashlinn sbatté le palpebre. «Come?»
Mia scrollò le spalle. «Non ne ho idea. So solo che ogni volta che ho
chiamato le ombre nelle Frusciaride ashkahi, i kraken delle sabbie sono
arrivati, ed erano arrabbiati. E quel rigurgitante nell’arena ha reagito allo
stesso modo. Ho cercato di trattenerlo con la sua stessa ombra e per poco
non è impazzito.»
Mia scosse il capo e prese un altro tiro della sua paglia.
«Gli eruditi dicono che i kraken delle sabbie e altre bestie delle
desolazioni ashkahi furono corrotti dagli inquinanti magiki rimasti dalla
distruzione dell’impero.»
“La Corona della Luna.
“La caduta dell’impero ashkahi.
“Le mostruosità rimaste nella sua scia.”
«Mi domando… tutto questo potrebbe essere collegato?»
«Alla caduta dell’impero?» chiese Ashlinn. «I tenebris?»
Mia scrollò le spalle, e una frustrazione familiare crebbe dentro di lei.
Cassius non aveva appreso nulla su se stesso. Furian non voleva farlo.
Mercurio e Madre Drusilla le avevano detto che era una Prescelta della
Madre, ma cosa ’bisso voleva dire in realtà?
Nessuno che avesse incontrato le aveva mai fornito delle vere risposte.
Ma quella “cosa” nella necropoli di Galante… sembrava che ne sapesse di
più.
“LA TUA VERITÀ GIACE SEPOLTA NELLA TOMBA . EPPURE DIPINGI LE TUE
MANI DI ROSSO PER LORO, QUANDO DOVRESTI DIPINGERE I CIELI DI NERO .”
«Sono solo dannatamente stanca di non sapere cosa sono, Ashlinn.»
«Be’, questo è facile» dichiarò la ragazza, allungando una mano e
strizzando quella di Mia.
«Ah sì?»
«Sì» sorrise Ashlinn. «Tu sei coraggiosa. E intelligente. E bellissima.»
Mia recalcitrò, scuotendo il capo e guardando la parete.
«Dico sul serio» insistette Ashlinn, sporgendosi per baciare Mia sulla
guancia.
Lei si girò a fissarla, gli occhi scuri immersi in quell’azzurro arso dai
soli. Ashlinn era ancora lì e si stava avvicinando, lentamente. Il profumo di
lavanda era intrecciato sulla sua pelle, i capelli rossi le ricadevano attorno al
viso punteggiato di lentiggini e lo stomaco di Mia si eccitò quando si rese
conto che la ragazza stava per baciarla.
«Sei bellissima» sussurrò Ash.
E, chiudendo gli occhi, si sporse in avanti e…
«No» disse Mia.
Ashlinn si fermò, le labbra vicinissime a quelle di Mia. Spostò lo
sguardo dagli occhi alla sua bocca.
«Perché no?» mormorò.
«Perché non mi fido di te, Ashlinn» replicò Mia. «E non voglio che tu
pensi di potermi trascinare a letto solo per mettermi in tasca.»
Ashlinn si ritrasse, accovacciandosi, e guardò Mia con aria incredula.
«Pensi che io…»
«Che faresti qualunque cosa per ottenere quello che vuoi?» chiese Mia.
«Mentire? Imbrogliare? Fottere? Uccidere?»
Mia prese una lunga tirata della sua paglia e strinse gli occhi. Si sentiva
la lingua un po’ troppo spessa a causa del vino bevuto a cena, ma ora
l’avrebbe sciolta.
«Sì, Ash, è questo il problema» disse. «Credo di pensarlo.»
Ashlinn indietreggiò e scese dal letto come se Mia l’avesse
schiaffeggiata. Andò dall’altro lato della stanza, quanto più lontano le
consentiva quello spazio ristretto. Mise le mani sulle anche e fissò il muro.
Rimase in silenzio per un lungo momento e alla fine si voltò verso Mia con
un ringhio.
«Fottiti, Mia.»
Attraversò di nuovo la stanza a passi pesanti per mostrare le nocche
davanti alla faccia di Mia.
«Fottiti!»
«Levami quella mano dalla faccia, Ashlinn» la ammonì Mia.
«Dovrei sbatterti via di bocca quel sigaretto!» urlò lei.
Mia scosse il capo e prese un’altra tirata. «Hai mai notato come la gente
inizia a urlare quando non ha nulla che valga la pena dire?»
«Denti della Mannaia, hai una bella faccia tosta. Nel caso tu non l’abbia
notato, c’è una sola persona al mondo che ora sta dalla tua parte, e…»
«Mercurio è dalla mia parte, Ashlinn. Da molto prima di te.»
«Io non lo vedo qui in giro. E tu?» urlò Ashlinn. «Non lo vedo trascinare
il culo da Godsgrave a Whitekeep a Stormwatch. Non vedo lui che si
intrufola nelle arene e nasconde del mutavitrum nelle sabbie e ti avvisa
della mostruosità che farà sciogliere la carne dalle tue dannate ossa. Lui non
ha fatto nulla tranne provare a dissuaderti e io non ho fatto nulla tranne
aiutarti, cazzo!»
Mia scosse il capo e spense il sigaretto sulla parete. «Non perché tu odi il
Culto quanto me. Non perché tu hai parecchio da guadagnare da tutto
questo. Oh, no, la Madre non voglia. Perché tu tieni così tanto a me.»
«E questo ti terrorizza dannatamente, vero?»
Mia la derise. «Ho due demoni d’ombra che mangiano letteralmente la
mia paura, Ashlinn. Nulla mi terrorizza.»
«Messer Testadimerda e Lupacchiotta non sono nella stanza» sbottò Ash.
«Siamo solo tu e io, ora. E nonostante la tua spacconaggine, quel pensiero ti
lascia interdetta. A giudicare dal tuo alito, hai dovuto tracannare una
bottiglia di aureovino solo per raccogliere il coraggio per mandarli via. Ma
li hai mandati via. E sei troppo codarda per ammettere il perché.»
«Va’ a farti fottere, Ashlinn.»
«Pensavo che non l’avresti mai chiesto, Mia.»
Mia si tese, balzando giù dal letto con le mani chiuse a pugno. Ashlinn
tenne il punto, fissando Mia con la mascella serrata. Le loro facce erano
separate solo da pochi pollici e l’aria tra loro crepitava di una corrente
arkemica.
«Non fingere di non provarlo» disse Ash. «Perché è scritto su ogni tua
linea e curva. Tu puoi conoscermi, Mia Corvere, ma io conosco te
altrettanto bene. E so quello che vuoi.»
Mia strinse i denti. Non sapeva se voleva colpire la ragazza o…
Tra loro c’era un oceano di menzogne. Il tradimento di Ash. L’omicidio
di Tric. La certezza che la ragazza avrebbe fatto o detto qualunque cosa per
ottenere ciò che voleva. Ma c’era anche verità nelle sue parole. Di tutte le
persone che lei conosceva al mondo, l’unica che era qui ad aiutarla nel
momento del bisogno più buio era Ashlinn Järnheim.
Ashlinn Järnheim era fatta di menzogne.
Ashlinn Järnheim era veleno.
E Ashlinn Järnheim era bellissima.
Mia non poteva negarlo. Labbra morbide si schiusero nella luce fumosa.
Lunghi capelli rossi caddero attorno alle sue spalle a ondate. La sua pelle
era liscia, con un accenno di rabbia sulle guance che dava loro un colorito
roseo. Grandi occhi azzurri circondati da ciglia scure e arcuate, il cui
sguardo faceva pizzicare le dita di Mia e le faceva sobbalzare lo stomaco.
Con il vino che le canticchiava nelle vene, fissò quelle pozze di azzurro
riarso dai soli scorgendo il suo riflesso, nei suoi occhi la stessa cosa che
vedeva agitarsi in quelli di Ashlinn.
Desiderio.
“Desiderio.”
Ma…
… senza i suoi passeggeri accanto, Mia aveva paura.
Non di desiderare una ragazza, come forse sospettava Ash. Ne aveva già
avuta una, dopotutto. Anche se quella bellezza dorata nel letto di Aurelius
era stata semplicemente un mezzo per raggiungere un fine, Mia poteva
ammettere che sarebbe stata in grado di trovare un modo per baciare prima
il figlio del senatore. Avrebbe potuto eliminarlo un bel po’ di tempo prima
di sentire quelle labbra dorate tra le sue gambe, di assaggiare la ragazza
sulla lingua di Aurelius.
No, se Mia era spaventata, non era di desiderare una ragazza.
Era di desiderare questa ragazza.
Ashlinn Järnheim.
Ladra.
Bugiarda.
Assassina.
Traditrice.
«Come posso fidarmi di te?» chiese Mia. «Dopo tutto quello che hai
fatto?»
«Se ti volessi morta, Mia…»
«Non sto parlando di affidare la mia vita a te, Ashlinn.»
Mia guardò il petto ansante di Ashlinn e si immaginò il cuore lì sotto. Si
domandò se stesse palpitando veloce quanto il suo o se tutto questo fosse
semplicemente un mezzo per raggiungere uno scopo.
Ashlinn sollevò la mano, portandola alla faccia di Mia. Le sfiorò la pelle
con le dita, suscitando un’ondata vertiginosa di calore che non aveva nulla a
che fare con la soliluce o con il vino che aveva bevuto. Si avvicinò piano
piano e i suoi occhi si spostarono da quelli di Mia alle sue labbra. Il respiro
accelerò mentre si avvicinava. Adesso era solo a un pollice di distanza, solo
a un battito di cuore. E Mia guardò dall’altra parte della stanza e

Passò

nell’ombra

delle tende

scostandole e aprendo la finestra, con la testa che le girava per il vino, il


movimento nelle ombre e tutto quanto. Ash chiamò il suo nome, ma lei la
ignorò, arrampicandosi sul davanzale e poi giù per il muro, rapida come un
addio del mattino dopo.
Chiamando Eclissi al suo fianco, si trascinò l’oscurità attorno alle spalle
e sopra la testa, sgattaiolando nelle strade dell’illuminotte. Dalle finestre
delle taverne, dalle porte delle fumisterie risuonavano ancora i
festeggiamenti per la sua vittoria, riecheggiando nell’aria stessa. La paura
defluì da lei come veleno da una ferita quando Eclissi si raggomitolò dentro
la sua ombra, lasciandola fredda, dura e impavida.
Non poteva fidarsi di Ashlinn Järnheim. Quello era poco ma sicuro. Ma
il pensiero di torreggiare sopra i cadaveri degli uomini che avevano
distrutto ogni cosa che amava? La sensazione di acciaio freddo nella sua
mano, di sangue caldo sulla faccia, e la consapevolezza che tutto ciò per cui
aveva lavorato negli ultimi sette anni fosse finalmente alla sua portata?
Di quello si fidava.
Nient’altro aveva importanza.
Fece scorrere la mano lungo la guancia dove Ashlinn l’aveva toccata: la
pelle le formicolava ancora.
“Niente di niente.”

a. “La Tragedia di Pithia e Prospero” è una saga vergata dal famoso bardo Talia. Sebbene messa
all’indice dal Clero di Aa, resta una delle opere più antiche e celebri nella storia, precedente di
alcuni secoli al Regno di Itreya. L’opera si basa su un mito antico ed è ambientata all’epoca in cui
la Madre della Notte non era stata ancora esiliata dal cielo itreyano.
Segue le avventure di due amanti: Pithia, capitano della guardia, e Prospero, figlio del Re
Stregone, che vengono separati dal padre di Prospero quando apprende della loro relazione. Pithia
viene bandito agli angoli remoti della terra e, nella loro ricerca per tornare assieme, i due
sconfiggono eserciti, nazioni e infine il Re Stregone in persona per essere di nuovo uniti.
Purtroppo, quando un racconto ha la parola “tragedia” nel titolo, probabilmente è follia
aspettarsi un lieto fine: Pithia viene avvelenato nel confronto finale. Mentre muore tra le braccia
del suo amante, declama un discorso commovente sul potere immortale di speranza, fedeltà e
amore, considerato da molti come il miglior monologo mai scritto su cartapecora. Prospero, erede
della magika di suo padre, colloca il corpo del suo amante nei cieli come una costellazione e la
nomina come lui in suo onore.
Non c’è mai un occhio asciutto nel dannato teatro, gentili amici.
Nonostante la messa all’indice del Clero e la distruzione di molte copie nel rogo di libri della
Luce radiosa il 27PR, il monologo di Pithia viene ancora citato ai giorni d’oggi. Si vocifera che
alcune versioni complete dell’opera esistano in segreto, trascritte a memoria dagli attori che la
rappresentavano o celate ai puritani della Chiesa di Aa. Le copie sono rare, però, e sono diventate
quasi un mito tra i gruppi di teatro itreyani. Qualunque attore affermi di averne letta una è molto
probabilmente un coglione bugiardo.
Anche se, ora che ci penso, molti degli attori che ho incontrato sono comunque coglioni
bugiardi…
b. In effetti, l’ultimo vino che aveva bevuto lo era stato.
CAPITOLO 19
RESA

Convocarono Mia prima del dolce.


Domina Leona le aveva ordinato di attendere in una piccola anticamera,
nell’ala della servitù nel palazzo del governatore. Una guardia era assegnata
alla sua porta e le era stato dato un pasto semplice e del vino annacquato,
mentre gli ospiti nella sala del banchetto si godevano aperitivi di cuori di
quaglia ripieni innaffiati di burro al brandy, seguiti da una pietanza
principale di pescemiele arrosto e regichela brasato in aureovino.
Mia sapeva che Quintus Messala rivestiva il ruolo di governatore di
Stormwatch da sei anni: era stato nominato poco dopo la Ribellione degli
Incoronatori. Come amico d’infanzia del console Scaeva ed erede di una
delle dodici grandi familiae della Repubblica, la sua ricchezza e il suo
potere erano l’invidia di chiunque lo incontrasse, e pareva che Messala
vivesse per rinfocolare quel sentimento. Mia non riusciva a ricordare un
evento tanto sontuoso o una casa altrettanto opulenta. L’anticamera in cui si
trovava era decorata con elaborati bassorilievi di stucco, foglia d’oro e
lampadari di cristallo dweymeri. L’uomo che le aveva servito il suo pasto
era vestito con abiti che molti domini midollani avrebbero invidiato.
Era stata seduta nella stanza a rimuginare sul suo alterco con Ashlinn
finché Arkades non era venuto a prenderla. Era vestito con i suoi abiti
eleganti, falchi e leoni sul suo farsetto. Mia indossava l’armatura che aveva
portato il cambio prima, ma lucidata alla perfezione. Non le avevano ridato
il suo elmo, ma c’era stato poco che potesse farci. Le possibilità che un
servitore della Chiesa Rossa fosse al ricevimento erano basse, tuttavia
mentre camminava verso la sala dei banchetti, con l’executus davanti e due
guardie ai fianchi, Mia ebbe la sensazione di essere nuda come un verme
che si aggirava nella tana di un cane delle croste.
«Ferma» le disse Arkades, bloccandola presso la porta per la sala da
pranzo.
L’omone si girò a guardarla e sollevò un dito ammonitore.
«Non parlare a meno che non ti venga rivolta la parola. Ricorda che tutti
gli occhi sono puntati su di te. Forse non avrai mai visto nulla del genere
prima, ma le persone in questa stanza sono serpenti, ragazza. Uccidono con
un sussurro. Concedono fortune o distruggono reputazioni con una parola.
Se disonori il nome della tua Dominatii, giuro sul Semprevigile che te ne
farò pentire.»
“Madre Nera, il moccolo che regge per quella donna potrebbe illuminare
il verobuio…”
La verità era che Mia conosceva fin troppo bene le macchinazioni dei
midollani: aveva visto sua madre partecipare ai loro giochi di potere per
anni. Domina Corvere poteva ridurre gli uomini a gusci vuoti e le donne
alle lacrime quando ci si metteva. Ma Mia non aveva intenzione di lasciare
che Arkades lo sapesse. Si limitò a chinare il capo.
«Sì, executus.»
Soddisfatto, l’uomo aprì la porta della sala da pranzo e zoppicò dentro.
Mia attese, le mani serrate. Poteva udire musica di archi e voci provenienti
dall’interno.
«Bell’incontro, ieri» mormorò una delle guardie accanto a lei.
«Già» disse un altro. «Dannatamente spettacolare, ragazza.»
Mia annuì in segno di ringraziamento, lieta che la notizia della sua
vittoria si stesse ancora diffondendo. Se c’era stata qualche possibilità che
Leona la vendesse prima del venatus, adesso era morta come il rigurgitante.
La sua Dominatii avrebbe dovuto escogitare qualche altro modo per pagare
i suoi creditori, ma se stasera tutto fosse andato bene, quello non sarebbe
stato un problema. I ricchi midollani spesso si offrivano di patrocinare i loro
collegi preferiti, e con i Falconi di Remus che erano gli idoli della città,
Leona non avrebbe avuto difficoltà ad assicurarsi degli investimenti.
Il futuro del collegio era assicurato.
Tutto ciò che rimaneva era assicurare il suo posto al magni.
Mia udì il tintinnio di un anello su un calice di cristallo e le
conversazioni si interruppero. Una voce parlò con forza all’interno della
sala: un tono baritonale e vellutato che Mia ipotizzò dovesse appartenere al
governatore Messala.
«Stimati ospiti, onorati amici, vi ringrazio per aver fatto visita alla mia
umile dimora questa illuminotte. Io e la mia buona moglie siamo pieni di
sconfinato orgoglio nel vedervi qui così numerosi. Che il Semprevigile
possa vegliare su di voi e le Quattro Figlie vi concedano le loro
benedizioni.»
Messala attese che il cortese applauso scemasse prima di proseguire.
«Teniamo questo ricevimento ogni venatus, per ringraziare amici che
onorano la nostra città solo di rado, eppure lasciano il loro marchio
indelebile nei cuori e nelle menti dei nostri cittadini. Non è un’esagerazione
per me dichiarare il venatus di ieri il più sensazionale mai visto nella nostra
bella città, e ringrazio ogni sanguila qui presente che ha faticato per
renderlo tale!»
Messala fece una nuova pausa per ricevere gli applausi. Per i sanguila
era una rarità essere invitati nella casa di un governatore: i maestri del
sangue non potevano mai detenere lo stato di veri midollani. Ma Mia
riusciva a capire l’acume di Messala nell’organizzare tutto questo. I
sanguila erano popolari tra la gente comune, e l’amore della cittadinanza
aveva consentito a Julius Scaeva di farsi beffe di tutte le convenzioni e
occupare la sedia dei consoli per tre mandati. Aveva senso che Messala
corteggiasse gli uomini che godevano del favore della folla.
“Questo sì che è un vero serpente.”
«Ora» continuò Messala. «Ogni sanguila ha portato il suo campione
affinché possiamo ammirarlo. Ma per voi, cari amici, ho organizzato un
dono ancora più meraviglioso. Grazie alla generosità di Domina Leona del
Collegio Remus…» Mia udì un mormorio diffondersi tra gli ospiti «sono
lieto di presentarvi il vincitore dell’Ultimae di ieri, nonché uno dei migliori
guerrieri che abbia mai messo piede sulle sabbie… Corvo, il Salvatore di
Stormwatch!»
Le porte furono spalancate e Mia guardò tra un mare di facce incuriosite.
Erano presenti centinaia di persone: la crema della società, radunati in
graziosi capannelli o stesi su divani sparsi per la vasta stanza. La sala era di
marmo, affrescata, con alte finestre aperte per lasciare entrare la brezza
fresca dell’illuminotte. I piatti erano carichi di cibo, i calici traboccavano
vino e la ricchezza trasudava dalle pareti.
Mia riconobbe questo mondo. Ci era cresciuta, dopotutto. Figlia di una
familia midollana, allevata in un’opulenza proprio come questa. Così tanta
ricchezza racchiusa in così poche mani. Un regno di ciechi, costruito sulla
schiena dei feriti e degli spezzati.
E nessuno che vi fosse nato metteva mai in discussione nulla.
Il governatore Messala era in piedi al centro della stanza, un affascinante
Itreyano con occhi scuri e penetranti. I divani erano disposti attorno al suo e
gli ospiti erano seduti secondo il loro ceto. Mia vide Domina Leona a un
posto d’onore alla destra di Messala, con Arkades accanto a lei. Furian
torreggiava dietro, vestito con una corazza di ferro e bracciali e schinieri
con la forma di ali di falcone. Il campione stava praticamente ribollendo, e
fissava Mia con occhi colmi di odio.
Eppure quando lei guardava lui… quella fame…
Quel desiderio.
Mia notò altri sanguila in giro per la stanza, riconoscendo i loro simboli.
Un uomo robusto che indossava spada e scudo del Collegio Trajan. Un
uomo con una mano sola che poteva essere soltanto Phillipi, un ex gladiatii
che aveva avviato la propria stalla. E lì in mezzo a loro, Mia vide un uomo
sovrappeso che indossava una redingote ricamata con leoni dorati. Lo
riconobbe all’istante: l’uomo che si era offerto di comprarla per mille preti
d’argento ed era stato battuto per un’unica moneta.
“Leonides.”
Era ancora seduto vicino a Messala, notò Mia, anche se non aveva
schierato un combattente nell’Ultimae. Lei si interrogò di nuovo su quel
fatto e sulla rivelazione da parte di Leona che il governatore aveva favorito
per lungo tempo i Leoni di Leonides. Guardandosi attorno nella stanza,
chiunque altro avrebbe potuto vedere un semplice banchetto. Ma Mia vide
una ragnatela, con filamenti appiccicosi tessuti tra gli ospiti e vibrazioni che
pulsavano al centro della tela. E lì al centro c’era Domina Leona, con un
calice alle labbra, seduta allegramente alla destra del ragno.
Leonides stesso sembrava ordinario sotto molti aspetti. Forse troppo
affezionato a cibo e bevande, ma non certo un mostro. Sorseggiò il suo vino
e simulò uno sbadiglio, fingendo di non aver notato l’ingresso di Mia. Ma
lei vide come guardava: a quegli scintillanti occhi azzurri, gli stessi che
aveva donato a sua figlia, non sfuggiva nulla.
“Allora è così che i mostri peggiori riescono nei loro intenti” si rese
conto Mia.
“Assomigliando a tutti noi.”
Accanto a Leonides c’era il suo imponente executus calvo, Titus, la cui
larghezza delle braccia faceva tendere la sua camicia di seta. E dietro Titus,
Mia vide una figura sinistra alta almeno sette piedi, avvolta in un mantello
con un cappuccio tirato malgrado il caldo.
“… Il suo campione?”
«Buon Corvo.»
La voce del governatore riscosse Mia dalle sue fantasticherie.
«Vieni avanti» la chiamò. «Lascia che Stormwatch veda il suo
salvatore.»
Mia marciò nella stanza come ordinato, le guardie al passo accanto a lei.
Gli ospiti non furono così rozzi da applaudire la sua presenza: dopotutto
Mia era una proprietà, e le persone di un certo rango non applaudivano
quando un animale domestico eseguiva un trucchetto. Ma lei riuscì
comunque a percepire una corrente arkemica nell’aria: curiosità,
ammirazione, perfino desiderio. Solo un cambio fa, aveva avuto migliaia di
persone in piedi a urlare il suo nome. Si rese conto che ciò le dava un certo
potere di attrazione. La stessa specie di magnetismo che Arkades indossava
come un’armatura e che gli altri gladiatii nella stanza combattevano per
ottenere. Primordiale, forse. Impregnato di sangue.
Ma comunque potere.
«Io ti lodo, buon Corvo,» disse Messala «e ti porgo i ringraziamenti da
parte degli abitanti della nostra città. Non solo ci hai regalato uno spettacolo
come nessun altro, ma con abilità e coraggio, le vite di non pochi dei nostri
concittadini sono state salvate da una calamità.» Il governatore alzò il suo
calice, e a lui si unirono molti degli ospiti nella stanza. «Che Aa ti benedica
e ti preservi e Tsana guidi sempre la tua mano.»
Mia si inchinò. «Voi mi onorate, governatore.»
«Tu onori noi, come fa la tua Dominatii.» Il governatore si voltò con un
sorriso verso la donna alla sua destra e levò il calice a Leona. «I miei
ringraziamenti a voi, gentile domina, per averci concesso questa opportunità
di vedere da vicino colei che ci ha salvato.»
Leona inclinò la testa. «Sono la vostra umile servitrice, governatore.»
«È davvero magnifica, vero?» disse Messala ai propri ospiti, girando
attorno a Mia e ammirando la visuale da ogni angolazione. «La dea Tsana
incarnata. Una cosa è assistere dai palchi, ma vederla qui è diverso, vero?»
Leona sorrise. «Chi avrebbe pensato che una ragazza così bella potesse
essere così feroce?»
«Scommetto che potrebbe sconfiggere tre delle mie guardie qualunque.»
Il sorriso di Leona si allargò, crogiolandosi nell’adorazione. Scoccò
un’occhiata al veleno a suo padre, e Mia notò che la faccia di Leonides
avvampò di rabbia. Mia vide la domina riflettere per un istante, poi
guardare in direzione del suo executus, incurvando le labbra in un sorriso
subdolo.
«Forse voi e i vostri uomini desiderate una dimostrazione, governatore
Quintus?»
L’uomo inclinò il capo con aria giocosa. «Ce la concedereste, Mea
Domina?»
«Sarebbe un onore per me schierare il mio Corvo contro i vostri uomini
migliori» disse Leona. «Ex navium, naturalmente.» a
Messala sollevò un sopracciglio e spostò lo sguardo tra i suoi ospiti.
«Cosa dite voi, amici?»
Arkades si accigliò a quella proposta, evidentemente contrariato. A Mia
stessa non piaceva il pensiero di esibirsi per il divertimento della nobiltà:
era ancora piena di lividi per la battaglia del giorno prima contro il
rigurgitante. Ma i midollani erano affascinati dalla proposta della domina, e
far colpo con un semplice scontro pareva un modo sensato perché Leona si
assicurasse il patrocinio di cui aveva così tanto bisogno.
“Eppure…”
Mia guardò verso Leonides. Poi di nuovo verso Messala. Cercò di
scrollarsi di dosso la sensazione sbagliata che le strisciava sulla pelle.
Il governatore si voltò verso una delle sue guardie, un ammasso
corpulento con bicipiti spessi quanto il collo. «Varius, forse tu saresti tanto
gentile da assecondarci?»
L’omone annuì, prese un gladio dalla guardia accanto a lui e lo lanciò a
Mia. Afferrandolo al volo, lei guardò verso Domina Leona, che si limitò a
rivolgerle un cenno di incoraggiamento, mentre Furian – ovviamente
furibondo per essere stato messo in ombra – la osservava torvo sullo
sfondo. I servitori del governatore sgombrarono lo spazio al centro della
sala e Mia prese posto, la spada alzata, cercando di scacciare i timori. La
guardia estrasse la propria lama e si inchinò al governatore, poi fissò gli
occhi su Mia.
«Chiedo perdono, onorato governatore» giunse una voce. «Se posso
intervenire?»
Tutti gli occhi si voltarono sul sanguina Leonides, in piedi accanto al suo
divano e profuso in un inchino profondo.
«Buon Leonides?» chiese Messala.
«Gentile anfitrione, non intendo offendere il vostro uomo» disse
Leonides. «Ma se vogliamo vedere il Salvatore di Stormwatch dare il
meglio di sé, potrei suggerire che incroci l’acciaio con qualcuno addestrato
nelle arti della sabbia?» Leonides voltò occhi scintillanti su sua figlia. «A
meno che la sanguila di Corvo non la ritenga inadatta al compito?»
Leona fissò suo padre dall’altra parte della folla, il suo volto una
maschera di calma perfetta. Ma a Mia si erano rizzati i peli. Ora riusciva a
vedere la trappola. Con poche parole melliflue, Messala aveva indotto
Leona a mettere una spada in mano a Mia, e Leonides poteva costringere
sua figlia ad apparire come una codarda se la sfida fosse stata rifiutata. Mia
sapeva che quell’uomo non era tanto sciocco da proporre un incontro senza
qualche vantaggio.
Finalmente parve che la domina si rendesse conto in prima persona del
pericolo e i suoi occhi guizzarono verso il loro anfitrione, poi su suo padre,
restando muta un momento di troppo.
«Lei esita?» Leonides sorrise agli altri ospiti. «Comprensibile,
naturalmente. Il Collegio Remus ha al suo attivo solo tre allori, e questo
nostro Corvo è solo una bambina, sulle sabbie. Forse al salvatore occorre
qualche cambio per riposare le ali prima che sia di nuovo in forma per
combattere, no?»
Mia vide Arkades sussurrare all’orecchio della domina. Ma Leona
sollevò la mano, irritata, e l’uomo tacque. Lanciò un’altra occhiata nella
sala alle facce dei midollani lì riuniti, gente tra cui si sarebbe potuta sedere
come una pari se fosse stata ancora sposata con un tribuno. Erano mecenati
di cui ora aveva necessità per tenere a galla il proprio collegio. Mia riusciva
a vedere quel bisogno disperato di fare colpo impresso negli occhi di Leona.
Lo stesso desiderio che l’aveva indotta a fare la sua offerta ai Giardini senza
pensare, a spendere più di quanto potesse permettersi, a vestire ogni cambio
come se dovesse partecipare a un ricevimento. E mentre Mia aveva un tuffo
al cuore nel vederla lasciarsi provocare così facilmente e teneva un
avvertimento intrappolato dietro i denti, Leona inclinò la testa e sorrise.
«Pensavo solo di risparmiarti un imbarazzo, sanguila Leonides. Ma
accetto di buon grado la tua offerta. La mia bellezza sanguinosa affronterà
qualunque uomo della vostra stalla, acciaio contro acciaio.»
«Uomo? Oh, no, mia cara, mi fraintendi.» Leonides fece cenno verso la
figura ammantata e incappucciata che torreggiava accanto a lui. «Avevo
pensato di tenere la mia Ishkah a riposo fino al prossimo venatus, dato che
ho da poco ultimato il suo acquisto. Ma in onore del buon governatore
Messala, e combattendo ex navium, non vedo alcun rischio in una piccola
anteprima per stuzzicare gli appetiti ora.»
Si voltò verso la figura, parlando dolcemente.
«Sii gentile con lei, mia leonessa.»
Un mormorio eccitato si diffuse per la stanza quando la combattente di
Leonides venne avanti nello spazio appositamente sgombrato. Era una
sorpresa che nessuno si era aspettato: vedere dei campioni incrociare le
lame per il divertimento privato dei midollani. Gli ospiti mostrarono ampi
sorrisi, i denti macchiati di scuro per il vino e i cuori che acceleravano al
pensiero di vedere sangue. Mia sollevò la sua spada e la soliluce scintillò
sul bordo.
«Signore e gentili amici, onorati ospiti» disse Leonides con un ampio
gesto drammatico della mano. «Posso presentarvi l’ultima aggiunta al mio
branco. Un nemico più feroce della Madre Nera in persona, un terrore tra i
suoi simili, il cui stesso nome significa “morte” nella lingua del Dominio.
Ho impiegato anni per ottenere un trofeo come lei, ma in tutto il mio tempo
accanto alla sabbia, non ho mai visto nulla di simile. Ecco a voi il mio
prossimo campione, nonché vincitore del Venatus Magni… Ishkah,
l’Esule!»
Leonides abbassò la mano. E, mentre la folla emetteva un rantolo di
meraviglia, la sua sfidante rimosse la veste per rivelare la figura al di sotto.
«Quattro Figlie…» mormorò qualcuno.
«Onnipotente Aa…» sussurrò un altro.
“Denti della Mannaia…”
Mia deglutì e l’ombra si increspò ai suoi piedi.
“Una serica.”
Mia aveva letto degli abitanti del Dominio di seta nei libri di Mercurio
da bambina, ma non aveva mai pensato di vederne uno in carne e ossa.
Guardando la combattente di Leonides, Mia riuscì a vedere che era quasi
certamente femmina, le anche curve sotto il suo gonnellino di cuoio
borchiato, con sei braccia piegate sopra la curva sottile dei seni. Era alta
sette piedi, con la pelle chitinosa, di un verde così scuro da sembrare quasi
nero. Le sue labbra erano dipinte di bianco, con due grossi globi scialbi in
un volto liscio e ovale e sei occhi più piccoli sparpagliati lungo le guance
come lentiggini. Non aveva palpebre da sbattere. Dalle sue letture, Mia
ipotizzò che la serica fosse giovane, ma in realtà non aveva un vero modo
per capirlo. b
La serica allungò le mani dietro la schiena, estraendo sei lame
scintillanti, ciascuna lievemente ricurva e affilata come un rasoio, incise con
strani glifi. Mentre i midollani lì riuniti mormoravano dallo stupore, lei
mosse le armi in aria in una danza intricata e contorta, facendo fischiare
l’acciaio mentre fendeva l’aria. Terminata la dimostrazione, Ishkah allargò
le braccia come ventagli, le lame sospese e puntate dritte su Mia.
La ragazza lanciò un’occhiata a Leona, Arkades e Furian. Il volto della
domina era impassibile, ma i suoi occhi erano foschi di paura, accorgendosi
solo in quel momento di essere stata giocata. Eppure, con i midollani ormai
carichi di eccitazione, non osava fare la prima mossa per mettere termine
prematuramente allo scontro. Leonides guardò verso sua figlia e sorrise
come un gatto che avesse rubato la panna, il secchio e perfino la mungitrice.
“L’ha usata come uno strumento. Se perdo qui, la gente della città
potrebbe ancora cantare il mio nome. Ma le persone influenti e di potere…
canteranno solo dei Leoni di Leonides. E l’opportunità di patrocinio di
Leona andrà in fumo.”
Mia vide la trappola rivelata. Si soffermò un attimo ad ammirarne la
semplicità. Vide i fili della tela tra il governatore e Leonides, l’invito che
aveva portato qui Leona con la guardia abbassata. Ammorbidirla con un
calice di vino o due e un fiume di complimenti da parte di persone di rango
superiore al suo, plagiarla per trascinarla in uno scontro che non poteva
permettersi di perdere, eppure supponendo che lei non potesse sempre
vincere.
“La vedremo, bastardi…”
«… sei certa di questo…?» giunse un sussurro dai suoi capelli.
«E tu sei certo di poter chiudere il becco per i prossimi minuti per evitare
che mi faccia ammazzare?» borbottò lei.
«… ah… probabilmente no…»
«Esattamente.»
Per la verità, Mia non era mai stata meno certa di qualcosa in vita sua,
ma non aveva scelta: perdere qui avrebbe significato lasciare il collegio
ancora nei debiti fino al collo e mettere a rischio tutto il suo lavoro. E così
si voltò verso una delle guardie che aveva lodato la sua vittoria prima che
entrassero nella sala e lanciò un’occhiata alla lama che aveva alla cintura.
«Posso disturbarvi per un prestito, buon signore?»
La guardia estrasse la spada e gliela porse come richiesto. «Tsana ti
guidi, ragazza.»
Mia prese la lama con un cenno di ringraziamento. Fendendo l’aria con
le sue spade, e con Messer Cortese che faceva del suo meglio per stare zitto
per qualche minuto, Mia prese posto nell’anello dell’incontro, con gli occhi
fissi sulla serica.
«Questa contesa verrà combattuta ex navium» ricordò loro il governatore
Messala. «Una mano sollevata in segno di resa segnalerà la fine dello
scontro. Combattete con onore e per la gloria del vostro collegio. Aa vi
benedica e vi preservi, e Tsana guidi la vostra mano.»
La folla tacque, la musica si fermò: tutto ciò che Mia riusciva a udire era
il battito fragoroso del proprio cuore.
«Iniziate!» urlò Messala.
Rapidissima, Mia vibrò entrambe le lame, e l’acciaio trillò quando la
serica parò con quattro delle sue. Danzando in avanti, menò altri colpi a
testa e petto, ma la sua avversaria bloccò di nuovo con facilità. Stavolta
contrattaccando, la serica lanciò una gragnola di colpi verso Mia e l’aria
divenne una macchia indistinta e sussurrante. Mia venne spinta all’indietro,
cercando disperatamente di parare le lame in arrivo, finché non fu costretta
a superare il bordo del cerchio dell’incontro. I midollani attorno a lei si
fecero rapidamente da parte, gli occhi fissi sulle sue spade. Ma la serica non
la incalzò, tornando al centro dell’anello e rimanendo in attesa con le armi
disposte in un ventaglio scintillante.
Mia inclinò la testa e sentì il proprio collo scrocchiare. Si scostò i capelli
dagli occhi. Poi, avanzando verso la sua avversaria, lanciò un’altra salva.
Era sempre andata orgogliosa della sua abilità con una lama: si era
addestrata duramente sotto Mercurio e ancora di più nella Chiesa Rossa, la
sua naturale velocità combinata con la totale intrepidezza e una mira
prodigiosa. Ma perfino i suoi migliori nemici le avevano opposto al
massimo due lame… mai sei di quelle dannate cose. Ovunque Mia colpisse,
l’acciaio della serica era in attesa. Ovunque lei lasciasse un varco, Ishkah la
costringeva a indietreggiare. La serica aveva la stazza, l’allungo e la
velocità dalla sua parte. Peggio ancora, Mia sapeva che non si stava
impegnando al massimo. Proprio come l’aveva ammonita Arkades il primo
giorno in cui aveva messo piede sulla sabbia a Crow’s Nest, Ishkah stava
studiando le sue forme per prepararsi all’assalto finale.
E così, cercando di riequilibrare la bilancia (un combattimento di sei
lame contro due non può essere equo, rifletté), Mia si protese verso l’ombra
ai piedi della serica.
Nessuno nella stanza l’avrebbe notato: la tenebra tremolò solo di poco.
Ma quando la serica venne avanti per colpire, scoprì di avere gli stivali
fissati con forza alle piastrelle mosaicate ai suoi piedi, le lunghe ombre
proiettate dalla soliluce all’esterno. Un attimo di esitazione da parte della
sua avversaria fu sufficiente e Mia portò a segno un colpo, una sensazionale
serie di fendenti che superarono la guardia di Ishkah e aprirono un lungo
squarcio frastagliato sulla sua spalla, a poca distanza dalla gola. La folla
rimase senza fiato dallo stupore quando sangue verde come foglie di pioppo
sprizzò dalla ferita. Mia fece volare in aria una delle spade della serica, poi
assestò un colpo basso per sbalzare da terra la sua avversaria.
E allora, proprio come il primo cambio in cui aveva messo piede sulla
sabbia a Crow’s Nest
perse la presa sulle ombre
e la sua avversaria fece un passo di lato.
Il colpo di Mia andò largo e le lame della serica guizzarono, aprendo un
taglio poco profondo sulle nocche della ragazza e facendole volare via di
mano la spada. Mia cercò di contrattaccare con l’altra lama, ma si trovò di
fronte un muro d’acciaio: Ishkah colpì con un pugno vuoto, togliendo il
fiato dai polmoni della ragazza. Mia barcollò e la serica girò per andarsi a
mettere dietro di lei, dandole un colpo sulla nuca con il piatto della lama.
Campane di cattedrale risuonarono nel cranio di Mia e il mondo intero si
appannò quando le sue gambe furono sbalzate da terra e lei crollò priva di
sensi sul pavimento.
La serica torreggiò sopra di lei, le lame puntate per colpire.
«Arrenditi» pretese, con una voce come ali di cicala secche.
Mia si era ferita alla fronte sulle piastrelle, e la testa le rimbombava
ancora. Artigliando il terreno con le dita, sbatté le palpebre per togliersi il
sangue dagli occhi e aggredì la serica con i piedi, cercando di mandarla a
terra. Ishkah balzò di lato come una ballerina, poi premette le sue lame
contro la gola di Mia.
«Arrenditi» ripeté.
Mia guardò la faccia desolata di Leona. Poi quella di Arkades, che
scuoteva la testa dallo sdegno. E infine Furian. Fissandolo negli occhi scuri,
seppe con la stessa sicurezza con cui l’aveva saputo nel cambio in cui aveva
affrontato Arkades: il bastardo aveva strappato via la sua stretta sulle
ombre, permettendo alla serica di fuggire.
Snudò i denti.
La rabbia le ribolliva nel petto.
«Anche un cane sa quando è battuto» giunse una voce tra i sanguila.
«Forse il problema non sta nel cane,» replicò Leonides «ma nella sua
padrona?»
Le guance di Leona erano chiazzate di rabbia quando guardò suo padre,
poi venne avanti con i pugni serrati. Arkades sussurrò qualche parola che
Mia non riuscì a sentire e la donna rimase immobile, il volto arrossito e gli
occhi ardenti.
«Arrenditi» ordinò.
«… arrenditi, mia…»
Solo un cambio fa, lei si era ritrovata trionfante tra decine di migliaia di
persone, ognuna delle quali cantava il suo nome. E ora se ne stava stesa
prona come un cucciolo frustato, con i midollani attorno a lei che
sghignazzavano divertiti. Mia guardò verso Furian, con l’odio che le
ribolliva nel petto e i bordi della sua ombra che si increspavano. Poteva
percepire la tenebra dentro di lei, il nero, che voleva allungarsi verso
l’Imbattuto e farlo a pezzi un arto sanguinoso dopo l’altro. Ma con le lame
alla gola, il ricordo della sua familia, il pensiero che nessuno in questa
stanza potesse sapere cos’era lei davvero… tutto quanto la aiutò a ricacciare
indietro la rabbia e rimetterla nel petto a raffreddare. Non dimenticata, no.
Né perdonata. Mai.
Poi, lentamente, Mia sollevò una mano tremante e macchiata di sangue
verso il governatore.
«… Mi arrendo» sussurrò.
Soddisfatta, la serica rimosse le lame dalla gola di Mia, poi le rinfoderò
sulla schiena. Il governatore Messala guardò fra gli ospiti, il cui umore
adesso era mutato e si era tinto di rosso. La tensione era opprimente
nell’aria, non solo per il sangue che era stato versato nel cerchio, ma per
l’evidente inimicizia tra Domina Leona e suo padre. Se c’era qualcosa che
intratteneva i ricchi e gli indolenti più di uno spargimento di sangue, era
uno scandalo. Vederlo accadere davanti a loro era uno sport migliore di
qualunque venatus sotto i soli.
«Mi hai ingannato» disse Leona con voce tremante.
«Tu hai ingannato te stessa» la irrise suo padre. «Quando hai iniziato
quel collegio isolato. Ti avevo avvisato, Leona. Le sabbie non sono posto
per una donna, e il palco dei sanguila non è posto per te.»
Leona lanciò un’occhiata alla serica. «Non guardare ora, Padre, ma il tuo
campione sembra avere le tette.»
La folla ridacchiò quando Leona mise a segno il suo punto.
Imbaldanzita, lei continuò.
«Ma forse non intendi affatto schierarla sulla sabbia? Ho notato
l’assenza del tuo collegio ieri all’Ultimae, quando il mio stava rivendicando
il serto della vittoria. Invece è meglio svelarla come un pessimo mimo in
uno spettacolo di strada e ingannare me a porte chiuse per sottrarmi la mia
gloria?»
Il volto di Leonides si rabbuiò.
«Se ti ritieni imbrogliata,» dichiarò lui «lascia che siano Aa e Tsana a
decidere. Il prossimo venatus è a Whitekeep, cinque settimane da adesso. Io
schiererò la mia Ishkah contro il tuo Corvo. E dal momento che ne hai così
disperatamente bisogno, cara figlia, scommetterò una delle ammissioni al
magni contro il vincitore. Ma, stavolta, un combattimento alla morte…»
Leona guardò i midollani attorno a lei, poi aprì la bocca per pa…
«Temo che la competizione sia truccata» disse una voce. «E la folla
urlerebbe lo stesso.»
Tutti gli occhi si voltarono al ringhio. Arkades, il Leone Rosso di Itreya,
rimase al fianco della sua signora, guardando torvo il suo ex padrone. La
sua faccia era distorta in un cipiglio, la sua cicatrice tagliava un’ombra
profonda lungo le sue fattezze. Mia riuscì a vedere l’ostilità fredda negli
occhi dell’uomo, che guardava quello per cui un tempo aveva combattuto e
sanguinato.
«Vi lodo per la vostra scoperta, sanguila Leonides» proseguì l’executus,
lanciando un’occhiata alla serica. «Anch’io non ho mai visto un suo pari.
Non in tutti i miei anni sulla sabbia. Ma sei lame contro due? Che onore c’è
in una competizione del genere?»
Arkades guardò Mia ancora sdraiata a terra, poi Furian alle sue spalle.
«In particolare quando il migliore del nostro collegio non partecipa
all’incontro.»
Leonides rimirò il suo ex campione con un sorriso calcolatore.
«Un’obiezione lecita. Che non si dica che Leonides non conosce la
volontà della folla.» Guardandosi attorno verso i midollani lì riuniti, l’uomo
di spettacolo in lui venne fuori. «Portate i vostri tre migliori campioni a
Whitekeep, allora. Ishkah li affronterà tutti quanti. Sei lame contro sei.
Senza esclusione di colpi, nessuna resa. Un incontro indimenticabile, eh?»
Arkades scosse il capo. «Io vo…»
«Andata.»
I midollani guardarono verso Leona. La sanguila era ancora immobile
come pietra, lo sguardo fisso su suo padre. Mia poteva vederci odio, puro e
accecante. Lo conosceva bene. Il fuoco che portava con sé. Che ti teneva
caldo quando tutto il resto nel mondo era nero e freddo. Che ti manteneva in
movimento quando tutto il resto nel mondo sembrava semplicemente
trascinarti giù.
Si domandò cos’avesse fatto con esattezza Leonides per meritarselo.
«Andata» ripeté Leona. Si guardò attorno verso i midollani sorridenti,
con i denti macchiati di vino e gli occhi scintillanti. «Ci vediamo a
Whitekeep, padre.»
Leona uscì dalla stanza, seguita da presso da Furian. Arkades e Leonides
rimasero a fissarsi ancora per un po’, ex padrone ed ex campione, ora
acerrimi rivali. L’executus zoppicò da Mia, torreggiando sopra di lei in
attesa. La ragazza si rimise in piedi a fatica con un lieve gemito, il sangue
che le teneva chiuse le ciglia e la testa che le martellava per il dolore.
Barcollò dietro l’omone mentre lui usciva dalla stanza.
«Arkades» lo chiamò Leonides.
L’uomo si fermò, poi si voltò a guardare il sanguila sorridente.
«La prossima volta che parlerai con lei, ringrazia la tua Dominatii per
avermi risparmiato l’errore di acquistare il vostro piccolo Corvo. Se la tua
signora desidera recuperare parte delle sue perdite, ho una casa di piacere a
Whitekeep che è sempre in cerca di nuove passere.»
Leonides squadrò Mia con un sogghigno.
«Forse se la caverebbe meglio impugnando un diverso tipo di spada.»
Un mormorio divertito si sparse tra la folla. Arkades si voltò e zoppicò
via dalla stanza senza una parola. Mia lo seguì, il capo chino e i capelli
scuri che le pendevano attorno alla faccia macchiata di sangue. Sapeva che
era una follia, che non avrebbe dovuto lasciarsi irritare da questo pomposo
idiota. Che per vincere il magni avrebbe dovuto sconfiggere i combattenti
migliori di Leonides e vederlo comunque assaggiare la vergogna della
sconfitta. Eppure…
“Eppure…”
Strofinare la faccia di questo coglione nella sua stessa merda, ora, era
diventata una bruciante priorità.
“Adesso è una questione personale, bastardo.”

a. Gli incontri nel calendario che porta al Venatus Magni sono spesso combattuti ex mortium, o fino
alla morte. Poco altro soddisfa gli appetiti della folla, e comunque non è che si possa convincere
un kraken delle sabbie a saltare il suo pasto. Ma molti scontri tra gladiatii si combattono ex
navium, ovvero fino alla resa.
Anche se viene utilizzato comunque vero acciaio, un gladiatii ferito può appellarsi all’editorii
per far terminare l’incontro in qualunque momento sollevando un palmo in segno di supplica, e
non vengono inflitti colpi mortali a un nemico caduto al termine dello scontro. Ci sono comunque
ferite in abbondanza, ma i decessi accidentali sono rari negli scontri ex navium. Così i sanguila
possono saggiare la tempra delle stalle degli avversari e accrescere la reputazione dei loro collegi
evitando la seccatura e la spesa di perdere un combattente ogni volta che perdono uno scontro.
Nei tempi passati, astuti sanguila utilizzavano vesciche di sangue di pollo e lame finte per dare
l’impressione che i guerrieri fossero rimasti uccisi, perfino in incontri ufficiali del venatus. Ma un
sotterfugio del genere può durare solo fino a un certo punto: le folle avevano la tendenza a notare
quando i loro beniamini trucidati tornavano dalla tomba. Tali espedienti dozzinali furono banditi
dagli editorii nel 34PR e relegati ai mimi e ai teatri a cui appartengono. Se in questi cambi
qualcuno assiste a uno scontro mortale nel venatus, gentili amici, di una cosa potete star certi: i
morti restano dannatamente morti.
b. Nativi delle Montagne Spinadraco al confine con Vaan e Itreya, malgrado il loro nome piuttosto
grazioso gli aracnoidi serici sono una specie nota per essere… alquanto scontrosa. Il Dominio di
seta si estende per migliaia di miglia di rupi inospitali e la sua conquista da parte delle legioni
itreyane si rivelò straordinariamente costosa: fu solo dopo che venne schierato sul campo ogni
guerriero ambulante del Collegio di Ferro che la Regina della Covata dei serici fu costretta ad
arrendersi.
Anche se i serici hanno apparentemente giurato lealtà alla Repubblica itreyana, il loro seggio
nella Casa del Senato è rimasto vuoto da quando fu spiegato loro che solo i maschi possono
detenere il titolo di senatore itreyano (i serici maschi sono più piccoli delle loro controparti, e privi
di veleno). Gli stessi membri del senato sono lieti di lasciare in pace i serici, e la minaccia di
assegnare un ambasciatore itreyano presso il Dominio viene spesso usata come un bastone per
tenere in riga i membri più giovani e indisciplinati. Come regola generale, i serici non hanno nulla
a che spartire con la Repubblica o con la sua cittadinanza, se possono evitarlo.
Le femmine dei serici segnano le proprie guance con un sacrificio rituale per ogni covata che
hanno schiuso. Uccidono i loro compagni dopo il coito con allarmante regolarità. E se avete la
tentazione di chiedere come può la loro specie prosperare in tali circostanze, posso solo
assicurarvi che sì, le femmine possiedono la vagina e sì, i maschi hanno il pene.
Il resto dovrebbe spiegarsi da sé.
CAPITOLO 20
TRE

«Furian, sicuramente» disse Arkades.


«Questo è poco ma sicuro» replicò Leona. «È il nostro campione.»
«Ne siete certa, Mea Domina? Credevo che ve ne foste dimenticata.»
Leona unì i polpastrelli contro il mento e guardò torvo il suo executus.
«Io non dimentico nulla, Arkades. E perdono ancora meno.»
I due erano seduti in una piccola cabina a bordo della Mastino Glorioso,
con la nave che beccheggiava e cigolava ai marosi dell’oceano. Avevano
salpato il cambio dopo il banchetto a casa del governatore Messala e, a
quattro cambi di distanza da Crow’s Nest, Leona e Arkades stavano ancora
cercando di decidere chi avrebbe affrontato la serica. La magistrae sedeva
dietro la sua padrona, acconciando i capelli di Leona in trecce artistiche
mentre i due discutevano. E sotto la sua sedia, immerso nell’ombra, sedeva
un gatto che non era per niente un gatto.
«Potremmo rifiutare l’incontro» disse Arkades. «Giocare le nostre carte
nell’Ultimae.»
«Ci servono due allori tra adesso e la veraluce, executus» replicò Leona.
«E Whitekeep è l’ultimo venatus in calendario prima del magni.»
«I nostri equillai potrebbero vincerne uno. Bryn e Byern sono arrivati
secondi a poca…»
«Sì, e se perdono?» chiese Leona. «Perfino con la vittoria nell’Ultimae
dopo la loro competizione, ci mancherebbe un alloro. Scommettiamo due
volte rifiutando la sfida contro mio padre. Solo una se accettiamo. L’unico
modo in cui possiamo essere sicuri di combattere a Godsgrave è
sconfiggere quella fottuta serica.»
«Linguaggio, Dominatii» la ammonì la magistrae.
«Sì» sospirò Leona. «Le mie scuse.»
La fronte della donna più anziana si increspò pensierosa mentre tornava
a lavorare sui capelli di Leona. «Vi chiedo perdono, Dominatii, ma anche se
doveste vincere la contesa contro il campione di vostro padre, gli editorii
onoreranno la scommessa?»
«Esistono numerosi precedenti» replicò Arkades, giocherellando con il
manico del suo bastone da passeggio. «È normale che un collegio affermato
adeschi sanguila più inesperti a competere in scontri a senso unico con la
promessa di un posto nel magni.»
Leona gli indirizzò un’occhiataccia fulminante. «Be’, questo è stato
insolitamente diplomatico.»
«Vi sta raggirando, Mea Domina» replicò Arkades. «Il posto al magni è
l’esca, e quei giochi il cappio. Non contento di negarvi il patrocinio, vostro
padre vuole che mandiate i vostri tre migliori gladiatii a essere massacrati, e
assieme a loro il futuro di questo collegio.»
«Senza il magni, non abbiamo alcun futuro!» sbottò Leona. «Il nostro
Corvo è stato stracciato di fronte a ogni midollano di Stormwatch! Nessuno
che abbia un borsello ora ci toccherà!»
Il silenzio risuonò nella stanza, rotto solo dal cigolio del legno e
dall’incessante rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo. Messer
Cortese sbadigliò e si leccò la zampa.
«Furian, allora» sospirò Arkades.
«Sì» annuì Leona. «E accanto a lui il Corvo.»
L’executus si sporse in avanti, scuotendo il capo. «Mea Domina…»
«A meno che le prossime parole a lasciare la tua bocca non siano: “Ma
che splendida idea, Mea Domina, e a proposito, i vostri capelli hanno un
aspetto magnifico”, non ho intenzione di ascoltarle, Arkades.»
L’executus si grattò la barba, cercando invano di nascondere il suo
sorriso.
«Ah, sa ancora ridere» si pavoneggiò Leona. «Pensavo che ti fossi
dimenticato come si fa.»
«Con il dovuto rispe…»
«Lei è il Salvatore di Stormwatch» sospirò Leona.
«Quella serica le ha quasi fracassato il fottuto cranio!»
«Linguaggio!» lo rimproverò la magistrae.
Arkades borbottò delle scuse mentre Leona continuava.
«È stata sconfitta nel palazzo di Messala, sì, ma la gente comune non lo
sa. La cittadinanza si aspetterà di vederla impugnare l’acciaio sotto il nostro
stendardo. Quattro Figlie, Arkades, ha ammazzato un rigurgitante quasi da
sola. Tu stesso hai dichiarato che lo scontro con la serica era squilibrato.
Corvo ha vinto un alloro per questo collegio e ha onorato il mio nome di
fronte all’intera arena. Si merita un po’ di rispetto, non credi?»
L’omone rimase in silenzio per un momento e infine annuì malvolentieri.
«Non sa nemmeno sollevare uno scudo per difendersi. Ma il suo
Caravaggio era… passabile.»
«Che lode sperticata» sospirò la magistrae. «Ti prego, non lasciare che la
ragazza ti senta decantarla a questo modo, altrimenti potrebbe non riuscire a
far passare la testa dalla porta.»
Leona e Arkades si scambiarono un sorriso mentre la donna più anziana
iniziava una nuova treccia.
«Dunque» sospirò infine l’omone. «Furian e il Corvo. Chi sarà il nostro
terzo?»
Leona increspò la bocca, picchiettandosi il labbro.
«… Macellaio?»
«Non combatte bene assieme ad altri.»
«Alzaonda?»
«È una buona lama, ma temo che sia troppo attaccabrighe.»
«Se mi permettete un’opinione, Dominatii?» disse la magistrae.
«Oh, sì, ecco una novità» sospirò Arkades. «Consigli dalla balia. E da
chi cercheremo consiglio, dopo? Dal mozzo?»
Leona gli scoccò un’occhiata raggelante. «Parla, magistrae.»
L’anziana sollevò un sopracciglio ingrigito verso Arkades prima di
continuare. «D’accordo, non sono un’esperta. Ma la forza di Corvo sembra
risiedere nella sua velocità. Pare che abbiate bisogno di qualcuno per
colmare il divario tra il suo ritmo e la forza bruta di Furian.»
Leona e Arkades si scambiarono un’occhiata, poi parlarono all’unisono.
«Cantalame.»
Arkades si appoggiò contro lo schienale della sua sedia, fissando il
vuoto.
«Ha l’allungo che manca a Corvo, la velocità che serve a Furian.
Potrebbe funzionare.»
Leona si sporse in avanti e gli strinse la mano.
«Deve funzionare» replicò.
Arkades abbassò lo sguardo verso quella mano nella sua. La pelle della
donna era pallida, le dita delicate e affusolate, soffici come seta. La mano di
Arkades era abbronzata dai soli, crepata come cuoio vecchio, callosa per
aver impugnato spade e per la pressione della vita sulle sabbie.
Deglutì rumorosamente. Fece una pausa, come per raccogliere la
determinazione. Poi, avvolgendo la mano di Leona nella sua, si sporse
verso il basso e le stampò un bacio delicato sulle nocche.
«Funzionerà, Mea Domina» mormorò. «Ve lo giuro.»
Leona sbatté le palpebre, la mano intrappolata tra le labbra di Arkades,
incerta su dove guardare. La magistrae sembrava semplicemente atterrita.
Ma senza dare alla sua domina una possibilità di reagire, Arkades lasciò
andare la sua signora e si alzò, prese il bastone e zoppicò verso la porta. Si
fermò sulla soglia e si voltò verso Leona.
«I vostri capelli hanno un aspetto davvero magnifico, a proposito.»
L’executus voltò i tacchi e lasciò la stanza.

«No!»
La lama d’addestramento andò a sbattere contro il fianco di Mia,
facendola finire in ginocchio. Cantalame affondò con un urlo feroce, ma
Arkades stava già ruotando via, calando la sua seconda lama
sull’avambraccio della donna. Lei barcollò all’indietro contro Furian e una
risposta da parte di Arkades mandò entrambi lunghi distesi a terra.
I tre ansimavano nella polvere, zuppi di sudore fino alle ossa.
«Sentite, ma non ascoltate!» tuonò l’executus, zoppicando avanti e
indietro in mezzo a loro. «L’Esule è diversa da qualunque avversario
abbiate mai affrontato. Sei lame brandite con un unico scopo. Otto occhi
che seguono ogni vostro movimento. Io ne ho solo un paio di ciascuno e voi
non riuscite a sconfiggermi. Nel nome delle Quattro fottute Figlie, come
sperate di uscire vincitori contro di lei?»
Era tutto il cambio che si esercitavano, fin da quando erano tornati a
Crow’s Nest. Gli altri gladiatii si addestravano attorno a loro, ma in verità
tutti gli occhi erano puntati sui quattro all’interno del cerchio, osservando
Arkades sbaragliare i suoi avversari su e giù per la sabbia. I due soli erano
sospesi nel cielo in tutto il loro splendore, ardendo nel calore di caldestate,
oro bruciante e rosso sangue. E se uno guardava abbastanza attentamente,
poteva cogliere un accenno di blu più brillante all’orizzonte, che
annunciava il lento arrivo del terzo occhio di Aa.
La veraluce si stava avvicinando, e con essa il magni. E i Falconi del
Collegio Remus erano un po’ più vicini a quelle sabbie di quanto lo fossero
stati tre mesi fa.
«Alzatevi» sbraitò Arkades. «Voglio più determinazione, e colpite
coordinati.»
«Un compito difficile,» ringhiò Cantalame «quando due di noi attaccano
in contrasto tra loro.»
Mia si asciugò il sudore dalla fronte e guardò torvo Furian dall’altro lato.
L’Imbattuto la fissò a sua volta, gli occhi neri che scintillavano come
ossidiana. Si trascinò in piedi e offrì la mano a Cantalame, aiutandola ad
alzarsi dalla polvere. Ignorando completamente Mia, raccolse spada e scudo
e si mise in posa da combattimento.
Mia si alzò, le lame da addestramento in mano.
«Attaccate!» tuonò l’executus.
Senza aspettare gli altri, Furian lanciò il suo assalto su Arkades,
percuotendolo per farlo indietreggiare sulle sabbie. Durante le esercitazioni,
l’executus aveva sempre mantenuto terreno, insegnando a quelli che si
allenavano con lui le loro debolezze senza punirli. Ma nel corso degli ultimi
cambi, Mia iniziò a capire quanto l’ex campione si fosse trattenuto. Arkades
era un dio sulla sabbia: perfino senza una gamba, si muoveva come acqua,
colpiva come tuono e rimaneva saldo come una montagna. I suoi colpi
lasciavano l’aria contusa dietro di essi, la sua guardia non conosceva difetti
e puniva ogni errore con un colpo che andava vicino a spaccare le ossa.
Respingendo l’attacco di Furian, Arkades fece finire il campione con il
sedere a terra e si voltò verso Cantalame e Mia. Le due si muovevano bene
assieme, con Mia che ondeggiava sotto i colpi della donna più alta e mirava
alla pancia e alle gambe di Arkades. Mise a segno un colpo di striscio al suo
stomaco, ma mentre ruotava per evitare la risposta del Leone Rosso, andò a
sbattere contro Furian in piena carica, che si era rialzato in piedi e si era
gettato di nuovo nella mischia.
«Guarda dove caz…»
Una lama di legno impattò contro la tempia di Mia, sbalzandola da terra.
Arkades disarmò Cantalame e si inserì nella guardia di Furian, facendolo
cadere con una gomitata alla mascella. Rotolando sulla sabbia per
raccogliere le sue armi e con le salciocche che si agitavano, Cantalame
imprecò mentre Arkades scagliava entrambe le sue armi e la colpiva alla
gola e sopra il cuore.
Rimase lì a mani vuote, con il petto ansante mentre guardava torvo il
terzetto sconfitto.
«Pietosi» sbraitò.
«Quella stupida cagna si è messa in mezzo» ringhiò Furian.
«Oh, Furian» sospirò Mia, scoccandogli un’occhiata raggelante. «Se ho
imparato qualcosa nella vita, è fregarmene quando un cane mi definisce una
cagna.»
«E io sarei un cane?» Furian si alzò dalla polvere e Mia si rimise in piedi
altrettanto rapidamente.
«Ora basta!» tuonò Arkades.
I due rimasero immobili, fissandosi negli occhi e pronti a colpire. Mia
riusciva a percepire la propria ombra premere alle estremità, come acqua
dietro una diga. Se non l’avesse tenuta a bada, sapeva che senza dubbio si
sarebbe allungata sulla sabbia verso quella di Furian, le mani distorte in
artigli. Digrignò i denti e si sforzò di mantenere la calma, sbattendo le
palpebre per togliersi il sudore dagli occhi. Se avesse perso il controllo qui,
se qualcuno avesse scoperto ciò che era…
«Basta con i duelli simulati per questo cambio» dichiarò l’executus.
«Corvo, Cantalame, andate a esercitarvi con i fantocci. Dovete colpire più
forte se volete rompere la guardia della serica. Furian, tu esercitati sui
movimenti. Ti servirà sapere dove mettere i piedi per sconfiggere questo
nemico.»
Mia e Furian si guardarono torvo, senza muovere un muscolo.
«Andate!» ruggì Arkades.
Cantalame raccolse le sue spade cadute e attraversò il cortile, poi
cominciò a percuotere con foga i fantocci da addestramento. Mia la seguì
più lentamente, gli occhi stretti ancora puntati su Furian, sentendo un odio
freddo bruciare assieme alla nausea e alla fame che avvertiva nello stomaco
ogni volta che lui era vicino.
“Fottuto idiota testardo…”
Prendendo posizione accanto a Cantalame, Mia immaginò la testa di
Furian in cima al fantoccio e cominciò a colpirlo senza alcuna pietà. Il
sudore le inzuppava la pelle e le ciocche le pendevano davanti agli occhi
mentre sbatteva la lama contro addome, petto e faccia di quel mangiamerda.
«Mi farete ammazzare» borbottò Cantalame, scuotendo il capo.
«È Furian che semina zizzania, non io.»
«Siete entrambi» replicò la donna. «Non so perché non troviate un
bell’angolo buio dove scopare e farla finita.»
Mia la sbeffeggiò. «Preferirei che Macellaio infilasse il suo uccello
dentro di me.»
«Allora cosa c’è fra voi?» Cantalame fece una pausa per raccogliere le
sue lunghissime salciocche. «Le vostre lingue sputano veleno ma i vostri
occhi non si allontanano mai troppo gli uni dagli altri.»
Mia sapeva che la donna diceva il vero. Lei avrebbe vinto contro quella
serica se non fosse stato per l’interferenza di Furian. Invece aveva subito
una sconfitta pubblica, e Leona aveva perso ogni possibilità di patrocinio
tra i midollani di Stormwatch. Eppure…
Non poteva negarlo. Malgrado l’intrico dei suoi sentimenti per Ashlinn,
lei era attratta da Furian. E anche se l’Imbattuto era sicuramente
affascinante, si trattava di qualcosa che andava oltre il desiderio. Qualcosa
di profondo. La stessa sensazione che aveva provato quando lord Cassius
era nei paraggi. Qualcosa che andava oltre la lussuria ed era più simile a…
bramare. Come un mutilato per l’arto mancante. Come un rompicapo che
cercava un suo stesso pezzo.
“Ma perché?”
Cleo ne aveva parlato nel suo diario. Aveva viaggiato in lungo e in largo,
attirata verso gli altri tenebris come un ragno da una mosca, e poi…
… poi li mangiava.
Ma cosa ’bisso voleva dire?
“I molti erano uno. E lo saranno ancora; una sotto i tre, per elevare le
quattro, liberare la prima, accecare il secondo e il terzo.
“O madre, madre nera, cosa sono diventata?”
Mia scosse il capo e sputò nella polvere.
«Non ho un fottuto indizio» disse.
«Be’, farai meglio a pensarci su e a escogitare una soluzione» la ammonì
Cantalame. «Perché se ci presentiamo a una contesa in cui c’è in ballo la
vita come siamo ora, tutti e tre saremo seduti presso il Focolare prima della
veraluce, piccolo Corvo.»
La donna cominciò a percuotere di nuovo il fantoccio impagliato, gli
occhi stretti. Mia fissò Furian dall’altra parte del cortile, la pancia
aggrovigliata in nodi carichi d’odio.
«Non c’è modo di ragionare con lui. Ci ho già provato. È uno sciocco
ignorante.»
Crac! fece la spada di Cantalame contro il suo bersaglio.
«Furian è molte cose» grugnì lei. «Testardo, forse. Arrogante,
decisamente. Ma non uno sciocco.»
«Cazzate.» Mia colpì il collo del suo uomo di legno. «Hai mai provato a
parlargli?»
«Oh, sì» annuì Cantalame. «È come sbattere la testa contro un muro di
pietra. Onore.» Crac! «Disciplina.» Crac! «Fede. Questi sono i principi che
lo definiscono. Ma soprattutto, l’Imbattuto è un campione e tu sei una
minaccia per quello.» La donna scrollò le spalle. «Il più grande divario tra
le persone è sempre l’orgoglio, piccolo Corvo.»
Mia sospirò e lanciò un’occhiata a Furian.
«Queste parole assomigliano sospettosamente a saggezza.»
Crac! fece la spada di Cantalame contro il suo bersaglio.
«Non sono mie» grugnì. «Vengono dal Libro dei Ciechi.»
Mia infilzò il petto del suo fantoccio. «Non è quella vecchia scrittura
liisiana?»
«Già» annuì Cantalame. «La conosco a memoria. Dovevamo leggere
testi sacri da tutta la Repubblica.» Crac! Crac! «La suffi di Farrow voleva
che avessimo una prospettiva globale prima di essere iniziati all’ordine.
Conosci il mondo, conosci te stesso.»
Mia inclinò il capo e guardò di sottecchi la sua compagna. Ora aveva
senso. I tatuaggi su tutto il corpo. Il canto che ogni tanto sentiva da sotto la
porta di Cantalame.
«… Eri una sacerdotessa?»
«Solo una novizia.» Crac! «Non ho mai preso i voti finali.»
«Allora cosa ’bisso…» Crac! Crac! «… ci fai qui?»
Cantalame fece spallucce. «Un’incursione di pirati. Una rapida vendita.
Una storia comune.»
Mia scosse il capo, nauseata. «Troppo comune, cazzo.»
«La suffi l’ha nominata così…» Crac! «… quando sono nata.»
Mia si piegò in due, le mani sulle ginocchia mentre ansimava.
“Madre Nera, questo calore…”
«Nominata così?»
Cantalame smise di picchiare l’uomo di legno e si asciugò il sudore dalla
fronte. «Sai come i Dweymeri ottengono il loro nome, piccolo Corvo?»
Mia annuì, ricordando quello che le aveva raccontato Tric nella
Montagna Silente.
«Venite portati a Farrow da piccoli» rispose. «Al tempio di Trelene. La
suffi vi tiene sopra l’oceano e chiede alla Madre quale sentiero vi aspetta, e
vi dà un nome corrispondente.»
«Cantalame, mi ha chiamato» disse la donna. «Non Cantainni. Non
Cantapreghiere. Cantalame. E che io sia dannata» disse lei, puntando la
spada da addestramento verso la faccia di Mia «se l’ultima volta che le mie
lame canteranno sarà perché tu e Furian non riuscite a mettervi d’accordo
sul colore della merda. Fottilo. Accoltellalo. Accoltellalo mentre lo fotti,
non me ne frega niente. Ma risolvi la situazione prima di farci uccidere
tutti.»
Mia spostò lo sguardo verso Furian, che si stava esercitando sulla
velocità in un angolo del cortile. Mentre Mia lo fissava, lui alzò gli occhi,
incontrando i suoi con quell’ardente sguardo nero.
“Il più grande divario tra le persone è sempre l’orgoglio.”
«Voi due!» tuonò Arkades. «Tornate al lavoro!»
Mia sospirò. Ma, come sempre, obbedì.

«Sospettavo che ti avrei visto, strega» disse Furian.


