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Figlia di Carlos Ozores, un nobile che ha dissipato tutti i suoi averi nella
cospirazione liberale e di una sartina italiana, che non ha mai conosciuto. Tutto nella
sua persona eccede i canoni della prosaica società provinciale in cui vive, a
cominciare dall’aspetto fisico, non affidato alla descrizione del narratore
onnisciente ma rifratto nel commento ammirato dei concittadini cui ricorda la statuaria
greca per la pienezza delle forme e la raffaellesca “Madonna della seggiola” per la
perfezione del viso. Tra le sue antenate ( antepasados ) letterarie vanno annoverate
Emma Bovary per il temperamento sognatore e trasfiguratore della realtà, Marthe Rougon
della zoliana <<Conquete de Plassans>> per il temperamento isterico e fragile
( histerico y fragil ) e Isidora Rufete de <<La desheredada di Galdòs>> per la tendenza
a sovrapporre ( sobreponer ) alla realtà il filtro delle letture. Attraverso Isidora e
Emma Bovary il suo lignaggio letterario si ricongiunge dunque al capostipite don
Chisciotte :Ana è un’attualizzazione del personaggio cervantino; il suo idealismo
nutrito di letture è il chisciottismo trapiantato nell’orizzonte deprimente della
Spagna dei primi anni della Restaurazione canovista.
Come don Chisciotte, come Emma Bovary, come Isidora Rufete Ana uniforma i suoi
comportamenti a modelli letterari: La perfecta casada di Fray Luis de LeÛn cui si
ispira la sua condotta di sposa irreprensibile e El libro de la vida di Santa Teresa
alla luce del quale legge la sua relazione spirituale con FermÌn de Pas. Con il modello
teresiano condivide (compartir ) affinità (afinidad) più profonde: la perdita precoce
della madre, il padre colto e laico, la fuga (escape) in barca con l’amico Germàn che
ricorda il tentativo di fuga della santa bambina col fratello verso la terra dei Mori,
gli accessi nervosi, i fenomeni isterici,il legame (enlace) profondo con le Confessioni
di S. Agostino. Ana Ozores è una donna scissa: la sua scissione esistenziale tra
sensualità e misticismo si rapprende nei due oggetti simbolo che arredano la sua alcova
solitaria di malmaritata: la pelle di tigre ai piedi del letto e il crocifisso
( crucifijo de marfil) d’avorio davanti al quale si raccoglie sovente in preghiera
(orar). Con Ana il chisciottismo, vera e propria sindrome nazionale, si somatizza nel
sintomo isterico. ClarÌn riconduce la sua malattia alla privazione dell’affetto
( afecto ) materno nell’infanzia e alla forzata castità ( castidad forzata ) cui la
costringe l’impotenza del marito. Ma oltre a farsi emblema della sindrome nazionale,
il personaggio di Ana si configura anche come il ritorno del represso clariniano: la
sua gioventù romantica, intrisa di idealismo e devozione religiosa.
La regenta : FermÌn de Pas
Alto, biondo, con i baffetti chiari,Alvaro MesÌa , deputato del partito liberal
dinastico, Ë il prototipo dell’uomo politico della Restaurazione canovista. Attento e
calcolatore, misurato nei gesti e nell’eleganza (i suoi abiti confezionati a Madrid
sono oggetto della ridicola invidia di Pepe Ronzal e di tutti gli uomini di Vetusta) ma
tempestivo nell’azione (qualit‡ decisiva nella difficile conquista di Ana) Alvaro
MesÌa Ë l’arbitro incontrastato della societ‡ mondana di Vetusta. La sua alta ed
elegante figura, i racconti reticenti ma eloquenti della sua lunga carriera di
rubacuori dominano le notti del Casino , luogo di riunione della Vetusta laica. La sua
disinvoltura di fortunato seduttore calamitano su di lui l’invidia di molti
vetustensi: invidia che assume la forma dell’emulazione nel fedele amico Paco de
Vegallana e della grottesca imitazione in Pepe Ronzal. La discrezione lo rende signore
di uno spazio topico di Vetusta: il salotto giallo della marchesa di Vegallana.
