Sei sulla pagina 1di 4

I CONTI COL FASCISMO

Mario De Gaspari

La destra al governo riporta d’attualità una vecchia e irrisolta questione. “In


Italia non abbiamo fatto fino in fondo i conti col fascismo”. Per la verità non è
che dalla considerazione scaturisca poi chissà quale discussione. Non li
abbiamo fatti e fine della discussione. Ad essere precisi c’è ancora qualcuno
che impreca sull’amnistia di Togliatti o che rimpiange il mancato “lavacro”
inutilmente invocato da Concetto Marchesi. Immancabile, ma anche a questo
proposito non si va troppo per il sottile, il confronto con l’esperienza tedesca.
In Germania hanno sistemato la questione, forse in maniera tardiva, ma alla
fine ci sono arrivati. In Italia invece, dove pure abbiamo avuto una fase di
guerra civile che per certi versi è proseguita anche dopo il 25 aprile, ci siamo
un po’ fermati, non siamo andati in fondo e la questione del fascismo è
rimasta lì in sospeso, o meglio è stata derubricata nel campo della morale o
al più della giurisprudenza.

È innegabile che in Germania la condanna del nazionalsocialismo sia entrata


nelle coscienze in maniera più profonda, a prescindere dal ricorrente
riemergere di raggruppamenti dichiaratamente nazisti. Anche se può
sembrare paradossale, in Italia le condizioni per regolare i conti col fascismo,
sul piano ideologico, teorico e della coscienza collettiva, sono sempre state e
sono più complicate che non in Germania. Le difficoltà sono dovute in buona
parte all’esistenza del cosiddetto fascismo di sinistra, o fascismo sociale, e
alla mancata realizzazione della seconda rivoluzione. Si tratta di una
questione mai stata presa in seria considerazione dai partiti di sinistra, con
gravi effetti ottici distorsivi, in particolare rispetto alla questione sociale, che a
un certo punto hanno preteso fosse una faccenda di loro esclusiva
pertinenza. Ritenendosi così coperte sul terreno dello stato sociale le sinistre
si sono per così dire rilassate e, proprio quando la crisi del capitalismo
globale si è scaricata pesantemente sui ceti popolari, si sono ritrovate
“separate dal proprio popolo”.

Mentre i ceti medi andavano a ingrossare a dismisura le fila del proletariato, a


sinistra abbiamo dovuto prendere atto che sì ci eravamo specializzati a
battagliare su terreni a noi tradizionalmente poco famigliari, ma che avevamo
abbandonato il campo principale. I segnali, non solo elettorali, che quel
campo lo stava occupando l’avversario erano sempre più numerosi e
dolorosi, ma ormai la strada era intrapresa e tornare indietro quasi
impossibile. Così ci si è fermati all’enunciazione dell’epifenomeno più vistoso
o allo stigma ripetitivo dell’avversario: la “questione delle periferie”, dove
all’enunciato sono per lo più seguite iniziative strumentali e ridicole e il
“populismo”, come se una definizione politologica pur corretta fosse
sufficiente a mettere fuori gioco la concorrenza.

Si badi, il problema della seconda fase della rivoluzione si era presentato


anche in Germania, anzi lì era stato posto in maniera ancora più cruciale dal
momento che i nazisti non avevano né un re né un imperatore cui dovessero
render conto, ma era stato presto risolto in maniera radicale nella Notte dei
lunghi coltelli. In Italia, invece, l’equivoco, o l’inadeguatezza dell’analisi, sulla
vera natura del fascismo si è trascinato a lungo, condizionato fin dall’inizio da
tutta la discussione sul corporativismo che, non va dimenticato, aveva ripreso
vigore e consenso, come via nazionale alla soluzione della questione sociale,
presso il mondo cattolico dopo la promulgazione dell’enciclica Quadragesimo
anno del 1931 e, qualche anno più tardi, con gli apprezzamenti che le misure
economiche adottate dal fascismo ricevevano dagli Stati Uniti del New Deal.

Le difficoltà della sinistra nel fronteggiare la destra sul terreno dello stato
sociale vengono dunque da lontano e sono strettamente correlate al
periodico riaffiorare di una questione nazionale, specialmente in occasione di
crisi economiche globali. Analizzando la mentalità europea di fine Ottocento
Schumpeter rilevava addirittura la complementarietà tra lo spirito della riforma
sociale e le tendenze imperialistiche: “L’epoca non si comprende finché non
si tien conto di coloro per i quali l’autoesaltazione nazionale e la Sozialpolitik
non furono che due facce della stessa medaglia” 1. In seguito, alle storiche
difficoltà da parte della sinistra di conciliare l’internazionalismo con la riforma
sociale su base nazionale si aggiungeva, ma in realtà il problema era il
medesimo considerato da un altro punto di vista, la perdurante ideologia
rivoluzionaria che induceva a vedere nella crisi l’occasione per il ribaltamento
di tutti gli assetti sociali, più che un’opportunità per correggere in senso
riformistico le istituzioni capitalistiche.