Mia guardò su e giù per il corridoio, giusto per essere sicura. Messer
Cortese stava seguendo la pattuglia delle guardie: non c’erano possibilità
che la beccassero. Ma senza il suo passeggero, la pancia di Mia era un
groviglio di fame e trepidazione, reso ancora peggiore dalla presenza
dell’uomo che era venuta a incontrare. Infilò la forchetta rubata che usava
come grimaldello nel perizoma e rimase in attesa sulla soglia della camera
dell’Imbattuto.
Aspettando
Aspe
ttando
«Posso entrare o no, cazzo?» ringhiò infine Mia.
«Se ti compiace» disse Furian con un’occhiata aspra. «Ma se il fiato
fosse mio, non mi disturberei a sprecarlo.»
Mia si accigliò ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Guardandosi
attorno nella stanza, vide che nulla era cambiato rispetto alla sua visita
precedente: il sacrario a Tsana, la rozza Trinità di Aa disegnata alla parete,
l’incenso che bruciava.
Almeno stavolta Furian era vestito, anche se dentro queste mura non
aveva molta importanza. Era a torso nudo, i muscoli guizzanti, la pelle
abbronzata per essersi esercitato sotto i soli. Era un dio dorato, appena
uscito dalla forgia. Ed era un insopportabile coglione, sputato dalle
profondità dell’Abisso.
Lei lo odiava. Lei lo voleva. Nessuna ed entrambe le cose allo stesso
tempo.
Mia guardò verso la propria ombra e la vide muoversi come fumo sulla
parete, allungandosi con mani traslucide verso quella di Furian. L’ombra
dell’Imbattuto reagì tremando, ma con uno sforzo evidente lui la tenne sotto
controllo, fissando Mia con quegli occhi neri senza fondo.
«Trattieniti» ringhiò lui.
Mia serrò la mascella e tenne a bada la propria ombra. Quella si ritirò
con riluttanza, i capelli che ondeggiavano quasi fossero mossi da una lieve
brezza e la mano protesa nell’addio di un amante. Allora pensò ad Ashlinn.
Una fitta di rimorso momentaneo e inspiegabile. Desiderare due persone e
non desiderarne nessuna, niente promesse fatte. Ma rispetto a Furian, una
traditrice, con labbra che sapevano di miele e la lingua velenosa, sembrava
una proposta decisamente più semplice…
«Cosa vuoi, strega?» chiese l’Imbattuto.
«Non sono una strega più di quanto lo sia tu, Furian.»
«Non voglio avere nulla a che fare con le tenebre» sbraitò lui. «Io non
passo tra le ombre e non sgattaiolo in giro per la casa della nostra Dominatii
come un ladro.»
«No, tu minacci solo di fargliela cadere addosso, stupido stronzo.»
«Come osi…?»
«Oh, io oso» replicò Mia. «Questa è la differenza tra me e molti altri.»
«Io combatto per la gloria di questo collegio. La gloria della nostra
Dominatii.»
«Sei costato alla nostra Dominatii il suo patrocinio a Stormwatch!»
sibilò Mia. «Tutto quello che dovevi fare era tenere l’uccello nel perizoma e
lasciare che sconfiggessi la serica, e Leona sarebbe stata ricoperta d’oro
fino alle tette.»
«Hai usato le tenebre nel tuo scontro contro l’Esule» disse Furian
incrociando le braccia. «Se ti avessi permesso di vincere al palazzo di
Messala con la tua stregoneria, avresti segnato una macchia nel cuore di
questo posto. Preferirei morire di fame piuttosto che mangiare cibo
comprato con denaro disonesto, e morire prima di vincere un alloro
immeritato.»
«Immeritato?» Mia era incredula. «Fottiti, coglione arrogante. Quanti
rigurgitanti hai ucciso di recente?»
«Una vittoria senza onore non è una vittoria» replicò lui. «Non ti
permetterò di ottenere altri falsi riconoscimenti per questo collegio con la
tua stregoneria.»
«Così usi la stessa stregoneria per rompermi le palle?» Mia si trattenne
dall’alzare la voce e cercò di tenere a bada la sua collera. «Tu hai chiamato
la tenebra quando mi hai impedito di sconfiggere la serica. Non ti sembra
quantomeno ipocrita?»
Furian avanzò verso di lei, i pugni serrati.
«Esci di qui, Corvo.»
La sua ombra si ingrossò, scivolando lungo il muro verso quella di Mia,
che si sollevò a incontrarla, torcendosi e impennandosi come un serpente, le
mani distorte in artigli. Mia poteva giurare che la stanza fosse diventata
gelida, tanto da farle rizzare i peli sulla nuca, con la fame che divampava
nella pancia e minacciava di inghiottirla intera…
«No.»
Lei chiuse gli occhi e scosse il capo. Costrinse la tenebra a rientrare
dentro di lei. Non stava andando come aveva progettato. Avrebbe dovuto
tenere sotto controllo la propria collera, usare tutto il buonsenso di cui era
capace. Non sapeva cosa le stesse causando la presenza di Furian, perché la
rendesse così desiderosa di violenza, quale significato avesse tutto ciò.
Quello che sapeva era…
«Dobbiamo arrivare a un accordo» disse aprendo gli occhi e protendendo
i palmi in una supplica. «Furian, ascoltami, se combattiamo assieme sulle
sabbie come siamo ora, tu, Cantalame e io verremo massacrati. E secondo
te questo come sarà utile alla nostra Dominatii?»
«Tu puoi ritenerti debole senza la stregoneria ad aiutarti, ragazza» disse
l’uomo battendosi il petto. «Ma io sono l’Imbattuto. Ho combattuto per
quasi un’ora sotto i soli ardenti a Talia, ho ucciso due dozzine di uomini per
vincere il mio all…»
«Ishkah non è un fottuto uomo! L’hai vista combattere al palazzo di
Messala. Con due lame nelle mani metterebbe a dura prova chiunque di noi.
Con sei? Combattendo alla morte? Ci taglierà a pezzi sanguinolenti.»
«Come fai a vivere con te stessa?» L’Imbattuto scosse il capo. «Nessuna
fede nel Padre o nelle sue Figlie, nessuna fede in te stessa? Solo ombre,
tenebre e inganno.»
«Non commettere l’errore di pensare di conoscermi, Furian.» Mia lanciò
un’occhiata all’ombra tremante dell’uomo e scosse il capo. «Non conosci
nemmeno te stesso.»
«Fuori.»
«Aspetti un’altra ospite, vero?» Mia lanciò un’occhiata verso il suo letto.
Furian sgranò gli occhi a quelle parole, e il suo volto si offuscò per la
rabbia. Alzò la mano per spintonarla all’indietro e Mia si mosse,
sbattendogliela via e bloccandogli il braccio. Lui le afferrò il polso e la
spinse all’indietro contro la porta, entrambi che ringhiavano e imprecavano
mentre lottavano. Da questa distanza ravvicinata, Mia poteva fiutarne il
sudore recente, sentire il calore di quella pelle premuta contro la sua, rabbia,
lussuria e fame intrecciate. Attraverso il perizoma poteva avvertire il calore
del membro che si andava indurendo contro la sua anca. Voleva baciarlo,
morderlo, tenerlo fermo, strozzarlo, fotterlo, ucciderlo, mostrando i denti in
un ringhio, il cuore che le martellava nel petto, le labbra di Furian solo a un
pollice da…
«Pietoso Aa…» mormorò Furian.
Lei seguì il suo sguardo fino alle ombre sul muro e le si mozzò il fiato in
gola. Le ombre erano aggrovigliate come serpenti, dimenandosi,
contorcendosi e arricciandosi come fumo. Avevano perso completamente le
loro forme, due frammenti amorfi di oscurità, ciascuna intrecciata nell’altra.
Mia si rese conto che erano scure il doppio del normale, proprio come
quando Messer Cortese o Eclissi viaggiavano con lei. La stanza era
decisamente più fredda, le formicolava la pelle accapponata e il desiderio la
faceva tremare.
Furian la spinse indietro e si allontanò, l’orrore dipinto sul volto. Le loro
ombre continuarono ad annodarsi e l’uomo sollevò tre dita, il segno di
protezione di Aa contro il male. Come ciocche di capelli intrecciati, le
ombre si staccarono lentamente, riassumendo le loro forme umane.
Rimasero aggrappate l’una all’altra, braccia, poi mani, poi polpastrelli, e
l’ombra di Furian tornò al suo posto con uno schiocco quando lui si
allontanò ancora di più. Quella di Mia rifluì e pulsò sul muro, come
l’oceano che si ingrossa.
«Cosa siamo?» mormorò lei.
Il petto di Furian si alzava e abbassava, i suoi lunghi capelli scuri si
muovevano come per volontà propria. Lui li afferrò e li legò in un nodo
dietro la testa, ringhiando.
«Non siamo nulla, tu e io.»
«Siamo la stessa cosa. Questo è ciò che siamo, Furian.»
«Quello» sbraitò lui, indicando la Trinità alla parete «è ciò che sono io.
Un fedele figlio di Aa timorato di dio. Immerso nella sua luce e istruito
dalle sue scritture. Quello» disse, indicando le spade di legno «è ciò che
sono. Gladiatii. Impavido. Imbattuto. E tale rimarrò, anche se mille serici si
frapporranno tra me e il magni.»
«Perciò il magni è tutto ciò che conta? Se la libertà è così importante per
t…»
«Qui non si tratta di libertà» sbraitò lui. «E questa è un’altra differenza
fra te e me. Essere gladiatii è una maschera che tu indossi. Per me la sabbia,
la folla, la gloria… sono il motivo per cui mi sveglio. Il motivo per cui
respiro.»
Furian attraversò la stanza per ascoltare brevemente contro la porta, poi
la aprì. Guardò torvo Mia, all’apparenza riluttante a toccarla di nuovo.
«Esci di qui, Corvo.»
Lei non l’aveva convinto. Nemmeno un po’. Il suo stupido orgoglio. Il
suo ottuso senso dell’onore. La sua paura di chi e cosa era. Lei non lo
capiva affatto. E anche se erano entrambi tenebris, in verità Mia si rese
conto che erano persone completamente diverse. Che qualunque affinità
potessero conoscere nelle ombre, in questo luogo, in questa vita, in questa
carne erano simili come veraluce e verobuio.
“Se non riesci a vedere le tue catene, a che serve una chiave?”
E così, con un sospiro, varcò la soglia della camera e uscì in corridoio.
«Cosa ti ha reso così?» domandò piano. «Cos’eri prima di questo?»
«Esattamente quello che sarai tu quando il magni sarà concluso,
ragazza.»
Furian le chiuse la porta in faccia con un affondo finale.
«Nulla.»
CAPITOLO 21
FAVORE

«Bene, bene» disse Sidonius. «Guarda cos’ha portato dentro l’umbragatto.»


Mia si accovacciò sul pavimento della cella, ancora in preda alle
vertigini per il suo Passo. Nella caserma l’oscurità era quasi assoluta, il
silenzio rotto solo dal lieve russare e dai mormorii irregolari dei gladiatii
attorno a loro. Sidonius era sdraiato su un fianco sopra la paglia, gli occhi
appena socchiusi. Messer Cortese aveva avvisato Mia che l’uomo era
sveglio, ma lui conosceva comunque il suo segreto. Be’, parte dei suoi
segreti…
Non aveva senso nascondere quello che sapeva già.
«Mi hai sgraffignato un po’ di cibo o cosa?» domandò Sid.
Mia sorrise e lanciò all’uomo un pezzo di formaggio che aveva rubato
dalla cucina. Lui sorrise, ne strappò un morso e parlò mentre masticava.
«Sei più furtiva di una scoreggia in chiesa.»
«Stavi aspettando me? Terribilmente dolce da parte tua.»
«No, in effetti vorrei che sapessi che hai interrotto un sogno stupendo
che comprendeva me, la magistrae, un frustino e un letto imbottito di
piume.»
«La magistrae?» Mia sollevò un sopracciglio.
«Ho un debole per le donne più vecchie, piccolo Corvo.»
«Tu hai un debole per qualunque cosa abbia due tette, un buco e un
cuore che batte, Sid.»
«Ah! Mi conosci bene.» L’omone sogghignò, sollevando il suo
formaggio come un brindisi. «Ma, Quattro Figlie, mi piace il tuo stile.»
«Un peccato che Furian non possa dire lo stesso.»
«Ah, ecco dov’eri. Quant’è dotato? Un uomo che se ne va in giro così
tronfio di solito deve compensare la nocciolina che ha nelle brache.»
Mia ricordò la sensazione del pene di Furian contro il fianco e premette
assieme le cosce per accentuare quella brama. Si sentiva irritabile dopo il
suo recentissimo incontro con l’Imbattuto. Irrequieta e straripante. Cercò di
ignorare tutto quanto e di pensare con chiarezza.
«Non volevo portarlo a letto, Sid» disse accigliata. «Stavo cercando di
convincerlo a non farmi finire ammazzata.»
«Be’, parlando come un ex giramondo, saresti sorpresa di quanto un
rapido lavoro di polso può fare per aggiustare relazioni tese tra estranei.»
Mia diede un calcio alla paglia verso il suo compagno di cella e non
riuscì a fare a meno di sorridere. «Sei un porco.»
«Come ho detto, mi conosci bene, piccolo Corvo.»
«Se Furian e io non impariamo a combattere assieme, la serica userà i
miei intestini per farne delle salsicce.»
«È così temibile?»
«Non ho paura di lei, no. Ma è la migliore che abbia mai visto con una
lama.»
«Ah sì? E quanti altri hai visto con una lama?»
«Un bel po’.»
«Mff» grugnì Sid, appoggiandosi contro la parete e squadrando Mia.
«Segreti su segreti, con te. Non hai nemmeno diciott’anni, scommetto. Sei
un fuscello ossuto e sei più brava di me con una spada. Ma ti rendi conto
che esiste sempre un’alternativa al diventare la cena di una serica, vero?»
«E quale sarebbe?» sospirò Mia. «Assassinare Furian nel sonno e sperare
che Leona abbini me e Cantalame con qualcuno che non sia un
insopportabile testa di cazzo?»
Sidonius sollevò le mani e fece il gesto di ali in volo.
«Voooooola via, piccolo Corvo.»
«Non è un’alternativa.»
Sid la sbeffeggiò. «Tu entri ed esci da questa cella più spesso di quanto
un quattordicenne sculaccia il suo cappellano. Puoi lasciare questo posto in
ogni momento. Perciò se il campione Testadicazzo ha intenzione di farti
finire morta stecchita, perché non scappi e basta?»
Mia sospirò. «Se lo facessi, ognuno di voi sarebbe giustiziato.»
«Palle» disse Sid. «Io ti guardo, Corvo. Ti guardo guardare noi. Arkades.
Leona. Furian. Me. Quelle rotelline dietro quegli occhi loschi girano
sempre. E anche se non credo che tu sia il pesce più freddo di questo
stagno, non puoi affermare sinceramente che ti frega qualcosa che qualcuno
di noi viva o muoia. In particolare quando è probabile che tutti quanti
periamo comunque nel venatus. Allora, qual è il tuo gioco?»
«Credimi, Sidonius» replicò Mia. «L’ultima cosa che sto facendo qui è
giocare.»
«Fai a modo tuo, allora.» Sid prese un altro morso del formaggio e
scosse il capo, pensieroso. «Dico davvero, mi ricordi una donna che
conoscevo un tempo. È dannatamente misterioso. Stessi tuoi occhi. Stessa
pelle. Anche lei aveva segreti su segreti.»
«Una vecchia fiamma? Ti ha spezzato il cuore, eh?»
«Nah.» Sid scosse il capo. «Non l’ho mai amata. Ma molti uomini che la
conoscevano sì. Per poco non mise in ginocchio la Repubblica. Ma alla fine
lei, con i suoi occhi loschi e segreti dentro altri segreti, fece ammazzare
tutta la sua familia. Il marito. La giovane figlia. Il neonato. E anche molti
miei amici.»
Mia sentì freddo allo stomaco. Strinse gli occhi.
«Di chi stai parlando?»
«Dell’ex domina di questa casa, naturalmente» rispose Sid, gesticolando
in direzione delle pareti. «La moglie del vero tribuno. Alinne Corvere.»
Scosse il capo. «Stupida puttana fottuta.»
In seguito, Mia non riuscì a ricordare di essersi mossa. Tutto ciò che poté
rammentare era lo scrocchio appagante quando il suo pugno andò a sbattere
contro la mascella di Sidonius e lo schianto netto quando la testa di lui
rimbalzò contro il muro alle sue spalle. L’omone imprecò e cercò di
scacciarla mentre lei gli artigliava la gola, assestandogli colpi alla guancia,
alla tempia, al naso.
«Hai perso la…»
«Rimangiatelo!» sbraitò lei.
«Levati di dosso!»
Mia e Sidonius si misero ad azzuffarsi e l’omone la fece finire sul
pavimento mentre le sue nocche gli suonavano una melodia sulla faccia.
«Rimangiatelo!» ruggì lei mentre i due si rotolavano nella paglia,
dibattendosi e menando pugni. Qualche altro gladiatii si svegliò per il
trambusto: Cantalame sbirciò fuori dalla fessura nella porta della sua cella,
Otho e Felix esultarono quando si accorsero che era scoppiata una rissa,
schiacciandosi contro le sbarre della loro cella per vedere meglio.
«Smettetela di fare casino!» urlò Macellaio dalla cella dall’altro lato del
corridoio.
«Pace, Corvo!» urlò Sidonius.
«… mia, smettila…»
«Rimangiatelo!»
«Rimangiarmi cosa?»
Sidonius assestò un colpo a Mia sulla mascella mentre lei gli diede un
pugno in gola. Soffocando, l’omone afferrò una manciata dei capelli di Mia
e le sbatté la testa contro le sbarre, che risuonarono proprio come un gong.
Colpendo alla cieca mentre i suoi occhi vedevano solo le stelle, lei gli
assestò un calcio brutale nelle palle. Entrambi i gladiatii caddero sul
pavimento di pietra, ansimanti e sanguinanti: il taglio sulla fronte di Mia dal
suo scontro con la serica si era riaperto, mentre Sid gemeva e si teneva i
gioielli.
«… mia, smettila, arkades sentirà…!»
Il sussurro di Messer Cortese si insinuò tra la foschia rossa che aveva in
testa e la fece tornare in lei. Il non-gatto diceva la verità: se avessero
continuato ad azzuffarsi, di sicuro l’executus avrebbe udito il trambusto e
probabilmente sarebbero stati frustati. Mia indirizzò un ultimo calcio a
Sidonius, che rotolò via lungo il pavimento con un’imprecazione. L’omone
si trascinò in un angolo come un cane bastonato, Mia in quello opposto, e i
due rimasero ad ansimare e a guardarsi torvo da entrambi i lati della pietra
macchiata di sangue.
«’Bisso… cos’era quello?» riuscì a dire Sid con la voce più alta quasi di
un’ottava.
Mia si trascinò le nocche insanguinate sul naso rosso.
«Nessuno parla a quel modo di lei.»
«Di ch…»
Sidonius sbatté le palpebre. I suoi occhi azzurro ghiaccio si strinsero
mentre guardava dall’altro lato della cella la ragazza col fiatone nell’angolo.
Lei si scostò i lunghi capelli scuri dagli occhi foschi… occhi che gli
ricordavano…
«Non può essere…» mormorò.
Sidonius guardò le pareti attorno a sé. Poi di nuovo la ragazza. Mia
riuscì a vedere che stava decifrando lentamente l’enigma, stava risolvendo
calcoli impossibili, e tutto quanto stava trovando il proprio posto, per
quanto folle, davanti ai suoi occhi. Questa ragazza che non voleva fuggire
da quelle mura, malgrado fosse in grado di andarsene quando voleva.
Questa ragazza che sembrava determinata a combattere nella competizione
più feroce mai concepita nella storia della Repubblica, solo per ottenere una
libertà che poteva avere in qualsiasi momento. Perciò, se non si trattava
della libertà…
«Il Corvo» mormorò lui. «E noi siamo proprio qui a Crow’s Nest: il
Nido del Corvo.»
… si trattava della vittoria.
«Tu sei… Sei la loro…?»
Mia lo sentì sgorgare dentro di lei. Dietro il dolore dei colpi di Sid, la
testa che pulsava e il sangue che le colava negli occhi. Il peso di tutto
quanto. Essere circondata ogni cambio da cose che le ricordavano chi era
stata, cosa sarebbe potuta diventare, e che tutto ciò le era stato portato via.
La frustrazione e la fame che provava vicino a Furian, la confusione e il
desiderio che provava vicino ad Ashlinn, l’assoluta vastità del compito che
le si prospettava. Non avvertiva paura di fronte a tutto ciò, no: la cosa nella
sua ombra non l’avrebbe permesso. Ma provava tristezza. Rimpianto per
tutto ciò che era stato e che sarebbe potuto essere.
E solo per un secondo, solo per un momento, il peso di tutto ciò le
sembrò troppo.
Gli altri gladiatii avevano capito che lo spettacolo era terminato ed erano
tornati ai loro posti sulla paglia. Mia sedette accovacciata, abbracciandosi le
ginocchia graffiate e guardando torvo Sidonius attraverso la frangia
frastagliata. Le tremava il labbro. Gli occhi ardevano al buio.
«Rimangiatelo» sussurrò, con le lacrime che le sgorgavano tra le ciglia.
«Pace, Corvo» mormorò l’uomo, tamponandosi il labbro sanguinante.
«Se ti ho offeso, ti chiedo perdono. Io non volevo… non potevo…»
La fissò stupefatto, lanciando ancora una volta un’occhiata alle pareti
attorno a loro. Pietra rossa, sbarre di ferro, catene arrugginite. Nulla poteva
trattenerla. Eppure lei era ancora qui…
«Quattro Figlie, mi dispiace…»
Mia rimase seduta lì al buio, percependo i suoi occhi, la sua pietà, che le
strisciavano come pidocchi sulla pelle. Non riusciva a sopportarlo: la
debolezza che aveva mostrato, la tristezza nello sguardo di Sid. Trascinò le
nocche sanguinanti sugli occhi e percepì la sua collera crescere ancora una
volta. Provare rabbia la faceva sentire meglio… molto meglio di provare
pena per se stessa. L’adrenalina della zuffa le faceva pizzicare i polpastrelli,
lasciandole le gambe tremanti. Voleva correre, voleva combattere, voleva
chiudere gli occhi e placare la tempesta dentro la sua testa, voleva che il
tempo si fermasse anche solo per un secondo.
Era davvero quello che voleva?
“Cosa vuoi?”
Era stato stupido lasciarselo sfuggire. Lasciare che la rabbia avesse la
meglio su di lei, che Sid capisse chi era. Ma davvero era stato un errore?
Lui aveva conosciuto suo padre. L’aveva servito con lealtà. Lo ammirava
ancora, dopo tutti questi anni.
Forse Mia aveva voluto che lui sapesse?
Forse voleva conoscere qualcuno che conosceva anche loro? Che capisse
anche solo in minima parte come dovesse essere trovarsi qui.
Il futuro incombeva davanti a lei, le sabbie vuote dell’arena di
Godsgrave. Tutto il sangue che l’aspettava, tutto quello che s’era lasciata
alle spalle. Ogni momento della sua vita l’aveva condotta su questo
cammino, questa vendetta, questa strada dritta e priva di biforcazioni.
Ma cosa voleva, oltre alla vendetta?
Mancavano ancora ore al termine dell’illuminotte.
Lei non voleva dormire.
Non voleva sognare.
Non voleva posare la testa in questo posto che era stato casa sua e ora
fungeva solo da promemoria sbiadito di tutto quello che sarebbe potuto
essere.
“Allora cosa vuoi?”
«Corvo?»
Alzò lo sguardo su Sid, che stava sanguinando in silenzio nell’angolo.
«Benedetto Aa, mi dispiace, ragazza» disse lui.
Mia non voleva che la guardasse, poco ma sicuro. E mentre lui si alzava
dalla paglia e si metteva a sedere accanto a lei, avvolgendo una di quelle
braccia grosse come prosciutti attorno alla sua spalla, lei si rese conto che
l’ultima cosa che voleva era che lui la consolasse. Non voleva la pietà. Non
voleva lasciarsi andare in un abbraccio goffo e un po’ imbarazzante con un
grosso idiota e mettersi a piangere come una bambina spaventata. Quel
tempo era passato da parecchio. Morto e sepolto come la sua familia. Lei
era una Lama della Chiesa Rossa, ora. Non era vetro debole e fragile. Era
acciaio.
Ma non voleva nemmeno stare da sola.
Pensò al suo periodo come accolita. All’oblio e al sollievo che aveva
trovato fra le braccia di Tric. Ma anche lui era morto e sepolto, ora. Una
tomba vuota in una vasta sala, intagliata con l’unica memoria che lui
avrebbe mai conosciuto. Mia aveva detto alla Shahiid Aalea che le
mancava, e c’era della verità in quelle parole, ma ancora di più si rendeva
conto che le mancava la chiarezza di tutto ciò: la semplice gioia di
desiderare ed essere desiderata a sua volta. Il dolore residuo dalla sua visita
a Furian non aiutava affatto.
Le fiamme più luminose bruciano più veloci, le aveva detto Aalea. Ma in
esse c’è un calore che può durare una vita intera. Perfino da un amore che
dura solo per un’illuminotte. Per persone come noi, non ci sono promesse
che durano per sempre.
Alzando lo sguardo negli occhi di Sidonius, finalmente capì cosa voleva.
Non per sempre, forse.
Ma per adesso.
«… Perché mi stai guardando così?» chiese il grosso Itreyano.
E senza una parola
lei guardò sopra la sua spalla
verso l’ombra nelle scale
e scomparve dalle sue braccia.

Suoni del porto. Soldati che urlavano “Tutto va bene” mentre pattugliavano
le strade dell’illuminotte. Il vento che soffiava dall’oceano dentro Crow’s
Rest era provvidenzialmente fresco e Mia rabbrividì dopo il calore umido
della caserma. La sua mano esitò sopra il vetro della finestra, indecisa se
bussare.
«… questo non è saggio…»
«Torna alla fortezza» sussurrò Mia. «E di’ a Eclissi di sorvegliare la
strada.»
«… mia, io…»
«Vai.»
Senza un suono, il non-gatto la lasciò e la sua ombra divenne sottile e
pallida. Non appena Messer Cortese se ne fu andato, lei la sentì, serpeggiare
e insinuarsi dentro la sua pancia: la paura che lei avrebbe sempre provato
senza di lui al suo fianco. La paura di essere qui. La paura di cosa
significasse o di dove potesse condurre. Paura di chi e cosa era. E prima che
potesse affondarle i suoi artigli freddi nella pelle, lei bussò una volta, due, le
nocche che colpivano con forza il vetro.
Non giunse alcun suono dall’interno della stanza. Mia avvertì un terrore
sempre più profondo, pensando che magari lei non fosse lì, che fosse
sgusciata via dopo il loro alterco, tradendola e lasciandola sola,
dimostrando che tutta la sfiducia e il sos…
La finestra si aprì. Ashlinn Järnheim si trovava oltre il davanzale, i
capelli arruffati dal cuscino e disorientata per il sonno. I suoi occhi erano
azzurri come cieli arsi dai soli.
«Mia?» chiese la ragazza, trattenendo uno sbadiglio. «Che ora è?»
Quegli occhi azzurri si sgranarono quando lei vide i graffi sulle nocche
di Mia, il taglio sopra l’occhio livido, l’ammaccatura sulla mascella.
«Madre Nera, cosa ti è succe…»
La domanda le morì in gola quando Mia venne avanti e le premette un
dito sulle labbra. Rimasero lì immobili per un momento: due ragazze, che si
toccavano a malapena, tutto il mondo attorno a loro che tratteneva il
respiro. La confusione negli occhi di Ashlinn cominciò a sciogliersi quando
Mia mosse il dito, delicato come una piuma. Percorse la curva liscia del
labbro superiore di Ashlinn, la morbidezza grassoccia di quello inferiore,
lenta e soffice. L’arco delle sue guance, la linea della mascella, e il respiro
di Ash accelerò mentre si svegliava del tutto e si rendeva conto,
meravigliata, che la pelle delle sue braccia nude formicolava. E mentre
schiudeva le labbra per parlare, forse per protestare, Mia si sporse in avanti
e la zittì con un bacio.
Non aveva mai baciato una ragazza, prima. Almeno non così. Il bacio tra
loro nella Montagna era stato un addio: un po’ lungo, forse, ma comunque
un addio. Questo bacio era un invito: una supplica gentile e disperata di un
inizio, non una fine. Una domanda senza parole, la bocca di Mia aperta che
si scioglieva contro quella di Ashlinn. E quando la percepì rabbrividire, con
la lingua che la sfiorava a sua volta leggera come una piuma, Mia ebbe la
sua risposta.
Entrò scavalcando la finestra senza che le loro labbra si separassero. Le
braccia si intrecciarono, le mani esplorarono. Mia interruppe il bacio solo
per il tempo necessario a sfilare la camicia da notte di Ashlinn dalla testa.
Sotto era nuda, spogliata splendidamente con un solo gesto. Mia si soffermò
un attimo ad ammirare quella vista: la soliluce che le carezzava la linea
della gola, la rotondità delle curve, l’ombra tra le gambe.
«Mia, io…»
Mia si lasciò andare, premendo la bocca sul collo di Ashlinn. Il petto
della ragazza si gonfiò e le sue guance avvamparono, sussurrando quisquilie
lievi e lasciando che la testa pendesse all’indietro mentre Mia scendeva più
in basso, fino al petto, stuzzicando con la lingua un capezzolo duro come un
ciottolo.
Le due crollarono sul letto, con la mano di Ash che armeggiava con le
strisce succinte attorno al petto e alle anche di Mia, gemendo quando i denti
della ragazza le mordicchiarono il collo. Qualunque domanda avesse voluto
formulare ora fu sommersa: il respiro arrivava troppo rapido per parlare, le
labbra si aprivano mentre schiacciava Mia contro di lei, pelle su pelle, ogni
dolce segreto sulla punta delle sue dita. Poi giù lungo le costole, sulla
rotondità delle sue anche, fino alla curva del sedere, mentre Mia le
avvolgeva una gamba attorno, trascinandola più vicino.
Mia avvertì le dita di Ash sfiorarle l’interno della coscia e un’eccitazione
arkemica le sfrigolò lungo la spina dorsale per diventare una scintilla nel
buio dietro i suoi occhi. La sua stessa mano andò in cerca più in basso,
passando sul ventre piatto di Ash, fino al soffice biondo tra le sue gambe.
Le loro mani trovarono i rispettivi obiettivi allo stesso tempo e il bacio
divenne più intenso, i sospiri soffocati. Mia inarcò la schiena quando
percepì Ashlinn tracciare cerchi stretti e decisi su di lei con dita abili. Mia le
massaggiò un seno con la mano libera, mentre l’altra si metteva all’opera
tra le gambe di Ashlinn, imitando il suo ritmo lento e straziante e
ascoltandola gemere a tempo.
Era diverso da qualunque cosa avesse mai conosciuto. Una corrente
guizzante, dolce delicatezza e baci, interminabili baci paralizzanti che la
riempivano di calore. Il tempo si fermò, nient’altro che lingue stuzzicanti e
sospiri ansimanti, un calore che le cresceva tra le gambe, facendo andare a
fuoco tutto il suo corpo.
«Oh, Dea, sì» sussurrò Mia.
«Non fermarti» la implorò Ashlinn.
Le sue labbra erano miele, caldo e delicato, il suo corpo si contorceva
mentre le dita di Mia si muovevano avanti e indietro sul suo bocciolo
rigonfio. Lei era così calda laggiù, scivolosa e tremante, e la fame dentro
Mia crebbe finché non riuscì più a trattenerla.
«Voglio assaggiarti» bisbigliò strofinando il naso contro il collo di
Ashlinn.
«Oh, sì… sì…»
Iniziò a scendere, lenta come ghiaccio che si scioglie. Fece passare la
lingua lungo la linea della gola di Ashlinn e sorrise quando la ragazza
inarcò la schiena e le si arricciarono le dita dei piedi. Giù fino alla curva dei
seni, Mia ne prese uno in bocca, leccando e succhiando mentre con la mano
strimpellava ancora tra le cosce di Ashlinn. Una sete ardeva dentro di lei,
arida come un deserto, e Mia riuscì a pensare a un solo modo per placarla.
Trascinandosi come una dolce, scura gravità. Verso il basso.
Sempre più in basso.
Ash era sdraiata sul materasso, gemendo mentre Mia proseguiva la sua
discesa con lunghi baci languidi che le scorrevano sopra le costole, poi
sopra la schiena. Mia fece una pausa, tracciando cerchi lenti e brucianti
attorno al suo ombelico con la punta della lingua mentre le unghie
descrivevano linee delicate sulla pelle di Ashlinn. Inspirò un debole sentore
di lavanda e l’aroma inebriante del desiderio di Ash.
«Per favore, Mia» mormorò la ragazza.
Giù, giù lungo il liscio corridoio delle gambe divaricate di Ashlinn,
facendo scorrere la lingua sempre più prossima a un calore eccitante. C’era
un piccolo neo scuro nell’incavo tra la coscia di Ash e il suo sesso, e Mia lo
leccò lentamente, mostrandole un sorriso cupo.
«Per favore cosa?» sussurrò.
«Per favore, Mia…»
Lei increspò le labbra e soffiò piano su quel segno mentre Ashlinn
rabbrividiva. Mia era stata assaggiata in precedenza, ma non aveva mai
assaggiato in prima persona, e la trepidazione si contorceva nella sua pancia
e la faceva tremare. Voleva prendere il suo tempo, per assaporare ogni
secondo, l’eccitazione di tutto quanto, ma Ash aggrovigliò le dita tra i
capelli di Mia e, con un rantolo tremante, la trascinò dentro.
Morbida come seta, impregnata di lussuria, si schiudeva sotto la
pressione del suo bacio. Mia si mosse lentamente, facendo scorrere la
lingua tra le pieghe di Ash, guizzando dentro e fuori. Ashlinn piagnucolò e
sospirò, con le anche che si muovevano a tempo e le mani tra i capelli di
Mia che la trascinavano più a fondo. Mia si ritrovò consumata da tutto
questo, assetata, affamata: il suo sapore, la piena di nettare caldo sulla sua
lingua. Deliziandosi dei gemiti di Ashlinn mentre le pizzicava i capezzoli
ingrossati, fece scorrere le mani lungo i seni della ragazza e poi le artigliò il
sedere.
Ashlinn si lasciò andare del tutto quando Mia si mise all’opera sul serio.
I suoi occhi rotearono all’indietro nella testa, e lei pendeva per metà fuori
dal letto mentre spronava Mia: «Non fermarti, non fermarti». Mia non
aveva mai provato così tanto potere: ogni suo movimento, ogni guizzo della
sua lingua o tocco delle sue labbra suscitava un gemito, una supplica
sussurrata, un tremito che percorreva Ashlinn lungo tutto il corpo.
Il tempo perse ogni significato: ogni secondo era un anno, ogni anno un
battito di cuore, e il calore che cresceva tra loro trascinò Ash sempre più in
alto, più calda, più luminosa, i suoi gemiti più fragorosi e lunghi, finché non
si tese come una corda d’arco e la spina dorsale si inarcò, le cosce serrate da
ambo i lati della testa di Mia, ogni muscolo rigido e sotto sforzo mentre lei
rivolgeva le mani verso il cielo e urlava come se il mondo stesse per finire
in quell’istante.
L’intero corpo di Ash si afflosciò negli ansimanti postumi, ma Mia
tracciava ancora cerchi e assaggiava ancora il suo sapore, il potere del suo
piccolo trionfo. Sorrise mentre affondava la lingua più in profondità tra i
petali di Ash, facendola gemere: «Basta, Dea, basta», placandosi solo
quando la ragazza la tirò su gentilmente. Ash avvolse Mia tra le braccia e i
loro corpi si fusero in uno, gambe snelle avvolte attorno alla vita di Mia
mentre affondavano in un altro lungo bacio famelico. Il sapore di Ash si
mischiò sulle loro lingue e Mia si ritrovò a esserne sommersa, con le ciglia
che le sbattevano contro le guance, così giusto, dolce e colmo di gioia da
farle desiderare che non finisse mai.
Ma poi emise un rantolo quando Ashlinn la sculacciò e le morse le
labbra, tanto forte da farle quasi stillare il sangue.
«Ahi» sussultò Mia. «E questo per cos’era?»
«Per avermi fatto implorare» la rimproverò Ashlinn.
«Eh?» Mia sorrise, sfiorando con le labbra quelle di Ashlinn. «Prima non
ho sentito lamentele.»
«Non montarti la testa con me, ora, Corvere. È stata la fortuna del
principiante.»
«Ah, davvero?»
Una risata lieve si tramutò in brividi tiepidi quando Ash le strofinò il
naso sul collo.
«Davvero» mormorò la ragazza, sfiorandole la pelle con i denti.
«Allora… forse la domina vuole dare una dimostrazione alla novizia?»
«Di’ per favore.»
«Io… ah!»
Mia ansimò quando Ashlinn, afferrandola per i capelli, le tirò indietro la
testa e le assestò un’altra sculacciata decisa. Le labbra della ragazza
vagarono lungo la gola di Mia e i denti le scalfirono la giugulare mentre con
le unghie tracciava linee di fuoco e ghiaccio su per le cosce fradicie.
«Di’» sussurrò Ash, mordicchiando la gola di Mia «per favore.»
Nel suo cuore, Mia non si era mai inchinata a nessuno. Non nella Chiesa,
non nell’arena, non nella camera da letto. E anche se aveva adorato il
controllo di un attimo fa, in cui ogni suo tocco, ogni suo movimento aveva
infiammato la ragazza tra le sue braccia, si domandò se potesse trovare una
gioia più profonda in qualche piccolo momento di arrendevolezza.
Le dita di Ash danzarono su di lei, leggere come brezza. La pancia di
Mia si contrasse quando la ragazza scese più in basso, disegnando con la
lingua una spirale sempre più stretta attorno al suo petto ansante.
«Dillo» sussurrò la ragazza, titillando il capezzolo di Mia con la lingua.
Una luce fumosa filtrava tra la tenda e Mia chiuse gli occhi quando
Ashlinn discese, non volendo vedere, udire o parlare, ma solo percepire.
Una cascata di baci che pioveva lungo il suo corpo, le mani di Ash che
sembravano dappertutto allo stesso tempo. Mia scoprì che le sue gambe si
divaricavano di volontà propria e il desiderio in mezzo a esse era una dolce
agonia, il respiro sempre più irregolare, il cuore che palpitava di
trepidazione. Dentro di lei stava sbocciando una sensazione diversa da
qualunque cosa avesse mai provato: non con Tric, non con Aalea, non con
Aurelius e quella sua bellezza dorata; il desiderio crebbe fino a infuocarsi
mentre sentiva Ashlinn inginocchiarsi tra le sue gambe, il respiro caldo
contro le sue labbra dilatate.
«Di’…»
La lingua della ragazza la sfiorò, incredibilmente lieve, facendola
rabbrividire.
«… per favore.»
Mia sollevò la testa, guardando lungo tutto il proprio corpo verso
Ashlinn, in procinto di divorarla. Il suo cuore martellava, non aveva
abbastanza fiato nei polmoni ed era frastornata. Con gli occhi che si
chiudevano sfarfallando ancora una volta, lasciò pendere la testa all’indietro
e la tensione abbandonò le sue ossa quando si concesse completamente.
«Per favore» mormorò Mia.
Un gemito lungo e basso sfuggì dalle sue labbra quando Ashlinn si mise
all’opera, labbra e lingua che danzavano nel buio. Non aveva idea di dove
la ragazza avesse appreso le sue arti: Aalea, qualche nuova amante, qualche
vecchia fiamma. Ma, Dea, era fenomenale. Ash era una virtuosa, e la
melodia tra loro era più vecchia del tempo. Mia riusciva a malapena a
respirare, le lenzuola accartocciate nei suoi pugni sempre più stretti. Quasi
uscì di testa quando avvertì Ashlinn infilare un dito dentro di lei, ruotando,
blandendo, rinfocolando quel calore ribollente, una corrente arkemica che le
crepitava fino alle punte dei piedi.
«Oh, Dea…»
Era inerme di fronte a tutto ciò, rapita e spazzata via, un uragano di
lussuria e desiderio, il calore dentro di lei quasi impossibile da sopportare.
Ashlinn era spietata, il ritmo della sua lingua scandito dai suoi tocchi, con
Mia che inarcava la schiena e sollevava le labbra in alto lontano dal letto, la
bocca a formare una “o” perfetta, le dita aggrovigliate nel fiume rosso dei
capelli di Ashlinn, trascinandola sempre più a fondo, più forte, ancora e
ancora. Stava tremando così tanto da non riuscire a respirare, pensare,
parlare, tranne per implorare con suoni incomprensibili che tutto finisse. E
quando avvertì la mano di Ashlinn muoversi e un secondo dito unirsi al
primo, le anche di Mia sgropparono in modo incontrollato e stelle nere
sbocciarono dietro i suoi occhi, il calore dentro di lei che scoppiava in una
fiamma famelica mentre perdeva il controllo, urlando senza suono, accecata
dal fuoco di mille soli.
Percepì labbra morbide sulle sue, umide e cupamente dolci. Mia aprì gli
occhi e vide una ragazza sopra di lei, bellissima e sorridente.
Una ragazza di cui non si sarebbe dovuta fidare.
Un’amante che non avrebbe dovuto amare.
Cercò di ritrovare il fiato, con il cuore che le palpitava contro le costole.
«È stato… impressionante…»
«È stato rimandato fin troppo» sogghignò Ashlinn.
Mia la trascinò a sé per un bacio e le loro labbra si unirono mentre i
postumi dell’orgasmo le formicolavano ancora nelle ossa. Separandosi dopo
un’eternità lunga e dolce, Ashlinn si lasciò cadere sul materasso, esalando
un sospiro soddisfatto.
Mia scese dal letto con le gambe che tremavano ancora. Sulla cassettiera
trovò la custodia di sigaretti d’argento e ne accese uno con l’acciarino prima
di scivolare di nuovo tra le lenzuola. Ashlinn le gettò le braccia attorno, le
prese la mano e le baciò le nocche ferite prima di raggomitolarsi più vicino,
strusciandole il naso sul collo. Mia prese una tirata dal sigaretto, inalando a
fondo e sentendo quel grigio dolce e marcato riempirle i polmoni.
«Fumi parecchio» mormorò Ash.
«Calma i nervi» replicò Mia.
«Ti rendo nervosa, vero?»
Mia protese il palmo come risposta. Di solito era salda come una roccia,
senza mai un tremito a indebolire la sua stretta sulla spada. Ma ora le
stavano tremando le mani.
«Oh, sei tutta un fremito, amore» la vezzeggiò Ash. «Alle ragazze
succede, le prime volte, sai?»
«Allora vediamo le tue, saputella.»
Ash sollevò la propria mano e, anche se cercò di nasconderlo, Mia riuscì
a vedere che anche lei stava tremando. Poteva sentire il petto della ragazza
premuto contro il suo, il cuore che palpitava alla stessa melodia fragorosa.
Intrecciando le dita a quelle di Ashlinn, percepì la corrente crepitare tra
loro. Si rese conto che aveva ancora sete.
«Forse tu dovresti cominciare a fumare.»
Ash fece una smorfia. «Non mi piace il sapore, temo.»
«Posso renderlo più dolce…»
Prendendo una lunga tirata del sigaretto, Mia inalò un’altra boccata
calda. Inclinando verso l’alto il mento di Ashlinn con la punta delle dita, si
sporse in avanti e la baciò, le labbra socchiuse, soffiandole nella bocca. Le
sue labbra erano zuccherate per la cartina del sigaretto e il fumo all’aroma
di chiodi di garofano vagò attorno alle loro lingue mentre il bacio si
intensificava. Ash inclinò la testa e sospirò, premendo tutto quanto il
proprio corpo contro quello di Mia. Le mani di Mia vagarono per la schiena
di lei, sentendo la pelle di Ashlinn accapponarsi e quel dolore dolce
crescere ancora una volta tra le sue gambe. Ashlinn chiuse la bocca,
succhiando la lingua di Mia prima di interrompere il bacio.
«Niente male» sorrise, espirando grigio. «Ma non intendo comunque
iniziare a fumare.»
Mia scrollò le spalle, prendendo un’altra tirata. Ashlinn si sistemò di
nuovo contro il suo fianco, con il braccio di Mia attorno alla spalla.
Rimasero distese in silenzio per un po’, ad ascoltare i suoni dell’illuminotte
lì fuori. Diede una bella occhiata alla ragazza che aveva tra le braccia, le
curve snelle, le fossette gemelle alla base della schiena; spinse da parte con
le dita le lunghe trecce color rosso sangue e scoprì…
… il tatuaggio che le strisciava sulla schiena.
«… Questo cos’è?» sussurrò Mia.
Ashlinn si irrigidì, quindi si mise a sedere e gettò di nuovo i capelli sopra
la spalla.
Aveva dato solo una rapida occhiata, ma Mia aveva visto linee intricate e
ombreggiature, un accenno di una strana scrittura, la forma di una lama
ricurva sulla spalla sinistra di Ash…
“Una stipula” disse Solis, sollevando un dito. “Un oggetto importante
per il tuo mecenate. Una mappa, scritta in ashkahi antico e decorata con un
sigillo a forma di lama di falcetto.”
“… Dea.”
«La mappa» realizzò Mia. «La mappa di Duomo.»
«È questo il motivo per cui sei venuta qui?» chiese Ash piano.
Mia si accigliò, il sigaretto ballonzolante sulle labbra. «Cosa?»
«Eclissi si aggira sempre di soppiatto. Forse lei l’ha intravista.» La
ragazza fissò Mia con il suo sguardo azzurro cielo. «Perciò hai immaginato
che l’unico modo per darci un’occhiata migliore fosse togliermi i vestiti?
Mossa astuta, Corvere.»
«… È questo che pensi?»
«Io non penso nulla.» Ash raddrizzò le spalle, assicurandosi che il
tatuaggio non fosse visibile. «Ecco perché lo domando.»
«Ash, io non ne avevo idea. Perché hai la mappa di Duomo tatuata sulla
schiena?»
«Non è tatuata» disse lei, annuendo verso i doppi cerchi incisi sulla
guancia di Mia. «È arkemica, proprio come il tuo marchio.»
Mia sbatté le palpebre quando comprese. «Perciò se ti uccidono…»
«Il marchio scompare. E loro restano senza mappa.» La ragazza scrollò
le spalle. «Le persone che giocano col fuoco danno il meglio se si aspettano
di bruciarsi.»
Una dozzina di domande ardeva nella mente di Mia. Cosa c’era di tanto
importante in questa mappa da indurre Ashlinn a marchiarla in modo
indelebile sulla propria pelle? Cosa volevano farci Duomo e Scaeva, tanto
da essere decisi a muoversi così apertamente l’uno contro l’altro per
ottenerla? Dove conduceva? E come c’entrava in quell’intrico la ragazza
che aveva tenuto tra le braccia solo poco fa?
«C’è parecchio che non mi stai dicendo di tutto questo, Ashlinn.»
«Potrei dire lo stesso per te, Mia.»
«Per esempio?»
Ashlinn guardò in profondità nei suoi occhi, deglutendo rumorosamente.
«Perché sei venuta qui? Perché ora?»
«Perché volevo stare con te.»
«Ma perché?»
Mia prese una tirata del sigaretto, rimuginandoci.
«Perché stavo pensando. A tutte le cose che mi hanno portato a questo
punto. Le cose che mi hanno reso ciò che sono e le cose che avrei potuto
essere se mi fosse stata data una scelta. E poi non ho voluto pensare più.»
«Allora si trattava solo di questo?» Ashlinn mantenne il volto
impassibile, la voce fredda, ma Mia poteva vedere la tempesta addensarsi in
quell’azzurro riarso dai soli. «Solo una distrazione?»
«Una distrazione dolcissima.»
«Non scherzare» disse Ashlinn. «Diventi calda e fredda come un bagno
pubblico difettoso, e se questa era solo una rapida scopata per scacciare
pensieri spiacevoli, va bene. Lo preferirei a uno stratagemma per vedere
l’inchiostro sulla mia pelle. Ma di qualunque cosa si sia trattato, devo
saperlo.»
«Non è stata nessuna delle due cose, Ash.»
«Riconosco una menzogna quando l’assaggio, Mia.»
Mia sospirò e scosse il capo. Ci aveva pensato su mentre era diretta qui,
muovendosi furtiva lungo le strade dell’illuminotte. Sul perché non fosse
stato giusto prima e perché le sembrasse giusto adesso. Il suo diverbio con
Furian l’aveva lasciata infiammata, la sua zuffa con Sid non era riuscita a
saziarla. Ma non si trattava semplicemente di quello, né dell’aver ripensato
ai suoi genitori o a tutto ciò che le ricordava dolorosamente di essere
rinchiusa in quel posto, oppure a dove era stata o a cosa le si prospettava.
«Ho pensato a tutto quello che sarei potuta essere se mi fosse stata data
una scelta» disse infine. «E mi sono resa conto che non ne ho avute quasi
mai. Fin da quando mio padre è stato ucciso, i miei piedi sono stati bloccati
su questo percorso. Non ho potuto farne a meno. Non ho avuto alcuna via di
fuga. Perciò volevo scegliere qualcosa per conto mio. Una cosa che potesse
essere solo mia. Una mia scelta.»
Mia guardò Ash, facendo scorrere dita tremanti lungo la sua guancia.
«E ho scelto te.»
Ashlinn rimase semplicemente a fissarla, le labbra carnose socchiuse
mentre respirava, e Mia si ritrovò a gettarsi in un lungo, dolce bacio.
Ashlinn si sollevò contro di lei, prendendole il viso tra le mani, persa nella
dolcezza di un bacio che pareva mandare brividi fino all’anima di Mia. Si
staccò solo con riluttanza, gli occhi scuri che scrutavano in quelli di
Ashlinn.
«So di menzogna?» chiese.
Ashlinn accennò un sorriso e scosse il capo.
«No. E io?»
E lei? Era cambiato qualcosa, qui? Non era tutto uguale? La questione
della mappa – dove conduceva, perché Duomo la volesse, cosa significava
tutto quanto – era ancora sospesa tra loro. Ashlinn Järnheim era ancora una
ragazza che avrebbe fatto di tutto per ottenere quello che voleva. Mentire,
imbrogliare, rubare, uccidere. Lei aveva segreti. Era pericolosa.
Ma Mia era così diversa?
Quanto più tempo trascorrevano assieme, tanta più familiarità vedeva
con questa ragazza che supponeva di dover detestare.
«Sai di miele» sussurrò Mia.
Ashlinn sorrise e premette la fronte contro quella di Mia. Lei chiuse gli
occhi, ascoltando i suoni provenienti dalla strada, i freschi venti
dell’illuminotte, che ora si stavano lentamente spegnendo. Aveva domande.
Troppe domande. Ma presto sarebbe cominciato il cambio, l’executus li
avrebbe svegliati per un’altra sessione di sudore, di batoste, e del dannato
Furian, e tutto quanto – dimenticato per un benedetto momento tra le
braccia di questa ragazza – tornò come una piena. Mia ricordò chi era.
Cos’era. Aprì gli occhi e sospirò.
«Dobbiamo discutere ancora di questo. Ma ora devo tornare indietro.»
«Lo so» disse Ashlinn, sporgendosi per un altro breve bacio.
«Voglio restare.»
«Lo so» mormorò Ash, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Promettimi
solo che tornerai.»
«Di’ per favore.»
Il morsetto di Ashlinn si trasformò in un morso giocoso.
«Va’ a farti fottere, Corvere» sorrise lei.
«Pensavo che non l’avresti mai chiesto.»
«Non l’ho chiesto, ricordi?»
Sorridendo, baciò gli occhi di Ashlinn, la guancia di Ashlinn, le labbra di
Ashlinn, facendosi forza per superare quel momento. Poi si alzò dal letto, il
loro letto, avvolgendosi nei suoi scampoli di tessuto, temendo la soliluce
che l’aspettava appena oltre la tenda. Tuttavia scostò il tessuto, stringendo
gli occhi contro la luminosità e voltandosi per dare un’ultima occhiata alla
bellezza che stava lasciando indietro.
“È cambiato qualcosa, qui?”
Con un sospiro, si arrampicò fuori nella luce in attesa.
Nulla sarebbe mai stato come prima.
CAPITOLO 22
QUIETE

«’Bisso e sangue, ma è bollente.»


Mia sospirò, stringendo le palpebre e immergendosi ancora di più nel
calore fumante. L’acqua si chiuse sopra la sua testa, ovattando per un
momento i suoni del bagno pubblico, e tutto il rumore del mondo
scomparve.
Rimase lì sospesa nel buio e nel calore, godendosi quella sensazione sui
muscoli doloranti. Aveva trascorso le ultime due settimane ad allenarsi sotto
i soli ardenti con Furian e Cantalame, e i tre non erano affatto migliorati
nell’apprendere a combattere come una cosa sola. Sapendo che la serica
non avrebbe lasciato loro scampo, Arkades non gli stava mostrando alcuna
pietà nel cerchio, e a Mia facevano male muscoli che non aveva mai saputo
di avere. Era nera e blu ovunque, e sempre più frustrata da Furian.
Trattenendo il fiato sott’acqua, galleggiò senza peso. Per un attimo le
tornarono in mente le pozze di Adonai e i Cammini del sangue dalla
Montagna Silente. Ripensò a Solis, Drusilla e gli altri. Al ruolo che avevano
giocato nella caduta della sua familia.
Cosa stavano facendo in questo momento? Stavano aiutando Scaeva a
ottenere il suo quarto mandato, senza dubbio. Rotolandosi nelle loro monete
come suini al trogolo. Ma il console, e pertanto il Culto, doveva essere
sempre più impaziente per la mancanza di progressi nel recuperare la
mappa di Duomo. Come li stava tenendo a bada Mercurio?
Non per la prima volta, si rese conto di quale rischio stava correndo per
lei il suo vecchio mentore. Ripensandoci, si vergognò di aver anche solo
ipotizzato che Mercurio potesse tradirla. Le mancava, a dire la verità. Le
mancavano i suoi consigli, il suo brontolio da fumatore, perfino il suo
temperamento burbero. Ma molto presto lei sarebbe tornata a Godsgrave,
sulle sabbie dell’arena. Allora l’avrebbe visto. E anche dopo, una volta
compiuta l’impresa.
“Presumendo di non farmi ammazzare prima a Whitekeep…”
Mia riaffiorò con i polmoni che le bruciavano, avvolta nel vapore.
Sbattendo le palpebre per togliersi l’acqua dagli occhi, fu accolta dalla vista
di Alzaonda che entrava nel bagno. L’uomo scintillava di sudore per
l’addestramento di quel cambio, ricoperto di terra e sudiciume del cerchio.
Stava cantando un duetto intitolato Mi Uitori a tutto da solo: parti femminili
in falsetto, quelle maschili nel suo tradizionale tono da baritono.
Togliendosi il perizoma su una noooooooota adeguatamente drammatica,
entrò nella vasca e Mia gli tributò un applauso spontaneo.
«Troppo gentile, Mea Domina» si inchinò l’uomo.
«Hai proprio una bella canna.»
«Ho studiato ai piedi dei migliori.»
«Eri davvero un attore di teatro?» chiese Mia inclinando la testa.
«Beeee’» disse l’omone. «Ho lavorato in uno, alla porta. In cambi più
felici. Ho sempre voluto calcare il palcoscenico, stupire la folla, ma…»
Scrollò le spalle alle pareti attorno a loro. «Non era destino.»
Mia guardò l’uomo con occhio critico mentre lui allungava la mano
verso il sapone. Alzaonda era un demone sulla sabbia, un po’ indisciplinato
forse, ma forte come un toro. Avrebbe scommesso che quelle mani
potevano circondare facilmente la sua gola o fracassarle il cranio, e non
riusciva a immaginarlo in calzamaglia a recitare in qualche pantomima più
di quanto riuscisse a immaginare che le spuntassero delle ali.
«Lasciami indovinare.» Lui sollevò un sopracciglio. «Non ti sembro tipo
da teatro.»
«Perdonami» ridacchiò lei. «Ma sì, niente affatto.»
«Sei perdonata» sorrise Alzaonda. «Mio padre diceva più o meno la
stessa cosa. Mi allevò nell’arte dell’acciaio, capisci. Mi insegnò da quando
ero ragazzo come spezzare gli uomini a mani nude. Lui voleva che
diventassi un membro della scorta del Bara, come suo padre prima di lui.
Mi diede dello sciocco quando gli dissi che volevo essere un attore. La suffi
non mi aveva chiamato “Calcapalco”, dopotutto. Ma non mi piaceva il
pensiero che mi dicessero cosa potevo o non potevo essere. Così ci provai
lo stesso. Era il mio sogno. Uno che era meglio sognare da sveglio.»
Mia si ritrovò ad annuire, l’ammirazione che le sbocciava nel petto.
«Così viaggiai alla città di ponti e ossa» continuò Alzaonda con un
atteggiamento drammatico. «Trovai una compagnia che mi accolse. Un
piccolo teatro chiamato il Rifugio.»
«Lo conosco!» esclamò Mia allegramente. «Giù vicino ai Bassifondi!»
«Già» disse Alzaonda con un ampio sorriso. «Vecchio posto
meraviglioso. Non avevo alcun addestramento, così cominciarono piano,
con me. All’inizio stavo solo alla porta e ripulivo dopo gli spettacoli, ma
per me era comunque magika. Ascoltare i grandi drammi del passato,
osservare la poesia fluttuare nell’aria come una ragnatela e le scene
prendere vita davanti agli occhi stupefatti della folla. Quello è il potere delle
parole: ventisei lettere possono dipingere un intero universo.» La voce di
Alzaonda divenne malinconica. «Furono i cambi più felici della mia vita.»
Mia sapeva che non avrebbe dovuto aprire la bocca. Non avrebbe dovuto
cercare di sapere altro su quell’uomo. Eppure…
«Cosa accadde?» udì se stessa domandare.
Alzaonda sospirò.
«Aemilia, una delle nostre attrici. Attirò l’occhio del figlio di un uomo
facoltoso. Si chiamava Paulus. La domina mise in chiaro che non era
interessata alle sue attenzioni e io fui costretto a buttarlo fuori alcune volte
dopo che aveva bevuto un po’ troppo aureovino, ma non era così insolito.
Era una parte difficile della città. Tutto stava andando bene, in effetti. La
compagnia faceva soldi, il pubblico era in aumento. Io avevo studiato sodo
e stavo per impersonare il mio primo ruolo in una delle produzioni: il Re
Magus in Marcus e Messalina. La conosci?»
«Sì» sorrise Mia.
«Era il cambio del mio debutto. Ma pareva che perfino dopo i rifiuti di
Aemilia e le ripassate che gli avevo dato, il piccolo Paulus non fosse
abituato a ricevere un no come risposta.»
«Succede spesso, con i figli dei ricchi» disse Mia.
«Già. Trovai il bastardo dietro le quinte dopo la prova costumi, che
cercava di violentare Aemilia. Lei aveva il costume strappato, il labbro
insanguinato. Puoi immaginare il resto. Mio padre mi aveva insegnato
quando ero ragazzo a spezzare gli uomini a mani nude, dopotutto.»
Alzaonda abbassò lo sguardo verso i palmi, coperti dai calli provocati
dalla spada.
«Ma lui era il figlio di un uomo facoltoso. Fu solo la testimonianza dei
miei colleghi teatranti a salvarmi dalla forca. Fui venduto in schiavitù, e il
prezzo ottenuto fu dato a Paulus come compensazione per le mani che gli
avevo rotto.»
«Quattro Figlie» mormorò Mia. «Mi dispiace.»
«Non essere spiacente, amore» sorrise Alzaonda. «Io non lo sono. Nello
stato in cui l’ho lasciato, non metterà più le mani da nessuna parte senza
essere stato invitato.»
«Ma questo è il prezzo che tu paghi?» Mia indicò le pareti di pietra, le
sbarre di ferro.
«Un uomo deve accettare il suo destino, piccolo Corvo. O esserne
consumato. Come gladiatii, il nostro è meglio di molti altri. Un’opportunità
di vincere la nostra libertà. Sangue e Gloria, e tutto il resto.»
«Ma non è giusto, Alzaonda. Tu non hai fatto nulla di sbagliato.»
«Giusto?» L’omone la sbeffeggiò. «In che Repubblica vivi?»
Scuotendo la testa e sghignazzando come se Mia avesse detto qualcosa
di divertente, l’omone continuò a insaponarsi come se ogni cosa nel mondo
fosse al posto giusto. Mia allungò una mano verso un’altra saponetta
profumata mentre Bryn e Byern entravano nel bagno pubblico, togliendosi i
perizomi e scalciando via i sandali. Si erano appena allenati nell’equorium,
e Mia poteva fiutare l’odore di sudore e di cavalli su quei due a dieci passi
di distanza.
«Ah, i nostri coraggiosi equillai» sorrise Alzaonda. «I terrori gemelli,
ineguagliati sul circuito, benvenuti. Il Corvo e io stavamo giusto parlando di
teatro.»
«Quattro Figlie, a che pro?» si accigliò Bryn, immergendosi in acqua.
«Io ho conosciuto un’attrice, una volta» disse Byern in tono
malinconico.
«Cosa? Quella deliziatrice che passava per il villaggio in estate?»
«Non era una deliziatrice, sorellina, era un’attrice.»
«Se ti scopava in cambio di mendicanti, era una deliziatrice, fratello
caro.»
Byern lanciò un’occhiata a Mia e Alzaonda. «Sta dicendo cazzate.
Macchia il mio buon nome per mettermi in cattiva luce. Non ho mai pagato
per farlo in vita mia, e la ragazza in questione era a suo agio sul palco come
un pesce nell’acqua, ve l’assicuro.»
«L’unica cosa che recitava era fingere che le piacessi» lo derise Bryn.
«Rispetta chi è più vecchio di te, poppante!» disse Byern, lanciando
dell’acqua in faccia a sua sorella.
I gemelli si bagnarono a vicenda in un breve combattimento di schizzi, e
Mia e Alzaonda si allontanarono dall’altro lato della vasca per non rimanere
coinvolti. Byern immerse la testa di Bryn sotto la superficie e lei gli diede
un pugno allo stomaco. I due si ritirarono ad angoli opposti e Bryn fece il
gesto delle nocche a suo fratello e si accigliò.
«Avete finito?» chiese Alzaonda.
«Sì» disse Bryn. «No, aspetta…»
Afferrò una saponetta e la fece rimbalzare sulla testa di suo fratello.
«Ahi!»
«Adesso ho finito.»
«Un cambio,» dichiarò Alzaonda, quando le ostilità furono cessate
«quando saremo usciti da questo buco, vi porterò tutti in un vero teatro. Vi
mostrerò un po’ di cultura.»
«Solo le Figlie sanno se alcuni di noi ne avrebbero bisogno» disse Bryn.
«Continua così e ti citerò davanti al magistrato per diffamazione» la
ammonì Byern, lanciandole un altro schizzo. Bryn si vendicò con un ampio
arco della mano e una grossa falce d’acqua colpì suo fratello e Alzaonda in
faccia.
«Spiacente» sogghignò.
«Oh, lo sarai» replicò l’omone, asciugandosi il mento.
Alzaonda curvò la sua mano enorme e lanciò un getto d’acqua della
vasca proprio negli occhi di Bryn. Byern si frappose per difendere sua
sorella, schizzando acqua a sua volta e colpendo Mia con il fuoco
incrociato. La ragazza si unì a loro e presto tutti e quattro si misero a darci
dentro, feroci come drachibianchi, schizzando, imprecando e ridendo.
Alzaonda scagliò Mia dall’altro lato della vasca contro il petto nudo di
Byern, poi afferrò Bryn con una presa alla testa e la immerse sotto la
superficie mentre lei scalciava e si diba…
«Cosa sta succedendo qui, nel nome del Semprevigile?»
Mia si scostò i capelli fradici dagli occhi e alzò lo sguardo, per trovare la
magistrae in piedi sulla soglia dei bagni, le mani sui fianchi. Era vestita in
modo immacolato come sempre, la lunga treccia grigia posata su una spalla.
La sua voce trasudava sdegno.
«Siete gladiatii del Collegio Remus, e vi trovo qui a miagolare e
folleggiare come un branco di mocciosi. È così che onorate la vostra
Dominatii?»
«Scusate, magistrae» disse Alzaonda, lasciando andare il collo di Bryn.
«Solo uno scherzo momentaneo, tutto qua. Il tempo diventa più caldo, i
cambi si allungano e…»
«E ne mancano solo una manciata prima del venatus di Whitekeep, e
dopo quello il magni» sbottò la magistrae. «Sapete cosa costerà alla vostra
Dominatii se fallirete? La vergogna che dovrà sopportare? Forse ritenete
che sia saggio passare il vostro tempo a combinare marachelle, ma se fossi
in voi, mi concentrerei sui giochi e su quello che vi aspetta se questo
collegio dovesse cadere.»
Il sorriso sulla faccia di Mia si spense e la gioia momentanea che aveva
provato evaporò. I gladiatii chinarono il capo come bambini rimproverati.
Quello che la magistrae aveva detto era vero e lo sapevano tutti: se il
collegio avesse chiuso, probabilmente sarebbero stati venduti come carne a
buon mercato, e solo il Semprevigile sapeva a chi. Forse a nuovi sanguila,
ma più probabilmente al Pandemonium. Tutte le loro vite erano appese a un
filo.
Denti della Mannaia, era stato stupendo dimenticare tutto quanto per un
momento. Ma Mia serrò la mascella e indurì la sua determinazione. Qui
stava diventando molle. Non fisicamente: sotto l’addestramento di Arkades,
era diventata più dura e in forma come mai prima d’ora in tutta la sua vita.
Ma affezionarsi ai suoi compagni gladiatii era un errore. Per quanto
potessero essere simpatici, gli uomini e le donne del collegio erano solo
pedine su un tabellone. Pedine che probabilmente sarebbero state sacrificate
prima che lei arrivasse al re.
“Queste persone non sono la tua familia e non sono tuoi amici” ricordò a
se stessa.
“Tutte quante sono solo un mezzo per arrivare a un fine.”