Complici e confidenti del riservatissimo Alvaro sono gli arredi, sensuali ed
avvolgenti, propizi alla seduzione del centro della vita galante di Vetusta. La
conquista di Ana Ë il culmine di una lunga carriera di seduttore che annovera anche
l’intrigante VisitaciÛn OlÌas de Cuervo, efficace adiuvante nella conquista
dell’inaccessibile presidentessa. Alvaro Ë la punta di uno schieramento della Vetusta
mondana che si protende verso l’irriducibile Ana per piegarla alla regola
dell’adulterio. Nella conquista di Ana Ë in gioco il suo prestigio politico di fronte
all’offensiva religiosa di don FermÌn. Da abile stratega Alvaro calcola ogni mossa,
dosa i suoi interventi e in questo Ë degno discendente del marchese di Valmont delle
Liaisons dangereuses. E’ capace di assumere atteggiamenti sentimentali che mimano i
comportamenti degli eroi di Feuillet e di adeguarsi alle attese sentimentali di Ana. Se
Valmont Ë un antenato reale Ë don Giovanni il vero mito di cui Alvaro Ë una sorta di
doppio degradato. E non il libertino tirsiano ma l’eroe generoso e animoso di Zorrilla
che scala mura, viola conventi, il suo nome richiama quello del romantico protagonista
del dramma del duque de Rivas, Don Alvaro o la fuerza del sino. Nonostante la fama
Alvaro Ë l’esatto contrario del don Giovanni romantico: Ë meschino e calcolatore, fa
un uso cauto e avveduto delle sue risorse erotiche, non esita a usare la seduzione ai
fini della sua carriera politica. Prudente e avaro quanto il don Giovanni di Zorrilla Ë
ardito e prodigo Alvaro Ë la degradazione del personaggio romantico. Due oggetti
racchiudono il suo temperamento: il pavone impagliato che accarezza distratto nello
studio di victor Quintanar e le mutande di lana che ripiega con cura pensando alle
battaglie amorose che l’attendono. Se Vetusta tutta proietta su di lui l’immagine
illustre e diabolica del mito, Ana, in una scena di grande immedesimazione emotiva, lo
riveste dei panni dell’eroe zorrillesco. Abile stratega (il lessico che impiega Ë
militare) Alvaro adegua il suo comportamento alle attese di Ana e in effetti come il
suo modello letterario scala un muro tutte le notti, si introduce nella sua casa. Qui Ë
la pochezza del personaggio che tradisce l’amicizia dell’ingenuo don VÌctor, si
introduce in casa con inganni meschini, corrompe sessualmente la cameriera. Il tratto
che definisce la degradazione del personaggio romantico Ë la vilt‡ di cui d‡ prova
durante il duello e nella squallida lettera con cui si congeda da Ana, nonchÈ il
calcolo che lo risospinge tra le braccia di un’influente dama madrilena. Attraverso di
lui mostrando l’enorme distanza che corre tra i sentimenti (indagati con l’indiretto
libero) e i comportamenti ClarÌn mostra lo stato d’uso di un mito tra i pi_ pregnanti
della cultura spagnola.
La presidentessa
Introduzione di Enrico Di Pastena
Quando nel 1884, a poco più di trent’anni, Leopoldo Alas pubblica la prima parte de
La presidentessa (la seconda esce l’anno successivo), ha già scritto innumevoli
articoli e recensioni, dei racconti, un romanzo breve (Pipá) e qualche capitolo di
Speraindeo, uno della decina di romanzi che avrebbe ideato ma non portato a compimento.
È, anzitutto, un giornalista e un temutissimo critico che si occupa di questioni
letterarie e politiche, noto con lo pseudonimo con cui passerà alla storia letteraria,
“Clarín”, e per il tono mordace e corrosivo che ne fa l’interprete più penetrante
della società spagnola dalla stagione del romantico Larra.
Alla luce di questa sua esperienza di scrittura, potrebbe colpire l’estensione de La
presidentessa e la compiutezza della sua realizzazione. In lettera dell’ottobre 1885 a
un altro scrittore, Jacinto Octavio Picón, Clarín riconosce l’estensione smisurata del
libro, quasi giustificandosene: “Se l’avessi composto con più tempo a disposizione e
avendo sotto gli occhi quel che avevo già scritto, sarei stato più breve, ma man mano
che scrivevo mandavo l’originale e dovevo affidare tutto alla memoria”. La rapidità
della redazione, avviata verosimilmente nell’autunno del 1883 e conclusasi alla fine
dell’aprile del 1885, non deve essere scambiata per frettolosità: “Il fatto è –
scrisse l’autore in un’altra sua lettera – che dedico assai poco tempo alla
materialità dello scrivere”. Si trattava di mettere nero su bianco un progetto da
tempo meditato, nel quale l’autore combina suggestioni letterarie altrui (Madame
Bovary, La conquête de Plassans, O crime do padre Amaro e O primo Basilio, Tormento),
personali sopravvivenze letterarie (ritornano alcuni personaggi e riaffiorano temi e
situazioni già ravvisabili nei suoi racconti, in particolare ne La Settimana Santa,
sorta di abbozzo, pubblicato nel 1880, del romanzo che verrà) ed esperienza biografica
(la città di Oviedo, sua patria adottiva, riconoscibile nell’immaginaria Vetusta, i
vincoli con il circolo cittadino, alcune figure coeve di rilevanza politica e sociale).
