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Voci dal X Congresso Mondiale di Mediazione:
una via verso la cultura della pace e la coesione sociale
a cura di Danilo De Luise e Mara Morelli
ISBN 978-88-6438-585-3

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Finito di stampare nel mese di novembre 2015
VOCI DAL X CONGRESSO MONDIALE
DI MEDIAZIONE

Una via verso la cultura


della pace e la coesione sociale

a cura di Danilo De Luise e Mara Morelli

ZONA
Ai colleghi mediatori detenuti
del carcere CeReSo 1
Hermosillo Sonora-Mexíco

A los compañeros mediadores internos


del reclusorio Ce.Re.So. 1
Hermosillo Sonora-Mexíco
Presentazione
Le Istituzioni organizzatrici ospitanti

Il X Congresso Mondiale di Mediazione, celebrato a Genova dal 22 al 27


settembre 2014, è la decima edizione di un appuntamento che è convocato
ogni anno dalle istituzioni organizzatrici convocanti Universidad de la So-
nora e Instituto de Mediación de México e che è stato ideato ed è presieduto
da Jorge Pesqueira Leal.
Con il passare degli anni attorno ad esso si è sviluppato un vero e proprio
movimento, ma l’appuntamento non è il congresso annuale di chi ne fa parte,
bensì un luogo di incontro, discussione, approfondimento che vuole riunire
attorno ai contenuti tutti gli interessati al tema della mediazione nelle sue
varie forme di applicazione.
L’edizione genovese è stata realizzata da tre partner (Dipartimento di
Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova, Fondazione San Mar-
cellino e Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura), che, dopo un lungo pe-
riodo di collaborazione e sperimentazione dell’efficacia della cultura della
mediazione sui territori come forma di partecipazione comunitaria, hanno
deciso di candidarsi come istituzioni organizzatrici ospitanti mettendo a di-
sposizione strutture, personale e risorse per portare il Congresso in Europa
per la prima volta.
Le risorse sono state reperite per l’occasione attraverso contributi in de-
naro e in “natura”. Vogliamo ringraziare in particolar modo:

Alessandro Garrone, ERG


Camera di Commercio di Genova
Gregorio e Luisa Fogliani, Qui! Group
Regione Liguria

Nell’introduzione a seguire viene presentata una breve sintesi degli ante-


cedenti e delle motivazioni, ma vogliamo comunque ricordare che questa ini-
ziativa è stata pensata non come un punto di arrivo, ma come un’importante
occasione per dare impulso a un modo di intendere e praticare le convivenze
che ci sembra quanto mai necessario nel tempo che viviamo.
Colpi di timone
Danilo De Luise - Fondazione San Marcellino Onlus
Mara Morelli - Università di Genova

Un piccolo bilancio per cominciare


Che due genovesi intitolino questa introduzione come uno dei più famosi
lavori teatrali di Gilberto Govi può sembrare campanilista (niente di più lon-
tano da noi) o scontato.
In realtà, come nella storia rappresentata dal grande attore genovese, ci
sono momenti in cui gli eventi della vita rendono necessario un piccolo o
grande bilancio utile, forse, al tempo della vita successivo.
La stesura di queste righe e la conclusione di questa curatela avvengono a
dieci mesi dalla conclusione del X Congresso Mondiale di Mediazione, cele-
brato a Genova dal 22 al 27 settembre 2014, che ha costituito per noi, oltre
che il raggiungimento di una grande soddisfazione, anche la conclusione di
una faticaccia che ben rappresenta, forse in piccolo, uno degli eventi di cui
sopra.
In teatro la maschera di Govi più volte fa riferimento al fatto che nella
vita spesso ci si trova di fronte a situazioni in cui si vorrebbe dire chiaro
come la si pensa, ma, invece, si è costretti a ingoiare e virare di bordo. Noi
questa strategia non l’abbiamo mai praticata molto, e, probabilmente, qui lo
faremo ancor meno.
Terminato il richiamo all’opera del genio teatrale del nostro concittadino,
un po’ perché da qualche parte si deve pur cominciare a scrivere, ma anche
per rendergli omaggio, affronteremo la sintesi del nostro piccolo bilancio.
In genere i bilanci concludono un lavoro; noi preferiamo aprirlo, proprio
perché riteniamo quanto fatto fino al X Congresso Mondiale un punto di par-
tenza.
Nell’ultimo volume da noi curato, un nostro articolo 1 ripercorreva la fase
operativa del lavoro di mediazione comunitaria a Genova, fino al maggio
2012 e questo ci consente di risparmiare parecchia carta, lasciando ai lettori
la possibilità di approfondire il pregresso nell’articolo citato.
Durante i circa quindici anni di lavoro congiunto sulla mediazione ab-
biamo passato la maggior parte del tempo a, nell’ordine:
1 De Luise. D e Morelli. M, “La mediazione comunitaria: dalla dimensione
culturale alle attività sul territorio”, in Danilo De Luise e Mara Morelli (a cura di),
La Mediazione Comunitaria: un’esperienza possibile, Libellula, Lecce, 2012, pp.
13-69.
➢ studiare (qui consideriamo anche la partecipazione a tutti i seminari,
convegni e congressi che ci siamo potuti permettere);
➢ fare ricerca;
➢ scrivere;
➢ organizzare momenti formativi;
➢ realizzare azioni sperimentali sul territorio.

Questo ci ha consentito di confrontarci con molte persone, idee ed espe-


rienze e di costruire un “archivio” da cui attingere nel nostro lavoro. Parte di
questo è stato ed è creare connessioni tra persone e attività di nostro inte-
resse, proponendo e offrendo spazi di confronto e di riflessione comune. I se-
minari e i convegni che abbiamo organizzato hanno avuto anche questo
scopo, così come le curatele a cui abbiamo lavorato. In generale, possiamo
dire di essere sufficientemente riusciti nell’intento in entrambi i campi; cosa
questo abbia prodotto o possa produrre è materia per un altro tipo di valuta-
zione.
Le ricerche che abbiamo avviato e portato avanti hanno seguito lo stesso
spirito, ma se per noi sono state soddisfacenti in quanto a raccolta di dati, os-
servazione dei processi, appagamento di curiosità e, soprattutto, formula-
zione di nuove domande, resta da attendere la loro ricaduta pratica nella vita
dei territori.
La scrittura e l’offerta di momenti seminariali e formativi, oltre ad aver
raggiunto, come dicevamo prima, lo scopo di far incontrare in modo pro-
ficuo persone ed esperienze, ci pare abbiano anche soddisfatto l’intento della
diffusione. Certo le case editrici non si sono arricchite con le vendite dei no-
stri volumi e ancor meno le organizzazioni a cui abbiamo devoluto i diritti,
ma il confronto sugli articoli pubblicati è ancora aperto e abbastanza vivace
tra gli addetti ai lavori e, sorpresa, qualche non addetto.
Ci siamo stupiti davvero, invece, per la partecipazione alle iniziative se-
minariali, formative, ecc. che abbiamo proposto. Probabilmente il fatto che
fossero tutte gratuite ha avuto il suo peso, ma è sempre stata più che buona e
oltre le aspettative, anche nelle proposte più impegnative. Ci pare rilevante
che dal gruppo di tutte le persone coinvolte abbia preso forma una piatta-
forma di mediazione comunitaria genovese costituita da circa cinquanta per-
sone e che oltre venti di loro si siano poi impegnate in un’attività sui terri -
tori, e una trentina abbiano aderito alla AssMedCom (Associazione di Me-
diazione Comunitaria) costituitasi nel 2013. Occorre, a nostro parere, un ul-
teriore passo avanti e per questo motivo abbiamo dedicato l’anno in corso
alla progettazione e organizzazione di una formazione dedicata allo specifico
comunitario che si realizzerà nel 2016 attraverso un corso di perfeziona-
mento universitario.
Le attività sui territori genovesi sono state caratterizzate da una minor li-
nearità e, com’è naturale, da un alto numero di variabili e i nostri limiti si
sono fatti sentire e vedere, a volte anche a distanza di tempo. In generale ab-
biamo “toccato” o “sfiorato” cinque pezzi di quartieri genovesi a cui aggiun-
gere la Polizia Municipale di Genova come trasversalità e alcune scuole. In
due dei tre pezzi di quartiere abbiamo registrato dinamiche conflittuali, com-
petitive ed espulsive nei nostri confronti da parte di alcuni dei soggetti coin-
volti. Nelle altre tre abbiamo registrato movimenti positivi di attivazione di
persone e processi e crescita in consapevolezza, anche se in un caso l’espe-
rienza sta vivendo un lungo periodo di stasi vedendo i componenti residui
del gruppo di residenti maggiormente impegnati nelle attività della piatta-
forma fuori dal quartiere. L’esperienza con le scuole è stata, ed è, faticosa, ri-
chiede piccoli passi e una grande attenzione ai temi interni e alle dinamiche
dei singoli gruppi di insegnanti, da cui registriamo un gran bisogno di spazi
di ascolto e confronto, di sostegno e riconoscimento del loro ruolo nella co-
munità.
La parte del leone, in questo breve scampolo di storia/e, l’ha fatta la Po-
lizia Municipale che ha proseguito il lavoro di diffusione/formazione interna,
con costanza, fino a formare oltre un centinaio di agenti e funzionari sulle
circa novecento persone all’attivo, di cui la metà destinata al servizio nei di-
stretti. Il percorso, ormai quadriennale, è stato molto articolato, tra forma-
zioni intensive, supervisioni, incontri con esperti, visite/occasioni di sensibi-
lizzazione nei distretti, formazioni esclusive per i responsabili di distretti e
percorsi di lavoro sulle procedure realizzati in piccoli gruppi secondo l’ap-
proccio comunitario del bottom-up. Attualmente sono in fase di avvio alcune
altre azioni sollecitate direttamente dai territori.
Questa breve narrazione, a una prima lettura, potrebbe essere intesa come
un elenco di un certo numero di soddisfazioni e piccoli successi, tra i naturali
e, a volte, prevedibili insuccessi, anche se nelle righe non abbiamo fornito
(non ne avevamo l’intenzione) nulla che possa essere utile a fare una valuta-
zione. Come abbiamo detto volevamo solo tracciare una mappa utile a com-
prendere in quale contesto abbiamo voluto inserire l’esperienza del Con-
gresso Mondiale.
Dovendo, comunque, esprimerci sul percorso sopra descritto, non ci sen-
tiamo di dichiararci soddisfatti. Lo siamo, in alcuni casi molto, di alcune sin-
gole esperienze, delle relazioni stabilite con tantissime persone che hanno
collaborato e collaborano con noi, ma nell’insieme, pensando alle potenzia-
lità che abbiamo incontrato e scoperto, ci pare di non aver ancora “toccato”
la città e che questa, istituzioni in testa, abbia reagito poco. In fin dei conti
questo ci pare essere il nostro limite più grande e vorremmo investire il pros-
simo futuro per comprenderlo meglio e riuscire a conoscerne gli ingredienti.
Ma andiamo con ordine, la mappa, infatti, è più articolata, perché, paral-
lelamente al lavoro nella città in cui viviamo, siamo stati coinvolti in diverse
esperienze di diffusione, formazione e supervisione in un contesto più
ampio.
Intanto il nostro coinvolgimento nei lavori genovesi di esperti internazio-
nali, due dei quali li supervisionano, ha fatto sì che quello che stavamo fa-
cendo prendesse, ai loro occhi, la forma di un “modello genovese” di quel-
l’approccio alla mediazione proprio del movimento dei congressi mondiali di
cui abbiamo raccontato nelle nostre pubblicazioni precedenti 2 che, attraver-
sato l’oceano, si era adattato al nuovo contesto portando il suo contributo di
prassi e riflessioni al movimento stesso. Per questo motivo ci venne chiesto
di presentarlo come Progetto di Buone Pratiche di Rilevanza Globale al VII
Congresso Mondiale di Mediazione tenutosi a Toluca (Messico) nel 2011.
L’esperienza, ascoltata da una funzionaria del Ministero di Giustizia della
Repubblica del Cile, fece sì che fossimo chiamati, nell’agosto del 2012,
dallo stesso Ministero, per formare i mediatori coinvolti in un progetto di su-
peramento delle baraccopoli di tutto lo stato. Nello stesso periodo fummo se-
lezionati tra le buone pratiche europee nell’ambito di un progetto della Fun-
dación CEPAIM che ha sede in Murcia (Spagna). Nel 2013 a Mara Morelli è
stato chiesto di tenere una magistrale nell’ambito del IX Congresso Mon-
diale di Mediazione. Siamo stati riconosciuti come organizzazione ospitante
per il X Congresso Mondiale (prima edizione europea). Nell’arco dell’ultimo
anno abbiamo iniziato una collaborazione proficua dapprima con la AUSL di
Cesena e poi con il Comune della stessa Città. In seguito a questo ci è stato
chiesto di facilitare un percorso volto a mettere in rete tutte le realtà regionali
che si occupano di mediazione. In occasione della realizzazione del X Con-
gresso Mondiale di Mediazione abbiamo attivato nove collaborazioni con
istituzioni e organizzazioni delle otto città italiane che hanno ospitato i work-
shop del pre-congresso nazionale. Subito dopo il congresso ci è stata pro-
posta una nuova sfida dall’Associazione Sesta Opera e dalla Casa di reclu-
sione di Bollate: entusiasti dell’esperienza del workshop sulla mediazione in
ambito carcerario, voluta e ospitata dalla stessa Associazione, in ottobre ci
hanno chiesto di stendere un progetto per realizzare un’esperienza simile
anche a Bollate. Nel momento in cui scriviamo si è appena conclusa la prima
fase del progetto, che diverrà qualche cosa di nuovo, studiato appositamente
per le esigenze specifiche dei detenuti e del personale che opera in questa
Casa di Reclusione.
In tutti questi anni abbiamo attivato collaborazioni con docenti di univer-
sità europee ed extra europee quali, tra le altre: Universidad Autónoma de
Madrid, Universidad Complutense, Universidad del País Vasco, Universidad

2 Per maggiori informazioni vedi: www.congresodemediacion.com -


www.iberistica.unige.it (sezione Mediazione Comunitaria). De Luise D. e Morelli
M. (a cura di), Tracce di Mediazione, Polimetrica, Milano 2010. De Luise D. e
Morelli M. (a cura di), Mediazione tra prassi e cultura, oltre i risultati di una
ricerca, Polimetrica, Milano 2010. De Luise D. e Morelli M. (a cura di), La
Mediazione, una via verso la cultura della pace, Libellula, Lecce, 2011. De Luise D.
e Morelli M. (a cura di), La Mediazione Comunitaria: un’esperienza possibile,
Libellula, Lecce, 2012.
Jaume I de Castellón, Universidad de la Sonora, Universidad Metropolitana
de Ciudad de México, ecc.. Insomma, quasi senza accorgercene ci siamo tro-
vati a tessere una rete sempre più grande con cui condividiamo progetti,
studi, sogni e, in ultimo, il progetto della collana di mediazione comunitaria
di questa casa editrice, nato dall’incontro con Piero Cademartori grazie all’e-
sperienza e ai suggerimenti del vulcanico amico comune Marzio Villari.

Il X Congresso Mondiale di Mediazione


Veniamo ora al X Congresso Mondiale di Mediazione oggetto di questo
volume. Le ragioni che ci hanno spinto a candidarci per ospitarlo e ad affron-
tare lo sforzo relativo, sono state, tutto sommato, molto semplici. Tornando
dalla prima edizione del 2005 ci eravamo resi conto che mancava, da noi e a
quel tempo, un approccio alla mediazione che fosse prima di tutto culturale,
cioè che guardasse alla stessa come a uno stile di vita e a un’opzione politi-
co-culturale prima che alle differenti tecniche di intervento nelle diverse si-
tuazioni di conflitto. Ci sembrava, anche, che la mediazione comunitaria cor-
resse il rischio di essere considerata una tra le tante tecniche, mentre per noi
rappresentava e rappresenta ancor più oggi, l’espressione operativa dell’en-
foque cultural de la mediación, che raccoglie in sé tutte le altre tecniche, sia
nella riflessione e nel bisogno di competenze, che nell’azione, chiamandole
in causa, con i relativi “specialisti” a seconda delle necessità. Da allora al
2014, c’è stato quanto sintetizzato prima, che è stato una sorta di prepara-
zione alla prima realizzazione del Congresso in Italia e in Europa per pro-
vare a dare l’avvio a questo sguardo sul mondo. Un’occasione per far incon-
trare persone (mediatori, addetti ai lavori, cittadini, studiosi, accademici, po-
litici, ecc.) tra loro e attorno a un tema avvicinato in un modo un po’ diverso
e in un “luogo” un po’ diverso.
Infatti per noi ha avuto molta importanza anche il come realizzare l’e-
vento e ci siamo dati alcuni “paletti” irrinunciabili:

➢ No business, per la prima volta abbiamo realizzato un evento non


gratuito, ma i costi di iscrizione dovevano essere (e sono stati) bassi,
con quote ancor più basse per gli extraeuropei che già dovevano so-
stenere costi più alti di viaggio (a noi succede sempre il contrario).
Per raggiungere questo scopo abbiamo cercato aiuti esterni in denaro
e in “natura”. Le tre istituzioni organizzatrici ospitanti hanno offerto
il lavoro del personale coinvolto (qualche decina di migliaia di euro)
e Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura anche l’uso di tutti i lo-
cali3;

3 I dettagli dei costi sono on-line, sul sito www.congressodimediazione.com.


➢ No mercato, cioè fare in modo che il congresso fosse un’occasione
per discutere di contenuti e non per vendere prodotti (formazione,
progettazione, interventi, ecc.). Chi ha cercato una vetrina da cui
proporsi non l’ha trovata;
➢ Sobrietà, anche se la splendida location, come diciamo noi in Italia,
ha fatto sembrare il Congresso tutt’altro che sobrio, i costi sono stati
bassissimi per un evento di quelle dimensioni, abbiamo ridotto al
minimo il catering sia nel numero (uno per l’inaugurazione e uno
per la serata finale) che nella sontuosità e gestito internamente
viaggi, collocazioni alberghiere, service, ecc.;
➢ Istituzione di borse o aiuti economici per pagare l’iscrizione delle
persone che non potevano sostenere il costo. Ne sono state attivate
circa 25 per studenti universitari, circa 80 per dipendenti del Co-
mune di Genova, altre 10 circa per residenti di quartieri genovesi;
➢ Portare un po’ del congresso fuori dalla sede dei lavori e mettere il
Congresso a disposizione della città, istituzioni in testa;
➢ Creare una rete, la più ampia possibile, con altre città italiane co-
prendo dall’organizzazione genovese i costi della realizzazione di
workshop pre-congressuali su ambiti della mediazione di loro inte-
resse;
➢ Scegliere relatori e formatori dei workshop in accordo con il comi-
tato convocante messicano che ci ha lasciato totalmente liberi, esclu-
sivamente secondo i contenuti e gli approcci che volevamo proporre
e facendo in modo che gli iscritti italiani ed europei potessero ascol-
tare “dal vivo” mediatori di rilievo internazionale che frequentano
poco l’Europa e l’Italia. Non ci sono stati, dunque, inviti dovuti a lo-
giche di altra natura;
➢ Inserire nel congresso uno spazio per Comunicazioni, in sessioni pa-
rallele, selezionate attraverso un comitato scientifico internazionale.
I lavori sono stati resi tutti anonimi e inviati ciascuno a una coppia di
valutatori; in caso di parere non unanime di questi ultimi, il lavoro è
stato mandato a un terzo. Questa prima valutazione attribuiva un
punteggio. La graduatoria di tutti i punteggi consentiva la scelta del
numero di lavori da selezionare. Nessuno è stato selezionato, quindi,
in virtù del proprio nome, delle proprie conoscenze o della carica,
accademica o meno, ricoperta. Questo volume nasce per ospitare e
diffondere i lavori tratti da queste comunicazioni, nuovamente sele-
zionati e sottoposti a revisione cieca;
➢ Coinvolgere studenti e membri della piattaforma nel processo orga-
nizzativo e gestionale.

Un elenco pedante, ma necessario, perché parte stessa delle ragioni della


nostra candidatura, oltre ad allargare la rete di chi è interessato a guardare
alla mediazione in un modo diverso, aprendo la finestra dei confini nazionali
per far entrare altra aria e altre voci. Il Congresso è stato uno straordinario
luogo di incontro e il fatto di realizzarlo in Europa ha evidenziato ancor più
questo aspetto. Così tante provenienze diverse e gli oltre duecento parteci-
panti dall’America Latina hanno reso possibili scambi di esperienze e posto
le basi per nuove possibili collaborazioni. Inoltre, l’elevata presenza di ca-
riche istituzionali di altri paesi tra gli iscritti ha fatto sì che i confronti non
siano avvenuti solo tra aree geografiche, ma anche trasversali, a più livelli.
Un lavoro di ricerca specifico e una pubblicazione a parte sarebbero ne-
cessari per raccontare il lavoro di contatto con le centinaia di persone che
hanno chiesto informazioni e con chi, poi, ha partecipato. Migliaia di contatti
tenuti personalmente da noi che costituiscono una miniera di dati sulla prag-
matica della comunicazione del mondo della mediazione e sul variegato e, a
volte, bizzarro mondo dei mediatori. Lo diciamo solo per condividere una
nostra impressione: a volte corriamo il rischio nelle sessioni di mediazione (e
nella vita), noi per primi, di proporre agli altri cose che sono ancora molto
lontane dal nostro stile e modo di comportarci.
Occorre dire, giusto per descrivere il contesto da cui emergono i lavori
che proponiamo a seguire, che, in generale, sia le attività pre-congressuali
(nove workshop in Italia e altrettanti a Genova) che quelle congressuali
hanno superato le nostre aspettative, anche dal punto di vista del numero dei
partecipanti.
Il numero degli iscritti al pre-congresso mondiale, a quello nazionale e al
congresso vero e proprio, ha superato le settecento persone, rappresentanti
ventisette paesi diversi, con oltre millecento partecipazioni alle attività. Gli
iscritti al congresso sono stati circa cinquecento.
Gli esperti relatori e istruttori sono stati coinvolti in incontri tematici
scelti da otto realtà cittadine che ne hanno fatto richiesta:

➢ Un gruppo interdisciplinare composto da psicologi, educatori, assi-


stenti sociali, insegnanti e mediatori interculturali (Comune di Ge-
nova, ASL e privato sociale) ha incontrato, in uno spazio messo a di-
sposizione da Palazzo Ducale, Juan Carlos Vezzulla per discutere
delle tematiche relative alla prevenzione rivolta agli adolescenti a ri-
schio;
➢ L’Associazione Amici di Ponte Carrega ha organizzato un incontro
in Piazza Adriatico con Graciela Frías Ojinaga, Ramón Alzate Sáez
de Heredia e Leticia García Villaluenga su tematiche relative alla
mediazione e la partecipazione dei cittadini;
➢ Un gruppo di ragazzi di una casa occupata ha incontrato Alejandro
Nató per affrontare temi legati alla mediazione come strumento di
superamento dei conflitti;
➢ La scuola Santa Sofia ha organizzato un incontro con Laura Quiroz
per affrontare argomenti legati alla mediazione in ambito scolastico;
➢ L’Istituto Comprensivo Centro Storico ha avuto a disposizione My-
riam Barrientos e El Ahdji Ahmadou per affrontare le stesse tema-
tiche;
➢ In una sala messa a disposizione da Palazzo Ducale, alcuni rappre-
sentanti dell’Associazione Amici di Ponte Carrega, il Prof. Massimo
Morisi dell’Università di Firenze, un rappresentante dell’Ufficio per
la Partecipazione del Comune di Genova, un rappresentante del Mu-
nicipio Media Val Bisagno (Vicepresidente) e un rappresentante di
Coop (Presidente Coop Liguria) hanno incontrato Alejandro Nató,
Graciela Frías e Danilo De Luise per discutere su come riuscire ad
avviare un processo di dialogo tra di loro;
➢ Il Municipio di Sampierdarena ha organizzato un incontro con Fad-
hila Maamar e Graciela Frías per affrontare le tematiche legate alla
mediazione nei contesti di immigrazione;
➢ La scuola Ariosto di Certosa ha incontrato Ramón Alzate Sáez de
Heredia, Myriam Barrientos e Georgina Pesqueira per affrontare te-
matiche legate all’applicazione della mediazione in ambito scola-
stico.

In ognuna di queste attività, come in tutte le altre pre-congressuali e con-


gressuali erano presenti, in qualità di osservatori, membri dello staff organiz-
zatore composto da componenti della piattaforma di mediazione comunitaria
genovese e studenti dell’Università di Genova, disponibili anche come sup-
porto linguistico e traduttivo. A questo proposito è opportuno ricordare le te-
sine di laurea triennali e le tesi magistrali che alcuni degli studenti del Dipar-
timento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova, che hanno
partecipato a questa esperienza come Staff (una trentina) o come partecipanti
alle attività del congresso, hanno dedicato al Congresso Mondiale di Media-
zione o ad aspetti correlati 4, quali la giustizia restaurativa, la mediazione
educativa, aspetti legati all’oralità di alcuni formatori del congresso, la me-
diazione comunitaria, ecc..
Ci è sembrato giusto, in questa breve introduzione, cercare di condividere
gli antefatti, lo spirito e lo stile con cui abbiamo cercato di realizzare il X
Congresso Mondiale di Mediazione. Purtroppo l’enorme mole di materiale
non ci consente di realizzarne degli atti veri e propri, anche se, fortunata-
mente, in rete sono disponibili almeno i video di tutte le sessioni plenarie.
4 Solo per menzionarli: Elena Bernardeschi, Cristina Brusco, Marta Carmilla,
Michel Del Noce, Daiana Díaz, Giulia Pagano, Daria Podestà e molti altri che hanno
approfondito tematiche legate all’esperienza nella loro memoria di modulo teorico
all’interno della materia Lingua e Traduzione I del corso di laurea magistrale in
Traduzione e Interpretariato.
Non ci è possibile descrivere tutte le esperienze fatte nei due anni di la-
voro per la sua organizzazione, né raccontare gli straordinari incontri fatti
strada facendo. Piano piano si sono aggiunte persone e collaborazioni che
hanno reso possibili realizzazioni di grandi e piccoli pezzi di questa espe-
rienza. Crediamo, comunque, che questo volume possa, attraverso una parte
dei contributi proposti durante le sessioni parallele, dare un’idea della ric-
chezza e della variegata esperienza che i partecipanti hanno potuto vivere.
Riteniamo sia un buon punto di partenza per chi abbia voglia di ragionare
e lavorare insieme per il miglioramento della qualità delle nostre vite.
A tutte le persone che hanno lavorato all’organizzazione e alla realizza-
zione del congresso va la nostra gratitudine, senza di loro non si sarebbe po-
tuto fare.
Grazie ai componenti del Comitato Scientifico che hanno prestato il loro
tempo e le loro competenze gratuitamente.
Ai partecipanti: un grande grazie, per lo sforzo fatto, sia di tempo, che di
pazienza e fatica nell’incontrare persone con approcci e convinzioni a volte
differenti. Non si è trattato, infatti, del raduno annuale di persone che condi-
vidono tutte lo stesso approccio, ma di un tuffo nel confronto e nella sco-
perta, che ha richiesto umiltà e passione a molti.
Grazie alle numerose personalità accademiche, politiche e istituzionali
che si sono iscritte, pagando la quota, e hanno partecipato esattamente come
tutti gli altri. Apprezziamo la loro coerenza e testimonianza che, tra le altre
cose, ridimensiona le proteste di chi avrebbe voluto da noi un trattamento
privilegiato e maggior visibilità.
Grazie a chi ha voluto argomentare delle critiche, ci ha aiutato e ci aiuta a
crescere oltre a testimoniare buona fede e coraggio delle proprie azioni; è un
merito davvero grande.
Un abbraccio particolare va a tutti quelli che non hanno potuto parteci-
pare, a quelli che lo hanno fatto da distante e a tutti quelli che ci hanno soste-
nuto e fatto il tifo per noi.

Granada, luglio 2015


Golpes de timón
Danilo De Luise - Fondazione San Marcellino Onlus
Mara Morelli - Università di Genova

Un pequeño balance para empezar


Que dos genoveses titulen esta introducción igual que una de las más
famosas obras de teatro de un actor genovés, Gilberto Govi, podría parecer
chauvinista o bien descontado: nada más lejos de nuestras intenciones.
En realidad, como en la historia representada por el gran actor genovés,
hay momentos en que los sucesos de la vida hacen necesario un pequeño o
gran balance, útil, quizá, en el porvenir.
La redacción de estas líneas y la conclusión de este trabajo de edición y
de coordinación se producen diez meses después del final del X Congreso
Mundial de Mediación, celebrado en Génova del 22 al 27 de septiembre de
2014. Un evento que para nosotros constituyó, además de un logro muy
satisfactorio, también el final de un gran esfuerzo, que representa, tal vez en
pequeña escala, uno de los eventos a los cuales reenvía el título. De hecho, el
disfraz de Govi hace referencia al hecho de que en la vida nos gustaría decir
claro lo que pensamos y, en cambio, según afirma Govi, “hay que tragar y
cambiar de rumbo”. Nosotros esta estrategia no la practicamos mucho y,
posiblemente, en esta ocasión lo hagamos aún menos.
Una vez terminada la referencia a la obra del genio teatral compaisano
nuestro, vamos a encarar la síntesis con un pequeño balance, también porque
por algún lado hay que empezar e incluso para homenajear al gran actor.
Los balances suelen cerrar un trabajo; mientras que nosotros preferimos
abrirlo, justamente porque consideramos lo hecho hasta el X Congreso
Mundial como un punto de partida.
En el último volumen que coordinamos, en 2012, un artículo nuestro 5
recorría la fase operativa del trabajo de mediación comunitaria en Génova,
hasta mayo de 2012, lo cual nos permite ahorrar mucha tinta, dejándoles a
los lectores que lo deseen la posibilidad de profundizar en el pasado a través
del artículo citado.
A lo largo de los quince años de trabajo conjunto en mediación, hemos
pasado la mayoría del tiempo a, en el orden:
5 De Luise. D y Morelli. M, “La mediazione comunitaria: dalla dimensione
culturale alle attività sul territorio”, en Danilo De Luise y Mara Morelli (coords.),
La Mediazione Comunitaria: un’esperienza possibile, Libellula, Lecce, 2012, 13-69.
➢ estudiar (aquí cabe también la participación en todos los seminarios,
congresos y talleres que nos hemos podido permitir);
➢ investigar;
➢ escribir;
➢ organizar ocasiones de formación;
➢ realizar acciones experimentales sobre el terreno.

Esto nos permitió intercambiar ideas y experiencias con muchas personas


y construir un “archivo” del cual sacar información durante nuestro trabajo.
Parte de este incluye la creación de conexiones entre personas y actividades
de nuestro interés, proponiendo y ofreciendo espacios de encuentro y de
reflexión común. Los seminarios y los congresos que organizamos tuvieron
también este objetivo, al igual que las coordinaciones de los volúmenes que
publicamos. Por lo general, podemos afirmar que hemos logrado bastante en
ambos campos; lo que esto haya producido o pueda producir es materia de
otro tipo de evaluación.
Las investigaciones que pusimos en marcha y activamos persiguieron el
mismo espíritu; pero, si bien para nosotros han sido satisfactorias en
términos de recogida de datos, observación de los procesos, curiosidad
satisfecha y, sobre todo, elaboración de nuevas preguntas, queda por ver su
recaída práctica en los territorios.
La escritura y la oferta de seminarios y de formación, además de
conseguir, como decíamos antes, el objetivo de hacer encontrar a personas y
experiencias de manera provechosa, nos parece también que lograron el
objetivo de la difusión. Seguramente las editoriales no se hicieron ricas con
las ventas de nuestros volúmenes y mucho menos las organizaciones a las
que cedimos los derechos; sin embargo, el intercambio de ideas todavía está
abierto y es bastante vivaz entre los expertos y, ¡sorpresa!, también entre
algunos menos expertos.
Nos asombró auténticamente la participación en las iniciativas de
capacitación y congresuales que propusimos. Probablemente el hecho de que
eran gratuitas tuvo su peso; sin embargo, siempre fue muy alta y por encima
de las expectativas también en las propuestas que requerían más
compromiso. Importante recordar que del grupo de personas implicadas en
estos eventos ha surgido una plataforma de mediación comunitaria genovesa
integrada por unas cincuenta personas, y que unas veinte se han
comprometido en los territorios en 2013 y que unas treinta se adhirieron
como socias de la Associazione di Mediazione Comunitaria (AssMedCom)
creada en 2013. Según nuestro parecer hace falta dar otro avance, por eso,
dedicamos 2015 al diseño de una capacitación en mediación comunitaria que
se plasmará en un curso de perfeccionamiento universitario.
Las actividades en los barrios fueron caracterizadas, como es natural, por
una trayectoria menos lineal y con muchas variables. Ahí nuestros límites se
hicieron sentir y ver, a veces también una vez que había pasado el tiempo.
Hemos “tocado” o “rozado” cinco piezas de barrios genoveses a los cuales
hay que agregar la Policía Municipal de Génova y algunas escuelas como
transversales. En dos de los tres barrios registramos dinámicas conflictivas,
competitivas y expulsivas hacia nosotros por parte de algunos entre los
sujetos implicados. En las otras tres registramos movimientos positivos de
activación de personas y de procesos, con aumento de conciencia, aunque en
un caso, la experiencia está viviendo un largo periodo de estancamiento
viendo a los componentes residuales del grupo de residentes más
comprometidos en las actividades de la plataforma fuera del barrio.
La experiencia con las escuelas ha sido, y sigue siendo, una fatiga;
requiere pequeños pasos y una gran atención a los temas internos y
dinámicas de los grupos de profesores de los que registramos una gran
necesidad de espacios de escucha y de intercambio, de apoyo y de
reconocimiento de su papel en la comunidad.
La parte del león, en este breve fragmento de historia, la jugó la Policía
Municipal quien siguió el trabajo de difusión y de formación interna con
constancia, hasta formar a más de cien personas entre agentes y funcionarios
de las novecientas (aproximadamente) de plantilla, de las cuales, la mitad
destinada al servicio en los distritos. El recorrido cuatrienal es muy
articulado, entre formaciones intensivas, supervisiones, encuentros con
expertos, visitas y ocasiones de sensibilización en los distritos, formaciones
exclusivas para los responsables de los distritos y recorridos de trabajo sobre
los procedimientos, realizados en pequeños grupos, siguiendo el enfoque
comunitario de abajo para arriba.
Actualmente estamos a punto de empezar nuevas acciones pedidas
directamente por los territorios.
Este primer recuento, a una somera lectura, podría verse como un listado
de un cierto número de logros entre los naturales y, a veces previsibles,
fracasos, aunque, en estas líneas no facilitamos ningún elemento útil para
hacer una evaluación. No era nuestra intención, como ya declaramos
inicialmente. El objetivo era tan solo el de definir un mapa útil para
comprender en qué contexto se insertó la experiencia del Congreso Mundial.
Si tuviéramos que expresar nuestra opinión acerca del recorrido que
acabamos de trazar, no nos podríamos declarar satisfechos. Lo estamos, en
algunos casos mucho, de algunas experiencias concretas, de las relaciones
establecidas con muchísimas personas que colaboraron y que siguen
colaborando con nosotros, pero, en el conjunto, si pensamos en las
potencialidades que descubrimos, no creemos que todavía hayamos
alcanzado la ciudad y, entre ellas, primeramente las instituciones. Al fin y al
cabo nos parece éste nuestro mayor límite y quisiéramos invertir en un
futuro próximo para entender mejor el porqué.
Pero, procedamos por orden: de hecho el mapa es mucho más articulado
porque, paralelamente al trabajo en la ciudad donde vivimos, nos implicaron
en diferentes experiencias de difusión, capacitación y seguimiento en un
contexto más amplio. En primer lugar, el hecho de haber llamado a trabajar
en Génova a expertos internacionales, dos de los cuales realizan el
seguimiento de nuestros proyectos, hizo que lo que estábamos haciendo
adquiriera, según ellos, la forma de una especie de modelo genovés, de aquel
enfoque de la mediación que, partiendo del movimiento de los congresos
mundiales de mediación y de otras experiencias en América Latina 6, cruzó el
charco para adaptarse al nuevo entorno, llevando su granito de arena en
términos de praxis y de reflexión al propio movimiento. Por esta razón, nos
pidieron que lo presentáramos como Proyecto Exitoso de Alcance Global en
el VII Congreso Mundial de Mediación que se celebró en Toluca (México)
en 2011. La experiencia fue escuchada por una funcionaria del Ministerio de
Justicia de la República de Chile que nos llamó, en agosto de 2012, para
capacitar a los mediadores implicados en un proyecto de cierre de los
campamentos de todo el estado.
En 2013 nos seleccionaron como buena práctica europea en el marco de
un proyecto de la Fundación CEPAIM (sede en Murcia). En 2013 a Mara
Morelli se le pidió que diera una conferencia magistral en el marco del IX
Congreso Mundial de Mediación. Nos reconocieron como organización
anfitriona del X Congreso Mundial de Mediación que, por primera vez,
saldría de América Latina.
En diciembre de 2013 empezó una colaboración muy provechosa,
primero con la Agencia Sanitaria Local de Cesena (Emilia Romagna) y luego
con el Ayuntamiento de la misma ciudad. Nos pidieron que facilitáramos un
recorrido dirigido a crear una red de todas las realidades regionales que se
ocupan de mediación.
Con ocasión del X Congreso Mundial de Mediación activamos nueve
colaboraciones con instituciones y organizaciones de nueve ciudades
italianas diferentes que albergaron los talleres del pre-congreso nacional.
Una vez terminado el congreso, la Asociación Sesta Opera de Milán y el
Reclusorio de Bollate (Milán) nos propusieron otro reto. Algunas personas
(entre ellas la Vice-Directora de la cárcel) que habían participado en el taller
pre-congreso de Milán – albergado por la propia Sesta Opera – sobre la
6 Para más información, véase www.congresodemediacion.com -
www.iberistica.unige.it (sezione Mediazione Comunitaria). De Luise D. y Morelli
M. (coords.), Tracce di Mediazione, Polimetrica, Milano 2010 (ed. en lengua
española, Huellas de mediación, Zona, Genova 2015). De Luise D. y Morelli M.
(coords.), Mediazione tra prassi e cultura, oltre i risultati di una ricerca,
Polimetrica, Milano 2010. De Luise D. y Morelli M. (coords.), La Mediazione, una
via verso la cultura della pace, Libellula, Lecce, 2011. De Luise D. y Morelli M.
(coords.), La Mediazione Comunitaria: un’esperienza possibile, Libellula, Lecce,
2012.
experiencia de mediación entre pares internos en Hermosillo y habían
quedado muy satisfechas e ilusionadas, nos pidieron que redactáramos un
proyecto para realizar una experiencia parecida a la de Hermosillo también
en Bollate. Mientras estamos escribiendo estas líneas (julio de 2015) ha
terminado la primera fase del proyecto que se convertirá en algo nuevo,
estudiado ad hoc según las necesidades tanto de los internos como del
personal que trabaja en este Reclusorio.
A lo largo de estos años activamos colaboraciones con docentes de
universidades europeas y extraeuropeas, entre otras: Universidad Autónoma
de Madrid, Universidad Complutense, Universidad de País Vascos,
Universidad Jaume I de Castellón, Universidad de la Sonora, Universidad
Metropolitana de Ciudad de México, etc. En fin, casi sin darnos, cuenta
tejimos una red cada vez más amplia con la que compartimos proyectos,
estudios y sueños; por último, el proyecto de la colección de mediación
comunitaria de esta editorial, nacido del encuentro con Piero Cademartori
gracias a la experiencia y a las sugerencias del volcánico amigo común,
Marzio Villari.

El X Congreso Mundial de Mediación


Pasemos ahora al X Congreso Mundial de Mediación al que dedicamos
este volumen. Las razones que nos empujaron a presentar nuestra
candidatura para albergarlo en Génova y, por consiguiente, encarar todo el
esfuerzo para hacerlo, fueron muy sencillas. Si volvemos a la primera
edición de 2005, podemos afirmar que nos habíamos dado cuenta de que en
Italia faltaba en aquel entonces un enfoque a la mediación que fuera primero
cultura, o sea, que mirara a la misma como a un estilo de vida y a una opción
político-cultural, antes de ser un conjunto de técnicas de intervención en las
diferentes situaciones de conflicto. Además, creíamos que la mediación
comunitaria podía correr el riesgo de considerarse una entre las muchas
técnicas, mientras que para nosotros representaba, y sigue representando,
aún más hoy, la expresión operativa del enfoque cultural de la mediación que
incluye todas las demás técnicas, tanto en la reflexión como en la necesidad
de competencias diferentes, con los relativos “especialistas” que se activan
según las diferentes necesidades concretas. Desde 2005 hasta 2014 llevamos
a cabo lo que ya escribimos antes, una especie de preparación a la primera
realización del Congreso en Italia y en Europa para intentar dar esta mirada
hacia el mundo. Una ocasión para hacer encontrar a mediadores, expertos del
ámbito, no expertos, ciudadanos, estudiosos, académicos, políticos, etc.
alrededor de un tema encarado de manera un poco diferente y en un lugar un
poco distinto.
De hecho para nosotros tuvo mucha importancia el cómo celebrar el
congreso y pusimos algunos límites irrenunciables:

➢ No negocio; por primera vez realizamos un evento no gratuito; sin


embargo, las cuotas de inscripción debían ser (y efectivamente
fueron) bajas, con costos aún más bajos para los que venían de fuera
de Europa que ya deberían costear los altos gastos de viaje (a
nosotros siempre nos pasa cuando vamos hacia allá). Para conseguir
este objetivo buscamos ayudas financieras externas y en especie. De
hecho, las tres instituciones anfitrionas ofrecieron el trabajo de su
personal implicado (unas decenas de miles de euros) y Palazzo
Ducale Fondazione per la Cultura también el uso de todos los
locales7;
➢ No mercado, es decir, hacer que el congreso fuera una ocasión para
debatir e intercambiar contenidos e ideas y no un escaparate para
vender productos (que fueran formación, actividades o diseño de
proyectos). Quienes buscaban un escaparate desde el que proponer
sus productos no lo encontraron;
➢ Sobriedad, aunque la estupenda location, como se dice aquí en Italia,
hizo que pareciera todo menos que sobrio; sin embargo, los costos
fueron mínimos para un evento de ese tamaño. Redujimos al mínimo
el catering, tanto en el número (una para la inauguración para todo el
mundo y uno para la noche final para los invitados y el equipo)
como en la suntuosidad, gestionando personalmente pasajes, hoteles,
servicios, etc.);
➢ Crear becas o ayudas económicas para pagar la inscripción de las
personas que no podrían sostenerla. Unos veinticinco estudiantes
universitarios, unos ochenta empleados del Ayuntamiento de Génova
y unos diez residentes de barrios genoveses;
➢ Llevar el congreso fuera de la sede congresual para ponerlo a
disposición de la ciudad, primeramente de las instituciones;
➢ Crear una red, la más amplia posible, con otras ciudades italianas,
con los costos de realización de los talleres pre-congresuales
costeados directamente por la organización genovesa e invitando a
que las diferentes sedes decidieran los ámbitos y las temáticas de
mediación de su interés;
➢ Elegir a instructores y formadores de acuerdo con el comité
convocante mexicano que nos dejó totalmente libres, eligiendo solo
a partir de los contenidos y de los enfoques que pretendíamos
proponer, haciendo que los participantes pudieran escuchar “en

7 Los detalles de los costos están en línea; véase www.congressodimediazione.


com.
vivo” a mediadores de fama internacional que no suelen escucharse
en Europa y en Italia. No se hicieron invitaciones por otras lógicas o
índoles;
➢ Introducir en el Congreso un espacio para las Comunicaciones, en
sesiones paralelas, escogidas por un Comité Científico internacional.
Todos los trabajos, hechos anónimos, se sometieron a una doble
evaluación. En caso de dictamen divergente, el trabajo se envió a un
tercer evaluador. Esta primera evaluación asignaba una puntuación.
La clasificación de todas las puntuaciones permitió la elección del
número de trabajos por selección según el espacio y el tiempo
disponible. Nadie se seleccionó por su nombre, sus conocidos o su
cargo, sea académico sea de otra naturaleza. Este volumen nace
justamente para albergar y difundir estos trabajos que se volvieron,
como trabajos completos, a someter a revisión ciega;
➢ Implicar a estudiantes y a miembros de la plataforma en el proceso
de organización y de gestión.

Un listado pesado, pero necesario, porque una parte de las razones de


nuestra candidatura, además de ampliar la red de quienes estuvieran
interesados en encarar la mediación de manera diferente, era abrir la ventana
de los confines nacionales para que entrara nuevo aire y otras voces. El
Congreso fue un lugar de encuentro extraordinario y el hecho de celebrarlo
en Europa permitió destacar aún más este aspecto. Muchas procedencias
diferentes y más de doscientos participantes de América Latina posibilitaron
intercambios de experiencias y sentaron las bases para nuevas
colaboraciones posibles. Además, la presencia cuantiosa de cargos
institucionales de otros países entre los participantes hizo que no solo se
produjera un debate entre áreas geográficas diferentes, sino también
transversales.
Cabría una tarea de investigación y una publicación dedicada a todo el
pre-congreso y el congreso para contar el trabajo de contacto con centenares
de personas que pidieron información y con quienes participaron. Miles de
contactos mantenidos personalmente por nosotros, lo que constituye una
cantera de datos sobre la pragmática de comunicación del mundo de la
mediación y sobre el polifacético, y a veces un poco raro, mundo de los
mediadores. Lo decimos solo para compartir una impresión que tuvimos con
este trabajo: nos parece que a veces corremos el riesgo, tanto en las sesiones
de mediación como en la vida, de proponer a los demás cosas que están muy
lejos de nuestro estilo y forma de comunicar y de actuar.
Cabe decir, solo para describir el contexto del que surgen los trabajos que
aquí proponemos, que en general, tanto las actividades pre-congreso (nueve
talleres en Italia y nueve en Génova) como las congresuales rebasaron
nuestras expectativas, también desde el punto de vista del número de
participantes: más de setecientas personas, representantes de veintisiete
países, con más de mil participaciones en las diferentes actividades. Unos
quinientos participantes en el Congreso.
Como decíamos antes, el Congreso también salió del Palacio y los
expertos instructores y ponentes se implicaron en encuentros temáticos
elegidos por ocho diferentes realidades que habían pedido su asesoramiento
y visita. A continuación un breve detalle de estas actividades:

➢ Un grupo interdisciplinario integrado por psicólogos, educadores,


asistentes sociales, profesores y mediadores interculturales
(pertenecientes al Ayuntamiento de Génova, a la empresa sanitaria
local y al privado social) encontró, en un espacio puesto a
disposición por Palazzo Ducale, a Juan Carlos Vezzulla para debatir
temáticas relacionadas con la prevención de los adolescentes de
riesgo;
➢ La Associazione Amici di Ponte Carrega organizó un encuentro en
piazza Adriatico (su barrio) con Graciela Frías Ojinaga, Ramón
Alzate Sáez de Heredia y Leticia García Villaluenga sobre temáticas
relativas a la mediación y a la participación de los ciudadanos;
➢ Un grupo de chicos de una casa ocupada encontró a Alejandro Nató
para encarar temas relacionados con la mediación como herramienta
de superación de los conflictos;
➢ La Escuela Santa Sofia organizó un encuentro con Laura Quiroz
para debatir temas relacionados con la mediación en el ámbito
escolar;
➢ El Istituto Comprensivo Centro Storico tuvo a disposición a Myriam
Barrientos y El Ahdji Ahmadou para encarar temáticas parecidas;
➢ En una sala puesta a disposición por Palazzo Ducale, algunos
representantes de la Associazione Amici di Ponte Carrega, el Dr.
Prof. Massimo Morisi de la Universidad de Florencia, una
representante de la Oficina para la Participación del Ayuntamiento
de Génova, un representante del Municipio Media Val Bisagno
(Vicepresidente), un representante de Coop (Presidente Coop
Liguria) encontraron a Alejandro Nató, Graciela Frías y Danilo De
Luise para debatir sobre cómo conseguir poner en marcha un
proceso de diálogo entre las diferentes realidades representadas;
➢ El Municipio de Sampierdarena organizó un encuentro con Fadhila
Maamar y Graciela Frías para encarar temas relacionados con la
mediación en los contextos de inmigración;
➢ La Escuela Ariosto del barrio de Certosa encontró a Ramón Alzate
Sáez de Heredia, Myriam Barrientos y Georgina Pesqueira para
debatir temas relacionados con la aplicación de la mediación en el
entorno escolar.
En cada una de estas actividades, así como en todas las demás, tanto pre-
congreso como congresuales, estuvieron presentes, en calidad de
observadores, componentes del equipo organizador, es decir miembros de la
plataforma de mediación comunitaria de Génova y estudiantes de la
Universidad de Génova, del Departamento de Lenguas y Culturas Modernas,
disponibles también como apoyo lingüístico y traductor. A este propósito,
cabe recordar los trabajos de fin de grado que surgieron de esta experiencia o
bien de haber asistido como participantes becados en los trabajos del
congreso8. Por el momento se han tratado temas como la justicia restaurativa,
la mediación educativa y comunitaria, aspectos relacionados con la oralidad
de algunos ponentes, etc.
Con esta breve introducción nos pareció importante compartir los
antecedentes, el espíritu y el estilo con el que intentamos realizar el X
Congreso Mundial de Mediación. Desgraciadamente, la enorme cantidad de
intervenciones y actividades no nos permiten escribir auténticas actas,
aunque, afortunadamente, en Internet se encuentran los videos de todas las
sesiones plenarias. No es posible describir todas las experiencias hechas en
estos dos años de trabajo de organización y tampoco los encuentros
extraordinarios que hicimos a lo largo de este camino. A medida de que
íbamos avanzando se agregaron personas y colaboraciones que hicieron
posibles grandes o pequeñas piezas de esta aventura. Pensamos que este
volumen puede, a través de una selección de los trabajos de las sesiones de
Comunicaciones, dar una idea de la riqueza y de la variada experiencia que
todos los participantes experimentaron. Lo consideramos un punto de partida
para quiénes deseen razonar y trabajar con nosotros para mejorar la calidad
de nuestras vidas.
A todas las personas que trabajaron gratuitamente en la organización y en
la realización del Congreso va nuestra gratitud: sin ellas no hubiera sido
posible llevarlo a cabo.
Gracias a los componentes del Comité Científico que pusieron a
disposición su tiempo y sus competencias gratuitamente.
Un “Gracias” enorme a todos los participantes por su esfuerzo, tiempo y
paciencia en encontrarse con personas con enfoques y convicciones a veces
diferentes. No se trató del encuentro anual de personas y expertos que
comparten el mismo enfoque, sino de lanzarse al mar del encuentro y del
descubrimiento, lo que le pidió humildad y pasión a mucha gente.