«Più forte.»
Leona puntellò i palmi contro la parete e spinse le ginocchia nel
materasso, la testa gettata all’indietro. Furian la teneva per la vita, la sua
stretta scivolosa a causa del loro sudore, tutto il corpo della domina che
sussultava a ogni affondo delle sue anche. L’intelaiatura del letto tremava
per quell’impeto, e polvere di pietra scivolava dal muro giù sul pavimento.
«Più forte» gemette di nuovo Leona.
Il suo campione obbedì, sgroppando come uno stallone. La domina
allungò le mani all’indietro, artigliandogli la pelle e spronandolo ad andare
oltre mentre lui afferrava una manciata dei suoi capelli ramati e la tirava
indietro, più a fondo sulla sua virilità ardente. Leona chiuse gli occhi,
scossa fino al midollo e tremante, la bocca spalancata.
«Scopami» mormorò.
«Dominatii…»
«Oh, Figlie, sì.»
«Dominatii, non posso…»
«Sì, vieni» ansimò lei. «Scopami, scopami, scopami.»
Furian penetrò a fondo qualche altra volta, poi si trascinò via, l’intero
corpo rigido mentre le eiaculava sulle natiche e sulla schiena. Leona chinò
il capo, conficcandogli le unghie nella pelle, mordendosi il labbro per
soffocare un urlo. Senza fiato, crollò a faccia in giù sul letto, facendo le fusa
come una gatta.
L’Imbattuto si stese accanto a lei, il petto ansante e il corpo esausto.
Anche se il letto era piccolo, lui stette attento a non toccarla: pareva che la
domina non gradisse le tenerezze post-coito. Appoggiando la schiena contro
la parete, lui si umettò le labbra e sospirò, il cuore che palpitava.
«Un’ottima prestazione, mio campione» mormorò la domina.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» replicò lui.
Leona ridacchiò e rotolò supina. Dimenando le anche, inarcò la spina
dorsale e guardò l’uomo sopra di lei.
«Quattro Figlie, ne avevo bisogno» sospirò.
«Almeno quanto me» disse Furian. «Avevo cominciato a sospettare che
vi foste dimenticata della mia esistenza.»
Leona tubò, scostandogli i lunghi capelli scuri dalla faccia e facendo
scorrere i polpastrelli sul suo addome. «Ti sono mancata, mio campione?»
«Sono passate settimane, Dominatii.»
«Non devi temere, amante» sorrise la domina. «Io tornerò sempre.»
«Finché non troverete favore con qualcun altro?»
«Qualcun altro?» Le sue labbra si contorsero. «E dimmi, chi sarebbe?»
«Il Salvatore di Stormwatch» borbottò lui con finta drammaticità.
«Ah» sospirò Leona roteando gli occhi. «Siamo arrivati alla punta della
lancia. Ma non ho alcun interesse per le donne, Furian. E ancor meno per la
gelosia.»
«La fate combattere sulle sabbie accanto a me» borbottò lui. «Come se
fosse mia pari. Ma lei non ha onore. Lei ha…»
«Lei ha un alloro da vincitore» lo interruppe Leona. «Ha il favore della
folla. E ha un terzo della chiave per aprire i cancelli del magni per noi.»
«Posso sconfiggere la serica di vostro padre da solo, Dominatii» ringhiò
Furian. «Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, tanto meno di una subdola
ragazzina che il mio nemico ha già sconfitto.»
Leona sospirò. Alzandosi dal letto, raccolse il lenzuolo e si pulì con
noncuranza il suo seme dalla pelle.
«Questa conversazione mi annoia.»
Furian allungò la mano. «Leona…»
«Leona?» La domina alzò bruscamente lo sguardo. «Dimentichi il tuo
posto, schiavo.»
«Oh, schiavo, sì» annuì Furian. «Finché non avrete di nuovo voglia. E
allora sarà tutto “amante” e “mio campione” e parole melliflue finché non
vi sarete saziata.»
«E in quei casi tu ti lamenti così aspramente?»
«Ho intenzione di essere qualcosa di più del vostro stallone.»
«E cosa?» domandò Leona. «Puoi essere un campione nell’arena, ma
non hai vinto altri allori. Io sono la Dominatii di questa casa. Non credere
che, semplicemente perché ti porto a letto, io dia ascolto ai tuoi consigli. O
che quando viene impartito un ordine, non mi aspetti che venga eseguito.»
«Quando gli incubi vi destano dal vostro sonno, pensate che vi conforti
perché mi viene comandato di farlo? Credete che vi stringa perché…»
«Stai travalicando, campione.»
Furian strinse con forza le labbra e la rabbia gli scurì la fronte. Ma non
parlò più. Guardandolo per un lungo momento immobile, il volto di Leona
si ammorbidì. Si lasciò cadere sul letto accanto a lui e gli premette la mano
sulla guancia.
«Io ci tengo a te» mormorò. «Ma non po…»
Qualcuno bussò alla porta.
«Campione?»
Leona sgranò gli occhi quando riconobbe la voce.
«Onnipotente Aa…» sibilò. «Arkades!»
Furian si alzò dal letto e impallidì. «Pensavo che fosse sbronzo.»
«Lo era! Ha perso i sensi nella sala da pranzo, praticamente come
morto.»
L’executus bussò di nuovo. «Furian?»
Leona esaminò disperatamente la stanza. Il sacrario a Tsana. Un piccolo
forziere. Spade di legno e un fantoccio da addestramento. Nessun posto
dove nascondersi. Infine, la domina della casa si gettò in ginocchio. Strisciò
sotto il letto con l’aiuto di Furian, poi tirò su le gambe e le strinse contro il
petto. Soddisfatto che lei fosse nascosta, l’Imbattuto si mise il perizoma e
aprì la porta.
Sulla soglia c’era Arkades, la faccia gonfia per aver bevuto troppo. Stava
ondeggiando lievemente e il suo alito era intriso di aureovino mentre
squadrava il campione dall’alto in basso.
«Le mie scuse» disse. «Stavi dormendo?»
«Solo riposando, executus.»
«Umpf.»
Arkades entrò zoppicando nella stanza senza tante cerimonie, la sua
gamba di ferro che risuonava sulla pietra, clink-tonfo, clink-tonfo. Si guardò
attorno in cerca di qualche posto dove sedersi e infine si accomodò sul letto.
Il materasso di paglia si incurvò sotto il suo peso e Leona soffocò un urlo
quando andò a colpire la sua nuca facendole sbattere la testa contro il
pavimento. Imprecando sottovoce, si accucciò ancora più in basso, come
una bambina disobbediente che si nasconde dai genitori.
Arkades annusò l’aria, poi sollevò un sopracciglio, la voce impastata a
causa dell’alcol.
«C’è puzza, qua dentro.»
«È il caldo, executus. Saai si avvicina sempre più all’orizzonte a ogni
cambio.»
Arkades arricciò il naso. «Scambierò una parola con la magistrae. Quel
sapone che ti ha dato odora di profumo femminile.»
Furian sgranò gli occhi e guardò verso l’ombra sotto il letto. L’executus
non se ne accorse e tirò fuori la sua fidata fiasca, prendendo un lungo sorso.
La offrì all’Imbattuto, che declinò con una scrollata silenziosa della testa.
«Umpf, sei un uomo saggio» disse Arkades mettendo via la fiasca. «Ti
rende molle sulle sabbie.»
«Ma ti fa anche dimenticare il sangue che le macchia» replicò piano
Furian.
Arkades annuì quasi fra sé, un’aria distante negli occhi. Abbassò lo
sguardo sulle proprie mani. Poi lo alzò negli occhi scuri dell’Imbattuto.
«È questo che mi piace di te, Furian. Tu vedi. Tu capisci. Il dolore che
sopportiamo. I fiumi rossi che dobbiamo guadare.»
«Sulla nostra via per la gloria.»
«Un peso oneroso.»
«Io lo accolgo di buon grado. Se mi porta la vittoria.»
Arkades lo sbeffeggiò un poco. «Mi piace anche questo di te.»
«Perdonatemi… Ma vi occorre qualcosa, executus?»
Arkades sospirò e spostò il peso, con il materasso incurvato che spingeva
Leona contro il pavimento. La domina stava respirando poco e piano, il
petto premuto con forza contro la pietra e il volto in preda al panico. Se
avesse emesso un suono, se il suo executus l’avesse scoperta qui…
«Mi occorre che tu smetta di essere ai ferri corti con il Corvo» replicò
Arkades, la pronuncia lievemente biascicata per l’alcol. «Mi occorre che tu
combatta accanto a lei, non contro di lei.»
Furian si accigliò. «Quella ragazza è sulla bocca di tutti questa
illuminotte, a quanto pare.»
L’executus sbatté le palpebre. «… Cosa?»
«È una mentitrice e una bastarda, executus. La sua gloria è immeritata.»
«Come puoi dirlo?» si imbronciò Arkades. «Cazzo di Aa, non nutro
verso di lei più affetto di quanto ne abbia tu, ma l’hai vista combattere a
Stormwatch. La sua vittoria sul rigurgitante…»
«Era impregnata di slealtà. Non è una vincitrice, è una ladra.»
Arkades sospirò, allungando una mano verso la fiasca prima di
trattenersi. Si alzò in piedi, incerto per un momento, e Leona tirò un sospiro
di sollievo ora che riusciva a respirare di nuovo. Riacquistando l’equilibrio
e zoppicando per la stanza, Arkades indicò le pareti attorno a loro.
«Cosa vedi?»
«La casa della mia Dominatii» rispose l’Imbattuto.
«Sì. Le mura che ti danno riparo, il tetto che ti protegge dai soli. Sai cosa
accadrà se non riusciremo ad assicurarci un posto nel magni?»
«Non ho bisogno d’aiuto per sconfiggere la serica, executus» ringhiò
Furian, irritandosi. «E non combatterò al fianco di una cagna senza onore
che ruba ciò che dovrebbe essere guadagnato.»
«Perché tu sai cosa significa essere un cane senza onore, vero?»
Furian strabuzzò gli occhi. «Osate…»
«Risparmiami il tuo sdegno» ringhiò Arkades, sollevando una mano
callosa. «Dimentichi che sono stato io a trovarti e a portarti qui. Solo io so
da dove provieni, cos’hai fatto per ritrovarti in catene.»
Furian lanciò un’occhiata verso il suo letto. Verso la figura nascosta sotto
di esso.
«È stato molti cambi fa» disse. «Non sono più quell’uomo. Sono un
figlio del Semprevigile timorato di dio e un gladiatii che vive per onorare la
sua Dominatii.»
«Tu vivi per onorare te stesso» replicò Arkades scuotendo il capo per
l’esasperazione. «Per dimostrare di essere meglio dell’uomo che eri. E
capisco perché la cosa ti stia a cuore. Ma non dire che combatti per la tua
Dominatii. Se pensassi davvero per un momento a Leona, se provassi un
briciolo di ciò che io provo per l…»
Arkades sbatté le palpebre e si interruppe. Ondeggiò sui piedi.
Lanciando un’occhiata al campione, l’executus si schiarì la gola e si sfregò
gli occhi annebbiati.
«Hai l’abilità e la volontà per farci arrivare fino al magni, Furian. Non ti
ho tirato fuori dal pantano per redimerti dai peccati del tuo passato. L’ho
fatto perché vedevo in te un campione, proprio come ero io. Puoi vincere la
tua libertà. Camminare tra noi ancora una volta come un uomo, non come
l’animale che eri. Ma quelli che si battono per il nulla, muoiono per lo
stesso motivo. E se ti batti solo per te stesso, cadrai da solo.»
«Battermi per me stesso?» ripeté Furian incredulo. «Io mi batto per
queste mura!»
«Allora dimostralo» ringhiò Arkades. «Combatti con il Corvo, non
contro di lei. E quando la serica sarà stata sconfitta e il nostro posto
assicurato, quando affronterai il Corvo nei grandi giochi ex mortium, potrai
dimostrare di essere l’uomo che io so che sei.»
Arkades posò una mano sulla spalla del campione.
«Oppure cadrai da solo» ripeté. «E farai crollare questa casa assieme a
te.»
L’executus ondeggiò come un albero in una tempesta: la stretta sulla
spalla di Furian serviva più a sorreggersi che a dimostrare conforto. Ma
anche se l’aureovino era pesante nel suo alito, anche se riusciva a stento a
restare dritto, sembrava che avesse fatto centro.
Furian serrò la mascella. Ma alla fine annuì.
«Mi batterò con lei a Whitekeep» disse. «Ma a Godsgrave, lei morirà.»
Arkades annuì e zoppicò verso la porta, clink-tonfo, clink-tonfo,
voltandosi sulla soglia per squadrare ancora una volta Furian.
«O forse prima? Chi può dirlo?»
L’executus sorrise, chiudendosi la porta alle spalle. Furian rimase
immobile, ascoltando il suono della sua andatura zoppicante svanire lungo
il corridoio. Mettendosi in ginocchio, offrì una mano a Leona e l’aiutò a
uscire da sotto il letto. Quando fu in piedi, la domina strappò via la mano
dalla sua e si trascinò il vestito sopra la testa per coprirsi. C’era sdegno
scritto in ogni suo movimento.
«Dunque» lo guardò torvo. «Disobbedisci al mio ordine di combattere
accanto al Corvo, ma Arkades ti dice qualche parolina e tu capisci che è
giusto?»
«Domin…»
«Mi hai detto che eri un mercante, prima di tutto questo» lo incalzò lei,
fissando il campione con il suo sguardo azzurro scintillante. «Un
ambulante.»
«Lo ero» replicò Furian.
«Non stando a quello che diceva Arkades. Ti ha definito animale. Quanti
peccati può accumulare un semplice mercante che combatte con tanta
ferocia per redimersi?»
L’Imbattuto non replicò.
«Cos’hai fatto, Furian?» gli chiese lei. «Quali menzogne mi hai
raccontato?»
Il campione si limitò a fissare la Trinità di Aa sulla parete, rifiutandosi di
incontrare lo sguardo della sua padrona. Lei rimase lì per lunghi momenti,
scrutando nei suoi occhi in cerca di risposte. Ma trovando solo silenzio. Poi,
con un suono di puro disgusto, si voltò e si diresse verso la porta. Rimase in
ascolto per un momento, poi la spalancò, quasi incurante, e uscì in
corridoio, sbattendosela alle spalle.
L’Imbattuto ingobbì la schiena e imprecò piano.
Sedendosi sul letto, vide che Leona aveva dimenticato le mutandine.
Raccogliendole tra le mani, le fissò per lunghi istanti, perso nei suoi
pensieri. Fece scorrere le dita lungo la seta, il merletto. Inalò il suo
profumo. E infine si chinò e le infilò sotto il materasso, nascondendole nelle
ombre sotto il suo letto.
Le ombre dove un non-gatto sedeva ad ascoltare.
Cercando con tutte le sue forze di non roteare i non-occhi.
«… uff…»

a. Famigerata opera itreyana commissionata da re Francisco XII (noto ai suoi sudditi come
“l’Orgoglioso” in vita e come “il Segaiolo” da morto). Francisco era un appassionato del teatro
musicale, e dopo il suo trionfo sulla ribellione organizzata da re Oskar III di Vaan, commissionò
un’ode alla propria gloria. Il suo principale compositore di corte, Maximillian Omberti, lavorò
duramente per oltre un anno sulla composizione, intitolandola Mi Uitori (“Mia vittoria”).
Francisco era convinto che la sua opera fosse un sentiero per fama e popolarità imperitura
presso i suoi sudditi. Non badò a spese per mettere assieme la produzione e, ritenendosi un
cantante provetto, decretò che avrebbe impersonato il ruolo di se stesso alla prima. Messa in scena
all’arena di Godsgrave, ogni membro della nobiltà era presente, assieme a novantamila cittadini.
Per assicurare che la folla apprezzasse ogni istante del suo capolavoro, Francisco XII ordinò che le
uscite fossero sigillate quando iniziò l’ouverture.
Purtroppo, anche se l’opera comprende il suddetto brano eponimo Mi Uitori nell’ultimo atto –
considerato il pezzo migliore di Omberti e ancora suonato a secoli di distanza –, il re aveva
preteso che il compositore includesse ogni dettaglio del suo trionfo a Vaan. La prima si protrasse
per oltre diciassette ore, la durata resa ancora peggiore dalla voce di Francisco, che fu descritta
dallo storico Cornelius il giovane come “simile a due gatti che scopano dentro un sacco in
fiamme”.
L’esibizione fu così lunga che due donne partorirono durante la rappresentazione e diverse
centinaia di cittadini rischiarono di spezzarsi le gambe e di essere giustiziati per essere saltati giù
dalle mura dell’arena fino alla strada sottostante. Un barone particolarmente scaltro della corte del
re, un certo Gaspare Giancarli, simulò un attacco di cuore affinché le guardie permettessero alla
sua familia di rimuovere il cadavere senza vita dai locali.
Secondo le fonti, Francisco fu “piuttosto deluso” per l’accoglienza dell’opera.
Omberti si suicidò poco dopo la prima.
Non ci fu mai una seconda esibizione.
CAPITOLO 23
WHITEKEEP

Lo schianto delle onde su una costa rocciosa.


I versi dei gabbiani nei cieli riarsi dai soli.
Il ruggito di settantamila voci, che si univano in una sola.
Un gladiatii solitario si trovava al centro dell’arena, ad accogliere quel
boato. Il calore accecante dei due soli scintillava sulle catene gemelle
affilate che faceva roteare attorno al corpo. Era rivestito di acciaio
scintillante, il braccio avvolto in una maglia di scaglie, schinieri alle gambe,
il viso nascosto dietro un elmo lucidato, foggiato come le fauci di un draco
ruggente.
I prigionieri attorno a lui non indossavano alcuna protezione del genere:
solo qualche pezzo frammentario di cuoio e spade arrugginite in mano. Gli
scontri delle esecuzioni erano fatti per intrattenere la folla tra un evento e
l’altro, e c’erano una dozzina di uomini e donne condannati nell’arena, che
affrontavano un solo gladiatii; non sarebbe stato giusto dare ai criminali
grosse probabilità di sopravvivenza. Dovevano morire qui, dopotutto.
Uno condannato per stupro caricò con un urlo e il gladiatii sferzò la sua
catena irta di punte contro la pancia dell’uomo, spandendo spire di viscere
viola sulla sabbia ora scarlatta. La folla ruggì di approvazione. Un piromane
e un assassino attaccarono il gladiatii da dietro, ma entrambi furono fermati
da un muro sibilante d’acciaio che tranciò le loro braccia al gomito e le loro
gole fino all’osso.
Mentre le acclamazioni della folla crescevano di intensità, mentre le
pareti dell’arena di Whitekeep tremavano quasi per il ritmo dei piedi
pestati, il gladiatii si mise al lavoro sul serio. Aprì trachee e stomaci, tranciò
braccia e gambe, poi, in un finale entusiasmante, staccò di netto la testa
dell’ultimo prigioniero dalle spalle.
«Cittadini di Itreya!» giunse il grido dai corni dell’arena. «Onorevoli
administratii! Senatori e midollani! Il vostro vincitore, Giovanni di Liis!»
Il gladiatii tuonò, sollevando le sue catene insanguinate. Mentre si
muoveva per la sabbia, istigando la folla alla frenesia, i cadaveri mutilati
dei criminali vennero trascinati via per essere eliminati. Li attendeva solo
una fossa senza nome, e l’Abisso.
Mia si trovava nella sua cella, a fissare le sabbie attraverso le sbarre. I
giochi erano quasi terminati: mancavano solo la corsa degli equillai e il loro
scontro speciale contro la serica prima dell’Ultimae. Macellaio aveva già
combattuto quel cambio, ma le aveva prese di santa ragione da uno
spadaccino del Collegio Tacitus: solo una richiesta di pietà da parte
dell’editorii aveva permesso che la sua vita fosse risparmiata. Alzaonda e
Sidonius avevano combattuto in un incontro con delle fiere, assieme a due
dozzine di altri gladiatii contro un branco di falciorsi. I due avevano ucciso
tre di quelle bestie in totale, anche se erano stati superati nel conteggio
finale da un paio di cacciatori del Collegio Trajan. Solo a due punti dalla
vittoria.
Così vicini a un alloro, eppure così lontani.
I due adesso erano seduti nella cella con Mia, occupandosi delle loro
ferite nel fisico e nell’orgoglio. Macellaio era con Verme a farsi suturare
testa e costole. Cantalame se ne stava seduta dando le spalle alla sabbia,
ascoltando il furore scemare lì fuori. Era occupata a legare una manciata di
coltelli uncinati in fondo alle sue salciocche, canticchiando tra sé. Le lame
erano lunghe tre pollici e affilate come rasoi. Lei era abbigliata con un
pettorale in cuoio bollito, spallacci e schinieri di ferro scuro. Un elmo con la
corona tagliata via era posato sulla panca accanto a lei.
«Presto sarà il turno di Bryn e Byern» disse Mia.
Cantalame annuì, ma non disse nulla.
«Nervosa?» chiese Mia.
«Sempre» replicò la donna.
«Coraggio, sorelle» sorrise Alzaonda. «Questo incontro è vostro.»
Cantalame annuì lentamente. Nelle settimane trascorse fino alla partenza
da Crow’s Nest, il loro addestramento con Furian era migliorato
decisamente e, nelle lunghe sessioni sotto i soli brucianti, i tre avevano
raggiunto una specie di sincronia. Muovendosi come uno solo, avevano
cominciato a sconfiggere Arkades con regolarità. La velocità di Mia. La
forza bruta di Furian. Cantalame a fare da ponte tra i due. Anche se
l’Imbattuto veniva tenuto separato da loro nella propria cella da campione,
com’era tradizione prima dell’incontro, erano più simili a una squadra di
quanto lo sarebbero mai stati.
«Abbiamo una possibilità» ammise Cantalame.
A dire la verità, ne avevano più di una. Ashlinn era arrivata a Whitekeep
una settimana prima dei gladiatii del Collegio Remus, e da allora si era
aggirata furtiva per l’arena. Trasmettendo messaggi tramite Eclissi, aveva
detto a Mia con esattezza come gli editorii progettavano di ravvivare lo
spettacolo dello scontro tra i campioni dei collegi Leonides e Remus. Ma
soprattutto, Ash aveva disposto un dono speciale per far pendere ancora di
più la bilancia a loro favore.
Mia chiuse gli occhi, ascoltando il suono dell’oceano in lontananza. a
Godsgrave era solo dall’altra parte dell’acqua: se fosse salita sulle mura
cittadine, sarebbe stata in grado di vederla da qui. Era solo a un passo dal
magni.
A un incontro di distanza dalla vendetta.
Suonarono le trombe e la folla esultò in risposta. La pietra sotto i suoi
piedi tremò quando il grande apparato mekana sotto il pavimento dell’arena
si attivò. Mia guardò fuori attraverso le sbarre e vide il centro delle sabbie
aprirsi e un isolotto oblungo sollevarsi nel cuore dell’arena. Quasi
quattordici croci erano allineate in una fila ordinata per tutta la lunghezza
dell’isola, prigionieri condannati che erano stati legati alle travi.
«Sta iniziando» disse Mia.
Cantalame si unì a lei presso le sbarre, Alzaonda al suo fianco. Lanciò
un’occhiata a Sidonius mentre si faceva largo verso di lei. Non avevano
parlato della rivelazione sui suoi genitori fin dall’illuminotte in cui si erano
azzuffati nella loro cella: sembrava che Sid fosse disposto ad attendere che
fosse Mia ad avvicinarlo, a parlargli quando fosse pronta. Ma la ragazza
notò che non si allontanava mai troppo da lei. Le stava seduto accanto ai
pasti, si addestrava lì vicino, mai a più di pochi piedi di distanza. Come se
ora si sentisse protettivo nei suoi confronti. Come se la notizia che lei era la
figlia di Darius Corvere…
«Cittadini di Itreya!» giunse la voce tonante dell’editorii. «Vi
presentiamo… la corsa degli equillai di questo… venatus di Whitekeep!»
La folla ruggì in risposta e si mosse come un’onda increspata. L’arena di
Whitekeep non aveva proprio le stesse dimensioni della sua sorella a
Godsgrave, ma Mia stimò che ci fossero almeno settantamila persone sulle
tribune. Il loro clamore, il loro calore, il ritmo pulsante dei loro canti la fece
tornare alle sabbie di Stormwatch, quando percorreva su e giù il cadavere
del rigurgitante.
“Qual è il mio nome?” urlò.
“CorvoCorvoCorvoCorvoCorvo!”
“QUAL È IL MIO NOME?”
Ora lo sapevano, lo sapevano eccome. La notizia della sua vittoria si era
diffusa per tutta la Repubblica; Ashlinn aveva udito commentatori
scambiarsi racconti in una taverna solo due illuminotti fa. «La Bellezza
Insanguinata» la chiamavano. «Il Salvatore di Stormwatch.»
Mia guardò in direzione di Godsgrave. Ascoltò il suono dell’oceano
sopra il clamore della folla.
“Presto, tutti conosceranno il mio nome.”
Serrò i pugni.
“Il mio vero nome…”
«E ora i nostri equillai!» urlò l’editorii. «Dai Lupi di Tacitus, i Colossi di
Carrion Hall, Alfr e Baldr!»
Due enormi Vaaniani uscirono dalla saracinesca che si alzò sul lato
meridionale dell’arena. Erano su una biga su cui erano sbalzati lupi
ringhianti, le ali sui loro elmi e il biondo delle loro barbe che scintillavano
nella soliluce quando alzarono le mani alla folla acclamante.
«Dalle Spade di Phillipi! Vincitori di Talia, la Nona Meraviglia di Itreya,
Maxus e Agrippina!» b
Una seconda biga comparve dopo la prima, trainata da stalloni sauri. Gli
equillai erano di sesso diverso, come Bryn e Byern, ma a giudicare
dall’arco che impugnava, sembrava che il maschio fosse il flagellae della
coppia. In un’impressionante dimostrazione acrobatica, era in piedi sopra i
cavalli, le braccia spalancate per eccitare la folla.
«Dai Falconi del Collegio Remus…!»
«Ci siamo» mormorò Sidonius.
«… i terrori gemelli di Vaan, Bryn e Byern!»
I fratelli spuntarono sulla loro biga tra un fragore di zoccoli sul terreno
compatto. Per non essere surclassato dal flagellae di Phillipi, Bryn era in
equilibrio sulle mani sulla schiena di Rosa e Spina, tenendo l’arco con le
dita dei piedi. Scagliò una freccia in aria e il proiettile cadde a terra
conficcandosi sulla pista proprio sulla linea del traguardo.
Mia e i suoi compagni esultarono quando la biga di Bryn e Byern passò
davanti alla loro cella. Byern rivolse loro un sorriso vincente e Bryn soffiò
nella loro direzione un bacio che Alzaonda allungò la mano per afferrare.
«Trelene cavalchi con voi, amici miei» urlò. «Andate!»
«E ora, dai Leoni di Leonides, Vincitori di Stormwatch e Blackbridge, i
Titani della Pista, i vostri beniamini… Ammazzapietra e Armando!»
Gli equillai avanzarono al galoppo sul circuito tra applausi assordanti e
ampi sorrisi. Tenevano le mani unite, sollevate. Indossavano armature
dorate, le spalle drappeggiate con pelli di possenti leoni. Armando infilò
una mano nella faretra al suo fianco e cominciò a scagliare frecce in aria.
Grazie a qualche procedimento arkemico, le frecce esplosero in nastri e
coriandoli, una pioggia arcobaleno che cadde tra il pubblico festante.
Una cantilena ritmica si diffuse per gli spalti quando gli equillai presero
posizione, ciascuno a un punto opposto del circuito. Mia osservò Bryn e
Byern senza paura nel cuore, ma sapeva che le loro probabilità erano scarse.
Dato che Leona non avrebbe schierato nessuno della sua stalla nell’Ultimae,
anche se i gemelli avessero vinto, ai Falconi sarebbe mancato un alloro per
un posto al magni: solo lo scontro speciale di Mia con la serica poteva
garantire loro l’ingresso, ora. Bryn e Byern competevano semplicemente
per il premio in denaro e forse per la loro stessa gloria. Ma era un grosso
rischio, per ottenere solo una manciata di monete e un po’ d’orgoglio.
Mia non era l’unica a essere consapevole dei rischi. Cantalame era in
piedi accanto a lei, tesa come acciaio. Alzaonda stava stringendo forte le
sbarre, Sidonius tratteneva il fiato. Mia ricordò le parole di Bryn e Byern a
Nest. Il detto della loro patria che avevano condiviso.
“In ogni respiro, dimora la speranza.”
Allungò la mano e strinse quella di Sidonius.
«Continua a respirare» sussurrò.
«Equillai…» giunse la voce tonante dell’editorii. «Cominciate!»
Lo schiocco delle redini. La percussione degli zoccoli. Mia strinse i denti
quando iniziò la corsa e tutte le squadre cercarono di ottenere rapidamente
un vantaggio in termini di velocità. Mentre le bighe tuonavano attorno al
circuito, aumentando l’andatura, gli arcieri scagliavano un colpo dopo
l’altro ai prigionieri inermi, cercando di ucciderne il più possibile per
accumulare punti. La folla esultò, i condannati urlarono e le sabbie si
tinsero di scarlatto.
Tra il pubblico c’erano editorii con cannocchiali, che segnavano gli
impennaggi di colori diversi per ogni squadra, annotando chi aveva inferto
il colpo mortale. Due tabelloni erano situati sugli spalti occidentali e
orientali, gestiti da ragazzini agili che segnavano il totale di ogni squadra
inserendo delle pietre nelle apposite fessure. Sidonius indicò il punteggio.
«Siamo in testa.»
Dalla folla si levò un boato che trascinò l’attenzione di Mia via dai punti.
La squadra dei Phillipi aveva adottato una strategia di partenza aggressiva,
trascurando i prigionieri e attaccando rapidamente gli altri. Il loro arciere
stava prendendo di mira Bryn e Byern e le sue penne dall’impennaggio nero
fischiavano nell’aria. Byern protesse sua sorella dietro lo scudo mentre lei
conficcava un proiettile in uno degli ultimi prigionieri e poi si girava per
rispondere al fuoco, costringendo l’arciere dei Phillipi a mettersi in
copertura. Nel frattempo, i Leoni di Leonides stavano scambiando colpi con
i Lupi di Tacitus e la folla esultò quando Armando centrò la coscia
dell’arciere dei Lupi con un abile tiro.
«Primo sangue ai Leoni di Leonides!» urlò l’editorii.
Squillarono le trombe.
“Otto giri al termine.”
Quattro coronae furono gettate a casaccio sul circuito, i serti argentei che
scintillavano nella polvere. Valevano un solo punto, ma con il primo e
l’ultimo posto ravvicinati, tutto contava. Bryn scagliò tre colpi all’arciere
dei Phillipi mentre suo fratello si sporgeva dalla biga per raccogliere una
coronae. Le Spade presero la seconda, i Leoni una terza. Sul circuito
risuonava il fragore degli zoccoli e le frecce tagliavano l’aria, mentre Mia e
i suoi compagni continuavano a guardare esultando assieme al resto della
folla.
“Sei giri all’arrivo.”
Caddero altre coronae. Squillarono le trombe e il terreno rimbombò
quando le sabbie si aprirono. Barricate di legno si innalzarono dalle sabbie
lungo il percorso, ricoperte da intrichi di affiledera. Come se il rischio della
collisione non fosse sufficiente, tutte le barricate presero fuoco allo stesso
momento. Ora i sagmae erano costretti a concentrarsi di più sulle curve
delle loro bighe e meno sul proteggere i loro compagni, e diminuendo la
velocità era più facile avvicinarsi. Le frecce presero a volare fitte e rapide;
Mia imprecò quando Bryn fu scalfito da un colpo che Byern non riuscì a
deviare in tempo. Mentre la folla si entusiasmava, i Lupi di Tacitus
riuscirono a mettere a segno un colpo su Ammazzapietra, una freccia
dall’impennaggio bianco che gli penetrò a fondo nello stinco.
Ammazzapietra barcollò, crollando in ginocchio e abbassando lo scudo
quando la loro biga slittò all’impazzata. L’arciere dei Lupi tirò di nuovo e la
folla urlò quando Armando fu centrato alla spalla. Con l’abilità che li aveva
resi campioni, Ammazzapietra riportò la biga sotto controllo e Armando
strappò la freccia dal suo braccio e quella dalla gamba del suo sagmae. Ma
il sangue usciva copioso e i Lupi usarono quel tempo per raccogliere altre
tre coronae, passando in testa.
Mia scosse il capo, guardando Bryn e Byern perdere altro terreno.
“Quattro giri alla fine.”
Altri serti furono gettati sulla pista, stavolta mezza dozzina. I Lupi
mantenevano il primo posto, mentre i Falconi e i Leoni erano secondi a pari
merito. Bryn era come posseduta, scagliando un tiro dopo l’altro contro i
suoi avversari. Le Spade erano ultime in classifica, la loro situazione
disperata. Nella fretta di raccogliere una coronae, il sagmae delle Spade
aveva fatto passare la loro biga troppo vicino a una barricata e la ruota
aveva cozzato contro l’affiledera in fiamme con una pioggia di scintille. Il
sagmae perse l’equilibrio e cadde in ginocchio, così Bryn ne approfittò per
un tiro stupendo: la sua freccia dall’impennaggio rosso penetrò attraverso la
gola dell’auriga.
L’uomo gorgogliò mentre un secondo colpo gli si conficcava nel petto. I
cavalli sbatterono contro un’altra barricata, spezzando di netto la traversa, e
la biga rotolò e si schiantò in un groviglio scomposto.
«Prima uccisione per i Falconi!» gridò l’editorii. «Sangue e Gloria!»
Bryn alzò un pugno in segno di trionfo e Byern raccolse un’altra
coronae. Mia e i suoi compagni li acclamarono. Con quei cinque punti, il
Collegio Remus era tornato al primo posto. La vittoria era a portata.
«Restano due giri!» giunse l’avvertimento.
Il fumo si propagò dalle barricate alla pista, le sabbie rosse per il sangue.
Ora che gli avversari che li avevano tallonati per tutto l’incontro erano
morti, Byern frustò le sue giumente per farle galoppare più veloce,
colmando la distanza con i Leoni. Armando era rannicchiato sotto lo scudo
di Ammazzapietra ed entrambi sanguinavano copiosamente. La folla urlò,
domandandosi se gli amati Leoni stessero per essere uccisi, ma Mia strinse
gli occhi. Armando e Ammazzapietra non erano degli sciocchi, e un grosso
felino è ancora più pericoloso quando è ferito.
«State attenti!» urlò quando i Falconi passarono davanti alla finestra
della loro cella.
Bryn sollevò l’arco e prese la mira; l’arciere dei Lupi fece lo stesso dalla
loro posizione avanzata. La folla era in piedi, pensando che Ammazzapietra
e Armando stessero per cadere in quel fuoco incrociato. Ma con abilità
stupefacente, Ammazzapietra afferrò una ruota a mani nude e la tenne
stretta. Il trascinamento fece ruotare la biga di lato e i colpi dei loro nemici
andarono a vuoto. Armando si alzò dalla copertura e scagliò una freccia
verso i Lupi, che sibilò oltre lo scudo del sagmae sorpreso e si conficcò nel
collo dell’arciere. La folla lanciò un urlo mentre l’arciere barcollava e poi
ruzzolava nella polvere.
«Terza uccisione, Leoni!» giunse il grido.
La biga dei Lupi cozzò contro una barricata, facendola dondolare di lato.
Mentre tre colpi di Bryn andavano a conficcarsi nello scudo di
Ammazzapietra, Armando tirò di nuovo, colpendo l’auriga dei Lupi al
ginocchio e al petto. Quella crollò tenendosi la gamba mentre cadeva dalla
biga, trascinata per alcune centinaia di piedi prima di staccarsi.
«Leoni, quarta uccisione! Sangue e Gloria!»
La folla tuonò, ebbra per quella carneficina. Byern raccolse un’altra
coronae. Spina e Rosa erano entrambe madide di sudore. Ammazzapietra
frustò i suoi stalloni, cercando di mantenere la distanza dai Falconi. Con i
loro due colpi mortali contro i Lupi, adesso i Leoni erano in testa: dovevano
solo mantenere la distanza e tenere il passo con i Falconi nel raccogliere i
serti, e la vittoria sarebbe stata loro.
«Ultimo giro!»
L’intera arena era in piedi e il rumore formicolava lungo la pelle di Mia e
giù per la sua schiena. Sidonius stava borbottando sottovoce, spronando i
gemelli, Cantalame pregava sommessamente e Alzaonda era silenzioso
come la pietra. I cavalli schiumavano, la folla ululava, le fiamme
crepitavano, e Messer Cortese si gonfiò nell’ombra di Mia mentre la paura
cercava di attecchire nel suo stomaco e lei serrava con forza la mascella.
Osservò Byern frustare con forza i cavalli, cercando di rimontare terreno
affinché sua sorella potesse infliggere un colpo mortale. Disperazione sui
loro volti. Sangue sulla loro pelle. Morte nell’aria.
Osservando la folla, a Mia venne la nausea allo stomaco. L’euforia, lo
sguardo rosso vitreo nei loro occhi. Quattro persone erano là fuori sulle
sabbie a combattere per le proprie vite. Ma la folla non vedeva uomini e
donne con speranze, sogni e paure.
Lei voleva che Bryn e Byern trionfassero. Anche se sapeva di non dover
pensare a loro come amici, li conosceva. E le piacevano. Non voleva che
morissero. Ma rimase sorpresa nel rendersi conto di non volere che
nemmeno Ammazzapietra e Armando morissero assieme alle loro speranze,
sogni e paure. Solo per un alloro che comunque non aveva alcuna
importanza?
I Leoni si stavano avvicinando alla linea del traguardo. Gli spettatori
avevano bocche aperte da cui uscivano urla amorfe. Svoltando sul rettilineo
finale, Ammazzapietra si sporse in basso per raccogliere un’altra coronae. I
Falconi si precipitarono a girare l’angolo, galoppando così forte che la loro
biga si alzò su una ruota sola. Bryn scagliò attraverso la polvere, il fumo e
le fiamme: un tiro miracoloso che superò lo scudo dell’uomo e gli si
conficcò nel braccio. Ammazzapietra scivolò nel sangue, trascinandosi
dietro le redini. La biga sbandò di lato e la folla urlò quando andò a
impattare contro una barricata, schiacciando gli equillai all’interno come
fossero vetro. L’assale andò in frantumi e una ruota si staccò dai resti,
rimbalzando all’indietro lungo il circuito.
Proprio verso i Falconi di Remus.
Byern strattonò le redini, cercando di far deviare i suoi cavalli a sinistra,
ma andavano troppo veloce. La ruota ruzzolante tranciò le zampe di Spina e
la giumenta nitrì mentre crollava a terra. La traversa della biga colpì la
sabbia e Mia e i suoi compagni rimasero senza fiato
“Oh, no…”
mentre l’intera struttura si sfasciava come cartapecora secca e veniva
sbalzata in aria.
Bryn e Byern furono lanciati come bambole di pezza e la folla gemette
quando i gemelli si schiantarono al suolo. Bryn atterrò con la spalla nella
sabbia, ma suo fratello non fu così fortunato. Byern finì di testa contro una
delle barricate in fiamme e Mia sussultò allo scrocchio umido di ossa che si
frantumavano. Il Vaaniano attraversò l’intero ostacolo e rotolò fino a
fermarsi a venti piedi lungo la pista, steso in un mucchio scomposto appena
oltre la finestra della loro cella.
«Madre degli oceani» mormorò Cantalame.
La folla era sbalordita: entrambe le squadre di equillai si erano schiantate
prima del traguardo. Ammazzapietra e Armando giacevano tra i resti della
loro biga: la schiena del giovane arciere era torta a un angolo agghiacciante
e il suo compagno era accanto a lui, immobile. Ma nel riecheggiare del
disastro, presto la folla iniziò a esultare.
«Onnipotente Aa, guardate!» urlò Sidonius.
Mia strinse gli occhi per scrutare tra il fumo, accorgendosi che Bryn si
stava muovendo. Sulle prime lentamente, la ragazza si riscosse e si spinse
in ginocchio, togliendosi l’elmo piumato. Mentre Mia osservava e la folla
ricominciava a urlare, l’arciera si rimise in piedi ondeggiando.
Bryn era a una cinquantina di piedi dal traguardo. Le sarebbe bastato
superarlo a piedi e i Falconi avrebbero ottenuto la loro vittoria. Iniziò a
zoppicare verso di esso, tenendosi le costole e procedendo a passo incerto,
con la folla che cominciò a intonare: «Bryn! Bryn! Bryn!». La giovane
arciera sputò sangue sulla sabbia, il volto distorto e gli occhi fissi sulla
linea.
Finché non intravide suo fratello.
Mia trattenne il fiato quando la ragazza si fermò, e l’intera arena con lei.
La confusione attraversò il volto di Bryn. E poi si mise a zoppicare
ansimante verso Byern. Lui giaceva prono, solo a pochi piedi dal punto in
cui Mia e gli altri erano rinchiusi. Bryn cadde in ginocchio accanto a lui e lo
fece rotolare delicatamente.
«Byern?» chiese Bryn con voce tremante.
Mia vide del sangue sulle labbra del giovane. Occhi azzurri spalancati
verso il cielo ardente sopra di loro. Bryn allungò mani insanguinate per
scuoterlo.
«… F-fratello?»
«Oh, Figlie…» mormorò Sidonius.
«Respira, respira ancora» pregò Mia.
Bryn si sporse più vicino e premette l’orecchio sulle labbra di suo
fratello. Non sentendo nulla, lo scosse di nuovo e il suo volto si contorse
quando urlò.
«Byern?» gridò scrollandolo. «Byern!»
Guardie nerovestite marciarono nell’arena. Mentre controllavano i corpi
dei Leoni caduti, Bryn raccolse il suo gemello tra le braccia e iniziò a
urlare, gemere, piangere. Mia provò un dolore al cuore e le scivolarono
lacrime dalle guance. Sidonius era immobile come una statua. Alzaonda
chinò il capo quando Bryn urlò.
«BYERN!»
Le guardie si diressero al punto dove la ragazza era inginocchiata nella
polvere, trascinandola in piedi per le braccia. Bryn tornò in sé e si oppose,
scalciando e urlando: «No! NO!». Ci vollero quattro uomini per trascinarla
via dalla sabbia mentre si dibatteva e urlava il nome di suo fratello.
«Cittadini di Itreya!» giunse la voce dai corni dell’arena. «Siamo
spiacenti di dichiarare… nessun vincitore!»
Mia chiuse gli occhi. Dopo tutto questo, non era servito a nulla. Nessun
alloro. Niente gloria. Nulla di nulla. E allora, mentre le bruciava la pancia e
un gelo si insinuava nella sua pelle, udì la folla cominciare a fischiare. Con
lo sguardo fisso fuori dalle sbarre, vide gli spettatori in piedi, che gettavano
cibo e sputavano sulla sabbia. Quella sabbia macchiata del sangue di otto
uomini e donne, sette dei quali erano appena morti per il loro divertimento.
Sette persone con speranze, paure e sogni, che adesso non erano altro che
cadaveri.
E alla folla? Non importava un bel niente.
Tutto quello che volevano era una vittoria.
Mia prese un respiro profondo. Serrò la mascella. Sidonius e gli altri
rimasero alle sbarre, ma Mia girò i tacchi e si allontanò. Lo sguardo fisso
sulla pietra ai suoi piedi. Sul sentiero davanti a lei. Sulla vendetta che la
attendeva alla fine di tutto.
«… mi dispiace, mia…»
«Ti dispiace?» sussurrò lei. «E perché?»
«… era tuo amico…»
«Non sono la mia familia, ricordi?» replicò lei. «Non sono miei amici.»
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Erano quasi informi, appannate
dalle lacrime che aveva agli occhi.
«Tutti loro sono solo un mezzo per raggiungere uno scopo.»

a. La città di Whitekeep è una vasta metropoli sulle coste meridionali di Itreya ed è la sorella di
Godsgrave. La città di ponti e ossa si può vedere dal suo litorale e l’imponente acquedotto che
porta l’acqua alla capitale di Itreya scorre dalle montagne dietro Whitekeep, poi attraverso la
metropoli, sopra la baia fino a Godsgrave.
Decorato con statue di Aa e delle sue Quattro Figlie e sorvegliato a ciascuna estremità dalle
figure torreggianti di guerrieri ambulanti itreyani, l’acquedotto è un capolavoro di ingegneria e
una delle meraviglie della Repubblica itreyana. Il capo architetto fu un abitante di Whitekeep
chiamato Marius Gandolfini, a cui re Francisco II, il Grande Costruttore, commissionò la
supervisione del progetto.
L’acquedotto permise alla capitale itreyana di sbocciare da uno squallido letamaio a una
meraviglia ricca d’acqua, straripante di fontane, una complessa rete fognaria, centinaia di bagni
pubblici e ogni genere di impianto idrico. Anche se Gandolfini morì di vecchiaia prima che
l’acquedotto fosse portato a compimento, il suo nome è ancora venerato nella città di ponti e ossa
a tutt’oggi. Una statua del geniale architetto si erge orgogliosa nella Via dei Visionari nel Collegio
di Ferro, busti in marmo con le sue fattezze si trovano nei bagni pubblici di tutta la città, e certi
bordelli specializzati offrono un “Gandolfini” alla loro clientela più… avventurosa.
Usate la vostra immaginazione, gentili amici.
b. Malgrado affermazioni del contrario da parte di editorii entusiastici, ci sono solo sette Meraviglie
itreyane:

Le Costole di Godsgrave.
L’Acquedotto, anche quello a Godsgrave.
Il Mausoleo di Lucius I: luogo dell’estremo riposo del primo Re Magus liisiano, la ziggurat
torreggia per quasi cinquecento piedi e stupisce gli ingegneri contemporanei per la genialità
della sua costruzione.
Le Cascate di Polvere di Nuuvash: una serie di imponenti dirupi nell’Ashkah meridionale, da
cui piovono valanghe di polvere dalle Frusciaride negli oceani sottostanti.
La Statua di Trelene a Farrow: situata nell’alto tempio della capitale dweymeri, questa scultura
di marmo e oro della Madre degli oceani compie miracoli quando fonti attendibili non
guardano.
Le Mille Torri: una serie di guglie di pietra naturali, che si innalzano per centinaia di piedi
dall’antico alveo di un fiume ad Ashkah. Per la verità, ce ne sono solo
novecentosessantaquattro. Ma “Mille Torri” suona meglio.
Il Tempio di Aa a Elai: costruito dal Grande Unificatore, Francisco I, per commemorare la sua
conquista di Liis. Al centro si erge una statua di dieci piedi fatta d’oro massiccio; il materiale
fu acquisito fondendo le fortune personali di ogni familia nobile liisiana che si oppose a
Francisco in battaglia.
Menzioni d’onore per l’elenco delle meraviglie includono il Grande Sale; la Tomba di Brandr I; una
cortigiana di nome Francesca Andiami, in grado di fare cose straordinarie con una ciotola di
fragole e un rosario; e personalmente sono stupito che qualcuno di voi abbia dedicato del tempo a
leggere questo quando sta per cominciare la dannata corsa di cavalli.
CAPITOLO 24
OSSIDIANA

Vuoto.
Era quello che Mia sentiva dentro di sé ascoltando la folla pestare con
impazienza sugli spalti mentre il cadavere di Byern veniva trascinato via.
Con i capelli lunghi che le pendevano attorno agli occhi, si tenne occupata
fissando la corazza di cuoio al petto e gli schinieri di ferro attorno agli
stinchi. Ogni movimento era freddo.
Metodico.
Meccanico.
«… STAI BENE …?»
Un sussurro all’orecchio, sotto l’ombra dei suoi capelli.
«… mia…?»
Le guardie, nelle loro armature nere, arrivarono alla porta della loro cella
per prenderli. Dietro di loro c’era Furian con la sua armatura scintillante, un
elmo di Falcone sulla testa, il torque argenteo da campione che gli luccicava
attorno al collo. Arkades zoppicava accanto all’Imbattuto, il volto simile a
una maschera. Domina Leona camminava davanti a tutti loro, fulgida in un
lungo abito azzurro cielo, le lacrime che sbaffavano il kajal attorno ai suoi
occhi. Mentre le guardie aprivano la porta della cella, Mia incontrò lo
sguardo della sua Dominatii, cercando di valutare il suo dolore.
Era sincero? Oppure vuoto come il suo petto in quel momento?
«Dominatii?» chiese Cantalame piano. «Bryn è…»
«È con Verme» mormorò la domina. «Lei… non sta bene.»
«Suo fratello è morto là fuori, Dominatii» disse Sidonius. «Come altro
dovrebbe stare?»
«Io…»
«Basta» ringhiò Arkades. «Byern è morto con onore, come gladiatii.
Concentratevi sull’incontro e lasciate da parte i pensieri preoccupanti. La
vostra avversaria non ne sarà intralciata.»
Mia continuò a fissare Leona. Valutò tutto quello che sapeva di quella
donna. La domina era cresciuta circondata dalla violenza dell’arena. Ma
anche se manteneva una stalla di uomini e donne che combattevano e
morivano per il divertimento della folla, nel suo petto poteva rimanere una
qualche umanità. Mia ne aveva visto degli accenni al bagno con la
magistrae, forse perfino nei suoi gesti di tenerezza riluttanti per Furian. In
lei non c’era solo il desiderio di prevalere su suo padre. La domina avrebbe
mostrato vero dolore, adesso, oppure li avrebbe spronati a “vendicare il loro
fratello caduto” e, guarda caso, farle anche ottenere il posto al magni?
Leona prese la mano di Mia. Poi anche quella di Cantalame.
«Io…»
Scosse il capo, cercando di parlare. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi.
«State attente, là fuori» mormorò infine.
Cantalame sbatté le palpebre dalla sorpresa. Poi guardò Arkades.
«… Sì, Dominatii.»
«L’incontro attende, Mea Domina» la avvisò il capitano della guardia.
Leona annuì e si asciugò il viso. «Molto bene.»
Furono scortati attraverso le viscere dell’arena, il clamore palpitante
della folla che riecheggiava nelle travi del soffitto. Raggiunsero un’ampia
area di allestimento in pietra nera, con una saracinesca di ferro e quattro
scalini larghi che scendevano sul piano dell’area. I suoni della folla si
riversarono su di lei e Mia strinse la mascella, gli occhi fissi sulla sabbia.
«Questo è il momento» disse Arkades. «L’immortalità a portata di mano.
Un’opportunità di incidere il vostro nome nella terra, di onorare la vostra
Dominatii e vincere la vostra libertà. Solo un nemico si para tra voi e il
magni. Un nemico che può sanguinare. Un nemico che può morire.» Fissò
ciascuno di loro con il suo sguardo azzurro ghiaccio. «Voi siete gladiatii del
Collegio Remus. Prevalete assieme, o cadete da soli.»
Furian annuì. «Executus.»
«Sì, executus» mormorò Cantalame.
Mia lo fissò e basta, ricordando cosa le aveva riferito Messer Cortese
sulle parole di Arkades all’Imbattuto nella sua stanza. Sapeva di essere solo
una seccatura per quest’uomo, una pietra da calpestare sulla strada per il
magni. Lui la stava usando soltanto per veder innalzare Furian, per
raggiungere i propri scopi.
“Così sia, bastardo. Usiamoci a vicenda.”
E allora Mia parlò, la voce gelida come freddinverno. «Executus.»
Leona non aggiunse altro e i due lasciarono la zona di allestimento. La
porta venne chiusa a chiave alle loro spalle. Furian le lanciò un’occhiata in
tralice, l’espressione nascosta sotto l’elmo da Falcone. Gli occhi di
Cantalame erano fissi sull’arena mentre infilava le sue salciocche attraverso
la corona dell’elmo e se lo infilava sul capo. Soppesando un grosso scudo di
ferro sbalzato con un falcone rosso, gettò indietro la testa e le lame dalla
punta affilata che aveva intrecciato in fondo alle sue ciocche scintillarono
nella soliluce.
Mia aprì e chiuse le mani vuote, l’ombra che tremava: tutta la fame, il
desiderio e l’energia ansante che provava quando si trovava vicino a Furian
affiorarono. Non si curò di prendere uno scudo: era comunque incapace di
usarlo. Messer Cortese ed Eclissi si ingrossarono nella sua ombra, balzando
sulle farfalle che cercavano di alzarsi in volo nel suo stomaco e uccidendole
una a una.
Sapeva che questo sarebbe stato il combattimento più duro di tutta la sua
vita.
Suonarono le trombe, zittendo la folla e facendo trasudare le mura stesse
di trepidazione.
«Un momento…» disse Furian, osservando il capitano della guardia.
«Dove sono le nostre spade?»
«Ci aspettano» rispose Mia piano. «Là fuori.»
«Cittadini di Itreya!» riecheggiarono le parole dell’editorii nel silenzio.
«Onorevoli administratii! Senatori e midollani! Vi presentiamo un incontro
speciale tra i Leoni di Leonides e i Falconi di Remus!»
Un mormorio eccitato si diffuse tra la folla.
«Questo incontro sarà combattuto ex mortium, nessuna resa, nessuna
pietà concessa. Il sanguila Leonides ha messo in palio un posto nel Venatus
Magni! Se i Falconi di Remus dovessero risultare vincitori, a sua figlia, la
sanguila Leona del Collegio Remus, sarà permesso di far partecipare i suoi
gladiatii ai grandi giochi di Godsgrave, a sei settimane da oggi.»
Il mormorio divenne un fragore sempre più forte.
«Entrando dal Cancello della Costa per i Falconi di Remus, vi
presentiamo Cantalame, la Mietitrice di Dweym! La Bellezza Sanguinaria e
Salvatore di Stormwatch, Corvo! E il Campione di Talia, l’Imbattuto in
persona, Furiaaaaan!»
La folla si alzò in piedi, ruggendo la sua approvazione. La saracinesca si
sollevò e, con un’ultima occhiata tra loro, i tre Falconi uscirono sulla
sabbia, scortati dalle guardie. Cantalame e Furian alzarono le mani in segno
di saluto e la folla lanciò urla come risposta, migliaia e migliaia. Mia si
accigliò e basta. Ricordò che non molto tempo fa quell’applauso aveva
entusiasmato la sua anima. Ora sapeva che non acclamavano lei, ma lo
spettacolo sanguinoso che forniva. Non aveva importanza chi vibrasse la
lama. Solo che ci fosse il collo di qualcun altro a incontrarla.
Voleva che tutto questo finisse, voleva che questa festa di sangue
terminasse, che Duomo e Scaeva morissero e che lei potesse trascorrere
mille anni in una sorgente calda per lavar via il sangue e la puzza…
La grande isola che aveva delimitato il percorso degli equillai era scesa
di nuovo sotto la superficie dell’arena grazie ai congegni mekana. La sabbia
davanti a loro era uniforme, color bianco sporco, striata di rosso fresco.
«Aspettate qui» ordinò il capitano della guardia. «Non muovetevi finché
non sarà l’editorii a comandarlo, o sarete squalificati.»
Le guardie tornarono alla saracinesca e li sigillarono dentro.
«Cosa ’bisso sta succedendo qui?» borbottò Cantalame.
«Rimanete dove siete» replicò Mia. «E preparatevi.»
«Sai qualcosa che non sappiamo, Corvo?» ringhiò l’Imbattuto.
«Furian» sospirò lei. «Le cose che io so e tu no potrebbero riempire il
fottuto Grande Sale.»
«Entrando dal Cancello della Torre per i Leoni di Leonides, vi
presentiamo un orrore proveniente dalle Montagne Spinadraco! Una reietta
tra la sua specie, il suo stesso nome significa morte nella lingua del
Dominio! Ecco a voi, Ishkah, l’Eeeeeeesule!»
Un mormorio meravigliato si diffuse tra la folla mentre la saracinesca
nella parete nord dell’arena si apriva stridendo. Dalle ombre comparve la
serica di Leonides, fiancheggiata da mezza dozzina di guardie. Era coperta
da una magnifica armatura dorata, con rifiniture verde smeraldo. Una pelle
di leone era drappeggiata sulle sue spalle, con la testa e la maestosa criniera
adattate attorno all’elmo. Mentre la folla prorompeva in acclamazioni, la
serica fece il suo ingresso nell’arena. Le guardie si allontanarono marciando
in formazione e la saracinesca si chiuse alle loro spalle.
Mia guardò il loro nemico dall’altro lato della sabbia mentre il vento
soffiava più forte, alzando la polvere. Ishkah era alta sette piedi, tutta
chitina scintillante e muscoli, le labbra dipinte di bianco nuvola. Si scrollò
di dosso la pelle di leone e le sei braccia si spiegarono come un fiore che
sbocciava. La sua pelle verde scuro scintillava nella soliluce mentre fissava
i suoi avversari con quegli occhi amorfi.
«Madre degli oceani» mormorò Cantalame. «È uno spettacolo.»
«Preparatevi e basta» disse Mia.
«Cittadini, ammirate!» gridò l’editorii. «Il vostro campo di battaglia.»
Un rombo profondo risuonò sotto le sabbie, lo stridore di ingranaggi
colossali. Il pavimento tremò, ma i compagni di Mia rimasero saldi mentre
una grande sezione del pavimento a forma di cuneo dove si trovavano
cominciava ad alzarsi. Piovve sabbia e Mia, guardando oltre il bordo, vide
l’enorme mekana lì sotto. Odorava di olio, zolfo e sale.
Altre parti della sabbia si stavano muovendo: l’intero suolo dell’arena si
suddivise in una serie di piattaforme a cuneo. Di altezze e dimensioni
diverse, le piattaforme cominciarono a ruotare lentamente attorno al
piedistallo centrale, girando, roteando e passando sopra e sotto ciascun’altra
come i pezzi a incastro di un enorme quadrante di orologio. Furian,
Cantalame e Mia si scambiarono occhiate e la Dweymeri bisbigliò una
preghiera a Trelene.
«Non si può dire che non sappiano come organizzare uno spettacolo»
borbottò Mia.
La folla esterrefatta stava esultando con quanto fiato aveva in corpo. Mia
e i suoi compagni ora si trovavano a una ventina di piedi dal livello del
suolo. Lei lanciò di nuovo un’occhiata nelle viscere mekana dell’arena:
scivolare giù avrebbe voluto dire ruzzolare in mezzo a quei grossi
ingranaggi cigolanti per essere ridotti in poltiglia tra denti metallici sporchi
d’olio.
«Armi!» urlò l’editorii.
La grande piattaforma circolare al centro dell’arena gemette e Mia vide
una dozzina di lame di lunghezze differenti sollevarsi dalle sabbie con l’elsa
verso l’alto. C’erano spade corte, spade lunghe e le crudeli scimitarre
ricurve preferite dall’Esule. Tutte quante erano nere, affilate come rasoi e
scintillanti nella soliluce.
«Dobbiamo correre a prendere le nostre spade?» borbottò Cantalame.
«Già» annuì Mia. «Ma attenti: sono fatte tutte quante di ossidiana, non
d’acciaio. Saranno affilate come vetro, ma fragili. Potrete vibrare solo pochi
fendenti prima che siano inutili. Parate con gli scudi, non con le lame.»
«Come lo sai?» domandò Furian.
«Ha dannatamente importanza?» ringhiò lei. «Facciamola finita e basta.»
«Niente stregoneria, Corvo» la ammonì lui. «Vinceremo questo alloro o
una morte gloriosa.»
Cantalame spostò lo sguardo tra i due. «Prevalere assieme o cadere da
soli, ricordi?»
«Gladiatii!» urlò l’editorii. «Preparatevi!»
Mia si contrasse come una molla, gli occhi su un paio di spade gemelle
al centro dell’anello.
«Buona fortuna, sorella» disse Cantalame. «Fratello. Che la Signora
degli oceani vi protegga.»
«Sì» annuì Furian. «Aa vi benedica e vi preservi, Tsana guidi le vostre
mani.»
Mia sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi. La folla era
come un tuono nelle sue orecchie. Guardò tra la calca irrequieta, in cerca di
una ragazza con capelli rossi tinti e occhi azzurri come cieli riarsi dai soli.
La sua ombra tremava alle estremità, fluendo come acqua verso quella di
Furian.
«Che la Madre vegli su di noi» sussurrò lei.
«Gladiatii!» tuonò l’editorii. «Iniziate!»
Mia partì di scatto, più veloce che poteva. Aveva il respiro che le
bruciava nei polmoni e lo sguardo fisso su quelle spade mentre la serica
scattava verso di loro dall’estremità opposta dell’arena tra il boato della
folla. Cantalame caricò solo a pochi passi dietro di lei, le lunghe gambe che
si muovevano fluide, Furian a chiudere la fila.
Mia raggiunse il bordo della loro piattaforma e superò con un balzo lo
spazio fino alla successiva. Il cuneo si mosse sotto i suoi piedi, girando in
senso orario, con quegli ingranaggi colossali che stridevano così vicino. La
sabbia scrocchiò sotto i suoi stivali e lei balzò verso l’ordine successivo di
cunei più piccoli, avvicinandosi al cuore dell’arena. Teneva gli occhi sulla
serica, che correva veloce diretta a quelle scintillanti lame nere. Provò un
tuffo al cuore quando si rese conto che…
“… ci arriverà per prima.”
Mia si protese tra le piattaforme semoventi, le sabbie mulinanti, gli
ingranaggi poderosi. La sua ombra tremò quando afferrò quella della serica
e la impigliò nei suoi stivali. Ishkah sibilò, barcollando momentaneamente
mentre Mia scattava verso il piedistallo centrale. Ma, con un’imprecazione,
percepì la sua stretta sulle ombre interrompersi e i piedi di Ishkah liberarsi.
“Fottuto Furian…”
«Niente stregoneria!» urlò lui alle sue spalle.
Ishkah raggiunse la piattaforma centrale: sei mani serpeggiarono in fuori
e afferrarono le else di sei crudeli scimitarre ricurve. La folla ruggì quando
la soliluce scintillò sull’ossidiana. La serica ruotò proprio nell’istante in cui
Mia balzò sul piedistallo, e tre delle sue lame brillarono fendendo l’aria,
dirette verso la gola di Mia. Con un rantolo, la ragazza si tuffò a sinistra,
colpì la sabbia con la spalla e rotolò sotto le lame fischianti e dietro Ishkah.
E con un sussulto, Mia afferrò due spade e le strappò via.
Si voltò proprio mentre Ishkah colpiva, le lame indistinte. Mia non osò
parare quei fendenti filo contro filo: l’ossidiana poteva frantumarsi se
colpita all’angolo sbagliato, e Ishkah aveva spade in abbondanza. Invece
danzò via tra la sabbia che volava, torcendosi a sinistra e a destra e
piegandosi all’indietro, allungando la spina dorsale. Uno dei colpi le passò
di poco sopra il mento. Ruzzolando all’indietro, rotolò in posizione
accucciata al bordo della piattaforma, ondeggiando in modo precario sopra
un mare semovente di ingranaggi di metallo stridenti.
Cantalame ruggì e andò a sbattere contro Ishkah da dietro: il suo scudo
impattò contro la schiena della serica e la sbalzò da terra. Ishkah cadde in
avanti, giù dalla piattaforma, finendo su una che passava lì sotto e rotolando
di nuovo in piedi. Quei pallidi occhi amorfi scintillarono nel vedere Mia
riacquistare l’equilibrio e Cantalame afferrare una spada lunga di ossidiana.
Ishkah fece qualche passo verso Furian, ma lui era troppo lontano, stava
volteggiando finalmente sul piedistallo centrale e ghermendo un’altra spada
di ossidiana. L’Imbattuto sollevò la sua lama in aria e la folla esultò in
risposta. La corsa era finita, tutti i contendenti armati. Ora la battaglia
poteva cominciare sul serio.
Ishkah spalancò le braccia, disponendo le scimitarre in un ventaglio
scintillante, e senza emettere un suono balzò di nuovo sul piedistallo
centrale. I tre Falconi si mossero per andarle incontro e Mia fu la prima a
scattare in avanti, rapidissima, con un colpo basso. Cantalame attaccò a
mezza altezza, proteggendo Mia con lo scudo, mentre Furian vibrava un
fendente verso la testa della serica. Ishkah si mosse con grazia stupefacente,
scivolando via dai colpi di Cantalame e Mia. Ma mentre sollevava una delle
sue lame per contrapporsi a Furian, l’impugnatura andò in frantumi come
ghiaccio sottilissimo.
La serica si riprese, tagliando l’aria con le scimitarre. Assestò un calcio
violento contro lo scudo di Cantalame, facendo perdere l’equilibrio alla
donna, più piccola di lei. Le sue spade aprirono un taglio superficiale sul
braccio di Furian. Una delle sue lame passò con un fischio accanto alla gola
di Mia e le scalfì la corazza, lasciando un ampio taglio nel cuoio. Prendendo
un respiro, Ishkah socchiuse quelle labbra bianco nuvola in un ringhio e
sputò una nube di veleno verde brillante dritto in faccia a Mia.
«… attenta…!»
Mia sussultò, ruotando disperatamente e voltando la testa. Il liquido
colpì il lato del suo elmo in uno schizzo denso. Quando toccò il metallo, il
veleno sfrigolò, corrodendo il ferro come una lama calda nella neve. Mia
rotolò fuori portata, strappandosi l’elmo via e sbattendo forte le palpebre.
Non le era arrivato nulla su occhi e pelle, ma Dea, c’era andato vicino…
L’Imbattuto contrattaccò con un urlo furibondo, calando la sua spada in
un brutale attacco a due mani. Ishkah sollevò due lame e le incrociò, ma le
spade si frantumarono semplicemente contro quella dell’Imbattuto. Mia si
schermò gli occhi dalle schegge di ossidiana mentre la serica sibilava dalla
frustrazione. Cantalame vibrò la propria spada, ma il suo colpo rimbalzò
contro l’armatura di Ishkah. Mentre Mia si rialzava, Furian percosse Ishkah
con il suo scudo, costringendola a indietreggiare verso il bordo della
piattaforma mentre un’altra delle sue scimitarre si infrangeva sull’armatura
di Cantalame. Mia effettuò un affondo, fintando in alto e colpendo in basso,
e la folla esultò quando ferì la serica alla coscia. Sangue verde schizzò sulla
sabbia e schegge di ossidiana volarono nell’attimo in cui Ishkah parò una
delle lame di Mia facendola finire per terra e pestandola con lo stivale.
Vibrò la sua scimitarra e Mia rotolò di lato mentre la quarta lama della
serica si frantumò sul terreno.
La lama di Furian era ancora intatta, a Mia ne restava una, e quella di
Cantalame era fratturata solo di poco. A Ishkah restavano due scimitarre e
tre nemici. Colpì simultaneamente, costringendo i Falconi a indietreggiare,
l’aria percorsa da un sibilo al passaggio delle sue armi. Furian era sulla
difensiva, respingendo con il suo scudo dove poteva. Cantalame e Mia
combattevano fianco a fianco: la donna intercettò uno dei colpi di Ishkah
sul suo scudo e deviò la spada contro il terreno, spezzandola in due. Ishkah
colpì con la sua ultima lama e l’impugnatura spezzata di un’altra, gli
attacchi che fischiavano in direzione della pancia e della gola di Cantalame.
Furian bloccò il colpo alto con lo scudo. Mia parò quello basso, rompendo
l’ultima lama di Ishkah all’impugnatura. Con un grido di guerra furibondo,
Cantalame caricò, centrando la serica nella pancia con lo scudo e
sbalzandola all’indietro giù dalla piattaforma. Ishkah emise un suono
schioccante di disperazione, afferrando l’orlo di una piattaforma di
passaggio per interrompere la sua caduta e trascinandosi su, al sicuro.
I tre Falconi rimasero assieme, ansimando per riprendere fiato. La serica
ruotò attorno al piedistallo centrale della sua piattaforma, gli occhi amorfi
fissi sui loro. Impugnava ancora le else delle sue spade rotte, con gli occhi
pallidi fissi sulle armi dei suoi nemici. L’ossidiana era fragile, ma non
avrebbe dovuto essere così fragile. Anche se le armi dei Falconi erano
scheggiate e graffiate, le scimitarre di Ishkah si erano dimostrate delicate
come foglie autunnali. Quasi come se…
Come se…
Un sorriso lento incurvò le labbra di Mia.
«Sembra turbata.»
«… la vipera c’è riuscita, allora…»
«Vorrei che non la chiamassi così.»
Mia arrischiò un’occhiata tra la folla e il suo cuore si gonfiò nel petto,
cercando ancora una volta tra gli spettatori capelli rosso sangue e un paio di
graziosi occhi azzurri. Non immaginava davvero che la mistura che aveva
concepito – una parte di acido calcitico, due parti di ossido borico – si
sarebbe rivelata così efficace sulle armi della serica. Non sapeva se Ashlinn
sarebbe stata tanto scaltra o rapida da intrufolarsi nelle viscere dell’arena e
cospargere le scimitarre di Ishkah con la soluzione prima dell’inizio
dell’incontro. Ma guardando le lame in frantumi tra le mani della serica e la
spada relativamente illesa nelle sue, seppe che in qualche modo Ash c’era
riuscita. La serica era praticamente disarmata e ora, perfino con il veleno e
quella velocità spaventosa, la bilancia tra loro era quasi pari.
La folla ruggì, spronando i Falconi a uccidere.
Furian guardò accigliato Mia. «Questo incontro si rivela più facile di
quanto chiunque supponesse.»
«Ma pensa!» replicò Mia.
«Corvo…» ringhiò Furian.
Mia guardò l’Imbattuto di sottecchi e ammiccò.
«Basta parlare» sbraitò Cantalame. «Sbudelliamo questa cagna orrenda.»
I Falconi alzarono le loro armi e si prepararono a caricare.
«Lame!» urlò l’editorii.
Mia udì un rombo e si voltò verso una piattaforma al margine dell’arena.
Ebbe un tuffo al cuore quando la sabbia tremò e dieci nuove lame di
ossidiana si sollevarono dal terreno.
«Merda…» mormorò.
«… suppongo che tu e la vipera non sapeste di quelle…»
«Merda, merda, merda.»
«… oh, questo è meeeeeraviglioso…»
La folla esultò quando Ishkah scattò verso le spade nuove, balzando da
una piattaforma semovente all’altra. Mia partì all’inseguimento e i suoi
compagni scattarono dietro di lei. Le piattaforme giravano e roteavano, una
grande danza mekana che era difficile da valutare, con il sudore che faceva
bruciare gli occhi a Mia.
Supponeva che Ashlinn avrebbe dovuto sospettare dell’esistenza di piani
di riserva nel caso in cui ogni contendente avesse rotto la propria lama, ma
ora non c’era tempo per lamentarsene: quelle nuove scimitarre non erano
state indebolite dalla sua mistura. Se Ishkah ci avesse messo le mani, lo
scontro sarebbe stato letteralmente ad armi pari, e quello non poteva
accadere. Ma mentre correva, Mia si rese conto con un tuffo al cuore che la
serica avrebbe nuovamente raggiunto le lame prima di lei.
«Furian?» rantolò.
«No!» sbraitò l’Imbattuto, balzando sopra un abisso rombante.
Sputando polvere dalla bocca mentre scuoteva il capo e malgrado il
calore bruciante dei due soli nel cielo, si protese comunque verso l’ombra di
Ishkah. L’avvertì nella sua stretta, fredda e tenebrosa, scivolare su come
serpenti per attorcigliarsi attorno ai piedi di Ishkah. La serica barcollò e
cadde in ginocchio; l’elmo le ruzzolò via dalla testa e cadde tra i mekana
sottostanti. Ma con una sensazione netta e lacerante, Mia scoprì che la sua
stretta veniva strappata via e la tenebra le scivolò tra le dita.
«Stronzo fottuto, dannazione a te!» inveì, il volto distorto.
«La vittoria si conquista!» urlò Furian in risposta. «Non si ruba!»
Ishkah raggiunse le spade, lanciando le sue lame spezzate nell’abisso ed
estraendone sei tutte nuove: stavolta erano lame lunghe, non scimitarre. Si
voltò per affrontare i tre quando si precipitarono e balzarono sulle
piattaforme verso di lei: era uno spettacolo magnifico, le lame che
fischiavano per l’aria in un motivo quasi ipnotico. Mia raggiunse per prima
la piattaforma, rotolando e scagliando una manciata di sabbia in faccia a
Ishkah. Aveva solo una spada, così quando la serica barcollò all’indietro
sfregandosi gli occhi, Mia si tuffò verso le lame rimaste per prenderne una
seconda e rimpiazzare la prima. Rotolò di lato quando le spade della serica
colpirono la sabbia e la folla emise un rantolo quando il suo stivale andò a
sbattere contro le costole di Mia. L’impatto fu fragoroso e Mia sentì le sue
costole incrinarsi e un fuoco ardente diffondersi nel petto. Con la saliva che
spruzzava dalle sue labbra, il volto di Mia si contorse vedendo Ishkah
sollevare la sua lama e…
Crac! Cantalame scagliò lo scudo in pieno volto della serica. Ishkah
strillò barcollando e il pubblico impazzì nel vedere che il bordo dello scudo
le aveva colpito uno degli occhi, frantumandolo come un guscio d’uovo.
Fluido verde colava dalla ferita mentre Mia si trascinava in piedi con un
ansito dolente e ghermiva un nuovo paio di lame. Cantalame superò il
baratro e Ishkah striiiiillò, ma la Dweymeri sollevò la sua lama crepata per
opporsi alla carica.
La spada di Cantalame andò in pezzi al primo colpo e la serica infuriata
le inflisse ferite profonde alla spalla, frantumando una delle sue armi sul
lato dell’elmo di Cantalame. La donna cadde in ginocchio, frastornata. Ma
mentre Ishkah sollevava le sue lame per darle il colpo di grazia, giunse
Furian, balzando oltre il divario con un urlo e andando a sbattere con lo
scudo contro la sua avversaria. I due caddero a terra in un intrico di arti e lo
scudo di Furian slittò lungo il terreno.
L’Imbattuto era a cavalcioni sulla serica, le dita agganciate nella sua
orbita sanguinante, calando le nocche sulla sua faccia più e più volte.
«Fottuta puttana!» Crac! «Sai chi sono io?» Crac! «Sono l’Imb…»
Ishkah stridette e sputò veleno. Il liquido biliare verde schizzò sul
pettorale di Furian e su per la gola scoperta. L’uomo urlò quando iniziò a
bruciare. Cadde all’indietro, artigliandosi il collo e rotolando nella sabbia
tra le urla della folla. Ishkah si rialzò in piedi con un ringhio gorgogliante,
raccolse le sue lame e le sollevò sopra la testa per finirlo.
La spada di Mia guizzò, deviando il colpo di Ishkah. La serica
contrattaccò, crepando la spada di Mia all’altezza dell’elsa e portando un
assalto diretto alla sua testa. La ragazza ripiegò, lanciando un urlo quando il
colpo le fendette la fronte, aprendole la guancia e riempiendole gli occhi di
sangue. Barcollando all’indietro, cadde su un ginocchio e Ishkah le assestò
un nuovo calcio brutale nel petto, facendo ardere incandescente il fuoco
nelle costole rotte di Mia. Senza fiato, lei ruzzolò all’indietro lungo il
terreno, riuscendo a malapena a fermarsi prima di precipitare dal bordo
della piattaforma.
Con un urlo informe, Cantalame sferzò il collo e le sue lunghe
salciocche falciarono l’aria. Le lame affilate che aveva intrecciato in fondo
alle trecce lacerarono la faccia di Ishkah e i suoi avambracci. Cantalame
caricò con una spada in ciascuna mano, impegnando la torreggiante serica
in un corpo a corpo sopra la sagoma prona di Furian. Le sue lame
tagliavano l’aria, fischiando, roteando, cantando, frantumando una delle
armi di Ishkah e conficcandosi a fondo nel fianco della serica. Cantalame
torse il polso, mandando in pezzi la spada di ossidiana dentro la ferita, tra
uno schizzo di sangue verde. Ishkah strepitò, affondando a sua volta e
aprendo l’avambraccio di Cantalame fino all’osso quando lei cercò di
deviare il colpo. Un pugno vuoto percosse la faccia della donna, una lama
falciò l’aria diretta alla sua gola e, mentre Cantalame si abbassava, la serica
alzò il ginocchio contro la faccia della sua avversaria.
Ci fu uno scrocchio di ossa e la spina dorsale di Cantalame si inarcò
quando lei volò all’indietro, l’elmo sbalzato via dalla testa e il naso ridotto
in poltiglia. Tenendosi le viscere lacerate con una mano, Ishkah proseguì,
dando un calcio brutale nel plesso solare della donna e facendola rotolare
lungo la piattaforma. Mia si alzò in piedi con il sangue che le colava dalla
guancia spaccata, rantolando quando si rese conto che Cantalame stava per
precipitare oltre il bordo.
«… MIA, NO …!»
Era stupido. Da idioti, in effetti. Qui l’obiettivo era la vittoria, non
l’eroismo, e Cantalame non era sua amica. Ma con un urlo disperato, Mia si
lanciò lungo la piattaforma, conficcò l’unica spada che le era rimasta nella
sabbia e afferrò il polso di Cantalame. Quella urlò quando finì oltre il
bordo, trascinando con sé Mia. La ragazza gridò mentre arrestava la loro
caduta, tenendo stretta Cantalame con una mano e l’elsa della spada con
l’altra, mentre nel suo petto sbocciava il fuoco delle costole rotte. La folla
ruggì dallo stupore, il volto di Mia contorto per la sofferenza. Le sue costole
erano premute contro il lato della piattaforma, mentre dieci piedi più in
basso quegli ingranaggi colossali ruotavano per far continuare quella
rivoluzione attorno al cuore dell’arena. La sua stretta era scivolosa per il
sangue, il suo corpo madido di sudore.
«Reggiti!» urlò.
Cantalame ansimò di dolore, il volto una poltiglia insanguinata. Lanciò
un’occhiata in basso, verso i mekana semoventi, poi alzò lo sguardo su Mia,
scuotendo il capo.
«Lasciami andare!»
«Sei matta? Arrampicati!»
«Sono troppo pesante, esile merdina! Lasciami andare!»
«Prevalere assieme o cadere da soli!»
Ishkah era in ginocchio, due mani premute sulla ferita orribile che
Cantalame le aveva inciso nel fianco, icore verde che le colava dall’occhio
a pezzi, la faccia sfregiata. Con le fattezze distorte, raspò nella polvere e
afferrò una spada caduta. Poi, con la forza di una montagna e la folla che
mormorava stupefatta, lei si alzò.
«Uccidi!» ruggì la folla. «Uccidi!»
«Oh merda…» mormorò Mia. «Cantalame, arrampicati!»
Ishkah cominciò ad avanzare verso di lei, la soliluce che scintillava sulle
sue spade. Mia sussultò, cercando di mantenere la stretta mentre Cantalame
si tirava su. Le sue costole stavano urlando, la faccia pulsava, i denti erano
stretti per il dolore. Le sue mani erano occupate: non poteva afferrare le
ombre, non poteva protendersi verso la tenebra come aveva fatto così tante
volte…
«… mia, guarda…!»
Oltre la serica, che avanzava lentamente, Furian si stava agitando. Si
tolse l’elmo, la carne di mento, mascella e gola una devastazione
gorgogliante e terribile, il respiro che gli sbatacchiava il petto. Le urla della
folla divennero un canto, un ritmo, pulsando con ogni battito del suo cuore.
«Uccidi! Uccidi Uccidi!»
«Furian!» urlò Mia.
L’Imbattuto alzò gli occhi e vide Cantalame cercare di alzarsi dalla
spalla di Mia, la faccia della ragazza macchiata di sangue e la serica solo a
pochi passi di distanza dall’eliminarli entrambi.
«Furian!» ruggì Mia. «La tenebra!»
Ishkah ringhiò, i denti come aghi snudati mentre veniva avanti.
«Uccidi! Uccidi! Uccidi»
«Fallo!» urlò Mia.
Cantalame si trascinò su oltre il bordo e allungò una mano verso Mia.
Ishkah sollevò la sua lama, solo a due passi di distanza. E con le dita
ripiegate e mostrando i denti in una smorfia, l’Imbattuto si protese verso
l’ombra sotto di lei e aggrovigliò i piedi della serica.
Ishkah barcollò, sibilando in preda alla confusione. La folla smise di
cantilenare e trattenne il fiato. Mia si tirò su oltre il bordo della piattaforma,
il volto distorto dall’agonia. Furian rantolò, crollando prono mentre perdeva
la sua stretta sulla tenebra, ma Ishkah si avvicinò e fendette Cantalame sulla
schiena, tagliando il cuoio e facendo sprizzare sangue. Cantalame crollò
con un urlo e, con un rantolo disperato, Mia afferrò la sua spada di
ossidiana dal terreno, poi ruotò via dall’arma di Ishkah e tranciò il braccio
della serica all’altezza del gomito.
Ishkah urlò, zampillando sangue verde. La folla era in delirio, urlando la
propria furia. Mia si torse, abbassandosi per tagliare la gamba della serica e
portandola in ginocchio. L’arena eruppe, il suono assordante, settantamila
voci che si levavano sempre più forti: «Uccidi! Uccidi! Uccidi!», i soli che
ardevano in cielo, il sangue che le pulsava nelle vene, il cuore che le
martellava nel petto mentre Mia urlava e vibrava la sua spada a due mani
con tutta la forza, tutta la furia, tutto il dolore, spiccando la testa di Ishkah
dalle spalle.
Sprizzò sangue che macchiò Mia di caldo verde appiccicoso. Il corpo di
Ishkah tremolò e sei braccia si contrassero mentre crollava giù dal bordo
della piattaforma verso gli ingranaggi stridenti lì sotto. Mia sussultò a
quello scrocchio gorgogliante e distolse lo sguardo, l’ossidiana insanguinata
ancora stretta in mano.
Tuttavia…
“… ce l’ho fatta.”
Squillarono le trombe, chiare e argentine, e le piattaforme si fermarono
con un tremito. La voce dell’editorii sovrastò il ruggito della folla pazza di
sangue, rimbombando sulle pareti dell’arena.
«Cittadini di Itreya! I vostri vincitori! I Falconi di Remus!»
La folla impazzì, il suo applauso assordante. Cantalame barcollò in
piedi, il volto illuminato di dolore e trionfo, il sangue che le colava dalle
ferite. Tuttavia sorrise, gettando il braccio sano attorno alla spalla di Mia e
baciandole la mano insanguinata.
“Noi ce l’abbiamo fatta…”
Voltandosi, Cantalame afferrò la mano di Mia nella sua e la alzò al cielo,
urlando alla folla.
«Qual è il suo nome?»
«Corvo!» tuonarono.
«Qual è il suo nome?»
Piedi pestavano, mani applaudivano, la parola riverberava per le sabbie.
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
Mia guardò la spada insanguinata che aveva in mano. Poi Furian,
raggomitolato per terra in una palla, le mani alla gola straziata. Sollevò gli
occhi sul palco dei sanguila e vide Leona in piedi, lo sguardo orripilato
fisso su Furian. Arkades era accanto a lei, le mani sollevate in un applauso
misurato.
Mia pensò a Godsgrave, al Venatus Magni, al posto che la sua vittoria
adesso aveva assicurato. Pensò a Bryn, a suo fratello morto che aveva
cullato tra le braccia mentre piangeva. Pensò a suo padre, che le teneva le
mani mentre la faceva piroettare in qualche luccicante sala da ballo, i piedi
di Mia sopra i suoi mentre ballavano. A sua madre, che la costringeva a
guardare mentre lo impiccavano, mentre sussurrava le parole che avrebbero
plasmato Mia per sempre, quando la speranza che i bambini respirano e gli
adulti rimpiangono avvizzì e si staccò, fluttuando come cenere nel vento.
«Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.»
“Qual è il mio nome?”
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
“Qual è il mio nome?”
«CORVOCORVOCORVOCORVO!»
Un piacere oscuro nelle sue viscere.
Sangue caldo sulle sue mani.
Mia chiuse gli occhi.
Sollevò la sua lama.
“O Madre, Madre nera, cosa sono diventata?”
LIBRO 3
IL GIOCO
CAPITOLO 25
MARCIO