Per certi versi, La presidentessa era il risultato di una duplice maturazione: quella
del romanzo spagnolo, che con La fontana de Oro (1871) di Galdós aveva inaugurato
lustri fecondi e nel volgere di alcuni anni sarebbe arrivato a non sfigurare dinanzi ai
risultati di altri paesi europei, e quella personale dello scrittore che, dopo un
periodo più ideologizzato e fortemente imbevuto di krausismo, negli anni ottanta affina
la concezione teorica del genere romanzesco applicandola alla sua opera creativa.Ma
forse più corretto sarebbe parlare di una fortuna tardiva di Clarín come romanziere, in
un percorso di ricezione che investe con i suoi chiaroscuri anche La presidentessa.
Alla sua uscita, il romanzo non mancò di suscitare qualche reazione accesa, come
quella, particolarmente virulenta e ormai aneddotica, del vescovo Ramón Martínez Vigil,
che accusò l’autore di brigantaggio morale e l’opera di essere satura d’erotismo
nonché oltraggiosa per la religione cattolica; nel complesso, tuttavia, l’ambiente di
Oviedo reagì con scarso interesse, se non con ostile indifferenza, alla pubblicazione
di un testo che dipingeva la realtà locale con accenti tutt’altro che lusinghieri; né
fu più calorosa l’accoglienza riservata al libro dalla critica giornalistica del resto
del paese. A mostrare un vero interesse furono realtà culturali più dinamiche
(Barcellona o Madrid), e sensibilità più attente ai valori letterari; per intenderci,
romanzieri come Galdós, il già citato Picón o Pardo Bazán (la quale, pur muovendo
qualche rilievo al romanzo, scrive di aver addotto una indisposizione per poter
leggerne tranquillamente e tutta d’un fiato la seconda parte). Al di là della umiltà
di prammatica, l’epistolario di Clarín riflette i dubbi relativi alla riuscita della
propria opera, dubbi certo amplificati dalla consapevolezza di essere atteso al varco
da tanti autori da lui maltrattati in veste di critico; e d’altro canto, il fatto che,
negli anni successivi alla pubblicazione de La presidentessa, Alas moltiplicasse i
propri progetti come romanziere dimostra quanto la realizzazione dell’opera e il
riscontro di alcuni spiriti eccelsi ne avessero accresciuto la fiducia nei propri
mezzi.
……………..
Il desiderio di totalità si estrinseca anche nella molteplice articolazione dei
conflitti (interiori, sociali e trascendenti) che investono i personaggi. Gli assi
portanti dell’intreccio sono Ana Ozores e Fermín de Pas. Ana, in particolare, è il
centro pulsante dell’opera, in quanto determina, con il suo comportamento, il ruolo
degli altri: marito, confessore, seduttore. Con questo personaggio, Clarín raccoglie
una sfida ardua: dar voce in maniera convincente alle inquietudini di una donna
disadattata. L’interesse per il trattamento della psicologia femminile venne acuito
nell’autore dalla convinzione che molte delle figure muliebri che popolavano il coevo
romanzo spagnolo, alla stregua dei sacerdoti, risultassero poco credibili. Forse anche
per questo egli non manca di attingere alla propria biografia e personalità
nell’attribuire specifici tratti alla sua creatura: Ana appartiene alla medesima
generazione di Clarín, ha la sua stessa devozione mariana (che la spinge a progettare
una raccolta di liriche intitolate “Alla Vergine” che Alas con un diverso titolo
scrisse in realtà), manifesta gusti letterari affini (in particolare, la predilezione
per fra’ Luis de León). Ma sbaglierebbe chi credesse ingenuamente in una totale
proiezione dell’autore nella protagonista. La grandezza di Ana e di Fermín come
personaggi sta nell’essere a tutto tondo, nell’avere un’anima, nell’offrirsi anche
nelle loro meschinità e pulsioni meno nobili. Sembrano, insomma, di carne e ossa. E
questa loro vitalità ha tanto più merito se si considera che, rispetto a Galdós, Clarín
fa parlare e dialogare di meno i suoi personaggi, privilegiando, come s’è detto, lo
stile indiretto libero. La distanza tra Alas e Ana si misura meglio che altrove nel
destino finale che il creatore riserva alla sua eroina. È lei la vera vittima, lei a
pagare di più e più duramente del canonico innamorato e del seduttore avvizzito. Ma
come si giustifica questo scioglimento? E come interpretarlo?