8 Solo para mencionarlos: Elena Bernardeschi, Cristina Brusco, Marta Carmilla,


Michel Del Noce, Daiana Díaz (revisora también de la traducción de esta
introducción) y Giulia Pagano, Daria Podestà y muchos otros que profundizaron en
temas relacionados con la experiencia en su memoria de módulo teórico de la
asignatura de Lengua y Traducción española I de la licenciatura en Traducción e
Interpretación.
Gracias a las numerosas personalidades académicas, políticas e
institucionales que se inscribieron, pagando la cuota, y participaron
exactamente igual que los demás. Valoramos positivamente su coherencia y
testimonio que, entre otras cosas, achica las protestas de quienes hubieran
pretendido un trato privilegiado y mayor visibilidad.
Gracias a quienes quisieron argumentar las críticas; nos ayudó y nos
sigue ayudando a crecer, además de testimoniar buena fe y el valor de sus
propias acciones; creemos que es un mérito muy grande.
Un abrazo especial a todos quienes no pudieron participar, a quienes lo
hicieron a distancia y a todos quienes nos apoyaron y fueron nuestros
hinchas.
La Dimensión Transversal de la Mediación.
Una Mirada Sistémica desde los Procesos9
Marcela Fernández Saldías - Universidad de Valparaíso

Introducción
La sistematización de los procesos que trasunta la mediación desde su
conceptualización como método de resolución de conflictos, es una
necesidad para múltiples actores que cultivan la especialidad, ya sea como
mediadores, formadores, supervisores, tutores, y evaluadores de programas
de mediación. La razón radica en el hecho que si bien la dogmática de
mediación ha alcanzado un grado de desarrollo considerable, aún resulta
complejo identificar en la práctica los elementos ontológicos de este proceso
y sus cualidades, los cuales permiten realizar un juicio de valor “objetivo” o
fundado respecto sus calidades.
La dimensión transversal de la mediación, en tanto aporte conceptual y
técnico a la especialidad, encuentra su origen en la inquietud surgida de mi
experiencia práctica como mediadora y formadora de mediadores, de
encontrar una forma de explicar la complejidad de la intervención
profesional en la mediación. Desarrollé una incipiente aproximación al tema
en un artículo presentado en el Primer Congreso de Mediación de Conflictos
para el Cono Sur, realizado en Colonia Uruguay en el año 2006, bajo el título
“Modelos Sistémicos de Mediación. Integración y Técnicas”, en el cual
abordé en forma básica la distinción entre procesos y procedimientos en la
mediación, sin profundizar en la identificación de los procesos ni en sus
características. Cinco años después tuve la oportunidad de volver a la
reflexión respecto de la naturaleza de los procesos de la mediación en una
investigación que conduje siendo partícipe principal de sus productos, la cual
tuvo como objetivo construir un instrumento para evaluar la calidad de los
proceso de mediación familiar en el sistema de mediación licitada en Chile
que administra el Ministerio de Justicia10. Si bien esta investigación se
realizó mediante un proceso colectivo de un pequeño equipo
interdisciplinario de profesionales especialistas, la orientación del estudio
9 La presente ponencia es un extracto adaptado de la Tesis elaborada por autora
para obtener el Título de Executive Master en Estudios Avanzados en Mediación y
Negociación Institut Universitaire Kurt Bösch, Suiza, en proceso de publicación.
10 La metodología producto de esta investigación denominada ECAME
(Evaluación de la Calidad de la Mediación), constituye un recurso complejo de
obtención de información para evaluar la calidad de los procesos de mediación
mediante supervisión del desempeño del mediador en sala.
siguió mi conducción a partir de la integración de los saberes presentes,
razón por la cual me encuentro en una posición estratégica y válida para
desarrollar las elaboraciones conceptuales relacionadas al producto que no se
plasmaron en el estudio, con el objeto de aportarlas a los operadores de la
mediación11. Sin embargo, mediante un estudio más acabado del tema, he
podido elaborar nuevos conceptos y modificar algunos aspectos que se
apartan de las opciones realizadas en el referido estudio como sustento
metodológico del producto final, existiendo por tanto elementos afines y
otros diversos.

La visión de la dimensión transversal de la mediación


Punto de partida es asumir que la mayoría de los desarrollos doctrinales
en la especialidad, aportan una mirada vertical o lineal de la mediación,
explicando metodológicamente las intervenciones profesionales del
mediador desde el procedimiento, lo cual supone analizar cada etapa con sus
respectivos objetivos técnicos.
La nueva mirada transversal que se propone, implica analizar la
mediación desde los procesos que cruzan el procedimiento en todas sus
etapas, integrando una visión sistémica que explica el cambio que se espera
producir en la dinámica conflictiva. Es una mirada sistémica porque pone el
acento en la interacción del sistema mediador, tanto del mediador con las
partes y de la partes entre sí, en la relación conflictiva que se despliega y
manifiesta en la mediación. Para ilustrar esta nueva mirada, se puede pensar
en una imagen que nos muestra el corte seccional del procedimiento de
mediación con una orientación axial, y lo que veremos son los procesos
inherentes a la mediación cualquiera sea la etapa e independientemente del
modelo.
Si bien las acepciones de la palabra proceso y procedimiento en algunas
definiciones parecen asimilarse, desdibujándose sus diferencias, en esta
propuesta hago un esfuerzo de distinción con un objetivo técnico, que no
necesariamente tiene validez general.
En una primera aproximación podemos entender que la palabra
procedimiento siempre nos remite a la ejecución de tareas que requieren
desarrollar ciertas fases o etapas sucesivas. En esta acepción aparecen dos
elementos constitutivos, el primero es el sujeto “operador del

11 El equipo de diseño de la investigación que desarrolló el proceso de


construcción y validación de los instrumentos ECAME, estuvo conformado por la
psicóloga, Bianca Dapelo Pellerano, en calidad de metodóloga; la asistente social y
mediadora, Miriam Peña Raíl, en calidad de sistematizadora del proceso, y la
suscrita en calidad de jefa del estudio.
procedimiento”, quien ejecuta las etapas o fases, y el segundo, es el sujeto u
objeto que es “operado” mediante las etapas. Desde este punto de vista, es
posible concebir un procedimiento en el cual no existe interacción alguna
entre el objeto operado a través de las etapas y el operador de las etapas. Esta
es la razón por la cual la visión lineal del procedimiento, no logra explicar la
complejidad de la mediación como intervención profesional, por cuanto el
resultado de la mediación no se limita a la corrección de la operación de las
etapas del procedimiento por el mediador, siendo más sustantivo el aspecto
referido a los desafíos que representan las interacciones entre la diada de la
partes y la triada de las partes con el mediador.
El concepto de procedimiento parece sugerir que el efecto buscado o el
logro del objetivo propuesto para cada etapa dependen absolutamente o al
menos en gran medida del “operador”, siendo suficiente seguir
ordenadamente las fases para obtener el resultado final esperado. Sin
embargo, los cursos positivos o negativos que sigue la dinámica conflictiva
sometida a mediación, están más determinados por los procesos que se
activan o no se activan en ella que por el cumplimiento de las etapas del
procedimiento. El mediador puede haber operado adecuadamente las etapas,
pero no haber logrado un avance significativo en los procesos, lo cual en esta
mirada no dependerá solo del mediador, ya que los procesos son siempre
interaccionales, y dependen por tanto en igual medida de las partes y de su
interacción. La dimensión transversal permite analizar el avance de los
objetivos de la mediación en niveles de gradación, diferenciando además el
logro en los diversos procesos involucrados, como también evaluar los
desempeños del mediador según las competencias desarrolladas en cada uno
de ellos. Esta mirada también permite distinguir en qué medida podemos
atribuir los resultados de una mediación a las posibilidades y límites de
acción de las partes en conflicto, o a la intervención del mediador.
Finalmente, se puede considerar que por definición, las etapas de un
procedimiento nunca se superponen, siendo esperable que no se operen
simultáneamente, puesto que seguir el orden de secuencia de las etapas es lo
que garantiza el resultado final. Sin embargo, los procesos, entendidos como
evolución de un fenómeno, se superponen, interaccionan entre ellos, se
influencian recíprocamente en forma permanente, lo cual, sin duda ocurre en
la mediación, tal vez con poca conciencia del mediador que está ajeno a la
dimensión transversal. Por tanto, los procesos tienen la cualidad de ser
sincrónicos y el procedimiento diacrónico. El desafío, precisamente es lograr
el avance necesario, en cada caso en particular, de los procesos en forma
simultánea, lo cual integrado a la operación estratégica de las etapas del
procedimiento, apunta al objetivo integral. Entonces, en este punto, cabe
precisar respecto a la necesaria integración del procedimiento y de los
procesos en la mediación, puesto que el trabajo desde ambas dimensiones es
complementario e indispensable para el logro de la calidad de la mediación.
Para acercarnos al tema, asumo que en el contexto de esta propuesta
teórica, la palabra procedimiento está referida a un conjunto de actos o
intervenciones del mediador que se encuentran vinculados según una
secuencia de etapas que persigue un objetivo final. El mediador conduce el
procedimiento manejando las etapas en forma estratégica. Por su parte, la
palabra proceso está referida a la evolución propia de un fenómeno vital, de
carácter relacional en la mediación. El mediador cataliza y gestiona los
procesos en la dinámica del conflicto y de la mediación.
A partir de esta diferenciación, es posible entender los procesos en la
mediación identificando el concepto de ejes de cambio. Siempre que
hablamos de interacción también hablamos de proceso, toda vez que la
interacción supone dos o más componentes que se influencian
recíprocamente en el tiempo y a lo menos comportan una secuencia de
acción/retroacción. La observación del tipo de acción/retroacción que se
repite o cambia en el tiempo nos permite hablar de pautas, de cambio de
pautas y por tanto de avance o retroceso en los procesos. El concepto de
proceso nos convoca a un fenómeno de cambio, de evolución en el tiempo,
lo cual implica partir de una situación inicial que se espera sufra cambios o
transformaciones en el tiempo para llegar a una situación nueva esperada,
que difiere de la situación inicial. Precisamente en este análisis transversal,
se aborda la identificación de los ejes de cambio que son indispensables
considerar en la intervención profesional para llegar a un resultado que se
define como propio de la naturaleza de la mediación, el cual no es
necesariamente el acuerdo. Los procesos de la mediación consideran un eje
de cambio que identifica un polo con una situación inicial en la dinámica
conflictiva antes de la intervención y un polo con una situación nueva
después de la intervención que transita en un continuo que es recursivo
durante el procedimiento en todas sus etapas.
Una de las dificultades de sistematizar la práctica de la mediación radica
precisamente en su carácter dinámico, la mediación no puede aprenderse con
recetas, ya que cada conflicto y cada caso que se despliega en la mediación
es único y particular, presentando diversos desafíos. Una de los aportes de la
visión transversal, es permitir identificar las funciones metodológicas del
mediador que deben ser ejercidas de acuerdo a la necesidad que presente
cada uno de los procesos de la mediación en la situación particular que se
aborda, según sea la cercanía o distancia en la que se encuentre la
interacción del punto del eje de cambio de la dinámica conflictiva. Es
posible observar que algunos autores que tienen una visión sistémica de la
mediación, al no encontrar un nuevo paradigma conceptual para expresar las
particularidades de alguno de los procesos de la mediación, asumen el
paradigma lineal, pero reconocen su limitación. Littlejohn y Domenici,
esquematizan en una línea los objetivos del proceso comunicacional en
ciertos estadios ordenados de izquierda a derecha identificando dos polos
entre los objetivos propios de la mediación transformadora y la mediación
para el acuerdo, y al respecto agregan el comentario que “si bien es
instructivo, resulta demasiado lineal y progresivo, y no capta la compleja
naturaleza y el carácter reflexivo y recursivo de la mayoría de las disputas
reales... la figura debe considerarse simplemente como un repertorio de
objetivos que pueden entrar en juego en el conflicto en diversos momentos y
en distintas combinaciones”12.
Otro aspecto que debe ser considerado en una visión sistémica de la
mediación, es la presencia del contexto construido por los principios de la
mediación, ya que todos los procesos adquieren un sentido particular
asociado a los principios estructurantes de la intervención del mediador,
neutralidad/imparcialidad, voluntariedad, equilibrio de poder y
confidencialidad, contexto que apunta al nivel de legitimidad del sistema
mediador.
La disección del procedimiento de mediación abrirá la posibilidad de
visualizar la acción de múltiples procesos que se juegan ella. Sin embargo,
por ahora la propuesta es conceptualizar aquellos procesos ontológicos,
irreductibles de la mediación, aquellos que todo mediador necesita saber
intervenir para producir el cambio que la mediación supone en la relación
conflictiva, cuales son el proceso comunicacional, el proceso participativo y
el proceso resolutivo; cada uno de los cuales tiene diversos ejes, que integran
los principios de la mediación y de los cuales se desprenden competencias
necesarias para desarrollar el rol de mediador.
La mediación es un proceso comunicacional, pero no cualquier proceso
comunicacional, uno que promueve en forma eficiente y respetuosa el
diálogo entre las partes en conflicto, es un proceso participativo de
resolución, que promueve la participación igualitaria y la involucración
activa y protagónica de las partes, todo ello con el objeto de transitar hacia
una decisión compartida que resuelva el conflicto. Desde mi particular punto
de vista, no es posible concebir la mediación sin comunicación efectiva,
constructiva y dialógica entre las partes, sin participación igualitaria,
protagónica y responsable de los conflictuados, y sin foco en el proceso de
resolución del conflicto.
La visión transversal que acoge el enfoque sistémico de la mediación
puede dibujarse, con la limitación de los planos estáticos, en una figura en la
cual la mediación es el área de intersección de tres conjuntos constituidos
por los tres procesos de la mediación conjugados en un área mayor que son
los principios de la mediación.

12 Littlejohn, Stephen y Domenici Kathy, (2000). Objetivos de la Comunicación y


Métodos de Mediación. En Fried Schnitman, Dora (comp). Paradigmas en la
Resolución de Conflictos, (2ª Ed.) (161-184). Buenos Aires, Argentina. Editorial
Gránica.
El proceso comunicacional
Por una cuestión de jerarquía se analiza primero el proceso
comunicacional, ya que este es el proceso que permite el desarrollo de todas
las intervenciones profesionales vinculadas a la mediación. El marco teórico
desde el cual se analiza el proceso es el Modelo Interaccional de la
Comunicación Humana de Watzlawick13, la cual nos permite entender que el
concepto de comunicación incluye todos los procesos a través de los cuales
la gente se influye mutuamente. Un concepto de comunicación desde esta
13 Watzlawick, Paul, Beavin, Janet y Jackson, Don, (2008). Teoría de la
Comunicación Humana, (1ª Ed.). Barcelona, España. Editorial Herder.
teoría, que es comúnmente aceptado, define la comunicación como un
proceso, no una acción, sino un conjunto de acciones en el cual están
comprometidos dos seres vivos que se relacionan y mutuamente producen
modificaciones que son producto de interacciones.
El primer desafío del mediador al entrar al escenario comunicativo del
conflicto que se despliega en la mediación, es lograr instalar desde su rol
imparcial y neutral, un proceso de comunicación efectiva con las partes,
cambiando respecto de él las reglas que las propias partes usan para
comunicarse entre ellos, las cuales normalmente están afectadas por la
relación conflictiva. Esto es, tener la capacidad de validar su rol como
conductor del proceso de comunicación entre las partes, generando un
contexto comunicativo funcional al proceso colaborativo de resolución del
conflicto.
Desde la pragmática, son múltiples los aspectos a considerar, asumiendo
que el principal efecto que debe buscar el mediador es la aceptación de las
partes del proceso comunicacional que él propone en la mediación, lo cual se
evidencia en la disposición de ellas a conversar los temas que instala a partir
del despliegue del conflicto, y en la validación de su rol en la relación que se
construye con las partes.
Las competencias de un comunicador eficaz son una exigencia común
para muchos profesionales que trabajan con las personas y sus relaciones,
siendo esperable el adecuado manejo de habilidades comunicacionales. Sin
embargo, las competencias para intervenir el proceso comunicacional entre
las partes en conflicto desde la neutralidad son condición del adecuado
desempeño de un mediador.
En este proceso es posible identificar tres ejes de cambio a partir de las
pautas comunicacionales que despliegan las partes en conflicto durante el
proceso de mediación: el referido a la comunicación efectiva entre las partes,
el referido a la comunicación constructiva entre las partes y el referido a
comunicación dialógica entre las partes. Intencionalmente he definido los
ejes con una connotación positiva, desde la situación de cambio que se
persigue como objetivo de la intervención, aun cuando también podría
definirse desde la situación inicial negativa, esto es comunicación no
efectiva, comunicación destructiva y comunicación no dialógica.
Para lograr establecer una comunicación efectiva entre las partes, el
mediador debe ejercer en todo momento la escucha activa de forma tal de
intervenir este proceso adecuadamente cada vez que se manifiesta una
acción comunicacional, por cualquiera de los canales de la comunicación
que impide o deteriora la relación comunicacional.
Diferenciar comunicación eficiente de la comunicación constructiva es
importante, ya que es posible que las partes se estén comunicando en forma
eficiente solo con el objeto de transmitirle al otro reproches, críticas,
acusaciones, culpabilizaciones, ataques, insultos, o agresiones verbales de
diferente intensidad. Este tipo de comunicación destructiva no permite
avanzar en la resolución colaborativa del conflicto, razón por la cual cuando
esta es la situación comunicacional de entrada a la mediación es necesario
intervenirla antes de decidir abordar otros objetivos del procedimiento. Una
comunicación eficiente y constructiva en la mediación no garantiza
necesariamente un avance en el proceso de resolución del conflicto.
Asumiendo que toda acción humana tiene un valor comunicativo, el
establecimiento de un proceso de comunicación funcional no es suficiente,
por si solo, a los objetivos de la mediación como procedimiento de
resolución de conflictos. El mediador debe trabajar adicionalmente el
proceso dialógico entre las partes con una intención estratégica referida a un
tipo de comunicación cualificada que abre las posibilidades de un
entendimiento mutuo respecto del conflicto.

El proceso participativo
Este proceso es el que permite asociar la mediación con impactos
propedéuticos y con el efecto de sustentabilidad de las soluciones, ya que
tiene como primera implicancia la necesaria involucración cognitiva y
afección psicológica de las personas con la experiencia, haciéndola una
vivencia significativa desde el aprendizaje y una vivencia ética desde el
compromiso hacia los actos volitivos que se sienten libres, autónomos y
propios.
El concepto de participación asociado a la mediación debe ser entendido
a la luz del principio de imparcialidad y neutralidad, en el sentido que la
necesaria involucración de las partes en la mediación requiere ser promovida
por el mediador desde la igualdad de las partes, cuidando el equilibrio en sus
posibilidades de aportar a la construcción de las decisiones, como también
en las oportunidades que se les ofrece en los aspectos procedimentales.
La acepción común de la palabra participar, es tomar parte en algo, que
referido a la acción de participar podría tener una manifestación tan simple
como estar presente en una situación dada y expresar una opinión, lo cual no
es suficiente al proceso de mediación.
La situación inicial que se presenta al mediador en este eje de cambio,
está referida a la pasividad o falta de involucración de las partes respecto del
curso que sigue la dinámica del conflicto y/o sus posibilidades de resolución.
Normalmente esta actitud de los conflictuados está determinada por la
creencia que el otro tiene la responsabilidad o culpa de haber causado el
conflicto y por tanto es él quien debe hacer algo para su resolución, o bien
por un sentimiento de incapacidad respecto de sus recursos para modificar la
situación, o bien por una cuestión cultural emanada de la percepción
arraigada respecto que resulta necesario la intervención de un tercero que
dirima la solución a partir de un sistema de justicia vertical.
Si bien la dogmática no considera el proceso participativo como tal, es
común que los autores hagan referencia a las características que debe tener la
participación de las partes en la mediación, mencionando la situación o
efecto en el polo positivo del eje de cambio, cual es el protagonismo o co-
protagonismo de las partes en la mediación y la responsabilización por las
decisiones. Marinés Suáres se refiere al tema relacionándolo con el principio
de voluntariedad, al señalar que la voluntariedad no se agota en el hecho de
que cada participante quiera estar y colaborar con el proceso de mediación,
agregando como elemento complementario el del “protagonismo”.
Incluyendo su enfoque narrativo, agrega que ser protagónico “implica
considerarse autor, agente de las acciones que se desarrollan y de los
discursos y narrativas que se construyen... sentirse responsable por las
consecuencias buenas o malas de las acciones y de los discursos que se
realizan”. En cuanto al co-protagonismo, señala: “ambos participantes deben
ser agentes y responsables de las consecuencias de su participación y
reconocerse mutuamente en esta situación14. Otros autores identifican la
responsabilización relacional respecto del origen y mantención de la
dinámica conflictiva como “conciencia social”, entendida como la situación
en que “las dos partes pueden sostener: Hemos construido este conflicto
juntos y juntos determinaremos su resultado”15.
Desde el punto de vista formal respecto de la participación en la
mediación, ella debe cumplir con los estándares de la igualdad, condición
que emana del principio de imparcialidad, en virtud del cual, el mediador
debe proveer las mismas oportunidades a las partes para participar en la
mediación, tanto desde sus posibilidades de expresión en la comunicación,
cuanto en los aspectos formales del procedimiento. Esta característica de la
participación en la mediación está en directa relación con la posibilidad de
promover el protagonismo, ya que la adhesión al procedimiento que permite
la activación consciente de las partes en su resolución, emana de la confianza
en la igualdad de trato del mediador y en las posibilidades reales de poner lo
propio en el proceso.
El concepto de participación considerado en este eje de cambio, se refiere
entonces a la involucración subjetiva de las partes con el proceso de
mediación y sus valores, y a la actitud proactiva respecto de su integración al
procedimiento mediante el ejercicio deliberado de la autonomía de la
voluntad y su consecuente responsabilidad.
Los ámbitos de decisión en los cuales se debería manifestar el proceso
participativo referido al ejercicio consciente de la autonomía de la voluntad
de las partes en la mediación, están referidos a los siguientes aspectos:

14 Suares, Marinés, (2002) Op. Cit. p. 31 y 32.


15 Littlejohn Stephen y Domenici, Kathy, (2000) Op. Cit. p. 173.
➢ El método por el cual quieren resolver el conflicto, esto es por la vía
judicial o por la mediación, lo cual plantea que siempre debe estar
presente como una posibilidad de opción para las partes resolver por
el orden negociado o por el orden impuesto;
➢ El grado de involucración con el cual desean intentar la resolución
del conflicto, lo que supone decidir el nivel de compromiso personal
y emocional con el que participarán en el proceso de mediación;
➢ Los asuntos que constituyen el conflicto y cuáles no, conforme a sus
propias necesidades e intereses;
➢ Las opciones que se consideran legítimas para resolver el conflicto;
➢ Los acuerdos o compromisos que desean adquirir, tanto respecto de
su sustancia, cuanto respecto de su forma, como también en la
duración y alcance de los procedimientos necesarios para su
realización.

El proceso resolutivo
El proceso resolutivo connota el proceso comunicacional y el proceso
participativo, en el sentido que ambos están definidos por el objetivo de
resolución del conflicto desde la colaboración. Este proceso permite
diferenciar la mediación de otras intervenciones profesionales que también
trabajan mediante el proceso comunicacional, como pueden ser la terapia o
la consejería, ya que ellas no se orientan necesariamente a la resolución de
un conflicto entre partes16. En este proceso no es necesario acudir a teorías
generales para su conceptualización, ya que ella proviene de la propia
dogmática de la especialidad.
La mediación es una opción metodológica para intervenir el fenómeno
conflictivo desde la horizontalidad y mediante el diálogo, lo cual supone la
existencia de una estrategia técnica apta para modificar la dinámica
conflictiva, que se diferencie de la resolución por vía de autoridad, coerción,
transacción, o persuasión.
El eje de cambio de este proceso está referido a la gestión del conflicto,
que supone el manejo consciente de las fases o momentos de la mediación,
el control de las situaciones de desestabilización del procedimiento, y el
desarrollo de la propuesta metodológica para la superación del conflicto
obteniendo como resultado un consenso. En cierta medida, este eje contiene
una paradoja, ya que es la lectura dinámica y transversal del procedimiento,
no siendo en este caso el foco de observación las etapas en sí mismas, sino el
16 En esta afirmación, cabe hacer la salvedad respecto del modelo de mediación
transformativo el cual declara objetivos diversos de la resolución del conflicto, sin
perjuicio de lo cual se autodefine como una propuesta de mediación.
proceso por el cual el mediador las opera con la oportunidad y pertinencia
que exige la dinámica interaccional del conflicto que se despliega en la
mediación. Este proceso está referido a la fluidez y coherencia de todas las
intervenciones del mediador, que permiten a las partes avanzar hacia una
resolución colaborativa del conflicto mediante una decisión consciente
respecto del mismo, sea que implique un acuerdo o no. Desde esta
perspectiva, la gestión estará caracterizada por el liderazgo del mediador
para operar las fases o etapas de forma coherente y funcional, manejando el
tiempo y las técnicas pertinentes a los objetivos que se propone en cada una
de ellas. Asimismo la gestión implica abordar en forma oportuna las
situaciones que pueden desestabilizar el procedimiento, como las escaladas
de enojo – ira, y los desbordes emocionales de las partes, ya que la
estabilidad de la mesa de mediación es condición de la aplicación de las
técnicas.
Este proceso considera el eje de cambio fundamental de la mediación,
cual es modificar la situación inicial de vivencia del conflicto caracterizado
por una percepción de posiciones opuestas incompatibles en una lógica
excluyente, a una nueva situación de apertura respecto de la posibilidad de
una solución integradora en la lógica colaborativa que permite la
negociación.
Cualquiera sea el enfoque que se utilice para abordar este eje de cambio,
será necesario operar en forma armónica tres fases en la intervención: a) La
exploración, que permite obtener nueva información o construir un nuevo
significado para la información existente, necesario insumo o imput para
generar cambio en el sistema. b) El reencuandre a partir de los elementos
nuevos que se incorporan. c) La negociación de opciones para la decisión.
Los objetivos de estas fases serán diversos según el modelo con el cual se
trabaje. Este aspecto se traduce en la habilidad del mediador para instalar
desde la interacción cada una de las fases que considera su enfoque de
intervención, pasar con fluidez de una etapa a otra en los tiempos oportunos,
aplicar con pertinencia las técnicas de acuerdo a cada etapa de la mediación
según sus objetivos, y decidir estratégicamente la interrupción o continuidad
del procedimiento y el tipo de sesiones a desarrollar. Desde el discurso,
implica la capacidad del mediador para abrir o cerrar temas que surgen en la
mediación, realizar giros discursivos que le permitan orientar el curso de las
dinámicas entre las partes según las etapas y construir hitos discursivos que
marcan pautas en el procedimiento.
En este eje el momento decisivo de logro está marcado por la acogida o la
aceptación en algún grado de la partes del reencuandre del conflicto que se
ha elaborado por el mediador. A estos efectos el reencuandre es entendido en
términos amplios, como cualquier perspectiva diferente de la situación
conflictiva a la que traían las partes a la mediación y que es funcional a la
superación del conflicto. Si bien a la palabra reencuadre se le asignan
distintos significados, como técnica o herramienta, en esta perspectiva, la
entiendo como lo hace Tapia y Diez, “es un nuevo marco para mirar el
cuadro de su problema, una ventana novedosa, un nuevo par de anteojos” 17.
Este es el eje de cambio que permite explicar técnicamente porque las
personas pueden resolver por ellas mismas sus conflictos mediante un
acuerdo sin mediar acto de imposición, convencimiento o seducción por
parte del mediador.
Los modelos o enfoques de gestión del conflicto mediante la mediación,
requieren producir algún cambio intrapsíquico de las partes en conflicto, ya
que, en mayor o menor medida, la percepción de una o de ambas partes debe
ser distinta a la inicial, ya sea respecto del objeto deseado, de la relación
entre ambas, de cada parte respecto de sí misma o respecto de la otra parte.
En este rasgo de la intervención aparece la transdisciplina, donde se
encuentran las competencias de diversos saberes profesionales que
debidamente integrados permiten abordar la gestión del conflicto como un
fenómeno complejo y multicausal.

Conclusiones
El desarrollo progresivo de las iniciativas gubernamentales y de la
cooperación internacional que tienen por objeto implementar y reforzar
programas de mediación en diversos ámbitos de conflictividad, encuentra
fundamento en los impactos de beneficios social que se le atribuyen a esta
forma de resolución de conflictos. Al observar el discurso que valida el
apoyo a estas iniciativas es posible identificar que se asigna un valor a la
mediación en dimensiones que no se agotan en su menor costo o en la
rapidez de la resolución del conflicto mediante el acuerdo. Además de la
sustentabilidad de los acuerdos y la mayor satisfacción de los usuarios
generalmente se mencionan como impactos de esta política pública: el
aumento de la cohesión social, la promoción de una cultura de paz, la
profundización de los valores de la democracia participativa, el fomento de
la autogestión de la ciudadanía en la resolución de los conflictos, y el
aprendizaje del diálogo como forma de resolver las diferencias en las
relaciones sociales.
Es posible percibir un cierto grado de consenso entre los especialistas en
torno a la idea que estos impactos de beneficio social de la mediación están
más asociados a la naturaleza del método que a su resultado. En este sentido,
resulta de interés develar la ontología de la mediación mediante la
identificación los ejes técnicos que orientan la intervención profesional del
mediador, aquellos procesos que integran el método otorgándole
particularidad y diferenciándola de otros mecanismos de resolución de

17 Diez, Francisco y Tapia, Gachi, (2000). Op. Cit. p 117.


conflictos próximos a su naturaleza. El resultado de este esfuerzo permitiría
orientar las políticas públicas que se proyectan al logro de estos impactos
positivos a nivel individual y colectivo en una sociedad y evaluar su eficacia.
La sistematización de las intervenciones técnicas de la mediación ha sido
un desafío permanente desde la dogmática, ya que se aborda un fenómeno
complejo de carácter interaccional como es el conflicto. La mayoría de los
desarrollos doctrinales en la especialidad, aportan una mirada vertical o
lineal de la mediación explicando metodológicamente las intervenciones
profesionales del mediador desde el procedimiento, lo cual supone analizar
cada etapa con sus respectivos objetivos técnicos. La tesis aporta una nueva
mirada de la mediación, la dimensión transversal de la mediación, que
implica analizar la mediación desde los procesos que cruzan el
procedimiento en todas sus etapas, integrando una visión sistémica que
explica el cambio que se espera producir en la dinámica conflictiva.
El fundamento de la dimensión transversal de la mediación es la
distinción entre procedimiento y procesos de la mediación, la cual orienta
conceptualmente la identificación y caracterización de los procesos. El
procedimiento está referido a un conjunto de actos o intervenciones del
mediador que se encuentran vinculados según una secuencia de etapas que
persigue un objetivo final y el proceso está referido a la evolución propia de
un fenómeno vital, de carácter relacional en la mediación. El mediador
conduce el procedimiento manejando las etapas en forma estratégica y
cataliza y gestiona los procesos en la dinámica del conflicto y de la
mediación. Uno de los rasgos más sobresalientes de esta diferenciación es el
carácter diacrónico o secuencial de las etapas del procedimiento de
mediación, por oposición al carácter sincrónico de los procesos de la
mediación que se desarrollan en forma coetánea en una interacción
permanente de influencia recíproca.
La dimensión transversal identifica tres procesos fundamentales de la
mediación que definen su naturaleza: el proceso comunicacional, el proceso
participativo y el proceso resolutivo. El proceso comunicacional se posiciona
como el engranaje principal del sistema mediador, ya que es el medio por el
cual se accionan los restantes al ser vehículo de todas las intervenciones del
mediador. Por su parte, el proceso participativo y resolutivo connotan el
proceso comunicacional, el cual adquiere una dirección orientada hacia al
avance de dichos procesos. Finalmente, los procesos se desarrollan en un
contexto que está construido por los principios de la mediación, los que
proporcionan un sentido integrador y unificador al sistema, delimitando
además la legitimidad de los medios por los cuales el mediador interviene
técnicamente para avanzar en ellos.
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Il progetto Passaggi nella Canazzi di Legnano:
rigenerare i legami sociali
Domenico Cicero e Elena Boldrin - Cooperativa Sociale Anfibia

Fate come gli alberi:


cambiate le foglie
ma conservate le radici.
V. Hugo

L’esperienza che ci apprestiamo a raccontare a quattro mani e non ancora


portata a termine, s’inserisce in un progetto di coesione sociale, denominato
Passaggi, che si sta svolgendo nel quartiere periferico Canazza a Legnano
(nella provincia di Milano).
Esso è frutto della competenza acquisita in oltre venticinque anni di la-
voro in ambito sociale all’interno di progetti di sviluppo di comunità in quar-
tieri popolari della periferia nord-ovest di Milano (Pero, Nerviano, Rescal-
dina, Legnano).
In questa esperienza la figura del mediatore sociale è, per noi, non solo
quella di un professionista che sa partire dal conflitto, sia esso acuto o la-
tente, per ri-connettere e ri-significare, ma anche di un operatore che co-
struisce pratiche tese a produrre un maggiore potere di azione delle persone.
Questa risulta essere, per noi, un’azione di fondamentale importanza in
quanto qui può realizzarsi il ponte necessario per l’attivazione di nuove ri-
sorse nel/dal quartiere a partire dai bisogni che presenta.

Il quadro teorico metodologico.


Il modello di Sviluppo di Comunità
Il progetto che ivi presentiamo si articola in generale secondo il modello
di Sviluppo di Comunità, orientato in particolare alla rigenerazione dei le-
gami fra le realtà presenti in un territorio; nel nostro caso un quartiere ben
delimitato e identificabile. Come tale si fonda sinteticamente su due concetti
chiave: il concetto di comunità e il concetto di sviluppo di comunità.
Per quanto riguarda il concetto di comunità, richiamiamo qui sia l’aspetto
di qualità delle relazioni, legato a quanto le persone si sentano comunità, sia
l’aspetto che riguarda la capacità di azione e di esercizio del potere.
Pertanto, e qui veniamo al secondo concetto, il progetto ha tra gli obiet-
tivi generali lo sviluppo di queste due dimensioni attraverso un migliora-
mento e un ampliamento delle competenze. L’accento quindi è posto sulla
comunità come soggetto collettivo competente e capace di azione; l’esercizio
del potere è spostato dall’istituzione e dall’esperto/professionista alla comu-
nità e alla partecipazione della comunità ai processi decisionali locali.
In generale quindi il progetto si caratterizza per il fatto che le azioni ipo-
tizzate non mirano a sviluppare servizi in risposta a bisogni più o meno com-
plessi, ma a promuovere competenze e a sviluppare percorsi collettivi che of-
frano l’opportunità di sperimentare concretamente un modo nuovo di essere
soggetto attivo all’interno della propria comunità capace di intervenire anche
sulle specifiche condizioni di vita.
In questo senso il percorso della Biografia Partecipata di quartiere – di
cui tratteremo nella seconda parte di questo articolo – sta restituendo visibi-
lità a valori e competenze che la comunità rischiava di perdere. La riscoperta
delle radici è sempre un’attività molto importante e fondante lo sviluppo di
forme di soggettività e di esercizio del proprio potere vitale. Questo rite-
niamo valga sia a livello individuale, sia a livello collettivo, di comunità. Per
questo abbiamo voluto inserire nel progetto questo tipo di percorso. Il tesoro
di valori e competenze che la comunità in passato è stata in grado di elabo-
rare ed esprimere deve essere trasmesso, nelle forme e nei linguaggi più op-
portuni, alle nuove generazioni affinché possa essere seme di nuove proget-
tualità.

L’approccio sistemico-relazionale
Il nostro modo di operare nella comunità affonda le proprie radici meto-
dologiche, oltre che nel modello sopra esposto, nella teoria sistemico-rela-
zionale. Da un punto di vista epistemologico, si passa da una lettura lineare e
positivista della realtà, a una lettura circolare e costruttivista. Ciò significa
che l’attenzione del mediatore viene posta non tanto e non solo sul singolo
individuo od organizzazione, bensì sulle relazioni che intercorrono fra di
essi. Relazioni che, a loro volta, influiranno sulle modalità con cui ciascun
membro della comunità entrerà in relazione con gli altri. Alla luce di quanto
descritto, possiamo sostenere che l’approccio sistemico nella mediazione in-
dica che – qualunque sistema si affronti (comunità, scuola, famiglia...) – non
può essere considerato un sistema statico e dato una volta per tutte. Il prin-
cipio di circolarità prevede che questi sistemi (ai diversi livelli in cui si col-
locano) siano tra loro interagenti: lo sviluppo dell’uno non può prescindere
dallo sviluppo degli altri e viceversa. Così, se prendiamo come esempio il si-
stema sociale, notiamo come la crescita individuale, o di un sotto-sistema
(scuola, istituzioni locali, gruppi informali), incida sullo sviluppo della co-
munità, che – a sua volta – avrà una ricaduta inevitabile sui percorsi evolu-
tivi dei singoli.
Ancora, il considerare l’individuo come un sistema complesso conduce a
porlo in rapporto con altri sistemi e sovrasistemi esterni o sottosistemi interni
(intrapsichici). In altre parole: l’uomo può essere descritto come unità com-
plessa e allo stesso tempo originale, non elementare e non omogenea, perché
costituita da elementi peculiari e differenti, tra loro interrelati.
Ciò significa che – entro un’ottica di complessità – l’individuo o la comu-
nità e la relazione non sono elementi contrapposti ma divengono compatibili,
sovrapponibili, come diversi punti di vista all’interno di un tutto caratteriz-
zato da multi-livelli.
Proviamo a chiederci nuovamente: qual è, quindi, il ruolo del mediatore
in un sistema complesso? Quello di agire, come osservatore all’interno del
sistema osservato, che si muove variando la composizione del sistema, am-
pliandolo e divenendone parte e novità emergente. In altri termini, il media-
tore introduce alcune regole e ne modifica altre. In questo rimaneggiamento,
il gioco che struttura il sistema rimane riconoscibile ma al tempo stesso mo -
dificato.
La direzione del cambiamento dipende comunque essenzialmente dalle
risorse del sistema attivate nell’evolversi della relazione. Risorse predetermi-
nate ma non prevedibili.
In conclusione, possiamo affermare che la mediazione – entro la cornice
teorica dell’epistemologia sistemica – si delinea come un processo interat-
tivo teso a restituire alle persone – siano essi singoli o gruppi – la consape-
volezza delle proprie competenze, nonché la possibilità di riappropriarsi di
risorse, rese momentaneamente inaccessibili dalla dinamica conflittuale
emergente.
Prima di addentrarci nella descrizione dell’intervento, dobbiamo necessa-
riamente presentare il quartiere, la sua collocazione geografica e la sua con-
dizione sociale.

Il contesto progettuale.
Le caratteristiche geografiche del territorio
La Canazza, in particolare a partire dagli anni Cinquanta, è una delle due
periferie geografiche e sociali della città di Legnano; si colloca sul margine
orientale, verso Cerro Maggiore; mentre – esattamente agli antipodi – sorge
speculare Mazzafame, rivolta verso la provincia di Varese.
La Canazza è come un triangolo pressoché equilatero, con l’angolo infe-
riore quasi appoggiato all’asse del Sempione, dai confini marcati, determi-
nati da elementi naturali e urbani.
Frontiere, si potrebbe dire, più che confini.
Il lato occidentale è un “ronco”, un salto di dislivello geomorfologico,
che segna il passaggio dalla primitiva piana alluvionale del fiume Olona al-
l’alta pianura.
Un segno di altri tempi che ci collega con altri tempi; una presenza natu-
rale del territorio che resta solitamente fuori dalla nostra esperienza.
Su questo ronco, che corre lungo la direttrice sud-nord, resiste un’ampia
striscia di verde, a parco e a bosco; una grande risorsa ambientale, che nelle
sue condizioni di attuale abbandono, aggiunge al salto un ulteriore ostacolo
al passaggio.
In tutto il quartiere, una sola strada attraversa questa barriera naturale.
La frontiera che va da sud ovest (Sempione) a nord est (autostrada) è
un’ampia e spesso congestionata arteria urbana, che porta dal centro all’in-
gresso autostradale. Si chiama via Cadorna, e separa praticamente Legnano
da Cerro Maggiore, con ex fabbriche (a volte occupate da clandestini), am-
ministrativamente un po’ da una parte e un po’ dall’altra.
Il terzo lato – frontiera del nostro triangolo – è costituito dall’autostrada
Milano Varese, che corre appena dietro le ultime case.
Per le contrade dello storico Palio di Legnano, il quartiere Canazza è
anche il triangolo opposto al ronco, verso ovest. Dal punto di vista ammini-
strativo è preso in considerazione un territorio ancora più ampio, detto “oltre
Sempione”. Noi abbiamo preferito delimitarlo come sopra descritto: quel
ronco in mezzo è veramente un salto; ma soprattutto la parte da noi indivi-
duata ha caratteristiche sociali e storiche che lo rendono particolare, ricono-
scibile; un luogo da cui ripartire per offrire la base per una radice territoriale
ai processi identitari, affrontando le criticità che vi si trovano concentrate.
I colli di Sant’Erasmo (con questo nome era riconosciuta un tempo la
zona) sono rimasti terreni agricoli (vigneti) fino a metà degli anni Sessanta.
Trovavano già la propria sede solo un’importante caserma, oggi dismessa, e
le vecchie strutture della ex colonia elioterapica nell’area verde dei ronchi. Il
territorio viene edificato rapidamente nei dieci anni successivi. Nelle mappe
allegate al recente PGT (piano di governo territoriale), quella relativa ai pro-
cessi di urbanizzazione del 1985 mostra il triangolo della Canazza ormai in-
teramente occupato.
La storia del quartiere
Negli anni Settanta e Ottanta, la Canazza vive momenti sociali molto dif-
ficili, soprattutto in relazione ad alcuni caseggiati ERP. Per trent’anni è stato
particolarmente vivo e presente il Gruppo sociale Canazza; un gruppo infor-
male che è stato capace di mobilitare il quartiere su importanti obbiettivi di
salvaguardia del territorio e di ottenimento di servizi.
Negli ultimi dieci anni, però, è come se il quartiere avesse perso la sua
conflittualità: le contraddizioni sembrano riassorbite o meglio non espresse;
le iniziative sociali e i loro promotori hanno perso slancio.

I servizi presenti sul territorio


Nel quartiere sono presenti alcuni servizi primari come l’asilo nido e le
scuole (sino alla primaria); un RSA per anziani; la parrocchia con: un centro
di ascolto Caritas, un doposcuola per bambini e ragazzi e momenti di aggre-
gazione per gli anziani; un luogo sociale del Comune di Legnano denomi-
nato Spazio Incontro (con al suo interno, oltre a corsi rivolti a tutte le età, un
Centro di Aggregazione Giovanile); un’unità operativa psichiatrica e una co-
munità riabilitativa (collocata nel parco dei Ronchi, un’area verde piuttosto
decentrata dal quartiere).
Qui trovano, inoltre, sede molte associazioni di volontariato (Anfass,
Uildm, Afamp, Avis, Aiutiamoli, Aspi, Aias, Amici di Sonia, il gruppo Al-
pini); davanti alle case popolari sono presenti una banca e qualche negozio
(compreso l’unico bar del quartiere); mancano del tutto negozi di alimentari,
farmacie e studi medici.

Le caratteristiche sociali dei nuclei familiari residenti


Il quartiere ha al suo interno un quadro sociale piuttosto complesso ed
eterogeneo: risiedono qui 1200 famiglie, 3000 persone; di queste circa 400
abitano nelle case popolari; 200 nelle case di edilizia convenzionata; altre
600 fra villette e case di corte. I migranti stranieri sono circa 300, in costante
aumento. Interessante risulta anche il dato anagrafico: vi sono circa 450
bambini/ragazzi sotto i 14 anni; circa 600 over 65 anni e circa 1950 in età
giovanile/adulta.
Dal punto di vista residenziale, il primo aspetto che caratterizza social-
mente e culturalmente il quartiere è la concentrazione di case popolari.
Dei 1300 circa alloggi di edilizia residenziale pubblica presenti a Le-
gnano, 400 sono collocati alla Canazza, in una sua porzione equivalente a
circa 4 campi da calcio, spostata verso i margini, praticamente all’angolo fra
la via Cadorna e l’autostrada.
In queste case popolari il ciclo vitale verso l’anzianità si è “completato”
circa 10 anni fa. Da allora, con velocità gradualmente crescente, nuove fami-
glie stanno sostituendo le vecchie. Con una prevedibile e importante quota di
migranti stranieri e di presenza di bambini.
All’interno delle case popolari, occorre poi fare un’ulteriore distinzione;
vi sono caseggiati evidentemente più degradati, resi fragili e instabili da pre-
senze “più povere” sotto ogni aspetto.

I bisogni emersi in sede progettuale,


punti critici e punti di forza
Più testimonianze concordano su un generale aumento delle emergenze
(economiche, abitative e familiari) e delle situazioni di precarietà nelle case
popolari.
Nei caseggiati più degradati c’è un forte ricambio di famiglie.
Le ampie aree verdi sono percepite dagli abitanti come zone d’ombra,
ostacoli piuttosto che risorse. Alcuni punti di possibile attraversamento della
“frontiera verde”, risultano poco utilizzabili per il degrado e la scarsa fre-
quentazione, con il senso di insicurezza che ne deriva.
In particolare all’interno del Bosco dei Ronchi ha la sua sede un impor-
tante presidio psichiatrico dell’Azienda Ospedaliera (Centro psico sociale,
Comunità Riabilitativa a media assistenza, Centro diurno) in un edificio di
interesse storico e artistico. Da anni la direzione e gli operatori dei servizi se -
gnalano le problematiche dovute al degrado e all’isolamento dell’area verde
in cui sono inseriti e progettano azioni di rinnovamento ed apertura.
Molto critica è anche la situazione di degrado e abbandono in cui versa il
parco Robinson del quartiere, collocato in posizione centrale, fra la chiesa e
le case popolari. Questo parco è un (ex) simbolo dell’attivismo dei gruppi in-
formali del quartiere e della loro attenzione pedagogica ai bambini. Iniziale
sede delle attività pastorali prima che venisse edificato il complesso parroc-
chiale, passato negli anni Ottanta a luogo di spaccio, oggi appare sostanzial-
mente abbandonato.
Per quanto riguarda le associazioni – che qui sono presenti in forte nu-
mero – si può evidenziare come queste abbiano sì momenti di dialogo e di
collaborazione, che restano però episodici e faticano a portare a uno sguardo
ampio e trasversale sulla situazione territoriale e sulle dinamiche comples-
sive di coesione sociale.
Una settorializzazione a cui si affianca un complessivo invecchiamento
delle forze che ne fanno parte e una difficoltà a inventare nuove forme che
permettano ai giovani di fare esperienze sociali importanti. Se osserviamo
con attenzione la storia del quartiere, ci accorgiamo che essa è costituita da
grandi bisogni concentrati, da contraddizioni esplosive, da conflitti aperti. E
nello stesso tempo è una storia di risposte attive, di una grande ricchezza di
iniziative sociali e culturali auto organizzate, frutto di un forte senso di coe -
sione iniziale e di una altrettanto forte spinta alla responsabilità allargata. La
prima ricchezza sta in questa storia che in parte è passata, ma in parte è an -
cora viva nei suoi protagonisti che abitano ancora in quartiere e sono un’at-
tiva e riconosciuta presenza.
Vi è, inoltre, un elemento di forza territoriale nella ricchezza associativa.
E le persone che hanno animato la vita sociale del quartiere, sono le stesse
che animano le associazioni di volontariato. Infine, sono una grande forza le
molte aree verdi presenti.
Come riconosciuto da più testimoni intervistati, i problemi, i bisogni, le
contraddizioni restano più nascoste, più silenziose. La conflittualità resta non
superata, ma rimossa. Questa opacità crescente porta (ed è a sua volta frutto)
a reazioni complessivamente più depressive che aggressive. La responsabi-
lità allargata non sembra più praticabile; la mobilitazione attiva non sembra
più trovare interlocutori istituzionali.
Un contributo a queste cause è dato anche dalla perdita di ruolo critico
del terzo settore, come evidenziato anche da analisi più generali.
Il contesto sinora presentato ci ha permesso di evidenziare la situazione
del quartiere Canazza, all’avvio del progetto; Vista la complessità emergente,
era necessario tenere conto non solo delle famiglie che abitano il quartiere,
ma anche dei soggetti istituzionali e associativi che sono ivi presenti.
Il progetto Passaggi, elaborato nell’arco di un biennio (2010/2012), è
stato quindi co-progettato con le istituzioni e il terzo settore presente sul ter -
ritorio, ottenendo un cofinanziamento da Fondazione Cariplo sul bando 2012
“Costruire e rafforzare legami nelle comunità locali”.
Al momento in cui scriviamo, ha superato il suo primo anno di sviluppo
sui tre previsti (2013-2016).
Il progetto coinvolge quattro cooperative sociali partner, una rete di tre-
dici associazioni e cinque soggetti istituzionali fra Azienda Ospedaliera e
CPS, Comune, Scuole.
Già queste premesse presentano il grado di complessità del progetto e la
necessità quindi di affrontarne il suo sviluppo con un approccio sistemico e
con una sempre maggiore capacità di pensiero complesso.
Come già detto, il quartiere ha una storia recente di importante iniziativa
sociale dal basso, secondo modelli organizzativi orizzontali. Una storia che
necessità di essere raccolta, documentata e valorizzata. Ma nei racconti e
nelle realtà c’è come un grande assente: le case popolari. Il disagio e le fragi-
lità locali che spesso qui si concentrano, rischiano altrettanto spesso di por-
tare a esprimere giudizi negativi sulle possibilità di coinvolgimento, di
espressione, di partecipazione e di cittadinanza attiva. Così la marginalità fi-
nisce per rafforzarsi. E la coesione sociale per diventare una dinamica eli-
taria, riferita ai pochi, sempre gli stessi e sempre più anziani, super attivi in
varie organizzazioni di volontariato.
Riteniamo che potenziare e mettere in rete esperienze e gruppi già attivi
sia un fronte importante del lavoro sulla coesione sociale. L’altro, comple-
mentare appunto, è quello di provocare/stimolare processi di attivazione e re-
sponsabilizzazione dove questi non ci sono, dove il senso di potere e più af-
fievolito, dove l’autonomia è più debole. Senza dimenticare l’aspetto di coo-
perazione con il fronte istituzionale e con servizi già attivi da cui non si può
prescindere se vogliamo che i cambiamenti prodotti abbiano maggiori possi-
bilità di consolidarsi oltre il triennio progettuale.

Gli obiettivi generali del progetto


Intendiamo risvegliare la fiducia nella possibilità di determinare anche
piccoli ma significativi cambiamenti nella realtà di vita, come base – anco-
raggio esperienziale – per ritrovare il senso di appartenenza ad una comu-
nità. Il bisogno di identità, di nucleo di aggregazione e di speranza di futuro
sono intrecciati fra loro e possono appoggiarsi al senso di radicamento in un
territorio, in una comunità. E questo può avvenire se mi sento soggetto in-
sieme ad altri; riconosciuto come tale nella personale partecipazione alla tra-
sformazione della realtà e dalla ricchezza delle relazioni sociali in cui mi
sento inserito.
Metaforicamente immaginiamo il nostro progetto come la scoperta/co-
struzione di passaggi. Passaggi che generano legami. Legami che generano
passaggi.
I passaggi sono quelli nella rete urbana, negli spazi verdi. Quelli per far
uscire/incontrare i marginali delle case popolari. Passaggi sono anche quelli
che occorre aprire fra i luoghi in cui ci si occupa di fragilità psichica e il ter-
ritorio. Passaggi sono da inventare nel mondo associativo per rinnovare le
pratiche e offrire spazio all’iniziativa giovanile.
Il cambiamento generale che intendiamo produrre consiste nel rilanciare e
rimodellare la disponibilità e la capacità di affrontare collettivamente, se-
condo processi di mobilitazione e di decisione orizzontali, in una logica di
solidarietà e di autonomia culturale le nuove sfide del vivere, del far crescere
le nuove generazioni in un contesto locale di periferia e in un contesto glo-
bale di crisi economica ed identitaria.
Diciamo rilanciare, perché dagli anni Settanta ai Novanta una storia di
questo genere è stata scritta in quartiere. Alcuni degli animatori sociali di
questa storia abitano ancora qui; hanno come spostato il loro impegno in am-
biti sociali particolari (associazioni e parrocchia).
Diciamo rimodellare perché le forme in cui questo può avvenire non po-
tranno ricalcare quelle del secolo scorso, pur cercando di conservarne le di-
mensioni umane, relazionali e politiche di base.
Diamo ora un breve sguardo alle azioni progettuali previste.

