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Jay Kristoff è l’autore delle serie pluripremiate The Illuminae Files, Aurora Cycle
e Nevernight. Ha vinto due Aurelian Awards e un ABIA, è stato finalista ai premi
David Gemmell Morningstar e Legend ed è attualmente pubblicato in oltre 25 paesi
(ma nella maggior parte di questi non ha mai messo piede). È esterrefatto da tutto
ciò, tanto quanto voi. È alto più di due metri e gli mancano circa 13.030 giorni da
vivere.
Dimora a Melbourne con la moglie, agente segreto e assassina esperta di kung fu,
e il Jack Russell più pigro del mondo.
Non crede nel lieto fine.
Jay Kristoff
NEVERNIGHT
I grandi giochi
Mia Corvere – assassina, ladra ed eroina del nostro racconto, sempre che si
possa affermare che questa storia ne abbia una. Suo padre, Darius, fu
giustiziato per ordine del senato itreyano e, giurando vendetta, lei divenne
una discepola del culto di sicari più temuto della Repubblica: la Chiesa
Rossa.
Pur avendo fallito le prove della Chiesa, Mia fu iniziata come una Lama
(ovvero un’assassina) dopo aver liberato il Culto della Chiesa durante un
attacco portato dai legionari Luminatii.
Mia ha sangue misto itreyano-liisiano. È anche una tenebris, in grado di
controllare la tenebra stessa. Possiede una comprensione limitata dei suoi
poteri, e l’unico altro tenebris che abbia mai incontrato è morto prima di
poterle dare le risposte che lei bramava.
Tragico, lo so.
Tric – un accolito della Chiesa Rossa, nonché amico e amante di Mia. Tric
era di origini miste itreyana-dweymeri. Era in procinto di essere iniziato tra
le Lame, ma Ashlinn Järnheim gli inflisse diverse pugnalate al cuore e lo
gettò giù dal lato della Montagna Silente.
Per onorare una promessa fatta a Tric, Mia assassinò il nonno di Tric,
Spezzaspada, re delle Isole dweymeri, dopo la morte del ragazzo.
Cosa non molto ragionevole, se ci pensate…
Naev – una Mano (ovvero una discepola) della Chiesa Rossa e buona amica
di Mia, che gestisce i viaggi di approvvigionamento nelle desolate
Frusciaride di Ashkah. Naev fu sfigurata dalla Tessitrice Marielle per
gelosia, ma come ricompensa per l’aiuto di Mia durante l’attacco dei
Luminatii, Marielle ripristinò la sua originaria bellezza.
Naev non dimentica e non perdona, uno dei motivi per cui lei e Mia
vanno d’accordo.
Solis – Shahiid di Canti, istruttore degli accoliti della Chiesa Rossa nell’arte
dell’acciaio. Mia gli scalfì il volto durante la loro prima sessione di
addestramento. Per ritorsione, Solis le tranciò il braccio.
I loro rapporti vanno a meraviglia, come potete immaginare. a
Aalea – Shahiid di Maschere e signora dei segreti. Si dice che esistano solo
due tipi di persone a questo mondo: quelli che sono innamorati di Aalea e
quelli che non l’hanno ancora incontrata.
In effetti, pare che apprezzi Mia.
Sorprendente, vero?
Marielle – una dei due stregoni albini al servizio della Chiesa. Marielle è
maestra dell’antica magika ashkahi della tessitura della carne ed è capace di
scolpire pelle e muscoli come se fossero argilla. Ma il tributo che paga in
cambio del suo potere è elevato: la sua stessa carne ha un aspetto orrendo, e
lei non può fare nulla per cambiarlo.
A Marielle non importa di nessuno tranne di suo fratello Adonai, e lui
ricambia, forse fin troppo.
Adonai – il secondo stregone al servizio della Montagna Silente. Adonai è
un oratore del sangue, capace di manipolare la vitae umana. Grazie alle arti
di sua sorella, è dotato di una bellezza senza pari.
Anche se ricordo un detto su libri e copertine…
Zitto – già accolito della Chiesa Rossa, ora una Lama a pieno titolo. Zitto
non parla mai e comunica invece con una forma di linguaggio dei segni
nota come Senzalingua.
Il ragazzo itreyano ha aiutato Mia nelle sue prove finali, anche se insiste
che loro due non sono amici.
Tribuno Marcus Remus – già tribuno della legione dei Luminatii che
guidò l’attacco alla Montagna Silente. Durante il suo confronto finale con
Mia, Remus fece alcuni commenti criptici sul di lei fratellino Jonnen.
Mia pugnalò a morte l’Itreyano prima che potesse spiegarsi a dovere.
Lui non ne fu compiaciuto.
Alinne Corvere – madre di Mia. Pur essendo nata a Liis, Alinne conquistò
una posizione di rilievo nelle sale del potere itreyano. Era un genio politico,
e una domina molto stimata e dalla notevole forza di volontà. Imprigionata
nella Pietra Filosofale assieme al suo lattante dopo la fallita ribellione
guidata dal marito, morì pazza, circondata dallo squallore.
Sì, anche a me piaceva.
Tsana – Signora del fuoco, Colei che brucia il nostro peccato, la Pura,
protettrice di donne e guerrieri, primogenita di Aa e Niah.
Keph – Signora della terra, Colei che sempre dorme, il Focolare, protettrice
di sognatori e folli, secondogenita di Aa e Niah.
I GRANDI GIOCHI
La ragazza fu gettata nel carro più avanti con le altre donne e i bambini. La
gabbia in ferro arrugginito era alta sei piedi. Il pavimento era macchiato di
escrementi e la puzza di corpi sudati e alito pestilenziale era marcia quanto
quella dei cadaveri dei cammelli. Il tipo grosso di nome Graccus non era
stato gentile, ma si era attenuto alla parola del suo capitano, e quelle mani
avevano soltanto gettato lei a terra, chiuso la porta della gabbia e sigillato la
serratura.
La ragazza si raggomitolò sul pavimento. Percepì gli sguardi delle donne
attorno a lei, gli occhi curiosi di ragazzini e ragazzine. Le facevano male le
costole per i calci che aveva ricevuto; le lacrime che aveva pianto
tracciavano solchi tra il sangue e lo sporco sulle sue gote. Lottò per restare
calma. Gli occhi chiusi. Solo il respiro.
Infine avvertì mani gentili che la aiutavano ad alzarsi. La gabbia era
affollata, ma c’era abbastanza spazio da consentirle di sedersi in un angolo,
la schiena premuta forte contro le sbarre. Aprì gli occhi e vide un volto
giovane e amichevole, macchiato di sudiciume, gli occhi verdi.
«Conosci il liisiano?» chiese la donna.
La ragazza annuì senza parlare.
«Come ti chiami?»
La ragazza sussurrò tra labbra gonfie. «… Mia.»
«Quattro Figlie» borbottò la donna, scostandole i capelli dal volto.
«Come ha fatto una bambola graziosa come te a finire in un posto come
questo?»
La ragazza abbassò lo sguardo sull’ombra sotto di sé.
Poi di nuovo su in quegli occhi verdi scintillanti.
«Be’» sospirò. «È proprio questa la domanda, no?»
CAPITOLO 2
FUOCOMESSA
Re Francisco XV, sovrano assoluto di tutta Itreya, prese posto al limite del
palco. Era agghindato con farsetto e brache di un bianco immacolato, le
guance imbrattate di pittura rosa. Le gemme della sua corona scintillavano
mentre parlava, una mano sul petto.
«Cercai sempre di regnare in un modo saggio e giusto
Ma or devo genuflesso chinar il mio capo augusto
A baciar la terra nera e…»
«No!» giunse un urlo.
Tiberius il vecchio entrò dalla sinistra del palco, circondato dai suoi
cospiratori repubblicani. Un pugnale argenteo scintillò nella mano
dell’anziano, l’espressione decisa, gli occhi intensi. Senza una parola,
attraversò a lunghi passi il palco e affondò la lama in profondità nel petto
del suo monarca, una volta, due, tre. Il pubblico sussultò quando sangue
rosso vivido sprizzò, schizzando sulle assi lucide ai loro piedi. Re Francisco
si tenne stretto il cuore perforato e crollò in ginocchio. E, con un ultimo
gemito (un po’ esagerato, come disse poi qualcuno), chiuse gli occhi e
morì.
Tiberius il vecchio tenne sollevato il pugnale e pronunciò le sue ultime,
decisive battute.
«Sangue del cuor versato fu e ciò che dev’esser sia.
Nessun prezzo è troppo alto a osteggiar la tirannia.
E sappiate, cari amici, che la mano fu la mia,
Lordai la mia lama retta: che la libertà vi dia.»
Tiberius fece spaziare lo sguardo sul pubblico, il coltello insanguinato
tra le mani. E mentre si piegava in un inchino profondo, il sipario si chiuse
e pesante velluto rosso cadde sulla scena.
Gli ospiti applaudirono quando la musica crebbe per indicare che la
tragedia era terminata. Candelieri arkemici sul soffitto si illuminarono,
scacciando l’oscurità che aveva accompagnato l’ultimo atto. Gli applausi
si diffusero per la sala affollata, sopra il mezzanino e fino al fondo del
locale. E lì trovarono una ragazza con lunghi capelli corvini, incarnato
pallido e perfetto e un’ombra scura abbastanza per tre.
Mia Corvere si unì agli applausi degli ospiti, anche se per la verità i
suoi occhi erano stati ovunque tranne che sullo spettacolo. Un freddo
gelido svolazzò sulla sua nuca, nascosto nelle ombre proiettate dai suoi
capelli. Il sussurro di Messer Cortese al suo orecchio fu soffice come
velluto.
«… è stato incredibilmente atroce…» disse l’umbragatto.
Mia replicò piano, aggiustandosi sulla faccia la maschera della misura
sbagliata.
«Però il sangue di pollo mi è sembrato un tocco simpatico.»
«… sono stati trenta minuti della nostra esistenza che non riavremo mai
più, te ne rendi conto…»
«Almeno hanno riacceso le dannate luci.»
Dopo aver lasciato che la folla applaudisse per un altro po’, finalmente
il sipario si aprì, rivelando re Francisco tutto intero e in salute: la vescica
perforata con il “sangue del cuor” era appena visibile sotto la camicia
imbrattata. Unì le mani con il suo assassino e, tenendo entrambi il pugnale
caricato a molla, Tiberius il vecchio e Francisco XV si profusero in un
lungo inchino.
«Felice Fuocomessa, gentili amici!» urlò il sovrano assassinato.
L’applauso scemò lentamente mentre gli attori lasciavano il palco. Ora
che la rappresentazione era terminata, ripresero chiacchiere e risate. Mia
sorseggiò la sua bevanda e fece spaziare lo sguardo per la sala. Con le luci
del locale di nuovo accese, poteva vedere un po’ meglio.
«D’accordo, lui dov’è…» borbottò.
Era arrivata tardi, un’abitudine di moda, e la sala da ballo era affollata,
ma non era stata una sorpresa: le serate del senatore Alexus Aurelius erano
sempre ritrovi popolari. Una volta concluso lo spettacolo, l’orchestra di
dodici elementi attaccò una melodia vivace sul suo mezzanino dorato sul
fondo della stanza. Mia osservò i rampolli dell’aristocrazia midollana in
eleganti redingote dirigersi sulla pista da ballo con aggraziate dominae
sottobraccio, i loro lunghi abiti cremisi, argento e oro che scintillavano alla
luce dei lampadari arkemici.
Le loro facce erano nascoste dietro una sconcertante miriade di
maschere, cento diversi motivi e forme. Mia riusciva a vedere vulti
squadrati, pulcinelli sghignazzanti e bautae a mezza faccia, tutti pittura
ingioiellata, avorio scintillante e ventagli di piume di pavone. I tipi più
diffusi tra la folla presente in sala erano il triplo sole di Aa o splendide
varianti della Faccia di Tsana. Dopotutto era Fuocomessa, e molti
facevano almeno un tentativo di venerare il Semprevigile e la sua figlia
primogenita prima che l’inevitabile edonismo del banchetto serale
prendesse il sopravvento. a
Mia era vestita con un abito color rosso sangue che le lasciava scoperte
le spalle, strati di seta liisiana che ricadevano sul pavimento. Il suo mezzo
bustino era legato stretto e una fila di rubini scuri le scendeva nella
scollatura; per quanto apprezzasse l’effetto del corsetto e delle gemme per
evidenziare le sue risorse, le occhiate di ammirazione che aveva ricevuto
tutta quell’illuminotte non le rendevano più facile respirare. I suoi
lineamenti erano coperti da una Faccia di Tsana, una maschera che
raffigurava l’elmo della dea guerriera, con un pennacchio di penne di
uccello di fuoco attorno al bordo. Labbra e mento erano scoperti, cosa che,
se non altro, le rendeva un po’ più facile bere. E fumare. E imprecare.
«’Bisso e fottuto sangue, dov’è?» borbottò, gli occhi che vagavano tra la
folla.
Sentì di nuovo quel brivido, il lieve sussurro nel suo orecchio.
«… i palchetti…» disse Messer Cortese.
Mia spostò lo sguardo dalle folle ondeggianti alle pareti sopra la pista
da ballo. La sala dei ricevimenti del senatore Aurelius era stata costruita
come un anfiteatro, con il palco da un lato, i sedili disposti in anelli
concentrici e palchetti che si affacciavano sulla pista. Attraverso il fumo e i
lunghi rotoli di seta appesi al soffitto, Mia vide finalmente un uomo alto e
giovane, abbigliato con una lunga redingote bianca e un foulard nero, con i
cavalli gemelli della sua familia ricamati in filo d’oro sul petto.
«… gaius aurelius…»
Mia sollevò il suo bocchino d’avorio e prese una tirata pensierosa dal
sigaretto. Il volto del giovane era mezzo nascosto dietro una bauta dorata
con un motivo a tre soli, ma riuscì a vedere una mascella volitiva e un
sorriso piacente quando l’uomo sussurrò all’orecchio di una stupenda
giovane donna con un abito alla moda accanto a lui.
«Pare che si sia fatto un’amica» sussurrò Mia, esalando grigio dalle
labbra.
«… be’, dopotutto è il figlio di un senatore. È improbabile che passi
l’illuminotte da solo.»
«Non se posso impedirlo. Eclissi, vai a dire a Colombo di stare pronto.
Potremmo dover andarcene di fretta.»
Un basso ringhio provenne dalle ombre sotto il suo vestito.
«… COLOMBO È UN IDIOTA …»
«Un motivo in più per assicurarsi che sia sveglio. Penso che andrò a
salutare il nostro stimato primogenito di un senatore. E la sua amica.»
«… certe cose si fanno in due, mia…» la ammonì Messer Cortese.
«È vero. Ma in tre ci si diverte ancora di più.»
Scivolando via dal suo angolo, Mia attraversò la sala da ballo come il
fumo che le usciva dalle labbra. Sorrise ai complimenti, declinando
educatamente gli inviti a ballare. Passò serenamente tra due guardie con
giacche eleganti in fondo alle scale, comportandosi come se quel posto
fosse suo, e dando esattamente quell’impressione. Dopotutto non c’era
nessun altro in quella sala che non si sarebbe dovuto trovare lì. Le erano
servite cinque illuminotti di pazienza per rubare l’invito dalla casa di
Domina Grigorio. b E le maschere che questi sciocchi midollani insistevano
per indossare a ogni serata festiva le rendevano semplice aggirarsi tra loro
inosservata. In particolare grazie alle sue curve strozzate da una moda
concepita per attirare l’occhio lontano dal viso.
Mia si controllò il trucco in uno specchietto d’argento e si mise altro
rosso scuro sulle labbra. Prese un’ultima boccata del suo sigaretto, poi lo
schiacciò sotto il tacco dello stivale e attraversò le tende di velluto per
entrare nel palchetto di Aurelius.
«Oh, le mie scuse» disse.
Dominus Aurelius e la sua compagna alzarono lo sguardo, lievemente
sorpresi. I due erano seduti su un lungo divanetto di velluto riccio, bicchieri
mezzi vuoti e una bottiglia di ottimo rosso vaaniano sul tavolo davanti a
loro. Mia si portò la mano al seno per fingere spavento.
«Pensavo che questo palco fosse vuoto. Vi chiedo perdono.»
Il giovane dominus annuì appena. Il suo sorriso attraente era scuro di
vino. «Non ci pensate, Mea Domina.»
«Ma voi…» Mia esalò un sospiro, incerta. Sollevò una mano per
togliersi la maschera, usandola per sventolarsi il volto. «Le mie scuse, vi
crea problemi se mi siedo per un attimo? Qui dentro fa più caldo che alla
veraluce e questo vestito rende spaventosamente difficile respirare.»
Aurelius fece scorrere gli occhi sui lineamenti scoperti di Mia. Gli occhi
neri contornati da artistiche linee di kajal. La pelle bianco latte e le labbra
increspate color rosso scuro, la collanina di gemme attorno alla gola
snella, uno sguardo rapido come una volpe alla pelle nuda lì sotto quando
Mia, a bella posta, fece il gesto di aggiustarsi il bustino.
«Fate pure, Mea Domina» sorrise lui, indicando un secondo divanetto.
«Sia benedetto Aa» disse Mia, affondando sul velluto e sventolandosi di
nuovo.
«Permettetemi di presentarmi. Sono Dominus Gaius Neraus Aurelius, e
la mia adorabile complice è Alenna Bosconi.»
La compagna di Aurelius era una bellezza liisiana più o meno coetanea
di Mia. Dall’aspetto, probabilmente era la figlia di un administratii locale.
Capelli e occhi neri, carnagione olivastra, lo chiffon dorato del suo abito
intonato alla polvere metallica su labbra e ciglia.
«Quattro Figlie, adoro il vostro vestito» sospirò Mia. «È un Albretto?»
«Avete buon occhio» replicò Alenna, sollevando il suo bicchiere. «I miei
complimenti.»
«La settimana prossima devo andare da lei per prendere le misure» disse
Mia. «Sempre che mia zia mi consenta di uscire nuovamente dal palazzo.
Ho il sospetto che domani voglia mandarmi in convento.»
«Chi è vostra zia, Mea Domina?» domandò Aurelius.
«Domina Grigorio. Vecchia vacca noiosa.» Mia indicò il vino. «Posso?»
Aurelius la osservò con sguardo divertito riempire un bicchiere e
tracannarlo altrettanto rapidamente. «Perdonatemi, non sapevo che la
domina avesse una nipote.»
«La cosa non mi stupisce affatto, Meus Dominus» sospirò Mia. «Sono a
Galante da quasi un mese e lei non mi lascia uscire dal palazzo. Ho dovuto
sgattaiolare fuori per essere qui stasera. Mio padre mi ha mandato a
trascorrere l’estate con lei, insistendo che mi insegnasse a comportarmi
come una figlia timorata di Aa.»
«Il che significa che ora non vi comportate come tale?» sorrise Aurelius.
Mia fece una smorfia. «Sul serio, pensereste che mi sia portata a letto
uno stalliere, dal modo in cui ne parla lui.»
Aurelius sollevò la bottiglia verso il bicchiere di Mia inclinando la testa
con aria interrogativa.
«Un altro?»
«Molto generoso, signore.»
Aurelius versò il vino e le passò il bicchiere pieno. Mia lo prese con un
sorriso d’intesa, lasciando che le punte delle dita sfiorassero il polso del
giovane dominus: una corrente arkemica fece pizzicare la loro pelle.
Alenna sollevò il proprio bicchiere alle labbra dorate, la sua voce tinta di
lieve irritazione.
«Non ne resta molto, Gaius» lo avvertì, lanciando un’occhiata alla
bottiglia.
Mia guardò la ragazza e si infilò una ciocca di capelli ribelle dietro
l’orecchio. Qualunque paura potesse aver provato fu inghiottita dalle
ombre ai suoi piedi. Si alzò dal suo divanetto con grazia delicata, poi si
accomodò su quello di fianco, proprio accanto a quella bellezza dorata.
Guardò Alenna negli occhi e sorseggiò il vino. Era intenso, morbido come
velluto, e le danzava scuro sulla lingua. Togliendole di mano il bicchiere
vuoto, Mia premette il suo nel palmo di Alenna, intrecciando le dita e
sollevandolo verso quelle labbra dorate.
Si girò a guardare Aurelius e lo vide che osservava rapito. Sorrise
quando lei sussurrò, abbastanza forte da essere udita sopra la musica più
in basso.
«Non mi dispiace condividere.»
Aurelius era in piedi alle sue spalle, le mani che vagavano sulle sue
braccia nude, sui suoi seni. Mia percepì le labbra dell’uomo contro
l’orecchio, che le sfioravano la linea della mascella, e allungò una mano
all’indietro per intrecciare le dita fra i suoi capelli. Appoggiandosi contro
la durezza del suo inguine, cercò la sua bocca, sospirando quando lui le
lasciò una scia di baci ardenti lungo la gola, la barba corta che le
pizzicava la pelle. Aurelius trovò il nastro di seta che allacciava il dorso del
bustino e lo tolse con mani lente e salde.
Alenna era dietro di lui: gli sbottonò la giacca, lasciandola cadere a
terra. Aveva le guance arrossate non solo per aver bevuto, e con le sue
unghie lunghe gli strappò la camicia di seta, lasciandogli scoperto il
torace. Mia tastò la durezza del suo petto e le sue dita scivolarono lungo le
depressioni e le increspature dell’addome. Aurelius aveva le labbra sulla
sua nuca, e lei avvertì la pressione dei denti. Sospirò quando lui morse più
forte, cercando di nuovo la bocca dell’uomo. Ma con la mano libera, lui le
afferrò le lunghe trecce, piegandole la testa all’indietro, ancora di più, la
pelle che le si accapponava mentre l’uomo le toglieva il corsetto.
La musica era debole e distante, quasi persa sotto il canto dei loro
sospiri. Si erano precipitati giù per le scale, con Aurelius che aveva
condotto Mia e Alenna davanti a sé dando loro buffetti giocosi sul
posteriore. Le guardie della casa avevano finto di non prestare attenzione
quando quel terzetto era passato loro davanti ma avevano visto Mia
premere le labbra contro la gola di Aurelius mentre lui si era fermato per
dare un lungo bacio alla bellezza liisiana. Poi l’uomo aveva spinto Mia
contro il muro e aveva allungato una mano tra le sue gambe, mettendosi
all’opera con dita esperte proprio lì nel corridoio. Erano arrivati a stento
nella camera.
Come molti palazzi midollani, le camere da letto erano sottoterra: il
punto migliore per schermarle dall’implacabile soliluce. Qui l’aria era più
fresca, la luce dei globi arkemici bassa e fumosa. Il corsetto di Mia cadde
sulle assi del pavimento mentre Aurelius le insinuava la mano dentro il
vestito. Lei sospirò, le mani dell’uomo erano avvolte attorno ai suoi seni,
impegnate a stimolare un capezzolo ingrossato con tanta forza da
strapparle un rantolo. Poi lui le tolse l’abito, lasciandolo cadere in un
mucchio scomposto attorno alle sue caviglie. Lei cercò la sua cintura e
scoprì che anche le mani di Alenna erano lì: le loro dita si intrecciarono
armeggiando per aprire la fibbia. Mia percepì le mani di Aurelius vagare
più in basso e una corrente arkemica le danzò sulla pelle mentre le dita di
lui le scivolarono sulla pancia, poi scesero attraverso i suoi riccioli morbidi
fino ad arrivare alle sue labbra vogliose.
Gemette quando Aurelius iniziò a lavorare con le dita, facendole cedere
le ginocchia. Voltando la testa, cercò la sua bocca con la propria, ma il
modo in cui lui le strinse i capelli la bloccò, lasciandola ansimante e
gemente mentre spingeva il sedere all’indietro, sfregandoglielo contro
l’inguine allo stesso ritmo che lui stava strimpellando sul suo corpo.
La cintura di Aurelius venne finalmente via e la sua bellezza gli strappò
via i bottoni delle brache, permettendo alle dita di Mia di scivolare dentro.
Trovò il suo obiettivo dopo un attimo e sorrise al gemito di Aurelius quando
gli prese la virilità nella mano. Avvertì anche le mani di Alenna ed
entrambe stuzzicarono il suo turgore mentre lui faceva scivolare il dito
dentro di lei, facendo scoppiare stelle dietro gli occhi di Mia, tanto che per
poco le gambe non le cedettero nuovamente.
Aurelius si voltò; la sua bocca trovò quella di Alenna e le loro lingue si
intrecciarono. Mia gli districò la mano che le teneva tra i capelli e avvolse
le dita tra i suoi, desiderando disperatamente di baciarlo. Ma la pelle fu
percorsa da un pizzicore quando lo percepì fare un passo di lato, poi labbra
calde furono sulla sua spalla, sulla sua nuca, mani calde le scivolarono
attorno alla vita.
“Non…”
I polpastrelli di Alenna le danzarono sulle braccia, guizzando sul
rigonfiamento dei suoi seni. Il suo respiro accelerò quando sentì la mano
della ragazza sul suo mento, che la faceva voltare lentamente. Col cuore
che martellava, Mia si girò per guardarla.
La ragazza era bellissima, quelle labbra carnose socchiuse, gli occhi
scuri traboccanti di desiderio nella luce fumosa. Il suo petto si sollevò
mentre si premeva contro di lei, ancora vestita contro il corpo seminudo di
Mia. Aurelius cominciò a baciare la nuca di Alenna mentre lei scostava una
ciocca di lunghi capelli scuri dalla guancia di Mia, facendole provare un
brivido fino ai piedi quando quella bellezza si sporse a baciarla. Vicina. Più
vicina. Più vici…
«No» disse Mia ritraendosi.
Gli occhi di Alenna si annebbiarono dalla confusione e scoccò
un’occhiata dietro di sé verso Aurelius. Il giovane dominus inarcò un
sopracciglio con aria interrogativa.
«Non sulla bocca» disse Mia.
Le labbra dorate della bellezza si arricciarono in un sorriso complice.
Occhi scuri vagarono per il corpo nudo di Mia, affascinati.
«Qualunque altro posto, allora» mormorò.
Alenna fece scorrere le mani sulle guance di Mia, poi scese sulle gemme
attorno alla sua gola, facendola rabbrividire. Poi, lenta come un’agonia, si
sporse in avanti e le premette le labbra contro il collo.
Lei sospirò, priva di qualunque paura, la pelle percorsa da un fremito.
Inclinò la testa all’indietro e si arrese, sbattendo le ciglia quando le mani di
Alenna si avvolsero attorno ai suoi seni, fluttuarono sopra le anche, le
accarezzarono le natiche. Mia non riusciva a percepire nulla eccetto quelle
mani, quelle labbra, quei denti mordicchianti, quell’alito tiepido sulla sua
pelle, la bocca di quella bellezza che vagava per i suoi seni ingrossati.
Gemette quando la ragazza le prese il capezzolo nella bocca e la lingua
guizzò sulla punta gonfia, facendo ondeggiare la stanza.
Le unghie di Alenna fecero scorrere brividi sulla schiena di Mia mentre
le sfioravano la pelle, guidandola all’indietro. Sentì l’intelaiatura del letto
dietro le ginocchia e si piegò come un fuscello davanti alla tempesta,
ruzzolando all’indietro sulle pellicce con un rantolo.
Alenna gemette quando Aurelius le mordicchiò il collo da dietro,
slacciandole le corde del bustino. Il giovane dominus le sfilò l’abito dalle
spalle e lasciò che lo chiffon dorato rotolasse via in un’onda scintillante,
seguito dagli indumenti intimi.
Gli occhi di Mia vagarono per il corpo della ragazza, che si era messa a
gattonare sul letto. Alenna si genuflesse sopra di lei, e il giovane dominus si
inginocchiò alle sue spalle, tracciando una scia di baci lungo la sua
schiena, fino al sedere. Mia percepì le mani della ragazza scorrere
all’interno delle sue cosce frementi e il suo respiro accelerò quando quelle
dita sfiorarono le sue labbra. Anche il respiro di Alenna era accelerato:
Aurelius le premette la bocca tra le gambe e si mise al lavoro con la lingua.
La ragazza gemette, gli occhi luminosi di desiderio quando si sporse più
vicino, di nuovo in cerca della bocca di Mia.
Ma lei si girò e le posò una mano sulle labbra.
«No.»
Allungò la mano sulla pelle di Alenna e trovò la mano di Aurelius
sull’anca della ragazza. Intrecciò le dita con quelle dell’uomo, ma la
bellezza protestò quando Mia lo trascinò via dal suo trofeo. Aveva gli occhi
nei suoi. Era senza fiato.
«Baciami» lo implorò.
Aurelius sorrise quando Alenna scese, i baci della Liisiana come
ghiaccio e fuoco su gola, seni e pancia di Mia. Il giovane dominus strisciò
su per il materasso mentre la ragazza scendeva ancora di più, leccando
l’orlo dell’ombelico di Mia, gli incavi delle anche. Mia avvertì denti gentili
sull’interno coscia, mani che vagavano sulla sua pelle, poi guaì quando
Alenna soffiò piano su di lei, le labbra solo a un sussurro dalle sue. Mia
allungò una mano verso l’alto e l’altra verso il basso, intrecciando le dita
tra i loro capelli. Trascinò Aurelius verso di lei, supplicando, tirando
Alenna a sé. E la bocca del dominus si chiuse sopra la sua, soffocando il
suo gemito strozzato quando lei avvertì il primo tocco della lingua della
bellezza.
Entrambi si misero all’opera e Mia si contorse sulle pellicce mentre la
adoravano. Un calore che non aveva mai conosciuto arse tra le sue gambe
quando Alenna la baciò come non aveva mai fatto alcun uomo. Inarcò la
schiena, le dita annodate nelle trecce della ragazza. Riuscì ad assaggiare il
sapore della ragazza sulla lingua di Aurelius, dolce e salato allo stesso
tempo. Lo baciò intensamente, mordendogli il labbro con tanta forza da
mischiare pittura rosso scuro con il sangue sulle loro bocche. Con le labbra
soffocò il suo rantolo di dolore, con la lingua trovò la sua, stuzzicandolo,
assaggiandolo, danzando in una pallida parvenza di ciò che stava facendo
la bellezza tra le sue gambe.
Il tempo smise di scorrere, il mondo smise di girare. Staccandosi dalla
sua bocca, il dominus le lasciò una scia di baci insanguinati lungo il collo.
Mia ansimò quando lui scese, leccando, succhiando, mordendo, poi chiuse
gli occhi con uno sfarfallio quando Alenna si mise all’opera sul serio,
lappando il suo bocciolo rigonfio.
Aurelius sollevò la testa.
Un rapido tremore lo attraversò.
Un debole gemito gli fuoriuscì dalle labbra.
Prendendo un respiro ansimante, il giovane dominus espettorò una
boccata di sangue rosso acceso sopra i seni di Mia.
«Q-quattro Figlie…»
Aurelius fissò inorridito lo scarlatto sulla pelle di Mia e sulle proprie
mani. Mia si puntellò sui gomiti quando lui cadde all’indietro con un altro
sfogo rosso, le dita attorno alla gola. Alenna si accorse di ciò che stava
accadendo: anche la sua faccia era schizzata di cremisi. Inarcandosi
all’indietro, prese fiato per urlare quando Mia balzò lungo il letto e
l’afferrò per la gola, trascinandola in una presa soffocante.
«Ora zitta» le sussurrò, sfiorandole l’orecchio con le labbra.
La ragazza si dibatté nella stretta di Mia, ma l’assassina era più forte,
più dura. Le due ruzzolarono sul pavimento, nel groviglio dei loro vestiti
sparpagliati mentre Aurelius iniziava a contorcersi, artigliandosi il collo
con le unghie mentre tossiva un’altra boccata di sangue.
«So che è difficile da guardare» sussurrò Mia alla bellezza. «Ma dura
solo un momento.»
«I-il vino…?»
Mia scosse il capo. «Non sulla bocca, ricordi?»
Alenna fissò la ferita sul labbro di Aurelius provocata dal morso di Mia,
la pittura rossa macchiata di sangue attorno alla bocca dell’uomo. Il
giovane dominus si dimenava sul letto come un pesce spiaggiato, ogni
muscolo percorso da fitte, il viso distorto. Le labbra di Alenna si aprirono
per urlare quando un’ombra si mosse sulla testiera e un’altra ai piedi del
letto: due sagome uscite dall’oscurità stessa. La mano di Mia si chiuse di
nuovo attorno alla bocca della ragazza mentre Messer Cortese ed Eclissi
presero forma, fissando rapiti il giovane dominus che gemeva in preda
all’agonia, con il sangue che gli gorgogliava tra i denti. E a occhi sgranati,
con le labbra arricciate all’indietro in un urlo silenzioso, il primo e unico
figlio del senatore Alexus Aurelius esalò il suo ultimo respiro.
«Ascoltami, Niah» sussurrò Mia. «Ascoltami, Madre. Questa carne è il
tuo banchetto. Questo sangue il tuo vino. Questa vita, questa fine, il mio
dono per te. Tienilo stretto.»
Messer Cortese inclinò la testa, osservando il giovane dominus morire.
Le sue fusa sembravano quasi un sospiro.
a. Fuocomessa è una festività che segna il cambio di ingresso a caldestate nel calendario itreyano.
Dedicata a Tsana, la Signora del fuoco, cade l’ottavo mese prima della veraluce, la più sacra tra le
feste di Aa, quando tutti e tre i soli ardono nel cielo.
Tsana è la figlia primogenita di Aa, una dea vergine, patrona sia dei guerrieri sia delle donne.
Fuocomessa è caratterizzata da una messa di quattro ore nella cattedrale ed è concepita per essere
un cambio di riflessione e casta contemplazione. Naturalmente, gran parte dei cittadini della
Repubblica la usa come una scusa per indossare maschere e darsi a turbolente bevute, lasciandosi
andare proprio al tipo di comportamento esecrato da Tsana.
Ma per le spose vale lo stesso che per le dee, gentili amici: spesso è meglio chiedere il perdono
che il permesso.
b. I tre dram della tossina nota come “Inghippo” che Mia aveva sciolto la sera precedente nel tè della
domina assicuravano che non avrebbe partecipato al ricevimento del senatore Aurelius: essere
preda di fuoriuscite esplosive da qualunque orifizio tende a smorzare l’attitudine di socializzare.
Di solito, Mia avrebbe usato una dose più piccola, in particolare su una persona così attempata.
Ma nei cinque cambi in cui aveva ispezionato il palazzo dei Grigorio, la vecchia si era rivelata una
despota di prim’ordine, i cui unici piaceri sembravano apostrofare il ritratto del suo defunto marito
e picchiare i suoi schiavi. Perciò Mia trovava difficile sentirsi in colpa per aver somministrato a
quella vecchia baldracca una dose maggiorata.
Anche se provava pena per chiunque avrebbe dovuto pulire il casino, dopo.
c. Vi ricorderete che il conio di Itreya viene soprannominato secondo le persone che lo maneggiano
più spesso, gentili amici. I pezzi di rame sono chiamati “mendicanti.” Quelli d’argento sono
chiamati “preti.” A seconda del rango della persona a cui lo chiedete, le monete d’oro sono
chiamate “coglioni” o “allontanati da me, sudicia plebaglia, prima che ordini al mio uomo di
spezzare le tue fottute gambe”.
d. Tipicamente, i predatori delle Frusciaride ashkahi non viaggiano molto oltre il Grande Sale, e i
kraken delle sabbie più grossi si trovano solo più in profondità nel deserto. Ogni tanto, degli
esemplari più piccoli sconfinano a sud quando le prede scarseggiano e, in anni recenti, diverse
cricche intraprendenti che operano nell’Ashkah meridionale hanno iniziato a dare la caccia a
questi kraken vaganti, vendendoli perché possano essere usati in spettacolari scontri durante il
Venatus Magni, i grandi giochi che si tengono in onore di Aa durante la Festa della Veraluce.
I maestri del venatus sono sempre in cerca di modi per offrire scontri più spettacolari (e far
aumentare così il numero degli spettatori) rispetto alle edizioni precedenti, e se il pensiero di
assistere a uno dei gladiatii preferiti che combatte contro un orrore proveniente dalle Frusciaride
ashkahi non incolla i culi alle sedie, c’è ben poco che possa farlo, gentili amici.
e. Forse ricorderete che ai preti di ferro del Collegio viene rimossa la lingua in giovane età per
preservare i segreti del loro ordine. Tecnicamente, non esiste nessun “Maestro del Silenzio” al
Collegio: era semplice esagerazione da parte mia. Ma temevo che altrimenti non avreste colto la
battuta.
… Oh, lasciate stare.
Bastardi.
Che ne sapete voi dell’umorismo, comunque?
CAPITOLO 3
OMBRE
Mia giaceva nuda sul pavimento, schizzata di rosso, Alenna tra le braccia.
La musica si diffondeva ancora debolmente dal ricevimento al piano di
sopra, ma nessuno degli ospiti del senatore era al corrente che il suo unico
figlio era stato assassinato proprio sotto i loro talloni. Messer Cortese
sedeva sulla testiera, fissando il cadavere del giovane dominus. Eclissi si
leccò le labbra con una lingua trasparente e il sospiro dell’umbralupa si
riverberò per il pavimento.
La ragazza tra le braccia di Mia rabbrividì nel vedere le creature.
«Ora toglierò la mano, amore» sussurrò Mia. «Non ho intenzione di
farti del male. Ti legherò, mi rimetterò i vestiti e poi sgattaiolerò fuori alla
soliluce e tu non mi rivedrai mai più. Va bene?»
Alenna annuì in modo frenetico, scacciando le lacrime dagli occhi.
«… È UN’ASSURDITÀ …»
«… e da quando in qua sei un’esperta di assurdità, cucciola…?» la
schernì Messer Cortese.
«… MEGLIO SBARAZZARSI DI LEI. NON ABBIAMO MOTIVO PER
LASCIARLA IN VITA …»
«E nessun motivo per ucciderla» replicò Mia. «A meno che qualcuno
non mi paghi. Ora, uno di voi non dovrebbe piantonare il corridoio in caso
una guardia venga quaggiù?»
«… ho montato io la guardia l’ultima volta, quando hai assassinato quel
magistrato…»
«… BUGIARDO, IO SONO STATA LÌ FUORI DI GUARDIA PER TUTTO IL
TEMPO. TU TI STAVI INGOZZANDO COME UN SUINO A UN TROGOLO …»
«… e tu come faresti a saperlo, se eri fuori a montare la guardia tutto il
tempo…?»
«Avete finito, voi due? Non me ne frega un cazzo di chi lo fa, ma uno di
voi due farebbe meglio a uscire là fuori perché qualcuno ver…»
Qualcuno bussò piano alla porta. Da fuori, una voce profonda chiamò.
«Meus Dominus?»
Mia imprecò sottovoce, serrando la stretta sulla gola di Alenna.
«Meus Dominus» disse una seconda voce. «Vostro padre richiede la
vostra presenza.»
“Guardie, a giudicare dal suono. Almeno un paio…”
«… ERA IL TUO TURNO …» sussurrò Eclissi in tono feroce.
«… cagnaccio bugia…»
Mia sibilò loro di fare silenzio mentre ponderava rapidamente una
soluzione. Con le guardie fuori dalla camera da letto, le sue possibilità di
sgattaiolare via non vista erano bruciate. Colombo la stava aspettando di
sopra con la carrozza, ma non le sarebbe stato di alcuna utilità quaggiù.
Lei poteva combattere piuttosto facilmente, ma era nuda come un verme,
praticamente disarmata, e il rumore avrebbe soltanto attirato altre guardie.
Le ombre quaggiù erano scure, ma dato che le camere da letto erano nel
seminterrato, non c’erano finestre da cui potersi arrampicare fuo…
Mia emise un rantolo quando il gomito di Alenna andò a sbattere contro
le sue costole, poi, con un’imprecazione oscena, la ragazza diede uno
strattone all’indietro con la testa, impattando contro il naso di Mia. Ora
che la stretta era momentaneamente allentata, Alenna prese un respiro e
urlò, smorzata solo in parte dalle dita di Mia.
«Omicidio!» urlò. «Aiutatemi!»
Mia sbatté il pugno contro la tempia della ragazza, una volta, poi due,
facendola svenire. Udì un’imprecazione e un tonfo pesante quando
qualcosa impattò contro la porta.
«Meus Dominus?» gridò qualcuno. «Aprite!»
«… era il tuo turno…»
«… BUGIARDO …»
«Voi due volete stare zitti?»
Mia si infilò l’abito dalla testa mentre la porta tremolava sui cardini.
Frugando nel bustino lì a terra, recuperò il suo pugnale di necrosso, il
corvo sull’elsa che la rimproverava con il suo sguardo d’ambra
scintillante. Protendendosi verso le ombre attorno a lei, le trascinò sopra la
testa, gettando il mondo intero nell’oscurità e scomparendo completamente
sotto di essa.
La porta si aprì con uno schianto e due sagome indistinte si stagliarono
contro la luce. Una di esse urlò il nome di Aurelius, muovendosi verso
quella che Mia sperava fosse la direzione del letto. L’altra vide la ragazza
liisiana nuda e schizzata di sangue, per terra, rannicchiata accanto a lei. E
con la porta ora sgombra, Mia gettò via il suo manto d’ombra e corse.
Le guardie le urlarono di fermarsi, ma lei non diede loro ascolto,
scattando per il sontuoso corridoio verso le ampie scale. In alto apparvero
altre due guardie, in preda alla confusione nel vedere quella ragazza sporca
di sangue che saliva di gran carriera verso di loro. Uno alzò una mano per
fermarla quando il pugnale di Mia guizzò, dentro e fuori, ficcato nella sua
pancia fino all’elsa. L’uomo cadde con un rantolo, ruzzolando giù per le
scale mentre il suo compagno urlava un avvertimento e sollevava la sua
spada corta. Mia ruotò di lato, ansimando quando quella lama le si
conficcò in profondità nella spalla e nella parte superiore del braccio, ma il
suo contrattacco fischiante tranciò di netto il collo dell’uomo.
L’uomo crollò gorgogliando, ma Mia era già lontana, e stava salendo le
scale per arrivare a pianterreno. Irruppe nella sala principale, domini e
dominae midollani che urlarono allarmati quando la videro, lama
insanguinata in una mano, i capelli scuri sparsi attorno a occhi ancora più
scuri, sgranati dalla furia.
«Perdonatemi, Mea Domina» si scusò lei, sbattendo da una parte una
graziosa giovane mentre si faceva largo per la sala. Altre guardie si
precipitarono nella stanza, incerte su chi inseguire o sul perché farlo. Le
due della camera da letto di Aurelius comparvero in cima alle scale,
esaminando la folla confusa e individuando infine Mia mentre si muoveva
sgomitando nella calca.
«La ragazza in rosso!» tuonò uno di loro. «Fermatela!»
«Assassina!» urlò l’altro. «Il figlio del senatore, l’ha ucciso!»
La sala piombò nel caos: alcune persone protendevano le mani verso
Mia, altre fuggivano davanti a lei. La ragazza tagliò un administratii
benestante dalla coscia all’inguine quando l’uomo cercò di afferrarla, poi
diede una gomitata in faccia a un altro gentiluomo facendolo finire a terra
svenuto. Il coltello che aveva in mano e lo sguardo nei suoi occhi
dissuasero gli altri che volevano provarci e, con un passo di lato, uno
spintone e una capriola, attraversò le doppie porte, scattando per l’atrio
sontuoso. Ghermì un bicchiere dal vassoio di un servitore esterrefatto, poi
tracannò l’aureovino che conteneva prima di scagliarlo contro la guardia
che si stava avventando su di lei; il cristallo pesante rimbalzò contro la sua
testa e lo mandò lungo disteso.
Varcò le porte correndo e uscì nel cortile fuori dal palazzo di Aurelius.
Le grida di “Assassina!” riecheggiavano alle sue spalle e tre guardie
accorsero su per le scale per venirle incontro. I soli gemelli nei suoi occhi
erano quasi abbaglianti.
«Merda…»
Ciascuna delle guardie aveva un gladio corto a doppio filo e uno
sguardo omicida. La sua spalla sanguinava copiosamente e il suo abito era
zuppo. Mia fu costretta a difendersi: si protese verso l’ombra del loro capo
e gli attaccò gli stivali al pavimento, poi superò le loro lame con una
scivolata, scalciando contro un paio di gambe mentre passava, per poi
rimettersi in piedi. Scattò verso i cavalli e le carrozze parcheggiati attorno
al cortile anteriore di Aurelius, cercandone una in particolare in mezzo alla
folla.
«Colombo!» ruggì.
Un adolescente tra la calca sollevò la testa. Portava una semplice
maschera rettangolare, un vultus, indossava una livrea da servitore e aveva
i capelli scuri tagliati corti. Un sigaretto gli pendeva da un angolo della
bocca. Tre lacrime di sangue scendevano lungo la guancia destra della sua
maschera. Non aveva proprio l’aria di una Mano della Chiesa della Nostra
Signora dell’omicidio benedetto, ma quando udì il secondo urlo di Mia si
mise improvvisamente dritto al posto di guida.
«Tutto bene?» chiamò.
«Come cazzo fa a sembrarti che vada tutto bene?» urlò Mia, scattando
verso di lui.
La Mano di Mia notò che la sua Lama era ferita e tallonata dalle
guardie. Sputando via il sigaretto, il ragazzo mise la mano dentro il suo
pastrano ed estrasse due piccole balestre. Prendendo attentamente la mira,
abbatté le guardie più vicine a Mia con due rapidi colpi.
«Corri!» le urlò, facendole cenno.
«Dici? Bella idea!»
Un sibilo vicino all’orecchio di Mia la avvertì che erano arrivate altre
guardie, armate a loro volta di balestre, e lei si precipitò tra i cocchieri
stupefatti, anche se un dolore incandescente nel posteriore le diceva che
almeno uno degli inseguitori era un tiratore piuttosto bravo.
Incespicò, cadendo con un’imprecazione e scorticandosi palmi e
ginocchia come formaggio sul lastricato. Sibilando di dolore, si rimise in
piedi e afferrò il dardo di balestra che le spuntava dal didietro.
«Denti della Mannaia, ti hanno sparato proprio nel…»
«E sparagli anche tu, fottuto cazzone!»
Colombo sparò di nuovo, abbattendo un’altra guardia con un quadrello
in gola. Il ragazzo si abbassò per ricaricare e una pioggia di dardi volò
sopra la testa di Mia, perforando due dei cocchieri spaventati e uno
stallone particolarmente irritato. Purtroppo, mentre Colombo si alzava con
le balestre di nuovo cariche, uno dei dardi lo centrò nel petto, scagliandolo
all’indietro contro la carrozza in uno schizzo di sangue. Mia osservò la sua
Mano cercare di rialzarsi, ma alla fine il ragazzo crollò con un gemito
gorgogliante.
«… TI AVEVO AVVISATO CHE ERA UN IDIOTA …»
«… per una volta, siamo assolutamente d’accordo…»
Mia era in piedi, a cercare riparo tra i cavalli imbizzarriti e i cocchieri
in preda al panico. Ma con il braccio tagliato a fettine, non c’era modo in
cui potesse far girare una carrozza e usare la frusta allo stesso tempo… e le
guardie di Aurelius stavano rapidamente guadagnando terreno.
Con un guizzo del suo pugnale di necrosso, staccò cinghie di cuoio e
agganci di un alto stallone bianco. Sussultando per il dolore, si trascinò in
groppa al destriero.
«… hai dimenticato quanto ti odiano i cavalli…?»
«Pare proprio di sì.»
«… GALOPPA …!»
Mia scalciò contro i fianchi del cavallo e lo stallone partì, con gli
zoccoli che sollevavano la ghiaia compatta del cortile del senatore mentre
le guardie le intimavano di fermarsi. a Quadrelli di balestra volarono vicino
alla sua testa, scalfendo il fianco del cavallo, ma un dardo gli si conficcò in
una delle zampe posteriori. L’animale urlò e cercò di sbalzarla via, ma Mia
si aggrappò come un’ombra ai piedi del suo possessore. Lo stallone corse a
tutta velocità, schizzando oltre il cancello principale e uscendo negli ampi
viali della città di Galante. In lontananza risuonarono campane,
riecheggiando da dozzine di cattedrali, cupole e minareti diversi. Le strade
erano affollate per Fuocomessa e la gente festante imprecò contro di lei
quando Mia passò al galoppo sul suo stallone sanguinante.
La Lama si guardò alle spalle e vide mezza dozzina di guardie che la
inseguiva a cavallo. Il sangue che usciva dalla ferita alla spalla era
appiccicoso sulla sua schiena, il vestito zuppo incollato alla sua pelle.
Iniziava a provare un senso di vertigini per l’emorragia. Con
un’imprecazione colorita, si strappò via il dardo di balestra dal gluteo, la
testa che le ondeggiava in preda all’agonia. Doveva allontanarsi dalle
strade, arrivare in qualche posto buio, nascondersi finché il caos non si
fosse placato.
Le strade di Galante erano affollate perfino qui nel distretto dei
midollani, troppo per continuare un inseguimento a perdifiato. L’impeto di
velocità data dal terrore che aveva spinto al galoppo il suo stallone stava
volgendo al termine e il cavallo adesso zoppicava per il dardo ricevuto.
Mia scivolò giù dall’animale claudicante, gettandosi tra la folla di festanti
ubriachi; le urla delle guardie le risuonavano nelle orecchie. Arrancò fino
a un vicolo tra una delle innumerevoli cattedrali della città e un
torreggiante palazzo degli administratii, che serpeggiava nel dedalo di
viuzze di Galante. Respirava a fatica, la sua vista ondeggiava e la perdita
di sangue le faceva tremare le mani. Il suo braccio sinistro era
completamente insensibile e la voce di Messer Cortese nelle orecchie la
spronava ad andare avanti. Infine trovò una recinzione in ferro battuto oltre
la quale c’era un mare affollato di tombe e lapidi, inframmezzate da
erbacce scure e fiori brillanti.
“La necropoli di Galante.”
Zoppicò attraverso il cancello e arrancò lungo le file fitte di marmo e
granito ricoperto di muschio, con mausolei torreggianti che ospitavano
generazioni di midollani morti. Infine si abbassò sotto la sporgenza di una
tomba che apparteneva a qualche ricco bastardo, ormai dimenticato da
molto tempo. Allungandosi verso le ombre, Mia le colse con dita abili e se
le intessé attorno alle spalle.
Come faceva sempre, il mondo piombò nell’oscurità sotto il manto, ma
lei udì comunque le guardie di Aurelius mentre entravano nella necropoli,
con i loro passi pesanti sul selciato. Il capitano sbraitò un ordine e il
gruppo si divise, zigzagando nel sovraffollato labirinto di cripte, ossari e
tombe: le urla di “Assassina” risuonavano sulla pietra pallida.
Una guardia, però, rimase.
Mia riusciva a vederla solo a malapena tra il velo di ombre, ma intuiva
dalla sua sagoma indistinta che l’uomo era enorme. I suoi stivali
scrocchiarono sulla ghiaia quando si diresse furtivo ai mausolei,
borbottando piano. Mia trattenne il fiato mentre quello si avvicinava al suo
nascondiglio, cercandola con lo sguardo da un lato all’altro. Avvertì un
gocciolio caldo colarle lungo la schiena e la sua vampata di terrore fu
inghiottita dal suo passeggero quando si rese conto che, malgrado il manto
d’ombra, il suo sangue doveva aver lasciato una traccia che ora si stava
raccogliendo proprio lì, ai suoi piedi.
La guardia andò verso la cripta di Mia. Invece di pregare che la
superasse, la ragazza gettò semplicemente via il suo manto d’ombra e le si
avventò addosso, stiletto in pugno.
La guardia indossava una cotta di maglia sotto la livrea, ma Mia
perforò con la sua lama di necrosso gli anelli d’acciaio come se fossero
burro. Affondò il colpo fino all’elsa, ma dato che attaccava il tizio alla
cieca, non riuscì a trapassargli il cuore. Il colosso lanciò un urlo quando
lei colpì di nuovo, ferendolo al collo. Uno spruzzo di rosso caldo e umido la
centrò in faccia, ma la guardia l’afferrò per il polso e le assestò un gancio
poderoso alla mascella. Mia fu scagliata all’indietro contro la parete della
tomba e aggredì la mano che la stava trattenendo: entrambi finirono a terra
ruzzolando.
La trachea dell’uomo era ancora intatta e la guardia si mise a urlare
mentre la ragazza, ringhiando, lo accoltellava più e più volte. Rotolarono
sul selciato, con Eclissi e Messer Cortese che le sussurravano per
avvertirla che le altre guardie stavano tornando. Ma il suo avversario era
enorme e, malgrado tutto il suo addestramento, Mia era ferita,
sanguinante, e chi crede che non ci sia nessun vantaggio a essere grandi il
doppio del proprio nemico non ne ha mai affrontato uno grosso la metà di
lui.
Mia udì un frastuono di stivali e il suo volto si contorse quando la
guardia le afferrò i capelli in un pugno. La sua lama trovò di nuovo il collo
dell’uomo, facendolo crollare all’indietro sull’acciottolato in uno spruzzo
schiumante di rosso. Mia si rimise dritta e vide altre quattro guardie
avvicinarsi.
«… scappa…!»
«Come?» ansimò lei.
«… NASCONDITI …!»
«Dove?»
«Alt!»
Le quattro guardie abbigliate con la livrea del senatore Aurelius si
aprirono a ventaglio attorno a lei. Mia poteva sentire fischi sulla strada in
lontananza e il trepestio di stivali dei legionari. Impavida, fissando la morte
negli occhi, guardò torvo la guardia più alta e si rigirò lo stiletto tra le dita.
Pensò al console Scaeva e al cardinale Duomo. Alla sua familia che ancora
attendeva vendetta. Ma il rimpianto in definitiva nasceva dalla paura, e
perfino qui, alla fine, non riusciva a trovarne alcuno dentro di sé. Solo
rabbia che potesse terminare così.
«Chi muore per primo?» chiese, sfidando apertamente gli uomini lì
riuniti.
La guardia più suscettibile alzò una balestra carica verso il suo petto.
«Tu, puttana» sbraitò.
Un brivido si insinuò dentro di lei, cupo e vuoto. La pelle coperta di
sangue le si accapponò a ondate. I soli ardevano alti nel cielo, ma qui nella
necropoli le ombre erano scure, quasi nere. Una sagoma si sollevò dietro le
guardie, ammantata e incappucciata, impugnando lame di quello che
avrebbe potuto essere soltanto necrosso. Attaccò la guardia con la balestra,
quasi spiccandogli la testa dal collo. I suoi commilitoni urlarono e
sollevarono le spade, ma la figura si mosse fulminea, colpendo una volta,
due, tre. E quasi più velocemente di quanto Mia potesse sbattere le
palpebre, tutte e quattro le guardie giacquero morte a terra.
«Denti della Mannaia» sussurrò lei.
Le ombre ai suoi piedi rabbrividirono ed Eclissi prese forma con un
ringhio. Messer Cortese fu sulla sua spalla, soffiando con la schiena
inarcata. Mia sentì un brivido nelle ossa e i suoi passeggeri divorarono la
paura quando il suo salvatore si voltò a fronteggiarla.
Non era umano, poco ma sicuro. Oh, sotto quel mantello aveva la forma
di un uomo, alto e con le spalle ampie. Ma le sue mani… ’bisso e sangue, le
mani avvolte attorno alle else delle spade erano nere. Tenebrose e quasi
trasparenti, le dita attorcigliate sulle impugnature come serpenti. Mia non
riusciva a vedere il suo volto, ma piccoli tentacoli neri si agitarono e si
contorsero dall’interno del cappuccio, trascinandolo più in basso a
coprirne le fattezze. E anche se era quasi caldestate, con due soli che
ardevano alti nel cielo, il suo respiro si condensava in nuvolette bianche
davanti alle labbra, e il corpo di Mia era percorso da brividi a quel gelo.
«… Chi sei?»
«CHIEDILO A TE STESSA » replicò la figura. La sua voce era cupa,
sibilante, caratterizzata da uno strano riverbero. «MIA CORVERE .»
La ragazza sbatté le palpebre.
«… Mi conosci?»
La figura si avvicinò in un modo che Mia poteva descrivere solo come…
strisciante. Una patina di brina si diffuse sulle tombe e sulle cripte attorno
a loro.
«SO CHE SEI DESTINATA A MOLTO PIÙ DI QUESTO » disse. «LA TUA VERITÀ
GIACE SEPOLTA NELLA TOMBA . EPPURE DIPINGI LE TUE MANI DI ROSSO PER
LORO, QUANDO DOVRESTI DIPINGERE I CIELI DI NERO. »
«… oh, che gioia: un tipo criptico…»
«LA TUA VENDETTA È COME I SOLI , MIA CORVERE . SERVE SOLO AD
ACCECARTI .»
«Di cosa cazzo stai parlando?»
Mia udì delle urla e si voltò verso il suono di stivali in avvicinamento.
«CERCA LA CORONA DELLA LUNA. »
La ragazza si girò nuovamente, solo per scoprire che quella cosa era
scomparsa, come se non ci fosse mai stata. Il suo respiro aleggiava ancora
bianco nell’aria, e il gelo abbandonò lentamente le ossa di Mia; la voce
dell’essere risuonava nel buio dietro i suoi occhi. Si guardò attorno nel
cimitero, vedendo solo cadaveri e cripte, e domandandosi se stesse
sognando a occhi aperti.
«… mia, stanno arrivando…»
«… DOBBIAMO ANDARE …»
Altri fischi. Stivali che si avvicinavano. Sangue sulla faccia e sulla pelle.
Mia agguantò uno dei mantelli delle guardie, il meno insanguinato di tutti.
Poi si tirò il cappuccio sopra la testa e attraversò zoppicando la necropoli,
più veloce che poteva, arrampicandosi sulla recinzione in ferro battuto e
scomparendo nel dedalo di viuzze di Galante.
Lasciando solo corpi nella sua scia.
a. Una nota per gli aspiranti membri delle forze dell’ordine: questa tattica non funziona mai.
b. La storia dei Giardini Pensili è lorda di sangue. Fondata come una città commerciale, divenne
rapidamente un centro del commercio della carne dopo l’ascesa dei re itreyani. Ma il porto in
origine era chiamato Ur-Dasis, che significa “Città cinta da mura” nella lingua della Vecchia
Ashkah, e fu solo dopo una rivolta durante il regno di Francisco II che ricevette il suo nuovo
nome.
Con la schiavitù che fungeva da spina dorsale del suo regno, Francisco non poteva permettersi
alcun tipo di ribellione. Quando un gruppo di schiavi si rivoltò contro i loro aguzzini e occupò Ur-
Dasis, il re inviò un’intera legione sotto il comando del famigerato generale Atticus Dio per sedare
la rivolta. Anche se i ribelli assediati combatterono con coraggio, alla fine furono ridotti alla fame
e acconsentirono ad arrendersi se Atticus avesse promesso clemenza. Il generale accettò, giurando
che i ribelli sarebbero solo stati riportati alla loro condizione di schiavitù.
Come previsto, Atticus non mantenne la parola. Quando i ribelli posarono le armi, furono
appesi alle mura cittadine a migliaia come monito a chiunque osasse rivoltarsi in futuro. Alcune
delle gabbie di ferro originali decorano ancora la città, e perfino adesso gli schiavi ribelli
subiscono lo stesso destino: rinchiusi nelle gabbie appese alle mura per morire sotto i soli ardenti.
Francisco fu compiaciuto della prestazione del suo generale e rinominò Ur-Dasis come
Giardini Pensili in suo onore.
Fatto interessante, Atticus, quasi vent’anni dopo, avrebbe guidato una rivolta contro il nipote di
Francisco, il re ragazzino Francisco IV. E quando quella rivolta fallì, il generale venne portato ad
Ashkah e appeso alle stesse mura che aveva liberato due decenni prima.
La storia, gentili amici, non è priva del senso dell’ironia.
c. Letteralmente “maestri del sangue.” Custodi di stalle umane, che fanno combattere la loro
mercanzia nelle varie arene di gladiatii per tutta la Repubblica.
I sanguila di successo hanno una popolarità che rivaleggia perfino con i senatori itreyani più
apprezzati, anche se difettano del sangue nobile che permetterebbe loro di essere eletti a cariche
politiche.
Molti si accontentano di piangere fino a addormentarsi tra le braccia di bellissime concubine
sopra vaste pile di denaro.
d. La schiavitù nella Repubblica itreyana è una questione estremamente codificata, con un’intera
sezione degli administratii a sovrintenderla. Gli schiavi sono di tre tipologie e sono marchiati con
un simbolo arkemico sulla guancia per indicare il loro rango.
Gli schiavi con un cerchio sono quelli ordinari: operai, servitori domestici, semplice carne da
bordello e simili. Due cerchi indicano una persona addestrata nelle faccende militari: gladiatii,
guardie di una casa, membri della legione di schiavi itreyana, la famigerata Tredicesima
Sanguinosa. Gli schiavi marchiati con tre cerchi sono i più rari e preziosi; il loro marchio indica
che possiedono un’istruzione o delle capacità eccezionali: scribi, musicisti, maggiordomi e
cortigiane molto apprezzate.
E se vi state domandando perché le prostitute qualificate siano tenute in tale considerazione
nella Repubblica, gentili amici, è evidente che non avete mai passato la notte con una prostituta
esperta.
CAPITOLO 4
OFFERTA
«Denti della Mannaia, resteremo qui fino alla veraluce?» ringhiò Mia.
Pietro inarcò un sopracciglio e versò un’altra dose di aureovino sulla
sua spalla insanguinata. Mia sussultò di dolore e prese una tirata del suo
sigaretto con una mano tremante. Era seduta su una panca di pietra bassa,
la Mano alle sue spalle, avvolta nelle sue consuete vesti nere. Pietro era
occupato a ricucire il buco insanguinato nella sua spalla e le aveva avvolto
una striscia di garza attorno al posteriore, che ormai era inzuppata di
rosso.
La camera era spoglia, pareti di roccia scura e fiochi globi arkemici.
Come molte stanze nella Cappella di Galante, era profumata del debole
lezzo di merda. I servitori della Nostra Signora dell’omicidio benedetto qui
nel Porto delle Chiese a avevano costruito il loro nascondiglio nella vasta
rete fognaria sotto l’epidermide di Galante, ed era difficile sfuggire alla
puzza. Negli otto mesi in cui aveva servito qui, Mia ci si era abituata, ma
preferiva comunque passare meno tempo possibile quaggiù. A meno che
non avesse bisogno di rattoppi o approvvigionamenti, faceva visita solo
quando le occorreva parlare con…
«Be’, che io sia fottuta fino in fondo all’incontrario» disse una voce
familiare. «Guarda cos’ha portato l’umbragatto.»
Mia vide una donna sulla soglia, vestita con brache di cuoio, lunghi
stivali e una camicia di velluto nero. Era magra come un fuscello, i capelli
castano chiaro tagliati in uno stile decisamente mascolino, ombre scure
sotto gli occhi. Camminava con una singolare spavalderia e portava più
coltelli di quanti qualunque persona di buon senso avrebbe saputo come
usare.
«Vescovo Diecimani» disse Mia, inclinando la testa. «Mi alzerei per
inchinarmi, ma il dardo di balestra che ho nel sedere non è troppo
piacevole.»
«Un’illuminotte interessante, allora» sogghignò la donna.
«Qualcuno potre… oh, cazzo!» Mia lanciò un’occhiata torva alle sue
spalle. «’Bisso e sangue, Pietro, stai rattoppando me o stai cucendo un
vestito?»
«D’accordo, d’accordo, smamma» disse Diecimani al chirurgo in
difficoltà. «Ci penserò io a finire. Vorrei scambiare una parola con la
nostra Lama in privato.»
«Mio vescovo» annuì Pietro, schiaffando un rotolo di garza senza tante
cerimonie sulla spalla sanguinante di Mia e lasciando la stanza. Diecimani
girò attorno a lei e le tolse la benda che il sangue aveva appiccicato alla
pelle; la ragazza sussultò.