La vita di Ana è una lunga processione di assenze (e il “grande romanzo decimononico
dell’assenza” è stata definita la sua vicenda): a cominciare dalla nascita, segnata
dal declassamento a causa del matrimonio tra il padre nobile e una sarta italiana, e
proseguendo con la sua infanzia e giovinezza, quando alla decisiva assenza della madre
si sommano la mancanza di pragmatismo paterno, la distorta educazione della governante,
il castrante “contegno” sociale a cui la costringono le zie. La vita adulta non è da
meno: l’incapacità, fisiologica ed emotiva, all’amore da parte del marito Víctor le
impone la privazione della sessualità e della maternità; la meschina forma mentis di
Vetusta la condanna a comportamenti ipocriti e fatui. Dopo gli infruttuosi tentativi di
sublimazione mediante la scrittura e la mistica (alternativa significativamente
rinfocolata in Ana durante le sue convalescenze, quando la debolezza fisica va di pari
passo con il rafforzarsi delle elucubrazioni mentali), la Ozores è vittima di una vaga
idealità, di un’assenza di obiettivi, di un oscillare continuo. La distanza tra il suo
ruolo pubblico – si tratta pur sempre di una nobile di nascita e moglie di un
rappresentante di quella “nuova aristocrazia” che è la magistratura - e l’anelito di
libertà e di grandezza che le si agita dentro affiorano a più riprese, e in modo
emblematico in quel locus amoenus che è la fonte di Mari-Pepa (IX). Qui si vede come
Clarín attivi i monologhi dei suoi personaggi a partire dagli stimoli sensoriali
forniti loro dal mondo esterno; e come cifri in modo simbolico la dialettica, capitale
nel libro, tra idealità e materialità, tra poesia della natura e prosa della vita
sociale, tra desiderio e frustrazione: nella fattispecie, servendosi della opposizione
tra gli uccelli e il rospo che pare spiare minacciosamente Ana (animale, quest’ultimo,
che verrà rievocato indirettamente nel finale e che è il più significativo del ricco
bestiario che percorre il testo).
La ricchezza allusiva del romanzo, proiettata in un uso sapiente degli oggetti,
ritorna, per fare un esempio relativo alla stessa Ana, quando costei rimane
intrappolata da uno degli ordigni che don Víctor, cacciatore appassionato, ha costruito
per catturare le volpi (cap. X): facile vedere nel marchingegno che le opprime il
braccio una metafora della “trappola” matrimoniale in cui la protagonista è caduta
convolando a nozze con una persona di molto più anziana; ma non bisognerebbe trascurare
il fatto che la stessa Ana, penetrata al buio nello studio-laboratorio del marito,
favorisca con il suo comportamento avventato l’infelice esito dell’episodio.
Indubbiamente, Ana non è immune da responsabilità: palesa un complesso di vittima, un
egocentrismo, al pari di Emma Bovary, che la fa sentire superiore a chi la circonda, la
tendenza costante a trovare giustificazioni per il proprio agire. Nelle considerazioni
scatenate da un sigaro che il marito ha abbandonato a metà e dal ripugnante spettacolo
della sua cenere frammista al caffè rovesciato, nel cap. XVI, si vede quale prisma
egocentrico il personaggio imponga agli oggetti della sua vita quotidiana, oggetti che
sembrano idealmente collocabili sulla via del romanzo che porta a Proust. Il
compiacimento in se stessa e nella propria eccezionalità, nel proprio potere di
fascinazione, alimentato anche dalla rivalità tra De Pas e Mesía, avvicinano il
personaggio a certe atmosfere decadenti e neoromantiche. Ma, soprattutto, ne offuscano
l’autocontrollo e la capacità di decifrare se stessa, le situazioni, gli altri.