Macro-azione 1: sistemazione e apertura area verde ex-colonia Elioterapi-


ca-Centro psico-sociale.
Di proprietà dell’azienda ospedaliera di Legnano, si colloca in mezzo a
un’area verde molto ampia in uno spazio geografico chiuso al quartiere e ai
suoi abitanti. Per raggiungere questo luogo, spesso poco conosciuto ai più,
occorre infatti allontanarsi dal nucleo residenziale del quartiere e scendere
verso il centro cittadino. L’azione prevede l’apertura di un cancello sulla
strada e la ri-costruzione di spazi per bambini e famiglie. L’apertura dell’area
al quartiere rappresenta simbolicamente un ponte fra la fragilità psichica di
chi vive e frequenta il centro psico-sociale attiguo e la popolazione, allo
scopo di favorire inclusione sociale. Qui un gruppo di volontari, composto
sia da residenti del CPS, sia da abitanti del quartiere è chiamato a prendersi
cura dell’area, e a renderla agibile per le famiglie. Alla riqualificazione del
parco sono chiamate, infine, le famiglie stesse che saranno chiamate a sce-
gliere come strutturare lo spazio in funzione dei propri bisogni.
Macro-azione 2: i percorsi di educazione ambientale con i bambini del
Territorio.
Questa azione si svolge principalmente nella scuola primaria del quar-
tiere. È qui che, in collaborazione con la dirigente e il corpo docente, è stato
costruito un progetto – P-Assaggi nell’orto – per sensibilizzare i bambini sul
tema dell’alimentazione sana, della cura del proprio ambiente e territorio e
della produzione di un orto biologico.
Macro-azione 3: i percorsi di partecipazione e mediazione sociale in
Quartiere.
La realtà delle case popolari alla Canazza non è per niente omogenea: in
pochi metri quadrati convivono caseggiati popolari con storie, presenze, ri-
sorse e contraddizioni molto diverse. Non è possibile fare una lettura sem-
plice di questa realtà.
Da queste considerazioni nasce l’idea di dedicare risorse proprio nell’en-
trare, nel risvegliare e integrare nei processi di coesione e di cittadinanza at-
tiva le persone più ai margini. In forza anche del dato che le famiglie che
abitano nelle case popolari sono la maggioranza del quartiere.
Centrale, in questa azione, è la figura del mediatore sociale o di comunità.
Qui inteso come operatore che costruisce pratiche tese a produrre un mag-
giore potere di azione delle persone, secondo una prospettiva di empower-
ment relazionale. Optare per la mediazione significa assumere l’idea che la
difficoltà a gestire i conflitti crei disagio nei soggetti, a sua volta per un de-
ficit di appartenenza sia al tessuto familiare che sociale.
Quest’azione, partendo dalla fragilità colta nel tessuto delle case popolari,
si articola in sotto-azioni rivolte alle diverse fasce d’età (famiglie con bam-
bini piccoli, bambini di scuola primaria e secondaria, ragazzi, anziani). Per
ciascuna fascia d’età sono previste attività che hanno lo scopo di riconnettere
le persone alla famiglia, al quartiere, al gruppo di pari, alle istituzioni e alle
associazioni del territorio.

Uno strumento per rigenerare i legami della comunità:


la Biografia Partecipata
Questo il quadro complessivo di un progetto articolato su più livelli, coin-
volgente tutto il tessuto sociale del territorio, in una rete complessa di rela-
zioni che devono essere sempre tenute presenti. Territorio che, come de-
scritto in precedenza, appariva e appare tutt’ora, per certi versi frammentato,
con una conflittualità sottesa, quasi silente. Per il mediatore sociale, abituato
spesso al conflitto, nella sua espressione più violenta, tale contesto appare
quasi alienante. Com’è possibile che un luogo così ricco di storia, di corre-
sponsabilità sociale, si sia come addormentato in pochi anni? Eppure così si
esprimeva il quartiere. Con queste premesse, ci siamo posti la domanda di
come ri-attivare le risorse interne.
Per prima cosa ci siamo soffermati per individuare quei soggetti, da noi
definiti figure-ponte, significative, che potevano aiutarci nell’entrare in con-
tatto con gli attori del quartiere, fossero essi singoli, gruppi informali o rap-
presentati di istituzioni sociali. Ed è in questo modo che abbiamo raccolto,
da parte di alcuni testimoni della storia del quartiere, una domanda che è ora
per noi mediatori quanto mai centrale: chi raccoglierà la storia del territorio,
quando noi (più anziani) non ci saremo più? A chi lasciare questo patri-
monio?
È così riemerso il dibattito e la riflessione sul Parco Robinson, fra alcuni
abitanti del quartiere e alcuni Testimoni, poiché luogo portatore di un pezzo
di storia del quartiere (di cui parleremo nel dettaglio più avanti).
Abbiamo visto così diverse energie scaturire dal bisogno esplicito di con-
segnare la storia di un’esperienza formativa molto significativa a una genera-
zione giovane – che in questo momento tutti fanno fatica a vedere – capace
di accoglierla responsabilmente.
Questo ci appare come un nodo importante, quasi un blocco che impe-
disce all’energia di scorrere fra le generazioni, in modo che possano vicende-
volmente arricchirsi e rigenerarsi; non perché le nuove generazioni debbano
portare avanti quella storia tale e quale, ma piuttosto per accoglierla, rielabo-
rarla, trasformarla utilizzando i linguaggi più idonei all’età e al tempo storico
che stiamo vivendo.
Ecco perché, questo bisogno di narrare nuovamente la storia del quar-
tiere, ci è apparso come una necessità vitale perché si possa rigenerare il tes-
suto sociale. Uno spazio all’elaborazione di quella che abbiamo chiamato la
Biografia Partecipata di quartiere. Una biografia come risultato di un lavoro
collettivo a cui i diversi soggetti presenti in quartiere possono partecipare;
una biografia capace di raccontare la storia della comunità nei suoi differenti
aspetti e cicli, ma anche di descrivere il presente così come lo percepiscono e
vivono le nuove generazioni che spesso affermano: “in quartiere non c’è
nulla...”. Una biografia capace, anche, di coniugare passato e presente, per
convergere in ipotesi progettuali future.
È una riflessione che continuiamo ad approfondire e costruire cammin fa-
cendo, poiché riteniamo il lavoro biografico un importante servizio, trasver-
sale ad ogni attività, da offrire al quartiere in chiave di coesione sociale.
Ci sembra, perciò, importante condividere qui questo approccio innova-
tivo, che vuole favorire la rigenerazione dei legami sociali e comunitari, at-
traverso la condivisione – dei membri della comunità – della propria storia,
passata e presente. Per rilanciare un progetto di coesione partecipato e ricu-
cire quella frattura generazionale inevitabile che spesso si esprime nel con-
flitto fra la generazione anziana (che vorrebbe lasciare testimonianza di sé e
della propria identità individuale e sociale) e la generazione di adolescenti
(non ancora pronta ad accogliere e dare nuovo significato a quest’identità).
Dall’autobiografia familiare, già conosciuta e utilizzata soprattutto in am-
bito educativo e terapeutico con soggetti adulti, alla biografia partecipata in
cui le storie di ciascuno s’integrano con quelle degli altri membri della co-
munità per ri-costruire un’identità, che da individuale diventa sociale e infine
universale.

Il modello teorico di riferimento:


l’autobiografia come cura di sé (Demetrio 1996)
L’autobiografia è un genere letterario antico e alla portata di chiunque vo-
glia raccontare di sé e delle proprie esperienze significative.
Negli ultimi decenni l’autobiografia è stata riscoperta anche come metodo
di formazione, poiché raccontandosi – indipendentemente dall’età – si ap-
prende a documentare la propria esperienza al passato e al presente, a la-
sciare una testimonianza di sé agli altri così da riflettere maggiormente sul
significato della propria vita.
L’autobiografia così descritta ha una declinazione pedagogica applicata
positivamente nel mondo delle relazioni d’aiuto, del lavoro e della promo-
zione delle culture locali e del benessere individuale.
La narrazione delle proprie esperienze di vita permettono di prendersi
cura di sé, per costruire e accompagnare lo sviluppo e i cambiamenti della
propria identità, con l’obiettivo di restituire a se stessi e agli altri un’imma-
gine ricomposta, riconoscibile.
Poiché ciascuno di noi rispecchia il mondo e i mondi nei quali è nato e
vive, scrivendo la propria storia si fornisce una testimonianza del proprio
passaggio.
Ciò rende l’autobiografia interessante per raccogliere, analizzare, una co-
munità e il suo divenire, da diversi punti di vista. Tanti quante sono le per-
sone che si raccontano al suo interno.
Il desiderio di scrivere la propria autobiografia – se nasce pertanto come
impulso assolutamente personale e libero –, si trasforma in documento pre-
zioso che colloca ogni storia e rappresentazione individuale della vita in un
orizzonte più generale, in una comunità di persone, in una cultura locale,
ecc.
Essendo partiti dal presupposto che una comunità è un sistema complesso
– così come delineato dalla teoria sistemico-relazionale –, riteniamo neces-
sario tenere presente, anche in questa narrazione, tutti i membri del sistema
(minori, adulti, genitori, anziani, istituzioni pubbliche e private presenti sul
territorio) per produrre una nuova visione della relazione, che parta dalla ri-
composizione delle storie individuali, in una storia collettiva, appartenente
alla comunità – nella sua interezza – e in cui essa stessa possa riconoscersi.
Il passaggio che noi abbiamo immaginato di fare affonda, quindi, le pro-
prie radici nell’autobiografia come metodo di auto-formazione, ma da essa si
distacca nel momento in cui – partendo dal racconto del soggetto individuale
– questo viene messo in relazione con il racconto dell’altro da sé, quale fi-
gura indispensabile per creare quel senso di coesione sociale che solo la rela-
zione e il riconoscimento fra soggetti può portare.

Lo svolgimento: Come mediatori sociali partiamo dal riconoscimento dei


membri della comunità come soggetti portatori di competenze, risorse e di
una storia che può e deve essere inserita all’interno del più ampio contesto
sociale. Questo permette alla comunità di ri-conoscersi nella sua totalità e di
valorizzare quelle esperienze di coesione che sono già state sperimentate ma
che, a volte, non sono sufficientemente rese visibili e da cui ripartire. Qui il
quartiere assume il ruolo di uno spazio e un luogo in cui ri-definire e ri-ne-
goziare la propria identità individuale prima e sociale poi. Nel caso speci-
fico: nel corso del primo anno d’intervento sul quartiere Canazza abbiamo
avuto modo di entrare in contatto con un gruppo di attivisti volontari (di an-
ziani e adulti) i quali riportavano un’esperienza attiva a cavallo fra gli anni
’70 e ’80 del secolo scorso denominata Campo Robinson. In un luogo cen-
trale del quartiere (all’epoca un campo di grano), essi avevano sperimentato
un modello di partecipazione attiva dei membri della comunità (bambini, ra-
gazzi, giovani adulti, famiglie). Lì era stato istituito un campo giochi per i
mesi estivi in cui tutti i bambini del territorio erano chiamati a partecipare;
tale campo era gestito da figure professionali (assistenti sociali, maestri di
scuola, educatori) con il supporto di volontari, animatori sociali, e attivato
grazie alla collaborazione dell’allora ente comunale con la cooperazione di
gruppi informali religiosi e non del territorio.
Questo racconto ha fatto emergere in noi alcune riflessioni: per prima
cosa è emersa la domanda (da parte dei volontari) di lasciare alle nuove ge-
nerazioni l’eredità storica e documentaria di quest’esperienza, perché ne ri-
manga traccia viva nella storia del quartiere; in secondo luogo si è resa visi-
bile la necessità di ri-costruire e ri-connettere questo patrimonio, anche in
termini di risorse e competenze, con le esperienze delle famiglie e dei minori
che oggi vivono il quartiere. Quartiere, come abbiamo visto, spesso perce-
pito come privo di luoghi e spazi sociali a misura delle diverse fasce d’età;
infine, si è rilevata la necessità di comprendere e coinvolgere attivamente –
in questo percorso di ricostruzione storica – tutte le associazioni che agi-
scono nel quartiere e che spesso si muovono in modo settoriale, senza una
vera e propria rete (quanto mai necessaria perché si realizzi coesione
sociale). Partendo dalle figure ponte individuate (significative per il ruolo ri-
coperto nella comunità e per la memoria storica) abbiamo organizzato, con il
loro supporto, due momenti di gruppo rivolti prima a soggetti all’epoca geni-
tori, poi a soggetti all’epoca bambini, ragazzi e animatori sociali. È stato così
possibile ricostruire con loro, grazie a domande circolari e riflessive, il rac-
conto così come da ciascuno percepito e ri-connetterlo a quello degli altri
membri della comunità. Ne è emerso un quadro in cui ciascuna persona ha
potuto, partendo dal proprio vissuto, riconoscerne il valore anche all’interno
di un racconto più ampio e particolareggiato in cui ad una visione prima par-
ziale s’inseriva una visione più globale e arricchente. A questa prima fase,
già sperimentata e documentata attraverso un video, è stata poi agganciata
una fase in cui questa stessa storia è condivisa con gli altri membri della co-
munità (bambini, ragazzi, famiglie) per rilanciare una fase in cui immaginare
– partendo dall’identità di questa comunità – nuove forme di coesione so-
ciale partecipata.
Il Campo Robinson è un pezzo importante della storia del quartiere, ma
ce ne sono anche altri. Il territorio della Canazza ha visto uno sviluppo
sempre maggiore, che partendo dal nucleo storico (quello delle cascine, la
cosiddetta Canazza Bassa – più vicina al centro della città –) si è ampliato
sino alle case popolari che oggi ne rappresentano il fulcro. La narrazione del-
l’esperienza del Campo Robinson ci ha permesso di dare risalto e importanza
a una fase storica del territorio estremamente significativa, anche per quelle
generazioni – adesso rappresentate da famiglie con bambini – che hanno vis-
suto e tutt’ora vivono nelle case popolari. Quelle stesse generazioni, guar-
dando le vecchie fotografie messe a disposizione dai testimoni e diventate
una mostra, raccontano i propri vissuti, diventando a loro volta testimoni at-
tivi della loro storia e di quella del quartiere.
Diventa così primario, non solo continuare in questo processo di ri-co-
struzione e di ri-narrazione, ma anche identificare quegli intrecci che si evi-
denziano nei racconti dei testimoni, anche quando si tratta di fasi differenti
del ciclo vitale della comunità. Una comunità che esprime, in questo modo,
la sua dinamicità, la sua capacità di evolvere ma anche di contenere la pro-
pria memoria storica. Per rilanciare quel processo di coesione sociale che
può riattivarsi solo dalla presa di coscienza delle proprie risorse e compe-
tenze.
Il ruolo del mediatore, qui conduttore del gruppo di biografia, è quello di
favorire il processo di ricostruzione storica, di ri-significazione delle espe-
rienze individuali – connettendole fra loro – e di valorizzare il ruolo del testi-
mone quale figura ponte in grado di ri-congiungere la storia individuale a
quella sociale; per favorire l’emersione di un’identità che è costituita da en-
trambe.
La storia risulta sterile, però, se non viene ri-significata e ri-attualizzata
nel presente. Ecco perché è quanto mai necessario che, in questa narrazione,
siano presenti anche le nuove generazioni. Saranno queste ultime a ereditare
l’identità storica, che subirà a sua volta una ri-strutturazione in base alle tra-
sformazioni individuali e sociali che il sistema subirà; in un continuo dialogo
fra soggetti individuali e sociali, ma riconoscibili in una comunità.

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La Mediación Social Comunitaria
en el Ayuntamiento de Alicante
Francisco Javier Domínguez Alonso y Oscar Daniel Franco
Conforti - Universidad de Alicante y Servicio de Mediación
Social Ayuntamiento de Alicante

Objetivo
El objetivo de este artículo es realizar una revisión del modelo de
mediación social comunitaria que desarrollamos, bajo el nombre de Servicio
de Mediación Social Comunitaria (Conforti 2009c), desde 2009 en el
Ayuntamiento de Alicante. Veremos el estado de la cuestión que dé cuenta de
qué se entiende por mediación en conflictos interculturales como parte del
servicio de mediación social comunitaria.

Cuadro Teórico
La mediación de conflictos puede ser considerada en sentido amplio o
restringido (Suares 2010), se desarrolla en diversos ámbitos (Domínguez
Alonso 2009) y responde a modelos de trabajo bien definidos cada uno de
los cuales utiliza además de las herramientas comunes sus propias técnicas,
cada modelo persigue objetivos distintos.
El estudio temprano de las particularidades del terreno y sus habitantes
(Ayuntamiento de Alicante 2009a, b) nos ha permitido anticipar el tipo de
procesos de mediación e intervención en participación ciudadana que
debíamos ofrecer a la ciudadanía para asegurar el éxito de la implantación
del Servicio de Mediación Social Comunitaria (SMC).

Descripción
La mediación participa de múltiples enfoques, abreva en lo jurídico (el
mundo de los deberes y derechos de las personas física o jurídicas), lo psico-
social (los problemas individuales de la psique y su trascendencia al ámbito
social), la sociología funcionalista (el aprendizaje y ejercicio de los roles
sociales) en la sociología interaccionista (la comprensión de las situaciones
de vida cotidiana y cómo se afrontan) y por ello se presenta como el
instrumento ideal para trabajar en los llamados conflictos interculturales
(Cárdenas-Rodríguez 2002, Almada 2006).
Se podría definir a la mediación de conflictos interculturales como “Un
proceso de gestión de conflictos con especificas señas de interculturalidad,
más o menos estructurado, en el que interviene un tercero que ayuda a las
partes que buscan a través de la coordinación y cooperación satisfacer
adecuadamente sus exceptivas de inclusión y participación en la comunidad
de forma activa en todos sus ámbitos y demás necesidades en relación al
conflicto” (Conforti 2009b, 2014).
Además de la “especificidad de los conflictos” hemos incluido en la
definición otro elemento distintivo, cual es, la “integración” (Herrera 2003).
No significa ello que la mediación tiene por objetivo o fin la integración,
sino que si las partes así lo desean la mediación puede servirles para cambiar
su forma de relacionarse (por ejemplo a través del “modelo Transformativo”)
(Bush 1996) que les permitan la integración y/o pueden co-construir un
futuro deseado y distinto del presente (por ejemplo a través del “modelo
Apreciativo”) (Conforti 2008a, b, 2009a).

Metodología
Objetivos. La modalidad de trabajo ha tenido dos objetivos bien claros y
diferenciados (Ayuntamiento de Alicante 2009c):

Objetivos generales:
➢ a1) Implicar a la ciudadanía y agentes sociales en la creación de
condiciones favorecedoras de una convivencia pacífica desde la
implementación de un modelo de prevención, gestión y resolución
de conflictos;
➢ a2) Mejorar las relaciones humanas y propiciar una mejor calidad de
vida urbana.

Objetivos específicos:
➢ b1) Tender a la solución de conflictos comunitarios mediante
métodos alternativos que generen satisfacción en las partes en
conflicto;
➢ b2) Ofrecer espacios neutrales donde los miembros de la comunidad
implicados en un conflicto tengan la oportunidad de trabajar por su
resolución;
➢ b3) Informar y asesorar sobre mediación comunitaria a los técnicos
y agentes sociales territoriales que desempeñan su labor en los
barrios de la zona norte;
➢ b4) Formar a líderes naturales con capacidad mediadora que surjan
en el proceso de desarrollo del proyecto;
➢ b5) Implicar a las personas, grupos y entidades en la solución de sus
propios problemas;
➢ b6) Prevenir y resolver conflictos comunitarios, entre personas,
grupos y/o entidades;
➢ b7) Reducir el nivel de conflictividad social;
➢ b8) Promover el diálogo, la comprensión mutua y la confianza.

Áreas de Intervención: el servicio de mediación social comunitaria


comprende tres áreas de intervención que también están muy bien definidas
y diferencias (Galtung 2013).
Estas líneas de actuación son gratuitas para los usuarios, de esta forma se
incide directamente en la información, formación y asesoramiento en
mediación comunitaria tanto a vecinos como a colaboradores y
profesionales. Se realiza de forma intencional y abarca:

Actuaciones informativas y de sensibilización:


➢ a1) A través de charlas abiertas y gratuitas a fin de sensibilizar y
educar en el respeto a los valores y la práctica de la mediación,
promover relaciones de colaboración entre los miembros de la
comunidad, potenciar la participación del propios implicados en la
resolución de sus diferencias, facilitando un espacio dónde las partes
implicadas en un conflicto puedan encontrar y generar las
condiciones necesarias por encontrar soluciones;
➢ a2) Dar publicidad al servicio de mediación comunitaria por medio
de carteles, afiches, trípticos y cuantos otros medios idóneos sea
posible acceder;
➢ a3) Utilizamos la Revista Digital especializadas de Acuerdo Justo®,
para difundir actividades del SMC.

Actuaciones formativas y de asesoramiento:


➢ b1) Llevamos a cabo talleres de sensibilización y capacitación
integrada en seminarios de formación, para dar asistencia técnica a
aquellos ciudadanos, técnicos municipales, profesionales y entidades
que lo soliciten en relación a la gestión adecuada de los conflictos;
➢ b2) Brindamos asesoramiento en materia de gestión adecuada de
conflictos a todo aquel que lo solicite, procurando para ello que sea
de forma personal.
Actuaciones en mediación de conflictos:
➢ c1) El servicio de mediación de conflictos comunitarios, es un
servicio que tiene por finalidad y objetivo, el ayudar, a través de la
facilitación del diálogo que las partes de una controversia, en el caso
que nos ocupa los vecinos de la zona norte de Alicante, para que
sean ellas mismas quienes logren resolver sus diferencias dentro de
la estructura social, del barrio, de su comunidad.

El mediador ayuda a las partes en conflicto en la búsqueda de acuerdos


satisfactorios recíprocamente sin tomar decisiones sobre cual ha de ser el
resultado final. El proceso de intervención en mediación comunitaria, es
decididamente de carácter confidencial y se presta a solicitud de una o
ambas partes. Se atienden diferentes tipologías de conflictos.
Ofrecemos a los vecinos y vecinas del municipio un forma no-
adversarial, pacífica y colaborativa para afrontar sus diferencias, gestionar y
resolver sus diferencias en cualquier etapa del conflicto o del proceso
judicial, independientemente de que se haya incoado denuncia y siempre que
estas diferencias versen sobre diferencias en el ámbito comunitario,
mejorando la comunicación, la comprensión mutua y empatía entre los
miembros de la comunidad.
Entregamos información sobre recursos que ayudan a las partes
implicadas en un conflicto a gestionarlo de forma distinta, en búsqueda de
una adecuada solución.
“Dado que las ciudades y sus barrios son zonas privilegiadas para
impulsar el diálogo intercultural y promover la diversidad cultural y la
cohesión social, es importante que las autoridades municipales creen y
obtengan capacidades para gestionar mejor la diversidad y luchar contra el
racismo, la xenofobia y todas las formas de discriminación. Para ello,
tendrían que intentar poner a punto herramientas que les ayuden a elaborar
políticas públicas adaptadas a las diversas necesidades de la población. En
este contexto, hay que tener presente los aspectos espaciales de los retos de
la integración, como son los barrios segregados. Para luchar contra la
desigualdad, es preciso invertir en los barrios con una alta concentración de
inmigrantes” (Fundación Cepaim 2013).
Dedicamos nuestro esfuerzo a lograr inculcar y que se entienda a la
mediación como la cultura de la participación y de la paz que se inscribe en
este nuevo paradigma del diálogo positivo. A partir de aquí no nos
centraremos en la mediación como técnica que permite la resolución o
gestión de los conflictos, sino en entender a la mediación como procesos
(narrativo, transformativo, apreciativo, etc.) que podemos impulsar y
acompañar para poder trasformar aquellas situaciones sociales que se
identifican como conflictivas.
Por lo tanto, la participación ciudadana como reflejo de la creatividad
social aquí esta también relacionada con la capacidad de inventiva del
mediador respecto a cómo y cuando utilizar un tipo de técnicas u otras en un
momento dado en relación a este tipo de procesos que deben permitir la
transformación de los conflictos. Entendidas las técnicas como la caja de
herramientas y de recursos que tiene el mediador y a las que recurrir para su
uso en diferentes momentos en función de las situaciones concretas.
La materialidad con la que se trabaja en el ámbito comunitario permite
estructuras de trabajo menos rígidas o estandarizada. Ello nos invita a tener
que de-construir la idea de concebir la mediación como una simple técnica y
el proceso de mediación aplicación de diferentes ingredientes como si se
tratara de una receta (para tal situación, usar este tipo de técnica o otra) para
poder llegar a conseguir un determinado resultado.
Vale dejar claro que la tipología de conflictos es muy amplia, a modo de
ejemplo, elaboramos un pequeño cuadro que asume el riesgo de las
categorías “mixtas” y “familiares” con la debida advertencia de que se
trabajarán siempre que no existan programas específicos independientes y,
en el caso de familia (siendo que el director del servicio es abogado y master
en mediación familiar, lo que garantiza los aspectos jurídicos en ésta
materia) nuestra propuesta atiende a los conflictos que van más allá de las
situaciones de separación y divorcio.
Dentro de estas líneas de intervención, se prestará atención a los
conflictos dentro de los colectivos con especial situación de vulnerabilidad
social, es decir, personas mayores con deficiencias de autonomía, familias
monoparentales con escasos recursos, jóvenes con fracaso escolar, menores
y jóvenes con medidas judiciales, toxicómanos, etc. En el caso de la Ciudad
de Alicante, debemos destacar que no se dan situaciones de descreimiento en
la función pública o falta de credibilidad en las instituciones, sin perjuicio de
ello además hay que señalar que “mediar en estos supuestos conlleva la
quiebra de los principios de imparcialidad y neutralidad toda vez que, no
siendo funcionario publico, el sueldo del mediador es finalmente satisfecho
por el Ayuntamiento.
El servicio público de mediación no escapa a la realidad de otros
servicios públicos, y por ello cuenta con un protocolo de actuación, a través
del cual, damos respuesta a la mayor cantidad de variables (las audiencias
individuales o caucus, suspensiones, derivaciones, y demás posibles
situaciones intermedias, no están contempladas en el esquema, por tratarse
de un diagrama básico) que entendemos posibles en un proceso de
mediación.
Comprobamos, a través de los cinco años de experiencia que acumula el
Servicio de Mediación Social de Conflictos, que la implementación de estas
líneas de acción han mejorado las habilidades de gestión de conflictos de la
población y la convivencia en los barrios, toda vez que se:

➢ Fomentan la educación para la paz (Rasskin Gutman 2012);


➢ Incentiva el uso de espacios públicos como puntos de encuentro y
diálogo;
➢ Refuerzan el desarrollo de las capacidades resilientes;
➢ Facilitar la integración intercultural (Giménez 2003, Ranzolin 2008).
Fig.2 Diagrama de flujo - Protocolo

Fuente: elaboración propria


Evaluación y Sistematización externa de datos de interés, parte de por la
Universidad de Alicante (Domínguez Alonso 2010-2013).
Hemos querido que nuestro servicio de mediación sea referente y por ello
es que hemos introducido en él la evaluación y valoración externa del mismo
(Senge 2004). Dicha evaluación, se realizó por primera vez a los seis meses
de funcionamiento del servicio, en base a los siguientes criterios:

➢ Personal que se ha sensibilizado sobre el tema;


➢ Demanda de casos del Servicio de Mediación;
➢ Correcta derivación de los casos;
➢ Disminución de las denuncias y/o reclamaciones;
➢ No reincidencia los casos;
➢ Partes que vuelven a mediación por otras situaciones;
➢ Mejora de la convivencia;
➢ Investigación sobre la realidad de los barrios de la zona norte.

La sistematización de datos y su evaluación, buscan responder al


permanente interrogante: ¿Cómo sabemos que estamos progresando en
alcanzar nuestros objetivos prioritarios?
Para ello existen un mínimo de siete elementos claves, a estudiar y
analizar, que se encuentran directamente relacionados con el desempeño del
SMC, ellos son:

➢ Eficacia, entendida como el grado de satisfacción de los objetivos


fijados en el presente programa de actuación, y de los objetivos que
tácita o explícitamente se incluyen en la misión del SMC;
➢ Eficiencia, entendida como la relación existente entre los servicios
prestados (outputs) en relación con los recursos empleados a tal
efecto (inputs), es decir que una actuación eficiente será aquella que
con unos recursos determinados obtiene el máximo resultado
posible, o la que con unos recursos mínimos mantiene la calidad y
cantidad adecuada de un determinado servicio;
➢ Efectividad, aquella que mide el impacto final de la actuación sobre
el total de la población a la que esta destinado el servicio, también
llamados indicadores de impacto. Sabemos que el valor efectivo o
potencialmente creado (SMC) no puede medirse en base
exclusivamente a los productos (outputs) que ofrecen, ya que éstos
carecen de significación propia, la que estará dada en relación con
los resultados e impactos (outcomes) que generan;
➢ Equidad, entendida un contrato intercultural (Preiswerk 2011), como
la posibilidad de acceso al servicio del SMC de los grupos menos
favorecidos en comparación con las mismas posibilidades de la
media del país;
➢ Excelencia, nos remite a la calidad de los servicios, desde la óptica
del usuario, vale entonces poner el énfasis en la concepción de que
el SMC es un servicio y la población de la Zona Norte su usuario
potencial. De allí las características de nuestro SMC: Servicio
espacial, temporal y materialmente accesible, comprensible para el
ciudadano, y con un alto grado de respuesta a las expectativas
depositadas (aporta soluciones, en el sentido de crear un espacio
para la gestión adecuada de los conflictos);
➢ Entorno, ello implica, conocerlo, entenderlo y adaptarse
flexiblemente a los cambios que en él se producen, de allí la
indispensable coordinación con entidades públicas y privadas, de las
que damos cuenta “supra”. Es la idea del pensamiento sistemático
intercultural (Rehaag 2007) el que debe verse llevado a la aquí a la
práctica;
➢ Sostenibilidad, en la inteligencia de que no es suficiente que los
objetivos del programa se consigan, sino que es indispensable que
sus beneficios se prolonguen y se mantengan, a pesar de los cambios
técnicos o del entorno en que se puedan producir.

Solicitudes de mediación (Domínguez Alonso 2010-2013).

Fuente: elaboración propria

El número de casos resueltos con acuerdo es alto, lo que redunda en una


mayor satisfacción del servicio prestado, y en otros casos derivando – previa
entrevista dentro del SMC – a otros servios más idóneos para poder ofrecerle
una mejor respuesta a la demanda presentada. La mayor parte de los casos
han requerido de un media de tres/cuatro sesiones, incluidas las de recepción
de las demandas en entrevista personal (Caucus) con el mediador, además de
otro tipo de contactos, principalmente por vía telefónica.

Tipos de conflictos por barrios


(Dominguez, Alonso 2010-2013)
Fuente: elaboración propia

Como puede observarse, el mayor número de casos que han llegado al


SMC tienen su origen en conflictos vecinales de diferentes tipos, lo que
reafirma no sólo el área geográfica escogida sino la tipología de conflicto: la
convivencia, lo que permite colegir que el servicio está bien implantado en la
zona, llegando al núcleo de convivencia vecinal, como corresponde a la
filosofía de este servicio. A continuación (en la tabla de tipología de casos
atendidos) aparecen los conflictos familiares, en los cuales las dificultades de
relación entre padres e hijos adquieren gran relevancia, los temas de
herencias, la atención a padres con dificultades, etc. (este tipo de conflictos
desaparecen en el tercer período, sin duda, debido al lugar de procedencia de
las derivaciones). Las dificultades con el sistema escolar también tienen
cierta relevancia, que suponemos irá en aumento.

En resumen
La mediación comunitaria tiene por objetivo facilitar un espacio y
proveer a los miembros de la comunidad de herramientas idóneas para
resolver las diferencias y conflictos que puedan generarse entre los
individuos, grupos y organizaciones de nuestra sociedad.
La mediación comunitaria cumple su misión al: a) ofrecer a la gente una
oportunidad para asumir la responsabilidad del conflicto y de sus diferencias,
b) mejorar la convivencia y c) reeducando en la aceptación de las diferencias
“en y entre” los miembros de la comunidad y facilitando el paso de la cultura
del litigio a la cultura de la comunicación, afrontando la conflictividad social
en el ámbito del municipio. Donde el Ayuntamiento asume el rol de
proveedor de una verdadera red de recursos social.
La filosofía central de nuestra propuesta se basa en devolver a la sociedad
el poder y protagonismo en la gestión de sus conflictos. En esta línea de
pensamiento, no conviene olvidar, como nos recuerdan (Nató 2005) que “la
mediación es un recurso humano y un instrumento cívico mediante el cual
los integrantes de una sociedad pueden tramitar las diferencias y/o gestionar
los conflictos que se les presentan en el ámbito privado y/o público así como
también participar de la construcción de la sociedad que integran”.
Partiendo de una visión sistémica (inclusiva de las redes sociales
preexistentes), integral (donde cada persona pueda expresarse en libertad) y
participativa (escuchando a los vecinos) y restaurativa antes que retributiva.
La mediación es un proceso complejo “que pone en relación a los miembros
de la comunidad, en el interior de si misma y por sus propios medios;
implica a la sociedad civil que comprende a los individuos, las familias, las
asociaciones, las ONGs y las empresas con el objetivo de auto-regularse en
sus propios conflictos, siendo su objetivo demostrar la capacidad de las
comunidades, no solamente para auto-responsabilizarse, sino también para
tratar sus diferencias antes que éstas degeneren en conflictos violentos”
(Bonafé-Schmit 1999).
Esta misma idea de proceso es la que les gusta también al grupo de
Génova, cuando definen “La mediación comunitaria es un proceso que se
compone de varias acciones (culturales, sociales, formativas, etc.) que tiene
como objetivo trabajar en el territorio para pasar de la coexistencia a la
convivencia, mediante un principio de interacción positiva. Las distintas
actividades llevadas a cabo permiten crear las condiciones para que
finalmente la comunidad explore nuevos modos para prevenir, gestionar y
transformar sus propios conflictos” (Morelli en prensa).
Trabajamos en Conjunto de barrios de carácter obrero. Con una identidad
social clara de pertenencia a los mismos, habían sido capaces de acoger a un
alto número de inmigrantes. Carlos Giménez apuntaba en el año 2002, que la
mediación comunitaria-intercultural, “consiste en una modalidad de
intervención de terceras partes neutrales entre actores sociales o
institucionales en situaciones de dificultad significativa, en la cual el
profesional tiende puentes o nexos de unión entre distintos actores o agentes
sociales con el fin de prevenir y/o resolver y/o reformular posibles conflictos
y potenciar la comunicación, pero sobre todo con el objetivo último de
trabajar a favor de la convivencia intercultural” (Giménez 2002).
Con necesidades insatisfechas apremiantes para muchos de los vecinos de
la zona que han visto cómo se ocupaban sus viviendas por extraños; otro
objetivo era trabajar los conflictos que podían originarse a consecuencia de
los denominados “pisos patera”, los re-alquileres, los impagos en los gastos
comunitarios, etc.; y últimamente la preocupación por el miedo a perder la
vivienda propia debido a no poder hacer frente a los pagos de su hipoteca.
Finalmente la presencia en el territorio de un buen número de distintos
profesionales de trabajo social, psicología y educadores, también servicios
de policía local y nacional, servicios de salud, parroquias, colegios y
distintos centros sociales para personas mayores y jóvenes. Todo ello a
contribuido a crear una oportunidad única en el territorio (6 barrios
desfavorecidos de la zona norte de la ciudad) en los que se concentraban la
mayoría de los inmigrantes se presentaba como un gran “laboratorio social”
en el cual podríamos desempeñar distintas funciones, entre ellas: favorecer la
integración de las personas venidas de fuera (inmigrantes latinoamericanos
principalmente); apoyar a los vecinos que se encontraban en soledad, con
falta de recurso en una situación de vulnerabilidad.
Muchos de los organismos, entidades y servicios de la comunidad que a
pesar de no dedicarse a la gestión, transformación y resolución de conflictos
conocen de su existencia a través de sus relaciones con el público podría y
puede establecerse una red de canales para derivar a través de los distintos
entes y organizaciones de los servicios comunitarios existente en el
territorio. Pero de todos es sabido, que por distintas razones, una de las
limitaciones que se pueden achacar a los distintos profesionales es su
excesivo celo en su trabajo, lo que no siempre casa bien con ese otro perfil
profesional de coordinación efectiva y trabajo en red, tan queridos por todos
los/as profesionales, pero que no siempre se hace efectivo, como es
concretamente en el caso de las derivaciones de casos, en los que la mayoría
de ellos serían de “ida y vuelta”.

Conclusión
La mediación de conflictos interculturales no escapa al ámbito de los
conflictos interpersonales entre los ciudadanos o habitantes de un espacio
territorial común que comparten el sentido de pertenencia. La participación
debe ser significativa y real, involucrar a todos y todas los actores,
diferenciando pero sincronizando roles. De este modo se va logrando
avanzar en el camino hacia la convivencia, la ciudadanía y la inclusión,
basada en la interacción entre las personas. De este modo podrá convertirse
en instrumento de desarrollo, empoderamiento y equidad social. Como dice
Enrique Pastor “la participación se convierte en objetivo del desarrollo
humano, a la vez que, es un medio para hacer progresar el mismo” (Pastor
2006).
La inclusión y participación en la comunidad de forma activa, en otras
palabras la integración, asume la inexistencia de violencia estructural y la
igualdad en la diversidad y esto no es otra cosa que el reconocimiento de
derechos a todas las personas por el solo hecho de ser persona, es decir sin
discriminación alguna por razón de su origen o procedencia étnica.
Como le gustaba decir a Martin Buber “Yo soy los Otros” (Buber 1970).
Este filósofo judío viene a decirnos que sin los otros no podemos ser
nosotros mismos. Nuestro YO se fragua desde los otros. Cuantos más Yoes
configuren nuestro Yo, tanto más pleno y rico será éste. De este modo el YO
se hace NOSOTROS.
Parafraseando lo que decíamos más arriba, la convivencia efectiva en una
sociedad, pequeña o grande, se juega en el campo de la interrelación
efectiva, en los distintos ámbitos de la vida cotidiana: comunidad de vecinos,
barrio, colegio, lugares de trabajo, esparcimiento, en la convivencia diaria de
nuestro convivir cotidiano, rompiendo con el aislamiento, el
desconocimiento y la incomunicación. Y aquí la mediación puede jugar –
está jugando ya – un papel importante, no el único, en esta proceso de
cohesión social. Se trata de una estrategia, de una opción, de una
oportunidad para facilitar y crear espacios de entendimiento, de interrelación
y de convivencia entre personas que habitan un territorio
independientemente del origen, del color o del tiempo que llevan viviendo
en ese lugar-espacio (Barrio) determinado.
“Si ha de existir una comunidad en un mundo de individuos, sólo puede
ser (y tiene que ser) una comunidad entretejida a partir del compartir y del
cuidado mutuo” (Bauman 2006).
“La comunidad es la dimensión de la sociedad que confiere un sentido
trascendente a la vida del hombre” (Giner 1983).
La mediación es eminentemente relacional, del mismo modo que lo es la
convivencia entre personas, sin importar las diferencias. “Vivir es convivir, y
convivir es un arte”. Ojalá que entre todos seamos capaces de construir
espacios para compartir, en nuestras comunidades y barrios, haciendo de la
mediación una estrategia creativa y de consenso, desde el reconocimiento y
la revalorización del otro como ser único e irrepetible.

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Linguaggi artistici e trasformazione del conflitto.
Analisi dell’esperienza Scatenati della Casa
Circondariale di Genova-Marassi (Italia)
Juan Pablo Santi - Università di Genova

Introduzione
La presente comunicazione intende integrare la descrizione dell’espe-
rienza studiata18 con l’accezione immaginativa di visione: “Ci sono due sensi
distinti ma correlati di “visione” che desidero discutere, tutte e due hanno
avuto una parte importante nella teoria politica. Visione è un termine comu-
nemente usato per indicare un atto di percezione (...) Ma la “visione” è usata
anche in un altro senso, come quando si parla di una visione estetica o una
visione religiosa. In questo secondo significato, non è l’elemento descrittivo
ma quello immaginativo, quello più importante” (Wolin, 2006: 17-18). In
questo modo, l’obiettivo consiste nel porre l’accento sulle funzionalità pra-
tiche della grammatica artistica, prendendo spunto dalla Grecia antica dove
le poesie non avevano soltanto scopi estetici, ma anche di tipo pratico: una
parte del poema serviva come promemoria delle attività quotidiane, come ad
esempio quelle legate al mondo della navigazione19.
La descrizione del caso si avvale della categoria d’interfaccia della poli-
tica pubblica20, costruito a partire dal percorso etnografico sviluppato intorno

18 Utilizzeremo “esperienza” nel suo senso più generico: esperimento, prova.


http://www.treccani.it/vocabolario/esperienza/, consultato il 3/2/2014.
19 “Considerando tutti insieme i quattro passi sulle navi, possiamo affermare che
il primo libro dell’Iliade conserva un documento completo e formulare, relativo alle
operazioni di carico, imbarco, sbarco e scarico. In breve, abbiamo qui un esempio
completo di “tecnologia” omerica, se si può usare questo termine per descrivere le
definizioni di procedimenti specializzati assai diffusi e generali, ma anche ben
definiti. Se ora ricordiamo l’affermazione platonica che i poeti, secondo l’opinione
popolare, “conoscevano tutte le arti”, cominceremo a capire che cosa intendesse
dire” (Havelock, 1973: p. 71).
20 Norman Long (1999) sostiene che la sua analisi d’interfaccia orientata
all’attore serve “per la comprensione della diversità culturale, la differenza sociale e
il conflitto insito nei processi d’intervento di sviluppo. Le interfacce si producono in
genere nei punti in cui differenti, e spesso contrastanti, mondi vitali o campi sociali
s’intersecano, o più concretamente, in situazioni sociali o arene in cui le interazioni
si orientano attorno ai problemi di creazione di ponti, sistemazione, segregazione o
contestazione sociale, con punti di vista valutativi e cognitivi. L’analisi d’interfaccia
mira a chiarire i tipi e le fonti di discontinuità sociale e di collegamento, presenti in
all’esperienza e grazie alle narrazioni che sono emerse dalle interviste semi-
strutturate fatte agli attori coinvolti. L’utilità della ricerca, in questo mo-
mento storico, ha a che vedere con la possibilità di determinare una prospet-
tiva che abbia come centro la trasformazione del conflitto partendo dal po-
tenziamento degli esseri che, socialmente, si trovano in una sorta di periferia,
confinati in una stagnazione della loro vita in carcere. Tramite i linguaggi ar-
tistici si forniscono strumenti di alto valore responsabilizzante a più livelli.
La creatività diventa così una risorsa imprescindibile in questo processo.
Come sostiene Zygmunt Bauman (2008): “Siamo, quindi, artisti della nostra
vita, tanto se lo sappiamo come se non lo sappiamo e ci piaccia o meno. Es-
sere artisti significa dare forma a ciò che in un altro modo non l’avrebbe.
Manipolare probabilità. Imporre un “ordine” in ciò che in un altro modo sa-
rebbe “caos”: “organizzare” una collezione di cose ed eventi che in un altro
modo sarebbe caotico – aleatorio, irregolare e, perciò, imprevedibile – auspi-
cando che determinati eventi abbiano più probabilità di prodursi di altri”
(pag. 151). Sarà il creativo processo di co-costruzione di una narrazione (teo-
rica e pratica) di felice e bella convivenza che proveremo a descrivere in
queste linee.

Quadro teorico
In primo luogo, un cenno al concetto di cultura, declinata in questo caso
come: il divenire di costituzioni di rituali del vivere insieme, del collaborare
nella co-costruzione di una nuova “narrazione” a partire dai punti di con-
flitto. Specificamente nel nostro caso di studio, questi codici di ritualità del
vivere insieme si producono tramite lo sviluppo e introiezione delle tecniche
e dinamiche teatrali da parte dei detenuti che partecipano al laboratorio arti-
stico in carcere. Le logiche e i codici del linguaggio teatrale – come vedremo
più avanti – costruiscono una grammatica che serve a trasformare positiva-
mente il conflitto. A partire della novità dei percorsi si attivano codici di con-
vivenza a diversi livelli21.

tali situazioni e identificare le modalità organizzative e culturali di riproduzione o


trasformazione” (p. 1). La traduzione dei paragrafi è mia.
21 “Riprendiamo un istante la definizione di Tylor: ‘La cultura (...) presa nel suo
significato etnografico più ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze,
arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come
appartenente a una società’. Una definizione che è stata successivamente accusata di
essere un po’ troppo rigida e statica, ma la cui sintesi e chiarezza fa sì che regga al
trascorrere del tempo. Due passaggi della frase di Tylor sono particolarmente
importante. Il primo è ‘acquisita dall’uomo’: con queste parole l’autore sottolinea
come la cultura non sia un elemento innato, ma il prodotto di un’educazione
prolungata, di una costruzione sociale. La cultura è quindi il prodotto di un lungo e
Una chiave per capire il processo di trasformazione del conflitto, della
sofferenza, viene data da Rosi Braidotti (2009) quando si riferisce all’etica
affermativa che “è essenzialmente un’etica dei rapporti che genera l’empo-
werment del soggetto attraverso la trasformazione delle passioni negative in
passioni positive (...) La politica trasformativa lavora guardando il futuro
come immaginario collettivo e comune che resiste, persiste e sostiene i pro-
cessi del divenire. Da ciò risulta un tipo di soggettività nomade o trasversale:
i soggetti nomadi sarebbero dei nidi legati gli uni agli altri e con interessi
condivisi (...) Dato che il punto di partenza non si trova nell’individuo iso-
lato, ma in una serie di realtà complesse e dipendenti, l’interazione tra l’io e
l’altro si struttura secondo un modello diverso. Essere un soggetto non signi-
fica essere un individuo isolato, ma piuttosto essere aperto a essere influen-
zato dagli altri e tramite gli altri, sperimentando in questo modo trasforma -
zioni che siano in grado di mantenersi. Una vita etica aspira a ciò che dà re-
sistenza, durata e forza al soggetto senza fare riferimento a nessuno dei va-
lori trascendentali, ma, al contrario, nella consapevolezza delle proprie inter-
connessioni in molteplici modi d’interazione con gli altri, eterogenei e non
umani (...) L’etica affermativa offre la possibilità d’impegnarsi attivamente
nel presente essendone consapevoli, combinando la capacità e la forza di re-
sistere alla negatività” (p. 311). Sono, infatti, le nuove scelte di canalizza-
zione del dolore, che hanno una valenza positiva dato che lo scopo è quello
di utilizzare la “sofferenza” come motore politico. Si può dire ancora con
Braidotti che sono atti di un’etica trasformativa o affermativa che appaiono
“...come una trasmutazione delle passioni negative in passioni positive. Tutto
si riduce a una questione sulla creatività: le relazioni etiche affermative
creano forme di trasformazione da ciò che è negativo in positivo e mobili-
tano risorse ancora non sfruttate, come i nostri desideri e la nostra immagina-
zione. Le forze affettive sono le energie motrici che si catturano in rapporti
reali, materiali, questi rapporti costituiscono una rete, una ragnatela o un ri-
zoma d’interconnessione con gli altri, in pratica questo significa che le con-
dizioni di tutta l’agency politica ed etica non dipendono dello stato attuale
del territorio nel quale ci muoviamo, ma sono attivamente insite nella crea-
zione di rapporti sociali alternativi e di altri mondi possibili. Le condizioni di
articolato processo di costruzione. Questo dato, messo in evidenza già alla fine
dell’Ottocento, sarà invece messo in discussione, come vedremo più avanti, dalle
molte teorie razziali. Il secondo passaggio è quello finale, quel ‘come appartenente a
una società’, che mette in luce come la cultura sia il frutto di relazioni tra più
individui e non l’esclusiva di una persona sola. È dal dialogo, dallo scambio,
dall’incontro che nasce ogni cultura. Potremmo dire che le culture stanno nelle
relazioni, in quello spazio tra le persone che deve essere riempito con forme di
comunicazione e di comportamento condivisi” (Aime, 2013: pp. 28-29). Da questa
spiegazione si può pensare quindi alla cultura come il modo di rapportarsi, di
relazionarsi, a diversi livelli, anche quello che potrebbe essere descritto come un
livello intra-individuale, ovverossia, come mi “rapporto” con me stesso, che tipo di
“cultura” è quella che intrattengo all’interno della mia “individualità”.
possibilità dell’istanza etica non sono frutto di rapporti di opposizione: non
si trovano legate al presente tramite la negazione, ma sono affermative e si
dirigono alla creazione di alternative di empowerment” (p. 292).
Uno dei modi “codificati” per attuare concretamente l’etica affermativa è
il teatro all’interno delle carceri. Si possono ricondurre le prime esperienze
di questo tipo agli anni trenta negli Stati Uniti dove “...il gruppo di Jacob
Moreno introduce gli esperimenti dello psicodramma fra i detenuti del car-
cere americano di Sing Sing22. Quello di Moreno è stato soltanto l’inizio di
un vasto movimento che porterà a considerare l’attività teatrale non soltanto
come denuncia delle condizioni inumane dei carcerati e, soprattutto, della
loro inefficacia a “recuperarli e a riscattarli”, ma come mezzo terapeutico e
educativo di grande valore ai fini di un’effettiva “redenzione”. Non si può
nemmeno dimenticare un altro apporto americano, Augusto Boal col suo
“Teatro dell’Oppresso”23. Boal racconta la sua esperienza in trentasette car-