Diecimani era una figura famigerata all’interno della Chiesa Rossa, una
Lama della Madre da lungo tempo, con quasi venti uccisioni santificate in
suo nome. Il vecchio Mercurio aveva raccontato a Mia storie di quella
donna quando lei era più giovane, e Mia era diventata una specie di sua
ammiratrice. b Servendo nel Porto delle Chiese, aveva appreso che il suo
vescovo non era tipo da cortesie. O frivolezze. Ma le piacevano i risultati,
perciò fortunatamente Diecimani la apprezzava.
«Sembra far male» borbottò Diecimani, fissando l’orrenda ferita che
correva lungo la schiena e la spalla di Mia.
«Di sicuro non è un prurito.»
Il vescovo prese l’ago d’osso e cominciò a cucire la ferita di Mia con
dita ferme. «Confido che sia valsa la pena patire questa sofferenza?»
Mia trasalì e prese una lunga boccata del suo sigaretto ai chiodi di
garofano. «Mentre noi parliamo, stanno prendendo le misure per la
maschera di morte del figlio del senatore Aurelius.»
«Hai usato il lamento?»
Mia annuì. «Sulle labbra, proprio come hai proposto tu.»
«Allora non chiederò come hai avuto accesso alla bocca del giovane
dominus.»
«Non parlo mai delle mie conquiste.»
«E dov’è il giovane Colombo?»
«Purtroppo,» sospirò Mia «la mia giovane Mano non tornerà per cena.
Mai più.»
«Un vero peccato.»
«Non è mai stato la spada più affilata della rastrelliera, vescovo.»
«Questo è quello che passa la Cappella.» Diecimani infilò l’ago per un
altro punto. «Da quando gli Järnheim ci hanno decimato, la qualità qui
scarseggia. Presenti esclusi, ovviamente.»
Mia si morse il labbro e sospirò. Il vescovo Diecimani diceva il vero:
abili Mani e Lame erano difficili da trovare nella Chiesa Rossa di questi
tempi. Galante non era mai stata un’assegnazione entusiasmante e molti
dei servitori di Niah di stanza qui sognavano imprese più illustri. Ma le
cose erano peggiorate come non mai dall’attacco dei Luminatii.
Erano passati otto mesi e la congregazione della Nostra Signora
dell’omicidio benedetto stava ancora sanguinando per il colpo inferto da
Ashlinn Järnheim e suo fratello su incarico di loro padre. Non era stato
semplicemente l’omicidio di lord Cassius a far sbandare la Chiesa, anche
se la perdita del Principe Nero era già di per sé un lutto sufficiente. Ma
Torvar Järnheim non aveva soltanto usato i suoi figli per consegnare il
Culto ai Luminatii: il vecchio assassino aveva anche rivelato l’ubicazione
di ogni Cappella della Chiesa Rossa all’interno della Repubblica.
E così, mentre il tribuno Remus stava invadendo la Montagna Silente, i
Luminatii avevano lanciato attacchi simultanei in tutta quanta Itreya. Le
Cappelle di Dweym e Galante erano rimaste indenni. c Ma ogni altra
Cappella era stata distrutta.
Peggio ancora, Torvar aveva fornito nomi. Identità segrete. Ultime
residenze note. Fra il suo tradimento e gli attacchi dei Luminatii, la Nostra
Signora dell’omicidio benedetto aveva perso quasi tre quarti dei suoi
assassini in un’unica illuminotte.
Come diceva il vescovo, la Chiesa Rossa era stata decimata;
probabilmente quello era l’unico motivo per cui a una Lama giovane come
Mia erano state affidate offerte come quella di Gaius Aurelius. Negli otto
mesi da quando era stata assegnata a Galante, aveva eliminato tre uomini e
una donna nel nome della Madre Nera. Molte Lame della sua età sarebbero
state fortunate a essere inviate alla loro prima uccisione.
Mia era grata per l’opportunità di mostrare il proprio valore. Ma il
problema era che la sua lista di gole da tagliare diventava sempre più
lunga, non più corta. Aveva ucciso il tribuno Remus, ma il console Scaeva e
il Gran cardinale Duomo erano ancora vivi. La sua familia non era ancora
stata vendicata. E con l’omicidio di Tric per mano di Ashlinn durante
l’attacco dei Luminatii, ora aveva una trachea in più da aprire prima che la
sua vendetta fosse completa.
Ed essere bloccata qui a Galante non la avvicinava a nulla di tutto
questo.
Mia serrò la mascella mentre il vescovo continuava a ricucirla,
pensando a quella… cosa che le si era avvicinata nella necropoli. Per la
verità, le aveva salvato la vita. Il suo incontro ravvicinato con la morte
avrebbe dovuto lasciarla scossa, ma come sempre i suoi passeggeri
divoravano qualunque sensazione di paura dentro di lei, ora due volte più
velocemente rispetto a quando portava solo Messer Cortese. Non si sentiva
affatto spaventata. E così le rimanevano solo le domande.
Cos’era?
Cosa voleva da lei?
“La Corona della Luna”?
Aveva già visto prima quella particolare frase, sepolta tra le pagine di…
«Ho sentito che hai avuto qualche problema con le guardie di Aurelius»
osservò Diecimani, interrompendo il suo cucito quanto bastava per bere un
sorso dell’aureovino medicinale.
«Nulla che non potessi gestire» replicò Mia.
«Di solito operi con maggiore discrezione.»
«Chiedo perdono, vescovo, ma non hai chiesto discrezione» disse Mia,
con un accenno di irritazione che traspariva dalla sua voce. «Hai chiesto il
figlio di un senatore morto.»
«Una cosa non preclude necessariamente l’altra.»
«Ma se dovessi scegliere, cosa preferiresti?»
Mia sibilò quando il vescovo versò altro alcol sulla sua ferita ora
richiusa, poi la avvolse in lunghe strisce di garza.
«Mi piaci, Corvere» disse Diecimani. «Mi ricordi me stessa quando ero
più giovane. Più palle della maggior parte degli uomini che abbia mai
incontrato. E porti a termine le tue uccisioni, perciò ti sei costruita una
certa autostima. Ma ti do un consiglio: farai meglio a lasciarti alle spalle
quella tua parlantina quando tornerai alla Montagna. Il Culto non ti
apprezza come me.»
«E perché mai dovrei tornare alla Montagna? Sono assegnata a…»
«L’Oratore Adonai ti ha appena inviato una missiva di sangue» la
interruppe Diecimani. «Sei stata richiamata dal Culto.»
Mia strinse gli occhi, sospettosa. Le si accapponò la pelle.
«… Perché?» domandò.
Diecimani fece spallucce. «Tutto quello che so è che mi lasciano con
un’assassina di meno e con un mucchio di gole ancora da tagliare. Se
potessi usare le Lame su più di un’Offerta alla volta, sarebbe già qualcosa.
Ma ciò infrangerebbe la Promessa. d Perciò, quando vedi quel bastardo di
Solis, fammi un favore e dagli una ginocchiata nella conchiglia da parte
mia, d’accordo?»
La mente di Mia era in subbuglio, sospetto ed eccitazione intrecciati
nelle sue viscere. Essere richiamata dal Culto poteva voler dire qualunque
cosa. Riassegnazione. Ammonimento. Castigo. Aveva servito bene la Madre
Nera negli ultimi otto mesi, ma ogni Shahiid della Montagna sapeva che lei
aveva fallito la sua prova finale, rifiutandosi di uccidere un innocente.
L’unico motivo per cui era diventata una Lama era perché lord Cassius
l’aveva battezzata mentre giaceva morente sulle sabbie di Ultima Spes.
Forse la benevolenza che il suo appoggio le aveva concesso si era infine
esaurita…
Chi poteva sapere cosa la attendeva al suo arrivo?
«Quando devo partire?» chiese Mia.
Diecimani sollevò l’ago d’osso e guardò con aria eloquente il posteriore
di Mia.
«Non appena potrai camminare.»
Mia sospirò. Non aveva senso agitarsi per ciò che non poteva cambiare.
E tornando alla Montagna, avrebbe potuto parlare di nuovo con il Cronista
Aelius, rivedere Naev. Forse trovare alcune delle risposte che cercava.
«Piegati» le ordinò il vescovo. «Cercherò di essere gentile.»
Mia prese la bottiglia di aureovino medicinale e bevve una lunga
sorsata.
«Scommetto che lo dici a tutte le ragazze.»
Tre uomini assieme erano quasi più di quanto Mia poteva gestire.
La battaglia era cominciata piuttosto bene. I combattenti della Fossa
erano venuti avanti, spronati dai fischi della folla e dal fatto che Mia avesse
gettato a terra la sua spada di legno. Il primo – un Itreyano corpulento –
aveva emesso un grido di guerra e aveva menato un fendente contro la sua
testa. E, con un’occhiata, Mia si era protesa verso la tenebra ai suoi piedi.
Qui fuori, alla luce di due soli, le ombre erano pesanti e fiacche. Ma ora
Mia era più forte in sé, in quello che era, e dopotutto erano anni, ormai, che
giocava a questo trucco particolare. Con un’occhiata, fissò gli stivali del
grosso Itreyano alla sua stessa ombra, arrestandone di colpo la carica.
Avvicinandosi a zig zag mentre lui perdeva l’equilibrio, gli diede un bel
calcio sul ginocchio, poi gli assestò un pugno nella gola e, mentre quello
ruzzolava all’indietro, Mia piroettò e afferrò la spada che gli volava via di
mano alla melodia della folla esultante.
«… ora ti stai mettendo in mostra…» giunse un sussurro al suo
orecchio.
«È proprio quello il pu…»
Il colpo la centrò alla nuca e la fece sbandare. Riuscì a malapena a
girarsi e a bloccare il turbine successivo, indietreggiando in una parvenza di
difesa. I combattenti della Fossa rimasti – un grosso Liisiano con la faccia
butterata e un Dweymeri più alto con sole sette dita – avanzarono, non
dandole tempo di riprendere fiato. Fu costretta a indietreggiare per la Fossa,
sangue caldo che le colava dalla nuca.
Settedita venne avanti e portò colpi a faccia, gola e petto. Mia
controbatté bloccandolo e scivolando all’interno della sua guardia, ma la
spada di Butterato si schiantò sulle sue costole prima che lei potesse colpire
e una gomitata la fece finire lunga distesa per terra.
Mantenne la stretta sulla spada, rotolando di lato mentre i due tentavano
di sfondarle la testa con un calcio. Raspando a terra, lanciò una manciata di
sabbia rossa negli occhi di Butterato, poi si allungò con lo stivale e fece
cadere a terra Settedita. Rimessasi in piedi, piantò il piede nelle palle di
Butterato, momentaneamente cieco, con tanta forza da strappare un gemito
di solidarietà da parte di ogni uomo della folla. E, per la loro esultanza, gli
sbatté contro la faccia l’elsa della spada, schiacciandogli il naso sulle
guance.
«… dietro…»
Mia si voltò, parando per un soffio un colpo che le avrebbe fracassato il
cranio. L’Itreyano corpulento era di nuovo in piedi, il mento macchiato di
vomito e saliva. La giovane danzò con lui nella polvere, attacco e risposta,
finta e gragnola. Ragazzone era enorme, forte il doppio rispetto a lei. Ma
quello che a Mia mancava come taglia, lo compensava con velocità e pura,
sanguinosa ferocia. L’Itreyano menò un fendente poderoso e spezzò a metà
il suo gladio quando lei parò. Ma con un urlo amorfo, Mia balzò all’interno
del suo colpo successivo, si accucciò e gli sbatté la spada rotta sotto il
mento. Il legno scheggiato gli perforò la gola e zampilli di sangue
cosparsero le mani di Mia quando Ragazzone cadde.
«… a sinistra, a sinistra…!»
Il sussurro di Messer Cortese la fece girare, ma era troppo tardi: un
gladio la colpì alla spalla, facendola barcollare mentre la folla ruggiva.
Settedita vibrò di nuovo la sua arma, centrandola alle costole. Mia emise un
rantolo sofferente. Intercettò il braccio che reggeva la spada, bloccandolo e
tirandolo vicino. Fiutò sudore, alito fetido, sangue. Settedita le assestò un
pugno in faccia, una volta, poi due, e con un urlo strozzato lei si protese
verso le ombre, bloccandogli i piedi mentre lo spingeva con tutta la forza
che aveva. A causa di quell’intralcio, l’uomo rovinò all’indietro e Mia gli
cadde addosso: gli infilò le dita in bocca, facendole scivolare all’interno
delle guance e torcendole come ami da pesca prima di squarciare verso
l’esterno.
L’uomo urlò quando le sue labbra si spaccarono, fra i latrati della folla.
La ragazza iniziò a percuotergli la mascella con i pugni, una volta, due, tre.
Le sue mani erano rosse. I denti digrignati. Aveva sangue nella bocca. Si
immaginò un console sorridente, con occhi scuri e attraenti. Un Gran
cardinale con la barba come una siepe e voce simile a miele. Le loro facce
ridotte in poltiglia sotto i suoi pugni, ancora
«… mia…»
e ancora, figurandosi sua madre, suo fratello, suo padre, tutto ciò che
aveva perduto, tutto ciò che le avevano portato via, che quest’uomo sotto di
lei fosse solo un altro nemico, solo un altro ostacolo tra lei e il cambio in
cui avrebbe sputato su tutte le loro fottute tom…
«… mia…»
Rimase immobile. Madida di sudore. Il respiro bruciante. Coperta di
rosso caldo e appiccicoso. Riusciva a percepire il gelo di Messer Cortese,
misto al sangue sulla sua nuca. Il mondo tornò a fuoco e i suoni crebbero
nelle sue orecchie. E sotto il battito tonante e gli echi del suo passato, lei li
udì. Montavano nel suo petto e le facevano pizzicare le punte delle dita.
“Applausi.”
Si alzò, dipinta di rosso fino ai gomiti. La folla sulle tribune era in piedi,
con Bevilacrime che si stava occupando di una raffica di offerte da parte dei
sanguila al bordo della Fossa. “Trecento pezzi d’argento.”
“Trecentocinquanta.” “Quattrocento.” E, su gambe tremanti, la ragazza
attraversò la Fossa e si andò a mettere davanti a Leonides. Guardò il suo
futuro padrone negli occhi e si profuse in una riverenza perfetta davanti a
lui.
«… mia…»
«Dominatii» disse.
I sanguila la fissarono a occhi stretti. Il suo executus gli sussurrò
all’orecchio. E mentre una tempesta di farfalle si levava in volo nella pancia
di Mia, Leonides alzò la mano e parlò con una voce che riecheggiò per
l’intera Fossa.
«Mille pezzi d’argento.»
Un mormorio sommesso si diffuse tra il pubblico e Mia ebbe un tuffo al
cuore. Che somma enorme! A dire la verità, era un’offerta esagerata:
probabilmente quell’uomo avrebbe potuto battere molti dei suoi contendenti
con la metà. Ma Mia sapeva che il Dominatii dei Leoni di Leonides
apprezzava la teatralità, e la sua offerta faceva capire a tutti i presenti nella
Fossa che non era dell’umore di mercanteggiare.
Leonides la voleva. E così l’avrebbe avuta. E alla malora il prezzo.
Era andata alla perfezione. Se Mia avesse combattuto tra i Leoni di
Leonides, avrebbe avuto un posto quasi assicurato nel Venatus Magni. E
una volta terminati i giochi, quando si fosse trovata vittoriosa sul podio…
«Mille e uno» giunse una voce.
Mia provò freddo alla pancia. Alzò lo sguardo verso gli spalti e vide una
figura farsi avanti tra la folla. Avvolta in un lungo mantello malgrado il
caldo, tirò indietro il cappuccio per rivelare un viso giovane e grazioso,
lunghi capelli ramati e pallida carnagione itreyana.
Una donna.
«… chi è quella…?»
«Non ne ho la minima idea» sussurrò Mia.
«Mille e uno pezzi d’argento» ripeté la donna.
Mia strinse gli occhi. Non aveva mai sentito parlare di un sanguila
donna: anche se c’erano stati alcuni famosi gladiatii femmina, il palco del
venatus era sempre stato gestito dalle mani attente di uomini. Forse la
nuova arrivata era l’agente di un altro Dominatii? Un piano da parte dei
funzionari per alzare il suo prezzo?
Mia guardò trepidante verso Leonides. Chiunque fosse questa donna, il
più grande sanguila della storia dei giochi non si sarebbe lasciato battere per
una singola moneta d’argento.
La faccia di Titus era una maschera. Leonides guardò il suo executus,
poi ancora la nuova arrivata, parlando come se quelle parole gli inacidissero
la bocca.
«È piuttosto infantile, non credi, mia cara?»
Il sorriso della donna si espanse sul suo volto come veleno.
«Infantile? Cosa intendi?»
«Ho sentito dire che hai solo una manciata di pezzi di rame da sfregare
assieme» disse Leonides. «Se il tuo intento è mettere in imbarazzo il patriis
familia della tua stessa Casata, non ci sono modi meno costosi per farlo?»
Il sorriso della donna si allargò ancora di più e Mia ebbe un tuffo allo
stomaco.
«Ti ringrazio davvero molto per la tua preoccupazione» disse lei. «Ma
questi sono solo affari, padre.»
«… oh, cielo…»
«Te l’ho detto in passato, Leona» la ammonì Leonides. «Il venatus non è
posto per donne. E il palco dei sanguila non è posto per te.»
«Hai paura che i miei Falconi possano oscurare i tuoi Leoni, caro
patriis?»
Leonides la schernì. «Un alloro da vincitore in una rissa di periferia non
fa un collegio.»
«Allora non t’importerà se mi prendo la tua sanguinosa bellezza?»
Leona lanciò un’occhiata a Mia. Anche Leonides si voltò a fissarla. Mia
venne avanti, le suppliche che si agitavano dietro i suoi denti. Ma il
sussurro di Messer Cortese la trattenne.
«… ricorda chi sei e chi dovresti sembrare…»
Il non-gatto aveva ragione. Questo era il suo copione, dopotutto, e il suo
era il ruolo più difficile da interpretare. Se voleva combattere sulle sabbie al
servizio di un collegio di gladiatii, poteva solo farlo come una schiava. E gli
schiavi non parlavano a meno che non fosse rivolta loro la parola. Di sicuro
non si intromettevano in un battibecco pubblico tra padre e figlia…
“Merda.”
Mia fissò il sanguila Leonides con occhi imploranti. Aveva calcolato
tutto così bene. Aveva combattuto come un demone, si era conquistata
l’approvazione di ogni maestro del sangue nella Fossa. Le mancava
un’unica parola, un’unica offerta per accedere al miglior collegio della
Repubblica. Sarebbe stata un passo più vicina alle gole del console Scaeva e
del cardinale Duomo. Tutto ciò che serviva era che Leonides dicesse…
«Molto bene, Leona.»
Leonides, scrollando le spalle con ostentata disinvoltura, voltò le spalle a
sua figlia.
«Prendila, allora. Per quanto ti potrà servire.»
Leona mostrò un sorriso radioso. Mia afflosciò le spalle. Dei legionari
marciarono nell’anello e il ragazzo con l’occhio storto le schiaffò i ceppi
attorno ai polsi. Allora avrebbe potuto fuggire. Nascondersi sotto il suo
manto d’ombra, sgattaiolare via dalla Fossa seguita soltanto da urla
sgomente e preghiere al Semprevigile.
Ma così sarebbe stata punto e a capo. Le erano occorse settimane per
orchestrare un viaggio clandestino ad Ashkah, la carovana distrutta, la sua
vendita nei Giardini. Avrebbe sprecato altre settimane per cercare di essere
venduta a un collegio più potente, e con i grandi giochi che si avvicinavano,
erano settimane che semplicemente non poteva permettersi.
Aveva posto fine a troppe vite, rischiato così tanto per trovarsi qui solo
per abbandonare completamente il suo piano. E anche se Leona era un
fattore sconosciuto, Mia aveva comunque fiducia nelle proprie capacità e
nessuna reale paura di poter fallire. Dietro di lei c’erano soltanto sangue e
una Montagna piena di intrighi. Davanti a lei c’erano la sabbia del venatus e
la vendetta.
Questa era la sua strada, ora. Nel bene o nel male, doveva percorrerla.
I legionari si separarono. Mia alzò lo sguardo e vide Domina Leona in
piedi davanti a lei. Così da vicino, poteva notare che la donna era sulla
ventina. Vividi occhi azzurri e capelli ramati arricciati in boccoli delicati, la
pelle spolverata di lentiggini. Indossava gioielli d’oro e una fascia nuziale
con un rubino. Sotto il mantello, il suo abito era di morbida seta liisiana.
Ogni parte di lei urlava “ricchezza”, tranne gli occhi. Quando Mia arrischiò
uno sguardo in quelle pozze di azzurro brillante bordate di kajal, riuscì a
pensare soltanto a una parola per descriverli.
“Affamati.”
«Mia bellezza sanguinosa» sorrise lei. «Che coppia saremo.»
Mia rimase immobile, incerta su cosa dire. Leona lanciò un’occhiata ai
soldati, l’irritazione nello sguardo. Uno degli uomini estrasse un
manganello e colpì Mia alle gambe. La ragazza lanciò un grido e cadde in
ginocchio. Strinse i denti e appallottolò le mani macchiate di sangue. Ma
riusciva a percepire Messer Cortese, che si aggirava fresco all’interno della
sua ombra, sussurrarle nelle orecchie.
«… chi sei e chi dovresti sembrare…»
E così Mia rimase lì nella polvere, gli occhi bassi, silenziosa e immobile.
«Io sono Domina Leona» disse la donna. «Anche se tu mi chiamerai
Dominatii.»
La donna protese la mano. Mia vide un anello dorato sul dito del sigillo
di Leona: un falcone ad ali spiegate, incoronato con un serto della vittoria.
Il manganello calò sulle sue scapole. Mia rantolò di dolore.
«Mostra il tuo rispetto, schiava!» sbraitò un soldato.
Mia fissò quel rapace con il suo serto dorato. Era orgoglioso, feroce e
selvaggio come lei. Eppure lei era qui, inginocchiata nella polvere come un
gattino frustato.
“Pazienza” pensò.
“Se la Vendetta ha una madre, il suo nome è Pazienza.”
Mia prese un respiro profondo.
Chiuse gli occhi.
«Dominatii» mormorò.
E, sporgendosi in avanti, baciò l’anello.
a. Galante vanta il maggior numero di chiese e templi di tutta la Repubblica, con un conteggio che
supera perfino quella di Godsgrave.
Prima che il Grande Unificatore, re Francisco I, conquistasse la nazione, gli abitanti di Liis
adoravano una sacra trinità nota come il Padre, la Madre e il Figlio. Ma una volta assimilati dalla
monarchia itreyana, il culto del Dio della Luce prese piede tra la gente comune come un incendio
in una distilleria ben fornita.
Un tipo scaltro, un mercante di nome Carlino Grimaldi, decise che il modo migliore per
distinguersi nel nuovo ordine mondiale era elargire vagonate di denaro alla Chiesa itreyana.
Costruì la prima cattedrale di Aa in tutta Liis, una struttura imponente nota come Basilica Lumina,
proprio nel cuore di Galante. Scolpita con raro marmo rosa e bellissimo vetro colorato, la
costruzione fece finire quasi in bancarotta il suo mecenate. Comunque, il risultato finale fu così
impressionante che il cardinale di Galante fece nominare Grimaldi governatore dell’intera città.
Presto i nobili di Galante si fecero in quattro per accaparrarsi il favore del clero di Aa e le chiese
intitolate al Semprevigile e i templi per le sue quattro figlie cominciarono a spuntare come uno
sfogo nei bassifondi di una deliziatrice dopo l’arrivo in porto della marina.
Anche se in seguito fu crocifisso per aver evaso le tasse, Carlino fu comunque annoverato nella
storia liisiana come un Bastardo Straordinariamente Astuto. Ancor oggi, ingraziarsi il favore tra i
tonacati di Liis è noto come “fare un Grimaldi.”
b. Diecimani cominciò la sua carriera come una ladra per le strade di Elai, e anche dopo essere
diventata una Lama della Madre, non perse mai il suo talento per l’arte della furtività. Si diceva
che si muovesse come l’oscurità stessa e che fosse capace di slogarsi entrambe le spalle a volontà,
permettendole di passare nei punti più stretti con poca difficoltà.
La sua Offerta più famigerata fu un senatore di nome Phocas Merinius, un uomo così
incredibilmente paranoico sull’assassinio che si diceva mantenesse una scorta di mezza dozzina di
guardie in servizio al lato del suo letto quando faceva l’amore con sua moglie. Si narra che
Diecimani ottenne l’accesso alla villa di Phocas strisciando dentro attraverso il sistema fognario e
risalendo lo scarico della latrina – un ingresso largo otto pollici al massimo – e rimanendo lì in
attesa dentro il tubo. Quando il povero Phocas rispose al richiamo della natura nel mezzo
dell’illuminotte, si sedette sul gabinetto e si ritrovò entrambe le arterie femorali recise prima
ancora che potesse cominciare le sue faccende.
Si dice che Diecimani passò i sette cambi successivi nei bagni della Cappella cercando di
lavare via la puzza.
Cosa non si fa per la propria Madre…
c. Le incursioni dei Luminatii avevano mancato entrambe: la Cappella di Galante era stata costruita
solo di recente e, all’insaputa degli Järnheim, la vecchia Cappella di Dweym era stata spostata
l’inverno precedente, quando, a causa di forti piogge e tubature di scarsa qualità, la cantina si era
allagata (e con essa la sua pozza di sangue).
Invece di riempire di nuovo la pozza, il Culto aveva deciso di costruire una nuova struttura su
un terreno più elevato nella città portuale di Seawall e aveva abbandonato quella danneggiata a
Farrow. Se costruire una Cappella completamente nuova per la Nostra Signora dell’omicidio
benedetto, in segreto, nel mezzo di un’importante metropoli vi sembra una questione scomoda e
costosa, considerate quanto segue:
1. Servono duemila piedi cubici di vitae per riempire ogni pozza di sangue della Chiesa.
2. Ci sono circa sette galloni e mezzo di liquido per piede cubico.
3. Il maiale medio contiene approssimativamente un gallone di sangue nel suo corpo.
Fate voi i conti, gentili amici. E chiedetevi se vorreste mai riempire una di queste dannate pozze due
volte.
d. È risaputo tra coloro che ingaggiano assassini che la Chiesa Rossa agisce secondo un codice che,
se non può essere definito d’onore, può almeno essere di condotta, noto come la Promessa
Scarlatta. Le restrizioni sono le seguenti:
Ineluttabilità: nessuna Offerta accettata nella storia della Chiesa è mai rimasta insoddisfatta.
Sacralità: chi ingaggia la Chiesa non può essere scelto come bersaglio della Chiesa.
Segretezza: la Chiesa non discute l’identità di chi la ingaggia.
Fedeltà: una Lama può servire solo un datore di lavoro alla volta.
Gerarchia: tutte le offerte devono essere approvate dal Signore/dalla Signora delle Lame o
dal/dalla Reverendo/a Padre/Madre.
Le prime tre restrizioni erano già efficaci alla nascita della Chiesa, ma le restrizioni di Fedeltà e
Gerarchia furono codificate dopo un famigerato avvenimento, narrato agli accoliti come “Il
racconto di Flavius e Dalia”.
Mettetevi seduti, gentili amici.
Flavius Apullo era un generale itreyano che fu tra i cospiratori che rovesciarono re Francisco
XV e forgiarono la Repubblica. Quindi divenne senatore e, come accade di solito, estremamente
ricco.
Il periodo attorno al crollo della monarchia itreyana fu piuttosto indaffarato nell’arte
dell’omicidio professionale, e ai singoli vescovi delle Cappelle locali fu concessa l’autorità di
accettare offerte. Il senatore Flavius Apullo iniziò a temere di essere assassinato all’incirca nello
stesso momento in cui i suoi rivali iniziarono sul serio a provare a eliminarlo e, in un cambio
imbarazzante, la Chiesa Rossa assunse l’incarico di uccidere Flavius la stessa illuminotte in cui lui
ingaggiò una Lama della Chiesa al suo servizio come guardia del corpo.
Facce rosse ovunque, gentili amici.
In un ulteriore accumulo di cazzate, la Lama designata per entrambe queste offerte fu una
donna di nome Dalia. Bella, manipolatrice e impareggiabile con un coltello a spinta, Dalia servì
come guardia del corpo di Flavius per tre anni. In quel periodo, i due divennero amanti e Dalia
eliminò un sacco di rivali di Flavio… tutti tranne il suo avversario più esplicito, Tiberius il
vecchio. Tiberius era il senatore che aveva ingaggiato la Chiesa per assassinare Flavius e, per la
legge della Sacralità, era intoccabile finché il suddetto omicidio non fosse stato portato a termine.
Tiberius, però, stava morendo della Vecchia Madre Sifilide, perciò aveva abbastanza fretta di
vedere Flavius sgozzato prima di lasciare le sue spoglie mortali.
La Chiesa Rossa era sull’orlo di un imbarazzo politico che avrebbe potuto porre fine alla sua
reputazione.
Astutamente, Flavius propose a Dalia di sposarlo per consolidarne la posizione al suo fianco:
presumeva che una fidanzata lo avrebbe tenuto più al sicuro da qualunque aspirante assassino
rispetto a una semplice persona assoldata. Non così astutamente, lasciò scadere il suo patrocinio
alla Chiesa Rossa nello stesso cambio in cui Dalia accettò la sua proposta di matrimonio.
Dalia pugnalò a morte suo marito sul loro talamo nuziale. Circolano voci contrastanti sul fatto
che abbia pianto o meno al compimento di quell’atto. Poi portò la testa di Flavius al capezzale di
Tiberius il vecchio per dimostrare che il contratto era stato onorato. Quindi, soddisfatta che la
reputazione della Chiesa fosse intatta, ma ancor di più per il fatto che Tiberius non fosse più un
datore di lavoro della Chiesa protetto dalla legge della Sacralità, Dalia sollevò il suo pugnale a
spinta e risparmiò il disturbo alla Vecchia Madre Sifilide.
Le voci su un suo improbabile pianto in quel momento sono piuttosto univoche.
Dopo questo incidente, fu deciso di mettere per iscritto alcune dannate regole su come gestire
le cose da queste parti.
CAPITOLO 5
DEVOZIONE
a. Nelle case dei midollani e in alcuni luoghi di lavoro consolidati, non è insolito che gli schiavi siano
pagati per il loro lavoro: l’idea è che uno schiavo che abbia la capacità di ricomprare la propria
libertà lavorando sodo, lavorerà davvero sodo.
Il livello di salario però è del tutto privo di regole e molti schiavi guadagnano una miseria. I
padroni senza scrupoli spesso fanno pagare a uno schiavo i costi di mantenimento e li deducono
dai loro “guadagni”, con il risultato che una vita di fatiche non permette loro di ottenere la somma
pagata per il loro acquisto iniziale.
Ingiusto? Assolutamente. Ma se il sistema fosse giusto, non sarebbe un granché come sistema,
gentili amici.
CAPITOLO 7
BRAME
Un’ora dopo, Mia era in piedi fuori dalle camere del vescovo della
Cappella di Godsgrave. Era vestita con stivali fino al ginocchio e cuoio
nero, un farsetto di velluto nero riccio, i capelli ben pettinati. La spada
lunga di necrosso di suo padre al fianco, lo stiletto di sua madre nel fodero
all’interno della manica pieghettata.
Le camere del vescovo erano nascoste in un intrico di cunicoli d’ossa: le
viscere della Cappella erano un labirinto, e Mia aveva rapidamente perso
l’orientamento. Se non fosse stato per Jessamine, dubitava che sarebbe
stata in grado di ritrovare la strada per la pozza di sangue, cosa che la rese
ancora più cauta alla presenza della ragazza.
La porta della camera si aprì senza un suono e un giovane snello uscì
nelle ombre del corridoio, vestito di velluto nero. Il suo viso era stato
intessuto dall’ultima volta che Mia l’aveva visto, ma era ancora troppo
esile, e lei avrebbe riconosciuto ovunque quei penetranti occhi azzurri.
Capelli scuri, pallido come un fantasma, labbra lievemente increspate
contro le gengive prive di denti.
«Zitto» sorrise Mia.
Il ragazzo si fermò e la squadrò, come se fosse sorpreso di vederla. Un
sorrisetto gli incurvò le labbra mentre le comunicava a gesti in
Senzalingua.
salve
Lei rispose a segni, le mani che si muovevano rapide.
tu servi qui? a godsgrave?
Zitto annuì.
otto mesi
è bello vederti
anche per me
dovremmo bere qualcosa assieme
Il ragazzo guardò Jessamine, poi rivolse a Mia una scrollata di spalle
evasiva.
«Ascoltate, detesto interrompere questo incontro commovente» disse
Jess. «Ma sul serio, sto per mettermi a piangere dall’emozione e il vescovo
sta aspettando.»
Zitto annuì e guardò Mia.
che la madre vegli su di te
Con un piccolo inchino, il ragazzo premette assieme i polpastrelli e si
allontanò lungo il corridoio, silenzioso come un’ombra. Mia lo osservò
andare, un po’ rattristata. Era stata un’accolita con Zitto. Lui l’aveva
aiutata nelle prove finali e in cambio lei gli aveva salvato la vita durante
l’attacco dei Luminatii. Ma come sempre, lo strano ragazzo si teneva a
distanza.
“Un assassino, sempre e comunque.”
Jess bussò all’uscio tre volte.
«Cosa cazzo vuoi?» domandò una voce aspra dall’interno.
Jessamine aprì la porta e fece cenno a Mia di entrare. La ragazza si
introdusse nella camera del vescovo e si guardò attorno. Mura d’ossa
erano fiancheggiate da librerie cariche di carte impilate a casaccio. Fasci
di cartapecora e pergamene inserite nelle loro custodie o semplicemente
ammassate l’una sull’altra, centinaia di libri impilati senza alcuna cura o
sparpagliati sul pavimento… sembrava che un globo di mutavitrum fosse
esploso dentro la biblioteca di un ubriaco. Lungo una parete c’era una fila
di armi da tutti gli angoli della Repubblica: una lama di solacciaio dei
Luminatii; un’ascia da battaglia vaaniana; un gladio a doppio filo da
un’arena di gladiatii; un fioretto d’acciaio liisiano. Tutte quante
scintillavano nella soffusa luce arkemica.
Seduto a una grossa scrivania di legno, quasi nascosto dietro una pila
ondeggiante di scartoffie, Mia vide il vescovo di Godsgrave, una penna
d’oca tenuta fra le dita segnate da macchie dell’età.
«Denti della Mannaia» mormorò. «… Mercurio?»
Il vecchio alzò gli occhi dalle sue carte e si spinse gli occhiali su per il
naso. La sua massa di folti capelli grigi sembrava più ribelle dall’ultima
volta che lo aveva visto, gli occhi azzurro ghiaccio circondati dal suo
perpetuo cipiglio. Era evidente che non dormiva a sufficienza da mesi.
«Bene, bene» sogghignò Mercurio. «Pensavo che fossi il Taciturno,
tornato a lamentarsi ancora. Come va, piccolo Corvo?»
Mia guardò il suo ex mentore con aria stupita.
«Cosa ’bisso ci fai qui?»
«Cosa cazzo ti sembra stia facendo?»
«Ti hanno fatto vescovo di Godsgrave?»
Mercurio scrollò le spalle. «Il vescovo Thalles è stato tolto di mezzo
quando i Luminatii hanno epurato la città. Per qualche strano motivo,
quegli stronzi non hanno mai attaccato il negozio di curiosità, ma non
potevo arrischiarmi a tornarci. Perciò, una volta ricostruita la Cappella,
lady Drusilla mi ha convinto a tornare in attività. Senza il negozio, non
avevo un cazzo da fare.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Eri a Galante. E in caso i tuoi fottuti occhi abbiano smesso di
funzionare, sono stato un tantino occupato. Dunque, senza altri preamboli,
Adonai mi ha inviato la missiva per avvertirmi che saresti arrivata. Tu sai i
particolari?»
Mia fu presa un po’ alla sprovvista. Mercurio non aveva mai davvero
superato il fatto che lei avesse fallito l’ultima prova. Anche se era sempre
stato affezionato a lei, sembrava comunque… deluso, in qualche modo.
Come tutti gli altri membri del Culto, il suo vecchio maestro sapeva come
portare rancore. Ciò la addolorava, certo: il vecchio l’aveva accolta e
aveva badato a lei per sei lunghi anni. Anche se non l’avrebbe ammesso
con nessuno, amava quel vecchio bastardo.
Tuttavia lei era una Lama e lui adesso era il suo vescovo, e quel tono le
ricordò bruscamente dove si trovava. Mia tirò fuori la custodia della
pergamena che Solis le aveva dato. Era di cuoio, perciò poteva attraversare
il Cammino del Sangue: nulla in cui non avesse mai pulsato la vita poteva
viaggiare tramite la magika di Adonai. Mia osservò Mercurio srotolare la
pergamena ed esaminarla a occhi stretti.
«La Domina» mormorò.
«Quella che capeggia i Damerini» replicò Mia. «Gironzolano per la
Baia dei Macellai.»
Il vescovo annuì, poi prese lo schizzo che raffigurava il bersaglio di Mia.
Mostrava una donna con un cipiglio cupo e occhi ancora più scuri.
Indossava una redingote dal taglio elegante e aveva i capelli acconciati in
boccoli artistici, com’era la moda tra le nobildonne midollane nelle
stagioni recenti. Sull’occhio destro aveva fissato un monocolo (Mia pensò
che fosse una cosa piuttosto ridicola).
Mercurio lasciò cadere la pergamena sulla scrivania.
«Un peccato seppellire un coltello così affilato.» Il vecchio prese una
lunga sorsata del suo tè. Da quella breve distanza, Mia poteva fiutare che
conteneva aureovino. «Bene. I particolari sono dettagliati e sai dove
cominciare a cercare. Hai otto cambi per eliminarla e sgraffignare questa
mappa, e la clessidra sta scorrendo. Cosa ti serve da me?»
«Un posto per dormire. Mutavitrum. Armi. Una Mano che conosca
’Grave tanto quanto me e che possa muoversi alla mia stessa velocità.»
«Hai la tua Mano: si trova proprio dietro di te.»
Mia si voltò a guardare Jessamine. Poi si girò di nuovo verso il vecchio
Mercurio. Il vescovo ovviamente era all’oscuro della rivalità tra le due
ragazze, e tirarla in ballo sembrava una cosa davvero meschina. Ma Mia si
fidava di Jessamine come del fatto che i soli non brillassero, e le piaceva la
sua compagnia allo stesso modo in cui agli eunuchi piace guardare
litografie oscene.
“Come sollevare la questione…”
«Forse c’è qualcuno con maggiore… esperienza?»
Mercurio scrutò Mia da sopra gli occhiali con espressione amareggiata.
«Lama Mia. Godsgrave è l’unica Cappella della Chiesa Rossa che
siamo riusciti a ricostruire negli otto mesi successivi all’attacco dei
Luminatii. Grazie al Gran cardinale Duomo e a quei fanatici religiosi dei
suoi leccapiedi, io sono uno dei due soli vescovi in carica nell’intera fottuta
Repubblica, in effetti. E con Scaeva che sta servendo un quarto mandato
come console e tutta la politica di Godsgrave in agitazione, non c’è fine ai
bastardi da uccidere. Perciò, dal momento che sono più indaffarato di un
bordello che fa una promozione due per uno, fammi l’onore di dire grazie e
di prendere quello che ti viene dannatamente concesso.»
Mia guardò il suo ex mentore negli occhi. Riconobbe il suo tono: era lo
stesso che usava quando lei era una ragazzina e lui la beccava a rubare i
suoi sigaretti. Lanciò un’occhiata dietro di sé verso Jessamine, poi sospirò
piano.
«Grazie, vescovo.»
«È un fottuto piacere.»
«Che la Ma…»
«Sì, sì, baci neri per tutti. Ora smamma, dài.»
Mia uscì indietreggiando dalla stanza con un inchino, cercando di non
prendere troppo sul personale l’umore di Mercurio. Era sempre stato un
acido vecchio bastardo, e gestire la Cappella di Godsgrave in un momento
come questo non poteva avere un buon effetto sul suo atteggiamento.
Jessamine condusse Mia lungo un passaggio tortuoso e lei la seguì da
presso. Una volta che furono decisamente fuori dalla portata d’udito del
vescovo, Mia prese la Mano per il braccio e la fece voltare verso di lei.
«Avremo problemi, tu e io?»
«Cosa intendi, Corvere?»
«Intendo che non è un segreto che ci odiamo come fottuto veleno. Ma
ora sei la mia Mano. Devo potermi fidare di te, Jess.»
Gli occhi verdi della rossa scintillarono quando parlò.
«Tu non mi piaci, Corvere. Ti ritieni scaltra. Pensi di essere speciale.
Hai avvelenato Diamo e mi hai ingannato facendomi perdere il mio posto in
cima a Canti. Ma io servo la Madre, servo il Culto, proprio come te. Non
mettere più in dubbio la mia devozione.»
La rossa si voltò e si avviò nell’oscurità.
Le ombre ai piedi di Mia si incresparono e udì un sussurro freddo
nell’orecchio.
«… hai sempre avuto un talento per farti degli amici…»
«… BE’, A ME PIACI, SE CONTA QUALCOSA …»
«… ringrazio la madre di non essere realmente in grado di vomitare…»
«… STAI ZITTO …»
«… che risposta arguta…»
«… L’ARGUZIA È SPRECATA CON I TONTI …»
«Avete finito?» chiese Mia.
«… cagnaccio…» giunse un basso sussurro.
«… BASTARDO …» fu la risposta ancora più bassa.
Mia incrociò le braccia, tamburellando il piede sulla pietra. Il silenzio
calò sul corridoio, interrotto solo dai passi di Jessamine che si
allontanavano.
«Sbrigati, Corvere» la chiamò la Mano. «Non abbiamo tempo da
perdere.»
Infilando i pollici nella cintura, Mia non ebbe altra scelta tranne seguire
Jessamine lungo il corridoio.
“Tenebris…”
Mia fissò il gladiatii di nome Furian dal lato opposto del cortile. L’uomo
incontrò il suo sguardo, la brezza calda che gli soffiava i lunghi capelli scuri
attorno alla faccia. Quegli occhi ardenti la penetravano con un’intensità
che…
Be’, a dire la verità, senza Messer Cortese al suo fianco, quell’intensità
la spaventava.
Ma Madre Nera, cosa poteva voler dire? Mia aveva incontrato solo uno
della sua specie, prima d’ora, e lord Cassius era morto prima di darle
risposte su chi o cosa fosse. Forse Furian sapeva qualcosa di più? Forse
aveva tutte le veri…
L’executus fece schioccare la sua frusta.
«Gladiatii! Tornate a addestrarvi!» Si voltò verso Mia, Sidonius e
Matteo. «Voi tre. Con me.»
I gladiatii ruppero le righe e si disposero su una formazione perfetta,
marciando lungo il cortile verso il retro dell’edificio. L’executus li seguì
zoppicando, appoggiandosi al suo bastone con la testa di leone. Mentre Mia
gli andava dietro, lo vide prendere un sorso da una fiasca metallica alla
cintura.
Nel cortile posteriore, dove una volta il padre di Mia teneva una stalla di
cavalli orgogliosi, lei vide che il terreno era stato completamente
ristrutturato. Le sabbie color ocra erano piene di fantocci da addestramento,
rastrelliere di scudi e armi di legno. Il terreno era irregolare, lo spazio
suddiviso tra livelli diversi da ponteggi e buche, da dieci piedi di altezza a
dieci di profondità. Un ampio cerchio era contrassegnato da pietre bianche,
e gli emblemi della Familia Remus sventolavano fieri sui bastioni.
I gladiatii si divisero a coppie per esercitarsi. Mia vide diverse
combinazioni di armi, vari stili di combattimento. La ragazza vaaniana
impugnò un arco di legnoferro e cominciò a crivellare bersagli all’altro lato
del cortile. Furian prese delle spade gemelle e iniziò a percuotere uno dei
fantocci da addestramento come se quello avesse insultato sua madre.
L’executus zoppicò fino alla veranda, salutando un grosso cane seduto
all’ombra. Era un mastino, maschio, con la pelliccia scura e un collare
borchiato. Il cane era evidentemente entusiasta e l’omone si inginocchiò
con un sussulto per permettere che gli slinguazzasse la faccia.
«È bello rivederti, vecchio amico» mormorò, accarezzando il cane. «Hai
fatto la guardia al collegio mentre ero via?»
Mia e i suoi compagni sudavano ai soli ardenti mentre l’executus finiva
di fare le coccole al cane. Era la prima volta in un mese che vedeva quel
bastardo sorridere, anche se con quella cicatrice che gli deturpava la faccia
era difficile capirlo. Una volta terminate le effusioni, l’executus zoppicò nel
cerchio di pietra e schioccò le dita.
«Verme» sbraitò. «Spada e scudo.»
Mia notò un movimento con la coda dell’occhio e vide una ragazzina
schizzare fuori dall’ombra di un piccolo edificio a un angolo del cortile. Era
Liisiana: ossuta e abbronzata, con capelli scuri arruffati. Non poteva avere
più di dodici anni, ma tre cerchi arkemici le marchiavano la guancia,
contrassegnandola come una schiava del livello più alto.
“Per quale capacità è tanto preziosa una bambina così giovane?”
La ragazza corse alle rastrelliere delle armi, prese una lama di legno da
esercitazione e un ampio scudo di quercia e li portò all’executus. L’omone
puntò la lama verso Matteo.
«Vieni. Mostrami di che pasta sei fatto, ragazzo. Verme, porta al
novellino un cazzo e qualcosa dietro cui nascondersi.»
La ragazza annuì, corse di nuovo alle rastrelliere e tornò con un’altra
spada e un altro scudo. Matteo si preparò a lottare, adottando una posa di
combattimento quasi decente.
«Attacca!» ruggì l’executus.
Matteo agitò la sua lama di legno con un urlo, ma l’executus parò
l’attacco con facilità.
«Non ho chiesto un fottuto bacio. Ho detto attacca!»
Il ragazzo si accigliò e lanciò una serie di colpi diretti a testa, petto e
pancia dell’avversario. L’executus era forte come un toro, ma si muoveva
lento su quella sua gamba di ferro, e i movimenti di Matteo si rivelarono
sorprendentemente buoni. Il ragazzo spinse indietro l’uomo più vecchio,
spada che impattava contro spada, polvere che si sollevava dai loro scudi
quando cozzavano. Mia notò che i gladiatii stavano combattendo
svogliatamente, osservando lo scambio con interesse.
Matteo diventò più aggressivo: come Mia, era evidente che si era
aspettato che l’executus fosse un maestro spadaccino. Ma di fronte agli
attacchi furibondi del ragazzo, l’uomo si mise in difesa totale. Matteo
assestò un colpo dopo l’altro contro la guardia dell’uomo, prevalendo in
modo completo finché l’executus non fu spinto contro il limite del cerchio.
E allora, come un orso risvegliato troppo presto dal suo letargo, il
vecchio gladiatii si destò.
Spostò il peso dal piede posteriore a quello anteriore in un batter
d’occhio, muovendosi in modo rapido e aggraziato malgrado la gamba di
ferro. E nel giro di pochi secondi aveva sbattuto via la spada dalla mano di
Matteo, gli aveva percosso la pancia con la lama e lo aveva lasciato steso
nella polvere.
L’executus torreggiò sopra il ragazzo ansimante; sulla sua fronte, solo
una sottile patina di sudore.
«Cos’hai imparato?»
Matteo si tenne la pancia dolorante, troppo privo di fiato per parlare.
«La sabbia non è posto da attaccabrighe» disse l’executus, la cicatrice
increspata in un cipiglio. «È una scacchiera. E su di essa partecipiamo al
gioco più importante di tutti. Un avversario scaltro può simulare debolezza.
Consentirti di sfogarti e apprendere i tuoi movimenti, tutto senza versare
una goccia di sudore. La presunzione è stata la fine di migliaia di folli che si
facevano chiamare gladiatii. Ricordatelo, o sarà anche la tua fine. Ora
togliti dalla mia fottuta sabbia.»
L’executus si voltò verso Mia, puntando la sua lama di legno.
«Tu sei la prossima, ragazza. Mostrami quanti di quei mille preti vali.»
La ragazzina di nome Verme porse a Mia una lama da addestramento e
uno scudo con un sorriso timido. Ma Sidonius ghermì l’arma dalla mano
della piccola e spostò Mia con uno spintone.
«Vaffanculo» ringhiò. «Nessuna cagna mette piede sulla sabbia prima di
me.»
Forse era per via del caldo o delle tre settimane passate a subire angherie
da parte di quell’uomo in mare. Forse fu per la sua collera leggendaria che
stava per uscire a giocare senza Messer Cortese a tenerla a bada, oppure a
causa degli occhi scuri di Furian che la stavano seguendo nel cortile.
Qualunque fosse il motivo, Mia si ritrovò le mani sulle spalle di Sidonius e
il ginocchio sepolto tra le sue palle.
«Sono una cagna, eh?» sussurrò.
Sidonius strabuzzò gli occhi mentre si piegava in due. Mia intrecciò le
dita dietro la sua testa e gli calò la faccia contro il ginocchio. Fu sopra di lui
in un attimo, martellandogli la mascella di pugni, i denti serrati, sangue
nella sua…
Crac!
La frusta incise una linea dolorosa sulle sue scapole. Un altro colpo la
fece balzare via con un rantolo, a contorcersi fuori dalla sua portata. Una
risata risuonò tra i gladiatii presenti. L’executus la guardò torvo, la frusta
srotolata in mano.
«Quella che hai appena danneggiato è la proprietà della tua Dominatii.
Se ora dovesse cadere nella Sfrondatura, le ripagherai tu la perdita della sua
vita?»
Mia si sfregò la frustata sulla schiena, ringhiando. «Nessun uomo può
parlarmi in quel modo.»
«Lui non è un uomo!» sbraitò l’executus. «È uno schiavo. Come te. Ed
entrambi dimenticate il vostro posto. Finché non sopravvivrete alla
Sfrondatura nel prossimo venatus, siete meno di niente. Ora raccogli quelle
armi e mostrami un briciolo di quella promessa che la tua Dominatii vede in
te, prima di mettere davvero a dura prova la mia pazienza.»
La ragazzina chiamata Verme aiutò Sidonius a rialzarsi e, con mani
gentili, lo condusse fuori dal cerchio. L’executus arrotolò la frusta alla sua
cintura, poi prese un altro sorso della sua fiasca mentre Mia raccoglieva
spada e scudo, scura in volto. La furia ardeva nella sua pancia, i denti erano
serrati con forza. Mia riusciva a percepire Furian che la osservava con
quegli occhi scuri scintillanti, provando fame e nausea nelle proprie viscere.
E, senza una parola, colpì.
I suoi attacchi erano aggressivi, accecanti. Danzava sulle sabbie ocra,
scivolava tra i colpi dell’executus. Ma durante il suo addestramento nella
Montagna, aveva passato gran parte del suo tempo a imparare lo stile
Caravaggio, combattendo con una spada in ciascuna mano. Era improbabile
che una Lama della Madre se ne andasse in giro con un grosso, dannato
scudo fissato al braccio, perciò in tutto il tempo trascorso lì, Mia non aveva
mai imparato a usarne uno.
Era peso morto. Ogni impatto le scuoteva il gomito, la spalla. E disperata
com’era di dare prova di sé, era comunque abbastanza consapevole da
sapere che l’executus stava giocando con lei. Lasciava che schivasse,
zigzagasse e si stancasse ogni momento che passava, studiando nel
frattempo i suoi schemi e preparandosi al colpo letale.
Ma lei non era un inutile sacco o fantoccio da addestramento. Che fosse
dannata se avesse permesso che la trattassero come tale. E così, cercando di
mostrare a quest’uomo di cos’era davvero capace, strinse gli occhi e si
protese verso l’ombra ai suoi piedi.
Nessuno l’avrebbe notato: l’ombra dell’executus si increspò appena. Mia
non riuscì ad afferrare per bene la gamba di ferro: i soli qui erano troppo
luminosi, la sua stretta sulle ombre troppo debole. Ma tenne con forza
sufficiente la suola del suo stivale, proprio come aveva fatto nella Fossa e
nella Montagna almeno cento volte. L’executus sgranò gli occhi quando la
sua posizione venne meno. Mia mirò alla sua gola, serrando la stretta sulle
ombre e concentrata sul pensiero di insegnare il suo valore a quest’uomo
che la riteneva meno di nulla.
E poi perse la presa.
Le ombre scivolarono via dalla sua stretta come sabbia tra le dita,
liberando il piede dell’uomo. L’executus le sbatté in faccia lo scudo,
facendola barcollare all’indietro. Mia cercò di ruotare di lato, lanciando un
grido di dolore quando la spada dell’uomo la colpì alla schiena, gettandola
nella polvere. La lama di legno si abbatté accanto alla sua testa quando
rotolò da una parte e lanciò una manciata di terra in faccia all’executus. Ma
lui sollevò lo scudo con noncuranza, rispondendo con un calcio violento di
quella gamba di ferro, dritto nella sua pancia.
Mia si piegò in due e vomitò, accecata dal dolore. L’executus conficcò la
spada da addestramento nella sabbia accanto alla sua testa, la fissò dall’alto
in basso e ringhiò.
«Mille pezzi d’argento? Io non ne avrei pagato nemmeno uno.»
Mia si rimise in ginocchio artigliando il terreno, con i capelli impolverati
che si attaccavano al vomito che aveva sul mento. Gli altri gladiatii la
ignorarono con ghigni sulle labbra, tornando al loro addestramento. Mia si
tolse lo scudo dal braccio e sputò sangue nella polvere.
«Ancora» pretese.
«No» disse l’executus. «Volevo una valutazione. E ora ne ho a badilate.
Vai a lavarti la sconfitta. Si sta facendo tardi. Il tuo addestramento comincia
domani.»
Matteo venne avanti lentamente e aiutò Mia a rialzarsi. Mettendosi in
piedi con un sussulto, lei guardò per il cortile polveroso, la rabbia che le
ardeva dentro. Era riuscita ad afferrare il piede dell’executus, l’aveva stretto
per bene. Era un trucco che aveva eseguito innumerevoli volte: avrebbe
dovuto riuscire a sconfiggerlo facilmente. Ma qualcosa… no, qualcuno, le
aveva sottratto il controllo delle ombre, facendo in modo che la sconfitta
fosse lei.
Furian stava facendo volar via l’imbottitura dal suo povero fantoccio da
addestramento e alzò lo sguardo, il sudore che scintillava sul suo volto
piacente. Lunghi capelli scuri sventolavano nella brezza calda. Il torque
d’argento brillava. Fissò gli occhi scuri su di lei.
«Bastardo» bisbigliò Mia.
L’Imbattuto tornò al suo addestramento senza un’altra occhiata.
CAPITOLO 8
PREGHIERE
a. I braavi sono un gruppo variegato di bande che gestiscono gran parte delle attività criminali a
Godsgrave: prostituzione, furti e violenza organizzata. Anche se furono una spina nel fianco dei re
di Itreya e del senato per secoli, la storia della città abbonda di episodi sanguinosi in cui i vari capi
locali provarono (invano) a scalzarli dai loro covi tradizionali nei bassifondi di Godsgrave.
Fu il console Julius Scaeva a proporre per primo l’idea di dare alle bande di braavi più potenti
uno stipendio ufficiale, e finanziò il primo pagamento con la propria ricchezza personale. Da
allora, la città ha goduto di un lungo periodo di pace e stabilità, e Scaeva ha ottenuto uno
straordinario aumento della propria popolarità.
E come Mia affermò memorabilmente nella nostra prima avventura, il cosiddetto Senatore del
Popolo è un’odiosa fregna, gentili amici.
Ma non una fregna stupida.
b. Una taverna affermata nella parte inferiore occidentale di Godsgrave, che ha visto cambiare il
nome uno stupefacente numero di volte nel corso degli anni. Inizialmente chiamata Il Cespuglio
Rovente, il suo primo proprietario era stata la tenutaria di un bordello in pensione con un
atteggiamento piuttosto allegro sui malanni che i numerosi anni in sella le avevano procurato.
Acquistata da un leale monarchico anni più tardi, fu rinominata Il Re Dorato poco prima che
Francisco XV fosse spodestato. Dopo il brutale omicidio del buon sovrano, la taverna fu
rinominata Il Tiranno Trucidato, con quella che molti abitanti del luogo considerarono una mossa
davvero astuta.
Decenni dopo, una serie di proprietari successivi rinominarono la taverna Il Monaco Ubriaco, Il
Seno della Figlia, il divertente ma inspiegabile Sette Grassi Bastardi (c’erano solo due proprietari
all’epoca, nessuno dei quali particolarmente obeso). Fu infine acquistata da un capo dei braavi di
nome Guiseppe Antolini e dalla sua nuova sposa, Livia, e rinominata Il Voto dell’Amante.
Guiseppe sparì poco dopo aver acquistato la taverna, però, e Livia divenne l’unica proprietaria
della locanda e della gestione della banda, dando a se stessa il nome di La Domina e alla taverna
quello di La Cena del Cane. Si dice che avesse scoperto che il suo amato se la spassava con una
delle cameriere e, stando alle chiacchiere da focolare, gli avesse tagliato il gingillo per darlo da
mangiare al suo cane, Oli.
Che questa diceria sia vera oppure no, bisogna osservare che la prima cosa che vede un nuovo
avventore del locale è un barboncino ben pasciuto seduto accanto al fuoco e una mannaia affilata
appesa sopra il bancone.
c. Una parabola dei Vangeli di Aa. Nella sua saggezza, in un bel fine settimana, il Dio della Luce
volle mettere alla prova i suoi sudditi per vedere se erano degni. E così, travestito da mendicante,
si sedette fuori dall’imponente tempio eretto in suo nome, indossando stracci e con una ciotola
delle offerte davanti a sé.
Il re passò con la sua corona dorata e il mendicante lo implorò di dargli una moneta. Ma il re
gli disse no.
Il cardinale passò con la sua veste di seta e il mendicante implorò di nuovo. Ma il cardinale non
gli diede nulla.
Poi passò uno schiavo e, nella sua saggezza, Aa non chiese nulla, perché l’uomo non aveva
niente da dare. Ma vedendo il mendicante in difficoltà, lo schiavo prese il proprio mantello –
l’unica cosa che possedeva al mondo – e lo avvolse attorno alle spalle del vecchio mendicante. E
Aa si tolse il travestimento e si alzò in piedi, e lo schiavo cadde in ginocchio, meravigliato.
«Alzati, ti prego» disse l’onnipotente Aa. «Poiché perfino nella tua povertà, tu hai dignità. E ti
dico che tu non dovrai inchinarti mai più a nessuno.»
E il Dio della Luce concesse allo schiavo la libertà. E lo schiavo fu estremamente contento. E
nessuno si fermò per chiedersi cosa aveva in mente di dare lo schiavo al mendicante successivo se
avesse scoperto che il primo non era un dio, o come per un re non fosse una pratica economica
seria andare in giro a elargire denaro dei contribuenti ai poveri quando le infrastrutture pubbliche
hanno un bisogno tanto estremo di essere ristrutturate, o perché il creatore dell’universo non
avesse nulla di meglio da fare in un pomeriggio di un fine settimana che scendere sulla terra a
cazzeggiare con la gente.
Pfui.
Parabole.
CAPITOLO 9
PASSI
e Passò
attraverso
lo spazio vuoto
in mezzo.
e Passò
per arrivare in
quelle
dell’a
nticamer
a.
a. Be’, per quanto una persona con una spada di necrosso e un borsello di esplosivi arkemici premuti
contro l’inguine possa scivolare.
b. Situato vicino ai bordelli e alle case di piacere di Piccola Liis, si dice che il Ponte delle Lacrime
debba il suo nome ai dispiaceri di mille amanti respinti, che nel corso degli anni sono stati su quel
ponte a piangere quando hanno scoperto che i loro amati avevano cercato la compagnia di un
deliziante o di una deliziatrice nel quartiere dei bordelli.
In verità, il ponte ottenne il suo soprannome molto prima che il distretto circostante diventasse
un covo di nequizie, e lo deve al motivo in pietra a forma di lacrima che sostiene la sua arcata
principale.
Tuttavia, mai lasciare che la verità sia un ostacolo per una buona storia, gentili amici.
c. Zoppichelli: gergo di Godsgrave per i triboli, così chiamati perché assomigliano all’esercizio
ginnico dei saltelli e al fatto che le persone che decidono di correrci sopra tendono a finire… Oh,
avete capito il concetto.
CAPITOLO 10
SEGRETI
Un tuono ruppe i cieli mentre Ash e Jessamine si scontravano sul tetto della
cattedrale.
Nessuna delle due emetteva un suono. Niente urlo di battaglia, né
un’imprecazione. Non un commento sarcastico. Entrambe erano state
addestrate nell’arte della morte dai migliori assassini della Repubblica ed
entrambe avevano imparato bene le lezioni. Ashlinn estrasse due stiletti
dalle maniche e respinse la carica di Jessamine. Mia sbatté le palpebre tra
la pioggia battente e quell’orrenda luce ardente, notando che le armi di Ash
erano scolorite a causa del veleno in cui erano state intinte. Anche se
Jessamine aveva il vantaggio di una lama più lunga, sarebbe bastato un
taglietto da parte di Ash per ucciderla.
Mia cercò a tentoni la sua spada lunga e provò ad alzarsi. Ma non riuscì
a fare nessuna delle due cose… non con quella maledetta Trinità attorno
alla gola di Ashlinn. Ogni volta che Ashlinn si muoveva, la soliluce soffusa
toccava la superficie del medaglione, trafiggendo gli occhi di Mia.
Serrando i denti, riusciva soltanto a trattenere un piagnucolio: non poteva
certo alzarsi e combattere.
Messer Cortese era fuggito e nemmeno Eclissi poteva avvicinarsi alla
Trinità. Mia era sola. Una paura tremenda crebbe nella sua pancia, un
terrore davanti a questo dio e al suo odio.
Tutto il suo potere. Tutto il suo addestramento. Tutti i suoi doni.
Ed era completamente inerme.
Jessamine balzò in avanti sulle tegole scivolose, mostrando la velocità e
l’istinto selvaggio che l’avevano resa l’alunna preferita di Solis. Ash
indietreggiò, con la paura che le brillava negli occhi quando si rese conto
di essere in difficoltà. Ma la sua voce era calma e fredda.
«Che bello rivederti, Jess. Come ti trovi nelle retrovie?»
Le note armoniose di acciaio su acciaio.
La percussione del tuono.
«Dimmi…» Ashlinn evitò a malapena il colpo di Jessamine «cos’hai
provato quando ti hanno accoppiata con la ragazza che ti ha impedito con
l’imbroglio di diventare una Lama?»
Jessamine rimase in silenzio, rifiutando di lasciarsi provocare. Spinse
Ashlinn all’indietro, tentando un affondo quando la sua avversaria scivolò
sulle tegole rese sdrucciolevoli dalla pioggia. Ashlinn si rimise in piedi
rapidamente, perdendo la stretta su uno dei suoi coltelli. Il pugnale
avvelenato slittò giù per lo spiovente del tetto, impigliandosi sull’orlo della
grondaia.
«Cos’hai provato quando Mia ha ucciso Diamo?»
Jessamine esitò per un attimo, poi rinnovò il suo attacco con intensità
furibonda. Ashlinn sorrise, indietreggiando più vicino al punto dove Mia
giaceva indifesa. Tenne la lama avvelenata di fronte a sé, ma era dalle sue
labbra che colava la sostanza più letale.