«Tenetelo fermo!»
«Dio onnipotente, brucia!»
«Tenetegli le gambe, dannazione a voi!»
«Aa, aiutami! Aiutami!»
Mia sedeva in un angolo buio della cella, le costole che bruciavano e uno
straccio zuppo di sangue tenuto contro la guancia ferita. Poteva percepire
l’adrenalina dello scontro guastarsi nelle sue vene, le mani tremanti. Sopra,
la folla esultava, con l’Ultimae in pieno svolgimento, e la pietra sotto di lei
riverberava per la furia dell’incontro finale. Cantalame era seduta lì
accanto, il braccio fasciato con un panno intriso di sangue e Mia che le
premeva una banda fradicia contro la ferita frastagliata sulla schiena.
Entrambe avevano bisogno di punti, il sangue che si addensava sulla pietra
attorno a loro. Ma le mani di Verme erano fin troppo occupate.
«Legatelo!» ordinò la ragazza. «Sta solo peggiorando le cose!»
Furian urlò di nuovo, tremante, con tutto il fiato che aveva in corpo, il
suo dolore che riecheggiava per le viscere dell’arena. Era steso su una lastra
di pietra, con l’executus e tre delle guardie di Leona che cercavano di
tenerlo fermo. Aveva la carne di gola, mascella e petto ricoperta di vesciche
che rilasciavano umori per il tocco del veleno della serica. Sembrava
impazzito per la sofferenza, i muscoli di braccia e torace tesi mentre
gridava.
Domina Leona era in piedi presso la porta, lo sguardo inorridito.
«Onnipotente Aa…» sussurrò.
«Legatelo!» gridò di nuovo Verme.
Arkades chiuse dei pesanti ceppi di ferro attorno alle braccia, i piedi e la
vita di Furian, fissandolo alla lastra. Ma l’Imbattuto continuava a dibattersi,
escoriandosi polsi e caviglie contro i ferri e sbattendo la nuca sulla pietra.
Mia aveva visto il dolore in precedenza: la flagellazione di sangue nella
Montagna, la sua marchiatura in quella cella ai Giardini Pensili. Ma non
aveva mai visto un’agonia del genere in tutta la sua vita.
«Devi sedarlo, Verme» disse lei.
«Non ho sonnolerba!» urlò la ragazzina, indicando uno scrigno di erbe e
medicamenti. «Si è tutto guastato sulla strada fin qui!»
«Hai del Deliquio?»
«L’ho usato tutto su Macellaio!»
«Quattro Figlie» imprecò Leona. «Ne hai portato solo un ditale?»
«Con tutto il rispetto, Dominatii, ma non mi date soldi per fare scorte da
mesi!»
«Be’, devi fare qualcosa!» urlò Leona. «Ascoltalo!»
Furian urlò di nuovo, la bocca spalancata, la gola che gli sanguinava per
lo sforzo. Con un sussulto per le sue costole incrinate, Mia si alzò e zoppicò
fino allo scrigno delle erbe di Verme. Con le dita appiccicose per il sangue,
frugò tra le fiale, i barattoli di polveri e liquidi, tutte le lezioni dell’aula di
Ammazzaragni che le ronzavano nella testa.
«Cosa ’bisso stai facendo?» ringhiò Arkades.
Mia ignorò l’executus e passò a Verme mezza dozzina di barattoli.
«Macina la cotennerba con la testa-di-vergine, aggiungi un pizzico di
onniradice e miscela con dell’aureovino.»
«No» si accigliò Verme. «L’alcol calcificherà la testa-di-ve…»
«Questo è il motivo per cui serve la motafoglia» la interruppe Mia.
«Mettila in infusione nel… anzi, lascia fare a me. Tu vai a mettere i punti a
Cantalame. Sta sanguinando su tutto il fottuto pavimento.»
«Corvo?» chiese Leona.
Mia si voltò verso la donna presso la porta. «Fidatevi di me, Dominatii.»
Leona guardò in direzione di Furian, che si contorceva ancora per
l’agonia. Annuì con gli occhi colmi di lacrime e Mia si mise al lavoro per
miscelare il suo intruglio. Verme prese ago e filo di seta e si mise all’opera
per suturare l’orrenda ferita sull’avambraccio di Cantalame. L’arma della
serica aveva tagliato la donna fino all’osso, e il sangue scorreva come vino
a buon mercato a una festa della veraluce. Cantalame strinse i denti e fissò
gli occhi sull’Imbattuto.
«Puoi salvarlo?»
«Posso farlo dormire» replicò Mia. «Executus, mi occorre la vostra
fiaschetta.»
Arkades sollevò un sopracciglio quando Mia protese una mano
insanguinata.
«Il vostro aureovino, ora!»
Arkades mise una mano nella tunica e tirò fuori la sua fiaschetta
d’argento. Mia versò la sua mistura nell’alcol e la agitò per bene.
Furian stava ancora sgroppando, urlando e implorando. Quando Mia si
avvicinò, la fiasca in mano, l’ombra dell’uomo iniziò ad allargarsi sulla
pietra, protendendosi verso la sua. Fu solo la luce fioca della cella e la scena
drammatica che si svolgeva sulla lastra a impedire che qualcuno lo notasse
subito. Mia si mosse rapidamente, spintonando via una delle guardie.
L’ombra dell’Imbattuto si fuse nella sua: tutta la nausea, la fame che
provava quando si trovava vicino a lui le montò nell’esofago fino a farla
quasi vomitare. Barcollò e per poco non lasciò andare la fiasca, ma Arkades
la afferrò per le spalle per impedirle di cadere.
“Madre Nera, posso sentirlo…”
«Stai bene?»
“… come se fosse una parte di me.”
«Tenetegli la b-bocca aperta» disse Mia.
Il dolore per la guancia spaccata e le costole rotte era terribile, ma ne
provava un altro anche nella gola e nel petto: era come se l’agonia di Furian
si stesse in qualche modo trasferendo dentro di lei, peggiorando quella già
esistente.
«Furian, devi bere!» urlò Mia. «Mi senti?»
Un lamento gorgogliante di dolore fu la sua unica risposta, così Mia
rovesciò la fiasca nella bocca dell’uomo. Lui borbogliò, cercando di sputar
fuori la dose, ma Mia gli serrò la mano sulle labbra piene di vesciche e
ruggì: «Inghiotti!».
Furian sgroppò, tendendosi contro i ceppi, con le lacrime che gli
sgorgavano dagli occhi. Ma alla fine fece come ordinato e la sua gola
straziata andò su e giù quando bevve quell’intruglio bruciante. Ci vollero
alcuni minuti perché facesse effetto: Mia non stava lavorando con gli
ingredienti più adatti, dopotutto. Ma lentamente i movimenti dell’Imbattuto
rallentarono, le sue urla divennero gemiti e infine, dopo quella che sembrò
un’eternità nelle viscere poco illuminate sotto quella sabbia insanguinata,
gli occhi iniettati di sangue di Furian sfarfallarono e si chiusero.
Mia cadde in ginocchio, i capelli appiccicati alla fronte, la testa che
ondeggiava.
«Dove hai imparato a farlo?» chiese Verme stupefatta.
Mia chinò il capo, la vista ballonzolante.
«… Corvo?» chiese Leona.
«… mia…?»
«…MIA …?»
Sangue sulle sue mani, nei suoi occhi, il sapore della medicina amara che
non aveva mai bevuto sulla sua lingua. Abbassò lo sguardo sulla propria
ombra. L’ombra che sarebbe dovuta essere abbastanza scura per tre. Ma
mentre la stanza ondeggiava davanti ai suoi occhi, mentre il dolore delle sue
ferite e il trauma dell’ordalia nell’arena e le agghiaccianti conseguenze si
levavano per far passare un velo nero sopra i suoi occhi, se ne accorse…
“Abbastanza scura per quattro…”

«Mia…?»
Si svegliò nella stiva di una nave, il cigolio delle travi sopra di lei e lo
sciabordio delle onde tutt’attorno. Quando aprì gli occhi, avvertì un tocco
fresco e delicato sulla nuca, un sospiro di sollievo sussurrato al suo
orecchio.
«… finalmente…»
L’amaca su cui era distesa rollava e beccheggiava, la sua bocca era secca
come polvere. Luce sgargiante filtrava attraverso un piccolo oblò di vetro,
da cui poteva intravedere due azzurri; quello brillante riarso dai soli e
quello intenso dell’oceano. Le bruciavano le costole come un fuoco
morente. Mia si portò una mano alla faccia e tastò una benda su guancia e
fronte, incrostata di sangue secco.
«Non toccarla» giunse una voce. «Guarirà meglio se la lasci stare.»
Mia alzò lo sguardo e vide Verme, gli occhi scuri e il sorriso grazioso.
Aleggiava sopra Furian, che dondolava in un’amaca accanto a lei.
Lanciando un’occhiata alla propria ombra, Mia vide che quella di Furian a
quanto pareva l’aveva lasciata mentre erano addormentati. Tuttavia
perdurava il senso di nausea, il dolore di una parte mancante di se stessa che
le cresceva nel petto.
Prese un respiro profondo, facendo segno in Senzalingua affinché solo
Messer Cortese potesse capire.
Dove?
«… la mastino glorioso…» giunse il sussurro in risposta. «… diretta a
crow’s nest…»
Eclissi? Ashlinn?
«… ci stanno seguendo, distanti solo una manciata di cambi…»
Furian?
«… non bene…»
Mia annuì fra sé, guardandosi attorno nella cabina. Non era mai stata
lassù, prima d’ora: ogni viaggio precedente l’aveva passato rinchiusa nella
stiva. La stanza era ingombra, uno scrigno pieno degli strumenti e delle
erbe di Verme e alcune casse di legno come uniche decorazioni. Tre amache
pendevano dal soffitto, Mia nel mezzo. Cantalame era alla sua sinistra,
pancia in sotto, gli occhi chiusi, il braccio che reggeva la spada e la schiena
avvolti in bende insanguinate. Alla sua destra, il campione del Collegio
Remus giaceva privo di sensi, zuppo. Torace e gola di Furian erano cosparsi
di un unguento verdastro, ma le ferite causate dal veleno della serica
sembravano ancora tremende. Sopra gli odori di acqua di sentina, mare e
sudore, Mia riusciva a fiutare gli inizi di una forte decomposizione in stadio
avanzato.
Verme le portò una tazza d’acqua fresca alle labbra e Mia bevve tutto
quello che le veniva dato nonostante il dolore, tirando un sospiro di
sollievo.
«Cantalame…» esordì, umettandosi le labbra secche. «C-come sta…»
«Se la passa bene» sussurrò Verme, per non disturbare gli altri che
dormivano. «I tendini e il muscolo del braccio hanno subito un brutto
taglio. Ma è stata suturata nel migliore dei modi. Credo che se la caverà.»
«E… F-Furian?»
Verme sospirò, esaminando l’Imbattuto. «Non così bene. L’infezione sta
prendendo piede, e temo che degenererà in sepsi del sangue. Mi occorre
riportarlo a Nest.»
«Navighiamo quanto più velocemente consentono lady Trelene e lady
Nalipse.»
Mia alzò lo sguardo e vide Domina Leona sulla soglia, gli occhi fissi
sull’Imbattuto. Al suo fianco c’era la magistrae, sempre a disposizione.
Come al solito, l’aspetto della magistrae era immacolato, ma Mia fu
sorpresa nel vedere la piega che aveva assunto Leona. Di solito la domina si
vestiva come se dovesse frequentare un salotto elegante, ma ora indossava
solo una semplice camicia da notte bianca. Mia riuscì a vedere che le sue
unghie erano rosicchiate fino alla carne viva. Nella mano destra reggeva il
torque d’argento che una volta cingeva il collo di Furian. Il metallo era stato
lievemente fuso dal veleno della serica.
«Dominatii» annuì Mia.
«Mio Corvo» rispose la donna. «Mi rincuora vederti sveglia.»
Mia si mise a sedere con un sussulto, la testa che ondeggiava. Si sentiva
la guancia gonfia e poteva avvertire il pizzicore delle suture sulla pelle. Con
le costole doloranti, prese una seconda coppa da Verme e la bevve fino a
svuotarla.
«P-per quanto tempo ho dormito?»
«Tre cambi dal tuo trionfo» disse Leona.
«È nostro, allora?» chiese, con un fremito allo stomaco. «Il magni?»
«Sì» rispose la domina, entrando nella stanza. «È nostro. Mio padre è
molte cose, piccolo Corvo. Un serpente. Un bugiardo. Un bastardo. Ma
nessun sanguila oserebbe rinnegare una scommessa fatta pubblicamente.
Con gli allori che ha vinto, ha posti in abbondanza. Può permettersi di
cederne uno a noi. Ma ora, grazie al sacrificio di Bryn e Byern, non ha più
equillai. E grazie al tuo valore, non ha più un campione.»
La donna fissò gli occhi su Furian.
«Tutto quello che abbiamo desiderato adesso è alla nostra portata.»
«Come sta Bryn?» chiese Mia.
Lo sguardo tormentato della domina fu l’unica risposta che ottenne.
Bryn aveva perso il fratello gemello davanti ai propri occhi. Schiacciato e
dissanguato davanti a una folla fischiante. E tutto per nulla. Niente borsello.
Nessuna gloria. Nulla di nulla.
“Come ’bisso ti aspettavi che stesse?”
«Come vanno le tue ferite?» chiese Leona.
Mia toccò con cautela le bende sulla guancia e guardò Verme.
«Dimmelo tu.»
«Hai le costole incrinate» rispose la ragazzina. «I lividi saranno
tremendi, ma andrai a posto. Il taglio sulla tua faccia sta guarendo bene.
Anche se temo che lascerà una cicatrice.»
Mia si concentrò su quel pensiero, che bruciò brevemente più caldo del
dolore delle sue ferite. Non era mai stata graziosa da ragazza: aveva
scoperto cos’era la bellezza solo quando Marielle aveva intessuto il suo viso
in un ritratto nella Montagna Silente. E, a dire la verità, si era beata del
potere che conferiva.
Si domandò cos’avrebbe potuto dire Ashlinn. Come avrebbe potuto
guardarla d’ora in poi, e se lei avrebbe odiato il riflesso che vedeva in
quelle pozze di azzurro riarso dai soli. Per un attimo, desiderò essere di
nuovo nella Montagna, dove Marielle poteva sanare tutte le ferite con un
gesto della mano. Supponeva che quell’opzione le sarebbe stata negata per
sempre ora che si era messa contro la Chiesa. Che avrebbe dovuto
apprezzare questa cicatrice e il marchio accanto a essa fino al cambio in cui
fosse morta.
Mia si figurò suo padre, che dondolava e soffocava davanti alla folla.
Sua madre, che si dissanguava piangendo tra le sue braccia. Suo fratello,
che moriva come un infante in una fossa senza luce.
E, lasciando cadere la mano dalla faccia, scrollò le spalle.
«La scelta tra un aspetto ordinario e uno grazioso non è una vera scelta.
Ma qualunque sciocco sa che apparire pericolosi è preferibile a entrambi.»
Un sorriso privo di allegria increspò le labbra di Leona, che scosse
lentamente il capo.
«Mi piaci, Corvo. Che il Semprevigile mi aiuti, ma mi piaci. Non so
cos’eri prima di questo, ma per l’assistenza che hai offerto al nostro
campione e per il tuo coraggio nell’arena, ti sarò sempre grata.»
«Mi domando se il vostro campione dirà lo stesso, Dominatii…»
Gli occhi della domina tornarono su Furian, le dita intrecciate così forte
attorno al suo torque d’argento da sbiancarle le nocche. Mia si domandò
con che frequenza la domina avesse visitato il suo capezzale da quando
avevano lasciato Whitekeep. Si domandò se forse lei tenesse davvero a lui.
Si domandò cosa avrebbe pensato Arkades di tutta quella situazione se solo
avesse saputo…
«Forse dovremmo risalire sul ponte, Dominatii?» mormorò la magistrae,
stringendo la mano della donna. «Lasciarli riposare.»
Leona sbatté le palpebre come se si stesse svegliando da un sogno. Ma
annuì e si lasciò condurre via. Quando raggiunse la porta della cabina, si
fermò e si voltò verso Mia.
«Grazie, Corvo» mormorò.
E, detto questo, se ne andò.

Cambio dopo cambio, la Mastino Glorioso veleggiava sul Mare delle


Spade, con un vento da mercante alle spalle. La Signora degli oceani fu
clemente e la nave entrò nel porto di Crow’s Rest una ventina di ore prima
del previsto. Ma perfino con Madre Trelene al suo fianco, sembrava che la
fortuna di Furian l’Imbattuto fosse praticamente esaurita.
Proprio come Verme aveva previsto, le sue ferite si erano infettate.
Quando arrivarono a Crow’s Rest, la carne attorno a petto e gola era scura e
trasudante, e l’odore dolciastro di marcio aleggiava su di lui come una
nebbia. Verme e Mia facevano del loro meglio per tenerlo sedato, ma lui
perdeva i sensi e tornava in sé di frequente. Quando era sveglio era a
malapena lucido e borbottava biascichii febbricitanti mentre dormiva. Mia
non aveva idea di cosa avrebbe comportato la sua morte per il collegio e per
Leona.
Un carro in attesa li portò di gran carriera verso Crow’s Nest, gli zoccoli
che percuotevano il fianco della collina. La conoscenza erbologica di Mia
pareva aver fatto colpo sulla domina, e lei viaggiava insieme a Verme e al
frastornato e gemente Furian, con Leona e la magistrae accanto. Arkades e
gli altri gladiatii furono lasciati a risalire la collina a piedi.
Il capitano Gannicus venne loro incontro ai cancelli e le guardie della
casa di Leona portarono Furian sul retro della fortezza. Malgrado il dolore
dato dalle costole rotte, una volta all’interno dell’infermeria di Verme, Mia
iniziò a cercare ingredienti che potessero placare l’avvelenamento del suo
sangue. Verme stessa scomparve nel capanno sull’angolo del cortile. Leona
aleggiava attorno come una chioccia, un fazzoletto premuto su naso e bocca
per soffocare la puzza, pallida di preoccupazione.
«Puoi salvarlo?» domandò.
Mia si limitò ad accigliarsi, sospirando mentre frugava tra gli scrigni e
gli armadietti di Verme. Quello che la ragazza aveva detto era vero: pareva
che fossero passati mesi da quando Leona le aveva permesso di ripristinare
le scorte. Perfino con tutto quello che aveva appreso da Ammazzaragni e
dalla sua amata copia di Verità arkemiche con le pagine sgualcite, non c’era
abbastanza con cui lavorare.
«Ci serve agriradice» affermò Mia. «Testa-di-vergine. Qualcosa per
eliminare il gonfiore, come stagnobacca o vescica di pesce palla. E
ghiaccio. Parecchio ghiaccio. Questa febbre lo sta consumando come una
fottuta candela.»
«Sai scrivere?» chiese Leona.
Mia sollevò un sopracciglio. «Sì. So scrivere.»
«Prepara una lista» ordinò Leona. «Tutto quello che ti occorre.»
Verme tornò dal capanno, ondeggiando sotto il peso di un vecchio
secchio di stagno. Lo posò con un tonfo sulla lastra insanguinata accanto
alla testa di Furian, poi si legò i capelli e cominciò a togliere le bende
intrise di pus dalla gola e dal petto.
«Cosa stai facendo?» chiese Mia.
«Ricordi quando hai chiesto come avessi ottenuto il mio nome?»
«Mi hai risposto di pregare di non scoprirlo mai» replicò Mia.
La ragazza trascinò il naso lungo il braccio, sussultando per la puzza
delle ferite di Furian. «Be’, non hai pregato abbastanza.»
Mia sbirciò nel secchio e vide una grossa massa in movimento: centinaia
di minuscoli corpi bianchi e teste nere che masticavano l’aria senza vederla.
Si portò la mano alla bocca e fu colta da un conato di vomito alla vista di
quegli striscianti…
«Quattro Figlie» rantolò. «Quelli sono…»
«Vermi» replicò la ragazzina. «Li allevo nel capanno.»
«… Per che ’bisso?»
«Cosa mangiano i vermi, Corvo?»
Mia guardò la carne sul collo e sul torace di Furian. L’infezione era
arrivata in profondità: le ferite erano striate di pus, i muscoli e la pelle erano
imputriditi per la decomposizione. Le vene attorno alla ferita erano scure
per la corruzione, e ogni battito del suo cuore non faceva che diffonderla
ancora di più.
«Carne marcia» sussurrò lei. «Ma cosa li fa smettere di mangiare…»
«Le parti buone?»
«Già.»
«I due barattoli sullo scaffale dietro di te. Portali qui.»
Mia fece come richiesto ed esaminò la scritta filiforme sui lati. Guardò la
ragazzina e un sorriso si insinuò involontario sulle sue labbra.
«Aceto e foglie di alloro. Sei davvero brava in questo.»
Verme le rivolse un sorriso privo di allegria e cominciò ad applicare le
larve alla ferita, spargendole come sale su carne rancida. Nauseata malgrado
quella dimostrazione di genialità, Mia iniziò a scrivere su una tavoletta di
cera, facendo una lista di tutto quello di cui avevano bisogno per tenere
Furian sedato, fermare la diffusione della sepsi e far cessare la febbre.
Mostrò la lista a Verme, che alzò lo sguardo quanto bastava per rispondere
con un grugnito di assenso, poi la passò a Leona.
La domina esaminò la tavoletta, poi la diede alla magistrae.
«Anthea, vai in città» ordinò. «Raccogli tutto quello che ti chiede il
Corvo.»
La magistrae esaminò la lista e sollevò un sopracciglio. «Dominatii, il
costo di…»
«Che si impicchi il dannato costo!» sbottò Leona. «Fa’ come ordino!»
La donna lanciò un’occhiata a Mia e Verme, poi increspò le labbra.
Tuttavia, guardò la sua padrona e si profuse in un inchino. «Il vostro
sussurro, la mia volontà, Dominatii.»
La magistrae uscì in cortile, la tavoletta di cera in mano. Domina Leona
si attardò, gli occhi fissi su Furian, masticandosi le unghie torturate.
«Lui deve vivere» mormorò.
Un ordine.
Una speranza.
Una preghiera disperata.
Ma Mia non aveva idea se fosse perché teneva a quell’uomo oppure al
magni.

Lavorarono per tutta l’illuminotte, con Verme che applicava le larve di


mosca brulicanti sopra le ferite di Furian, spalmando i bordi con aceto e
foglie d’alloro per respingere le larve dalla carne sana, poi avvolgendo
delicatamente tutto quanto con la garza. Mia era lì accanto, ad aiutare
quando poteva, ma perlopiù osservando con lo stomaco in subbuglio.
Dito portò loro l’ultimopasto e il cuoco emaciato scrutò Furian come se
fosse già morto. Zanna giunse poco dopo per annusare in giro in cerca di
avanzi e, con il dolore alle costole e la nausea per le cure di Verme, Mia
diede al mastino buona parte del suo pasto, grattandolo dietro le orecchie
mentre agitava la coda tozza. Anche Domina Leona si rifiutò di mangiare,
seduta a fissare l’Imbattuto senza dire una parola. Aveva gli occhi sgranati e
iniettati di sangue. Le guance scavate.
Gli altri gladiatii arrivarono a Nest e marciarono alla caserma
accompagnati dalle guardie. Arkades entrò zoppicando nell’infermeria,
impolverato e dolorante per la lunga camminata. Esaminò Furian, poi
premette una mano sulla fronte lustra di sudore dell’uomo e osservò il
movimento rapido del suo petto che si alzava e si abbassava. La lunga
cicatrice che gli tagliava in due la guancia si accentuò quando il viso
dell’executus si accigliò. Mia si toccò la benda sulla faccia. Ripensò ancora
una volta ad Ashlinn.
Si interrogò.
«Come sta?» chiese Arkades.
«Abbiamo fatto tutto il possibile fino al ritorno della magistrae» replicò
Verme. «Le erbe e gli infusi che è andata a prendere aiuteranno. Ma non c’è
nulla di certo, executus.»
Arkades annuì. «Corvo, torna alla caserma. Verme ti chiamerà se
servirai.»
«Preferirei rimane…»
«E io preferirei una villa nella Liis meridionale e riavere la mia vera
gamba» ringhiò Arkades. «È illuminotte fonda. Il tuo posto è sotto chiave
nella caserma.»
Mia lanciò un’occhiata a Domina Leona, ma la donna non stava
prestando la minima attenzione, il suo sguardo fisso su Furian. Toccando la
spalla di Verme in segno d’addio, Mia zoppicò fuori in cortile,
fiancheggiata da due guardie della casa. Arkades rimase, fissando la sua
signora con la fronte corrugata, meditabondo. Anche un pezzetto a forma di
gatto dell’ombra di Mia si trattenne.
«Mea Domina, dovreste riposare» disse Arkades.
«Resterò.»
«Verme può informarvi se ci sono cambia…»
«Resterò» sbottò Leona.
Verme alzò lo sguardo a quel grido, poi tornò rapidamente al lavoro.
L’executus spostò lo sguardo tra la sua signora e il gladiatii caduto sulla
lastra. Annuì lentamente.
«Il vostro sussurro, la mia volontà.»
Girando i tacchi, zoppicò fuori dall’infermeria e si diresse nel cortile.
Alzò lo sguardo verso i soli dell’illuminotte, il bagliore azzurro che
sbocciava sempre più intenso all’orizzonte. La veraluce era vicina, ora:
mancavano solo poche settimane prima che tutti e tre gli occhi del
Semprevigile bruciassero ardenti nel cielo. Purificando il mondo con il loro
calore. Esponendone tutti i peccati.
Peccati.
Arkades lanciò un’occhiata alle spalle in direzione della sua signora,
osservandola guardare il campione con le labbra increspate. E poi
procedette dentro la fortezza e lungo i corridoi, clink-tonfo, clink-tonfo, la
melodia della sua andatura. La sua fronte era un cipiglio cupo, le sue labbra
una linea sottile, i possenti pugni con i calli da spada serrati.
Non notò la piccola sagoma scura che lo seguiva, guizzando da
un’ombra all’altra. Silenziosa come un gatto.
Arkades superò zoppicando dipinti alle pareti di vecchie battaglie di
gladiatii, le armature e gli elmi scintillanti, i busti di marmo degli antenati
di Marcus Remus, senza degnarli della minima attenzione. Infine arrivò a
una porta al termine del corridoio e la aprì con una chiave di ferro.
Arkades entrò nella stanza di Furian. Incrociò le braccia ed esaminò la
scena. Il sacrario a Tsana sotto la piccola finestra. La Trinità di Aa alla
parete. Alcune spade e un fantoccio da addestramento. Un piccolo scrigno
per i miseri averi dell’Imbattuto.
Chiudendo la porta dietro di sé, Arkades zoppicò fino allo scrigno.
Inginocchiandosi con un sussulto, cominciò a frugarci dentro: due allori
d’argento vinti a Talia e a Blackbridge. L’elsa di una spada spezzata. Un
mazzo di carte ammuffite e alcuni dadi. Un perizoma di riserva. Un pettine
di lisca di pesce. Una manciata di mendicanti di rame.
Arkades si alzò, guardando accigliato per la stanza. Il suo volto si stava
incupendo, gli occhi che scintillavano di rabbia. Zoppicò fino al letto, cercò
dentro il cuscino e lo gettò per terra, strappò via le lenzuola, tastò il
materasso di paglia. Con un’imprecazione frustrata, rigirò il materasso e lo
scagliò contro il muro. E lì, sull’intelaiatura del letto, le vide.
Mutandine di seta.
L’executus si chinò, si portò al naso le mutandine e inspirò. Il debole
aroma di profumo al gelsomino. Lo stesso odore che aveva annusato
quando era venuto qui in visita prima del venatus, ammonendo l’Imbattuto
che il suo sapone lo faceva odorare come una donna.
«Fottuto bastardo…»
Arkades strinse le mutandine in un pugno, le nocche sbiancate.
«Ingrato…»
Arkades rimise tutto com’era nella stanza, rifacendo il letto e lisciando le
lenzuola. Il suo volto era pallido, la mascella serrata. Quando la camera da
letto fu come prima, si voltò e uscì di gran carriera dalla stanza, clink-tonfo,
clink-tonfo. Zoppicando lungo il corridoio, con nubi temporalesche sopra la
fronte, arrivò nella propria camera da letto e chiuse la porta con uno
schianto.
Arrabbiato com’era, l’executus non notò la magistrae vicino al deposito,
le braccia cariche dei medicamenti che era andata a prendere in città.
Ma la vecchia sicuramente notò le mutandine di seta che lui stringeva in
mano.
«… interessante…» sussurrarono le ombre.
CAPITOLO 26
ARGENTO

Si radunarono nel cortile dopo il primopasto.


Erano passati sette cambi, e c’erano stati pochi mutamenti: la febbre di
Furian si era abbassata, ma non si era estinta del tutto. Le larve di mosca
stavano… andando bene: facevano esattamente quello che fanno i vermi.
Quel procedimento era più che disgustoso, e la vista quando Verme tolse le
bende fu quasi più di quanto Mia potesse tollerare. E ancora non si riusciva
a capire se stesse servendo a qualcosa.
I gladiatii erano di cattivo umore, nonostante la loro vittoria nell’arena e
il posto che i Falconi di Remus avevano vinto nel Venatus Magni. Ma il
prezzo che avevano pagato…
Bryn rimaneva nella sua cella, senza parlare con nessuno nemmeno
durante i pasti. Cantalame forse non avrebbe combattuto mai più. Furian era
sempre sulla soglia della morte e Byern era semplicemente deceduto. Se
questo era il tributo da pagare per una possibilità di essere liberi, era zuppo
di sangue più di quanto la maggior parte di loro avrebbe preferito.
Arkades li aveva convocati su ordine della loro Dominatii: i soli
picchiavano sulla sabbia come martelli mentre i gladiatii del Collegio
Remus si radunavano. Le costole di Mia le facevano un male cane, e il
taglio sulla faccia pizzicava sotto la garza incrostata. Era strano vedere il
mondo con un occhio sotto una benda: le provocava mancanza di profondità
e perdita di equilibrio. Sapeva che sarebbe dovuta andare a trovare Ashlinn:
Eclissi era apparsa nella sua cella l’ultima illuminotte, informandola che la
loro nave era arrivata a Crow’s Rest. Ma con la situazione corrente
all’interno della fortezza, Mia non osava rischiare una visita. Furian poteva
svegliarsi da un momento all’altro, e se Verme l’avesse convocata per
aiutarla con le erbe nel mezzo dell’illuminotte e le guardie avessero
scoperto la sua assenza…
Toccò la fasciatura sul viso. Non aveva ancora fatto appello alla volontà
per guardare sotto di essa in uno specchio. Si domandò cos’avrebbe visto.
Si domandò cos’avrebbe visto Ashlinn.
Macellaio era in piedi con le mani serrate dietro la schiena, spostando il
peso da un piede all’altro come sempre. Malgrado avesse perso il suo
incontro a Whitekeep, sembrava compiaciuto di essersi procurato qualche
altra cicatrice da aggiungere alla sua collezione.
Sidonius attendeva in silenzio, le braccia incrociate sopra la parola
CODARDO marchiata sul suo ampio petto. I suoi capelli rasati stavano
diventando più lunghi, gli occhi azzurri scintillavano ai soli. Come sempre,
stava proprio accanto a Mia, senza mai allontanarsi troppo se poteva
impedirlo. Aveva cantato le sue lodi nella cella, dichiarando il suo incontro
con la serica il migliore che avesse mai visto. Tuttavia, non insistette sui
suoi genitori. Non fece domande a cui lei non era pronta a rispondere.
Malgrado tutta la sua spacconaggine e la sua brutalità, malgrado le
scempiaggini che diceva con le donne, sapeva quando parlare e quando
tenere la bocca chiusa.
A Mia piaceva sempre di più a ogni cambio.
“Ma non è mio amico.”
Alzaonda si trovava dall’altro lato di Sidonius, i piedi piantati per terra
come le radici di una montagna. Aveva combattuto come un demone contro
quei falciorsi nell’arena; lui e Sid non erano riusciti a vincere l’alloro solo
per due punti. Di nuovo, Mia trovò difficile immaginare quell’uomo
camminare per il palco in brache di seta, parlando in distici in rima. Così
alto, con la pelle che scintillava nella soliluce, sembrava un guerriero nato.
“E non è mio amico.”
Bryn era in piedi accanto a Otho e Felix, con l’aria di non aver dormito
nemmeno un secondo da Whitekeep. Era così strano vederla senza il suo
gemello: Mia si ritrovò in effetti a guardarsi attorno in cerca di Byern. La
ragazza vaaniana camminava come un fantasma. Lo sguardo vuoto e
iniettato di sangue, le braccia avvolte attorno a se stessa.
“E lei non è…”
Cantalame era appoggiata alla porta dell’infermeria. Il suo volto era
esangue sotto i tatuaggi, il braccio appeso al collo con una fasciatura intrisa
di sangue. Il taglio sulla sua schiena era stato terribile, ma quello al braccio
si era rivelato addirittura più grave. Nessuno sapeva se la donna avrebbe
mai impugnato di nuovo una spada. Mia poteva vedere la paura nei suoi
occhi.
“Ma lei è…”
E Furian?
Giaceva addormentato sulla lastra dell’infermeria, con Verme al suo
fianco. Mia poteva percepire il suo dolore quando gli si avvicinava troppo,
come se venisse trasferito attraverso l’oscurità ai suoi piedi. Non aveva idea
del perché. Perfino con tutta la sua conoscenza delle erbe e con i
medicamenti di Verme, nessuno sapeva se ce l’avrebbe fatta, tranne forse la
Madre.
«Gladiatii» sbraitò Arkades. «Attenti!»
I guerrieri riuniti si raddrizzarono, portandosi i pugni al petto. Leona e
Anthea uscirono dalla veranda, la domina un passo più avanti rispetto alla
magistrae.
Leona sembrava stanca, ma almeno era vestita in una maniera più simile
al suo consueto stile. Indossava un abito bianco fluente, il tessuto che si
increspava attorno ai sandali mentre prendeva posto sulle sabbie ardenti. I
capelli erano intrecciati sulla fronte come l’alloro da vincitore che teneva
nella mano destra.
«Miei Falconi!» disse a gran voce, sollevando in alto l’alloro.
«Ammirate!»
I gladiatii riuniti esultarono, ma date le circostanze, Mia percepì il loro
entusiasmo risuonare un po’ vuoto.
«Anche se il tributo pagato è stato alto, abbiamo la vittoria che
cercavamo da lungo tempo. Assieme a questo alloro abbiamo ottenuto un
posto nel Venatus Magni, a cinque settimane da oggi. La libertà è alla vostra
portata, e presto la città di ponti e ossa risuonerà con il nome del Collegio
Remus!»
Una seconda acclamazione riecheggiò nel cortile, molto più forte della
prima. Sembrava che nonostante tutte le avversità, la promessa di libertà
potesse far dimenticare a qualunque gladiatii i propri dispiaceri. Alzaonda
diede una pacca sulla spalla a Sid, mentre Macellaio si schiaffeggiò le cosce
e ruggì. Il pensiero di combattere nel magni era sufficiente a esaltare i loro
cuori, e Mia scoprì che il suo sangue pompava più veloce, esattamente
come quello degli altri. Immaginò nella sua mente Scaeva e Duomo.
“Presto, bastardi…”
«Tre di voi possono essere orgogliosi di sé» dichiarò Leona. «I migliori e
i più coraggiosi mai addestrati dentro queste mura sotto l’occhio attento del
nostro nobile executus.»
Leona inclinò la testa verso Arkades, che reagì con un inchino rigido e
formale.
«Tuttavia,» proseguì lei «solo uno ha inferto il colpo mortale all’Esule.
Solo uno il cui valore e la cui abilità hanno lastricato la nostra via verso la
gloria.»
Leona guardò Mia.
«Corvo, vieni avanti.»
Mia lanciò un’occhiata a Cantalame, ma fece come ordinato e si inchinò
davanti alla sua padrona. Leona la fissò con quel suo sguardo azzurro
scintillante.
«Inginocchiati» le disse seccamente.
Mia strinse i denti a quel brusco rimando alla sua condizione, ma fece
come comandato, sussultando per il dolore delle costole rotte. Attenta a non
strappare la fronte bendata, Leona posò l’alloro argenteo sulla testa di Mia.
Poi, infilando una mano nelle pieghe del vestito, protese il torque d’argento
di Furian sul palmo aperto. Era lievemente fuso, il metallo scolorito dal
bacio del veleno di Ishkah.
«Questo è tuo, ora» disse Leona.
Mia lanciò un’occhiata carica di preoccupazione verso l’infermeria, poi
alzò gli occhi su quelli della domina.
«Se vogliamo conseguire la vittoria nel magni,» continuò Leona «se i
Falconi di Remus vogliono reclamare la gloria che ci appartiene di diritto,
penso che sarà per mano tua e di nessun altro. Ma in verità, a prescindere da
ciò che accadrà, te lo sei meritato, Corvo.»
Leona fissò il torque attorno alla gola della ragazza.
«Il mio campione» dichiarò con orgoglio.
Sidonius ruggì e gli altri gladiatii lo imitarono, pestando i piedi e
picchiando assieme le mani. Mia guardò ancora una volta verso Cantalame,
colpita da quell’ingiustizia. Canta e Furian avevano combattuto con la sua
stessa foga, avevano rischiato tanto quanto lei: Mia non avrebbe trionfato su
Ishkah senza di loro. Ma solo Mia veniva nominata negli onori. Solo Mia
veniva chiamata campione.
“Questo è ciò per cui hai lavorato” ricordò a se stessa.
“Devi solo stare al gioco per qualche altra settimana.”
Chinò il capo, la voce bassa.
«Voi mi onorate, Dominatii.»
«Tu ci onori, Corvo. E continuerai a farlo nella città di ponti e ossa. Ma
non lo farai abbigliata con ritagli di cuoio e scarti d’acciaio, no. Ora
combatti sotto il nostro stendardo come un campione. E ne dovresti avere
l’aspetto.»
Leona batté le mani.
«Ammirate.»
Due delle guardie della casa portarono fuori sulla veranda un fantoccio
di legno su ruote. La figura indossava una delle armature che si trovavano
nell’atrio, ma Mia si accorse che era stata modificata per la sua taglia.
Il ferro era quasi nero, ripulito fino a una lucentezza scura. Sul pettorale
era inciso un falcone in volo, e schinieri e spallacci avevano la stessa
foggia. La corazza era completata da una gonna pieghettata e maniche di
ferro placcato, e un mantello di penne rosso sangue era drappeggiato
attorno alle spalle. L’elmo era stato foggiato con le fattezze della dea
guerriera Tsana, la sua espressione feroce e spietata. Lame gemelle erano
infoderate alla cintura: acciaio liisiano, a giudicare dall’aspetto. Un gladio a
doppio filo e un lungo pugnale affilato, ideali per combattere nello stile
Caravaggio.
Era una delle armature migliori che Mia avesse mai visto, poco ma
sicuro. Ma adattarla alla sua taglia doveva essere costato una fortuna. Una
fortuna che Leona non poteva permettersi.
“Ora combatti sotto il nostro stendardo come un campione.”
Mia lanciò un’occhiata a Leona, trattenendo un sospiro.
“E ne dovresti avere l’aspetto.”
«Vi ringrazio, Dominatii» disse Mia.
«Puoi ringraziarmi nel magni» replicò Leona. «Portandomi la vit…»
La voce della donna si spense quando una guardia marciò nel cortile,
affiancata da un giovanotto con un cappello con una piuma. La guancia del
ragazzo era marchiata con il cerchio singolo, ma indossava una livrea
costosa, un po’ impolverata per il viaggio. Sul suo farsetto era ricamato il
Leone di Leonides.
«Un messaggero, Mea Domina» disse la guardia. «Il ragazzo afferma
che si tratta di una faccenda urgente.»
«Reco una missiva dal mio padrone, vostro padre, cortese domina» disse
il ragazzo profondendosi in un inchino. «Ho istruzioni di leggerla ad alta
voce, pena la frusta.»
«Parla, allora» ordinò Leona.
Il ragazzo tirò fuori un fascio di pergamene su cui era impresso il sigillo
di Leonides. Lanciò un’occhiata ai gladiatii lì riuniti, chiaramente
innervositi. Ma con una voce chiara e stentorea, cominciò a parlare.
«Amata figlia,
«È con cuore colmo di gioia che mi congratulo con te per la tua vittoria
a Whitekeep. Confesso di essere sorpreso che tu non abbia chiesto udienza
per gongolare subito dopo, e mi allieta pensare che l’umiltà che ho cercato
di insegnarti nella tua infanzia abbia cominciato ad attecchire. Magari ti
avessi…»
Il ragazzo tentennò, alzando lo sguardo su Leona e deglutendo forte.
«Continua» ordinò lei.
Il ragazzo balbettò un attimo prima di ritrovare la voce.
«… M-magari ti avessi picchiato più forte, e più spesso.»
Diversi gladiatii si agitarono, guardando torvo il ragazzo. Mia sentì le
proprie unghie conficcarsi nel palmo, gli occhi fissi sulla domina.
L’espressione di Leona non cambiò affatto.
“Ecco perché lo odia così tanto…”
Ora il ragazzo stava sudando, e si mise le dita nel colletto del farsetto
come se lo stesse soffocando. Volendo disperatamente terminare, si schiarì
la gola e andò avanti.
«Sono stato informato in modo affidabile dai miei conoscenti di affari
che il Collegio Remus è in seri arretrati con i suoi fornitori. Per
risparmiare a me stesso l’umiliazione di vedere una figlia della mia
dinastia trascinata davanti al tribunale dei debitori, mi sono preso la
libertà di acquistare tutti i debiti dai tuoi creditori, consolidandoli in
un’unica somma, che ora è dovuta al Collegio Leonides e cresce
settimanalmente.»
Leona sgranò gli occhi. «Cosa?»
«Il tuo primo rimborso di tremiladuecentoquarantatré preti d’argento
sarà dovuto alla fine del mese, a tre settimane da adesso. Se non dovessi
recapitare la somma richiesta, non avrò altra scelta tranne ricercare una
compensazione punitiva tramite un’ingiunzione del magistrato e
rivendicare il possesso del tuo collegio, delle tue proprietà e di altri mezzi
finanziari in sostituzione del rimborso.
«Ti prego di non credere che io nutra rabbia o rancore nel mio cuore nei
tuoi confronti, mia cara. Come tu stessa mi hai detto una volta, questi sono
solo affari.»
Il ragazzo alzò gli occhi su Leona, terminando con voce tremante.
«Se solo la tua cara madre fosse qui per vedere fin dove sei arrivata»
terminò. «Con tutto il rispetto che ti è dovuto, il tuo amorevole p-padre,
Leonides.»
Il cortile era completamente immobile, tanto che Mia avrebbe potuto
sentire Messer Cortese respirare. Guardando il messaggero, si rese conto
che il povero bastardello non aveva avuto idea del contenuto della lettera
che stava recapitando. Lanciando un’occhiata alle facce di Alzaonda e
Otho, probabilmente il ragazzo si aspettava di essere trascinato giù fino ai
dirupi e gettato in mare.
«L-lui desiderava anche che vi portassi un dono, Mea Domina» disse il
ragazzo. «Per celebrare la vostra vittoria.»
Infilando la mano nel suo zaino, il ragazzo estrasse una bottiglia di
aureovino e la posò sulla sabbia. Un’etichetta rosso sangue indicava
l’annata sul lato.
“Albari, settantaquattro.”
Quando Leona vide l’etichetta, il suo intero corpo si irrigidì dalla rabbia.
Mia non aveva idea del perché, ma per la domina la vista di quella bottiglia
fu come sangue per un dracobianco. Con sforzo evidente, Leona prese un
respiro profondo, solo il tremolio dei pugni chiusi a tradire la sua furia.
Ergendosi alta, si rivolse al ragazzo con l’abituale formalismo.
«Trasmetti i ringraziamenti a mio padre» disse. «Informalo che il
coinvolgimento del magistrato non sarà necessario. Avrà il suo denaro entro
la fine del mese. Io qui lo giuro.»
«Sì, Mea Domina» si inchinò il ragazzo, i lineamenti attenuati dal
sollievo.
«Puoi andare» disse, la voce che si tramutava in freddo acciaio.
Il ragazzo si tolse il cappello e zampettò via con tutta la velocità
consentitagli dalle sue gambe.
«Ehi, ragazzo?» disse Leona.
Il messaggero si voltò con un mezzo sussulto, un sopracciglio sollevato.
«S-sì, Mea Domina?»
Leona fece scorrere la mano sulla nuova armatura di Mia e le sue dita si
soffermarono sull’elsa del pugnale. «Ti prego di porgere le condoglianze a
mio padre per il massacro del suo campione. Riferiscigli che non vedo l’ora
di guardare il mio Corvo fare scempio della sua prossima offerta a
Godsgrave.»
«S-sì, Mea Domina» balbettò il ragazzo, poi si allontanò in tutta fretta.
Il silenzio regnò nel cortile, interrotto solo dai versi di gabbiani distanti e
dal debole canto del mare. Leona camminò sulla sabbia, raccolse la bottiglia
di aureovino e la tenne in mano, fissando l’etichetta. Fece spaziare lo
sguardo tra i suoi gladiatii, la furia che le chiazzava le guance. Avevano
combattuto tanto duramente, erano arrivati così lontano e perfino ora, a
pochi passi dalla vittoria, continuavano a trovarsi sull’orlo del disastro. Nel
nome delle Figlie, dove avrebbe trovato così tanto denaro?
«Tornate a esercitarvi, miei Falconi» ordinò lei. «Abbiamo del lavoro da
fare.»
I gladiatii si diressero alle rastrelliere e presero le loro armi da
addestramento.
La domina si voltò e rientrò nella fortezza.
Arkades la guardò allontanarsi.
I suoi occhi erano stretti.
Le sue mani chiuse a pugno.

Leona sedeva nel suo studio, china sopra i registri, inondata dalla soliluce
che si riversava attraverso la finestra a bovindo. Le ombre erano lunghe e
scure, e se una sotto la scrivania aveva una forma peculiare, la donna era
troppo assorta nel suo lavoro per notarlo.
Una guardia bussò piano alla porta, poi entrò al suo comando.
«Mea Domina» disse la guardia. «L’executus implora una parola.»
«Fallo entrare» replicò Leona.
Arkades entrò, clink-tonfo, clink-tonfo, e la guardia chiuse la porta alle
sue spalle. Lo sguardo di Leona non si spostò dal registro, una penna d’oca
tra le dita, scrivendo cifre con la sua calligrafia precisa e fluente. L’Albari
settantaquattro era posato sulla scrivania accanto a lei, ancora chiuso.
Arkades rimase in piedi davanti a lei, fissando quella bottiglia e spostando il
peso dalla gamba sana a quella di ferro.
«Cosa c’è, executus?» chiese la domina senza alzare gli occhi.
«Io… volevo vedere se stavate bene, Dominatii.»
«E perché non dovrei?»
«La missiva di vostro padre…»
Leona si fermò e infine alzò lo sguardo.
«Il suo regalo mi è sembrato un tocco delizioso.» La domina lanciò
un’occhiata alla bottiglia accanto a sé. «Sono sorpresa che si sia ricordato
l’annata.»
«Sapevo che era un uomo davvero crudele, ma…» Arkades sospirò, la
voce debole per la tristezza. «Vostra madre era una donna per bene, Mea
Domina. Voi non meritate un tale insulto. E lei non meritava ciò che lui le
fece.»
«La picchiò a morte con una bottiglia di aureovino, Arkades» disse
Leona con la voce che cominciava a tremare. «Perché lei gli rovesciò il
bicchiere a cena. Chi si merita questo, con esattezza?»
L’executus guardò le assi del pavimento come se stesse cercando le
parole giuste. Poteva essere un dio sulle sabbie, ma qui, nell’intimità della
camera della sua domina, sotto il suo sguardo azzurro pallido, sembrava
inerme come un neonato.
«Se mai…»
Si interruppe e deglutì forte. Prese un respiro profondo, come prima di
un tuffo.
«Se mai cercaste conforto… voglio dire, se mai desideraste parlare…»
Leona inclinò la testa, guardando l’executus negli occhi.
«È molto gentile da parte tua, Arkades. Ma non lo ritengo appropriato.»
Lui lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, nel cortile, verso l’infermeria
dove giaceva Furian.
«… Appropriato?» ripeté.
«Non sono più la ragazza che ha passato la sua infanzia in punta di piedi
per paura di quale potesse essere la mancanza successiva che avrebbe fatto
scattare il mostro con cui viveva. Io sono sanguila. Sono la Dominatii di
questo collegio. Tu sei il mio executus. E la scadente teatralità di mio padre
serve solo a una cosa: consolidare la mia determinazione di essere vittoriosa
a Godsgrave.»
Arkades si limitò a fissarla, sofferenza e rabbia evidenti sul suo volto.
«Non ho bisogno di alcun conforto» continuò Leona, con la rabbia che le
brillava negli occhi. «Mi occorre quel bastardo sulle fottute ginocchia. Se
hai intenzione di servirmi, Arkades, ti prego, servimi per quello per cui ti
pago. Portami la mia vittoria.»
Leona si chinò di nuovo sul suo registro, posando la testa su una mano.
«Puoi andare» disse.
Arkades rimase immobile per un momento, completamente muto. Ma
alla fine…
«Il vostro sussurro» mormorò. «La mia volontà.»
Poi si voltò e uscì zoppicando dalla stanza, chiudendosi la porta alle
spalle. Leona lasciò cadere la sua penna d’oca non appena se ne fu andato.
Strinse le labbra e prese un respiro tremante dopo l’altro. Poi si passò una
mano sugli occhi dalla rabbia.
Sedate le lacrime, si voltò per fissare la bottiglia sulla scrivania. La
soliluce che scintillava sul vetro. L’etichetta, dipinta di rosso sangue.
Leona chinò il capo, gli occhi nascosti da ciocche ramate.
«Padre» sbraitò.
Qualcuno bussò alla porta.
«Quattro Figlie, chi è ora?» domandò Leona.
«Scusate, Mea Domina» disse la guardia, facendo capolino. «La
magistrae chiede udienza.»
Leona sospirò, scostandosi i capelli dal viso.
«Molto bene.»
La donna più anziana entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Leona
sedeva dritta sulla sua sedia, penna d’oca in mano, il ritratto della
compostezza. La sua magistrae si mise davanti a lei, torcendo la treccia di
lunghi capelli grigi e chinando il capo.
«Cosa c’è, Anthea?»
«… Dominatii, sapete che vi ho sempre servita fedelmente.»
Trepidazione brillava negli occhi della magistrae quando guardò quella
bottiglia di aureovino. «E non vorrei mai farvi del male.»
«Ma certo.»
«So che vostro padre preme sulle vostre finanze. Non desidero caricare
le vostre spalle di un’altra preoccupazione. Sono stata molto incerta se
venire a recarvi questa notizia, ma…»
«Anthea» la interruppe Leona con calma. «Di’ quello che devi dire.»
«… Si tratta di Arkades, Dominatii.»
Leona guardò la porta da cui il suo executus era uscito poco prima.
«Cosa, esattamente?»
«Lui sa.»
Leona posò la penna d’oca e si appoggiò contro lo schienale, accigliata.
«Sa cosa?»
«Leona» disse la magistrae. «Lui sa.»

Mia sedeva nell’infermeria, ad ascoltare i venti dell’illuminotte che


soffiavano dall’oceano. La variazione della temperatura era un gradito
sollievo, ma non sufficiente a permetterle di respirare facilmente. Prima,
guardando l’orizzonte a occhi stretti, le era sembrato di poter vedere il terzo
sole, sospeso alla fine del mondo. Presto sarebbe sorto e la veraluce sarebbe
cominciata: un calore tremendo, folle vocianti e oceani su oceani di sangue.
I suoni degli altri gladiatii all’ultimopasto filtravano attraverso le mura di
pietra, e Mia riuscì a udire Macellaio lamentarsi della qualità dello “stufato”
di Dito. Alle grida e alle acclamazioni dei suoi compagni, il cuoco emaciato
informò a gran voce il Macellaio di Amai dove poteva ficcarsi il suddetto
stufato se non gli piaceva. a
Il sorriso di Mia si trasformò in una smorfia quando Verme le tamponò la
guancia con aloe e semprementa e un vago pizzicore le formicolò nella
ferita. Verme annuì tra sé, fasciando il viso di Mia con bende nuove e
legandole con un nodo delicato.
«Sta guarendo bene» disse. «La prossima volta potremo togliere del tutto
le bende.»
«Sì» disse Mia. «Grazie.»
«Animo, piccolo Corvo» giunse una voce intontita alle sue spalle. «Per
quanto fossi graziosa, non si è veri gladiatii senza qualche cicatrice.»
Mia si voltò verso Cantalame, che sbadigliò e si mise seduta sulla lastra
accanto a lei.
«Be’, se è questo il caso,» sorrise la ragazza «tu sei la gladiatii più vera
che abbia mai calcato le sabbie, Canta.»
«Già» sogghignò la donna. Sollevò il braccio ferito, ancora avvolto nelle
bende. «Sarà una bellezza, poco ma sicuro.»
«Riesci a muoverlo?» chiese Mia piano.
Cantalame guardò verso Verme e scosse il capo.
«Sono i primi cambi» dichiarò la ragazzina. «È troppo presto per dirlo.»
Mia e la donna più anziana si scambiarono un’occhiata preoccupata, ma
non aggiunsero nulla. Dito entrò nell’infermeria, portando quattro scodelle
fumanti su un vassoio di legno. Mentre posava il suo carico con un gesto
plateale, Mia squadrò il cuoco e si domandò quante parti di persone avesse
usato stavolta per la sua creazione.
«La cena» dichiarò lui. «Mangiatela finché è calda.»
«Delizioso» sorrise Verme. «Grazie, Dito.»
L’uomo arruffò i capelli della ragazza e se ne andò. Mia sollevò un
sopracciglio.
«Delizioso?» disse non appena il cuoco fu fuori portata d’udito. «Di
qualunque parola nella creazione, l’ultima che userei per descrivere la
cucina di Dito è “delizioso”, Verme.»
«Dipende da come sei cresciuta» scrollò le spalle la ragazza. «Quando
hai mangiato ratto crudo con le tue mani nude, diventi meno schizzinoso
sulla cucina, credimi.»
Mia annuì e si succhiò il labbro. Di nuovo, rimase colpita da quanto
questa ragazzina le ricordasse se stessa. Era cresciuta ruvida e impertinente,
proprio come Mia dopo che le erano stati portati via i genitori. Non aveva
paura di dire quello che pensava. Forse era un po’ troppo intelligente per il
suo bene. Lei sapeva che non avrebbe dovuto. Sapeva che era una
debolezza.
Ma a Mia piaceva.
«Giusto» sorrise. «Le mie scuse.»
«Ne vuoi o no?»
«Passa, allora.»
Verme porse una scodella a Mia e sollevò un sopracciglio verso la sua
seconda paziente. «Cantalame?»
«Ti ringrazio.»
La donna posò la ciotola sulla lastra accanto a sé. Mia la guardò
mettersene in bocca con cautela una cucchiaiata con la mano sana. Si
domandò cosa ne sarebbe stato di lei se non avesse riacquistato l’uso del
braccio. Con quanta velocità questo mondo si sarebbe sbarazzato di una
gladiatii che non era in grado di sollevare una lama?
Zanna girovagò per l’infermeria: il grosso mastino alzò lo sguardo verso
la scodella di Mia e scodinzolò speranzoso. Lei si sporse in basso e gli
grattò le orecchie, ma tenne la cena per sé.
«Come sta Furian?» chiese Mia.
Verme annuì in direzione dell’Imbattuto, parlando mentre masticava.
«Dai un’occhiata.»
Mia posò la scodella e si alzò con un gemito: le sue costole le davano
ancora fastidio, e non c’era alcun rimedio tranne sforzarle il meno possibile.
Si avvicinò al lato dell’addormentato Furian e la sua ombra tremolò, con
una fame familiare che le cresceva nella pancia e non aveva nulla a che fare
con il suo pasto in attesa.
A dire la verità, l’Imbattuto pareva stare un po’ meglio. Sul suo volto
stava tornando il colorito e, toccandogli la fronte, Mia scoprì che la febbre
si era abbassata. Sussultando per la trepidazione, tirò indietro le bende per
dare un’occhiata. Le ferite erano orrende, non c’era dubbio; il veleno della
serica aveva bruciato muscoli e pelle di petto e gola. Ma invece della massa
marcia e purulenta che aveva visto l’ultima volta, le ferite erano pulite, sane
e rosee. La vista di vermi grassi e brulicanti sopra le spaccature nella pelle
di Furian dava ancora la nausea a Mia, e l’odore non era certo di rose. Ma
che fosse lodata la Madre Nera, la carne infetta era praticamente sparita.
«È incredibile» mormorò Cantalame.
«È disgustoso» disse Mia.
Completamente nauseata, cedette infine la scodella con la sua cena a
Zanna, che abbaiò e cominciò a divorarla con abbandono.
«Ma sì, è incredibile» ammise Mia. «Ottimo lavoro, Verme.»
La ragazza agitò il suo cucchiaio di legno come una regina. «Troppo
gentile, Mea Domina. Troppo gentile.»
«E adesso?»
«È più un’arte che una scienza, sai?» replicò Verme, asciugandosi il naso
sul braccio. «Credo che entro pochi cambi potremo togliergli le larve. Mia
mamma mi ha detto di affogarle in aceto caldo, ma a me dispiace, con tutto
il lavoro che hanno fatto. Dopodiché teniamo la carne pulita, la
cospargiamo di unguento e lo manteniamo sedato. La sua febbre è ancora
fluttuante e l’infezione potrebbe tornare per un colpo di sfortuna. Non è
ancora uscito dal deserto, ma – che rimanga fra te e me – ora è possibile che
ce la faccia.»
«Riuscirà a combattere nel magni?» chiese Cantalame.
«Calma» disse la ragazzina. «Non faccio mica miracoli.»
«A me sembra già un miracolo.» Mia scosse il capo ammirata e sorrise
alla ragazza. «È stata davvero tua madre a insegnarti tutto questo?»
«Sì. Mi avrebbe potuto insegnare di più, se le fosse stato dato il tempo.
A volte mi domando quante altre conoscenze si sia portata nella tomba.»
«Già» sospirò Mia. «So cosa intendi.»
Verme rigirò il cucchiaio nella scodella, succhiandosi le labbra. «È
divertente, ma stavo pensando… quando elimini una persona dal mondo,
non elimini solo lei, giusto? Elimini anche quello che era.» La ragazzina
guardò Cantalame a occhi stretti. «Ci hai mai pensato? Quando uccidi
qualcuno nell’arena?»
«No» rispose la donna. «C’è la follia su quella strada.»
«Allora, cosa pensi?» domandò Verme, prendendo un altro boccone.
«Penso “meglio loro di me”» replicò Cantalame.
La ragazzina si voltò verso Mia, parlando con la bocca piena. «E tu,
Corvo? Pensi alle cose che elimini?»
Mia socchiuse le labbra, ma non trovò parole da pronunciare.
La verità era che lei pensava a coloro che eliminava. E sempre di più, a
quanto pareva. I Luminatii che aveva ucciso alla Montagna, quelli poteva
giustificarli facilmente. Ma tutti quelli dopo di loro? Il figlio del senatore e
il magistrato che aveva assassinato inconsapevolmente al servizio di
Scaeva? Quegli uomini nella Fossa ai Giardini Pensili? I gladiatii che aveva
ucciso nell’arena? In un certo senso, lastricavano tutti la strada che le aveva
permesso di essere qui, a poche settimane dalla gola del console e del
cardinale. Ma questo giustificava davvero quelle morti?
«Io sono per il vecchio adagio: “Fine giustifica mezzi”» replicò.
«Sempre che “fine” non si riferisca a me.»
«Ci credi davvero?»
«Devo.»
«Bene» sorrise Verme tristemente. «Meglio te di me.»
Zanna uggiolò e leccò le dita di Mia con la sua piatta lingua rosa.
«Mi dispiace, ragazzo» disse lei, inginocchiandosi per grattare il mento
del cane. «Hai già mangiato tutto. Sono sorpresa che ti rimanga ancora
spazio.»
Il mastino uggiolò di nuovo, stavolta un suono più profondo, leccandosi
le guance. Premette il muso contro la mano di Mia, camminando in un
piccolo cerchio con la coda tozza tra le zampe. Si accovacciò ed emise un
suono strozzato, come se avesse una palla di pelo in gola. Poi, guardando
Mia con i suoi grandi occhi marrone, il cane tossì uno spruzzo di sangue
rosso brillante su tutto il pavimento.
«Denti della Mannaia» imprecò Mia, sobbalzando.
La scodella di stufato di Verme le cadde dalle mani, schizzando sulla
pietra.
«Corvo…»
Mia alzò lo sguardo e vide un rivoletto di sangue colare dalle labbra
della ragazza.
«Non mi sento b-bene…» sussurrò.
«Oh, merda» mormorò Mia.
Verme scivolò giù dalla lastra e tossì una boccata di sangue. Mia si
precipitò accanto a lei e la prese prima che cadesse. Guardò verso
Cantalame: la donna si pulì le labbra e, quando allontanò le nocche, vide
che erano rosse. Mentre Mia osservava, la donna si tenne la pancia e tossì
un getto di sangue sulla pietra.
Mia guardò Zanna, acciambellato in una pozza rossa.
La ciotola vuota da cui il cane aveva mangiato la sua cena…
«Oh, merda» ripeté Mia.
“Veleno…”
«Aiutatemi!» urlò. «Aiuto!»
Udì urla di dolore dalla veranda, imprecazioni stupefatte, colpi di tosse
squassanti. Reggendo Verme tra le braccia, Mia barcollò fino alla porta
dell’infermeria e vide tutti i gladiatii del collegio in ginocchio o stesi a
terra, bocche e mani macchiate di sangue, scodelle di stufato rovesciate su
tavoli e pavimento. Verme gemette, poi rigettò un’altra boccata di sangue
sul petto di Mia. Un esterrefatto Dito stava guardando quella carneficina e
diverse guardie erano lì in giro, stupefatte.
«Non restatevene lì! Aiutatemi, cazzo!» tuonò Mia.
Dito vide Verme tra le braccia di Mia e zoppicò al suo fianco. Da
qualche parte nella casa, qualcuno iniziò a far sferragliare l’allarme. Tra
tutti e due, Mia e Dito riportarono Verme nell’infermeria e la stesero su una
lastra. Cantalame era crollata a terra con il sangue che le colava dalla bocca.
Mia si guardò attorno nella stanza, cercando di pensare il più rapidamente
possibile. Inginocchiandosi accanto alla scodella di Verme, intinse il dito
nello stufato, assaggiò e sputò. Sotto i condimenti, riuscì a percepire un
sapore amaro, metallico. La sua mente si arrovellò, tutta la conoscenza che
l’aveva resa la studentessa preferita di Ammazzaragni che le girava nella
memoria, ripetendo tra sé i quattro principi della venomologia, più e più
volte.
“Somministrazione: per ingerimento.
“Efficacia: letale.
“Celerità: cinque minuti o meno.
“Localizzazione: stomaco e intestini.”
Mia sgranò gli occhi quando la risposta le venne in mente in un lampo.
«È Elegia» disse, voltandosi verso Dito.
«Sei…»
«Sì, sono dannatamente sicura. Hai latte di mucca in cucina? O panna?»
«Ho latte di capra per il tè della domina.»
«Mettilo a bollire. Tutto quanto. Ora.»
«Ma io…»
«Ora, Dito!»
Il cuoco zoppicò via e Mia iniziò a passare in rassegna i barattoli e le
fiale di Verme. L’Elegia era un veleno letale, relativamente difficile da
mescolare a meno che non sapessi cosa stavi facendo. Ma era una delle
prime tossine che Mercurio le aveva insegnato a preparare e, anche se
l’antidoto non era ben noto, era abbastanza semplice da fare per una Lama
della Nostra Signora dell’omicidio benedetto. Grata che la domina avesse
permesso a Verme di ripristinare le scorte, Mia rovistò tra gli scaffali,
afferrando gli ingredienti che le servivano.
“Luminerba. Tagliuzza. Glaucardo…”
«Quattro Figlie…»
Mia si voltò e vide Domina Leona in camicia da notte, in piedi sulla
porta dell’infermeria. Accanto a lei c’era la magistrae, l’orrore dipinto in
volto mentre l’allarme continuava a suonare.
«Nel nome del Semprevigile, cosa…» mormorò Leona.
«Veleno» la interruppe Mia. «Elegia, mischiata con il loro ultimopasto.
Non abbiamo molto tempo. Non riesco a trovare il fottuto nitrato
d’argento… Avete uno specchio?»
Gli occhi della domina erano fissi sul volto di Verme, e osservavano il
sangue che le colava dalle labbra.
«Leona!» sbraitò Mia. «Avete uno specchio?»
La donna sbatté le palpebre e si concentrò su Mia. «S-sì.»
«Portatelo in cucina. Ora!» Si voltò verso le guardie che stazionavano
accanto alla loro signora. «Tu, prendi Verme. Voi due, portate Cantalame.
Presto!»
«Fate come dice!» ordinò Leona.
Mia raccolse tutte le fiale e i barattoli e si precipitò per il cortile con le
guardie al seguito, mentre Leona correva su nella sua stanza. Riusciva a
sentire Verme tossire di nuovo, Cantalame che gemeva. La veranda
sembrava una zona di guerra, i gladiatii stesi in pozze di sangue. Alzaonda
era a faccia in giù, Bryn riversa su un tavolo, con spessi filamenti di sangue
e muco che le uscivano dalle labbra, Sidonius supino. In mezzo a quel
carnaio c’era l’executus, con gli occhi sgranati e inorridito.
«Arkades, voltate Sidonius sul fianco» urlò Mia, passandogli accanto di
corsa. «Fate girare tutti quelli che sono supini oppure si strozzeranno con il
loro stesso sangue!»
In cucina, Dito era sporto sopra un pentolone, rimestando il latte fumante
all’interno. Mia lo spinse via e cominciò ad aggiungere i suoi ingredienti,
misurandoli in modo accurato malgrado la fretta. Non aveva secondi da
sprecare: ogni istante avrebbe trascinato Verme e gli altri più vicino alla
morte. Ma come sempre, il passeggero nella sua ombra mantenne i suoi
nervi come acciaio e le sue mani salde. Prima regola dell’arte dei veleni: un
antidoto preparato male era peggio di nessun antidoto.
Le guardie posarono Verme sulla panca della cucina dietro di lei. La
ragazza era pallidissima; gemette e vomitò un altro zampillo di sangue.
«Tenetele la gola libera: le occorre respirare!»
Sudore negli occhi. Le pulsazioni che le martellavano sotto la pelle.
Verme tossì di nuovo e una bolla color rosso acceso le scoppiò sulle labbra.
«Verme, continua a respirare, mi senti?»
Leona arrivò con un grosso specchio ovale preso dalla parete della sua
camera da letto.
«Questo andrà be…»
Mia lo afferrò dalle sue mani, prese un coltello da cucina e lo svelse
dalla cornice. Mettendo la lama sulla parte posteriore del vetro, iniziò
furiosamente a limare lo strato riflettente di nitrato d’argento, scaglie
scintillanti di metallo che cadevano sulla panca della cucina. Verme tossì di
nuovo, la testa ciondolante sulle spalle come se il suo collo fosse rotto.
«Corvo, ha smesso di respirare!» urlò la magistrae.
«Verme, non osare morire!» gridò Mia senza voltarsi.
Raccolse le scaglie di nitrato e le ridusse in polvere con mortaio e
pestello. Spintonando di nuovo via Dito, aggiunse la polvere alla mistura
che bolliva sul fornello, l’odore di metallo che bruciava nell’aria. Si guardò
alle spalle e vide Verme in preda alle convulsioni tra le braccia di Leona.
Dalle sue labbra uscirono preghiere alla Madre Nera, alle Quattro Figlie, a
chiunque fosse in ascolto.
«Per favore» sussurrò. «Per favore per favore per favore…»
Era pronto, la mistura completa. Mia ne versò una dose generosa in una
coppa d’argilla e si girò verso la ragazza dietro di lei. Verme era pallida
come la morte, immobile come una gora. La domina aveva gli occhi
sgranati, la camicia da notte e le mani macchiate del sangue della ragazza.
«Danne una coppa a tutti quelli che sono stati colpiti» disse a Dito.
«Prima quelli svenuti. Fagliene bere almeno tre sorsi, usa un imbuto se
devi, vai, vai!»
Mia strattonò via Verme dalla stretta di Leona, respirando rapidamente.
Posando a terra la ragazza, supina, Mia ripulì la schiuma sanguinolenta
dalle labbra di Verme e le aprì la bocca a forza. Tenendo la coppa con mani
ferme, ne versò in abbondanza nella bocca della ragazza.
«Inghiotti, bambina» sussurrò, massaggiandole la gola. «Inghiotti.»
Ma Verme non stava ascoltando. Di sicuro non stava inghiottendo. Mia
la mise in posizione seduta e l’antidoto uscì dalle labbra della ragazzina.
Leona e la magistrae aiutarono a puntellare Verme in mezzo a loro e,
inclinandole la testa all’indietro, Mia le versò altra mistura nella bocca
aperta.
«Inghiotti, Verme» la implorò. «Per favore.»
Mia massaggiò la gola della ragazza e la scosse gentilmente. Verme non
reagiva, non si muoveva, non respirava. Era afflosciata tra le sue braccia
come una bambola rotta. La Lama in lei aveva già visto tutto questo. Ma la
ragazza in lei, quella che guardava Verme e scorgeva un pallido riflesso di
se stessa, si rifiutava di crederci. Pregava per qualche miracolo, come quelli
nei libri che leggeva da bambina. Un principe che arrivasse su un destriero
argenteo a svegliare Verme con un bacio. Una fata madrina con le tasche
piene di magika e desideri in abbondanza.
Mia sentì lacrime calde negli occhi e un peso tremendo sulle spalle. Un
urlo le stava crescendo nella pancia, ma la sua voce fu solo un sussurro.
«Per favore, bambina.»
“È divertente, ma stavo pensando… quando elimini una persona dal
mondo, non elimini solo lei, giusto?”
Leona guardò Mia, gli occhi sgranati dallo stupore, le lacrime che le
colavano lungo le guance.
«… Corvo?»
“Elimini anche quello che era.”
«Per favore» la implorò Mia.
“Ci hai mai pensato?”
La coppa scivolò dalle dita di Mia e andò in frantumi sul pavimento.
“Ci hai mai pensato?”