22 “Jakob Levy Moreno, era d’origine rumena (...) ed ebbe modo di mettere a
punto la sua teoria negli Stati Uniti. Veniva da Vienna dove aveva visto lo sviluppo
delle teorie freudiane. Moreno si era occupato di profughi, di bambini, di prostitute
nel loro habitat naturale per aiutarli ad interagire, ad esprimersi, a prendere
coscienza di sé. Sosteneva il teatro della spontaneità, in contrapposizione al teatro di
cartapesta” (Pozzi e Minoia, 2010: p. 17).
23 “Il Teatro dell’Oppresso è teatro nell’accezione più arcaica della parola: tutti
gli esseri umani sono attori, perché recitano, e spettatori, perché osservano. Siamo
tutti spett-attori. Il teatro dell’Oppresso è una delle forme tra tutte quelle di teatro
(...) Il linguaggio teatrale è il linguaggio umano per eccellenza e il più essenziale.
Gli attori fanno sul palcoscenico esattamente quello che facciamo nella vita
quotidiana, a tutte le ore e in ogni posto. Gli attori parlano, vanno, esprimono idee e
rivelano passioni, esattamente come tutti noi nella routine diaria delle nostre vite.
L’unica differenza tra noi e loro consiste nel fatto che gli attori sono consapevoli
dell’utilizzo di quel linguaggio, perciò più adatti per il suo utilizzo. I non attori,
invece, ignorano che stanno facendo teatro, parlando teatralmente, vale a dire,
utilizzando il linguaggio teatrale, così come Monsieur Jourdain, il personaggio di “Il
borghese gentiluomo” di Molière, ignorava che parlava in prosa quando parlava.
(Boal, 1998: p. 21). D’altro canto c’è il concetto di teatro sociale. Claudio Bernardi
– che ha coniato questa categoria – lo definisce in questo modo: “Il teatro sociale si
occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi e
comunità, attraverso attività performative che includono i diversi generi teatrali, il
gioco, la festa, il rito, lo sport, il ballo, gli eventi e le manifestazioni culturali. Il
teatro sociale si differenzia dall’animazione sociale e teatrale, più decisamente
orientata alla drammaturgia di comunità, per il primato che assegna alla formazione
degli individui. Si distingue dal teatro d’arte, commerciale o d’avanguardia, perché
non ha come finalità primaria il prodotto estetico, bensì le pubbliche e private
relazioni. L’altro confine del teatro sociale è la teatroterapia, le diverse tecniche
espressive di psicologi e psicoanalisti utilizzate per risolvere i problemi interiori e
relazionali di individui o di piccoli gruppi. I confini tra queste tre aree teatriche sono
in realtà molto fluidi e non è difficile trovare casi di teatro d’arte promotore di
interventi e progetti sociali, o idee estetiche notevoli negli spettacoli e nei laboratori
ceri dello stato di San Paolo, in Brasile, “Questo ci presenta un problema to-
talmente nuovo: lavoriamo con compagni con i quali non solidarizziamo per
i crimini che hanno commesso, nonostante ciò sosteniamo con fermezza il
loro desiderio d’inventare un nuovo futuro per loro stessi. Lavoriamo anche
con le guardie di sicurezza – uno di loro porta scritto nella sua bacchetta le
parole “Diritti Umani” –, con i quali non ci identifichiamo nemmeno: i dete-
nuti furono condannati al carcere, non alle umiliazioni e ad altre sofferenze e
i funzionari tendono a far pagare ai detenuti le cattive condizioni lavorative,
il basso stipendio e i pericoli collegati al loro lavoro (...) Le nostre carceri
sono fabbriche di odio” (Boal, 1998: pp. 13-14). La situazione di conflittua-
lità è palese, il contesto funziona “fabbricando” odio e nessuno di quelli che
sono all’interno possono fuggirne. Boal nota che i detenuti hanno “tutto il
tempo del mondo”24 e aggiunge che il Teatro dell’Oppresso crea “spazi di li-
bertà” dove si possono svolgere azioni di emancipazione, che includono il ri-
flettere sul passato, presente e futuro, questo può essere considerato un
“nuovo tipo di evasione”.
Seguendo il testo di Emilio Pozzi e Vito Minoia (2010), che raduna al-
cune esperienze di teatro in carcere in Italia, si possono elencare delle positi-
vità riscontrate. Minoia ci spiega il valore di questo linguaggio nei confronti
dei soggetti a cui è rivolto, ossia ai gruppi socialmente emarginati che fini-
scono in carcere. Il teatro è “particolarmente importante per la natura stessa
delle comunità che si sono costituite nelle carceri, dove confluiscono, accen-
tuandosi, i diversi prodotti dell’odierna emarginazione sociale: i giovani dro-
gati e senza lavoro, gli immigrati respinti dalla miopia delle barriere etniche,
i naufraghi della prostituzione maschile e femminile. Per ciascuna e per tutte
queste categorie che soffrono di una diversità, voluta o non voluta, con mol-
teplici manifestazioni negative, il teatro può esercitare, come dimostrano gli
esperimenti in atto, una profonda funzione di recupero: può portare in super-
ficie le inquietudini dell’inconscio, può enormemente favorire la matura-
zione dei linguaggi e del linguaggio comune, può orientare beneficamente
passioni e desideri, può offrire spazi e possibilità alla creatività da cui nasce,
nei casi più fortunati, anche una nuova personalità” (p. 20). La situazione di
“diversità” esplicita subita da questi gruppi fa sì che l’operazione di teatro in
carcere sia molto delicata. Marzia Loriga fa una descrizione che mette in ri-
lievo un primo aspetto costitutivo del “fare teatro”, della grammatica di
questo linguaggio. In questo caso lo “sciogliersi” e, a posteriori, l’aprirsi agli
altri soggetti sono due movimenti preziosi per ripensare la soggettività, di in-
dividuare nuovi modi per conoscersi, “Ero convinta, e lo sono ancora, che il
di terapia teatrale e nelle performance della drammaturgia di comunità”
http://www.almadeira.it/i/sociale/teatro_sociale.pdf, consultato il 3/11/2011. La
discussione sulla problematicità e le potenzialità di ogni categoria di teatro esula da
queste pagine.
24 Il tempo a disposizione dei detenuti è una delle risorse più importanti in
esperienze di questo tipo.
teatro, in generale, ma in carcere in modo particolare, aiuti molto a liberarsi
dai vincoli psicologici, aiuti a sciogliersi, nei gesti e nelle parole. Aprirsi agli
altri, farsi conoscere meglio e conoscere meglio se stessi. Il confine tra il re-
citare e il viversi è infinitamente sottile” (p. 264). Questa possibilità donata
dall’esperienza teatrale determina un nuovo tipo di atteggiamento che viene
a toccare diversi aspetti: “il detenuto in quanto soggetto sociale all’interno
delle dinamiche di gruppo (rispetto, solidarietà, senso di sacrificio); la sua
maturazione e crescita personale; il suo arricchimento culturale, strumento
fondamentale per la ricostruzione di un sé “presentabile” nei vari contesti so-
ciale; la sua cerchia famigliare... In quest’ottica allora la riflessione sull’im-
portanza dell’inserimento lavorativo versus l’evasione creativa perde di fatto
la sua eterna dicotomia” (p. 234). In questo modo, svela Patrizia Tretel, una
delle problematiche di questo campo, accusato di essere “tempo perso” senza
nessuna valenza utilitaria.
L’utilizzo del linguaggio teatrale nelle istituzioni penitenziarie richiama, a
sua volta, l’aspetto concernente la funzione sociale del carcere nel nostro
contemporaneo. La centralità dell’opera di Foucault (1976) ci è utile per ca-
pire la logica e la dinamica dell’istituzione penitenziaria come roccaforte
della modernità e la dimensione storica che questa possiede; in questo senso,
l’idea di disciplinamento dell’“anima” subentra a quella della tribolazione
del corpo nel passaggio verso la modernità. Ma “Foucault, nell’elaborazione
delle sue concezioni, è debitore nei confronti di Rushe e Kircheimer (Pu-
nishment and social structures, 1939), che hanno messo in rapporto i diversi
regimi punitivi con sistemi di produzione da cui essi ricavano i loro effetti:
così in una economia servile i meccanismi punitivi avrebbero il ruolo di ap-
portare mano d’opera supplementare, di costruire una schiavitù civile a lato
di quella assicurata dalle guerre e dal commercio; con la feudalità in un’e-
poca in cui la moneta e la produzione sono poco sviluppate, si assisterebbe
ad una brusca crescita delle punizioni corporali, essendo il corpo, nella mag-
gior parte dei casi, il solo bene accessibile; la casa di correzione, il lavoro
forzato, la manifattura penale, apparirebbero con lo sviluppo dell’economia
mercantile. Ma, esigendo il sistema industriale il libero mercato della mano
d’opera, l’incidenza del lavoro obbligatorio diminuirebbe nei meccanismi di
punizione durante il secolo XIX, sostituita da una detenzione a scopo corret-
tivo” (Pozzi e Minoia: 54). La questione che emerge, quindi, nel contempo-
raneo, è: Come (ri)pensare il carcere oggi? Se da una parte questa domanda
può essere vista come funzionalista e sistemica, dall’altra parte pretende di
rendere evidente la poca efficacia, non corrispondenza, della funzione so-
ciale odierna dell’istituzione penitenziaria. Prima di buttare il bambino con
l’acqua sporca, quindi, si può trovare un punto di collegamento che possa ri-
baltare le logiche imperanti, da una parte restituire autonomia ai soggetti
“puniti” con nuove grammatiche emancipatrici, dall’altra utilizzare i mezzi
dell’economia capitalista contemporanea per creare nuove comunità, che ab-
biano la felicità come scopo. Operazione che continua a essere compito della
politica, come bene illustra Giorgio Agamben (1996): “La politica è ciò che
corrisponde all’inoperosità essenziale degli uomini, all’essere radicalmente
senz’opera delle comunità umane. Vi è politica perché l’uomo è un essere
argòs, che non è definito da alcuna operazione propria – cioè: un essere di
pura potenza, che nessuna identità e nessuna vocazione possono esaurire
(...). In che modo quest’argìa, queste essenziali inoperosità e potenzialità po-
trebbero essere assunte senza diventare un compito storico, in che modo,
cioè, la politica potrebbe essere nient’altro che l’esposizione dell’assenza di
opera dell’uomo e quasi della sua indifferenza creatrice a ogni compito e
solo in questo senso restare integralmente assegnata alla felicità – ecco
quanto, attraverso e al di là del dominio planetario dell’oikonomia della nuda
vita, costituisce il tema della politica che viene” (p. 109).

Quadro metodologico

L’approccio qualitativo e il percorso etnografico sono stati i modi più


adatti per leggere gli aspetti delle dinamiche di questa esperienza, sia all’in-
terno dell’istituzione penitenziaria sia all’esterno. Per descrivere queste dina-
miche si è inoltre scelto l’utilizzo di diverse tecniche metodologiche per la
rilevazione dei sensi/significati degli attori coinvolti. La prima e più impor-
tante è stata l’intervista semi-strutturata che è servita per far scaturire le nar-
razione da analizzare. Le categorie degli attori che sono stati intervistati
sono: Pubblica amministrazione (l’Assessore alla Cultura del Comune di Ge-
nova, l’Assessore con delega alle carceri della Provincia di Genova, un tec-
nico dell’Assessorato alla Cultura, Turismo e Spettacolo della Regione Li-
guria); finanziatori privati (un responsabile della Fondazione Carige e un
altro della Compagnia San Paolo); equipe artistica (il regista e il musicista);
esperti esterni (alcuni responsabili di esperienze artistiche in carcere); il Di-
rettore del carcere di Marassi; gli agenti penitenziari coinvolti nell’organiz-
zazione logistica della produzione (quelli che hanno un atteggiamento posi-
tivo nei confronti dell’esperienza); i detenuti-attori (coinvolti nella produ-
zione “Pinocchio & Co.” svoltasi a novembre 2011); alcuni rappresentanti
del pubblico (presenti alle suddette rappresentazioni). La seconda tecnica di
indagine sul campo è stata l’osservazione partecipante e non (diverse rappre-
sentazioni di altre esperienze artistiche in carcere, workshop e laboratori tea-
trali, convegni sulla tematica in Italia e in Europa). La terza, il questionario
sottoposto agli spettatori/pubblico durante le rappresentazioni.
L’obiettivo generale della ricerca è stato rilevare, indagare e descrivere
l’esperienza artistica “Scatenati” sviluppata all’interno della Casa Circonda-
riale di Genova-Marassi provando a identificare aspetti, relativi allo sviluppo
(attuale e potenziale) di politiche pubbliche, legati alla cultura come modo di
trasformazione del conflitto (a livello individuale, contestuale e territoriale).
Gli obiettivi specifici, a loro volta, sono stati: rilevare e descrivere come
nasce, si organizza e sviluppa l’esperienza artistica Scatenati; analizzare le
pratiche e i significati che gli attori coinvolti nell’esperienza danno a quelle
pratiche; indagare sui cambiamenti che hanno avuto le persone in situazione
d’internamento carcerario dopo aver partecipato all’esperienza artistica; co-
noscere i principali cambiamenti contestuali e istituzionali che hanno inciso
sullo sviluppo di queste esperienze; identificare aspetti di questa esperienza
che siano potenziali per lo sviluppo di politiche pubbliche relative alla cul-
tura come modo di trasformazione del conflitto (a livello individuale, conte-
stuale e territoriale).
La ricerca intende primariamente rispondere alla domanda sul senso del-
l’agire che hanno gli attori coinvolti nell’esperienza artistica “Scatenati”
della Casa Circondariale di Genova-Marassi nella quale operano. Interessa,
inoltre, capire se lo sviluppo di un dispositivo artistico (teatrale e musicale)
sia efficace al fine di modificare positivamente situazioni di disagio sociale.
Conseguentemente, ci interroghiamo sulle condizioni e sul modo in cui un’o-
perazione di politica pubblica di questo tipo è idonea nel modificare atteg-
giamenti e prassi che si rapportano al come vivere assieme nel modo mi-
gliore e su quali siano le potenzialità a livello individuale, contestuale e terri-
toriale.
Sintetizzando l’ipotesi di lavoro si può dire che: lo sviluppo di dispositivi
di formazione con l’utilizzo di linguaggi artistici (teatrale e musicale) in con-
testi di alta conflittualità (istituzione penitenziaria) produce trasformazioni
positive di tipo relazionale; che il linguaggio teatrale possiede rigide regole
che stimolano la conoscenza del sé, la creatività, il lavoro d’equipe e l’auto-
nomizzazione (processo di responsabilizzazione) del soggetto attraverso la
co-creazione di un prodotto artistico di alto capitale simbolico; che tramite
questi passaggi si catalizza l’energia di un gruppo di attori rivolta a produrre
uno spettacolo da essere presentato al pubblico; che questo incontro spetta-
colo-pubblico aiuta a modificare la percezione che si ha del “mondo-
carcere”, dei “detenuti”, del “pubblico” tramite un complesso flusso emotivo
che s’instaura durante la rappresentazione; che il linguaggio teatrale può ser-
vire – ulteriormente – per facilitare l’interazione sociale quotidiana.

Analisi dell’esperienza
L’analisi si centrerà sul concetto di politica pubblica declinata in: inter-
faccia laboratorio e interfaccia palcoscenico. Saranno descritti, in ogni inter-
faccia, gli aspetti più rilevanti relativi alla trasformazione del conflitto a li -
vello individuale, contestuale e territoriale.
Per quanto riguarda gli attori coinvolti nell’esperienza, questi sono vari
così come i loro rispettivi approcci e funzioni. Quelli appartenenti alla pub-
blica amministrazione agiscono in qualità di promotori e finanziatori (a di-
versi livelli) e vedono questa esperienza come un nuovo tipo di welfare che
utilizza “l’arte, la cultura” per sanare aspetti di tipo sociale. Per quanto ri-
guarda i finanziatori privati, che supportano economicamente il progetto, la
loro percezione è relativa alle “modalità innovative per risolvere certi pro-
blemi”. Infine, quelli appartenenti al terzo settore – nel nostro caso composto
dall’associazione che produce il progetto25, le scuole da dove escono gli altri
attori esterni che fanno parte dello spettacolo assieme ai detenuti attori e l’e-
quipe artistica – vedono questo progetto come un modo per “salvare o redi-
mere” i detenuti.
I suddetti attori collaborano, in primis, costruendo l’interfaccia labora-
torio. Quest’interfaccia attraversa l’istituzione carceraria tramite la presenza
degli esperti artistici che lo portano avanti, mediamente due volte alla setti-
mana, due o tre ore ogni volta, modificando la dinamica carceraria. Questo è
chiamato da Armando Punzo26 la teoria del terzo polo, ovvero la presenza di
un terzo (artista) nella logica binaria (agenti di sicurezza-detenuti) dell’istitu-
zione penitenziaria. Obiettivo finale dell’interfaccia laboratorio è la produ-
zione di quello che chiameremo “macchina artistico-emotiva” per la produ-
zione dello spettacolo.
A questa interfaccia, il laboratorio teatrale, partecipano meno tipi di attori
rispetto alla successiva, l’interfaccia palcoscenico, che prevede in più, ad
esempio, la presenza del pubblico che assiste alla rappresentazione dello
spettacolo nel teatro cittadino. Questo però non elimina la sua importanza
poiché necessaria e funzionale per arrivare al prodotto, allo spettacolo.
Questa interfaccia è importante dato che costituisce il momento d’introie-
zione dei codici del linguaggio artistico all’interno dello “spazio di libertà”
che si crea dentro il carcere.
Il laboratorio teatrale interessa giacché molti detenuti-attori è la prima
volta che vengono a contatto con questa diversa grammatica. La dimensioni
della costruzione del gruppo e le ripetizioni delle tecniche teatrali fungono
come nuova narrazione e punto d’incontro. Il savoir faire sviluppato acquista
un senso trasformativo dopo lo sviluppo dell’interfaccia palcoscenico, rima-
nendo come un’esperienza positiva. Gli aspetti del laboratorio che interes-
sano hanno a che vedere anche con gli sforzi per arrivare allo spettacolo e
con il lavoro portato a termine, con la possibilità di divertirsi tramite nuove
regole e con il riconoscimento che scaturisce della nuova grammatica (rico-
noscimento nei confronti dei responsabili ma anche dei compagni di labora-
torio). Interessa l’aspetto di messa in gioco e di scoperta di nuove potenzia-
lità individuali e di gruppo (dal gioco con la voce, passando dalla memoriz-

25 L’Associazione Teatro Necessario Onlus:


http://www.teatronecessariogenova.org/, ultimo accesso 30/11/2014.
26 Responsabile dell’esperienza “Compagnia della Fortezza” nel Carcere di
Volterra: http://www.compagniadellafortezza.org/new/, consultato il 1/12/2014.
zazione, l’utilizzo del corpo, alle operazioni di creatività come può essere
l’improvvisazione teatrale).
A sua volta, il contesto penitenziario – attraversato dal laboratorio
estraneo alla logica punitiva – fornisce la possibilità di abilitare nuove circo-
stanze che toccano sia i detenuti-attori sia gli agenti di sicurezza. Come con-
seguenza, il carcere conquista un nuovo status dove più attività (falegna-
meria, ad esempio) vengono legate alla produzione creando uno slittamento
del senso di quest’istituzione totale e attivando nuove momenti di convivia-
lità e trattamento di parità.
Quando la “macchina artistico-emotiva” è pronta per lo spettacolo, inizia
la fase dell’interfaccia palcoscenico. I detenuti-attori entrano in teatro per le
prove generali e lì avviene il processo di responsabilizzazione più impor-
tante. Davanti ad una platea di 500/1000 persone si rendono conto del pro-
cesso realizzato fino a quel momento e di quello che deve ancora venire, in
altre parole, l’interazione con ciò che chiameremo la macchina-pubblico.
Il fenomeno intorno al prodotto artistico, alla rappresentazione scenica, e
i rapporti che si creano in quella speciale cornice spazio-temporale che è la
messa in scena dello spettacolo, diventano l’interfaccia principale dell’espe-
rienza poiché tutti gli attori che vi partecipano, in un modo o nell’altro, lì
s’incontrano. La rappresentazione artistica avviene sopra il palco attirando
gli sguardi di tutti gli attori coinvolti: del pubblico, dell’equipe artistica,
della produzione, delle guardie di sicurezza. Il palcoscenico, a sua volta, rac-
chiude gli sguardi di quelli che recitano, cantano, ballano: i detenuti-attori e
gli attori esterni, tutti coinvolti nella rappresentazione. Le logiche e dina-
miche dei linguaggi artistici performativi fanno sì che il momento della
messa in scena diventi il rituale par excellence del processo, in quel mo-
mento tutto si ferma, l’opera – il musical nel nostro caso – s’iscrive nella co-
creazione del fenomeno sociale, si produce l’atto di kátharsis27, abilita e
chiude simbolicamente la trasformazione sociale.
Questa trasformazione è declinata in due livelli, l’individuale (i singoli at-
traversati dall’esperienza, specialmente i detenuti-attori) e il territoriale (le
potenzialità a livello d’integrazione sociale).
A livello individuale, quindi, attiva un processo di responsabilizzazione
etico-estetico, tramite la bellezza della esperienza, l’emozione e la tensione
vissuta sul palcoscenico, compreso il timore o la paura della vergogna. La
partecipazione attiva e il coinvolgimento emotivo donato dalla possibilità di
protagonismo da parte dei detenuti-attori, attraverso la nuova narrazione
messa in scena, sono intrinseci e forniscono una nuova possibilità di espri-
mersi modificando i preconcetti. Le doti che emergono sono: nuove abilità
relazionali; capacità creative; sviluppo di lavoro di gruppo; riadattamento a

27 L’esperto Fabio Cavalli, attivo al carcere di Rebibbia-Roma, utilizza questa


categoria facendo riferimento alla poetica di Aristotele. Kàtharsys sarebbe la
purificazione, il momento dove il dolore e il tempo si fermano.
situazioni non conosciute; apertura a nuove esperienze e ricodifica del vis-
suto; incorporamento di nuove prospettive; aumento delle capacità comuni-
cative; modifica dei pregiudizi verso gli altri; abbattimento di preconcetti del
sé; promozione del lavoro; attivazione dell’altro tramite il divertimento; rico-
noscimento e ringraziamento. Trasformare il conflitto generando una ridistri-
buzione e riappropriazione del capitale creativo, aspetti collegati ad un
nuovo approccio sul soggetto, soggetto incarnato in mutamento, in metamor-
fosi.
Interessa, di seguito, descrivere l’interazione tra le due macchine, canale
di comunicazione che crea la trasformazione. Nell’interfaccia palcoscenico
avviene quello che potrebbe essere chiamato “flusso affettivo” che s’instaura
dalla platea al palcoscenico, di andata e ritorno. Questo flusso si manifesta
negli applausi, nell’attenzione, nelle risate dal pubblico e abilita un nuovo
controllo, di tipo orizzontale, che spazza via il tipo di controllo penitenziario,
panottico28.
Questo “flusso affettivo” viene a completare uno “stato di eccezione” per
i detenuti-attori e aiuta a che in quel periodo facciano emergere una speciale
vitalità, motore della politica pubblica. Con l’interazione, con la nuova pos-
sibilità donata dall’esperienza, tutti quelli che vi partecipano acquisiscono
nuove “prospettive”, guardano l’altro e se stessi da un punto di vista, prima
non possibile, o almeno non in situazioni di nuove ritualità come queste qui
promosse. In questo momento si esplicitano diverse ritualità, ritualità di ria-
bilitazione e d’integrazione sono messe in atto, se questo avviene special-
mente per i detenuti-attori, cionondimeno succede – in linea di massima e
con diversi livelli d’intensità – per tutti gli altri attori che ne fanno parte, la
macchina-pubblico inclusa.
A livello territoriale, quindi, si possono verificare diverse trasformazioni.
La macchina-pubblico, composta da famigliari, amici, studenti delle scuole
medie e superiori e pubblico generale allarga e democratizza la partecipa-
zione, si attivano – nello stesso tempo – due livelli d’integrazione, da una
parte integrazione dei detenuti-attori alla società tramite l’apparato artistico e
dall’altra integrazione di una nuova comunità che condivide l’esperienza del
teatro in carcere e di una nuova matrice che vede nella rappresentazione l’e-
pifania della trasformazione a due facce, la consapevolezza dell’atto restau-
rativo di una nuova comunità che salva se stessa tramite il linguaggio arti-
stico, l’esodo della macchina artistica-emotiva e della macchina-pubblico 29.
28 Con logica del “panottico”, teorizzata da Michael Foucault (1976) a partire
degli aspetti di Jeremy Bentham, si andrà a “curare” le anime e a sorvegliare il
corpo. Questo regime prevede un nuovo tipo di controllo dall’alto, dove lo sguardo
del singolo detenuto non riesce a cogliere l’assenza-presenza del custode.
29 “Con l’esodo s’intende una politica radicale che non vuole costruire un nuovo
stato. In breve, è solo questo e, quindi, si trova lontano dal modello delle rivoluzioni
che vogliono prendere il potere, costruire un nuovo stato, un nuovo monopolio della
decisione politica; al contrario, è, in ogni caso, per difendersi dal potere e non per
Perché ciò avvenga è importante tenere conto di alcuni aspetti che vanno
evitati: In primo luogo, la spettacolarizzazione del disagio, molte volte ac-
compagnata da una breve riflessione di tipo drammaturgica: i detenuti attori
non “dovrebbero” recitare il ruolo del “detenuto” sopra il palcoscenico. In
secondo luogo, la dimensione professionale del progetto e l’attitudine pro-
fondamente “laica” che dovrebbero essere alla base di ogni progetto di
questo tipo. Infine, l’attenzione alla banalizzazione e l’utilizzo anestetizzante
di questi operati nonché il lavoro con la macchina pubblico per renderla con-
sapevole della trasformazione.

Conclusioni
È efficace il linguaggio artistico-teatrale perché, come dispositivo di pen-
siero-azione, viene a stimolare diverse situazioni che non appartengono alla
quotidianità, l’interfaccia laboratorio e quella palcoscenico diventano una
novità per la sua trasversalità poco sfruttata dalla politica pubblica. Ciò che
avviene è anche una palestra di produzione di nuove convivialità tramite la
produzioni di nuove narrazioni che ha delle risonanze pratiche nel quoti-
diano individuale e contestuale e delle potenzialità per la società tutta.
Se, seguendo Carlos Giménez (2010: 145-150), la mediazione comuni-
taria la intendiamo come un processo che si compone di varie azioni (cultu-
rali, sociali, formative, ecc.) che ha come obiettivo lavorare sul territorio e
con il territorio per passare dalla coesistenza alla convivenza, aggiungendo
un principio di interazione positiva, questo tipo di operazione culturale ne è
un creativo esempio con una alto potenziale nella trasformazione sociale.
Tornando al caso genovese, questa “visione politica” si trova potenziata
dal momento in cui si sta costruendo un vero teatro all’interno della Casa
Circondariale di Genova-Marassi. Come proposta innovatrice si potrebbe
ipotizzare la nascita di un “centro di ricerca sui linguaggi artistici per la tra-
sformazione del conflitto”, facendo un movimento semantico-strutturale da

prenderlo” (Virno, 2003: 128). E continua: “L’esodo non è un tornare indietro ma un


congedo della terra del faraone; la terra del faraone fu fino una o due generazioni fa,
lo Stato nazionale, oggi la terra del faraone è lo stato del mondo e gli stati nazionali
sono come gusci vuoti, come scatole vuote e, quindi, su di loro esiste una carica
emotiva che, ovviamente, è molto pericolosa, perché corre il rischio di trasformarsi
in xenofobia prima o dopo, o, comunque, in una attitudine rabbiosa e subordinata
allo tempo stesso: rabbia e subordinazione insieme, base dei diversi fascismi
postmoderni” (p. 136).
istituto penale a istituto culturale30 e combinando linguaggi artistici, la me-
diazione (tra pari) del conflitto e nuovi corsi d’imprenditorialità.
L’obiettivo finale è sempre quello della ricerca della felicità, soltanto pos-
sibile a livello collettivo, mai individuale, dove la dimensione conflittuale
deve essere parte costitutiva del percorso stesso. Sarà quel sentire che la tra-
sformazione è possibile, l’indicatore di felicità medesimo e la creatività
come modo di ripresa di un concetto caro alla modernità, quello di pro-
gresso, aggiornandolo, ri-significandolo ai nostri tempi e progettandolo al fu-
turo.

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La arteterapia como herramienta de mediación
comunitaria
Enrico Cirla Bracchi y Arantxa Vilar Lopez -
Universidad Pompeu Fabra

Introducción: El Raval, el colectivo de las trabajadoras


sexuales y el Servicio Àmbit Dona
Estar en el barrio del Raval es sumergirse en un sinfín de culturas, formas
de ser y posibilidades. Hay quien lo define como un Universo imposible,
donde conviven carnicerías de toda la vida con repostería paquistaní, música
latina y peluquerías africanas. El Raval se encuentra en el corazón de
Barcelona y su Sur se convirtió hace décadas en la zona roja, debido al
surgimiento de conflictos sociales como el tráfico de drogas o la
prostitución. Dicen que la prostitución es una de las profesiones más
antiguas del mundo. De hecho, en el año 1400 ya existían en Barcelona
burdeles tolerados y protegidos por el Gobierno, aunque bajo un control
municipal y real. Barcelona tenía una buena posición económica y comercial
y la llegada de negociantes extranjeros comportó al mismo tiempo una
mayor demanda de trabajadoras del sexo. Desde entonces la prostitución ha
sido un símbolo característico del barrio y un colectivo activo y presente en
la comunidad.
Tras la puesta en marcha de la Ordenanza de Civismo del 2006, destinada
a perseguir actividades como beber, orinar en la calle o ejercer la
prostitución en la vía pública, se legitimó la prohibición de la prostitución en
la vía pública aplicada ya de facto antes de ésta. La Ordenanza agrava la
vulnerabilidad de las trabajadoras sexuales y su exposición a distintas
violencias. “La Ordenanza permite el abuso de los agentes, genera violencia,
desempoderamiento, pérdida de redes sociales y autoestima” (Garcia
Grenzner 2012). Además, la Ordenanza vulnera de pleno el derecho a la libre
circulación y a la no discriminación de las trabajadoras sexuales. Por otro
lado, la ordenanza de civismo de Barcelona aprobada en el Boletín Oficial de
la Provincia (Bopb) el 1 de agosto de 2012, prohibió la prostitución callejera
con multas de cantidades elevadísimas.
En este escenario urbano de gran intensidad social, está el servicio Àmbit
Dona, un servició que depende de la Fundación Àmbit Prevenció, y que tiene
como objetivo ayudar al colectivo de trabajadoras sexuales del Raval
ofreciéndoles asistencia socio sanitaria y también un lugar cálido en el que
descansar y estar.
Definir el espacio de Àmbit Dona es difícil. En un antiguo almacén se
aglutinan infinitas historias y una multiplicidad de formas de ser que hacen
de él un lugar distinto. Las usuarias de Àmbit Dona son trabajadoras
sexuales, un colectivo que debe afrontar diariamente la mirada de los otros y
la discriminación social; muchas de las mujeres que ejercen la prostitución
viven como esclavas, formando parte de redes organizadas que las
mantienen sin movimiento; la inexistencia de una red familiar y social; un
nivel académico muy bajo; el riesgo de enfermedades de transmisión sexual;
el estrés psicosocial derivado, en la mayoría de los casos de un proceso de
migración y una situación de marginalidad; trastornos psíquicos como
ansiedad o depresión y por último violencia física, psíquica o sexual a la que
muchas están sometidas.

Objetivos
Se plantea un proyecto de mediación comunitaria que tenga como
finalidad principal transformar la relación y la comunicación de las usuarias
del centro, así como su relación con su entorno, a través de acciones que
tengan como metodología base el proceso artístico y puedan adaptarse al
espacio abierto, el horario flexible y el tiempo de las usuarias en el centro.
Para el proyecto operativo se han desarrollado los siguientes objetivos
específicos:

➢ Trabajar el empoderamiento de las usuarias de Àmbit Dona;


➢ Crear un espacio de autoconocimiento, conocimiento del otro y del
entorno, favorecer el respeto mutuo y la aceptación de los diferentes
a través del Arteterapia;
➢ Posibilitar una distinta forma de estar en el mundo y de vinculación
con el otro;
➢ Mejorar la convivencia a un nivel comunitario, mejorando la
comunicación y relación con las Instituciones, comercios y vecinos
del barrio;
➢ Generar espacios comunitarios de trabajo y acciones conjuntas que
funcionen como espacios inclusivos.

Marco teórico: la Mediación Comunitaria


Cuando hablamos de comunidad nos referimos a una asociación
espontánea o voluntaria, creada entre los individuos que por distintos
motivos (sociales, territoriales, objetivos comunes u otros) construyen una
relación de dependencia entre sus miembros.
El conflicto comunitario y, por ende, la mediación en el escenario
comunitario se sitúan en la cotidianeidad, en el espacio en el que vivimos,
actuamos y aprendemos, en el encuentro de grupos que conforman la
sociedad y donde juegan un papel importante los intereses, los afectos, los
valores y la moral de éstos. Así, el concepto de grupo es uno de los puntos
centrales de la mediación comunitaria. Según Pichón Rivière (1993), el
sujeto es producido por los grupos por los que ha pasado en su vida. Así, la
mediación comunitaria trabaja con el individuo y con el grupo, como
entidades independientes pero conectadas al mismo tiempo, por no existir
uno sin el otro.
Los conflictos en la comunidad son conflictos complejos. Nató,
Querejazu y Carbajal (2006) escriben al respecto lo siguiente: la alternativa
de intervenir en un contexto determinado, constituido espontánea o
voluntariamente, exige indagar acerca de cuestiones diversas y
fundamentalmente, de sus particularidades específicas. La comprensión y el
conocimiento de realidades concretas abren la posibilidad de pensar y de
llevar adelante procesos de intervención más efectivos a fin de hacer un
aporte positivo a la construcción de una buena convivencia.
Arteterapia: el proceso artístico como proceso creador
Una de las autoras que más han investigado y escrito en el campo de la
Arteterapia para la inclusión social, López Fernández Cao (2006), escribe
que a través del proceso creador se reflexiona sobre el desarrollo de los
conflictos personales e intereses de los individuos.
El lenguaje artístico se configura como una herramienta ideal para
debilitar las defensas que obstruyen el proceso de subjetivación y la relación
entre el individuo, sus grupos y su pertenencia a la sociedad. Los medios
plásticos permiten a las personas empezar a expresar preocupaciones que los
límites del lenguaje verbal han silenciado. Las expresiones no verbales
ocupan el lugar de la puesta en forma de lo impensable, lo indecible,
modificando la posición del sujeto en cuanto a la propia subjetividad de las
personas para situarse entre la actividad creadora y la proyección de lo que
fue alguna vez.
La arteterapia debe entenderse desde la perspectiva de la creación y no
desde la creatividad. Y este matiz es importante para delimitar el marco
teórico de este artículo y del proyecto llevado a cabo. La creatividad se
define como el conjunto de predisposiciones del carácter y del espíritu que
pueden cultivarse en cualquier momento de nuestra vida. Y, por otro lado, la
creación consiste en inventar y componer una obra, artística o científica. Al
mismo tiempo, tal creación responde a dos criterios importantes: aportar algo
nuevo y ver reconocido su valor por otras personas.
La arteterapia utiliza el arte como proceso de creación, no como modelo
de creatividad a imitar por los sujetos implicados. La creatividad nace donde
existe un vínculo, mientras que la creación nace donde no existe este
vínculo; y por ello, la arteterapia construye sobre lo inexistente, aceptando la
tensión de no saber qué hacer en algunos momentos, e incluso de no saber
quién es uno.
La creación artística brinda un espacio activo de escucha y diálogo,
fortaleciendo la identidad y la autoestima, incrementando la autonomía
personal, favoreciendo la toma de decisiones propias y la tolerancia a la
frustración.
El trabajo arte-terapéutico funciona como creación de la diferencia, pero
no como una contradicción del sujeto, sino como separación de lo semejante
en él. Como cambio de lo que existía. El espacio real habilitado para las
sesiones arte terapéuticas se convierte en un espacio simbólico donde se
puede crear una nueva narrativa, escribir un nuevo texto, como escribe Del
Río (2009) un cauce para la elaboración y la descarga, para la intensificación
de lo particular, del silencio o la deriva; para el des-cubrimiento de un
imaginario significativo, vinculado a la forma de estar, de ser el sujeto en el
mundo.
Desarrollo de la intervención, la creación del vínculo:
legitimación del mediador, del proceso y del espacio
La primera parte del proyecto estuvo dirigida a la creación de un vínculo
y a la legitimación del mediador, proceso y espacio. Las usuarias han
trabajado de forma individual en la mayoría de las ocasiones. La
metodología empleada ha sido la arteterapia. A través de la pintura, las ceras,
los lápices de colores, el collage, el barro y/o la palabra las usuarias han ido
construyendo el mapa de lo que sentían y pensaban, y lo han podido expresar
en un lugar de confianza y seguro, donde el mediador las ha podido acoger y
escuchar.
Las sesiones duraban aproximadamente una hora y media. Y mediante los
recursos disponibles en la sala el objetivo era facilitar y posibilitar la
expresión de las usuarias a través del lenguaje artístico.
Uno de los objetivos principales de esta primera etapa fue legitimar el rol
del mediador como alguien desde el que poder transitar. Lo más importante
en el inicio del trabajo es posibilitar a las usuarias hacer y ser desde otro
lugar. El proceso creativo ayuda a esta posibilidad de reconstrucción. Y al
mismo tiempo facilita el autoconocimiento y el conocimiento del entorno,
intentando recomponer o componer el vínculo con el mundo, con el otro y
con uno mismo.
Otro de los objetivos fundamentales de esta primera etapa fue delimitar
bien la finalidad de la misma y lo surgido en ella. En la primera fase, aunque
a simple vista pudiera parecer formalmente un taller de arte, ésta no era su
finalidad principal. Como se ha apuntado al inicio, la legitimación del
profesional, del espacio y del proceso es el centro de este inicio. Una buena
praxis para delimitar este trabajo inicial es la diferenciación de dos tipos de
creaciones que pueden surgir durante las sesiones. Por un lado existen obras
que corresponden a la expresión de algo íntimo y que, por tanto, debe
quedarse en la confidencialidad entre usuaria y profesional. Al contrario
pueden surgir otras producciones que correspondan con el deseo de ser
observadas por los otros, y que quizás respondan al deseo de las usuarias de
ser escuchadas por los otros y el entorno. Así, mientras unas funcionan como
la expresión de algo que debe ser estrictamente respectado y “mimado” por
el profesional, otras pueden representar una cosa bien distinta, funcionando
como metáfora de su deseo de reconocimiento por los demás y suponiendo
una cálida inyección de autoestima. Y es aquí donde la diferenciación
realizada a través de la respuesta-acción del profesional debe ser
cuidadosamente coherente y acertada con la necesidad emergente.
Algunas de las creaciones se han guardado en un cajón del despacho
mientras que otras han sido expuestas en un pequeño museo creado por
trabajadoras y usuarias de Àmbit. Esta primera fase ha sido larga y ha durado
varios meses. El momento en el que se decidió pasar a la segunda fase fue el
día en el que se construyó un rincón para crear, inmerso en el caos del
centro. En medio de todo y de todas, se creó un espacio para poder crear y
estar de forma distinta. Y esta fue la señal que guió al proyecto a la siguiente
fase.

Acciones destinadas a lograr el empoderamiento


de las usuarias de Àmbit Dona: el árbol de lo que sentimos
Las usuarias encontraron un árbol deshojado en la calle, cerca del centro.
Y a partir de ahí, se intentó pensar cómo reconstruirlo. Una idea que en aquel
momento pareció bastante simbólica con lo que ocurría en el proceso. El
árbol abandonado se convirtió en un acto creativo que tuvo como
protagonistas el color y el sentimiento de cada co-creadora. Desde otra
posición a la inicial, cuando ya se han descubierto un poco más a ellas, a sus
capacidades y posibilidades, cuando confían en el profesional y empiezan a
percibir el entorno como un lugar en el que poder ser, el reto es co-construir
o co-crear algo entre todas. Solamente se trabajó a través de una consigna:
cerrar los ojos y pensarse como color. Una vez abiertos los ojos se trataba de
identificar el color en la mesa y pintar lo que quisieran en una de las hojas en
blanco. Al finalizar la creación, las usuarias debían escribir el sentimiento
que rápidamente les viniera a la cabeza en aquel instante. Y así, poco a poco
se construyó el árbol de lo que sentimos (ver figura 1).
Una de las usuarias propuso sacarlo a la calle. Las demás usuarias
estuvieron de acuerdo. De esta forma, “plantaron” el árbol de lo que
sentimos en la puerta del centro, en la calle, como un pequeño pero intenso
mensaje que decía al barrio: estamos aquí.
El cuento de todos
La segunda acción está inspirada en El gran poema de nadie, realizado
por el arte-terapeuta Dionisos Cañas, y que se realizó entre los años 2002-
2010. El Gran Poema de nadie se ha realizado en Madrid, en Cuenca, en
Barcelona, en Francia y en Marruecos. En abril se celebra en Cataluña el día
de Sant Jordi y esta fecha sirvió al proyecto como plataforma para hacer que
las usuarias participaran activamente en él. La Fundación cuenta con una
parada en la Rambla del Raval, uno de los sitios más emblemáticos y
conocidos del barrio. El eje de esta intervención es la creación de un cuento
entre todos, tanto las chicas del centro como la gente del barrio y ajena al
centro. La idea de crear un cuento participativo es una obra de carácter
abierto cuyo carácter es al mismo tiempo un detonador visual y un incitador
de la comunicación humana. Uno de los objetivos más importantes de esta
intervención fue hacer sentirse a las usuarias del centro parte de la
comunidad donde viven, a través de formar parte de una creación conjunta
que va más allá de las paredes de Àmbit. Así, lo importante no es lo que
quede escrito en el papel ni la conservación de éste, sino el proceso de su
realización y la interacción social y cultural que se realiza durante su
creación. A su vez, el cuento comunitario funciona como un desacralizador
del arte, ya que aproxima a todo tipo de persona al acto artístico.
La primera fase de esta intervención consistió en construir con cartón y
cartulinas libros grandes. Las chicas pusieron el título en cada uno de los
cuentos y sabían que en la siguiente fase se expondrían en la calle el día de
Sant Jordi y que la gente estaría invitada a escribir, como ellas.
La segunda fase consistió en exponer los libros creados por las usuarias e
invitar a las personas que se acercaban a ellos a escribir su parte de la
historia. Durante todo el día se crearon tres libros y en ellos escribieron
niños que se acercaban con sus maestras, gente mayor que se acercaba por
curiosidad y acababa participando, jóvenes, parejas, gente de todas partes del
mundo y algunas usuarias del centro. El resultado fueron tres libros
titulados: La vida, Los mejores días de nuestra vida y Party (ver figura 2).
La tercera fase retomó lo creado en la calle y se mostró a las usuarias. En
este momento se abrió un diálogo de reflexión entre el mediador y seis
usuarias, tres de las cuales habían participado en la primera fase de creación
de los libros. Esta puesta en común suscitó la sorpresa y el asombro del
resultado de los libros. Las usuarias no podían creerse que tanta gente
hubiera querido escribir en sus páginas. Pero sobre todo surgió la energía
para escribir los dos libros que no habían sido escritos y aún permanecían en
blanco. Al finalizar esta última fase, que duró casi 4 horas, las usuarias
decidieron preguntar al centro si podían exponer sus libros en estantes del
pasillo común; y así se les dejó hacer.
El arte de habitar
Catalina Rigo, profesora experta en educación artística y arteterapia,
escribe el libro Transformar el entorno. La autora trabaja a partir de la obra
de la fotógrafa Ouka Leele, uno de los símbolos de la movida madrileña, que
trabaja con obras fotográficas creadas inicialmente en blanco y negro, para
poder ser reinterpretadas y pintadas después. Según la misma autora, su
trabajo busca constantemente crear nuevos mundos dentro de la realidad.
Y nace de este encuentro literario la idea de poder trabajar una
intervención titulada “El arte de habitar”. El objetivo principal de esta acción
es transformar en un espacio simbólico la realidad externa. Además, trabajar
la percepción del entorno de cada uno de una manera distinta a través de
establecer un diálogo que sea capaz de modificar lo dado. La intención de
este trabajo es posibilitar la participación activa de las usuarias en el entorno,
reflexionar sobre cómo observa uno mismo y cómo observan los otros y
finalmente legitimar las decisiones, las versiones y el trabajo de las demás
usuarias, y el propio.
En primer lugar, se tomaron infinitas fotografías del entorno próximo de
las usuarias: la mayoría de ellas en el mismo barrio donde conviven y
algunas del centro. Luego, entre los distintos profesionales del centro se
escogieron las cinco fotografías que serían utilizadas en la intervención. La
elección se basó en distintos criterios, valorándose por encima de todo el
impacto de las imágenes dadas, cuidando que el acercamiento a la
transformación pretendida fuera gradual y, sobre todo, cuidadosa. La primera
fotografía escogida era la representación de una de las calles del barrio, pero
podría haber sido la calle de cualquier barrio. La primera fotografía era el
anclaje de las usuarias con esta intervención, un tanto más reflexiva y
compleja que las dos anteriores. La segunda fotografía escogida acercó a las
usuarias al barrio del Raval, representando dicha fotografía una de las calles
más populares del barrio: la calle San Pau. La tercera imagen fue escogida
para un momento más evolucionado de la intervención ya que en ella
aparecía una figura importante en el día a día de las usuarias: la policía. La
cuarta fotografía introdujo el concepto de la mujer en la calle a través de
unas pinturas callejeras, representaciones de mujeres. Con esta cuarta
fotografía la intención de los profesionales fue conseguir una última visión
más introspectiva del entorno a través de su papel como mujeres en el barrio.
Y finalmente, la última fotografía representaba uno de los rincones del
centro, donde las usuarias conviven.
Mediante la exposición de una fotografía en blanco y negro, el trabajo
consistió en proponer la transformación material de ésta. En la mesa se
expusieron todo tipo de materiales artísticos (pegatinas, pinturas, acuarelas,
ceras, rotuladores, recortes de palabras, de imágenes, cartulinas de colores y
pegamento). Con ello la misión de las usuarias era crear la versión de su
historia en la imagen dada (ver figuras 3 y 4).
Esta intervención se realizó en seis sesiones. Una sesión para cada una de
las fotografías. Al finalizar cada sesión, se abría un espacio de puesta en
común para compartir lo realizado y hablar sobre ello. Además, se propuso
una última sesión para poner en común todo lo realizado durante ese tiempo
y compartir una visión de lo ocurrido entre las usuarias. Algo que funcionó
muy bien fue finalizar esta intervención realizando la pregunta del milagro.
Así se propuso a cada una de las usuarias que participaron en esta última
sesión que cerraran los ojos e intentaran expresar cómo sería su mundo
ideal si estuviera en sus manos cambiarlo. El resultado fue una cartulina
dibujada y escrita con mensajes distintos.
El acto de pintar sobre una fotografía, modificando lo dado con ayuda de
los recursos plásticos de que dispusieron, fue una forma de establecer un
diálogo, una vía de comunicación con la realidad y a través de la obra, de la
creación que despertó la vía del autoconocimiento, el conocimiento y del
pensamiento reflexivo y crítico común. Así, creación, acción y reflexión
interactúan de forma que no existe una sin la otra.
En busca de “nuestro yo artista” y del reconocimiento
La participación en un proceso artístico ayuda a la cohesión social, ya que
permite a los individuos y al colectivo crear nuevos modelos de diálogo y
convivencia desde un lenguaje artístico. Un trabajo artístico conjunto puede
crear las condiciones necesarias para que emerja de las diferencias una nueva
dinámica de aceptación mutua. Uno de los retos más importantes del
proyecto implica buscar y atraer la participación de la comunidad (vecinos,
comerciantes, instituciones). Y el intento de transformar la convivencia,
pasando por transformar la mirada hacia el otro y la mirada del otro. Hasta
este punto del proceso hemos estado hablando de nosotros y del otro, en este
punto nos aproximamos a hablar con el otro.
Con esta finalidad se ha trabajado para detectar un anclaje lo
suficientemente imparcial para posibilitar un cambio conectando ambos
mundos o ambas realidades en un primer espacio inclusivo donde poder
articular las diferencias.
Este personaje clave es una vecina de la misma calle, llamada S, que tiene
un taller de Arte. Su profesión hace que el tránsito del espacio de las usuarias
al suyo sea más fácil para éstas, ya que al fin y al cabo seguirán trabajando a
través del lenguaje artístico. S funciona en este punto del proceso como un
quien estratégico, como un tercer aliado que impulsará el cambio y
posibilitará la creación de nuevos espacios. La intervención está previsto que
se realice en dos fases:
1) Una primera fase en la que se llevará a cabo un proceso de creación a
través del arte en el taller de S. En este proceso de creación la selección de
las participantes jugará un papel clave: participando mujeres de la Fundación
y otras mujeres ajenas al mundo de la calle. La mezcla de mujeres se formará
con la intención de ser un grupo manejable que pueda generar cosas en un
espacio de movimiento, de creación, como plataforma sostenedora de
realidades, diferencias, reflexión y apertura al cambio.
2) Una segunda fase está pensada para que el taller de Arte de S sea una
plataforma de nuestro Yo artista, a través de una exposición temporal con
obras seleccionadas expresamente. Las usuarias podrán presentar sus obras
de arte con la finalidad de constituirse en el rol de Yo artista. Y eso intentará
configurarlas mediante otra forma de definirse y posicionarse en el mundo. Y
a la vez el entorno las reconocerá en este rol, también como otra forma de
ser y estar, intentando que dicho acto funcione como una ampliación de
visiones y versiones.