La signora Quintanar in effetti legge le circostanze in modo improprio: in un diafano
esempio di ironia di situazione, durante la rappresentazione del Tenorio, la bella
malmaritata cerca di assimilare Mesía al protagonista del dramma a cui assiste, quando
i pensieri del seduttore vetustense sono tutt’altro che sublimi (cap. XVI). Nella sua
relazione con gli uomini interviene, a supplire la mancanza di conoscenza del mondo, la
mediazione libresca, ma assimilare la prosaicità di un seduttore di provincia dei tempi
della Restaurazione alla poetica figura del dongiovanni romantico non può che essere un
errore foriero di disgrazia.
……………….
Ma Ana è anche una vittima. Clarín, che comunque aveva manifestato, già qualche anno
prima della redazione de La presidentessa, le sue perplessità sulla mancanza di
autonomia economica della donna potrebbe essere visto, tra l’altro, come il
continuatore del tema del matrimonio imposto. Già affrontato dai neoclassici e da
Moratín in particolare, il tema sarebbe tornato nei drammi di ambientazione rurale di
Lorca; in Alas costituisce uno dei punti di partenza verso la costruzione di un’etica
razionale, figlia delle aspirazioni naturali dell’uomo e superatrice di una morale
trascendente e punitiva (Beser). Il trascorrere degli anni porterà poi l’autore ad
attestarsi su posizioni più conservatrici riguardo al ruolo sociale della donna.
………………………………..
La grandezza del personaggio di De Pas - che alcuni ritengono, forse non a torto, più
solidamente tracciato della stessa Ana, - emerge in particolare nel contrasto con i
miserandi vetustensi. Assieme a Mesía, Fermín è dotato di una sua consapevolezza: sa
della grandezza morale del vescovo Camoirán, un sant’uomo ininfluente, s’avvede delle
proprie difficoltà a sottrarsi all’abbraccio soffocante della madre e in un primo
momento trova nella relazione con Ana soprattutto il risveglio del desiderio di
idealità schiacciato da una esistenza meschina. Donna Paula, ispirata alla madre
dell’abate Faujas de La conquête de Plassans, tiranneggia la vita del canonico, in un
rapporto esemplificato dall’allegoria della cantina di sidro (cap. XI), in cui Fermín
è il torchio e la madre la vite che ne regola la pressione su città e sottoposti.
Quanto in Ana era una triste sfilata di carnefici, più o meno volontari, in Fermín si
condensa nella figura materna, che spesso finisce per relegare sullo sfondo, anche
nelle preoccupazioni del figlio, gli antagonisti esterni. Paula e Ana sono antitetiche
nell’orizzonte di Fermín: la madre è dimenticata quando Ana occupa la scena, perché,
semplicemente, l’una è in alternativa all’altra. Non possono coesistere. L’errore di
Fermín sta nel ritenere che Ana possa essere la poesia da opporre alla prosa materna,
quando anche la presidentessa è a sua volta una vittima.
………………………..
Una delle caratteristiche più salienti del romanzo risiede nella rilevanza delle
passioni e dei desideri che si muovono sottotraccia, a lungo all’insaputa degli stessi
personaggi, e ovviamente nel modo in cui l’autore li suggerisce al lettore. Nel caso
del canonico la volontà interviene quando egli rifiuta di dare un nome alla passione
che ben presto comincia a nutrire per la sua penitente favorita, e gioca pur sempre una
parte in quel suo saziare nascostamente gli appetiti della carne con le serve (XXI o
XXVII); ma in un momento in cui è immerso nei suoi ragionamenti, tradito
dall’inconscio, il personaggio carezza inavvertitamente le forme muliebri scolpite
nello scranno che occupa nel coro (XVI), così come Ana, in un errore carico di
significato, crede che la sua serva, che da poco è stata protagonista di un incontro
amoroso in un mulino, faccia invece ritorno da una fucina (IX). Della interferenza di
questo mondo nascosto rende conto, oltre alla non trascurabile dimensione onirica, lo
spesseggiare di formule riconducibili alla involontarietà, che investono pure i
personaggi secondari e, come “sentimenti senza nome”, ricorrono in altre opere di
Alas. Una articolata serie di immagini dà spessore a tali sentimenti. Il pozzo secco
della tenuta del Vivero, temuto da Fermín perché ai suoi occhi luogo di sollazzi
equivoci (XIV), è un simbolo che evoca le profondità dell’animo, investendo in
particolare Ana, che prima lo ripudia (XVI) e poi vi si cala con Álvaro e le amiche
vetustensi (XXVII), in una evidente prolessi dello scioglimento. La ricchezza semantica
e il potere di suggestione dell’ordito simbolico del romanzo trovano una conferma
nella reiterazione di questa stessa immagine: un pozzo sarà anche l’intera Vetusta
(XIX); il luogo malfamato in cui seppellire l’ubriacone Barinaga, morto fuori del seno
della Chiesa cattolica (XXII); l’abisso di tristezza in cui sprofonda Quintanar ormai
consapevole dell’adulterio della moglie (XXIX). Non a caso finestre o balconi, che
mettono in comunicazione altre due tipologie di spazio, gli interni e gli esterni, sono
sovente collegabili al motivo della seduzione erotica, assieme a quella peculiare
finestra che è la grata del confessionale.