«Te lo scopavi?» chiese Ash. «Non l’ho mai scoperto. Cos’hai provato a
inginocchiarti davanti alla ragazza che lo ha assassinato?»
«Sta’ zitta» sussurrò Jessamine.
«È morto in modo disgustoso» incalzò Ashlinn. «Vomitando sangue.
Cagandosi nelle brache. Riuscivi a sentire la puzza dal cerchio della
prova? A me è arrivata una zaffata sulle tribune.»
«Sta’ zitta!»
Jessamine affondò, il volto contorto dalla rabbia. Ashlinn ruotò da una
parte e, con la sua avversaria sbilanciata, trovò il tempo per infilare una
mano in un borsello alla cintura. Prese una manciata e la gettò: un lampo
brillante di polvere arkemica scoppiò negli occhi di Jessamine. La rossa
indietreggiò barcollando, accecata e sputacchiante. Ashlinn si avvicinò per
ucciderla, ma, pur con lo stomaco in subbuglio, Mia riuscì ad allungare
una gamba e a sbalzare i piedi di Ashlinn da sotto di lei.
Jessamine e Ashlinn caddero assieme, fioretto e lama insanguinata a
sferragliare sulle tegole. Le ragazze si accapigliarono, artigliandosi la
faccia a vicenda, tra pugni, calci e imprecazioni. Ruzzolarono giù per il
tetto in pendenza, fermandosi sul bordo della grondaia. Ashlinn era stesa
sotto Jessamine, le mani strette attorno alla gola della rossa. Jessamine le
assestò un pugno forte, spaccandole il labbro. Ancora mezza accecata,
cercò a tentoni il colletto di Ash, avvolgendo la catena d’oro nel pugno e
strangolandola a sua volta. Vi fu un rombo di tuono e il fulmine squarciò i
cieli quando il medaglione scomparve alla vista di Mia: il dolore nel cranio
e la nausea nella pancia scemarono lentamente.
«Fottuta traditrice» sbraitò Jessamine, dando un pugno sulla mascella
di Ash.
«Levati… di d-dosso.»
Jessamine avvolse le dita attorno alla gola di Ash e le assestò un altro
pugno con la mano libera. Lo stava alzando per dargliene un altro quando
una voce si levò sopra la tempesta.
«Jess, è s-sufficiente.»
La rossa si rifiutò di guardarsi alle spalle e tenne gli occhi iniettati di
sangue su Ashlinn. Mia era in piedi: non sembrava affatto stabile, ma stava
scendendo lentamente per il tetto con la spada di necrosso in mano.
«Fottiti, Corvere» inveì Jessamine.
«Ci s-serve viva.» Mia sputò il sapore di vomito che aveva sulla lingua.
«Ha fatto il doppio gioco con i braavi. Ma loro hanno p-pagato una
fortuna. È impossibile che abbia semplicemente incenerito una mappa tanto
preziosa. Presumendo che ce l’abbia davvero, non la troveremo mai se la
uccidi.»
«Non prendo ordini da te.»
Mia sospirò. «Sei la mia Mano, Jess. È esattamente quello che fai.»
Jessamine si voltò per scoccare un’occhiataccia a Mia, ciocche di
capelli fradici davanti agli occhi. La sua frustrazione, la rabbia delle sette
illuminotti in compagnia di Mia, alla fine, ebbero la meglio su di lei.
«Dovrei essere io a consegnare questa Offerta. Dovrei essere io la Lama
qui, non tu.»
«Nessuno ha mai detto che la vita è giusta, Rossa.»
«Giusta?» Jessamine rise. «Chi caz… ghgh…»
Jessamine sbandò all’indietro, sprizzando sangue dalla gola. Ashlinn
pugnalò di nuovo la ragazza, la lama avvelenata caduta nella grondaia che
le lampeggiava nella mano. Jessamine emise un rantolo e si portò le mani
al collo perforato: rosso sangue arterioso zampillò tra le sue dita per poi
imbrattarle la tunica fradicia. Ashlinn colpì ancora. E ancora.
Mia ruggì il nome di Jess mentre il tuono rombava e Ashlinn prese la
Mano per il colletto e la lanciò in avanti. Jessamine afferrò il polso di Ash,
cercando con un tentativo disperato di fermare la propria caduta. Ma con
uno scrocchio nauseante, la ragazza ruzzolò giù dal tetto e rovinò sulla
recinzione che delimitava i terreni della basilica, impalandosi sulle punte in
ferro battuto.
I novizi là sotto urlarono dall’orrore e scapparono chiamando a gran
voce i Luminatii, il cardinale, chiunque. Archi seghettati color bianco-blu
illuminarono i cieli mentre Ashlinn si trascinava in piedi, zuppa del sangue
di Jessamine.
«Brutta puttana» sussurrò Mia.
Ashlinn si passò le nocche sulle labbra spaccate. Tastandosi la gola, si
rese conto che la Trinità non c’era più.
«Mia, tu non capisci cosa sta succedendo qui.»
Mia sollevò la sua lama. «L’hai uccisa.»
Le mani di Ashlinn erano insozzate di sangue.
Negli occhi di Mia si agitava la rabbia.
Il fulmine si rifletteva sul bordo pallido della sua spada lunga, nello
sguardo della ragazza morta impalata sulla recinzione in ferro battuto sotto
di loro.
Le campane della basilica ricominciarono a suonare, stavolta come
avvertimento. Gli accoliti si erano radunati nel cortile sottostante, urlando:
«Un omicidio! Un omicidio!». Mia venne avanti, la lama pronta. Con la
Trinità oltre il bordo dell’edificio, Messer Cortese ed Eclissi erano tornati,
colmando il vuoto terrificante che lei aveva provato con la forza di freddo
acciaio. I piedi di Ash erano intrappolati nella sua stessa ombra: non
poteva fuggire da nessuna parte. Ma Mia aveva detto il vero a Jessamine:
se avesse ucciso la ragazza ora, non avrebbe mai visto quella mappa. E
dopo la sua ultima flagellazione davanti al Culto, che fosse dannata se
fosse tornata da loro a mani vuote.
Ma se invece fosse tornata con la ragazza che aveva messo in ginocchio
il Culto?
“Madre Nera, immagina l’espressione sulla faccia di Solis…”
Così, Mia colpì la mascella di Ashlinn con l’elsa a forma di corvo della
spada. La ragazza crollò sul sedere, mezza stordita. Mia si mise a cercare
nei vestiti di Ash, negli stivali, nelle maniche, trovando lame, tossine e
polveri arkemiche e gettando tutto quanto giù dal tetto. Ash si mise a
sedere, frastornata, e Mia premette la punta della spada sul cuore della
ragazza. Riuscì a udire il debole suono di passi pesanti sopra il tuono.
«… luminatii, mia…»
«… BRUTTI FANATICI RELIGIOSI. LASCIA CHE VENGANO …»
«… hai così voglia di sangue, caro cagnaccio…?»
«… HAI COSÌ VOGLIA DI SCAPPARE, MICETTO …?»
«Apprezzo l’intenzione, Eclissi» sussurrò Mia. «Ma probabilmente
l’obiettivo qui è vivere per combattere un altro cambio.»
L’umbralupa ringhiò il suo assenso riluttante e Mia si voltò verso
Ashlinn.
«Bene. Puoi scendere da questo tetto in due modi. Con i piedi o con la
faccia in avanti…»
«È… una domanda t-trabocchetto?»
Mia conficcò la punta acuminata della sua lama nella pelle di Ashlinn. Il
necrosso era più duro dell’acciaio, tanto affilato da perforare la pietra.
Una spintarella e…
«Cerca di fuggire o perfino di respirare in un modo che non mi piace e
verniceremo il selciato di un’interessante tonalità di Ashlinn. Sono stata
chiara?»
«… mia, dobbiamo andare…»
La lama si mosse. «Chiara?»
Ash sussultò. «Come cristallo dweymeri.»
Mia si tolse la cintura dalla vita. «Porgimi i polsi.»
«Non sapevo che avessi queste inclinazioni» sogghignò Ash.
«Sinceramente, tutto quello che d…»
La lama penetrò più a fondo e Ashlinn trasalì dal dolore. Con
un’occhiata ferita, le porse i polsi. Mia vi fece girare attorno la cintura e li
strinse forte. Riusciva a udire chiaramente i legionari, ora, e una
moltitudine di cittadini si era radunata oltre i cancelli della cattedrale a
guardare inorridita il corpo penzolante di Jessamine.
Mia si alzò e tirò la cinghia di cuoio.
«Muoviti.»
Condusse Ashlinn fino a un tubo di scolo dietro la torre campanaria.
Una gargolla sputava acqua piovana dalla bocca nel cortile due piani più
in basso.
«Prima i traditori» insistette Mia.
«Sarà difficile calarmi con le mani legate, non credi?»
«Te la caverai. E non pensare nemmeno di scappare quando arriverai a
terra. I coltelli da lancio corrono più veloci di te, e ne porto sei della tua
misura.»
Ash si accigliò, ma nonostante tutte le sue lamentele, si calò giù per il
tubo senza troppi problemi. Mia la seguì, con Messer Cortese che le
sussurrava avvertimenti urgenti nell’orecchio. Le ragazze corsero per i
terreni della basilica, superando una necropoli disseminata di tombe di
varie familiae. Superarono con un balzo la recinzione di ferro mentre una
truppa di Luminatii circondava la cattedrale e urlava «Alt!». Mia afferrò la
cintura attorno ai polsi di Ash e trascinò in strada la sua prigioniera.
I legionari indossavano corazze d’acciaio e portavano spade di
solacciaio ardente, ma volteggiarono oltre quella recinzione più
rapidamente di quanto Mia avrebbe riconosciuto loro: un omicidio sul
terreno sacro ad Aa non era una questione da poco per i suoi fedeli. Mia
guardò la folla attorno a lei, soffermandosi per prendere la borsa piena
d’oro dei braavi dalla cintura di Ashlinn.
«Corvere, cosa cazzo…»
Mia lanciò il sacchetto in un ampio arco, sparpagliando monete d’oro
scintillante sulla folla. La reazione fu istantanea e sorprendentemente
violenta: le persone attorno a loro diedero in escandescenze quando si
resero conto che dal cielo stava piovendo una fortuna. Si precipitarono in
strada dalla taverna e dalle botteghe tutt’attorno: mendicanti, fornai,
macellai tagliarono la strada al drappello di Luminatii, urlando e menando
calci e pugni per contendersi l’oro di Ashlinn.
La ragazza urlò mentre Mia la trascinava via attraverso la pioggia
battente. Scattarono lungo un ampio ponte e giunsero nel dedalo di viuzze
dietro gli edifici degli administratii, e lì finalmente Mia trascinò Ashlinn in
una piccola rientranza.
«Ti rendi conto di quanto…»
«Fa’ silenzio» le sibilò Mia. Protendendosi verso le ombre attorno a
loro, Mia le colse con dita abili, torcendole e intessendole in un mantello
che posò sulle proprie spalle. Con un guizzo del polso, avviluppò anche
Ashlinn, proprio come aveva fatto il cambio in cui si erano intrufolate nelle
camere dell’Oratore Adonai. I ricordi del tempo trascorso nella Chiesa
Rossa indussero Mia a ripensare a Jessamine: la scena del corpo della
Mano che pendeva da quelle punte in ferro battuto le bruciava nella mente.
Jess, Tric, ogni Lama assassinata nel massacro dei Luminatii, la cattura
del Culto… Ashlinn era responsabile di tutto quanto. La ragazza tra le sue
braccia era come una serpe, attorcigliata e pronta a colpire.
«Nemmeno un suono» sussurrò Mia, premendo la lama di necrosso
contro la gola di Ash.
Il mondo era nero sotto il manto di Mia, ma lei udì comunque i legionari
che urlavano tra loro mentre perlustravano i vicoletti di Godsgrave. Le
ragazze attesero, premute l’una contro l’altra sotto le ombre di Mia per
interminabili minuti.
Finalmente un sussurro si levò sopra il picchiettio della pioggia.
«… se ne sono andati, mia…»
Ashlinn deglutì contro la lama premuta sulla sua gola. «Se mi uccidi
ora, giuro per la Madre che non vedrai mai la mappa che ti hanno mandato
a recuperare.»
«Allora è un bene che non abbia intenzione di ammazzarti adesso» disse
Mia. «Messer Cortese, controlla i tetti. Eclissi, tu perlustra più avanti e
assicurati che la strada fino alla Cappella sia sgombra.»
«… E SIA. MA SE UCCIDI QUALCUNO MENTRE NON CI SONO, SARÒ MOLTO
CONTRARIATA …»
Mia percepì le ombre attorno a lei incresparsi quando il non-gatto e la
non-lupa scivolarono via dall’oscurità ai suoi piedi. Messer Cortese guizzò
su per il muro, da ombra a ombra, mentre Eclissi si mosse lungo il selciato
e poi uscì in strada. Mia poteva sentire il cuore di Ash battere, e fiutava un
debole profumo di lavanda e sudore recente sulla sua pelle.
«Mi stai riportando alla Cappella?» chiese la ragazza.
«C’è una dose di Deliquio sulla lama contro la tua gola, Ash. Non sono
molto propensa a farti perdere i sensi e trasportarti sulle spalle, ma lo farò,
se devo. Ora, chiudi il becco.»
«Sono otto mesi che mi danno la caccia. Se mettono le mani su di m…»
«Puoi contare il cazzo che me ne frega senza mani, Ashlinn.»
«Non volevo uccidere Tric, Mia.»
Ashlinn sussultò quando Mia spinse il suo stiletto di necrosso sotto il suo
mento.
«Non osare pronunciare il suo nome.»
Ashlinn alzò le mani e parlò in modo lento e cauto. Mia poteva udire la
paura nella sua voce, il lieve tremolio che le rivelava che, malgrado la
facciata di Ash, la ragazza non voleva morire.
«Io volevo il Culto, Mia. Tutti gli altri si trovavano solo nel posto
sbagliato, al momento sbagliato.»
«Incluso il tuo stesso fratello?»
«Allora sei stata tu a uccidere Osrik.»
«No» replicò Mia. «Ma solo perché Adonai l’ha eliminato prima che io
ne avessi la possibilità. Siete stati voi due a uccidere Tric. Avete tradito i
vostri voti. Avete tradito la Chiesa.»
«Per vendicare mio padre! Tu in particolare dovresti capirlo.»
«Non sfidare la sorte, Ashlinn.» Mia serrò la sua stretta. «Mio padre è
morto.»
«Ah sì?» ringhiò Ash. «Be’, anche il mio.»
Quelle parole fecero esitare Mia. Domande non poste aleggiarono
nell’aria. Ora la pioggia stava diminuendo, i cieli ancora di un grigio
imbronciato. Ashlinn prese un lungo respiro esausto.
«Abbiamo evitato la Chiesa e le loro Lame per otto mesi» mormorò.
«Alla fine ci hanno preso a Carrion Hall. Mio padre era abile. Una delle
migliori Lame ad aver mai servito la Madre Nera. Ma chiunque esaurisce
la fortuna, prima o poi.»
Mia si limitò a scuotere il capo, rifiutandosi di infierire. Ashlinn
Järnheim era fatta di bugie. Aveva mentito per tutto il suo addestramento
alla Chiesa. Aveva mentito al Culto, a Mia, a chiunque avesse mai
incontrato. Aveva colpito al cuore Jessamine sul tetto della basilica e
adesso stava colpendo al cuore Mia. Ogni parola che pronunciava era
veleno.
«Non ho intenzione di dirti nuovamente di chiudere il becco, Ash.»
Ashlinn sospirò e il suo atteggiamento si sfaldò. «Non hai una fottuta
idea di cosa stia succedendo qui, vero? Io ti conosco, Mia. Pensi di sapere
cosa sia davvero la Chiesa Rossa? Credi che ti permetteranno mai di
uccidere Scaeva quando è lui a pagare i loro salari?»
Mia avvertì il nome del console come un pugno in pancia.
«Dici solo stronzate.»
«Perché pensi che Scaeva non sia già morto? Mezzo senato lo vuole
sottoterra. Credi che non possano permettersi di ingaggiare una Lama per
dargli il benservito se non fosse protetto dalla Sacralità? Julius Scaeva è un
fottuto bastardo, ma non è un fottuto sciocco. Sono anni che è un mecenate
della Chiesa.»
«Loro non…»
«Sono assassini, certo che lo farebbero! Non esiste alcuna sacralità in
quello che fa la Chiesa Rossa. Uccidono persone per denaro. Metà di loro
sono psicopatici e gli altri sono semplicemente dei sadici bastardi. Non
sono servitori di una qualche Dea della notte ultraterrena: sono solo fottute
puttane.»
La mente di Mia era in subbuglio. Sapeva di non potersi fidare affatto di
quello che diceva Ash… ma da qualche parte nelle sue parole, Mia poteva
udire il suono della verità. Le persone che rappresentavano una minaccia
per Scaeva venivano uccise come suo padre o comprate come i braavi. Non
avrebbe avuto senso che avesse comprato anche la Chiesa? Perché mai le
avrebbero ordinato che Scaeva non andava toccato?
«Come fai a sapere tutto questo?» le chiese.
«Perché sono una cagna subdola, Mia.»
«Tu sei una fregna bugiarda, ecco cosa sei.»
«C’è una cripta di ossidiana nelle camere della Reverenda madre»
rivelò Ash. «E in quella cripta tengono un registro di ogni Offerta accettata
dalla Chiesa. Tutti i loro clienti. Tutta la loro merda. Quando ho avvelenato
il Culto al banchetto dell’iniziazione, ho rubato il registro, Mia. È quello il
motivo per cui hanno dato la caccia a me e a mio padre negli ultimi otto
mesi. Non perché li avevamo traditi. Perché conosciamo tutti i loro piccoli,
sporchi segreti.»
Ashlinn voltò lievemente la testa, malgrado la lama contro la sua gola.
Quanto bastava per poter guardare Mia negli occhi.
«Incluso quello su di te e su tuo padre.»
Ashlinn tacque mentre Mia tornava a premerle la lama contro la gola.
Ash aveva ucciso Jessamine. Aveva ucciso Tric. Mia sapeva che avrebbe
fatto di tutto, detto qualunque cosa per evitare di essere riportata alla
Cappella.
«Sei una bugiarda» disse Mia.
«Lo sono. Ma non su questo, Mia. Se mi riporterai alla Chiesa, mi
uccideranno e tu non saprai mai la verità su quello che hanno fatto.»
«E dovrei prendere semplicemente per buona la tua parola come
garanzia?»
«Puoi vedere con i tuoi occhi.»
«… Hai il registro?»
«Qualcosa mi dice che i nomi su una pagina non ti faranno cambiare
idea. Ma posso dirti con esattezza dove andare per trovare una prova
scritta in qualcosa di più che semplice inchiostro.»
«Ah sì? E dove sarebbe, con esattezza?»
Ashlinn alzò lo sguardo su Mia, gli occhi azzurri che scintillavano come
zaffiri rotti.
«Alla Chiesa.»
a. A Blackbridge, nelle Montagne Spinadraco, ebbe luogo uno degli assedi più famigerati della storia
itreyana.
Intenzionato a formare il più grande regno che il mondo avesse mai visto, il Grande
Unificatore, Francisco I, posò gli occhi sul regno di Vaan. Quando al re vaaniano, Brandr VI,
giunse voce che Francisco stava facendo marciare i suoi Guerrieri Ambulanti verso il regno,
mandò due dei suoi capitani più leali – Halfstad e Ulfr – a fermarlo a Blackbridge.
Annidata in una valle nelle Spinadraco, la città era difesa su tutti i lati da grandi picchi di
granito e accessibile da sud da un unico ponte di pietra da cui la città prendeva il nome. Halfstad,
che all’epoca era anziano, diede il comando delle mura a sua figlia, la fanciulla dello scudo Eydis.
Ulfr, un uomo molto più giovane, era a capo delle truppe che tormentavano sul campo l’esercito di
Francisco con azioni di guerriglia. L’assedio fu duro e il carattere dei Vaaniani fu messo a dura
prova, ma riuscirono comunque a respingere l’assalto degli Itreyani per sei mesi. Con l’arrivo del
freddinverno, il gran generale di Francisco, Valerian, dichiarò Blackbridge inespugnabile.
Purtroppo lo stesso non si poteva dire della figlia di Halfstad, Eydis.
Nei sei mesi in cui erano stati rinchiusi nella città, Eydis e Ulfr avevano sviluppato un certo
affetto reciproco, capite. Ma quando Eydis informò suo padre di essere incinta del suo alleato, il
vecchio Halfstad prese la notizia peggio di come chiunque si potesse aspettare. Dichiarando che
Ulfr aveva infangato l’onore di sua figlia, attaccò il suo compagno hüslaird nella piazza cittadina.
Gli uomini di Ulfr accorsero in difesa del loro lardi, mentre gli uomini di Halfstad si unirono alla
mischia per proteggere il loro, e prima che chiunque si rendesse conto di cosa stava accadendo, le
forze vaaniane si ritrovarono a sfogare sei mesi di frustrazione uccidendosi tra loro a centinaia.
Entrambi gli hüslaird perirono nel tafferuglio. Blackbridge cadde in mano agli Itreyani poco
dopo, cosa che lasciò l’intera nazione aperta alla loro invasione. Nel giro di due anni, Vaan
divenne il primo Stato vassallo del grande regno di Itreya.
E se riuscite a trovarmi un avallo migliore di questo per i metodi anticoncezionali, gentili
amici, mangerò la mia penna.
b. I Vaaniani tra il pubblico tennero le bocche ben cucite.
CAPITOLO 12
EPIFANIA
«Tu lo sapevi?»
Il vescovo di Godsgrave balzò dalla sedia di quasi tre piedi. La tazza da
tè di aureovino gli scivolò dalle dita, rovesciandosi sulla pergamena che
aveva sulla scrivania. Con il cuore che gli palpitava nel petto, Mercurio si
voltò e trovò la sua vecchia pupilla alle sue spalle, ammantata nelle ombre
degli scaffali.
«’Bisso e sa…»
Gli si gelò il sangue quando vide lo stiletto di necrosso nella mano della
sua ex protetta. Nell’oscurità dietro di lei c’era una ragazza bionda, vestita
di cuoio scuro. Sembrava vagamente familiare, ma che Mercurio fosse
dannato se riusciva a collocarla…
Un ringhio basso lo fece girare e vide un lupo fatto di ombre prendere
forma vicino alla porta aperta della stanza. Come per una lieve brezza,
l’uscio si chiuse con un cigolio.
«Tu. Lo. Sapevi?» ripeté Mia.
Mercurio voltò di nuovo gli occhi sulla sua ex pupilla.
«So molte cose, piccolo Corvo» disse con calma. «Dovrai essere pi…»
Con un movimento sfocato, la ragazza attraversò lo spazio tra loro in un
batter d’occhio. Lui sibilò quando gli afferrò la gola e gli premette la lama
contro la giugulare.
«Toglimi dal collo quell’infilzaporci» pretese il vecchio.
«Rispondimi!»
Mercurio puntò la propria lama – che aveva estratto quando aveva
lasciato cadere il suo aureovino – contro l’arteria femorale di Mia.
«Un piccolo movimento e morirai dissanguata in pochi istanti» disse.
«Allora siamo in due.»
«Ti ho dato io quel coltello» disse lui, deglutendo contro la lama di
necrosso.
«No, è stato Messer Cortese a darmelo.»
Mercurio fissò il non-gatto che stava apparendo sulla spalla di Mia.
«… tu gliel’hai solo restituito, vecchio…»
«Comunque sia. Non ho mai pensato che me lo sarei ritrovato contro la
gola, piccolo Corvo.»
«Non ho mai pensato che me ne avresti dato motivo» replicò la ragazza.
«E quale sarebbe?»
«Hanno ucciso mio padre, Mercurio» disse lei con voce tremante. «O è
come se l’avessero fatto. Lo hanno consegnato a Scaeva perché lo
impiccasse!»
«Chi?» si accigliò il vecchio, lanciando un’occhiata alla bionda alle
spalle di Mia.
«Il Culto!» sbraitò Mia. «Drusilla, Cassius, gli altri. Mio padre e
Antonius sono stati catturati in mezzo a un accampamento di diecimila
uomini. Chi avrebbe potuto farlo se non una Lama di Niah?»
«Questo non ha da…»
«Tu lo sapevi?»
Il vecchio guardò la sua giovane pupilla e non vide alcuna paura della
lama che stringeva in pugno. Nessun timore di morire si rifletteva nei suoi
occhi. Solo rabbia.
«Per sei anni ti ho addestrato per le prove della Chiesa» disse in tono
calmo. «Perché mai l’avrei fatto, nel nome della Madre Nera, se avessi
saputo che la Chiesa aveva aiutato Scaeva a uccidere tuo padre?»
«Bene, allora per quale motivo la Chiesa mi avrebbe addestrato se
avevano contribuito a ucciderlo, Mercurio?»
«È questo che intendevo sul fatto che tutto ciò non ha senso, Mia.
Pensaci.»
Le mani di Mia tremarono sul suo stiletto. Lei fissò il suo mentore negli
occhi. Mercurio poteva vedere la Lama in lei, l’assassina che avevano
tirato fuori dalla ragazza che lui aveva dato alla Chiesa. Sapeva che era
ciò che sarebbe diventata, mandandola lì. Conosceva il marchio che
avrebbe lasciato. Non regalavi qualcuno alla Mannaia senza donare anche
un pezzo di te stesso. Ma sotto quella facciata, poteva vedere ancora lei. Il
fuscello che aveva salvato dalle strade di Godsgrave. La ragazza a cui
aveva offerto rifugio sotto il suo tetto, a cui aveva insegnato tutto ciò che
sapeva. Colei a cui pensava comunque come a una sua familiare, perfino
dopo il suo fallimento.
«Io non ti farei mai del male, piccolo Corvo. Lo sai. Lo giuro sulla mia
vita.»
Lei lo fissò ancora per un momento. L’assassina che era diventata
lottava con la ragazza che era stata. E lentamente, molto lentamente, Mia
allontanò il coltello. Mercurio tolse la propria lama dalla gamba della
ragazza e la fece scivolare di nuovo nel bracciolo, poi si appoggiò contro lo
schienale.
«Vuoi dirmi cosa sta succedendo?» chiese.
La ragazza bionda tirò fuori un libro da sotto il mantello e lo posò sulla
scrivania davanti a lui. Era nero. Di cuoio. Disadorno.
«Che cazzo è questo?» domandò lui.
«Il registro della Chiesa Rossa» replicò Biondina.
Il vecchio sgranò gli occhi. All’improvviso tutto ebbe senso.
All’improvviso…
«Ora ti riconosco» mormorò. «Ci siamo incontrati alla Chiesa, quando
sono venuto a prendere Mia. Sei la figlia di Torvar. Sei Ashlinn… fottuta
Järnheim.»
«Be’, in effetti il mio secondo nome è Frija, ma…»
«Ti stiamo dando la caccia da otto dannati mesi!» Mercurio si voltò
verso Mia e alzò la voce. «Ti sei rimbecillita completamente? Grazie a
questa traditrice e a suo padre, molte delle nostre Lame ora sono sotto la
fottuta terra!»
Ashlinn scrollò le spalle. «Chi vive con la spada…»
«È stato un miracolo che non abbiano ucciso anche me!»
«Stronzate» replicò la ragazza. «Quando i Luminatii hanno epurato
Godsgrave, non hanno mai abbattuto la porta della tua piccola bottega di
curiosità, giusto?»
«Ah, e come mai? Dimmelo, per favore» ringhiò il vecchio.
Ashlinn guardò verso Mia. Poi di nuovo il vescovo, rosso in viso.
«Perché io non volevo che le fosse fatto del male.»
Sulla stanza calò il silenzio. Mia guardava ovunque, tranne negli occhi
di Ashlinn. Dopo che quel silenzio si fu protratto spiacevolmente per un
po’, si girò verso il registro, sfogliando le pagine fino a trovare un nome
elencato tra i numerosi clienti e i loro pagamenti. Un nome scritto con una
calligrafia netta e fluente, nerissima contro la pergamena ingiallita.
Julius Scaeva.
«Tu lo sapevi, vero?» chiese Mia. «Il Culto deve aver detto ai vescovi chi
poteva e chi non poteva essere toccato, anche solo per evitare infrazioni
della Sacralità.»
«Certo che lo sapevo» sbottò il vecchio. «Me l’hanno detto non appena
mi hanno fatto vescovo. Perché ’bisso pensi che non abbia mandato una
delle mie Lame a tagliare la gola di quel bastardo? Ora che si presenta per
un quarto mandato come console? È un fottuto re in tutto tranne nel nome.
E lo dico da sempre, ricordi?»
Mia picchiettò quella voce con il dito.
«Diecimila preti d’argento» disse lei. «Mandati alla Chiesa da Scaeva in
persona, datati tre cambi dopo l’esecuzione di mio padre. Pagati dall’uomo
che avrebbe guadagnato più di tutti dal fallimento della ribellione. E il
nome del braccio destro di mio padre è inciso ai piedi di Niah nella Sala
degli Elogi. Spiegamelo, Mercurio.»
Il vecchio si accarezzò il mento, accigliato.
Abbassò lo sguardo sui nomi e sui numeri, sfocati nella luce bassa.
Non poteva essere…
Certo che sapeva che Scaeva pagava in segreto la Chiesa. A dire la
verità, ingrossare i forzieri di Niah aveva senso per le persone che
potevano permetterselo. Era uno dei vantaggi della Sacralità, vedete:
donando alla Chiesa abbastanza soldi da essere considerati un mecenate,
saresti stato protetto in virtù della Promessa Scarlatta. Il re di Vaan lo
aveva fatto per anni. Un colpo di genio, in effetti. I fedeli di Niah potevano
essere pagati senza dover alzare un dito. a
Naturalmente, Scaeva non era soltanto un finanziatore: aveva usato la
Chiesa per sbarazzarsi di una dozzina di spine nel fianco. Ma Mercurio non
aveva mai sospettato che la Chiesa fosse stata coinvolta nella fine degli
Incoronatori. Tutto quello che aveva udito lo portava a credere che Corvere
e Antonius fossero stati traditi da uno dei loro uomini.
Era possibile…?
«La Chiesa Rossa catturò mio padre» disse Mia, la voce intrisa di
dolore. «Lo consegnò al senato. Praticamente è come se l’avessero
assassinato loro stessi.»
Messer Cortese inclinò il capo, facendo debolmente le fusa.
«… quello che non capisco è perché scaeva ha fatto attaccare la
montagna da remus, se aveva già in tasca la chiesa…»
«… COME SE FOSSE L’UNICA COSA CHE NON CAPISCI …»
«… fa’ silenzio, bambina: gli adulti stanno parlando…»
«Remus ha attaccato la Montagna senza il consenso di Scaeva» disse
Ashlinn.
«Stronzate.» Mercurio si voltò accigliato verso la ragazza vaaniana.
«Remus non faceva una pisciata senza prima chiedere il permesso a
Scaeva. Il senato, i Luminatii e la Chiesa di Aa sono i tre pilastri dell’intera
fottuta Repubblica, ragazza.»
«Non chiamarmi ragazza, vecchio cazzone scontroso» sbottò Ashlinn.
«Mio padre era quello in combutta con Remus, ricordi? Il tribuno odiava
visceralmente Scaeva. Oh, sì, obbediva agli ordini del console, ma Remus
era uno dei fedeli di Aa, proprio come Duomo. Usare la Chiesa Rossa per il
suo lavoro sporco rendeva Scaeva un eretico agli occhi di Remus. Ed
eliminare la Chiesa avrebbe impedito a Scaeva l’accesso al suo branco di
assassini a contratto.»
Mercurio si grattò il mento. «Pensavo che Remus e Duomo…»
«Anche Duomo è un cliente della Chiesa.»
«Questo lo so» sbottò Mercurio. «Non sono un sempliciotto nato ieri,
sono un vescovo della Nostra Signora dell’omicidio benedetto.»
«Tranne che il nostro illustre Gran cardinale non assume mai la Chiesa
per uccidere provvidenzialmente un cazzo di nessuno.» Ashlinn sfogliò il
registro, mostrando pagamenti esorbitanti da parte di Duomo che
risalivano a sei anni prima. «Paga semplicemente uno stipendio annuale
con i forzieri di Aa. Lo protegge grazie alla Sacralità, capite? In quel
modo, sa che Scaeva non può semplicemente fargli tagliare la gola mentre
dorme. Il cardinale e il console si odiano, ed entrambi farebbero quasi
qualunque cosa per vedere morto l’altro.»
«… MI VIENE DA PENSARE CHE ANNOTARLO IN UN REGISTRO SIA STATA
UN’IDEA INCREDIBILMENTE SCIOCCA …»
«Lo tenevano in una cassaforte sigillata» disse Ashlinn all’umbralupa.
«Dentro un covo degli assassini più temuti della Repubblica. E l’unica
chiave era appesa attorno al collo di una tra gli assassini più esperti che il
mondo abbia mai conosciuto. Considerato quello che ho dovuto fare per
impossessarmene, forse l’idea non è così sciocca quanto pensi tu.»
«… a questo proposito, piccola traditrice, ti prego di ricordarmi: perché
non ti abbiamo ancora ammazzata…?»
«Per la mia personalità magnetica?» Ashlinn scrutò il non-gatto sulla
spalla di Mia. «O forse è solo perché sono l’unica che abbia uno straccio di
indizio su cosa sta succedendo da queste parti.»
«Allora cosa sta succe…» Il vecchio sbatté le palpebre e si guardò
attorno nella stanza. «… Aspettate, dove ’bisso è Jessamine?»
Mia e Ashlinn si lanciarono una lunga occhiata inquieta. Ash aveva il
labbro gonfio e spaccato per il loro scontro sul tetto, l’occhio livido e nero.
«… ci sono stati… fatti spiacevoli…»
«Davvero meraviglioso, cazzo.» Mercurio guardò storto Ashlinn. «E sei
tu la responsabile?»
«Se ti fa sentire meglio, è stata Jess a infilzarmi per prima.» Ashlinn
scrollò le spalle. «Io l’ho solo infilzata per ultima. E… ripetutamente.»
«Allora cosa ci fai qui?» domandò il vescovo. «Mia è stata inviata sette
cambi fa a uccidere una braavi e a rubare una mappa. Ora torna qui con la
traditrice più ricercata nella storia della Chiesa. Qual è il tuo posto in tutto
ciò?»
Ashlinn fece spallucce. «Io ho la mappa.»
«Tu avevi la mappa. È esplosa, ricordi…?»
La ragazza sogghignò. «Non crederai che sia tanto stupida da lasciare
che qualcosa di tanto prezioso prenda fuoco, vero Messer So-tutto?»
«Faresti meglio a parlare, allora» ringhiò Mercurio.
«Già» concordò Mia. «Dove l’hai presa? Dove porta? E per chi stai
lavorando? La braavi ha detto che stavi vendendo la mappa al cardinale
Duomo.»
«Mi ha ingaggiato lui per recuperarla» disse Ash, appoggiandosi contro
la parete e incrociando le braccia. «Dopo che l’attacco alla Chiesa è
andato in malora, mio padre e io abbiamo passato gli otto mesi successivi a
sfuggire alle Lame inviate per ucciderci. Quando lui è morto, avevamo
bruciato buona parte dei nostri soldi. Duomo e Remus hanno complottato
assieme per eliminare la Chiesa, perciò sapevo come mettermi in contatto
con il cardinale. A quanto pare stava cercando qualcuno con… le mie
capacità.»
«Per cosa? Per rispondere in modo insolente e spocchioso?» la
apostrofò Mercurio.
Le labbra di Ashlinn si incurvarono in quel sorrisetto esasperante.
«Serrature. Trappole. Lavori loschi. Aveva scoperto un altro modo per
poter modificare l’equilibrio e porre fine alla Chiesa Rossa una volta per
tutte. Senza loro tra le palle, sarebbe stato libero di togliere di mezzo
Scaeva, mettere un nuovo console più malleabile al suo posto e avere la
torta tutta per sé.»
Mia strinse gli occhi. «Che tipo di “altro modo”?»
Ash scrollò le spalle. «Non l’ha mai detto. E io non l’ho mai chiesto. Il
mio compito era viaggiare con un gruppo di mercenari e un vescovo del
clero di Aa fino alle rovine di un tempio sulla costa nord della Vecchia
Ashkah. È lì che abbiamo trovato la mappa. E… altre cose.»
«Che genere di altre cose?» domandò Mercurio.
Il volto di Ashlinn era impassibile, ma Mia intravide una traccia di
paura nei suoi occhi.
«Il genere pericoloso.»
«Cos’è accaduto ai tuoi compagni?»
La ragazza fece spallucce. «Non ce l’hanno fatta.»
«Così sei tornata a ’Grave da sola per vendere la mappa a Duomo?»
chiese Mia.
Ash annuì. «I Damerini fungono da suoi intermediari. Duomo ha i soldi
per tenere in tasca parecchie persone. Non so se volessero tentare di
accoltellarmi alle spalle, ma ho ipotizzato il peggio. Io sono un dettaglio in
sospeso. Una delle uniche persone ancora vive a sapere che il cardinale
stava operando contro Scaeva per eliminare la Chiesa.»
«Be’, qualcuno sapeva che Duomo è in combutta con i Damerini» disse
Mercurio. «E che la mappa sarebbe stata consegnata a loro stasera. E quel
qualcuno ha assoldato Mia per…»
Mia incontrò lo sguardo di Mercurio. Il vecchio sgranò gli occhi.
«Non penserai…» esordì.
Mia esaminò le assi del pavimento come in cerca di una verità che aveva
lasciato cadere. Si scostò i capelli dietro l’orecchio. L’agitazione nel suo
stomaco rispecchiava quella sul suo volto.
«Il mio mecenate ha richiesto specificamente me per quest’Offerta»
mormorò. «“Colei che ha ucciso il tribuno della legione dei Luminatii.” O
così ha detto il Culto. E io ho già fatto altre tre offerte su richiesta dello
stesso mecenate.»
«… Chi hai ucciso?»
«Il figlio di un senatore, Gaius Aurelius. L’amante di un altro senatore
liisiano, Armando Tulli. E un magistrato di Galante di nome Cicerii.»
«Madre Nera» ringhiò Mercurio.
«Cosa c’è?» chiese Ashlinn, spostando lo sguardo tra i due.
«Si vociferava che Gaius Aurelius stesse progettando di candidarsi come
console contro Scaeva» disse Mercurio. «E Cicerii stava organizzando
un’inchiesta sulla costituzionalità del quarto mandato di Scaeva.»
Mia si accovacciò, puntellandosi contro le pietre del pavimento. Eclissi
si manifestò accanto a lei e Messer Cortese le leccò la mano con la sua
lingua immateriale.
«Oh, dea…» mormorò.
«Scaeva sta rimettendo in riga le persone» si rese conto Mercurio.
«Minaccia gli oppositori o li uccide. Assicurandosi di essere rieletto.»
«E io lo sto aiutando…» sussurrò Mia.
«… bastardo…»
«Il che significa che sa che Duomo sta lavorando contro di lui. Sa che,
ovunque conduca questa mappa, rappresenta una minaccia per la Chiesa, e
sta usando la Chiesa per eliminarla.»
«Proteggendo il suo piccolo culto di assassini.» Ashlinn guardò mia,
scuotendo la testa. «Che ti dicevo? Sono tutti delle puttane. E non contenta
dell’aiuto fornito per uccidere tuo padre, la Chiesa ti ha fatto tagliare gole
per il bastardo responsabile della sua impiccagione. Solis. Mouser.
Ammazzaragni. Aalea. Drusilla. Devono essere uccisi, Mia. Tutti fino
all’ultimo.»
«Scaeva.»
Mia sputò quella parola come una boccata di veleno. Le labbra si
ritrassero dai denti. Guardò torvo Ashlinn, scuotendo lentamente la testa.
«Scaeva e Duomo per primi.»
Ashlinn venne avanti, gli occhi che scintillavano come acciaio.
«Duomo probabilmente si trova alla Basilica Grande in questo
momento.»
Mia scosse il capo. «Non posso entrare lì dentro. Ci ho già provato una
volta. Le Trinità…»
«Posso eliminarlo io per te» si offrì Ashlinn. «Può anche farsi il bagno
avendola attorno al collo o dormire con uno di quegli affari sotto il
dannato cuscino, ma non c’è Trinità che possa fermare me. Mi intrufolerò
all’interno e gli taglierò la gola, poi ci occuperemo di Scaeva e della
Chie…»
«No» disse Mia. «Loro sono miei. Tutti e due.»
Si alzò lentamente dal pavimento, i capelli neri drappeggiati attorno a
un volto pallido come un fantasma.
«Quei bastardi sono miei.»
«Ora aspetta» le consigliò Mercurio. «Non diciamo cose affrettate.»
«Affrettate?» ringhiò Mia. «La Chiesa Rossa ha contribuito a far
uccidere mio padre, Mercurio. Proprio come Scaeva e Duomo. Il Culto è
colpevole quanto gli altri due.»
«Ma perché mai la Chiesa Rossa ti avrebbe addestrata, se era complice
nell’uccisione di tuo padre?»
«Forse pensavano che non lo avrei mai scoperto? Forse Cassius ha
ordinato loro di addestrarmi sapendo che ero tenebris? Forse quel bastardo
di Scaeva lo trovava divertente? O forse pensavano che quando avessi
ucciso abbastanza persone, quando fossi diventata abbastanza fredda,
semplicemente non me ne sarebbe importato più nulla?»
Il vecchio unì i polpastrelli sotto il mento, fissando il registro.
«Quando dai qualcuno in pasto alla Mannaia, le dai anche una parte di
te stesso» mormorò.
«Sei con me?» chiese lei.
Mercurio guardò il registro. Il nome di Scaeva. L’uomo che si era creato
un trono in una Repubblica che si era sbarazzata dei suoi re secoli prima.
Un uomo che si riteneva al di sopra della legge, dell’onore, della moralità.
Ma a dire il vero, Mercurio stesso si era sbarazzato di molte di quelle cose
anni prima. Tutto nel nome della fede.
«Ho dedicato la mia vita alla Chiesa Rossa» disse il vecchio.
Mia venne avanti, gli occhi ardenti.
«Sei con me?»
Il vescovo di Godsgrave guardò la sua ex pupilla. Sembrava intagliata
dalla pietra, la mascella volitiva, i pugni serrati nel soffuso bagliore
arkemico. Scrutò in quegli occhi scuri, cercando qualcosa della ragazza
che aveva preso sotto la propria ala sei lunghi anni prima. Era stato
arrabbiato con lei dopo che aveva fallito la sua iniziazione. Dopo che lo
aveva deluso. Ma in verità, per quei sei anni, lei era stata sua figlia. E lo
sarebbe stata sempre.
La Chiesa le aveva già tolto un padre.
Lui poteva permettere che gliene portasse via un altro?
«Sono con te.»
La risposta aleggiò nella stanza come una spada sopra le loro teste.
Mercurio sapeva cosa comportava e dove li avrebbe condotti. Quant’era
davvero grosso il nemico contro cui si stavano schierando.
«Dobbiamo farlo non visti, Mia» disse Mercurio. «La Chiesa non potrà
sapere che sei tu quando eliminerai Scaeva, altrimenti si vendicherà. E
dovrai eliminare Duomo con lo stesso colpo, oppure diventerà dieci volte
più difficile da uccidere.»
«Quello è il minore dei nostri problemi» replicò Mia. «La Chiesa vorrà
che torni indietro. La Domina è morta. Scaeva potrebbe avere una nuova
Offerta per me.»
«Ancora non hanno la mappa» disse Mercurio. «Posso inventare una
storia. Dire che la mappa ti è sfuggita, ma che ora la stai inseguendo. A
livello pratico, potrebbe richiedere mesi.»
«Il Culto non ne sarà compiaciuto» disse Ashlinn.
«Che si fottano» si accigliò Mia. «Il Culto non è comunque compiaciuto
di me.»
«Stupendo» disse Ashlinn. «Perciò tutto quello che dobbiamo fare è
escogitare un modo perché tu possa uccidere un cardinale a cui non ti puoi
avvicinare fisicamente, eliminando allo stesso tempo il console più
sorvegliato nella storia della Repubblica itreyana.»
Mia e Mercurio rimasero in silenzio. La fronte del vecchio si corrugò,
pensierosa. Mia strinse gli occhi e li fece vagare sugli scaffali, ma senza
trovare alcuna risposta sulle costole dei libri. Voltò lo sguardo sull’altra
parete, verso la collezione di armi di Mercurio. La lama di solacciaio dei
Luminatii, l’ascia da guerra vaaniana, il gladio di un’arena di gladiatii a
Liis…
I suoi occhi si strinsero ancora di più. Gli ingranaggi nella sua testa
giravano.
Lanciò un’occhiata al suo vecchio insegnante e il suo respiro accelerò.
«Cosa c’è?» chiese lui.
Era un’idiozia.
Una follia.
Impossibile.
«Credo di avere un’idea…»
Tre ore dopo, mentre se ne stava sdraiata nella sua cella, a Mia girava la
testa.
Aveva cercato di bere con moderazione, ma Sid aveva urlato ogni volta
che lei rallentava il ritmo, e tutti gli altri gladiatii sembravano bere come se
la loro vita dipendesse da quello. Aveva perfettamente senso, supponeva:
per persone che non possedevano nulla e rischiavano la vita ogni volta che
mettevano piede sulle sabbie, un momento di tregua e una coppa piena
dovevano sembrare un paradiso. E così aveva fatto del suo meglio per
recitare la sua parte, bevendo a profusione con la sua nuova familia e
sorridendo alle loro lodi.
La donna dweymeri, Cantalame, sembrava averla presa particolarmente
in simpatia, anche se molti membri del collegio avevano avuto una buona
parola. Il suo stratagemma nell’arena – indossare i colori del nemico e
fingersi ferita per arrivare abbastanza vicina da ucciderli – aveva colpito
molti dei suoi nuovi confratelli come una trovata geniale.
Bryn, la bionda ragazza vaaniana, aveva alzato la sua coppa per un
brindisi.
«Un ottimo stratagemma, piccolo Corvo.»
«Già» aveva ribattuto suo fratello Byern. «Quando ti ho visto afferrare
quelle viscere e ho capito cosa avevi intenzione di fare, ho urlato così forte
che ho rischiato di rovinare il tuo gioco.»
«Corvo un cazzo» aveva sogghignato Macellaio. «Dovremmo chiamarla
una dannata Volpe.»
«La Lupa» aveva sorriso Cantalame.
«La Serpe» era giunta una voce.
Tutti gli occhi si erano voltati su Furian, che se ne stava a capotavola con
espressione arcigna. Mia aveva incontrato il suo sguardo, guardando il
labbro arricciarsi in segno di derisione.
«I gladiatii combattono con onore» aveva commentato. «Non con le
menzogne.»
«Fratello, andiamo» aveva detto Cantalame. «Una vittoria ottenuta è una
vittoria meritata.»
«Io sono campione di questo collegio» aveva replicato l’Imbattuto.
«Dico io cosa è meritato. E cosa è rubato.»
Cantalame aveva lanciato un’occhiata al torque attorno al collo di
Furian, poi all’alloro sulla sua fronte, e aveva annuito per acconsentire.
L’Imbattuto era tornato alla sua coppa e non aveva aggiunto parola. I
festeggiamenti erano terminati subito dopo e, per la verità, Mia era stata
contenta. Non era abituata a così tanto vino: qualche altra coppa e avrebbe
dipinto le pareti.
Ora sedeva nella sua cella, le sbarre che roteavano lentamente. Aveva
udito la consueta nenia provenire dalla cella di Cantalame prima che si
spegnessero le luci, e supponeva che potesse trattarsi di una specie di
preghiera. Ma adesso era calata l’oscurità e tutto ciò che riusciva a udire era
il suono del sonno.
Sidonius era sdraiato supino, e russava come un toro moribondo,
fermandosi solo il tempo necessario per scoreggiare così forte che Mia lo
percepì attraverso il pavimento. Si accigliò e diede un calcio al grosso
Itreyano, che rotolò dall’altra parte con un grugnito.
«Fottuto porco» imprecò lei, coprendosi il naso. «Mi serve una dannata
cella tutta per me.»
«… di rado mi ritrovo a dispiacermi perché non ho bisogno di
respirare…»
Mia sgranò gli occhi quando udì il sussurro.
«… particolarmente in questo momento…»
«Messer Cortese!»
«… urlò lei, tanto forte da svegliare i morti…»
Due forme nere si materializzarono dalle ombre all’altro capo della cella.
«… SE IL RUSSARE DI QUESTO IDIOTA NON L’HA GIÀ FATTO, NULLA CI
RIUSCIRÀ …»
Mia sogghignò quando i due demoni si diressero balzelloni verso di lei,
tuffandosi nella sua ombra come se fosse acqua nera. Un’ondata di gelo
tranquillizzante si riversò in lei, espandendosi per tutto il suo corpo e
lasciando nella sua scia una calma ferrea. Percepì Messer Cortese che le
camminava sulla spalla, passando tra i suoi capelli senza disturbare una
singola ciocca. Eclissi si avvolse attorno alla schiena di Mia e mise la testa
incorporea sul grembo della ragazza. Mia passò le mani su entrambi i non-
animali, le cui forme si increspavano come fumo nero. Non si era resa conto
di quanto le erano mancati finché non erano tornati da lei.
«Madre Nera, è bello rivedervi» sussurrò.
«… MI SEI MANCATA …»
«… oh, per favore…»
«… IL MICETTO MI È MANCATO DI MENO …»
Mia fece scorrere le mani lungo il corpo dell’umbralupa. Non aveva la
sensazione di poterla toccare, ma accarezzare Eclissi era come accarezzare
una brezza fresca.
«Quando siete arrivati?»
«… IERI, MA TU NON ERI ANCORA TORNATA DAL VENATUS …»
«… le cose sono andate bene, suppongo…»
«Non sono morta, se vale qualcosa.»
Messer Cortese le toccò l’orecchio con il muso e a Mia formicolò la
pelle. Sembrava di essere baciata dal fumo di un sigaretto.
«… tutto quanto…» bisbigliò lui.
I tre si sedettero nell’oscurità per un po’, godendo semplicemente della
reciproca compagnia. Mia fece passare le dita attraverso i loro corpi
impalpabili e sentì svanire ogni traccia della paura che aveva provato nelle
scorse settimane. Si rese conto che ce l’aveva fatta. Il primo passo verso le
gole di Duomo e Scaeva era completo. E con i suoi passeggeri accanto a lei,
quelli successivi non sembravano così ardui.
«… per quanto questo sia piacevole…»
«… POSSIAMO SEMPRE CONTARE SU DI TE PER GUASTARE L’ATMOSFERA …»
«No, ha ragione» sospirò Mia. «Sta aspettando?»
«… SÌ …»
«Portami da lei, allora.»
I suoi passeggeri svanirono nell’oscurità. Mia li percepì materializzarsi
nelle ombre dell’anticamera e, proprio come aveva fatto la notte in cui
aveva visitato Furian, chiuse gli occhi e si protese nella tenebra. Forse era il
vino, forse era l’esercizio, ma trovò che il Passo era più facile, stavolta,
l’impeto improvviso, le vertigini. Aprendo gli occhi, scoprì che la stanza
girava all’impazzata, ma si ritrovò all’ombra delle scale accanto a loro.
Piegandosi in due, vomitò il vino che aveva bevuto sulla pietra,
coprendosi la bocca per ovattare il suono. Percepì alcuni gladiatii agitarsi
nella caserma, così si tuffò di nuovo nelle ombre lottando contro l’istinto di
vomitare di nuovo. Afferrò il muro per aiutare a farlo smettere di girare. Poi
si passò la mano sulle labbra e sputò sulla pietra.
«Madre Nera, ricordatemi di non farlo se mai dovessi essere di nuovo
mezza ubriaca.»
«… ANDIAMO …»
«… la vipera aspetta, mia…»
Lei lanciò un’occhiata al controllo mekana sulla parete, rimuginando su
come funzionasse. Su gambe malferme, avanzò furtiva per la fortezza, fin
nelle ombre della veranda. Zanna era seduto sotto un tavolo, osservando
con occhi curiosi. Mentre Messer Cortese ed Eclissi gli passavano accanto, i
peli del cane si rizzarono. Mia allungò la mano per calmare il mastino, ma
Zanna scappò via con un lieve guaito.
«… i cani sono stupidi…»
«… DICE LO STUPIDO CHE SI È PERSO PER ARRIVARE QUI …»
«… non mi sono perso, caro cagnaccio: stavo esplorando…»
«… È UNA FORTEZZA ENORME IN CIMA A UN DIRUPO CHE SI AFFACCIA
SULL’INTERA CITTÀ, COME …»
«Sssht» sibilò Mia, abbassandosi in una rientranza. Passi veloci
annunciarono l’arrivo della magistrae, seguita da una servitrice. Le due
erano impegnate in una discussione sulle disposizioni di viaggio per
Stormwatch, con la ragazza che prendeva appunti su un registro di cera.
Mia attese finché le due non furono scomparse, poi sgattaiolò lentamente
lungo il corridoio fino alle porte principali, spalancate su una fresca brezza
marina. Stringendo gli occhi per la soliluce, scrutò le alte mura della
fortezza, pietra rossa contro un cielo azzurro ardente.
Raccogliendo manciate di ombre, Mia se le drappeggiò attorno alle
spalle. Le sue dita erano ancora un po’ goffe per l’alcol, ma alla fine tutto il
mondo fu avvolto in un nero torbido e in un bianco smorzato, e lei fu quasi
cieca quanto il cambio in cui era nata. Con deboli sussurri, i suoi passeggeri
la guidarono per il cortile, superando le guardie di pattuglia fino ad arrivare
a una rientranza in ombra proprio accanto ai cancelli principali. E da lì lei
chiuse gli occhi
e Passò
nell’ombra
dall’altro lato
della strada.
a. Sì, sì, posso sentire le vostre domande, gentili amici. Proprio come se fossi seduto dietro di voi
(non temete, non sono seduto dietro di voi). Ma probabilmente vi state chiedendo, se la Chiesa
Rossa non uccide chiunque l’abbia attualmente al suo servizio, perché tutti non pagano
semplicemente per i loro servigi e dormono sonni tranquilli l’illuminotte? Una domanda
eccellente, gentili amici, la cui risposta è molto semplice: è fottutamente costoso.
Un re o un console potrebbe permettersi di tenere la Chiesa sul proprio libro paga in maniera
permanente. Ma dovete ricordare, gentili amici, che la Chiesa Rossa è un culto di assassini, non di
estorsori. E sarebbe piuttosto difficile mantenere la reputazione di assassini più temibili della
Repubblica se passassero tutto il loro tempo a essere pagati per non ammazzare nessuno.
b. Le origini del Voto di Sangue sono ammantate nell’antichità, ma molti credono che vadano
ricercate nel vecchio Impero ashkahi e nel mito del famoso principe-guerriero Andarai.
Le gesta di Andarai erano così conosciute che la sua leggenda sopravvisse perfino alla caduta
dell’impero stesso. Era l’archetipo dell’eroe per quell’epoca: saggio senza pari, imbattuto in
battaglia e, si diceva, dotato come un mulo. Trascorreva gran parte del suo tempo andando in giro
a salvare principesse, uccidere belve e procreando bastardi, anche se pareva che avesse trovato il
tempo per inventare la lira, il telaio e, cosa piuttosto strana, lo sgabello da parto. Il suo nemico più
odiato era il leggendario Ladro di Facce, Tariq, che tra le altre imprese rubò la spada di neracciaio
di Andarai e si portò a letto la madre, la sorella e la figlia di Andarai, a quanto pare tutte la stessa
sera.
Andarai rimase piuttosto disturbato da questo. In particolare dalla parte che riguardava sua
madre.
La rivalità dei due durò decenni, e pareva che dovesse terminare solamente con la morte di uno
o di entrambi. Ma quando il re-demone Sha’Annu comparve nel Nord e minacciò tutto l’impero, i
due unirono le forze per sconfiggerlo. Legati dall’affinità che si crea solo in battaglia, i due si
dichiararono fratelli e giurarono con il sangue che sarebbero rimasti tali fino al termine dei loro
giorni. Tariq si astenne perfino dal giacere di nuovo con la madre di Andarai.
Con sua figlia, però…
LIBRO 2
SANGUE E GLORIA
CAPITOLO 13
USCITA
Passò
per
lo spazio
tra esse.
Passò
nel nero
ai suoi piedi
e arrivò nella
cella.
Il calore dei soli non era affatto così intenso nell’oscurità della caserma,
tuttavia lei era quasi in preda alla nausea, con il vomito che le gorgogliava
su per l’esofago e premeva contro le guance. Stava migliorando con i Passi
nelle ombre da quella volta sul tetto della basilica: come ogni muscolo,
supponeva che diventasse più forte man mano che lo usava. Ma pareva che
un secondo Passo così presto dopo il primo fosse troppo, in particolare con i
soli che ardevano così luminosi nel cielo. Deglutì forte, accucciata sulla
paglia, stringendo le pietre sotto di lei per far smettere al mondo di girare.
Ascoltando le celle attorno a lei, non udì nulla tranne sospiri e un russare
sommesso.
«… tutto sembra sgombro…» giunse un sussurro al suo orecchio.
Lei attese ancora un momento mentre il mondo si raddrizzava
lentamente. Infine, al sicuro all’interno della propria cella, Mia gettò da
parte il manto d’ombra e sbatté le palpebre per l’oscurità che la circondava,
incontrando proprio gli occhi di Sidonius che si aprivano.
«Che io sia fottuto» mormorò. «Guarda c…»
Mia attraversò la cella in un lampo e afferrò l’uomo per la gola,
mettendogli una mano sopra la bocca. Sidonius la artigliò a sua volta, i
muscoli che si ingrossavano, ringhiando mentre i due lottavano. Sid era più
grosso e Mia più veloce, e i due si azzuffarono in silenzio nella paglia.
Ciascuno afferrò l’altro in una presa per strozzare, le vene che pulsavano
nelle loro gole; dagli occhi di Sid sgorgavano lacrime.
«P-pa…» gorgogliò lui.
Perfino mentre Mia lo strozzava, la presa dell’uomo si serrò. La gola
della ragazza era sempre più chiusa e aveva un bruciore al petto, l’afflusso
di sangue al cervello interrotto. Era ancora frastornata dal suo Passo nelle
ombre che non aveva idea se il grosso Itreyano avrebbe ceduto prima di lei.
Non aveva idea di cosa lui avrebbe fatto se fosse stata lei a cedere…
«P… pace» riuscì a dire a fatica Sidonius.
Mia allentò la stretta per una frazione di secondo, guardandolo negli
occhi. L’omone fece lo stesso, permettendo a un semplice alito di entrarle
nei polmoni. Lenta come ghiaccio che si scioglieva, lei lo liberò dalla stretta
e le dita di lui lasciarono il suo collo. Mia rotolò giù dal grosso Itreyano e si
ritirò in un angolo della loro cella.
«’Bisso e sangue» mormorò Sid, massaggiandosi la gola. «Q… questo
perché?»
«Hai visto» sussurrò Mia.
«E allora?»
«Tu sai. Cosa sono.»
Sid trasalì, cercando di deglutire. Bisbigliò in tono così basso che lei
quasi non riuscì a sentire.
«Tenebris.»
Mia non disse nulla, gli occhi scuri fissi nei suoi.
«E per questo mi merito di essere dannatamente strozzato?» incalzò lui.
«Tieni bassa quella cazzo di voce» sbraitò Mia, guardandosi attorno
verso le altre celle.
«… un consiglio che tutte le parti interessate farebbero meglio a
seguire…»
Sidonius sgranò gli occhi quando l’umbragatto comparve sulla spalla di
Mia.
«Che mi fottano…» mormorò.
«… un’offerta generosa, ma no, grazie…»
«E grazie a te per avermi detto che tutto sembrava sgombro» sussurrò
Mia.
Il non-gatto inclinò la testa.
«… non posso essere perfetto in ogni senso…»
Mia e Sidonius si guardarono a vicenda dai lati opposti della paglia.
C’era paura nello sguardo dell’uomo: paura dell’ignoto, paura di ciò che lei
era. Ma malgrado ciò, Sidonius rimase in silenzio e trattenne la lingua,
guardandola con occhi incuriositi.
«Non dovresti chiamare le guardie urlando, ora?» chiese Mia.
«Farfugliando che dovrebbero inchiodarmi per stregoneria?»
«Stregoneria?» la sbeffeggiò Sid. «Ti sembro forse un paesano
rincitrullito?»
«… Ammetto che stai ricevendo la notizia meglio di molti altri.»
«Ho visto parecchio di questo mondo, piccolo Corvo. E tu non sei la
cosa più strana. Nemmeno un po’.» L’Itreyano si appoggiò all’indietro
contro le sbarre e incrociò le braccia. «È vero, allora… quello che si dice su
di voi?»
«Che mandiamo a male il latte dove passiamo e defloriamo vergini
ovu…»
«Che passate attraverso i muri, piccola idiota. Mi sono svegliato per
pisciare mezz’ora fa e tu non c’eri. Poi pop, sei comparsa dal nulla.»
«Non è quello che è successo, Sid.»
«So cos’ho visto, Corvo.»
Nella villa sopra di loro si potevano udire i suoni del risveglio. I passi
dei cuochi sulle assi, il cambio della guardia lì fuori. Presto l’executus
sarebbe sceso a svegliarli per il primo giro di esercizi sfiancanti.
Mia guardò Sidonius negli occhi, studiandolo con attenzione.
Quell’uomo era uno smargiasso, un bruto e un completo idiota quando si
trattava di donne. Ma non era uno sciocco. Mia non si fidava di lui,
nemmeno lontanamente. Ma avevano sanguinato assieme sulle sabbie di
Blackbridge, e quello voleva dire qualcosa. Tuttavia, non c’era possibilità
che fosse disposta a condividere qualcosa di sé senza che lui le desse
qualcosa in cambio…
Guardò le nocche sfregiate e i muscoli sodi che rivelavano un uomo che
aveva passato la vita a combattere. Quei freddi occhi azzurri che parlavano
di lunghe miglia e anni ancora più lunghi. La parola CODARDO marchiata a
fuoco sulla sua pelle.
«E quante parti del mondo hai visto?» gli chiese.
«Liis» rispose lui. «Vaan. Itreya. Ovunque la compagnia mi portasse.»
Mia sollevò un sopracciglio. Ricordò il modo in cui Sid si era
comportato durante la Sfrondatura. Sbraitava ordini come un uomo abituato
al comando. Elaborava tattiche come…
«Eri nella legione itreyana» disse lei.
Sid scosse il capo. «Ero Luminatii, piccolo Corvo. Ho servito il tribuno
per cinque anni.»
Mia strinse gli occhi e provò un senso di gelo nella pancia. «Hai servito
Marcus Remus?»
«Remus?» Sid sghignazzò. «Quel viscido infame? ’Bisso, no. Ho servito
il tribuno prima di lui. Il vero tribuno, ragazza. Il fottuto Darius Corvere.»
Il cuore di Mia le sobbalzò nel petto. La lingua si attaccò al palato.
Madre Nera, quest’uomo aveva servito suo padre.
“Ma questo non ha senso…”
«Io…» Mia si schiarì la gola. «Ho sentito che tutto l’esercito degli
Incoronatori fu crocifisso… sulle rive del Coro. Lastricarono i gradini della
casa del senato con i loro teschi.»
«Io non ero lì quando l’esercito di Corvere e Antonius andò in pezzi.»
Sid si sfregò il marchio sul petto e la sua voce divenne lontana. «Mi sono
sempre chiesto se avrei potuto fare qualcosa di buono, se ci fossi stato…»
Si passò una mano sui cortissimi capelli neri. Indicò con il capo le mura
che li circondavano. Le sbarre che li rinchiudevano.