Reflexiones conclusivas
La primera etapa del proyecto estuvo centrada en legitimar el profesional,
el espacio de trabajo y el proceso. El escenario donde se ha desarrollado el
proyecto (el servicio Àmbit Dona) es un lugar caótico y, como en todo caos,
es difícil encontrar un orden y un lugar. Transitar en el caos ha sido uno de
los retos más grandes del proyecto para lograr la legitimación necesaria. Un
caos que define el colectivo con el que se ha trabajado pero que también
define la institución que apoya el proyecto. Así, legitimar el rol del
profesional, tener la confidencialidad que se merece lo que surge, ofrecer
seguridad y confianza en el proceso dentro de un espacio donde los techos
no existen y nadie tiene una sala propia ha sido uno de los objetivos más
difíciles de lograr.
La primera fase ha sido la más larga en el tiempo, pero a la vez la más
importante. Las usuarias llegaron al proyecto con una autoestima muy baja,
con un alto grado de desconfianza por lo planteado, con muchísimas
resistencias y miedos.
Durante las sesiones individuales pudieron expresar tales resistencias,
miedos, desilusiones y desencuentros que a veces no fueron fáciles de
manejar.
La primera fase duró todo el tiempo que las usuarias necesitaron para
adquirir confianza. El éxito de esta primera fase tuvo que ver con una de las
premisas básicas del trabajo arte-terapéutico: lo importante no es la
producción plástica sino el proceso de elaboración. Y el cuidado de esto en
esta primera etapa fue crucial. El acompañamiento del proceso, el respeto
hacia lo creado, la confidencialidad de lo creado y la acogida de lo
expresado posibilitó la creación del vínculo profesional-usuaria.
No obstante, dicha premisa, importantísima en Arteterapia, debería
aceptar excepciones en algunas partes del proceso y, sobre todo,
dependiendo del colectivo, y por lo tanto, de sus necesidades. Existen
algunas dinámicas donde el arte sí que puede ser utilizado como resultado
final y estético, pues algunas obras pueden exponerse con el objetivo de
fomentar la autoestima a las usuarias o participantes. Las consideraciones
estéticas no deben descartarse por completo, sino más bien fomentarse en la
medida de lo posible y siempre que sea coherente con el proceso iniciado y
con el marco de referencia. En la primera fase del presente proyecto la
creación de un espacio público donde se mostraron las obras seleccionadas
por las usuarias posibilitó en gran medida el avance de la intervención.
Además, favoreció a la revalorización de las usuarias, aumentando su
autoestima al ser y sentirse protagonistas de lo creado.
En las sesiones individuales también se trabajó el empoderamiento de las
usuarias, mediante las creaciones artísticas, moldeando sus vidas, creando
días distintos, modificando sus historias a través de cuentos o dibujos
ficticios que posibilitaban escenarios desconocidos, y nuevas formas de
enfrentarse a sus miedos y sufrimiento. Del espacio individual las usuarias
pasaron a crear un espacio al que se bautizó como el rincón para crear, y que
fue el resultado de la motivación de las usuarias para construir algo juntas y
salir del espacio individual creado en la primera fase.
La creación del árbol de lo que sentimos fue una puesta en común de
todo lo vivido en la primera etapa. Con ello las usuarias participantes
parecían dispuestas a observar lo creado por otro, y con ello, su forma de
pensar y sentir. El árbol de lo que sentimos fue la primera actividad en la que
las usuarias trabajaron juntas.
La construcción de un árbol que contenía una hoja de cada usuaria, con
su color y con su forma de sentir, fue el inicio de crear un lugar legítimo para
cada usuaria. El árbol de lo que sentimos fue la creación de una nueva
historia, conjunta. Y a su vez, posibilitadora de cambios.
Y aunque en esta primeriza acción hablar de haber conseguido el
reconocimiento parece osado, es cierto que supuso una apertura al mundo
del otro y una intención de querer integrarse en una única creación. Quizás,
en esta primera acción conjunta logramos la primera fase del
reconocimiento: la consideración del reconocimiento, ya que las usuarias
tomaron conciencia de lo que sentían las otras, y sus deseos. Y puede que
también existiera el deseo de conferir reconocimiento, pues al fin y al cabo
el resultado de la segunda fase fue “plantar” el árbol en la calle como un
deseo de ser escuchadas, todas.
Un acercamiento que llevó al proyecto y a las usuarias a la segunda
acción (el cuento de todos). Una acción que supuso un número más alto de
participación que en la anterior. El cuento de todos significó, en el marco del
proyecto, un cambio en la trama de la historia. La realidad humana se
construye a través de las relaciones con los otros, a través de la
comunicación humana. Así, mediante la creación de cuentos colectivos y
comunitarios y a través de la relación ficticia del cuento inventado se
construyó una historia donde todos formaban parte y tenían cabida: niños,
usuarias, gente joven, vecinos, inmigrantes, trabajadores o estudiantes. Lo
importante del cuento de todos fue su proceso de realización y la interacción
social devenida. Se produjo una colaboración social que perfectamente
puede extrapolarse a otro terreno y a otro escenario cotidiano. Así, nuestro
yo se construye a través de las historias que contamos y que cuentan otros.
Pero tales historias son dialogables y negociables.
Aunque las tres acciones planteadas en la segunda fase estuvieran
encaminadas, entre otras metas, al empoderamiento de las usuarias, esta
segunda acción supuso un paso gigantesco en esta dirección. Durante la
primera sesión, en el centro, cuando las usuarias echaron los “cimientos” de
lo que sería cada uno de los cuentos, y construían con cartón y papeles las
distintas estructuras, no quisieron participar en escribir un cuento entre
todas. A la vuelta, cuando observaron lo escrito por gente ajena, y por
algunas de sus compañeras del centro, decidieron escribir dos cuentos. La
respuesta del otro había generado en ellas una inyección de autoestima que
las fortaleció y las motivó a ser ellas las escritoras efímeras de una historia
nueva.
Finalmente, El arte de habitar volvió a hacer hincapié en la legitimación
de cada una de las usuarias frente a la realidad compartida. La creación de
cada una de las usuarias supone una visión y posición válida y merecedora
de escucha y respeto. Una escucha y respeto que se tuvo en cada una de las
sesiones realizadas. A su vez, El arte de habitar ha supuesto un juego de
distintas narrativas: por una parte, la narrativa dada o conocida desde fuera
(fotografía que se encontraban en la mesa); por otra parte, la narrativa de
cada una de las usuarias (que transformaba la narrativa dada); y finalmente,
la narrativa del otro que decide crear el otro. Así, al mismo tiempo que se
produce la legitimación de cada una, y de nuevo de un lugar en el proceso, se
crean historias distintas, alternativas que en un principio descolocan, como
todo caos, pero que luego invitan a una reflexión y a una forma de construir
distinta.
La creación se convierte en el puente que va de lo conocido a lo
desconocido. El espacio de creación ha actuado en todas las acciones como
aquel espacio simbólico que permite crear una nueva narrativa. Atreverse a
crear sobre la realidad (a veces conflictiva) ha construido un escenario
temido, de refugio, de contradicciones, de angustias y también de recuerdos
o proyecciones que a la vez ha permitido entrar en un espacio de caos
creador, sin el cual la construcción de nuevas creaciones (y realidades) no
hubiera sido posible.
Esta tercera actividad retoma la idea de reconocer al otro como alguien
con necesidades, miedos y deseos. Las usuarias han reconocido en la versión
transformada de cada una de las demás usuarias, sus miedos, sus
necesidades, sus opiniones y su construcción del entorno. Conjuntamente
han debatido acerca de lo que se podría intentar hacer y han compartido
experiencias. El arte de habitar ha despertado en el espacio de creación
común un pensamiento reflexivo y crítico. Al finalizar cada sesión las
usuarias compartían experiencias y opiniones con las demás y con el
profesional.
La última fase está prevista desarrollarse en enero de 2015. La idea de
crear un espacio de creación y a la vez un espacio de exposición fuera del
espacio de Àmbit responde a dos objetivos importantes: por un lado, seguir
expandiendo el concepto de espacio inclusivo, como plataforma de
reconocimiento y como generador de nuevas posibilidades, dentro de un
marco de creación artística que siga posibilitando la expresión de los
participantes. Y por otro lado, la asunción por parte de las usuarias, mediante
el arte también, de un rol distinto al que ocupan en la comunidad.
Respondiendo este último propósito a la idea de entender el espacio de
creación como el espacio de lo posible y de comprender que cada sistema
tiene unos personajes que ocupan un determinado rol, pero que cambiando la
historia dada, podemos llegar a percibir al otro como alguien diferente y
legítimo, al mismo tiempo que construimos una historia distinta que sitúe a
las personas en distintos lugares.
El proyecto pone en acción la fuerza proyectiva de cada uno de nosotros
en el mundo, en el entorno y en los otros. A su vez trabaja la gran
complejidad de aceptar al otro, distinto, y a la misma vez ofrece
herramientas para ser capaz de danzar con él. De tú a tú. Intentando encajar
los pies para no pisarse mientras se baila. Es un proyecto de cambio, de
aceptación del diferente, del igual, del otro y de uno mismo. Un proyecto
que se propone lograr una mejora y/o transformación interna y externa; un
proceso comunitario, grupal y personal. E intenta, desde lo más íntimo,
mejorar el espacio de todos. Es un proceso de ser y de estar distinto. De
hablar y dialogar. Un proyecto que está en marcha y que de una forma u otra
creo que debería permanecer abierto siempre, ya que como escribe Joan
Miró: Un cuadro no se acaba nunca, tampoco se empieza nunca, un cuadro
es como el viento, algo que camina siempre y sin descanso.

Logros obtenidos y desafíos futuros


➢ A través de las acciones realizadas se ha conseguido el
empoderamiento de las usuarias de Àmbit Dona;
➢ La arteterapia ha posibilitado la expresión, la escucha activa, el
diálogo; y la creación de las mujeres de Àmbit Dona ha facilitado el
autoconocimiento, conocimiento del otro y del entorno;
➢ La Arteterapia ha favorecido el proceso de aceptación del otro a
través de un espacio de creación inclusivo, donde se han compartido
espacio, materiales y vivencias;
➢ Desde que se inició el proyecto el servicio Àmbit Dona ha reducido
el número de conflictos entre las usuarias y la intervención en estos
conflictos por parte de los distintos profesionales ha disminuido;
➢ La implicación de las usuarias en las actividades que propone Àmbit
Dona ha aumentado de forma considerable;
➢ Con el proyecto se ha abierto el camino para la co-construcción de
una realidad distinta, fomentando espacios inclusivos, plataformas
de reflexión y diálogo y espacios cálidos de escucha;
➢ El proyecto ha logrado mejorar y/o transformar la convivencia de las
mujeres de Àmbit Dona. Ha posibilitado una nueva forma de
comunicación y de relación entre ellas y con los vecinos del barrio;
➢ Con el desarrollo de la tercera fase en enero de 2015, está previsto:
➢ Crear un espacio artístico (de creación y exposición) en el
que las usuarias de Àmbit Dona sean las protagonistas y al
mismo tiempo funcione como un espacio inclusivo
generador de nuevas relaciones finalizadas a la mejora de la
convivencia a nivel comunitario;
➢ Seguir desarrollando espacios inclusivos que persigan la
reflexión, el diálogo y la creación a nivel comunitario que
posibiliten una distinta forma de ser y estar en el entorno.

Bibliografía
Grenzner Garcia, Joana, Una prostituta del Raval, primera víctima
mortal de la Ordenanza del Civismo en Barcelona en “Pikara Magazine”,
2012, http://www.pikaramagazine.com/2012/11/una-prostituta-del-raval-
primera-victima-mortal-de-la-ordenanza-del-civismo-en-barcelona-la-
angustia-y-la-precariedad-por-no-poder-trabajar-deterioraron-gravemente-la-
salud-de-mary-en-deuda-con-haci/, 9 de noviembre de 2012.
López Fernández Cao, Martin, Creación y Posibilidad. Aplicación del
Arte en la integración social, Editorial Fundamentos, Madrid 2006.
Nató, Alejandro, M., Rodriguez Querejazu, María, G., y Carbajal, Liliana,
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Universidad S.R.L, Hermosillo (2006).
Río Del, María, Reflexiones sobre la praxis en Arteterapia, en “Revista
de la UCM Arteterapia: Papeles de arte terapia y educación artística para la
inclusión social”, 2009, n° 4.
Zito Lema, Vincente, Conversaciones con Enrique Pichón Rivière,
Ediciones Cinco, Buenos Aires 1993.
Snodi: costruire comunità di mediatori
e contagio culturale
Fausta Mancini e Massimiliano Anzivino - Associazione Snodi

Un mondo bisognoso di cura


La nostra esperienza quotidiana ci permette di vivere una mole consi-
stente di contraddizioni dalle quali è impossibile sentirsi immuni e protetti.
Le crisi, trasversali parole d’ordine del nuovo secolo, si rincorrono l’un
l’altra come a richiedere il primato rispetto all’urgenza e alla gravità. La crisi
economica e quella ambientale si accompagnano così, a pari merito, con
quella sociale che vede sempre più persone vittime di vulnerabilità, preca-
rietà esistenziale e frammentazione dei legami sociali.
L’impegno per cercare di offrire risposte a queste ondate di necessità co-
stituisce una grande sfida: saper decifrare i bisogni a fronte di una forbice,
sempre più ampia e preoccupante, tra risorse disponibili e richieste.
In questo scenario sono apparsi interessanti e innovativi alcuni strumenti
di lavoro spesso vissuti come risolutivi, panacea per ogni male, rivoluzione
definitiva per sconfiggere questa o quella forma di difficoltà. È stato così
anche per la mediazione (in senso lato), emersa agli onori delle cronache in
Italia una ventina di anni fa, come una delle proposte più generative di ri-
sposte alle esigenze del nostro tempo e tuttora ancora alla prese con dure bat-
taglie per ottenere un pieno riconoscimento all’interno delle istituzioni e
della vita dei cittadini: modelli di mediazione anche molto differenti ma in
genere accomunati da ascolto emotivo, esplorazione dei bisogni, responsabi-
lizzazione della persona.
Tuttavia, a fronte di grandi potenzialità, occorre considerare anche la pre-
senza di alcuni nodi critici.
In questa nostra riflessione proponiamo una possibile pista di lavoro per
affrontare alcuni rischi e provare ad utilizzare le potenzialità della media-
zione in un senso ben più ampio della gestione o trattamento dei conflitti: la
mediazione come proposta culturale di un modello di società improntato ad
alcuni concetti chiave, quali la conoscenza di sé, l’educazione alle relazioni e
la loro sperimentazione diretta.
L’esperienza dell’Associazione Snodi si basa sul modello di mediazione
umanistica di Jacqueline Morineau.
I rischi di un approccio inconsapevole
La mediazione è una proposta ancora giovane, dalle tante sfumature, dai
tanti modelli di riferimento tra i quali è difficile muoversi.
È noto come dietro il termine mediazione vivano significati tra i più vari
tanto che anche gli aggettivi utilizzati per specificarla non sempre permet-
tono di dirimere le incertezze, le sovrapposizioni ed i fraintendimenti, in un
ambito che continua a partorire sempre nuove proposte, varianti e modelli.
Il primo rischio è quello di affidare alla mediazione troppe aspettative e
di riporre in essa grandiose speranze. Sono nate tante proposte applicative
improntate alla risoluzione del conflitto, alla creazione di pace in un immagi-
nario che trova nella mediazione l’elemento salvifico: cioè si crede di poter
entrare nel profondo delle persone e delle dinamiche relazionali per tracciare
un accordo consensuale tra le parti e salutarsi amabilmente con una bella
stretta di mano. Se così è sulla carta, la realtà ci fa sperimentare, spesso e vo-
lentieri, risultati ben diversi. E se è vero che è possibile raggiungere accordi
importanti e duraturi su una controversia, è altrettanto vero che spesso anche
la mediazione non riesce a soddisfare i bisogni umani fondamentali, quelli
che quasi sempre spingono al conflitto ed alla ricerca di un giudice o di un
terzo per dirimerlo. Ci troviamo così rispecchiati dalle lapidarie parole di
Wittgenstein: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili do-
mande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono
ancora neppure toccati” (1988).
Il secondo rischio è quello di vivere la mediazione solo come una tecnica,
come uno strumento codificato e ben definito da usare in caso di bisogno.
Pensiamo ad una cassetta degli attrezzi all’interno della quale collezionare
man mano sempre più utensili che ci permettano di affrontare la vita. In parte
è così, ma il rischio forte è di imprigionarsi su questa visione che non per-
mette di cogliere la potenzialità culturale e trasformativa della mediazione.
Essa infatti può offrire un importante contributo a vari livelli: quello educa-
tivo come prassi per insegnare alle nuove generazioni modalità essenziali per
la gestione delle relazioni; quello della convivenza sociale come attivatore di
comunità sane, improntate all’inclusione ed alla tutela dei diritti; quello della
piena realizzazione personale nella ricerca di equilibrio umano e felicità.
Infine il rischio dell’incoerenza. Possiamo diventare ottimi mediatori,
abilissimi nel gestire i conflitti degli altri ma al tempo stesso non vivere per
noi stessi i benefici di tale pratica: cioè non essere in grado di ricostruire re-
lazioni salutari a fronte della fatica richiesta, divenendo il famoso calzolaio
con le scarpe rotte. Oppure non essere in grado di uniformare vita lavorativa
e vita privata rispetto ai valori che la mediazione propone, primo tra tutti
l’importanza della persona nei suoi bisogni umani esistenziali. Dietro la fac-
ciata degli esperti si può perpetuare lo sfilacciamento sociale sul quale con
tanto ardore cerchiamo di agire proprio attraverso la mediazione. La coe-
renza all’interno della mediazione è molto più che una dote, è un obiettivo
da perseguire con forza e tenacia, al quale non è possibile sottrarsi. Diversa-
mente il risultato è sarà avere tanti tecnici e poche persone capaci di far
propri i valori della mediazione e di seminarli nella propria vita quotidiana
anche con l’esempio. Potremmo quindi evidenziare la differenza tra l’essere
mediatore ed il fare mediazione.
Si tratta di un “essere mediatore” che comporta anche una formazione
continua, quale forma di partecipazione permanente alla propria crescita pro-
fessionale: difficile pensare infatti ad un mediatore che interviene nei con-
flitti altrui se non affronta i propri che costantemente si presentano. Per
questo motivo amiamo collocare la formazione continua nell’ambito della
“coerenza”.
Certamente questi rischi sono collegati in modo strettissimo alle caratteri-
stiche della nostra epoca: la razionalità, il tecnicismo, l’individualismo. Si
tratta di aspetti che a lungo ci hanno illuso e tuttora ci ingannano nel tenta-
tivo di governare paure, debolezze in una dimensione di incertezza che fanno
parte dell’essere umano più che delle vicende della post-modernità. Le do-
mande esistenziali umane non possono essere governate completamente
dalla mente, dai diversi strumenti e prassi operative che si sviluppano, dalla
convinzione di essere il centro del mondo come singola persona autosuffi-
ciente.
Ci siamo quindi chiesti come sia possibile superare i rischi che abbiamo
evidenziato costruendo un percorso all’interno dell’ambito della mediazione
che sappia tenerne conto.
Pensiamo che questa sia la grande sfida comune per la quale offriamo una
possibile pista di lavoro.

Mediazione umanistica: una proposta controversa


Jacqueline Morineau da circa 35 anni ha ideato un modello di mediazione
frutto dell’integrazione e della sintesi di alcuni pilastri della sua esperienza
di vita. Come spesso avviene nei momenti pionieristici, il modello rispecchia
la personalità del suo fondatore. La proposta dell’archeologa francese ha in-
contrato tanti innamorati sostenitori come altrettanti dubbiosi detrattori.
Come sempre i modelli non sono verità rivelate ed anche il suo modello
umanistico contiene luci ed ombre, ma sicuramente ha la caratteristica di fo-
calizzarsi in modo netto ed esplicito su uno aspetto che lo rende diverso dalle
altre proposte: il focus sull’esperienza spirituale dell’essere umano.
Dicevamo dei pilastri dell’esperienza di Morineau. Da un lato c’è l’espe-
rienza buddista, intesa non tanto come pratica religiosa bensì come vera e
propria pedagogia umana. Negli ultimi anni si comincia a riconoscere tale
declinazione del buddismo attraverso la sensibilizzazione a livello interna-
zionale operata dal Dalai Lama ed il forte interesse della comunità scienti-
fica, soprattutto quella americana, per il contributo che tale antica saggezza
può avere per la costruzione del benessere personale: ne sono un esempio gli
studi di Goleman sull’intelligenza emotiva ed il valore della meditazione.
Dal buddismo la mediazione umanistica di Morineau ha tratto prima di tutto
l’aspetto di ricerca interiore, l’uso della meditazione e del silenzio, la capa-
cità di creare il vuoto, i concetti della persona quale canale per le emozioni
dell’altro, la ricerca del proprio centro per poter affrontare la vita, la gestione
delle emozioni specialmente quelle più distruttive, il desiderio di contribuire
al benessere degli altri per aumentare il proprio. Tutti concetti che ben si in-
cardinano all’interno di una visione dell’essere umano di matrice “orientale”,
più lontani e spesso velati da un alone di incredulità da parte di quella occi-
dentale.
Secondo pilastro è la pedagogia greca mutuata dalla sua formazione come
archeologa. Dalla cultura greca la formatrice francese ha mutuato il modello
di uomo ternario di Aristotele: corpo, anima e spirito. Si tratta di una visione
che considera queste tre componenti come elementi essenziali ma al tempo
stesso imprescindibilmente legati per la piena realizzazione del benessere
umano. Oggi viviamo un tempo dove l’essere umano risulta spezzato nelle
sue parti e in alcune di esse completamente stravolto, specie nell’ascolto at-
tento del proprio corpo, nella comprensione delle emozioni, nella coltiva-
zione della parte spirituale, privilegiando un’ipertrofica razionalità ben rap-
presentata da un incessante rincorrersi di pensieri.
Dalla cultura greca arriva anche l’uso della tragedia, quale strumento di
insegnamento ma anche di importante condivisione sociale. È proprio attra-
verso la tragedia che i greci riescono a parlare del destino dell’uomo, uno dei
temi più importanti e complessi con cui confrontarsi. Al tempo stesso risulta
una pedagogia non solo morale ma anche un sorta di cammino esistenziale
attraverso le fasi della teoria, della crisi e della catarsi.
Infine, ultimo e controverso pilastro, il messaggio cristiano. Anche in
questo caso non si fa riferimento ad una religione quanto ad una rivisitazione
del messaggio biblico in chiave pedagogica e di pratica spirituale, quale
fulcro per una lettura profonda di tale componente dell’uomo: una porta per
aprire ad un livello di ricerca personale tanto sentito quanto assolutamente
trascurato. Il riferimento al messaggio cristiano non rappresenta un invito al-
l’adesione ad una forma di religione, bensì è un elemento tratto dall’espe-
rienza personale di Morineau.
Naturalmente non mancano nel modello umanistico riferimenti ad alcune
collaudate e consolidate esperienze all’interno della pratica della media-
zione, come l’uso dello strumento degli “specchi”, le cui origini possiamo
far risalire a Rogers, o l’utilizzo di alcune tecniche ampiamente comuni a
tante discipline quali i “riassunti”. Morineau ha infatti eseguito un lavoro di
ricerca negli Stati Uniti, dove vi sono stati gli sviluppi moderni più impor-
tanti in tema di mediazione, all’inizio della sua carriera di mediatrice su
mandato della Procura di Parigi.
La sintesi che ne è nata è un modello di mediazione che si situa all’in-
terno dell’ambito trasformativo: il suo obiettivo non è tanto la ricerca di un
accordo o la risoluzione del contrasto tra le parti confliggenti, bensì la possi-
bilità di usare il conflitto come risorsa, un’occasione di cammino personale,
alla ricerca di quella riunificazione dell’essere umano che tanto spesso sta
alla base della sofferenza umana e che, attraverso la conflittualità, trova vie
di sfogo.
È facile capire come tale proposta già in sé contenga una serie di vere e
proprie provocazioni rispetto ad una disciplina che sente il forte bisogno di
riconoscimento e quindi di giustificare la propria efficacia. Dire che l’ac-
cordo tra le parti in conflitto non è l’obiettivo risulta davvero un primo passo
piuttosto difficile da sostenere nell’epoca del risultato ad ogni costo, della
performance, del “tempo (cronos) è denaro”.
Eppure, sempre più spesso in ambito sociale, si assiste alla nascita ed al
consolidamento proprio di visioni che si staccano dalla pretesa di offrire so-
luzioni alla sofferenza della persona, quantomeno non nella versione dele-
gata, rapida e indolore con la quale facilmente ci si approccia ai problemi at-
traverso il contributo degli esperti.
In un tempo in cui la spiritualità è in forte crisi, sia per il predominio
della razionalità sia per la crisi delle istituzioni religiose, proporre questa
come chiave di lavoro è davvero un’impresa molto difficile da sostenere. Del
resto ad oggi il successo del modello umanistico sta proprio nell’aver pun-
tato sull’assunto che alla base della mediazione (o di qualsiasi strumento per
la gestione del dolore umano) vi è la sete dell’essere umano di dare spazio
alla sua componente più profonda, e indefinita e facilmente equivocabile,
che chiamiamo spiritualità.
Abbiamo potuto osservare che, al di là delle motivazioni iniziali con le
quali le persone si avvicinano a questa forma di mediazione, dopo avere spe-
rimentato tale livello si apre in esse lo stupore per la scoperta di un mondo
nuovo, sconosciuto ma estremamente familiare, come una risposta molto
precisa ad un bisogno fino a quel momento indefinito.

Bisogno di comunità
Ormai in molte discipline che si occupano di problematiche sociali l’ap-
proccio di comunità è un punto fermo ed imprescindibile. Nato negli anni
sessanta negli Stati Uniti sta vivendo negli ultimi tempi una forte riscoperta
anche nel resto del mondo, e permette di sperimentare con maggiore consa-
pevolezza una diversa modalità per affrontare la vita e i suoi problemi come
operatori, istituzioni e cittadini.
L’idea in sé è molto semplice per quanto molto difficile da realizzare pie-
namente: riconnettere la persona con i propri contesti sociali e ricostruire i
legami comunitari che da sempre accompagnano la vita dell’essere umano.
Se da un lato la globalizzazione ha innescano un processo di sempre mag-
giore individualismo, dall’altro l’approccio di comunità cerca di recuperare
una dimensione di appartenenza ad una collettività. Anche qui quindi re-
miamo controcorrente: le spinte propulsive dell’approccio comunitario si
scontrano con la forza di messaggi dalla capacità attrattiva eccezionale e che
vanno assolutamente in tutt’altra direzione.
Non è possibile trasformare la realtà, che viviamo con sempre maggiore
fatica ed a tratti con disperazione, se non riusciamo ad attivare un processo
di rigenerazione delle relazioni e di riconsolidamento dei legami sociali.
In questo siamo confermati dalle riflessioni di filosofi, sociologi e ricer-
catori e dalle conseguenti azioni che in ambito sociale sempre più spesso si
sviluppano. Pensiamo ad esempio ai progetti di sviluppo di comunità, ai pro-
cessi partecipativi, ai concetti sempre più diffusi di rete, empowerment, pro-
mozione del benessere. Certamente siamo ancora in una fase di sperimenta-
zione e dire che l’approccio di comunità sia altrettanto applicato nei fatti
quanto condiviso a parole sarebbe un’illusione.
Forse è proprio nel momento in cui come persone ci sentiamo più soli,
confrontati con le fatiche di un individualismo consolidato che ha tanto il sa-
pore della solitudine, che ci rendiamo conto di quanto sia preziosa la dimen-
sione relazionale e comunitaria come elementi fondamentali della vita, del-
l’identità, del quotidiano. È ormai più di una sensazione per gli operatori so-
ciali il fatto che molte delle problematiche che si trovano ad affrontare non
possono esserlo in altro modo: la riattivazione della dimensione comunitaria
non è solo quindi un bisogno emergente delle persone, per quanto scarso e
malamente espresso, ma un vero e proprio strumento di lavoro per gli opera-
tori sociali: cogliere la prospettiva sostenibile della persona in rapporto alla
comunità in cui vive.

La sfida di Snodi: le autoformazioni


Snodi, fondata nel 2010, è un’associazione di promozione sociale che si
occupa di promuovere il modello che abbiamo descritto della mediazione
umanistica, attraverso gli strumenti della sensibilizzazione alla mediazione,
del fare mediazione e della formazione di mediatori 31.

31 www.mediazione-snodi.org.
L’essere associazione non è una scelta solo di tipo organizzativo. Cre-
diamo infatti che chi si propone come mediatore abbia bisogno di misurarsi
in prima persona con il conflitto ed inevitabilmente con le relazioni che pos-
sono essere anche faticose: in questo senso la vita associativa rappresenta
un’ottima palestra.
Oltre alla proposta più classica di sensibilizzazioni, mediazioni e forma-
zioni, Snodi sta costruendo fin dalla sua nascita un’esperienza che cerca di
considerare tutti gli aspetti che abbiamo fin qui tratteggiato, centrata sull’of-
ferta dedicata ai soci chiamata autoformazione. In tali incontri si sperimen-
tano ed approfondiscono alcuni elementi appresi durante i momenti forma-
tivi. Gli obiettivi sottesi a tali giornate sono diversi: l’offerta di uno spazio
protetto di pratica supervisionata dai soci mediatori e/o formatori, la crea-
zione di legami tra i soci, la sperimentazione concreta della fatica delle rela-
zioni, la costruzione di nuove progettualità territoriali.
Al di là della diffusione del modello, interessa riportare sempre di più
l’attenzione sull’integrazione tra pratica professionale e personale.
L’utilizzo del modello umanistico è strettamente legato a tali obiettivi
perché non ha il suo principale interesse nella creazione di mediatori, quanto
nella formazione di persone capaci di rigenerare le relazioni e le comunità
che abitano. Morineau li chiama artigiani di pace, intendendo con questo ter-
mine proprio la centralità dell’aspetto umile, ma al tempo stesso frutto di una
lunga e paziente pratica, evocata dall’immagine dell’artigiano, che permette
di costruire le condizioni per la convivenza pacifica e la solidarietà tra le per-
sone.
Da qui discende la mediazione umanistica come progetto di società, dove
prevale l’attenzione ad una dimensione di incontro profondo con sé e con
l’altro mettendo a punto le condizioni necessarie: il tempo, il silenzio, il non
giudizio, la comunicazione a livello emotivo, l’esplorazione dei valori e
delle domande esistenziali.
Proprio grazie a questo contesto è possibile dare vita e slancio a quei le-
gami cosiddetti “deboli”, nell’accezione di Granovetter, che sono il fonda-
mento per la costruzione di una comunità: essi infatti, pur essendo emotiva-
mente poco impegnativi, a differenza dei legami familiari e amicali, permet-
tono di sperimentare solidarietà ed appartenenza, aspetti che abbiamo visto
essere centrali per il benessere sociale e individuale. La comunità di media-
tori che man mano va a formarsi diventa una specie di modello che ogni
socio può sperimentare e provare a riproporre all’interno dei propri contesti
di lavoro e di vita.
Le autoformazioni sono costituite da incontri di un’intera giornata di atti-
vità strutturate, proposte ai soci per sperimentarsi nell’utilizzo di alcuni
“strumenti” della mediazione umanistica potendo praticarli, viverli, elabo-
rarli in profondità.
Il modello Morineau ha contribuito a far emergere proprio la grande di-
stanza tra la sua proposta e la quotidianità che ognuno di noi oggi vive im-
merso in contesti di fretta, ansia, fatica che poco o niente si conciliano con la
cura della spiritualità e il conosci te stesso socratico. Le autoformazioni di-
ventano così un porto franco dove allenarsi non tanto a fare il mediatore ma
ad essere mediatore, integrando sempre di più dentro di sé un approccio alla
vita pieno, essenziale, autentico. Sono una sorta di momento personale dove
poter fare manutenzione di sé.
Attraverso lo strumento delle autoformazioni cerchiamo di trasformare
l’esperienza associativa in una possibilità di vivere l’associazione stessa
come strumento di crescita, grazie alle relazioni che inevitabilmente si gene-
rano al suo interno. Naturalmente i percorsi personali che abbiamo osservato
sono i più vari e dalle tempistiche più diverse. In questi anni abbiamo attra-
versato, insieme ai soci, le diverse fasi di una palestra di vita in costante mo-
vimento. Si cerca poi di promuovere una sempre maggiore fiducia personale
e di gruppo che permetta ai soci di divenire essi stessi responsabili della di-
vulgazione della mediazione e dell’attivazione di altri territori, attraverso
percorsi esplorativi-formativi32.
Proprio in questo modo, infine, crediamo sia possibile un vero e proprio
innesco di un processo di diffusione culturale profondo, al di là delle mode,
dei facili innamoramenti e degli interessi che possono stare dietro alla me-
diazione.

Un cammino tutto da percorrere


La mediazione è una grande occasione, piena di possibilità, di sviluppi, di
contesti di applicazione e ricca di intersezioni con il tempo che stiamo vi-
vendo, con i suoi bisogni, con le sue fatiche.
Come in tutte le grandi occasioni, altrettanto grande è il rischio di per-
derla, di trasformarla in qualcosa di molto diverso e lontano dai presupposti
sui quali la mediazione è nata.
Al di là dei modelli seguiti, che come sempre forse potrebbero trarre il
loro massimo vantaggio dal ritrovare una sintesi più che una classifica di
onori e meriti, la proposta che stiamo cercando di portare avanti è quella di

32 Alcuni sull’attività di “Autoformazione” dall’ottobre 2011 al mese di febbraio


2014: sono stati realizzati n. 10 incontri, di cui: n. 8 a Milano, n. 1 a Reggio Emilia e
n. 1 a Sirmione (Bs), con n. 120 presenze complessive, per un totale di n. 44 soci,
con una media di n. 3 presenze per ogni socio partecipante. Dall’insieme delle
attività i mediatori e formatori di Snodi hanno sostenuto attivamente l’avvio di n. 2
nuove nuclei di mediazione con il modello Morineau: in provincia di Brescia ed un
altro ancora in atto a Messina
contrastare quei processi sociali che abbiamo descritto, di cui siamo parte at-
tiva e spesso vittime inconsapevoli al tempo stesso.
Quindi un’attenzione non tanto allo strumento mediazione umanistica
come fine ultimo di un processo formativo, ma mezzo per riattivare le condi-
zioni di benessere dell’essere umano e delle sue comunità. Non si tratta certo
di una specificità della mediazione: sono tanti gli strumenti con i quali è pos-
sibile percorrere questa strada. La nostra scommessa è che la mediazione
possa essere uno di questi strumenti, potenziato dagli elementi distintivi che
possono contribuire all’incontro con il sé e con l’altro aprendo alla dimen-
sione spirituale, riconoscendo e restituendo alla persona la sua dignità nella
dimensione dei valori esistenziali universali.
In questa dimensione abbiamo trovato conforto nella condivisione del pa-
radigma culturale promosso dal Movimento dei Congressi Mondiali della
Mediazione: una sfida ardua per un progetto di pace anche sociale, un pro-
cesso in gioco complesso, che richiede cura, tempo (kairòs) e costanza.

Bibliografia
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Dalai Lama e Goleman, Daniel, Emozioni distruttive, Mondadori, Milano
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forza dei legami deboli e altri saggi, Liguori, Napoli 1998.
Morineau, Jaqueline, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano
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Morineau, Jaqueline, Il mediatore dell’anima, Servitium, Milano 2010.
Watzlawick, Paul (a cura di), La realtà inventata, Feltrinelli, Milano
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La narrazione mediata
nella Protezione Internazionale
María Eugenia Esparragoza - Università di Genova

La mediazione linguistico-culturale per cittadini non comunitari richie-


denti Protezione Internazionale (come asilanti o come rifugiati) 33 è finaliz-
zata ad agevolare il loro accesso ai servizi nel quadro di un sistema di acco-
glienza integrata. L’osservazione di questo lavoro a Genova, città che per gli
stessi costituisce un secondo approdo oppure il passaggio più diretto verso il
Nord Europa34, ci ha consentito di rilevare alcune caratteristiche dello
scambio comunicazionale che in esso si produce, in particolare in sede di
consulenza legale.
Facendo confluire elementi di più discipline nella riflessione, ci adden-
triamo nelle caratteristiche degli attori e delle modalità della mediazione du-
rante i colloqui con l’avvocato, finalizzati alla preparazione della richiesta
ufficiale di Protezione35, su mandato dell’istituzione che prende in carico il
migrante36. Dall’esito dell’intervento dipenderà in gran parte l’attribuzione o
il diniego dello status di asilante o di rifugiato, sotto diverse forme.
Le narrazioni raccolte in tale ambito presso cittadini dell’Africa Subsaha-
riana francofona, arrivati in numero crescente a seguito dello scoppio della
guerra civile in Libia, ci hanno consentito di focalizzare gli elementi pre-
gressi, apportando alcuni dati su cause, percorsi e contesti d’origine dei
flussi migratori, nel tentativo di delineare un panorama dei conflitti che
stanno alla base degli stessi. Ci proponiamo dunque di rendere conto del ri-
sultato della collaborazione tra l’avvocato e il mediatore nell’analisi dei ma-
teriali, per consegnare un’approssimazione di questi fenomeni oggetto di co-
stanti interventi e studi, stavolta da una prospettiva che ha come perno la me -
diazione. Varcando i limiti in cui si tendono a racchiudere queste professio-
nalità, cercheremo di far riferimento alla valorizzazione della risorsa che rap-

33 Ai fini del decreto D.l.vo 251/07 art.2, s’intende per “protezione


internazionale” lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria e il suo beneficiario,
il cittadino straniero a cui è stato riconosciuto.
34 Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR)
nel 2011 in Europa sono giunti approssimativamente 58,000 immigrati irregolari, di
cui circa 56,000 sbarcati in Italia. Vennero accolte 7,485 domande, rispettivamente
1,870 per lo status di rifugiato, 2,265 per la protezione sussidiaria e 3,350 per la
protezione umanitaria (cifre EUROSTAT).
35 A partire da qui indicata con la sigla P.I.
36 Nei casi esami un centro di accoglienza per migranti richiedeva a una
cooperativa sociale l’intervento di mediazione interculturale.
presenta una figura le cui competenze travalicano sia quelle del tradutto-
re-interprete sia quelle del mediatore interculturale nelle loro accezioni più
convenzionali.
In tale ottica, abbiamo cercato di restituire delle matrici di interazione tra
l’operatore (il consulente legale), l’utente (il richiedente 37) e il mediatore du-
rante la delicata fase di ricostruzione biografica. A partire da questa si
conforma il contenuto dei documenti che verranno sottoposti all’esame della
commissione incaricata di concedere o di rifiutare la protezione richiesta, e
anche dell’intervista che avranno con essa.
Integrano l’analisi gli accenni al contesto politico ed economico dei paesi
d’origine e di eventuale prima migrazione, nelle epoche in cui il richiedente
è stato spinto ad allontanarsene, come anche delle brevi notizie di carattere
antropologico e storico-geografico, con la ricostruzione dei principali per-
corsi, nel tentativo di ampliare gli orizzonti cognitivi delle parti e d’incre-
mentare la consapevolezza del proprio operato negli addetti ai lavori.
A conferma della potenzialità innovativa, anche in questo campo, dello
scambio e della condivisione di punti di vista, ai mediatori, ma anche ai tra-
duttori-interpreti operanti in ambito migratorio, come anche agli operatori
dei vari servizi, va in primis, rivolto questo contributo.

Contesto e osservazioni
L’esperienza maturata con una categoria specifica di migranti ha potuto
avere luogo nell’ambito di un progetto interno allo SPRAR 38, che garantisce
interventi di accoglienza integrata superanti la sola distribuzione di vitto e al-
loggio, prevedendo in modo complementare misure di informazione, accom-
pagnamento, assistenza – anche legale – ed orientamento, attraverso la costi-
tuzione di percorsi individuali di inserimento socio economico. In tutte
queste azioni si contempla, quando necessario, l’affiancamento di un media-
tore interculturale, al fine di superare le barriere linguistiche e assicurare la
comprensione tra gli utenti e i servizi39.

37 “Richiedente” è lo straniero che ha presentato una domanda di protezione


internazionale sulla quale non è ancora stata adottata una decisione definitiva (ibid).
38 Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati del Ministero dell’Interno.
39 Un precedente saggio su questa tematica (Rocca 2010) offre maggiori dettagli
sulla procedura d’asilo e la mediazione all’ambulatorio SAMIFO di Roma.
Il conseguimento della P.I., che comprende tre diverse forme di prote-
zione40 concedibili dalla Commissione Territoriale 41 competente per terri-
torio42 (fissate nel numero massimo di 20), comporta l’audizione del sog-
getto, che si presenterà da solo ma verrà assistito da un interprete.
L’osservazione è stata, invece, portata avanti nel corso di circa tre anni di
colloqui, volti alla redazione della memoria personale del richiedente, da
produrre in occasione della sopraccitata audizione, che aveva luogo nella
città di Torino. Finalità di tale memoria propedeutica è quella di supportarlo,
anche legalmente, nella sua richiesta, simulando il colloquio con la C.T. ed
aiutandolo nella sua ricostruzione biografica in un ambiente più sereno e
meno formale.
A causa, peraltro, della difficoltà che palesava la maggior parte dei richie-
denti osservati a comprendere a pieno il meccanismo dell’audizione, lo
sforzo del legale e del mediatore è stato diretto alla contestualizzazione sto-
rica del racconto. Non di rado, in effetti, i soggetti hanno faticato nel rico -
struire coerentemente gli eventi dal punto di vista temporale. Al contempo,
venivano forniti a ciascun richiedente gli strumenti per relazionarsi corretta-
mente con la C.T..
Pur considerando la specificità di ciascun soggetto, la mediazione ha per-
messo di notare dei punti comuni nei vissuti e non solo in rapporto alla pro-
venienza geografica e ai periodi storici in cui le storie si sono dipanate.
In un arco temporale che parte da fine 2011 (a seguito dello scoppio del
conflitto libico) a maggio 2014, sono state effettuate e analizzate, in forma
anonima, cinquantaquattro memorie con soggetti maschi provenienti dall’A-
frica Subsahariana francofona, dei quali illustreremo alcune caratteristiche,
circostanze e traiettorie fino all’arrivo a Genova. Di questa raccolta d’infor-
mazione apporteremo alcuni dati qualitativi e quantitativi, come contributo
alla conoscenza di questo fenomeno migratorio di tipo coatto e dei fattori
culturali della lingua, cercando di fare emergere il ruolo che il mediatore ri -
copre dal punto di vista socio-antropologico, sovente trascurato (Gavioli
2009: 14). Tuttavia, ci preme sottolineare che imparare dall’esperienza quoti-
diana di mediatori e mediatrici, in tutta la sua concretezza e ambiguità, signi-
fica adottare una prospettiva postcoloniale, attraverso la quale modificare il
paradigma culturalista che regge tuttora i rapporti tra autoctoni e migranti
(Zoletti 2012: 77).
Inoltre, va osservato come le diverse letture delle narrazioni effettuate
evocano non solo il debriefing dell’interprete ma il lavoro che la mediazione
interculturale consente di portare avanti, più volte che l’interpretazione,
come sottolineano De Luise e Morelli (2010). Conviene a questo punto sot-
40 Sulle loro differenze e le cause di esclusione, consultare gli articoli 2 e 14
D.l.vo 251/2007 e anche il 5 comma 6 D.L.vo 286/98.
41 D’ora in avanti, C.T..
42 Ad esempio, a Genova corrisponde quella di Torino.
tolineare che l’incarico di traduzione e interpretazione negli organi istituzio-
nali (come la C.T.) vieta, attraverso i corrispondenti codici deontologici,
qualsiasi forma di uso delle informazioni trasmesse. In compenso, le rifles-
sioni scaturite in sede di mediazione potrebbero contribuire sia a una mi -
gliore comprensione del proprio lavoro di supporto sia a una lettura del con-
testo in cui lo stesso viene svolto. Di seguito circoscriviamo questo apporto
ai risultati di maggiore rilievo in rapporto alla conoscenza dei soggetti me-
diati e alla metodologia del lavoro mediato.

Ai dati reperibili nei grafici, aggiungiamo che l’età media è risultata di


28,7, avendo il più vecchio 45 anni e il più giovane 20. Inoltre, la maggio-
ranza era carente di scolarizzazione: del 24,5% che aveva frequentato una
scuola, il 13,2% era andato a quella pubblica e l’11,3% a quella coranica. Di
fatto, solo due soggetti erano cristiani e il resto musulmani.
Intorno a popoli e lingue
Riguardo alle lingue e ai popoli rappresentati, si riscontrano degli aspetti
contrastanti tra le lingue che i richiedenti dichiarano di parlare e le denomi-
nazioni generalmente impiegate dai glottologi ed etnolinguisti, alle quali fa-
remo accenno per motivi pratici. Per esempio, l’uso indistinto dell’etnonimo
(il nome del popolo di appartenenza) e della lingua – oltre a ripercuotersi
sulle stime – potrebbe portare a delle sovrapposizioni che inducono a confu-
sione all’ora di determinare la lingua dell’interprete in C.T.. Nella tabella che
segue si riportano alcuni casi che possono dare adito a dubbi.

Si evidenzia che i gruppi di parlanti più numerosi, il Bambara e il So-


ninke, includono individui bilingui, essendo il francese la lingua più diffusa
tra i Bambara e lo stesso Bambara tra i Soninke.
La lingua madre, essendo la prima dichiarata (L 1), figura nella prima co-
lonna a sinistra. Come lingue seconde (L 2) sono state indicate quelle ap-
prese nel contesto d’origine, attraverso i contatti con altre popolazioni, ap-
partenenti o no ad uno stesso ceppo. È il caso dei 2 mandinga, entrambi bi-
lingui perché parlanti il Wolof, la lingua più diffusa in Senegal, usata anche
in Gambia e Mauritania, Mali e Guinee.
Le lingue con asterisco, 6 delle 10 africane, appartengono al gruppo
mande (mandè o manden): 71 lingue distinte, in un gruppo considerato
braccio divergente della più ampia famiglia linguistica niger-kordofoniana 43
quella più vasta sia geograficamente che per numero di parlanti nel conti-
nente africano. Alcuni dichiaranti adoperavano questi appellativi in modo
generico, senza specificare il vernacolo propriamente detto. Per esempio, i
Mandinga vengono chiamati Soce (o Sossé) dai Wolof, potendo essere Bam-
bara, Sarakolé, Malinké, Diula, ecc..

43 O Niger-Congo, nella letteratura anglosassone.


Per il fatto che alcuni dichiaranti scambiavano l’etnonimo Sarakole (o Sa-
rakolè) con la lingua e viceversa, oppure l’endoetnonimo (autodenomina-
zione) con l’esoetnonimo (attribuito da altri popoli o dai colonizzatori), ab-
biamo segnalato entrambe le denominazioni, per un totale di 24 parlanti. In
realtà, il Soninke, una delle lingue nazionali del Senegal, è la lingua parlata
dal popolo Sarakole.
L’unico Senufo del campione ha asseverato di parlare il Bambara ma ha
chiesto un interprete di francese. La stessa richiesta è stata espressa da uno
dei Mandingo, mentre uno dei Peul ha sostenuto di parlare soltanto il Wolof.
Questi particolarità sono indicate con un punto interrogativo.
È da notare, da una parte, la convenienza di un approfondimento di al-
cune nozioni; dall’altra, che, pur non avendo nessuno dei richiedenti come
prima lingua il francese, è tuttavia questa la lingua più utilizzata in media-
zioni con richiedenti subsahariani.

Conflitti e partenze
Dagli avvenimenti che hanno portato alla caduta di vari governi del Nord
Africa, durante il fenomeno comunemente conosciuto come “Primavera
araba”, i lavoratori subsahariani soggiornanti in territorio libico (alcuni di
lunga data)44si sono trovati in condizioni difficili. Esposti a violenza selet-
tiva, minacce e discriminazione45, spesso imprigionati e derubati, si sono
visti costretti ad imbarcarsi. Inizia così un flusso di natura forzata verso le
coste italiane che condurrà a dichiarare lo stato d’emergenza, predisponendo
un piano di accoglienza46 comprendente l’assistenza legale per il riconosci-
mento della Protezione Internazionale.
Il primo consistente gruppo è stato quello dei richiedenti asilo giunti in
Italia nella primavera/estate 2011. Di provenienza quasi integralmente
maliana, questi soggetti hanno mostrato nei loro racconti affinità e percorsi
similari. Il loro arrivo è coinciso con lo scoppio, sull’onda della “Primavera
araba”, del conflitto in Libia nel febbraio 2011. Ritroviamo, conseguente-
44 Come riferisce Pliez (2006), dagli anni Sessanta del secolo scorso la Libia,
paese vasto (tre volte la Francia) e sottopopolato (circa 6,5 milioni di abitanti) ha
costituito un polo d’attrazione per immigrati giunti per lavorare in tutti i settori
d’impiego. Indispensabili per il funzionamento dell’economia statalizzata, erano
diventati determinanti nello sviluppo dell’economia privata alla fine degli anni ’80
(in cui rappresentavano oltre la metà della popolazione attiva del paese).
L’importanza dei flussi migratori tra l’Africa subsahariana e la Libia è andata
crescendo negli anni ’90, in relazione alla politica panafricana di Gheddafi.
45 Si vedano, tra le altre, le informazioni ACNUR.
46 Si è trattato del programma “Emergenza Nordafrica”, della Protezione Civile,
durato circa due anni.
mente, in tutti i loro racconti, la descrizione della vita in Libia e dell’abban-
dono di questo Paese in vista dell’avanzata della guerra e della pressione dei
militari.
Analogie nei loro vissuti, si colgono, poi, anche in riferimento alle moti-
vazioni che li hanno spinti a fuggire dal proprio Paese, ai percorsi fino alla
Libia ed ad eventuali soggiorni intermedi in altri Paesi Maghrebini. I tempi
dei percorsi erano molto variabili, per cui si contavano sia coloro che si
erano insediati nel Paese nordafricano da molto (fino a 7 anni) sia quelli arri-
vati poco prima delle sommosse.
Il secondo evento storico che ritorna nei racconti dei richiedenti osservati,
è il conflitto in Mali. A seguito, infatti, del Colpo di Stato del marzo 2012 47 e
della successiva guerra civile, abbiamo potuto osservare un secondo flusso
migratorio di richiedenti che, fuggiti dal Mali tra la fine 2012 e l’inizio del
2013, rievocano nei loro racconti lo scoppio del conflitto e la situazione di
forte instabilità interna venutasi a creare sotto il profilo della sicurezza pub-
blica venutasi a creare48. Il più numeroso gruppo dei richiedenti ha lasciato
questo Paese nel clima di anarchia derivante dal colpo di Stato, del quale
hanno approfittato gli integralisti inaugurando un periodo di sanguinose vi-
cende belliche.
Finita la fase emergenziale, sono continuati gli arrivi di persone che subi-
scono le conseguenze di questa situazione, persino dal punto di vista econo-
mico, sebbene la causa immediata che essi dichiarano sia il più delle volte
familiare o sociale.
Ai Maliani si aggiungono cittadini di altri paesi subsahariani, arrivati in
ragione di difficili circostanze, la cui genesi alcune volte si ritrova tra le
pieghe del tessuto familiare, al di là degli altri fattori che oggettivamente li
hanno portati a uscire dal loro Paese. I senegalesi 49, per esempio, sono fug-
giti dalle violenze legate alla guerriglia separatista della Casamance, mentre
fra quelli usciti dal Gambia, solo uno ha dichiarato di essere scappato dal-

47 A gennaio 2012 in Italia c’era un totale di 13,525 richiedenti asilo (UNHCR


2012).
48 L’intervento militare francese del gennaio 2012 (con partecipazione degli
eserciti del Niger e del Ciad) mirava a bloccare l’espansione del cosiddetto Stato
Islamico dell’AZAWAD, che controllava circa metà del Paese (la parte
settentrionale, le regioni sahariane). Il successo di questo intervento ha determinato
la possibilità di svolgimento delle elezioni sotto controllo internazionale, che hanno
portato alla Presidenza I. Boubacar Keita, a capo di una coalizione di nove partiti
alternativi a quelli che avevano gestito il potere fino al colpo di Stato.
49 Pur essendo il Senegal uno dei Paesi apparentemente più stabili dell’Africa (il
presidente Macky Sall è stato eletto nel 2012), da decenni è attivo nella regione della
Casamance un movimento armato (MFDC) che ha per obiettivo l’indipendenza di
questo territorio, rimasto isolato nei confini ereditati dal colonialismo francese e
britannico. Infatti, li separa l’enclave costituita dal Gambia, che lo fa diventare una
sorta di “semi-exclave”.
l’ormai ventennale dittatura di Yayah Jammeh, al centro di numerosi rapporti
di denuncia di violazione dei diritti umani.

I conflitti che maggiormente si adducono sono quindi quelli riguardanti le


vicende di cui sopra, seguiti da quelli familiari (in genere in rapporto con
l’autorità paterna o con l’eredità, rare volte per l’imposizione religiosa), che
possono compromettere la sicurezza personale, ma i più specifici derivano
da vicende giudiziarie e vendette. Scarsi sono stati i casi di conclamata diffi-
coltà economica o di rischio sanitario. Si verificano, nelle narrative, delle si-
tuazioni corrispondenti a tutte le categorie di conflitto del modello di Dugan,
in cui intervengono problemi concreti, relazioni, strutture sistemiche e sotto-
sistemiche, che ben potrebbero essere esaminati sotto la lente di svariati altri
modelli. Ugualmente, si rilevano a monte delle partenze degli esempi di me-
diazione e di conciliazione tipici delle società collettiviste, in cui colpiscono
le prese di posizione ma anche atteggiamenti e patteggiamenti elusivi (Raga
Gimeno 2010: 59).
Conviene precisare che il conflitto armato e la persecuzione per motivi
politici o etnici possono essere state la causa sia della prima partenza (dal
paese d’origine) sia della seconda (dalla Libia). In alcuni casi è stata la causa
di entrambe le fughe del richiedente. In altri, un primo conflitto che metteva
a rischio la sicurezza personale (litigi, punizioni, rischio di condanna a
morte) aveva portato in Libia, da dove si era usciti per le aggressioni o le mi-
nacce sopraccennate.
Da queste considerazioni si evince che il conflitto è ritenuto fattore deci-
sivo della migrazione dalle regioni situate a sud del Sahara, in un primo mo-
mento, e dal Nord Africa, tappa obbligatoria, dalla durata variabile, di tutti i
percorsi. Ciò nonostante, “essa costituisce una delle poche vie di afferma-
zione individuale che si offrono ai giovani in una società strutturalmente ge-
rontocratica ed economicamente poco dinamica” (Maitilasso 2012: 132).
Itinerari verso l’Italia
Come rivelano gli storici, la tradizione migratoria che ha indotto i giovani
maschi adulti in cerca di lavoro a percorrere dei grandi circuiti all’interno del
continente risale all’epoca pre-coloniale e si protrae fino ai nostri tempi, ma-
gari calcando gli stessi sentieri.
Esaminando il campione, oltre alle ragioni circostanziali edotte dai pro-
fughi, si sono potuti tracciare i percorsi più ricorrenti, a seconda dei paesi di
partenza e di transito.
Quella che viene riconosciuta come la rotta più battuta, principale via di
ingresso nell’UE di richiedenti la P.I., è certamente quella del Mediterraneo
centrale, percorsa da chi, attraversando la Libia, proviene da Eritrea, Siria e
Somalia, oltre che dai paesi dell’Africa subsahariana come Nigeria, Mali e
Costa d’Avorio (Caritas e Fondazione Migrantes 2014: 46).
In partenza dal Mali, l’itinerario più frequentemente descritto è risultato
quello che conduce alle grandi oasi algerine (soprattutto Adrar, Reggane e
Ovargla), in cui spesso sono state fatte delle lunghe soste. Dopo di queste lo
spostamento era verso Est, con entrata in Libia nella città di frontiera di Gha-
dames50, e di lì il viaggio a Tripoli.

50 Oasi di origine pre-romana, antico centro carovaniero, nota per le sue


costruzioni in fango e gesso.
Un’altra rotta dal Mali suppone il passaggio attraverso il Niger, fino alla
capitale Niamey, poi verso Nord, entrando in Algeria, con sosta a Taman-
rasset (o Tamanghaset), nel massiccio sahariano del Hoggar o Ahaggar, poi
verso Est, fino al ingresso in Libia, con sosta nella grande oasi di Sabha,
prima di arrivare a Tripoli (porto d’imbarco stesso) e/o Zwarah, verso Lam-
pedusa o Catania.