………………….
L’altro vertice del triangolo prospettato dall’intreccio, Álvaro Mesía, non si
oppone ai vetustensi; piuttosto ne è la quintessenza, o, come è stato scritto, “il
corifeo, la testa visibile del coro” (Alarcos Llorach), oggetto dell’ammirazione e
del desiderio di emulazione dei più. Non dotato della stessa forza psicologica di Ana e
De Pas, manca, a differenza di essi, di uno spazio proprio: Mesía vive in una locanda.
Ed è privo anche di un passato di spessore, nuovo elemento che lo relega in una
posizione più marginale quando lo si paragoni alla coppia di protagonisti; è un
personaggio dal comportamento prevedibile, privo di veri conflitti e animato dalla mera
necessità di mantenere viva la propria fama di tombeur de femmes. Con tutto ciò,
possiede una superiore capacità di osservazione e di autocontrollo. Ana, il più
illustre dei suoi trofei, viene conquistata in certo modo mediante la letteratura: al
suo cospetto, Mesía ostenta una immagine da dongiovanni infine toccato dall’amore. È,
insomma, l’interprete di una storia di finzione; ma Álvaro arriva a essere anche il
cantore delle proprie imprese durante la cena in onore del ritorno dell’ateo Guimarán
al circolo (XX), nel momento in cui il suo destinatario privilegiato è la sua stessa
persona, bisognosa di convincersi che la sua capacità di conquista si conserva
inalterata; la cornice dell’episodio, una parodia dell’ultima cena (e del sacramento
della confessione), riattiva la commistione tra erotismo e religiosità che corre lungo
il testo e che, nel caso del seduttore, viene suggerita dal suo stesso nome (“Mesías”
in spagnolo vale ‘Messia’), oltre che da qualche specifico passaggio (“al posto di
Dio le si presentava Mesía”, si dice di Ana).
…………………..
Dall’avvilente panorama umano de La presidentessa sino a qualche anno fa venivano
riscattati il vescovo Camoirán e il naturalista Frígilis. Eppure, nonostante siano
dotati di virtù che li isolano dal resto della cittadinanza (rispettivamente, una
religiosità genuina e un profondo amore per la natura), non sono personaggi esemplari
né possono considerarsi portavoce tout court dell’autore: come ha messo in evidenza
Rutherford, il salone di Camoirán manifesta una somiglianza ironica con il famoso
salone giallo della libertina marchesa di Vegallana, figura apparentemente assai
distante dal prelato e dalla sua missione; in verità, il vescovo (in parte modellato
sul ricordo di monsignor Sanz y Forés, direttore spirituale del Leopoldo Alas
adolescente) palesa una colpevole inettitudine dinanzi alle malefatte di chi, come De
Pas, governa la diocesi in sua vece. E anche Frígilis vive raccolto nel suo mondo, pur
dimostrandosi tollerante verso i suoi simili e generoso nell’alleviare la solitudine
finale di Anita. Con il suo rifiuto delle grandi sintesi idealiste (cap. XIX), Frígilis
costituisce un superamento del giovanile krausismo del suo creatore; nel suo essere un
naturalista puro, si configura come uno di quegli sperimentatori ai quali Zola affidava
le chiavi del progresso, ancor più prossimo alla scienza speculativa dei medici e degli
ingegneri che erano gli eroi positivi del primo Galdós. E tuttavia il personaggio
finisce per manipolare arbitrariamente le forze della natura; di fatto, anche l’unione
tra Víctor e Ana è uno dei suoi “innesti”, il più infelice. Frígilis parrebbe il
segno lasciato sulla pagina da un Clarín che non riesce a incidere nel tessuto sociale:
la traccia di una frustrazione, l’incompiutezza di un ideale umano.