«Questa era la casa di Corvere, sai» sospirò. «Lui e la sua familia erano
soliti trascorrere le estati qui, credo. La ragazzina. Il neonato. Prima che la
dessero a quel serpente di Remus. E pensare che è qui che terminerò i miei
cambi. Rinchiuso nel sotterraneo di quello stronzo. Vincendo sangue e
gloria per la sua vedova finché le mie viscere non dipingeranno la sabbia.»
E così, Sidonius non aveva soltanto servito suo padre. Era rimasto leale
quando l’intera Repubblica si era rivoltata contro di lui…
Denti della Mannaia, non se lo sarebbe mai immaginato. Pensare che
avrebbe incontrato uno degli uomini di suo padre, proprio sotto questo
tetto? Se prima non aveva provato alcuna affinità per quest’uomo accanto a
cui aveva sanguinato a Blackbridge, ora la sentì riempirle il petto. Il modo
in cui Sidonius parlava di suo padre le faceva venire voglia di baciare
quello stupido coglione.
“Il vero tribuno” aveva detto.
Quando chiunque altro si era riferito a Darius Corvere chiamandolo
semplicemente “traditore”.
Mia si massaggiò la gola ammaccata e la sua ombra si increspò mentre
Messer Cortese beveva la sua paura. Non aveva parlato molto del suo dono,
con nessuno. Le persone temevano quello che non capivano e odiavano
quello che temevano. Ma nonostante tutta la stranezza di quel potere,
Sidonius non sembrava minimamente spaventato, non più.
“È un tipo strano…”
«Non posso attraversare le pareti» confessò.
Gli occhi di Sid si misero a fuoco, guardandola dall’altro lato della cella.
«È come se facessi una specie di… Passo. In un certo senso. Tra le
ombre, intendo.»
«’Bisso e sangue» mormorò l’omone.
«Ma dopo mi fa venire da vomitare» aggiunse. «E posso rendermi
invisibile. Ma sono quasi cieca quando lo faccio. Non è un dono così
meraviglioso, a dire la verità.»
«E il tuo passeggero?»
«Di’ ciao, Messer Cortese.»
«… ciao, messer cortese…»
«Perciò puoi lasciare queste celle ogni momento che vuoi?»
Mia scrollò le spalle. «In un certo senso.»
L’Itreyano scosse la testa meravigliato. «Allora, nel nome del
Semprevigile e delle sue Quattro fottute Figlie, cosa ci fai ancora qui,
piccolo Corvo?»
La saracinesca si alzò tremolando quando una guardia tirò una leva
mekana. L’executus marciò nella caserma, la barba ingrigita irta, la frusta
arrotolata nella mano.
«Gladiatii!» sbraitò. «Attenti!»
Con una scrollata di spalle a Sid, Mia si alzò per iniziare il lavoro di quel
cambio.
CAPITOLO 14
RESPIRARE
Due soli ardevano nei cieli tersi, il giallo bruciante di Shiih e il rosso sangue
di Saan contro una coltre di azzurro bellissimo e sconfinato. a Il calore
luccicava sull’oceano infinito e Mia maledisse il Semprevigile per la
centesima volta quel cambio.
Danzava per il cerchio, schivando i colpi di Cantalame, muovendosi
dentro e fuori dalla sua portata. La faccia della donna era inespressiva come
pietra e la sua spada di legno fischiava come se conoscesse il suo nome.
«No!» tuonò l’executus dal margine del cerchio. «Stai balzellando come
una dannata neralepre. Ti stancherai e perderai i sensi se continui a danzare
in questo caldo. Lo scudo è un’arma, proprio come la tua lama. Sbatti via i
colpi della tua avversaria e falle perdere l’equilibrio.»
Mia sollevò il grosso rettangolo di legno e ferro ricurvo sul suo braccio
destro. Era pesante come una pila di mattoni, fissato con una striscia di
corda vecchia. Odiava quel fottuto arnese, a dire la verità, ma quello che
diceva Arkades era vero: stava sudando come un porco a causa di tutte
quelle schivate. Cercò di seguire le sue istruzioni, ma quando Cantalame
sollevò la spada e la calò su Mia come un tuono, la ragazza balzò per istinto
oltre la guardia della donna e le sbatté la propria lama contro il tendine.
«Merda» sbraitò Cantalame. «È più veloce di un drachetto, questa.»
«No!»
L’executus entrò zoppicando nel cerchio, sfoderando il gladio d’acciaio
che portava sempre durante le sessioni.
«Se non la smetti di danzare come una sposa al suo matrimonio, giuro
che ti azzoppo…»
Mia si mise sulla difensiva, pensando forse che Arkades avesse
intenzione di colpirla. Invece lui conficcò la spada nel terreno, proprio al
centro dell’anello. Schioccò le dita per chiamare Verme, che aspettava come
sempre all’ombra del piccolo capanno nell’angolo del cortile.
«Corda» ordinò Arkades.
La ragazza si precipitò alle rastrelliere delle armi, poi staccò una delle
corde che i gladiatii usavano per fare ginnastica. Trascinandola da Arkades,
Verme guardò con occhi curiosi mentre l’executus fissava un capo attorno
all’elsa della sua lama e l’altro alla gamba di Mia.
«Danza con quella, neralepre» la redarguì.
Arkades tornò al bordo del cerchio e sbraitò a Cantalame di attaccare.
Incapace di schivare, Mia fu costretta a usare il suo scudo e i colpi di
Cantalame piovevano come tuoni. Gli impatti scossero il braccio di Mia fin
quando la vecchia fune che fissava lo scudo al suo avambraccio non si
ruppe definitivamente a metà, impigliando la sua mano nella stretta di cuoio
annodata. Con una serie di suoni umidi e schioccanti, tre delle dita di Mia si
spezzarono alla nocca.
«’Bisso e fottuto sangue!» imprecò lei, lasciando cadere lo scudo.
Gli altri gladiatii nel cortile si voltarono a fissarla, osservando mentre si
piegava in due stringendosi la mano. Macellaio rise, mentre Alzaonda si
lanciò in un applauso. Fissando con un’occhiataccia il suo scudo rotto, Mia
gli assestò un calcio furioso («Fottuto aggeggio!») e lo fece volare dall’altra
parte del cortile prima di lasciarsi cadere fra la polvere.
«Aaaahi» gemette, stringendosi forte le dita dei piedi ora lussate con la
sua unica mano sana.
«Fammi vedere» disse l’executus, avvicinandosi per inginocchiarsi
accanto a lei.
Mia sollevò la mano tremante. Il mignolo sporgeva a un angolo
completamente sbagliato, anulare e medio erano entrambi storti. Arkades
girò la mano da una parte e dall’altra mentre Mia si contorceva e
imprecava.
«Mi hai rotto le dita!» esclamò, guardando storto Cantalame.
La donna scrollò le spalle, scostando via dalla faccia le lunghe
salciocche.
«Benvenuta sulla sabbia, Corvo.»
«Smettila di frignare, ragazza» disse Arkades stringendo gli occhi.
«Sono solo slogate. Verme!»
La ragazzina drizzò le orecchie dal suo posto all’ombra vicino al
capanno e accorse da Mia. Slegandole la corda alla caviglia, Verme aiutò
Mia ad alzarsi e lei si sollevò con un sussulto. Gli altri gladiatii tornarono al
loro addestramento mentre Verme conduceva Mia per mano lungo il cortile.
Lei vide Furian che si esercitava con Alzaonda, osservandola con la coda
dell’occhio. Il volto del giovane era una maschera inespressiva, mentre la
pancia di Mia, come sempre quando lui le era vicino, era un nodo di nausea
e fame.
“Io lo faccio sentire allo stesso modo?”
Verme portò Mia in una lunga stanza sul retro della fortezza, che
conteneva quattro lastre di arenaria. La pietra era dell’identico color ocra
bruciato dei dirupi attorno a loro, ma era macchiata di un rosso più intenso,
piccoli spruzzi sulla superficie.
“Macchie di sangue” si rese conto Mia.
«Puoi sederti» disse Verme con una vocina timida.
Mia fece come ordinato, tenendo la mano pulsante contro il petto. Verme
trotterellò per la stanza, frugando in una serie di forzieri. Tornò con una
manciata di stecche di legno e una palla di cotone marrone intrecciato.
«Allunga la mano» le ordinò la ragazzina.
L’ombra di Mia si gonfiò, con Messer Cortese che beveva la sua paura al
pensiero di ciò che stava per accadere. Verme esaminò le sue dita,
accarezzandosi il mento. Poi, delicata come foglie che cadono, afferrò il
mignolo di Mia.
«Non farà male» promise. «Sono bravissima con queste cose.»
«D’accooooaaaaAAAHHH!» strillò Mia quando Verme le rimise a posto
il dito con uno schiocco, rapidissima. Si alzò dalla lastra e si piegò in due,
tenendosi la mano.
«Ha fatto MALE!» urlò.
Verme annuì con solennità. «Sì.»
«Hai promesso che non l’avrebbe fatto!»
«E tu mi hai creduto.» La ragazza le rivolse un sorriso dolce come
zucchero filato. «Te l’ho detto, sono bravissima con queste cose.» Indicò di
nuovo la lastra. «Torna a sedere.»
Mia ricacciò indietro lacrime calde, la mano che pulsava dal dolore.
Però, guardando il dito, riuscì a vedere che Verme l’aveva rimesso a posto,
facendo schioccare la giuntura dislocata nella posizione più corretta
possibile. Inspirando a fondo, tornò a sedersi e offrì servizievolmente la
mano.
La ragazzina prese l’anulare di Mia e alzò lo sguardo su di lei con grossi
occhi scuri.
«Conterò fino a tre» disse.
«D’accoooaaaaaCAZZO!» strepitò Mia quando Verme rimise a posto la
giuntura. Si alzò saltellando in giro per la stanza, la mano ferita tra le
gambe. «Merda cazzo fica fottuta fanculotutto!»
«Imprechi parecchio» si accigliò Verme.
«Hai detto che avresti contato fino a tre!»
Verme annuì tristemente. «E tu mi hai creduto di nuovo, vero?»
Mia sussultò e strinse i denti, squadrando la ragazzina dall’alto in basso.
«… Sei davvero bravissima in questo» si rese conto.
Verme sorrise e diede una pacca sulla lastra. «L’ultimo.»
Con un sospiro, Mia tornò a sedersi, la testa che le ondeggiava dal dolore
quando Verme afferrò delicatamente il dito medio. Guardò Mia con
solennità.
«Ora, questo farà male davvero» la avvisò.
«Aspe…» La Lama sussultò quando Verme rimise a posto il dito.
Mia sbatté le palpebre.
«Ahi?» disse.
«Tutto fatto» sorrise Verme.
«Ma quello era il più facile di tutti?» protestò Mia.
«Lo so» replicò Verme. «Sono…»
«… bravissima in questo» terminarono entrambe.
Verme cominciò a steccare le dita di Mia, legandole strette per limitarne
i movimenti. I tre cerchi marchiati nella guancia della ragazzina non erano
più un mistero…
«Perché ti chiamano Corvo?» chiese mentre lavorava.
Mia guardò la ragazza con attenzione, cercando di ignorare il dolore
caldo e pulsante della sua mano. Verme era liisiana: pelle abbronzata e
intricati capelli scuri, come i suoi grandi occhi. Era ossuta, e il vestito
sottile copriva la sua corporatura magra.
“Non può avere un cambio più di dodici anni” ipotizzò Mia.
Forse era vederla nella fortezza dove lei era cresciuta. Forse era
quell’intelligenza sbarazzina che scintillava in quegli occhi scuri o il modo
così spavaldo in cui parlava alle persone più anziane. Ma a dire la verità, a
Mia quella ragazzina ricordava un po’ lei stessa…
«Perché ti chiamano Verme?» replicò Mia.
«L’ho chiesto prima io.»
«Corvo è un soprannome.»
Mia ripensò alla prima volta in cui qualcuno l’aveva chiamata così. Al
suo incontro con il vecchio Mercurio. L’anziano aveva riempito di lividi di
sette colori alcuni giovani malviventi che avevano rubato la spilla di Mia. Il
cambio dopo che suo padre era stato impiccato. Lei era la figlia di un
traditore, ricercata dagli uomini più potenti della Repubblica. E Mercurio
non ci aveva pensato due volte ad accoglierla, darle un tetto e salvarle la
vita.
“Madre Nera, quanto ha rischiato per me…”
Mia scosse il capo, ripensando al folle piano che aveva escogitato.
“Quanto sta ancora rischiando per me.”
«Me lo diede un amico» disse Mia. «Quando ero una ragazzina. Avevo
un gioiello che raffigurava un corvo. Per questo mi diede quel nome.»
«Io non ho mai avuto nessun gioiello» rifletté Verme.
«Nemmeno io, da allora. Quello era un regalo di mia madre.»
«Dov’è tua madre, ora?»
La domina guardò sua figlia, gli occhi sgranati e un sorriso giallo,
instabile e troppo ampio. Messer Cortese si materializzò sul pavimento
della cella accanto a Mia e Domina Corvere sibilò come se fosse stata
scottata, ritraendosi dalle sbarre e mostrando i denti in un ringhio.
«Lui è dentro di te» sussurrò la domina. «Oh, Figlie, è dentro di te.»
Mia fissò il pavimento di pietra. Gli schizzi di sangue vecchio ormai
marrone.
«Non c’è più» rispose.
Verme guardò Mia e annuì tristemente mentre legava la fasciatura.
«Anche la mia» disse. «Ma mi ha insegnato tutto quello che sapeva. E
così, ogni volta che suturo una ferita, metto a posto un osso o guarisco una
febbre, lei è con me.»
Un bel pensiero, meditò Mia. Uno che senza dubbio veniva cantato agli
orfani di tutto il mondo dal principio del tempo. Ma perfino se ci fosse stata
qualche somiglianza con suo padre nel modo in cui combatteva, e con sua
madre nel modo in cui parlava, i suoi genitori erano comunque morti e
sepolti. Se fossero stati con lei, sarebbero stati come fantasmi sulla sua
spalla, sussurrando nell’illuminotte tutto ciò che sarebbe potuto essere.
Se non fosse stato per loro…
Mia girò la mano ferita da una parte e dall’altra. Era dolorante, ma meno
di prima. In una settimana circa sarebbe stata come nuova.
«Ancora non mi hai detto perché ti chiamano Verme» disse.
La ragazzina guardò in profondità negli occhi di Mia.
«Prega di non scoprirlo mai» disse.
Quindi uscì dall’infermeria, seguita da Mia. Verme si ritirò al suo posto
all’ombra mentre l’executus zoppicava verso Mia, prendendo un piccolo
sorso dalla fiasca che aveva all’anca mentre camminava. Afferrandole il
polso, guardò accigliato la sua mano ferita.
«Non ti eserciterai con questa per alcuni…»
«Executus» giunse una voce delicata.
Arkades alzò lo sguardo verso la balconata. Domina Leona era lì in
piedi, i capelli ramati in lunghi boccoli fluenti, l’abito di seta azzurro come
il cielo sopra di loro. Accanto a lei c’era un Liisiano dall’aspetto piuttosto
azzimato, con una redingote fin troppo elegante per quel posto e fin troppo
calda per quel clima. Era fiancheggiato da due robuste guardie del corpo
con farsetti di cuoio.
«Attenti!» sbraitò Arkades.
Tutto il cortile rimase immobile a quell’ordine e i gladiatii si voltarono
verso la loro padrona.
«Executus, occupati di Matilius.» La domina lanciò un’occhiata a un
grosso Itreyano che si stava esercitando con un Liisiano di nome Otho.
«Deve accompagnare questi uomini alla casa del suo nuovo padrone.»
Le sopracciglia di Arkades si contrassero in un cipiglio. «Nuovo
padrone, Mea Domina?»
«È stato venduto a Varro Caito.»
I gladiatii si scambiarono occhiate imbarazzate e Mia notò l’improvviso
cambiamento di umore. Matilius mise da parte le sue lame da
addestramento e si accigliò mentre alzava lo sguardo verso Leona.
«Dominatii» disse l’Itreyano. «Vi ho forse… deluso?»
Leona fissò l’omone con occhi azzurri scintillanti. Ma con uno sguardo
all’uomo azzimato accanto a lei, la sua espressione divenne dura come la
pietra rossa sotto i suoi piedi.
«Non sono più la tua Dominatii» disse. «Ma non hai comunque alcun
diritto di contestarmi. Resta al tuo posto, schiavo, se non vuoi che ordini
all’executus di darti un regalo d’addio.»
L’omone abbassò lo sguardo, la perplessità che si agitava nei suoi occhi.
«Le mie scuse» borbottò.
Il freddo sguardo azzurro di Leona si posò su Arkades. «Executus,
provvedi a questo trasferimento. Voialtri, tornate a esercitarvi.»
Arkades si inchinò. «Il vostro sussurro, la mia volontà.»
Anche se la nascondeva bene, Mia poteva vedere comunque la
confusione negli occhi dell’executus. Qualunque fosse la natura di questa
“vendita”, era evidente che Leona non si era consultata con lui in proposito.
L’omone si mise dritto e guardò Mia, poi la sua mano ferita.
«Tu non ti eserciterai per i prossimi tre cambi, ragazza.» Indicò con un
cenno del capo i biondi gemelli vaaniani che si stavano allenando con i
fantocci da addestramento dall’altro lato del cortile. «Domani
accompagnerai Bryn e Byern all’equorium. Puoi aiutarli con i loro esercizi,
almeno.»
Voltandosi, il Leone Rosso zoppicò lentamente lungo il cortile. Matilius
stava dicendo rapidi addii agli altri gladiatii negli ultimi momenti che gli
rimanevano. Afferrò il braccio di Furian e lo strinse. Cantalame lo cinse in
un abbraccio fortissimo, Macellaio e Alzaonda gli diedero delle pacche
sulla spalla. Matilius guardò Mia dall’altro lato del cortile e le rivolse un
cenno del capo, che lei ricambiò. Non l’aveva conosciuto bene, ma
sembrava un tipo a posto. Ed era chiaro che aveva amici, qui nel collegio:
fratelli e sorelle con cui aveva combattuto e sanguinato, e adesso era
costretto a dire loro addio.
Mia si diresse verso i fantocci da addestramento e si mise accanto a Bryn
e Byern. La ragazza vaaniana era bassa, quasi graziosa, la sua alta crocchia
zuppa di sudore. Byern era più alto e di bell’aspetto, la mascella squadrata e
le spalle ampie. La sua spada addestramento gli pendeva nella mano mentre
osservava Matilius dire i suoi addii. I Vaaniani avevano più o meno l’età di
Mia, ma per qualche motivo sembravano più vecchi.
Qualcosa negli occhi, forse.
«Chi è Varro Caito?» chiese Mia piano.
I gemelli sobbalzarono: non avevano udito Mia avvicinarsi. Con aria
accigliata, Bryn si voltò di nuovo verso gli addii, lanciando un’occhiata
velenosa al Liisiano azzimato sulla balconata.
«Un mercante di carne» replicò. «Gestisce il Pandemonium.»
Mia sollevò un sopracciglio con aria interrogativa.
«Una fossa di combattimento» spiegò Bryn. «Sottoterra. Non autorizzata
dagli administratii. Ma le battaglie sono sanguinose. E popolari. Pagano
bene per gli ex gladiatii.»
«Perciò è una specie di arena?»
Byern scosse il capo. «Non c’è onore lì. Niente regole. Nessuna pietà. Il
Pandemonium è più simile a un combattimento di cani che al venatus. E le
contese sono sempre alla morte. Molti guerrieri periscono entro pochi
cambi. Perfino i migliori resistono solo un mese.»
Mia osservò Matilius che stava venendo ammanettato dall’executus e
consegnato al mercante di carne liisiano. Le guardie del corpo controllarono
i ferri e annuirono. E, con un ultimo sguardo, l’uomo fu scortato via dal
cortile nella custodia del suo nuovo padrone.
Bryn sospirò e scosse il capo. «Va alla propria morte.»
«Allora perché ci va?» chiese Mia.
«Cos’altro potrebbe fare?» replicò Byern.
«Fuggire» rispose lei in tono feroce. «Combattere.»
«Combattere?» Bryn guardò Mia come se fosse una bambina. «C’è stata
una rivolta di schiavi giù a Crow’s Rest. Sette o forse otto mesi fa. Ne hai
sentito parlare?»
Mia scosse il capo.
«Due schiavi si erano innamorati» disse Byern. «Volevano sposarsi, ma
il loro Dominatii lo proibì. Così i due tagliarono la gola del loro padrone
durante l’illuminotte e fuggirono. Riuscirono ad arrivare fino a Dawnspear
prima di essere catturati. Sai cosa fecero gli administratii?»
«Li crocifissero, immagino» disse Mia.
«Sì» annuì Bryn, lisciandosi l’alta crocchia. «Ma non solo loro.
Frustarono e crocifissero ogni schiavo nella casata dello stesso Dominatii
assieme a loro per dare l’esempio. L’unico che risparmiarono fu lo schiavo
che disse agli administratii dove trovare gli assassini. E per la sua lealtà alla
Repubblica, quello schiavo fu costretto a impugnare la frusta durante le
fustigazioni.»
«Questo è il prezzo della ribellione a Itreya» disse Byern.
Le labbra di Mia si arricciarono al pensiero. Provò nausea. Aveva saputo
che la vita di uno schiavo nella Repubblica era crudele, spesso breve.
Sapeva che la punizione per chi si ribellava era tremenda. Ma Madre Nera,
quella brutalità…
«Tu le hai viste?» chiese lei piano. «Le esecuzioni?»
Byern annuì. «Le abbiamo viste tutti. Gli administratii ordinarono che
tutti gli schiavi di tutte le casate di Rest venissero ad assistere. Il ragazzo
più giovane che hanno impiccato non poteva avere più di otto anni.»
«Quattro Figlie» mormorò Mia. «Non avrei mai immaginato…»
«Come gladiatii, il tuo destino è migliore di molti altri» disse Bryn.
«Sangue. Gloria. Siine grata.»
Mia scrutò la ragazza in tralice. «Tu sei grata?»
Bryn guardò la spada di legno che aveva in mano. Suo fratello, Byern,
era dritto accanto a lei. Bryn alzò lo sguardo verso il cielo, poi lo abbassò
sulla sabbia ai suoi piedi.
«Noi resistiamo» replicò infine.
Mia guardò Matilius che veniva scortato fino al cancello principale. Si
soffermò davanti al cancello, lanciando un’ultima occhiata ai suoi fratelli e
sorelle e alzando le mani in segno d’addio. Bryn agitò il braccio in risposta
e Byern chiuse il pugno e lo portò sopra il cuore. Poi Matilius fu spintonato
da dietro e sparì alla vista.
Mia scosse il capo, domandandosi cosa avrebbe fatto al suo posto. Si
sarebbe opposta in un futile gesto di sfida, provocando la morte dei suoi
fratelli e sorelle? O avrebbe marciato in silenzio verso la sua morte? Come
si sarebbe sentita se la vita in questo collegio fosse stata davvero il suo
destino? Se invece di poter Passare fuori dalle mura quando avesse voluto
fosse stata realmente intrappolata qui, senza nessun controllo, né voce in
capitolo sul proprio futuro?
«Come?» domandò. «Come sopporti l’insopportabile?»
«A Vaan abbiamo un detto» replicò Byern. «In ogni respiro, dimora la
speranza.»
Bryn si voltò verso Mia.
Un rapido sorriso mascherava il suo dolore.
Una pacca sulla schiena di Mia interruppe quell’orrenda quiete.
«Continua a respirare, piccolo Corvo.»
a. Anche se l’impero ashkahi terminò con una misteriosa calamità dovuta alla magika millenni or
sono, resti del linguaggio sopravvivono nella Repubblica itreyana a tutt’oggi. I nomi dei tre soli,
Shiih (il Sorvegliante), Saan (il Veggente) e Saai (il Sapiente), ne sono l’esempio più evidente, ma
può essere interessante notare come anche i nomi del pantheon itreyano siano parole ashkahi.
Aa è il termine ashkahi per “tutto” e Niah sta per “nulla”. Gli accademici itreyani passano
molto tempo a discutere tra loro ai ricevimenti, dibattendo se entrambi, Aa e Niah, fossero adorati
nella Vecchia Ashkah e se la religione della Repubblica sia molto più antica della Repubblica
stessa. Preferibilmente mentre consumano enormi quantità di vino.
Aa stesso non ha fatto alcun commento, incazzato o meno, al riguardo.
CAPITOLO 15
GIUSTO
Passò
nell’ombra
oltre
la saracinesca.
Wsssshhthunk.
La freccia colpì il fantoccio impagliato, vicino al cuore.
Wsssshhthunk.
Un’altra andò a conficcarsi più vicino della prima.
Wsssshhthunk.
Una terza centrò il bersaglio proprio nella faccia priva di fattezze.
Mia abbassò il suo arco, le dita della mano destra che pulsavano.
«Ottimo lavoro» disse Bryn accanto a lei. «Dove hai imparato a tirare
così?»
«L’ho letto in un libro» ringhiò Mia. «Quando ho finito di fottere tuo
padre.»
La ragazza vaaniana ridacchiò, sollevando il proprio arco e tendendo la
corda.
«Brutta illuminotte, piccolo Corvo?»
Mia mise da parte l’arco, sussultando per il dolore. «Ne ho avute di
migliori.»
«Non con il mio povero vecchio papà, scommetto» sogghignò Bryn.
La bionda scagliò mezza dozzina di frecce in rapida successione. Tre si
conficcarono nel cuore del fantoccio, due nella gola e l’ultima nella testa.
«Denti della Mannaia…» mormorò Mia.
«Dovresti vederla tirare con la mano buona» disse Byern, passando
accanto alle due con un mucchio di borselli di cuoio in spalla.
«Ah, quello sì che sarebbe darsi delle arie» replicò Bryn.
I gemelli avevano lasciato Crow’s Nest quella mattina presto, proprio
come facevano un cambio ogni due. Come da ordini dell’executus, Mia li
aveva accompagnati, seguendoli come un cane senza un osso. Arkades
aveva zoppicato assieme a loro fino ai cancelli della fortezza e Mia aveva
cercato di non lasciar trasparire il cipiglio dalla sua faccia nel ricordarsi
come l’uomo aveva parlato di lei l’illuminotte prima. Arkades non aveva
fatto parola della sua imminente vendita, la spada che le pendeva sopra la
testa. Lui non le stava offrendo una possibilità di dar prova di sé, no. Era
chiaro che l’executus voleva semplicemente che sparisse.
A dire la verità, feriva il suo orgoglio. Più di quanto avrebbe dovuto. Mia
non sapeva perché volesse la sua approvazione. Ma nelle ore successive,
l’orgoglio ferito era diventato una rabbia bruciante. Non aveva altro tempo
da perdere: essere venduta a un altro padrone era un rischio che non poteva
permettersi di correre. Doveva dare prova di sé. Non ad Arkades, ma a
Domina Leona.
A parte il fatto che si portava a letto Furian, Mia sospettava che la
domina vedesse ancora in lei un certo valore. Mia aveva infiammato il
pubblico a Blackbridge e la reazione della folla aveva acceso piccole braci
di rispetto che ardevano nel petto di Leona. Mia aveva bisogno di un modo
convincente per far sì che quella scintilla si trasformasse in una fiamma.
Il venatus di Stormwatch avrebbe deciso il suo futuro, in questo collegio
e nell’arena. Il suo piano per assassinare Duomo e Scaeva era in bilico.
Ancora non aveva idea di come spostare la bilancia a suo favore.
Mia, Bryn e Byern erano stati scortati da quattro guardie della casa di
Domina Leona nel terreno brullo dietro Crow’s Nest. Dopo mezzo miglio,
avevano raggiunto un percorso oblungo di circa un miglio, contrassegnato
da pietre piatte nella sabbia ocra. Da un lato c’era una stalla e Byern vi
entrò con le briglie e i finimenti mentre Bryn scagliava una faretra di frecce
dopo l’altra nei tre fantocci di paglia.
Le guardie rimasero all’ombra, non prestando attenzione. Mia si rese
conto di quanto sarebbe stato facile scappare per Bryn e Byern: poche
frecce nel petto di ciascuna guardia, due cavalli e i gemelli sarebbero stati
come polvere all’orizzonte. Ma anche se fossero riusciti a farsi strada nella
Repubblica con i marchi sulla guancia, i gemelli avrebbero condannato ogni
altro gladiatii della stalla di Leona a essere giustiziato nell’arena.
Doveva riconoscerlo agli administratii: quei bastardi spietati sapevano il
fatto loro.
Le dita di Mia si stavano ricoprendo di lividi, e le faceva male
impugnare l’arco a lungo, perciò si accontentò perlopiù di guardare Bryn.
La ragazza era in grado di tirare alla cieca, sia con la sinistra sia con la
destra. E in quella che poteva essere la dimostrazione più straordinaria di
destrezza a cui Mia avesse mai assistito, si mise lentamente in equilibrio
sulle mani, inarcò la schiena e scagliò alcuni colpi con i piedi, trafiggendo
l’uomo di paglia nel cuore.
«A proposito di darsi delle arie…» disse Mia.
Bryn si raggomitolò con un movimento fluido e si mise dritta, pulendosi
i palmi dalla polvere.
«È un gioco da ragazzi quando né tu né i bersagli siete in movimento»
disse con una scrollata di spalle. Voltandosi verso le stalle, chiamò suo
fratello. «’Bisso e sangue, Byern, stai mettendo i finimenti a quei cavalli o
gli stai chiedendo di sposarti?»
«Gliel’ho chiesto prima, ma entrambi hanno detto di no» fu la sua
risposta.
«Be’, vuol dire che hanno ottimo gusto.»
Il gemello di Bryn emerse dalla stalla, portando un grosso scudo e
guidando un paio di cavalli legati a una lunga biga slanciata. Gli animali
erano bianchi come nuvole, i muscoli come intagliati nel marmo.
Involontariamente, Mia provò una piccola fitta quando li vide, pensando al
proprio stallone, Bastardo. Dopo che l’aveva salvata da morte quasi certa
nel deserto ashkahi, Mia l’aveva liberato invece di rinchiuderlo nella stalla
della Chiesa Rossa. Sperava che stesse vagabondando in qualche luogo
piacevole, generando quanti più suoi bastardini possibile.
Le mancava.
Le mancavano parecchie cose di quel periodo, per la verità…
«Sorella Corvo,» disse Byern, indicando i cavalli con un gesto plateale
«ti presento Spina e Rosa.»
Mia esaminò la coppia che tirava la biga di Byern. Come ogni cavallo
che aveva incontrato, quegli animali erano irrequieti vicino a lei, perciò Mia
si teneva sempre piuttosto alla larga da loro. Il fatto che avesse chiamato
“Bastardo” l’unico cavallo che l’avesse mai tollerata la diceva lunga su ciò
che pensava di quelle bestie in generale, ma riconosceva un ottimo
esemplare quando lo vedeva.
«Sono giumente» osservò Mia. «Molti degli equillai che ho visto usano
stalloni.»
«Molti degli equillai che hai visto sono idioti» replicò Byern.
Sua sorella annuì. «Gli stalloni pensano con i loro uccelli. Le giumente
sanno tenere la testa a posto in un momento di crisi. Vale tanto per i cavalli
quanto per gli umani, eh, fratello mio?»
Byern alzò un dito come ammonimento. «Rispetta chi è più vecchio di
te, poppante.»
«Sei più vecchio di me di due minuti, Byern.»
«Due minuti e quattordici secondi. Ora, vieni oppure no?»
«Mettiti lì al centro» ordinò Bryn a Mia, annuendo verso il tracciato
polveroso. «Quando te lo dico, scaglia meglio che puoi.»
«… Vuoi che ti tiri una freccia?» chiese Mia, sollevando un sopracciglio.
Bryn scoppiò a ridere. «Voglio che ci provi. E ricordati di respirare.»
Detto ciò, la Vaaniana balzò sulla biga accanto a suo fratello. Con uno
schiocco delle redini e un occhiolino a Mia (sua sorella gli diede un pugno
sul braccio), Byern condusse i cavalli sul circuito.
La biga aveva due ruote ed era abbastanza larga e profonda da
permettere ai fratelli di scambiarsi di posto. Era rossa, rivestita di pittura
dorata, con intagliato il falcone del Collegio Remus. Anche il grande scudo
che portava Byern era dipinto con un falcone rosso e i bordi erano merlati
come le pareti di un castello fortificato.
Mia camminò fino a trovarsi nell’isola di terra ocra, circondata dal
tracciato oblungo. Fantocci di paglia erano disposti su un’unica fila nel
mezzo dell’isola, alla sinistra e alla destra di Mia. A un vero venatus, quei
fantocci sarebbero stati uomini veri: assassini e stupratori che sarebbero
stati giustiziati ex equillai davanti alla folla in adorazione. a
Mia osservò i gemelli fare il giro del circuito, sempre più veloci. La
crocchia alta di Bryn si agitava nel vento dietro di lei, mentre la pelle
bronzea di Byern scintillava alla soliluce.
«Pronta?» urlò Bryn a Mia.
«Sì» replicò la ragazza.
«Tira, piccolo Corvo!»
Mia sospirò, poi mirò al petto di Byern. Seguì la biga, respirando
lentamente come le aveva detto Bryn malgrado il dolore alle dita ferite. E
quando i due svoltarono l’angolo, lei scagliò una freccia dritta al petto
dell’attraente Vaaniano.
Byern sollevò lo scudo, bloccando il colpo con facilità. Tirando
attraverso le merlature dello scudo alzato, Bryn scagliò quattro colpi, due
dei quali atterrarono vicino ai sandali di Mia e gli altri si conficcarono nel
fantoccio di paglia più vicino a lei.
«Ti ho detto di scagliarci delle frecce, non di chiederci di ballare!» urlò
Bryn.
«Io posso danzare con te più tardi, se vuoi» gridò Byern.
Bryn perforò un altro manichino e suo fratello si sporse fuori dalla biga a
un angolo precario, raccogliendo una piccola pietra dal tracciato con la
mano libera. Mia si accigliò, cercando di scrollarsi di dosso la sensazione
che la stessero prendendo in giro.
«D’accordo, ’fanculo…» borbottò.
Mia iniziò a tirare una freccia dopo l’altra mentre i due galoppavano
attorno al circuito. E anche se la sua mira era corretta, presto si rese conto
che Bryn e Byern erano entrambi dei maestri. Lo scudo di Byern era
inespugnabile e la sua abilità nell’indirizzare i suoi cavalli eguagliava quasi
quella di sua sorella con l’arco. Nel momento più umiliante, Byern bloccò
un colpo che sibilava dritto verso la gola di Bryn, sporgendosi al contempo
fuori dalla biga per raccogliere una pietra, tenendo le redini con i dannati
denti. Nel frattempo, Bryn bersagliò tutti i fantocci con una dozzina di
colpi, facendo una pausa ogni tanto per costringere Mia a danzare tirando ai
suoi piedi.
Nove giri più tardi, i due si arrestarono di fronte a lei. Byern balzò giù
dalla biga e le rivolse un profondo inchino. «Preferisci il valzer o la balinna,
Mea Domina?»
Bryn diede un altro pugno al braccio di suo fratello e sorrise a Mia. «Bei
tiri. Mi hai quasi preso, un paio di volte.»
«Bugiarda» disse Mia. «Non ci sono nemmeno andata vicino.»
Bryn sussultò e annuì con aria triste. «Stavo solo cercando di farti sentire
meglio.»
«Dove avete imparato a farlo?»
«Nostro padre allevava cavalli» rispose Byern. «E Bryn è un demonio
con un arco da quando sa camminare.»
Mia scosse il capo. Sapeva che non avrebbe dovuto chiederlo. Sapeva
che non avrebbe dovuto affezionarsi. Ma la verità era che le piacevano,
questi due. Il sorriso facile di Byern e la spavalderia fiduciosa di Bryn.
«Come siete finiti qui?» chiese, guardando il circuito attorno a loro e la
sagoma di Crow’s Nest in lontananza. «In questo posto?»
Bryn tirò su col naso. «Un pessimo raccolto. Tre anni fa. Il villaggio non
aveva il grano per pagare il nostro tributo agli administratii itreyani. Misero
in ceppi il nostro laird e fecero flagellare lui e la sua intera familia alla
gogna.»
«La cosa non ci piacque» spiegò Byern. «Io e Bryn eravamo troppo
giovani perché nostro padre ci lasciasse andare, ma chiunque fosse grande
abbastanza da vibrare una spada si recò alla porta del magistrato. Lo
trascinarono giù alla gogna e fu lui a essere flagellato a sua volta.»
«La cosa non gli piacque» disse Bryn. «Puoi immaginare cosa accadde
dopo.»
«Legionari» disse Mia.
«Sì» annuì Bryn. «Cinquecento di quei bastardi. Uccisero ogni ribelle.
Bruciarono ogni casa. Vendettero chiunque fosse ancora in piedi. Me e mia
sorella inclusi.»
«Ma non avevate nemmeno partecipato» disse Mia. «Vostro padre non
aveva lasciato che insorgeste.»
«E pensi che agli Itreyani sia importato qualcosa?» chiese Byern con un
sorriso sghembo. «Questa intera Repubblica, perfino il regno prima di essa,
si basa sul lavoro gratuito. Ma ora Liis, Ashkah e Vaan sono tutte sotto il
controllo itreyano. Perciò da dove vengono i nuovi schiavi? Quando non
restano terre da conquistare?»
«Costruiscono una Repubblica che è ingiusta fino alle ossa» disse Bryn.
«Che avvantaggia i pochi, non i molti. Ma i pochi hanno l’acciaio. E gli
uomini che loro pagano per brandirlo, senza riflettere. Così, quando
qualcuno dei molti si oppone all’ingiustizia e alla brutalità, il sistema lo
rinchiude in ceppi. Ne fa un esempio per gli altri e, allo stesso tempo,
manda un altro corpo a essere marchiato. Un altro paio di mani a costruire
le loro strade, innalzare i loro muri, lavorare alle loro forge, tutto per una
miseria e per la paura della frusta.»
Mia scosse il capo. «Ma è…»
«Una stronzata?» suggerì Byern.
«Sì.»
«Questa è la vita nella Repubblica» scrollò le spalle Bryn.
Mia sospirò, ciocche di capelli corvini appiccicate alla faccia dal sudore.
Per tutta la vita, non aveva mai messo in discussione che il sistema fosse
giusto. Non si era mai fermata per guardarsi attorno e vedere le persone alle
sue dipendenze. Coloro che camminavano come fantasmi senza voce per la
loro casa, nei loro appartamenti nelle Costole. Gli uomini e le donne che
l’avevano vestita, le avevano preparato i pasti, le avevano insegnato i
numeri e le lettere. Sua madre e suo padre si erano occupati di loro, senza
dubbio. Avevano ricompensato quelli che servivano bene. Ma comunque li
avevano serviti. Non perché volessero. Perché l’alternativa era la frusta o la
morte.
Ebbe l’impressione che le stessero cadendo le scaglie dagli occhi. Il vero
orrore della Repubblica in cui era stata allevata fu svelato in tutta la sua
orrenda maestosità.
Tuttavia…
“Scaeva.
“Duomo.”
I loro nomi ardevano come fiamma nella sua mente. Come un faro che
guidava sempre il suo cammino, per quanto il mondo diventasse buio. Sì,
poteva vedere l’ingiustizia, la crudeltà di questo sistema. Ma cosa poteva
fare in concreto per cambiarlo? Senza rischiare tutto quello per cui aveva
lavorato? Chiudendo gli occhi, poteva vedere suo padre dondolare a un
capo della sua fune nel foro. Sua madre nella Pietra Filosofale, la luce che
svaniva dal suo sguardo mentre spingeva via la mano insanguinata di Mia e
con il suo ultimo respiro sussurrava:
«Non sei… mia figlia… Solo… la sua ombra…»
I ricordi portarono la rabbia, e la rabbia aveva un buon sapore. Le
ricordava chi era, perché si trovava qui. Per sconfiggere i più illustri
gladiatii della Repubblica. Per trovarsi trionfante davanti agli assassini della
sua famiglia e sgozzarli, uno a uno. E le sarebbe risultato difficile farlo se
fosse stata venduta come un cosciotto di manzo al mercato.
Eccellere nel venatus a Stormwatch. Quella era la sua preoccupazione.
La sua prima, la sua unica preoccupazione.
E così, malgrado il dolore alla mano ferita, incoccò un’altra freccia al
suo arco e annuì a Bryn.
«D’accordo. Dimmi cosa sto sbagliando. E poi riproviamo.»
a. Gli equillai sono una sottocategoria di gladiatii, una tradizione importata da Liis e adottata dalla
Repubblica itreyana con immenso entusiasmo: le corse degli equillai sono un momento saliente
del venatus, e gli uomini e le donne che percorrono il circuito possono ottenere tanta fama quanto
qualunque guerriero sulle sabbie.
Gli equillai combattono a coppie: un cocchiere noto come il sagmae (sella) e un arciere noto
come il flagellae (frusta). Le competizioni di equillai si tengono su un percorso oblungo,
contrassegnato al centro dell’arena, e tradizionalmente coinvolgono quattro squadre. La gara si
corre su nove giri del circuito e i vincitori sono decisi sulla base dei punti accumulati sull’intero
percorso.
I punti si ottengono in diversi modi. Primo, un colpo letale su un qualunque prigioniero al
centro della pista. I prigionieri sono legati ai pali e non possono fuggire, perciò i punti conferiti
sono bassi: solo due ciascuno.
Anche un giro completo del circuito vale due punti. Un colpo che ferisce il membro di una
squadra avversaria di equillai vale tre punti, se letale cinque. Serti di alloro, noti come coronae,
vengono anche gettati sulla pista a intervalli casuali e una squadra di equillai guadagna un punto
per ogni coronae raccolta dal terreno. Un colpo ai cavalli di una squadra avversaria comporta
invece una penalità di dieci punti: la competizione è concepita perché si affrontino gli equillai
stessi, e quelli tra voi che hanno un cuore tenero saranno lieti di sapere che attaccare le cavalcature
è considerato antisportivo.
Uccidere altri equillai nel modo più plateale possibile, però, è perfettamente accettabile e, in
effetti, incoraggiato.
b. Nelle settimane successive a Blackbridge, Mia aveva appreso che il cuoco emaciato al servizio di
Domina Leona si chiamava “Dito”, anche se nessun membro della stalla sembrava sapere perché.
Molti dei gladiatii presumevano che avesse ottenuto quel nome essendo magro come un dito,
anche se Macellaio insisteva che fosse stato membro di una banda di braavi il cui metodo preferito
di delinquenza comportava tagliare le dita meno essenziali della gente e ficcarle in orifizi
solitamente non fatti per essere riempiti.
Qualunque fosse l’origine del suo soprannome, le capacità culinarie di Dito erano solo poco più
impressionanti dell’abilità di un cieco ubriaco di trovare il pitale. La sua farinata aveva la
consistenza di muco gocciolante e, durante un ultimopasto, Mia trovò un ossicino che
assomigliava sospettosamente a una falange umana nel suo stufato.
Inutile a dirsi, Zanna, che girava sempre annusando fra i tavoli in cerca di avanzi, si
affezionava sempre di più a Mia ogni illuminotte che passava.
CAPITOLO 17
STORMWATCH
Mia camminava avanti e indietro nella sua gabbia, gli occhi fissi sulla
sabbia.
Lei, Sidonius, Cantalame, Alzaonda e Macellaio erano tutti rinchiusi in
celle al bordo dell’arena di Stormwatch, infossate sotto il pavimento.
Piccole finestre a sbarre permettevano loro di osservare il venatus mentre
attendevano il loro turno davanti alla folla. Mia si aggirava per la gabbia
meditando sugli eventi che l’avevano portata qui.
Proprio come aveva detto ad Ashlinn, i gladiatii del Collegio Remus si
erano addestrati un’altra settimana sotto i soli prima di partire per
Stormwatch. La mano di Mia era guarita abbastanza per tornare a esercitarsi
dopo pochi cambi, anche se avrebbe potuto non curarsene, visto quante
attenzioni Arkades le dedicava: era chiaro che tutte le speranze erano
riposte su Furian, Bryn e Byern per ottenere il posto nel Venatus Magni.
Origliando Domina Leona e la magistrae, Messer Cortese aveva appreso
che erano già state fatte richieste in merito alla vendita di Mia. C’erano
alcune parti interessate: una casa di piacere a Whitekeep, un magistrato in
cerca di una guardia del corpo in cui poter infilare l’uccello di tanto in
tanto, e naturalmente Varro Caito e il suo Pandemonium. Nessun vero
sanguila tra loro.
Tutto il piano di Mia era appeso alla vittoria a Stormwatch.
Avevano viaggiato fino alla città con la Mastino Glorioso, arrivando
alcuni cambi prima dell’inizio stabilito del venatus. Il porto fremeva
dall’eccitazione, e c’era gente che aveva viaggiato per miglia per assistere
ai giochi; locande, monolocali e capanni traboccavano di gente. a Ashlinn
aveva mandato Eclissi a far visita a Mia nella sua cella e l’umbralupa aveva
parlato di tutto quello che lei e Ashlinn avevano appreso sui giochi
imminenti. Nel corso delle illuminotti successive, passandosi messaggi
tramite il demone, Mia e Ashlinn avevano formulato il loro piano.
Ora non restava che metterlo in pratica.
Mia osservò gli equillai che percorrevano il circuito con gran fragore, la
percussione degli zoccoli dei loro cavalli che riverberava attraverso le pareti
di pietra. Bryn e Byern se la stavano cavando bene: erano secondi quando
mancavano ancora cinque giri. Ma se Mia pensava che i Vaaniani fossero
abili, rimase meravigliata nell’osservare la squadra di Leonides in azione. Il
padre di Leona schierava solo i migliori, e i suoi equillai non facevano
eccezione: un sagmae dweymeri il cui scudo con lo stemma del leone
sembrava impenetrabile e un grazioso flagellae liisiano la cui abilità con
l’arco era uguale a quella di Bryn, se non superiore.
«Ammazzapietra e Armando» mormorò Cantalame, in piedi presso le
sbarre accanto a Mia. «I m-migliori equillai della Repubblica. La… folla li
adora.»
Malgrado uno stupefacente colpo mortale da parte di Bryn sul sagmae di
un’altra squadra, i Leoni di Leonides si dimostrarono semplicemente i
migliori e, dopo nove giri, risultarono vincitori. Ammazzapietra e Armando
smontarono dalla biga assieme, le dita intrecciate e le mani tenute in alto in
segno di vittoria mentre dalla folla attorno a loro si levava un boato. Era
cosa nota che i due fossero amanti, e le loro capacità sbalorditive,
accoppiate all’affetto che mostravano tra loro, li rendevano i preferiti della
folla. Anche il fatto che fossero imbattuti non nuoceva.
Mia era delusa per Bryn e Byern, peggio ancora per il fatto che al
Collegio Remus mancasse ancora il suo terzo alloro. Ma per la verità la sua
mente era altrove. Scoccò un’occhiata in tralice a Cantalame e al pessimo
colorito verdognolo che aveva assunto la pelle della donna sotto i tatuaggi.
«Ti senti meglio?» le chiese.
«C-credo di sì» annuì la donna. «Il p-peggio sembra…»
Cantalame strabuzzò gli occhi e cadde in ginocchio, vomitando ancora
una volta su tutto il pavimento. Sidonius rimase steso dov’era, riuscendo a
malapena a gemere quando il vomito gli schizzò sui sandali. Macellaio
rotolò via dallo schizzo di ritorno, ma anche le sue guance si gonfiarono.
«Almeno svuotati le v-viscere fuori… dalla cella, sorella» gemette.
«Fottiti» lo apostrofò Cantalame, con una lunga striscia di bava e vomito
che le penzolava dalle labbra. «Prima che prenda a s-schiaffi il tuo
orrendo…»
Un altro zampillo di vomito proruppe dalla bocca di Cantalame, stavolta
andando a colpire Alzaonda, che a sua volta scattò in ginocchio e indirizzò
uno schizzo di vomito attraverso le sbarre. La puzza raggiunse Mia in
ondate calde e nauseabonde, così lei si mise in punta di piedi e premette le
labbra tra le sbarre, inspirando a fondo l’aroma di sangue e merda di cavallo
dell’esterno, che a paragone era piacevole.
«Quattro fottute Figlie» imprecò.
«Prega quanto ti pare» giunse un ringhio. «Temo che non stiano
ascoltando.»
Voltandosi, Mia vide l’executus Arkades, in piedi fuori dalle celle con le
mani sui fianchi. Esaminò la paglia intrisa di vomito, i suoi migliori
gladiatii stesi in giro come feriti dopo una guerra. Accanto a lui c’era
Verme, il naso arricciato per la puzza mentre controllava i gladiatii per
terra. Domina Leona rimase indietro, indossando un abito di bellissima seta
scarlatta e con un’espressione decisamente disgustata.
«Benedetto Aa» disse. «Tutti quanti?»
«Tranne Bryn e Byern» replicò Arkades lanciando un’occhiata a Mia. «E
il Corvo. Perfino Furian zampilla da entrambe le estremità. Solo il
Semprevigile sa cosa l’abbia provocato.»
Mia mantenne il volto impassibile e incontrò gli occhi di Arkades con
un’espressione tanto innocente da far vergognare una sorella della
Sorellanza della fiamma. b Ovviamente lei sapeva con esattezza cos’aveva
causato quella scarica di turbolenza intestinale fra i suoi fratelli e sorelle del
collegio. Ashlinn aveva infilato nel loro ultimopasto più Inghippo di quanto
sarebbe piaciuto a Mia: non c’era alcun bisogno che i risultati fossero così
esplosivi, a dire la verità. Ma Ash non era mai stata la migliore studentessa
di Ammazzaragni.
«Avvelenamento da cibo» dichiarò Verme, inginocchiandosi accanto a
una pozza di vomito. Allungando la mano attraverso le sbarre, premette il
palmo contro la fronte madida di sudore di Macellaio. «Non è fatale,
ritengo. Ma vorranno essere morti prima che finisca.»
«M-molto prima di… te, mia c-cara» gemette Alzaonda, trattenendo uno
sbuffo.
«Come mai tu non sei ammalata?» chiese Domina Leona a Mia.
«Non ho mangiato, ieri sera, Dominatii» rispose Mia. «Ero troppo
nervosa per i giochi.»
«’Bisso e sangue» sbraitò Leona. «Dovrei far fustigare quel cuoco. Ci
mancano tre allori al magni, questo è il primo venatus in cui io e mio padre
schieriamo gladiatii l’uno contro l’altro e le mie lame più affilate sono
ammalate come marinai che non sanno stare in equilibrio su una nave?»
Strinse gli occhi per un pensiero improvviso e si voltò verso Arkades. «Non
penserai che sia stato lui a orchestrare tutto questo, vero?»
L’executus si sfregò il mento, pensieroso. «Possibile, anche…»
Sidonius appoggiò la schiena contro il muro quando uno schizzo di
vomito gli eruttò dalle budella, tanto che Verme e Leona fecero un balzo
indietro dal disgusto. La domina tirò fuori un fazzoletto profumato dal
vestito e se lo premette contro la bocca mentre il grosso Itreyano
mugugnava delle scuse quasi indecifrabili e subito dopo si cagava nel
perizoma.
«Non possono combattere in queste condizioni, domina» disse Verme
piano.
«Già» annuì Arkades. «Sarà un massacro. Nessuno di loro riesce a stare
in piedi.»
«Io riesco a stare in piedi» replicò Mia.
I tre la guardarono in silenzio. Leona strinse gli occhi.
«Posso vincere» giurò Mia.
Arkades scosse il capo. «Sposta gli occhi tra quelle sbarre, ragazza.
Qualcosa in questa arena colpisce la tua attenzione?»
Mia scrutò sulle sabbie, esaminando con gli occhi le mura, la folla. I resti
dello scontro tra gli equillai furono raccolti, i bersagli smontati, i segnapunti
rimossi. La folla stava pestando i piedi, impaziente per l’inizio dell’incontro
successivo.
«Vetri rotti» disse Mia, girandosi per guardare l’executus. «E pentole
incendiarie. Sul muro che costeggia il bordo dell’arena.»
«E questo cosa ti dice?»
«Che gli editorii non vogliono che la folla arrivi sulla sabbia, oppure che
non vogliono che qualunque cosa stiano per liberare sulla sabbia raggiunga
la folla» replicò Mia.
«Serraglio» disse Arkades. «È il tema di questo venatus. Animali da tutti
gli angoli della Repubblica, messi a combattere tra loro e contro i gladiatii
per il divertimento della folla.» L’omone incrociò le braccia massicce e il
cipiglio accentuò la cicatrice che aveva in faccia. «Hai idea di cosa
affronteresti là fuori?»
Mia scrollò le spalle, simulando ignoranza.
«Qualunque ’bisso di cosa sia, non può puzzare peggio di qui dentro.»
Guardò Leona con aria decisa. «I vostri equillai hanno appena perso contro
gli uomini di vostro padre, Dominatii. E solo una dei vostri gladiatii può
sollevare una spada. Se avete sete di allori da vincere o qualcosa da
dimostrare, pare che abbiate una sola scelta.»
Gli occhi di Leona si assottigliarono alle parole “qualcosa da
dimostrare”. Ma Mia aveva detto il vero: esisteva un solo modo in cui
Leona avrebbe ottenuto un borsello da vincitore in questo venatus. Un solo
modo per poter recuperare parte dei costi, guadagnarsi un po’ di gloria e
accumulare un altro serto per l’ammissione del suo collegio al magni.
Mia e Ashlinn avevano orchestrato la situazione a quel modo, dopotutto.
Parte di Mia ancora non si fidava della sua compagna di cospirazioni.
Stava ancora attendendo che accadesse l’inevitabile. Ma Ash aveva detto il
vero; Eclissi l’aveva confermato. Aveva avvelenato gli altri gladiatii e
lasciato in piedi Mia, tutto per convincere Leona che lei fosse la sua unica
speranza di ottenere quella vittoria di cui aveva così disperato bisogno.
Tuttavia…
“Tuttavia…”
«Executus» disse Leona, senza che i suoi occhi lasciassero quelli di Mia.
«Riferisci agli editorii che sarà il nostro Corvo a combattere per il Collegio
Remus nell’Ultimae. Non schiereremo nessun altro gladiatii questo
cambio.»
«Mea Domina, Furian era stato programmato per l’Ultimae. Un
cambiamento dell’ultim’ora…»
«Ho pagato per l’ammissione a questo venatus» ringhiò Leona. «Che io
sia dannata se permetterò che la fredda mano del fato mi derubi della mia
vittoria. Se gli editorii hanno problemi con le mie disposizioni, riferisci loro
che possono vedersela personalmente con me. Ma, per il Semprevigile e
tutte e quattro le sue sante Figlie fottute, farai meglio ad avvisarli di portarsi
un paio di palle in più, perché gli strapperò le prime e le indosserò come
orecchini.» Indicò il suo abito con un ampio gesto della mano. «Il rosso
dovrebbe essere un ottimo complemento per il mio vestito.»
Verme sogghignò e Arkades cercò di nascondere il suo sorriso nella
barba.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» mormorò lui.
Inchinandosi con la mano sul cuore, l’executus zoppicò via in cerca degli
editorii, mentre Verme si allontanò per trovare dell’acqua con cui lavar via
tutto quel casino. Leona rimase lì tra la puzza e l’umidità, fissando Mia
attraverso le sbarre con occhi azzurri scintillanti.
«Sto rischiando molto su di te, piccolo Corvo.»
«È un rischio solo se non vinco, Dominatii» replicò Mia. «E, in tutta
sincerità, non avete nulla da perdere.»
«Non ti perdonerò» la ammonì Leona «se mi deluderai.»
Portandosi la mano sul cuore, Mia si piegò in un inchino profondo.
«E confido che non dimenticherete» ribatté «quando non lo farò.»
Gli scontri erano stati brutali, sanguinosi, bellissimi. La folla ne era ebbra: il
vino, il massacro, i ruggiti che riverberavano nella pietra sopra la testa di
Mia. Le guardie stavano già definendo quel venatus il migliore che
Stormwatch avesse mai visto: gli editorii si erano superati di nuovo.
Gli spettatori si erano eccitati quando un gruppo di gladiatii aveva dato
la caccia a un lupo dai denti a sciabola pesante tre tonnellate attraverso un
mare di erba alta fatta crescere a comando dalle sabbie. Avevano urlato di
piacere quando i gladiatii dei collegi di Leonides, Trajan e Phillipi si erano
scontrati su una rete di cavi instabili appesi sopra l’arena mentre un branco
di orsibianchi vaaniani era in attesa lì sotto, pronti a fare a pezzi
sanguinolenti qualunque guerriero fosse caduto. Dei prigionieri di Stato
erano stati legati ai pali e giustiziati da uno stormo di sanguifalchi ashkahi
affamati; gladiatii armati di reti e tridenti avevano affrontato un vero kraken
delle sabbie vivo davanti alla folla in tumulto. c E ora, mentre i venti
dell’illuminotte soffiavano dall’oceano e il cambio si avvicinava alla
conclusione, erano pronti per l’Ultimae.
Nessuno sapeva cosa potesse esserci di più spettacolare del kraken delle
sabbie, anche se tutti quanti avevano la bava alla bocca per quella
prospettiva. Pestarono i piedi a tempo e il ritmo riecheggiò in basso tra le
buche dei mekana sotto le sabbie. E allora, come in risposta, sollevandosi
dalle profondità con un frastuono, giunse un ruggito raggelante.
«Cittadini di Itreya!» arrivò l’annuncio dai corni dell’arena. «Onorevoli
administratii! Senatori e midollani! Ringraziamo il nostro onorato console,
Julius Scaeva, per aver provveduto ai fondi per l’Ultimae a chiusura di
questo straordinario venatus!»
La folla tuonò la sua approvazione e Mia strinse i denti nell’udirli
cantilenare il nome di Scaeva. Scacciò il pensiero del console dalla mente,
concentrandosi solo sul compito che l’attendeva. Nessuno dei combattenti
nelle celle di allestimento attorno a lei aveva il minimo sentore, ma Mia
sapeva con esattezza cosa li aspettava sotto il pavimento. E perfino con il
vantaggio che si era procurata, era consapevole che sarebbe stato comunque
un combattimento in cui avrebbe rischiato la sua stessa vita.
Mia indossò una manica di anelli di maglia sul braccio destro, spallacci e
gambali di ferro per proteggere spalle e stinchi, poi una gonna e un
pettorale di cuoio. L’armatura non sarebbe servita quasi a nulla contro il
nemico che avrebbe affrontato, ma era comunque meglio che combattere a
chiappe nude con un sorriso in faccia. Il suo elmo aveva un pennacchio
rosso, il colore dello stendardo della sua Dominatii. Lo stendardo di Remus.
Quel pensiero la infastidiva, ma di nuovo lo mise da parte. Non c’era posto
per l’orgoglio, qui. Non c’era posto per il dolore. Solo acciaio. E sangue. E
gloria.
Le spade che aveva tra le mani le davano una sensazione familiare: buon
acciaio liisiano, affilate come rasoi. Avrebbe avuto bisogno di quelle e di
tutta la sua forza, se voleva sopravvivere a ciò che l’aspettava.
«Cittadini!» giunse l’urlo. «Ecco i vostri gladiatii! Scelti tra i migliori
collegi della Repubblica, qui per combattere e morire per la gloria dei loro
Dominatii! Dal Collegio Tacitus vi presentiamo Appius, rovina del
Werewood!»
La saracinesca davanti a loro si sollevò con un tremito e un gemito
metallico. Un uomo enorme passò accanto a Mia ed entrò nell’arena,
sollevando lancia e scudo al fragore della folla in fermento. Il suo elmo era
foggiato come una testa di lupo e la soliluce scintillava sulle maniche e sul
pettorale d’acciaio.
«Dal Collegio Livian, Recacenere, il Terrore del Mare Silente!»
Un gladiatii dweymeri si presentò sulle sabbie e sollevò un piccone a due
mani più lungo di quanto Mia fosse alta. Si aggirò per il bordo dell’arena
pestando i piedi e la folla lo imitò a tempo finché il mondo intero non
sembrò fatto di tuono.
E andò avanti così. Ogni collegio veniva annunciato e temibili gladiatii
con titoli altrettanto spaventosi marciavano dentro per prendere il proprio
posto, eccitando la folla con le loro pose teatrali. Mia notò con interesse che
Leonides non schierava un guerriero nell’Ultimae, cosa insolita per un
collegio di quella levatura. Si domandò se avesse qualche sentore della
natura del loro avversario…
Più di due dozzine di guerrieri si trovavano sulle sabbie prima che Mia
udisse l’editorii chiamare: «Dal Collegio Remus…».
«Furian!» giunse un urlo.
«Imbattuuuuto!» arrivò un altro.
«… il Corvo!» ruggì l’editorii.
Mia uscì alla soliluce, sollevando le sue spade gemelle sopra la testa. Fu
accolta da perplessità, applausi sparsi e alcuni fischi da gente che si era
aspettata il campione del Collegio Remus invece di una ragazzetta ossuta
grossa la metà di lui. Nemmeno uno di loro aveva la minima idea di chi lei
fosse.
“Presto.”
Mia strinse i denti, giurandolo in silenzio a se stessa.
“Presto il cielo stesso conoscerà il mio nome.”
In un lussuoso palco al bordo dell’arena, Mia vide il governatore di
Stormwatch, con i maggiorenti della città riuniti attorno alla sua poltrona.
Un editorii era in piedi su un palco separato, abbigliato con la tradizionale
veste rosso sangue ricamata con pugnali dorati. Un gatto grigio fumo era
acciambellato sulla sua spalla, scrutando gli eventi con aria decisamente
annoiata. L’uomo parlò in un grande corno e la sua voce fu amplificata per
il vasto spazio.
«E ora!» urlò. «Gentili amici, controllate i vostri cuori. Bambini,
distogliete lo sguardo! Trascinato dalle profondità delle Frusciaride ashkahi
su ordine del nostro glorioso console, un orrore inquinato dalla corruzione
che mise in ginocchio il vecchio impero. Ecco a voi, cittadini di
Stormwatch, il vostro Ultimae!»
Mia sentì il pavimento tremare e udì i grandi mekana sotto la sabbia
cominciare a muoversi. Affioramenti rocciosi si sollevarono dalla rena
come denti, alti e affilatissimi. Il cuore dell’anfiteatro si divise e la sabbia
cadde nelle profondità mentre si spalancava una fossa. E, come dall’Abisso
stesso, si sollevò un orrore quale Mia non ne aveva mai visti.
«’Bisso e sangue…» disse una voce accanto a lei.
Mia guardò verso il gladiatii dweymeri, l’uomo di nome Recacenere.
Aveva gli occhi sgranati. Il suo grosso piccone gli tremava nelle mani.
Il mostro ruggì, scuotendo la terra stessa. La folla rispose alzandosi in
piedi, esultando e ululando, eccitata. Nemmeno uno tra loro aveva mai visto
nulla di simile, ma tutti avevano udito i racconti. L’incubo dei deserti più
profondi. Più terrificante del kraken delle sabbie. Più spaventoso di cento
pulvispettri. Una parola che infondeva il panico in ogni carovaniere e
commerciante che percorresse la desolazione ashkahi.
«Un rigurgitante…» mormorò Recacenere. d
La bestia ruggì di nuovo, sollevando l’estremità del suo corpo che Mia
supponeva essere la testa. Aveva la pelle bucherellata, crepata e
bruciacchiata come cuoio vecchio. Si muoveva come un bruco osceno,
allungandosi verso la folla urlante. Ma un collare di ferro e spessi pezzi di
catena trattenevano il mostro sul pavimento dell’arena, impedendogli di
arrivare vicino al pubblico. Quando si resero conto di non essere in
pericolo, gli spettatori proruppero in un applauso, esultando e cantilenando.