Dal Mali occidentale (regione di Kayes), da Gambia e dal Senegal, alla


Mauritania (porto d’imbarco Nouhadibou) o al Sahara Occidentale (porto
d’imbarco Dakhla) verso le Canarie (Fuerteventura) o la Spagna continen-
tale51, per proseguire in treno per Marsiglia, Nizza e Genova.
Da Gambia e Senegal si percorre anche una lunga strada verso la capitale
maliana Bamako, per poi seguire gli itinerari di cui sopra.
Tra gli aspetti comuni di questi viaggi si contano la non conoscenza
previa del percorso da intraprendere e delle difficoltà che si possano affron-
tare, le figure di sconosciuti che hanno offerto il loro aiuto (sia in dono sia
dietro compenso), come vitto e alloggio (arrivando persino a nascondere un
perseguitato). Non sono mancate le proposte di lavoro informale né di inter-
mediazione presso chi poteva permettere di continuare il cammino (che
questo fosse strada o sentiero attraverso il deserto, porto o aeroporto). Oltre a
quelle degli abitanti dei luoghi di passaggio, sono state riferite dimostrazioni
di solidarietà da parte di autisti, marabut e datori di lavoro.

51 Si evitano i muri di Ceuta e Melilla. Solo un richiedente era passato a Melilla


dalla città di frontiera marocchina di Nadar.
Una altra caratteristica del tragitto è la sosta in foyers52, specie di ostelli,
diversi dei quali tenuti da maliani, in cui soggiornare il tempo necessario a
trovare migliore sistemazione o a continuare la strada.

Analisi delle mediazioni


L’interazione all’interno della triade normalmente costituita dall’opera-
tore, l’utente e l’interprete-mediatore può rivestire in un ambito plurilingue
diversi gradi di complessità. Nel caso che ci occupa, inteso come processo
comunicativo, la legale, il richiedente e l’interprete-mediatrice eseguivano il
loro compito in due incontri. Il primo, di ricostruzione della memoria indivi-
duale, svolto mediamente in due ore, compresi i preliminari, durante le quali
era necessario mantenere la comunicazione in forma continuativa, general-
mente senza interruzioni. La durata dell’incontro conclusivo (fase post-limi-
nare), di rilettura della memoria che nel frattempo era stata stesa dalla legale,
variava a seconda del tempo necessario per la revisione e le eventuali corre-
zioni e integrazioni.
Il prevalere dell’interpretazione bilaterale durante la prima fase e della
traduzione, a vista, nella seconda non esclude l’espletamento di queste man-
sioni in forma alternata, passando dall’interazione diadica alla triadica e vi-
ceversa. Infatti, la narrazione può essere inframezzata dalla traduzione di do-
cumenti e/o ritagli di giornali attinenti le vicende personali descritte nella
memoria, mentre durante la rilettura può essere necessario interpretare, in
consecutiva, un ricordo riaffiorato dopo il primo colloquio53.
Oltre alla competenza interpretativa e traduttiva del mediatore, che esige
una sensibilizzazione nel decifrare il linguaggio non verbale dell’utente e i
sottintesi culturali, si mettono in gioco le competenze culturali di entrambi
gli operatori. Il legale e il mediatore si scambiano i pareri sulle informazioni
che ricevono, facendo uso delle loro capacità di osservazione e delle cono-
scenze pregresse sulle condizioni dei contesti d’origine e sui conflitti che
possono avere spinto alla migrazione. Ciò nondimeno, entrambi dispongono
attualmente di mezzi virtuali per reperire, in simultanea, gran parte dei topo-
nimi pronunciati (non di rado con deformazioni fonetiche), come anche le
52 “Oltre che degli alloggi e punti di ristoro, sono anche dei luoghi ove ritrovare
dei connazionali che potranno facilitare il viaggio, attraverso delle reti di contatti e
dei consigli per l’inserimento nei contesti di arrivo” (Pliez op. cit.).
53 Come appunta Demetrio (1999), la lettura di una narrazione autobiografica
permette un ulteriore approfondimento del contenuto del testo, perciò, chi
preconizza il metodo autobiografico si basa sulla consapevolezza che la memoria è
un processo dinamico e implica una reinterpretazione continua del passato, che
viene aggiornato e arricchito di nuovi particolari alimentati dal vissuto quotidiano, il
quale agisce retroattivamente modificando i ricordi.
date degli avvenimenti di portata nazionale o internazionale menzionati, po-
tendo stabilire delle ipotesi sugli elementi da delucidare. Risulta palese come
in tutto il processo si esercitano le tecniche più tipiche dell’interpretazione
interlinguistica, già evidenziate da De Luise e Morelli (2010a: 37), come la
gestione efficace dei due codici linguistici in maniera sovrapposta e simul-
tanea, la capacità di mantenere un ascolto diviso per tempi prolungati, la tec-
nica di presa di appunti e la concettualizzazione con selezione rapida delle
informazioni primarie e secondarie, da parte di un mediatore allenato alla
multiparzialità, flessibilità ed equidistanza. Con gli stessi autori abbracciamo
l’idea della performance, che essi rilevano, oltre alla competenza, nella
“sfida interpretativa” rappresentata dalla mediazione in cui nessuna delle due
lingue adoperate è la madre lingua. È opportuno sollevare il valore della te-
stimonianza che può fornire il mediatore, di eventuali esperienze in rapporto
con i fatti e luoghi evocati 54, che vengono attivate sul momento, persino
quando egli non condivide con il mediato origine e altre appartenenze 55,
quali la “etnico-nazionale-culturale”, privilegiata da legislazioni e selezioni
di Mediatori Culturali o Interculturali 56, quand’anche i bandi di gara indetti
non lo specificassero.

Prossemica e temporalità:
setting e sviluppi della mediazione
Le interazioni oggetto di questo saggio si svolgono in una delle zone in-
terpersonali, determinate dalla distanza nella comunicazione, che Hall
(1966) definisce come sociale, in quanto funzionale al rapporto tra cono-
scenti, inclusi gli scambi lavorativi e didattici che vogliono una separazione
spaziale di media entità, trattandosi di una distanza critica.
Come in ogni mediazione, gli elementi non verbali, tali la collocazione
degli attori nello spazio ad essa destinato, rivestono un’importanza fonda-

54 Per esempio, la reminiscenza del quartiere di Treichville, a Abidjan, in cui è


stato girato il film Moi, un noir, di Jean Rouch (1959) ha contribuito a confermare un
particolare passo del racconto di un cittadino Ivoriano.
55 La mediatrice, per l’appunto, è di origine venezuelana ma conta su pregressi
soggiorni di studio nel continente Africano.
56 Un esempio si trova nel profilo professionale e relativo standard formativo,
deliberato dalla Regione Marche nel 2010, i cui destinatari erano “cittadini
extracomunitari e comunitari (paesi a forte pressione migratoria) (...) residenti da
almeno tre anni in Italia”. Il bando è stato nuovamente indetto in questi termini nel
2014, con l’accettazione della doppia cittadinanza. Tuttavia, la precitata Cooperativa
Saba di Genova conta su alcuni mediatori interculturali non madrelingua.
mentale nella circolazione dell’informazione, allo stesso titolo della dimen-
sione temporale. Sia nei colloqui con medici e psicologi che in quelli con as-
sistenti sociali ed educatori, la disposizione degli attori del processo di me -
diazione interculturale e interlinguistica presenta caratteristiche simili. Nella
rappresentazione che segue si osserva come la mediatrice sedeva, al pari del
mediato, di fronte all’operatrice, con la distanza necessaria ad interloquire
faccia a faccia.

L’intervento di tipo triadico si svolge secondo una sequenza precisa, con-


trassegnata dai turni di parola e dalle interazioni diadiche: in una fase preli-
minare, la legale spiega gli obiettivi della sua consulenza, elenca i contenuti
della memoria da presentare, la sue suddivisioni e l’ordine delle stesse, come
anche il grado di approfondimento auspicabile per ciascuna (1). Ognuno di
questi aspetti viene interpretato in forma consecutiva (2), aspettandosi la ri-
sposta affermativa del richiedente riguardo alla sua adeguata comprensione
(3). Le sue risposte sono poi trasmesse all’operatrice attraverso la mediatrice
(4).
Dentro al setting, la sequenza di commutazione linguistica può essere
espressa con lo schema:
L1 > L2 > < L2 < L1> L1 > L2. Vale a dire, L1 (Italiano), in cui l’avvo -
cato si rivolge alla mediatrice, L2 (Francese), in cui la mediatrice traduce al
richiedente (2); di nuovo L2 (Fr.) per la risposta del richiedente al mediatore;
L1 (It.) dal mediatore all’operatore e ripetizione.
Le prime domande al richiedente riguardano le generalità, il luogo e data
di nascita, la religione, l’etnia57, la lingua o le lingue conosciute e la lingua
dell’interprete da privilegiare nel colloquio con la C.T. Segue immediata-
mente la descrizione dei membri della famiglia (numero, grado di parentela,
esistenza in vita), la data di partenza dal paese d’origine, quella dell’arrivo in
Italia e un elenco sommario dei paesi traversati durante il tragitto.
Al termine del preambolo si dà corso al racconto autobiografico libero
(fase liminare), in cui il richiedente può descrivere i momenti più salienti se-
condo la propria scala di priorità, facendo emergere i conflitti che l’hanno
spinto a lasciare la sua terra d’origine e/o quelle dei soggiorni intermedi. Si
conclude con la richiesta di P.I. recando a sostegno le ragioni per le quali il
ritorno in patria significherebbe un rischio per la sopravvivenza di quella
persona.
Giova segnalare che la ripetizione della sequenza delle consegne e delle
loro finalità ai richiedenti58 consentiva alla mediatrice di espandere la sua
azione (Baraldi 2012), ovviando alcuni passaggi di interpretariato. La spie-
gazione in prima persona, comportando l’unidirezionalità e la riduzione dei
tempi degli interventi, si traduceva nell’alternanza dell’interazione triadica
con quella diadica. Ciò conferma che nella mediazione basata sull’interpreta-
zione dialogica, il mediatore-interprete ricopre un “ruolo centrale, che arriva
fino al coordinamento dell’interazione, più o meno ampio e significativo, tal-
volta implicito, di cui le parti e lo stesso mediatore hanno poca consapevo-
lezza” (Luatti 2011: 71) scostandosi dal non-involved conduit che alcune
volte sembra prevalere nelle aspettative di alcuni operatori sollecitanti il ser-
vizio.

Quatriade o tetrade?
Un’altra modalità di lavoro mediato vedeva la trasformazione di un pro-
cesso di tipo ternario in quaternario, dato che con alcuni utenti era necessario
l’uso di una lingua di tipo vernacolare nella fase liminare del processo, ba-
sata sulla narrazione, per potere raccogliere sufficienti elementi con la chia-
rezza e precisione che esige il buon esito della procedura. In queste situa -
zioni si prevede un lavoro di co-mediazione, in cui si mescolano almeno tre
codici linguistici verbali e non-verbali: l’italiano dell’operatore e del media-
tore, la lingua veicolare in uso tra i co-mediatori, in questo caso il francese,

57 S’intende che con questo termine, d’uso comune nelle istituzioni


indipendentemente da qualunque fondamentazione, possa agevolare la prestazione di
servizi al migrante.
58 Si tenga conto del fatto che nel lavoro a chiamata si è inclini ad accomunare
più incarichi analoghi in successione.
la terza lingua adoperata per comunicare con il richiedente (una lingua afri -
cana condivisa)59. Tale collaborazione consente al richiedente di esprimersi
nella sua lingua madre o in un’altra lingua di sua conoscenza, riconosciuta
come veicolare nella zona d’origine (per esempio, il Peul 60 o il Bambara)61,
ma comporta ulteriori complessità nella commutazione di codici linguistici.
I quattro interlocutori, insomma, compongono una quatriade o tetrade la
cui comunicazione, continuativa e sostenuta, segue una strategia concordata
sul momento, in quanto la presenza del co-mediatore volontario, decisa dal
committente, non prevede un contatto preliminare tra le parti che devono in-
teragire. Sia in questi casi che nelle indicazioni di routine sullo svolgimento
del colloquio, si manifesta il ruolo di coordinamento dell’interazione svolto
dal mediatore-interprete. A questo punto, esplicitiamo il passaggio da un co-
dice all’altro in forma ripetuta, attraverso un grafico di commutazione lingui-
stica:

59 È prassi che il richiedente non scolarizzato sia accompagnato da un altro ospite


del centro di accoglienza in possesso di un livello adeguato di conoscenza del
francese, proveniente dalla stessa area anche se da un altro Paese.
60 Il Bambara, madrelingua del popolo omonimo (meno di 3 milioni) è una delle
lingue più diffuse dell’Africa Occidentale, perché usata come seconda lingua da
circa 6 milioni di abitanti del Mali.
61 Il peul, fula, fulani, tra gli altri nomi, non solo è lingua madre dei Peul o Fulbe
abitanti in circa venti stati dell’Africa occidentale e centrale ma anche lingua
seconda di altri popoli, pertanto lingua franca regionale.
Nel diagramma, la sequenza di uso delle lingue risulta essere: L1 (Ita-
liano), in cui l’avvocato si rivolge alla mediatrice (1), L2 (Francese), in cui
la mediatrice traduce al co-mediatore (2); L3 (veicolo), in cui il co-mediatore
traduce al richiedente (3); L3 (veicolo), per la risposta del richiedente al co-
mediatore (4); L2 (Fr.) dal co-mediatore al mediatore (5); L1 (It.) dal media-
tore all’operatore (6). Schematizzando:
L1 > L2 > L3 > < L3 < L2 < L1
Nello stesso grafico è possibile visualizzare la prossemica dell’intera-
zione all’interno della tetrade, in cui il richiedente rimane tra i due co-media-
tori, in una posizione che consenta di guardare ed essere guardato da en-
trambi, sebbene questi si rivolga quasi esclusivamente al co-mediatore par-
lante la lingua in uso tra i due. Si manifesta ancora l’importanza del lin-
guaggio non verbale, in quanto gli sguardi e i gesti del richiedente vanno
anche indirizzati alla mediatrice, come puntualizzazione del suo discorso.
L’attenzione del co-mediatore va sostanzialmente rivolta alla mediatrice e al
mediato (bidirezionalità), mentre quella della meditatrice non si limita all’in-
terazione con l’avvocato e il co-mediatore ma si estende ad un sommario
controllo visuale e auditivo del richiedente (tridirezionalità). Difatti, se il
tono e le inflessioni della voce di quest’ultimo, come anche la gestualità che
l’accompagna, per citare solo alcuni degli elementi paraverbali, risultano in
qualche modo riconoscibili al mediatore, possono contribuire all’interpreta-
zione del suo discorso. Senza pretendere di rinchiudere la professione dentro
a stereotipi etnicizzanti, non possiamo tralasciare il vantaggio di cogliere la
sua dimensione simbolica e culturale, oltre agli aspetti linguistici e interlin-
guistici, come ben sottolineano Luatti e Torre (2012: 32), mettendo in rilievo
“il forte intreccio e la mescolanza tra lingua e cultura nell’interazione me-
diata”.
Al di là degli aspetti descrittivi dell’analisi, l’intervento quaternario ha
permesso di notare che il suo successo dipende dalle competenze supple-
mentari di cui dispongono i mediatori, che difficilmente possono limitarsi al-
l’interpretariato verbale, in questo caso attraverso una lingua intermedia
come il francese, scarsamente o per nulla acquisita nei contesti d’origine. In
maggior misura, però, sono state messe in luce le abilità spontanee del co-
mediatore non professionista, in termini di disposizione all’ascolto e di faci-
lità di espressione nei due codici adoperati, oltre che della conoscenza gene-
rica del contesto di provenienza del richiedente. Per entrambi, si conferma
che la vicinanza ai Paesi d’origine dei mediati diviene basilare. Tuttavia, il
riconoscimento di queste conoscenze e competenze rimane, sia per il profes-
sionista che per il volontario, lungi da un reale apprezzamento.
Qualche conclusione
Gli interventi che stanno alla base di questo studio mostrano la possibilità
d’intersezione e di combinazione delle tecniche e strategie utilizzate in altri
ambiti di mediazione, come anche dell’interpretariato, in un insieme che po-
trebbe essere oggetto di un altro studio.
Con questo panorama di un campo specifico come quello della P.I., ab-
biamo potuto mettere a fuoco alcune risorse e modalità spazio-temporali
della mediazione linguistico-culturale. La variante offerta da qualche colla-
boratore occasionale ha fatto sorgere ulteriori elementi di analisi e prospet-
tive.
Non siamo all’oscuro del condizionamento che il modello scelto per raffi-
gurare l’esperienza, anche se elaborato a posteriori, ha avuto nella descri-
zione del processo. Tuttavia, ci auguriamo che sia gli aspetti di metodo che i
contenuti rilevati possano agevolare il cammino professionale nell’ottica di
multidimensionalità e interdisciplinarietà sostenuta da vari studiosi, portando
in modo più generale, verso una cultura della mediazione in cui la compe-
tenza culturale vada diffondendosi. È questa un’aspirazione ambiziosa,
dentro ad una sempre più necessaria valorizzazione della mediazione stessa e
degli operatori che – assieme agli utenti – ne sono protagonisti.
Il rendere conto del dialogo possibile tra i due diversi agenti che interagi-
scono nei confronti dei richiedenti, resi particolarmente fragili dagli intensi
vissuti e dai tortuosi percorsi, ha stimolato la riflessione sulle potenzialità
della mediazione per avvicinare le realtà migratorie coinvolte. È comunque
questo l’esercizio auspicabile per riuscire a trasformare la mediazione in
un’area di convergenza interdisciplinare, in cui confrontarsi ed imparare gli
uni dagli altri, compresi i co-mediatori familiarizzati con le aree di prove-
nienza.
Un maggior riconoscimento nei confronti delle figure i cui compiti risul-
tano decisivi per un esito positivo dell’intervento, non dovrebbe ignorare
quelli il cui supporto si rivela, nei casi che lo esigono, ugualmente cruciale,
pur essendo unicamente affidato alla casualità e l’improvvisazione. Rite-
niamo che il rischio di accentuare l’etnicizzazione e il culturalismo non
debba ostacolarci nell’ipotizzare un’offerta di percorsi professionalizzanti in
cui l’arricchimento reciproco possa fare diventare risorsa disponibile le com-
petenze ed esperienze messe alla prova sul campo. L’occupazione degli asi-
lanti, lo ricordiamo, anche di quelli che possono avere dimostrato spiccata
predisposizione ad interpretare e mediare ed un adeguato livello d’istruzione,
raramente spazia oltre la manovalanza, anch’essa in contrazione. Testimone
e fruitore delle sue prestazioni, anche egli spesso precariamente impegnato,
il mediatore potrebbe contribuire a rafforzare quest’orientamento, valutando
e scambiando saperi, per acquisire insieme degli strumenti che servano a co-
struire dei profili innovativi, in grado di aprire nuove vie al lavoro.
Vale infine la pena di rimarcare quanto si possano scorgere, attraverso un
pur limitato numero di esperienze in esame, le potenzialità della narrazione
come mediazione, in quanto discorso indiretto e, allo stesso tempo, requisito
sine qua non della mediazione stessa.

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Scegliere la scuola:
tra bagaglio culturale e aspettative per il futuro
María Luisa Gutiérrez - Centro Scuole Nuove Culture
Comune di Genova

Gracias quiero dar al divino Laberinto


de los efectos y de las causas
por la diversidad de las criaturas
que forman este singular universo.
J. L. Borges

Nelle società che accolgono le migrazioni, che peraltro, come la storia ha


dimostrato, cambiano ciclicamente, raramente capita che ci si chieda il per-
corso pregresso della gente che si accoglie. Le masse migratorie causate dal
bisogno di lavoro arrivano là dove c’è una richiesta di mano d’opera, di
forza lavoro, e quindi non si sente la necessità di indagare sulla formazione
dei singoli individui arrivati da altro. Essi arrivano per coprire dei posti va-
canti nelle fasce meno qualificate del mercato del lavoro; solo questo ci si
aspetta da loro. “L’immigrato, per la società che così lo definisce, esiste sol-
tanto nel momento un cui varca le sue frontiere e calpesta il suo suolo: è in
quel momento che “nasce” l’immigrato, per la società che così l’indica. Per
questo la società si permette di ignorare completamente ciò che precede quel
momento e quella nascita. Si tratta di un’altra versione dell’etnocentrismo”
(Sayad 2008: 15).
Nel nuovo contesto, ovvero la società di accoglienza, coloro che arrivano
da altrove, non solo da autoctoni diventano alloctoni, da cittadini clandestini
(parole pregne di profondi significati sociali e psicologici), ma di colpo tutto
il loro passato – che nella maggior parte dei casi è ben diverso da quello che
ci si aspetterebbe in termini di formazione e di status sociale 62 – viene azze-
rato. Non si prende nemmeno in considerazione la possibilità di un passato
non lontano, in termini di tempo, ricco di istruzione, cultura, ecc..
Analizzando, fra i diversi tipi di migrazioni, il particolare caso delle fami-
glie latinoamericane in Italia, constatiamo che è una migrazione soprattutto
femminile e che il cosiddetto “progetto migratorio” prevede di solito l’arrivo

62 Come è dimostrato da questa testimonianza in cui si allude ad una casa di


proprietà in patria che ha lasciato il posto a una stanza condivisa con altri parenti
quando non altri coinquilini: “In casa siamo la mamma, mia sorella ed io in una
stanza, ci sono altre due stanze che sono per i miei zii e i miei cugini” (L., secondo
anno di scuola media di primo grado).
della madre di famiglia in Italia, e un successivo ricongiungimento familiare
con marito e figli. Durante gli anni in cui la madre (e talvolta anche il padre)
è in Italia, i ragazzi sono affidati alle cure di nonni o zii, grazie alle rimesse
dei genitori che consentono ai figli non solo di far fronte ai bisogni essen-
ziali, ma anche di avere un livello di vita superiore alla media sfruttando il
cambio favorevole dell’euro. Sovente i ragazzi possono anche permettersi di
frequentare scuole private. Inoltre, essi hanno un potere di acquisto alto ri-
spetto alla media dei coetanei della società alla quale appartengono, possono
permettersi di avere “status symbol” (smart phone e vestiti firmati, ad
esempio), uscire con gli amici, ecc. Cosa succede quando poi vengono in
Italia? I soldi che guadagna la madre non hanno qui lo stesso valore econo-
mico e le scarpe di marca, i bei vestiti, i divertimenti a cui potevano accedere
nella madrepatria diventano qui un lontano ricordo. Nel Paese di accoglienza
cambia radicalmente la percezione della posizione sociale; improvvisamente
perdono il precedente status socio-economico. In molti casi questo cambia-
mento provoca un disorientamento che può sfociare, per dare uno esempio,
in rabbia contro la famiglia o la società. Si passa brutalmente da ragazzi
“ricchi” del quartiere a “figli della colf”.
Il cambiamento brusco, radicale si ripercuote sui ragazzi che frequentano
le nostre scuole, vittime loro malgrado di esigenze migratorie che segnano le
loro vite, ne trasformano le identità, modificano i modi di vivere all’interno
di una società. Per i genitori, e di riflesso per i figli, che ne soffrono enorme-
mente, emerge la frustrazione di non vedere riconosciuti i loro titoli di studi
o le professioni che svolgevano nel Paese di origine. Sono consapevoli che
nei loro Paesi facevano dei lavori qualificati e che qui in Italia possono solo
avere lavori di livello molto inferiore. Una consapevolezza che non può che
causare disagio e sofferenza.

Capitale culturale. I bagagli non sono vuoti


Nell’ambiente scolastico la parola frontiera e i suoi effetti entrano a pieno
titolo. I ragazzi immigrati o figli dell’immigrazione sono visti come qualcosa
di particolare, di speciale, di diverso, “fuori (dal confine) perché “stranieri”
da orientare, alfabetizzare, integrare. Dentro perché “immigrati” regolari,
forse futuri cittadini, intanto studenti, lavoratori, figli, mogli o mariti di ita-
liani” (Zoletto 2007: 16).
Anche per i pochi insegnanti accoglienti, cioè, coloro che credono che
l’arrivo di “stranieri” in classe possa essere un’opportunità per tutti di impa-
rare da altre esperienze, e che aiutano i ragazzi a inserirsi nel nuovo contesto
in maniera serena e rassicurante, è necessario avere una mappa da seguire.
Infatti, pur considerando il loro arrivo positivamente, li vedono comunque
come ragazzi “diversi” e quindi con bisogni particolari. Quando si parla di
mappa da tracciare, si parla di un programma apposito perché sono co-
munque ragazzi “stranieri” e come tali devono seguire dei compiti prefissati
per loro. Non si riesce a vederli come gli altri allievi, anche nei casi in cui,
pur essendo “stranieri” di fronte alla legge, sono nati e cresciuti in Italia 63.
Naturalmente questa percezione della diversità si accentua ulteriormente nei
confronti degli allievi che arrivano qui con un percorso scolastico già fatto
nel Paese di origine.
Difficilmente si parla degli immigrati anche da un altro punto di vista,
cioè in quanto “emigrati”, non si considera per nulla i loro percorsi di vita e
di studi precedenti. A scuola si dà inizio alla fase di conoscenza dei ragazzi
stranieri o di origine straniera in quanto immigrati, mai in quanto emigrati.
Nelle scienze sociali si parla sempre dell’immigrazione e degli immigranti,
adottando, come ha fatto notare Sayad, categorie create dalla società d’immi-
grazione. Non si parla mai di scienze dell’emigrazione, si trascura completa-
mente quell’altra faccia della medaglia (Sayad 1999). Nonostante le migra-
zioni risalgano agli albori della storia dell’umanità, e corrispondano alla ri-
cerca di opportunità in luoghi diversi quando nel proprio territorio la vita di-
venta difficile e con scarse opportunità, spesso nelle società che percepi-
scono le migrazioni come una minaccia o un’invasione, non si riesce a rea-
lizzare che “le migrazioni e le loro conseguenze hanno contribuito al patri-
monio di creazioni e trasformazioni politiche, economiche e culturali nei di-
versi Paesi” (Gómez Ciriano, 2005: 23), perdendo in questa maniera il valore
delle risorse che portano implicitamente le persone protagoniste delle migra-
zioni.
Invece sarebbe opportuno guardare oltre, cosa c’è proprio in quella faccia
della medaglia nei confronti della quale noi spesso mostriamo una completa
indifferenza. I bagagli dei ragazzi e delle loro famiglie non sono vuoti; sono
pieni di esperienze, conoscenze, stili educativi, ecc. Il fatto che questi ba-
gagli possano sembrare e anche essere diversi, non vuol dire che il loro con-
tenuto sia nullo64. Quando le persone si trasferiscono in un altro Paese de-
63 Dal 2003 svolgo il lavoro di mediatrice culturale. In questo contesto, ho
frequentato svariate scuole della città di Genova di diverso ordine e grado.
Innumerevoli sono state le occasioni, lungo questi anni, in cui ho sentito chiamare
“stranieri” gli studenti nati in Italia da genitori stranieri. Sul piano legale,
effettivamente, il più delle volte sono persone non italiane: la loro cittadinanza
rimane quella dei genitori, per via del principio Ius sanguinis vigente in Italia, ma
questo fatto è nettamente burocratico, non corrisponde all’autorappresentazione dei
nostri allievi. Molto significative le parole di una madre di origine peruviana: “Mio
bambino non parla mai in classe, prima lo faceva continuamente, finché un giorno,
l’insegnante gli chiese di raccontare il suo Paese. Lui era nato in Italia, non aveva
mai visto il Perù, che è il mio Paese, non il suo. In profondo imbarazzo davanti ai
compagni, non sapendo niente di questo ‘suo’ paese, lui inventò una storia. Da allora
però non ha mai più voluto parlare in classe”.
64 In una intervista, una ragazza della terza media mi racconta: “Ora devo fare gli
esami finali, ho delle difficoltà in Storia, non so niente di tutto quello che loro hanno
vono scegliere accuratamente cosa portare nelle loro valigie, non ci sta tutto.
Ma i loro bagagli culturali, non hanno bisogno di uno spazio fisico, sono pre-
senti in loro, fanno parte di loro stessi. Esistono, dobbiamo aprirli e scoprire
cosa c’è dentro in modo tale che anche le linee del nostro protocollo di acco-
glienza sia più giuste e ricche. Non possiamo pretendere di fare dei progetti
di accoglienza ai ragazzi stranieri, o dei programmi di mediazione intercultu-
rale nelle scuole se non prendiamo in considerazione il fatto che ci sono di-
verse culture. Un programma per la scuola di oggi non si può basare su una
lettura etnocentrica, deve sapere leggere il mondo in maniera aperta, ecco
perché è importante andare a scoprire il contenuto dei bagagli culturali delle
persone che fanno parte della nostra società. Questo è stato ampiamente rico-
nosciuto da un documento nazionale di grande rilevanza, “La via italiana per
la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri”, pubblicato a
ottobre del 2007 dal Ministero della Pubblica Istruzione. Tale documento di-
chiara che a livello pedagogico-didattico “vengono rilevati durante i primi
giorni dell’inserimento i bisogni linguistici e di apprendimento, in generale,
e anche, le competenze e i saperi già acquisiti e, sulla base di questi dati si
elabora un pieno lavoro individualizzato” (La via italiana per la scuola in-
terculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, p. 12). Questo punto è
stato ribadito da un documento successivo, pubblicato dal Ministero dell’I-
struzione dell’Università della Ricerca a febbraio 2014: “È prioritario (...)
che la scuola favorisca, con specifiche strategie e percorsi personalizzati a
partire delle indicazioni nazionali (...) un possibile adattamento dei pro-
grammi per i singoli alunni, garantendo agli studenti non italiani una valuta-
zione che tenga conto, per quanto possibile, della loro storia scolastica prece-
dente, degli esiti raggiunti, delle caratteristiche delle scuole frequentate,
delle abilità e competenze essenziali acquisite” (Linee guida per l’acco-
glienza e l’integrazione degli alunni stranieri, p. 13).
Sin dai suoi primi passi, l’antropologia dell’educazione si è occupata di
capire le cause dei successi o degli insuccessi a scuola dei ragazzi apparte-
nenti alle minoranze; si è constatato che gli esiti scolastici negativi non sono
causati da una deprivazione culturale o da una mancanza di stimoli familiari
o educativi ma da una oggettiva incapacità da parte di questi allievi di reg-
gere il confronto con compagni maggiormente abituati ad ambienti di ap-
prendimento culturalmente diversi. Ogbu (Ogbu 1982, 1987), si allinea alla
posizione di altri antropologi per cui alcuni gruppi vanno meglio a scuola
perché le loro culture sono congrue alla cultura della scuola ma poi va oltre

imparato in questi tre anni. Come posso imparare in sei mesi, da quando sono
arrivata in Italia, quello che hanno fatto loro in tre anni? E se io dicessi alla prof. di
interrogare i suoi allievi fra sei mesi sulla storia precolombiana e la colonizzazione
dell’America?”. Questa studentessa aveva colto, senza sentimenti di inferiorità, che
il suo bagaglio culturale era pieno di informazioni, diverse da quelle dei suoi
compagni, ma ugualmente ricco. Un programma scolastico positivo potrebbe
prendere il considerazione l’alternativa di portare argomenti a scelta degli studenti.
mettendo in luce, in diverse sue ricerche, la discontinuità negli aspetti sociali
ed emotivi che ogni bambino sperimenta a casa e a scuola. Quando il bam-
bino passa dall’ambiente materno/famigliare a quello scolastico, sperimenta
un’inevitabile discontinuità/differenza tra questi due ambienti. Già quando
passa dallo stile di educazione che gli viene impartito a casa allo stile educa-
tivo del contesto formale che è la scuola, subisce una discontinuità non indif-
ferente. Potremmo chiamare l’educazione di casa “cultura orale” o “cultura
informale” e quella scolastica “cultura letterata” o “cultura formale”, dove la
scrittura e le regole sono le fondamenta per la trasmissione del sapere. Pen-
siamo allora alle discontinuità che possono subire i ragazzi che arrivano da
Paesi dove lo stile educativo è diverso da quello italiano. E non solo, pro-
viamo anche a pensare a un’ulteriore discontinuità, cioè quella creata dal-
l’uso della lingua. Nell’inserimento dei ragazzi provenienti da altri Paesi, la
lingua costituisce uno degli ostacoli, senz’altro il primo, che devono affron-
tare al loro arrivo nel nuovo ambiente. La società occidentale ha la tendenza
a essere pregiudiziale nei confronti degli immigranti e i loro figli, associan-
doli a una scarsa istruzione o addirittura a una sua assenza. Ovviamente la
realtà è diversa, le persone che arrivano da altrove sono sempre agenti di cul -
tura, ed è nostro dovere dunque confrontarci in modo paritario con le per-
sone provenienti da qualsiasi altra cultura.
I bambini acquisiscono le competenze per adattarsi a una determinata so-
cietà o strato sociale attraverso il processo di socializzazione. Dato che non
si tratta di fattori innati, la scuola, essendo uno dei primi luoghi di socializza-
zione, diventa fondamentale per l’acquisizione di conoscenze e comporta-
menti. È allora importante che l’insegnante, nell’organizzazione del proprio
lavoro con i ragazzi stranieri o di origine straniera, scelga come punto di
forza l’aspetto dell’emigrante prima di quello dell’immigrante, pensi alle di-
scontinuità possibili e ai modi di socializzazione che possono essere messi in
atto per adattare i modelli precedenti a quelli attuali, faccia del bagaglio di
conoscenza e di esperienze dei ragazzi un punto di partenza forte anziché ne-
garlo o ignorarlo. Altrimenti nel passaggio da un Paese all’altro, l’allievo
perderà elementi preziosi per una riuscita positiva, dovrà ripartire da zero,
sarà enormemente svantaggiato nei confronti dei compagni autoctoni se i do-
centi pensano che non ci sia niente nel suo passato degno di essere valoriz-
zato. Questo non riconoscimento delle competenze precedenti equivale a una
destabilizzazione dell’allievo: sarà considerato un elemento subordinato
della società, un individuo da costruire dal nulla, inserito in posizione subor-
dinata rispetto al gruppo dominante. La scuola è pertanto un punto chiave
per il riconoscimento delle capacità degli individui, o delle minoranze, di es-
sere agenti di cultura: “istruzione, educazione, inculturazione risultano, in
queste ricerche, dimensioni passibili di generare conflitti ma al tempo stesso
in grado di stimolare l’invenzione di strategie educative, culturali e sociali”
(Gobbo e Gomes 2003: 5).
Quando la scuola interpreta gli ostacoli che i figli degli immigranti de-
vono affrontare nel nuovo contesto scolastico, cerca di tracciare un percorso
per l’apprendimento e per la cosiddetta “integrazione” degli allievi, per aiu-
tarli a superare le difficoltà. Si tende a lavorare su ipotesi di deficit, di man-
canza di competenze che vanno molto oltre il problema linguistico, si tende a
semplificare il problema (o ad aggravarlo) pensando che gli allievi arrivino
tutti quanti dalle stesse aree geografiche o culturali, senza approfondire la
conoscenza specifica di ogni caso 65. Il pensiero predominante (anche incon-
sapevole) è quello che i ragazzi siano svantaggiati in quanto arrivano da con-
testi tradizionali, poco acculturati (secondo una visione etnocentrica!).
Quindi la tendenza è quella di enfatizzare la distanza fra le capacità, compe-
tenze e scolarizzazione degli stranieri rispetto a quelle degli autoctoni, dando
per certo che il loro ambiente di provenienza sia stato poco colto, poco sti-
molante, e dunque poco complesso e troppo concreto (legato alle attività ru-
rali).
Lo sforzo degli insegnanti verso gli stranieri viene spesso orientato al rag-
giungimento degli obiettivi minimi del gruppo, ponendo di conseguenza una
grossa limitazione alle aspettative che si possono avere sugli allievi. Può
succedere che, guidati da errate valutazioni, gli insegnanti siano soddisfatti
di un basso rendimento da parte dello studente di origine straniera, limitando
in questo modo le sue potenzialità o che ci sia la tendenza a pensare che “è
fin troppo bravo per il percorso dal quale arriva” 66. Di conseguenza, il ra-
gazzo, pur dotato, non potrà raggiungere alti obiettivi, si adatterà a quello
che gli basta per non essere bocciato a scuola e per ricoprire i ruoli percepiti

65 Insegnante di una scuola media genovese: “Tutti i ragazzi marocchini che


arrivano a scuola vengono dalle campagne, sono di famiglie di pastori, analfabeti.
Come possiamo aiutarli se non sanno nemmeno leggere nella loro lingua?”. Nella
mia ricerca, realizzata all’interno di una scuola sita nel Centro Storico della città di
Genova, che da decenni è caratterizzata da una elevatissima percentuali di allievi
stranieri o figli di stranieri, in particolar modo ragazzi del Maghreb, dell’Africa
Occidentale e dell’America Latina, sono andata a documentarmi sulle provenienze si
questi ragazzi e a parlarne con il mediatore maghrebino. Alcuni venivano dalla
Tunisia, altri dalle grandi città del Marocco. E sicuramente non erano analfabeti.
66 In una scuola media di primo grado, durante il percorso di orientamento per le
scuole medie di secondo grado, una ragazza di origine albanese mi racconta: “la mia
prof. ha deciso che io devo andare a un istituto tecnico, io volevo fare il liceo
scientifico. Mia madre è venuta a scuola a chiedere come mai io insistessi per
un’altra scuola e non fosse d’accordo con la scuola. La prof. ha detto a mia madre
che è così, che è vero che io sono brava a scuola ma che succede sempre con noi che
quando cresciamo non abbiamo più voglia di studiare e che molliamo la scuola, che
dovevo andare in una scuola più facile per non perdere del tempo. Mia madre ha
pensato che lei era una esperta e mi ha iscritto all’istituto”. Questa intervista ci
dimostra quanto i genitori si affidino alla scuola quando si tratta dei percorsi
scolastici dei propri figli e come possa essere dannoso se gli insegnanti sono guidati
da falsi pregiudizi.
come già previsti per lui dalla società di accoglienza. La via italiana per la
scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri del 2007, riguardo
il ruolo del personale docente e non docente: “Una rinnovata visione della
formazione degli insegnanti come “sensibili alle culture” mira ad una costru-
zione di tipo riflessivo della personalità dei docenti, per renderli capaci di
apertura alla diversità ed interpretazione del bagaglio culturale degli
alunni/studenti nei loro aspetti singolari e soggettivi. Questi elementi di svi-
luppo delle competenze degli insegnanti segnano la tendenza verso il supera-
mento di forme prevalentemente informativo-culturali o estetiche della for-
mazione, per rivolgersi ad intenzionalità di formazione critica, in grado di
sollecitare il ripensamento del ruolo del insegnante in quanto tale. (...) A
questo aspetto va però aggiunta la competenza di gestire le grandi questioni
etniche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimilazione.
(...) Non può mancare l’immersione e la scoperta, per quanto parziale, di al-
meno un universo culturale degli immigranti, per confrontarsi con una diver-
sità sperimentata e non solo immaginata”. (La via italiana per la scuola in-
terculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, p. 20).
Come affermano Canevaro, Berlini e Camasta: “Il passato non deve es-
sere né cancellato né dimenticato, (...) il passato deve essere conosciuto e
adoperato per costruire, magari con la tecnica del bricolage, modelli cultu-
rali, e quindi percorsi educativi, che utilizzino trame e pezzi per parlare di
partecipazione alla vita del gruppo ma anche di a quella della comunità più
ampia, per svegliare la solidarietà verso il fratello, il compagno, anche verso
lo sconosciuto che condivida un’idea, un bisogno, uno slancio emotivo” (in
Gobbo 1996: 51). Non si tratta semplicemente di “solidarietà”, si tratta anzi
di scelte educative che arricchiscono sia gli alloctoni sia gli autoctoni, in
quanto riconoscendo il valore di tutti i tipi di bagaglio che si possiede, si
inizia a costruire da una base più solida nel mutuo riconoscimento dei diversi
valori e si procederà riuscendo a raggiungere meglio gli obiettivi di tutto il
gruppo classe in primis e della società del futuro se si pensa ai frutti a lungo
raggio.
È importante pensare a lavorare alla costruzione di obiettivi comuni; non
si può continuare a considerare l’immigrato una presenza eternamente
estranea, questo tipo di pensiero equivale alla illusione di una presenza prov-
visoria (Sayad 2008). Molte ricerche socio-antropologiche rivelano che nei
“progetti migratori” di tanti stranieri è previsto il ritorno in patria; questo
progetto però decade con il passare degli anni e le dinamiche di inserimento
nella società di accoglienza. Per la maggior parte delle famiglie il ritorno in
patria diventa solo un’illusione che le tiene legate emotivamente al Paese di
origine; solo poche torneranno veramente dopo anni di lavoro in Italia.
Soprattutto dopo il ricongiungimento, le prospettive delle famiglie cam-
biano radicalmente: non sarà più semplice tornare in patria con i figli che
crescono in Italia, che costruiscono dei legami con il territorio, ecc. Per loro i
ricordi dei Paesi di origine diventano sempre più lontani e nebulosi fino a
non riconoscerli più, anzi, a distaccarsene completamente. Di conseguenza,
una migrazione di ritorno non sarebbe più il completamento del loro pro-
getto, ma sarebbe una nuova migrazione con tutte le difficoltà che questa
comporta: necessità di creare nuovi legami, vuoti scolastici, riconoscimento
del territorio che nel frattempo si sarà molto modificato e così via.
La presenza degli stranieri è dunque una presenza duratura o anche defi-
nitiva, è questa la ragione per la quale dovremmo smettere di pensare a loro
come a degli estranei.

Conclusioni
Nel nuovo ordine sociale ed economico mondiale, nei processi migratori
che vedono milioni di persone che partono da Paesi meno sviluppati verso
Paesi dove le prospettive di vita sono migliori, i sistemi educativi devono
avere un ruolo prioritario. La scuola è uno dei primi luoghi di socializza-
zione, il secondo dopo la famiglia; è l’istituzione alla quale i genitori affi-
dano il futuro dei loro figli (e in qualche modo anche il loro) sperando in una
ascesa sociale ed economica che probabilmente a loro non è riuscita oppure
è riuscita ma non in maniera pienamente soddisfacente.
Il sistema scolastico è l’anello della catena che unisce le famiglie di ori-
gine straniera alla società italiana, molto di più di quanto possa esserlo, ad
esempio, il lavoro. Le possibilità lavorative per gli immigranti (anche se lau-
reati, diplomati, ecc.) si riducono spesso a determinati mestieri considerati
“tipici” della categoria generale “immigranti” (badanti, colf, raccoglitori di
frutta, ecc.) o in relazione alle loro vere o supposte capacità collegate al
paese d’origine (gli albanesi sono tutti muratori!!!).
La scuola, invece, diventa il luogo principale dell’effettiva convivenza tra
individui che hanno le più svariate storie di vita: chi nasce in Italia da geni -
tori italiani, chi figlio di coppie miste, chi figlio di stranieri nato in Italia, chi
di recente migrazione e così via.
Se vogliamo abbattere le frontiere, non quelle fisiche ma quelle presenti
ostinatamente nella realtà del nostro quotidiano, le frontiere segnate dai pre-
giudizi, dalla discriminazione, dai falsi miti colonialisti di superiorità, è ne-
cessario iniziare dalla scuola. I ragazzi sono le prime vittime di queste “fron-
tiere”. In una società che investe in una convivenza armoniosa fra tutti i suoi
partecipanti, i ragazzi, coinvolti nei processi di migrazione, devono essere
accolti con una disponibilità del tutto positiva dalle istituzioni scolastiche.
Per abbattere le frontiere all’interno delle scuola, per iniziare il percorso
della convivenza plurale, è necessario abbattere in primis i nostri pregiudizi
e stereotipi, dando spazio a uno sguardo incontaminato che ci permetta di co-
noscere l’altro come persona e riconoscere le sue capacità, potenzialità e il
suo bagaglio culturale. Il bagaglio culturale che i ragazzi portano a scuola
non è vuoto, bensì pieno di esperienze e di conoscenze, che potrebbero e do-
vrebbero essere viste come un dono 67 per la nostra crescita di cittadini del
mondo, invece di essere visto, (sovente succede) come un impedimento per
lo svolgimento dei programmi di studio delle scuole.
L’antropologia dell’educazione mette in luce questo valore nel suo la-
voro: i ragazzi stranieri sono portatori di cultura, con difficoltà create dalla
discontinuità nello stile dell’educazione o dalla lingua, ma detentori di cono-
scenze di valore non indifferenti. Di conseguenza, risulta importante pren-
dere in considerazione i trascorsi educativi dei ragazzi, dare particolare at-
tenzione al lato “emigranti” del quale parla Sayad, per iniziare un percorso
nella società di accoglienza. Poco utile sarebbe invece percepirli (o conti-
nuare a percepirli) soltanto come “immigranti” tralasciando il loro passato,
valutandoli di fatto subordinati al gruppo dominante. I ragazzi quando arri-
vano da un’altra realtà culturale e linguistica sono svantaggiati dalle diffi-
coltà create dalla mancanza di conoscenza della lingua e dalla discontinuità
che incontrano fra i precedenti sistemi e modelli educativi e i nuovi. Se non
diamo valore alle esperienze educative fatte nei Paesi di origine, e di conse-
guenza iniziamo da zero la loro educazione, non stiamo affatto favorendo il
loro percorso; al contrario, stiamo accrescendo le loro difficoltà nella nuova
realtà.
La scuola è l’ambiente che gioca un ruolo fondamentale nel promuovere
le capacità umane. È compito degli insegnanti, che sono a contatto quoti-
diano con i ragazzi, valutare con particolare attenzione le loro capacità e po-
tenzialità e lavorare per sfruttarle al massimo. Le famiglie immigrate, non
avendo gli strumenti per scegliere la scuola dei figli in un territorio parzial-
mente o totalmente sconosciuto, si affidano totalmente agli insegnanti ed
educatori. Le famiglie hanno un atteggiamento favorevole nei confronti della
Scuola; il più delle volte hanno intrapreso il progetto migratorio proprio per
essere in grado di dare ai figli delle opportunità migliori a livello educativo,
venendo da Paesi in cui l’educazione è buona se si ha la possibilità di pa-
garla, altrimenti ci si deve accontentare di scuole di basso livello. Risulta al-
lora dovere della scuola mettere a frutto la fiducia ricevuta, sfruttando a
pieno le capacità e le potenzialità degli allievi.
Quelli che noi ci ostiniamo a chiamare immigrati non lo saranno per
sempre. Nonostante un iniziale progetto migratorio che prevede il rientro in
patria, molte persone che arrivano da noi si stabiliranno e rimarranno nella
società di accoglienza, dove non saranno più ospiti ma concittadini. La so-
cietà di accoglienza deve dare le opportunità ai ragazzi delle scuole di acce-
dere ad un’istruzione adeguata per formarli per il futuro, per un’occupazione
67 “Dono” nel senso antropologico del termine, al riguardo gli studi di Marcel
Mauss nel “Saggio sul dono” in cui ci illustra le forme e motivi di scambio nelle
società, partendo da quelle arcaiche e che possiamo applicare alle nostre odierne
società.
congrua alle loro capacità e aspettative. La scuola deve essere in grado di
saper valutare le potenzialità di ciascuno dei suoi allievi, e aiutarli a svilup-
pare il percorso formativo che potrà sfociare in un lavoro soddisfacente dove
le loro qualità e capacità possono essere messe in rilievo. La stigmatizza-
zione dell’allievo straniero nasce spesso, e purtroppo, da un radicato pen-
siero comune sulle capacità/incapacità dell’“Altro” e dalla noncuranza nel-
l’indirizzare verso percorsi formativi non adeguati alle reali possibilità intel-
lettive dei ragazzi. Una scuola che funziona deve dare a tutti quanti le stesse
opportunità: gli allievi di origine straniera potranno uscire dalle gabbie so-
ciali nelle quali si sono ritrovati. Il sistema scolastico deve tenere presente
che non sono gli allievi che si perdono durante gli anni di studio, ma è certo
il contrario: è la scuola che perde i suoi allievi. La scuola funziona quando vi
è una buona riuscita scolastica e sociale, che sfocia in occupazioni di gradi-
mento e soddisfazione dei ragazzi, evitando così penose e ingiuste frustra-
zioni personali che possono riflettersi nella vita sociale. Inoltre, la nuova
crisi mondiale sta portando a cambiamenti di direzione nelle migrazioni.
D’altronde la storia può ripetersi. Oggi la crisi economica in corso spinge
tanti italiani, specie i giovani, a partire in cerca di opportunità in altri paesi!
Una scuola che lavora per la valorizzazione di ognuno dei suoi allievi, fa-
cendo notare come le loro conoscenze sono preziose pur essendo diverse,
farà si che, nell’eventuale momento della partenza, i suoi allievi siano pronti
a poter far uso delle proprie ricchezze, non sentendo la diversità come un
“handicap” bensì come un valore aggiunto.