Coinvolti nella lotta tra spirito e materia, tra poesia e prosa, tra natura e
artificio, gli stessi personaggi dotati di una loro positività soccombono (Ana) o sono
poco influenti (Camoirán, Frígilis). Le ragnatele che nel bosco imbrigliano Víctor e
Fermín (cap. XXVIII) paiono avviluppare in qualche modo anche le altre creature. Lo
scioglimento, costruito in modo da far risaltare la circolarità del romanzo (tornano
ottobre, il vento del sud, la cattedrale, Celedonio), rappresenta il trionfo, per
quanto meschino, dei personaggi secondari o subalterni (si pensi, oltre al già
ricordato Celedonio, alla incidenza di Petra). Con uno scarto decisivo rispetto
all’avvio: si è passati dalla iniziale visione a volo d’uccello, dalla ascensione di
Fermín sul campanile della cattedrale – esclusivamente fisica, in quanto venata dalla
ambivalente presentazione della torre campanaria e dalla natura corrotta e dominatrice
di chi osserva, – alla caduta finale di Anita, fisica dopo essere stata morale.
Insomma, se Vetusta è complessivamente la stessa, la vita della presidentessa non
tornerà ad essere quella di prima: a uno sguardo ancor più ravvicinato appare chiara la
corrispondenza fra il mulinello di rifiuti sospinti dal vento nell’incipit e ciò che
ormai, sul pavimento a losanghe della cattedrale, non è che un illustre residuo della
Vetusta-bene: Ana in persona, la vedova del presidente di tribunale, ora a terra, alla
mercé della lascivia furtiva di un personaggio che la società del tempo considera alla
stregua di una scoria. E che rimanda alla viscidità del rospo, simbolo reiterato e
polisemico nel testo (il male, l’impulso erotico degradato…), ma comunque inquietante
e connotato in senso negativo.
Talvolta nella spiegazione de La presidentessa si è concesso un notevole rilievo alla
dimensione fisiologica. Tale interpretazione, per quanto fondata su idee e su tematiche
dell’epoca, pare riduttiva, al pari del comodo atteggiamento di don Víctor nel
ricondurre a una “questione di nervi” il malessere della consorte. Sarebbe opportuno
integrarla con un punto di vista non così schiettamente determinista, perché l’opera
si fonda su una interazione costante fra materialità e spiritualità. Una volta
accettata questa dialettica, il romanzo può essere letto come l’esaltazione, comunque
vivificante nell’orizzonte cristiano, della sofferenza di uno spirito eccelso
(Sobejano), di una “magnifica perdente” (Valis), in certa misura irriducibile visto
che, a differenza di Emma Bovary o di Anna Karenina, non si suicida né muore, o
piuttosto come il diniego totale che al mondo della Restaurazione oppone un
intellettuale non organico (Oleza), o entrambe le cose, visto che l’una non esclude
l’altra. Di certo, esso è lo straordinario precipitato letterario di una ripulsa che
investe un tempo storicamente determinato ma che, nel suo pessimismo, risulta
circoscritta nella traiettoria dello stesso Clarín, il quale più avanti addolcisce il
profilo delle sue posizioni ideologiche, avvicinandosi a un individualismo eroico-
cristiano alimentato dai personaggi di Carlyle, dal superomismo di Nietzsche,
dall’esempio messianico di Tolstoj.
Comunque sia, la grandezza de La presidentessa, quadro psicologico, tranche de vie,
sguardo sulle profondità dell’io, summa culturale, gioco parodico, insomma
“ricostruzione della vita ed esplorazione dell’esistenza” (Lissorgues), sta nel non
manifestare una tesi esplicita e definita; nelle grandi opere letterarie - lo sostiene
Valéry - idee e sentimenti devono essere nella finzione come la sostanza nutritiva nel
frutto. Lo si prenda come un invito alla degustazione.