a. Non sono un medico né un esperto di anatomia. Comunque, il suggerimento di Dito sembrerebbe


richiedere una soprannaturale flessibilità da parte di Macellaio.
CAPITOLO 27
DISTACCO

Mia non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva pianto davvero.
Aveva versato una lacrima o due qua e là lungo la strada, ma non era mai
stato quel genere di sofferenza. Quello in cui ti venivano strappati via i
singhiozzi, che ti squassava fino alle ossa e ti lasciava vuoto dentro. Non
aveva pianto quando aveva fallito la sua iniziazione. Non aveva pianto
quando Ashlinn aveva assassinato Tric. Non aveva pianto quando il Culto
aveva tenuto una funzione sobria e inciso il nome del ragazzo su un
cenotafio nella sala degli Elogi.
Non era molto brava con la sofferenza, vedete.
Mia preferiva la rabbia.
Si trovava nell’infermeria sopra il corpo senza vita di Verme, un groppo
di furia nello stomaco. I capelli della ragazza erano stati pettinati, il viso
ripulito dal sangue. Sembrava quasi addormentata. Otho giaceva accanto a
lei, altrettanto pacifico. Gli occhi del grosso Itreyano erano chiusi, le rughe
di preoccupazione che gli avevano raggrinzito i lineamenti quando
combatteva sulle sabbie ora spianate.
Era un miracolo che fossero morti solo loro due… come se la parola
“solo” potesse avere un posto in quel pensiero. Verme era semplicemente
troppo piccola e aveva ingerito troppa tossina. Otho era un uomo cresciuto,
forte come un bove. Ma aveva divorato l’intero pasto e stava prendendo il
bis prima che il veleno cominciasse a fare effetto, e per allora era troppo
tardi. Altri Falconi sarebbero morti – tutti, in effetti – se Mia non fosse stata
lì. Supponeva che chiunque avesse avvelenato il loro pasto non si aspettasse
che ci fosse a portata di mano un assassino addestrato per preparare
l’antidoto. Molti dei gladiatii avevano subito vari gradi di emorragie
interne, ma il rimedio che lei aveva miscelato li aveva salvati tutti dalla
morte.
Quasi tutti, almeno…
Zanna era steso su una coperta macchiata di sangue, gli occhi del cane
chiusi per sempre. L’executus aveva quasi pianto quando aveva trovato il
mastino raggomitolato in una pozza di sangue sul pavimento
dell’infermeria. Adesso era seduto accanto a Zanna, e stava passando una
mano callosa sul corpo del cane. Gli tremavano le dita. Mia non sapeva dire
se fosse per la rabbia o per la sofferenza.
«Nel nome del Semprevigile, com’è potuto accadere?» domandò Leona,
osservando i corpi, le mani sui fianchi.
«Piuttosto semplice» mormorò Mia, senza che i suoi occhi lasciassero il
corpo di Verme. «Qualcuno ha cosparso le cipolle nella dispensa con
l’Elegia e Dito le ha usate nello stufato. La cipolla è porosa, si comporta
come una spugna. E l’odore e il sapore sono perfetti per mascherare quelli
della tossina. Buon metodo di somministrazione. L’assassino sapeva il fatto
suo.»
Leona si voltò verso Dito. Il cuoco era in piedi, fremente, tra due guardie
della casa che lo tenevano per le braccia in una stretta salda. I suoi capelli
lisci gli pendevano sopra gli occhi, il corpo tremante.
«Cosa sai di questo?» chiese la domina.
«N-nulla, Dominatii» rispose il cuoco. «Io vi servo fedelmente!»
«Qualunque serpente sibilerebbe lo stesso» ringhiò Leona.
Dito scosse il capo, la voce tremante.
«Dominatii, io… Mi avete sempre trattato bene e giustamente. Non ho
motivo di far male al vostro gregge. Né l’avrei mai fatto alla ragazzina. Era
come una parente, per me. Le ho servito il pasto con le mie stesse mani.»
Le lacrime gli riempirono gli occhi e gli colò il moccio sulle labbra quando
osservò il corpo senza vita di Verme. «Mi credete tanto insensibile da
guardarla negli occhi e sorridere mentre le p-porgevo la lama che l’avrebbe
uccisa?»
Il petto dell’uomo si gonfiò e il suo volto si contorse quando le lacrime
gli colarono lungo le guance.
«Mai. Per il Semprevigile e le sue Figlie, mai.»
Leona strinse gli occhi, ma poteva vederlo sul suo volto, evidente come
per Mia. La sua corporatura esile tremolava. Gli occhi erano colmi di
dolore. O Dito era un attore degno dei più grandi teatri della Repubblica,
oppure quest’uomo era sinceramente affranto per la morte di Verme.
«Chi aveva modo di entrare nella dispensa?» chiese Leona.
Dito si asciugò gli occhi e tirò su forte col naso. «Chiunque abbia
accesso alla fortezza potrebbe arrivare alle provviste, Dominatii. Non sono
chiuse a chiave l’illuminotte… I-io le avrei conservate con maggior
attenzione, ma n-non avevo idea che un serpente vivesse in mezzo a noi.»
«Nemmeno io» disse Leona. «Ma ne ho allattato uno al mio seno, a
quanto pare.»
«L’Elegia non è facile da preparare» disse Mia. «Pericolosa. Disordinata.
Ma in una città grande come Crow’s Rest, dev’esserci un modo per
comprarla, avendo il denaro.»
«E come fai a saperlo, con esattezza?» ringhiò Arkades.
«Non ho tenuto segreta la mia conoscenza dell’erbologia» replicò Mia.
«La differenza tra un farmaco e un veleno può essere piccola quanto mezzo
dram. E se vogliamo dirla tutta, la tossina era anche nel mio pasto.»
«Allora come mai non sei stata avvelenata come il resto dei tuoi
compagni?»
«Non ho mangiato la cena» sbraitò Mia.
«È la seconda volta in altrettanti mesi che eviti un pasto sospetto.»
«Avete guardato sotto le bende di Furian?» domandò Mia. «È
dannatamente nauseante. Quell’odore farebbe saltare il pasto a un cane
delle croste, e la vista ancora peggio.»
«E così per caso hai dato la tua cena al mio cane e l’hai guardato morire?
Poi per caso hai trovato gli ingredienti per salvare la vita dei tuoi
compagni?»
Mia si voltò per fronteggiare Arkades, i denti serrati. «Accusate me di
questo? Di aver avvelenato una ragazzina di undici anni?»
Arkades la ignorò e si voltò verso Leona. «Io dico che se stiamo
cercando un serpente tra noi, meglio iniziare da chi conosce meglio il
veleno, giusto?»
Allora Mia fu colta da una rabbia intensa e accecante, e fece un passo
verso Arkades con i pugni serrati. L’omone si alzò con velocità
sorprendente, le spalle dritte, il mento basso. Lei poteva percepire il ringhio
dell’executus nel proprio petto.
«Provaci» disse lui. «Provaci e basta…»
«Executus, basta» sbottò Leona. «Corvo è il campione di questo
collegio. Si trova già in vetta alla montagna. Nel nome del Semprevigile,
cosa otterrebbe uccidendo tutti i miei Falconi, per non parlare di Verme?»
«Cosa otterrebbe chiunque?» chiese la magistrae, guardandosi attorno
per la stanza. «Se cerchiamo l’assassino, prima dobbiamo trovare il
movente. In che modo qualcuno trarrebbe profitto da questo?»
«Vostro padre ne trarrebbe profitto, Dominatii» disse Mia.
Leona scosse il capo. «Lui non oserebbe…»
«Pensateci» replicò Mia. «Possiede tutti i vostri debiti. Voi gli dovete
denaro che semplicemente non avete. Come avete sistemato le vostre
incapienze con i creditori in passato?»
«… sto ancora elaborando le cifre» rispose Leona.
«Sì» annuì Mia. «Ma perfino considerando i premi vinti a Whitekeep,
avete riflettuto su qualche metodo per raccogliere oltre tremila pezzi
d’argento che non coinvolga vendere almeno alcuni vostri gladiatii al
Pandemonium?»
Leona guardò verso Arkades, poi verso la magistrae.
«No» ammise.
«Perciò cosa succede se tutti i vostri gladiatii sono morti e non ne avete
più nessuno da vendere?»
«Allora perdo tutto» disse Leona. «Il magni. Questo collegio. Tutto.»
«Vostro padre è il genere d’uomo che uccide per ottenere quello che
vuole? E sarebbe così difficile per un uomo con così tanto denaro
corrompere una delle vostre guardie? O forse qualcuno ancora più vicino a
voi?»
«Miserabile impertinente» la apostrofò Arkades. «Cosa vorresti
insinuare?»
«Solo che esistono due tipi di lealtà» replicò Mia. «Quella che si paga
con l’amore e quella che si paga con l’argento.»
«Dominatii, questa…»
Leona alzò la mano, tranciando l’obiezione della sua magistrae al
ginocchio. Si voltò verso il capitano delle guardie, la voce fredda e
imperiosa.
«Gannicus, voglio che ogni camera da letto nella fortezza sia perquisita.
Ogni forziere, ogni armadietto, ogni fessura. Tu e le altre guardie cercherete
a gruppi di tre, e non ispezionerete i vostri stessi averi, sono stata chiara?»
Il capitano si portò un pugno contro il petto. «Sì, Dominatii.»
Gannicus ruotò i tacchi, radunò le altre guardie della casa e si avviò nel
cortile. Con un cipiglio fosco, Arkades lanciò un’ultima occhiata al suo
cane ucciso, poi alla ragazza assassinata, quindi li seguì zoppicando.
«Dove stai andando, executus?» chiese Leona.
«… Ad assistere con la perquisizione, Dominatii.»
«Gannicus ha tutto sotto controllo. Prendi Dito e raccogliete legna per
una pira.» Lanciò una breve occhiata al corpo di Verme. «Non va bene
permettere che si attardino in questa calura. Devono essere inviati al
Focolare e alla custodia gentile di lady Keph.»
Squadrando Arkades, Mia riuscì a vedere che aveva le pupille dilatate e
il suo respiro era accelerato. L’istinto di attaccare o fuggire stava prendendo
il sopravvento.
«… lui ha paura…» disse una voce nel suo orecchio.
Ma alla fine, come sempre, l’executus si inchinò.
«Il vostro sussurro, la mia volontà.»

Mia non aveva mai sentito l’odore di un corpo che brucia.


Quello della morte, sicuramente. La puzza pestilenziale di pance
sventrate. Il profumo dolciastro e penetrante della decomposizione. Ma
finché non si era trovata nel cortile di Crow’s Nest, ad ascoltare il crepitio e
gli schiocchi del legno secco sopra il canto del mare, non aveva mai fiutato
una pira funebre. Aveva letto delle storie da bambina: amanti in lutto o
bambini rimasti orfani, che mandavano i loro cari nell’aldilà su un pilastro
di fiamma. Riteneva che ci fosse una sorta di romanticismo in tutto ciò.
Qualcosa di intenso, ardente e durevole. Ma i libri non parlavano mai
dell’odore. I capelli bruciati, il sangue che bolliva, la pelle che anneriva.
Era orrendo.
Avevano posato Verme in cima alla legna che Arkades e Dito avevano
raccolto, Otho accanto a lei. Non era il catafalco più imponente mai creato,
ma avevano usato tutto il combustibile che c’era in cucina e l’avevano
impilato in file ordinate alte tre piedi. I due erano avvolti in semplici
sottovesti di cotone, le facce scoperte rivolte al cielo. Domina Leona
pronunciò preghiere sommesse al Semprevigile sopra i loro corpi. Una
ghirlanda di fiori fu posata sui loro petti. Una monetina di mogano sotto le
loro lingue. a
E poi furono dati alle fiamme.
Molti dei gladiatii tenevano a bada il loro dolore, ma Bryn stava
piangendo apertamente: era il secondo funerale a cui aveva partecipato in
una settimana, tutte le ferite della perdita di suo fratello riaperte e
sanguinanti ancora una volta. Sidonius era l’unico altro gladiatii a lasciar
cadere le lacrime, quelle spalle grosse e muscolose che si muovevano su e
giù. Mia si interrogò sull’enigma che rappresentava, il marchio sul suo
petto, la spacconaggine lasciva, tutte cose che contrastavano con l’uomo
che aveva parlato con tale adorazione di suo padre e aveva cercato di
confortarla al buio.
Le fiamme bruciarono più brillanti e il fumo si levò nel cielo accecante.
Lo schianto di onde distanti. I richiami di gabbiani che volavano in cerchio.
La preghiera lamentosa di Domina Leona ad Aa.
Una volta officiati i riti, Leona chinò il capo e si allontanò con solennità
dalla pira. Mia la osservò arrancare per il cortile, il fumo che le faceva
pizzicare l’occhio senza benda. Ora sapeva che Leona era un prodotto della
violenza con cui era cresciuta, che in fondo al cuore loro due non erano così
diverse. Se l’infanzia di Mia fosse stata differente, era possibile che avrebbe
occupato lei il posto di signora di questa fortezza. Ma una parte di lei non
riusciva a non incolpare la domina di tutto questo. Se solo questo collegio
non fosse esistito, se solo Verme non fosse stata venduta qui…
“No. Non hai tempo per i ‘se solo’…”
Leona si diresse alla veranda, proprio mentre la guardia che aveva messo
al comando della perquisizione tornava dall’interno della fortezza. Mia li
osservò di sottecchi, Gannicus che parlava piano, lanciando occhiate ad
Arkades. Consegnò alla sua signora quello che sembrava un pezzo di
tessuto piegato e a Mia si rivoltò lo stomaco.
«Arkades?» disse Leona, voltandosi verso il suo executus.
L’uomo alzò lo sguardo dalla pira ardente. La stessa paura che lei aveva
visto nell’infermeria indugiava negli occhi dell’uomo.
«Mea Domina?»
«Spiega questo» disse Leona, protendendo la mano.
Strette tra le sue dita c’erano delle mutandine di seta, orlate di pizzo
elegante.
I gladiatii si voltarono a guardare, con la pira che ardeva ancora sullo
sfondo. Arkades osservò i guerrieri che aveva addestrato e la sua
espressione si incupì. Riuscì a stento a incontrare gli occhi di Leona, la sua
voce tinta di vergogna.
«Mea Domina, se potessimo parlarne in privato…»
«Sono state trovate nelle tue stanze» disse Leona. «Sotto il tuo
materasso. Ora capisco perché fossi così impaziente di aiutare Gannicus e le
sue guardie nella loro perquisizione. Ma dimmi, nobile Arkades, come
fanno le mie mutandine a trovarsi in tuo possesso?»
«Mea Domina, io…»
«E cos’è questo?»
Leona sollevò una fialetta di liquido trasparente, che scintillava alla
soliluce.
Arkades sbatté le palpebre. «Non l’ho mai visto prima in vita mia.»
«È stato trovato avvolto dentro le mie mutandine. Nascosto nel tuo
piccolo tesoro. Profumo, forse? O un po’ di liquore per alleviare le
illuminotti?» Leona si voltò verso Mia e protese il palmo con sopra la fiala.
«Corvo?»
Lanciando un’occhiata ad Arkades, vedendo la paura crescere dentro di
lui, Mia prese la fiala dalle mani della domina. La stappò, annusò, vi intinse
la punta del dito e assaggiò, poi sputò immediatamente una, due volte. Le
sue labbra si arricciarono quando guardò Leona.
«È Elegia, Dominatii. Non c’è dubbio.»
Lo sguardo di Leona si colmò di lacrime quando guardò Arkades. Le
tremava il labbro, e tutto il suo corpo era scosso dalla rabbia.
«Tu.»
L’orrore traboccò dagli occhi di Arkades. «Mea Domina, io non penserei
mai…»
«Allora come fa a essere nella tua stanza?» domandò Leona. «Avvolto
nelle mutandine che mi hai rubato? Oppure neghi di aver preso anche
quelle?»
«Non lo nego, le ho tro…»
«Mi conosci fin da bambina, Arkades! Pensavo che fossi un uomo
d’onore, che comprendeva la rettitudine della mia causa. Ho ritenuto
innocua la tua infatuazione, ma ora vedo che si è trasformata in veleno
davanti ai miei occhi.» Gli agitò la seta davanti alla faccia. «Ora vedo il tuo
cuore! Ora vedo il motivo per cui mi hai accompagnato in tutti questi
anni!»
«Infatuazione?» Arkades era pallido, la sua voce tremante.
«Quanto ti paga mio padre?»
«… Cosa?»
«Quanto?» urlò lei. «Mi sono sempre chiesta perché indossassi i leoni
sul tuo farsetto, perché il tuo bastone avesse una testa di leone. Credevo che
fosse un semplice omaggio a dov’eri stato e a chi eri, ma ora capisco la
verità! Sei sempre stato un suo uomo! Sempre!»
La magistrae appoggiò una mano gentile sulla spalla della sua padrona.
«Dominatii, per favore.»
Leona ringhiò e si sottrasse alla stretta della donna. «Mi ha promessa a
te, forse? Un trofeo spezzato da nascondere sotto il tuo materasso con tutti
gli altri tuoi piccoli, sporchi segreti? Sei stato disposto ad avvelenare il mio
gregge, a uccidere una ragazzina di undici anni per ottenere quello che
volevi? Dopo quello che lui ha fatto a mia madre? Sorridendo come un
serpente e offrendomi il tuo conforto?»
Lacrime brillarono negli occhi di Arkades. «Mi ritenete capace…»
«Ti ritengo un bugiardo» sbraitò Leona. «Ti ritengo un assassino. Ti
ritengo un vecchio dominato dalla lussuria, dal dannato alcol e dal ricordo
di una gloria passata ora marcita e andata a male.» Leona trasse un respiro
affannoso a denti stretti. «Ti ritengo un bastardo proprio come mio padre. Ti
voglio fuori dal mio collegio.»
«Leona, io…»
«Fuori!» tuonò Leona. «Oppure giuro sul Semprevigile e tutte e quattro
le sue Figlie che ti mostrerò la stessa misericordia che tu hai mostrato alla
bambina su quella pira!»
La donna rimase lì, immobile e tremante, con le lacrime che le colavano
lungo le guance. Ma aveva la mascella salda, mostrando i denti in un
ringhio. Arkades se ne stava lì come uno specchio rotto, il petto ansante e il
volto pallido. Guardando tra i gladiatii, trovò solo disprezzo e rabbia. Si
girò di nuovo verso Leona, il dolore negli occhi e un’ultima supplica
disperata sulle labbra.
«Per favore…»
«FUORI!» urlò Leona, scagliandosi contro di lui e battendogli contro i
pugni. Graffiandogli la faccia, artigliandogli gli occhi. «FUORI! FUORI!»
Arkades barcollò all’indietro e la magistrae gli staccò di dosso quella
Leona urlante e imbestialita. Le guardie vennero avanti per separarli, le
mani sulle spade, guardando torvo l’executus. Gannicus gli mise una mano
sul petto e lo spintonò più lontano, l’ammonimento esplicito sul suo volto.
Era evidente che il capitano non voleva estrarre la spada, ma i desideri della
sua padrona erano chiari e l’odore di quella bambina che bruciava aleggiava
pesante nell’aria.
Arkades si guardò attorno nel cortile, ma non vide nessun amico. Gli
sgorgarono lacrime dagli occhi. Aprì la bocca per parlare, ma non trovò
parole che potessero salvarlo. Esaminò le facce dei suoi ex allievi e non ne
trovò nessuno disposto a garantire per lui. Mia riusciva a vedere le parole
agitarsi dietro i suoi denti, ma guardando negli occhi di Leona, l’uomo
trovò solo odio e rabbia. E senza alcuna vera alternativa, si voltò e si avviò
zoppicando verso il cancello.
«Prendi queste» urlò Leona, tirandogli dietro le mutandine. «Che
possano tenerti caldo l’illuminotte!»
L’executus si fermò e si guardò alle spalle. Ma, senza una parola, chinò
il capo e continuò semplicemente a camminare. Mia lo osservò andarsene,
incerta su cosa pensare. La gelosia poteva portare un uomo a compiere
qualunque azione, e Arkades indossava effettivamente i leoni del suo
precedente padrone sul petto. Scoprire che la donna che lui amava tanto
chiaramente si portava a letto Furian doveva essere stato un colpo
tremendo, e l’amore può trasformarsi in cancro quando viene annacquato
dal tradimento. Ma una parte di Mia trovava difficile credere che lui
avrebbe tradito Leona in modo così crudele…
Appoggiandosi alla magistrae, la domina lasciò il cortile, continuando a
piangere. Mia guardò ancora una volta verso la pira, osservando le fiamme
levarsi più in alto. Il calore le carezzava la pelle. Il fumo le baciava la
lingua. C’era così tanto in bilico. Così vicino alla fine. Così tanto da
rischiare prima che lei giungesse lì, ed era così impaziente di arrivare.
Non vedeva l’ora che tutto questo fosse finito.
«Addio, Verme» mormorò. «Mi mancherai.»
E ancora non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva pianto.

I bagni turbinavano di vapore, il cui calore le scottava la pelle. Mia si


immerse nell’acqua con un sospiro, il dolore alle costole placato da quel
tepore. Scivolando sotto la superficie, cercò di zittire i suoi pensieri, tacitare
i dubbi e la rabbia, e godersi un momento di silenzio. Solo per un respiro.
Solo per un secondo.
Bryn entrò nei bagni, camminando come una sonnambula. I suoi occhi
erano iniettati di sangue, le guance di un rosso infiammato. Senza guardare
Mia, si spogliò e si immerse in acqua, lavando le lacrime dalla pelle.
Rimase sotto quasi un respiro di troppo, e Mia stava per allungare la mano
verso di lei quando finalmente Bryn riaffiorò, i capelli biondi zuppi a
incorniciarle il volto. Spostandosi verso l’angolo, rimase immobile come
pietra, come una statua, come un cadavere, fissando le increspature sulla
superficie senza dire nulla.
«Un cambio duro» disse Mia.
«Già» mormorò Bryn.
«La Dominatii ha officiato bene la funzione.»
«Già.»
«… Come ti senti?»
Bryn alzò lo sguardo per un momento e mise a fuoco gli occhi.
«Secondo te?» sussurrò.
Mia chinò il capo e fissò il vapore turbinante.
«… Già.»
Alzaonda arrancò nei bagni e si tolse il tessuto dalla vita. Mia non
riusciva a ricordare un solo cambio in cui si fossero lavati assieme e
l’omone non le avesse regalato una canzone, ma stavolta Alzaonda non
canticchiò nemmeno una nota. Il suo silenzio insolito aleggiava pesante
nell’aria e la tristezza cresceva nel petto di Mia. Ripensò alla zuffa in acqua
in questa stessa vasca con lui e Bryn, solo poche settimane fa. Ripensò a
quella ragazzina che bruciava sulla pira e a tutto ciò che era andato perduto
assieme a lei.
“Queste persone non sono la tua familia e non sono tuoi…”
«Quattro fottute Figlie…»
Mia alzò lo sguardo e vide Sidonius superare le guardie appostate
all’ingresso dei bagni. Chiudendosi la porta alle spalle, si spogliò e si
immerse nell’acqua, gli occhi sgranati e il respiro rapido.
«Sembri di cattivo umore» disse Alzaonda.
«Niente “sembri”, fratello.»
«Cosa ti turba?»
«La nostra fottuta Dominatii» ringhiò il grosso Itreyano. «L’ho appena
sentito da Milaini, una delle servitrici: Leona ha inviato una missiva al
fottuto Varro Caio per invitarlo qui domani all’ultimopasto.»
«Perché cena con un venditore di carne?» chiese Alzaonda.
«Progetta di venderci al Pandemonium… tu che dici?» sbraitò Sidonius.
«A quanto pare ha già stilato una lista. Milaini l’ha vista sulla sua
scrivania.»
«… Chi c’è sulla lista?» chiese Mia.
«Bryn, tanto per cominciare» disse Sid, annuendo in direzione della
ragazza vaaniana.
Bryn sbatté le palpebre, come se stesse udendo la conversazione per la
prima volta.
«… La Dominatii vuole vendermi a Varro Caito?»
«Le servono soldi» ringhiò Sidonius. «Non può permettersi un nuovo
auriga per formare una nuova squadra di equillai. Ma dopo la tua
dimostrazione a Whitekeep, verrai pagata una fortuna.»
«Chi altri?» bofonchiò Alzaonda.
«Cantalame» sbraitò Sidonius. «Felix. Albanus. Macellaio. E me.»
«Ha intenzione di vendere Canta?» mormorò Mia.
«Ha intenzione di vendere chiunque respiri» ribatté Sid. «Le servono
tremila preti d’argento e ha puntato tutto sulla tua vittoria al magni, Corvo.
Noialtri siamo solo sacchi di monete per lei.»
Bryn scosse il capo, sussurrando: «Merda».
«È tutto quello che hai da dire?» mormorò Sidonius, interdetto.
«E cos’altro vorresti che dicessi?» ringhiò la giovane.
«Di’ che non sarai venduta come uno scarto per morire nel
Pandemonium» ringhiò Sidonius. «Perché per le Quattro fottute Figlie, io
non mi farò vendere.»
«E che alternativa abbiamo?»
Sid lanciò un’occhiata verso la porta aperta e abbassò la voce ancora di
più.
«C’è sempre un’alternativa» disse.
Un brivido corse per la pelle di Mia quando guardò Sid negli occhi.
«Che intendi?»
«Intendo che l’executus non c’è più, e nemmeno la sua frusta» rispose
Sidonius. «Il che significa che queste guardie della casa sono più molli della
merda di un neonato, mentre noi siamo gladiatii a pieno titolo. Potremmo
pestarli a morte con spade da addestramento, se volessimo. In particolare
con il vantaggio della sorpresa.»
Alzaonda si accigliò, sfregandosi il mento.
«Già» borbottò. «Potremmo farlo.»
Bryn sgranò gli occhi e la sua voce si abbassò a un sussurro furioso.
«Parlate di ribellione? Siete fuori di testa? Volete finire giustiziati al
magni?»
«Tu preferiresti morire nel Pandemonium?» domandò Sidonius. «In caso
tu non abbia occhi per vederlo, sorella, questa casa ci sta cadendo addosso.
E io ho una mezza idea di defilarmi prima che crolli il tetto.»
«Questo non è giusto» concordò Alzaonda. «Cantalame ha combattuto
con onore. Corvo sarebbe la prima ad ammettere che lei non avrebbe vinto
contro l’Esule se non fosse stato per Canta, giusto?»
Mia annuì lentamente. «Sì.»
«E ora sarà venduta come carne? Perché il suo braccio buono è
rovinato?» L’omone guardò verso Bryn. «Tuo fratello ha dato la vita per
questa casa. Ed è così che Leona onora quel sacrificio? Vendendo sua
sorella a un bastardo come Varro Caito? Io non me ne starò con le mani in
mano» sbraitò Sid. «Non posso. Non voglio.»
Alzaonda guardò Sidonius e scosse il capo.
«Nemmeno io.»
Mia si umettò le labbra e parlò piano. «Aspettate un attimo.»
I tre gladiatii la guardarono, attendendo che parlasse. Dopo la
dimostrazione che aveva dato nell’arena, non c’era uno solo di loro che non
la rispettasse. E anche se lei riusciva a capire l’ingiustizia di quella
situazione, anche se sapeva che, al posto loro, avrebbe obiettato
sicuramente allo stesso modo…
Se i gladiatii del Collegio Remus si fossero ribellati, lei non avrebbe mai
visto il magni. Non avrebbe mai avuto la sua vendetta. Se li avesse aiutati,
nella migliore delle ipotesi sarebbe stata una fuggitiva in una Repubblica
dove una ribellione del genere veniva punita in modo brutale. Nella
peggiore delle ipotesi, sarebbe semplicemente rimasta uccisa nel tentativo.
E se non avesse partecipato, ma avesse consentito che accadesse,
probabilmente sarebbe stata comunque crocifissa dagli administratii perché
apparteneva a una casa in rivolta.
Ma starsene lì a non far niente mentre Bryn, Canta e Sid venivano
venduti…
«Un attimo?» chiese Sidonius, «Un attimo per cosa?»
«… Non diciamo cose affrettate» rispose Mia. «Le ferite del funerale di
Verme sono ancora fresche. Io dico di pensarci qualche cambio prima di
fare qualcosa di avventato.»
«Avventato?» si accigliò Sidonius. «Stiamo parlando delle nostre vite,
qui!»
«Può andar bene per qualcuno» disse Alzaonda. «Ma non tutti noi siamo
campioni che godono del favore della domina.»
«E quel favore muta come il vento, Corvo» disse Bryn, all’apparenza
accalorandosi all’idea. «Guarda con quanta rapidità ha cacciato Arkades.»
«Io consiglio solo pazienza» insistette Mia. «Leona e Caito ceneranno
domani, ma non si perfezionerà nessuna vendita per un cambio o due. Il
sangue della Dominatii scorre caldo quanto il nostro. Forse col tempo si
renderà conto della sua follia e cercherà un altro modo. Forse troverà
qualche trucchetto nel suo libro mastro che possa evitarle di vendere
qualcuno. Sono certa che non desidera separarsi da nessuno di noi.»
«Se credi che quella donna abbia un briciolo di lealtà dentro di sé,»
obiettò Alzaonda «sei una sciocca come non mi eri mai sembrata. Leona
pensa alla propria gloria e a quella di nessun altro.»
«Pazientate» implorò lei. «Per favore.»
I tre gladiatii si scambiarono occhiate cupe. Ma pareva che non ci
fossero ulteriori argomentazioni per il momento, e ciascuno cadde in un
silenzio fosco e imbronciato. E con poco altro da dire e nessun conforto da
offrire, Mia uscì finalmente dalla vasca e si asciugò, per poi legarsi attorno
al corpo le strisce di cuoio e uscire a passi lievi dalla stanza.
Procedendo lungo il corridoio verso la sua cella, la sua mente turbinava.
Sapeva di non poter lasciare che si verificasse una rivolta contro Leona: in
caso contrario, il suo intero piano sarebbe saltato. Ma se avesse permesso
alla domina di fare a modo suo, se Leona non poteva essere convinta a
lasciar perdere, Sid, Canta e Bryn sarebbero stati praticamente morti.
Nessuno sopravviveva al Pandemonium. Perfino i più grandi guerrieri lì
duravano al massimo qualche mese.
Una lenta quiete si posò sulla caserma quando i gladiatii andarono a letto
per l’illuminotte. Sidonius tornò dai bagni, sedendosi di fronte a Mia nella
loro cella. Lei non era stata ancora trasferita di sopra: con tutte le tragedie
degli ultimi cambi, supponeva che Leona avesse preoccupazioni più
impellenti che trovare degli alloggi per il suo nuovo campione. E così Mia
era ancora bloccata nella sua gabbia. Sentiva gli occhi di Sid su di sé mentre
le lampade arkemiche venivano abbassate e il chiacchiericcio degli altri
gladiatii si attenuava e poi si interrompeva, rimpiazzato finalmente dal
suono del sonno.
Come sempre, l’uomo rimaneva in silenzio quando erano soli. Non la
incalzava mai.
La fissava e basta.
I minuti scorrevano come giorni. I suoi occhi azzurri erano fissi su di lei.
Immobili.
Muti.
«Madre Nera, cosa c’è?» sibilò infine lei.
«Non ho detto nulla» sussurrò Sidonius.
«Perciò hai intenzione di startene lì a fissarmi tutta l’illuminotte?»
«Preferiresti che parlassi?»
«Sì, dannazione a te, di’ quello che devi dire. Non eri timido al riguardo
nei fottuti bagni. Siamo soli, e all’improvviso il gatto ti ha mangiato la
lingua?»
«E di cosa dovremmo parlare? Hai messo in chiaro come la pensi.»
«Mi stai seguendo come un fottuto sanguifalco da quando hai scoperto
chi ero. E non me l’hai mai chiesto, nemmeno una volta. Eppure al primo
sussurro di…» Mia si guardò attorno e abbassò la voce «… di ribellione,
tutt’a un tratto ti si è sciolta la lingua.»
«L’azione da intraprendere riguardo la mia prossima vendita mi riguarda
direttamente, Corvo. Ma per quanto riguarda le tue origini, non sta a me
parlare. E se te lo stavi domandando, ti bastava solo chiedere. Io ti seguo
per rispetto nei confronti di tuo padre. Lui avrebbe voluto che badassi a te.»
«E cosa ne sai tu di cosa avrebbe voluto mio padre?»
Sidonius rise piano. «Più di quanto immagini, piccolo Corvo.»
«Eri un soldato. Marchiato per codardia e sbattuto fuori dalla legione.
Non eri nel suo consiglio. Non lo conoscevi.»
Sidonius scosse il capo, il dolore che brillava nei suoi occhi.
«So che si vergognerebbe di cos’è diventata questa casa.»
Mia rimase in silenzio a quelle parole. Prese un respiro profondo e
tremante e guardò le mura attorno a lei. Le sbarre di ferro e la miseria
umana. Si era strofinata con forza nel bagno, ma poteva ancora fiutare il
fumo della pira funebre di Verme nei suoi capelli.
«Tu ti chiami Mia, giusto?»
Lei alzò lo sguardo bruscamente, gli occhi stretti.
«Ci ho messo un po’ per ricordarlo» disse Sid. «Il tribuno parlava di te
qualche volta, ma non era molto ciarliero riguardo alla sua famiglia. Credo
che si sentisse più vicino a tutti voi, in quel modo. Non condividendovi con
altri. Non macchiando i pensieri su di voi con tutto il sangue e la merda che
vedevamo durante le campagne.»
«Sì» rispose infine lei. «Mia.»
«E il tuo fratellino era Jonnen.»
«… Già.»
Sid annuì, succhiandosi il labbro in silenzio.
«Figlie, sputalo» sospirò Mia.
«Sputare cosa?»
«Il rimprovero che si sta agitando così chiaramente dietro i tuoi fottuti
denti. “Tu puoi lasciare queste mura quando ti pare, Corvo, non hai alcun
diritto di impedirci di provare a fare lo stesso. Anche se fallissimo, gli
administratii non ti prenderanno mai. Nessuna cella può trattenerti.”»
«È quello che stavo pensando?» chiese Sid. «O è quello che tu stavi
pensando?»
«Fottiti, Sid.»
«Mi ci è voluto un po’» disse l’omone. «Per rifletterci. Perché tu fossi
qui, perché volessi combattere nel magni. E poi mi sono ricordato chi ci
sarebbe stato sulla sabbia una volta che tu fossi stata dichiarata vittoriosa.
Gli stessi uomini che giudicarono lui, vero? Gli stessi uomini che sorrisero
mentre veniva impiccato.»
Mia non disse nulla. Lo fissò e basta.
«Non ero lì quando accadde» disse Sid. «Allora ero già in catene. Ma ne
sentii parlare, in seguito. Udii che Domina Corvere si era trovata sulle mura
del foro, sopra la folla urlante. Con una ragazzina tra le braccia. Dovevi
essere tu, giusto? Uno spettacolo davvero raccapricciante da far guardare a
una figlia.»
«Lei voleva che vedessi» disse Mia. «Voleva che ricordassi.»
«Tua madre.»
«Sì» sbraitò Mia. «Com’è che l’hai chiamata? La stupida puttana
fottuta?»
«Già, è stato scortese da parte mia» sospirò Sid. «Ma è difficile per me
trovare troppe parole gentili per tua madre, Mia. Sapendo ciò che so di lei.»
«E cos’è che pensi di sapere?»
«Solo che Alinne Corvere aveva più ambizione del tribuno Darius e del
generale Antonius messi assieme. Metà dei centurioni di tuo padre erano
innamorati di lei. Aveva un terzo del senato completamente in pugno.» Sid
congiunse i polpastrelli contro il mento. «Come supponi che ci sia riuscita?
Non era la spadaccina che sarebbe diventata sua figlia. Era un politico.
Credi che una donna del genere potesse mettere quasi in ginocchio la
Repubblica senza mettersi in ginocchio lei stessa un paio di volte?»
Mia guardò torvo Sidonius. «Non osare.»
«So che stai cercando di vendicarli» disse Sidonius. «So che pensi che
sia legittimo. Mi domando se penseresti la stessa cosa se sapessi che genere
di donna era tua madre. O che genere di uomo era tuo padre.»
«Io so che genere di uomo era. Era un eroe.»
«Lo pensiamo tutti quanti, dei genitori» disse Sid. «Ci hanno dato la vita,
dopotutto. È facile scambiarli per dèi.»
«Prova a parlare male di mio padre» sussurrò Mia «e giuro sulla Madre
Nera che ti ammazzerò proprio qui in questa cella. Lui stava facendo quello
che riteneva meglio per la Repubblica e il suo popolo. Era un uomo che
seguiva il suo cuore.»
«Volevo bene a tuo padre, Mia. E l’ho servito meglio che ho potuto. Era
una persona carismatica. La lealtà che ispirava ai suoi uomini… credo che
tutti noi gli volessimo bene a nostro modo.» Sid tenne gli occhi fissi in
quelli di Mia. «E sì, era un uomo che seguiva il suo cuore. Solo non nel
modo che credi tu.»
«… Di cosa stai parlando?»
Sid sospirò.
«Tuo padre e il generale Antonius erano amanti, Mia.»
Mia sussultò come se le avessero dato un ceffone.
Le tremava il respiro.
L’intero mondo ondeggiava sotto i suoi piedi.
«… Cosa?»
«Lo sapevano tutti» disse Sid. «Tutti i loro uomini, almeno. Non
importava a nessuno. Nemmeno a tua madre, fintantoché tenevano la cosa
sotto silenzio. Lei aveva sposato la posizione, non l’uomo. Era un
matrimonio d’amicizia. Ma soprattutto era un matrimonio di ambizione.
Tuo padre suscitava fedeltà tra i Luminatii. Noi non eravamo infastiditi dal
fatto che l’aspirante re e l’Incoronatore ogni tanto si infilassero nei rispettivi
letti. Qualcuno lo trovava perfino romantico.» Sidonius si sporse più vicino,
la sua voce dura e pesante. «Ma non dirmi che la ribellione riguardava
l’amore di Darius Corvere per la libertà o il popolo, Mia. Riguardava il suo
amore per Antonius. Il generale voleva essere un re. E tuo padre voleva
essere l’uomo che gli avrebbe messo quella corona sulla testa. Puro e
semplice.»
Mia ricordò le illuminotti a Crow’s Nest, quando il generale veniva in
visita. Lo aveva sempre chiamato “zio Antonius”. Sua madre, suo padre e
lui cenavano tutti assieme, con fiumi di vino, e le loro risate riecheggiavano
per i corridoi di lunga pietra rossa.
E dopo…
Forse proprio sotto questo tetto…
«Menzogne» mormorò Mia. «Le tue sono solo menzogne.»
«No, Mia» disse Sid. «Le mie sono solo difficili verità.»
Mia sedette immobile, in silenzio, il cuore che le martellava nel petto.
Sbatté forte le palpebre.
Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva pianto…
«Fa male, non è vero?» Sid sospirò. «Quando scopri che quelli che ti
hanno dato la vita sono mortali e fragili come il resto di noi? Che il mondo
non è quello che pensavi?»
Mia si asciugò le lacrime con mani tremanti. Ricordò il modo in cui suo
padre baciava sua madre. Prima su una palpebra, poi sull’altra, infine sulla
liscia fronte olivastra.
Ma mai sulle labbra.
Poteva essere vero?
“… E anche se lo fosse stato, che importanza aveva?”
Se non c’era alcun inganno tra loro, perché le importava con chi
scopavano i suoi genitori? Anche se potevano non essersi amati tra loro,
entrambi avevano amato lei; se non altro, sapeva quello. Le avevano
insegnato a fare affidamento sulla sua intelligenza, a essere forte, a non
avere mai paura. E le mancavano entrambi, perfino ora, come un buco che
le fosse stato scavato nel petto il cambio in cui le erano stati portati via.
Ma se suo padre non era stato l’eroe del popolo che lei aveva creduto, se
aveva cercato di rovesciare il senato solo per i propri fini egoistici…
… che scopo avevano tutti questi omicidi e questo sangue, esattamente?
“No.”
No, Scaeva e Duomo meritavano comunque di essere uccisi. Avevano
comunque imprigionato sua madre e il suo fratellino, lasciandoli morire in
una segreta dentro la Pietra Filosofale.
“Porterò a tuo fratello i tuoi saluti…”
«So cosa ti costerà» mormorò Sidonius. «Lasciare che avvenga una
ribellione sotto questo tetto. Ma pensa a Bryn. A Cantalame. A Macellaio, e
a me. Ci meritiamo davvero di morire in una fossa senza dèi perché Leona
odia suo padre e tu ami troppo il tuo?»
Silenzio tra loro, pesante come piombo. Mia squadrò l’uomo: l’aveva
scambiato per uno sciocco lussurioso, un mascalzone, forse perfino per un
codardo come il suo marchio dichiarava al mondo. Capiva che lui non era
nessuna di quelle cose. Tuttavia…
«Perché non eri lì quando mio padre e Antonius furono catturati?» chiese
con voce flebile. «Perché non sei morto con il resto dei loro uomini?»
Sidonius sospirò a fondo e chinò il capo.
«I centurioni dei Luminatii e le loro Seconde Lance furono informati del
piano di Darius e Antonius l’illuminotte dopo che ci radunammo. Antonius
tenne un discorso grandioso: parlò di corruzione, di arroganza, della
Repubblica che era sotto il controllo di uomini deboli ed empi. E quando
tutti i colpi sugli scudi e i battiti di petto cessarono… io non ci riuscii e
basta. La Repubblica è marcia, Mia, su questo non ci sono obiezioni. Un
cancro divora le ossa di questo posto, e Godsgrave ne è il cuore. Julius
Scaeva è due volte il tiranno che sarebbe stato Antonius. Ma noi eravamo la
legione dei Luminatii. Soldati di Dio. La guerra che avremmo mosso se
avessimo marciato sulla nostra stessa capitale, la sofferenza che ci saremmo
lasciati alle spalle…
«Sarebbero morti a migliaia. Decine di migliaia, forse. E per cosa?
Perché un uomo potesse indossare una corona e un altro potesse
mettergliela sulla testa? Non potevo farlo. Andai dal mio centurione e glielo
dissi. Lui ascoltò con pazienza mentre cercavo di spiegargli perché fosse
sbagliato. E quando ebbi finito, mi fece pestare quasi a morte, marchiare
come un codardo e vendere al miglior offerente sui ceppi.»
Sidonius scosse il capo.
«Sei anni in catene per un solo momento in cui ho seguito i miei
principi. Questo è il tributo che ho pagato. Ma sai cos’ho imparato in tutti
gli anni tra allora e adesso, piccolo Corvo?»
«… No.»
Sid fissò Mia con il suo sguardo azzurro-ghiaccio.
«Non esiste cuscino più morbido di una coscienza pulita.»
Mia sedeva al buio, tremando dalla testa ai piedi. Le colavano le lacrime
lungo le guance. E, senza aggiungere altro, Sidonius si sdraiò sulla paglia,
rotolò su un fianco e chiuse gli occhi.
«Dormi bene, Mia» disse infine.

a. Note come reparii, queste monete vengono pagate alla dea Keph in cambio di un soccorso presso il
suo Focolare nell’aldilà.
Dal momento che la Dea della terra sonnecchia da secoli e non le servono soldi, le monete di
legno sono gettate nel Focolare perché continui a bruciare. Il fuoco all’interno del Focolare fu un
dono da parte della sorella di Keph, Tsana, la Signora della fiamma, che riteneva ingiusto che alla
loro madre, Niah, fosse dato il dominio unico sui morti. Così creò il fuoco per dare alle anime
rette un posto dove radunarsi e riscaldarsi contro il gelo della notte senza fine dell’aldilà.
Tsana odia sua madre, vedete. Quasi quanto la odia suo padre.
Ci si potrebbe domandare se sia stata abbracciata abbastanza da piccola.
CAPITOLO 28
CICATRICI

«… questo non è saggio…»


«Come ti piace ricordarmi.»
«… se non lo faccio io, chi lo farà? quella sciocca di eclissi…?»
«Se non sapessi che non è così, direi che sei gelosa di lei e ashlinn.»
«… è un bene che tu sappia che non è così, allora…»
Mia si inginocchiò nel vicolo, trovò il mantello che Ash aveva lasciato
per lei e se lo avvolse attorno alle spalle. Anche se andarsene in giro per
Crow’s Rest in questo caldo con indosso un cappuccio e un mantello non
era esattamente il modo migliore per evitare i sospetti, era più facile che
andare in giro a tentoni sotto un mantello di ombre.
«Ho bisogno di parlare con lei, Messer Cortese» disse Mia, tirandosi il
cappuccio sopra la testa. «È tornata da due cambi, e le cose si stanno
muovendo rapidamente al collegio.»
«… una volta parlavi con me…»
«Parlo ancora con te.»
«… mmm…»
Messer Cortese le balzò sulla spalla e le arricciò la coda attorno alla
gola. Mia uscì dal vicolo, procedendo lungo Via dei Pescatori verso la
locanda. L’ora era tarda e i venti che soffiavano dall’oceano per poco non le
spinsero il cappuccio via dalla testa. C’era qualche persona che se ne
andava in giro per le proprie faccende, e Mia udì il rintocco nelle campane
giù al porto, ma a parte i poco di buono come lei, le strade erano
praticamente vuote.
«D’accordo, allora» borbottò. «Di cosa vuoi parlare?»
«… da dove cominciare…» giunse il bisbiglio al suo orecchio «… da
quella cosa che ti ha salvato la vita a galante? dalla tua teoria che i
tenebris siano in qualche modo connessi alla caduta dell’impero ashkahi?
dalla mappa tatuata sulla schiena di ashlinn? e non dimentichiamoci del
tuo incontro con la serica e della seconda serie di lame che ha così
opportunamente dimenticato di indebolire…»
«Chiunque avrebbe potuto commettere quell’errore, Messer Cortese.»
«… sei una sciocca a fidarti di lei…»
«Se Ash mi volesse morta, avrebbe potuto eliminarmi almeno una decina
di volte, finora.»
«… comunque sia, il suo coinvolgimento sta annebbiando il tuo giudizio.
ci sono molte domande su ciò che sta succedendo qui, e sembra che tu non
stia cercando la risposta per nessuna di esse…»
«Non è che possa fare molto, stando dietro le mura del dannato collegio»
sibilò lei. «Il magni viene prima. Abbiamo solo una possibilità, in questo.»
«… ricordi cosa ti ha detto quella creatura d’ombra a galante?»
«Che dovrei dipingere i cieli di nero. Qualunque cazzo di cosa
significhi.»
«… ha detto che la tua vendetta serve solo ad accecarti, mia…»
«Stai dicendo che dovrei dimenticare cos’hanno fatto Scaeva e Duomo?»
«… sto dicendo che potrebbero esserci cose più grandi in gioco, qui…»
«E credi che non lo sappia?»
Svoltarono l’angolo del vicolo dietro la locanda, odore di immondizia e
marcio nell’aria. Mia si tolse il cappuccio e Messer Cortese balzò su una
cassa rotta, poi iniziò a pulirsi le zampe traslucide mentre Mia continuava.
«Ascolta, ormai sono mesi che mi sento come una pedina che riesce a
vedere solo metà del tabellone. E le domande che ho nella testa sono quasi
assordanti. Ma tutte quelle domande avranno ancora bisogno di risposte
quando la veraluce sarà finita e la possibilità di eliminare Scaeva e Duomo
sarà passata. Il nostro piano è una ribellione senza rovina. Tutto è appeso ai
prossimi cambi.»
«… be’, se pensassi che la ribellione dei gladiatii è tutto quello che ti
preoccupa, la risposta è ovvia…»
«Ah, sì? Ti prego di dirmela, allora.»
«… non puoi permettere che accada…»
«Non è così semplice, Messer Cortese.»
«… è così semplice. se desideri ancora la tua vendetta, devi vincere il
magni. e non puoi vincere il magni se sei stata giustiziata per ribellione
contro la Repubblica. parli di continuo di tutto ciò a cui hai rinunciato per
arrivare a questo punto. non puoi cadere ora, quando manca così poco…»
«Perciò devo lasciare semplicemente che Sid e gli altri muoiano?»
«… non sono tuoi amici, mia…»
«E chi sei tu per dirmelo?»
Il non-gatto inclinò il capo.
«… io sono tuo amico. il tuo più vecchio amico. chi ti ha aiutato quando
scaeva ha ordinato di affogarti? chi ti ha salvato sulle strade di godsgrave?
chi è stato al tuo fianco durante le tue prove nella chiesa? e in tutto quel
tempo, ti ho mai indirizzato male…?»
Mia avvertì un rimprovero salirle alle labbra, ma prima che potesse
esternarlo, percepì la sua ombra incresparsi e un brivido familiare farle
formicolare la pelle. Una sagoma scura prese forma ai suoi piedi, snella e
lupesca, attorcigliandosi attorno e in mezzo alle sue gambe.
«… SEI TORNATA …»
«… Ciao, Eclissi.»
«… MI SEI MANCATA …»
«… oh, per favore…»
Eclissi ringhiò e i suoi artigli d’ombra scavarono nel terreno.
Messer Cortese simulò uno sbadiglio.
«… smettila, mi stai spaventando…»
«… CREDO CHE TU SIA TROPPO STUPIDO PER FARTI SPAVENTARE DA ME,
MICETTO. MA UN CAMBIO TI INSEGNERÒ CHE ESISTE UN PREZZO PER AVERE
TROPPA BOCCA E NON ABBASTANZA DENTI …»
«… dimmi, caro cagnaccio, provi queste piccole minacce spuntate
quando sei da sola oppure improvvisi e basta…?»
Mia si accigliò: la sua tolleranza per il sarcasmo del non-gatto era ai
minimi termini.
«Messer Cortese, vai a controllare Nest. Vieni a prendermi se Furian si
sveglia.»
«… mi stai mandando via…?»
«… OH, COME SANGUINA IL MIO CUORE …»
«… noi non abbiamo un cuore, idiota d’un cagnaccio…»
«… NON DIMENTICARTI DI RICORDARMELO QUANDO MANGERÒ IL TUO …»
L’umbragatto soffiò e l’umbralupa ringhiò. Ma con un’increspatura nel
nero ai suoi piedi, Mia percepì il suo passeggero andarsene. Si inginocchiò
e fece scorrere le mani attraverso Eclissi, godendo del lievissimo alito di
velluto fresco sotto i polpastrelli.
«Va tutto bene?»
I peli di Eclissi erano ancora ritti, ma sotto il tocco di Mia l’umbralupa si
placò lentamente. Leccando la mano della sua padrona con una lingua
trasparente, parlò piano.
«… TUTTO BENE. MEGLIO ORA CHE SEI QUI. COME VANNO LE TUE
FERITE …?»
Mia si toccò la benda sulla faccia e fece una smorfia. «Abbastanza
bene.»
«… SEMBRI TRISTE …»
«Forse un po’.»
«… DOBBIAMO FARE DEL MALE A QUALCUNO …?»
«Ho bisogno che tu resti qui, Eclissi. Tieni d’occhio la strada, eh?»
«… COME DESIDERI …»
Mia sorrise e cominciò ad arrancare lungo il vicolo, lieta che almeno uno
dei suoi demoni fosse felice di fare quello che lei diceva. Mentre si
allontanava sempre di più e si arrampicava su per la grondaia fino al
balcone fuori dalla finestra di Ashlinn, avvertì la stretta di Eclissi su di lei
cominciare a scomparire e le farfalle iniziarono a insinuarsi nel suo
stomaco. Era ancora una sensazione poco familiare, fredda, nauseante e
sfuggente. La faceva sentire piccola. La faceva sentire debole.
Madre Nera, quanto detestava avere paura.
Si accucciò presso la finestra, il pugno sospeso sopra il vetro.
Quell’odiosa sensazione di pidocchi che le zampettavano nella pancia.
Sudore freddo che le pizzicava nei punti sulla guancia. Stringendo i denti,
trascinò il coraggio dal fondo dei piedi e bussò piano.
La finestra si aprì e Ashlinn era lì in piedi, inondata dalla soliluce
ardente. Per un attimo, Mia dimenticò il sangue, la morte, la paura,
abbeverandosi semplicemente della sua vista. Questa ragazza che aveva
nuovamente rischiato la vita raccogliendo informazioni a Whitekeep,
indebolendo le lame dell’Esule per pareggiare le probabilità, seguendo Mia
avanti e indietro per tutta la Repubblica senza battere ciglio.
«Oh, Dea» mormorò Ashlinn, premendo le labbra su quelle di Mia.
Mia chiuse gli occhi e fece scivolare le braccia attorno alla vita di
Ashlinn, lasciando che la ragazza le riempisse la faccia di baci. Prendendola
per mano, Ash condusse Mia al letto, la tirò giù e le gettò le braccia attorno,
stringendo forte. Malgrado il dolore delle costole incrinate e la sofferenza
degli ultimi cambi, Mia respirò con più facilità, inalando lavanda e l’odore
di henné nei capelli di Ashlinn. Abbracciava e veniva abbracciata a sua
volta.
«Mi sei mancata» sussurrò Ash.
«… Anche tu.»
Si baciarono di nuovo, un bacio lungo, felice e delicato. Ashlinn la tirò
più vicina a sé e le seppellì la faccia nel collo. Rimasero stese così per
un’eternità, i corpi che combaciavano tra loro come stranissimi pezzi di un
rompicapo. Di tutti i posti in cui si era aspettata di trovarsi lungo la strada,
stare avvolta tra le braccia di questa ragazza era l’ultimo. Il più caldo. Il più
dolce.
Dopo un lungo e pacifico nulla, Ash si ritrasse infine dalle braccia di
Mia e la rimirò, dalla cima della testa all’ombra sotto di lei.
«Dov’è Messer Buffone?» chiese.
«L’ho rimandato alla fortezza» sospirò Mia.
«Scommetto che non dev’essergli piaciuto.»
Mia scrollò le spalle, giocherellando con l’estremità di una delle trecce
di Ashlinn. «Mi stava facendo incazzare. Ha sempre qualcosa di sarcastico
da dire. Sempre a fare discussioni. Sempre a incalzarmi. Non è mai
semplicemente… carino.»
«Assomiglia a qualcun altro che conosco» sorrise Ash.
Mia sollevò un sopracciglio e scoccò ad Ashlinn un’occhiata fulminante.
«Ma davvero?»
«La verità è il coltello più affilato, Corvere» sogghignò Ash.
«Mi ferisci, domina. Ti faccio notare che sono dannatamente adorabile.»
Ash sorrise. «Stavo proprio pensando a quello, in effetti.»
«A quanto sono dannatamente adorabile?»
«No» disse Ashlinn roteando gli occhi. «Ai tuoi passeggeri. A come
sono diversi. Trascorrendo tutto questo tempo con Eclissi, sono arrivata a
conoscerla piuttosto bene. Lei e Messer Simpatia sono come veraluce e
verobuio. Lui è sarcastico, maligno e un fottuto cagacazzi. Eclissi è più
semplice, più diretta. Non fa discussioni. E mi sono resa conto che tu e lord
Cassius condividete le loro caratteristiche. Tu stessa hai detto che lui non ha
mai cercato la verità sull’essere tenebris.»
«Pensi…»
«Io non penso nulla» disse Ash con una scrollata di spalle. «È solo
interessante. Forse un passeggero eredita i modi del tenebris con cui viene a
contatto per primo?»
Mia ci rimuginò per un momento e le parve sensato. Pensandoci sul
serio, i suoi due passeggeri assomigliavano moltissimo alle prime persone
con cui si erano accompagnati. L’umorismo nero e amaro dell’umbragatto e
la sua arguzia mordace. La fedeltà incrollabile dell’umbralupa, la sua
propensione a soluzioni violente per ogni situazione.
Era possibile che Messer Cortese fosse solo un suo riflesso oscuro?
E se ciò era vero, i suoi pensieri non erano il miglior indicatore di quello
che pensava lei?
… non sono tuoi amici, mia…
«Ero preoccupata per te» mormorò Ashlinn. «Durante il venatus di
Whitekeep, mi dispiace non aver notato quella seconda serie di lame. È
stato stupido da parte mia.»
Mia sbatté le palpebre mentre i suoi pensieri tornavano a fuoco. Guardò
Ashlinn negli occhi.
Si domandò se…
«Sgattaiolare là sotto non vista non dev’essere stato facile» disse. «E alla
fine si è rivelato sufficiente.»
Ash si succhiò il labbro. «Lei ti ha fatto male.»
«Sto bene» sospirò Mia. «Costole incrinate. Qualche graffio.»
Ashlinn si puntellò sul gomito, passando delicatamente i polpastrelli
sulla benda che copriva fronte e guancia di Mia.
«Non sembrava un graffio quando ti ha squarciata.»
«È a posto, Ash.»
«… Mostrami.»
Mia scosse il capo, lo stomaco in subbuglio. «Ashlinn, io non…»
«Mia» disse Ash piano, prendendole la mano. «Mostrami.»
La paura. Le crebbe nella pancia come veleno. Voleva Messer Cortese ed
Eclissi di nuovo con lei, ora. La vita era molto più facile senza alcuna
considerazione per le conseguenze, nessun riguardo per il dolore. I suoi
passeggeri erano ciò che la rendeva forte, che le permetteva di essere il
terrore delle sabbie, di non dedicare nemmeno un pensiero a ferire o essere
ferita a sua volta. Era acciaio quando loro erano dentro di lei. Senza di
loro…
“Senza di loro cosa sono io?”
Malgrado affermasse di preferire un aspetto minaccioso a uno grazioso,
aveva ancora paura di cosa ci fosse sotto quella benda. Di cosa avrebbe
visto negli occhi di Ashlinn quando lei gliel’avesse tolta. Ma percepì la sua
vecchia collera crescere, altrettanto rapida. La rabbia che era stata sua
compagna per tutti gli anni tra il cambio in cui suo padre era stato ucciso e
questo. Che importanza aveva per lei il suo aspetto?
Che differenza faceva per la sua identità?
Mia alzò la mano verso la benda e se la slegò dalla fronte. Era attaccata
alla ferita, sangue secco incrostato nella garza, così dovette tirarla e sussultò
per il dolore. Ashlinn rimase immobile, fissandola con quegli stupendi
occhi azzurri. Mia lanciò un’occhiata al suo riflesso nello specchio. Il taglio
scendeva dalla fronte, arricciandosi in una crudele forma a uncino lungo la
guancia sinistra, suturata con punti messi dalle mani ferme di Verme.
«Non è così male» mormorò Ashlinn.
«Bugiarda» replicò Mia.
«Sì, lo sono» sogghignò Ashlinn. «Ma non su questo.»
La ragazza si sporse in avanti e, con labbra delicate come una piuma,
baciò la fronte di Mia. Scendendo più in basso, stampò mezza dozzina di
baci gentili lungo la linea della sua ferita e infine premette le labbra su
quelle di Mia.
«Le nostre cicatrici sono solo doni da parte dei nostri nemici» le sussurrò
Ashlinn nella bocca. «Ci ricordano che non sono stati abbastanza abili da
ucciderci.»
Mia accennò un sorriso e intrecciò le dita in quelle di Ashlinn.
«Hai combattuto con coraggio nell’arena» disse Ash.
«È facile farlo quando ho Messer Cortese ed Eclissi al mio fianco.»
«Eppure sei venuta qui da sola. Non può essere stato facile.»
Mia scosse il capo. «Non lo è stato.»
«Allora non svenderti, Corvere. Non esiste nessuno al mondo in grado di
fare quello che fai tu. Sei la persona più coraggiosa che conosco. Dea,
quando sei balzata ad afferrare Cantalame, ho avuto così paura…» Ashlinn
scosse il capo e diede a Mia uno schiaffetto giocoso sulla gamba. «Non
rifare nulla di così stupido, mi hai sentito?»
«Non potevo lasciarla cadere, Ashlinn.»
Lo sguardo della ragazza si intenerì e un lento cipiglio si formò tra le sue
sopracciglia.
«Perché no?»
«Mi ha salvato la vita.»
«E nel salvare la sua, hai rischiato la tua.» Ash scosse il capo, gli occhi
azzurri scintillanti. «Non è il motivo per cui siamo qui, Mia. Questo è più
importante della vita di una gladiatii. C’è in ballo il futuro dell’intera
Repubblica. La fine di una tirannia a cui è stato concesso di deteriorarsi
troppo a lungo. La fine della Chiesa Rossa, la fine di…»
«So perché siamo qui, Ashlinn. Non sono un eroe. Non sono un fottuto
salvatore. Questo è il mio piano, ricordi?»
«… Sembra che non sia io quella che ha bisogno che le sia ricordato.»
Mia si accigliò e si liberò dall’abbraccio di Ashlinn. Dirigendosi verso il
cassettone, trovò i suoi sigaretti e ne accese uno. Inspirò a fondo malgrado
il dolore alle costole e sentì quel calore zuccherato spandersi sulla lingua,
formicolando sulle sue labbra.
«Verme è morta» sospirò.
«… Cosa? Come?»
«A quanto pare, Arkades ha messo dell’Elegia nel nostro ultimopasto.
Era in combutta con Leonides. Leona deve vendere un mucchio di gladiatii
per tenere a bada suo padre quanto basta per farmi combattere al magni. Ma
ai gladiatii è arrivata voce della loro vendita.»
«… E cosa ne pensano?»
«Tu cosa cazzo credi che ne pensino?» Mia incrociò le braccia e si
appoggiò alla parete, il sigaretto che le pendeva dalla bocca. «Hanno
intenzione di ribellarsi. Sidonius sta tentando di convincermi ad aiutarli. Lui
sa che posso uscire dalle celle e liberarli. Se colpiscono durante
l’illuminotte possono aprirsi un varco tra le guardie di Leona come piscio
nella neve.»
«Merda» mormorò Ashlinn. «Come hai intenzione di fermarli?
Dicendolo a Leona?»
Mia guardò Ash e prese un bel tiro della sua paglia.
«Chi dice che io abbia intenzione di fermarli?»
«Cosa?»
«Non meritano di morire, Ash. Nemmeno uno di loro. Non per questo.»
«Mia» disse Ashlinn. «So che provi un senso di affinità con queste
persone. Credimi, lo so. Ma sei sempre stata così attenta agli altri, perfino
da accolita. Ti ho avvisato allora e ti sto avvisando adesso.»
Mia guardò torvo la ragazza sul letto. Quella vecchia rabbia deliziosa
consumava tutta la sua paura.
«Ash, se non avessi risparmiato la vita di quel ragazzo nella mia prova
finale, sarei stata lì quando hai avvelenato il banchetto dell’iniziazione.
Sarei finita legata come Zitto e gli altri, alla completa mercé dei Luminatii.»
«Io non l’avrei permesso.»
«Non avresti potuto fermarli» replicò Mia. «Remus mi avrebbe
sbudellato non appena avesse messo le mani su di me. Perciò non ingannare
te stessa. Se non avessi mostrato pietà e fallito la mia prova, sarei morta
proprio come Tric.»
Ash sussultò. Poi prese un lungo respiro tremante.
«Me lo scagli addosso ogni volta che discutiamo. Non è giusto, Mia.»
«Oh, e quello che tu gli hai fatto lo era?»
«Ascolta, sono spiacente che Tric sia dovuto morire» disse Ash. «So che
ci tenevi a lui. Piaceva anche a me. Ma è proprio questo il punto, Mia. Tutti
hanno qualcuno che tiene a loro. I gladiatii che hai ucciso nell’arena, i
Luminatii che hai massacrato alla Montagna… ciascuno di loro era il figlio
o la figlia di qualcuno. Ciascuno di loro aveva qualcuno che li piangesse.
Tutto questo è più grande di una sola persona, o perfino di mille. Questo è il
futuro della Repubblica. Ed è tutto quello per cui hai lavorato.»
Mia si accigliò, prendendo una bella tirata del sigaretto. Ashlinn scese
dal letto, andò da Mia e le prese la mano.
«Tu sei nata per questo. E credo che tu lo sappia. Nel momento in cui tuo
padre scelse di sollevarsi contro la Repubblica, sei stata destinata a cose
grandi e terribili. Ma il fato non ti avrebbe scelto se non fossi stata
abbastanza forte da reggerne il peso. So che sei spaventata. So che stai
soffrendo. Ma siamo così vicine, ora. Puoi farcela. Sei la persona più forte
che conosco. Questo è uno dei motivi per cui ti amo, Corvere.»
Fumo all’aroma di chiodi di garofano si arricciò tra le sue dita,
fluttuando in aria e intrecciandosi con le parole che aleggiavano ancora
pesanti attorno alla sua testa.
«… Cos’hai detto?»
Ash si sporse in avanti e intrecciò le mani con quelle di Mia. Premette il
suo corpo contro quello di Mia. Mise le labbra su quelle di Mia. Il bacio fu
delicato, dolce e stordente: il pavimento le sfuggì da sotto i piedi,
avvolgendola nel profumo di lavanda, chiodi di garofano bruciati e un
desiderio doloroso e sospirante. Tutto il mondo smise di girare. Tutto il
tempo si fermò.
«Ho detto che ti amo, Mia Corvere» sussurrò Ash.
Per persone come noi, non ci sono promesse che durano per sempre…
«… mia…»
A Mia si mozzò il fiato e il cuore prese a palpitarle nel petto. Strappando
lo sguardo dagli occhi di Ashlinn, vide una forma familiare seduta sul
davanzale. Un non-gatto, che si puliva la zampa con la sua non-lingua.
«Cosa c’è?» gli domandò.
«… furian…» replicò Messer Cortese.