Con tutti gli occhi sulla bestia, Mia si voltò e avanzò sulla sabbia, altri
trenta passi, fino a trovarsi sotto una statua di Tsana sulla parete interna.
Conficcando le sue spade nel terreno, si inginocchiò e chinò il capo come se
stesse pregando la dea. Ma con la mano destra cominciò a frugare sotto la
sabbia al bordo dell’arena.
All’inizio non percepì nulla. La sua ombra si increspò mentre sentiva
freddo allo stomaco, e il pensiero che Ashlinn potesse averla tradita si
sollevava come un pulvispettro alle sue spalle…
“No.”
Le sue dita tastarono qualcosa di morbido. Cuoio.
“Eccolo.”
Tirò fuori l’oggetto dalla sabbia – un borsello di cuoio pieno di oggetti
sferici – e se lo infilò sotto lo spallaccio.
L’editorii alzò le mani, chiedendo silenzio.
La folla rimase immobile come una gora.
L’uomo prese un respiro che si sentì per tutta l’arena. Il suo gatto si
limitò a sbadigliare.
«Ultimae!» urlò. «Cominciate!»
Dalla folla si levò un boato assordante ed euforico. La bestia incatenata
al cuore dell’arena si contorse come risposta, la testa cieca che ondeggiava
da un lato all’altro mentre lo stomaco le gorgogliava su per la gola,
desiderando disperatamente di consumare la preda che poteva percepire ma
non raggiungere. E, come risposta, emise un altro ruggito così forte da
scuotere il cielo.
E neanche un gladiatii
mosse
un
singolo
muscolo.
«… non riesco a biasimarli, in effetti…» giunse il sussurro all’orecchio
di Mia mentre riprendeva posto accanto ai suoi compagni.
La folla iniziò a diventare irrequieta e molti cominciarono a fischiare i
gladiatii, paralizzati lì, mentre alcuni girarono attorno al rigurgitante che
ringhiava e si dibatteva.
«Uccidetelo!» tuonò qualcuno.
«Combattete, codardi!»
In piedi accanto a Mia, Recacenere si irritò alla parola “codardi”. Si
guardò attorno per gli spalti, fino al suo Dominatii nei palchi dei sanguila.
Poi, alzando il suo piccone, urlò «Con me!» con quanto fiato aveva in corpo
e caricò la bestia con l’arma sollevata. Diversi gladiatii accettarono la sfida
– Mia fra loro – e corsero avanti con urla di battaglia. Attaccarono il verme
da quattro lati, tranciando e infilzando con lancia e spada. Preferendo il
fianco, Mia schizzò fuori dal riparo di una delle zanne di pietra e conficcò
le sue spade fino all’elsa. Recacenere caricò a testa bassa e agitò il suo
piccone, praticando un grosso foro nella pelle della bestia. Allora, con un
rivoltante suono umido simile a un rutto, il rigurgitante si impennò e vomitò
il suo stomaco su tutti gli uomini che aveva davanti.
La carne era di un rosa marcio, quasi liquida, e schizzò sul terreno per
poi protendersi con viticci simili a dita. Appius fu completamente sepolto
sotto quel diluvio di interiora, mentre Recacenere fu avviluppato fino alla
cintola, urlando quando la sua carne cominciò a bruciare nell’acido di cui
erano cosparse le viscere del verme. Lo stomaco continuò a strisciare sul
terreno, quasi come una cosa che avesse volontà propria, allungando
filamenti appiccicosi e catturando i gladiatii lì attorno. E infine, con un
risucchio fragoroso e riecheggiante, la bestia ritirò dentro di sé le proprie
viscere, trascinando una dozzina di uomini urlanti assieme a esse. La folla
lanciò urla di piacere e di disgusto.
Ai fianchi della bestia, Mia conficcò di nuovo la sua lama fino all’elsa,
percependo il mostro tremolare. Il suo sangue era di colore rosso intenso,
quasi nero, e la cosparse fino ai gomiti. Mentre quell’essere colossale
rotolava e sgroppava, mise una mano sotto lo spallaccio, sul sacchetto che
Ashlinn aveva nascosto nella sabbia. Andando a tentoni, afferrò una
manciata e la tirò fuori: tre sfere di vetro rosso acceso nel palmo della sua
mano.
Un regalo di Mercurio prima della loro partenza.
Mutavitrum. e
Liberando la spada con uno strattone, spinse il pugno nella ferita,
seppellendo le sfere nel muscolo della bestia. Il rigurgitante ruggì di dolore
e si rotolò sul fianco per schiacciare Mia. La ragazza si tuffò via, evitando a
malapena di essere schiacciata contro una delle zanne di pietra quando il
verme sferzò la sua coda. Il mutavitrum si attivava grazie alla pressione, di
solito lanciandolo contro il muro o il pavimento, ma Mia sperava che lo
schiacciamento degli stessi muscoli e del peso della bestia sarebbe stato
sufficiente per rompere i legami arkemici che mantenevano il vetro allo
stato solido. Mentre si alzava in piedi barcollando e poi schizzava via, udì
uno schiocco sordo che quasi si perse sotto gli strepiti della folla e i ruggiti
del mostro. Uno zampillo gorgogliante di sangue e carne proruppe dal
fianco del rigurgitante quando il suo mutavitrum esplose.
La folla esultò: non aveva idea di cos’avesse fatto la ragazza, solo che
aveva ferito la bestia. Il rigurgitante ululò, con l’esofago che gli gorgogliava
nella gola e una puzza di sangue, ceneri e acido che si riversava su Mia a
ondate.
«… CREDO CHE TU L’ABBIA FATTO ARRABBIARE …»
«… sei sempre perspicace, caro cagnaccio…»
«… SEI SEMPRE UN SAPUTELLO, MICETTO …»
«… l’adulazione non ti porterà da nessuna parte…»
Il rigurgitante voltò la sua testa cieca verso Mia, poi lanciò un verso
terribile. La ragazza schizzò indietro verso il capannello di altri gladiatii,
cercando copertura tra le rocce e provando ad arrivare oltre la portata della
catena del rigurgitante. Il mostro strisciò dietro di lei, inseguendola e
schiantando la sua massa enorme sul terreno nel tentativo di schiacciarla. Il
suolo tremò e Mia incespicò. Altri gladiatii stavano vibrando colpi e
fendenti alla bestia, ma quella sembrava concentrata sulla ragazza che
l’aveva ferita più degli altri. Per disperazione, Mia si voltò e alzò la mano
mentre scattava all’indietro, cercando di trattenere il mostro con la sua
stessa enorme ombra finché non si trovò oltre la portata della catena.
La reazione fu istantanea. Terrificante. Il colosso si fermò come se ogni
suo muscolo si fosse teso all’improvviso. Con un ruggito agghiacciante,
balzò lungo la sabbia scagliandosi su Mia, la bocca dilatata e la saliva acida
che sibilava mentre si dibatteva contro le sue catene. Poi, con un gemito di
metallo torturato e il suono deciso di acciaio che andava in frantumi, la
catena che legava la bestia al pavimento si spezzò di netto in due.
«… oh merda…»
«… OH MERDA …»
«Oh, merda!»
La bestia si dimenò, troppo colossale perché Mia potesse trattenerla con
la sua magika delle ombre. La ragazza si tuffò di lato quando la coda
descrisse un grosso arco falciante per l’arena, facendo a pezzi la pietra e
riducendo in poltiglia i gladiatii lì attorno. Mia fu scalfita mentre si tuffava
via e andò a sbattere contro un affioramento. Stelle nere le balenarono
davanti agli occhi. Perse la stretta sulle ombre mentre crollava e il
rigurgitante ruggì di una rabbia incandescente.
«Mi…» Mia sbatté forte le palpebre, sputando polvere dalla lingua. «…
Mi ha sentito?»
«… QUANDO HAI CHIAMATO LA TENEBRA …»
«… interessante…»
La bestia ululò di nuovo, furiosa, la pelle che si increspava mentre le
viscere gorgogliavano e si agitavano nella sua gola. Ma adesso che non
c’erano più ombre a distrarlo, rendendosi conto di essere improvvisamente
libero dalle catene, il rigurgitante voltò la testa cieca verso le vibrazione
della folla che gridava e cantilenava. E quando anche il pubblico si rese
conto che la catena del colosso era spezzata, proruppe in urla e schiumò dal
panico.
Mia alzò una mano agli spallacci e si sentì gelare il sangue quando si
rese conto che il sacchetto di mutavitrum non era più lì. Cercò nella sabbia
attorno a lei mentre il rigurgitante strisciava verso il muro dell’arena; i vetri
rotti e le pentole incendiarie che attorniavano la barriera ora sembravano
patetici di fronte alle semplici dimensioni e alla rabbia del mostro. Un
manipolo di mezza dozzina di legionari Luminatii accorse nell’arena, le
spade di solacciaio sguainate, urlando «Per la Repubblica!» e «Luminus
Invicta!» mentre caricavano. Fregandosene all’apparenza di Repubblica,
luce o qualunque altra cosa, la bestia vomitò di nuovo il suo stomaco,
avviluppando l’intero manipolo in un intrico aggrovigliato di rosa marcio e
acido bruciante.
Il dolore faceva bruciare gli occhi di Mia e le urla della folla erano quasi
assordanti. L’arena attorno a lei adesso era una completa baraonda: la gente
correva verso le uscite, mentre altri erano seduti ai loro posti, paralizzati,
gridando di terrore.
Il rigurgitante si impennò e lanciò un urlo, il collare rotto che pendeva
floscio attorno alla sua gola. Venti nuovi legionari con spade e scudi
caricarono da una delle saracinesche di ferro, ma con un’unica spazzata
della sua enorme coda, il mostro li ridusse in poltiglia contro il muro
dell’arena. La sua pelle spessa e coriacea era perforata in una dozzina di
punti da lance e spade, e sangue scuro gocciolava dalle ferite.
«… be’, sta andando alla grande…»
«Sai, è molto facile non fare nulla e criticare» ansimò Mia, rotolando
sulla pancia, ancora rintronata.
«… anche stranamente appagante…»
«… DILLO ALLE PERSONE CHE STANNO PER ESSERE DIVORATE …»
«… e a che scopo, esattamente…?»
Il rigurgitante aveva raggiunto il muro dell’arena e la sua lunghezza di
ottanta piedi ondeggiava come una grottesca larva di falena. Torreggiò
facilmente sopra la barricata alta dieci piedi, la testa priva di fattezze che
dondolava sopra un gruppo di spettatori terrorizzati, l’esofago che
gorgogliava mentre inspirava. Mia, ancora a terra, si trascinò su con il
cranio che le pulsava, corpi di gladiatii morti schizzati e macchiati
tutt’attorno a lei. Cercando tra i cadaveri, trovò una lancia lunga con il
manico ancora intatto. Il suo dannato elmo interferiva soltanto con la vista,
ma non osava toglierlo nell’ipotesi remota che qualche servitore
sconosciuto della Chiesa vedesse la sua faccia. E così, con una preghiera
silenziosa alla Madre Nera, tirò indietro il braccio e scagliò la lancia con
tutta la sua forza.
L’arma si librò in aria in un arco perfetto, la testa d’acciaio scintillante
nella soliluce mentre penetrava la gola del rigurgitante. Il mostro lanciò un
urlo e scosse la testa per rimuovere quello stuzzicadenti tra schizzi di
sangue nero. Protendendosi ancora una volta verso la tenebra addensata
sotto di esso, Mia afferrò l’ombra del mostro.
«Ehi!» gridò. «Bastardo!»
Il rigurgitante sussultò e un profondo gemito rimbombante tremolò per
tutta la sua lunghezza. Dimenticandosi delle persone sugli spalti, la bestia
voltò la testa cieca verso Mia e spezzò l’aria con un ruggito cupo e
assordante.
«… ora hai la sua attenzione…»
«Eccellente.»
Mia raccolse due spade dal terreno insanguinato attorno a lei.
«Ma cosa cazzo ci faccio?»
a. Stormwatch è un porto nel Nordovest di Itreya e una delle città più vecchie della Repubblica. I suoi
inizi furono umili: un semplice faro sulle coste settentrionali della Baia delle Tempeste, usato per
segnalare alle navi le insidiose barriere coralline. Malgrado i migliori sforzi, ci furono così tanti
naufragi che sulla costa lì vicino nacque una comunità di gente che rovistava tra i relitti, e infine
fu eretta una città nota come Stormwall.
Alcuni anni dopo scoppiò uno scandalo: il custode del faro di Stormwall, Flavius Severis, fu
accusato dal suo amico Dannilus Calidius di far virare apposta le navi contro le rocce per
aumentare la propria fortuna. Calidius costruì un secondo faro sull’imboccatura sud della baia e
fondò una seconda città, chiamandola Cloudwatch.
La rivalità tra la Familia Severis e la Familia Calidius e, pertanto, tra Stormwall e Cloudwatch,
divenne leggendaria. Scoppiarono diversi conflitti sanguinosi nel corso degli anni, ed entrambi i
fari furono distrutti. Re Francisco I, il Grande Unificatore, a cui non fregava nulla di “giusto” o
“sbagliato” ma voleva solo che le sue “dannate navi smettessero di infrangersi sulle maledette
rocce”, minacciò di crocifiggere ogni Severis e Calidius che fosse riuscito a trovare per assicurare
che fosse ripristinata la pace.
La soluzione, comunque, non sfociò nella violenza. All’insaputa dei loro genitori, una figlia
della Familia Severis e un figlio della Familia Calidius si incontrarono e, sfidando ogni
buonsenso, caddero follemente nelle spire della lussuria. Anche se la storia ha tutti i canoni di una
classica tragedia itreyana, il racconto si risolse in maniera sorprendentemente pacifica e solo un
miglior amico, un secondo cugino (che non piaceva molto a nessuno, comunque) e un piccolo
terrier chiamato Barone Abbaione furono uccisi nel dramma che ne risultò. I due si sposarono, fu
negoziata una pace e nacquero molti bambini. Nel corso del tempo, la città dal nuovo nome di
Stormwatch divenne uno dei porti più floridi del regno di Francisco.
La città esiste ancora oggi, un testamento duraturo, gentili amici, al potere degli ormoni
adolescenziali e al desiderio dei genitori di avere nipotini adorabili.
b. Una propaggine del clero di Aa, completamente approvata dalla Chiesa, devota all’adorazione
della dea Tsana. Composta esclusivamente da donne, i voti della sorellanza includono Castità,
Umiltà, Povertà, Sobrietà e Generalmente nessun tipo di divertimento.
c. Era lungo solo dodici piedi, ma la bestia uccise comunque sette uomini prima di essere spedita
nella fossa.
d. Anche se il kraken delle sabbie viene comunemente considerato il predatore principale delle
desolazioni ashkahi, in realtà è solo secondo ai veri dominatori delle profondità del deserto. Una
creatura talmente orrenda che sfida ogni credibilità, il rigurgitante fa decisamente del suo meglio
per infrangere l’illusione che esista qualche tipo di benevolenza nel creatore dell’universo.
Arrivando fino a duecento piedi di lunghezza, il rigurgitante è una creatura serpentina senza
occhi o narici distinguibili, con orecchie rudimentali. Gli eruditi al Gran Collegio di Godsgrave
hanno teorizzato che tali bestie percepiscano la preda con la vibrazione o forse tramite una specie
di ecolocalizzazione, simile a varie razze di topi volanti. Comunque, dato che qualunque bastardo
abbastanza sciocco da studiarli di solito finisce dissolto in una pozza di acido solforico
concentrato, questa teoria è rimasta in gran parte indimostrata.
Il rigurgitante ha due bocche corrugate, una a ciascuna estremità del corpo, che fungono anche
da sedere (quale orifizio serva quale scopo in un dato momento sembra completamente arbitrario e
dipendente dall’umore del rigurgitante in questione). Non ha mascelle o denti e non è capace di
afferrare la preda nella bocca. Invece – in quello che è forse il metodo più ributtante per
consumare il nutrimento nell’intero regno animale – il rigurgitante vomita il suo intero stomaco
fuori dalla bocca, avvolgendo la sua preda in un intrico di tentacoli che si contorcono e acido
corrosivo, poi risucchia rumorosamente tutto quanto quel caos, inclusa la sventurata preda.
Capite cosa intendo?
Sul serio, quale genere di bastardo malato può aver concepito una cosa simile?
e. Una delle migliori invenzioni della Shahiid Ammazzaragni. Potreste ricordare che il mutavitrum si
presenta in tre varianti:
Quello nero crea fumo, utile come diversivo.
Quello bianco crea una nube della tossina nota come Deliquio, utile per far perdere i sensi alle
persone.
Quello rosso esplode semplicemente, utile per uccidere la gente.
Tre colori, tre sapori. Tutto piuttosto semplice, anche se rimarreste sorpresi dalla frequenza con
cui una Lama novizia ha messo la mano nel sacchetto sbagliato e ha afferrato il colore sbagliato
nella foga del momento. Può essere un po’ imbarazzante quando ti rendi conto che il mutavitrum
nero che hai gettato ai tuoi piedi per creare un diversivo in realtà è bianco e per sbaglio ti sei steso
da solo… anche se è ancora peggio scagliare a terra una manciata di vetro rosso e accorgerti che ti
sei accidentalmente fatto esplodere le gambe.
Comunque tende a essere il tipo di errore che le Lame commettono solo una volta.
CAPITOLO 18
GLORIA
Nonostante tutti i suoi tentativi, Mia non riusciva a tenere ferma la bestia.
Come un gigante che scostava un neonato inerme, il rigurgitante si liberò
dalle ombre di Mia, poi fece oscillare la sua enorme massa via dalla folla e
strisciò verso di lei. La sua bocca si spalancò e un ruggito tremante si levò
dal buio del suo ventre. Le spade gemelle di acciaio liisiano nelle mani di
Mia erano come coltelli da burro, e la sua ombra si increspava mentre i suoi
passeggeri si abbeveravano della sua paura.
Lasciandola fredda.
Dura.
Impavida.
Pensò rapidamente. Spostò gli occhi sulle pareti dell’arena, le rocce
spezzate, la sabbia insanguinata, il mostro che si avvicinava minaccioso
verso di lei. E infine lo vide, semisepolto tra un cumulo di pietra spezzata e
terra fra lei e quella mostruosità in carica.
Il suo borsello di mutavitrum.
Prese forma un pensiero folle, suicida. Ma senza paura, nessuna
eccitazione e alcun attimo da sprecare, la ragazza sollevò le spade. Con il
sudore negli occhi, i capelli appiccicati alla pelle polverosa e le labbra
arricciate all’indietro, Mia caricò con un urlo agghiacciante, dritta verso il
rigurgitante infuriato.
La folla in preda al panico rimase immobile dallo stupore, osservando il
puntino di quella ragazza correre a capofitto contro l’orrore del deserto
profondo. La bestia impennò all’indietro la sua massa colossale e un rutto
orrendo proruppe dalla sua gola. Mia scattò tra un miscuglio di corpi
spezzati, pietra in frantumi, armi rotte, tutto sparpagliato sulla sabbia, e
balzò con attenzione sopra il suo sacchetto di cuoio con il ’vitrum,
semisepolto tra la polvere. E il rigurgitante aprì le fauci, sputando le sue
interiora per tutto il pavimento.
Avviluppandola completamente.
Nei cambi a venire, i momenti successivi sarebbero stati l’argomento di
innumerevoli racconti da taverna, dibattiti durante la cena e risse da osteria
per tutta la città di Stormwatch.
C’erano quelli che giuravano di aver visto la ragazza tuffarsi di lato,
semplicemente troppo rapida per essere colpita, evitando del tutto lo
spruzzo delle interiora della bestia. C’erano quelli che affermavano che tra
tutta la polvere, il sangue e il caos, era effettivamente troppo difficile capire
cosa fosse accaduto, tranne che lei si era mossa velocissima. E poi c’erano
quelli – presi per pazzi o ubriachi, per la maggior parte – che giuravano sul
Semprevigile e tutte e quattro le sue Sante Figlie che questo fuscello di
ragazza, questo demone avvolto di cuoio e maglia, era semplicemente
scomparsa. Un momento era sepolta nelle viscere del rigurgitante, quello
dopo stava a dieci piedi di distanza nella lunga ombra che il mostro
proiettava sulla sabbia.
Mia barcollò e ci mancò poco che non finisse in ginocchio per le
vertigini improvvise. Solo l’adrenalina e una pervicace forza di volontà la
tennero in piedi, mentre correva ondeggiando con il petto che le bruciava e
la testa che girava. La bestia ingurgitò di nuovo le proprie viscere,
ingerendo quel miscuglio di cadaveri di gladiatii e armi cadute assieme al
borsello di cuoio pieno di scintillanti globi di mutavitrum. Mia si arrampicò
su per una sporgenza di pietra spezzata e si lanciò sulla schiena della
creatura, conficcandole le spade nella carne per rimanere attaccata. Il
colosso si dibatté sotto di lei mentre la ragazza si rimetteva in piedi a
tentoni, poi procedeva barcollando su per la lunghezza della creatura, fino
alla testa gettata all’indietro. La folla urlava, il rigurgitante ruggiva, le sue
stesse pulsazioni martellavano e sotto tutto quanto, in mezzo a quella
cacofonia, a quel caos assordante, le parve di udire qualcosa, in profondità
nel ventre del mostro.
Una serie di minuscoli schiocchi mollicci.
Il rigurgitante si fermò e un tremito gli percorse il corpo. Mia si precipitò
sul suo collo, gettando via una delle sue lame e aggrappandosi a una lancia
spezzata conficcata nella pelle coriacea. Mantenendosi aggrappata alla
bestia con le cosce, le unghie e pura ostinazione, tirò indietro il suo acciaio
liisiano e, con un urlo, lo conficcò nella carne dietro il piccolo orecchio del
mostro.
La creatura urlò, con una bolla di sangue che gli gorgogliava fuori
dall’esofago prorompendo dalla bocca. La folla non ebbe alcun sentore del
’vitrum che aveva inghiottito; nessun indizio dell’esplosione che aveva
trasformato in una zuppa sanguinolenta una parte rilevante delle interiora
del rigurgitante. Tutto quello che gli spettatori sapevano, mentre assistevano
stupefatti con le bocche aperte dalla meraviglia, era che la ragazza aveva
conficcato la sua lama, la bestia aveva ondeggiato avanti e indietro come un
ubriaco alla latrina per poi, con un sospiro gorgogliante, crollare morta e
immobile a terra.
Il tonfo riecheggiò per tutta l’arena, e una nube di polvere si sollevò
quando la creatura impattò. Ma mentre i venti dell’illuminotte soffiavano
sugli spalti e per la sabbia inzuppata di sangue, la coltre si diradò rivelando
un’unica figura, in piedi da sola sulla testa della bestia morta.
Ansimante e sanguinante, Mia si chinò e strappò via la sua lama. Poi,
voltandosi verso gli spettatori esterrefatti, la sollevò lentamente al cielo.
Il silenzio risuonò per le sabbie. Vuoto e immobile. Nessuno nella folla
riusciva a credere ai propri occhi, tanto meno parlare. Finché, finalmente,
un bambino tra le braccia di sua madre indicò la ragazza imbrattata di
sangue nel cuore dell’arena, sgranando gli occhi bruni.
«Corvo!» giunse il suo urletto.
Un uomo lì accanto guardò il bambino, poi gridò a quelli attorno a lui.
«Corvo!»
La parola iniziò a ripetersi come un’eco quando sempre più persone
risposero al richiamo. Decine, poi centinaia, poi migliaia, tutte che
cantilenavano a tempo come un voto, una preghiera. «Corvo! Corvo!
Corvo!» mentre Mia zoppicava lungo l’intera carcassa del rigurgitante, la
spada tenuta in alto, con il pubblico che pestava i piedi a ritmo del suo
canto, ora sempre più veloce: la parola e il boato dei loro piedi si fusero in
un interminabile «CorvoCorvoCorvoCorvoCorvo!»
Mia ruggì con loro, entusiasmo e orgoglio violento che montavano nel
suo petto.
«Qual è il mio nome?» urlò.
«CorvoCorvoCorvoCorvoCorvo!»
«QUAL È IL MIO NOME?»
«CORVOCORVOCORVOCORVOCORVO!»
Mia chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dal suono, permettendo che
le penetrasse nella pelle.
Sangue e Gloria.
Si voltò verso i palchi dei sanguila e vide Domina Leona in piedi,
esultante. Guardò in direzione delle celle dei gladiatii e notò Sidonius,
Cantalame e Macellaio alle sbarre, che urlavano il suo nome e picchiavano
contro il ferro. Infine, alzò gli occhi sulla folla, su quel mare di facce
sorridenti, e vide una ragazza. Lunghi capelli rossi. Occhi azzurri come i
cieli tersi. E con un sorriso raggiante quanto i soli sopra di loro, Ashlinn
sollevò una mano con le dita allargate.
E soffiò un bacio a Mia.
Il Collegio Remus cenò come midollani, quella sera. Un lungo tavolo nelle
celle sotto l’arena fu ricoperto di cibo e vino; i fratelli e le sorelle di Mia
brindarono alla sua vittoria come antichi nobiluomini. Furian sedeva a
capotavola come un re, il suo posto in qualità di campione. Ma se questo
era un regno, adesso aveva una regina. Seduta all’altro capo del tavolo, con
un alloro d’argento da vincitore a incoronarle i lunghi capelli scuri, Mia
Corvere sollevò il suo vino e sorrise come una pazza.
I gladiatii si erano ristabiliti a sufficienza dal loro avvelenamento ed
erano rinfrancati dall’adrenalina per la vittoria di Mia. Bevvero molto e
mangiarono molto poco, raccontando la battaglia più e più volte. Sidonius
strepitò così forte che sembrava fosse stato lui stesso a sconfiggere la bestia,
avvolgendo il suo braccio forzuto attorno al collo di Mia e affermando che
era il più grande trionfo che avesse mai visto sulle sabbie.
«Questa magnifica puttanella!» ruggì.
«Togliti di dosso, grosso bove» sorrise Mia, spingendolo via.
«Non ho mai visto nulla di simile!» tuonò Sid. «E tu, Canta?»
«Nah» sorrise la donna, alzando la sua coppa. «Mai così.»
«Alzaonda?»
«Una vittoria degna di Pithia e Prospero!» dichiarò l’omone. a
«E tu, Macellaio? E tu, Otho?»
«No» replicarono. «Mai.»
«Al Corvo!» ruggì Sid, e tutta la stanza sollevò le coppe in risposta.
Solo Furian rimase in silenzio, centellinando il suo vino come se fosse
avvelenato. b I suoi occhi non lasciarono mai quelli di Mia, colmi di accusa
e furia fredda. Per quanto fosse stato male, lei sapeva che doveva averla
guardata combattere e probabilmente l’aveva percepita chiamare la tenebra.
Tuttavia, non si poteva negare che la sua vittoria fosse stata gloriosa, e per
quanto la vista di quell’alloro argentato sulla sua fronte gli bruciasse,
l’Imbattuto tenne saggiamente a bada la sua ira.
Ogni tanto Mia guardava all’altro capo del banchetto con occhi neri
come l’inchiostro, perforando quelli del campione mentre la nausea e la
fame che percepiva ogni volta che si trovava vicino a lui le crescevano nella
pancia. Dando un’occhiata al posto di Furian a capotavola, fece una
promessa in silenzio.
“Presto.”
«Attenti!»
I gladiatii tacquero e si alzarono in piedi quando l’executus Arkades
marciò nella stanza, assieme alla magistrae. Domina Leona camminava
dietro di loro, raggiante.
«Dominatii!» urlarono i gladiatii.
«Fermi, miei Falconi» disse alzando le mani e invitandoli a riprendere
posto. «Non vi sottrarrò ai vostri festeggiamenti. Le strade risuonano del
nome del Collegio Remus, e vi siete guadagnati la gioia di questo momento,
tutti quanti.»
La domina sorrise mentre loro sollevavano le coppe e brindavano alla
sua salute. Si era presa del tempo per cambiarsi, e indossava un abito a
spalle scoperte e un bustino abbinato di bellissimo velluto riccio, della
stessa tonalità rosso ruggine dei suoi capelli. Mia si domandò con esattezza
quanti pezzi d’argento ci avesse speso quella donna. Quanto le stava
costando questo dannato banchetto celebrativo e dove ’bisso avesse preso i
soldi. Per una persona così a corto di denaro che era stata disposta a vendere
Mia a una casa di piacere solo un cambio fa…
Mia lanciò un’occhiata ad Arkades e vide l’executus fissare il cibo e il
vino con la stessa preoccupazione. Mia guardò i gioielli attorno alla gola
della domina, l’oro ai suoi polsi, e quella consapevolezza attecchì ancora di
più.
“Non ci sa fare con i soldi. È stata allevata ricca, perciò non ha mai
imparato il vero valore di una moneta o capito davvero la vita che ti aspetta
quando rimani senza. Tutto quello che le importa è il modo in cui appare
agli altri.
“A suo padre.”
Mia squadrò Leona dall’alto in basso, sospirando dentro di sé.
“Forse sarei cresciuta anch’io così, se i miei genitori non fossero stati
uccisi?”
Mia vide Furian guardare la sua Dominatii con la coda dell’occhio, forse
cercando qualche cenno di riconoscimento. Ma l’alta e orgogliosa Leona,
fedele al suo stratagemma e, oh, così per bene, non lo degnò nemmeno di
un’occhiata.
«Mio Corvo» disse la domina, sorridendo a Mia. «Una parola.»
«Dominatii.»
Mia si incamminò dietro Leona fuori dalla stanza, consapevole dello
sguardo ardente di Furian alle sue spalle. Arkades e la magistrae li
seguirono e la donna più anziana chiuse la porta mentre Sidonius
ricominciava a raccontare la battaglia, usando una caraffa di vino e uno
stuzzicadenti come oggetti scenici.
«Stai bene?» chiese Leona.
«Piuttosto bene» rispose Mia. «Vi ringrazio, Dominatii.»
«Sono io quella che dovrebbe ringraziare te» disse Leona con occhi che
danzavano di felicità. «Il nostro collegio è sulla bocca di chiunque
nell’intera città. Il governatore di Stormwatch, Quintus Messala in persona,
ha dichiarato che questa è stata la migliore contesa che la Repubblica abbia
mai visto, e tu…» Leona strinse le spalle di Mia «tu, mia sanguinosa
bellezza, ne sei il cuore.»
«Io vivo per onorarvi, Dominatii» disse Mia.
Arkades strinse gli occhi a quelle parole, ma Leona pareva quasi in
estasi.
«Il governatore Messala tiene un tradizionale banchetto l’illuminotte
dopo il venatus» disse la domina. «Ogni midollano e administratii si reca al
suo palazzo, e lui invita ogni sanguila che schiera gladiatii nei giochi,
assieme al proprio campione.» Gli occhi di Leona scintillarono di
impetuoso piacere. «Ma mi ha mandato personalmente una missiva,
chiedendo che oltre a Furian, io porti te, affinché tutti possano posare gli
occhi sul Salvatore di Stormwatch.»
«… Il Salvatore di Stormwatch?» mormorò Mia.
«Suona bene, eh?» ridacchiò Leona. «I menestrelli stanno già cantando
la tua vittoria nelle taverne della città. Sarai l’orgoglio della festa, il gioiello
nella mia corona. E ci copriranno di soldi: i maggiorenti della città
getteranno offerte di patrocinio ai miei piedi. Gli occhi di ogni sanguila
saranno su di te, bruciando di gelosia.»
Ogni sanguila…
«Messala ha sempre preferito i combattenti del collegio di mio padre»
disse Leona. «Per anni ha ricoperto di encomi i Leoni di Leonides. Quanto
brucerà a mio padre vedermi al posto d’onore alla destra di Messala.»
La domina si premette le dita sulle labbra, coprendo il suo ghigno folle.
«Immagina l’espressione sulla faccia di quel vecchio bastardo.»
«Mea Domina» la ammonì la magistrae, lanciando un’occhiata a Mia.
«Non dovreste parlare così…»
«Hmmm… sì.» Leona si ricompose, annuendo e lisciando le pieghe del
suo vestito. «Ma ti sto trattenendo dai festeggiamenti, mio Corvo. Vai e
celebra la tua vittoria. Ma non troppo vino, eh? Voglio che tu sia nella tua
forma migliore per il banchetto di domani.»
“Come l’animaletto preferito” si rese conto Mia. “Come un cane ai piedi
della sua padrona. Che può essere venduto in un istante se non abbaia a
comando.
“Siediti.
“Rotola.
“Fai il morto.
“Muori.”
Mia strinse forte le labbra. Pensò a suo padre che dondolava in fondo
alla sua corda. A sua madre mentre moriva dissanguata tra le sue braccia.
Al suo fratellino che muoveva i primi passi in una fossa senza luce e moriva
lì al buio.
Pensò a Duomo.
Pensò a Scaeva.
“Occhi sul premio, Corvere.”
E guardando Leona, lei si inchinò, la mano sul cuore.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» disse. «Dominatii.»
Passò
nell’ombra
delle tende
a. “La Tragedia di Pithia e Prospero” è una saga vergata dal famoso bardo Talia. Sebbene messa
all’indice dal Clero di Aa, resta una delle opere più antiche e celebri nella storia, precedente di
alcuni secoli al Regno di Itreya. L’opera si basa su un mito antico ed è ambientata all’epoca in cui
la Madre della Notte non era stata ancora esiliata dal cielo itreyano.
Segue le avventure di due amanti: Pithia, capitano della guardia, e Prospero, figlio del Re
Stregone, che vengono separati dal padre di Prospero quando apprende della loro relazione. Pithia
viene bandito agli angoli remoti della terra e, nella loro ricerca per tornare assieme, i due
sconfiggono eserciti, nazioni e infine il Re Stregone in persona per essere di nuovo uniti.
Purtroppo, quando un racconto ha la parola “tragedia” nel titolo, probabilmente è follia
aspettarsi un lieto fine: Pithia viene avvelenato nel confronto finale. Mentre muore tra le braccia
del suo amante, declama un discorso commovente sul potere immortale di speranza, fedeltà e
amore, considerato da molti come il miglior monologo mai scritto su cartapecora. Prospero, erede
della magika di suo padre, colloca il corpo del suo amante nei cieli come una costellazione e la
nomina come lui in suo onore.
Non c’è mai un occhio asciutto nel dannato teatro, gentili amici.
Nonostante la messa all’indice del Clero e la distruzione di molte copie nel rogo di libri della
Luce radiosa il 27PR, il monologo di Pithia viene ancora citato ai giorni d’oggi. Si vocifera che
alcune versioni complete dell’opera esistano in segreto, trascritte a memoria dagli attori che la
rappresentavano o celate ai puritani della Chiesa di Aa. Le copie sono rare, però, e sono diventate
quasi un mito tra i gruppi di teatro itreyani. Qualunque attore affermi di averne letta una è molto
probabilmente un coglione bugiardo.
Anche se, ora che ci penso, molti degli attori che ho incontrato sono comunque coglioni
bugiardi…
b. In effetti, l’ultimo vino che aveva bevuto lo era stato.
CAPITOLO 19
RESA
a. Gli incontri nel calendario che porta al Venatus Magni sono spesso combattuti ex mortium, o fino
alla morte. Poco altro soddisfa gli appetiti della folla, e comunque non è che si possa convincere
un kraken delle sabbie a saltare il suo pasto. Ma molti scontri tra gladiatii si combattono ex
navium, ovvero fino alla resa.
Anche se viene utilizzato comunque vero acciaio, un gladiatii ferito può appellarsi all’editorii
per far terminare l’incontro in qualunque momento sollevando un palmo in segno di supplica, e
non vengono inflitti colpi mortali a un nemico caduto al termine dello scontro. Ci sono comunque
ferite in abbondanza, ma i decessi accidentali sono rari negli scontri ex navium. Così i sanguila
possono saggiare la tempra delle stalle degli avversari e accrescere la reputazione dei loro collegi
evitando la seccatura e la spesa di perdere un combattente ogni volta che perdono uno scontro.
Nei tempi passati, astuti sanguila utilizzavano vesciche di sangue di pollo e lame finte per dare
l’impressione che i guerrieri fossero rimasti uccisi, perfino in incontri ufficiali del venatus. Ma un
sotterfugio del genere può durare solo fino a un certo punto: le folle avevano la tendenza a notare
quando i loro beniamini trucidati tornavano dalla tomba. Tali espedienti dozzinali furono banditi
dagli editorii nel 34PR e relegati ai mimi e ai teatri a cui appartengono. Se in questi cambi
qualcuno assiste a uno scontro mortale nel venatus, gentili amici, di una cosa potete star certi: i
morti restano dannatamente morti.
b. Nativi delle Montagne Spinadraco al confine con Vaan e Itreya, malgrado il loro nome piuttosto
grazioso gli aracnoidi serici sono una specie nota per essere… alquanto scontrosa. Il Dominio di
seta si estende per migliaia di miglia di rupi inospitali e la sua conquista da parte delle legioni
itreyane si rivelò straordinariamente costosa: fu solo dopo che venne schierato sul campo ogni
guerriero ambulante del Collegio di Ferro che la Regina della Covata dei serici fu costretta ad
arrendersi.
Anche se i serici hanno apparentemente giurato lealtà alla Repubblica itreyana, il loro seggio
nella Casa del Senato è rimasto vuoto da quando fu spiegato loro che solo i maschi possono
detenere il titolo di senatore itreyano (i serici maschi sono più piccoli delle loro controparti, e privi
di veleno). Gli stessi membri del senato sono lieti di lasciare in pace i serici, e la minaccia di
assegnare un ambasciatore itreyano presso il Dominio viene spesso usata come un bastone per
tenere in riga i membri più giovani e indisciplinati. Come regola generale, i serici non hanno nulla
a che spartire con la Repubblica o con la sua cittadinanza, se possono evitarlo.
Le femmine dei serici segnano le proprie guance con un sacrificio rituale per ogni covata che
hanno schiuso. Uccidono i loro compagni dopo il coito con allarmante regolarità. E se avete la
tentazione di chiedere come può la loro specie prosperare in tali circostanze, posso solo
assicurarvi che sì, le femmine possiedono la vagina e sì, i maschi hanno il pene.
Il resto dovrebbe spiegarsi da sé.
CAPITOLO 20
TRE
«No!»
La lama d’addestramento andò a sbattere contro il fianco di Mia,
facendola finire in ginocchio. Cantalame affondò con un urlo feroce, ma
Arkades stava già ruotando via, calando la sua seconda lama
sull’avambraccio della donna. Lei barcollò all’indietro contro Furian e una
risposta da parte di Arkades mandò entrambi lunghi distesi a terra.
I tre ansimavano nella polvere, zuppi di sudore fino alle ossa.
«Sentite, ma non ascoltate!» tuonò l’executus, zoppicando avanti e
indietro in mezzo a loro. «L’Esule è diversa da qualunque avversario
abbiate mai affrontato. Sei lame brandite con un unico scopo. Otto occhi
che seguono ogni vostro movimento. Io ne ho solo un paio di ciascuno e voi
non riuscite a sconfiggermi. Nel nome delle Quattro fottute Figlie, come
sperate di uscire vincitori contro di lei?»
Era tutto il cambio che si esercitavano, fin da quando erano tornati a
Crow’s Nest. Gli altri gladiatii si addestravano attorno a loro, ma in verità
tutti gli occhi erano puntati sui quattro all’interno del cerchio, osservando
Arkades sbaragliare i suoi avversari su e giù per la sabbia. I due soli erano
sospesi nel cielo in tutto il loro splendore, ardendo nel calore di caldestate,
oro bruciante e rosso sangue. E se uno guardava abbastanza attentamente,
poteva cogliere un accenno di blu più brillante all’orizzonte, che
annunciava il lento arrivo del terzo occhio di Aa.
La veraluce si stava avvicinando, e con essa il magni. E i Falconi del
Collegio Remus erano un po’ più vicini a quelle sabbie di quanto lo fossero
stati tre mesi fa.
«Alzatevi» sbraitò Arkades. «Voglio più determinazione, e colpite
coordinati.»
«Un compito difficile,» ringhiò Cantalame «quando due di noi attaccano
in contrasto tra loro.»
Mia si asciugò il sudore dalla fronte e guardò torvo Furian dall’altro lato.
L’Imbattuto la fissò a sua volta, gli occhi neri che scintillavano come
ossidiana. Si trascinò in piedi e offrì la mano a Cantalame, aiutandola ad
alzarsi dalla polvere. Ignorando completamente Mia, raccolse spada e scudo
e si mise in posa da combattimento.
Mia si alzò, le lame da addestramento in mano.
«Attaccate!» tuonò l’executus.
Senza aspettare gli altri, Furian lanciò il suo assalto su Arkades,
percuotendolo per farlo indietreggiare sulle sabbie. Durante le esercitazioni,
l’executus aveva sempre mantenuto terreno, insegnando a quelli che si
allenavano con lui le loro debolezze senza punirli. Ma nel corso degli ultimi
cambi, Mia iniziò a capire quanto l’ex campione si fosse trattenuto. Arkades
era un dio sulla sabbia: perfino senza una gamba, si muoveva come acqua,
colpiva come tuono e rimaneva saldo come una montagna. I suoi colpi
lasciavano l’aria contusa dietro di essi, la sua guardia non conosceva difetti
e puniva ogni errore con un colpo che andava vicino a spaccare le ossa.
Respingendo l’attacco di Furian, Arkades fece finire il campione con il
sedere a terra e si voltò verso Cantalame e Mia. Le due si muovevano bene
assieme, con Mia che ondeggiava sotto i colpi della donna più alta e mirava
alla pancia e alle gambe di Arkades. Mise a segno un colpo di striscio al suo
stomaco, ma mentre ruotava per evitare la risposta del Leone Rosso, andò a
sbattere contro Furian in piena carica, che si era rialzato in piedi e si era
gettato di nuovo nella mischia.
«Guarda dove caz…»
Una lama di legno impattò contro la tempia di Mia, sbalzandola da terra.
Arkades disarmò Cantalame e si inserì nella guardia di Furian, facendolo
cadere con una gomitata alla mascella. Rotolando sulla sabbia per
raccogliere le sue armi e con le salciocche che si agitavano, Cantalame
imprecò mentre Arkades scagliava entrambe le sue armi e la colpiva alla
gola e sopra il cuore.
Rimase lì a mani vuote, con il petto ansante mentre guardava torvo il
terzetto sconfitto.
«Pietosi» sbraitò.
«Quella stupida cagna si è messa in mezzo» ringhiò Furian.
«Oh, Furian» sospirò Mia, scoccandogli un’occhiata raggelante. «Se ho
imparato qualcosa nella vita, è fregarmene quando un cane mi definisce una
cagna.»
«E io sarei un cane?» Furian si alzò dalla polvere e Mia si rimise in piedi
altrettanto rapidamente.
«Ora basta!» tuonò Arkades.
I due rimasero immobili, fissandosi negli occhi e pronti a colpire. Mia
riusciva a percepire la propria ombra premere alle estremità, come acqua
dietro una diga. Se non l’avesse tenuta a bada, sapeva che senza dubbio si
sarebbe allungata sulla sabbia verso quella di Furian, le mani distorte in
artigli. Digrignò i denti e si sforzò di mantenere la calma, sbattendo le
palpebre per togliersi il sudore dagli occhi. Se avesse perso il controllo qui,
se qualcuno avesse scoperto ciò che era…
«Basta con i duelli simulati per questo cambio» dichiarò l’executus.
«Corvo, Cantalame, andate a esercitarvi con i fantocci. Dovete colpire più
forte se volete rompere la guardia della serica. Furian, tu esercitati sui
movimenti. Ti servirà sapere dove mettere i piedi per sconfiggere questo
nemico.»
Mia e Furian si guardarono torvo, senza muovere un muscolo.
«Andate!» ruggì Arkades.
Cantalame raccolse le sue spade cadute e attraversò il cortile, poi
cominciò a percuotere con foga i fantocci da addestramento. Mia la seguì
più lentamente, gli occhi stretti ancora puntati su Furian, sentendo un odio
freddo bruciare assieme alla nausea e alla fame che avvertiva nello stomaco
ogni volta che lui era vicino.
“Fottuto idiota testardo…”
Prendendo posizione accanto a Cantalame, Mia immaginò la testa di
Furian in cima al fantoccio e cominciò a colpirlo senza alcuna pietà. Il
sudore le inzuppava la pelle e le ciocche le pendevano davanti agli occhi
mentre sbatteva la lama contro addome, petto e faccia di quel mangiamerda.
«Mi farete ammazzare» borbottò Cantalame, scuotendo il capo.
«È Furian che semina zizzania, non io.»
«Siete entrambi» replicò la donna. «Non so perché non troviate un
bell’angolo buio dove scopare e farla finita.»
Mia la sbeffeggiò. «Preferirei che Macellaio infilasse il suo uccello
dentro di me.»
«Allora cosa c’è fra voi?» Cantalame fece una pausa per raccogliere le
sue lunghissime salciocche. «Le vostre lingue sputano veleno ma i vostri
occhi non si allontanano mai troppo gli uni dagli altri.»
Mia sapeva che la donna diceva il vero. Lei avrebbe vinto contro quella
serica se non fosse stato per l’interferenza di Furian. Invece aveva subito
una sconfitta pubblica, e Leona aveva perso ogni possibilità di patrocinio
tra i midollani di Stormwatch. Eppure…
Non poteva negarlo. Malgrado l’intrico dei suoi sentimenti per Ashlinn,
lei era attratta da Furian. E anche se l’Imbattuto era sicuramente
affascinante, si trattava di qualcosa che andava oltre il desiderio. Qualcosa
di profondo. La stessa sensazione che aveva provato quando lord Cassius
era nei paraggi. Qualcosa che andava oltre la lussuria ed era più simile a…
bramare. Come un mutilato per l’arto mancante. Come un rompicapo che
cercava un suo stesso pezzo.
“Ma perché?”
Cleo ne aveva parlato nel suo diario. Aveva viaggiato in lungo e in largo,
attirata verso gli altri tenebris come un ragno da una mosca, e poi…
… poi li mangiava.
Ma cosa ’bisso voleva dire?
“I molti erano uno. E lo saranno ancora; una sotto i tre, per elevare le
quattro, liberare la prima, accecare il secondo e il terzo.
“O madre, madre nera, cosa sono diventata?”
Mia scosse il capo e sputò nella polvere.
«Non ho un fottuto indizio» disse.
«Be’, farai meglio a pensarci su e a escogitare una soluzione» la ammonì
Cantalame. «Perché se ci presentiamo a una contesa in cui c’è in ballo la
vita come siamo ora, tutti e tre saremo seduti presso il Focolare prima della
veraluce, piccolo Corvo.»
La donna cominciò a percuotere di nuovo il fantoccio impagliato, gli
occhi stretti. Mia fissò Furian dall’altra parte del cortile, la pancia
aggrovigliata in nodi carichi d’odio.
«Non c’è modo di ragionare con lui. Ci ho già provato. È uno sciocco
ignorante.»
Crac! fece la spada di Cantalame contro il suo bersaglio.
«Furian è molte cose» grugnì lei. «Testardo, forse. Arrogante,
decisamente. Ma non uno sciocco.»
«Cazzate.» Mia colpì il collo del suo uomo di legno. «Hai mai provato a
parlargli?»
«Oh, sì» annuì Cantalame. «È come sbattere la testa contro un muro di
pietra. Onore.» Crac! «Disciplina.» Crac! «Fede. Questi sono i principi che
lo definiscono. Ma soprattutto, l’Imbattuto è un campione e tu sei una
minaccia per quello.» La donna scrollò le spalle. «Il più grande divario tra
le persone è sempre l’orgoglio, piccolo Corvo.»
Mia sospirò e lanciò un’occhiata a Furian.
«Queste parole assomigliano sospettosamente a saggezza.»
Crac! fece la spada di Cantalame contro il suo bersaglio.
«Non sono mie» grugnì. «Vengono dal Libro dei Ciechi.»
Mia infilzò il petto del suo fantoccio. «Non è quella vecchia scrittura
liisiana?»
«Già» annuì Cantalame. «La conosco a memoria. Dovevamo leggere
testi sacri da tutta la Repubblica.» Crac! Crac! «La suffi di Farrow voleva
che avessimo una prospettiva globale prima di essere iniziati all’ordine.
Conosci il mondo, conosci te stesso.»
Mia inclinò il capo e guardò di sottecchi la sua compagna. Ora aveva
senso. I tatuaggi su tutto il corpo. Il canto che ogni tanto sentiva da sotto la
porta di Cantalame.
«… Eri una sacerdotessa?»
«Solo una novizia.» Crac! «Non ho mai preso i voti finali.»
«Allora cosa ’bisso…» Crac! Crac! «… ci fai qui?»
Cantalame fece spallucce. «Un’incursione di pirati. Una rapida vendita.
Una storia comune.»
Mia scosse il capo, nauseata. «Troppo comune, cazzo.»
«La suffi l’ha nominata così…» Crac! «… quando sono nata.»
Mia si piegò in due, le mani sulle ginocchia mentre ansimava.
“Madre Nera, questo calore…”
«Nominata così?»
Cantalame smise di picchiare l’uomo di legno e si asciugò il sudore dalla
fronte. «Sai come i Dweymeri ottengono il loro nome, piccolo Corvo?»
Mia annuì, ricordando quello che le aveva raccontato Tric nella
Montagna Silente.
«Venite portati a Farrow da piccoli» rispose. «Al tempio di Trelene. La
suffi vi tiene sopra l’oceano e chiede alla Madre quale sentiero vi aspetta, e
vi dà un nome corrispondente.»
«Cantalame, mi ha chiamato» disse la donna. «Non Cantainni. Non
Cantapreghiere. Cantalame. E che io sia dannata» disse lei, puntando la
spada da addestramento verso la faccia di Mia «se l’ultima volta che le mie
lame canteranno sarà perché tu e Furian non riuscite a mettervi d’accordo
sul colore della merda. Fottilo. Accoltellalo. Accoltellalo mentre lo fotti,
non me ne frega niente. Ma risolvi la situazione prima di farci uccidere
tutti.»
Mia spostò lo sguardo verso Furian, che si stava esercitando sulla
velocità in un angolo del cortile. Mentre Mia lo fissava, lui alzò gli occhi,
incontrando i suoi con quell’ardente sguardo nero.
“Il più grande divario tra le persone è sempre l’orgoglio.”
«Voi due!» tuonò Arkades. «Tornate al lavoro!»
Mia sospirò. Ma, come sempre, obbedì.
Suoni del porto. Soldati che urlavano “Tutto va bene” mentre pattugliavano
le strade dell’illuminotte. Il vento che soffiava dall’oceano dentro Crow’s
Rest era provvidenzialmente fresco e Mia rabbrividì dopo il calore umido
della caserma. La sua mano esitò sopra il vetro della finestra, indecisa se
bussare.
«… questo non è saggio…»
«Torna alla fortezza» sussurrò Mia. «E di’ a Eclissi di sorvegliare la
strada.»
«… mia, io…»
«Vai.»
Senza un suono, il non-gatto la lasciò e la sua ombra divenne sottile e
pallida. Non appena Messer Cortese se ne fu andato, lei la sentì, serpeggiare
e insinuarsi dentro la sua pancia: la paura che lei avrebbe sempre provato
senza di lui al suo fianco. La paura di essere qui. La paura di cosa
significasse o di dove potesse condurre. Paura di chi e cosa era. E prima che
potesse affondarle i suoi artigli freddi nella pelle, lei bussò una volta, due, le
nocche che colpivano con forza il vetro.
Non giunse alcun suono dall’interno della stanza. Mia avvertì un terrore
sempre più profondo, pensando che magari lei non fosse lì, che fosse
sgusciata via dopo il loro alterco, tradendola e lasciandola sola,
dimostrando che tutta la sfiducia e il sos…
La finestra si aprì. Ashlinn Järnheim si trovava oltre il davanzale, i
capelli arruffati dal cuscino e disorientata per il sonno. I suoi occhi erano
azzurri come cieli arsi dai soli.
«Mia?» chiese la ragazza, trattenendo uno sbadiglio. «Che ora è?»
Quegli occhi azzurri si sgranarono quando lei vide i graffi sulle nocche
di Mia, il taglio sopra l’occhio livido, l’ammaccatura sulla mascella.
«Madre Nera, cosa ti è succe…»
La domanda le morì in gola quando Mia venne avanti e le premette un
dito sulle labbra. Rimasero lì immobili per un momento: due ragazze, che si
toccavano a malapena, tutto il mondo attorno a loro che tratteneva il
respiro. La confusione negli occhi di Ashlinn cominciò a sciogliersi quando
Mia mosse il dito, delicato come una piuma. Percorse la curva liscia del
labbro superiore di Ashlinn, la morbidezza grassoccia di quello inferiore,
lenta e soffice. L’arco delle sue guance, la linea della mascella, e il respiro
di Ash accelerò mentre si svegliava del tutto e si rendeva conto,
meravigliata, che la pelle delle sue braccia nude formicolava. E mentre
schiudeva le labbra per parlare, forse per protestare, Mia si sporse in avanti
e la zittì con un bacio.
Non aveva mai baciato una ragazza, prima. Almeno non così. Il bacio tra
loro nella Montagna era stato un addio: un po’ lungo, forse, ma comunque
un addio. Questo bacio era un invito: una supplica gentile e disperata di un
inizio, non una fine. Una domanda senza parole, la bocca di Mia aperta che
si scioglieva contro quella di Ashlinn. E quando la percepì rabbrividire, con
la lingua che la sfiorava a sua volta leggera come una piuma, Mia ebbe la
sua risposta.
Entrò scavalcando la finestra senza che le loro labbra si separassero. Le
braccia si intrecciarono, le mani esplorarono. Mia interruppe il bacio solo
per il tempo necessario a sfilare la camicia da notte di Ashlinn dalla testa.
Sotto era nuda, spogliata splendidamente con un solo gesto. Mia si soffermò
un attimo ad ammirare quella vista: la soliluce che le carezzava la linea
della gola, la rotondità delle curve, l’ombra tra le gambe.
«Mia, io…»
Mia si lasciò andare, premendo la bocca sul collo di Ashlinn. Il petto
della ragazza si gonfiò e le sue guance avvamparono, sussurrando quisquilie
lievi e lasciando che la testa pendesse all’indietro mentre Mia scendeva più
in basso, fino al petto, stuzzicando con la lingua un capezzolo duro come un
ciottolo.
Le due crollarono sul letto, con la mano di Ash che armeggiava con le
strisce succinte attorno al petto e alle anche di Mia, gemendo quando i denti
della ragazza le mordicchiarono il collo. Qualunque domanda avesse voluto
formulare ora fu sommersa: il respiro arrivava troppo rapido per parlare, le
labbra si aprivano mentre schiacciava Mia contro di lei, pelle su pelle, ogni
dolce segreto sulla punta delle sue dita. Poi giù lungo le costole, sulla
rotondità delle sue anche, fino alla curva del sedere, mentre Mia le
avvolgeva una gamba attorno, trascinandola più vicino.
Mia avvertì le dita di Ash sfiorarle l’interno della coscia e un’eccitazione
arkemica le sfrigolò lungo la spina dorsale per diventare una scintilla nel
buio dietro i suoi occhi. La sua stessa mano andò in cerca più in basso,
passando sul ventre piatto di Ash, fino al soffice biondo tra le sue gambe.
Le loro mani trovarono i rispettivi obiettivi allo stesso tempo e il bacio
divenne più intenso, i sospiri soffocati. Mia inarcò la schiena quando
percepì Ashlinn tracciare cerchi stretti e decisi su di lei con dita abili. Mia le
massaggiò un seno con la mano libera, mentre l’altra si metteva all’opera
tra le gambe di Ashlinn, imitando il suo ritmo lento e straziante e
ascoltandola gemere a tempo.
Era diverso da qualunque cosa avesse mai conosciuto. Una corrente
guizzante, dolce delicatezza e baci, interminabili baci paralizzanti che la
riempivano di calore. Il tempo si fermò, nient’altro che lingue stuzzicanti e
sospiri ansimanti, un calore che le cresceva tra le gambe, facendo andare a
fuoco tutto il suo corpo.
«Oh, Dea, sì» sussurrò Mia.
«Non fermarti» la implorò Ashlinn.
Le sue labbra erano miele, caldo e delicato, il suo corpo si contorceva
mentre le dita di Mia si muovevano avanti e indietro sul suo bocciolo
rigonfio. Lei era così calda laggiù, scivolosa e tremante, e la fame dentro
Mia crebbe finché non riuscì più a trattenerla.
«Voglio assaggiarti» bisbigliò strofinando il naso contro il collo di
Ashlinn.
«Oh, sì… sì…»
Iniziò a scendere, lenta come ghiaccio che si scioglie. Fece passare la
lingua lungo la linea della gola di Ashlinn e sorrise quando la ragazza
inarcò la schiena e le si arricciarono le dita dei piedi. Giù fino alla curva dei
seni, Mia ne prese uno in bocca, leccando e succhiando mentre con la mano
strimpellava ancora tra le cosce di Ashlinn. Una sete ardeva dentro di lei,
arida come un deserto, e Mia riuscì a pensare a un solo modo per placarla.
Trascinandosi come una dolce, scura gravità. Verso il basso.
Sempre più in basso.
Ash era sdraiata sul materasso, gemendo mentre Mia proseguiva la sua
discesa con lunghi baci languidi che le scorrevano sopra le costole, poi
sopra la schiena. Mia fece una pausa, tracciando cerchi lenti e brucianti
attorno al suo ombelico con la punta della lingua mentre le unghie
descrivevano linee delicate sulla pelle di Ashlinn. Inspirò un debole sentore
di lavanda e l’aroma inebriante del desiderio di Ash.
«Per favore, Mia» mormorò la ragazza.
Giù, giù lungo il liscio corridoio delle gambe divaricate di Ashlinn,
facendo scorrere la lingua sempre più prossima a un calore eccitante. C’era
un piccolo neo scuro nell’incavo tra la coscia di Ash e il suo sesso, e Mia lo
leccò lentamente, mostrandole un sorriso cupo.
«Per favore cosa?» sussurrò.
«Per favore, Mia…»
Lei increspò le labbra e soffiò piano su quel segno mentre Ashlinn
rabbrividiva. Mia era stata assaggiata in precedenza, ma non aveva mai
assaggiato in prima persona, e la trepidazione si contorceva nella sua pancia
e la faceva tremare. Voleva prendere il suo tempo, per assaporare ogni
secondo, l’eccitazione di tutto quanto, ma Ash aggrovigliò le dita tra i
capelli di Mia e, con un rantolo tremante, la trascinò dentro.
Morbida come seta, impregnata di lussuria, si schiudeva sotto la
pressione del suo bacio. Mia si mosse lentamente, facendo scorrere la
lingua tra le pieghe di Ash, guizzando dentro e fuori. Ashlinn piagnucolò e
sospirò, con le anche che si muovevano a tempo e le mani tra i capelli di
Mia che la trascinavano più a fondo. Mia si ritrovò consumata da tutto
questo, assetata, affamata: il suo sapore, la piena di nettare caldo sulla sua
lingua. Deliziandosi dei gemiti di Ashlinn mentre le pizzicava i capezzoli
ingrossati, fece scorrere le mani lungo i seni della ragazza e poi le artigliò il
sedere.
Ashlinn si lasciò andare del tutto quando Mia si mise all’opera sul serio.
I suoi occhi rotearono all’indietro nella testa, e lei pendeva per metà fuori
dal letto mentre spronava Mia: «Non fermarti, non fermarti». Mia non
aveva mai provato così tanto potere: ogni suo movimento, ogni guizzo della
sua lingua o tocco delle sue labbra suscitava un gemito, una supplica
sussurrata, un tremito che percorreva Ashlinn lungo tutto il corpo.
Il tempo perse ogni significato: ogni secondo era un anno, ogni anno un
battito di cuore, e il calore che cresceva tra loro trascinò Ash sempre più in
alto, più calda, più luminosa, i suoi gemiti più fragorosi e lunghi, finché non
si tese come una corda d’arco e la spina dorsale si inarcò, le cosce serrate da
ambo i lati della testa di Mia, ogni muscolo rigido e sotto sforzo mentre lei
rivolgeva le mani verso il cielo e urlava come se il mondo stesse per finire
in quell’istante.
L’intero corpo di Ash si afflosciò negli ansimanti postumi, ma Mia
tracciava ancora cerchi e assaggiava ancora il suo sapore, il potere del suo
piccolo trionfo. Sorrise mentre affondava la lingua più in profondità tra i
petali di Ash, facendola gemere: «Basta, Dea, basta», placandosi solo
quando la ragazza la tirò su gentilmente. Ash avvolse Mia tra le braccia e i
loro corpi si fusero in uno, gambe snelle avvolte attorno alla vita di Mia
mentre affondavano in un altro lungo bacio famelico. Il sapore di Ash si
mischiò sulle loro lingue e Mia si ritrovò a esserne sommersa, con le ciglia
che le sbattevano contro le guance, così giusto, dolce e colmo di gioia da
farle desiderare che non finisse mai.
Ma poi emise un rantolo quando Ashlinn la sculacciò e le morse le
labbra, tanto forte da farle quasi stillare il sangue.
«Ahi» sussultò Mia. «E questo per cos’era?»
«Per avermi fatto implorare» la rimproverò Ashlinn.
«Eh?» Mia sorrise, sfiorando con le labbra quelle di Ashlinn. «Prima non
ho sentito lamentele.»
«Non montarti la testa con me, ora, Corvere. È stata la fortuna del
principiante.»
«Ah, davvero?»
Una risata lieve si tramutò in brividi tiepidi quando Ash le strofinò il
naso sul collo.
«Davvero» mormorò la ragazza, sfiorandole la pelle con i denti.
«Allora… forse la domina vuole dare una dimostrazione alla novizia?»
«Di’ per favore.»
«Io… ah!»
Mia ansimò quando Ashlinn, afferrandola per i capelli, le tirò indietro la
testa e le assestò un’altra sculacciata decisa. Le labbra della ragazza
vagarono lungo la gola di Mia e i denti le scalfirono la giugulare mentre con
le unghie tracciava linee di fuoco e ghiaccio su per le cosce fradicie.
«Di’» sussurrò Ash, mordicchiando la gola di Mia «per favore.»
Nel suo cuore, Mia non si era mai inchinata a nessuno. Non nella Chiesa,
non nell’arena, non nella camera da letto. E anche se aveva adorato il
controllo di un attimo fa, in cui ogni suo tocco, ogni suo movimento aveva
infiammato la ragazza tra le sue braccia, si domandò se potesse trovare una
gioia più profonda in qualche piccolo momento di arrendevolezza.
Le dita di Ash danzarono su di lei, leggere come brezza. La pancia di
Mia si contrasse quando la ragazza scese più in basso, disegnando con la
lingua una spirale sempre più stretta attorno al suo petto ansante.
«Dillo» sussurrò la ragazza, titillando il capezzolo di Mia con la lingua.
Una luce fumosa filtrava tra la tenda e Mia chiuse gli occhi quando
Ashlinn discese, non volendo vedere, udire o parlare, ma solo percepire.
Una cascata di baci che pioveva lungo il suo corpo, le mani di Ash che
sembravano dappertutto allo stesso tempo. Mia scoprì che le sue gambe si
divaricavano di volontà propria e il desiderio in mezzo a esse era una dolce
agonia, il respiro sempre più irregolare, il cuore che palpitava di
trepidazione. Dentro di lei stava sbocciando una sensazione diversa da
qualunque cosa avesse mai provato: non con Tric, non con Aalea, non con
Aurelius e quella sua bellezza dorata; il desiderio crebbe fino a infuocarsi
mentre sentiva Ashlinn inginocchiarsi tra le sue gambe, il respiro caldo
contro le sue labbra dilatate.
«Di’…»
La lingua della ragazza la sfiorò, incredibilmente lieve, facendola
rabbrividire.
«… per favore.»