Bibliografia
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Gobbo, Francesca (a cura di), La ricerca per una scuola che cambia, Im-
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http://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_int
ercultura.pdf.
Mediazione educativa interculturale
nelle scuole progettuali dell’infanzia comunali:
tracce di esperienze genovesi
Anila Alhasa e Manuela Magalhães - Cooperativa S.A.B.A.
e Centro Scuole Nuove Culture, Comune di Genova

Questo contributo illustra le esperienze dirette di mediazione intercultu-


rale educativa nell’ambito del progetto sperimentale “Verso una scuola inter-
culturale” del Centro Scuole e Nuove Culture - Laboratorio Migrazioni, del
Comune di Genova nell’anno scolastico 2013-2014. Si tratta di esperienze
vissute in qualità di mediatore interculturale educativo tramite la Coopera-
tiva Sociale Onlus S.A.B.A.
In questo ambito, la figura professionale del mediatore interculturale edu-
cativo ha avuto come principale obiettivo quello di proiettare, insieme agli
operatori del Laboratorio Migrazioni, percorsi specifici di tipo didattico e/o
formativo su tematiche interculturali, affiancando il gruppo di lavoro della
scuola sia in momenti di attività laboratoriali dedicate ai bambini, che in
contesti di routine (ad esempio, situazioni ricorrenti nell’arco della giornata,
dell’accoglienza al mattino dei bambini a scuola, alle relazioni interpersonali
al suo interno, fino al momento dell’uscita scolastica), o nel rapporto con le
famiglie italiane e straniere. La presenza del mediatore ha qui aiutato a carat-
terizzare la scuola come un vero laboratorio di convivenza delle differenze:
laddove la forte concentrazione di persone di diverse origine e cultura, con i
relativi vissuti ed esperienze, può generare conflitti, quando tali differenze
emergano in tutta la loro evidenza. Tali conflitti debbono essere affrontati e
gestiti quotidianamente, facendoli assurgere a priorità nel programma scola-
stico.
Le quattro scuole dell’infanzia che hanno aderito a questo progetto speri-
mentale interculturale sono situate nei Municipi del Centro Est e Centro
Ovest della città di Genova, zone ad alta percentuale di persone d’origine
straniera. Secondo dati dell’Ufficio di Statistica del MIUR - Ministero dell’I-
struzione dell’Università e della Ricerca, relativi all’anno scolastico 2013-
2014, nelle scuole di ogni ordine e grado sono presenti 802.785 alunni figli
di migranti, 16.155 in più rispetto all’anno precedente: questi rappresentano
il 9% di tutta la popolazione scolastica. Nelle scuole e nei servizi educativi
comunali e statali genovesi, sono oggi presenti circa 12.806 bambini di na-
zionalità non italiana, che rappresentano circa l’11,7% dell’intera popola-
zione scolastica (oltre la media nazionale). Questi dati confermano un au-
mento, seppur contenuto in relazione al passato, della percentuale degli
alunni con cittadinanza non italiana.
Passando al progetto per l’anno scolastico 2013-2014, sono stati inizial-
mente realizzati incontri con i gruppi di lavoro delle scuole per comprendere
quali fossero le loro pratiche educative personali, professionali ed organizza-
tive. In seguito, partendo dalla lettura del contesto sociale e scolastico, è
stato realizzato e successivamente proposto alle scuole un catalogo di attività
diviso in tre Schede di Lavoro, con elementi operativi legati ai temi intercul-
turali: Differenze, Lingue e Famiglie. Tali temi rientrano nell’ambito della
pedagogia interculturale, funzionale a un progetto di innovazione della
scuola italiana: essa è infatti parte integrante delle proposte di didattiche cur-
riculari, che una scuola di tipo interculturale può a propria volta proporre ad
altre scuole, in un’ottica di cooperazione reciproca. Questi sono temi inter-
culturali presenti nel manuale programmatico del progetto: “Verso una
scuola interculturale 2012-2013”.
I tre filoni tematici delle Schede di Lavoro sono stati: Differenze, curio-
sità verso il diverso; Lingue, sviluppo linguistico e costruzione della lingua;
Famiglie e percorsi personali. Partendo da questi filoni, collegati alla pro-
grammazione dell’anno scolastico 2013-2014 di ogni scuola dell’Infanzia
coinvolta, sono state selezionate attività esperienziali proponibili sia ai bam-
bini che ai genitori.
Queste attività avevano come obiettivo: riflettere su questioni legate alle
differenze (diversità, curiosità, amicizia, stereotipi e pregiudizi); creare degli
spazi d’incontro tra bambini, insegnanti, genitori e mediatori interculturali su
aspetti legati al plurilinguismo (lingue comuni, “familiari” nell’ambiente
scuola, barriera o ponte) attraverso storie lette e/o raccontate; promuovere in-
fine la partecipazione delle famiglie italiane e straniere, affinché nella scuola
si creino le prime condizioni per una socializzazione più coesa dall’interno
all’esterno (scuola, quartiere e città).
Dalle quattro scuole dell’infanzia che hanno aderito a questo progetto
sperimentale interculturale, due sono situate nel Municipi del Centro Est, che
indicheremo come Scuola dell’Infanzia A e Scuola dell’Infanzia B ed altre
due in quello Centro Ovest della città, indicate invece come Scuola dell’In-
fanzia C e Scuola dell’Infanzia D; stiamo parlando di realtà accomunate dal-
l’ambito territoriale di competenza e dall’elevata presenza di bambini di ori-
gine straniera, ma caratterizzate, ciascuna, da esigenze specifiche, legate alle
pratiche educative personali, professionali ed organizzative della scuola ed
alla programmazione interculturale che ognuna ha scelto di adottare, così
come riportata nelle singole Schede di Lavoro.
Secondo i dati statistici rilasciati dal Comune di Genova e aggiornati al
31 dicembre 2013, la popolazione genovese residente è di 598.973 abitanti,
281.267 maschi e 317.706 femmine.
Nel Municipio del Centro Est, su 88.733 abitanti, per la maggior parte di
sesso femminile (46.385 contro 42.348 maschi), la popolazione è giovane, la
media dell’età è infatti di 46,6 anni. Il numero delle famiglie ammonta a
46.182, i residenti stranieri sono 10.545 e rappresentano l’11,9% sul totale
della popolazione del Municipio; in questa zona la nazionalità prevalente è
quella ecuadoriana. Sono 20.836 le persone seguite con progetto individuale
da parte dell’Ambito Territoriale Sociale, tra cui 7.446 minori 6.916 adulti e
6.474 anziani.
Nel Municipio del Centro Ovest risiedono invece 67.870 persone, anche
in questo caso la maggior parte di sesso femminile (35.574 contro 32.296
maschi), e la cittadinanza residente è giovane: la media dell’età è infatti di
46,4 anni. Il numero delle famiglie ammonta a 34.385; gli stranieri sono
11.759, qui il 17,3% della popolazione del Municipio e la nazionalità più
rappresentata, nella quasi totalità dei Municipi cittadini, è anche qui quella
ecuadoriana (l’unica eccezione del Municipio Ponente, dove prevale la na-
zionalità rumena). Inoltre, per quanto attiene ai servizi sociali, si rilevano
2.266 persone seguite con un progetto individuale: di queste, 1.023 sono mi-
norenni, 670 adulti e 573 anziani.
Nel Municipio del Cento Est la Scuola dell’Infanzia A accoglieva 118
bambini, di cui 46 di nazionalità non italiana, ma tutti nati in Italia, mentre la
Scuola dell’Infanzia B 72 bambini, di cui 25 di nazionalità non italiana. En-
trambe le scuole hanno scelto la Scheda di Lavoro Lingue, tuttavia il pro-
getto è stato realizzato in modi diversi: nella prima si sono approfonditi
aspetti legati al plurilinguismo, attraverso attività di laboratorio con lettura
bilingue, mentre nella seconda il lavoro si è concentrato sul rapporto interfa-
miliare, creando così spazi di incontro tra bambini, insegnanti, genitori e me-
diatori all’interno della scuola.
In particolare, nella Scuola dell’Infanzia A, le cittadinanze dei bambini
sono numerose: prevalgono, come in tutta la città, gli ecuadoriani, ma esiste
almeno un rappresentante albanese, bengalese, boliviano, capoverdiano, cen-
trafricano, cileno, egiziano, filippino, marocchino, nigeriano, peruviano, ru-
meno, senegalese, sudanese.
Questa scuola ha continuato il percorso del progetto sperimentale inter-
culturale partito nell’anno scolastico 2012-2013, proponendo e svolgendo le
attività con i bambini. In questo ambiente il pensiero di una pedagogia inter-
culturale si è mantenuto costante, sia nella scelta dei percorsi, sia nel modo
in cui si sono proposte le attività laboratoriali dell’anno scolastico 2013-
2014.
Le proposte sono state inserite nella programmazione della scuola, che la-
vora da tempo sul tema del plurilinguismo, tema già trattato da diversi anni
dal Laboratorio Migrazioni.
Le attività prevedono riflessioni sul plurilinguismo e sulle problematiche
legate all’incontro delle lingue – la lingua madre o lingua di origine L1 e la
lingua di accoglienza, in questo caso l’italiano, o L2. Dal contatto tra esse
può originarsi il fenomeno del bilinguismo, plurilinguismo (diversi bambini
immigratati recano infatti in dote più di una L1), oppure si può dar luogo al
bilinguismo sottrattivo (ambiente sfavorevole al mantenimento e sviluppo
della L1).
È difficile prevedere l’esito di questo processo, dipende spesso dal pre-
gresso livello di scolarizzazione nel Paese di origine, dalle occasioni di pra-
tica linguistica nel Paese ospitante (e dal valore ad essa attribuito dalla so-
cietà autoctona), dal livello di inclusione sociale nella comunità culturale da
cui si proviene e dalle decisioni familiari.
Lo sviluppo e il mantenimento di una lingua L1 o L2, secondo Favaro
(2005), rimangono in ultima analisi legati, per i bambini immigrati, alle rela-
zioni affettive ataviche e a quelle che è possibile sviluppare o mantenere, o
che si teme di perdere a causa dell’indebolirsi della competenza comunica-
tiva.
Quando poi si parla di bilinguismo per questi bambini, la questione si
presenta più complessa. Parlare ed esprimersi correttamente (e con basi so-
lide) nella lingua della famiglia L1, così come nella L2 in ambito scolastico,
non solo li rende capaci di padroneggiare due idiomi dal punto di vista didat-
tico o coadiuvante nelle abilità di apprendimento e creazione infantile (ela-
borando le informazioni attraverso due linguaggi diversi), ma contribuisce a
caratterizzare nel contesto sociale i migranti bilingui come “individui”:
spesso, infatti, si pone il problema dell’accettazione di comunicare nella pro-
pria lingua, senza curarsi del giudizio di chi ti ascolti.
Attraverso i giochi, le filastrocche e le ninna nanne del mondo si sono po-
tuti approfondire aspetti legati al plurilinguismo: l’ambiente scuola diventa,
dunque, spazio di dialogo, di scambio e discussione da parte di tutti.
Le attività di laboratorio bilingue sono state realizzate in albanese e por-
toghese-brasiliano, due lingue non parlate dai bambini, se non qualche caso
isolato (in un caso soltanto si riscontra un genitore di origine albanese). Pro-
porre una lingua non sentita nella scuola pone tutti i bambini nelle stesse
condizioni di ascolto, di comprensione, di interpretazione e apprendimento;
crea altresì le basi per un’apertura verso le lingue in generale e per la valo-
rizzazione ed integrazione dei propri idiomi nel tessuto sociale scolastico,
come parte effettiva dello stesso.
Sul rapporto fra le lingue famigliari e le lingue della scuola, riportiamo il
pensiero del psicolinguista Cummins (2000), quando sottolinea che gli inse-
gnanti possono aiutare i bambini a mantenere e sviluppare le loro lingue ma-
terne o di origine, comunicando a loro i forti messaggi affermativi sul valore
della conoscenza delle lingue supplementari: in quanto rifiutare la lingua del
bambino a scuola equivale rifiutare il bambino.
Anche a livello europeo, nel documento il Nuovo Quadro Strategico per
il Multilinguismo, Comunicazione della Commissione Europea del 22 No-
vembre 2005, dove si parla della politica linguistica e culturale europea, si
afferma che la diversità linguistica e culturale dell’Europa deve essere intesa
come un valore da custodire, ponendo come primo obiettivo incoraggiare
l’apprendimento delle lingue e promuovere la diversità linguistica nella so-
cietà.
Le difficoltà superate nel cammino per costruire identità dinamiche e per
divenire cittadini del mondo consapevoli e attenti rappresentano, ciascuna,
un passo avanti verso un mondo migliore, dove i conflitti vengano risolti at-
traverso il dialogo e la conoscenza di noi stessi e degli altri. “La competenza
linguistica nella nostra lingua madre e nelle lingue, che di volta in volta si
aggiungono ad essa, diventerà un capitale comune. Ogni bambino che parla
una lingua diversa è una risorsa per gli altri” (Alhasa, 2008: 52).
In quest’ottica, le attività laboratoriali sono state articolate in due in-
contri: il primo svolto a scuola, usufruendo degli spazi della biblioteca e del
salone delle attività motorie, il secondo negli spazi del Laboratorio Migra-
zioni. Al termine delle attività i testi utilizzati, in lingua straniera con la tra-
duzione in italiano, sono stati consegnati alle insegnanti. Successivamente,
questi materiali sono stati utilizzati nella presentazione della festa scolastica
di fine anno.
Un’altra proposta nata in questa scuola è stata la promozione del corso
base di italiano come L2, per i genitori stranieri, che si è poi realizzato
presso il CTP, Centro Territoriale Permanente del Centro Est. In questa pro-
posta si è vista l’importanza della lingua italiana, come lingua che permette
l’inserimento nella comunità autoctona non soltanto ai bambini stranieri, ma
anche ai genitori.
L’altra scuola del Municipio Centro Est aderente al progetto è quella
Scuola dell’Infanzia B. Questa scuola è stata una delle prime in città ad ac-
cogliere bambini e famiglie straniere, proponendo l’interculturalità come suo
stile pedagogico qualificante e che ha visto negli anni bambini e genitori
stranieri vivere la scuola sullo stesso piano delle famiglie italiane. Oggi l’u-
tenza di questa scuola è cambiata, a seguito del calo di presenze dei bambini
di origine straniera: ciò anche in correlazione all’aumento, negli ultimi anni,
della presenza delle famiglie italiane nella zona del centro storico.
In questa scuola si è lavorato sulle questioni linguistiche e sul rapporto
fra le famiglie, in particolare per limitare l’isolamento dei genitori stranieri
in gruppi autoreferenziali e per incoraggiare la comunicazione tra i genitori
stranieri e quelli italiani, fenomeni segnalati dalle insegnanti. Basandosi sulla
Scheda Lingue, si è ipotizzata una continuità del progetto pedagogico della
scuola promosso dai laboratori di letture bilingui con la partecipazione attiva
dei genitori, alla presenza di un mediatore educativo in ogni attività; si è
pensato anche alla continuità delle attività laboratoriali della scuola di prima
accoglienza rispetto ai nuovi iscritti e alla loro famiglia.
Nei laboratori di letture bilingui, impostati a seconda dell’età dei bambini
(suddivisi per fascia di età o gruppi misti), sono stati utilizzati dei testi in
lingua originale con la relativa traduzione in italiano, serviti da filo condut-
tore del ragionamento sulle lingue. L’utilizzo di un testo letterario “rappre-
senta un genere insostituibile per l’esercizio artificiale dell’incontro con
l’Altro: è un incontro per procura ma è pur sempre un incontro... Può essere
un vero trampolino per studi interculturali. Permette di esplorare una plura-
lità di personaggi, di situazioni, di culture” (Castellani, 2009: 113).
Le opere letterarie di riferimento in questa scuola sono state: La coda
della Volpe - Bishti i dhelprës di Favaro Graziella e Petrone Valeria in alba-
nese ed italiano, Omo-Oba: Histórias de Princesas di Kiusam de Oliveira in
portoghese-brasiliano. In questi incontri laboratoriali i genitori sono stati
partecipativi, leggendo libri da loro portati, storie e filastrocche in lingua ita-
liana o straniera, ponendo anche interrogativi su alcune tematiche intercultu-
rali (mantenimento della lingua madre, dialetti, programmazione intercultu-
rale della scuola, ecc.).
Continuando l’esame dei lavori interculturali svolti nell’anno scolastico
2013-2014, entriamo nello specifico operato delle due scuole presenti nel
Municipio Centro Ovest, la Scuola dell’Infanzia C e la Scuola dell’Infanzia
D, nelle cui analisi abbiamo applicato alcuni modelli e tecniche della media-
zione, rivelatisi di grande aiuto nello svolgimento dei lavori.
La Scuola dell’Infanzia C segue 94 bambini, di cui 38 di origine stra-
niera; è situata nel quartiere di Sampierdarena, territorio a forte presenza di
migranti, soprattutto provenienti dai paesi latinoamericani.
Per l’anno scolastico 2013-2014 si è pensato alla continuità del progetto,
seguendo la scuola nella sua programmazione interculturale e servendo da
appoggio al gruppo di lavoro, per valorizzarne le relazioni, riconoscendo lo
spazio da dedicarsi alla mediazione in questa scuola. Il modello di riferi-
mento è quello trasformativo di Bush-Folger (2009), teso a far maturare
nelle parti la consapevolezza delle proprie capacità di cambiamento, pro-
muovendo così una reale trasformazione delle relazioni tra le persone ed una
“crescita morale”.
In tale modo viene riconosciuto e valorizzato l’ambiente scolastico come
spazio di mediazione interculturale. Per rispondere alle mutate esigenze di
una società contemporanea in continuo evolversi, la sfida che la scuola deve
oggi affrontare è quella del passaggio progressivo da un modello strutturale
monoculturale (attualmente ancora prevalente) a uno multiculturale.
Dalla lettura del contesto, dunque, è stato individuato, insieme alle inse-
gnanti, la Scheda di Lavoro Differenze per approfondire aspetti legati al
viaggio, all’incontro, alle lingue, ai suoni, al mare che unisce e divide.
Quindi, considerato che nella programmazione educativa della scuola era già
presente il tema del Mare, si è pensato di svilupparlo ulteriormente, inse-
rendo proposte di attività laboratoriali con i bambini e genitori.
Come filo conduttore si è scelto il libro: Chi ha rubato il mare di Milena
Lanzetta, con traduzione in albanese e portoghese-brasiliano. Le letture
erano accompagnate da proiezione di immagini, da effetti sonori e dalla sco-
perta di strumenti musicali.
I genitori sono stati partecipativi, essendo parte del laboratorio essi stessi
sin dall’inizio, seguendo insieme ai bambini tutti i passaggi dell’attività.
Hanno risposto insieme ai bambini alle domande proposte e, spesso, hanno
anche raccontato esperienze dirette legate al mare. Qualcuno racconta di aver
visto il mare per la prima volta a 15 anni perché viveva nell’entroterra, ripor-
tando le emozioni provate: “L’acqua era tanta e non aveva fine” (Genitore A
- origine sudamericana) Altri hanno invece sempre vissuto il mare: “Andavo
a pescare vicino al porto di Genova con mio padre da piccolo” (Genitore B -
origine italiana).
Questi laboratori di lettura bilingue avevano come principale obiettivo la
creazione di spazi di incontro tra bambini, insegnanti, genitori e mediatori al-
l’interno della scuola sul tema delle differenze. La storia del protagonista di
Chi ha rubato il mare ha quindi fornito lo spunto per soffermarsi su concetti
come: diversità, curiosità, amicizia, stereotipi e pregiudizi. Ne è nato uno
spazio di mediazione, dove abbiamo ragionato, discusso e scambiato idee
sulle diversità legate a genere, caratteristiche fisiche, provenienze, bagaglio
linguistico e culturale facenti parte della scuola.
Interessante notare, dunque, come qui la mediazione abbia contribuito a
trasformare il rapporto tra il gruppo di lavoro della scuola, la famiglia ed il
quartiere, entrando il mediatore a tutti gli effetti a far parte del tessuto scola-
stico. “In questo contesto, il mediatore ha la facoltà d’impegnarsi nella co-
struzione di ‘ponti’ tra gruppi socioculturali diversi, segnati dalle disegua-
glianze. La famiglia, unità base delle comunità, può trarre vantaggio dalle
metodologie che vengono applicate nell’analisi e nella risoluzione dei con-
flitti comunitari” (Magalhães, 2013: 25).
La Scuola dell’Infanzia D nel 2013 presentava la più alta percentuale di
bambini di origine straniera in città (oltre metà, con un rapporto di 49 a 72),
essendo situata in un quartiere periferico di area limitata, interessato negli ul-
timi anni da un crescente insediamento di famiglie, principalmente, latinoa-
mericane.
Per l’anno scolastico 2013-2014 si è pensato a proseguire il progetto, se-
guendo la programmazione educativa della scuola e servendo da appoggio al
gruppo di lavoro.
Dall’analisi del contesto, dunque, è stata individuata, insieme alle inse-
gnanti, la Scheda di Lavoro Famiglie per approfondire gli aspetti ad esse le-
gati ed al ruolo importante che esse ricoprono all’interno della scuola.
Concetto presupposto all’obiettivo generale di questo progetto è l’idea
che, nell’ambito della scuola, si creino le prime condizioni per una socializ-
zazione più coesa al suo interno ma anche verso l’esterno (scuola, quartiere e
città).
Nello specifico, sono state affrontate tematiche come: lingue minoritarie
a scuola e memorie familiari.
Dagli incontri svolti precedentemente con le insegnanti è stata elaborata,
dunque, una proposta di lavoro, con la realizzazione di laboratori sui temi
del “Prendersi cura dell’altro” (coccole, ninne nanne) e della “Sonorità delle
lingue” (crescita, indipendenza, relazioni con i genitori), con la presenza dei
genitori della scuola e di laboratori con le famiglie. I temi di questi laboratori
sono stati strutturati partendo dalle schede di attività laboratoriali, elaborate e
sviluppate precedentemente dal gruppo di lavoro del Laboratorio Migrazioni
per il progetto Lingue e Storie dell’anno scolastico 2010-211.
Abbiamo utilizzato, come filo conduttore, il libro Tararì... tararera di
Emanuela Bussolati (libro narrato attraverso una lingua inventata, 2009), per
collegarci al progetto della scuola che accompagnava i bambini alla scoperta
del mondo, attraverso la lettura di storie, la visione di immagini, l’ascolto di
musiche; i bambini potevano così scoprire le tradizioni di nuovi paesi, impa-
rando e percependo la diversità quale risorsa ed opportunità di crescita.
I laboratori sono stati realizzati con gruppi di bambini, divisi per fasce
d’età, ed i genitori che partecipavano attivamente con letture in lingue di rac-
conti, filastrocche e ninne nanne.
A partire dalla narrazione del libro Tarari... tararera abbiamo ragionato
sulla sonorità di questa lingua inventata e di lingue e/o dialetti portati dai ge-
nitori, dalle insegnanti e dalle mediatrici.
La seconda attività inserita nel progetto nella scuola è stata quella del La-
boratorio di Autobiografia linguistica. Esperienza progettata e realizzata con
il supporto dell’ex insegnante del Laboratorio Migrazioni ed attuale Presi-
dente dell’Associazione Culturale “La stanza”, Carla Giolito, la quale ha la-
vorato per diversi anni realizzando laboratori di racconti autobiografici al-
l’interno del progetto Memorie famigliari (2009) con i genitori nelle Scuole
dell’Infanzie Comunali.
Questa attività è nata per creare spazi di dialogo fra i genitori della
scuola. In questo caso genitori italiani, stranieri e maestre della scuola (che
spesso avevano tra loro una comunicazione debole), hanno iniziato un per-
corso di dialogo e comprensione reciproci, promuovendo cosi quello che Gi-
ménez (2011) definisce come una convivenza interculturale nella comunità
in grado di sostituirsi alla mera coesistenza.
Le tecniche di mediazione utilizzate in questi laboratori si sono basate
sull’ascolto, le domande e l’attesa: più precisamente, si ascolta con tutti i
sensi per comprendere quello che dice la persona; le domande, chiare e non
condizionate, costituiscono invece una modalità di conduzione del dialogo;
l’attesa, infine, si sostanzia nel silenzio prima del racconto, che è molto im-
portante. Nei laboratori con i genitori si raccontano, attraverso le domande, i
ricordi della loro infanzia: racconti di canzoni, poesie, filastrocche e storie
che abbiamo raccolto come prodotto finale per inserirle nel libro della
Scuola.
All’incontro hanno partecipato genitori, insegnanti e collaboratori scola-
stici. I genitori presenti erano di origine albanese, italiana, marocchina, ru-
mena e sudamericana; tra i genitori italiani, c’era anche chi ha frequentato da
piccolo questa scuola, accanto a chi, invece, viene da molto lontano.
Da questi progetti abbiamo constatato come la scuola diventi un luogo
dove possiamo parlare di lingue o dialetti custoditi nel cuore, utilizzati o
meno, di lingue che vorremmo tanto poter parlare o di altre rifiutate; pos-
siamo parlare della scuola e dei bambini che la frequentano, trovare modalità
affinché tutti possano dare il proprio contributo; possiamo inoltre creare
spazi d’incontro tra bambini, insegnanti, genitori e mediatori su aspetti legati
al plurilinguismo attraverso storie lette e/o raccontate e promuovere la parte-
cipazione delle famiglie italiane e straniere, affinché nella scuola si creino le
prime condizioni per una socializzazione più coesa.
La figura del mediatore interculturale educativo nelle scuole interculturali
ha qui un fondamentale ruolo di sostegno e di supporto, ma anche di idealiz-
zazione e di realizzazione di progetti educativi interculturali. Il mediatore,
ambasciatore di lingue e culture diverse, consente non solo all’equipe educa-
tiva un arricchimento tramite testimonianze e condivisione di esperienze, ma
favorisce anche una proposta di cambiamento dell’ottica stessa del fare
scuola in Italia, evolvendo da un modello istituzionale monoculturale a uno
multiculturale. Nella scuola italiana odierna la componente interculturale è
un orizzonte culturale che parte da una faticosa, ma stimolante analisi di un
apporto positivo che i nuovi cittadini stanno fornendo alla scuola e alla città
tutta (Damasio 2012).
L’impegno della scuola interculturale potrà concretizzarsi nell’opera di un
grande gruppo di lavoro, dove le competenze educative delle insegnanti si
uniscono ai bagagli professionali provenienti da altre culture. Infine, “una
buona scuola è consapevole delle trasformazioni sociali e culturali, non
ignora le fatiche e le sfide poste dall’eterogeneità e cerca di dare risposta ai
nuovi bisogni e domande. Essa cerca anche di cogliere e comunicare in ma-
niera efficace e non retorica le opportunità insite nelle situazioni educative
multiculturali e plurilingui” (Favaro, 2014: 3).
Una buona scuola valorizza, infine, attraverso la gestione delle diffe-
renze, i fattori positivi insiti nelle diversità, contenendone, viceversa, quelli
negativi: essa si porrà come spazio ugualitario, nel quale tutti sono ricono-
sciuti come cittadini.
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Mediación escolar entre pares para la resolución
de conflictos interpersonales en el aula
Rosa Elena Duran González y Saúl Arroyo Santillán -
Universidad Autónoma del Estado de Hidalgo

Introducción
La convivencia pacífica es un tema reconocido por México en el marco
normativo internacional al firmar como miembro de Naciones Unidas en
Relación a la paz; ejemplo de esto también es la firma de la Declaración
sobre el derecho de los pueblos a la paz (12 de noviembre de 1984) y la
Declaración sobre el fomento entre la juventud de los ideales de paz, respeto
mutuo y comprensión entre los pueblos (7 de diciembre de 1965).
Los procedimientos para la resolución de conflictos de forma pacífica,
como lo es la mediación, están plasmados en los principios que se
encuentran en la Resolución del 20 de noviembre de 1997 de la
Organización de las Naciones Unidas (ONU), que proclamaba en el 2000,
como el Año Internacional de la Cultura de Paz, los preceptos de la
Declaración y el Programa de Acción sobre una Cultura de Paz y el
programa de la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la
Ciencia y la Cultura (UNESCO) “Por una Cultura de Paz”.
A pesar de los esfuerzos de organismos internacionales para una
resolución pacífica de conflictos, los alumnos y alumnas de zonas rurales y
urbanas en México sufren de los efectos de conflictos interpersonales
escolares no resueltos, agravados o resueltos de forma violenta, por ejemplo,
el Instituto Nacional para la Evaluación de la Educación públicó un estudio
en 2005 donde se indicó que el 19 % de los alumnos de primaria y el 11.1 %
de secundaria a nivel nacional en México habían participado en peleas en las
cuales hubo golpes. Por otro lado el 46.4 % de los alumnos de primaria y el
43.6% de secundaria a nivel nacional en México les habían robado algún
objeto o dinero dentro de la escuela. Para visibilizar más los efectos de
conflictos solucionados de forma violenta en México, la Comisión Nacional
de Derechos Humanos (CNDH, 2011), señaló que “tres de cada diez
estudiantes han sufrido algún tipo de violencia escolar”.
A partir de estos datos proporcionados por el Instituto Nacional para la
Evaluación de la Educación, las autoridades educativas del Distrito Federal
mencionaron que “el combate a la violencia escolar, en específico, la referida
al acoso escolar o bullying debe ser atendida desde una perspectiva integral
fortaleciendo la capacidad de gestión de los centros educativos e
incrementando la participación social” (mesa de trabajo organizada por la
Comisión de Salud de la Asamblea Legislativa del Distrito Federal,
septiembre 2011) dando así la oportunidad de implementar un modelo de
mediación escolar para el bachillerato general en México.
Es visible por lo tanto que la violencia escolar en México es un hecho
irrefutable y el resultado de procedimientos no pacíficos o de la ausencia de
procedimientos que solucionen los conflictos interpersonales escolares de
forma pacífica fomentando una cultura de paz en el aula.
Lógicamente, se puede percibir que existe la ausencia dentro de los
centros educativos de un modelo de mediación escolar transversal en todos
los niveles educativos para la resolución de conflictos escolares que fomente
una cultura de paz y prevenga la violencia escolar.
Por lo anterior este trabajo tiene como finalidad analizar la mediación
escolar para la resolución de conflictos interpersonales de los estudiantes de
bachillerato general que fomente una convivencia pacífica en el aula. Con
los resultados del diagnóstico e identificación de conflictos, las corrientes
teóricas del conflicto, acercamientos teóricos de la mediación y sustentos
pedagógicos consistentes para el nivel de bachillerato se planteará un
modelo de mediacion para bachillerato. Esto implica como premisa partir del
diagnóstico de los conflictos que se generan en el espacio áulico del
bachillerato general localizado en la ciudad de Pachuca Hidalgo, México,
para su análisis y caracterización.
La metodología mixta contempla trabajo con grupos de estudiantes del
bachillerato general de la ciudad de Pachuca para proporcionar aspectos
sobre el origen y causas de los conflictos. La población estudiada fueron dos
grupos, el primero jóvenes en edad escolar de bachillerato escolar (15 a 17
años de edad) que residen habitualmente en Pachuca, Hidalgo. Se aplicó la
encuesta tanto en escuelas públicas como en privadas. Esto implicó un
proceso de diseño, levantamiento y análisis. Es importante señalar que el
levantamiento fue de manera directa en campo y a través de una plataforma
online a partir del mes de noviembre 2014 a mayo de 2015.
Asimismo se utilizó como referente de información la Encuesta de
Identificación de Conflictos y Practicas Informales de Mediación entre pares
en el aula (INCIPRIM)68 la cual tiene el propósito de informar sobre la
dimensión, caracterización y prevalencia de la violencia en el ámbito escolar.
La muestra de la encuesta INCIPRIM fue de 163 alumnos y alumnas de 4
bachilleratos generales en la ciudad de Pachuca, México. Una es pública y
las otras 3 son privadas.
Dentro del método cualitativo la muestra fueron 2 escuelas del nivel
medio superior, una de carácter público y otra privada. En cada una de ellas
se realizó un grupo de trabajo, dando en total 60 participantes. El muestro
fue intencional, no probabilístico de la población total.

68 Elaboración propia a partir del análisis de varios autores.


Para entender la resolución de conflictos por medio de la mediación
escolar tenemos que abordar teóricamente una corriente de pensamiento que
se adapte a la concepción del conflicto como algo cotidiano y presente en las
aulas del bachillerato general. La corriente teórica propuesta es la del
conflictualismo liberal (Dahrendorf, 1992) desde la perspectiva de que el
conflicto es connatural al ser humano e impulsor de la dinámica social; como
manifestación, cuando se intente desplazar a otro de la posesión o acceso a
bienes, recursos, derechos, valores o posiciones escasas o apreciadas
(Dahrendorf 1993 y Vold 1967); integrando el análisis de la interacción
social, junto a los elementos microsociales que inciden en ella (Collins 1975)
y retomando al antagonismo social (Dahrendorf 1992 y Coser 1970).
El proceso de mediación escolar propuesto, se concibe como una
oportunidad de crecimiento, de establecimiento de acuerdos (Fisher y Ury
1996) y transformador de las relaciones sociales por medio del
empowerment (Bush 1989), la revalorización (Suares 1996; Bush y Folger
1996) y el reconocimiento (Bush 1996 y Giménez 2001) que permite al ser
humano aprender a percibir, reflexionar y actuar con relación al problema,
fortaleciéndolo y dándole seguridad (Cobb 1995 y Gómez 2007). A este
modelo se incorpora la perspectiva pedagógica humanista y la orientación al
desarrollo del lado intuitivo de la conciencia por medio de la empatía,
interesándose por el trabajo grupal, y el desarrollo de las habilidades de
apertura y sensibilidad hacia los demás con apoyo de las últimas fases del
desarrollo moral (Kohlberg 1981).
El MEB es una propuesta para fomentar una cultura de paz desde los
escenarios educativos hacia una sociedad de jóvenes más empáticos,
mediadores de conflictos que estén comprometidos con los nuevos cambios
sociales. Para lograrlo, cada modelo debe situar al conflicto en el aula como
connatural y cotidiano al ser humano. Segundo determinar las causas de los
conflictos en las aulas de cada nivel educativo y finalmente determinar
cuáles serían los conflictos que se pueden solucionar por medio de un
proceso de mediación.

Bases para un modelo de mediación escolar


en el contexto educativo mexicano
Aunque no se cuenta con un modelo de mediación escolar formal e
institucionalizado en el bachillerato general en México, el sistema educativo
mexicano ha contado con varias estrategias para fomentar una cultura de paz
y en la educación básica algunos programas de mediación escolar. Entre los
antecedentes de la mediación escolar en México podemos referirnos a la
educación moral y la educación en valores.
Algunos programas y leyes han puesto las bases para un modelo de
mediación escolar en México. Por ejemplo la Dirección General de
Prevención del Delito y Participación Ciudadana redactó un documento
sobre Violencia Escolar (2012) donde se mencionaron a nivel nacional al
Programa Nacional para Abatir y Eliminar la Violencia Escolar,
implementado por la Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNDH); el
Programa Construye T: Convive con la diversidad (cuya campaña de
lanzamiento se realizó en noviembre de 2011 y está enfocado a las escuelas
de nivel medio superior) e impulsado por la Secretaría de Educación Pública
(SEP), el Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD), la
Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia y la
Cultura (UNESCO) y el Fondo de las Naciones Unidas para la Infancia y la
Adolescencia (UNICEF) en coordinación con el Consejo Nacional para
Prevenir la Discriminación (CONAPRED). A nivel local, existen programas
como: Escuela Segura, Sendero Seguro (a cargo de la SEP y la Secretaría de
Seguridad Pública del Distrito Federal) y el llamado Escuelas sin violencia,
ambos implementados en el Distrito Federal.
En la legislación mexicana también podemos encontrar leyes que ponen
el fundamento para una mediación escolar, por ejemplo el artículo 7 de la
Ley General de Educación, en la fracción VI establece dentro de los fines de
la educación al de: “Promover el valor de la justicia, de la observancia de la
Ley y de la igualdad de los individuos ante esta, propiciar la cultura de la
legalidad, de la paz y la no violencia en cualquier tipo de sus
manifestaciones, así como el conocimiento de los Derechos Humanos y el
respeto a los mismos” (Ley General de Educación, 2011).
Otras leyes sobre la materia son la Ley de Seguridad Escolar para el
Estado de Chihuahua y sus homológas en Sonora, Baja California Sur,
Tamaulipas y Puebla. En cada una de estas legislaciones estatales podemos
encontrar referencia a los mecanismos alternativos de solución de
controversias, mediación escolar. Como muestra, en su artículo 2, fracción V,
de la Ley de Seguridad Escolar para el Estado de Sonoro se establece:
“Promover los Mecanismos Alternativos de solución de controversias como
alternativa a los conflictos entre la comunidad escolar” (Ley de Seguridad
Escolar para el Estado de Sonora, 2009).
En el caso del estado de México, en el 2010 se realizó un curso taller para
explicar la estructura general del programa estatal de mediación escolar.
Posteriormente la escuela preparatoria oficial número 30 en dicho estado,
optó por un programa de mediación escolar para la resolución de conflictos,
entre alumnos-alumnos; maestro-alumnos; padres de familia-alumnos en el
año 2011.
El conflicto entre pares: el caso de la preparatoria no. 3
y preparatoria Julián Villagrán en Pachuca Hidalgo
En Pachuca se realizó dos grupos de trabajo en una escuela pública y una
privada del bachillerato general. El primer grupo de trabajo se realizó en una
escuela pública, la razón fue para determinar las necesidades de los alumnos
que se encuentra bajo un modelo de educación patrocinado por el gobierno
de México y el segundo grupo de trabajo se realizó en una escuela privada,
para determinar las necesidades de otra población representativa de la ciudad
y así de forma inductiva desarrollar categorías de análisis.
A partir de determinar las características de las escuelas y la viabilidad
para el acceso a ellas se realizaron grupos de trabajos de la siguiente manera:
La técnica utilizada se planteó por medio de una dinámica donde los
alumnos escribieron en tres diferentes tarjetas (blanca, rosa y morada) los
conflictos que percibían de mayor importancia, mediana y de menor
importancia en su aula.
La interpretación de la descripción de la perspectiva de los alumnos y
alumnas sobre los conflictos en el aula en el centro educativo número 1 se
categorizó en dos grandes rubros; el primero, conflictos entre no pares, estos
serían los conflictos que se presentan entre l@s maestr@s y alum@s de
carácter jerárquico y lineal. Y el segundo, los conflictos entre pares, los
cuales son los conflictos que se presentan entre los propios alumnos y
alumnas dentro del aula. Estos son de valores y de intereses.
Los conflictos entre no pares son mayores que los que se presentan entre
pares. Pero aumenta paulatinamente el porcentaje de los conflicto entre pares
al bajar la importancia del conflicto percibido. La existencia de conflictos
entre pares desde un 13 % hasta un 43%.
En el centro educativo número 2 se realizó otro grupo de trabajo con 11
alumnas y 11 alumnos, solicitándoles escribir en 3 diferentes tarjetas (blanca,
rosa y morada) los conflictos que percibían de mayor importancia, mediana
y de menor importancia entre sus compañeros y omitiendo los que pudiera
haber con sus profesores.
Después de interpretar únicamente las tarjetas de color blanco para un
análisis más detallado sobre la percepción de conflictos de mayor
importancia entre pares, se dio paso a la clasificación de los conflictos
interpersonales y a su conteo. Determinando al conflicto de valores con un
porcentaje mayor de 68.2% y una frecuencia de 15 % (Ver Tabla 1.)
ubicándo lo así como el conflicto más importante para los alumnos en el
grupo de trabajo en la Preparatoria Julián Villagrán.
Fuente: elaboración propia a partir de trabajo de campo con grupos de trabajo, 2014

De esta forma se creó una categoría de los conflictos interpersonales entre


pares en el aula. En los hallazgos, los propios alumnos narraron los
conflictos que ocurrían entre ellos mismos. A partir de esta narrativa se
organizaron en una tipología de conflictos basada en Redorta (2004: 105-
278). Encontrando con mayores casos una incidencia en el conflicto de
valores e identidad de los estudiantes quienes se realizó la muestra (Ver
Tabla 2).
Fuente: elaboración propia a partir de trabajo de campo con grupos de trabajo, 2014

Prácticas informales de mediación de conflictos


interpersonales: el caso de cuatro bachilleratos generales
Al contar con la información proporcionada por los grupos de trabajo en
los dos centros educativos de Pachuca, se determinó diseñar una encuesta
para su aplicación en la ciudad de Pachuca en los cuatro centros educativos
considerados en este estudio.

1. Preparatoria publica; Número 3 (centro educativo 1)


2. Preparatoria privada; Julián Villagrán (centro educativo 2)
3. Preparatoria privada; Rubén Licona Ruiz (centro educativo 3)
4. Preparatoria privada; Lestonnac (centro educativo 4)

La figura del mediador entre pares tiene como función ayudar a resolver
conflictos interpersonales entre las partes. Para identificar a esta figura en las
interacciones en el aula se realizaron 163 encuestas dónde la opción de
amigo(a) fue la de mayor frecuencia. Como segunda figura mediadora
encontramos a los profesores, en tercer lugar al tutor y por último al jefe de
grupo. (Ver Gráfica 1., 2, 3. y 4.).
Esta información nos revela que los amigos de las partes en conflictos
interpersonales fungen en la resolución de los conflictos personales. El
carácter de imparcial del perfil del mediador no corresponde con esta figura
del mediador en las prácticas informales de mediación.
Conflictos interpersonales entre pares:
el caso de cuatro bachilleratos generales
Cada centro educativo se caracteriza por presentar conflictos
interpersonales entre pares a partir de su clima escolar. El conflicto de mayor
importancia en un centro difiere de otro según su contexto y características
de los estudiantes. A continuación se presentan un estudio descriptivo y
comparativo de los 4 bachilleratos generales, utilizando la desviación típica
mayor para determinar el dato de mayor ajuste.
En el primer centro escolar el dato de mayor ajuste fue la falta de
comunicación, con una desviación típica del 1.348 (Ver Grafica 5. y Tabla
3).
En el segundo centro escolar el dato de mayor ajuste fue el de destrozo de
material, con una desviación típica del 1.229 (Ver Grafica 6. y Tabla 4).
En el tercer centro escolar el dato de mayor ajuste fue el de destrizo de
chismes y rechazo, con una desviación típica del 1.421 (Ver Grafica 7. y
Tabla 5).
En el tercer centro escolar el dato de mayor ajuste fue el de racismo,
discriminación con una desviación típica del 1.352 (Ver Grafica 8. y Tabla 6)
En los cuatro centros educativos se registraron los conflictos
categorizados en los grupos de trabajo pero dependiendo del clima escolar
cada centro reveló un conflicto interpersonal diferente de mayor impacto

Conclusiones
La teoría del conflicto liberal aportó elementos y conceptos necesarios
para entender a los sujetos, objeto, causas y orígenes de los conflictos
contemporáneos de este siglo XXI. La mediación como un medio alternativo
para la resolución de conflictos plateados en EUA, España, México, Polonia,
países centroamericanos y sudamericanos intentó fomentar una cultura de la
paz en las Américas y Europa.
Con respecto a la mediación se determinó que existen procesos
informales dentro de las aulas de centros educativos en el bachillerato
general en la ciudad de Pachuca. Los antecedentes sobre la mediación
escolar en México apuntan al interés de mejora el clima escolar en estados
del norte y centro del país implementando modelos de mediación escolar
para una convivencia pacífica.
En el marco legal, los compromisos suscritos por México en materia de
derechos humanos en el ámbito internacional, así como las recomendaciones
hechas por los mecanismos de promoción y protección de los derechos
humanos tanto del sistema de Naciones Unidas como de la Organización de
los Estados Americanos, la Comisión y Centro Nacional de Prevención del
Delito y Participación Ciudadana y los Congresos de las Naciones Unidas
sobre prevención del delito y justicia penal son principios rectores para la
creación de un modelo de mediación escolar entre pares contextualizado a
las necesidades del bachillerato general en la ciudad de Pachuca, México.
Como antecedentes de la mediación escolar en el sistema educativo
mexicano se pueden enumerar a la educación moral, educación en valores y
las corrientes teóricas de cada una de ellas como la corriente humanista.
Estos antecedentes fueron el telón para las reformas legislativas y aplicación
de la mediación escolar en México.
La encuesta desarrollada a partir de los orígenes y causas que generan un
conflicto desde la perspectivas de los jóvenes y para los jóvenes fue
importante para proponer un modelo de mediación escolar entre pares, es
decir un modelo en el cual l@s alumn@ se conviertan en mediadores de
conflictos de sus propios compañeros y compañeras.
El vacío teórico y práctico se presenta en el tema sobre mediación escolar
entre pares en la ciudad de Pachuca en el año 2014. La encuesta aplicada en
la ciudad de Pachuca revelo las prácticas informales de mediación entre
pares para la resolución de conflictos con los siguientes criterios: la figura de
un tercero denominado amigo que tiene la voluntad de coadyuvar en la
resolución de conflictos de las partes; la presencia de conflictos de valores e
intereses de las partes y la voluntad de las partes denominada alumnos y
alumnas para que un tercero coadyuve en la resolución de sus conflictos
interpersonales.
Adicionalmente se interpretó que uno de los valores que motiva a los
alumnos y alumnas de los diferentes centros educativos encuestados a
ayudar a sus amigos a resoluciones conflictos interpersonales es la empatía.
El modelo de mediación escolar que se propone primeramente cuenta con
una fase de identificación del conflicto por medio de grupos de trabajo,
sucesivamente una fase de confirmación de conflictos y prácticas informales
de mediación por medio de una encuesta y finalmente la creación de un
centro de mediación de resolución de conflictos donde se capacite a los
alumnos para ser mediadores de sus propios compañeros y se de fomento a
las prácticas de mediación, su seguimiento y evaluación.
La aplicación de la encuesta en línea mostró su eficiencia y cobertura
masiva en la recuperación instantánea de las respuestas; su costo económico
bajo; el análisis de resultados en tiempo real e interpretación de datos más
preciso.
El ejemplo de centros de mediación a lo largo de la república mexicana
auspiciados por instituciones educativas con la Salle y la universidad de
Monterrey dan pie a la creación de muchos más en otros estados para el
fomento de una cultura de paz en México.
Para que el modelo funcione debe contar con una legislación, manuales,
un encargado, un fondo financiero destinado para el pago del personal. Los
beneficios para las instituciones educativas son incalculables puesto que al
fomentar una cultura de paz por medio de una convivencia pacífica en el
aula, las habilidades empáticas de los alumnos aumentarán, los conflictos
interpersonales se solucionarán de una manera pacífica y la productividad
académica aumentará.

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Mediatori in erba:
perché “osare” alla scuola dell’infanzia?
Gabriella Mariani - Cooperativa S.A.B.A.

Introduzione
Quando si pensa alla scuola dell’infanzia che accoglie alunni dai tre ai sei
anni l’immaginario collettivo suggerisce l’idea di una fase della vita privile-
giata dal punto di vista emotivo, un momento in cui tutto “è bello”, “facile” e
soprattutto giocoso.
Solitamente ci si sofferma sugli aspetti più difficili della vita di relazione
di un bambino piccolo quando si è di fronte ad un problema conclamato,
quando un alunno o una alunna manifestano segni evidenti di disagio so-
ciale, quando il sistema scolastico e in particolare il sottosistema della classe
di appartenenza, appaiono perturbati da una crisi. Allora ci si interroga, nella
maggior parte dei casi, sulle “colpe” degli adulti di riferimento: ora i geni-
tori, ora le insegnanti, ora gli esperti coinvolti all’occorrenza e si operano
strategie. In situazioni di “normalità”, meglio definite omeostatiche, difficil-
mente ci si interroga sulla qualità delle relazioni tra bambini molto piccoli e
soprattutto si ha poca fiducia sulla capacità che ha un bambino in età presco-
lare di essere auto-riflessivo rispetto alla qualità del rapporto tra coetanei.
Eppure ogni insegnante di scuola dell’infanzia confida pienamente sulla ca-
pacità altrettanto complessa, che hanno i bambini, di comprendere e interio-
rizzare un insieme di regole per la convivenza, e di rispettarle.
Dai tre ai sei anni compiuti i bambini stringono e sciolgono relazioni si-
gnificative con il gruppo dei pari, e in alcuni casi la conoscenza tra i piccoli
è cominciata ancora prima, al nido, dove i bimbi vengono accolti ben prima
dei tre anni. La relazione tra pari ha già una sua storia e con l’ingresso alla
scuola infanzia l’insegnante e gli altri coetanei si inseriscono come elementi
di novità di un sistema che ha già le sue caratteristiche.
Il lavoro qui di seguito illustrato è parte di un progetto triennale più
ampio rivolto ad alunni di una scuola dell’infanzia Comunale nella città di
Genova ed ha avuto come obiettivo offrire uno spazio strutturato, dedicato e
interattivo per esplicitare alcuni conflitti, tra pari, per comprenderne le dina-
miche e soprattutto per utilizzarlo, non come un ostacolo ai rapporti tra coe-
tanei ma come occasione di comprensione di sé, degli altri e del contesto.
Questo piccolo progetto è stato una scommessa, una ricerca, un tentativo
di comprendere e “tastare” i confini di quella comprensione e competenza
relazionale che viene richiesta agli alunni a partire da ogni ordine e grado di
scuola, cercando di mettere in luce una differenza: stare insieme ed osservare
le regole non basta per andare d’accordo né tanto meno per costruire contesti
cooperativi.

Il progetto: come nasce, a chi si rivolge, cosa propone


Da oltre un decennio molte scuole infanzia del Comune di Genova con-
sentono agli alunni, i cui genitori ne fanno richiesta, un prolungamento di tre
settimane nel mese di luglio sospendendo le attività curricolari in funzione di
altri obiettivi legati all’aggregazione tra coetanei e al gioco. La gestione edu-
cativa e di intrattenimento viene svolta dagli operatori di diverse coopera-
tive: tra queste, Saba che in accordo con l’istituzione ha proposto, in questo
contesto, un’attività sperimentale sulla mediazione tra pari avendo la possi-
bilità di impiegare un mediatore formato sia nell’ambito della mediazione fa-
miliare che nella mediazione sociale tra pari.
Il progetto ha avuto come obiettivo quello di introdurre una differenza tra
la collaborazione e la cooperazione tra coetanei: la cooperazione è stata pro-
posta ai bambini a partire dal riconoscimento della complessità dei legami
personali, operando la distinzione che essere compagni di scuola non sempre
e non necessariamente significa essere amici. La prima è una condizione
“forzata” e presuppone un livello di aspettative reciproche legate alla cornice
dei doveri; la seconda è una scelta e, come tale implica la libertà e un diverso
legame.
L’obiettivo è stato quello di far sperimentare ai bambini attraverso espe-
rienze concrete nei laboratori, la differenza tra i due livelli di relazione, so-
ciale e personale, superando il timore di “fare o dire la cosa giusta” per poter
identificare dove, quando e come la violazione di una regola di civile convi-
venza diventa offesa personale attacco all’identità.
Alcuni passaggi hanno costituito di per sé un insieme di sotto-obiettivi
quali:

➢ costruire un linguaggio comune, con il gruppo di alunni, per dare si-


gnificato alle parola conflitto, contrapposizione, disaccordo, litigio,
offesa;
➢ rappresentare graficamente una mappa delle situazioni considerate
conflittuali dagli alunni;
➢ autorizzare e legittimare uno spazio fisico, mentale, emotivo per la
discussione e la rappresentazione, di quello che i bambini coinvolti
hanno vissuto come lesivo nel rapporto tra compagni;
➢ restituire competenza ai confliggenti in merito alla ricerca creativa e
risolutiva del conflitto.
Assunti teorici, aspetti metodologici:
tra la cornice del Dovere e la cornice del Dono
Le premesse teoriche dalle quali il progetto origina e si riferisce sono di
orientamento sistemico relazionale, in accordo con la formazione del media-
tore che lo ha attuato, con particolare riferimento ai concetti sulla coopera-
zione espressi nel testo di Busso, mediatore, counselor e psicoterapeuta rela-
zionale sistemico che da sempre si occupa di cooperazione e conflittualità in
diversi contesti. Nello specifico il progetto ed il lavoro che ne è conseguito,
ha preso forma da un pensiero specifico dell’autore: “Il passaggio dall’aspet-
tativa al diritto, seppure inevitabile, è alla base del sorgere della contrapposi-
zione, se gli interlocutori non si accordano pragmaticamente sul tenere di-
stinte le cornici del dono e del dovere” (Busso 2004: 16).
Nel contesto scolastico, qui rappresentato, le cornici del Dovere sono in-
carnate nel contesto normativo della scuola, nel tessuto di regole che com-
pongono uno degli aspetti della vita comunitaria; le cornici del Dono sono
qui intese come contesto affettivo, che segue altre logiche e origina altre
aspettative.
Muoversi tra questi due livelli presuppone l’ottica, metodologica ed epi-
stemologica della complessità: le azioni con la loro immediatezza e visibi-
lità, raccontano solo una piccola parte della complessità degli individui. Solo
i significati che muovono le azioni svelano, in parte la rappresentazione
mentale che ogni individuo ha di sé, e che vuole o crede che, come tale, sia
compresa e riconosciuta anche dagli altri.
La cooperazione, in una visione sistemica ed ecologica, come intesa da
Bateson, presuppone la “messa in campo” delle soggettività coinvolte per
costruire il “mentale” del sistema. Questo passa attraverso l’integrazione
delle differenze, le alleanze, le connessioni delle menti e l’utilizzo della con-
trapposizione come risorsa per il bene comune; in ragione di questi principi
il progetto ha messo in evidenza due punti da cui partire: la dimensione iden-
titaria e il riconoscimento reciproco tra i soggetti sia come risorsa sia come
vincolo alla cooperazione e alla risoluzione dei conflitti tra pari. L’espe-
rienza è stata sostenuta da alcuni tra i principi metodologici sistemico-rela-
zionali, quali: la totalità, la circolarità, l’equifinalità, la retroazione, l’equivi-
cinanza.
Il primo principio, la totalità, ha consentito di avere sempre presente la
complessità del gruppo data anche l’età anagrafica degli alunni e del macro
contesto, non solo fisico nel quale si è andata a svolgere l’esperienza: un
contesto rappresentato da una istituzione pubblica, da un ente cooperativo,
dalle famiglie degli alunni.
La circolarità delle domande rivolte allo scopo di raccordare significati,
non solo informazioni, hanno costituito forse il cuore dell’esperienza.
Equifinalità (ciò che accade in un sistema non è l’effetto delle condizioni
iniziali ma del processo interattivo) (Formenti, Caruso Gini 2008:75) e re-
troazione (...una parte del sistema innesca delle modificazioni in un’altra
parte, la quale a sua volta agisce sulla prima in un circuito senza fine)
(Ibidem) sono presenti, concettualmente, come vedremo negli esempi ripor-
tati in seguito, attraverso metafore, rappresentazioni grafiche e dialoghi tra
bambini.
Infine l’equivicinanza del mediatore alle parti coinvolte per garantire la
libertà e la legittimità di espressione, il superamento di uno schieramento a
favore o contro, la sospensione di eventuali valutazioni sulla qualità delle
“performance”.
Si sono svolti: tre laboratori settimanali della durata di due ore ciascuno
per la durata di tre settimane complessive; gli alunni partecipanti erano ma -
schi e femmine tra i cinque e i sei anni frequentanti lo stesso istituto in se -
zioni diverse; in uno dei gruppi era presente un bambino con una diagnosi di
autismo.
Le famiglie sono state preventivamente informate del progetto attraverso
un incontro dove si è resa esplicita l’intenzione di circoscrivere l’area di in-
teresse sulla conflittualità tra pari in situazione scolastica.
Sono qui riportate descrizioni di alcuni laboratori e tra questi, i passaggi
più significativi.