Aveva corso come una pazza su per la collina, con il mantello che le
svolazzava dietro, non curandosi nemmeno di nascondersi sotto la sua
coltre di ombre. Se qualcuno di Rest l’aveva notata, pazienza, ma le
ripercussioni dell’avvistamento del campione del collegio da parte di uno
sconosciuto per strada sarebbero impallidite a paragone di ciò che sarebbe
successo se le guardie avessero scoperto che non si trovava nella sua cella.
Era stata una sciocca, a rischiare una visita con così tanto in continuo
mutamento. Maledicendosi per essere stata un’idiota e cercando di
dimenticare il fatto che Ashlinn Järnheim…
“Ashlinn Järnheim ha detto che mi ama.”
Mia spinse da parte quel pensiero, il dolore che le scuoteva le costole
ogni volta che il suo piede colpiva la strada.
«È sveglio?» ansimò.
«… si sta svegliando. se vengono a chiamarti…»
«Lo so.»
«… tu rischi troppo, mia. ora tutto è in bilico…»
«Lo so.»
«… davvero…?»
Mia strinse i denti e corse, maledicendosi ancora una volta. Messer
Cortese aveva ragione. Ashlinn anche. Stava diventando molle. La Mia che
conosceva era stata motivata. Determinata. Ardeva di desiderio per una
cosa e per quella soltanto. Non poteva più permettersi questa empatia. I
rischi che la portavano a correre, tutto ciò che sarebbe andato in rovina se
lei avesse fallito qui…
A distanza di sicurezza da Nest, si mise il suo manto d’ombra, Passando
dall’altra parte del cancello come aveva fatto ormai una dozzina di volte e
procedendo a tentoni giù fino alla caserma. Protendendosi verso la tenebra,
Passò nelle ombre della sua cella, cadendo in ginocchio e stringendosi il
petto in fiamme. Il suo respiro era fuoco, la testa ondeggiava, la pelle era
ricoperta da una patina di sudore. Ma dopo la sua corsa disperata, sembrava
tutto tranquillo: se Furian si era svegliato, pareva che Leona o le sue
guardie non avessero ancora avuto bisogno di lei.
“Dea, poteva essere un disastro…”
Gettò via il manto e apparve alla vista nel buio della caserma, tra i
sospiri, il russare e i suoni del sonno. Disteso in un angolo ricoperto di
paglia, Sidonius aprì lentamente gli occhi: l’uomo sembrava avere un
talento innaturale per percepire il suo ritorno. O forse quando se ne andava.
«Problemi a dormire?» mormorò lui, tastandosi le ciglia. «Ho proprio la
cura adatta.»
Mia si accigliò e non rispose, non essendo dell’umore per un’altra
lezione sui benefici di una coscienza pulita. Udì passi pesanti provenire
dalle scale e le chiavi girate nel dispositivo mekana accanto alla saracinesca
della caserma. Sidonius si mise seduto un po’ più dritto e strinse gli occhi
quando tre guardie si avvicinarono, armate e corazzate di tutto punto.
«Riposa tranquillo» disse lei. «Sono qui per me.»
«Io riposo tranquillo, Mia» sussurrò lui. «E ho fiducia che lo farai anche
tu.»
Il terzetto di guardie arrivò alla cella, guidato dal capitano Gannicus.
«L’Imbattuto si è destato» disse la guardia. «Sta soffrendo. Domina
Leona ha lasciato ordini di svegliarti se l’avesse fatto e di essere trattata con
ogni cortesia. Ora che Verme non c’è più…»
«Sì, ci penserò io» sospirò Mia. «Portatemi da lui, se vi compiace.»
Le guardie aprirono la cella e Mia si alzò in piedi. Sidonius la osservò
mentre la scortavano fuori dalla caserma, per poi condurla su nella fortezza
e all’infermeria. La sua mente turbinava ancora, cercando di riflettere su
cosa fare per la ribellione che Sidonius stava fomentando, ciò che c’era di
giusto e di sbagliato. Le parole di Ashlinn e di Messer Cortese le
rimbalzavano nella testa. Il suo cuore era lacerato: la vendetta che l’aveva
guidata per tutti questi anni soppesata contro il pensiero di lasciare che Sid
e gli altri morissero.
Cos’era più importante?
Vendetta per una madre e un padre che, a quanto pareva, lei conosceva a
malapena? O le vite di persone che, per quanto si ostinasse a negarlo, erano
diventate suoi amici?
L’ora era tarda, ma mentre si avvicinava, Mia poteva udire una sequela
di imprecazioni dall’interno. Entrando, vide Furian sulla sua lastra, madido
di sudore. Braccia e gambe erano legate, le bende attorno al petto macchiate
di sangue.
«Lo stupido ha cercato di strapparsi le fasciature» borbottò Gannicus.
«Abbiamo dovuto legarlo.»
«Ci sono dei fottuti vermi che mi strisciano addosso!» gemette Furian.
«Lasciatemi con lui» disse Mia a Gannicus. «Provvederò io ai suoi
dolori. Se potete dire a Dito di mettere a bollire dell’aceto, ve ne sarò
grata.»
«Sì, campione» disse la guardia.
Annuendo ai suoi uomini, Gannicus ne lasciò un paio appostati fuori
dalla porta dell’infermeria e si allontanò per andare a svegliare il cuoco.
Mia entrò nell’infermeria e notò che Cantalame non era stesa sulla sua
lastra. Doveva essere stata spostata di nuovo nella sua cella a un certo punto
dell’illuminotte: era ancora troppo presto perché fosse stata venduta a Caito.
Il che voleva dire che lei e Furian sarebbero stati soli…
L’uomo la squadrò dall’alto in basso, un cipiglio scuro su quella fronte
stupenda. La fame dentro di lei crebbe come faceva sempre quando lui era
nei paraggi. Furian aveva ancora un aspetto orrendo, i lunghi capelli lisci
per il sudore, la pelle giallognola. Ma era sveglio e vigile, gli occhi scuri
fissi sul torque argenteo attorno al collo di Mia.
«Ti ha nominato campione?» sussurrò.
«Non gliel’ho chiesto io» replicò Mia. «Ma in verità nessuno sapeva se ti
saresti svegliato.»
«Perciò dà via il mio torque prima ancora che io sia freddo e mi lascia
qui a marcire?»
«Tu non stai marcendo» sospirò Mia.
«Ho delle fottute larve che mi strisciano addosso!»
«I vermi stanno rimuovendo la carne che è stata infettata dal veleno
dell’Esule. Ti hanno salvato la vita. E se non ti calmi e non la smetti di
dibatterti contro quei lacci, ricomincerai a sanguinare.» Mia frugò tra gli
scaffali, raccogliendo ingredienti. «Il dolore non può essere piacevole, però.
Ti procurerò qualcosa per alleviarlo.»
La testa di Furian affondò di nuovo contro la lastra, la voce pesante per
la fatica. «La Dominatii ti ha nominato infermiera, oltre che campione?
Dov’è Verme?»
Mia premette le labbra assieme, macinando gli ingredienti con mortaio e
pestello.
«Verme è morta.»
Il cipiglio di Furian si attenuò, sostituito da stupore nel suo sguardo.
«Come?»
«Arkades ha infilato una dose di Elegia nell’ultimopasto di tutti quanti.
Verme e Otho sono morti prima che potessi miscelare un antidoto.»
«… Arkades?»
«Sì.»
«Porca puttana» sussurrò Furian. «Arkades era gladiatii. Un uomo come
lui guarda i suoi nemici negli occhi e li uccide con una spada, non con un
boccone amaro.»
Mia scrollò le spalle e annusò con cautela una coppa d’acqua, poi ci
mischiò dentro la sua polvere. La portò a Furian e gliela accostò alle labbra,
osservando la sua ombra tremare e incresparsi ai margini. Quella di Mia si
avvicinò piano piano, come ferro con un magnete. Tutte le domande si
agitavano nella sua testa. Cosa sono? Cosa siamo? Perché? Chi? Come?
«È solo svanifoglia e ginerba» disse. «Allevierà il dolore.»
L’Imbattuto la fissò a occhi stretti.
«Tu mi hai salvato la vita, Furian» disse Mia. «Non è un debito che si
dimentica facilmente. Se ti volessi morto, avrei potuto fare in modo che non
ti svegliassi mai più. Ora bevi.»
L’ex campione assentì con un grugnito, poi inghiottì l’infuso mentre Mia
lo versava. Gettò indietro la testa contro la lastra e sospirò, fissando il
soffitto e flettendo i polsi contro i ceppi.
«Ricordo… dopo l’incontro… che tu hai portato via il mio dolore.»
«Un rimedio casalingo» scrollò le spalle Mia. «Facile da preparare.»
«No» disse Furian, scrollando il capo. «Prima che mi dessi l’infuso per
dormire. Quando ero sulla lastra e urlavo. Quando la tua… quando le nostre
ombre si sono toccate.»
Mia si accigliò, ricordando quel momento sotto l’arena di Whitekeep.
Quando la sua ombra era diventata scura, lei aveva avvertito più dolore, non
meno: l’agonia di Furian mista con la sua. Supponeva di poter in qualche
modo condividere il fardello, ma a quanto pareva aveva alleviato il dolore
di Furian per assumerlo su di sé?
“Perché?
“Chi?
“Come?”
«Non sapevo di poterlo fare» confessò. «Non l’avevo mai fatto prima.»
Furian non disse nulla, guardandola con quei begli occhi scuri. Mia
riusciva a vedere che la sostanza che gli aveva dato cominciava a fare
effetto, lisciando le rughe di dolore sulla sua faccia.
«Io… volevo ringraziarti, Furian» disse Mia. «Per aver chiamato la
tenebra nell’arena. L’Esule avrebbe eliminato me e Canta se non fosse stato
per te.»
«Hai imbrogliato» replicò lui. «Hai fatto qualcosa alle lame della
serica.»
«Tu hai attorcigliato la sua ombra. Suppongo che questo faccia di
entrambi noi degli imbroglioni, giusto?»
L’Imbattuto rimase muto per un’eternità, limitandosi a fissarla. Quando
infine parlò, fu con esitazione, come se non fosse abituato a pronunciare
complimenti con quella lingua.
«Hai rischiato la tua vita per una sorella gladiatii» disse lui. «Hai
rischiato la tua vita per me. Sotterfugi a parte, hai mostrato comunque lealtà
verso questo collegio. Mi sembrava giusto che venisse ripagata.»
«Quello era un complimento?» chiese Mia. «’Bisso e sangue, forse ho
mischiato troppa svanifoglia nel tuo tè?»
Furian si concesse un sorrisetto. «Non lasciare che ti dia alla testa,
ragazza. Mi riprenderò il mio torque non appena sarò in grado di sollevare
una lama. Quando combatterò al magni, bada bene, lo farò come campione
di questo collegio.»
Mia scosse il capo, cercando nuovamente di districare l’enigma di
quest’uomo. Lui l’aveva trattata solo con sdegno, aveva definito i loro doni
con la tenebra come stregoneria. Ma quando la situazione si era fatta critica,
aveva utilizzato le ombre affinché i Falconi potessero sconfiggere l’Esule.
Questione morale a parte, sembrava che fosse preparato a sacrificare
qualunque cosa per la vittoria.
«Perché tutto questo è così importante per te?» chiese lei.
«Te l’ho già detto, Corvo. Questo è ciò che sono.»
«Questo non è un motivo» sospirò Mia. «Tu non sei nato gladiatii. Devi
aver avuto una vita prima di tutto questo.»
Furian scosse il capo. Sbatté lentamente le palpebre.
«Io non la definirei tale.»
«Allora cos’eri? Un assassino? Uno stupratore? Un ladro?»
Furian la fissò con pensieri segreti che si agitavano dietro quegli occhi
senza fondo. Ma ora la svanifoglia stava facendo effetto e la svelaradice che
lei aveva mischiato assieme all’intruglio gli stava sciogliendo la lingua. Si
sentiva in colpa per avergli somministrato una dose nella speranza che si
aprisse, ma voleva comprendere quest’uomo, cercare di valutare da che
parte sarebbe stato se Sidonius e gli altri fossero insorti in una ribellione.
«Assassino, stupratore, ladro» replicò Furian con voce impastata. «Tutto
quello e altro ancora. Ero una bestia che si foderava le tasche con le miserie
degli uomini. E delle donne. E dei bambini.»
«Cosa facevi?»
Furian spostò lo sguardo sulle pareti attorno a loro, le sbarre d’acciaio e
ferro arrugginite.
«Riempivo posti come questi. La carne era il mio pane e il sangue il mio
vino.»
«… Eri uno schiavista?»
Furian annuì, parlando piano. «Ho capitanato una nave per anni. La
Gabbiano di Ferro. Percorrevo la costa di Ashkah fino a Nuuvash e la Liis
orientale da Amai a Ta’nise. Vendevo gli uomini alle fosse da
combattimento, le donne alle case di piacere, i bambini a chiunque li
volesse.» Una pesante scrollata di spalle. «E se nessuno li voleva, li
gettavamo semplicemente fuoribordo.»
«’Bisso e sangue» disse Mia, arricciando le labbra dalla repulsione.
«Tu mi giudichi.»
«Certo che lo faccio, cazzo» sibilò lei.
«Non più severamente di quanto io giudico me stesso.»
«Lo trovo difficile da credere» disse Mia, la voce che si tramutava in
acciaio.
«Credi quello che vuoi, Corvo. La gente lo fa sempre.»
«Allora come sei arrivato qui?»
Furian chiuse gli occhi, un respiro lungo e profondo. Per un attimo, Mia
pensò che si fosse assopito. Ma alla fine parlò, la sua voce carica di fatica e
qualcosa di ancora più cupo. Rimpianto? Vergogna?
«Razziammo un villaggio ad Ashkah» disse. «Uno degli uomini che
portammo a bordo era un missionario di Aa. Si chiamava Rapha. Lasciai
che gli uomini se la spassassero con lui. Non eravamo così affezionati ai
preti, capisci. Lo picchiammo. Lo bruciammo. Alla fine, mettemmo in
acqua delle esche per i drachi e io gli dissi di percorrere la passerella.
Guardando giù in quell’azzurro, vedi la misura di una persona nei suoi
occhi. Alcuni implorano. Altri imprecano. Alcuni non riescono nemmeno a
farsi portare dalle proprie gambe. Sai cosa fece Rapha?»
«Non saprei» disse Mia con una scrollata di spalle. «Anch’io non nutro
affetto verso i preti.»
«Pregò Aa affinché ci perdonasse» disse Furian. «In piedi su quella
passerella, con un dracotempesta di trenta piedi che girava in cerchio sotto
di lui. E il bastardo comincia a pregare per noi.»
L’Imbattuto scosse il capo.
«Non avevo mai visto nulla di simile. Perciò lo lasciai vivere. Non so
dire davvero perché lo feci. Navigò con noi per quasi un anno. Mi insegnò
il vangelo del Semprevigile. Mi insegnò che ero perduto, che ero solo un
animale, ma che avrei potuto ritrovare la mia umanità se avessi abbracciato
la Luce. Ma mi disse anche che dovevo espiare per tutto il male che avevo
fatto. E così, dopo un anno a leggere e a discutere, a odiarmi, infuriarmi e
piangere tra me nelle lunghe ore dell’illuminotte, accettai il Semprevigile
nella mia vita. Voltai le spalle all’oscurità. Feci dirigere la nave verso i
Giardini Pensili. E vendetti me stesso.»
«Tu…» Mia sbatté le palpebre.
«Sembra folle, vero? Che genere di sciocco lo sceglierebbe?»
Mia ripensò alle proprie traversie, al proprio piano, e scosse lentamente
il capo.
«Ma… perché?»
«Sapevo che Aa mi avrebbe dato una possibilità di redimermi se mi fossi
affidato alla sua custodia. Ed egli mi ha messo qui. Un luogo di
tribolazione, purezza e sofferenza. Ma alla fine, sulle sabbie del magni,
quando mi inginocchierò davanti al Gran cardinale ricoperto della mia
vittoria, non solo lui mi dichiarerà libero, ma un uomo libero. Non un
animale, Corvo. Un uomo.
«E lì, io sarò redento.»
Furian annuì e prese un respiro profondo, come se avesse espulso un
veleno dal suo sangue.
Mia incrociò le braccia e si accigliò.
«Dunque questo è tutto?» domandò. «Pensi di poter espiare la vendita di
centinaia di uomini e donne ammazzandone altre centinaia? Non puoi
pulirti le mani lavandole nel sangue di altre persone, Furian. Fidati di me.
Così diventano solo più rosse.»
Furian scosse il capo e aggrottò la fronte. «Non mi aspetto che tu
capisca. Ma il magni è un rito sacro. Giudicato dalla mano di Dio in
persona. E se Rapha mi ha insegnato qualcosa è che ciò che facciamo è più
importante di ciò che abbiamo fatto.»
Mia udì dei passi dietro di lei e qualcuno bussò alla porta
dell’infermeria. Gannicus entrò nella stanza con due guardie che portavano
una pentola fumante.
«Il tuo aceto, bollito come richiesto.»
Mia annuì e si voltò verso Furian.
«Ora mi sbarazzerò dei vermi. Sarà doloroso.»
«La vita lo è sempre, piccolo Corvo. La vita è dolore, perdita e
sacrificio.»
Furian strinse i denti e chiuse gli occhi.
«Ma dovremmo accogliere quel dolore. Se ci porta la salvezza.»

Tornò nella sua gabbia, fiancheggiata da due guardie della casa. Sidonius
aprì gli occhi quando la porta della cella si chiuse dietro di lei e il congegno
mekana la sigillò. Mia aveva osservato con attenzione da sotto le ciglia
mentre rientrava, notando quale chiave dell’anello di ferro apriva la
saracinesca della caserma, e controllato la porta della sua cella.
Qual era la cosa giusta da fare?
Avrebbero capito, alla fine, che aveva fatto tutto quanto per il meglio?
«Ho parlato con Furian» sussurrò quando le guardie se ne furono andate.
«Riguardo a cosa?» borbottò Sidonius.
«Chi è. Come la pensa. Da dove viene.» Scosse il capo. «Lui sogna
soltanto il magni. Non farebbe mai nulla per metterlo a rischio. Credo che
stia ancora troppo male per opporsi a noi, ma quando insorgeremo, non c’è
alcuna possibilità che si schieri con noi.»
«Con noi?»
«Sì, fratello.»
Mia allungò la mano nel buio, stringendo quella di Sidonius.
«Noi.»
CAPITOLO 29
INSURREZIONE

Era un rischio folle sulle spalle di un’unica ragazza.


Lo stomaco di Sidonius era un nodo di nervi scoperti, il suo appetito un
ricordo distante. Erano passati cinque cambi da quando Mia aveva proposto
il suo piano nell’oscurità della loro cella, e Sidonius non aveva dormito
molto da allora. Aveva passeggiato avanti e indietro per la gabbia nel corso
dell’illuminotte, fissando la serratura mekana sulla porta e contando le ore
che mancavano all’inizio.
Mia era stata trasferita nei suoi alloggi da campione tre cambi prima,
così Sid si era ritrovato da solo per la prima volta da quando erano arrivati a
Crow’s Nest. Da solo con la paura di ciò che sarebbe accaduto, il rischio
che stavano correndo tutti quanti, il destino che li attendeva se avessero
fallito. Stava riponendo così tanta fiducia in Mia, e sulle sue spalle gravava
un peso enorme. Lui aveva servito fedelmente il tribuno Darius Corvere e
vedeva in sua figlia le stesse caratteristiche che aveva ammirato in
quell’uomo, ancora più in grande. Coraggio. Intelligenza. Ferocia. Ma Mia
aveva perso suo padre quando era ancora una bambina, e da allora aveva
frequentato ombre e assassini.
A Sidonius stava simpatica. Ma poteva dire di conoscerla realmente?
Poteva fidarsi di lei?
Domina Leona si era incontrata con Varro Caito tre illuminotti prima e,
appostandosi sotto il loro tavolo mentre bevevano e cenavano, il demone di
Mia aveva origliato ogni loro parola. Pareva che Leona avesse riempito il
mercante di carne di parole melliflue e vino al miele, contrattando la
vendita di Bryn, Macellaio, Felix, Albanus, Cantalame e Sidonius stesso. Il
prezzo era alto e Leona sarebbe stata in grado di onorare il primo rimborso
a suo padre, ma il costo era elevato. Il collegio sarebbe stato sviscerato:
sarebbero rimasti solo Mia, Alzaonda e Furian. Leona avrebbe rischiato
tutto in un ultimo tentativo al magni. Ma non aveva immaginato che i suoi
Falconi avrebbero gettato i propri dadi.
L’ultimopasto era stato tranquillo, i gladiatii calmi. Sussurri del piano
erano stati scambiati nei bagni e attorno ai fantocci da addestramento. Tutti
concordavano che le possibilità di successo fossero così esili da cadere
attraverso una crepa nel selciato, e Sid poteva fiutare la paura nell’aria. Una
cosa era rischiare la morte nell’arena, ma schierarsi contro la Repubblica
era tutt’altra questione. Gli administratii. Il senato stesso. Tutti quanti loro
sapevano che si trattava di un passo da cui non sarebbero potuti tornare
indietro. I marchi sulle loro guance avrebbero cominciato a svanire solo
pochi minuti dopo la loro morte, perciò non potevano nascondere chi e cosa
erano se volevano continuare a respirare. Essere uno schiavo fuggitivo nella
Repubblica voleva dire essere per sempre un latitante.
Tuttavia, era meglio che morire in ginocchio.
Perfino con il riposo di qualche altro cambio, Cantalame era ancora
ferita, braccio e schiena avvolti in una garza pesante. Le costole di Mia
erano ancora ammaccate, ma almeno poteva usare di nuovo entrambi gli
occhi. Alzaonda e Sidonius dovevano ristabilirsi completamente dal loro
ultimo scontro nell’arena e Macellaio zoppicava ancora: non erano la forza
d’assalto più temibile mai schierata, poco ma sicuro. Ma avrebbero avuto la
sorpresa dalla loro se tutto fosse andato bene, e tutti fino all’ultimo erano
gladiatii esperti.
La loro vendita era prevista per il cambio seguente.
Caito aveva già versato il deposito.
A dire la verità, era adesso o mai più.
Era calata l’illuminotte e venti freschi lambivano le mura ocra, vortici di
sabbia che danzavano nel cortile. Dopo il tradimento di Arkades, Domina
Leona aveva raddoppiato le pattuglie attorno alla casa e le guardie erano
onnipresenti. Tuttavia, i gladiatii si scambiavano sussurri e cenni segreti, e
parevano tutti pronti.
Ma Figlie, l’attesa…
Sedevano al buio, nessuno che parlasse o si muovesse. Osservarono i
globi arkemici diventare lentamente più fiochi, i suoni della fortezza sopra
di loro scemare gradualmente. Sid poteva sentire Cantalame salmodiare
dentro la sua cella: un’ultima preghiera a Madre Trelene perché la fortuna le
arridesse, senza dubbio. Guardando la cella dall’altro lato del passaggio,
vide Macellaio accovacciato, che dondolava avanti e indietro, ansioso di
andare.
Gli ricordò il suo periodo nella legione. L’illuminotte prima di una
battaglia era sempre la peggiore. Lui aveva avuto la sua fede in Aa a
sostenerlo, allora. La lealtà verso il suo tribuno. Il sollievo dei suoi fratelli
Luminatii e la certezza che ciò che facevano fosse Giusto. Ora tutto ciò non
c’era più: solo una coscienza pulita e un marchio da codardo sul suo petto a
mostrarlo. Invece di fratelli Luminatii, aveva fratelli e sorelle gladiatii.
Invece della fede nel Semprevigile e negli ordini del suo tribuno, riponeva
tutta la sua fiducia nella figlia diciassettenne di quell’uomo.
Era un rischio folle sulle spalle di un’unica ragazza.
Sidonius udì un tonfo lieve, il debole tintinnio di metallo su pietra.
Anche Macellaio lo udì e si alzò in piedi, avvolgendo le mani attorno alle
sbarre della sua cella. Mia aveva due opzioni per liberarli, una volta
sgattaiolata via dalla sua stanza: o usare in qualche modo la forza bruta sui
controlli mekana per aprire le porte interne delle celle, oppure ottenere la
chiave universale dalla pattuglia di guardia. Sidonius non aveva ancora idea
di quale modo avrebbe scelto. Ma il suo stomaco si eccitò quando vide una
sagoma scendere furtiva giù per le scale fino all’anticamera dello
scantinato, con un manganello di legno in una mano e nell’altra quella che
sembrava essere una chiave di ferro.
«’Bisso e sangue, ce l’ha fatta» sogghignò Macellaio.
Girando la chiave nel congegno mekana, Mia sbloccò le porte delle
celle, aprì la saracinesca e Sidonius sussultò al lieve stridore di pietra su
ferro. I gladiatii uscirono dalla caserma, radunandosi nell’anticamera, tutti
sorrisi feroci e nervi tesi. Sidonius cinse Mia in un rapido abbraccio, la sua
voce un sussurro.
«Nessun problema?»
Mia scosse il capo. «Quattro guardie a terra. Le altre due sono nel cortile
anteriore.»
«Andiamo, allora» mormorò Alzaonda.
«Sì» annuì la ragazza. «E in silenzio, porca puttana.»
Mia guidò il gruppo su per le scale, dove i corpi di quattro guardie della
casa di Leona erano distesi sulle piastrelle. Gli uomini erano ricoperti con
armatura di cuoio nera e con elmi dal pennacchio di piume di falcone. Tra
loro c’era il capitano Gannicus. Ciascuno era stato tramortito e aveva perso
i sensi. I gladiatii li spogliarono rapidamente delle armature, che furono
indossate da Sidonius, Alzaonda, Macellaio e Felix. Non solo il cuoio
bollito li avrebbe protetti se le cose si fossero messe male, ma i paraguance
alti avrebbero fatto un ottimo lavoro per coprire i marchi che avevano sulle
gote.
Furono distribuite armi: manganelli di legno e spade corte. In
lontananza, Sid udì le campane di Crow’s Rest suonare le quattro e le onde
che si infrangevano su una costa rocciosa. La luce sgargiante dei due soli
filtrava attraverso le finestre aperte e le tende di seta si increspavano mentre
i ribelli si muovevano furtivi per la fortezza.
Procedettero più silenziosi che potevano, attraversando l’atrio fino alle
porte principali, chiuse a chiave. Macellaio e Alzaonda rimossero la sbarra
e i gladiatii si radunarono in un piccolo capannello sulla soglia.
«Pronti?» chiese Sidonius.
«Sì.» Cantalame sollevò la sua spada nella mano sana.
Mia aprì la porta e i gladiatii si precipitarono silenziosamente verso il
cancello principale. Alle guardie occorsero alcuni istanti per rendersi conto
di cosa stavano vedendo, e per allora fu troppo tardi. Uno si impennò
all’indietro con un gorgoglio quando Sidonius gli assestò una randellata
nella gola. Alzaonda andò a cozzare contro un’altra guardia, sbattendola
contro il muro della sua postazione. L’uomo sollevò il proprio manganello,
ma il suo grido divenne un uggiolio ovattato quando Mia gli chiuse la bocca
con una mano e gli conficcò il ginocchio nelle palle. Crollò come un sacco
di patate e la ragazza raccolse il suo randello, poi glielo sbatté in testa,
lasciandolo steso a terra.
Macellaio si occupò di aprire il cancello mentre Cantalame e Albanus
spogliavano le ultime due guardie e cominciavano a fissarsi i loro pettorali.
Mia era troppo piccola per indossare equipaggiamento da uomo, inoltre non
c’erano abbastanza guardie svenute da cui prenderlo. Quindi si mise attorno
alle spalle un mantello che aveva preso solo Aa sapeva dove, poi si calò il
cappuccio sugli occhi.
«Bene» sussurrò. «Dirigiamoci verso la Mastino Glorioso al porto.»
«State dritti e guardate la gente negli occhi» ricordò loro Cantalame.
«Vinceremo questa partita dando l’impressione che siamo dove dobbiamo
essere, giusto?»
I gladiatii annuirono e, con quanta calma potevano, marciarono fuori dal
cancello in formazione ordinata e si avviarono a passi pesanti lungo la
strada. Mia chiudeva la retroguardia, il cappuccio calato. L’armatura di
Alzaonda non gli calzava troppo bene su quelle spalle ampie: a un esame
attento, i loro travestimenti sarebbero stati scoperti. Ma l’ora era tarda e il
porto di Nest silenzioso. La speranza era che quel sotterfugio durasse
abbastanza da consentire loro di salire a bordo.
Come primo della fila, Sidonius cercò di tenere a bada i nervi. Il dado
era tratto, e qualunque cosa accadesse ora era nelle mani del fato, ma Figlie,
era difficile non mettersi a correre per allontanarsi il più velocemente
possibile. Il manipolo scese lungo la strada polverosa che circondava
Crow’s Nest, con Sid che fissava le acque azzurre del Mare delle Spade.
Marciando in città, incrociarono alcuni contadini diretti al mercato, un
messaggero che andava in giro rapidamente per le faccende del suo
padrone, una manciata di monelli di strada raccolti attorno a una pagnotta
rubata. Nessuno di loro li degnò della minima attenzione.
Sidonius ora poteva vedere gli alti alberi delle navi torreggiare sopra la
baia e il suo cuore accelerò. Pensò a quel vasto oceano azzurro, ai posti
dove avrebbero potuto navigare, ovunque ma non qui. Guardò verso gli altri
gladiatii e arrischiò un sorriso. Bryn lo ricambiò, mentre Alzaonda sussurrò:
«Tieni duro». Man mano che si avvicinavano, l’odore salmastro riempiva
l’aria, gli strepiti dei gabbiani erano come musica nelle sue orecchie, ogni
passo li portava più vi…
«Attenzione» borbottò Cantalame. «Soldati più avanti.»
Sid digrignò i denti ma non modificò l’andatura, notando il quartetto di
legionari della guarnigione di Crow’s Rest marciare dall’altro lato della
strada. Non aveva la minima idea se i soldati del luogo si mischiassero con
le guardie della casa di Leona: gli uomini di spada avevano la tendenza a
radunarsi a borbottare, per chiunque lavorassero. Ma da lontano i loro
travestimenti avrebbero dovuto reggere e mancavano solo poche centinaia
di piedi fino al po…
«Io ti conosco» disse una voce.
Sidonius si fermò e guardò alle loro spalle. Una ragazza con i cappelli
rossi che indossava il cappello piumato e uno zaino da venditore ambulante
si era fermata sulla strada, indicando Mia.
«Quattro Figlie, io ti conosco» ripeté: «Tu sei il Salvatore di
Stormwatch!».
Mia scoccò un’occhiata di avvertimento agli altri e rivolse alla giovane
un sorriso appena accennato. «Sì, domina.»
«Ti ho visto uccidere il rigurgitante!» urlò la ragazza, gli occhi azzurri
luccicanti. «Pietoso Aa, che combattimento! Mai visto nulla di simile!»
«I miei ringraziamenti, Mea Domina» borbottò Mia. «Ma ho mo…»
«Guardate!» urlò l’ambulante alla strada. «Il Salvatore di Stormwatch!»
«Eccoli che arrivano» borbottò Alzaonda.
A Sid si rivoltò lo stomaco quando si rese conto che i legionari avevano
sentito l’ambulante e tutti e quattro ora stavano attraversando la strada. Il
loro centurione vide il pennacchio elaborato sull’elmo di Sidonius e alzò la
voce per salutarlo.
«Ehi, Gannicus! Cosa porta voi pigri bastardi quaggiù a que…»
Il centurione si fermò, esaminando il volto di Sidonius attraverso le
fessure nel suo elmo.
«… Gannicus?»
«Via!» urlò Mia.
I gladiatii estrassero le armi e caricarono. Il centurione e i suoi uomini
armeggiarono con le loro spade, i volti impalliditi per il panico. Sulle
guardie della casa di Leona avevano usato manganelli e pugni, ma qui non
c’era spazio per la pietà: questi erano legionari itreyani con tanto di armi e
armature. Alzaonda conficcò la sua lama nel petto del centurione,
trafiggendolo come un maiale allo spiedo. Macellaio sbatté via la lama di
un altro e lo sgozzò, schizzando di scarlatto l’aria intrisa di sale.
L’ambulante cominciò a urlare, correndo lungo la strada gridando:
«Omicidio! Omicidio!», mentre Sidonius finiva un altro legionario con un
guizzo della sua spada. Albanus si sbarazzò dell’ultimo, tagliandogli le
gambe prima di conficcare la lama nella giuntura tra il collo e la spalla
dell’uomo.
«Correte al porto» urlò Mia. «Andate! Andate!»
Si misero a correre, lasciando da parte ogni parvenza di decoro. I sandali
di Sid percuotevano l’acciottolato e le persone si giravano a fissarli mentre
le superavano, con le grida di Omicidio! provenienti dalla strada che
diventavano sempre più forti. Raggiunsero i moli, sfrecciando tra marinai,
mercanti che scaricavano le loro merci e pescatori sui pontili. Alzaonda
stava correndo accanto a lui, Bryn davanti a tutti, Mia a chiudere il gruppo,
tutti quanti schizzati di sangue. Sid riuscì a vedere la Mastino Glorioso
all’ancora, forse a cento iarde di distanza nella baia.
«Eccola là» ansimò.
Sid si lasciò cadere oltre il lato del pontile nella scialuppa della Mastino.
Gli altri gladiatii balzarono dentro accanto a lui. Macellaio e Alzaonda si
misero ai remi e cominciarono a vogare come se da quello dipendesse la
loro stessa vita. Sid ora poteva udire le campane: l’allarme si stava
diffondendo velocemente per tutto Crow’s Rest, svegliando gli abitanti dal
loro sonno, grida spaventate che riecheggiavano su e giù per strade
silenziose.
«Ribellione!»
«I Falconi in rivolta!»
Macellaio e Alzaonda si sporsero sui remi: ogni loro vogata li portava
più vicini alla Mastino. Cantalame si schermò gli occhi contro il bagliore
dell’acqua e indicò con il capo gli alberi vuoti.
«Le vele sono state tolte.»
«Le possiamo rimettere rapidamente» borbottò Alzaonda.
«Ne sei sicuro?» ansimò Macellaio.
«Tranquillo, fratello» annuì Alzaonda. «Mentre tu succhiavi le tette di
tua madre, io stavo imparando a navigare.»
«Non hai imparato a navigare lo scorso anno?» sogghignò Bryn.
«Lasciamo mia madre fuori da questa storia, eh?» ringhiò Macellaio.
«Parlate più piano, remate più forte» disse Sidonius.
Raggiunsero la Mastino, arrampicandosi per la scala di corda fino alla
tolda. La nave rollava e beccheggiava con il mare, con la soliluce che
bruciava in quel cielo azzurro sconfinato. Una vedetta solitaria scese dalla
prua, pretendendo di sapere cosa ci facessero lì, ma un manrovescio di
Alzaonda lo fece finire lungo disteso, gemente e insanguinato. Dalla tolda,
Sid poteva vedere il porto brulicare di movimento: un drappello di
legionari, i marinai che indicavano nella loro direzione.
«Ci servono quelle vele montate ora, ’Onda.»
«Sì» annuì l’uomo. «Devono essere giù nella stiva. Tutti quanti, con
me.»
Alzaonda aprì il grosso portello di quercia che sigillava la stiva della
Mastino e scese rapidamente la scala a pioli per il ventre della nave.
Cantalame balzò giù per seconda, seguita da Sidonius e dagli altri gladiatii,
mentre Mia e Bryn rimasero sul ponte a fare la guardia. La soliluce filtrava
attraverso le travature sopra le loro teste, illuminando il ventre della nave, e
i gladiatii si sparpagliarono in cerca dei grandi teli che avrebbero permesso
loro di salpare. Casse e barili, rotoli di corda incrostati di sale e pesanti
scrigni rinforzati in ferro. Ma…
«Non riesco a vederle» disse Cantalame.
«Devono essere qui da qualche parte» ringhiò Alzaonda. «Continuate a
cercare.»
«Perché ’bisso riporrebbero le vele, comu…»
Sid udì un rumore concitato di passi e un’imprecazione sommessa sopra
le loro teste. Guardando a occhi stretti fra le travature, vide due figure che
lottavano stagliarsi contro la luce. Bryn era una di esse: riusciva a capirlo
dalla crocchia. Ma la figura dietro di lei, con le braccia avvolte attorno al
suo collo, sembrava…
«Mia?» mormorò.
Udì un rantolo e poi un tonfo ovattato quando Bryn precipitò nella stiva
e atterrò sopra un grosso rotolo di fune con un gemito. E mente Sid apriva
la bocca per urlare un avvertimento, la botola sopra di loro si chiuse con
uno schianto, sigillandoli tutti nella stiva della Mastino.
«Cosa ’bisso…?» sibilò Alzaonda.
Sidonius era in ginocchio accanto a Bryn, la ragazza a malapena
cosciente, con segni rossi sulla gola. Alzò lo sguardo attraverso le assi della
botola e gli si rivoltò lo stomaco, la bocca improvvisamente secca come
polvere.
«Corvo?» chiamò. «A che gioco stai giocando?»
«Sono spiacente, Sidonius» udì la ragazza rispondere con voce carica di
tristezza. «Ma te l’ho già detto una volta. L’ultima cosa che sto facendo qui
è giocare.»
Macellaio salì la scala e colpì ripetutamente la botola con la spada,
cercando di romperla. «Cosa cazzo sta succedendo, qui?»
I gladiatii si guardarono negli occhi, confusione e terrore in ogni
sguardo. Erano sigillati nel ventre della Mastino come pesci in un barile:
nessuno da combattere, nessuna via d’uscita.
«È così che mi ripagate?» giunse una voce.
Sidonius alzò lo sguardo e prese un respiro tremante quando vide
Domina Leona camminare sul ponte sopra la sua testa. Invece di indossare
un abbigliamento da illuminotte, era vestita di nero, gli occhi dipinti di
kajal, i capelli acconciati come per la guerra.
«Dopo tutto quello che ho fatto per voi» disse Leona fissando i gladiatii
intrappolati nella stiva. «Vi ho risollevato dalla palude. Vi ho nutrito e dato
riparo sotto il mio tetto. Vi ho immerso nella gloria e nell’onore del nome
del mio collegio. Ed è questo il mio ringraziamento?»
«Corvo» sbraitò Alzaonda, muovendosi in cerchio con lo sguardo alzato
verso la tolda. «Corvo, cos’hai fatto?»
«Ha fatto quello che nessun altro tra voi ha avuto il coraggio di fare»
disse Leona. «È rimasta leale alla sua Dominatii.»
«Dannata fregna fottuta!» ruggì Macellaio, sbattendo il braccio contro la
botola. «Io ti uccido, cazzo!»
«Tu non farai nulla del genere» rispose Leona. «Languirai in quella stiva
finché non avrò deciso il tuo destino. E temo che sarà spiacevole, traditore.»
«Voi ci definite traditori?» urlò Cantalame. «Io vi ho portato onore a
Whitekeep. Corvo non avrebbe mai potuto vincere se non fosse stato per
me! E voi mi ringraziate vendendomi a quel merdoso di Varro Caito prima
ancora che le mie ferite siano guarite?»
La donna sputò sul legno ai suoi piedi.
«Fottuta puttana senza fede.»
Leona sogghignò e scosse il capo.
«Tutto ciò che sento sono ratti traditori, che squittiscono in un buco che
si sono creati da soli.»
Macellaio stava colpendo la botola con la spada. Alzaonda spingeva le
travi sopra la sua testa. Mezza dozzina di guardie della casa uscirono dalla
cabina principale della Mastino per circondare la domina: il secondo turno,
tutti coloro che adesso si sarebbero dovuti trovare a dormire nelle loro
brande. Ora non poteva esserci dubbio che Leona avesse saputo cosa stava
per accadere, che tutta la fiducia che avevano riposto nella figlia di Darius
Corvere…
Sidonius strinse i punti mentre guardava attraverso le assi. Mia incontrò
il suo sguardo, gli occhi scuri annebbiati, l’espressione torva e spietata. La
cicatrice che le tagliava la guancia le dava un’aria maligna, una crudeltà e
un’insensibilità che lui non aveva mai notato finora. Tuttavia, gli parve di
poter vedere delle lacrime tra quelle ciglia scure, quei lunghi capelli scuri
catturati dai venti dell’illuminotte che giocavano attorno alla sua faccia
come una specie di alone nero.
«Corvo?»
«Per me significava troppo, Sid» sussurrò lei.
La ragazza scosse il capo, con le mani che sbattevano impotenti ai suoi
fianchi.
«Sono così spiacente…»
Era stato un rischio folle sulle spalle di un’unica ragazza.
Ma non aveva mai pensato per un attimo che avrebbero perso davvero.
«Sì, piccolo Corvo.»
Sidonius chinò il capo e si tastò il petto dolorante.
«Spiace anche a me…»
CAPITOLO 30
INTERLUDIO

Due passeggeri si incontrarono in un vicolo sudicio, in una cittadina sul


mare.
Il primo era piccolo, sottile come sussurri, delineato in forma di gatto.
Erano oltre sette anni che indossava quelle sembianze. Riusciva a ricordare
a malapena cos’era stato prima. Una porzione di oscurità più profonda, con
una consapevolezza a malapena sufficiente per strisciare fuori dal buio sotto
la pelle di Godsgrave e cercare qualcuno simile a sé.
Mia.
Lei aveva perso suo padre il cambio in cui si erano incontrati. Impiccato
e penzolante davanti al popolo. Lei aveva urlato e aveva fatto tremare le
ombre, e lui aveva seguito il suo richiamo finché non l’aveva trovata al
fianco di sua madre. L’immagine di suo padre le ardeva nella mente quando
lui si era proteso a toccarla. Ma lei aveva perso anche il suo gattino, il collo
spezzato dalle mani del tribuno che aveva rubato non solo la vita, ma anche
il titolo di suo padre. Una ferita più piccola. Il gattino sembrava una forma
molto più sensata con cui apparire. Molto meglio del padre. Era assai più
facile amare una cosa semplice.
Lei l’aveva chiamato Messer Cortese. Gli si addiceva abbastanza bene.
Ma dentro di sé, il gatto che non era un gatto sapeva che quello non era il
suo nome.
Il secondo passeggero era più grosso e indossava la sua forma da più
tempo. Lei aveva trovato il suo Cassius quando lui era solo un ragazzo.
Malmenato. Affamato. Maltrattato oltre ogni immaginazione. Un bambino
delle regioni selvagge itreyane, trascinato in catene alla città di ponti e ossa
e lì quasi annegato nella miseria. Il popolo del ragazzo aveva dato la caccia
ai lupi: quello se lo ricordava, perfino quando aveva toccato il fondo. E il
ragazzo ricordava che i lupi erano forti e feroci. Perciò lei era diventata una
lupa per lui, e assieme avevano dato la caccia a tutto ciò che si parava sulla
loro strada.
Lui l’aveva chiamata Eclissi. Era vicino alla verità. Ma dentro di sé, la
lupa che non era una lupa sapeva che anche quello non era il suo nome.
Lui le mancava.
«… SALVE, MICIO …» disse la non-lupa, appoggiata alla parete di una
locanda a spiovente.
«… salve, cagnaccio…» replicò il non-gatto in cima a un catasta di
barili vuoti.
«…È FATTA, ALLORA …?»
«… è fatta…»
L’umbralupa voltò i suoi non-occhi verso l’oceano e annuì.
«… DIRÒ AD ASHLINN CHE PUÒ TOGLIERE QUELLO STUPIDO ZAINO DA
AMBULANTE, ALLORA …»
«… se riuscissi anche a convincerla ad affogarsi nell’oceano, lo
apprezzerei sinceramente…»
«… LA TUA GELOSIA MI AFFASCINA, MICETTO …»
«… attento, caro cagnaccio, credo che tu abbia appena usato una
parola di quattro sillabe…»
«… COME MAI UNO CHE SI ABBUFFA DI PAURA RIESCE A ESSERE COSÌ
SPAVENTATO …?»
«… io non temo nulla…»
«… PUZZI DI PAURA …»
«… fai la brava e vai a farti fottere, che ne dici…?»
«… NULLA MI COMPIACEREBBE DI PIÙ …»
La lupa che non era una lupa cominciò a scomparire, come un sussurro
nel vento. Ma la richiesta del non-gatto la fermò.
«… aspetta…»
«… COSA …?»
Messer Cortese restò in silenzio per un momento, in cerca delle parole.
«… ma… tu non hai paura…?» chiese infine.
«… DI COSA …?»
«… non di. per…»
«… I TUOI ENIGMI MI ANNOIANO, AILURO …»
«… non hai paura per lei…?»
L’umbralupa inclinò la testa.
«… PERCHÉ DOVREI …?»
Il non-gatto sospirò, scrutando l’orizzonte.
«… a volte mi domando cosa la stiamo facendo diventare…»
«… LA STIAMO FACENDO DIVENTARE FORTE. ACCIAIO. SPIETATA COME LA
TEMPESTA E IL MARE …»
«… quello che le togliamo… mi domando se non le serva…»
«… PARLI DELLA PAURA …?»
«… no, parlo del gusto della moda…»
«… CHE BISOGNO HA DELLA PAURA, MICIO …?»
«… quelli che non temono la fiamma si bruciano. quelli che non temono
la lama si tagliano. e quelli che non temono la tomba…»
«… SONO LIBERI DI FARE QUELLO CHE VOGLIONO …»
«… lei è diversa da ciò che era un tempo. non è mai stata così fredda.
così incosciente…»
«… E TU DAI LA COLPA A ME PER QUESTO …»
«… due di noi banchettano dove una volta si nutriva solo uno. forse
stiamo prendendo troppo. forse siamo noi a farla diventare così. insensibile.
subdola. crudele…»
«… E SONO CERTA CHE LE RECENTI RIVELAZIONI SULLA CHIESA ROSSA,
SULLA SUA FAMILIA, NON HANNO NULLA A CHE FARE CON IL SUO CAMBIO DI
ATTEGGIAMENTO …»
«… di nuovo dei paroloni…»
«… ABBIAMO FINITO QUI, MICETTO …?»
Il non-gatto guardò il cielo, rosso bruciante, oro brillante e azzurro
abbagliante.
«… sta arrivando un regolamento di conti, eclissi. ci attende nella città
di ponti e ossa. riesco a sentirlo. come quel maledetto sole all’orizzonte,
che si avvicina a ogni respiro…»
«… ALLORA È UN BENE CHE NOI NON RESPIRIAMO …»
Messer Cortese sospirò.
«… ti odio…»
Eclissi rise.
«… BENE …»
E, senza un altro suono, scomparve.
Un passeggero solitario sedeva in un vicolo sudicio, in una cittadina sul
mare.
Riusciva a ricordare a malapena cos’era stato prima. Una porzione di
oscurità più profonda. Una consapevolezza larvale, che sognava spalle
incoronate da ali traslucide.
E colei che gliele avrebbe donate.
Mia.
CAPITOLO 31
VERALUCE

“Godsgrave.”
Mia si trovava sul ponte della Mastino Glorioso, il vento dell’oceano tra
i capelli, a fissare la città di ponti e ossa. Il porto era pieno, centinaia di vele
sparpagliate per quel tappeto di blu ondeggiante, persone che viaggiavano
da tutti gli angoli del mondo per celebrare la più grande festa di Aa nella
gloriosa capitale della Repubblica.
Era arrivata la veraluce, infine.
Saai finalmente aveva superato l’orizzonte mentre navigavano da Crow’s
Nest, quel pallido globo azzurro che si univa ai suoi fratelli rosso e dorato
nel cielo. Il calore era rovente e Mia ne era nauseata, con Messer Cortese
raggomitolato nella sua ombra, in uno stato pietoso come lei. Mia poteva
sentire tutta la furia del Padre della Luce che la percuoteva come martelli su
un’incudine. A capo chino, camminava sul ponte sopra persone che un
tempo l’avevano chiamata amica.
Sidonius e gli altri erano incatenati nella stiva, polsi e caviglie in ceppi.
Avevano assunto una facciata coraggiosa, giurando di uccidere qualunque
guardia di Leona fosse scesa nella stiva a prenderli, ma dopo tre cambi
senz’acqua in quel calore tremendo, erano semplicemente troppo deboli per
opporre resistenza. Le guardie avevano fatto irruzione nella stiva il quinto
cambio e li avevano incatenati. Erano stati nutriti e abbeverati in ogni
cambio da allora: dovevano essere abbastanza in forma da impugnare le
armi per lo scontro delle esecuzioni, dopotutto.
Mia aveva evitato l’arresto solo perché aveva contribuito alla cattura
degli insorti, e Furian solo grazie al fatto che era ancora convalescente e
alla testimonianza giurata di Leona davanti agli administratii. La domina
aveva ricevuto un deposito da Varro Caito per la vendita del suo gruppo, ma
con le voci sulla rivolta che si diffondevano per Crow’s Rest, non avrebbe
potuto realmente completare la transazione: nessuno sarebbe stato tanto
sciocco da comprare un gruppo di gladiatii che si erano ribellati contro la
loro padrona.
E così la domina aveva semplicemente rubato il deposito di Caito e si era
messa per mare, prendendo la rotta panoramica per Godsgrave e scegliendo
di preoccuparsi del mercante di carne inferocito solo quando fosse rientrata
trionfante dalla capitale. Con i soldi che aveva sgraffignato, assieme al
premio di Whitekeep e il piccolo stipendio che le era stato pagato per lo
scontro delle esecuzioni, aveva quanto bastava per riuscire a versare il
primo rimborso a suo padre. Me se non avesse lasciato Godsgrave con la
vittoria al Venatus Magni, sarebbe stata completamente in bancarotta.
Tutto quanto poggiava su quell’unico incontro.
Tutto quanto.
Mia posò le mani sul parapetto della Mastino, la soliluce che ardeva
sulla superficie dell’oceano. Provò a distorcere le ombre ai suoi piedi, ma
era quasi impossibile: la sua stretta sulla tenebra era debole, e cercare di
trattenerla era come avere in pugno del fumo. Supponeva che avesse senso.
I suoi poteri erano stati al loro apice durante il verobuio ed era logico che
fossero al minimo quando il Padre della Luce era più forte nel cielo. Ma
questo non la faceva sentire affatto meglio sulle sue possibilità nel magni.
Fissò la grande capitale itreyana con il cuore in gola. Erano passati mesi
da quando vi aveva posato gli occhi. Mesi di sudore, sangue e lacrime.
Tutta la città si stendeva davanti a lei, l’arcipelago frammentario che
scintillava nella soliluce. Ogni piede quadrato era tempestato di caseggiati,
catapecchie e ville eleganti, che si aggrappavano alla costa come cirripedi
sullo scafo di una vecchia galea. Sopra le guglie delle cattedrali, gli
imponenti guerrieri ambulanti e la Casa del Senato, si innalzavano le
Costole: grandi torri ossificate che si elevavano nel cielo, il loro bagliore
bianco slavato quasi accecante.
Lei aveva trascorso buona parte della fanciullezza lì dentro,
nell’appartamento dei suoi genitori. Molto più tempo che a Crow’s Nest, a
dire la verità. Se ne stava con sua madre e i loro servitori, a giocare con il
suo fratellino. Se Crow’s Nest era stato il loro rifugio, Godsgrave era stata il
loro mondo. Non era mai riuscita a sfuggire a lungo alla sua attrazione.
Il pensiero della sua familia le causò un dolore al petto e i suoi occhi si
annebbiarono: tutto ciò che aveva distrutto e rubato, tutte le vite che aveva
preso, le miglia che aveva corso, gli anni che aveva passato a studiare…
tutto ciò presto avrebbe avuto un senso. Entro due brevi cambi, il magni
sarebbe cominciato. Entro due brevi cambi, lei avrebbe combattuto per la
sua vita e si sarebbe trovata di fronte a Duomo e Scaeva su quella sabbia
insanguinata, e avrebbe urlato il suo nome mentre tagliava le loro gole, da
un fottuto orecchio all’altro.
“Ne sarà valsa la pena.”
Si guardò alle spalle, giù tra le ombre della stiva sotto i suoi piedi.
Poteva sentire i loro sguardi su di lei. Quelli che l’avevano chiamata amica.
“Tutto quanto ne sarà valsa la pena.”
«Sapevo che eri un tipo freddo, Corvo» disse una voce dietro di lei. «Ma
non avevo mai immaginato quanto ghiaccio scorresse nelle tue vene fino a
ora.»
Mia fissò il profilo di Godsgrave mentre Furian si univa a lei presso il
parapetto. I lunghi capelli neri dell’Imbattuto si agitavano nella brezza
marina, la pelle abbronzata scintillava di un debole luccichio di sudore. Il
suo petto era butterato e sfregiato, la carne ancora ricoperta di croste, ma
con le tre settimane in cui aveva riposato a bordo della nave, era quasi
guarito. Malgrado i tre soli che ardevano nel cielo, l’ombra di Mia tremolò
quando lui si sporse più vicino. Lanciando un’occhiata ai loro piedi, vide
che quella di Furian faceva lo stesso.
«Che intendi?» gli chiese.
Furian guardò la città di ponti e ossa, gli occhi scuri stretti a causa della
luce. «Ho sentito che sarai tu a impugnare la lama nello scontro delle
esecuzioni.»
«Alla Dominatii occorre quel denaro.»
«Oh, lo so» annuì Furian. «E so che è diritto della Dominatii designare
chi li giustizierà. Solo non pensavo che saresti stata disposta ad ammazzare
Sidonius e gli altri.»
«Siamo gli unici due gladiatii rimasti alla Dominatii, Furian. Le tue
ferite sono guarite appena quanto basta per rischiarti nel magni. A meno che
la Dominatii non voglia che i soldi dell’esecuzione vadano a un altro
collegio, chi può schierare? Dovrebbe ficcare una spada nella mano della
magistrae e chiederle di essere lei a farlo?»
Furian sorrise. «Quello sì che sarebbe uno spettacolo.»
«Già» sospirò Mia. «Lo sarebbe eccome.»
Il sorriso di Furian gli morì lentamente sulle labbra e la sua voce si
abbassò fino a un mormorio.
«Perché l’hai fatto?» domandò. «Volevo chiedertelo.»
Mia gli lanciò un’occhiata di sottecchi, increspando le labbra. «Fatto
cosa?»
«Sai cosa intendo» ringhiò lui. «Cantalame e gli altri ti ritenevano
un’amica. Eppure la Dominatii mi ha detto che non appena sei stata al
corrente del loro piano, gliel’hai riferito subito. E non solo hai sventato la
loro fuga, ma hai ideato un modo perché fossero catturati vivi affinché
potessero essere portati davanti alla folla per essere giustiziati.»
«Se fossero stati semplicemente uccisi durante la fuga, la Dominatii non
avrebbe recuperato nemmeno una moneta per la loro perdita» disse Mia.
«Leonides avrebbe chiuso il collegio. Noi non saremmo qui. Ma ora, tra i
soldi di Whitekeep e lo scontro delle esecuzio…»
«Sì, sì, so tutto quanto» ringhiò Furian, il suo umore che si logorava.
«Quello che non capisco è perché tu non li abbia aiutati.»
«Perché non sono un fottuto eroe, Furian. Se loro vogliono aiuto,
possono aiutarsi da soli.»
Mia si voltò per andarsene, ma l’Imbattuto la afferrò per il braccio,
mostrando i denti.
«Chi ’bisso sei tu?» domandò. «Di sicuro non una ragazzina senza nome
di Piccola Liis. Ti guardo negli occhi e vedo determinazione. Vedo un
progetto. Fin da quando hai messo piede nel nostro collegio, ho avvertito la
tua mano al lavoro. Come un burattinaio nell’ombra che tira i fili, e noi
siamo le marionette.»
Mia strappò via il braccio con un ringhio. «Non toccarmi.»
«Tu non hai alcuna fedeltà verso Leona» ringhiò Furian. «Ora lo so.
Perfino nel nostro incontro a Whitekeep, quando hai rischiato la vita per
salvare Cantalame, tutto quanto serviva a portare avanti i tuoi scopi. Hai
tradito coloro che ti chiamavano sorella. Hai ucciso, mentito e rubato, tutto
per trovarti qui sulle sabbie del magni quando potresti semplicemente
scivolare tra le ombre e ottenere la libertà in qualunque momento. Allora
perché sei qui, nel nome del Semprevigile?»
Mia fissò quegli occhi amari color cioccolato e l’oscurità che tremolava
ai suoi piedi. Una volta aveva pensato che lei e Furian fossero simili quanto
veraluce e verobuio. Ma ora capiva che quella era una menzogna. Vedeva le
somiglianze tra loro, profonde come sangue e osso. Entrambi prigionieri del
loro passato. Entrambi ossessionati oltre ogni limite dalla vittoria nel
magni, Furian per la redenzione e Mia per la vendetta.
Mia serrò la mascella e scosse il capo. Era tentata di parlare. Di
guardarlo negli occhi e vedere se le avrebbe concesso una qualche
comprensione. Lui tra tutti avrebbe dovuto. Ma era inutile, e lei lo sapeva.
Furian cercava l’assoluzione dai suoi peccati dalle mani di un dio. Mia
cercava di eliminare le mani di quello stesso dio per i loro peccati. Perché
uno di loro potesse essere proclamato vincitore, l’altro doveva cadere. E
nessuno dei due sarebbe stato disposto a farsi da parte. Questo non era un
libro di favole. Non c’era amore tra loro. Nessuna amicizia. Solo rivalità.
E c’era un unico modo in cui sarebbe finita.
«Vai a riposarti, Furian» disse Mia.
Tornò a voltare gli occhi a quell’orizzonte accecante.
«Ne avrai bisogno alla fine della settimana.»

Plic.
Argento sulla sua gola.
Plic.
Pietra ai suoi piedi.
Plic.
Ferro nel suo cuore.
Mia sedeva nell’oscurità sotto l’arena, stando semplicemente in ascolto.
Dal soffitto cadeva acqua salata, che schizzava sul pavimento della cella.
Tutti gli anni. Tutte le miglia.
Domani, in un modo o nell’altro, tutto sarebbe finito.
Erano stati portati a terra il cambio precedente, quando gli administratii
avevano dato la loro approvazione per lo scontro delle esecuzioni. Il
calendario era pieno zeppo: c’erano già stati cinque interi cambi di giochi, e
centinaia di prigionieri erano già stati uccisi dallo Stato. Per gli editorii non
era facile trovare lo spazio per un’altra serie di esecuzioni nelle festività
dell’indomani, ma un’intera stalla di gladiatii che si era ribellata poteva
fungere da esempio turpe per gli altri collegi. E così i Falconi di Remus
sarebbero stati consegnati alla giustizia in una finestra di cinque minuti
dopo l’ultima corsa di equillai. Le loro vite sarebbero state spente mentre la
gente aspettava il cibo oppure si precipitava al bagno prima dell’evento
principale.
E dopo il mediopasto, dopo le loro uccisioni, il magni sarebbe
cominciato.
Plic.
Plic.
Mia era seduta da sola nella cella ad ascoltare i festeggiamenti, il ruggito
della folla colossale che faceva tremare la pietra stessa ai suoi piedi. Ai
campioni di ciascun collegio veniva concessa una certa intimità: le sue
pareti erano di pietra, il suo letto pulito, due piccoli globi arkemici
emanavano una luce tiepida e costante. Una finestrella nella pesante porta
di quercia lasciava entrare un alito di aria fresca, l’odore delle cucine, di
sangue, di olio e ferro. Si domandò in quali condizioni fossero rinchiusi
Sidonius e gli altri. Quanto ancora sarebbero stati costretti a subire prima di
essere scortati sulla sabbia un’ultima volta. Messer Cortese sedeva nella sua
ombra, osservandola con i suoi non-occhi. Le sussurrava che presto, in un
modo o nell’altro, tutto questo sarebbe finito.
Lei non rispondeva.
Quando al loro arrivo lei e Furian erano stati fatti marciare nel distretto
affollato dei midollani fino a entrare nell’arena di Godsgrave, lei era rimasta
stupefatta dalle dimensioni di quella struttura. L’aveva vista quando era più
piccola, naturalmente, ma mai da così vicino. La grande ellissi dell’arena
era intagliata direttamente dalla Dorsale stessa e si estendeva per mille
piedi, anelli concentrici di tribune alte quattro livelli. Archi aggraziati e
contrafforti scanalati, marmo solido e necrosso dappertutto, statue del
Semprevigile e delle sue Quattro Figlie che circondavano l’anello esterno.
Era una meraviglia di ingegneria, un testamento all’ingegnosità di coloro
che l’avevano progettata, alla sofferenza degli schiavi che l’avevano
costruita, un monumento al potere straordinario, alla visione e soprattutto
alla crudeltà della Repubblica itreyana. a
Il venatus era terminato, per quel cambio, e la folla si riversava in strada
con sorrisi luminosi e occhi sgranati. Le campane della cattedrale
risuonavano in tutta la città, chiamando i fedeli alla messa. Con tutti e tre
gli occhi del Semprevigile aperti nel cielo, i cittadini più devoti della
Repubblica si stavano preparando per un’illuminotte di preghiera e
devozione pubblica, e i tipi meno religiosi per una serata di dissolutezza
privata.
L’eccitazione era arkemica, la trepidazione per il magni a livelli
vertiginosi. Mia riusciva a udire il ronzio dei grandi mekana sotto di lei,
mentre i preti del Collegio di Ferro si assicuravano che tutto fosse pronto
per l’indomani. Questo era l’evento principale del calendario itreyano, una
celebrazione della Repubblica e del Dio della Luce. Domani il più grande
spettacolo sotto i soli si sarebbe svolto davanti agli occhi curiosi della folla
e il console in persona avrebbe incoronato il guerriero più potente con un
alloro dorato, così come la Mano di Dio in persona avrebbe concesso a quel
guerriero la libertà.
Era la materia di cui erano fatte le leggende.
Plic.
Mia fissava il nulla.
Plic.
Non diceva nulla.
Plic.
Ascoltava invece gli echi della folla che si allontanava, i legionari che
pattugliavano le viscere dell’arena, il fruscio della scopa di uno schiavo che
passava nel corridoio lì fuori. E soprattutto i pensieri dentro la sua testa.
“Non è qui che morirò.”
Scosse il capo e strinse i pugni.
“Ho troppe persone da uccidere.”
La scopa si fermò fuori dalla sua porta. Udì un fruscio di stoffa, la dolce
melodia di metallo su metallo, lo schiocco delicato della serratura mekana
alla sua porta. Entrò un uomo, continuando a ramazzare, la schiena curva
per l’età, i capelli grigi ritti in una massa ribelle sopra un paio di occhi
penetranti e familiari.
«Bene» disse il vecchio, chiudendo la porta. «Le sistemazioni non sono
nulla di memorabile, ma i residenti di questo posto sono decisamente
deplorevoli.»
«Mercurio!»
Mia si alzò dal pavimento e si lasciò cadere tra le sue braccia. Il vescovo
di Godsgrave le rivolse un ampio sorriso e la avvolse in un abbraccio
impetuoso. Lei si mise quasi a singhiozzare, sentendo tutto il dolore e la
tristezza degli ultimi cambi alleviarsi un po’. La tensione defluì dai suoi
piedi nella pietra insensibile sotto di lei. Rimase aggrappata a lui così forte
che Mercurio ebbe problemi a respirare, e lui le diede delle pacche sulla
schiena finché Mia non allentò la sua stretta, poi si passò le nocche sugli
occhi.
«’Bisso e sangue, è bello rivederti» mormorò lei.
«Anche te, piccolo Corvo» sorrise il suo vecchio mentore.
«Hai un bell’aspetto» disse lei.
«Tu sei stata meglio» replicò Mercurio, toccando la cicatrice sulla sua
guancia. «Come te la passi qui dentro?»
«Piuttosto bene» scrollò le spalle Mia. «La veraluce mi rende difficile
manipolare le ombre. Il cibo fa schifo. E ho una voglia matta di una paglia.»
«Be’, per le prime cose non ho rimedio» disse il vescovo. «Ma per la
terza…»
Mercurio frugò nella sua tunica logora e tirò fuori una sottile custodia
d’argento. Il volto di Mia si illuminò quando lui estrasse due sigaretti e li
accese con un piccolo acciarino. Lei ghermì praticamente di mano l’offerta
del vecchio, inalando il fumo nei polmoni come se la sua vita dipendesse da
quello. Gemendo, si appoggiò contro il muro e inclinò la testa all’indietro,
esalando un pennacchio di fumo ai chiodi di garofano e leccandosi lo
zucchero dalle labbra.
«Dorian il Nero» sospirò Mia.
«I migliori sigaretti di ’Grave» sorrise Mercurio.
«Denti della Mannaia, potrei baciarti…»
«Risparmia la tua gratitudine per domani» disse lui. «Puoi ringraziarmi
non facendoti ammazzare da quella sciocca che sei.»
«È quello il trucco» replicò lei.
«La nostra giovane Domina Järnheim mi ha messo al corrente dei
particolari delle vostre avventure mentre eravate lontani da ’Grave» disse
Mercurio. «Grazie alla Madre Nera non mi stava mandando aggiornamenti
regolari, altrimenti avrei avuto un fottuto infarto.»
«Ammetto che il piano è andato leggermente… storto…»
«Storto? È andato allo sbando come la merda di un folle, Mia. Solis mi è
stato addosso come seta scadente su un deliziante da due mendicanti. Finora
sono riuscito a tenerlo a bada, ma la sua pazienza si sta esaurendo.»
Mercurio fece una smorfia, prendendo una tirata del suo sigaretto. «Mentre
parliamo, tu stai viaggiando nella Vaan settentrionale, giusto perché tu lo
sappia. Hai mancato il portatore della mappa a Carrion Hall per un solo
cambio.»
«Davvero negligente da parte mia» mormorò lei.
«Sì, be’, non sei mai stata la mia studentessa più sveglia.»
Mia sogghignò, inalando un’altra boccata di grigio dolce e caldo.
«Ho ricevuto una visita pochi cambi dopo la tua partenza, a proposito»
disse Mercurio. «Una tua amica è venuta a ficcare il naso nella necropoli.»
«… Io non ho amiche, Mercurio, lo sai.»
«Una ragazza di nome Belle? Ha detto di riferire che l’avevi mandata
tu.»
Mia sbatté le palpebre e un lento ricordo si insinuò dentro di lei come un
ladro. Rammentò la quattordicenne nella casa di piacere dei braavi, con il
livido sulle labbra e troppo dolore negli occhi.
«È venuta a cercarti?» sorrise Mia. «Buon per lei.»
«Non ho l’abitudine di accogliere tutti i randagi che arrivano dalla
strada, Mia» ringhiò lui. «Sono un vescovo della Nostra Signora
dell’omicidio benedetto, non un fottuto benefattore.»
Mia incrociò le braccia e fissò Mercurio con il suo sguardo scuro.
«Ricordo un randagio che entrò nella bottega di Curiosità di Mercurio
non così tanto tempo fa» disse lei. «Una ragazzina senza un amico al
mondo e un’intera Repubblica schierata contro di lei. Tu la accogliesti. Le
desti un posto che potesse essere suo. Le desti amore in un mondo in cui
pensava che per lei restasse solo merda. E ripensandoci ora, non credo che
lei ti abbia mai detto grazie.»
Mia stampò un bacio delicato sulla guancia del vecchio.
«Perciò grazie. Per tutto.»
«Smettila» borbottò lui, spingendola via.
«So cosa ti è costato aiutarmi» disse lei. «So cos’hai rischiato per farmi
arrivare qui. Scaeva e Duomo hanno portato via la mia familia, ma ne ho
trovata un’altra in te.»
Il vecchio si accigliò e si schiarì la gola.
«Non ci stai andando piano con me, vero, piccolo Corvo?»
«Non me lo sognerei mai.»
Il vecchio sbatté freneticamente le palpebre e si asciugò la faccia.
«Quanta cazzo di polvere c’è in queste celle.»
«Già» sorrise lei, tamponandosi gli occhi. «Proprio tanta. Ashlinn è
pronta?»
«È tutto preparato. Ti fidi ancora di lei?»
«Con la mia vita.»
«Credo che abbia un debole per te.»
Mia sorrise attorno al sigaretto. «Ha sempre avuto pessimi gusti.»
Mercurio sospirò e la guardò intensamente negli occhi.
«Sei certa di sapere cosa stai facendo?»
«Anche se non lo fossi, è un po’ tardi per cambiare canzone ora» disse
lei con una scrollata di spalle. «Continuerò a danzare finché non si ferma la
musica e vedrò dove mi portano i passi.»
«Non è troppo tardi, Mia. Puoi ancora cambiare idea.»
«Ma è proprio questo il punto, Mercurio» disse lei. «Io non voglio.
Anche se Messer Cortese ed Eclissi non fossero con me, io non avrei paura.
Ogni cambio degli ultimi sette anni ha portato a questo momento.
Interpreterò il ruolo che il destino mi ha assegnato. E domani, quando
calerà il sipario sull’ultimo atto, Scaeva e Duomo andranno giù assieme a
esso.»
«Solo ricorda» disse Mercurio, accigliato. «L’ultimo atto di uno
spettacolo non dev’essere l’ultimo anche per te.»
«Non desidero morire» sospirò Mia, spegnendo la sua paglia contro il
muro. «A essere sincera, mi sembra più interessante essere l’assassina più
ricercata della Repubblica.»
«Un nobile obiettivo a cui qualunque ragazza dovrebbe aspirare» sorrise
Mercurio.
Mia ricambiò il sorriso. «Be’, una volta mi dicesti che non sarei mai
stata un eroe.»
Gli occhi di Mercurio si riempirono di lacrime. Lui la avvolse in un
abbraccio stretto, tirandola vicino al petto. E lì al buio, solo loro due,
tenendo stretta la ragazza che lui considerava come una figlia, il vecchio
sussurrò.
«Potrei aver mentito.»
a. L’Arena di Godsgrave fu commissionata nel tardo regno del Grande Unificatore, re Francisco I,
anche se la costruzione non fu completata finché suo nipote, Francisco III, non prese il trono
trentasei anni più tardi.
I principali architetti furono marito e moglie: Dominus Theodotus e Agrippina della Familia
Arrius. Theodotus era un uomo dotato di spiccato acume quando si trattava di mekana, ma sua
moglie era semplicemente un genio. I due sgobbarono per tutta la vita su quella struttura: si
vocifera che Agrippina diede alla luce il loro figlio, Agrippa, sul suo tavolo da disegno.
Agrippina morì tre cambi dopo la posa dell’ultima pietra nell’anello esterno dell’arena.
Affranto per il trapasso della sua amata, Theodotus si unì a lei meno di una settimana dopo. Le
statue di entrambi si trovano fianco a fianco nella Via dei Visionari nel Collegio di Ferro, le mani
intrecciate, un testamento del potere dell’insistenza, dell’ambizione e della passione.
La scritta alla base delle statue recita: “In amore e pietra, immortali”.
Questa è la storia, gentili amici.
Nessuna battuta.
Nessun sarcasmo.
Pensavo che voleste udire qualcosa di dolce, visto quello che sta per accadere…
CAPITOLO 32
GENTILMENTE

Furian seguì il percorso di un canale tortuoso attraverso il distretto


midollano, fiancheggiato su ogni lato dalle guardie della casa del Collegio
Remus. L’ora era tarda, la calura appena alleviata dai venti freschi
dell’illuminotte che spiravano dal Mare del Silenzio. Da ogni taverna,
fumeria e bordello si levavano rumori di baldoria, domini e dominae di
bell’aspetto camminavano sotto braccio, canti e allegria risuonavano
nell’aria.
L’Imbattuto mal sopportava tutto ciò.
Le guardie lo scortarono sul Ponte del Sollievo, lungo il margine della
Dorsale, fino a una via di ville eleganti. Si fermarono all’ombra della quinta
Costola, un edificio di pietra pallida e tegole ocra, con fiori ai davanzali.
Non era tra le residenze migliori di tutta Godsgrave, vero, ma era la cosa
più vicina a un palazzo in cui lui avesse dormito in vita sua.
Le guardie lo accompagnarono alla porta principale, dove la magistrae
attendeva in un abito fluente color blu oceano, un’espressione aspra in
volto.
«La Dominatii richiede la tua presenza» disse l’anziana. «Se ti
compiace.»
Con un’ultima occhiata alle guardie, Furian entrò nella villa e salì la
scalinata. Le pareti erano di marmo bianco levigato, le tende di seta si
increspavano alla brezza, ricchi tappeti rossi sotto i suoi piedi. Camminò
lentamente, non conoscendo la strada, ma arrivò infine a delle doppie porte
in fondo al corridoio.
Lei giaceva sul letto all’interno, i lunghi capelli ramati che le scendevano
in boccoli delicati attorno al viso. Aveva le ciglia pitturate di kajal nero, le
labbra rosso sangue. Era vestita con un abito di seta bianca, sottilissimo, le
morbide curve e l’ombra deliziosa tra le cosce visibili attraverso il tessuto
velato. Attorno ai polsi aveva sottili catenelle dorate, gli occhi che
scintillavano come la superficie dell’oceano.
Leona spalancò le braccia e lo invitò nel letto.
«Salute, amante.»