-Tomás Crespo, Frígilis: Es el mejor amigo de don Víctor. Salen muy a menudo a cazar
juntos y tienen una estrecha relación. Suele ser el principal “consejero” del
Regente.Entre los vetustenses tiene fama de estrafalario y excéntrico por sus prácticas
con la caza y los animales en general. En lo que se refiere ala Regenta, en ocasiones
muestra su poca simpatía hacia él porque le hace (en parte) culpable de la relación que
ésta tiene con su marido. Sin embargo, en otras le considera un amigo. Hay que destacar
que Frígilis será el único que continúe al lado de la Regenta cuando se conozca en toda
Vetusta su relación con don Álvaro.
-Pepe Ronzal: miembro de la Junta directiva del Casino. Sin embargo, aborrece a Mesía y
a sus amigos.
-Paco Vegallana: Hijo de los marqueses de Vegallana. Es el amigo fiel de Mesía. Muy
posiblemente debido a esto, carece por completo de personalidad, hace lo que Álvaro le
dice. Es el típico individuo que acompaña al triunfador (Mesía) y sólo se preocupa de
recordarle lo maravilloso y espléndido que es. (algo que a don Álvaro no hace falta)
-Doña Paula: es la madre de Fermín. Es la típica madre que lo da todo por su hijo, que
le defiende en cualquier situación. Supone una parte muy importante en la vida del
Magistral, ya que siempre ha hecho todo lo que su madre le decía porque “era lo
mejor”, pero cuando aparece la Regenta comienzan las desavenencias entre ellos, lo que
hace dudar Fermín en muchos ocasiones.
-Otros personajes secundarios pueden ser: los que conforman la parte clerical citados
anteriormente, que se dedican a perjudicar al Magistral lo que influye en el
comportamiento de éste; los componentes del Casino, que se reúnen a menudo y es en
estas reuniones donde Ana pasa más tiempo con Mesía.
Conclusión:
1-AUTOR: con la Regenta Clarín nos quiere dar a conocer cómo era la sociedad de su
época. Quiere que conozcamos sus costumbres, sus gustos sus reflexiones y sus opiniones
sobre aspectos morales y políticos y para ello no duda en criticar aquello con lo que
no está de acuerdo. La verdad, es que no hace una crítica de un solo grupo social, sino
que se “despacha” a sus anchas criticando aspectos en concreto. Así por ejemplo, por
un lado hace una crítica al clero y a la comunidad eclesiástica de la época. Sobre ella
describe su mezquindad, una religiosidad vivida muy superficialmente. Por otro, sobre
la burguesía su despreocupación, su ociosidad... todo esto enfocado muchas veces, desde
la sátira y el fino humor.
La técnica literaria:
TEMAS:
NARRADOR:
ORDEN DE LA NARRACIÓN:
En este aspecto destaca la frecuencia con la que el autor se vale de reducir, silenciar
o suprimir algunas escenas para, más adelante, volver sobre las mismas, ofreciéndonos
información, sirviéndose del recuerdo, las ideas... En estos casos intenta no
introducirnos en ciertas escenas, prefiriendo que se vayan desarrollando poco a poco.
Este recurso también es aplicado con frecuencia a los propios personajes: los presenta
indirectamente, a través de los reflejos de unos en otros, como si en un principio no
tuviesen la importancia de la que en realidad disfrutan en la novela. Por ejemplo, en
el primer capítulo se puede observar el empleo del recurso citado anteriormente:
“había visto él perfectamente a la Regenta, una guapísima señora, pasearse, leyendo un
libro, por su huerta...” aquí el autor se limita a hacer una muy breve presentación
del personaje central de la obra, pero que si no fuera porque da nombre a la novela, el
lector a primera vista, no puede llegar a comprender la importancia que tiene dicho
personaje en la misma.
Así mismo, cabe destacar son muy frecuentes los pasajes, que en un gran número de
ocasiones ocupan un capítulo completo, en los que el narrador aporta más información de
determinados personajes, valiéndose de recuerdos que les vienen a la memoria a los
protagonista.
CLASES SOCIALES (características y personajes) y VISIÓN DE LA SOCIEDAD DEL AUTOR:
La nueva burguesía y la nobleza: está representada por don Álvaro Mesía, Pepe Ronzal,
Joaquín Orgaz y su padre, Visitación, Obdulia, los Marqueses de Vegallana... se
caracterizan por una profunda ociosidad superficialidad y frivolidad. No tienen ninguna
ocupación: se limitan a reunirse en el casino, los hombres y en las tertulias, las
mujeres. Allí se divierten, hablan sobre asuntos que carecen de demasiado interés.
Pretenden desbancar al clero de su privilegiada situación, desde la que poseen una gran
influencia sobre la sociedad.