Mia sollevò la testa, guardando lungo tutto il proprio corpo verso
Ashlinn, in procinto di divorarla. Il suo cuore martellava, non aveva
abbastanza fiato nei polmoni ed era frastornata. Con gli occhi che si
chiudevano sfarfallando ancora una volta, lasciò pendere la testa all’indietro
e la tensione abbandonò le sue ossa quando si concesse completamente.
«Per favore» mormorò Mia.
Un gemito lungo e basso sfuggì dalle sue labbra quando Ashlinn si mise
all’opera, labbra e lingua che danzavano nel buio. Non aveva idea di dove
la ragazza avesse appreso le sue arti: Aalea, qualche nuova amante, qualche
vecchia fiamma. Ma, Dea, era fenomenale. Ash era una virtuosa, e la
melodia tra loro era più vecchia del tempo. Mia riusciva a malapena a
respirare, le lenzuola accartocciate nei suoi pugni sempre più stretti. Quasi
uscì di testa quando avvertì Ashlinn infilare un dito dentro di lei, ruotando,
blandendo, rinfocolando quel calore ribollente, una corrente arkemica che le
crepitava fino alle punte dei piedi.
«Oh, Dea…»
Era inerme di fronte a tutto ciò, rapita e spazzata via, un uragano di
lussuria e desiderio, il calore dentro di lei quasi impossibile da sopportare.
Ashlinn era spietata, il ritmo della sua lingua scandito dai suoi tocchi, con
Mia che inarcava la schiena e sollevava le labbra in alto lontano dal letto, la
bocca a formare una “o” perfetta, le dita aggrovigliate nel fiume rosso dei
capelli di Ashlinn, trascinandola sempre più a fondo, più forte, ancora e
ancora. Stava tremando così tanto da non riuscire a respirare, pensare,
parlare, tranne per implorare con suoni incomprensibili che tutto finisse. E
quando avvertì la mano di Ashlinn muoversi e un secondo dito unirsi al
primo, le anche di Mia sgropparono in modo incontrollato e stelle nere
sbocciarono dietro i suoi occhi, il calore dentro di lei che scoppiava in una
fiamma famelica mentre perdeva il controllo, urlando senza suono, accecata
dal fuoco di mille soli.
Percepì labbra morbide sulle sue, umide e cupamente dolci. Mia aprì gli
occhi e vide una ragazza sopra di lei, bellissima e sorridente.
Una ragazza di cui non si sarebbe dovuta fidare.
Un’amante che non avrebbe dovuto amare.
Cercò di ritrovare il fiato, con il cuore che le palpitava contro le costole.
«È stato… impressionante…»
«È stato rimandato fin troppo» sogghignò Ashlinn.
Mia la trascinò a sé per un bacio e le loro labbra si unirono mentre i
postumi dell’orgasmo le formicolavano ancora nelle ossa. Separandosi dopo
un’eternità lunga e dolce, Ashlinn si lasciò cadere sul materasso, esalando
un sospiro soddisfatto.
Mia scese dal letto con le gambe che tremavano ancora. Sulla cassettiera
trovò la custodia di sigaretti d’argento e ne accese uno con l’acciarino prima
di scivolare di nuovo tra le lenzuola. Ashlinn le gettò le braccia attorno, le
prese la mano e le baciò le nocche ferite prima di raggomitolarsi più vicino,
strusciandole il naso sul collo. Mia prese una tirata dal sigaretto, inalando a
fondo e sentendo quel grigio dolce e marcato riempirle i polmoni.
«Fumi parecchio» mormorò Ash.
«Calma i nervi» replicò Mia.
«Ti rendo nervosa, vero?»
Mia protese il palmo come risposta. Di solito era salda come una roccia,
senza mai un tremito a indebolire la sua stretta sulla spada. Ma ora le
stavano tremando le mani.
«Oh, sei tutta un fremito, amore» la vezzeggiò Ash. «Alle ragazze
succede, le prime volte, sai?»
«Allora vediamo le tue, saputella.»
Ash sollevò la propria mano e, anche se cercò di nasconderlo, Mia riuscì
a vedere che anche lei stava tremando. Poteva sentire il petto della ragazza
premuto contro il suo, il cuore che palpitava alla stessa melodia fragorosa.
Intrecciando le dita a quelle di Ashlinn, percepì la corrente crepitare tra
loro. Si rese conto che aveva ancora sete.
«Forse tu dovresti cominciare a fumare.»
Ash fece una smorfia. «Non mi piace il sapore, temo.»
«Posso renderlo più dolce…»
Prendendo una lunga tirata del sigaretto, Mia inalò un’altra boccata
calda. Inclinando verso l’alto il mento di Ashlinn con la punta delle dita, si
sporse in avanti e la baciò, le labbra socchiuse, soffiandole nella bocca. Le
sue labbra erano zuccherate per la cartina del sigaretto e il fumo all’aroma
di chiodi di garofano vagò attorno alle loro lingue mentre il bacio si
intensificava. Ash inclinò la testa e sospirò, premendo tutto quanto il
proprio corpo contro quello di Mia. Le mani di Mia vagarono per la schiena
di lei, sentendo la pelle di Ashlinn accapponarsi e quel dolore dolce
crescere ancora una volta tra le sue gambe. Ashlinn chiuse la bocca,
succhiando la lingua di Mia prima di interrompere il bacio.
«Niente male» sorrise, espirando grigio. «Ma non intendo comunque
iniziare a fumare.»
Mia scrollò le spalle, prendendo un’altra tirata. Ashlinn si sistemò di
nuovo contro il suo fianco, con il braccio di Mia attorno alla spalla.
Rimasero distese in silenzio per un po’, ad ascoltare i suoni dell’illuminotte
lì fuori. Diede una bella occhiata alla ragazza che aveva tra le braccia, le
curve snelle, le fossette gemelle alla base della schiena; spinse da parte con
le dita le lunghe trecce color rosso sangue e scoprì…
… il tatuaggio che le strisciava sulla schiena.
«… Questo cos’è?» sussurrò Mia.
Ashlinn si irrigidì, quindi si mise a sedere e gettò di nuovo i capelli sopra
la spalla.
Aveva dato solo una rapida occhiata, ma Mia aveva visto linee intricate e
ombreggiature, un accenno di una strana scrittura, la forma di una lama
ricurva sulla spalla sinistra di Ash…
“Una stipula” disse Solis, sollevando un dito. “Un oggetto importante
per il tuo mecenate. Una mappa, scritta in ashkahi antico e decorata con un
sigillo a forma di lama di falcetto.”
“… Dea.”
«La mappa» realizzò Mia. «La mappa di Duomo.»
«È questo il motivo per cui sei venuta qui?» chiese Ash piano.
Mia si accigliò, il sigaretto ballonzolante sulle labbra. «Cosa?»
«Eclissi si aggira sempre di soppiatto. Forse lei l’ha intravista.» La
ragazza fissò Mia con il suo sguardo azzurro cielo. «Perciò hai immaginato
che l’unico modo per darci un’occhiata migliore fosse togliermi i vestiti?
Mossa astuta, Corvere.»
«… È questo che pensi?»
«Io non penso nulla.» Ash raddrizzò le spalle, assicurandosi che il
tatuaggio non fosse visibile. «Ecco perché lo domando.»
«Ash, io non ne avevo idea. Perché hai la mappa di Duomo tatuata sulla
schiena?»
«Non è tatuata» disse lei, annuendo verso i doppi cerchi incisi sulla
guancia di Mia. «È arkemica, proprio come il tuo marchio.»
Mia sbatté le palpebre quando comprese. «Perciò se ti uccidono…»
«Il marchio scompare. E loro restano senza mappa.» La ragazza scrollò
le spalle. «Le persone che giocano col fuoco danno il meglio se si aspettano
di bruciarsi.»
Una dozzina di domande ardeva nella mente di Mia. Cosa c’era di tanto
importante in questa mappa da indurre Ashlinn a marchiarla in modo
indelebile sulla propria pelle? Cosa volevano farci Duomo e Scaeva, tanto
da essere decisi a muoversi così apertamente l’uno contro l’altro per
ottenerla? Dove conduceva? E come c’entrava in quell’intrico la ragazza
che aveva tenuto tra le braccia solo poco fa?
«C’è parecchio che non mi stai dicendo di tutto questo, Ashlinn.»
«Potrei dire lo stesso per te, Mia.»
«Per esempio?»
Ashlinn guardò in profondità nei suoi occhi, deglutendo rumorosamente.
«Perché sei venuta qui? Perché ora?»
«Perché volevo stare con te.»
«Ma perché?»
Mia prese una tirata del sigaretto, rimuginandoci.
«Perché stavo pensando. A tutte le cose che mi hanno portato a questo
punto. Le cose che mi hanno reso ciò che sono e le cose che avrei potuto
essere se mi fosse stata data una scelta. E poi non ho voluto pensare più.»
«Allora si trattava solo di questo?» Ashlinn mantenne il volto
impassibile, la voce fredda, ma Mia poteva vedere la tempesta addensarsi in
quell’azzurro riarso dai soli. «Solo una distrazione?»
«Una distrazione dolcissima.»
«Non scherzare» disse Ashlinn. «Diventi calda e fredda come un bagno
pubblico difettoso, e se questa era solo una rapida scopata per scacciare
pensieri spiacevoli, va bene. Lo preferirei a uno stratagemma per vedere
l’inchiostro sulla mia pelle. Ma di qualunque cosa si sia trattato, devo
saperlo.»
«Non è stata nessuna delle due cose, Ash.»
«Riconosco una menzogna quando l’assaggio, Mia.»
Mia sospirò e scosse il capo. Ci aveva pensato su mentre era diretta qui,
muovendosi furtiva lungo le strade dell’illuminotte. Sul perché non fosse
stato giusto prima e perché le sembrasse giusto adesso. Il suo diverbio con
Furian l’aveva lasciata infiammata, la sua zuffa con Sid non era riuscita a
saziarla. Ma non si trattava semplicemente di quello, né dell’aver ripensato
ai suoi genitori o a tutto ciò che le ricordava dolorosamente di essere
rinchiusa in quel posto, oppure a dove era stata o a cosa le si prospettava.
«Ho pensato a tutto quello che sarei potuta essere se mi fosse stata data
una scelta» disse infine. «E mi sono resa conto che non ne ho avute quasi
mai. Fin da quando mio padre è stato ucciso, i miei piedi sono stati bloccati
su questo percorso. Non ho potuto farne a meno. Non ho avuto alcuna via di
fuga. Perciò volevo scegliere qualcosa per conto mio. Una cosa che potesse
essere solo mia. Una mia scelta.»
Mia guardò Ash, facendo scorrere dita tremanti lungo la sua guancia.
«E ho scelto te.»
Ashlinn rimase semplicemente a fissarla, le labbra carnose socchiuse
mentre respirava, e Mia si ritrovò a gettarsi in un lungo, dolce bacio.
Ashlinn si sollevò contro di lei, prendendole il viso tra le mani, persa nella
dolcezza di un bacio che pareva mandare brividi fino all’anima di Mia. Si
staccò solo con riluttanza, gli occhi scuri che scrutavano in quelli di
Ashlinn.
«So di menzogna?» chiese.
Ashlinn accennò un sorriso e scosse il capo.
«No. E io?»
E lei? Era cambiato qualcosa, qui? Non era tutto uguale? La questione
della mappa – dove conduceva, perché Duomo la volesse, cosa significava
tutto quanto – era ancora sospesa tra loro. Ashlinn Järnheim era ancora una
ragazza che avrebbe fatto di tutto per ottenere quello che voleva. Mentire,
imbrogliare, rubare, uccidere. Lei aveva segreti. Era pericolosa.
Ma Mia era così diversa?
Quanto più tempo trascorrevano assieme, tanta più familiarità vedeva
con questa ragazza che supponeva di dover detestare.
«Sai di miele» sussurrò Mia.
Ashlinn sorrise e premette la fronte contro quella di Mia. Lei chiuse gli
occhi, ascoltando i suoni provenienti dalla strada, i freschi venti
dell’illuminotte, che ora si stavano lentamente spegnendo. Aveva domande.
Troppe domande. Ma presto sarebbe cominciato il cambio, l’executus li
avrebbe svegliati per un’altra sessione di sudore, di batoste, e del dannato
Furian, e tutto quanto – dimenticato per un benedetto momento tra le
braccia di questa ragazza – tornò come una piena. Mia ricordò chi era.
Cos’era. Aprì gli occhi e sospirò.
«Dobbiamo discutere ancora di questo. Ma ora devo tornare indietro.»
«Lo so» disse Ashlinn, sporgendosi per un altro breve bacio.
«Voglio restare.»
«Lo so» mormorò Ash, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Promettimi
solo che tornerai.»
«Di’ per favore.»
Il morsetto di Ashlinn si trasformò in un morso giocoso.
«Va’ a farti fottere, Corvere» sorrise lei.
«Pensavo che non l’avresti mai chiesto.»
«Non l’ho chiesto, ricordi?»
Sorridendo, baciò gli occhi di Ashlinn, la guancia di Ashlinn, le labbra di
Ashlinn, facendosi forza per superare quel momento. Poi si alzò dal letto, il
loro letto, avvolgendosi nei suoi scampoli di tessuto, temendo la soliluce
che l’aspettava appena oltre la tenda. Tuttavia scostò il tessuto, stringendo
gli occhi contro la luminosità e voltandosi per dare un’ultima occhiata alla
bellezza che stava lasciando indietro.
“È cambiato qualcosa, qui?”
Con un sospiro, si arrampicò fuori nella luce in attesa.
Nulla sarebbe mai stato come prima.
CAPITOLO 22
QUIETE
«Più forte.»
Leona puntellò i palmi contro la parete e spinse le ginocchia nel
materasso, la testa gettata all’indietro. Furian la teneva per la vita, la sua
stretta scivolosa a causa del loro sudore, tutto il corpo della domina che
sussultava a ogni affondo delle sue anche. L’intelaiatura del letto tremava
per quell’impeto, e polvere di pietra scivolava dal muro giù sul pavimento.
«Più forte» gemette di nuovo Leona.
Il suo campione obbedì, sgroppando come uno stallone. La domina
allungò le mani all’indietro, artigliandogli la pelle e spronandolo ad andare
oltre mentre lui afferrava una manciata dei suoi capelli ramati e la tirava
indietro, più a fondo sulla sua virilità ardente. Leona chiuse gli occhi,
scossa fino al midollo e tremante, la bocca spalancata.
«Scopami» mormorò.
«Dominatii…»
«Oh, Figlie, sì.»
«Dominatii, non posso…»
«Sì, vieni» ansimò lei. «Scopami, scopami, scopami.»
Furian penetrò a fondo qualche altra volta, poi si trascinò via, l’intero
corpo rigido mentre le eiaculava sulle natiche e sulla schiena. Leona chinò
il capo, conficcandogli le unghie nella pelle, mordendosi il labbro per
soffocare un urlo. Senza fiato, crollò a faccia in giù sul letto, facendo le fusa
come una gatta.
L’Imbattuto si stese accanto a lei, il petto ansante e il corpo esausto.
Anche se il letto era piccolo, lui stette attento a non toccarla: pareva che la
domina non gradisse le tenerezze post-coito. Appoggiando la schiena contro
la parete, lui si umettò le labbra e sospirò, il cuore che palpitava.
«Un’ottima prestazione, mio campione» mormorò la domina.
«Il vostro sussurro, la mia volontà» replicò lui.
Leona ridacchiò e rotolò supina. Dimenando le anche, inarcò la spina
dorsale e guardò l’uomo sopra di lei.
«Quattro Figlie, ne avevo bisogno» sospirò.
«Almeno quanto me» disse Furian. «Avevo cominciato a sospettare che
vi foste dimenticata della mia esistenza.»
Leona tubò, scostandogli i lunghi capelli scuri dalla faccia e facendo
scorrere i polpastrelli sul suo addome. «Ti sono mancata, mio campione?»
«Sono passate settimane, Dominatii.»
«Non devi temere, amante» sorrise la domina. «Io tornerò sempre.»
«Finché non troverete favore con qualcun altro?»
«Qualcun altro?» Le sue labbra si contorsero. «E dimmi, chi sarebbe?»
«Il Salvatore di Stormwatch» borbottò lui con finta drammaticità.
«Ah» sospirò Leona roteando gli occhi. «Siamo arrivati alla punta della
lancia. Ma non ho alcun interesse per le donne, Furian. E ancor meno per la
gelosia.»
«La fate combattere sulle sabbie accanto a me» borbottò lui. «Come se
fosse mia pari. Ma lei non ha onore. Lei ha…»
«Lei ha un alloro da vincitore» lo interruppe Leona. «Ha il favore della
folla. E ha un terzo della chiave per aprire i cancelli del magni per noi.»
«Posso sconfiggere la serica di vostro padre da solo, Dominatii» ringhiò
Furian. «Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, tanto meno di una subdola
ragazzina che il mio nemico ha già sconfitto.»
Leona sospirò. Alzandosi dal letto, raccolse il lenzuolo e si pulì con
noncuranza il suo seme dalla pelle.
«Questa conversazione mi annoia.»
Furian allungò la mano. «Leona…»
«Leona?» La domina alzò bruscamente lo sguardo. «Dimentichi il tuo
posto, schiavo.»
«Oh, schiavo, sì» annuì Furian. «Finché non avrete di nuovo voglia. E
allora sarà tutto “amante” e “mio campione” e parole melliflue finché non
vi sarete saziata.»
«E in quei casi tu ti lamenti così aspramente?»
«Ho intenzione di essere qualcosa di più del vostro stallone.»
«E cosa?» domandò Leona. «Puoi essere un campione nell’arena, ma
non hai vinto altri allori. Io sono la Dominatii di questa casa. Non credere
che, semplicemente perché ti porto a letto, io dia ascolto ai tuoi consigli. O
che quando viene impartito un ordine, non mi aspetti che venga eseguito.»
«Quando gli incubi vi destano dal vostro sonno, pensate che vi conforti
perché mi viene comandato di farlo? Credete che vi stringa perché…»
«Stai travalicando, campione.»
Furian strinse con forza le labbra e la rabbia gli scurì la fronte. Ma non
parlò più. Guardandolo per un lungo momento immobile, il volto di Leona
si ammorbidì. Si lasciò cadere sul letto accanto a lui e gli premette la mano
sulla guancia.
«Io ci tengo a te» mormorò. «Ma non po…»
Qualcuno bussò alla porta.
«Campione?»
Leona sgranò gli occhi quando riconobbe la voce.
«Onnipotente Aa…» sibilò. «Arkades!»
Furian si alzò dal letto e impallidì. «Pensavo che fosse sbronzo.»
«Lo era! Ha perso i sensi nella sala da pranzo, praticamente come
morto.»
L’executus bussò di nuovo. «Furian?»
Leona esaminò disperatamente la stanza. Il sacrario a Tsana. Un piccolo
forziere. Spade di legno e un fantoccio da addestramento. Nessun posto
dove nascondersi. Infine, la domina della casa si gettò in ginocchio. Strisciò
sotto il letto con l’aiuto di Furian, poi tirò su le gambe e le strinse contro il
petto. Soddisfatto che lei fosse nascosta, l’Imbattuto si mise il perizoma e
aprì la porta.
Sulla soglia c’era Arkades, la faccia gonfia per aver bevuto troppo. Stava
ondeggiando lievemente e il suo alito era intriso di aureovino mentre
squadrava il campione dall’alto in basso.
«Le mie scuse» disse. «Stavi dormendo?»
«Solo riposando, executus.»
«Umpf.»
Arkades entrò zoppicando nella stanza senza tante cerimonie, la sua
gamba di ferro che risuonava sulla pietra, clink-tonfo, clink-tonfo. Si guardò
attorno in cerca di qualche posto dove sedersi e infine si accomodò sul letto.
Il materasso di paglia si incurvò sotto il suo peso e Leona soffocò un urlo
quando andò a colpire la sua nuca facendole sbattere la testa contro il
pavimento. Imprecando sottovoce, si accucciò ancora più in basso, come
una bambina disobbediente che si nasconde dai genitori.
Arkades annusò l’aria, poi sollevò un sopracciglio, la voce impastata a
causa dell’alcol.
«C’è puzza, qua dentro.»
«È il caldo, executus. Saai si avvicina sempre più all’orizzonte a ogni
cambio.»
Arkades arricciò il naso. «Scambierò una parola con la magistrae. Quel
sapone che ti ha dato odora di profumo femminile.»
Furian sgranò gli occhi e guardò verso l’ombra sotto il letto. L’executus
non se ne accorse e tirò fuori la sua fidata fiasca, prendendo un lungo sorso.
La offrì all’Imbattuto, che declinò con una scrollata silenziosa della testa.
«Umpf, sei un uomo saggio» disse Arkades mettendo via la fiasca. «Ti
rende molle sulle sabbie.»
«Ma ti fa anche dimenticare il sangue che le macchia» replicò piano
Furian.
Arkades annuì quasi fra sé, un’aria distante negli occhi. Abbassò lo
sguardo sulle proprie mani. Poi lo alzò negli occhi scuri dell’Imbattuto.
«È questo che mi piace di te, Furian. Tu vedi. Tu capisci. Il dolore che
sopportiamo. I fiumi rossi che dobbiamo guadare.»
«Sulla nostra via per la gloria.»
«Un peso oneroso.»
«Io lo accolgo di buon grado. Se mi porta la vittoria.»
Arkades lo sbeffeggiò un poco. «Mi piace anche questo di te.»
«Perdonatemi… Ma vi occorre qualcosa, executus?»
Arkades sospirò e spostò il peso, con il materasso incurvato che spingeva
Leona contro il pavimento. La domina stava respirando poco e piano, il
petto premuto con forza contro la pietra e il volto in preda al panico. Se
avesse emesso un suono, se il suo executus l’avesse scoperta qui…
«Mi occorre che tu smetta di essere ai ferri corti con il Corvo» replicò
Arkades, la pronuncia lievemente biascicata per l’alcol. «Mi occorre che tu
combatta accanto a lei, non contro di lei.»
Furian si accigliò. «Quella ragazza è sulla bocca di tutti questa
illuminotte, a quanto pare.»
L’executus sbatté le palpebre. «… Cosa?»
«È una mentitrice e una bastarda, executus. La sua gloria è immeritata.»
«Come puoi dirlo?» si imbronciò Arkades. «Cazzo di Aa, non nutro
verso di lei più affetto di quanto ne abbia tu, ma l’hai vista combattere a
Stormwatch. La sua vittoria sul rigurgitante…»
«Era impregnata di slealtà. Non è una vincitrice, è una ladra.»
Arkades sospirò, allungando una mano verso la fiasca prima di
trattenersi. Si alzò in piedi, incerto per un momento, e Leona tirò un sospiro
di sollievo ora che riusciva a respirare di nuovo. Riacquistando l’equilibrio
e zoppicando per la stanza, Arkades indicò le pareti attorno a loro.
«Cosa vedi?»
«La casa della mia Dominatii» rispose l’Imbattuto.
«Sì. Le mura che ti danno riparo, il tetto che ti protegge dai soli. Sai cosa
accadrà se non riusciremo ad assicurarci un posto nel magni?»
«Non ho bisogno d’aiuto per sconfiggere la serica, executus» ringhiò
Furian, irritandosi. «E non combatterò al fianco di una cagna senza onore
che ruba ciò che dovrebbe essere guadagnato.»
«Perché tu sai cosa significa essere un cane senza onore, vero?»
Furian strabuzzò gli occhi. «Osate…»
«Risparmiami il tuo sdegno» ringhiò Arkades, sollevando una mano
callosa. «Dimentichi che sono stato io a trovarti e a portarti qui. Solo io so
da dove provieni, cos’hai fatto per ritrovarti in catene.»
Furian lanciò un’occhiata verso il suo letto. Verso la figura nascosta sotto
di esso.
«È stato molti cambi fa» disse. «Non sono più quell’uomo. Sono un
figlio del Semprevigile timorato di dio e un gladiatii che vive per onorare la
sua Dominatii.»
«Tu vivi per onorare te stesso» replicò Arkades scuotendo il capo per
l’esasperazione. «Per dimostrare di essere meglio dell’uomo che eri. E
capisco perché la cosa ti stia a cuore. Ma non dire che combatti per la tua
Dominatii. Se pensassi davvero per un momento a Leona, se provassi un
briciolo di ciò che io provo per l…»
Arkades sbatté le palpebre e si interruppe. Ondeggiò sui piedi.
Lanciando un’occhiata al campione, l’executus si schiarì la gola e si sfregò
gli occhi annebbiati.
«Hai l’abilità e la volontà per farci arrivare fino al magni, Furian. Non ti
ho tirato fuori dal pantano per redimerti dai peccati del tuo passato. L’ho
fatto perché vedevo in te un campione, proprio come ero io. Puoi vincere la
tua libertà. Camminare tra noi ancora una volta come un uomo, non come
l’animale che eri. Ma quelli che si battono per il nulla, muoiono per lo
stesso motivo. E se ti batti solo per te stesso, cadrai da solo.»
«Battermi per me stesso?» ripeté Furian incredulo. «Io mi batto per
queste mura!»
«Allora dimostralo» ringhiò Arkades. «Combatti con il Corvo, non
contro di lei. E quando la serica sarà stata sconfitta e il nostro posto
assicurato, quando affronterai il Corvo nei grandi giochi ex mortium, potrai
dimostrare di essere l’uomo che io so che sei.»
Arkades posò una mano sulla spalla del campione.
«Oppure cadrai da solo» ripeté. «E farai crollare questa casa assieme a
te.»
L’executus ondeggiò come un albero in una tempesta: la stretta sulla
spalla di Furian serviva più a sorreggersi che a dimostrare conforto. Ma
anche se l’aureovino era pesante nel suo alito, anche se riusciva a stento a
restare dritto, sembrava che avesse fatto centro.
Furian serrò la mascella. Ma alla fine annuì.
«Mi batterò con lei a Whitekeep» disse. «Ma a Godsgrave, lei morirà.»
Arkades annuì e zoppicò verso la porta, clink-tonfo, clink-tonfo,
voltandosi sulla soglia per squadrare ancora una volta Furian.
«O forse prima? Chi può dirlo?»
L’executus sorrise, chiudendosi la porta alle spalle. Furian rimase
immobile, ascoltando il suono della sua andatura zoppicante svanire lungo
il corridoio. Mettendosi in ginocchio, offrì una mano a Leona e l’aiutò a
uscire da sotto il letto. Quando fu in piedi, la domina strappò via la mano
dalla sua e si trascinò il vestito sopra la testa per coprirsi. C’era sdegno
scritto in ogni suo movimento.
«Dunque» lo guardò torvo. «Disobbedisci al mio ordine di combattere
accanto al Corvo, ma Arkades ti dice qualche parolina e tu capisci che è
giusto?»
«Domin…»
«Mi hai detto che eri un mercante, prima di tutto questo» lo incalzò lei,
fissando il campione con il suo sguardo azzurro scintillante. «Un
ambulante.»
«Lo ero» replicò Furian.
«Non stando a quello che diceva Arkades. Ti ha definito animale. Quanti
peccati può accumulare un semplice mercante che combatte con tanta
ferocia per redimersi?»
L’Imbattuto non replicò.
«Cos’hai fatto, Furian?» gli chiese lei. «Quali menzogne mi hai
raccontato?»
Il campione si limitò a fissare la Trinità di Aa sulla parete, rifiutandosi di
incontrare lo sguardo della sua padrona. Lei rimase lì per lunghi momenti,
scrutando nei suoi occhi in cerca di risposte. Ma trovando solo silenzio. Poi,
con un suono di puro disgusto, si voltò e si diresse verso la porta. Rimase in
ascolto per un momento, poi la spalancò, quasi incurante, e uscì in
corridoio, sbattendosela alle spalle.
L’Imbattuto ingobbì la schiena e imprecò piano.
Sedendosi sul letto, vide che Leona aveva dimenticato le mutandine.
Raccogliendole tra le mani, le fissò per lunghi istanti, perso nei suoi
pensieri. Fece scorrere le dita lungo la seta, il merletto. Inalò il suo
profumo. E infine si chinò e le infilò sotto il materasso, nascondendole nelle
ombre sotto il suo letto.
Le ombre dove un non-gatto sedeva ad ascoltare.
Cercando con tutte le sue forze di non roteare i non-occhi.
«… uff…»
a. Famigerata opera itreyana commissionata da re Francisco XII (noto ai suoi sudditi come
“l’Orgoglioso” in vita e come “il Segaiolo” da morto). Francisco era un appassionato del teatro
musicale, e dopo il suo trionfo sulla ribellione organizzata da re Oskar III di Vaan, commissionò
un’ode alla propria gloria. Il suo principale compositore di corte, Maximillian Omberti, lavorò
duramente per oltre un anno sulla composizione, intitolandola Mi Uitori (“Mia vittoria”).
Francisco era convinto che la sua opera fosse un sentiero per fama e popolarità imperitura
presso i suoi sudditi. Non badò a spese per mettere assieme la produzione e, ritenendosi un
cantante provetto, decretò che avrebbe impersonato il ruolo di se stesso alla prima. Messa in scena
all’arena di Godsgrave, ogni membro della nobiltà era presente, assieme a novantamila cittadini.
Per assicurare che la folla apprezzasse ogni istante del suo capolavoro, Francisco XII ordinò che le
uscite fossero sigillate quando iniziò l’ouverture.
Purtroppo, anche se l’opera comprende il suddetto brano eponimo Mi Uitori nell’ultimo atto –
considerato il pezzo migliore di Omberti e ancora suonato a secoli di distanza –, il re aveva
preteso che il compositore includesse ogni dettaglio del suo trionfo a Vaan. La prima si protrasse
per oltre diciassette ore, la durata resa ancora peggiore dalla voce di Francisco, che fu descritta
dallo storico Cornelius il giovane come “simile a due gatti che scopano dentro un sacco in
fiamme”.
L’esibizione fu così lunga che due donne partorirono durante la rappresentazione e diverse
centinaia di cittadini rischiarono di spezzarsi le gambe e di essere giustiziati per essere saltati giù
dalle mura dell’arena fino alla strada sottostante. Un barone particolarmente scaltro della corte del
re, un certo Gaspare Giancarli, simulò un attacco di cuore affinché le guardie permettessero alla
sua familia di rimuovere il cadavere senza vita dai locali.
Secondo le fonti, Francisco fu “piuttosto deluso” per l’accoglienza dell’opera.
Omberti si suicidò poco dopo la prima.
Non ci fu mai una seconda esibizione.
CAPITOLO 23
WHITEKEEP
a. La città di Whitekeep è una vasta metropoli sulle coste meridionali di Itreya ed è la sorella di
Godsgrave. La città di ponti e ossa si può vedere dal suo litorale e l’imponente acquedotto che
porta l’acqua alla capitale di Itreya scorre dalle montagne dietro Whitekeep, poi attraverso la
metropoli, sopra la baia fino a Godsgrave.
Decorato con statue di Aa e delle sue Quattro Figlie e sorvegliato a ciascuna estremità dalle
figure torreggianti di guerrieri ambulanti itreyani, l’acquedotto è un capolavoro di ingegneria e
una delle meraviglie della Repubblica itreyana. Il capo architetto fu un abitante di Whitekeep
chiamato Marius Gandolfini, a cui re Francisco II, il Grande Costruttore, commissionò la
supervisione del progetto.
L’acquedotto permise alla capitale itreyana di sbocciare da uno squallido letamaio a una
meraviglia ricca d’acqua, straripante di fontane, una complessa rete fognaria, centinaia di bagni
pubblici e ogni genere di impianto idrico. Anche se Gandolfini morì di vecchiaia prima che
l’acquedotto fosse portato a compimento, il suo nome è ancora venerato nella città di ponti e ossa
a tutt’oggi. Una statua del geniale architetto si erge orgogliosa nella Via dei Visionari nel Collegio
di Ferro, busti in marmo con le sue fattezze si trovano nei bagni pubblici di tutta la città, e certi
bordelli specializzati offrono un “Gandolfini” alla loro clientela più… avventurosa.
Usate la vostra immaginazione, gentili amici.
b. Malgrado affermazioni del contrario da parte di editorii entusiastici, ci sono solo sette Meraviglie
itreyane:
Le Costole di Godsgrave.
L’Acquedotto, anche quello a Godsgrave.
Il Mausoleo di Lucius I: luogo dell’estremo riposo del primo Re Magus liisiano, la ziggurat
torreggia per quasi cinquecento piedi e stupisce gli ingegneri contemporanei per la genialità
della sua costruzione.
Le Cascate di Polvere di Nuuvash: una serie di imponenti dirupi nell’Ashkah meridionale, da
cui piovono valanghe di polvere dalle Frusciaride negli oceani sottostanti.
La Statua di Trelene a Farrow: situata nell’alto tempio della capitale dweymeri, questa scultura
di marmo e oro della Madre degli oceani compie miracoli quando fonti attendibili non
guardano.
Le Mille Torri: una serie di guglie di pietra naturali, che si innalzano per centinaia di piedi
dall’antico alveo di un fiume ad Ashkah. Per la verità, ce ne sono solo
novecentosessantaquattro. Ma “Mille Torri” suona meglio.
Il Tempio di Aa a Elai: costruito dal Grande Unificatore, Francisco I, per commemorare la sua
conquista di Liis. Al centro si erge una statua di dieci piedi fatta d’oro massiccio; il materiale
fu acquisito fondendo le fortune personali di ogni familia nobile liisiana che si oppose a
Francisco in battaglia.
Menzioni d’onore per l’elenco delle meraviglie includono il Grande Sale; la Tomba di Brandr I; una
cortigiana di nome Francesca Andiami, in grado di fare cose straordinarie con una ciotola di
fragole e un rosario; e personalmente sono stupito che qualcuno di voi abbia dedicato del tempo a
leggere questo quando sta per cominciare la dannata corsa di cavalli.
CAPITOLO 24
OSSIDIANA
Vuoto.
Era quello che Mia sentiva dentro di sé ascoltando la folla pestare con
impazienza sugli spalti mentre il cadavere di Byern veniva trascinato via.
Con i capelli lunghi che le pendevano attorno agli occhi, si tenne occupata
fissando la corazza di cuoio al petto e gli schinieri di ferro attorno agli
stinchi. Ogni movimento era freddo.
Metodico.
Meccanico.
«… STAI BENE …?»
Un sussurro all’orecchio, sotto l’ombra dei suoi capelli.
«… mia…?»
Le guardie, nelle loro armature nere, arrivarono alla porta della loro cella
per prenderli. Dietro di loro c’era Furian con la sua armatura scintillante, un
elmo di Falcone sulla testa, il torque argenteo da campione che gli luccicava
attorno al collo. Arkades zoppicava accanto all’Imbattuto, il volto simile a
una maschera. Domina Leona camminava davanti a tutti loro, fulgida in un
lungo abito azzurro cielo, le lacrime che sbaffavano il kajal attorno ai suoi
occhi. Mentre le guardie aprivano la porta della cella, Mia incontrò lo
sguardo della sua Dominatii, cercando di valutare il suo dolore.
Era sincero? Oppure vuoto come il suo petto in quel momento?
«Dominatii?» chiese Cantalame piano. «Bryn è…»
«È con Verme» mormorò la domina. «Lei… non sta bene.»
«Suo fratello è morto là fuori, Dominatii» disse Sidonius. «Come altro
dovrebbe stare?»
«Io…»
«Basta» ringhiò Arkades. «Byern è morto con onore, come gladiatii.
Concentratevi sull’incontro e lasciate da parte i pensieri preoccupanti. La
vostra avversaria non ne sarà intralciata.»
Mia continuò a fissare Leona. Valutò tutto quello che sapeva di quella
donna. La domina era cresciuta circondata dalla violenza dell’arena. Ma
anche se manteneva una stalla di uomini e donne che combattevano e
morivano per il divertimento della folla, nel suo petto poteva rimanere una
qualche umanità. Mia ne aveva visto degli accenni al bagno con la
magistrae, forse perfino nei suoi gesti di tenerezza riluttanti per Furian. In
lei non c’era solo il desiderio di prevalere su suo padre. La domina avrebbe
mostrato vero dolore, adesso, oppure li avrebbe spronati a “vendicare il loro
fratello caduto” e, guarda caso, farle anche ottenere il posto al magni?
Leona prese la mano di Mia. Poi anche quella di Cantalame.
«Io…»
Scosse il capo, cercando di parlare. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi.
«State attente, là fuori» mormorò infine.
Cantalame sbatté le palpebre dalla sorpresa. Poi guardò Arkades.
«… Sì, Dominatii.»
«L’incontro attende, Mea Domina» la avvisò il capitano della guardia.
Leona annuì e si asciugò il viso. «Molto bene.»
Furono scortati attraverso le viscere dell’arena, il clamore palpitante
della folla che riecheggiava nelle travi del soffitto. Raggiunsero un’ampia
area di allestimento in pietra nera, con una saracinesca di ferro e quattro
scalini larghi che scendevano sul piano dell’area. I suoni della folla si
riversarono su di lei e Mia strinse la mascella, gli occhi fissi sulla sabbia.
«Questo è il momento» disse Arkades. «L’immortalità a portata di mano.
Un’opportunità di incidere il vostro nome nella terra, di onorare la vostra
Dominatii e vincere la vostra libertà. Solo un nemico si para tra voi e il
magni. Un nemico che può sanguinare. Un nemico che può morire.» Fissò
ciascuno di loro con il suo sguardo azzurro ghiaccio. «Voi siete gladiatii del
Collegio Remus. Prevalete assieme, o cadete da soli.»
Furian annuì. «Executus.»
«Sì, executus» mormorò Cantalame.
Mia lo fissò e basta, ricordando cosa le aveva riferito Messer Cortese
sulle parole di Arkades all’Imbattuto nella sua stanza. Sapeva di essere solo
una seccatura per quest’uomo, una pietra da calpestare sulla strada per il
magni. Lui la stava usando soltanto per veder innalzare Furian, per
raggiungere i propri scopi.
“Così sia, bastardo. Usiamoci a vicenda.”
E allora Mia parlò, la voce gelida come freddinverno. «Executus.»
Leona non aggiunse altro e i due lasciarono la zona di allestimento. La
porta venne chiusa a chiave alle loro spalle. Furian le lanciò un’occhiata in
tralice, l’espressione nascosta sotto l’elmo da Falcone. Gli occhi di
Cantalame erano fissi sull’arena mentre infilava le sue salciocche attraverso
la corona dell’elmo e se lo infilava sul capo. Soppesando un grosso scudo di
ferro sbalzato con un falcone rosso, gettò indietro la testa e le lame dalla
punta affilata che aveva intrecciato in fondo alle sue ciocche scintillarono
nella soliluce.
Mia aprì e chiuse le mani vuote, l’ombra che tremava: tutta la fame, il
desiderio e l’energia ansante che provava quando si trovava vicino a Furian
affiorarono. Non si curò di prendere uno scudo: era comunque incapace di
usarlo. Messer Cortese ed Eclissi si ingrossarono nella sua ombra, balzando
sulle farfalle che cercavano di alzarsi in volo nel suo stomaco e uccidendole
una a una.
Sapeva che questo sarebbe stato il combattimento più duro di tutta la sua
vita.
Suonarono le trombe, zittendo la folla e facendo trasudare le mura stesse
di trepidazione.
«Un momento…» disse Furian, osservando il capitano della guardia.
«Dove sono le nostre spade?»
«Ci aspettano» rispose Mia piano. «Là fuori.»
«Cittadini di Itreya!» riecheggiarono le parole dell’editorii nel silenzio.
«Onorevoli administratii! Senatori e midollani! Vi presentiamo un incontro
speciale tra i Leoni di Leonides e i Falconi di Remus!»
Un mormorio eccitato si diffuse tra la folla.
«Questo incontro sarà combattuto ex mortium, nessuna resa, nessuna
pietà concessa. Il sanguila Leonides ha messo in palio un posto nel Venatus
Magni! Se i Falconi di Remus dovessero risultare vincitori, a sua figlia, la
sanguila Leona del Collegio Remus, sarà permesso di far partecipare i suoi
gladiatii ai grandi giochi di Godsgrave, a sei settimane da oggi.»
Il mormorio divenne un fragore sempre più forte.
«Entrando dal Cancello della Costa per i Falconi di Remus, vi
presentiamo Cantalame, la Mietitrice di Dweym! La Bellezza Sanguinaria e
Salvatore di Stormwatch, Corvo! E il Campione di Talia, l’Imbattuto in
persona, Furiaaaaan!»
La folla si alzò in piedi, ruggendo la sua approvazione. La saracinesca si
sollevò e, con un’ultima occhiata tra loro, i tre Falconi uscirono sulla
sabbia, scortati dalle guardie. Cantalame e Furian alzarono le mani in segno
di saluto e la folla lanciò urla come risposta, migliaia e migliaia. Mia si
accigliò e basta. Ricordò che non molto tempo fa quell’applauso aveva
entusiasmato la sua anima. Ora sapeva che non acclamavano lei, ma lo
spettacolo sanguinoso che forniva. Non aveva importanza chi vibrasse la
lama. Solo che ci fosse il collo di qualcun altro a incontrarla.
Voleva che tutto questo finisse, voleva che questa festa di sangue
terminasse, che Duomo e Scaeva morissero e che lei potesse trascorrere
mille anni in una sorgente calda per lavar via il sangue e la puzza…
La grande isola che aveva delimitato il percorso degli equillai era scesa
di nuovo sotto la superficie dell’arena grazie ai congegni mekana. La sabbia
davanti a loro era uniforme, color bianco sporco, striata di rosso fresco.
«Aspettate qui» ordinò il capitano della guardia. «Non muovetevi finché
non sarà l’editorii a comandarlo, o sarete squalificati.»
Le guardie tornarono alla saracinesca e li sigillarono dentro.
«Cosa ’bisso sta succedendo qui?» borbottò Cantalame.
«Rimanete dove siete» replicò Mia. «E preparatevi.»
«Sai qualcosa che non sappiamo, Corvo?» ringhiò l’Imbattuto.
«Furian» sospirò lei. «Le cose che io so e tu no potrebbero riempire il
fottuto Grande Sale.»
«Entrando dal Cancello della Torre per i Leoni di Leonides, vi
presentiamo un orrore proveniente dalle Montagne Spinadraco! Una reietta
tra la sua specie, il suo stesso nome significa morte nella lingua del
Dominio! Ecco a voi, Ishkah, l’Eeeeeeesule!»
Un mormorio meravigliato si diffuse tra la folla mentre la saracinesca
nella parete nord dell’arena si apriva stridendo. Dalle ombre comparve la
serica di Leonides, fiancheggiata da mezza dozzina di guardie. Era coperta
da una magnifica armatura dorata, con rifiniture verde smeraldo. Una pelle
di leone era drappeggiata sulle sue spalle, con la testa e la maestosa criniera
adattate attorno all’elmo. Mentre la folla prorompeva in acclamazioni, la
serica fece il suo ingresso nell’arena. Le guardie si allontanarono marciando
in formazione e la saracinesca si chiuse alle loro spalle.
Mia guardò il loro nemico dall’altro lato della sabbia mentre il vento
soffiava più forte, alzando la polvere. Ishkah era alta sette piedi, tutta
chitina scintillante e muscoli, le labbra dipinte di bianco nuvola. Si scrollò
di dosso la pelle di leone e le sei braccia si spiegarono come un fiore che
sbocciava. La sua pelle verde scuro scintillava nella soliluce mentre fissava
i suoi avversari con quegli occhi amorfi.
«Madre degli oceani» mormorò Cantalame. «È uno spettacolo.»
«Preparatevi e basta» disse Mia.
«Cittadini, ammirate!» gridò l’editorii. «Il vostro campo di battaglia.»
Un rombo profondo risuonò sotto le sabbie, lo stridore di ingranaggi
colossali. Il pavimento tremò, ma i compagni di Mia rimasero saldi mentre
una grande sezione del pavimento a forma di cuneo dove si trovavano
cominciava ad alzarsi. Piovve sabbia e Mia, guardando oltre il bordo, vide
l’enorme mekana lì sotto. Odorava di olio, zolfo e sale.
Altre parti della sabbia si stavano muovendo: l’intero suolo dell’arena si
suddivise in una serie di piattaforme a cuneo. Di altezze e dimensioni
diverse, le piattaforme cominciarono a ruotare lentamente attorno al
piedistallo centrale, girando, roteando e passando sopra e sotto ciascun’altra
come i pezzi a incastro di un enorme quadrante di orologio. Furian,
Cantalame e Mia si scambiarono occhiate e la Dweymeri bisbigliò una
preghiera a Trelene.
«Non si può dire che non sappiano come organizzare uno spettacolo»
borbottò Mia.
La folla esterrefatta stava esultando con quanto fiato aveva in corpo. Mia
e i suoi compagni ora si trovavano a una ventina di piedi dal livello del
suolo. Lei lanciò di nuovo un’occhiata nelle viscere mekana dell’arena:
scivolare giù avrebbe voluto dire ruzzolare in mezzo a quei grossi
ingranaggi cigolanti per essere ridotti in poltiglia tra denti metallici sporchi
d’olio.
«Armi!» urlò l’editorii.
La grande piattaforma circolare al centro dell’arena gemette e Mia vide
una dozzina di lame di lunghezze differenti sollevarsi dalle sabbie con l’elsa
verso l’alto. C’erano spade corte, spade lunghe e le crudeli scimitarre
ricurve preferite dall’Esule. Tutte quante erano nere, affilate come rasoi e
scintillanti nella soliluce.
«Dobbiamo correre a prendere le nostre spade?» borbottò Cantalame.
«Già» annuì Mia. «Ma attenti: sono fatte tutte quante di ossidiana, non
d’acciaio. Saranno affilate come vetro, ma fragili. Potrete vibrare solo pochi
fendenti prima che siano inutili. Parate con gli scudi, non con le lame.»
«Come lo sai?» domandò Furian.
«Ha dannatamente importanza?» ringhiò lei. «Facciamola finita e basta.»
«Niente stregoneria, Corvo» la ammonì lui. «Vinceremo questo alloro o
una morte gloriosa.»
Cantalame spostò lo sguardo tra i due. «Prevalere assieme o cadere da
soli, ricordi?»
«Gladiatii!» urlò l’editorii. «Preparatevi!»
Mia si contrasse come una molla, gli occhi su un paio di spade gemelle
al centro dell’anello.
«Buona fortuna, sorella» disse Cantalame. «Fratello. Che la Signora
degli oceani vi protegga.»
«Sì» annuì Furian. «Aa vi benedica e vi preservi, Tsana guidi le vostre
mani.»
Mia sbatté le palpebre per scacciare il sudore dagli occhi. La folla era
come un tuono nelle sue orecchie. Guardò tra la calca irrequieta, in cerca di
una ragazza con capelli rossi tinti e occhi azzurri come cieli riarsi dai soli.
La sua ombra tremava alle estremità, fluendo come acqua verso quella di
Furian.
«Che la Madre vegli su di noi» sussurrò lei.
«Gladiatii!» tuonò l’editorii. «Iniziate!»
Mia partì di scatto, più veloce che poteva. Aveva il respiro che le
bruciava nei polmoni e lo sguardo fisso su quelle spade mentre la serica
scattava verso di loro dall’estremità opposta dell’arena tra il boato della
folla. Cantalame caricò solo a pochi passi dietro di lei, le lunghe gambe che
si muovevano fluide, Furian a chiudere la fila.
Mia raggiunse il bordo della loro piattaforma e superò con un balzo lo
spazio fino alla successiva. Il cuneo si mosse sotto i suoi piedi, girando in
senso orario, con quegli ingranaggi colossali che stridevano così vicino. La
sabbia scrocchiò sotto i suoi stivali e lei balzò verso l’ordine successivo di
cunei più piccoli, avvicinandosi al cuore dell’arena. Teneva gli occhi sulla
serica, che correva veloce diretta a quelle scintillanti lame nere. Provò un
tuffo al cuore quando si rese conto che…
“… ci arriverà per prima.”
Mia si protese tra le piattaforme semoventi, le sabbie mulinanti, gli
ingranaggi poderosi. La sua ombra tremò quando afferrò quella della serica
e la impigliò nei suoi stivali. Ishkah sibilò, barcollando momentaneamente
mentre Mia scattava verso il piedistallo centrale. Ma, con un’imprecazione,
percepì la sua stretta sulle ombre interrompersi e i piedi di Ishkah liberarsi.
“Fottuto Furian…”
«Niente stregoneria!» urlò lui alle sue spalle.
Ishkah raggiunse la piattaforma centrale: sei mani serpeggiarono in fuori
e afferrarono le else di sei crudeli scimitarre ricurve. La folla ruggì quando
la soliluce scintillò sull’ossidiana. La serica ruotò proprio nell’istante in cui
Mia balzò sul piedistallo, e tre delle sue lame brillarono fendendo l’aria,
dirette verso la gola di Mia. Con un rantolo, la ragazza si tuffò a sinistra,
colpì la sabbia con la spalla e rotolò sotto le lame fischianti e dietro Ishkah.
E con un sussulto, Mia afferrò due spade e le strappò via.
Si voltò proprio mentre Ishkah colpiva, le lame indistinte. Mia non osò
parare quei fendenti filo contro filo: l’ossidiana poteva frantumarsi se
colpita all’angolo sbagliato, e Ishkah aveva spade in abbondanza. Invece
danzò via tra la sabbia che volava, torcendosi a sinistra e a destra e
piegandosi all’indietro, allungando la spina dorsale. Uno dei colpi le passò
di poco sopra il mento. Ruzzolando all’indietro, rotolò in posizione
accucciata al bordo della piattaforma, ondeggiando in modo precario sopra
un mare semovente di ingranaggi di metallo stridenti.
Cantalame ruggì e andò a sbattere contro Ishkah da dietro: il suo scudo
impattò contro la schiena della serica e la sbalzò da terra. Ishkah cadde in
avanti, giù dalla piattaforma, finendo su una che passava lì sotto e rotolando
di nuovo in piedi. Quei pallidi occhi amorfi scintillarono nel vedere Mia
riacquistare l’equilibrio e Cantalame afferrare una spada lunga di ossidiana.
Ishkah fece qualche passo verso Furian, ma lui era troppo lontano, stava
volteggiando finalmente sul piedistallo centrale e ghermendo un’altra spada
di ossidiana. L’Imbattuto sollevò la sua lama in aria e la folla esultò in
risposta. La corsa era finita, tutti i contendenti armati. Ora la battaglia
poteva cominciare sul serio.
Ishkah spalancò le braccia, disponendo le scimitarre in un ventaglio
scintillante, e senza emettere un suono balzò di nuovo sul piedistallo
centrale. I tre Falconi si mossero per andarle incontro e Mia fu la prima a
scattare in avanti, rapidissima, con un colpo basso. Cantalame attaccò a
mezza altezza, proteggendo Mia con lo scudo, mentre Furian vibrava un
fendente verso la testa della serica. Ishkah si mosse con grazia stupefacente,
scivolando via dai colpi di Cantalame e Mia. Ma mentre sollevava una delle
sue lame per contrapporsi a Furian, l’impugnatura andò in frantumi come
ghiaccio sottilissimo.
La serica si riprese, tagliando l’aria con le scimitarre. Assestò un calcio
violento contro lo scudo di Cantalame, facendo perdere l’equilibrio alla
donna, più piccola di lei. Le sue spade aprirono un taglio superficiale sul
braccio di Furian. Una delle sue lame passò con un fischio accanto alla gola
di Mia e le scalfì la corazza, lasciando un ampio taglio nel cuoio. Prendendo
un respiro, Ishkah socchiuse quelle labbra bianco nuvola in un ringhio e
sputò una nube di veleno verde brillante dritto in faccia a Mia.
«… attenta…!»
Mia sussultò, ruotando disperatamente e voltando la testa. Il liquido
colpì il lato del suo elmo in uno schizzo denso. Quando toccò il metallo, il
veleno sfrigolò, corrodendo il ferro come una lama calda nella neve. Mia
rotolò fuori portata, strappandosi l’elmo via e sbattendo forte le palpebre.
Non le era arrivato nulla su occhi e pelle, ma Dea, c’era andato vicino…
L’Imbattuto contrattaccò con un urlo furibondo, calando la sua spada in
un brutale attacco a due mani. Ishkah sollevò due lame e le incrociò, ma le
spade si frantumarono semplicemente contro quella dell’Imbattuto. Mia si
schermò gli occhi dalle schegge di ossidiana mentre la serica sibilava dalla
frustrazione. Cantalame vibrò la propria spada, ma il suo colpo rimbalzò
contro l’armatura di Ishkah. Mentre Mia si rialzava, Furian percosse Ishkah
con il suo scudo, costringendola a indietreggiare verso il bordo della
piattaforma mentre un’altra delle sue scimitarre si infrangeva sull’armatura
di Cantalame. Mia effettuò un affondo, fintando in alto e colpendo in basso,
e la folla esultò quando ferì la serica alla coscia. Sangue verde schizzò sulla
sabbia e schegge di ossidiana volarono nell’attimo in cui Ishkah parò una
delle lame di Mia facendola finire per terra e pestandola con lo stivale.
Vibrò la sua scimitarra e Mia rotolò di lato mentre la quarta lama della
serica si frantumò sul terreno.
La lama di Furian era ancora intatta, a Mia ne restava una, e quella di
Cantalame era fratturata solo di poco. A Ishkah restavano due scimitarre e
tre nemici. Colpì simultaneamente, costringendo i Falconi a indietreggiare,
l’aria percorsa da un sibilo al passaggio delle sue armi. Furian era sulla
difensiva, respingendo con il suo scudo dove poteva. Cantalame e Mia
combattevano fianco a fianco: la donna intercettò uno dei colpi di Ishkah
sul suo scudo e deviò la spada contro il terreno, spezzandola in due. Ishkah
colpì con la sua ultima lama e l’impugnatura spezzata di un’altra, gli
attacchi che fischiavano in direzione della pancia e della gola di Cantalame.
Furian bloccò il colpo alto con lo scudo. Mia parò quello basso, rompendo
l’ultima lama di Ishkah all’impugnatura. Con un grido di guerra furibondo,
Cantalame caricò, centrando la serica nella pancia con lo scudo e
sbalzandola all’indietro giù dalla piattaforma. Ishkah emise un suono
schioccante di disperazione, afferrando l’orlo di una piattaforma di
passaggio per interrompere la sua caduta e trascinandosi su, al sicuro.
I tre Falconi rimasero assieme, ansimando per riprendere fiato. La serica
ruotò attorno al piedistallo centrale della sua piattaforma, gli occhi amorfi
fissi sui loro. Impugnava ancora le else delle sue spade rotte, con gli occhi
pallidi fissi sulle armi dei suoi nemici. L’ossidiana era fragile, ma non
avrebbe dovuto essere così fragile. Anche se le armi dei Falconi erano
scheggiate e graffiate, le scimitarre di Ishkah si erano dimostrate delicate
come foglie autunnali. Quasi come se…
Come se…
Un sorriso lento incurvò le labbra di Mia.
«Sembra turbata.»
«… la vipera c’è riuscita, allora…»
«Vorrei che non la chiamassi così.»
Mia arrischiò un’occhiata tra la folla e il suo cuore si gonfiò nel petto,
cercando ancora una volta tra gli spettatori capelli rosso sangue e un paio di
graziosi occhi azzurri. Non immaginava davvero che la mistura che aveva
concepito – una parte di acido calcitico, due parti di ossido borico – si
sarebbe rivelata così efficace sulle armi della serica. Non sapeva se Ashlinn
sarebbe stata tanto scaltra o rapida da intrufolarsi nelle viscere dell’arena e
cospargere le scimitarre di Ishkah con la soluzione prima dell’inizio
dell’incontro. Ma guardando le lame in frantumi tra le mani della serica e la
spada relativamente illesa nelle sue, seppe che in qualche modo Ash c’era
riuscita. La serica era praticamente disarmata e ora, perfino con il veleno e
quella velocità spaventosa, la bilancia tra loro era quasi pari.
La folla ruggì, spronando i Falconi a uccidere.
Furian guardò accigliato Mia. «Questo incontro si rivela più facile di
quanto chiunque supponesse.»
«Ma pensa!» replicò Mia.
«Corvo…» ringhiò Furian.
Mia guardò l’Imbattuto di sottecchi e ammiccò.
«Basta parlare» sbraitò Cantalame. «Sbudelliamo questa cagna orrenda.»
I Falconi alzarono le loro armi e si prepararono a caricare.
«Lame!» urlò l’editorii.
Mia udì un rombo e si voltò verso una piattaforma al margine dell’arena.
Ebbe un tuffo al cuore quando la sabbia tremò e dieci nuove lame di
ossidiana si sollevarono dal terreno.
«Merda…» mormorò.
«… suppongo che tu e la vipera non sapeste di quelle…»
«Merda, merda, merda.»
«… oh, questo è meeeeeraviglioso…»
La folla esultò quando Ishkah scattò verso le spade nuove, balzando da
una piattaforma semovente all’altra. Mia partì all’inseguimento e i suoi
compagni scattarono dietro di lei. Le piattaforme giravano e roteavano, una
grande danza mekana che era difficile da valutare, con il sudore che faceva
bruciare gli occhi a Mia.
Supponeva che Ashlinn avrebbe dovuto sospettare dell’esistenza di piani
di riserva nel caso in cui ogni contendente avesse rotto la propria lama, ma
ora non c’era tempo per lamentarsene: quelle nuove scimitarre non erano
state indebolite dalla sua mistura. Se Ishkah ci avesse messo le mani, lo
scontro sarebbe stato letteralmente ad armi pari, e quello non poteva
accadere. Ma mentre correva, Mia si rese conto con un tuffo al cuore che la
serica avrebbe nuovamente raggiunto le lame prima di lei.
«Furian?» rantolò.
«No!» sbraitò l’Imbattuto, balzando sopra un abisso rombante.
Sputando polvere dalla bocca mentre scuoteva il capo e malgrado il
calore bruciante dei due soli nel cielo, si protese comunque verso l’ombra di
Ishkah. L’avvertì nella sua stretta, fredda e tenebrosa, scivolare su come
serpenti per attorcigliarsi attorno ai piedi di Ishkah. La serica barcollò e
cadde in ginocchio; l’elmo le ruzzolò via dalla testa e cadde tra i mekana
sottostanti. Ma con una sensazione netta e lacerante, Mia scoprì che la sua
stretta veniva strappata via e la tenebra le scivolò tra le dita.
«Stronzo fottuto, dannazione a te!» inveì, il volto distorto.
«La vittoria si conquista!» urlò Furian in risposta. «Non si ruba!»
Ishkah raggiunse le spade, lanciando le sue lame spezzate nell’abisso ed
estraendone sei tutte nuove: stavolta erano lame lunghe, non scimitarre. Si
voltò per affrontare i tre quando si precipitarono e balzarono sulle
piattaforme verso di lei: era uno spettacolo magnifico, le lame che
fischiavano per l’aria in un motivo quasi ipnotico. Mia raggiunse per prima
la piattaforma, rotolando e scagliando una manciata di sabbia in faccia a
Ishkah. Aveva solo una spada, così quando la serica barcollò all’indietro
sfregandosi gli occhi, Mia si tuffò verso le lame rimaste per prenderne una
seconda e rimpiazzare la prima. Rotolò di lato quando le spade della serica
colpirono la sabbia e la folla emise un rantolo quando il suo stivale andò a
sbattere contro le costole di Mia. L’impatto fu fragoroso e Mia sentì le sue
costole incrinarsi e un fuoco ardente diffondersi nel petto. Con la saliva che
spruzzava dalle sue labbra, il volto di Mia si contorse vedendo Ishkah
sollevare la sua lama e…
Crac! Cantalame scagliò lo scudo in pieno volto della serica. Ishkah
strillò barcollando e il pubblico impazzì nel vedere che il bordo dello scudo
le aveva colpito uno degli occhi, frantumandolo come un guscio d’uovo.
Fluido verde colava dalla ferita mentre Mia si trascinava in piedi con un
ansito dolente e ghermiva un nuovo paio di lame. Cantalame superò il
baratro e Ishkah striiiiillò, ma la Dweymeri sollevò la sua lama crepata per
opporsi alla carica.
La spada di Cantalame andò in pezzi al primo colpo e la serica infuriata
le inflisse ferite profonde alla spalla, frantumando una delle sue armi sul
lato dell’elmo di Cantalame. La donna cadde in ginocchio, frastornata. Ma
mentre Ishkah sollevava le sue lame per darle il colpo di grazia, giunse
Furian, balzando oltre il divario con un urlo e andando a sbattere con lo
scudo contro la sua avversaria. I due caddero a terra in un intrico di arti e lo
scudo di Furian slittò lungo il terreno.
L’Imbattuto era a cavalcioni sulla serica, le dita agganciate nella sua
orbita sanguinante, calando le nocche sulla sua faccia più e più volte.
«Fottuta puttana!» Crac! «Sai chi sono io?» Crac! «Sono l’Imb…»
Ishkah stridette e sputò veleno. Il liquido biliare verde schizzò sul
pettorale di Furian e su per la gola scoperta. L’uomo urlò quando iniziò a
bruciare. Cadde all’indietro, artigliandosi il collo e rotolando nella sabbia
tra le urla della folla. Ishkah si rialzò in piedi con un ringhio gorgogliante,
raccolse le sue lame e le sollevò sopra la testa per finirlo.
La spada di Mia guizzò, deviando il colpo di Ishkah. La serica
contrattaccò, crepando la spada di Mia all’altezza dell’elsa e portando un
assalto diretto alla sua testa. La ragazza ripiegò, lanciando un urlo quando il
colpo le fendette la fronte, aprendole la guancia e riempiendole gli occhi di
sangue. Barcollando all’indietro, cadde su un ginocchio e Ishkah le assestò
un nuovo calcio brutale nel petto, facendo ardere incandescente il fuoco
nelle costole rotte di Mia. Senza fiato, lei ruzzolò all’indietro lungo il
terreno, riuscendo a malapena a fermarsi prima di precipitare dal bordo
della piattaforma.
Con un urlo informe, Cantalame sferzò il collo e le sue lunghe
salciocche falciarono l’aria. Le lame affilate che aveva intrecciato in fondo
alle trecce lacerarono la faccia di Ishkah e i suoi avambracci. Cantalame
caricò con una spada in ciascuna mano, impegnando la torreggiante serica
in un corpo a corpo sopra la sagoma prona di Furian. Le sue lame
tagliavano l’aria, fischiando, roteando, cantando, frantumando una delle
armi di Ishkah e conficcandosi a fondo nel fianco della serica. Cantalame
torse il polso, mandando in pezzi la spada di ossidiana dentro la ferita, tra
uno schizzo di sangue verde. Ishkah strepitò, affondando a sua volta e
aprendo l’avambraccio di Cantalame fino all’osso quando lei cercò di
deviare il colpo. Un pugno vuoto percosse la faccia della donna, una lama
falciò l’aria diretta alla sua gola e, mentre Cantalame si abbassava, la serica
alzò il ginocchio contro la faccia della sua avversaria.
Ci fu uno scrocchio di ossa e la spina dorsale di Cantalame si inarcò
quando lei volò all’indietro, l’elmo sbalzato via dalla testa e il naso ridotto
in poltiglia. Tenendosi le viscere lacerate con una mano, Ishkah proseguì,
dando un calcio brutale nel plesso solare della donna e facendola rotolare
lungo la piattaforma. Mia si alzò in piedi con il sangue che le colava dalla
guancia spaccata, rantolando quando si rese conto che Cantalame stava per
precipitare oltre il bordo.
«… MIA, NO …!»