Mia sedeva nel buio della sua cella, su un semplice giaciglio fatto di paglia,
l’oscurità rischiarata solo da un piccolo globo arkemico. L’ora era tarda, la
calura appena alleviata dalla brezza fresca dell’illuminotte. Poteva udire i
suoni distanti di acciaio su acciaio, mekana che si muovevano sotto le
sabbie dell’arena, il boato della folla che ancora riecheggiava tra gli spalti.
Mia mal sopportava tutto ciò.
Le guardie pattugliavano il corridoio lì fuori, muovendosi lungo la fila
delle celle dei campioni.
Non erano tra le residenze migliori di tutta Godsgrave, vero, ma le celle
concedevano un momento di intimità prima del cambio che avrebbe deciso
le vite dei loro occupanti.
Mia udì la serratura mekana azionarsi sulla porta della sua cella e,
quando alzò lo sguardo, vide una guardia donna in piedi sulla soglia.
«Un momento del tuo tempo» disse. «Se ti compiace.»
La guardia entrò nella cella, chiudendosi la porta alle spalle. La luce era
fioca, le fattezze nascoste, ma Mia la riconobbe comunque all’istante. La
guardia si tolse l’elmo e lunghi capelli rossi le cascarono attorno al viso. Le
sue ciglia non erano truccate, le labbra prive di pittura. Era vestita con una
corazza e una gonna di cuoio scuro, con i triplici soli della legione itreyana
sul petto. Aveva i polsi avvolti da spessi bracciali di cuoio, i suoi occhi
azzurri come cieli riarsi dai soli.
Mia spalancò le braccia e la invitò sul suo giaciglio.
«Salute, amante.»

Leona premette le labbra su quelle di Furian, la bocca aperta, vogliosa. Le


sue mani vagarono sulla schiena dell’uomo, facendogli scorrere brividi
arkemici lungo la spina dorsale mentre esplorava le depressioni e le valli di
quei muscoli. Con le mani intrecciate in quei lunghi capelli scuri, Leona lo
trascinò sul letto, sospirandogli nella bocca. Le sue mani erano ovunque,
accarezzando, stuzzicando, bruciando; i sospiri di Leona gli sfioravano la
pelle, caldi come la soliluce lì fuori.
«Ti voglio» mormorò lei.
Gli si mise a cavalcioni, con i capelli che gli cascavano attorno alla
faccia. Il suo bacio si fece più intenso quando lei mosse le anche,
strofinandosi contro di lui. Prendendogli le mani, gliele mise sui suoi seni;
la stanza si riempì del calore della sua pelle, dell’odore del suo profumo,
della musica dei suoi sospiri.
«Ho bisogno di te» gli sussurrò.
I suoi baci si spostarono più in basso e le mani scesero a slacciargli la
cintura e a sfilargli il perizoma. Gli lasciò una scia di baci ardenti lungo il
petto sfregiato, sui muscoli guizzanti dell’addome, leccandogli il sudore
dalla pelle mentre scendeva sempre più giù.
«Io ti possiedo» bisbigliò.
«Ferma» mormorò lui.
Furian afferrò il mento di Leona e la spinse via gentilmente.
«Ferma.»

Ash premette le labbra su quelle di Mia, la bocca aperta, vogliosa. Le sue


mani vagarono lungo la schiena della ragazza, facendo scorrere brividi
arkemici lungo la spina dorsale di Mia mentre esplorava le linee lisce e le
curve aggraziate. Con le mani intrecciate in quei lunghi capelli scuri, Mia la
trascinò sul letto, sospirandole nella bocca. Le sue mani erano ovunque,
accarezzando, stuzzicando, bruciando; i sospiri di Ash le sfioravano la
pelle, caldi come la soliluce lì fuori.
«Ti voglio» mormorò lei.
Ash le si mise a cavalcioni, con i capelli che cascavano attorno alla
faccia di Mia. Il loro bacio si fece più intenso quando mossero le anche,
strofinandosi l’una contro l’altra. Prendendo le mani di Mia, Ash gliele
mise sui suoi seni; la cella si riempì del calore della sua pelle, dell’odore del
suo sudore, della musica dei suoi sospiri.
«Ho bisogno di te» le sussurrò.
I suoi baci vagarono più in basso e le mani scesero a slacciare la cintura
di Mia e a sfilarle il perizoma. Le lasciò una scia di baci ardenti lungo i seni
ansanti, sui muscoli tesi dell’addome, leccandole il sudore dalla pelle
mentre scendeva sempre più giù.
«Io ti amo» bisbigliò.
«Non fermarti» mormorò Mia.
Afferrò i capelli di Ash e la tirò verso di sé gentilmente.
«Non fermarti.»

Leona guardò Furian sbattendo le palpebre, gli occhi appannati dalla


confusione.
«… Che c’è che non va?»
Furian scese dal letto soffice, dalle lenzuola raffinate, desiderando con
tutte le sue forze di essere di nuovo nella sua cella. Si legò il perizoma
attorno alla cintola, evitando lo sguardo di lei.
«Schiavo» lo apostrofò Leona. «Ti ho fatto una domanda.»
Allora lui parlò gentilmente, le parole taglienti come acciaio.
«È stato un sogno. E io sono stato uno stupido a sognarlo.»
Poi incontrò i suoi occhi.
«Questo non è amore» disse.
E senza guardarsi indietro, si voltò e uscì dalla camera.

Ash giaceva tra le braccia di Mia, madida di sudore, e alzò lo sguardo nei
suoi occhi scuri.
«… Che c’è che non va?»
Mia si limitò a scuotere il capo e a stringere Ash più forte. Giacquero
assieme sul lettuccio di paglia in quella fossa buia, il sapore dell’una
rimasto sulle labbra dell’altra. Il mantello di Ash sotto di loro. Pietra e ferro
attorno a loro. Tutto il mondo contro di loro. La morte che incombeva
enorme su un orizzonte violento. E per quell’unico, semplice istante, nulla
di tutto ciò ebbe importanza.
Nulla di tutto ciò ebbe la minima importanza.
«Sembra un sogno» sussurrò Mia. «E io non voglio svegliarmi.»
Poi incontrò i suoi occhi.
«Questo è amore» disse Mia semplicemente.
E sporgendosi in avanti, chiuse gli occhi e regalò ad Ash un bacio
delicato.
CAPITOLO 33
INIZIO

Il suono era impossibile.


Era una cosa viva e vitale, enorme, che premeva sulla pelle di Mia, tanto
reale che aveva quasi l’impressione di poter allungare una mano e toccarlo.
Un peso sulle sue spalle che la bloccava a terra. Un tremito nella pietra
attorno a lei, una sensazione fisica nell’aria. In tutti i suoi anni, perfino a
Stormwatch, perfino a Whitekeep, non aveva mai udito nulla del genere.
Era seduta nella sua cella, ad ascoltare il canto dell’omicidio là sopra, la
strofa di acciaio su acciaio, la percussione di zoccoli, il ritornello della folla
ebbra di sangue. Messer Cortese ed Eclissi si agitavano entrambi nella sua
ombra, increspandone le estremità, cercando di divorare la paura che le
cresceva nel petto. Era difficile non provarla ora, per quanto tentasse. I
demoni facevano del loro meglio, ma Mia poteva avvertirla comunque,
come quei soli odiosi sopra di lei. L’odore del sudore di Ashlinn le era
rimasto attaccato alla pelle. Le ricordava tutto quello che ora aveva da
perdere.
«Ho paura» sussurrò.
«… CI DISPIACE, MIA …»
«… ci proviamo, ma i soli…»
«… CI BRUCIANO …»
Strinse le mani assieme per farle smettere di tremare. Ricordò a se stessa
chi era. Dove era seduta. Tutto quello che sarebbe andato perduto se lei
avesse fallito.
«Domina la tua paura,» sussurrò «e potrai dominare il mondo.»
La serratura mekana schioccò e la porta si aprì. Lì c’era Domina Leona,
alta e orgogliosa, circondata dalle guardie della sua casa e da legionari
itreyani. Era vestita di argento scintillante, l’abito fluente sulle sue spalle
come acquazzoni estivi. Nella sua acconciatura erano intrecciati nastri
metallici, simili a un alloro da vincitore sulla fronte.
«Mio campione» disse.
«Dominatii» replicò Mia.
«Sei pronta?»
Mia annuì. «E voi?»
Leona sbatté le palpebre. «Perché non dovrei esserlo?»
«Quelli che stanno per morire sono i vostri gladiatii, Dominatii» ribatté
Mia. «Mi domandavo se forse non provaste qualche rimorso per questo.»
Leona sollevò il mento e l’orgoglio le fece contrarre la mascella. «Il mio
unico rimorso è essermi presa cura di un covo di traditori per così tanto
tempo. La prossima stagione sarà diverso, lo giuro. Con i soldi che farò con
il magni, rifornirò il mio collegio solo dei gladiatii migliori e di un executus
su cui poter fare affidamento per forgiarli in vere divinità.»
«Arkades ha forgiato Furian, giusto? Arkades ha forgiato me.»
«Arkades era un bastardo. Un cane senza onore che…»
«Arkades era innamorato di voi, Dominatii.»
Leona socchiuse le labbra ma non trovò parole da pronunciare.
«Sicuramente l’avete percepito» la incalzò Mia. «Era il campione e poi
l’executus di uno dei collegi più ricchi e affermati nella storia del venatus.
Altrimenti perché sarebbe venuto con voi a Crow’s Nest, se non per seguire
il suo cuore?»
«Arkades mi ha tradito» sibilò Leona.
Mia scosse il capo. «Arkades era un gladiatii. Un uomo di spada. Perfino
se avesse scoperto che vi portavate a letto Furian, credete sinceramente che
avrebbe cercato di avvelenare l’intero collegio? Sapendo cosa provava per
voi e cosa vi sarebbe costato se vostro padre avesse ottenuto quello che
voleva?»
«… Non so proprio dove cominciare» disse Leona, infuriata. «Prima di
tutto, come osi insinuare…»
«Guardate nella vostra stessa casa, Leona» disse Mia. «Guardate quelli
più vicini a voi e chiedetevi chi avrebbe avuto davvero qualcosa da
guadagnare se foste stata costretta a tornare zoppicando alla civiltà e a
chiedere perdono ai piedi di vostro padre. Chi vi ha incoraggiato a
chiedergli dei soldi? Chi è stata la prima persona a obiettare quando avete
parlato male di lui in pubblico?»
La domina era immobile sulla pietra, un piccolo cipiglio che si formava
sulla sua fronte.
«Sanguila Leona» disse un legionario nel corridoio. «Il Corvo dev’essere
preparato per lo scontro delle esecuzioni.»
Mia si avvicinò alla sua padrona, parlando piano affinché solo loro due
potessero udire.
«Avrei potuto essere come voi, se il destino fosse stato più gentile e
crudele. So cos’è successo a vostra madre. So che genere di infanzia avete
avuto. Tutto quello che siete, lo siete per un motivo. Violenta e generosa.
Coraggiosa e spietata. Vi ammiro e vi odio, e non avrei potuto fare tutto
questo senza di voi. Perciò, quando il cambio sarà terminato, vi elargirò
tutti i ringraziamenti che posso. Voi non li riterrete sufficienti, ne sono
certa. Ma è tutto ciò che posso fare per voi, Leona.»
Gli occhi della domina erano sottili come fogli di carta, colmi di una
furia indignata.
«Tu mi chiamerai Dominatii.»
La folla ruggì sopra di loro e le trombe risuonarono chiare e squillanti
nell’aria, segnalando la fine della corsa degli equillai. Mia guardò l’altra
donna e annuì lentamente.
«Sì» disse. «Ma non per molto, ancora.»

Era in piedi di fronte a un cancello di ferro, avvolta di acciaio nero. Aveva


ali di falconi sulle spalle e un mantello di piume rosse sulla schiena. Il volto
di una dea copriva il suo, solo gli occhi visibili attraverso la facciata
dell’elmo.
Era lieta che nessuno avrebbe potuto vedere se avesse pianto.
La temperatura stava aumentando e il pubblico arrostiva ai soli. Molti
avevano colto l’opportunità dopo l’ultima (e spettacolare) corsa degli
equillai per andare a cercare un po’ d’ombra o qualche rinfresco. Ma non
c’era comunque penuria di occhi che la guardavano. Decine di migliaia
sugli spalti, che pestavano i piedi e attendevano l’inizio dell’evento
principale.
«Cittadini di Itreya!» Le parole dell’editorii riecheggiarono sulla pietra
macchiata di sangue. «Vi presentiamo il nostro ultimo scontro delle
esecuzioni!»
La reazione della folla fu tiepida, qualche applauso e nessuna penuria di
fischi da parte di coloro che volevano semplicemente che cominciasse il
magni. Dopo cinque cambi di massacro incessante, il pensiero di qualche
altra canaglia mandata a morte sembrava decisamente mediocre.
«Questi non sono criminali comuni!» insistette l’editorii. «Questi sono i
codardi più vili, i malfattori più spregevoli, schiavi che hanno tradito i loro
padroni!»
A quelle parole la folla drizzò le orecchie e fischi fragorosi
riecheggiarono per tutta l’arena.
«Ringraziamo la sanguila Leona del Collegio Remus per aver fornito il
bestiame per questo legittimo massacro! Cittadini, ecco a voi… i
condannati!»
Un cancello si aprì all’estremità nord dell’arena e Mia ebbe un tuffo al
cuore nel vedere sette figure barcollare fuori nella soliluce tra i fischi della
folla. Sidonius e Alzaonda. Cantalame e Bryn. Felix, Albanus e Macellaio.
Non erano stati trattati con gentilezza durante la loro prigionia: tutti
parevano deboli e affamati. Erano armati con lame arrugginite e vestiti con
pezzi di armatura frammentari. Solo qualche scampolo di cuoio su petto e
stinchi, che non sarebbe stato loro di alcuna utilità contro qualcuno che
avesse qualche minima capacità con una lama.
Il loro ruolo era quello di morire qui, dopotutto.
La guardia accanto a Mia le porse un gladio affilato e un lungo pugnale
appuntito, lucidati fino a ottenere uno scintillio abbagliante. Mia guardò la
guardia negli occhi, azzurri come il cielo riarso dai soli.
«Nessuna paura» sussurrò Ash. «Colpisci con precisione.»
Mia annuì e spostò lo sguardo di nuovo sulla sabbia. Nausea nello
stomaco. Orrore al pensiero di ciò che stava per accadere. Certezza che era
l’unico modo, che presto sarebbe valsa la pena di sacrificare tutto ciò che
aveva sacrificato, che tutta la morte, tutto il sangue, tutto il dolore sarebbero
stati giustificati quando Scaeva e Duomo fossero stati morti e sepolti.
Questa era la fine di una tirannia. E fine giustifica mezzi, giusto?
“Sempre che fine non si riferisca a me.”
«E ora» gridò l’editorii. «Il nostro boia! Il Campione del Collegio
Remus, vincitore di Whitekeep, il Salvatore di Stormwatch… cittadini di
Godsgrave, ecco a voi… il Corvo!»
La folla si alzò in piedi, la sua curiosità finalmente accesa. Tutti avevano
udito i racconti della ragazza che aveva ucciso il rigurgitante, che aveva
salvato i cittadini di Stormwatch da morte certa, che aveva sconfitto un
guerriero del Dominio serico.
Il cancello si alzò e Mia uscì in quella calura spietata; la sua ombra si
rimpicciolì quando sia Messer Cortese sia Eclissi sibilarono per quel
supplizio. La folla ruggì quando la vide, piume rosso sangue e armatura
nera come il verobuio, il suo volto bellissimo e spietato sagomato in acciaio
lucidato. Al suo ingresso, le sabbie attorno a lei eruttarono fiamme
increspate e la folla tuonò la sua approvazione. Lei seguì i pilastri di fuoco
fino al centro dell’arena, sbalordita dalle dimensioni di tutto quanto.
Le sabbie pallide macchiate di rosso per il sangue. Le pareti di necrosso
che si innalzavano nel cielo abbagliante. La barriera che separava la folla
dal pavimento dell’arena incombeva a oltre venti piedi di altezza. Da essa
pendevano gli stendardi delle casate nobiliari, dei collegi, della Trinità di
Aa. Nei posti più ambiti all’orlo della barriera, Mia poteva vedere un
gruppo di ministri e uomini del clero schierati con le loro vesti rosso sangue
e alti copricapi pomposi. Il suo cuore si eccitò quando notò il Gran
cardinale in mezzo a loro. Duomo sedeva nel cuore del suo gregge, solido
come una latrina di mattoni, sempre con l’aria di un malvivente che avesse
picchiato a morte un sant’uomo per poi rubargli gli abiti. La sua veste era
del colore del sangue arterioso, il suo sorriso come un coltello nel petto di
Mia.
Accanto al clero, riuscì a vedere i midollani in prima fila e i palchi dei
sanguila. Mia spiò Leonides e il suo colossale executus, Titus. Riuscì a
vedere la magistrae in un impressionante abito scarlatto. Ma non vide alcun
segno di Leona. Voltò gli occhi in alto verso gli spalti, su quell’oceano di
persone che si increspava, ruggiva, si ingrossava.
«Corvo!» urlavano. «CORVO!»
Guardò il palco del console, dotato di pilastri scanalati e riparato dal
sole. Il senato di Godsgrave era seduto attorno a esso, uomini anziani con
occhi scintillanti, toghe bianche orlate di porpora. Un piccolo esercito di
Luminatii lo circondava, le spade di solacciaio ardenti nelle loro mani. Mia
riuscì a vedere una grande sedia decorata d’oro, pericolosamente simile a
quello che poteva essere definito un trono. Ma quel posto era vuoto.
“Scaeva non c’è.”
Squillarono le trombe, trascinando l’attenzione di Mia di nuovo sulla
sabbia. Sidonius e gli altri stavano avanzando verso di lei, spade arrugginite
in mano. Questi incontri non erano fatti per essere equi, ma gli ex Falconi di
Remus erano comunque gladiatii. E anche se erano malconci, lividi e
affamati, loro erano sette e lei soltanto una. Una lama arrugginita poteva
comunque tagliare fino all’osso se impugnata con sufficiente abilità, e una
lingua avvelenata poteva tagliare ancora più a fondo.
«Allora» disse Alzaonda, fermandosi a venti piedi di distanza.
«Mandano te a vibrare l’ascia, Mea Domina? Appropriato, suppongo.»
«Onnipotente Aa» mormorò Sidonius. «Dov’è il tuo cuore, Mia?»
«L’hanno sepolto assieme a mio padre, Sidonius» replicò lei.
«Fottuta fregna traditrice» sbraitò Cantalame.
Mia esaminò i sette, le facce di persone che una volta l’avevano
chiamata amica. La sua bocca era asciutta come polvere. La pelle madida di
sudore.
“Presto, tutto questo ne sarà valsa la pena.”
«Ti direi esattamente perché considero quella parola un complimento e
non un insulto» disse lei. «Ma non sono certa che abbiamo tempo per un
monologo, Canta.»
Mia estrasse la sua spada pesante, il suo pugnale affilato e salutò il palco
del console.
«Ora facciamola finita.»

Risuonarono le trombe e la folla ruggì mente Domina Leona andava a


sedersi al suo posto nel palco dei sanguila. La sua magistrae la salutò con
un sorriso, sollevandole un parasole sopra la testa per schermarla dagli
occhi ardenti del Padre della Luce.
Guardò i posti attorno a lei e vide Tacitus, Trajan, Phillipi, gli altri soliti
sospetti. Circondati dai loro executus e assistenti, abbigliati con i colori
brillanti dei rispettivi collegi, i loro emblemi in mostra sugli stendardi alle
loro spalle. E nel palco direttamente alla sua sinistra, sotto un leone dorato
ruggente, vestito con una redingote stravagante, che si metteva tra i denti un
acino d’uva…
«Padre» lo salutò con un cenno del capo.
«Carissima figlia.» Leonides sorrise e alzò la voce sopra il brusio della
folla. «Il mio cuore è lieto di vederti.»
«Lo stesso vale per me» annuì lei. «Confido che il mio primo pagamento
sia arrivato, sì?»
«Sì» confermò Leonides ad alta voce. «È stato ricevuto con gratitudine
e, lo confesso, non poca sorpresa.»
«Scoprirai che sono piena di sorprese, padre» gli gridò lei di rimando.
«La tua Esule potrebbe testimoniarlo, ne sono certa, se il mio Corvo non le
avesse separato la testa dal corpo.»
I sanguila attorno a loro sorrisero e mormorarono, aggiornando il
punteggio nei loro registri mentali. Ma Leonides si limitò a ridacchiare e si
mise un altro acino in bocca.
«Non credevamo che ci avresti deliziato con la tua presenza per
l’esecuzione.»
«Sono spiacente di deludervi.»
«Ormai ci sono abituato, mia cara» sospirò Leonides. «Ma stavo giusto
dicendo a Phillipi qui che non so se la vergogna mi impedirebbe di mostrare
la faccia se buona parte del mio collegio fosse giustiziata per ribellione.»
«Hai ancora vergogna, padre?» chiese Leona. «Pensavo che l’avessi
sepolta assieme alla moglie che hai picchiato a morte.»
L’atmosfera attorno a loro si fece di ghiaccio, e i sanguila si scambiarono
occhiate a disagio. Il volto di Leonides si rabbuiò e la magistrae posò una
mano sul braccio di Leona per contenerla.
«Siete andata troppo oltre, Dominatii» sussurrò. «È saggio insultarlo
così?»
Leona guardò Anthea e il lento cipiglio che si era fatto strada nella cella
del Corvo tornò sulla sua fronte. Ma uno squillo di trombe attirò la sua
attenzione sulla sabbia e si ritrovò a guardare a occhi stretti le prime battute
in mezzo a quel bagliore tremendo. Il Corvo e i suoi gladiatii traditori si
stavano scambiando parole al veleno, ma lei riusciva a udirne solo
frammenti.
Sapeva che era un rischio schierare il suo campione per sistemare feccia
traditrice. Ma aveva semplicemente troppo bisogno di denaro per
permettere a un altro sanguila di brandire l’ascia. Corvo era uno dei migliori
guerrieri che aveva visto sulla sabbia e i traditori erano stati picchiati e
costretti a patire la fame fino a essere esausti. Con la grazia di Aa, il Corvo
avrebbe comunque partecipato al magni con Furian, avrebbe portato
comunque la gloria e il denaro di cui Leona aveva così disperato bisogno.
Che bramava.
Le trombe squillarono di nuovo e l’incontro ebbe inizio, con il Corvo
che si muoveva rapido come l’animale da cui prendeva il nome. Doveva
pareggiare rapidamente i conti, sbarazzarsi dei Falconi più deboli prima di
essere sopraffatta dal loro semplice numero. Così la ragazza si diresse
subito verso Felix, balzando sotto il suo ampio colpo falciante e scivolando
all’interno della sua guardia. L’uomo era chiaramente in pessima forma a
causa della prigionia, lento a reagire e, con la velocità che l’aveva resa
campione del suo collegio, il Corvo conficcò il suo pugnale nella corazza di
cuoio e poi nel cuore.
La folla tuonò quando Felix si afferrò il petto infilzato e crollò sulla
sabbia, tra schizzi di sangue rosso e brillante. Il Corvo si mosse rapido e
con un calcio lanciò della sabbia negli occhi di Alzaonda e caricò verso
Bryn. La ragazza vaaniana poteva essere stata un demone con arco e frecce,
ma non era un fenomeno con la spada. Il Corvo deviò il suo colpo con il
gladio pesante e poi le fece un taglietto sulla coscia. Quando Bryn lanciò un
urlo e barcollò, il Corvo ruotò dietro di lei e conficcò la lama sotto lo
spallaccio della giovane vaaniana.
Sangue. Sprizzava dalla ferita. Scintillava sull’acciaio del Corvo. Si
rifletteva negli occhi della folla. Gli spettatori ruggirono quando la
Vaaniana rovinò in avanti in una pozza scarlatta. Allora Alzaonda urlò e
corse come un pazzo verso il Corvo. Agitò la sua spada arrugginita in un
terrificante colpo a due mani dall’alto in basso, l’acciaio che fischiava
lungo quell’arco. Ma le settimane a patire la fame nella stiva della Mastino
Glorioso gli avevano indebolito le gambe, lasciandolo lievemente
squilibrato e lento a recuperare, così un colpo rapido lo fece finire in
ginocchio, le mani sul petto e sangue che gli sgorgava tra le dita.
«No!»
Cantalame caricò e la folla si esaltò quando il suo colpo scalfì il braccio
del Corvo. Sidonius attaccò da un lato, Macellaio e Albanus da dietro, ma il
Corvo rotolò di lato e si rialzò con velocità sorprendente. Il suo pugnale
guizzò e Macellaio lanciò un urlo, cadendo all’indietro in uno spruzzo di
rosso mentre Cantalame si avventava sul Corvo in preda alla foga. La
ragazza rotolò all’indietro sulla sabbia, scagliando una manciata di terra
negli occhi della donna. Balzando di nuovo in piedi, incontrò la lama di
Sidonius con la sua, ma per poco le gambe non si piegarono sotto la forza
dell’uomo più grosso. Ma Corvo conficcò il ginocchio nelle palle di
Sidonius, facendo trasalire ogni uomo sugli spalti per simpatia e gettandolo
sulla sabbia con uno strillo acuto. Il suo contrattacco superò con un fischio
la guardia di Albanus e il pugnale gli penetrò fino all’impugnatura sotto
l’ascella, il sangue una cascata scarlatta.
Sbattendo le palpebre per togliere la terra dagli occhi, Cantalame attaccò
di nuovo, ma il Corvo si piegò all’indietro e il colpo le sfiorò il mento. Le
lunghe salciocche della donna fremettero quando sferrò un altro attacco,
facendo volare via il gladio dalle mani del Corvo. Armato solo del coltello,
il Corvo contrattaccò, dando un pugno in faccia alla donna con la mano
libera, poi si abbassò sotto un altro colpo, afferrando una delle lunghe
ciocche di Cantalame. Fece perdere l’equilibrio alla donna con uno
strattone, quindi tirò Cantalame all’indietro sul proprio coltello. Il pubblico
urlò di approvazione quando Cantalame barcollò e finì in ginocchio, col
sangue che colava dal suo pettorale lacerato giù per la pancia, per poi
crollare di faccia sulla sabbia.
Restava solo Sidonius. L’uomo era piegato in due, stringendosi i gioielli.
Il Corvo avanzò verso di lui, spietato, mentre l’omone cercava di tenerlo a
bada. Lui stava urlando, ma i due erano così distanti che Leona colse solo
qualche parola.
«… traditore…»
«… padre…»
«… no…»
E il Corvo?
Non diceva nulla.
Effettuò invece una finta di lato e gli squarciò il polso, facendo roteare la
spada di Sidonius sulla sabbia. Poi, con una spazzata alle gambe, lo fece
finire in ginocchio. E mentre la folla ruggiva, il Corvo girò attorno
all’omone, con i lunghi capelli che gli sventolavano dietro, e conficcò il
pugnale superando il colletto della sua corazza, giù nella spina dorsale. Il
volto di Sidonius si distorse per il dolore e un getto di scarlatto scintillante
sprizzò dalla ferita. Crollò in avanti, macchiando la sabbia di rosso mentre
la folla urlava di piacere.
Leona vide le labbra dell’uomo muoversi.
Una preghiera sussurrata, forse?
Una maledizione per la ragazza che l’aveva ucciso?
E poi i suoi occhi si chiusero per l’ultima volta.
Leona rimase lì immobile, scrutando il Corvo. La lama macchiata di
sangue che impugnava.
Quel lento cipiglio si accentuò sulla sua fronte.
I sanguila attorno a lei applaudirono educatamente. Tacitus le lanciò
un’occhiata e le tributò un cenno di approvazione col capo per l’abilità del
suo campione. Lei guardò verso suo padre, ma non riuscì a intercettare i
suoi occhi. Leonides stava fissando quel fuscello di ragazza sporca di
sangue lì sulla sabbia. La ragazza che aveva sconfitto la sua Esule. La
ragazza che aveva appena ucciso sette gladiatii ricevendo a malapena un
graffio. La sua espressione era cupa. Gli occhi stretti.
Si voltò verso il suo executus, Titus. Sussurrò qualcosa all’orecchio
dell’uomo.
Il cipiglio di Leona si accentuò ancora di più.
«Cittadini di Itreya!» urlò l’editorii. «Il vostro vincitore!»
Il Corvo recuperò il gladio caduto e puntò la lama insanguinata verso la
sedia vuota del console, poi lo alzò al cielo. Era avvolta in acciaio nero.
Aveva ali di falcone sulle spalle, un mantello di piume rosse sulla schiena.
Mentre faceva il giro dell’arena, i cadaveri dei gladiatii che aveva ucciso
furono trascinati via dalle sabbie. Il volto di una dea copriva il suo, solo gli
occhi visibili attraverso la facciata dell’elmo.
Nessuno poteva capire se stava piangendo.
CAPITOLO 34
MAGNI

“Ormai non manca molto.”


Mia era stata accompagnata fuori dalla sabbia dopo lo scontro delle
esecuzioni, portata subito a una grande cella di allestimento, ancora zuppa
di sangue. La sua ferita era stata fasciata, le era stata data una razione
d’acqua, poi le avevano detto di aspettare. Anche se aveva la bocca secca,
invece di bere, aveva sprecato quell’acqua cercando di lavarsi il sangue
dalle mani tremanti.
Aveva quasi terminato la coppa, ma le sue dita erano ancora appiccicose.
Osservò alcuni preti di ferro affrettarsi lì davanti, poi guardie che
portavano i gladiatii alla cella di allestimento a gruppetti. Ne riconobbe
qualcuno dal palazzo del governatore Messala: Ragnar di Vaan, campione
del Collegio Tacitus; Mangiamondo, campione delle Spade di Phillipi. Ma
presto ce ne furono a dozzine, poi a centinaia, in giro per la stanza, ricoperti
di cuoio e acciaio.
La temperatura era soffocante, le pareti che colavano di sudore. Degli
attendenti si aggiravano con secchi e mestoli d’acqua e i combattenti
bevevano avidamente, ma Mia chiese solo altra acqua per le sue mani.
Voleva pulire le macchie dell’esecuzione, rifiutando di guardare il suo
riflesso nella pozza rossa sotto di lei.
Riuscì a sentire i gemiti del mekana sotto i suoi piedi: un marchingegno
colossale sempre affamato di sangue. Cercava di non pensare a Cantalame e
Bryn, ad Alzaonda e agli altri. Loro avevano scelto il proprio destino.
L’avevano scritto in rosso. Non poteva permettersi di dedicare un pensiero
per loro. Le loro traversie erano terminate, ora, mentre la sfida più grande di
Mia era di fronte a lei. Riusciva ancora a sentire le parole di commiato di
Sidonius che giaceva prono sulla sabbia.
Quegli occhi fissi nei suoi.
Così piano che nessuno tranne lei poteva udire.
«Buona fortuna, Mia» aveva sussurrato.
Le sue mani erano ancora appiccicose.
«… noi siamo con te…»
«… NOI SAREMO SEMPRE CON TE …»
«Hai combattuto bene.»
Non alzò lo sguardo. Non le serviva per sapere chi era in piedi davanti a
lei. Era la nausea nel suo stomaco a dirglielo. Il desiderio e la fame, il
dolore di una bramosia. La sua ombra si mosse, stiracchiandosi più vicino a
quella di Furian, come ferro con un magnete. Le sue labbra si contorsero in
un sorriso amaro quando replicò.
«Ho combattuto contro sette prigionieri affamati che riuscivano a stento
a maneggiare le loro spade.»
«Tale è il prezzo della ribellione a Itreya» replicò l’Imbattuto.
«Così dicono.»
«Non ero certo… di come mi sarei sentito osservandovi. Erano anche
miei fratelli e sorelle. Quando sono caduti sotto le tue lame…» Furian
sospirò. «Quasi non riuscivo a crederci. Credo che mi aspettassi qualche
stratagemma. Un trucco, una recita o una grazia dell’ultimo minuto.»
«Una recita?»
Mia scosse il capo, sbigottita.
«Perché tutti continuano a comportarsi come se questo fosse un fottuto
gioco?»
«Gladiatii» urlò una guardia. «Attenti!»
Gli occhi dei guerrieri riuniti si voltarono verso il cancello di ferro. Mia
vide tre editorii stagliarsi contro il bagliore all’esterno. Il più vecchio dei tre
venne avanti, scrutando fra i gladiatii. La sua lunga barba scura era
intrecciata, i suoi occhi spaiati, uno marrone e uno grigio. Un pitone a
strisce era avvolto attorno al suo collo.
«Gladiatii dei collegi di Itreya» disse. «Ciascuno di voi e dei vostri
padroni ha ottenuto, attraverso il diritto di sfida e combattimento, il proprio
posto sulle sabbie del Venatus Magni. Il più sublime spettacolo del
calendario itreyano sta per prendere il via, e voi combatterete e morirete per
la gloria della Repubblica davanti a una immensa folla adorante. Coloro che
cadranno rimarranno comunque come leggende. E a chi tra voi resterà in
piedi alla fine del magni sarà concessa la libertà dalla Mano di Dio in
persona.
«Questo magni è una battaglia tutti contro tutti: ogni guerriero comincerà
l’incontro sulle sabbie. A ciascuno sarà data una fascia colorata per
designare le lealtà iniziali. I gladiatii degli stessi collegi saranno raggruppati
assieme, anche se non avete alcun obbligo di rispettare tali alleanze nel
corso dell’incontro. Non dimenticate mai: tutti devono cadere, perché ne
resti solo uno.»
L’uomo lasciò aleggiare le sue parole nell’aria per un momento, fredde e
spietate.
«Una volta che questo cancello si aprirà,» proseguì «recatevi alle vostre
posizioni di partenza stabilite e attendete istruzioni dal gran editorii. Che Aa
vi benedica e vi preservi, e Tsana guidi le vostre mani.»
Mia rinfoderò le sue lame, cercando ancora di sfregar via il rosso dalle
dita. Mentre le guardie si aggiravano in mezzo a loro distribuendo strisce di
stoffa rossa, blu, dorata e bianca, lei riuscì a percepirla. La paura.
Traboccava dai cuori e dalle menti dei guerrieri attorno a lei, filtrando tra la
pietra e aleggiando densa. Tutti loro stavano fissando gli occhi della morte,
e tutti quanti sapevano che solo uno sarebbe sopravvissuto. Alcuni
camminavano avanti e indietro, si battevano il petto, mormoravano tra sé.
Altri rimanevano muti, combattendo in silenzio la loro paura. Altri ancora si
rivolgevano ai compagni per qualche momento di sollievo, sapendo che
tutte le lealtà sarebbero venute meno al suono dell’ultima tromba.
“Ormai non manca molto.”
Una guardia si fece largo tra la folla e legò una striscia di stoffa attorno
al braccio di Furian per mostrare la sua appartenenza. Ordinò a Mia di
alzarsi e legò un’altra striscia attorno al suo bicipite. Entrambe erano rosse
come le macchie che lei non era riuscita a lavar via.
Squillarono le trombe e il terreno tremò sotto i loro piedi. La voce
dell’editorii riecheggiò per l’arena e la folla ruggì in risposta.
«Cittadini di Itreya! Onorevoli administratii! Senatori e midollani!
Benvenuti al Venatus Magni di Godsgrave! Dai migliori collegi della
Repubblica, vi presentiamo i guerrieri più potenti sotto i tre soli! Qui a
combattere davanti ai vostri occhi meravigliati, a immergersi nel sangue e
nella gloria per onorare il Semprevigile, l’onnipotente Aa. Ecco a voi… i
Drachi di Trajan!»
Il cancello si aprì sferragliando e il primo gruppo di gladiatii fece il suo
ingresso sulle sabbie, scortato da un drappello di legionari itreyani. C’erano
forse duecentocinquanta guerrieri radunati nelle celle di allestimento: troppi
per essere chiamati uno per uno. Le stalle venivano fatte entrare in massa: i
Lupi di Tacitus, le Spade di Phillipi, i Leoni di Leonides, uno dopo l’altro
ad avanzare tra il benvenuto della folla. Mentre ciascun collegio prendeva il
proprio posto nell’arena, gli scommettitori sugli spalti riconoscevano i
campioni preferiti e onorati e il volume cresceva in modo costante.
«I Falconi di Remus!» giunse il grido dell’annunciatore.
«Così ha inizio» sussurrò Furian.
«E così finisce» replicò Mia.
Uscì nella luce abbagliante con l’Imbattuto accanto a lei. La folla esultò,
alcuni per il Salvatore di Stormwatch («Corvo! Corvo! Corvo!»), altri per il
Campione di Talia («Imbattuuuuuuuuto!»). Mentre i due prendevano posto
tra gli altri con le fasce rosse, la voce dell’editorii risuonò nell’aria.
«Cittadini di Itreya, per favore, alzatevi!»
Uno squillo vivace di trombe risuonò quando la folla si alzò in piedi e la
fanfara fece scorrere i brividi sulla pelle di Mia.
«Sette anni sono trascorsi da quando gli sleali Incoronatori cercarono di
mettere in ginocchio la nostra gloriosa Repubblica! Sette anni di pace, sette
anni di raziocinio e prosperità, sette anni di giustizia e luce!»
Il cuore di Mia accelerò, la sua bocca improvvisamente secca. Sapeva
cosa stava arrivando… chi stava arrivando. Sette anni da quando lui aveva
distrutto il suo mondo, in piedi sul patibolo di suo padre come un avvoltoio
su un tumulo. Sette anni di promesse macchiate di sangue, di omicidio e
acciaio, di domande e preghiere. Furian guardò verso di lei, la sua ombra
che si increspava mentre quella di Mia si muoveva come la marea,
protendendosi con viticci neri verso il senato, verso i Luminatii, verso…
«Il vostro salvatore! Il vostro console! Julius Scaeva!»
Per lei fu come un pugno allo stomaco. Vederlo. Dopo tutto questo
tempo, pensava che forse il dolore potesse essersi smussato. Ma era come
un coltello nel petto, che la fece barcollare, mentre la sua ombra si
increspava e ribolliva malgrado i tre soli che ardevano in cielo.
Era alto, terribilmente bello, i suoi capelli scuri ora striati da minime
righe di grigio. Indossava una toga lunga di un porpora intenso e un alloro
dorato sulla fronte. Quando sorrise, il sole parve brillare più luminoso e
dalla folla si levò un boato rapito. Accanto a lui c’era una donna bellissima,
nera di capelli e verde di occhi, agghindata con seta elegante e gioielli
dorati. Tra le braccia teneva un ragazzino di sei o sette anni. Aveva i capelli
scuri di sua madre e gli occhi neri senza fondo di suo padre. Portava lo
stemma della legione dei Luminatii ricamato sul petto, anche se non aveva
una Trinità attorno al collo.
Scaeva mise un braccio attorno a sua moglie, tre dita distese nel segno di
Aa. La folla ricambiò il gesto, centomila persone che sollevavano le mani e
gridavano il suo nome. La mascella di Mia si serrò con tanta forza da farle
male ai denti. Trattenne il fiato perché era semplicemente troppo doloroso
respirare. Vederlo sorridere accanto alla sua familia quando con tanta
noncuranza aveva fatto finire sottoterra quella di Mia…
Circondato da quel mare di Luminatii, ferro e solacciaio, Scaeva avanzò
fino a un pulpito nel palco del console.
«Mio popolo!» disse a gran voce, le sue parole che riverberavano su quel
mare umano. «Miei compatrioti! Miei amici! In questa santissima festa, ci
raduniamo sotto gli occhi del Semprevigile in questa Repubblica, la più
illustre che il mondo abbia mai conosciuto!»
Il console fece una pausa per lasciare spazio agli applausi eccitati.
«Amici miei, questi sono tempi tormentati. Quando ho annunciato la mia
intenzione di servire per un quarto mandato come console, ero ossessionato
dal dubbio. Ma i continui attacchi ai nostri magistrati, ai nostri
administratii, perfino ai figli dei nostri nobili senatori oltremare mi hanno
convinto che la minaccia per la nostra gloriosa Repubblica non è ancora
terminata. E io non abbandonerò Itreya o voi in una tale ora di bisogno.»
Scaeva alzò la voce quando la folla proruppe.
«Dobbiamo essere uniti! E con il vostro sostegno, noi saremo uniti! Da
parte mia, della mia adorata moglie Liviana, di mio figlio Lucius…» Scaeva
fu costretto a interrompersi quando urla di esultanza sovrastarono la sua
voce «… dalla mia familia alle vostre, amici, vi ringraziamo per la vostra
vigilanza, il vostro coraggio, ma soprattutto per la vostra fede! In Dio, e in
noi!»
Gli occhi di Mia erano fissi su Scaeva, ribollenti d’odio. Le sue dita
scivolarono d’istinto al pugnale di necrosso nascosto sotto il ferro che le
circondava il polso. Il pugnale di necrosso che un tempo Alinne Corvere
aveva premuto contro la gola di Scaeva, il cambio in cui lui aveva
cancellato il mondo di Mia.
“Pazienza.”
Le dita di Mia scivolarono via dal pugnale. Sentiva in bocca il sapore del
sangue.
“Pazienza.”
Scaeva era raggiante davanti all’adorazione della folla, e recitava la parte
di una persona umile, grata. Avvicinandosi a sua moglie, il console si mise
suo figlio Lucius sulle spalle e poi protese di nuovo le tre dita in segno di
benedizione. Mia osservò il ragazzino chinarsi e sussurrare all’orecchio del
padre.
«Mio figlio dice che parlo sempre troppo» sorrise lui mentre una risata si
diffondeva tra la folla. «Mi ricorda che siamo qui per uno scopo. Allora,
vogliamo cominciare?»
La folla ruggì all’unisono.
«Amici miei, ho chiesto: vogliamo cominciare?»
Un unico boato assordante, che si levò fino al cielo.
«Ora lascerò spazio al nostro amato Gran cardinale, nonché mio caro
amico, Francesco Duomo, perché ci guidi nella preghiera.»
Tutti gli occhi si voltarono verso il clero di Aa sui loro posti a bordo
arena. Il Gran cardinale Duomo era in piedi a un altro pulpito, gli occhi
scuri fissi su Scaeva, che scintillavano di un astio velato mentre si
profondeva in un inchino. Parlò in un corno mekana e la sua voce risuonò
per l’arena densa come caramello, dolce e scura.
«Grazie, magnifico console» disse con un inchino profondo. «Che Aa
possa tenervi sempre nella Luce. Che il vostro regno sia lungo e fruttifero.»
Il sorriso di Scaeva sembrò farsi ancora più scaltro mentre ricambiava il
gesto.
«Amati cittadini, vi prego di chinare il capo» disse Duomo.
L’intera arena rimase immobile e il silenzio risuonò nell’aria e nel vento.
«Onnipotente Aa, Padre della Luce, creatore di tutto, in questa tua
santissima festa, ti ringraziamo per il tuo amore, la tua vigilanza e le tue
numerose benedizioni su di noi. Resta sempre vigile sui nostri cuori e
benedici coloro che moriranno qui per la gloria della nostra Repubblica.
«Nel tuo nome, questo preghiamo.»
La folla rispose all’unisono.
«Nel tuo nome, questo preghiamo.»
Duomo allargò le braccia e un sorriso gli illuminò gli occhi.
«Che il magni abbia inizio!»
La folla ruggì, pestando i piedi e urlando a squarciagola mentre Duomo
tornava dal suo gregge di cardinali e vescovi, tronfio come uno sposo dopo
la sua notte di nozze. Lo sguardo di Mia tornò su Scaeva, osservandolo
mentre si metteva a sedere, gli occhi scuri del console fissi su Duomo. I due
si guardarono come un paio di vipere che si contendevano il cadavere di un
unico topo. Ma il figlio di Scaeva gli sussurrò qualcosa all’orecchio e
all’improvviso il console proruppe in una risata energica e fragorosa. Sua
moglie si sporse per baciarlo sulla guancia. Scaeva distolse lo sguardo da
quello di Duomo, osservando invece raggiante la sua familia. Mia si sentì
tremare le gambe.
Non meritavano di essere così felici. Scaeva non meritava di avere una
moglie e un figlio quando a lei non aveva lasciato nulla. Duomo non
meritava di recitare la parte dell’uomo devoto e di parlare d’amore quando
aveva distrutto il suo intero mondo. Guardò i gladiatii attorno a lei,
ciascuno di loro un ostacolo, ogni spada un intralcio, ogni gola una pietra
sulla strada che portava ai cuori di quei bastardi.
«Riesco a percepirlo…» mormorò Furian. «Il tuo odio…»
Mia sbatté le palpebre e guardò l’uomo accanto a lei. Furian la stava
fissando con un misto di orrore, paura e compassione. Lanciò un’occhiata
all’ombra ai piedi di Mia.
«Onnipotente Aa… cosa ti hanno fatto?»
«Cittadini di Itreya!» giunse il grido. «Ecco a voi… il vostro campo di
battaglia!»
La folla rimase di sasso quando un poderoso gemito tremolante percorse
l’arena in tutta la sua interezza. I quattro gruppi di gladiatii, rossi, bianchi,
oro e blu, erano posizionati a punti opposti dell’ellissi dell’arena,
raggruppati in bande da una sessantina di persone. Mentre Mia osservava, il
terreno davanti a lei si divise e la sabbia cadde nel ventre mekana
dall’arena. Gli spettatori erano in piedi, allungandosi per vedere meglio
mentre quattro enormi sagome si innalzavano da sotto il pavimento. Lunghe
cinquanta piedi, con pesanti scafi in legnoferro e bestie fantastiche
intagliate alle polene, i fianchi punteggiati di dozzine di remi scintillanti.
«Quelle sono galee da guerra» mormorò un gladiatii stupefatto.
«Ma…» disse un altro. «Ma…»
«Gladiatii, attenti!» sbraitò il centurione, indicando le scale di corda che
penzolavano dai lati della loro nave. «Tutti quanti, salite! Ora! Muovetevi!»
Mia fece immediatamente come le era stato ordinato e Furian la seguì
senza obiezioni, arrampicandosi sulle scale di corda fino a raggiungere il
ponte superiore. Anche altri salirono, ma alcuni gladiatii rimasero
semplicemente a fissare il centurione con palese sconcerto.
«Navi?» chiese uno. «Onnipotente Aa, ci troviamo sulla fottuta sabbia!»
Il terreno gemette di nuovo, accompagnato da uno squillo di trombe.
«Io farei come ordinato, se fossi in te» disse il centurione.
L’uomo si girò e, assieme al resto del suo gruppo, batté i piedi sulla
sabbia. Alcuni gladiatii cominciarono a salire a bordo delle galee, altri si
guardarono attorno disorientati. Mia udì il gemito di un altro dispositivo
mekana, il rumore di metallo sotto pressione. Pesanti saracinesche di ferro
calarono sopra le celle che costeggiavano il bordo dell’arena e diverse grate
circolari si alzarono da sotto la sabbia. E mentre la folla osservava
meravigliata, quelle grate tremarono e, con un ultimo suono di metallo
vuoto, iniziarono a sputare zampilli d’acqua in aria.
La folla sospirò e poi esultò mentre il vapore acqueo si aggrappava alla
brezza turbinante e portava una frescura misericordiosa al calore
opprimente dell’arena. Ma nel giro di pochi momenti quei sospiri
diventarono grida di piacere quando l’acqua cominciò a fuoriuscire più
forte, più in alto, allagando il suolo dell’arena e mulinando attorno alle navi.
Presto fu profonda sei pollici. Poi otto. Un piede, sollevandosi attorno agli
stinchi dei gladiatii in una piena inesorabile.
«Questa è acqua salata» disse uno.
Un Leone di Leonides si sporse oltre il parapetto e urlò con quanto fiato
aveva in corpo.
«È una battaglia navale, stupidi bastardi. Salite, salite!»
Ora i gladiatii obbedirono, scattando verso le scale di corda e
arrampicandosi su per le fiancate. Mia era in piedi a prua, a osservare
l’acqua affluire e impattare contro la loro chiglia. Era profonda dieci piedi e
si innalzava ancora. La loro nave cominciò a ondeggiare nella sua
impalcatura di legno mentre galleggiava nella piena. Grazie alla
ricognizione di Ashlinn, Mia aveva qualche sentore di ciò che c’era in serbo
per lei sulle sabbie, ma trovarcisi di persona…
La ragazza scosse il capo, semplicemente meravigliata dal potere messo
in mostra. Dall’ingegno. Dalla pura, fottuta arroganza. Invece di mandare i
suoi cittadini all’oceano, la grande Repubblica di Itreya aveva portato
l’oceano dai suoi cittadini.
«Cittadini di Itreya!» urlò il gran editorii. «Il senato e il Collegio di Ferro
della nostra gloriosa Repubblica sono orgogliosi di presentarvi… la
battaglia di Seawall!» a
Ora l’acqua era profonda quindici piedi e andava aumentando. Un grosso
podio si sollevò al centro dell’arena, con una fortezza di pietra in cima:
presumibilmente rappresentava le possenti fortificazioni di Seawall stessa.
Mia riuscì a vedere catapulte mekana in cima alle mura merlate, caricate
con pece ardente. E guardando nei mulinelli vorticanti lì sotto, Mia vide
dozzine di forme scure girare attorno al loro scafo.
Furian scrutò oltre il parapetto, stringendo gli occhi per esaminare quelle
sagome serpentiformi.
«Quelli sono…?»
La folla gridò all’unisono quando una delle forme infranse la superficie,
muso schiacciato e occhi neri smorti, con file e file di denti affilati come
rasoi. Era lunga quasi quindici piedi e tagliò l’acqua con la sua massiccia
coda biforcuta prima di scomparire sotto la superficie.
«Drachitempesta» mormorò l’Imbattuto.
Mia scosse il capo. Catapulte davanti. Navi nemiche attorno. Mostri
sotto.
E mentre guardava gli stemmi sulle corazze e gli scudi dei gladiatii
attorno a loro, si rese conto che lei e Furian erano circondati da Leoni di
Leonides. Almeno una dozzina, tutti grossi come case e duri come il ferro
che aveva sul petto.
«Bene» mormorò Mia. «Un posto davvero accogliente.»
«Nemici su tutti i lati» sussurrò Furian.
«Almeno la mia vita è coerente.»
«Se dovessimo rimanere tu e io…»
«Lo so.»
«Ma fino ad allora?» Furian lanciò un’occhiata alle lame impugnate da
Mia, ancora macchiate con il sangue di coloro che l’avevano chiamata
amica. «Hai avuto tanto senso del dovere da difendere il collegio ed
eliminare coloro che l’avevano tradito. Spero di essermi sbagliato su di te.
Che tu abbia imparato qualcosa sull’onore e sulle usanze dei gladiatii. Devo
preoccuparmi della tua lama nella mia schiena?»
Mia lo guardò di sottecchi mentre l’acqua attorno a loro si innalzava
ancora di più.
«Tutto questo finirà solo in un modo» disse lei. «E tu e io lo sappiamo.
Ma io ti attaccherò da davanti. Posso prometterti questo, almeno.»
L’Imbattuto annuì e serrò la stretta sulla propria lama.
«E sia. Sangue e gloria.»
Mia scosse il capo. «Puoi tenerti la gloria, Furian.»
Spostò gli occhi sullo scanno del console.
«Io sono qui solo per il sangue.»

Giù nel ventre dell’arena, Mercurio terminò di caricare la carriola,


trascinando il secchio pesante sul pianale con un sussulto. La verità era che
lui era troppo vecchio per questo tipo di sciocchezze. La sua dannata artrite
gli stava dando di nuovo fastidio e andarsene in giro quaggiù vestito di
stracci per gli ultimi due cambi non stava aiutando affatto i suoi eritemi.
«La prossima volta, mi travesto io da guardia» ringhiò.
Ashlinn roteò gli occhi.
«Chi ’bisso crederebbe che sei una guardia, vecchio cazzone burbero?»
La ragazza era appostata presso la porta dell’anticamera, gli occhi sul
corridoio lì fuori. Era ancora vestita con la sua armatura rubata, corazza e
gonna di cuoio nero, un elmo piumato a coprirle la faccia. Mercurio poteva
udire il boato del pubblico sopra la sua testa e la sua pancia si riempì di
ghiaccio e farfalle quando si rese conto che il magni era in corso.
Anche se manteneva il volto impassibile, la figlia di Järnheim sembrava
condividere la sua preoccupazione. Guardò verso l’arena sopra le loro teste
e sospirò.
«Dovrei essere lassù» mormorò.
«Questo è importante, per lei» replicò Mercurio.
«Sia quel che sia, tutto questo piano è una dannata pazzia.»
Mercurio sospirò. «Non sono certo che tu l’abbia notato, ragazza, ma
Mia Corvere e la pazzia vanno a braccetto come sigaretti e fumo.»
Ashlinn sorrise. «Oh, sì, l’ho notato.»
Il vescovo di Godsgrave si unì a lei presso la porta e scrutò nel corridoio.
«Mi rendo conto che non è questo il tempo o il luogo» borbottò lui. «Ma
sappi che se le farai del male, non c’è nessun nascondiglio sotto i soli in cui
io non ti troverò.»
Ash sollevò un sopracciglio e squadrò l’uomo dall’alto in basso.
«Sai, sei davvero dolcissimo per essere un vecchio cazzone burbero.»
«Ma levati» ringhiò Mercurio.
«Mi sembra un’ottima idea. Vogliamo andare?»
«Sì. Ma come ti piace ricordare, sono un cittadino anziano.»
«Dunque?»
«Dunque la dannata carriola la spingi tu.»
Applausi riecheggiarono sulla pietra attorno a loro e Ashlinn fece strada
spingendo la carriola. I due si avviarono furtivi nell’oscurità.

La folla tuonò quando le trombe squillarono e ogni uomo, donna e bambino


si alzò in piedi. Dopo cinque cambi di massacri, cinque cambi di soliluce
cocente, cinque cambi di spettacolo accecante, il Venatus Magni era in
corso.
Leona osservò le catapulte nella fortezza di Seawall scagliare i loro barili
di pece infuocata. Le prime salve furono semplici colpi di avvertimento, che
rotolarono in aria prima di sprofondare in acqua con un violento sibilo. Ma
la minaccia di essere inceneriti fu sufficiente a far scattare i gladiatii e il
caos scoppiò sui ponti quando si verificarono brevi contese per il comando.
Ragnar di Vaan prese rapidamente il controllo della nave Oro e la folla si
entusiasmò quando soffocò un breve ammutinamento da parte di un altro
Lupo di Tacitus conficcando la spada nella gola dell’uomo e sbattendolo
fuoribordo con un calcio. L’acqua sotto il parapetto schiumò di rosso
quando almeno quattro drachitempesta fecero rumorosamente a pezzi
l’uomo. Sbraitando ai rematori, Ragnar prese il timone e fece virare la sua
nave verso la fortezza.
Mangiamondo dei Phillipi prese il comando della nave Blu poco dopo e
anche quell’equipaggio diresse i remi verso le fortificazioni. Il ponte della
nave Bianca era in preda a un caos totale, con i Drachi di Trajan che
lottavano per il predominio con i gladiatii di altri tre collegi. Dalla folla si
levò un boato quando il vascello divenne un mattatoio, il sangue che colava
sulle assi.
Guardando i Rossi, Leona vide che la loro galea era in movimento, i
Sanguifalchi di Artimedes al timone. Riuscì a scorgere Corvo e Furian a
prua, le lame sguainate, la loro nave diretta alle fortificazioni. Ma mentre
osservava, vide più di una dozzina di Leoni di Leonides mettersi in
formazione alle loro spalle. Non contenti di aspettare finché non fossero
arrivati alla fortezza, i gladiatii di Leonides sembravano intenzionati a porre
fine alle speranze di vittoria di Leona qui e adesso.
La domina guardò verso suo padre e trovò l’uomo che la fissava a sua
volta, sorridendo.
«Solo affari» sussurrò lui.

«Arrivano» mormorò Furian.


«Lo so» replicò Mia.
«Non morire prima che io possa ucciderti.»
«Non sarà qui che morirò.»
I Leoni caricarono senza tante cerimonie e Mia e Furian si voltarono per
incontrarli, acciaio che cozzava contro acciaio. La folla si esaltò per
quell’improvviso e sanguinoso tradimento. Mia e Furian si fecero strada a
forza lungo il ponte fino a mettersi con le spalle contro la polena a prua.
Anche se erano in inferiorità numerica, avevano scelto bene il loro
campo di battaglia: la prua era stretta, e creava un collo di bottiglia per i
Leoni, cosicché i loro numeri non contavano così tanto. Mia si protese
verso le ombre ai piedi di un Leone in carica, ma semplicemente non riuscì
a trattenerle con tutti i tre soli che brillavano in cielo. Fu costretta a fare
invece affidamento sulla sua velocità, sull’addestramento che aveva
ricevuto da Mercurio, Solis e poi Arkades, i cambi, le settimane e i mesi che
aveva trascorso con qualche tipo di lama in mano.
Quello, e la dose di Deliquio che Ashlinn aveva mischiato alla scorta
d’acqua dei gladiatii, naturalmente.
Non era stata una dose forte: non abbastanza da mandarli nel mondo dei
sogni. Ma lei sapeva che chiunque ne avesse inghiottito una mestolata a
quest’ora ne avrebbe sperimentato gli effetti, e pareva che i Leoni che li
stavano caricando fossero stati assetati prima dell’incontro. Mia fintò a
sinistra e il Leone incespicò, poi imprecò quando lei gli aprì uno squarcio
profondo sulla coscia con il suo gladio. Lui affondò, ma la ragazza scivolò
di lato; i suoi colpi furono deviati dallo scudo dell’uomo, ma lei gli sbatté
via la lama da dita goffe, mandandola a sferragliare sul ponte.
Furian si muoveva come l’acqua, i lunghi capelli neri fluenti dietro di lui
mentre teneva a bada i Leoni in carica con il suo ampio scudo. Intercettò un
affondo con la propria lama e la sua risposta fece volar via la spada dalla
stretta del suo possessore, facendola cadere in acqua. Le catapulte
scagliarono una nuova salva e il fuoco attraversò l’aria per andare a colpire
il fianco della loro nave. Sbocciò una fiammata e un boato tonante sovrastò
la folla. Alcuni uomini caddero urlando dal ponte o finirono in acqua
strepitando; i denti dei drachi guizzarono e digrignarono nel rosso
schiumante. Fumo nero vagava tra le scintille danzanti, la puzza di carne e
olio bruciati. E Mia sollevò la spada e colpì di nuovo il suo nemico.
L’uomo barcollò, un tantino ubriaco per il Deliquio, e ciò fu sufficiente a
darle un vantaggio. Un fendente sibilante della lama di Mia gli aprì la
trachea, proprio mentre Furian eliminava il suo avversario con un affondo
corto e letale. Malgrado la carneficina, malgrado la paura, Mia si sentiva
euforica, il suo sangue eccitato, la pelle che formicolava. E quando guardò
la tolda, Mia si rese conto che la sua ombra si stava muovendo di propria
volontà, strisciando come melassa lungo il legno reso scivoloso dal sangue
verso quella di Furian. Non solo: quella di Furian si stava protendendo
verso la sua.
Come amanti separati.
Come un rompicapo che cercava i suoi stessi pezzi mancanti.
Mia scosse il capo. Era senza fiato. Affamata. Il ponte attorno a loro era
in preda al caos, i gladiatii che si scagliavano gli uni contro gli altri mentre i
Leoni attaccavano Mia e Furian e la loro breve alleanza collassava. Acciaio
cozzava contro acciaio, grida di agonia spaccavano l’aria, un altro barile di
pece ardente esplose sopra di loro facendo piovere fuoco liquido sulla tolda.
I Leoni furono assaliti da dietro mentre Furian e Mia combattevano per le
loro vite contro la prua. Lei si rese conto che la nave Oro aveva raggiunto il
forte e i gladiatii avevano preso il controllo delle catapulte mekana. La
galea Bianca era quasi del tutto in fiamme, la nave Blu quasi nelle stesse
condizioni, con il legno che gemeva e gli uomini che urlavano mentre
andava a impattare dritto contro la fortezza. I Blu caricarono con un urlo
sanguinario, arrampicandosi sulle scale di corda per salire sui bastioni, dove
gli Oro li incontrarono a testa bassa.
Un altro barile di fuoco colpì la galea Rossa, stavolta sul ponte di poppa,
incenerendo il gladiatii al timone. I rematori vogarono forte, desiderando
disperatamente raggiungere il forte e sfuggire alla loro bara in fiamme. Ma
senza qualcuno a virare e il timone che bruciava, la nave andò larga e i remi
furono ridotti a trucioli sbattendo contro il basamento. Il vascello tremò e
Furian barcollò finendo in ginocchio. Per poco Mia non lo seguì.
«Andiamo!» urlò Mia, rinfoderando le lame e facendo un balzo in corsa
oltre il parapetto. Con le mani protese, afferrò una scala di corda che
pendeva dai bastioni, penzolando in modo precario sull’acqua. Furian la
seguì, saltando su una scala accanto a lei, imitato rapidamente da rematori e
altri gladiatii. Un Leone effettuò un balzo disperato, afferrando la scala
sotto Furian, ma l’unico risultato fu che lo stivale dell’Imbattuto lo fece
finire nelle acque ribollenti con un urlo. Con il fumo che le faceva bruciare
gli occhi, Mia si arrampicò su per la fune arrivando sulle mura della
fortezza, la puzza di olio che bruciava e di viscere squarciate quasi
opprimente.
La folla cantilenava ed esultava, sbalordita per il massacro e lo
spettacolo. Mia sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi, quindi
percepì Furian volteggiare sui bastioni dietro di lei senza voltarsi per
vederlo. Proprio come quando avevano combattuto nella sua stanza, Mia
avvertì l’attrazione nella sua stessa ombra, la fame dentro di lei che si
ingrossava come una cosa viva.
E guardando verso i suoi piedi, vide che le loro ombre erano
completamente intrecciate.
«Cosa ’bisso sta succedendo?» ansimò lei.

Leonides proruppe in un’imprecazione tremenda, alzandosi in piedi e


ruggendo. Era difficile capirlo tra la coltre di fumo, ma sembrava che al
grande sanguila rimanessero pochissimi guerrieri nella battaglia. Leona
osservò le galee Rossa e Bianca che cominciavano ad affondare, con i
rematori che si gettavano fuoribordo per rischiare la vita con i drachi invece
di morire bruciati. L’acqua era una zuppa ribollente di pinne dorsali, code
biforcute e urla, e la folla ululò quando il minuscolo oceano diventò rosso.
Leona osservò il Corvo a occhi stretti. C’era qualcosa di sbagliato che le
rodeva le viscere. C’era qualcosa nella ragazza… qualcosa di anomalo che
non riusciva a mettere a fuoco. Osservandola muoversi tra i Leoni, si era
dimostrata assolutamente di meritare il titolo di campione che Leona le
aveva dato. Ma c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui combatteva.
Menava fendenti, pugni, calci…
“… ma mai affondi…”
Leona si alzò in piedi, stringendo gli occhi per guardare tra la foschia
scura, osservando il Corvo combattere sui bastioni al fianco di Furian. I due
erano devastanti, abbattevano tutti quelli che si paravano loro davanti e
avanzavano lentamente dai margini della fortificazione. Ma il suo sospetto
era giustificato. Anche quando si presentava un’opportunità per colpire di
punta con il suo pugnale, il Corvo si limitava a utilizzarlo per bloccare i
colpi dei suoi avversari. Aveva usato la lama più piccola con trasporto
sanguinario nello scontro delle esecuzioni, ma adesso che il magni era in
corso…
«Colpisce solo con il gladio…» mormorò.
La magistrae si voltò verso la sua padrona. «Dominatii?»
Leona avvertì un gelo nella pancia. Ricordò il cambio in cui aveva
donato al Corvo la sua armatura, con gladio e pugnale di acciaio nero
liisiano abbinati. Osservando la soliluce lampeggiare sulla lama argentata
nella mano del Corvo, seppe con terribile certezza…
«… Quello non è il pugnale che le ho regalato.»

Ashlinn e Mercurio attraversarono il ventre dell’arena, lungo corridoi


tortuosi e arcate di pietra, seguendo la traccia di scarlatto appiccicoso.
Incrociarono pattuglie di soldati, pulitori, attendenti, ma quasi chiunque
fosse dotato di occhi era di sopra ad assistere al magni. Potevano udire i
suoni del conflitto infuriare lassù, boati vuoti e le urla della folla.
Alla fine del corridoio, videro delle ampie doppie porte di legno, con un
paio di legionari decisamente frustrati a montare la guardia, le teste
inclinate per ascoltare la carneficina di sopra. Quello più alto si raddrizzò
nel vedere Mercurio avvicinarsi, squadrando il vecchio dall’alto in basso
prima di fissare lo sguardo su Ashlinn.
«Avet…»
Ashlinn si chinò e scagliò un piccolo globo di vetro bianco sulla pietra. I
due ebbero a malapena il tempo sufficiente per notare il mutavitrum prima
che scoppiasse con un botto secco. Una nube di gas pallido riempì
l’estremità del corridoio. Ash e Mercurio attesero di vedere se qualcuno
accorresse a quel suono, ma il volume della folla e del conflitto di sopra
pareva aver sovrastato l’esplosione.
Legandosi fazzoletti pesanti attorno alla faccia, i due entrarono nella
stanza, chiudendosela a chiave alle spalle. La placca intagliata sulle porte
ora chiaramente visibile.
OBITORIO .

Sangue sulle mani e sulla lingua.


Sangue sulle sue lame e nei suoi occhi.
Mia combatteva in cima ai bastioni, la pietra resa scivolosa dal sangue.
Capannelli di gladiatii menavano fendenti e affondi tra loro, acciaio
risuonava contro acciaio, urla di guerra riempivano l’aria. Mangiamondo,
campione dei Phillipi, era zuppo di rosso da capo a piedi, agitava un
piccone a due mani e perforava armature e scudi come fossero carta. Ragnar
del Collegio Tacitus era ancora in piedi, ululando come un folle mentre si
chinava e faceva volteggiare sopra la spalla un gladiatii che lo stava
caricando, gettandolo nell’acqua sottostante.
La carneficina era tremenda, i corpi accatastati, e forse restavano solo
una ventina di gladiatii dove avevano cominciato quasi in trecento. Mia non
aveva mai visto uno spargimento di sangue del genere in tutta la sua vita.
Furian combatteva accanto a lei, imbrattato fino alle ascelle.
Le loro ombre adesso erano completamente intrecciate, e tutti e quattro –
Mia, Messer Cortese, Furian, Eclissi – si fondevano nel nero sotto i loro
piedi. Lei riusciva a sentire solo vagamente la folla e osservava le sue lame
danzare nell’aria come se avessero volontà propria. Ma cosa più importante,
poteva sentire Furian, il battito del suo cuore, il suo respiro, e sotto tutto
ciò, sotto il sangue, il fumo, il ruggito assordante della folla ebbra di
massacro, si accorse che poteva sentire…
“… non i suoi pensieri, ma…”
La sua fame. La sua brama. I suoi sentimenti per Leona, intrisi di
dispiacere e amarezza. Il suo desiderio per l’alloro da vincitore, che
riecheggiava in ogni battito del suo cuore. Per un attimo, lo avvertì in modo
così vero, come se fosse una parte di se stessa, che fu tentata di gettar via
semplicemente la propria spada e lasciare che lui la sconfiggesse. Da parte
sua, anche Furian parve percepire lei, e d’istinto riservò un’occhiata al
palco del console, poi al Gran cardinale tra il suo gregge di vigliacchi, la
mascella serrata per l’odio.
«Onnipotente Aa» mormorò. «Quei bastardi…»
Il respiro di Mia bruciava, i suoi occhi pizzicavano per il sudore, le
pulsazioni tamburellavano sotto la pelle. La sua lama cantava nell’aria, le
braccia doloranti, e da qualche parte in lontananza, debolissima, sotto il
boato della folla, il ruggito delle fiamme, il fragore di quei tre soli che
bruciavano abbaglianti nel cielo, lei la udì.
La tenebra.
Sotto l’acqua.
Sotto la sua pelle.
Sotto la crosta di marmo sopra le ossa di questa città. La sua ombra si
intrecciò con quella di Furian, trasudando in quella dell’uomo come il
sangue sparso sulla pietra.
«… mia…»
«Lo senti?» mormorò.
Furian conficcò la lama in un altro petto, il sangue scivoloso sulle sue
mani.
«Io sento te» ansimò.
Si torceva e si girava, fintava e colpiva, il tempo rallentato.
«Sento noi…»
«… MIA, COSA STA SUCCEDENDO …?»
«Non lo so» sussurrò lei.
Mia abbatté un altro gladiatii, abbassandosi sotto il suo colpo e
recidendogli di netto il tendine del ginocchio. «Che la Madre Nera mi aiuti,
non lo so…»
Mangiamondo sollevò il suo piccone e caricò Mia, i piedi che
percuotevano la pietra. Da dietro, lei riuscì a sentire Ragnar e Furian
bloccati assieme, lama contro lama. Perfino con il Deliquio nelle vene,
questi uomini erano campioni, veterani di una dozzina di massacri, duri
come l’acciaio. Ma Mia poteva ancora percepire Furian, le loro ombre
completamente ingarbugliate, avvolte sulla pietra, danzando nel sangue. Era
come se lei avesse due paia d’occhi, due cuori, due menti, il doppio della
forza, il doppio della volontà, il doppio della furia. Mangiamondo vibrò il
piccone contro la sua testa e lei avvertì la mano di Furian sulla sua, a
guidare la sua contromossa. Furian colpì Ragnar e lui sentì la stretta di Mia
sulla propria lama. Fusi, senza una fine, nessun senso di dove lei terminava
e lui cominciava. Lì, sotto quei soli ardenti, anche solo per un momento, il
rompicapo parve aver trovato il suo pezzo mancante.
Il gladio di Mia tagliò la carne dietro il ginocchio di Mangiamondo,
tranciando il tendine fino all’osso. Furian disarmò Ragnar con un affondo
fulmineo, ma il Vaaniano placcò l’Imbattuto facendolo finire a terra e i due
si misero ad artigliarsi e prendersi a pugni sulla pietra lustra di rosso.
Quando le mani di Ragnar si chiusero attorno alla gola di Furian, Mia sentì
la propria trachea stringersi. Rantolò per l’asfissia e sentì il piccone di
Mangiamondo impattare contro le sue costole. Sia lei sia Furian urlarono di
dolore. Mia perse la presa sul suo pugnale e la lama tintinnò squillante
quando slittò sulla pietra, fermandosi accanto a Furian e Ragnar.
Le mani di Ragnar si serrarono sulla gola di Furian. Mia ansimò in cerca
di fiato. Mangiamondo trascinò a terra la ragazza, poi schiantò il pugno
contro la sua testa, sbattendo via l’elmo e facendole volare il gladio. Lei
non riusciva a respirare, a vedere, la stretta di Ragnar su Furian le toglieva
il respiro. Allungando una mano sulla pietra, con la folla che gridava a
squarciagola, le dita di Furian sfiorarono l’impugnatura del coltello caduto a
Mia. Mangiamondo sbatté la testa di Mia contro il pavimento, ancora,
ancora e ancora, la soliluce che le ardeva negli occhi.
Le dita di Furian si chiusero sull’elsa del pugnale di Mia.
«Furian» rantolò Mia. «Non…»
Con un urlo disperato, l’Imbattuto tirò indietro il coltello e lo conficcò
nel varco tra il pettorale e gli spallacci di Ragnar.
La folla rimase senza fiato.
Furian lanciò un urlo trionfante.
E la lama a molla di Mia scivolò dentro l’elsa.