Sintomi e risultati di questa impasse di carattere ideologico, una crisi di


“governamentalità” nel linguaggio di Foucault 2, furono alcuni avvenimenti che
si vennero a determinare a livello internazionale e nazionale. Sul piano

1
J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Vol.III, Edizioni Scientifiche Einaudi,
1960.
2
M.Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005 .
internazionale la teoria del Socialismo in un paese solo adottata da Stalin a
partire dal ’24 spiazzava i partiti comunisti e socialisti, per quanto soprattutto i
primi non si azzardassero a lamentarsene, mentre sul piano interno l’Appello
ai fratelli in camicia nera del ’36, “una coglioneria” come l’avrebbe definito di lì
a poco lo stesso Togliatti che l’aveva sottoscritto di malavoglia, con l’invito a
far fronte comune contro i “pescicani” capitalisti e soprattutto con la
dichiarazione che “i comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919”,
avrebbe pesato come un macigno sulle possibilità per il Partito Comunista di
regolare i conti col fascismo sul piano ideologico.

A coronamento di tutto questo bisogna infine considerare che, col


superamento della diarchia e con la nascita della Repubblica Sociale, lo stato
corporativo cominciava a prendere forma, quantomeno sotto il profilo del
disegno giuridico e istituzionale. Ma c’è di più, l’antipartitismo presente tra
alcune forze del CLN spingeva alcuni a considerare in maniera non del tutto
negativa le nuove forme di rappresentanza o di democrazia diretta che la
Repubblica Sociale veniva istituendo, condizionandone la compiuta
comprensione politica. Al punto che, su iniziativa di Rodolfo Morandi,
contravvenendo al principio della defascistizzazione dello stato, dopo il 25
aprile si procedette al salvataggio dei Consigli di Gestione, uno dei principali
istituti del corporativismo di Salò. Vero è che questi avrebbero avuto vita
breve e che non sarebbe mai riuscito l’auspicato compimento istituzionale del
combinato disposto tra i Consigli di Gestione e il Cnel, perché quest’ultimo
avrebbe visto la luce quando ormai dei Consigli era sparita ogni traccia, ma il
fallimento dell’esperimento difficilmente avrebbe potuto essere considerato
una vittoria per la sinistra.

Vero è anche che il Partito Comunista e Togliatti in particolare hanno sempre


privilegiato di gran lunga il ruolo del partito e dei partiti nel governo, a
differenza, per esempio, dal Partito d’Azione più orientato verso una linea di
complessità istituzionale svincolata dai maneggi della partitocrazia, ma resta
il fatto che le difficoltà a regolare i conti col fascismo erano diventate quasi
insormontabili sul piano teorico, soprattutto per un Partito avvezzo a
ponderare col metro della storia ogni risoluzione e finanche ogni singola
parola detta o scritta e per una politica che nel suo insieme necessariamente
guardava alla semplificazione binaria. Repubblica o Monarchia,
Parlamentarismo o Presidenzialismo, Stati Uniti o Unione Sovietica, queste e
di questo tenore erano le alternative che la politica e l’Italia del dopoguerra
erano costrette ad affrontare. Per tutti era l’ora delle scelte di campo. La
situazione internazionale, l’Europa, l’Italia stavano diventando oggettivamente
manichee e non c’era tempo per le sottigliezze teoriche. Il fatto però è che
anche dopo, a ricostruzione avvenuta e a stabilità acquisita, il tempo sarebbe
stato fuori squadra, vuoi per le urgenze della battaglia politica, vuoi perché la
compromissione col fascismo della cattedra di alcuni statisti di alto rango
sconsigliava il riportare d’attualità la questione, vuoi perché il fascismo pareva
stigmatizzato abbastanza. Più avanti lo stragismo e il terrorismo di destra
avrebbero resa del tutto anacronistica una riedizione del dibattito sulla Terza
via. I fascisti restavano in ogni caso fuori dall’arco costituzionale e tanto
poteva bastare.

La questione sarebbe invece tornata d’attualità, a seguito del crollo


dell’Unione Sovietica, seppur con una piega tutta interna al capitalismo,
venendosi, per così dire, costituzionalizzando per opera di autori di area
democratica e liberale. Così anche l’opzione della Terza via sembrava
definitivamente sottratta alla destra corporativa e diventava una faccenda di
un certo interesse per una sinistra alla ricerca di un marchio rinnovato. Ma i
conti col fascismo non erano per niente regolati una volta per tutte, anche se
la violenza, le leggi razziali e la guerra restavano argomenti validi per mettere
drasticamente fine alle discussioni ogni qualvolta sarebbe stato necessario.
Per renderci conto che la semplificatoria stigmatizzazione dei fascisti come i
cattivi della storia non era sufficiente abbiamo dovuto così aspettare che
arrivassero al governo, quando ormai tutto era troppo complicato, troppa
acqua era passata sotto i ponti e la sinistra diventata troppo pigra e
scoraggiata per rimettere mano a una questione così ispessita. Col tempo
purtroppo diventerà tutto ancora più complicato, soprattutto se sarà la destra
al potere a riportare all’ordine del giorno la questione sociale e la politica dei
corpi intermedi.

Potrebbero piacerti anche