Era stupido. Da idioti, in effetti. Qui l’obiettivo era la vittoria, non
l’eroismo, e Cantalame non era sua amica. Ma con un urlo disperato, Mia si
lanciò lungo la piattaforma, conficcò l’unica spada che le era rimasta nella
sabbia e afferrò il polso di Cantalame. Quella urlò quando finì oltre il
bordo, trascinando con sé Mia. La ragazza gridò mentre arrestava la loro
caduta, tenendo stretta Cantalame con una mano e l’elsa della spada con
l’altra, mentre nel suo petto sbocciava il fuoco delle costole rotte. La folla
ruggì dallo stupore, il volto di Mia contorto per la sofferenza. Le sue costole
erano premute contro il lato della piattaforma, mentre dieci piedi più in
basso quegli ingranaggi colossali ruotavano per far continuare quella
rivoluzione attorno al cuore dell’arena. La sua stretta era scivolosa per il
sangue, il suo corpo madido di sudore.
«Reggiti!» urlò.
Cantalame ansimò di dolore, il volto una poltiglia insanguinata. Lanciò
un’occhiata in basso, verso i mekana semoventi, poi alzò lo sguardo su Mia,
scuotendo il capo.
«Lasciami andare!»
«Sei matta? Arrampicati!»
«Sono troppo pesante, esile merdina! Lasciami andare!»
«Prevalere assieme o cadere da soli!»
Ishkah era in ginocchio, due mani premute sulla ferita orribile che
Cantalame le aveva inciso nel fianco, icore verde che le colava dall’occhio
a pezzi, la faccia sfregiata. Con le fattezze distorte, raspò nella polvere e
afferrò una spada caduta. Poi, con la forza di una montagna e la folla che
mormorava stupefatta, lei si alzò.
«Uccidi!» ruggì la folla. «Uccidi!»
«Oh merda…» mormorò Mia. «Cantalame, arrampicati!»
Ishkah cominciò ad avanzare verso di lei, la soliluce che scintillava sulle
sue spade. Mia sussultò, cercando di mantenere la stretta mentre Cantalame
si tirava su. Le sue costole stavano urlando, la faccia pulsava, i denti erano
stretti per il dolore. Le sue mani erano occupate: non poteva afferrare le
ombre, non poteva protendersi verso la tenebra come aveva fatto così tante
volte…
«… mia, guarda…!»
Oltre la serica, che avanzava lentamente, Furian si stava agitando. Si
tolse l’elmo, la carne di mento, mascella e gola una devastazione
gorgogliante e terribile, il respiro che gli sbatacchiava il petto. Le urla della
folla divennero un canto, un ritmo, pulsando con ogni battito del suo cuore.
«Uccidi! Uccidi Uccidi!»
«Furian!» urlò Mia.
L’Imbattuto alzò gli occhi e vide Cantalame cercare di alzarsi dalla
spalla di Mia, la faccia della ragazza macchiata di sangue e la serica solo a
pochi passi di distanza dall’eliminarli entrambi.
«Furian!» ruggì Mia. «La tenebra!»
Ishkah ringhiò, i denti come aghi snudati mentre veniva avanti.
«Uccidi! Uccidi! Uccidi»
«Fallo!» urlò Mia.
Cantalame si trascinò su oltre il bordo e allungò una mano verso Mia.
Ishkah sollevò la sua lama, solo a due passi di distanza. E con le dita
ripiegate e mostrando i denti in una smorfia, l’Imbattuto si protese verso
l’ombra sotto di lei e aggrovigliò i piedi della serica.
Ishkah barcollò, sibilando in preda alla confusione. La folla smise di
cantilenare e trattenne il fiato. Mia si tirò su oltre il bordo della piattaforma,
il volto distorto dall’agonia. Furian rantolò, crollando prono mentre perdeva
la sua stretta sulla tenebra, ma Ishkah si avvicinò e fendette Cantalame sulla
schiena, tagliando il cuoio e facendo sprizzare sangue. Cantalame crollò
con un urlo e, con un rantolo disperato, Mia afferrò la sua spada di
ossidiana dal terreno, poi ruotò via dall’arma di Ishkah e tranciò il braccio
della serica all’altezza del gomito.
Ishkah urlò, zampillando sangue verde. La folla era in delirio, urlando la
propria furia. Mia si torse, abbassandosi per tagliare la gamba della serica e
portandola in ginocchio. L’arena eruppe, il suono assordante, settantamila
voci che si levavano sempre più forti: «Uccidi! Uccidi! Uccidi!», i soli che
ardevano in cielo, il sangue che le pulsava nelle vene, il cuore che le
martellava nel petto mentre Mia urlava e vibrava la sua spada a due mani
con tutta la forza, tutta la furia, tutto il dolore, spiccando la testa di Ishkah
dalle spalle.
Sprizzò sangue che macchiò Mia di caldo verde appiccicoso. Il corpo di
Ishkah tremolò e sei braccia si contrassero mentre crollava giù dal bordo
della piattaforma verso gli ingranaggi stridenti lì sotto. Mia sussultò a
quello scrocchio gorgogliante e distolse lo sguardo, l’ossidiana insanguinata
ancora stretta in mano.
Tuttavia…
“… ce l’ho fatta.”
Squillarono le trombe, chiare e argentine, e le piattaforme si fermarono
con un tremito. La voce dell’editorii sovrastò il ruggito della folla pazza di
sangue, rimbombando sulle pareti dell’arena.
«Cittadini di Itreya! I vostri vincitori! I Falconi di Remus!»
La folla impazzì, il suo applauso assordante. Cantalame barcollò in
piedi, il volto illuminato di dolore e trionfo, il sangue che le colava dalle
ferite. Tuttavia sorrise, gettando il braccio sano attorno alla spalla di Mia e
baciandole la mano insanguinata.
“Noi ce l’abbiamo fatta…”
Voltandosi, Cantalame afferrò la mano di Mia nella sua e la alzò al cielo,
urlando alla folla.
«Qual è il suo nome?»
«Corvo!» tuonarono.
«Qual è il suo nome?»
Piedi pestavano, mani applaudivano, la parola riverberava per le sabbie.
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
Mia guardò la spada insanguinata che aveva in mano. Poi Furian,
raggomitolato per terra in una palla, le mani alla gola straziata. Sollevò gli
occhi sul palco dei sanguila e vide Leona in piedi, lo sguardo orripilato
fisso su Furian. Arkades era accanto a lei, le mani sollevate in un applauso
misurato.
Mia pensò a Godsgrave, al Venatus Magni, al posto che la sua vittoria
adesso aveva assicurato. Pensò a Bryn, a suo fratello morto che aveva
cullato tra le braccia mentre piangeva. Pensò a suo padre, che le teneva le
mani mentre la faceva piroettare in qualche luccicante sala da ballo, i piedi
di Mia sopra i suoi mentre ballavano. A sua madre, che la costringeva a
guardare mentre lo impiccavano, mentre sussurrava le parole che avrebbero
plasmato Mia per sempre, quando la speranza che i bambini respirano e gli
adulti rimpiangono avvizzì e si staccò, fluttuando come cenere nel vento.
«Mai tirarsi indietro. Mai avere paura. E mai, mai dimenticare.»
“Qual è il mio nome?”
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
“Qual è il mio nome?”
«CORVOCORVOCORVOCORVO!»
Un piacere oscuro nelle sue viscere.
Sangue caldo sulle sue mani.
Mia chiuse gli occhi.
Sollevò la sua lama.
“O Madre, Madre nera, cosa sono diventata?”
LIBRO 3
IL GIOCO
CAPITOLO 25
MARCIO
«Tenetelo fermo!»
«Dio onnipotente, brucia!»
«Tenetegli le gambe, dannazione a voi!»
«Aa, aiutami! Aiutami!»
Mia sedeva in un angolo buio della cella, le costole che bruciavano e uno
straccio zuppo di sangue tenuto contro la guancia ferita. Poteva percepire
l’adrenalina dello scontro guastarsi nelle sue vene, le mani tremanti. Sopra,
la folla esultava, con l’Ultimae in pieno svolgimento, e la pietra sotto di lei
riverberava per la furia dell’incontro finale. Cantalame era seduta lì
accanto, il braccio fasciato con un panno intriso di sangue e Mia che le
premeva una banda fradicia contro la ferita frastagliata sulla schiena.
Entrambe avevano bisogno di punti, il sangue che si addensava sulla pietra
attorno a loro. Ma le mani di Verme erano fin troppo occupate.
«Legatelo!» ordinò la ragazza. «Sta solo peggiorando le cose!»
Furian urlò di nuovo, tremante, con tutto il fiato che aveva in corpo, il
suo dolore che riecheggiava per le viscere dell’arena. Era steso su una lastra
di pietra, con l’executus e tre delle guardie di Leona che cercavano di
tenerlo fermo. Aveva la carne di gola, mascella e petto ricoperta di vesciche
che rilasciavano umori per il tocco del veleno della serica. Sembrava
impazzito per la sofferenza, i muscoli di braccia e torace tesi mentre
gridava.
Domina Leona era in piedi presso la porta, lo sguardo inorridito.
«Onnipotente Aa…» sussurrò.
«Legatelo!» gridò di nuovo Verme.
Arkades chiuse dei pesanti ceppi di ferro attorno alle braccia, i piedi e la
vita di Furian, fissandolo alla lastra. Ma l’Imbattuto continuava a dibattersi,
escoriandosi polsi e caviglie contro i ferri e sbattendo la nuca sulla pietra.
Mia aveva visto il dolore in precedenza: la flagellazione di sangue nella
Montagna, la sua marchiatura in quella cella ai Giardini Pensili. Ma non
aveva mai visto un’agonia del genere in tutta la sua vita.
«Devi sedarlo, Verme» disse lei.
«Non ho sonnolerba!» urlò la ragazzina, indicando uno scrigno di erbe e
medicamenti. «Si è tutto guastato sulla strada fin qui!»
«Hai del Deliquio?»
«L’ho usato tutto su Macellaio!»
«Quattro Figlie» imprecò Leona. «Ne hai portato solo un ditale?»
«Con tutto il rispetto, Dominatii, ma non mi date soldi per fare scorte da
mesi!»
«Be’, devi fare qualcosa!» urlò Leona. «Ascoltalo!»
Furian urlò di nuovo, la bocca spalancata, la gola che gli sanguinava per
lo sforzo. Con un sussulto per le sue costole incrinate, Mia si alzò e zoppicò
fino allo scrigno delle erbe di Verme. Con le dita appiccicose per il sangue,
frugò tra le fiale, i barattoli di polveri e liquidi, tutte le lezioni dell’aula di
Ammazzaragni che le ronzavano nella testa.
«Cosa ’bisso stai facendo?» ringhiò Arkades.
Mia ignorò l’executus e passò a Verme mezza dozzina di barattoli.
«Macina la cotennerba con la testa-di-vergine, aggiungi un pizzico di
onniradice e miscela con dell’aureovino.»
«No» si accigliò Verme. «L’alcol calcificherà la testa-di-ve…»
«Questo è il motivo per cui serve la motafoglia» la interruppe Mia.
«Mettila in infusione nel… anzi, lascia fare a me. Tu vai a mettere i punti a
Cantalame. Sta sanguinando su tutto il fottuto pavimento.»
«Corvo?» chiese Leona.
Mia si voltò verso la donna presso la porta. «Fidatevi di me, Dominatii.»
Leona guardò in direzione di Furian, che si contorceva ancora per
l’agonia. Annuì con gli occhi colmi di lacrime e Mia si mise al lavoro per
miscelare il suo intruglio. Verme prese ago e filo di seta e si mise all’opera
per suturare l’orrenda ferita sull’avambraccio di Cantalame. L’arma della
serica aveva tagliato la donna fino all’osso, e il sangue scorreva come vino
a buon mercato a una festa della veraluce. Cantalame strinse i denti e fissò
gli occhi sull’Imbattuto.
«Puoi salvarlo?»
«Posso farlo dormire» replicò Mia. «Executus, mi occorre la vostra
fiaschetta.»
Arkades sollevò un sopracciglio quando Mia protese una mano
insanguinata.
«Il vostro aureovino, ora!»
Arkades mise una mano nella tunica e tirò fuori la sua fiaschetta
d’argento. Mia versò la sua mistura nell’alcol e la agitò per bene.
Furian stava ancora sgroppando, urlando e implorando. Quando Mia si
avvicinò, la fiasca in mano, l’ombra dell’uomo iniziò ad allargarsi sulla
pietra, protendendosi verso la sua. Fu solo la luce fioca della cella e la scena
drammatica che si svolgeva sulla lastra a impedire che qualcuno lo notasse
subito. Mia si mosse rapidamente, spintonando via una delle guardie.
L’ombra dell’Imbattuto si fuse nella sua: tutta la nausea, la fame che
provava quando si trovava vicino a lui le montò nell’esofago fino a farla
quasi vomitare. Barcollò e per poco non lasciò andare la fiasca, ma Arkades
la afferrò per le spalle per impedirle di cadere.
“Madre Nera, posso sentirlo…”
«Stai bene?»
“… come se fosse una parte di me.”
«Tenetegli la b-bocca aperta» disse Mia.
Il dolore per la guancia spaccata e le costole rotte era terribile, ma ne
provava un altro anche nella gola e nel petto: era come se l’agonia di Furian
si stesse in qualche modo trasferendo dentro di lei, peggiorando quella già
esistente.
«Furian, devi bere!» urlò Mia. «Mi senti?»
Un lamento gorgogliante di dolore fu la sua unica risposta, così Mia
rovesciò la fiasca nella bocca dell’uomo. Lui borbogliò, cercando di sputar
fuori la dose, ma Mia gli serrò la mano sulle labbra piene di vesciche e
ruggì: «Inghiotti!».
Furian sgroppò, tendendosi contro i ceppi, con le lacrime che gli
sgorgavano dagli occhi. Ma alla fine fece come ordinato e la sua gola
straziata andò su e giù quando bevve quell’intruglio bruciante. Ci vollero
alcuni minuti perché facesse effetto: Mia non stava lavorando con gli
ingredienti più adatti, dopotutto. Ma lentamente i movimenti dell’Imbattuto
rallentarono, le sue urla divennero gemiti e infine, dopo quella che sembrò
un’eternità nelle viscere poco illuminate sotto quella sabbia insanguinata,
gli occhi iniettati di sangue di Furian sfarfallarono e si chiusero.
Mia cadde in ginocchio, i capelli appiccicati alla fronte, la testa che
ondeggiava.
«Dove hai imparato a farlo?» chiese Verme stupefatta.
Mia chinò il capo, la vista ballonzolante.
«… Corvo?» chiese Leona.
«… mia…?»
«…MIA …?»
Sangue sulle sue mani, nei suoi occhi, il sapore della medicina amara che
non aveva mai bevuto sulla sua lingua. Abbassò lo sguardo sulla propria
ombra. L’ombra che sarebbe dovuta essere abbastanza scura per tre. Ma
mentre la stanza ondeggiava davanti ai suoi occhi, mentre il dolore delle sue
ferite e il trauma dell’ordalia nell’arena e le agghiaccianti conseguenze si
levavano per far passare un velo nero sopra i suoi occhi, se ne accorse…
“Abbastanza scura per quattro…”
«Mia…?»
Si svegliò nella stiva di una nave, il cigolio delle travi sopra di lei e lo
sciabordio delle onde tutt’attorno. Quando aprì gli occhi, avvertì un tocco
fresco e delicato sulla nuca, un sospiro di sollievo sussurrato al suo
orecchio.
«… finalmente…»
L’amaca su cui era distesa rollava e beccheggiava, la sua bocca era secca
come polvere. Luce sgargiante filtrava attraverso un piccolo oblò di vetro,
da cui poteva intravedere due azzurri; quello brillante riarso dai soli e
quello intenso dell’oceano. Le bruciavano le costole come un fuoco
morente. Mia si portò una mano alla faccia e tastò una benda su guancia e
fronte, incrostata di sangue secco.
«Non toccarla» giunse una voce. «Guarirà meglio se la lasci stare.»
Mia alzò lo sguardo e vide Verme, gli occhi scuri e il sorriso grazioso.
Aleggiava sopra Furian, che dondolava in un’amaca accanto a lei.
Lanciando un’occhiata alla propria ombra, Mia vide che quella di Furian a
quanto pareva l’aveva lasciata mentre erano addormentati. Tuttavia
perdurava il senso di nausea, il dolore di una parte mancante di se stessa che
le cresceva nel petto.
Prese un respiro profondo, facendo segno in Senzalingua affinché solo
Messer Cortese potesse capire.
Dove?
«… la mastino glorioso…» giunse il sussurro in risposta. «… diretta a
crow’s nest…»
Eclissi? Ashlinn?
«… ci stanno seguendo, distanti solo una manciata di cambi…»
Furian?
«… non bene…»
Mia annuì fra sé, guardandosi attorno nella cabina. Non era mai stata
lassù, prima d’ora: ogni viaggio precedente l’aveva passato rinchiusa nella
stiva. La stanza era ingombra, uno scrigno pieno degli strumenti e delle
erbe di Verme e alcune casse di legno come uniche decorazioni. Tre amache
pendevano dal soffitto, Mia nel mezzo. Cantalame era alla sua sinistra,
pancia in sotto, gli occhi chiusi, il braccio che reggeva la spada e la schiena
avvolti in bende insanguinate. Alla sua destra, il campione del Collegio
Remus giaceva privo di sensi, zuppo. Torace e gola di Furian erano cosparsi
di un unguento verdastro, ma le ferite causate dal veleno della serica
sembravano ancora tremende. Sopra gli odori di acqua di sentina, mare e
sudore, Mia riusciva a fiutare gli inizi di una forte decomposizione in stadio
avanzato.
Verme le portò una tazza d’acqua fresca alle labbra e Mia bevve tutto
quello che le veniva dato nonostante il dolore, tirando un sospiro di
sollievo.
«Cantalame…» esordì, umettandosi le labbra secche. «C-come sta…»
«Se la passa bene» sussurrò Verme, per non disturbare gli altri che
dormivano. «I tendini e il muscolo del braccio hanno subito un brutto
taglio. Ma è stata suturata nel migliore dei modi. Credo che se la caverà.»
«E… F-Furian?»
Verme sospirò, esaminando l’Imbattuto. «Non così bene. L’infezione sta
prendendo piede, e temo che degenererà in sepsi del sangue. Mi occorre
riportarlo a Nest.»
«Navighiamo quanto più velocemente consentono lady Trelene e lady
Nalipse.»
Mia alzò lo sguardo e vide Domina Leona sulla soglia, gli occhi fissi
sull’Imbattuto. Al suo fianco c’era la magistrae, sempre a disposizione.
Come al solito, l’aspetto della magistrae era immacolato, ma Mia fu
sorpresa nel vedere la piega che aveva assunto Leona. Di solito la domina si
vestiva come se dovesse frequentare un salotto elegante, ma ora indossava
solo una semplice camicia da notte bianca. Mia riuscì a vedere che le sue
unghie erano rosicchiate fino alla carne viva. Nella mano destra reggeva il
torque d’argento che una volta cingeva il collo di Furian. Il metallo era stato
lievemente fuso dal veleno della serica.
«Dominatii» annuì Mia.
«Mio Corvo» rispose la donna. «Mi rincuora vederti sveglia.»
Mia si mise a sedere con un sussulto, la testa che ondeggiava. Si sentiva
la guancia gonfia e poteva avvertire il pizzicore delle suture sulla pelle. Con
le costole doloranti, prese una seconda coppa da Verme e la bevve fino a
svuotarla.
«P-per quanto tempo ho dormito?»
«Tre cambi dal tuo trionfo» disse Leona.
«È nostro, allora?» chiese, con un fremito allo stomaco. «Il magni?»
«Sì» rispose la domina, entrando nella stanza. «È nostro. Mio padre è
molte cose, piccolo Corvo. Un serpente. Un bugiardo. Un bastardo. Ma
nessun sanguila oserebbe rinnegare una scommessa fatta pubblicamente.
Con gli allori che ha vinto, ha posti in abbondanza. Può permettersi di
cederne uno a noi. Ma ora, grazie al sacrificio di Bryn e Byern, non ha più
equillai. E grazie al tuo valore, non ha più un campione.»
La donna fissò gli occhi su Furian.
«Tutto quello che abbiamo desiderato adesso è alla nostra portata.»
«Come sta Bryn?» chiese Mia.
Lo sguardo tormentato della domina fu l’unica risposta che ottenne.
Bryn aveva perso il fratello gemello davanti ai propri occhi. Schiacciato e
dissanguato davanti a una folla fischiante. E tutto per nulla. Niente borsello.
Nessuna gloria. Nulla di nulla.
“Come ’bisso ti aspettavi che stesse?”
«Come vanno le tue ferite?» chiese Leona.
Mia toccò con cautela le bende sulla guancia e guardò Verme.
«Dimmelo tu.»
«Hai le costole incrinate» rispose la ragazzina. «I lividi saranno
tremendi, ma andrai a posto. Il taglio sulla tua faccia sta guarendo bene.
Anche se temo che lascerà una cicatrice.»
Mia si concentrò su quel pensiero, che bruciò brevemente più caldo del
dolore delle sue ferite. Non era mai stata graziosa da ragazza: aveva
scoperto cos’era la bellezza solo quando Marielle aveva intessuto il suo viso
in un ritratto nella Montagna Silente. E, a dire la verità, si era beata del
potere che conferiva.
Si domandò cos’avrebbe potuto dire Ashlinn. Come avrebbe potuto
guardarla d’ora in poi, e se lei avrebbe odiato il riflesso che vedeva in
quelle pozze di azzurro riarso dai soli. Per un attimo, desiderò essere di
nuovo nella Montagna, dove Marielle poteva sanare tutte le ferite con un
gesto della mano. Supponeva che quell’opzione le sarebbe stata negata per
sempre ora che si era messa contro la Chiesa. Che avrebbe dovuto
apprezzare questa cicatrice e il marchio accanto a essa fino al cambio in cui
fosse morta.
Mia si figurò suo padre, che dondolava e soffocava davanti alla folla.
Sua madre, che si dissanguava piangendo tra le sue braccia. Suo fratello,
che moriva come un infante in una fossa senza luce.
E, lasciando cadere la mano dalla faccia, scrollò le spalle.
«La scelta tra un aspetto ordinario e uno grazioso non è una vera scelta.
Ma qualunque sciocco sa che apparire pericolosi è preferibile a entrambi.»
Un sorriso privo di allegria increspò le labbra di Leona, che scosse
lentamente il capo.
«Mi piaci, Corvo. Che il Semprevigile mi aiuti, ma mi piaci. Non so
cos’eri prima di questo, ma per l’assistenza che hai offerto al nostro
campione e per il tuo coraggio nell’arena, ti sarò sempre grata.»
«Mi domando se il vostro campione dirà lo stesso, Dominatii…»
Gli occhi della domina tornarono su Furian, le dita intrecciate così forte
attorno al suo torque d’argento da sbiancarle le nocche. Mia si domandò
con che frequenza la domina avesse visitato il suo capezzale da quando
avevano lasciato Whitekeep. Si domandò se forse lei tenesse davvero a lui.
Si domandò cosa avrebbe pensato Arkades di tutta quella situazione se solo
avesse saputo…
«Forse dovremmo risalire sul ponte, Dominatii?» mormorò la magistrae,
stringendo la mano della donna. «Lasciarli riposare.»
Leona sbatté le palpebre come se si stesse svegliando da un sogno. Ma
annuì e si lasciò condurre via. Quando raggiunse la porta della cabina, si
fermò e si voltò verso Mia.
«Grazie, Corvo» mormorò.
E, detto questo, se ne andò.
Leona sedeva nel suo studio, china sopra i registri, inondata dalla soliluce
che si riversava attraverso la finestra a bovindo. Le ombre erano lunghe e
scure, e se una sotto la scrivania aveva una forma peculiare, la donna era
troppo assorta nel suo lavoro per notarlo.
Una guardia bussò piano alla porta, poi entrò al suo comando.
«Mea Domina» disse la guardia. «L’executus implora una parola.»
«Fallo entrare» replicò Leona.
Arkades entrò, clink-tonfo, clink-tonfo, e la guardia chiuse la porta alle
sue spalle. Lo sguardo di Leona non si spostò dal registro, una penna d’oca
tra le dita, scrivendo cifre con la sua calligrafia precisa e fluente. L’Albari
settantaquattro era posato sulla scrivania accanto a lei, ancora chiuso.
Arkades rimase in piedi davanti a lei, fissando quella bottiglia e spostando il
peso dalla gamba sana a quella di ferro.
«Cosa c’è, executus?» chiese la domina senza alzare gli occhi.
«Io… volevo vedere se stavate bene, Dominatii.»
«E perché non dovrei?»
«La missiva di vostro padre…»
Leona si fermò e infine alzò lo sguardo.
«Il suo regalo mi è sembrato un tocco delizioso.» La domina lanciò
un’occhiata alla bottiglia accanto a sé. «Sono sorpresa che si sia ricordato
l’annata.»
«Sapevo che era un uomo davvero crudele, ma…» Arkades sospirò, la
voce debole per la tristezza. «Vostra madre era una donna per bene, Mea
Domina. Voi non meritate un tale insulto. E lei non meritava ciò che lui le
fece.»
«La picchiò a morte con una bottiglia di aureovino, Arkades» disse
Leona con la voce che cominciava a tremare. «Perché lei gli rovesciò il
bicchiere a cena. Chi si merita questo, con esattezza?»
L’executus guardò le assi del pavimento come se stesse cercando le
parole giuste. Poteva essere un dio sulle sabbie, ma qui, nell’intimità della
camera della sua domina, sotto il suo sguardo azzurro pallido, sembrava
inerme come un neonato.
«Se mai…»
Si interruppe e deglutì forte. Prese un respiro profondo, come prima di
un tuffo.
«Se mai cercaste conforto… voglio dire, se mai desideraste parlare…»
Leona inclinò la testa, guardando l’executus negli occhi.
«È molto gentile da parte tua, Arkades. Ma non lo ritengo appropriato.»
Lui lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, nel cortile, verso l’infermeria
dove giaceva Furian.
«… Appropriato?» ripeté.
«Non sono più la ragazza che ha passato la sua infanzia in punta di piedi
per paura di quale potesse essere la mancanza successiva che avrebbe fatto
scattare il mostro con cui viveva. Io sono sanguila. Sono la Dominatii di
questo collegio. Tu sei il mio executus. E la scadente teatralità di mio padre
serve solo a una cosa: consolidare la mia determinazione di essere vittoriosa
a Godsgrave.»
Arkades si limitò a fissarla, sofferenza e rabbia evidenti sul suo volto.
«Non ho bisogno di alcun conforto» continuò Leona, con la rabbia che le
brillava negli occhi. «Mi occorre quel bastardo sulle fottute ginocchia. Se
hai intenzione di servirmi, Arkades, ti prego, servimi per quello per cui ti
pago. Portami la mia vittoria.»
Leona si chinò di nuovo sul suo registro, posando la testa su una mano.
«Puoi andare» disse.
Arkades rimase immobile per un momento, completamente muto. Ma
alla fine…
«Il vostro sussurro» mormorò. «La mia volontà.»
Poi si voltò e uscì zoppicando dalla stanza, chiudendosi la porta alle
spalle. Leona lasciò cadere la sua penna d’oca non appena se ne fu andato.
Strinse le labbra e prese un respiro tremante dopo l’altro. Poi si passò una
mano sugli occhi dalla rabbia.
Sedate le lacrime, si voltò per fissare la bottiglia sulla scrivania. La
soliluce che scintillava sul vetro. L’etichetta, dipinta di rosso sangue.
Leona chinò il capo, gli occhi nascosti da ciocche ramate.
«Padre» sbraitò.
Qualcuno bussò alla porta.
«Quattro Figlie, chi è ora?» domandò Leona.
«Scusate, Mea Domina» disse la guardia, facendo capolino. «La
magistrae chiede udienza.»
Leona sospirò, scostandosi i capelli dal viso.
«Molto bene.»
La donna più anziana entrò, chiudendosi la porta alle spalle. Leona
sedeva dritta sulla sua sedia, penna d’oca in mano, il ritratto della
compostezza. La sua magistrae si mise davanti a lei, torcendo la treccia di
lunghi capelli grigi e chinando il capo.
«Cosa c’è, Anthea?»
«… Dominatii, sapete che vi ho sempre servita fedelmente.»
Trepidazione brillava negli occhi della magistrae quando guardò quella
bottiglia di aureovino. «E non vorrei mai farvi del male.»
«Ma certo.»
«So che vostro padre preme sulle vostre finanze. Non desidero caricare
le vostre spalle di un’altra preoccupazione. Sono stata molto incerta se
venire a recarvi questa notizia, ma…»
«Anthea» la interruppe Leona con calma. «Di’ quello che devi dire.»
«… Si tratta di Arkades, Dominatii.»
Leona guardò la porta da cui il suo executus era uscito poco prima.
«Cosa, esattamente?»
«Lui sa.»
Leona posò la penna d’oca e si appoggiò contro lo schienale, accigliata.
«Sa cosa?»
«Leona» disse la magistrae. «Lui sa.»
Mia non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva pianto davvero.
Aveva versato una lacrima o due qua e là lungo la strada, ma non era mai
stato quel genere di sofferenza. Quello in cui ti venivano strappati via i
singhiozzi, che ti squassava fino alle ossa e ti lasciava vuoto dentro. Non
aveva pianto quando aveva fallito la sua iniziazione. Non aveva pianto
quando Ashlinn aveva assassinato Tric. Non aveva pianto quando il Culto
aveva tenuto una funzione sobria e inciso il nome del ragazzo su un
cenotafio nella sala degli Elogi.
Non era molto brava con la sofferenza, vedete.
Mia preferiva la rabbia.
Si trovava nell’infermeria sopra il corpo senza vita di Verme, un groppo
di furia nello stomaco. I capelli della ragazza erano stati pettinati, il viso
ripulito dal sangue. Sembrava quasi addormentata. Otho giaceva accanto a
lei, altrettanto pacifico. Gli occhi del grosso Itreyano erano chiusi, le rughe
di preoccupazione che gli avevano raggrinzito i lineamenti quando
combatteva sulle sabbie ora spianate.
Era un miracolo che fossero morti solo loro due… come se la parola
“solo” potesse avere un posto in quel pensiero. Verme era semplicemente
troppo piccola e aveva ingerito troppa tossina. Otho era un uomo cresciuto,
forte come un bove. Ma aveva divorato l’intero pasto e stava prendendo il
bis prima che il veleno cominciasse a fare effetto, e per allora era troppo
tardi. Altri Falconi sarebbero morti – tutti, in effetti – se Mia non fosse stata
lì. Supponeva che chiunque avesse avvelenato il loro pasto non si aspettasse
che ci fosse a portata di mano un assassino addestrato per preparare
l’antidoto. Molti dei gladiatii avevano subito vari gradi di emorragie
interne, ma il rimedio che lei aveva miscelato li aveva salvati tutti dalla
morte.
Quasi tutti, almeno…
Zanna era steso su una coperta macchiata di sangue, gli occhi del cane
chiusi per sempre. L’executus aveva quasi pianto quando aveva trovato il
mastino raggomitolato in una pozza di sangue sul pavimento
dell’infermeria. Adesso era seduto accanto a Zanna, e stava passando una
mano callosa sul corpo del cane. Gli tremavano le dita. Mia non sapeva dire
se fosse per la rabbia o per la sofferenza.
«Nel nome del Semprevigile, com’è potuto accadere?» domandò Leona,
osservando i corpi, le mani sui fianchi.
«Piuttosto semplice» mormorò Mia, senza che i suoi occhi lasciassero il
corpo di Verme. «Qualcuno ha cosparso le cipolle nella dispensa con
l’Elegia e Dito le ha usate nello stufato. La cipolla è porosa, si comporta
come una spugna. E l’odore e il sapore sono perfetti per mascherare quelli
della tossina. Buon metodo di somministrazione. L’assassino sapeva il fatto
suo.»
Leona si voltò verso Dito. Il cuoco era in piedi, fremente, tra due guardie
della casa che lo tenevano per le braccia in una stretta salda. I suoi capelli
lisci gli pendevano sopra gli occhi, il corpo tremante.
«Cosa sai di questo?» chiese la domina.
«N-nulla, Dominatii» rispose il cuoco. «Io vi servo fedelmente!»
«Qualunque serpente sibilerebbe lo stesso» ringhiò Leona.
Dito scosse il capo, la voce tremante.
«Dominatii, io… Mi avete sempre trattato bene e giustamente. Non ho
motivo di far male al vostro gregge. Né l’avrei mai fatto alla ragazzina. Era
come una parente, per me. Le ho servito il pasto con le mie stesse mani.»
Le lacrime gli riempirono gli occhi e gli colò il moccio sulle labbra quando
osservò il corpo senza vita di Verme. «Mi credete tanto insensibile da
guardarla negli occhi e sorridere mentre le p-porgevo la lama che l’avrebbe
uccisa?»
Il petto dell’uomo si gonfiò e il suo volto si contorse quando le lacrime
gli colarono lungo le guance.
«Mai. Per il Semprevigile e le sue Figlie, mai.»
Leona strinse gli occhi, ma poteva vederlo sul suo volto, evidente come
per Mia. La sua corporatura esile tremolava. Gli occhi erano colmi di
dolore. O Dito era un attore degno dei più grandi teatri della Repubblica,
oppure quest’uomo era sinceramente affranto per la morte di Verme.
«Chi aveva modo di entrare nella dispensa?» chiese Leona.
Dito si asciugò gli occhi e tirò su forte col naso. «Chiunque abbia
accesso alla fortezza potrebbe arrivare alle provviste, Dominatii. Non sono
chiuse a chiave l’illuminotte… I-io le avrei conservate con maggior
attenzione, ma n-non avevo idea che un serpente vivesse in mezzo a noi.»
«Nemmeno io» disse Leona. «Ma ne ho allattato uno al mio seno, a
quanto pare.»
«L’Elegia non è facile da preparare» disse Mia. «Pericolosa. Disordinata.
Ma in una città grande come Crow’s Rest, dev’esserci un modo per
comprarla, avendo il denaro.»
«E come fai a saperlo, con esattezza?» ringhiò Arkades.
«Non ho tenuto segreta la mia conoscenza dell’erbologia» replicò Mia.
«La differenza tra un farmaco e un veleno può essere piccola quanto mezzo
dram. E se vogliamo dirla tutta, la tossina era anche nel mio pasto.»
«Allora come mai non sei stata avvelenata come il resto dei tuoi
compagni?»
«Non ho mangiato la cena» sbraitò Mia.
«È la seconda volta in altrettanti mesi che eviti un pasto sospetto.»
«Avete guardato sotto le bende di Furian?» domandò Mia. «È
dannatamente nauseante. Quell’odore farebbe saltare il pasto a un cane
delle croste, e la vista ancora peggio.»
«E così per caso hai dato la tua cena al mio cane e l’hai guardato morire?
Poi per caso hai trovato gli ingredienti per salvare la vita dei tuoi
compagni?»
Mia si voltò per fronteggiare Arkades, i denti serrati. «Accusate me di
questo? Di aver avvelenato una ragazzina di undici anni?»
Arkades la ignorò e si voltò verso Leona. «Io dico che se stiamo
cercando un serpente tra noi, meglio iniziare da chi conosce meglio il
veleno, giusto?»
Allora Mia fu colta da una rabbia intensa e accecante, e fece un passo
verso Arkades con i pugni serrati. L’omone si alzò con velocità
sorprendente, le spalle dritte, il mento basso. Lei poteva percepire il ringhio
dell’executus nel proprio petto.
«Provaci» disse lui. «Provaci e basta…»
«Executus, basta» sbottò Leona. «Corvo è il campione di questo
collegio. Si trova già in vetta alla montagna. Nel nome del Semprevigile,
cosa otterrebbe uccidendo tutti i miei Falconi, per non parlare di Verme?»
«Cosa otterrebbe chiunque?» chiese la magistrae, guardandosi attorno
per la stanza. «Se cerchiamo l’assassino, prima dobbiamo trovare il
movente. In che modo qualcuno trarrebbe profitto da questo?»
«Vostro padre ne trarrebbe profitto, Dominatii» disse Mia.
Leona scosse il capo. «Lui non oserebbe…»
«Pensateci» replicò Mia. «Possiede tutti i vostri debiti. Voi gli dovete
denaro che semplicemente non avete. Come avete sistemato le vostre
incapienze con i creditori in passato?»
«… sto ancora elaborando le cifre» rispose Leona.
«Sì» annuì Mia. «Ma perfino considerando i premi vinti a Whitekeep,
avete riflettuto su qualche metodo per raccogliere oltre tremila pezzi
d’argento che non coinvolga vendere almeno alcuni vostri gladiatii al
Pandemonium?»
Leona guardò verso Arkades, poi verso la magistrae.
«No» ammise.
«Perciò cosa succede se tutti i vostri gladiatii sono morti e non ne avete
più nessuno da vendere?»
«Allora perdo tutto» disse Leona. «Il magni. Questo collegio. Tutto.»
«Vostro padre è il genere d’uomo che uccide per ottenere quello che
vuole? E sarebbe così difficile per un uomo con così tanto denaro
corrompere una delle vostre guardie? O forse qualcuno ancora più vicino a
voi?»
«Miserabile impertinente» la apostrofò Arkades. «Cosa vorresti
insinuare?»
«Solo che esistono due tipi di lealtà» replicò Mia. «Quella che si paga
con l’amore e quella che si paga con l’argento.»
«Dominatii, questa…»
Leona alzò la mano, tranciando l’obiezione della sua magistrae al
ginocchio. Si voltò verso il capitano delle guardie, la voce fredda e
imperiosa.
«Gannicus, voglio che ogni camera da letto nella fortezza sia perquisita.
Ogni forziere, ogni armadietto, ogni fessura. Tu e le altre guardie cercherete
a gruppi di tre, e non ispezionerete i vostri stessi averi, sono stata chiara?»
Il capitano si portò un pugno contro il petto. «Sì, Dominatii.»
Gannicus ruotò i tacchi, radunò le altre guardie della casa e si avviò nel
cortile. Con un cipiglio fosco, Arkades lanciò un’ultima occhiata al suo
cane ucciso, poi alla ragazza assassinata, quindi li seguì zoppicando.
«Dove stai andando, executus?» chiese Leona.
«… Ad assistere con la perquisizione, Dominatii.»
«Gannicus ha tutto sotto controllo. Prendi Dito e raccogliete legna per
una pira.» Lanciò una breve occhiata al corpo di Verme. «Non va bene
permettere che si attardino in questa calura. Devono essere inviati al
Focolare e alla custodia gentile di lady Keph.»
Squadrando Arkades, Mia riuscì a vedere che aveva le pupille dilatate e
il suo respiro era accelerato. L’istinto di attaccare o fuggire stava prendendo
il sopravvento.
«… lui ha paura…» disse una voce nel suo orecchio.
Ma alla fine, come sempre, l’executus si inchinò.
«Il vostro sussurro, la mia volontà.»
a. Note come reparii, queste monete vengono pagate alla dea Keph in cambio di un soccorso presso il
suo Focolare nell’aldilà.
Dal momento che la Dea della terra sonnecchia da secoli e non le servono soldi, le monete di
legno sono gettate nel Focolare perché continui a bruciare. Il fuoco all’interno del Focolare fu un
dono da parte della sorella di Keph, Tsana, la Signora della fiamma, che riteneva ingiusto che alla
loro madre, Niah, fosse dato il dominio unico sui morti. Così creò il fuoco per dare alle anime
rette un posto dove radunarsi e riscaldarsi contro il gelo della notte senza fine dell’aldilà.
Tsana odia sua madre, vedete. Quasi quanto la odia suo padre.
Ci si potrebbe domandare se sia stata abbracciata abbastanza da piccola.
CAPITOLO 28
CICATRICI
Aveva corso come una pazza su per la collina, con il mantello che le
svolazzava dietro, non curandosi nemmeno di nascondersi sotto la sua
coltre di ombre. Se qualcuno di Rest l’aveva notata, pazienza, ma le
ripercussioni dell’avvistamento del campione del collegio da parte di uno
sconosciuto per strada sarebbero impallidite a paragone di ciò che sarebbe
successo se le guardie avessero scoperto che non si trovava nella sua cella.
Era stata una sciocca, a rischiare una visita con così tanto in continuo
mutamento. Maledicendosi per essere stata un’idiota e cercando di
dimenticare il fatto che Ashlinn Järnheim…
“Ashlinn Järnheim ha detto che mi ama.”
Mia spinse da parte quel pensiero, il dolore che le scuoteva le costole
ogni volta che il suo piede colpiva la strada.
«È sveglio?» ansimò.
«… si sta svegliando. se vengono a chiamarti…»
«Lo so.»
«… tu rischi troppo, mia. ora tutto è in bilico…»
«Lo so.»
«… davvero…?»
Mia strinse i denti e corse, maledicendosi ancora una volta. Messer
Cortese aveva ragione. Ashlinn anche. Stava diventando molle. La Mia che
conosceva era stata motivata. Determinata. Ardeva di desiderio per una
cosa e per quella soltanto. Non poteva più permettersi questa empatia. I
rischi che la portavano a correre, tutto ciò che sarebbe andato in rovina se
lei avesse fallito qui…
A distanza di sicurezza da Nest, si mise il suo manto d’ombra, Passando
dall’altra parte del cancello come aveva fatto ormai una dozzina di volte e
procedendo a tentoni giù fino alla caserma. Protendendosi verso la tenebra,
Passò nelle ombre della sua cella, cadendo in ginocchio e stringendosi il
petto in fiamme. Il suo respiro era fuoco, la testa ondeggiava, la pelle era
ricoperta da una patina di sudore. Ma dopo la sua corsa disperata, sembrava
tutto tranquillo: se Furian si era svegliato, pareva che Leona o le sue
guardie non avessero ancora avuto bisogno di lei.
“Dea, poteva essere un disastro…”
Gettò via il manto e apparve alla vista nel buio della caserma, tra i
sospiri, il russare e i suoni del sonno. Disteso in un angolo ricoperto di
paglia, Sidonius aprì lentamente gli occhi: l’uomo sembrava avere un
talento innaturale per percepire il suo ritorno. O forse quando se ne andava.
«Problemi a dormire?» mormorò lui, tastandosi le ciglia. «Ho proprio la
cura adatta.»
Mia si accigliò e non rispose, non essendo dell’umore per un’altra
lezione sui benefici di una coscienza pulita. Udì passi pesanti provenire
dalle scale e le chiavi girate nel dispositivo mekana accanto alla saracinesca
della caserma. Sidonius si mise seduto un po’ più dritto e strinse gli occhi
quando tre guardie si avvicinarono, armate e corazzate di tutto punto.
«Riposa tranquillo» disse lei. «Sono qui per me.»
«Io riposo tranquillo, Mia» sussurrò lui. «E ho fiducia che lo farai anche
tu.»
Il terzetto di guardie arrivò alla cella, guidato dal capitano Gannicus.
«L’Imbattuto si è destato» disse la guardia. «Sta soffrendo. Domina
Leona ha lasciato ordini di svegliarti se l’avesse fatto e di essere trattata con
ogni cortesia. Ora che Verme non c’è più…»
«Sì, ci penserò io» sospirò Mia. «Portatemi da lui, se vi compiace.»
Le guardie aprirono la cella e Mia si alzò in piedi. Sidonius la osservò
mentre la scortavano fuori dalla caserma, per poi condurla su nella fortezza
e all’infermeria. La sua mente turbinava ancora, cercando di riflettere su
cosa fare per la ribellione che Sidonius stava fomentando, ciò che c’era di
giusto e di sbagliato. Le parole di Ashlinn e di Messer Cortese le
rimbalzavano nella testa. Il suo cuore era lacerato: la vendetta che l’aveva
guidata per tutti questi anni soppesata contro il pensiero di lasciare che Sid
e gli altri morissero.
Cos’era più importante?
Vendetta per una madre e un padre che, a quanto pareva, lei conosceva a
malapena? O le vite di persone che, per quanto si ostinasse a negarlo, erano
diventate suoi amici?
L’ora era tarda, ma mentre si avvicinava, Mia poteva udire una sequela
di imprecazioni dall’interno. Entrando, vide Furian sulla sua lastra, madido
di sudore. Braccia e gambe erano legate, le bende attorno al petto macchiate
di sangue.
«Lo stupido ha cercato di strapparsi le fasciature» borbottò Gannicus.
«Abbiamo dovuto legarlo.»
«Ci sono dei fottuti vermi che mi strisciano addosso!» gemette Furian.
«Lasciatemi con lui» disse Mia a Gannicus. «Provvederò io ai suoi
dolori. Se potete dire a Dito di mettere a bollire dell’aceto, ve ne sarò
grata.»
«Sì, campione» disse la guardia.
Annuendo ai suoi uomini, Gannicus ne lasciò un paio appostati fuori
dalla porta dell’infermeria e si allontanò per andare a svegliare il cuoco.
Mia entrò nell’infermeria e notò che Cantalame non era stesa sulla sua
lastra. Doveva essere stata spostata di nuovo nella sua cella a un certo punto
dell’illuminotte: era ancora troppo presto perché fosse stata venduta a Caito.
Il che voleva dire che lei e Furian sarebbero stati soli…
L’uomo la squadrò dall’alto in basso, un cipiglio scuro su quella fronte
stupenda. La fame dentro di lei crebbe come faceva sempre quando lui era
nei paraggi. Furian aveva ancora un aspetto orrendo, i lunghi capelli lisci
per il sudore, la pelle giallognola. Ma era sveglio e vigile, gli occhi scuri
fissi sul torque argenteo attorno al collo di Mia.
«Ti ha nominato campione?» sussurrò.
«Non gliel’ho chiesto io» replicò Mia. «Ma in verità nessuno sapeva se ti
saresti svegliato.»
«Perciò dà via il mio torque prima ancora che io sia freddo e mi lascia
qui a marcire?»
«Tu non stai marcendo» sospirò Mia.
«Ho delle fottute larve che mi strisciano addosso!»
«I vermi stanno rimuovendo la carne che è stata infettata dal veleno
dell’Esule. Ti hanno salvato la vita. E se non ti calmi e non la smetti di
dibatterti contro quei lacci, ricomincerai a sanguinare.» Mia frugò tra gli
scaffali, raccogliendo ingredienti. «Il dolore non può essere piacevole, però.
Ti procurerò qualcosa per alleviarlo.»
La testa di Furian affondò di nuovo contro la lastra, la voce pesante per
la fatica. «La Dominatii ti ha nominato infermiera, oltre che campione?
Dov’è Verme?»
Mia premette le labbra assieme, macinando gli ingredienti con mortaio e
pestello.
«Verme è morta.»
Il cipiglio di Furian si attenuò, sostituito da stupore nel suo sguardo.
«Come?»
«Arkades ha infilato una dose di Elegia nell’ultimopasto di tutti quanti.
Verme e Otho sono morti prima che potessi miscelare un antidoto.»
«… Arkades?»
«Sì.»
«Porca puttana» sussurrò Furian. «Arkades era gladiatii. Un uomo come
lui guarda i suoi nemici negli occhi e li uccide con una spada, non con un
boccone amaro.»
Mia scrollò le spalle e annusò con cautela una coppa d’acqua, poi ci
mischiò dentro la sua polvere. La portò a Furian e gliela accostò alle labbra,
osservando la sua ombra tremare e incresparsi ai margini. Quella di Mia si
avvicinò piano piano, come ferro con un magnete. Tutte le domande si
agitavano nella sua testa. Cosa sono? Cosa siamo? Perché? Chi? Come?
«È solo svanifoglia e ginerba» disse. «Allevierà il dolore.»
L’Imbattuto la fissò a occhi stretti.
«Tu mi hai salvato la vita, Furian» disse Mia. «Non è un debito che si
dimentica facilmente. Se ti volessi morto, avrei potuto fare in modo che non
ti svegliassi mai più. Ora bevi.»
L’ex campione assentì con un grugnito, poi inghiottì l’infuso mentre Mia
lo versava. Gettò indietro la testa contro la lastra e sospirò, fissando il
soffitto e flettendo i polsi contro i ceppi.
«Ricordo… dopo l’incontro… che tu hai portato via il mio dolore.»
«Un rimedio casalingo» scrollò le spalle Mia. «Facile da preparare.»
«No» disse Furian, scrollando il capo. «Prima che mi dessi l’infuso per
dormire. Quando ero sulla lastra e urlavo. Quando la tua… quando le nostre
ombre si sono toccate.»
Mia si accigliò, ricordando quel momento sotto l’arena di Whitekeep.
Quando la sua ombra era diventata scura, lei aveva avvertito più dolore, non
meno: l’agonia di Furian mista con la sua. Supponeva di poter in qualche
modo condividere il fardello, ma a quanto pareva aveva alleviato il dolore
di Furian per assumerlo su di sé?
“Perché?
“Chi?
“Come?”
«Non sapevo di poterlo fare» confessò. «Non l’avevo mai fatto prima.»
Furian non disse nulla, guardandola con quei begli occhi scuri. Mia
riusciva a vedere che la sostanza che gli aveva dato cominciava a fare
effetto, lisciando le rughe di dolore sulla sua faccia.
«Io… volevo ringraziarti, Furian» disse Mia. «Per aver chiamato la
tenebra nell’arena. L’Esule avrebbe eliminato me e Canta se non fosse stato
per te.»
«Hai imbrogliato» replicò lui. «Hai fatto qualcosa alle lame della
serica.»
«Tu hai attorcigliato la sua ombra. Suppongo che questo faccia di
entrambi noi degli imbroglioni, giusto?»
L’Imbattuto rimase muto per un’eternità, limitandosi a fissarla. Quando
infine parlò, fu con esitazione, come se non fosse abituato a pronunciare
complimenti con quella lingua.
«Hai rischiato la tua vita per una sorella gladiatii» disse lui. «Hai
rischiato la tua vita per me. Sotterfugi a parte, hai mostrato comunque lealtà
verso questo collegio. Mi sembrava giusto che venisse ripagata.»
«Quello era un complimento?» chiese Mia. «’Bisso e sangue, forse ho
mischiato troppa svanifoglia nel tuo tè?»
Furian si concesse un sorrisetto. «Non lasciare che ti dia alla testa,
ragazza. Mi riprenderò il mio torque non appena sarò in grado di sollevare
una lama. Quando combatterò al magni, bada bene, lo farò come campione
di questo collegio.»
Mia scosse il capo, cercando nuovamente di districare l’enigma di
quest’uomo. Lui l’aveva trattata solo con sdegno, aveva definito i loro doni
con la tenebra come stregoneria. Ma quando la situazione si era fatta critica,
aveva utilizzato le ombre affinché i Falconi potessero sconfiggere l’Esule.
Questione morale a parte, sembrava che fosse preparato a sacrificare
qualunque cosa per la vittoria.
«Perché tutto questo è così importante per te?» chiese lei.
«Te l’ho già detto, Corvo. Questo è ciò che sono.»
«Questo non è un motivo» sospirò Mia. «Tu non sei nato gladiatii. Devi
aver avuto una vita prima di tutto questo.»
Furian scosse il capo. Sbatté lentamente le palpebre.
«Io non la definirei tale.»
«Allora cos’eri? Un assassino? Uno stupratore? Un ladro?»
Furian la fissò con pensieri segreti che si agitavano dietro quegli occhi
senza fondo. Ma ora la svanifoglia stava facendo effetto e la svelaradice che
lei aveva mischiato assieme all’intruglio gli stava sciogliendo la lingua. Si
sentiva in colpa per avergli somministrato una dose nella speranza che si
aprisse, ma voleva comprendere quest’uomo, cercare di valutare da che
parte sarebbe stato se Sidonius e gli altri fossero insorti in una ribellione.
«Assassino, stupratore, ladro» replicò Furian con voce impastata. «Tutto
quello e altro ancora. Ero una bestia che si foderava le tasche con le miserie
degli uomini. E delle donne. E dei bambini.»
«Cosa facevi?»
Furian spostò lo sguardo sulle pareti attorno a loro, le sbarre d’acciaio e
ferro arrugginite.
«Riempivo posti come questi. La carne era il mio pane e il sangue il mio
vino.»
«… Eri uno schiavista?»
Furian annuì, parlando piano. «Ho capitanato una nave per anni. La
Gabbiano di Ferro. Percorrevo la costa di Ashkah fino a Nuuvash e la Liis
orientale da Amai a Ta’nise. Vendevo gli uomini alle fosse da
combattimento, le donne alle case di piacere, i bambini a chiunque li
volesse.» Una pesante scrollata di spalle. «E se nessuno li voleva, li
gettavamo semplicemente fuoribordo.»
«’Bisso e sangue» disse Mia, arricciando le labbra dalla repulsione.
«Tu mi giudichi.»
«Certo che lo faccio, cazzo» sibilò lei.
«Non più severamente di quanto io giudico me stesso.»
«Lo trovo difficile da credere» disse Mia, la voce che si tramutava in
acciaio.
«Credi quello che vuoi, Corvo. La gente lo fa sempre.»
«Allora come sei arrivato qui?»
Furian chiuse gli occhi, un respiro lungo e profondo. Per un attimo, Mia
pensò che si fosse assopito. Ma alla fine parlò, la sua voce carica di fatica e
qualcosa di ancora più cupo. Rimpianto? Vergogna?
«Razziammo un villaggio ad Ashkah» disse. «Uno degli uomini che
portammo a bordo era un missionario di Aa. Si chiamava Rapha. Lasciai
che gli uomini se la spassassero con lui. Non eravamo così affezionati ai
preti, capisci. Lo picchiammo. Lo bruciammo. Alla fine, mettemmo in
acqua delle esche per i drachi e io gli dissi di percorrere la passerella.
Guardando giù in quell’azzurro, vedi la misura di una persona nei suoi
occhi. Alcuni implorano. Altri imprecano. Alcuni non riescono nemmeno a
farsi portare dalle proprie gambe. Sai cosa fece Rapha?»
«Non saprei» disse Mia con una scrollata di spalle. «Anch’io non nutro
affetto verso i preti.»
«Pregò Aa affinché ci perdonasse» disse Furian. «In piedi su quella
passerella, con un dracotempesta di trenta piedi che girava in cerchio sotto
di lui. E il bastardo comincia a pregare per noi.»
L’Imbattuto scosse il capo.
«Non avevo mai visto nulla di simile. Perciò lo lasciai vivere. Non so
dire davvero perché lo feci. Navigò con noi per quasi un anno. Mi insegnò
il vangelo del Semprevigile. Mi insegnò che ero perduto, che ero solo un
animale, ma che avrei potuto ritrovare la mia umanità se avessi abbracciato
la Luce. Ma mi disse anche che dovevo espiare per tutto il male che avevo
fatto. E così, dopo un anno a leggere e a discutere, a odiarmi, infuriarmi e
piangere tra me nelle lunghe ore dell’illuminotte, accettai il Semprevigile
nella mia vita. Voltai le spalle all’oscurità. Feci dirigere la nave verso i
Giardini Pensili. E vendetti me stesso.»
«Tu…» Mia sbatté le palpebre.
«Sembra folle, vero? Che genere di sciocco lo sceglierebbe?»
Mia ripensò alle proprie traversie, al proprio piano, e scosse lentamente
il capo.
«Ma… perché?»
«Sapevo che Aa mi avrebbe dato una possibilità di redimermi se mi fossi
affidato alla sua custodia. Ed egli mi ha messo qui. Un luogo di
tribolazione, purezza e sofferenza. Ma alla fine, sulle sabbie del magni,
quando mi inginocchierò davanti al Gran cardinale ricoperto della mia
vittoria, non solo lui mi dichiarerà libero, ma un uomo libero. Non un
animale, Corvo. Un uomo.
«E lì, io sarò redento.»
Furian annuì e prese un respiro profondo, come se avesse espulso un
veleno dal suo sangue.
Mia incrociò le braccia e si accigliò.
«Dunque questo è tutto?» domandò. «Pensi di poter espiare la vendita di
centinaia di uomini e donne ammazzandone altre centinaia? Non puoi
pulirti le mani lavandole nel sangue di altre persone, Furian. Fidati di me.
Così diventano solo più rosse.»
Furian scosse il capo e aggrottò la fronte. «Non mi aspetto che tu
capisca. Ma il magni è un rito sacro. Giudicato dalla mano di Dio in
persona. E se Rapha mi ha insegnato qualcosa è che ciò che facciamo è più
importante di ciò che abbiamo fatto.»
Mia udì dei passi dietro di lei e qualcuno bussò alla porta
dell’infermeria. Gannicus entrò nella stanza con due guardie che portavano
una pentola fumante.
«Il tuo aceto, bollito come richiesto.»
Mia annuì e si voltò verso Furian.
«Ora mi sbarazzerò dei vermi. Sarà doloroso.»
«La vita lo è sempre, piccolo Corvo. La vita è dolore, perdita e
sacrificio.»
Furian strinse i denti e chiuse gli occhi.
«Ma dovremmo accogliere quel dolore. Se ci porta la salvezza.»
Tornò nella sua gabbia, fiancheggiata da due guardie della casa. Sidonius
aprì gli occhi quando la porta della cella si chiuse dietro di lei e il congegno
mekana la sigillò. Mia aveva osservato con attenzione da sotto le ciglia
mentre rientrava, notando quale chiave dell’anello di ferro apriva la
saracinesca della caserma, e controllato la porta della sua cella.
Qual era la cosa giusta da fare?
Avrebbero capito, alla fine, che aveva fatto tutto quanto per il meglio?
«Ho parlato con Furian» sussurrò quando le guardie se ne furono andate.
«Riguardo a cosa?» borbottò Sidonius.
«Chi è. Come la pensa. Da dove viene.» Scosse il capo. «Lui sogna
soltanto il magni. Non farebbe mai nulla per metterlo a rischio. Credo che
stia ancora troppo male per opporsi a noi, ma quando insorgeremo, non c’è
alcuna possibilità che si schieri con noi.»
«Con noi?»
«Sì, fratello.»
Mia allungò la mano nel buio, stringendo quella di Sidonius.
«Noi.»
CAPITOLO 29
INSURREZIONE
“Godsgrave.”
Mia si trovava sul ponte della Mastino Glorioso, il vento dell’oceano tra
i capelli, a fissare la città di ponti e ossa. Il porto era pieno, centinaia di vele
sparpagliate per quel tappeto di blu ondeggiante, persone che viaggiavano
da tutti gli angoli del mondo per celebrare la più grande festa di Aa nella
gloriosa capitale della Repubblica.
Era arrivata la veraluce, infine.
Saai finalmente aveva superato l’orizzonte mentre navigavano da Crow’s
Nest, quel pallido globo azzurro che si univa ai suoi fratelli rosso e dorato
nel cielo. Il calore era rovente e Mia ne era nauseata, con Messer Cortese
raggomitolato nella sua ombra, in uno stato pietoso come lei. Mia poteva
sentire tutta la furia del Padre della Luce che la percuoteva come martelli su
un’incudine. A capo chino, camminava sul ponte sopra persone che un
tempo l’avevano chiamata amica.
Sidonius e gli altri erano incatenati nella stiva, polsi e caviglie in ceppi.
Avevano assunto una facciata coraggiosa, giurando di uccidere qualunque
guardia di Leona fosse scesa nella stiva a prenderli, ma dopo tre cambi
senz’acqua in quel calore tremendo, erano semplicemente troppo deboli per
opporre resistenza. Le guardie avevano fatto irruzione nella stiva il quinto
cambio e li avevano incatenati. Erano stati nutriti e abbeverati in ogni
cambio da allora: dovevano essere abbastanza in forma da impugnare le
armi per lo scontro delle esecuzioni, dopotutto.
Mia aveva evitato l’arresto solo perché aveva contribuito alla cattura
degli insorti, e Furian solo grazie al fatto che era ancora convalescente e
alla testimonianza giurata di Leona davanti agli administratii. La domina
aveva ricevuto un deposito da Varro Caito per la vendita del suo gruppo, ma
con le voci sulla rivolta che si diffondevano per Crow’s Rest, non avrebbe
potuto realmente completare la transazione: nessuno sarebbe stato tanto
sciocco da comprare un gruppo di gladiatii che si erano ribellati contro la
loro padrona.
E così la domina aveva semplicemente rubato il deposito di Caito e si era
messa per mare, prendendo la rotta panoramica per Godsgrave e scegliendo
di preoccuparsi del mercante di carne inferocito solo quando fosse rientrata
trionfante dalla capitale. Con i soldi che aveva sgraffignato, assieme al
premio di Whitekeep e il piccolo stipendio che le era stato pagato per lo
scontro delle esecuzioni, aveva quanto bastava per riuscire a versare il
primo rimborso a suo padre. Me se non avesse lasciato Godsgrave con la
vittoria al Venatus Magni, sarebbe stata completamente in bancarotta.
Tutto quanto poggiava su quell’unico incontro.
Tutto quanto.
Mia posò le mani sul parapetto della Mastino, la soliluce che ardeva
sulla superficie dell’oceano. Provò a distorcere le ombre ai suoi piedi, ma
era quasi impossibile: la sua stretta sulla tenebra era debole, e cercare di
trattenerla era come avere in pugno del fumo. Supponeva che avesse senso.
I suoi poteri erano stati al loro apice durante il verobuio ed era logico che
fossero al minimo quando il Padre della Luce era più forte nel cielo. Ma
questo non la faceva sentire affatto meglio sulle sue possibilità nel magni.
Fissò la grande capitale itreyana con il cuore in gola. Erano passati mesi
da quando vi aveva posato gli occhi. Mesi di sudore, sangue e lacrime.
Tutta la città si stendeva davanti a lei, l’arcipelago frammentario che
scintillava nella soliluce. Ogni piede quadrato era tempestato di caseggiati,
catapecchie e ville eleganti, che si aggrappavano alla costa come cirripedi
sullo scafo di una vecchia galea. Sopra le guglie delle cattedrali, gli
imponenti guerrieri ambulanti e la Casa del Senato, si innalzavano le
Costole: grandi torri ossificate che si elevavano nel cielo, il loro bagliore
bianco slavato quasi accecante.
Lei aveva trascorso buona parte della fanciullezza lì dentro,
nell’appartamento dei suoi genitori. Molto più tempo che a Crow’s Nest, a
dire la verità. Se ne stava con sua madre e i loro servitori, a giocare con il
suo fratellino. Se Crow’s Nest era stato il loro rifugio, Godsgrave era stata il
loro mondo. Non era mai riuscita a sfuggire a lungo alla sua attrazione.
Il pensiero della sua familia le causò un dolore al petto e i suoi occhi si
annebbiarono: tutto ciò che aveva distrutto e rubato, tutte le vite che aveva
preso, le miglia che aveva corso, gli anni che aveva passato a studiare…
tutto ciò presto avrebbe avuto un senso. Entro due brevi cambi, il magni
sarebbe cominciato. Entro due brevi cambi, lei avrebbe combattuto per la
sua vita e si sarebbe trovata di fronte a Duomo e Scaeva su quella sabbia
insanguinata, e avrebbe urlato il suo nome mentre tagliava le loro gole, da
un fottuto orecchio all’altro.
“Ne sarà valsa la pena.”
Si guardò alle spalle, giù tra le ombre della stiva sotto i suoi piedi.
Poteva sentire i loro sguardi su di lei. Quelli che l’avevano chiamata amica.
“Tutto quanto ne sarà valsa la pena.”
«Sapevo che eri un tipo freddo, Corvo» disse una voce dietro di lei. «Ma
non avevo mai immaginato quanto ghiaccio scorresse nelle tue vene fino a
ora.»
Mia fissò il profilo di Godsgrave mentre Furian si univa a lei presso il
parapetto. I lunghi capelli neri dell’Imbattuto si agitavano nella brezza
marina, la pelle abbronzata scintillava di un debole luccichio di sudore. Il
suo petto era butterato e sfregiato, la carne ancora ricoperta di croste, ma
con le tre settimane in cui aveva riposato a bordo della nave, era quasi
guarito. Malgrado i tre soli che ardevano nel cielo, l’ombra di Mia tremolò
quando lui si sporse più vicino. Lanciando un’occhiata ai loro piedi, vide
che quella di Furian faceva lo stesso.