«Ahi.»
Sidonius avvertì un calcio leggero contro il braccio. La sua pancia
sussultò da un lato, ma il gladiatii tenne gli occhi chiusi, trattenendo il fiato.
Un altro calcio da un piede particolarmente ossuto.
«Riesco ancora a vedere il tuo marchio da schiavo, uomo morto. È un
bene che i tizi che hanno trascinato il tuo cadavere quaggiù non si siano
preoccupati di toglierti l’elmo. È ora di andare.»
Sidonius socchiuse appena un occhio e vide un vecchio con stracci
sbrindellati chino su di lui. Aveva vividi occhi azzurri, una massa di capelli
grigi e un sigaretto acceso tra le labbra.
«Sei… Mercurio?» sussurrò.
«No, sono l’amante del Gran cardinale. Ora alzati.»
Sidonius si mise a sedere sul pavimento dell’obitorio, circondato da
centinaia di cadaveri. Intravide una ragazza snella con l’armatura da guardia
sporta sopra il “cadavere” di Alzaonda, che lo picchiettava sulla spalla.
«Tu sei Ashlinn» sussurrò Sidonius.
«Lieta di incontrarti» annuì la ragazza. «Ora, sul serio, sbrigati ad
alzarti.»
Cantalame era in piedi e si tolse l’elmo, ancora inzuppato di sangue. Con
una smorfia, Sidonius si levò il suo e allungò una mano dietro il collo per
tirar fuori la vescica perforata che aveva sotto il pettorale. Poteva sentire il
sangue di pollo lungo la schiena coagularsi in una sozzura untuosa e
viscida.
«C’è un secchio nella carriola» disse Mercurio. «Lavati e vestiti.
Dobbiamo andarcene prima del termine del magni. E non ci vorrà molto.»
I Falconi del Collegio Remus fecero a turno, lavandosi il sangue meglio
che potevano e indossando gli indumenti che gli venivano dati. Ad alcuni
l’armatura dei portinai privi di sensi, stracci per gli altri. Sidonius si mise
l’elmo d’acciaio e il pettorale di cuoio di una guardia, guardando la pietra
sopra di lui mentre la folla lanciava un urlo esultante.
«Come pensate che se la stia cavando lei lassù?» mormorò.
Alzaonda gli diede una pacca sulla spalla. «Abbi fede, fratello. Ci ha
fatti arrivare fin qui.»
«Con non poco aiuto da parte tua.» Bryn sogghignò.
«Sì, ma doveva proprio essere sangue di pollo?» chiese Macellaio con
una smorfia. «Puzza.»
Alzaonda scrollò le spalle. «È così che mi hanno insegnato a teatro.»
Mercurio si accigliò e spense il suo sigaretto.
«Mi rendo conto che le possibilità che gli administratii inviino una
squadra di ricerca per trovare un gruppo di gladiatii morti sono scarse, ma
se voialtri avete finito di chiacchierare, abbiamo una fuga rocambolesca da
portare a termine.» Il vecchio gesticolò verso la porta. «Perciò, se avete
finito di farvi i cazzi vostri…?»
«Scusatelo» borbottò Ashlinn. «Lui è sempre così.»
Mettendo a posto l’elmo, Sidonius raddrizzò le spalle. Con i suoi
compagni dietro di lui, uscì nel corridoio. Le viscere dell’arena erano
praticamente vuote, tutti gli occhi sullo spettacolo di sopra. Attraversarono
rapidamente i corridoi, Ashlinn davanti, finché non giunsero a un piccolo
ingresso per la servitù, chiuso a chiave e sbarrato.
Ashlinn aprì la porta su un vicoletto. Lì fuori c’erano due guardie
accasciate: Sid non riuscì a capire se fossero morte o addormentate. Ma
vide anche il carretto di un mercante e una graziosa ragazza bionda al posto
di guida. Lei li guardò e sorrise.
«Questa è Belle» disse Mercurio. «Vi porterà dall’altra parte
dell’acquedotto. Una schiavista chiamata Bevilacrime vi aspetta sulla
terraferma.»
«Una schiavista?» ringhiò Cantalame.
«Deve un favore a Mia» spiegò Ashlinn. «Il genere di favore più grande
che esiste. Ha le carte che attestano che ha comprato la vostra libertà. E
contratti con gli administratii per far rimuovere i vostri marchi. Ora
andate.»
«Mia…» esordì Sid.
«Andate.»
Bryn e gli altri erano già sul carro. Alzaonda afferrò Sidonius per il
braccio e lo tirò sul pianale. La ragazza schioccò le redini e si avviarono,
rimbalzando sul selciato mentre percorrevano le strade di Godsgrave.
«Ottimi cavalli» disse Bryn, annuendo agli animali che trainavano il
carro.
«Lo stallone nero è Onice» sorrise la ragazza. «La giumenta bianca è
Perla.»
Sidonius andò a mettersi al posto di guida accanto a lei, cercando di dare
un’impressione di autorità nella sua uniforme. Però scoprì che gli
tremavano le mani e che aveva le ginocchia deboli: quelle traversie
l’avevano lasciato vuoto. Dopo settimane di piani, a recitare la parte, a
pregare che riuscissero in qualche modo a farcela, l’adrenalina gli si stava
inacidendo nelle vene, lasciandolo esausto e…
«Non avere paura» disse la ragazza, stringendogli forte la mano. «Andrà
tutto bene.»
Sidonius la squadrò dall’alto in basso. Occhi grandi e scuri. Era poco più
di una bambina.
«… Come fai a saperlo?» la schernì.
«Perché le voci nella tua testa che dicono altrimenti sono solo Paura.
Non darle mai ascolto.»
La ragazza sorrise e voltò gli occhi di nuovo verso la strada.
«Paura è una codarda.»

Mia emise un rantolo quando Mangiamondo le sbatté di nuovo il cranio


contro la pietra, i pollici premuti contro i suoi occhi. Facendo scivolare il
pugnale di necrosso dal bracciale che aveva al polso, conficcò la lama sotto
il mento del campione, dritto nel suo cervello.
Mangiamondo ruzzolò da un lato con un gorgoglio. Rotolandosi in piedi,
Mia raccolse il suo gladio e caricò lungo la fortificazione, le labbra
arricciate all’indietro in un ringhio. Ragnar aveva le mani attorno alla gola
di Furian e alzò lo sguardo quando la ragazza gli venne addosso. Sollevò le
braccia per respingere il suo colpo, ma il Deliquio gli ronzava ancora nelle
vene e la lama di acciaio liisiano di Mia gli tranciò il polso, spaccandogli
l’elmo per poi fracassare carne e osso. Mia strappò via la lama e il corpo del
campione cadde all’indietro in uno schizzo rosso.
Furian scalciò via il cadavere e rotolò in piedi. Stringeva ancora in mano
il pugnale a molla di Mia e la fissava con occhi scuri e ardenti. La folla
stava strepitando per la brama di sangue. Delle centinaia di uomini e donne
che erano scesi sulla sabbia, ora ne restavano solo due. Anche se non
riuscivano a sentire le parole pronunciate dai Falconi a causa della
lontananza, le urla degli altri spettatori e il sangue che pulsava nelle loro
stesse vene, tutti sapevano che presto l’incontro sarebbe terminato. Il fatto
che i due fossero compagni dello stesso collegio non faceva differenza.
Tutto questo poteva finire in un solo modo.
«Tutti devono cadere, perché ne resti solo uno» giunse l’urlo.
Mia e Furian si fissarono in mezzo a quella carneficina, le ombre
frementi ai loro piedi. Mentre prima erano state intrecciate, fondendosi fino
a un nero perfetto, adesso erano attorcigliate, si contorcevano e si
aggredivano a vicenda con ira.
«E così» sbraitò Furian, scagliando il falso pugnale ai piedi di Mia. «Una
bugiarda fino all’ultimo.»
La folla era un boato distante. L’arena un fondale sbiadito, pallido e
traslucido. Mia poteva percepire la città di Godsgrave attorno a loro, che
soffocava sotto quei soli terribili. La percepì come una cosa viva. Avvertì la
rabbia e l’odio che si annidavano nelle sue ossa, come quel verobuio di
molto tempo fa, quando non era riuscita a uccidere Scaeva nella Basilica
Grande.
La percepì come percepiva se stessa.
«Furian…» esordì.
«Non hai imparato nulla sull’onore, giusto? Pensavo affermassi di non
essere un eroe. Che se avevano bisogno d’aiuto, potevano aiutarsi da soli.»
«Ma si sono aiutati da soli, Furian» replicò Mia. «Ci siamo aiutati a
vicenda.»
«E perché?»
«Perché sono miei amici. E non meritavano di morire.»
«Ma moriranno comunque» sbraitò lui. «Come i traditori che sono.
Quando sarò nominato vincitore, la prima cosa che farò sarà raccontare agli
editorii del tuo stratagemma. E tutte le tue menzogne non saranno servite a
nulla.»
Si chinò e raccolse una spada insanguinata dalla carneficina attorno a
loro.
«Non puoi ripulirti le mani con altro sangue, Furian» disse Mia.
«Io dono me stesso al Semprevigile.»
«Furian, non riesci a percepirlo? Guarda le nostre ombre! Ascolta!»
«Non sento nulla» sbottò lui. «Tranne la strega che sto per uccidere.»
«Non farlo!»
L’Imbattuto caricò, la spada insanguinata levata in alto. Il boato della
folla si schiantò come un’onda di piena attorno a lei, una marea assordante
che le fischiava nel cranio. Il tempo avanzava lento, secondo dopo secondo.
La bocca di Furian era aperta in un ruggito, la sua lama sollevata in alto.
Lei non voleva ucciderlo.
Ma non voleva morire.
«… mia…?»
«Tutti devono cadere, perché ne resti solo uno» giunse l’urlo.
«… MIA …!»
“Tutti devono cadere, perché ne resti solo uno.”
E così si mosse, gentili amici. Si mosse come il vento. Come mercurio
liquido. Come ombre. Scivolò sotto il colpo falciante indirizzato alla sua
gola, l’acciaio che fischiava vicino alla sua pelle. Le rispettive tenebre sotto
di loro si aggredirono lacerandosi a vicenda, nero inchiostro sulla pietra
insanguinata, odio e fame, assieme a qualcosa di simile a tristezza.
L’umbragatto sibilò e l’umbralupa ringhiò, e la ragazza, la Lama, la
gladiatii colpì, intercettando con la punta della spada il collo dell’Imbattuto
mentre le sfrecciava accanto.
Uno spruzzo di rosso. Un rantolo senza fiato. Mia provò dolore e si
premette la mano alla gola come se avesse inferto il colpo a se stessa. Non
c’erano vesciche piene di sangue di pollo, ora. Nessuno stratagemma.
Nessuna recita. Il sangue di Furian era reale quanto la soliluce sulla pelle di
Mia.
Furian la guardò, gli occhi sgranati dalla sorpresa. Stringendosi la gola,
si voltò verso il palco dei sanguila, guardando verso la sua Dominatii. Mia
percepì tutto quanto. Rammarico. Tristezza. Chiese a Messer Cortese ed
Eclissi di protendersi sulla pietra e, con l’ultimo respiro di Furian, di
portargli via la paura.
E con un ultimo rantolo, l’Imbattuto fu battuto.
Mia sentì una specie di colpo di martello sulla schiena. Un afflusso di
sangue nelle vene, la pelle che formicolava, ogni terminazione nervosa in
fiamme. Cadde in ginocchio, i capelli che si gonfiavano attorno a lei come
per una brezza fantasma, la sua ombra scarabocchiata in linee impazzite e
frastagliate sotto di lei, Messer Cortese, Eclissi e un migliaio di altre forme
scribacchiate tra le sagome che disegnava sulla pietra. La fame dentro di lei
fu sazia, il desiderio scomparve, il vuoto fu riempito all’improvviso e con
violenza. Un taglio netto. Un risveglio. Una condivisione, dipinta di rosso e
nero. E con la faccia rivolta al cielo, per un momento, solo per un soffio.
Lei lo vide. Non un campo sconfinato di azzurro accecante, ma un nero
senza fondo. Buio, intero e perfetto.
Pieno di minuscole stelle.
Sospeso sopra di lei nei cieli, Mia vide un globo di luce pallida che
brillava. Quasi come un sole, ma non rosso, blu o dorato, o ardente di un
calore furibondo. Quella sfera era di un bianco spettrale e diffondeva una
luminosità pallida, proiettando un’ombra lunga ai suoi piedi.
«I MOLTI ERANO UNO .»
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
«E LO SARANNO ANCORA .»
Un urlo uscì fuori lacerandole i polmoni, lungo, sottile e acuto. Il cielo si
richiuse con uno schianto, il calore dei soli le fece sgorgare lacrime ardenti
dagli occhi. Si ritrovò in ginocchio sulla pietra insanguinata, l’arena che
riecheggiava, la folla in piedi, la corrente arkemica di “Corvo! Corvo!
Corvo! Corvo!” che danzava sulla sua pelle, ritirandola su con quell’ondata
di euforia. Sangue sulle sue mani. Sangue sulla sua lingua.
Furian morto sulla pietra davanti a lei.
Chinò il capo. Ansimò. Il respiro le bruciava nei polmoni. Era piena e
vuota allo stesso tempo. Trionfante. Tutte le miglia, tutti gli anni, tutto il
dolore, e ce l’aveva fatta.
Aveva vinto.
Ma qualcosa…
… qualcosa era diverso.
E abbassando lo sguardo, vide la sua ombra, ora immobile come una
gora, addensata sulla pietra macchiata di sangue sotto di lei.
Abbastanza scura per quattro.

a. Famigerato scontro avvenuto nei primi anni della Repubblica, e probabilmente la più vasta
battaglia navale mai combattuta sotto i tre soli. La Battaglia di Seawall coinvolse quattro flotte
numerose: la Marina itreyana, sotto il comando del Grande Unificatore, Francisco I, e una flotta
inviata come tributo dallo Stato vassallo di Vaan si scontrarono con navi dei clan dweymeri sotto
il comando di Bara Danzasole del clan Tredrachi e una flottiglia di signori dei pirati che avevano
giurato di opporsi al dominio itreyano dei mari.
Come potreste aver indovinato, la loro resistenza durò quanto una bottiglia di aureovino di
prima qualità in un bordello pieno di teste di cazzo.
CAPITOLO 35
ANDATO

Leona urlò con gli altri, il cuore in gola. Qualcosa tra esultanza e agonia,
mentre osservava Furian crollare e il Corvo cadere in ginocchio sopra il suo
cadavere, trionfante. Lei ce l’aveva fatta. Aveva vinto. Una vittoria per il
Collegio Remus. Tutti i sogni di Leona realizzati. Tutti i suoi sacrifici
giustificati.
Ma il pugnale che il Corvo aveva usato durante il magni era sbagliato.
Ciò voleva dire che lo scontro delle esecuzioni…
«Mea Domina, un calice?»
Leona guardò con aria sorpresa uno schiavo che si era materializzato
accanto a lei. Un vecchio con un vassoio d’argento, coppe e una bottiglia di
aureovino di prima qualità. Era uno di una dozzina di servitori che si
aggiravano per i palchi dei sanguila, offrendo ai maestri del sangue bevande
fresche mentre quelli si alzavano per tributare a Leona un applauso
riluttante. Il magni era stato un combattimento duro, ma era stato
straordinario, ed era il momento perché gli uomini che ne traevano
maggiori benefici onorassero i giochi e il loro vincitore con un tradizionale
e meritato brindisi.
Il marchio circolare del vecchio sembrava recente, un tantino troppo
scuro sulla guancia. I suoi occhi azzurri scintillavano come rasoi e qualcosa
in lui mise Leona decisamente a disagio. Guardò il calice che le porgeva e
scosse il capo.
«No» mormorò. «Grazie.»
Leona spostò di nuovo gli occhi al cuore dell’arena e vide il Corvo in
piedi in mezzo alla carneficina. La ragazza sollevò in alto il suo gladio
insanguinato e la folla esultò. Tutti erano in piedi: dai ministri della Chiesa
di Aa alla gente comune, su fino al palco del console. Scaeva stesso era in
piedi, con il figlioletto sulle spalle, acclamando entusiasta.
Nessuno di loro riusciva a vedere?
Erano tutti ciechi?
«Mea Domina?» chiese di nuovo il vecchio.
«Ho detto di no» sbottò Leona. «Non ho sete, vattene!»
«Non vi sto suggerendo di bere, domina» disse lui, mettendole a forza un
calice tra le mani.
La domina ringhiò, pronta a redarguire il vecchio sciocco per la sua
temerarietà. Ma poi notò l’annata sulla bottiglia. Un’etichetta che riconobbe
dalla sua fanciullezza, il ricordo inciso a fuoco nella sua memoria. Quella
bottiglia stretta nella mano di suo padre, il sangue che schizzava rosso
mentre sua madre urlava.
«Albari» sussurrò lei. «Il settantaquattro.»
«Davvero una bottiglia eccellente» replicò il vecchio.
«Vattene!» sbottò la magistrae. «Prima che ti faccia picchiare per la tua
impertinenza.»
Il vecchio si voltò verso la magistrae e la fissò con i suoi occhi azzurro
ghiaccio. Spinse il suo vassoio carico nelle braccia della donna mentre lei si
infuriava e, infilando una mano nella tunica, tirò fuori un costoso sigaretto
ai chiodi di garofano e se lo appoggiò sulle labbra.
«Sapete,» ringhiò «esiste un posto speciale nell’Abisso riservato per
coloro che uccidono le ragazzine.»
Il cuore di Leona si fermò. Guardò in direzione di Anthea, poi di suo
padre. Non era mai stato tipo da sprecare un’ottima annata: l’uomo stava
alzando il suo calice di Albari settantaquattro con gli altri, gli scintillanti
occhi azzurri fissi su sua figlia mentre lui e i suoi colleghi bevevano a
fondo. Forse pensava che fosse un caso. Forse semplicemente non gliene
importava. Ma dopo che ebbe bevuto a fondo dalla sua coppa, guardò sua
figlia e le regalò un sorriso cupo.
Leona fissò il calice che il vecchio le aveva dato. Una sottile striscia di
pergamena si annidava sul fondo, cinque parole scritte con inchiostro nero.
TUTTI I RINGRAZIAMENTI CHE POSSO.
Sotto di essa, Leona vide lo schizzo di un corvo in volo sopra due spade
incrociate.
L’emblema della Familia Corvere.
Leona alzò lo sguardo negli occhi del vecchio. I suoi erano sgranati, ora
che capiva. Il vecchio tirò fuori un acciarino, si accese il sigaretto e inalò a
fondo.
«Nel caso lo rivogliate, troverete Arkades a Blackbridge» disse lui. «Io
non tornerei a Crow’s Nest se avete a cuore il vostro grazioso collo. Vi
porteranno via tutto. La vostra casa. Il vostro collegio. La vostra ricchezza.
E dovrete lasciarvi il vostro nome alle spalle. Ma avrete ancora la vostra
vita, se ve ne andrete ora. Questo è tutto ciò che è stata disposta a lasciarvi,
temo.»
Il vecchio lanciò un’altra occhiataccia ad Anthea, poi si voltò e si
allontanò, attraverso i palchi dei sanguila e poi giù per le scale. Leona
guardò di nuovo verso suo padre, poi si voltò in direzione della sua
magistrae. Nelle narici aveva l’odore di una pira funebre. Nelle orecchie le
riecheggiava la voce del Corvo.
Guardate quelli più vicini a voi…
«Devo usare il bagno» disse. «Mi sento male.»
«Ma, Dominatii…» interloquì la magistrae. «I vostri onori? Vi saranno
presen…»
«… Ci metterò solo un attimo. Aspettami qui finché non torno.»
La magistrae si accigliò, ma le rivolse un inchino profondo. «Il vostro
sussurro, la mia volontà.»
Leona annuì alle sue guardie della casa, raccolse il suo abito e cominciò
a salire le scale. Si fermò per voltarsi di nuovo verso la sua magistrae.
«Oh, e… Anthea?» annuì verso il vassoio tra le braccia della donna.
«Versati qualcosa da bere mentre io sono via.»
«Sì, Dominatii» si accigliò la donna. «… Grazie, Dominatii.»
«Di nulla» replicò Leona, voltandole le spalle. «Credo che tu te lo sia
meritato.»

“Pazienza.”
Mia si trovava sul piedistallo centrale, salda come la pietra attorno a lei.
Il ricordo di quell’unico globo che emetteva luce soffusa nei cieli era inciso
nella sua mente. Quella voce le riecheggiava nel cranio. Malgrado i tre soli
che ardevano là sopra, la sua stretta sulla tenebra le sembrava più forte ora
che Furian era morto. Più profonda, più ricca in qualche modo, con l’ombra
ai suoi piedi che si increspava, si muoveva, trasudava sul lastricato verso…
“Scaeva.
“Duomo.”
«… ARRIVANO …»
«… che spirito d’osservazione…»
Lei riusciva a vederli scendere verso il bordo dell’arena. La folla attorno
a loro si separava come un mare davanti all’onda di Luminatii che li
precedevano. Mia udì un gemito mekana e le acque infestate di drachi
ribollirono quando una grande arcata di pietra affiorò dal suolo dell’arena.
Acqua marina colava dai lati e quella scivolò al suo posto, formando un
ampio ponte dal bordo dell’arena al piedistallo centrale. Su un lato c’era
Scaeva, con il figlioletto sulle spalle, tre dita sollevate per benedire la folla
adorante.
«… porta il ragazzo…»
«… E ALLORA? LUI NON HA AVUTO PROBLEMI A UCCIDERE IL PADRE DI MIA
DI FRONTE A LEI …»
«… che sete di sangue, caro cagnaccio…»
«… PREPARATI, BASTARDO. È IL MOMENTO CHE IL GIOVANE LUCIUS IMPARI
LE DURE REALTÀ DELLA VITA …»
Mia fissò gli occhi su Scaeva nella sua ricca toga porpora, Duomo dietro
di lui con le sue vesti da cardinale rosso sangue. Mentre osservava, mezza
dozzina di attendenti tolsero il bastone dalle mani del cardinale e gli
levarono i paramenti. Lì sotto, quel gran sant’uomo era abbigliato con una
sottoveste fatta come un saio liso, a piedi scalzi. Si tolse gli anelli, i
bracciali dorati e, infine, la Trinità benedetta di Aa che gli pendeva attorno
al collo.
Si era spogliato di tutto.
L’uomo più santo della Repubblica. La Mano di Dio in persona, ridotto a
un mendicante, proprio come lo era stato il Padre della Luce nella vecchia
parabola in cui aveva donato la libertà allo schiavo generoso. E presto il
campione del magni avrebbe conosciuto quella stessa libertà, concessa dalla
voce del Semprevigile su questa terra.
Ma prima giunsero i Luminatii e uno stormo di attendenti dell’arena.
Marciando per quel ponte di pietra, con i drachitempesta grassi e sazi lì
sotto. Un’intera centuria di soldati, vestiti con armatura di necrosso, le loro
lame di solacciaio increspate della fiamma sacra. Raggiunte le
fortificazioni, circondarono Mia mentre gli attendenti si mettevano al
lavoro, gettando i corpi dei gladiatii uccisi giù dai bastioni, nelle acque
ribollenti lì sotto. Lei riservò un’occhiata al corpo di Furian, osservandolo
ruzzolare e poi finire in quell’azzurro con un tonfo, l’oscurità ai suoi piedi
che si increspava. Un centurione Luminatii si mise davanti a Mia e allungò
una mano senza parlare, lanciando un’occhiata al suo gladio insanguinato.
Mia consegnò la lama senza esitazioni.
Mentre la folla cantilenava ed esultava, gli attendenti si affrettarono a
lavar via il sangue, poi raccolsero le armi cadute e le gettarono in acqua
accanto ai cadaveri dei loro possessori, quindi si precipitarono di nuovo
dall’altra parte del ponte. Mia rimase lì circondata da Luminatii, che la
attorniavano da ogni lato, cento contro una.
«In ginocchio, schiava» ordinò il centurione.
Mia fece come ordinato, ginocchio e nocche premuti contro la pietra, il
capo chino.
Il suo pugnale di necrosso era di nuovo nascosto dentro il bracciale di
ferro che aveva al polso.
Squillarono le trombe. La processione cominciò, Duomo per primo, le
ampie spalle dritte, la barba ispida, tre dita sollevate mentre marciava lungo
il ponte circondato da altri legionari. Poi veniva Scaeva, salutando la folla
festante, suo figlio sopra le spalle che teneva in mano il serto dorato del
vincitore. Mia tenne la testa bassa, guardando torvo attraverso le ciglia
mentre il cardinale si avvicinava e i Luminatii attorno a lei si aprivano per
lasciarlo passare.
Duomo si fermò davanti a lei, guardandola con un sorriso gentile. Erano
passati anni dall’ultima volta che l’aveva vista. Lei aveva un nuovo volto e
nuove cicatrici da mostrare. Ma alzando lo sguardo nei suoi occhi, cercò di
capire se la riconosceva. Un qualche sentore che si fosse accorto di chi era
la persona inginocchiata davanti a lui. Qualche ammissione di tutte le sue
colpe.
Nulla.
“Non mi conosce nemmeno.”
Avanzarono altri Luminatii dietro cui marciava Scaeva, prendendosela
comoda. Salutando la folla assieme a suo figlio. E mentre lui e il suo
seguito si avvicinavano sempre di più, sopra le farfalle ostinate che le
svolazzavano nello stomaco, Mia la percepì. Una sensazione ormai
familiare.
Fame.
“Desiderio.”
La brama di un rompicapo che cercava un pezzo di se stesso.
“Denti della Mannaia…”
Sgranò gli occhi. Aveva la bocca secca come cenere.
“Qualcuno qui è tenebris…”
Cercò tra i soldati, ma non percepì alcuna traccia di fame. Con il cuore
che palpitava, guardò Duomo, ma no… sarebbe stato impossibile. L’aveva
visto maneggiare una Trinità benedetta: se fosse stato un tenebris, gli
emblemi santificati di Aa l’avrebbero respinto, proprio come lei…
Oh, Madre Nera…
“… Scaeva?”
Ebbe un tuffo allo stomaco. Sgranò gli occhi. Ma di nuovo, l’aveva visto
durante il verobuio in cui aveva attaccato la Basilica Grande. Lì tra le
panche della santa casa di Aa, senza nessun effetto negativo tra i fedeli del
Padre della Luce o i suoi simboli benedetti. Ma…
Oh, Madre Nera…
“Il ragazzo…”
Il figlio di Scaeva.
Lei lo guardò e scoprì che la stava osservando a sua volta, la fronte
aggrottata dalla perplessità. Era scuro di capelli, scuro di occhi, proprio
come lei. E mentre lo stomaco di Mia affondava verso i suoi piedi, sul volto
del ragazzo, nella linea delle sue guance o forse nella forma delle sue
labbra, lei vide…
“Luminus Invicta, eretica” disse Remus. “Porterò a tuo fratello i tuoi
saluti.”
… lei capì.
“Hai già ciò che è tuo” disse Alinne. “La tua vittoria vuota. La tua
preziosa Repubblica. Spero che ti tenga al caldo la notte.”
Il console Julius abbassò lo sguardo su Mia, il suo sorriso scuro come
lividi. “Ti piacerebbe sapere cosa mi tiene al caldo la notte, piccolina?”
No…
Mia sbatté le palpebre al buio. I suoi occhi perlustrarono la cella.
“Madre, dov’è Jonnen?”
Domina Corvere articolò parole prive di forma. Si artigliò la pelle e
conficcò le mani tra i capelli aggrovigliati. Digrignò i denti e chiuse gli
occhi quando le colarono lacrime lungo le guance.
“Andato” mormorò. “Con suo padre. Andato.”
Non “morto”.
Solo “andato”.
Con suo…
… no.
“Oh, madre, ti prego, no…”
«Padre» disse il ragazzo sulle spalle di Scaeva.
«Sì, figlio mio?» replicò il console.
Il bambino strinse gli occhi neri come l’inchiostro. Guardò dritto Mia.
«Ho fame…»
Mia voltò gli occhi sulla pietra. Ora il suo cuore stava martellando,
malgrado tutti gli sforzi di Messer Cortese ed Eclissi. Le pulsazioni
acceleravano sotto la sua pelle. Era un pensiero troppo repellente a cui
credere, troppo orrendo, troppo sconvolgente, ma lanciando una nuova
occhiata alla faccia dal ragazzo, lo vide. La forma degli occhi di sua madre.
La curvatura delle sue labbra. Ricordi del neonato con cui aveva giocato da
bambina, sei anni e una vita fa, inondarono di nuovo la sua mente e
minacciarono di uscirle dalla gola in un urlo.
“Jonnen.
“O dolce, piccolo Jonnen.
“Mio fratello è vivo…”
La sua mente correva. Il cuore palpitava. Il sudore bruciava. Mia strinse
le mani a pugno e premette le nocche contro la pietra mentre il cardinale
Duomo si metteva davanti a lei e spalancava le braccia, la faccia rivolta al
cielo.
“Pazienza.”
«Padre della Luce!» disse a gran voce Duomo. «Creatore di fuoco,
acqua, tempesta e terra! Ti chiamiamo a fare da testimone, in questa tua
santa festa! Per diritto di combattimento e sfida davanti ai tuoi occhi che
tutto vedono, nominiamo questa schiava una donna libera, e ti prego di
concederle l’onore della tua grazia! Alzati e pronuncia il tuo nome,
bambina, affinché tutti possano conoscere il nostro vincitore!»
“Pazienza.”
«Corvo!» tuonò la folla. «CORVO!»
Il nome riecheggiò sulle pareti dell’arena.
Riverbero.
Ammonimento.
Benedizione.
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
La ragazza si alzò lentamente, ergendosi come una montagna sotto quei
soli ardenti.
«Il mio nome è Mia» disse piano.
La sua mano scivolò verso la lama di necrosso al polso.
«Mia Corvere.»
Duomo sgranò gli occhi. Scaeva increspò la fronte. La lama fischiò
lungo il tragitto, tagliando la gola del cardinale da un orecchio sanguinante
all’altro. Lui barcollò all’indietro, sangue scuro che zampillava dalla ferita,
le dita alla carotide e alla giugulare tranciate. Lo spruzzo la colpì in faccia,
denso e rosso, caldo sulle sue labbra mentre lei si muoveva, mentre i
Luminatii si muovevano, mentre tutto attorno a lei si muoveva. La folla urlò
inorridita. Il cardinale crollò sulla pietra. I Luminatii lanciarono un grido e
sollevarono le lame. E la ragazza. La Lama. La gladiatii. La figlia di una
casa assassinata, di una ribellione fallita, vincitrice del più grande
passatempo di sangue che la Repubblica avesse mai visto… caricò.
Dritto verso Julius Scaeva.
La paura fece sbiancare le sue fattezze attraenti, i suoi occhi scuri
strabuzzati dall’orrore. I Luminatii si mossero per intercettarla, ma lei era
veloce come ombre, affilata come rasoi, dura come acciaio. Scaeva lanciò
un urlo, sollevando dalle spalle il ragazzino, che aveva gli occhi sgranati
per la paura. E mentre a Mia si girava lo stomaco, il console protese suo
figlio come uno scudo e poi, codardo tra i codardi, lo lanciò contro la faccia
della ragazza.
Lei urlò e allungò la mano, il ragazzino che agitava le mani in volo. Il
mondo rallentò, i soli le battevano sulla schiena, il calore di fiamme di
solacciaio si diffondeva sulla sua pelle come un’onda. Mia afferrò il
ragazzo e lo tenne stretto nel braccio libero, tirandolo vicino. Poi,
sollevandosi in punta di piedi, piroettò come un ballerino, i lunghi capelli
scuri che sventolavano e il braccio proteso in un arco scintillante.
Perfezione.
La sua lama affondò nel petto di Scaeva, penetrando fino all’elsa. Il
console emise un rantolo e sgranò gli occhi. Il volto di Mia si contorse e il
tessuto cicatriziale le tirò la guancia, l’odio come un acido nelle sue vene.
Tutte le miglia, tutti gli anni, tutto il dolore si fusero nei muscoli del suo
braccio, tesi con forza mentre trascinava la lama da un lato, spaccandogli le
costole e tagliando il suo cuore in due. Lasciò la lama di necrosso che
fremeva nel suo petto, il corvo sull’elsa che sorrideva con i suoi occhi
d’ambra, sangue scuro che zampillava dalla ferita. E con il ragazzo stretto
al petto, ancora piroettando come in una danza, come in un quadro, si torse
all’indietro, oltre il bordo delle fortificazioni.
E cadde.
Nei cambi a venire, i momenti successivi sarebbero stati l’argomento di
innumerevoli racconti da taverna, dibattiti durante la cena e risse da osteria
per tutta la città di Godsgrave.
La confusione si verificò per diversi motivi. Per prima cosa, fu circa in
questo momento che la magistrae, Leonides, Tacitus, Phillipi e praticamente
qualunque altro sanguila ed executus nei palchi a bordo arena cominciarono
a vomitare sangue per l’aureovino avvelenato che avevano bevuto, cosa che
provocò una certa distrazione. Il piedistallo centrale si trovava a una certa
distanza perfino dai posti in prima fila, perciò per molti del pubblico
risultava difficile vedere. E ultimo e più importante, il Gran cardinale e il
console erano stati appena ammazzati brutalmente dal campione del magni,
cosa che lasciò tutti quanti gli spettatori alquanto stupefatti.
Alcuni dicevano che la giovane fosse caduta con il ragazzo tra le braccia
proprio nella bocca di un dracotempesta affamato. Altri dicevano che era
finita in acqua, ma aveva evitato i drachi, fuggendo attraverso le tubature
che avevano ricreato l’oceano sul suolo dell’arena. E poi c’erano quelli –
presi per pazzi o ubriachi, per la maggior parte – che giuravano sul
Semprevigile e tutte e quattro le sue Sante Figlie che questo fuscello di
ragazza, questo demone avvolto in cuoio e acciaio che aveva appena
assassinato le due personalità più importanti della Repubblica, fosse
semplicemente scomparsa. Un momento stava cadendo verso l’acqua
nell’ombra lunga dei bastioni, quello dopo era completamente svanita.
L’arena era in preda a tumulto, furia, sgomento, terrore. I maestri del
sangue crollarono sulle loro sedie o caddero a terra, Leonides e la magistrae
morti in mezzo a loro, ogni stalla di gladiatii della Repubblica decapitata
con un unico colpo. Duomo giaceva sulle fortificazioni, il volto esangue, la
gola tagliata fino all’osso. E accanto al Gran cardinale, la sua veste porpora
zuppa di scuro sangue arterioso, giaceva il salvatore della Repubblica.
Julius Scaeva, il Senatore del Popolo, l’uomo che aveva sconfitto gli
Incoronatori e permesso a Itreya di scampare alla calamità, era stato
assassinato.
CAPITOLO 36
GODSGRAVE

Ashlinn si muoveva furtiva per la città di ponti e ossa come un coltello


attraverso il petto di un console. I suoni del panico crescevano nell’arena
alle loro spalle e il cuore della ragazza cantò quando tutte le cattedrali della
città cominciarono a scampanare a morto.
«Madre Nera, ce l’ha fatta.»
Si morse il labbro, trattenendo un sogghigno feroce.
«Ce l’ha fatta.»
Ash si mosse più veloce, sopra canali e per le arterie contorte del
distretto midollano. I tre soli splendevano in cielo, il calore implacabile, il
sudore che la inzuppava. Si sarebbe fermata per un attimo di fiato, ma la
verità era che non aveva tempo di respirare. Dai suoni caotici che si
levavano dall’arena lontana, la notizia della morte di Scaeva si stava
diffondendo per la città come un incendio. Presto la Chiesa Rossa avrebbe
saputo che i loro amati clienti erano morti, e tutta la furia degli accoliti della
Nostra Signora dell’omicidio benedetto sarebbe piovuta sulle loro teste.
Doveva incontrare Mercurio alla necropoli, poi Mia al porto. Da lì,
potevano darsi alla macchia dove nessuna Lama o nessun membro del Culto
li avrebbe trovati. Allora si sarebbe potuta riposare. Avrebbe potuto
respirare. Affondare tra le braccia di Mia e non lasciarla andare mai più.
Ashlinn si fece strada all’ombra delle Costole, sopra un ampio ponte di
marmo fino al Braccio della Spada. L’aria si stava riempiendo lentamente
del canto di rintocchi di campane, urla di smarrimento che riecheggiavano
per la città alle sue spalle. Un ragazzino le passò accanto di corsa, gli occhi
sgranati, agitando il cappello e urlando con voce acuta.
«Il console e il cardinale uccisi!»
«Assassinio!» giunse un altro grido distante. «Assassinio!»
Ash raggiunse le recinzioni in ferro battuto che circondavano le case dei
morti di Godsgrave. Scivolando attraverso gli alti cancelli, si diresse fino a
una porta su cui era intagliato un bassorilievo di teschi umani, poi scese tra
le ombre umide della necropoli. Rapida e silenziosa, avanzò furtiva tra i
cunicoli contorti di femori e costole, fino alla tomba di un senatore
dimenticato da tempo. Tirò una piccola leva per rivelare una porta nascosta
in un cumulo di ossa polverose, infine sgattaiolò nei corridoi della Cappella
della Chiesa Rossa.
Oscurità.
Silenzio.
Finalmente al sicuro.
Corse nella camera disadorna di Mia, raccolse uno zainetto di cuoio e la
preziosa spada lunga di necrosso della ragazza. Gli occhi del corvo sull’elsa
scintillarono rossi nella luce fioca e Ash riservò un’occhiata al letto vuoto,
alle pareti vuote, al buio vuoto. Voltando i tacchi, corse di nuovo lungo il
corridoio fino all’ufficio di Mercurio.
«Sei pronto a…»
Il cuore di Ashlinn si fermò nel petto. Seduta dietro la scrivania di
Mercurio, con i polpastrelli congiunti sotto il mento, c’era una donna
anziana con capelli grigi e ricci. Sembrava una persona gentile, con occhi
scintillanti mentre squadrava Ashlinn. Anche se era seduta sulla sedia del
vescovo, non sarebbe sembrata fuori posto presso un focolare scoppiettante,
con dei nipotini sul ginocchio e una tazza di tè accanto al gomito.
«Reverenda madre Drusilla» mormorò Ashlinn.
«Oh, no, giovane Domina Järnheim» disse l’anziana. «Non sono più
Reverenda madre da quando il tuo tradimento ha portato all’uccisione di
lord Cassius. Ora sono Signora delle Lame.»
Ashlinn si guardò attorno per la stanza. Altre quattro figure, ammantate
di oscurità: l’intero Culto della Chiesa Rossa, lì ad aspettarla. Aalea con il
suo sguardo nero come la morte e le labbra rosso sangue. Ammazzaragni,
arcigna in un abito verde smeraldo. Mouser con i suoi occhi da vecchio e il
suo sorriso da giovane. E infine Solis, lo sguardo cieco rivolto al soffitto,
ma che la fissava torvo comunque.
Ashlinn serrò la stretta sulla spada di necrosso di Mia.
«… Dov’è Mercurio?» domandò.
«Il vescovo di Godsgrave è già tornato alla Montagna Silente» disse
Solis.
«Ha opposto qualche resistenza» intervenne Mouser. «Temo che
abbiamo dovuto fargli del male.»
Ammazzaragni guardò Ashlinn con occhi neri scintillanti. «Ci sono
alcuni tra noi che sperano ardentemente di poter dire lo stesso di te,
bambina.»
«Per favore» disse Drusilla gesticolando verso la sedia di fronte a lei.
«Siediti.»
«O cosa?» disse Ashlinn, sempre più arrabbiata. «Non puoi uccidermi
come hai ucciso mio padre, vecchia puttana. La mappa è marchiata sulla
mia pelle. Se io muoio, sarà perduta per sempre.»
«Per favore, siediti, Domina Järnheim» disse una voce.
Un uomo uscì dalla camera da letto di Mercurio e la pancia di Ashlinn si
riempì di ghiaccio gelido. Era alto, terribilmente bello, i capelli scuri striati
da minime righe di grigio. Indossava una toga lunga di un porpora intenso e
un alloro dorato sulla fronte.
«No…» sussurrò Ashlinn.
«Se ti volessimo morta, lo saresti stata tempo fa» disse il console Scaeva.
«Perciò siediti, per favore, prima che siamo costretti a fare ricorso a…
metodi sgradevoli.»
«Tu sei morto» mormorò Ashlinn. «So che sei morto…»
«No» disse Scaeva. «Anche se ammetto che la somiglianza era
prodigiosa.»
Ashlinn sgranò gli occhi quando comprese…
«La Tessitrice» sussurrò Ash. «Marielle. Ha dato a qualcun altro la tua
faccia.»
«Sei sempre stata una tipa sveglia, Ashlinn» sorrise Aalea.
«Spero che perdonerai la drammaticità che ne è conseguita» disse il
console Scaeva. «Ma tale sotterfugio è necessario, per un uomo che ha tanti
nemici come me.»
Ashlinn scrutò le loro facce, la sua mente che mulinava.
L’avevano saputo.
“Lo sapevano da tutto il fottuto tempo…
“Ma perché mai ci avrebbero lasciato…
“… A meno che volessero che noi…”
Come un rompicapo senza più pezzi mancanti.
Tutti quanti erano andati al loro posto.
«Volevi il cardinale Duomo morto» sussurrò lei. «Ma non potevi
semplicemente farlo uccidere alla Chiesa. Era protetto dalla Promessa
Scarlatta. Solo una Lama sarebbe stata abbastanza abile da eliminarlo… ma
doveva essere una Lama disposta a tradire il Culto. In questo modo, la
reputazione della Chiesa rimane intatta e tu puoi comunque vedere il tuo
nemico morto.»
«E quando mi rivelerò miracolosamente vivo ai cittadini adoranti di
Godsgrave…»
«… Quelli ti adoreranno ancora di più.»
«E a loro non resterà alcun dubbio che la Repubblica continui a essere in
pericolo.»
«Cosa che ti porterà a un quarto mandato come console…»
«Oh, no» disse Scaeva con un ampio sorriso. «Quell’alloro è già mio.
Ma l’assassinio brutale di un Gran cardinale di fronte all’intera capitale
nella festa più sacra di Aa? Dillo con me, giovane Domina Järnheim. Poteri.
Di emergenza. Perpetui.»
Ashlinn arricciò le labbra per deriderlo.
“L’arroganza di questo coglione…”
La ragazza gettò via il suo zaino con un disprezzo quasi casuale, poi si
lasciò cadere sulla sedia che le veniva offerta e mise i piedi sulla scrivania
di Mercurio, proprio davanti alla faccia di Drusilla. L’anziana la guardò
torvo, ma la lama di necrosso di Mia era ancora in mano ad Ash, le dita che
tamburellavano sull’elsa.
«Hai previsto tutto, eh?» chiese al console.
«Ho previsto abbastanza.»
«Tranne la parte in cui Mia ha rapito tuo figlio?»
Il sorriso scomparve lentamente dalle labbra di Scaeva.
«Quello è stato… spiacevole» disse il console, un muscolo che si
contraeva sulla sua mascella. «Al ragazzo non doveva essere permesso di
accompagnare il mio doppio alla presentazione. Mia moglie… lei non può
avere figli, vedi. Perciò si concede, forse troppo.» Le labbra di Scaeva si
arricciarono di nuovo in un sorriso, piccolo e letale. «Ma non ha
importanza. Ho l’amato insegnante. E ora ho l’amata. E per quanto lei sia
fredda, penso che nemmeno mia figlia farebbe del male al suo stesso
fratello.»
Il pavimento crollò sotto i piedi di Ashlinn.
«… Figlia?»
Ashlinn percepì un movimento alle sue spalle. Una rapida occhiata
mostrò un ragazzo esile e pallido, con straordinari occhi azzurri sulla soglia
della stanza, vestito con un farsetto di velluto scuro. Era muto come sempre,
ma il coltello che aveva tra le mani sembrava abbastanza affilato da tagliare
la soliluce in sei. L’ultima volta che lei l’aveva visto, era stato legato in
catene dai Luminatii, grazie al suo tradimento. Ci aveva scommesso che
fosse un tipo da portare rancore.
«Tutto bene, Zitto?» chiese Ashlinn.
Vide altre figure dietro di lui, accigliate, lo sguardo torvo… Lame, tutte
quante, senza dubbio.
«È ora di andare, Ashlinn» disse Drusilla.
«Oh, no» piagnucolò Ashlinn. «Non posso rimanere un altro po’ per
ascoltare il console gongolare? Mi piace così tanto sentire questo coglione
raccontarmi come ha pensato a tutto.»
«Non sei d’accordo, Domina Järnheim?» sorrise Scaeva.
«Temo che sia così, console Scaeva» gli sorrise Ashlinn a sua volta.
«Perché una persona che avesse pensato a tutto avrebbe potuto pensare di
guardare nel mio zaino prima che lo lasciassi cadere. E una persona che non
amasse così tanto la sua stessa fottuta voce avrebbe potuto udire la miccia
sulla bomba-lapide all’interno.»
Drusilla sgranò gli occhi. Ashlinn si gettò di lato quando il suo zaino
esplose con un boato assordante. Solis fu scagliato dall’altra parte della
stanza, andando a sbattere contro la parete. Il Culto rimase coinvolto nella
palla di fuoco arkemica. Zitto fu sbattuto fuori dalle porte della camera, il
suo farsetto in fiamme, le altre Lame gettate in giro come paglia.
Ashlinn si alzò e si mise a correre, le orecchie sanguinanti, i vestiti
fumanti, la testa confusa per lo scoppio. Con la spada di necrosso di Mia in
mano, scattò attraverso la necropoli con almeno tre Lame della Chiesa alle
calcagna. Correndo per il labirinto tortuoso, riuscì ad arrivare ai livelli
superiori e sbucò nel cimitero, con i soli che le picchiavano sulla schiena.
Doveva riuscire ad arrivare al porto, doveva…
Il pugnale la raggiunse dietro la coscia, raschiando l’osso. Lei urlò e
incespicò, graffiandosi palmi e ginocchia sulle pietre del selciato quando
colpì il terreno. A denti stretti, ruotò e strappò via il pugnale. Rialzandosi
barcollando, vide quattro Lame della Chiesa avanzare minacciose verso di
lei. Silenziose e torve, occhi scuri induriti come selce. Assassini, tutti
quanti. Ognuno una tempesta, senza alcuna pietà per chi stava per affogare.
Ashlinn sollevò la spada di necrosso di Mia.
Guardò tra gli assassini e mostrò un sorriso cupo.
«Immagino che dobbiate prendermi viva» sogghignò. «Mi scuso in
anticipo…»
«Già» disse la donna che li capeggiava. «Dispiace anche a noi.»
Ashlinn sbatté le palpebre. La sua vista ondeggiò. Il mondo ruotò.
Guardò il sangue sulle dita tremanti, che colava sulla sua coscia ferita, fino
al pugnale che l’aveva colpita, notando infine la scoloritura sull’acciaio.
“Veleno.”
«Suppongo che avrei dovuto aspettarmelo…» borbottò.
Un gelo si insinuò su di lei, scuro e vuoto. La sua pelle insanguinata si
accapponò. I soli ardevano alti nel cielo, ma qui nella necropoli le ombre
erano scure, quasi nere. Una sagoma si sollevò dietro le Lame, ammantata e
incappucciata, con in mano spade che potevano essere solo di necrosso.
Attaccò l’assassino più vicino, spiccandogli quasi la testa dalle spalle. Le
altre Lame si girarono rapide come mosche e sollevarono il loro acciaio, ma
la figura si mosse fulminea, colpendo con il suo necrosso una, due, tre
volte. E quasi più velocemente di quanto Ashlinn potesse sbattere le
palpebre, tutte e quattro le Lame erano morte e sanguinanti sul selciato.
«Denti della Mannaia» sussurrò lei.
Non era umano. Quello era evidente. Oh, aveva la forma di un uomo
sotto quel mantello: alto e con le spalle ampie. Ma le sue mani… ’bisso e
sangue, le mani avvolte attorno alle else delle spade erano nere. Tenebrose e
semitrasparenti, le dita attorcigliate attorno alle else come serpenti. Ashlinn
non riusciva a vedere la sua faccia, ma piccoli tentacoli si contorsero e si
agitarono dai recessi del suo cappuccio, tirandolo ancora più in basso sulle
sue fattezze. E anche se era veraluce, con tre soli che ardevano alti nel cielo,
il suo respiro si condensava in nuvolette bianche davanti alle labbra, e
l’intero corpo di Ash tremò per il gelo.
«… Chi sei?»
La cosa tirò indietro il cappuccio. Incarnato pallido. Salciocche che si
contorcevano come cose vive. Occhi vuoti e neri come la pece. Ma perfino
con il veleno che le scorreva nelle vene e tutto il mondo attorno a lei che si
dissolveva nel buio, Ashlinn avrebbe riconosciuto quel volto ovunque.
«SALVE , ASHLINN » disse lui.
«’Bisso e sangue» mormorò lei.
L’oscurità la avvolse.
«… Tric?»
DICTA ULTIMA

No.
Vi sento dire quella parola mentre sono seduto nella stanza accanto a
voi. Vi vedo, chini sul tomo che avete in mano con la fronte accigliata e
un’imprecazione sulle labbra, come se fossi addensato nell’ombra ai vostri
piedi. La consapevolezza che non ci sono altre pagine ora sta attecchendo.
La sento. La vedo.
No, dite di nuovo.
Cosa accade a Mia e Jonnen? A Scaeva? A Mercurio, Ashlinn e Tric? E
i segreti dei tenebris? La Corona della Luna? Ho promesso rovine nella sua
scia. Luce pallida che scintilla sulle acque che hanno inghiottito una città
di ponti e ossa. Tutte queste domande non hanno ancora risposta, eppure il
libro è arrivato alla sua conclusione?
No, dite voi. Non può finire così.
Non temete, piccoli mortali. La canzone non è stata ancora cantata.
Questo è solo il silenzio prima del crescendo. Questo racconto è solo il
secondo di tre.
Nascita, vita e morte.
Perciò pazienza, gentili amici.
Pazienza.
Chiudete gli occhi.
Prendete la mia mano.
E camminate con me.
RINGRAZIAMENTI

Ringraziamenti profondi come la tenebra vanno alle persone seguenti:


Amanda, Pete, Jennifer, Paul, Joseph, Hector, Young, Steven, Justin,
Rafal, Cheryl, Martin e tutti quanti alla St. Martin’s Press; Natasha, Katie,
Emma, Jaime, Dom e tutti quanti alla Harper Voyager UK; Rochelle, Alice,
Sarah, Andrea e tutti quanti alla Harper Australia; Mia, Matt, LT, Josh,
Tracey, Samantha, Stefanie, Steven, Steve, Jason, Kerby, Megasaurus,
Virginia, Vilma, Kat, Stef, Wendy, Marc, Molly, Tovo, Orrsome, Tsana,
Lewis, Shaheen, Soraya, Amie, Jessie, Caitie, Nic, Ursula, Louise, Tori,
Siân, Caz, Marie, Marc, Tina, Maxim, Zara, Ben, Clare, Jim, Rowie, Weez,
Sam, Eli, Rafe, AmberLouise, Caro, Melanie, Barbara, Judith, Rose, Tracy,
Aline, Louise, Adele, Jordi, Kylie, Iryna, Joe, Andrea, Piéra, Julius, Antony,
Antonio, Emily, Robin, Drew, William, China, David, Aaron, Terry (RIP),
Douglas (RIP), George, Margaret, Tracy, Ian, Steve, Gary, Mark, Tim, Matt,
George, Ludovico, Philip, Randy, Oli, Corey, Maynard, Zack, Pete (RIP),
Robb, Ian, Marcus, Tom (RIP), Trent, Winston, Andy (RIP), Tony, Kath,
Kylie, Nicole, Kurt, Jack, Max, Poppy e a ogni lettore, blogger, vlogger,
bookstagrammer e qualunque altra razza di amante di libri che ha
contribuito a diffondere la voce su questa serie.
Gli abitanti e la città di Roma.
Gli abitanti e la città di Venezia.
E a te.
CONTENUTO BONUS
Salve e benvenuti al contenuto bonus.
Quando le fantastiche persone di Barnes & Noble hanno deciso di
pubblicare un’edizione esclusiva dei Grandi giochi, hanno chiesto se avessi
qualche scena tagliata che potevano includere per rendere la loro edizione
ancora più sgargiante. Ora, la buona notizia è che ogni scrittore ha un
cassetto in fondo, pieno di scene tagliate. La cattiva notizia è che esiste un
motivo per cui quelle scene vengono tagliate, ovvero che di solito sono
dannatamente orrende.
Ma il caso ha voluto che avessi una scena tagliata che mi piaceva
abbastanza.
È l’ora di una confessione: so che non bisognerebbe mai mostrare alle
persone come si fanno le salsicce, ma la tremenda verità è che di solito io
comincio a scrivere i miei libri nel posto sbagliato. Una volta buttai giù
ottantamila parole prima di rendermene conto. Storia vera.
Scrissi un primo capitolo per I grandi giochi nel 2014, con una visione
chiara di come il libro si sarebbe svolto. L’idea era che Mia avrebbe
cominciato il romanzo sotto copertura, restando in attesa che Ashlinn
Järnheim o suo padre contattassero un vecchio alleato, ma un bucaniere
benintenzionato avrebbe fatto saltare il suo piano. Quando però mi misi a
lavorare al libro sul serio, il progetto del romanzo era cambiato totalmente e
il primo capitolo non c’entrava più nulla.
Tuttavia mi piaceva. Ci avevo lavorato sodo. E ora voi potete leggerlo.
Ha pirati, duelli a fil di spada, scambi di battute sagaci e altre delle mie cose
preferite. I più osservatori tra voi potrebbero notare che ho perfino riciclato
alcune delle battute per il libro finale. E anche se era stato relegato nel
cassetto in fondo, spero comunque che lo troverete super-sgargiante.
Godetevelo.
Jay K
CAPITOLO 1
DAMIGELLA

Non era il nome che sua madre gli aveva donato, ma per gli amici, come
per i nemici, era noto come la Tempesta di Galante. E stava passando
un’illuminotte bastarda.
Il suo fioretto di acciaio liisiano, che aveva mandato al Focolare più di
una dozzina di uomini, ora era pesante nella sua stretta. Lo stiletto dorato
nella mano debole scintillava alla luce dei due soli ingrossati, giallo e rosso
luccicante. Tra pochi mesi sarebbe stata veraluce, e la Tempesta di Galante
non poteva fare a meno di desiderare che la figlia del conte Gunnar potesse
essersi fatta catturare in un periodo più fresco dell’anno.
Stava correndo il serio rischio di cominciare a sudare.
Le tre hüsguardie che lo stavano squadrando dai bastioni battuti dal
vento probabilmente conoscevano la Tempesta come reputazione, se non di
vista. Nei sette anni in cui la sua nave, la Fanciulla Insanguinata, aveva
solcato il Mare delle Stelle, la Tempesta aveva accumulato notorietà come
un deliziante del porto accumula pidocchi all’inguine. Era noto come uno
spadaccino senza pari, uno sfrontato libertino e uno spaccone in tutto e per
tutto. E anche se si guadagnava da vivere come corsaro, era comunque il
tipo di canaglia a cui piaceva assicurarsi che un tizio conoscesse il suo
nome prima di ammazzarlo a dovere.
«Sapete chi sono?» chiese alle guardie sollevando un sopracciglio.
«Sì» replicò quella più bassa.
«Sei la Tempesta di Galante» disse quella più rozza.
«Bravo, gentile amico. E sapete perché mi chiamano così?»
Le hüsguardie si scambiarono occhiate, scrollando le spalle.
«Permettetemi di dimostrarlo» sorrise la Tempesta.
Osservandolo guizzare sui bastioni per infilzare la prima hüsguardia,
sarebbe stato facile credere che la Tempesta dovesse il suo soprannome al
braccio che reggeva la spada. Si muoveva proprio come la sua omonima, la
lama saettante come un fulmine. Il suo stivale incontrò l’inguine della
hüsguardia più bassa come un tuono, facendola cadere a terra uggiolando.
L’ultima guardia oppose una difesa valorosa con un’ascia da battaglia
affilata, ma con uno scatto del polso della Tempesta e un lampo brillante di
polvere arkemica, la guardia fu costretta a indietreggiare barcollando e il
fioretto della Tempesta segnò in rosso la nota di morte del poveretto.
La Tempesta guardò giù dai bastioni verso il cortile sottostante. Era
stato dato l’allarme nella fortezza, e presto sarebbero arrivate altre
hüsguardie. Kael Tre Occhi e Scrutavento stavano bloccando le scale
inferiori, ma presto i guai sarebbero stati alle calcagna della Tempesta.
Aveva solo pochi minuti prima di dover trasformare il suo salvataggio
audace in un’audace fuga, con la figlia del conte in mano oppure no. La
Tempesta aveva sperato che questo lavoro potesse essere portato a termine
con un po’ di fortuna e parecchia astuzia, ma con la fortezza di Brightstone
ora in piena allerta, lui e la sua allegra ciurmaglia avevano un’aspettativa
di vita più breve di una bottiglia di aureovino di prima qualità in un
bordello pieno di teste di cazzo.
«Ehi!» chiamò. «Scrutavento!»
Ora, mettendo da parte l’abilità nella scherma, alcuni dicevano che la
Tempesta prendesse il nome dalla sua voce: un baritono tonante e mellifluo.
Spesso, quando la Fanciulla Insanguinata navigava per il Mare delle Stelle,
la Tempesta se ne stava a prua, l’arpa in mano, e cantava. Le sue canzoni
erano così incantevoli che correva voce che perfino gli uomini-manta e i
mannari del profondo nuotassero su dagli abissi per ascoltare. Il vecchio
Pestapiedi giurava di aver visto perfino un aragolio piangere quando la
Tempesta aveva messo via la sua arpa.
«Scrutavento!» chiamò di nuovo la Tempesta.
Giù nel cortile, un imponente Dweymeri che stava sbudellando una
malcapitata hüsguardia si voltò. «Sì, capitano?»
«Il gioco è terminato! Dirigiti alla scialuppa!»
«E la ragazza?» urlò il suo primo ufficiale.
«Intendi la domina?» La Tempesta fece guizzare un sorriso fascinoso.
«Lasciala a me.»
«Ci sono un altro centinaio di questi bastardi, capitano. Non me ne
andrò…»
«E io non metterò a rischio le vostre vite senza bisogno! Vai, fratello! Se
non sono di ritorno a bordo entro mezz’ora, di’ a tua moglie che la amo.»
Il primo ufficiale imprecò, ma la lealtà della ciurma della Fanciulla era
incrollabile. La Tempesta di Galante non era il genere di capitano che se ne
stava alla timoniera e lasciava che fossero i suoi uomini a occuparsi del
combattimento, gentili amici. Quando la Fanciulla era stata ferma per la
bonaccia per sette settimane nel Mare dello Strazio, era stata la Tempesta a
privarsi delle razioni affinché i suoi uomini potessero mangiare. Quando
mezza dozzina di membri della ciurma erano stati catturati dai mercanti di
carne negli Stretti di Tsana, era stata la Tempesta che aveva guidato la
carica nelle fosse acquitrinose per liberarli. Più e più volte, il capitano
aveva sanguinato per i suoi uomini. I suoi ordini erano come la parola di
Aa in persona. E così Scrutavento e il resto della ciurma della Fanciulla
ripiegarono, facendosi strada combattendo fino alle mura per poi fuggire
nell’oceano sottostante.
La Tempesta si voltò dai bastioni e spalancò con un calcio la porta della
torre di Brightstone. La fortezza era annidata in cima a ostili dirupi lungo
la costa meridionale di Vaan, nota come l’Ossario. Avvicinarsi dalla
terraferma era possibile solo lungo un unico, stretto ponte levatoio,
sorvegliato dagli uomini migliori dello hüslaird Kussta. Avvicinarsi dal
mare era un azzardo ancora maggiore: la Tempesta e la sua banda ci
avevano messo quasi un cambio per arrampicarsi, e durante la salita
avevano perso tre dei loro uomini. Ora quelle dannate campane
sembravano voler terminare quello che l’Ossario aveva cominciato.
Incontrò un altro paio di hüsguardie sulle scale: sparò alla prima nella
gola con la sua balestra leggera e scagliò l’ultima delle sue polveri
arkemiche contro la seconda, abbattendola dopo che il lampo ebbe fatto
effetto. Ricaricando la balestra mentre scattava su per le scale, si ritrovò in
un lungo corridoio, percorso da ricchi tappeti rossi e impreziosito da un
elaborato specchio dorato. La Tempesta sbirciò giù per le scale in cerca di
inseguitori, poi, soddisfatto che non ne stesse arrivando nessuno, si fermò
per controllare il suo riflesso nello specchio.
Stava per liberare un’aristocratica, dopotutto.
Il corsaro era vestito tutto di nero: farsetto di cuoio e brache
sospettosamente strette macchiate di sangue. Occhi blu zaffiro scintillavano
sotto la tesa del suo tricorno piumato. Basette corte ricoprivano una
mascella su cui avresti potuto rompere una pala, e un sorriso perfetto
completava un ritratto che non solo faceva girare le teste ma arrivava a
rompere colli.
Qualcuno della sua ciurma diceva che avesse sedotto una delle
baphomantii e che avesse compiaciuto la demonessa così scrupolosamente
che lei gli aveva donato un volto che tutti avrebbero amato. Altri
sussurravano che avesse vinto una gara di indovinelli con un’abitante
dell’inframondo e le avesse rubato il fascino. Qualunque fosse la verità, il
primo ufficiale, Scrutavento, affermava che qui stesse l’origine del
nomignolo del suo capitano. Poiché si diceva che ovunque viaggiasse,
proprio come la sua omonima, la Tempesta lasciasse le rappresentanti del
gentil sesso piuttosto… umide nella sua scia. a
La Tempesta di Galante guardò il proprio riflesso.
Si aggiustò il polsino scompigliato su una manica nera.
E ammiccò.
Scattò lungo il corridoio, andando a sbattere contro alcuni servitori e
urlando scuse affrettate, poi corse su per altre scale, pensando di essersi
lasciato dietro i cadaveri degli ultimi uomini del laird. Finalmente
raggiunse il pianerottolo fuori dalla camera da letto principale della
fortezza, ma rimase deluso nello scoprire una dozzina di hüsguardie in
armatura di piastra pesante che lo aspettavano.
Quegli uomini erano ammassi di cicatrici e muscoli, armati di corti
infilzaporci a doppio filo e scudi rettangolari ricurvi. E per quanto lui
potesse essere bello, ciascuno di quei bastardi sembrava lieto della
prospettiva di piluccarsi i denti con lo scintillante fioretto di acciaio
liisiano della Tempesta, dopo aver mangiato il resto di lui per colazione.
La Tempesta slittò fino a fermarsi a venti piedi dalla folla.
«Buon cambio, gentili amici. Sapete chi sono?»
«Sì» disse un torreggiante ammasso di manzo. «Sei la moritura
Tempesta di Galante.»
«In persona» replicò la Tempesta, togliendosi il tricorno con un inchino.
«Ma sapete perché mi chiamano così?»
«Perché presto sarai morto?»
Quella massa avanzò, le asce sollevate. Apparentemente imperturbato,
la Tempesta mise una mano nel tricorno che si era levato e tirò fuori un
bulbo di vetro lucidato. Con uno schiocco delle dita, gettò il bulbo in mezzo
al gruppo, rimettendosi in testa il cappello prima di tuffarsi giù per le scale
da cui era salito di gran carriera.
Fiamme bianche bruciacchiarono le pareti quando sbocciò
un’esplosione e un boato assordante squarciò il pianerottolo. Schegge di
vetro e l’occasionale pezzo di corpo non identificabile rimbalzarono giù per
le scale per atterrare fumanti ai piedi della Tempesta.
Il corsaro si scoprì le orecchie, si rialzò dalla posizione accucciata e
inclinò il cappello a un’angolazione elegante, poi balzò di nuovo sul
pianerottolo. Calpestando i resti tritati dei soldati scelti di Kustaa, la
Tempesta estrasse il suo fioretto e varcò la porta ora aperta della camera
da letto.
«Domina Astrid?» chiamò.
Le imposte erano chiuse, la stanza avvolta nell’oscurità. L’odore di
candele e carne troppo cotta aleggiava denso nell’aria. Fumo nero causato
dalla bomba arkemica fluttuava attorno alle spalle della Tempesta, la sua
sagoma che si stagliava contro l’azzurro estivo là fuori.
«Domina Astrid?»
«Bastardo!»
Un grido sottile squarciò l’aria quando un uomo si avventò contro la
Tempesta dall’oscurità. Il corsaro attaccò con la sua lama e udì un rantolo
di dolore. Afferrando il colletto del tizio, la Tempesta vide che il suo
avversario era vecchio e debole, abbigliato con una vestaglia rossa come il
sangue che ora gli zampillava dal petto.
«Laird Kustaa, presumo» mormorò la Tempesta.
«Come o-osi…» ansimò il laird.
«Oh, oso eccome, vecchio. Questa è la differenza tra me e molti altri.»
Il filibustiere lasciò andare la stretta e il laird crollò in ginocchio.
Kustaa si afferrò il petto e si mise a far diventare la pietra sotto di lui il più
rossa e appiccicosa possibile.
«Oh, no!»
Una figura in un sottile abito bianco attraversò la stanza a passo
incerto, inginocchiandosi al fianco del laird. Era poco più di una ragazza,
pallida come l’inverno e snella, con capelli scuri sciolti che le cadevano
fino in vita e una frangia netta sopra gli occhi. Fece rotolare Kustaa sulla
schiena e gli tolse la vestaglia per esaminare la ferita.
«Mio laird?» La ragazza scosse la spalla del vecchio. «Mio laird!»
«Domina Astrid?» chiese la Tempesta.
La ragazza lo guardò sbattendo gli occhi, i capelli attaccati come
ragnatele nere attorno alla faccia. Lui si accorse che era bellissima.
Labbra carnose color ciliegia e occhi dipinti di kajal, tanto neri da
affogarci dentro. La figlia di Gunnar Svärda era tenuta prigioniera a
Brightstone da oltre due mesi: solo Aa sapeva quali tormenti avesse patito
per mano di Kustaa. Ma quando lei si inginocchiò lì nella pozza sempre più
larga del sangue del laird, la Tempesta giurò che sembrasse quasi
dispiaciuta per la morte del vecchio bastardo.
Le porse la mano. «Mea Domina, sono venuto a salvarvi.»
Le orecchie della ragazza sanguinavano per l’onda d’urto della bomba
arkemica, poveretta. Le occorse un momento per afferrare le sue parole.
«… Salvarmi?»
«Sì, domina.» Si tolse il tricorno in un inchino perfetto. «Sapete chi
sono?»
La figlia di Gunnar tornò a guardare il corpo del laird morto. Ingobbì le
spalle mentre chinava il capo.
«Sì» sospirò. «So chi siete.»
La ragazza si alzò dal sangue.
Le ombre si incresparono ai suoi piedi mentre ringhiava.
«Un totale, fottutissimo coglione.»

a. Confesso che non so se amarlo oppure odiarlo.


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Nevernight. I grandi giochi


di Jay Kristoff
Copyright © 2017 by Neverafter PTY LTD
All rights reserved
Titolo originale dell’opera: Godsgrave
© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi ed eventi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore o usati in modo fittizio.
www.jaykristoff.com
Ebook ISBN 9788852096655

COPERTINA || PROGETTO GRAFICO: MICAELA ALCAINO | ©


HARPERCOLLINSPUBLISHERS LTD 2017 | ILLUSTRAZIONE © KERBY ROSANES E
IMMAGINI © SHUTTERSTOCK
INDICE

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
DRAMATIS PERSONAE
NEVERNIGHT. I GRANDI GIOCHI
LIBRO 1. LA PROMESSA SCARLATTA
CAPITOLO 1. PROFUMO
CAPITOLO 2. FUOCOMESSA
CAPITOLO 3. OMBRE
CAPITOLO 4. OFFERTA
CAPITOLO 5. DEVOZIONE
CAPITOLO 6. MORTALITÀ
CAPITOLO 7. BRAME
CAPITOLO 8. PREGHIERE
CAPITOLO 9. PASSI
CAPITOLO 10. SEGRETI
CAPITOLO 11. TUONO
CAPITOLO 12. EPIFANIA
LIBRO 2. SANGUE E GLORIA
CAPITOLO 13. USCITA
CAPITOLO 14. RESPIRARE
CAPITOLO 15. GIUSTO
CAPITOLO 16. MIELE
CAPITOLO 17. STORMWATCH
CAPITOLO 18. GLORIA
CAPITOLO 19. RESA
CAPITOLO 20. TRE
CAPITOLO 21. FAVORE
CAPITOLO 22. QUIETE
CAPITOLO 23. WHITEKEEP
CAPITOLO 24. OSSIDIANA
LIBRO 3. IL GIOCO
CAPITOLO 25. MARCIO
CAPITOLO 26. ARGENTO
CAPITOLO 27. DISTACCO
CAPITOLO 28. CICATRICI
CAPITOLO 29. INSURREZIONE
CAPITOLO 30. INTERLUDIO
CAPITOLO 31. VERALUCE
CAPITOLO 32. GENTILMENTE
CAPITOLO 33. INIZIO
CAPITOLO 34. MAGNI
CAPITOLO 35. ANDATO
CAPITOLO 36. GODSGRAVE
DICTA ULTIMA
RINGRAZIAMENTI
CONTENUTO BONUS
CAPITOLO 1. DAMIGELLA
Copyright

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