«Che intendi?» gli chiese.
Furian guardò la città di ponti e ossa, gli occhi scuri stretti a causa della
luce. «Ho sentito che sarai tu a impugnare la lama nello scontro delle
esecuzioni.»
«Alla Dominatii occorre quel denaro.»
«Oh, lo so» annuì Furian. «E so che è diritto della Dominatii designare
chi li giustizierà. Solo non pensavo che saresti stata disposta ad ammazzare
Sidonius e gli altri.»
«Siamo gli unici due gladiatii rimasti alla Dominatii, Furian. Le tue
ferite sono guarite appena quanto basta per rischiarti nel magni. A meno che
la Dominatii non voglia che i soldi dell’esecuzione vadano a un altro
collegio, chi può schierare? Dovrebbe ficcare una spada nella mano della
magistrae e chiederle di essere lei a farlo?»
Furian sorrise. «Quello sì che sarebbe uno spettacolo.»
«Già» sospirò Mia. «Lo sarebbe eccome.»
Il sorriso di Furian gli morì lentamente sulle labbra e la sua voce si
abbassò fino a un mormorio.
«Perché l’hai fatto?» domandò. «Volevo chiedertelo.»
Mia gli lanciò un’occhiata di sottecchi, increspando le labbra. «Fatto
cosa?»
«Sai cosa intendo» ringhiò lui. «Cantalame e gli altri ti ritenevano
un’amica. Eppure la Dominatii mi ha detto che non appena sei stata al
corrente del loro piano, gliel’hai riferito subito. E non solo hai sventato la
loro fuga, ma hai ideato un modo perché fossero catturati vivi affinché
potessero essere portati davanti alla folla per essere giustiziati.»
«Se fossero stati semplicemente uccisi durante la fuga, la Dominatii non
avrebbe recuperato nemmeno una moneta per la loro perdita» disse Mia.
«Leonides avrebbe chiuso il collegio. Noi non saremmo qui. Ma ora, tra i
soldi di Whitekeep e lo scontro delle esecuzio…»
«Sì, sì, so tutto quanto» ringhiò Furian, il suo umore che si logorava.
«Quello che non capisco è perché tu non li abbia aiutati.»
«Perché non sono un fottuto eroe, Furian. Se loro vogliono aiuto,
possono aiutarsi da soli.»
Mia si voltò per andarsene, ma l’Imbattuto la afferrò per il braccio,
mostrando i denti.
«Chi ’bisso sei tu?» domandò. «Di sicuro non una ragazzina senza nome
di Piccola Liis. Ti guardo negli occhi e vedo determinazione. Vedo un
progetto. Fin da quando hai messo piede nel nostro collegio, ho avvertito la
tua mano al lavoro. Come un burattinaio nell’ombra che tira i fili, e noi
siamo le marionette.»
Mia strappò via il braccio con un ringhio. «Non toccarmi.»
«Tu non hai alcuna fedeltà verso Leona» ringhiò Furian. «Ora lo so.
Perfino nel nostro incontro a Whitekeep, quando hai rischiato la vita per
salvare Cantalame, tutto quanto serviva a portare avanti i tuoi scopi. Hai
tradito coloro che ti chiamavano sorella. Hai ucciso, mentito e rubato, tutto
per trovarti qui sulle sabbie del magni quando potresti semplicemente
scivolare tra le ombre e ottenere la libertà in qualunque momento. Allora
perché sei qui, nel nome del Semprevigile?»
Mia fissò quegli occhi amari color cioccolato e l’oscurità che tremolava
ai suoi piedi. Una volta aveva pensato che lei e Furian fossero simili quanto
veraluce e verobuio. Ma ora capiva che quella era una menzogna. Vedeva le
somiglianze tra loro, profonde come sangue e osso. Entrambi prigionieri del
loro passato. Entrambi ossessionati oltre ogni limite dalla vittoria nel
magni, Furian per la redenzione e Mia per la vendetta.
Mia serrò la mascella e scosse il capo. Era tentata di parlare. Di
guardarlo negli occhi e vedere se le avrebbe concesso una qualche
comprensione. Lui tra tutti avrebbe dovuto. Ma era inutile, e lei lo sapeva.
Furian cercava l’assoluzione dai suoi peccati dalle mani di un dio. Mia
cercava di eliminare le mani di quello stesso dio per i loro peccati. Perché
uno di loro potesse essere proclamato vincitore, l’altro doveva cadere. E
nessuno dei due sarebbe stato disposto a farsi da parte. Questo non era un
libro di favole. Non c’era amore tra loro. Nessuna amicizia. Solo rivalità.
E c’era un unico modo in cui sarebbe finita.
«Vai a riposarti, Furian» disse Mia.
Tornò a voltare gli occhi a quell’orizzonte accecante.
«Ne avrai bisogno alla fine della settimana.»
Plic.
Argento sulla sua gola.
Plic.
Pietra ai suoi piedi.
Plic.
Ferro nel suo cuore.
Mia sedeva nell’oscurità sotto l’arena, stando semplicemente in ascolto.
Dal soffitto cadeva acqua salata, che schizzava sul pavimento della cella.
Tutti gli anni. Tutte le miglia.
Domani, in un modo o nell’altro, tutto sarebbe finito.
Erano stati portati a terra il cambio precedente, quando gli administratii
avevano dato la loro approvazione per lo scontro delle esecuzioni. Il
calendario era pieno zeppo: c’erano già stati cinque interi cambi di giochi, e
centinaia di prigionieri erano già stati uccisi dallo Stato. Per gli editorii non
era facile trovare lo spazio per un’altra serie di esecuzioni nelle festività
dell’indomani, ma un’intera stalla di gladiatii che si era ribellata poteva
fungere da esempio turpe per gli altri collegi. E così i Falconi di Remus
sarebbero stati consegnati alla giustizia in una finestra di cinque minuti
dopo l’ultima corsa di equillai. Le loro vite sarebbero state spente mentre la
gente aspettava il cibo oppure si precipitava al bagno prima dell’evento
principale.
E dopo il mediopasto, dopo le loro uccisioni, il magni sarebbe
cominciato.
Plic.
Plic.
Mia era seduta da sola nella cella ad ascoltare i festeggiamenti, il ruggito
della folla colossale che faceva tremare la pietra stessa ai suoi piedi. Ai
campioni di ciascun collegio veniva concessa una certa intimità: le sue
pareti erano di pietra, il suo letto pulito, due piccoli globi arkemici
emanavano una luce tiepida e costante. Una finestrella nella pesante porta
di quercia lasciava entrare un alito di aria fresca, l’odore delle cucine, di
sangue, di olio e ferro. Si domandò in quali condizioni fossero rinchiusi
Sidonius e gli altri. Quanto ancora sarebbero stati costretti a subire prima di
essere scortati sulla sabbia un’ultima volta. Messer Cortese sedeva nella sua
ombra, osservandola con i suoi non-occhi. Le sussurrava che presto, in un
modo o nell’altro, tutto questo sarebbe finito.
Lei non rispondeva.
Quando al loro arrivo lei e Furian erano stati fatti marciare nel distretto
affollato dei midollani fino a entrare nell’arena di Godsgrave, lei era rimasta
stupefatta dalle dimensioni di quella struttura. L’aveva vista quando era più
piccola, naturalmente, ma mai da così vicino. La grande ellissi dell’arena
era intagliata direttamente dalla Dorsale stessa e si estendeva per mille
piedi, anelli concentrici di tribune alte quattro livelli. Archi aggraziati e
contrafforti scanalati, marmo solido e necrosso dappertutto, statue del
Semprevigile e delle sue Quattro Figlie che circondavano l’anello esterno.
Era una meraviglia di ingegneria, un testamento all’ingegnosità di coloro
che l’avevano progettata, alla sofferenza degli schiavi che l’avevano
costruita, un monumento al potere straordinario, alla visione e soprattutto
alla crudeltà della Repubblica itreyana. a
Il venatus era terminato, per quel cambio, e la folla si riversava in strada
con sorrisi luminosi e occhi sgranati. Le campane della cattedrale
risuonavano in tutta la città, chiamando i fedeli alla messa. Con tutti e tre
gli occhi del Semprevigile aperti nel cielo, i cittadini più devoti della
Repubblica si stavano preparando per un’illuminotte di preghiera e
devozione pubblica, e i tipi meno religiosi per una serata di dissolutezza
privata.
L’eccitazione era arkemica, la trepidazione per il magni a livelli
vertiginosi. Mia riusciva a udire il ronzio dei grandi mekana sotto di lei,
mentre i preti del Collegio di Ferro si assicuravano che tutto fosse pronto
per l’indomani. Questo era l’evento principale del calendario itreyano, una
celebrazione della Repubblica e del Dio della Luce. Domani il più grande
spettacolo sotto i soli si sarebbe svolto davanti agli occhi curiosi della folla
e il console in persona avrebbe incoronato il guerriero più potente con un
alloro dorato, così come la Mano di Dio in persona avrebbe concesso a quel
guerriero la libertà.
Era la materia di cui erano fatte le leggende.
Plic.
Mia fissava il nulla.
Plic.
Non diceva nulla.
Plic.
Ascoltava invece gli echi della folla che si allontanava, i legionari che
pattugliavano le viscere dell’arena, il fruscio della scopa di uno schiavo che
passava nel corridoio lì fuori. E soprattutto i pensieri dentro la sua testa.
“Non è qui che morirò.”
Scosse il capo e strinse i pugni.
“Ho troppe persone da uccidere.”
La scopa si fermò fuori dalla sua porta. Udì un fruscio di stoffa, la dolce
melodia di metallo su metallo, lo schiocco delicato della serratura mekana
alla sua porta. Entrò un uomo, continuando a ramazzare, la schiena curva
per l’età, i capelli grigi ritti in una massa ribelle sopra un paio di occhi
penetranti e familiari.
«Bene» disse il vecchio, chiudendo la porta. «Le sistemazioni non sono
nulla di memorabile, ma i residenti di questo posto sono decisamente
deplorevoli.»
«Mercurio!»
Mia si alzò dal pavimento e si lasciò cadere tra le sue braccia. Il vescovo
di Godsgrave le rivolse un ampio sorriso e la avvolse in un abbraccio
impetuoso. Lei si mise quasi a singhiozzare, sentendo tutto il dolore e la
tristezza degli ultimi cambi alleviarsi un po’. La tensione defluì dai suoi
piedi nella pietra insensibile sotto di lei. Rimase aggrappata a lui così forte
che Mercurio ebbe problemi a respirare, e lui le diede delle pacche sulla
schiena finché Mia non allentò la sua stretta, poi si passò le nocche sugli
occhi.
«’Bisso e sangue, è bello rivederti» mormorò lei.
«Anche te, piccolo Corvo» sorrise il suo vecchio mentore.
«Hai un bell’aspetto» disse lei.
«Tu sei stata meglio» replicò Mercurio, toccando la cicatrice sulla sua
guancia. «Come te la passi qui dentro?»
«Piuttosto bene» scrollò le spalle Mia. «La veraluce mi rende difficile
manipolare le ombre. Il cibo fa schifo. E ho una voglia matta di una paglia.»
«Be’, per le prime cose non ho rimedio» disse il vescovo. «Ma per la
terza…»
Mercurio frugò nella sua tunica logora e tirò fuori una sottile custodia
d’argento. Il volto di Mia si illuminò quando lui estrasse due sigaretti e li
accese con un piccolo acciarino. Lei ghermì praticamente di mano l’offerta
del vecchio, inalando il fumo nei polmoni come se la sua vita dipendesse da
quello. Gemendo, si appoggiò contro il muro e inclinò la testa all’indietro,
esalando un pennacchio di fumo ai chiodi di garofano e leccandosi lo
zucchero dalle labbra.
«Dorian il Nero» sospirò Mia.
«I migliori sigaretti di ’Grave» sorrise Mercurio.
«Denti della Mannaia, potrei baciarti…»
«Risparmia la tua gratitudine per domani» disse lui. «Puoi ringraziarmi
non facendoti ammazzare da quella sciocca che sei.»
«È quello il trucco» replicò lei.
«La nostra giovane Domina Järnheim mi ha messo al corrente dei
particolari delle vostre avventure mentre eravate lontani da ’Grave» disse
Mercurio. «Grazie alla Madre Nera non mi stava mandando aggiornamenti
regolari, altrimenti avrei avuto un fottuto infarto.»
«Ammetto che il piano è andato leggermente… storto…»
«Storto? È andato allo sbando come la merda di un folle, Mia. Solis mi è
stato addosso come seta scadente su un deliziante da due mendicanti. Finora
sono riuscito a tenerlo a bada, ma la sua pazienza si sta esaurendo.»
Mercurio fece una smorfia, prendendo una tirata del suo sigaretto. «Mentre
parliamo, tu stai viaggiando nella Vaan settentrionale, giusto perché tu lo
sappia. Hai mancato il portatore della mappa a Carrion Hall per un solo
cambio.»
«Davvero negligente da parte mia» mormorò lei.
«Sì, be’, non sei mai stata la mia studentessa più sveglia.»
Mia sogghignò, inalando un’altra boccata di grigio dolce e caldo.
«Ho ricevuto una visita pochi cambi dopo la tua partenza, a proposito»
disse Mercurio. «Una tua amica è venuta a ficcare il naso nella necropoli.»
«… Io non ho amiche, Mercurio, lo sai.»
«Una ragazza di nome Belle? Ha detto di riferire che l’avevi mandata
tu.»
Mia sbatté le palpebre e un lento ricordo si insinuò dentro di lei come un
ladro. Rammentò la quattordicenne nella casa di piacere dei braavi, con il
livido sulle labbra e troppo dolore negli occhi.
«È venuta a cercarti?» sorrise Mia. «Buon per lei.»
«Non ho l’abitudine di accogliere tutti i randagi che arrivano dalla
strada, Mia» ringhiò lui. «Sono un vescovo della Nostra Signora
dell’omicidio benedetto, non un fottuto benefattore.»
Mia incrociò le braccia e fissò Mercurio con il suo sguardo scuro.
«Ricordo un randagio che entrò nella bottega di Curiosità di Mercurio
non così tanto tempo fa» disse lei. «Una ragazzina senza un amico al
mondo e un’intera Repubblica schierata contro di lei. Tu la accogliesti. Le
desti un posto che potesse essere suo. Le desti amore in un mondo in cui
pensava che per lei restasse solo merda. E ripensandoci ora, non credo che
lei ti abbia mai detto grazie.»
Mia stampò un bacio delicato sulla guancia del vecchio.
«Perciò grazie. Per tutto.»
«Smettila» borbottò lui, spingendola via.
«So cosa ti è costato aiutarmi» disse lei. «So cos’hai rischiato per farmi
arrivare qui. Scaeva e Duomo hanno portato via la mia familia, ma ne ho
trovata un’altra in te.»
Il vecchio si accigliò e si schiarì la gola.
«Non ci stai andando piano con me, vero, piccolo Corvo?»
«Non me lo sognerei mai.»
Il vecchio sbatté freneticamente le palpebre e si asciugò la faccia.
«Quanta cazzo di polvere c’è in queste celle.»
«Già» sorrise lei, tamponandosi gli occhi. «Proprio tanta. Ashlinn è
pronta?»
«È tutto preparato. Ti fidi ancora di lei?»
«Con la mia vita.»
«Credo che abbia un debole per te.»
Mia sorrise attorno al sigaretto. «Ha sempre avuto pessimi gusti.»
Mercurio sospirò e la guardò intensamente negli occhi.
«Sei certa di sapere cosa stai facendo?»
«Anche se non lo fossi, è un po’ tardi per cambiare canzone ora» disse
lei con una scrollata di spalle. «Continuerò a danzare finché non si ferma la
musica e vedrò dove mi portano i passi.»
«Non è troppo tardi, Mia. Puoi ancora cambiare idea.»
«Ma è proprio questo il punto, Mercurio» disse lei. «Io non voglio.
Anche se Messer Cortese ed Eclissi non fossero con me, io non avrei paura.
Ogni cambio degli ultimi sette anni ha portato a questo momento.
Interpreterò il ruolo che il destino mi ha assegnato. E domani, quando
calerà il sipario sull’ultimo atto, Scaeva e Duomo andranno giù assieme a
esso.»
«Solo ricorda» disse Mercurio, accigliato. «L’ultimo atto di uno
spettacolo non dev’essere l’ultimo anche per te.»
«Non desidero morire» sospirò Mia, spegnendo la sua paglia contro il
muro. «A essere sincera, mi sembra più interessante essere l’assassina più
ricercata della Repubblica.»
«Un nobile obiettivo a cui qualunque ragazza dovrebbe aspirare» sorrise
Mercurio.
Mia ricambiò il sorriso. «Be’, una volta mi dicesti che non sarei mai
stata un eroe.»
Gli occhi di Mercurio si riempirono di lacrime. Lui la avvolse in un
abbraccio stretto, tirandola vicino al petto. E lì al buio, solo loro due,
tenendo stretta la ragazza che lui considerava come una figlia, il vecchio
sussurrò.
«Potrei aver mentito.»
a. L’Arena di Godsgrave fu commissionata nel tardo regno del Grande Unificatore, re Francisco I,
anche se la costruzione non fu completata finché suo nipote, Francisco III, non prese il trono
trentasei anni più tardi.
I principali architetti furono marito e moglie: Dominus Theodotus e Agrippina della Familia
Arrius. Theodotus era un uomo dotato di spiccato acume quando si trattava di mekana, ma sua
moglie era semplicemente un genio. I due sgobbarono per tutta la vita su quella struttura: si
vocifera che Agrippina diede alla luce il loro figlio, Agrippa, sul suo tavolo da disegno.
Agrippina morì tre cambi dopo la posa dell’ultima pietra nell’anello esterno dell’arena.
Affranto per il trapasso della sua amata, Theodotus si unì a lei meno di una settimana dopo. Le
statue di entrambi si trovano fianco a fianco nella Via dei Visionari nel Collegio di Ferro, le mani
intrecciate, un testamento del potere dell’insistenza, dell’ambizione e della passione.
La scritta alla base delle statue recita: “In amore e pietra, immortali”.
Questa è la storia, gentili amici.
Nessuna battuta.
Nessun sarcasmo.
Pensavo che voleste udire qualcosa di dolce, visto quello che sta per accadere…
CAPITOLO 32
GENTILMENTE
Mia sedeva nel buio della sua cella, su un semplice giaciglio fatto di paglia,
l’oscurità rischiarata solo da un piccolo globo arkemico. L’ora era tarda, la
calura appena alleviata dalla brezza fresca dell’illuminotte. Poteva udire i
suoni distanti di acciaio su acciaio, mekana che si muovevano sotto le
sabbie dell’arena, il boato della folla che ancora riecheggiava tra gli spalti.
Mia mal sopportava tutto ciò.
Le guardie pattugliavano il corridoio lì fuori, muovendosi lungo la fila
delle celle dei campioni.
Non erano tra le residenze migliori di tutta Godsgrave, vero, ma le celle
concedevano un momento di intimità prima del cambio che avrebbe deciso
le vite dei loro occupanti.
Mia udì la serratura mekana azionarsi sulla porta della sua cella e,
quando alzò lo sguardo, vide una guardia donna in piedi sulla soglia.
«Un momento del tuo tempo» disse. «Se ti compiace.»
La guardia entrò nella cella, chiudendosi la porta alle spalle. La luce era
fioca, le fattezze nascoste, ma Mia la riconobbe comunque all’istante. La
guardia si tolse l’elmo e lunghi capelli rossi le cascarono attorno al viso. Le
sue ciglia non erano truccate, le labbra prive di pittura. Era vestita con una
corazza e una gonna di cuoio scuro, con i triplici soli della legione itreyana
sul petto. Aveva i polsi avvolti da spessi bracciali di cuoio, i suoi occhi
azzurri come cieli riarsi dai soli.
Mia spalancò le braccia e la invitò sul suo giaciglio.
«Salute, amante.»
Ash giaceva tra le braccia di Mia, madida di sudore, e alzò lo sguardo nei
suoi occhi scuri.
«… Che c’è che non va?»
Mia si limitò a scuotere il capo e a stringere Ash più forte. Giacquero
assieme sul lettuccio di paglia in quella fossa buia, il sapore dell’una
rimasto sulle labbra dell’altra. Il mantello di Ash sotto di loro. Pietra e ferro
attorno a loro. Tutto il mondo contro di loro. La morte che incombeva
enorme su un orizzonte violento. E per quell’unico, semplice istante, nulla
di tutto ciò ebbe importanza.
Nulla di tutto ciò ebbe la minima importanza.
«Sembra un sogno» sussurrò Mia. «E io non voglio svegliarmi.»
Poi incontrò i suoi occhi.
«Questo è amore» disse Mia semplicemente.
E sporgendosi in avanti, chiuse gli occhi e regalò ad Ash un bacio
delicato.
CAPITOLO 33
INIZIO
«Ahi.»
Sidonius avvertì un calcio leggero contro il braccio. La sua pancia
sussultò da un lato, ma il gladiatii tenne gli occhi chiusi, trattenendo il fiato.
Un altro calcio da un piede particolarmente ossuto.
«Riesco ancora a vedere il tuo marchio da schiavo, uomo morto. È un
bene che i tizi che hanno trascinato il tuo cadavere quaggiù non si siano
preoccupati di toglierti l’elmo. È ora di andare.»
Sidonius socchiuse appena un occhio e vide un vecchio con stracci
sbrindellati chino su di lui. Aveva vividi occhi azzurri, una massa di capelli
grigi e un sigaretto acceso tra le labbra.
«Sei… Mercurio?» sussurrò.
«No, sono l’amante del Gran cardinale. Ora alzati.»
Sidonius si mise a sedere sul pavimento dell’obitorio, circondato da
centinaia di cadaveri. Intravide una ragazza snella con l’armatura da guardia
sporta sopra il “cadavere” di Alzaonda, che lo picchiettava sulla spalla.
«Tu sei Ashlinn» sussurrò Sidonius.
«Lieta di incontrarti» annuì la ragazza. «Ora, sul serio, sbrigati ad
alzarti.»
Cantalame era in piedi e si tolse l’elmo, ancora inzuppato di sangue. Con
una smorfia, Sidonius si levò il suo e allungò una mano dietro il collo per
tirar fuori la vescica perforata che aveva sotto il pettorale. Poteva sentire il
sangue di pollo lungo la schiena coagularsi in una sozzura untuosa e
viscida.
«C’è un secchio nella carriola» disse Mercurio. «Lavati e vestiti.
Dobbiamo andarcene prima del termine del magni. E non ci vorrà molto.»
I Falconi del Collegio Remus fecero a turno, lavandosi il sangue meglio
che potevano e indossando gli indumenti che gli venivano dati. Ad alcuni
l’armatura dei portinai privi di sensi, stracci per gli altri. Sidonius si mise
l’elmo d’acciaio e il pettorale di cuoio di una guardia, guardando la pietra
sopra di lui mentre la folla lanciava un urlo esultante.
«Come pensate che se la stia cavando lei lassù?» mormorò.
Alzaonda gli diede una pacca sulla spalla. «Abbi fede, fratello. Ci ha
fatti arrivare fin qui.»
«Con non poco aiuto da parte tua.» Bryn sogghignò.
«Sì, ma doveva proprio essere sangue di pollo?» chiese Macellaio con
una smorfia. «Puzza.»
Alzaonda scrollò le spalle. «È così che mi hanno insegnato a teatro.»
Mercurio si accigliò e spense il suo sigaretto.
«Mi rendo conto che le possibilità che gli administratii inviino una
squadra di ricerca per trovare un gruppo di gladiatii morti sono scarse, ma
se voialtri avete finito di chiacchierare, abbiamo una fuga rocambolesca da
portare a termine.» Il vecchio gesticolò verso la porta. «Perciò, se avete
finito di farvi i cazzi vostri…?»
«Scusatelo» borbottò Ashlinn. «Lui è sempre così.»
Mettendo a posto l’elmo, Sidonius raddrizzò le spalle. Con i suoi
compagni dietro di lui, uscì nel corridoio. Le viscere dell’arena erano
praticamente vuote, tutti gli occhi sullo spettacolo di sopra. Attraversarono
rapidamente i corridoi, Ashlinn davanti, finché non giunsero a un piccolo
ingresso per la servitù, chiuso a chiave e sbarrato.
Ashlinn aprì la porta su un vicoletto. Lì fuori c’erano due guardie
accasciate: Sid non riuscì a capire se fossero morte o addormentate. Ma
vide anche il carretto di un mercante e una graziosa ragazza bionda al posto
di guida. Lei li guardò e sorrise.
«Questa è Belle» disse Mercurio. «Vi porterà dall’altra parte
dell’acquedotto. Una schiavista chiamata Bevilacrime vi aspetta sulla
terraferma.»
«Una schiavista?» ringhiò Cantalame.
«Deve un favore a Mia» spiegò Ashlinn. «Il genere di favore più grande
che esiste. Ha le carte che attestano che ha comprato la vostra libertà. E
contratti con gli administratii per far rimuovere i vostri marchi. Ora
andate.»
«Mia…» esordì Sid.
«Andate.»
Bryn e gli altri erano già sul carro. Alzaonda afferrò Sidonius per il
braccio e lo tirò sul pianale. La ragazza schioccò le redini e si avviarono,
rimbalzando sul selciato mentre percorrevano le strade di Godsgrave.
«Ottimi cavalli» disse Bryn, annuendo agli animali che trainavano il
carro.
«Lo stallone nero è Onice» sorrise la ragazza. «La giumenta bianca è
Perla.»
Sidonius andò a mettersi al posto di guida accanto a lei, cercando di dare
un’impressione di autorità nella sua uniforme. Però scoprì che gli
tremavano le mani e che aveva le ginocchia deboli: quelle traversie
l’avevano lasciato vuoto. Dopo settimane di piani, a recitare la parte, a
pregare che riuscissero in qualche modo a farcela, l’adrenalina gli si stava
inacidendo nelle vene, lasciandolo esausto e…
«Non avere paura» disse la ragazza, stringendogli forte la mano. «Andrà
tutto bene.»
Sidonius la squadrò dall’alto in basso. Occhi grandi e scuri. Era poco più
di una bambina.
«… Come fai a saperlo?» la schernì.
«Perché le voci nella tua testa che dicono altrimenti sono solo Paura.
Non darle mai ascolto.»
La ragazza sorrise e voltò gli occhi di nuovo verso la strada.
«Paura è una codarda.»
a. Famigerato scontro avvenuto nei primi anni della Repubblica, e probabilmente la più vasta
battaglia navale mai combattuta sotto i tre soli. La Battaglia di Seawall coinvolse quattro flotte
numerose: la Marina itreyana, sotto il comando del Grande Unificatore, Francisco I, e una flotta
inviata come tributo dallo Stato vassallo di Vaan si scontrarono con navi dei clan dweymeri sotto
il comando di Bara Danzasole del clan Tredrachi e una flottiglia di signori dei pirati che avevano
giurato di opporsi al dominio itreyano dei mari.
Come potreste aver indovinato, la loro resistenza durò quanto una bottiglia di aureovino di
prima qualità in un bordello pieno di teste di cazzo.
CAPITOLO 35
ANDATO
Leona urlò con gli altri, il cuore in gola. Qualcosa tra esultanza e agonia,
mentre osservava Furian crollare e il Corvo cadere in ginocchio sopra il suo
cadavere, trionfante. Lei ce l’aveva fatta. Aveva vinto. Una vittoria per il
Collegio Remus. Tutti i sogni di Leona realizzati. Tutti i suoi sacrifici
giustificati.
Ma il pugnale che il Corvo aveva usato durante il magni era sbagliato.
Ciò voleva dire che lo scontro delle esecuzioni…
«Mea Domina, un calice?»
Leona guardò con aria sorpresa uno schiavo che si era materializzato
accanto a lei. Un vecchio con un vassoio d’argento, coppe e una bottiglia di
aureovino di prima qualità. Era uno di una dozzina di servitori che si
aggiravano per i palchi dei sanguila, offrendo ai maestri del sangue bevande
fresche mentre quelli si alzavano per tributare a Leona un applauso
riluttante. Il magni era stato un combattimento duro, ma era stato
straordinario, ed era il momento perché gli uomini che ne traevano
maggiori benefici onorassero i giochi e il loro vincitore con un tradizionale
e meritato brindisi.
Il marchio circolare del vecchio sembrava recente, un tantino troppo
scuro sulla guancia. I suoi occhi azzurri scintillavano come rasoi e qualcosa
in lui mise Leona decisamente a disagio. Guardò il calice che le porgeva e
scosse il capo.
«No» mormorò. «Grazie.»
Leona spostò di nuovo gli occhi al cuore dell’arena e vide il Corvo in
piedi in mezzo alla carneficina. La ragazza sollevò in alto il suo gladio
insanguinato e la folla esultò. Tutti erano in piedi: dai ministri della Chiesa
di Aa alla gente comune, su fino al palco del console. Scaeva stesso era in
piedi, con il figlioletto sulle spalle, acclamando entusiasta.
Nessuno di loro riusciva a vedere?
Erano tutti ciechi?
«Mea Domina?» chiese di nuovo il vecchio.
«Ho detto di no» sbottò Leona. «Non ho sete, vattene!»
«Non vi sto suggerendo di bere, domina» disse lui, mettendole a forza un
calice tra le mani.
La domina ringhiò, pronta a redarguire il vecchio sciocco per la sua
temerarietà. Ma poi notò l’annata sulla bottiglia. Un’etichetta che riconobbe
dalla sua fanciullezza, il ricordo inciso a fuoco nella sua memoria. Quella
bottiglia stretta nella mano di suo padre, il sangue che schizzava rosso
mentre sua madre urlava.
«Albari» sussurrò lei. «Il settantaquattro.»
«Davvero una bottiglia eccellente» replicò il vecchio.
«Vattene!» sbottò la magistrae. «Prima che ti faccia picchiare per la tua
impertinenza.»
Il vecchio si voltò verso la magistrae e la fissò con i suoi occhi azzurro
ghiaccio. Spinse il suo vassoio carico nelle braccia della donna mentre lei si
infuriava e, infilando una mano nella tunica, tirò fuori un costoso sigaretto
ai chiodi di garofano e se lo appoggiò sulle labbra.
«Sapete,» ringhiò «esiste un posto speciale nell’Abisso riservato per
coloro che uccidono le ragazzine.»
Il cuore di Leona si fermò. Guardò in direzione di Anthea, poi di suo
padre. Non era mai stato tipo da sprecare un’ottima annata: l’uomo stava
alzando il suo calice di Albari settantaquattro con gli altri, gli scintillanti
occhi azzurri fissi su sua figlia mentre lui e i suoi colleghi bevevano a
fondo. Forse pensava che fosse un caso. Forse semplicemente non gliene
importava. Ma dopo che ebbe bevuto a fondo dalla sua coppa, guardò sua
figlia e le regalò un sorriso cupo.
Leona fissò il calice che il vecchio le aveva dato. Una sottile striscia di
pergamena si annidava sul fondo, cinque parole scritte con inchiostro nero.
TUTTI I RINGRAZIAMENTI CHE POSSO.
Sotto di essa, Leona vide lo schizzo di un corvo in volo sopra due spade
incrociate.
L’emblema della Familia Corvere.
Leona alzò lo sguardo negli occhi del vecchio. I suoi erano sgranati, ora
che capiva. Il vecchio tirò fuori un acciarino, si accese il sigaretto e inalò a
fondo.
«Nel caso lo rivogliate, troverete Arkades a Blackbridge» disse lui. «Io
non tornerei a Crow’s Nest se avete a cuore il vostro grazioso collo. Vi
porteranno via tutto. La vostra casa. Il vostro collegio. La vostra ricchezza.
E dovrete lasciarvi il vostro nome alle spalle. Ma avrete ancora la vostra
vita, se ve ne andrete ora. Questo è tutto ciò che è stata disposta a lasciarvi,
temo.»
Il vecchio lanciò un’altra occhiataccia ad Anthea, poi si voltò e si
allontanò, attraverso i palchi dei sanguila e poi giù per le scale. Leona
guardò di nuovo verso suo padre, poi si voltò in direzione della sua
magistrae. Nelle narici aveva l’odore di una pira funebre. Nelle orecchie le
riecheggiava la voce del Corvo.
Guardate quelli più vicini a voi…
«Devo usare il bagno» disse. «Mi sento male.»
«Ma, Dominatii…» interloquì la magistrae. «I vostri onori? Vi saranno
presen…»
«… Ci metterò solo un attimo. Aspettami qui finché non torno.»
La magistrae si accigliò, ma le rivolse un inchino profondo. «Il vostro
sussurro, la mia volontà.»
Leona annuì alle sue guardie della casa, raccolse il suo abito e cominciò
a salire le scale. Si fermò per voltarsi di nuovo verso la sua magistrae.
«Oh, e… Anthea?» annuì verso il vassoio tra le braccia della donna.
«Versati qualcosa da bere mentre io sono via.»
«Sì, Dominatii» si accigliò la donna. «… Grazie, Dominatii.»
«Di nulla» replicò Leona, voltandole le spalle. «Credo che tu te lo sia
meritato.»
“Pazienza.”
Mia si trovava sul piedistallo centrale, salda come la pietra attorno a lei.
Il ricordo di quell’unico globo che emetteva luce soffusa nei cieli era inciso
nella sua mente. Quella voce le riecheggiava nel cranio. Malgrado i tre soli
che ardevano là sopra, la sua stretta sulla tenebra le sembrava più forte ora
che Furian era morto. Più profonda, più ricca in qualche modo, con l’ombra
ai suoi piedi che si increspava, si muoveva, trasudava sul lastricato verso…
“Scaeva.
“Duomo.”
«… ARRIVANO …»
«… che spirito d’osservazione…»
Lei riusciva a vederli scendere verso il bordo dell’arena. La folla attorno
a loro si separava come un mare davanti all’onda di Luminatii che li
precedevano. Mia udì un gemito mekana e le acque infestate di drachi
ribollirono quando una grande arcata di pietra affiorò dal suolo dell’arena.
Acqua marina colava dai lati e quella scivolò al suo posto, formando un
ampio ponte dal bordo dell’arena al piedistallo centrale. Su un lato c’era
Scaeva, con il figlioletto sulle spalle, tre dita sollevate per benedire la folla
adorante.
«… porta il ragazzo…»
«… E ALLORA? LUI NON HA AVUTO PROBLEMI A UCCIDERE IL PADRE DI MIA
DI FRONTE A LEI …»
«… che sete di sangue, caro cagnaccio…»
«… PREPARATI, BASTARDO. È IL MOMENTO CHE IL GIOVANE LUCIUS IMPARI
LE DURE REALTÀ DELLA VITA …»
Mia fissò gli occhi su Scaeva nella sua ricca toga porpora, Duomo dietro
di lui con le sue vesti da cardinale rosso sangue. Mentre osservava, mezza
dozzina di attendenti tolsero il bastone dalle mani del cardinale e gli
levarono i paramenti. Lì sotto, quel gran sant’uomo era abbigliato con una
sottoveste fatta come un saio liso, a piedi scalzi. Si tolse gli anelli, i
bracciali dorati e, infine, la Trinità benedetta di Aa che gli pendeva attorno
al collo.
Si era spogliato di tutto.
L’uomo più santo della Repubblica. La Mano di Dio in persona, ridotto a
un mendicante, proprio come lo era stato il Padre della Luce nella vecchia
parabola in cui aveva donato la libertà allo schiavo generoso. E presto il
campione del magni avrebbe conosciuto quella stessa libertà, concessa dalla
voce del Semprevigile su questa terra.
Ma prima giunsero i Luminatii e uno stormo di attendenti dell’arena.
Marciando per quel ponte di pietra, con i drachitempesta grassi e sazi lì
sotto. Un’intera centuria di soldati, vestiti con armatura di necrosso, le loro
lame di solacciaio increspate della fiamma sacra. Raggiunte le
fortificazioni, circondarono Mia mentre gli attendenti si mettevano al
lavoro, gettando i corpi dei gladiatii uccisi giù dai bastioni, nelle acque
ribollenti lì sotto. Lei riservò un’occhiata al corpo di Furian, osservandolo
ruzzolare e poi finire in quell’azzurro con un tonfo, l’oscurità ai suoi piedi
che si increspava. Un centurione Luminatii si mise davanti a Mia e allungò
una mano senza parlare, lanciando un’occhiata al suo gladio insanguinato.
Mia consegnò la lama senza esitazioni.
Mentre la folla cantilenava ed esultava, gli attendenti si affrettarono a
lavar via il sangue, poi raccolsero le armi cadute e le gettarono in acqua
accanto ai cadaveri dei loro possessori, quindi si precipitarono di nuovo
dall’altra parte del ponte. Mia rimase lì circondata da Luminatii, che la
attorniavano da ogni lato, cento contro una.
«In ginocchio, schiava» ordinò il centurione.
Mia fece come ordinato, ginocchio e nocche premuti contro la pietra, il
capo chino.
Il suo pugnale di necrosso era di nuovo nascosto dentro il bracciale di
ferro che aveva al polso.
Squillarono le trombe. La processione cominciò, Duomo per primo, le
ampie spalle dritte, la barba ispida, tre dita sollevate mentre marciava lungo
il ponte circondato da altri legionari. Poi veniva Scaeva, salutando la folla
festante, suo figlio sopra le spalle che teneva in mano il serto dorato del
vincitore. Mia tenne la testa bassa, guardando torvo attraverso le ciglia
mentre il cardinale si avvicinava e i Luminatii attorno a lei si aprivano per
lasciarlo passare.
Duomo si fermò davanti a lei, guardandola con un sorriso gentile. Erano
passati anni dall’ultima volta che l’aveva vista. Lei aveva un nuovo volto e
nuove cicatrici da mostrare. Ma alzando lo sguardo nei suoi occhi, cercò di
capire se la riconosceva. Un qualche sentore che si fosse accorto di chi era
la persona inginocchiata davanti a lui. Qualche ammissione di tutte le sue
colpe.
Nulla.
“Non mi conosce nemmeno.”
Avanzarono altri Luminatii dietro cui marciava Scaeva, prendendosela
comoda. Salutando la folla assieme a suo figlio. E mentre lui e il suo
seguito si avvicinavano sempre di più, sopra le farfalle ostinate che le
svolazzavano nello stomaco, Mia la percepì. Una sensazione ormai
familiare.
Fame.
“Desiderio.”
La brama di un rompicapo che cercava un pezzo di se stesso.
“Denti della Mannaia…”
Sgranò gli occhi. Aveva la bocca secca come cenere.
“Qualcuno qui è tenebris…”
Cercò tra i soldati, ma non percepì alcuna traccia di fame. Con il cuore
che palpitava, guardò Duomo, ma no… sarebbe stato impossibile. L’aveva
visto maneggiare una Trinità benedetta: se fosse stato un tenebris, gli
emblemi santificati di Aa l’avrebbero respinto, proprio come lei…
Oh, Madre Nera…
“… Scaeva?”
Ebbe un tuffo allo stomaco. Sgranò gli occhi. Ma di nuovo, l’aveva visto
durante il verobuio in cui aveva attaccato la Basilica Grande. Lì tra le
panche della santa casa di Aa, senza nessun effetto negativo tra i fedeli del
Padre della Luce o i suoi simboli benedetti. Ma…
Oh, Madre Nera…
“Il ragazzo…”
Il figlio di Scaeva.
Lei lo guardò e scoprì che la stava osservando a sua volta, la fronte
aggrottata dalla perplessità. Era scuro di capelli, scuro di occhi, proprio
come lei. E mentre lo stomaco di Mia affondava verso i suoi piedi, sul volto
del ragazzo, nella linea delle sue guance o forse nella forma delle sue
labbra, lei vide…
“Luminus Invicta, eretica” disse Remus. “Porterò a tuo fratello i tuoi
saluti.”
… lei capì.
“Hai già ciò che è tuo” disse Alinne. “La tua vittoria vuota. La tua
preziosa Repubblica. Spero che ti tenga al caldo la notte.”
Il console Julius abbassò lo sguardo su Mia, il suo sorriso scuro come
lividi. “Ti piacerebbe sapere cosa mi tiene al caldo la notte, piccolina?”
No…
Mia sbatté le palpebre al buio. I suoi occhi perlustrarono la cella.
“Madre, dov’è Jonnen?”
Domina Corvere articolò parole prive di forma. Si artigliò la pelle e
conficcò le mani tra i capelli aggrovigliati. Digrignò i denti e chiuse gli
occhi quando le colarono lacrime lungo le guance.
“Andato” mormorò. “Con suo padre. Andato.”
Non “morto”.
Solo “andato”.
Con suo…
… no.
“Oh, madre, ti prego, no…”
«Padre» disse il ragazzo sulle spalle di Scaeva.
«Sì, figlio mio?» replicò il console.
Il bambino strinse gli occhi neri come l’inchiostro. Guardò dritto Mia.
«Ho fame…»
Mia voltò gli occhi sulla pietra. Ora il suo cuore stava martellando,
malgrado tutti gli sforzi di Messer Cortese ed Eclissi. Le pulsazioni
acceleravano sotto la sua pelle. Era un pensiero troppo repellente a cui
credere, troppo orrendo, troppo sconvolgente, ma lanciando una nuova
occhiata alla faccia dal ragazzo, lo vide. La forma degli occhi di sua madre.
La curvatura delle sue labbra. Ricordi del neonato con cui aveva giocato da
bambina, sei anni e una vita fa, inondarono di nuovo la sua mente e
minacciarono di uscirle dalla gola in un urlo.
“Jonnen.
“O dolce, piccolo Jonnen.
“Mio fratello è vivo…”
La sua mente correva. Il cuore palpitava. Il sudore bruciava. Mia strinse
le mani a pugno e premette le nocche contro la pietra mentre il cardinale
Duomo si metteva davanti a lei e spalancava le braccia, la faccia rivolta al
cielo.
“Pazienza.”
«Padre della Luce!» disse a gran voce Duomo. «Creatore di fuoco,
acqua, tempesta e terra! Ti chiamiamo a fare da testimone, in questa tua
santa festa! Per diritto di combattimento e sfida davanti ai tuoi occhi che
tutto vedono, nominiamo questa schiava una donna libera, e ti prego di
concederle l’onore della tua grazia! Alzati e pronuncia il tuo nome,
bambina, affinché tutti possano conoscere il nostro vincitore!»
“Pazienza.”
«Corvo!» tuonò la folla. «CORVO!»
Il nome riecheggiò sulle pareti dell’arena.
Riverbero.
Ammonimento.
Benedizione.
«Corvo! Corvo! Corvo! Corvo!»
La ragazza si alzò lentamente, ergendosi come una montagna sotto quei
soli ardenti.
«Il mio nome è Mia» disse piano.
La sua mano scivolò verso la lama di necrosso al polso.
«Mia Corvere.»
Duomo sgranò gli occhi. Scaeva increspò la fronte. La lama fischiò
lungo il tragitto, tagliando la gola del cardinale da un orecchio sanguinante
all’altro. Lui barcollò all’indietro, sangue scuro che zampillava dalla ferita,
le dita alla carotide e alla giugulare tranciate. Lo spruzzo la colpì in faccia,
denso e rosso, caldo sulle sue labbra mentre lei si muoveva, mentre i
Luminatii si muovevano, mentre tutto attorno a lei si muoveva. La folla urlò
inorridita. Il cardinale crollò sulla pietra. I Luminatii lanciarono un grido e
sollevarono le lame. E la ragazza. La Lama. La gladiatii. La figlia di una
casa assassinata, di una ribellione fallita, vincitrice del più grande
passatempo di sangue che la Repubblica avesse mai visto… caricò.
Dritto verso Julius Scaeva.
La paura fece sbiancare le sue fattezze attraenti, i suoi occhi scuri
strabuzzati dall’orrore. I Luminatii si mossero per intercettarla, ma lei era
veloce come ombre, affilata come rasoi, dura come acciaio. Scaeva lanciò
un urlo, sollevando dalle spalle il ragazzino, che aveva gli occhi sgranati
per la paura. E mentre a Mia si girava lo stomaco, il console protese suo
figlio come uno scudo e poi, codardo tra i codardi, lo lanciò contro la faccia
della ragazza.
Lei urlò e allungò la mano, il ragazzino che agitava le mani in volo. Il
mondo rallentò, i soli le battevano sulla schiena, il calore di fiamme di
solacciaio si diffondeva sulla sua pelle come un’onda. Mia afferrò il
ragazzo e lo tenne stretto nel braccio libero, tirandolo vicino. Poi,
sollevandosi in punta di piedi, piroettò come un ballerino, i lunghi capelli
scuri che sventolavano e il braccio proteso in un arco scintillante.
Perfezione.
La sua lama affondò nel petto di Scaeva, penetrando fino all’elsa. Il
console emise un rantolo e sgranò gli occhi. Il volto di Mia si contorse e il
tessuto cicatriziale le tirò la guancia, l’odio come un acido nelle sue vene.
Tutte le miglia, tutti gli anni, tutto il dolore si fusero nei muscoli del suo
braccio, tesi con forza mentre trascinava la lama da un lato, spaccandogli le
costole e tagliando il suo cuore in due. Lasciò la lama di necrosso che
fremeva nel suo petto, il corvo sull’elsa che sorrideva con i suoi occhi
d’ambra, sangue scuro che zampillava dalla ferita. E con il ragazzo stretto
al petto, ancora piroettando come in una danza, come in un quadro, si torse
all’indietro, oltre il bordo delle fortificazioni.
E cadde.
Nei cambi a venire, i momenti successivi sarebbero stati l’argomento di
innumerevoli racconti da taverna, dibattiti durante la cena e risse da osteria
per tutta la città di Godsgrave.
La confusione si verificò per diversi motivi. Per prima cosa, fu circa in
questo momento che la magistrae, Leonides, Tacitus, Phillipi e praticamente
qualunque altro sanguila ed executus nei palchi a bordo arena cominciarono
a vomitare sangue per l’aureovino avvelenato che avevano bevuto, cosa che
provocò una certa distrazione. Il piedistallo centrale si trovava a una certa
distanza perfino dai posti in prima fila, perciò per molti del pubblico
risultava difficile vedere. E ultimo e più importante, il Gran cardinale e il
console erano stati appena ammazzati brutalmente dal campione del magni,
cosa che lasciò tutti quanti gli spettatori alquanto stupefatti.
Alcuni dicevano che la giovane fosse caduta con il ragazzo tra le braccia
proprio nella bocca di un dracotempesta affamato. Altri dicevano che era
finita in acqua, ma aveva evitato i drachi, fuggendo attraverso le tubature
che avevano ricreato l’oceano sul suolo dell’arena. E poi c’erano quelli –
presi per pazzi o ubriachi, per la maggior parte – che giuravano sul
Semprevigile e tutte e quattro le sue Sante Figlie che questo fuscello di
ragazza, questo demone avvolto in cuoio e acciaio che aveva appena
assassinato le due personalità più importanti della Repubblica, fosse
semplicemente scomparsa. Un momento stava cadendo verso l’acqua
nell’ombra lunga dei bastioni, quello dopo era completamente svanita.
L’arena era in preda a tumulto, furia, sgomento, terrore. I maestri del
sangue crollarono sulle loro sedie o caddero a terra, Leonides e la magistrae
morti in mezzo a loro, ogni stalla di gladiatii della Repubblica decapitata
con un unico colpo. Duomo giaceva sulle fortificazioni, il volto esangue, la
gola tagliata fino all’osso. E accanto al Gran cardinale, la sua veste porpora
zuppa di scuro sangue arterioso, giaceva il salvatore della Repubblica.
Julius Scaeva, il Senatore del Popolo, l’uomo che aveva sconfitto gli
Incoronatori e permesso a Itreya di scampare alla calamità, era stato
assassinato.
CAPITOLO 36
GODSGRAVE
No.
Vi sento dire quella parola mentre sono seduto nella stanza accanto a
voi. Vi vedo, chini sul tomo che avete in mano con la fronte accigliata e
un’imprecazione sulle labbra, come se fossi addensato nell’ombra ai vostri
piedi. La consapevolezza che non ci sono altre pagine ora sta attecchendo.
La sento. La vedo.
No, dite di nuovo.
Cosa accade a Mia e Jonnen? A Scaeva? A Mercurio, Ashlinn e Tric? E
i segreti dei tenebris? La Corona della Luna? Ho promesso rovine nella sua
scia. Luce pallida che scintilla sulle acque che hanno inghiottito una città
di ponti e ossa. Tutte queste domande non hanno ancora risposta, eppure il
libro è arrivato alla sua conclusione?
No, dite voi. Non può finire così.
Non temete, piccoli mortali. La canzone non è stata ancora cantata.
Questo è solo il silenzio prima del crescendo. Questo racconto è solo il
secondo di tre.
Nascita, vita e morte.
Perciò pazienza, gentili amici.
Pazienza.
Chiudete gli occhi.
Prendete la mia mano.
E camminate con me.
RINGRAZIAMENTI
Non era il nome che sua madre gli aveva donato, ma per gli amici, come
per i nemici, era noto come la Tempesta di Galante. E stava passando
un’illuminotte bastarda.
Il suo fioretto di acciaio liisiano, che aveva mandato al Focolare più di
una dozzina di uomini, ora era pesante nella sua stretta. Lo stiletto dorato
nella mano debole scintillava alla luce dei due soli ingrossati, giallo e rosso
luccicante. Tra pochi mesi sarebbe stata veraluce, e la Tempesta di Galante
non poteva fare a meno di desiderare che la figlia del conte Gunnar potesse
essersi fatta catturare in un periodo più fresco dell’anno.
Stava correndo il serio rischio di cominciare a sudare.
Le tre hüsguardie che lo stavano squadrando dai bastioni battuti dal
vento probabilmente conoscevano la Tempesta come reputazione, se non di
vista. Nei sette anni in cui la sua nave, la Fanciulla Insanguinata, aveva
solcato il Mare delle Stelle, la Tempesta aveva accumulato notorietà come
un deliziante del porto accumula pidocchi all’inguine. Era noto come uno
spadaccino senza pari, uno sfrontato libertino e uno spaccone in tutto e per
tutto. E anche se si guadagnava da vivere come corsaro, era comunque il
tipo di canaglia a cui piaceva assicurarsi che un tizio conoscesse il suo
nome prima di ammazzarlo a dovere.
«Sapete chi sono?» chiese alle guardie sollevando un sopracciglio.
«Sì» replicò quella più bassa.
«Sei la Tempesta di Galante» disse quella più rozza.
«Bravo, gentile amico. E sapete perché mi chiamano così?»
Le hüsguardie si scambiarono occhiate, scrollando le spalle.
«Permettetemi di dimostrarlo» sorrise la Tempesta.
Osservandolo guizzare sui bastioni per infilzare la prima hüsguardia,
sarebbe stato facile credere che la Tempesta dovesse il suo soprannome al
braccio che reggeva la spada. Si muoveva proprio come la sua omonima, la
lama saettante come un fulmine. Il suo stivale incontrò l’inguine della
hüsguardia più bassa come un tuono, facendola cadere a terra uggiolando.
L’ultima guardia oppose una difesa valorosa con un’ascia da battaglia
affilata, ma con uno scatto del polso della Tempesta e un lampo brillante di
polvere arkemica, la guardia fu costretta a indietreggiare barcollando e il
fioretto della Tempesta segnò in rosso la nota di morte del poveretto.
La Tempesta guardò giù dai bastioni verso il cortile sottostante. Era
stato dato l’allarme nella fortezza, e presto sarebbero arrivate altre
hüsguardie. Kael Tre Occhi e Scrutavento stavano bloccando le scale
inferiori, ma presto i guai sarebbero stati alle calcagna della Tempesta.
Aveva solo pochi minuti prima di dover trasformare il suo salvataggio
audace in un’audace fuga, con la figlia del conte in mano oppure no. La
Tempesta aveva sperato che questo lavoro potesse essere portato a termine
con un po’ di fortuna e parecchia astuzia, ma con la fortezza di Brightstone
ora in piena allerta, lui e la sua allegra ciurmaglia avevano un’aspettativa
di vita più breve di una bottiglia di aureovino di prima qualità in un
bordello pieno di teste di cazzo.
«Ehi!» chiamò. «Scrutavento!»
Ora, mettendo da parte l’abilità nella scherma, alcuni dicevano che la
Tempesta prendesse il nome dalla sua voce: un baritono tonante e mellifluo.
Spesso, quando la Fanciulla Insanguinata navigava per il Mare delle Stelle,
la Tempesta se ne stava a prua, l’arpa in mano, e cantava. Le sue canzoni
erano così incantevoli che correva voce che perfino gli uomini-manta e i
mannari del profondo nuotassero su dagli abissi per ascoltare. Il vecchio
Pestapiedi giurava di aver visto perfino un aragolio piangere quando la
Tempesta aveva messo via la sua arpa.
«Scrutavento!» chiamò di nuovo la Tempesta.
Giù nel cortile, un imponente Dweymeri che stava sbudellando una
malcapitata hüsguardia si voltò. «Sì, capitano?»
«Il gioco è terminato! Dirigiti alla scialuppa!»
«E la ragazza?» urlò il suo primo ufficiale.
«Intendi la domina?» La Tempesta fece guizzare un sorriso fascinoso.
«Lasciala a me.»
«Ci sono un altro centinaio di questi bastardi, capitano. Non me ne
andrò…»
«E io non metterò a rischio le vostre vite senza bisogno! Vai, fratello! Se
non sono di ritorno a bordo entro mezz’ora, di’ a tua moglie che la amo.»
Il primo ufficiale imprecò, ma la lealtà della ciurma della Fanciulla era
incrollabile. La Tempesta di Galante non era il genere di capitano che se ne
stava alla timoniera e lasciava che fossero i suoi uomini a occuparsi del
combattimento, gentili amici. Quando la Fanciulla era stata ferma per la
bonaccia per sette settimane nel Mare dello Strazio, era stata la Tempesta a
privarsi delle razioni affinché i suoi uomini potessero mangiare. Quando
mezza dozzina di membri della ciurma erano stati catturati dai mercanti di
carne negli Stretti di Tsana, era stata la Tempesta che aveva guidato la
carica nelle fosse acquitrinose per liberarli. Più e più volte, il capitano
aveva sanguinato per i suoi uomini. I suoi ordini erano come la parola di
Aa in persona. E così Scrutavento e il resto della ciurma della Fanciulla
ripiegarono, facendosi strada combattendo fino alle mura per poi fuggire
nell’oceano sottostante.
La Tempesta si voltò dai bastioni e spalancò con un calcio la porta della
torre di Brightstone. La fortezza era annidata in cima a ostili dirupi lungo
la costa meridionale di Vaan, nota come l’Ossario. Avvicinarsi dalla
terraferma era possibile solo lungo un unico, stretto ponte levatoio,
sorvegliato dagli uomini migliori dello hüslaird Kussta. Avvicinarsi dal
mare era un azzardo ancora maggiore: la Tempesta e la sua banda ci
avevano messo quasi un cambio per arrampicarsi, e durante la salita
avevano perso tre dei loro uomini. Ora quelle dannate campane
sembravano voler terminare quello che l’Ossario aveva cominciato.
Incontrò un altro paio di hüsguardie sulle scale: sparò alla prima nella
gola con la sua balestra leggera e scagliò l’ultima delle sue polveri
arkemiche contro la seconda, abbattendola dopo che il lampo ebbe fatto
effetto. Ricaricando la balestra mentre scattava su per le scale, si ritrovò in
un lungo corridoio, percorso da ricchi tappeti rossi e impreziosito da un
elaborato specchio dorato. La Tempesta sbirciò giù per le scale in cerca di
inseguitori, poi, soddisfatto che non ne stesse arrivando nessuno, si fermò
per controllare il suo riflesso nello specchio.
Stava per liberare un’aristocratica, dopotutto.
Il corsaro era vestito tutto di nero: farsetto di cuoio e brache
sospettosamente strette macchiate di sangue. Occhi blu zaffiro scintillavano
sotto la tesa del suo tricorno piumato. Basette corte ricoprivano una
mascella su cui avresti potuto rompere una pala, e un sorriso perfetto
completava un ritratto che non solo faceva girare le teste ma arrivava a
rompere colli.
Qualcuno della sua ciurma diceva che avesse sedotto una delle
baphomantii e che avesse compiaciuto la demonessa così scrupolosamente
che lei gli aveva donato un volto che tutti avrebbero amato. Altri
sussurravano che avesse vinto una gara di indovinelli con un’abitante
dell’inframondo e le avesse rubato il fascino. Qualunque fosse la verità, il
primo ufficiale, Scrutavento, affermava che qui stesse l’origine del
nomignolo del suo capitano. Poiché si diceva che ovunque viaggiasse,
proprio come la sua omonima, la Tempesta lasciasse le rappresentanti del
gentil sesso piuttosto… umide nella sua scia. a
La Tempesta di Galante guardò il proprio riflesso.
Si aggiustò il polsino scompigliato su una manica nera.
E ammiccò.
Scattò lungo il corridoio, andando a sbattere contro alcuni servitori e
urlando scuse affrettate, poi corse su per altre scale, pensando di essersi
lasciato dietro i cadaveri degli ultimi uomini del laird. Finalmente
raggiunse il pianerottolo fuori dalla camera da letto principale della
fortezza, ma rimase deluso nello scoprire una dozzina di hüsguardie in
armatura di piastra pesante che lo aspettavano.
Quegli uomini erano ammassi di cicatrici e muscoli, armati di corti
infilzaporci a doppio filo e scudi rettangolari ricurvi. E per quanto lui
potesse essere bello, ciascuno di quei bastardi sembrava lieto della
prospettiva di piluccarsi i denti con lo scintillante fioretto di acciaio
liisiano della Tempesta, dopo aver mangiato il resto di lui per colazione.
La Tempesta slittò fino a fermarsi a venti piedi dalla folla.
«Buon cambio, gentili amici. Sapete chi sono?»
«Sì» disse un torreggiante ammasso di manzo. «Sei la moritura
Tempesta di Galante.»
«In persona» replicò la Tempesta, togliendosi il tricorno con un inchino.
«Ma sapete perché mi chiamano così?»
«Perché presto sarai morto?»
Quella massa avanzò, le asce sollevate. Apparentemente imperturbato,
la Tempesta mise una mano nel tricorno che si era levato e tirò fuori un
bulbo di vetro lucidato. Con uno schiocco delle dita, gettò il bulbo in mezzo
al gruppo, rimettendosi in testa il cappello prima di tuffarsi giù per le scale
da cui era salito di gran carriera.
Fiamme bianche bruciacchiarono le pareti quando sbocciò
un’esplosione e un boato assordante squarciò il pianerottolo. Schegge di
vetro e l’occasionale pezzo di corpo non identificabile rimbalzarono giù per
le scale per atterrare fumanti ai piedi della Tempesta.
Il corsaro si scoprì le orecchie, si rialzò dalla posizione accucciata e
inclinò il cappello a un’angolazione elegante, poi balzò di nuovo sul
pianerottolo. Calpestando i resti tritati dei soldati scelti di Kustaa, la
Tempesta estrasse il suo fioretto e varcò la porta ora aperta della camera
da letto.
«Domina Astrid?» chiamò.
Le imposte erano chiuse, la stanza avvolta nell’oscurità. L’odore di
candele e carne troppo cotta aleggiava denso nell’aria. Fumo nero causato
dalla bomba arkemica fluttuava attorno alle spalle della Tempesta, la sua
sagoma che si stagliava contro l’azzurro estivo là fuori.
«Domina Astrid?»
«Bastardo!»
Un grido sottile squarciò l’aria quando un uomo si avventò contro la
Tempesta dall’oscurità. Il corsaro attaccò con la sua lama e udì un rantolo
di dolore. Afferrando il colletto del tizio, la Tempesta vide che il suo
avversario era vecchio e debole, abbigliato con una vestaglia rossa come il
sangue che ora gli zampillava dal petto.
«Laird Kustaa, presumo» mormorò la Tempesta.
«Come o-osi…» ansimò il laird.
«Oh, oso eccome, vecchio. Questa è la differenza tra me e molti altri.»
Il filibustiere lasciò andare la stretta e il laird crollò in ginocchio.
Kustaa si afferrò il petto e si mise a far diventare la pietra sotto di lui il più
rossa e appiccicosa possibile.
«Oh, no!»
Una figura in un sottile abito bianco attraversò la stanza a passo
incerto, inginocchiandosi al fianco del laird. Era poco più di una ragazza,
pallida come l’inverno e snella, con capelli scuri sciolti che le cadevano
fino in vita e una frangia netta sopra gli occhi. Fece rotolare Kustaa sulla
schiena e gli tolse la vestaglia per esaminare la ferita.
«Mio laird?» La ragazza scosse la spalla del vecchio. «Mio laird!»
«Domina Astrid?» chiese la Tempesta.
La ragazza lo guardò sbattendo gli occhi, i capelli attaccati come
ragnatele nere attorno alla faccia. Lui si accorse che era bellissima.
Labbra carnose color ciliegia e occhi dipinti di kajal, tanto neri da
affogarci dentro. La figlia di Gunnar Svärda era tenuta prigioniera a
Brightstone da oltre due mesi: solo Aa sapeva quali tormenti avesse patito
per mano di Kustaa. Ma quando lei si inginocchiò lì nella pozza sempre più
larga del sangue del laird, la Tempesta giurò che sembrasse quasi
dispiaciuta per la morte del vecchio bastardo.
Le porse la mano. «Mea Domina, sono venuto a salvarvi.»
Le orecchie della ragazza sanguinavano per l’onda d’urto della bomba
arkemica, poveretta. Le occorse un momento per afferrare le sue parole.
«… Salvarmi?»
«Sì, domina.» Si tolse il tricorno in un inchino perfetto. «Sapete chi
sono?»
La figlia di Gunnar tornò a guardare il corpo del laird morto. Ingobbì le
spalle mentre chinava il capo.
«Sì» sospirò. «So chi siete.»
La ragazza si alzò dal sangue.
Le ombre si incresparono ai suoi piedi mentre ringhiava.
«Un totale, fottutissimo coglione.»
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Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
DRAMATIS PERSONAE
NEVERNIGHT. I GRANDI GIOCHI
LIBRO 1. LA PROMESSA SCARLATTA
CAPITOLO 1. PROFUMO
CAPITOLO 2. FUOCOMESSA
CAPITOLO 3. OMBRE
CAPITOLO 4. OFFERTA
CAPITOLO 5. DEVOZIONE
CAPITOLO 6. MORTALITÀ
CAPITOLO 7. BRAME
CAPITOLO 8. PREGHIERE
CAPITOLO 9. PASSI
CAPITOLO 10. SEGRETI
CAPITOLO 11. TUONO
CAPITOLO 12. EPIFANIA
LIBRO 2. SANGUE E GLORIA
CAPITOLO 13. USCITA
CAPITOLO 14. RESPIRARE
CAPITOLO 15. GIUSTO
CAPITOLO 16. MIELE
CAPITOLO 17. STORMWATCH
CAPITOLO 18. GLORIA
CAPITOLO 19. RESA
CAPITOLO 20. TRE
CAPITOLO 21. FAVORE
CAPITOLO 22. QUIETE
CAPITOLO 23. WHITEKEEP
CAPITOLO 24. OSSIDIANA
LIBRO 3. IL GIOCO
CAPITOLO 25. MARCIO
CAPITOLO 26. ARGENTO
CAPITOLO 27. DISTACCO
CAPITOLO 28. CICATRICI
CAPITOLO 29. INSURREZIONE
CAPITOLO 30. INTERLUDIO
CAPITOLO 31. VERALUCE
CAPITOLO 32. GENTILMENTE
CAPITOLO 33. INIZIO
CAPITOLO 34. MAGNI
CAPITOLO 35. ANDATO
CAPITOLO 36. GODSGRAVE
DICTA ULTIMA
RINGRAZIAMENTI
CONTENUTO BONUS
CAPITOLO 1. DAMIGELLA
Copyright