Il conflitto: parole, riflessioni,


immagini prodotte dagli alunni
Insegnare significa mostrare ciò che è possibile,
Apprendere vuole dire realizzare per se stessi.
Paulo Coelho

Cercare un accordo sul significato delle parole e delle azioni che utiliz-
ziamo in gruppo per definire la contrapposizione è stato il primo passaggio
fatto con gli alunni in direzione della conoscenza reciproca con l’obiettivo di
costruire una mappa, fatta di parole e di immagini, per rappresentare a se
stessi e agli altri il significato che ciascuno attribuisce al litigio, al disac -
cordo.
Da subito si è reso evidente che le parole per rappresentare la contrappo-
sizione erano molte: litigio, lotta, guerra, offesa, violenza, morte; mentre le
parole per esprimere l’armonia tra le persone era solo una: pace.
A quel punto ogni volta che si voleva esprimere il concetto opposto alla
pace occorrevano troppe parole, e spesso il termine scelto finiva per sconten-
tare qualcuno per cui si rendeva necessaria una definizione che facesse ri-
sparmiare tempo volendo indicare l’opposto della pace, e che mettesse per
l’appunto tutti d’accordo. Ma quale scegliere?
Inizialmente i bambini hanno provato ad inventare parole nuove, oppure a
sintetizzare quelle vecchie in una sorta di anagramma per ricomporne altre
con il risultato, altrettanto insoddisfacente, di riprodurre solo suoni “vuoti”,
privi di risonanze emotive.
Per uscire dall’impasse, è stato necessario introdurre l’espressione “con-
flitto”, ma solo a conclusione di un processo di ricerca e di ipotesi fatto dai
bambini, dove l’apprendimento di un termine nuovo è passato in subordine
rispetto ad altri obiettivi quali: mettersi in gioco, discutere insieme, cercare
un accordo.
L’attesa del momento opportuno da parte del mediatore nell’introdurre la
parola sconosciuta ha caratterizzato la valenza dell’intervento stesso che
viene accolto dai partecipanti come contributo alla discussione piuttosto che
come una lezione di lessico.
“Codificare” l’uso della parola conflitto ha permesso di avanzare nelle ri-
flessioni e nella costruzione della mappa attraverso disegni individuali raffi-
guranti in modo simbolico situazioni inerenti. “La cornice – obiettivo deve
essere precisata fino a quando non si raggiunge il consenso unanime di assu-
merla come irrinunciabile per l’interesse di tutti e del sistema relazionale”
(Busso 2004: 45).
Le immagini prodotte dai bambini aprono un ventaglio di scenari: animali
che lottano per il cibo, soldati che combattono una guerra, bambini che vo-
gliono lo stesso gioco, alunni che escludono un coetaneo, maschi che non
vogliono le femmine nel gioco e femmine che non vogliono maschi. I di-
segni, osservati e commentati in gruppo, sono stati utilizzati poi più volte
come “carte-simbolo” delle situazioni rappresentate ed hanno contribuito a
mantenere memoria del percorso per tutta la durata dei laboratori, costi-
tuendo un patrimonio comune.
Grazie al processo attivato i bambini hanno continuato nei laboratori suc-
cessivi a rappresentare immagini metaforiche, spingendosi fino alla rifles-
sione sulle conseguenze del conflitto come “la rete delle offese” un disegno
intricato dove due coetanei rispondono in modo ricorsivo, e circolare, alle
offese, creando una rete così fitta che impedisce loro di vedersi. La perdita
dell’individualità, il non riconoscimento.
Questo primo passaggio ha avuto tre ricadute:

➢ è stato trasferito in modo implicito l’apprendimento sul piano cogni-


tivo ed emotivo della struttura e della forma che caratterizzano i la-
boratori: nessuna spiegazione teorica avrebbe potuto far intendere ai
bambini che cosa è una rappresentazione mentale o una risonanza
emotiva e come le une e le altre siano connesse e giochino un ruolo
attivo nella relazione con gli altri;
➢ è stata compresa la funzione dell’adulto mediatore che in questo
contesto diversamente dalla funzione dell’adulto insegnante ha par-
tecipato con le proprie competenze solo quando si è reso necessario,
resistendo alla tentazione di sostituirsi, di facilitare, di accelerare il
processo in funzione del raggiungimento di un risultato o di un ap-
prendimento;
➢ si è resa possibile una visione meta: il conflitto appartiene non solo
alle persone ma anche agli animali; il conflitto è agito da individui di
ogni età e genere.

Partire dal proprio sé e metterlo a disposizione degli altri per costruire


qualche cosa insieme è stato il primo seme coltivato con cura ad ogni in-
contro successivo.

L’identità: il Nome in una Storia (...o la Storia in un Nome)


Vincent – Quando non ti fanno giocare è brutto, ma quando ci si prende
in giro è più brutto..
Matteo – Sì, più brutto di quando ti prendono i giochi dalle mani!!!
Mediatore – Puoi dirci un po’ di più di quando ci si prende in giro? Puoi
fare un esempio?
Vincent – (si fa pensieroso, lo dice quasi in un sussurro) ...Michele
prende in giro il mio NOME...
Nicola – Non ci pensare più, non ci si deve pensare più alle cose brutte...
Silenzio
Matteo – ...Però litigate sempre! Dai diglielo!!
Michele – È vero, lui non capisce che è uno scherzo
Vincent – Non è uno scherzo! È una cosa che non ha nessuno!!
Mediatore – Che cosa non ha nessuno?
Vincent – Il mio NOME è una cosa che non ha nessuno!
Mediatore – Cosa succede quando lui prende in giro il tuo nome?
Vincent – È come se lui non mi conoscesse più!!
Michele – Ma che dici??!
Mediatore – Raccontaci del tuo nome, chi lo ha scelto?
Vincent – Il mio nome lo hanno scelto tutti e due i miei genitori, me lo
raccontano sempre, la mamma voleva che quando mi chiama mi chiama con
un nome che è solo mio, che lei e papà mi riconoscono sempre anche quando
sono con gli altri. Il mio nome era del nonno che però si chiama Vincenzo, e
io sono contento di chiamarmi come il nonno che però è un nome più antico,
perché il nonno ce l’ha da un sacco di tempo! La mamma voleva anche per
me il nome del nonno ma più moderno, perché io sono il figlio! Io sono con-
tento di avere un nome che hanno scelto per me, e che è solo mio e qui a
scuola non ce l’ha nessuno, così tutti anche i compagni mi riconoscono
sempre.
Lucia – È vero! Lui è lui e noi lo sappiamo e non lo prendiamo in giro!
Mediatrice – Michele lo sapeva?
Lucia – No... lui è di un altra classe!
Michele – È vero, noi ci vediamo solo in giardino per giocare a pallone e
ci chiamiamo e basta...
(Pensieroso)
Anche io ho il nome del nonno, però è un nonno che non ho mai cono-
sciuto, me l’ha detto la mamma.

La discussione riportata è un passaggio significativo in relazione al tema


dell’Identità Personale.
A differenza degli animali, il primo riconoscimento che l’essere umano
riceve dai suoi simili, a conferma della propria identità, è il nome alla na-
scita.
Il nome “sancisce” l’ingresso al mondo della persona che diventa a tutti
gli effetti “soggetto”.
La prima connessione è tra l’identità personale e le ferite identitarie, gli
attacchi, i fraintendimenti legati all’identità che possono dare origine al con-
flitto: con il Nome proprio viene indicata la persona ma anche la storia della
persona e la storia delle generazioni che l’hanno preceduta.
Il Nome può diventare risorsa per entrare in relazione con altri perché
consente di presentare se stessi nel gruppo dei pari, come affermano i bam-
bini, ma anche di essere identificato e distinto, di essere riconosciuto come
soggetto.
Il Nome può diventare occasione di conflitto se e quando viene utilizzato
per dis-conoscere, come riportato nell’esempio.
La violazione della regola di civile convivenza “non si schernisce un
compagno” non giustifica agli occhi dell’offensore l’intensità (e il prolun-
garsi nel tempo) della reazione all’offesa se non si sposta la visuale sulla cor-
nice più complessa dei significati che i soggetti attribuiscono alle azioni.
È sotto la superficie che si gioca la partita. In giardino, quello che appare,
è un gioco a pallone senza “fair play” tra compagni di scuola: il rischio è
quello di insistere con le buone pratiche di civile convivenza. Ciò che coin-
volge e interessa tutta la dinamica tra i due bambini sono le risonanze emo-
tive che guidano e permettono l’accesso alla conoscenza reciproca ed al pas-
saggio successivo: identificarsi l’uno nell’altro. Ognuno dei due ha svelato
all’altro qualche cosa di sé ed ha permesso il riconoscimento ad entrambi,
nel senso letterale di ritornare a conoscersi, dentro la cornice di contesto del
dono che ciascuno fa di sé agli altri della propria storia.
La cooperazione
I laboratori qui descritti hanno avuto l’obiettivo, esplicito, di sperimentare
diversi possibili momenti di cooperazione attraverso l’utilizzo di vari mate-
riali (costruzioni, giochi) in piccoli sottogruppi.
Se è dimostrato che la Sostanza è una rappresentazione della Forma, in
questo caso la forma mentis del lavoro di gruppo si è riflessa nella sostan-
ziale disposizione dello spazio condiviso.
L’atteggiamento non direttivo del mediatore anche in questo caso in un
primo tempo ha lasciato i bambini un po’ sorpresi di poter organizzare la di-
sposizione della stanza in autonomia; l’esperienza di non giudizio sperimen-
tata in precedenza tuttavia ha permesso di provare diverse soluzioni.
La prima correlazione di cui il gruppo dei pari si rende consapevole è
quella della funzionalità dello spazio in relazione al compito e ai materiali.
Per quanto possa sembrare “scontato” per gli adulti, non lo è per la maggior
parte di alunni della scuola infanzia, anche perché per ovvi motivi di ge-
stione, è spesso l’adulto che decide lo spazio di lavoro.
Altro elemento inedito portato nel gruppo, è il ruolo dell’osservatore che
un bambino, a turno, ha dovuto impersonare mentre i compagni erano impe-
gnati nel lavoro in sottogruppi.
I bambini in età prescolare sono osservatori attenti del contesto relazio-
nale che li circonda: legittimare questa competenza e indirizzarla verso una
situazione adeguata all’età è stato molto gratificante per gli alunni, che si
sono impegnati volontariamente nel ruolo di osservatori delle dinamiche dei
sottogruppi fornendo alla fine delle loro osservazioni una restituzione pun-
tuale.
Il linguaggio verbale non è stato, diversamente da come potrebbe sem-
brare, una condizione imprescindibile nelle attività di gruppo, anzi la mag-
gior parte di questi laboratori si è svolta in silenzio ed è stato il linguaggio
del corpo a parlare la sua lingua universale.
Questo clima di ascolto e di integrazione delle diverse espressioni (consi-
derata anche la presenza di un bambino con un grave autismo in assenza
quasi totale di linguaggio verbale) ha consentito l’approfondimento di una
dinamica conflittuale tra pari che ha permesso un vero e proprio intervento
di mediazione riparativa.

La mediazione
Luigi – Da quando sono in questa scuola Angelo e Marco non mi fanno
mai giocare...
Mediatrice – Da quando sei in questa scuola?
Luigi – Da quando è andato via Edoardo, molto tempo fa...
Marco – (molto arrabbiato) Hai preso il posto suo!!
Luigi – Nooo! Lui ha preso il posto mio!!
Angelo – da quando è andato via Edoardo il mondo si è spaccato in due
dalla gelosia! È entrato Luigi, che andava in un’altra scuola e da quel mo-
mento ha preso il posto di Edoardo e Marco non vuole più giocare con me se
gioco con Luigi.
Marco – la gelosia è perché Angelo era molto amico di Edoardo ma gio-
cava anche con me, ora Luigi non è più capace di giocare... “a Tre”...
Mediatrice – Da quanto tempo vi conoscevate voi “Tre”?
Marco – Dall’asilo dei piccoli, poi il mondo si è spaccato in due perché
Edoardo ha cambiato città e Luigi ha preso il suo posto.
Luigi – No, è lui Edoardo che ha preso il posto mio, anche se non c’è più
perché non mi fanno giocare con loro!
A quel punto sospendiamo il lavoro con le costruzioni e dedichiamo tutta
la nostra attenzione a ripercorrere gli eventi che hanno portato alla spacca-
tura del mondo e diamo un po’ di spazio al racconto del trasferimento di
Edoardo in altra città
Mediatrice – Torniamo al momento in cui Luigi è arrivato in questa
scuola...
Luigi – Non conoscevo nessuno e loro Marco e Angelo volevano che di-
ventassi loro amico, per prendere il posto di Edoardo ma...
Mediatrice – Quando ti hanno chiesto di “prendere il posto di Edoardo”
come è che hai detto sì...?
Luigi – Ma non me lo hanno chiesto! Lo so e basta perché vogliono che
faccio quello che faceva lui ma non voglio!
Mediatrice – Cosa vorresti?
Luigi – giocare con loro ma in un altro modo...
Beatrice – Allora ti devi presentare di nuovo!!
(E torniamo all’identità e al nome)
Mediatrice – Mi pare un’ottima idea! Fate voi, io vi guardo..
Beatrice prende il mio posto e inizia il giro di conoscenza (un esercizio
che i bambini conoscono molto bene perché ripetuto spesso) come se fosse
per tutti la prima volta...
Luigi – Mi chiamo Luigi, ho cinque anni, sono venuto in questa scuola
perché...

Un altro esempio di cooperazione


In questo laboratorio nei sottogruppi, formati dagli alunni, l’unicità e la
creatività della funzione mentale di ciascun sottosistema si è concretizzata
nella realizzazione di un disegno congiunto per ciascun piccolo gruppo: l’in-
teresse e la rilevanza dell’esperienza è data dalla parte processuale che ogni
sottosistema ha spontaneamente attivato per il raggiungimento dell’obiettivo.
Gruppo a:
Il gruppo sceglie di fare un tratteggio ciascuno, in assenza di linguaggio
verbale, seguendo in modo ricorsivo il tratteggio precedente e ponendo le
premesse per il tratteggio successivo.
Gruppo b:
Il gruppo sceglie di mantenere distinto il tratteggio individuale in fun-
zione della realizzazione di una immagine condivisa in precedenza, equili-
brando spazi e tempi per l’intervento di ciascuno
Gruppo c:
Il gruppo sceglie un rappresentante per realizzare una base grafica condi-
visa dove successivamente gli altri a turno sovrappongono e aggiungono ele-
menti nuovi: il lavoro procede “strato per strato” e la sovrapposizione, l’in-
tersezione e l’integrazione degli elementi nuovi vengono ogni volta negoziati
dal gruppo.
Gruppo d:
è presente un bambino con una disabilità complessa e la quasi assenza di
linguaggio verbale: in modo spontaneo i pari si modulano sul registro comu-
nicativo del compagno e sui suoi tempi realizzando una immagine grafica
con la modalità descritta nel gruppo a. L’insegnante di sostegno ha chiesto di
poter partecipare al laboratorio dimostrandosi molto preoccupata per la “pre-
stazione” dell’alunno e pronta a subentrare nel caso la situazione si fosse ri-
velata, a suo parere, troppo “frustrante” per il bambino.
Per quanto riguarda le ricadute sul sistema che retroagiscono sulla confi-
gurazione iniziale del sistema stesso modificando, in senso evolutivo, il si-
stema attuale, rimando alle parole degli alunni: una dinamica relazionale av-
venuta “fuori” dalla cornice-contesto dei laboratori e “dentro” il macro si-
stema della scuola.

(Gioco spontaneo per tre classi in un bel giardino alberato)


Luca e Marco arrivano correndo e si rivolgono alla mediatrice.
Luca – Puoi venire con noi laggiù a vedere?
Mediatrice – Cosa dovrei vedere?
Marco – C’è Andrea che è molto arrabbiato con noi e non vuole uscire
dalla casetta...
Luca – Ma è una cosa vecchia! È una arrabbiatura vecchia, noi lo sap-
piamo..
Mediatrice – Che cosa sapete?
Luca – Che con le arrabbiature “vecchie” poi succede così... (intanto ci
siamo avvicinati alla casetta e ad Andrea che sembra in attesa).
Mediatrice – Dicono che sei arrabbiato con loro per una cosa “vecchia”,
abbiamo capito bene?
Andrea – Sì. Sono arrabbiato con loro dall’inizio dell’anno, da quando
siamo ritornati a scuola..
Marco – Te l’avevamo detto! Può venire domani con noi nel laboratorio
anche se non è del nostro gruppo? Non è neanche della nostra classe...
Mediatrice – Direi di sì se Andrea vuole, deve essere una sua scelta.
Luca – Visto? Andrea vieni domani nel laboratorio?
Marco – Così ci spieghi..
Andrea – Sì, ci vengo.

Conclusioni
L’OMS definisce la salute come la capacità, per l’individuo, di adattarsi
in modo sufficientemente armonico ed efficiente all’ambiente; il Ministero
della Pubblica Istruzione in riferimento allo sviluppo dell’autonomia e alla
formazione del sé, a partire dalla scuola infanzia, ritiene centrale il rapporto
con gli altri e include i concetti di differenziazione e di autoaffermazione
ampiamente trattati da Bowen. “L’individualità è una forza vitale di origini
biologiche che spinge un organismo a perseguire i propri obiettivi, a essere
un’entità indipendente e distinta” (Bowen 1980: 78).
Identità e comprensione del contesto relazionale sono quindi due punti di
partenza che accomunano più parti sulla definizione in uso comune di “civile
convivenza.
La dimensione identitaria per i bambini coinvolti in questo progetto è
stata sintetizzata simbolicamente nel proprio Nome e questo ha messo in evi-
denza come legato ad esso ruoti la dimensione identitaria e anche la dimen-
sione dei legami familiari.
La centralità dei legami familiari si conferma così come un elemento si-
gnificativo, e “significante” nella vita delle persone di ogni età e come tale
agisce e retroagisce nei più svariati contesti e momenti della vita degli indi-
vidui.
Tornando alle premesse teoriche e metodologiche che hanno accompa-
gnato e sostenuto questa esperienza gli aspetti che emergono con particolare
rilevanza sono la visone ecologica e sistemica di tutte le parti coinvolte,
compresa la struttura istituzionale costituita dal corpo docente che già in pre-
cedenza, durante l’anno scolastico in corso, ha favorito le premesse per un
contesto relazionale tra pari in direzione della cooperazione e del riconosci-
mento reciproco.
Emerge l’utilità delle domande relazionali che riportano continuamente
ad allargare i confini delle dinamiche alla ricerca di significati, più che di ri-
sposte, soprattutto in relazione al ruolo dell’adulto rispetto alla funzione
esercitata nei contesti: in che modo è possibile per l’insegnante vestire i
panni del mediatore? Inoltre, quale posizione attribuire a “diversità”, “diffi-
coltà”, “conflitto” nella relazione tra pari. per superare la dicotomia tra con-
testo relazionale e contesto sociale? “(...) anche in Bateson, come nel senso
comune, la parola mente indica un sistema dinamico dell’organizzazione del-
l’esperienza. Ma questo sistema, a differenza di quanto viene dato per scon-
tato nel senso comune, non è confinato dentro i contorni dell’individuo”
(Manghi, 2004: 58).
Questa “tracimazione” della mente individuale non si esaurisce nell’in-
contro di altre menti, ma genera una funzione propria che rende unica, per
ogni gruppo, non solo l’organizzazione dell’esperienza ma l’organizzazione
del senso dell’esperienza. La cooperazione, in questi termini, si configura
come una struttura organizzativa-mente interconnessa che può essere favo-
rita e costruita a partire dalla cura delle relazioni individuali in contesti so-
ciali in fasi molto precoci della vita comunitaria.

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Manghi, Sergio, La conoscenza ecologica, Raffaello Cortina, Milano
2004.
La mediación escolar entre pares como
herramienta para la previsión y resolución
de conflictos en la educación secundaria pública
y privada de México
Lydia Raesfeld e Irma Quintero López - Universidad Autónoma
del Estado de Hidalgo

La presente investigación se desarrolla en el marco de la cátedra


UNESCO “Educación intercultural para la convivencia, la Cohesión Social y
la reconciliación en un Mundo Globalizado” llevada a cabo en la
Universidad Autónoma del Estado de Hidalgo, donde se realiza una reflexión
teórica y empírica de algunas evidencias científicas y sociales, respecto a la
utilidad de la mediación como herramienta para la prevención y resolución
de conflictos escolares en el ámbito de la educación secundaria pública y
privada.
El objetivo es proponer un modelo de mediación escolar entre pares, que
permita la previsión y resolución de conflictos en la educación secundaria en
México, mediante la caracterización de conflictos en el aula.
De acuerdo con estudios de la Organización para la Cooperación y el
Desarrollo Económicos (OCDE), México ocupa el primer lugar internacional
en casos de bullying entre estudiantes de educación secundaria pública y
privada, donde el 70% de los alumnos han sufrido violencia escolar en sus
aulas. No debe extrañar que en la escuela se desarrollen conflictos ni que
repercutan o se desplieguen otros en ella, provenientes del medio social
(Prawda, 2002). Con base en lo anterior es necesario enfatizar el impulso de
una convivencia armónica en el ámbito escolar mediante la prevención y
resolución de conflictos a través de alumnos mediadores que ayuden a
aclarar y solucionar malentendidos que se llevan a cabo en el interior de las
aulas.
De acuerdo con Milton Bennett (1998) existen cinco estrategias para la
resolución del conflicto:

➢ Evitar el conflicto;
➢ El poder;
➢ La mediación;
➢ El consenso de grupo;
➢ La discusión.
Para esta investigación se considera la mediación como la estrategia para
prever y solucionar los conflictos, debido a que, de acuerdo con Boqué
(2003), “es un proceso informal en que un tercero neutral sin poder para
imponer una resolución, ayuda a las partes en disputa a alcanzar un arreglo
mutuamente, por lo tanto la mediación transforma el conflicto”.
La mediación, a través de los tiempos, ha sido utilizada como una
estrategia que permite la resolución de conflictos en diversos ámbitos:
familiar, legislativo, intercultural y educativo. Hace énfasis en el proceso de
comunicación entre las partes en conflicto donde los sujetos que se ven
inmersos en estos, con ayuda de un tercero llamado mediador, pueden aclarar
los malos entendidos.
Si consideramos la convivencia pacífica como uno de los elementos
primordiales en la educación secundaria, es indispensable la mejora de la
comunicación, además de promover el aprendizaje cooperativo en los
alumnos.
Se retoma la Teoría del conflicto de Johan Galtung, en sus dimensiones
meso, micro, macro y mega; así como teórica de la mediación, considerando
sus orígenes, modelos, características y etapas por lo que debe pasar, así
como las técnicas que dan elementos al mediador para ser ese puente para la
transformación del conflicto. Considerando que Galtung concibe el conflicto
como una “disputa”, referida a dos actores en lucha por un algo escaso, el
“dilema”, relacionado con la incompatibilidad de objetivos, la
“contradicción”.
Se utilizó una metodología mixta, que se define como una forma de
investigación en la cual los investigadores combinan técnicas, métodos,
aproximaciones conceptos o lenguaje cuantitativo y cualitativo dentro de una
misma investigación (Johnson & Onwuegbuzie, 2004).
El uso de dicha metodología permite tanto la combinación de técnicas,
como la combinación del concepto filosófico, acerca de la realidad social,
dando pauta a la exploración desde diversas aristas con mayor profundidad y
amplitud de las ideas para la generación de nuevos conocimientos. En este
sentido el método mixto es inclusivo, pluralista y complementario y sugiere
al investigador una visión ecléctica acerca de la selección del método y del
pensamiento y de la conducción de la investigación.
En la investigación actual se retoma el diseño de triangulación que tiene
como propósito combinar las fortalezas de ambas metodologías para obtener
datos complementarios acerca de un mismo problema de investigación. En
este sentido se compararon y contrastaron los datos originados en tres etapas:
de la técnica de grupo, la encuesta y los grupos focales, donde se
recolectaron, procesaron y analizaron los datos obtenidos para conocer los
conflictos escolares y caracterizar la mediación escolar.
Trabajo de grupo
Técnica que, de acuerdo con su sentido y valor se apoya en la relación
que establecen los miembros entre sí dentro del grupo, actúa como “contexto
y medio de ayuda” a nivel individual y grupal (Rossell, 1998). Cabe
mencionar que el objetivo de dicha técnica fue conocer e identificar qué
conflictos se gestan en el aula entre pares a la luz de los planteamientos
teóricos que permiten un mayor entendimiento al vincular el campo teórico y
empírico.
La aplicación del trabajo de grupo se desarrolló a partir de tres fases, las
cuales permiten conocer los factores espaciales, temporales y contextuales
que inciden en la gestación y desarrollo del conflicto.
La primera fase hace referencia a la aplicación de la técnica de trabajo de
grupo y refiere a la gestión para poder aplicar dicha técnica, así como la
selección de la muestra. Cabe mencionar que la elección de la muestra fue
intencional y no probabilística, ya que fue la población más cercana para
poder aplicar dicha técnica. Simultáneamente, se solicitó a la dirección de la
secundaria pública y privada la aplicación de la técnica de grupo a los
alumnos de segundo grado. Cabe mencionar que la razón de la elección del
grupo está en función de la trayectoria académica que tienen los estudiantes.
Una vez autorizada la petición, se procedió a la aplicación de dicha técnica,
la cual dio paso a la siguiente etapa.
La segunda fase focalizó la aplicación de la técnica, la cual se puede
caracterizar con la información contenida en la siguiente tabla.
La actividad se inició informando a los alumnos sobre el objetivo de la
técnica, que consiste en identificar los conflictos en el aula, así como sus
principales características y los sujetos que intervienen en el desarrollo de
los mismos.
Una vez que se comentó sobre la finalidad de la técnica se dieron las
instrucciones sobre lo que los alumnos tenían que hacer. Primero se indicó a
los alumnos que se les entregarían tres tipos de tarjetas color azul, color
blanco y color rosa, y que en el lado A tenían que hacer referencia a los
conflictos en el aula que habían tenido en los últimos seis meses. En el lado
B tendrían que mencionar su edad, género y lugar de procedencia.
Primero se repartieron las tarjetas blancas en donde los alumnos hicieron
referencia al conflicto en el aula de mayor importancia en los últimos seis
meses. En caso de no existir conflicto podría hacer referencia al de mayor
importancia en su educación secundaria. Posteriormente, se repartió la tarjeta
de color rosa hicieron referencia a los conflictos de mediana importancia en
el aula.
Finalmente, se repartieron las tarjetas de color verde en las que señalaran
el conflicto de menor importancia en el aula. Después de cinco minutos se
solicitó a los alumnos entregaran las tres tarjetas y se les agradeció por la
participación y cooperación.

Encuesta
Para la validación de la encuesta, se realizó una prueba piloto del
cuestionario a 290 alumnos de los 423 de la población total correspondiente
a los alumnos que se encuentran en el ciclo escolar agosto-julio de 2014
cursando el segundo año de la educación secundaria. La elección de la
muestra se realizó de manera aleatoria en diferentes grupos de segundo
grado, con base en las facilidades conferidas por la escuela.
El instrumento permite caracterizar los conflictos en la educación
secundaria y a partir de esta, proponer un modelo de mediación escolar que
permita la prevención y resolución de los mismos en la educación
secundaria. La encuesta está compuesta por 70 ítems, los cuales se
distribuyen en 4 dimensiones como historicidad, clima de convivencia,
conflictos y mediación. Cada uno de los ítems están construidos en forma de
preguntas o de afirmación y presentan un orden aleatorio. Se encuentran
organizados en formato tipo Likert.
El formato Likert es una escala psicométrica conformada por
componentes: cognoscitivo (creencias), afectivo (sentimientos) y conductual
y es comúnmente utilizada en cuestionarios. Esta escala es de uso frecuente
y amplio en encuestas para la investigación, principalmente en ciencias
sociales. Al responder a una pregunta de un cuestionario elaborado con la
técnica de Likert, se especifica el nivel de acuerdo o desacuerdo con una
declaración (elemento, ítem o reactivo o pregunta). Cada uno de los ítems
tiene de 4 a 5 posibilidades de respuesta. Cabe mencionar que algunos ítems
incluyen una sexta columna de observaciones para que se precisen o
justifiquen aspectos relacionados con la comprensión o no de cada ítem.

Elaboración: Dra. Lydia Raesfeld y Mtra. Irma Quintero López (2014)

Grupos focales
El grupo focal es una técnica cualitativa que permite obtener datos de un
conjunto de sujetos, mediante la opinión y conocimiento de sentimientos,
actitudes. Cabe mencionar que el objetivo primordial de dicha técnica, es
contar con la mayor información de una temática. En este sentido Matus y
Molina (2005) señalan que esta técnica cualitativa pretende aprehender los
significados que los sujetos comparten y que se expresan mediante el
lenguaje.
Para el caso de la investigación se desarrolló un grupo focal con el
propósito de recabar información de los conflictos presentados en el salón de
clases y la manera en cómo se resolvían. Se consideró a los jefes de grupo de
las escuelas públicas y privadas. Junto con los participantes se establecieron
varios aspectos bajo los cuales se desarrollaría el estudio: el uso de la
información, los tipos de información destacados, quienes serían los usuarios
de la información, determinación del tipo de datos requeridos.
Para establecer la población a participar se consideró a los alumnos,
tratando de que el grupo fuera lo más homogéneo posible donde los jóvenes
se conocieran entre sí. El propósito fue que los participantes se pudieran
expresar libremente sin herir susceptibilidades.
Dentro del grupo focal se trabajaron las siguientes cuestiones:

➢ Historicidad de los alumnos de educación secundaria;


➢ Clima de convivencia;
➢ Conflicto;
➢ Mediación.

Tamaño de la muestra
Para calcular el tamaño de la muestra habitualmente se usan criterios
prácticos basados en la experiencia o la simple lógica. Para la investigación
de un total de 180 alumnos de la secundaria se consideró una muestra de 155
para la escuela pública y en el caso de la escuela privada de un total de 424
alumnos se consideraron 300.

El sujeto en la construcción del objeto

El ser humano se construye y reconstruye con relación a los demás,


dando paso a la producción de sí mismo, pero siempre en interrelación con
su ambiente. Esto da cuenta de su identidad subjetiva (autoproducción) y
objetiva (orden social) en las que se establecen relaciones con los otros. El
individuo es considerado un ser vivo con conciencia práctica, ya que
establece relaciones activas y bidireccionales con el medio para vivir, hasta
que el individuo interacciona con otros grupos humanos se convierte en
sujeto con conciencia reflexiva, lo que implica establecer ciertas relaciones
funcionales que lo vuelven interdependiente, es decir, donde el sujeto se
vuelve producto, productor y aniquilador de su entorno; el cual depende del
devenir histórico de los modelos sociales y de la estructura de las relaciones
humanas.
El hombre es un producto social, en el que la institución necesita
legitimar su cuerpo de conocimientos que están determinados por un
conjunto de reglas, roles, que inspecciona los comportamientos y dan paso a
que el sujeto acceda a un sector social específico. En este caso la educación
secundaria es ese escenario en el que el sujeto legitima y asume de manera
consciente su formación ciudadana, tomando en cuenta de que su propósito
fundamental consiste en dotar a los alumnos de los conocimientos, las
habilidades, los valores y las competencias básicas para seguir aprendiendo a
lo largo de su vida, que les permita desenvolverse y apoyar la construcción
de una sociedad democrática y enfrentar los retos que impone una sociedad
en permanente cambio, ya que la complejidad del mundo actual requiere la
participación activa y responsable de jóvenes como miembros de su
comunidad y ciudadanos.
En cuanto a los sujetos que ofrecen pautas para la conformación de esta
investigación podemos identificar a los alumnos (principales actores en el
desarrollo del trabajo), docentes, directivos y padres de familia que en sus
diversos ámbitos constituyen espacios de socialización y enculturación de
los jóvenes estudiantes.
Para el caso de los sujetos protagonistas de la investigación, son
estudiantes de secundaria, nivel que se caracteriza por ser un periodo en
transición, en el proceso de conformación identitaria ya que son adolecentes
entre 11-16 años de edad, que van dando sentido a su mundo. En este sentido
y de acuerdo con Elías (1990) se busca que estos referentes de socialización
ofrezcan al joven un horizonte de conocimientos y anhelos tan amplios como
sea posible, una visión global de la vida, una especie de isla afortunada de
ensueños y de juventud, que guarda una singular relación con la vida que
espera al joven cuando se convierte en adulto.
Es así que la conducta moral de los estudiantes está influida por la
internalización de reglas y por el modelamiento de los diferentes actores
sociales que conforman su entorno y para que el sujeto transite en ese
desarrollo social y personal que lo define como sujeto social pues según
Elías el niño debe convertirse en un ser fuerte, individualizado y
diferenciado en relación con la sociedad en la que se crió.
El desarrollo del juicio moral de los sujetos, según la teoría de Kohlberg
hace referencia a que ese individuo transita de un estado de total
heteronomía al proceso de construcción de un sujeto particular, autónomo en
que se identifican tres niveles de desarrollo: I. preconvencional (los juicios
se basan en las necesidades personales y las percepciones de otros), II.
Convencional (el juicio se basa en la aprobación de los demás, las
expectativas de la familia, los valores tradicionales, las leyes sociales y la
lealtad patriótica) y III. Posconvencional (los juicios se fundamentan en
principios abstractos más personales que no por fuerza están definidos por
las leyes de la sociedad).
En cuanto a la modalidad secundaria particular los alumnos del Colegio
Miguel de Cervantes Saavedra, está integrado por 424 alumnos, cuyas
edades oscilan entre 11 y 16 años y su status socioeconómico de acuerdo con
los datos de la encuesta es de nivel alto. En cuanto a la Escuela Secundaria
General Número 7, que se integra por 180 alumnos, las edades oscilan entre
los 11 y 16 años, su status socioeconómico, de acuerdo con los datos de la
encuesta, es de nivel medio-bajo.
En el espacio escolar el sujeto es consciente de que la gente tiene una
variedad de valores y opiniones, así como la mayoría de sus valores o reglas
son relativas a su grupo y la etapa en la que se encuentran puede cuestionar y
no solo asumir las reglas que le son impuestas en la escuela. Otro aspecto
sobre el que podemos reflexionar o analizar es cómo se lleva a cabo en
ambos contextos la formación de la identidad, ya que de acuerdo con
Montero (1994) está no solo se reduce a lo social sino que los aspectos
cognitivos también son determinados a partir de la realidad percibida y la
vivida por los sujetos, debido a que en esta etapa es donde sufre cambios
físicos, emocionales y sociales, por lo que los estudiantes puedan movilizar
sus valores, saberes y habilidades ante ciertas situaciones.
Los adolescentes experimentan en esta etapa de su vida transformaciones
significativas en su desarrollo personal, social y cognoscitivo que repercuten
en su capacidad para actuar y tomar decisiones con mayores niveles de
autonomía; lo cual repercutirá en su rol como estudiante, pues tendrá que
desarrollar competencias básicas como: buscar información con sentido
crítico, razonar, pensar científicamente, reflexionar sobre su aprendizaje y
pensamiento seguir aprendiendo de la escuela y de la vida, vincular el
conocimiento teórico-práctico, adoptar una actitud de compromiso con el
desarrollo sustentable y el respeto a la diversidad cultural, desarrollar las
nociones de espacio y tiempo históricos, reflexionar sobre los sucesos y
procesos del pasado que han conformado las sociedades actuales.

Descripción de los escenarios observados


La caracterización de los contextos escolares para esta investigación es
importante, debido a que en ellos se desarrollaron prácticas educativas y
sociales, donde los individuos se construyen y reconstruyen como sujetos
sociales entre pares y docentes. Además, porque se reconoce que el
individuo no nace miembro de una sociedad, nace con una predisposición
hacia la socialidad y luego llega a ser miembro de esta (Berger y Luckmann,
1983).
Por lo tanto, los estudiantes se relacionan biológicamente con su contexto
desde el momento de su concepción, y con su nacimiento se refuerza la
dualidad sujeto-entorno, pues es a través de la socialización primaria que el
individuo atraviesa en la niñez, la que le permite convertirse en un miembro
de la sociedad. En función de ello se construye el primer mundo del
individuo, en donde establece interacciones, nutre y se nutre de su entorno
con la finalidad de incorporar los elementos que se derivan de la
socialización que establece.
Hablar de educación como un servicio público, hace referencia a una
escuela que ofrezca, a “todos”, con independencia de la clase, el género, la
nacionalidad, la etnia o la capacidad económica, los recursos suficientes para
asegurar el máximo nivel educativo, la (UNESCO, 2014) define que un
establecimiento es de enseñanza pública cuando “es controlado y gestionado
por una autoridad pública o un organismo escolar público (nacional/federal,
estatal/provincial o local), independientemente del origen de los recursos
financieros”, su fin primario consiste en procurar el desarrollo pleno de
todos y cada uno de los alumnos.
La escuela uno se ubica en la ciudad de Pachuca de Soto, en el Estado de
Hidalgo, pertenece a un nivel socioeconómico medio-bajo y es una escuela
pública. Cuenta con turno vespertino. La institución cuenta con 6 grupos,
dos por grado escolar, cada uno con una letra para su identificación: (A, B,
C, D, E, F, M). Los salones se encuentran ubicados en tres edificios, uno
para cada grado escolar. Las aulas son grandes y el mobiliario básico
consiste en butacas, un escritorio, un pizarrón para el profesor, además de
contar con iluminación adecuada.
Así mismo la (UNESCO, 2014) define que un establecimiento es de
enseñanza privada cuando se trata de un “Establecimiento controlado y
gestionado por una organización no gubernamental (iglesia, sindicato o
empresa), independientemente de que reciba o no fondos públicos”.
Respecto a la escuela dos, se ubica en la ciudad de Pachuca de Soto, en el
Estado de Hidalgo, pertenece a un nivel socioeconómico alto y es una
escuela privada, cuenta con turno vespertino y matutino. La institución está
integrada por 15 grupos, cinco por grado escolar, identificamos con un color
cada. Es un edificio grande, cuenta con dos plantas, donde se observa que los
acabados son de buena calidad y modernos.
Esta institución cuenta únicamente con un turno matutino, pero en
ocasiones se desarrollan jornadas que concluyen a las 18 hrs. Como apoyo
para madres y padres de familia que trabajan jornadas laborales largas.
Cuenta con aproximadamente, 30 aulas, el mobiliario se compone de mesas
binarias con sillas, pizarrón, televisión, materiales didácticos pegados en las
paredes de los salones y lockers donde hay libros y diccionarios en otros
idiomas. La escuela cuenta con espacios designados para talleres,
laboratorios, salón de juntas, oficinas de control y supervisión (donde los
alumnos pueden revisar sus horarios), oficinas directivas, biblioteca, baños
para mujeres y hombres en cada nivel.

Resultados preliminares
Acorde a la triangulación de la información recabada para esta
investigación se tiene presente los siguientes resultados:

Historicidad de los alumnos


Acorde a la población total encuestada se tuvo un 50.5 % de hombres y
un 49.5% de mujeres las cuales se distribuyeron en escuelas públicas y
privadas, de los cuales 29.9% fueron alumnos de entre 11-12 años, 63.5% de
13 años y el 6.6% entre 15 y 16 años.
Con respecto a la situación familiar, el 68.1% de los estudiantes viven
con sus padres mientras que el 19.8% sus padres están separados o
divorciados.
En cuanto a la profesión de los padres se observa una diferencia amplia
en comparación con las dos escuelas: mientras que para la educación pública
la mayoría son vendedores ambulantes, trabajadores en servicios personales,
servicios domésticos, servicios de seguridad, el mayor puntaje de la escuela
privada corresponde a profesionales, gerentes y directivos de alto nivel en
los sectores público y privado, profesores universitarios.
Si bien los programas educativos son los mismos en cuestión en
currículum básico en ambas escuelas, la educación privada se ve fortalecida
por materias extracurriculares que permiten la formación integral de los
alumnos, por ejemplo asignaturas de idiomas.
En ambas escuelas se configura el papel de los padres como punto nodal
de su aprendizaje, pero tanto en el público como en el privado se tiene esta
participación al 100%, debido a las ocupaciones que tienen los padres.

Clima de convivencia
La convivencia impera en la capacidad que las personas tienen para
convivir con otras, en un marco de respeto mutuo y solidaridad respetuosa, e
implica el reconocimiento y respeto por la diversidad, la capacidad de las
personas de entenderse, de valorar y aceptar las diferencias; los puntos de
vista de otro y de otros.
En este sentido se observa como en ambas escuelas se implementan
programas tutoriales para atender la convivencia pacífica de los alumnos,
que desde el deber ser están perfectos para lograr dicho objetivo, aunque en
el quehacer diario de las aulas, se logra poca armonía en todos los grupos. Si
bien solamente en 2 de 6 grupos de la escuela pública consideran normas de
convivencia dentro del salón de clases, mismas que los alumnos proponen
con su tutor, en la escuela privada se establecen estas en los 15 grupos que se
tienen, aunque los alumnos no participan en la elaboración de dichas normas
sino que son impuestas por la institución.
Se consideran en ambas escuelas reglamentos de conducta, donde existen
sanciones para aquellos alumnos que no se comporten acorde a la
normatividad, e incluso hay expulsiones cuando surgen peleas entre alumnos
o falta de respeto a los profesores y alumnos.
En el espacio escolar, la convivencia se enseña, se aprende y se refleja en
los diversos espacios formativos (en el aula, en los talleres, los patios, los
actos ceremoniales, la biblioteca) y se considera responsabilidad de toda la
comunidad educativa.

Conflicto
El término conflicto alude a factores que se oponen entre sí, propios de la
interacción humana, como expresión de la diferencia de intereses, deseos y
valores de quienes participan en ella. El conflicto es un factor participante de
cualquier agrupamiento humano, es un factor de crecimiento, en tanto su
resolución implica un trabajo orientado a la obtención de un nuevo
equilibrio, más estable que el anterior. Trasformar el conflicto en una
oportunidad para el cambio, es un arte que requiere de habilidades
especiales, si aprendemos a anticipar un conflicto en potencia y lo
encaramos de una forma constructiva Animar a los alumnos en disputa a
resolver las causas del conflicto que en un momento determinado surge de
manera colaborativa, es, por lo general, el método más efectivo de prevenir
futuros conflictos que administrar castigos por las acciones pasadas.

Los resultados preliminares arrojan que el 65% son conflictos que se dan
en el aula entre pares y el 35% son conflictos entre profesores o directivos y
alumnos, destacan la falta de comunicación, la diferencia de valores, falta de
habilidades sociales que generan golpes, destrucción, rumores, chismes,
exclusión, insultos, amenazas que dañan la autoestima y la posibilidad de
acción de los alumnos.
Elaboración: Dra. Lydia Raesfeld y Mtra. Irma Quintero López (2014)
La frecuencia con que se presentan los conflictos es dos veces por
semana y en el caso de la educación pública las mujeres son los actores que
están presentes en los conflictos con un 57.8%, mientras que en la escuela
privada los hombres son quienes obtuvieron el mayor porcentaje con un
73.7%.
Se observa presencia de conflictos de poder, de valores y de
comunicación, en ambas escuelas, lo que provoca malentendidos entre
alumnos y la no resolución de conflictos de manera inmediata.

Mediación
El conflicto durante muchas épocas fue visto como algo negativo, pero la
mediación permite abrir una puerta donde éste puede ser considerado un
elemento positivo para transformar a las personas. Resulta entonces
importante tomar conciencia de la actitud de mediadores y personas en
conflicto en relación éste, puesto que la percepción que tenemos del mismo
de manera general, predeterminará las actitudes o comportamientos que
pueden favorecer o perturbar el proceso de mediación.
En las escuelas observadas, no se tiene un conocimiento formal del
proceso de mediación, pero los alumnos lo practican de manera informal
platicando entre ellos para buscar la mejor solución de los mismos, mediante
la exposición de sus puntos de vista.
El 70.5% son conflictos que los alumnos median entre ellos, y para el
resto hay la participación de un tercero.

Conclusiones
Se puede decir que el objetivo perseguido en esta investigación se logró,
mediante el reconocimiento y caracterización de elementos del conflicto y de
mediación escolar en los alumnos de educación secundaria.
En relación al primer objetivo concreto, referido a la identificación de los
conflictos existentes en las relaciones de convivencia en el ámbito escolar y
áulico, hemos identificado diversos tipos de conflictos asociados a la vida en
el aula y a la que se vive en los centros educativos relacionados con los
valores, las relaciones interpersonales, los intereses, los recursos, el poder, la
adaptación y las estructuras. A través del análisis se evidenció la
concentración de conflictos en 3 grupos principales (relaciones
interpersonales, recursos y estructuras), deduciendo de todo ello, la
necesidad de trabajar mediante la aplicación del programa de mediación los
problemas de comunicación, de falta de entendimiento, de percepción de la
realidad social de los centros y de la comunidad para llegar a transformar las
relaciones de convivencia.
En cuanto a la mediación se puede profundizar de manera muy
exhaustiva en las posibilidades de la mediación como herramienta de gestión
e intervención para la solución de conflictos. Prueba de ello son los cambios
que se han producido en los comportamientos de los participantes. Se ha
conseguido cambiar percepciones y actitudes hacia el conflicto y se ha
logrado satisfacción y mayor seguridad en el enfrentamiento del mismo
inherente a la convivencia.
Los alumnos de la escuela pública y privada, si bien tienen los mismos
objetivos educativos, los escenarios y contextos determinan mucho la
manera en cómo se dan los conflictos y cómo se solucionan, y en ambos
casos le dan mayor peso a la normatividad y sanción que implementan las
escuelas.
Así mismo, se pudo observar que la mayoría de los alumnos considera
que tiene un bajo conocimiento sobre conflictos y que no denuncia a sus
compañeros cuando cometen una falta, ya que no son escuchados; y si son
escuchados, el Maestro y/o el Directivo, no hace nada para dirimir la
controversia.

Bibliografía
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La mediación como estrategia para la resolución
de conflictos entre alumnos en el espacio
universitario del instituto de ciencias sociales
y humanidades. Trabajo de campo
Lydia López Pontigo - Universidad Autónoma
del Estado de Hidalgo

El presente escrito es parte del cuerpo de un reporte de investigación que


aún está en la primera fase sobre la mediación en el ámbito universitario
teniendo como objetivo estudiar la mediación como estrategia para la
resolución de conflictos entre alumnos en el espacio universitario del
Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades. La importancia de no perder
de vista el objetivo radica en el hecho de ser conscientes de la complejidad
que tiene por sí sólo el objeto de estudio que nos ocupa.
La complejidad del objeto de estudio nos remite a no cerrar las fronteras
metodológicas que orientan esta investigación, es decir, a no cuadrar de
forma inflexible la explicación y comprensión científica del objeto de
estudio que hace referencia a la mediación como estrategia para la resolución
de conflictos entre alumnos en el espacio universitario del Instituto de
Ciencias Sociales y Humanidades.
En tanto, se opta porque el presente estudio tome como eje articulador los
planteamientos de Bericat (1998), quien realiza una clara apuesta por las
posibilidades de integración metodológica para el diseño de la investigación
social, presentando un modelo que recoge tres subtipos o estrategias de
integración multimétodo. Dicha combinación hace referencia a la
complementación, la triangulación y la combinación. Cabe mencionar que
aunque se hace referencia a ellas desde diferentes acepciones, el punto más
relevante es sobre el fundamento que comparten. El cual tiene que ver con el
encuentro dialéctico entre la metodología cuantitativa y cualitativa para
enriquecer la construcción objetiva de cualquier objeto de estudio en la
investigación social.
La integración de metodologías remite a la posibilidad de combinar la
metodología cualitativa y la cuantitativa dentro de una misma investigación,
de manera tal que sostiene la complementariedad entre métodos. Bericat
(1998) identifica tres estrategias de integración metodológica: la
complementación, la combinación y la triangulación. Cada una pretende
enriquecer la mirada y construcción del objeto de estudio, pues abordan de
forma separada, alguna dimensión que configura a dicho objeto. Es decir, en
ellas se puede observar la singularidad de los aspectos cuantitativos y
cualitativos de cada método que al final encuentran un punto de
convergencia para nutrir los resultados sobre el objeto de estudio.
Cabe mencionar cada una de las estrategias que configuran el método de
integración tiene una función diferente. Se hace referencia a la
complementación, por el hecho de hacer uso de la metodología cuantitativa y
cualitativa para abordar una dimensión diferente y de forma separada una
dimensión del objeto de estudio de una investigación. Dicha estrategia se
caracteriza por conservar la independencia de métodos y de resultados ya
que cada método se usa para responder a interrogantes diferentes de la
investigación.
La estrategia que se refiere a la combinación plantea el uso de un método
de manera subsidiaria respecto al otro con la finalidad de aumentar la validez
del último. Cabe mencionar que en esta estrategia sí hay combinación
metodológica con el propósito de obtener un sólo tipo de resultado,
proveniente de la última metodología empleada.
Finalmente, la estrategia que se refiere a la convergencia o triangulación
supone el uso de ambas metodologías para abordar el mismo aspecto de la
realidad. Es decir, existe independencia en la aplicación de los métodos, sin
embargo, existe convergencia en los resultados. La finalidad de esta
estrategia es la aceptación de que ambas metodologías pueden captar un
aspecto de la realidad y complementarse.
Los beneficios de utilizar esta metodología radica en su capacidad de
solucionar problemas de medición y permitir validar una medida utilizando
distintos instrumentos (Bericat, 1998). De esta manera, si los resultados
obtenidos a través de métodos diferentes son parecidos, podrá hablarse de
convergencia entre medidas independientes.
Distintos autores también destacan que la triangulación es de utilidad
cuando se pretende aumentar la confiabilidad y validez de las teorías,
contrastar hipótesis a través de metodologías diferentes, probar hipótesis
rivales, refinar y crear teoría (Vasilachis de Gialdino, 1992; Pérez Serrano,
1998; Bericat, 1998). En este sentido, contribuye al aumento de la validez
interna de una investigación al combinar métodos y tipos de datos,
aumentaría la credibilidad de los resultados obtenidos, así como de su
validez externa (por la combinatoria de métodos se eliminarían los sesgos
que la aplicación de cada uno de ellos en forma aislada trae consigo y el
análisis ganaría objetividad) (Pérez Serrano, 1998: 90). Pero no todos los
autores coinciden con esta apreciación. Cabe mencionar que dentro de sus
aspectos positivos y rescatables algunos autores señalan que la triangulación
no es garantía de validez de los datos (Vasilachis de Gialdino, 1992), puesto
que múltiples medidas para un mismo fenómeno pueden simular converger y
ser todas ellas erróneas.
Los beneficios de utilizar esta metodología radica en su capacidad de
solucionar problemas de medición y permitir validar una medida utilizando
distintos instrumentos (Bericat, 1998). De esta manera, si los resultados
obtenidos a través de métodos diferentes son parecidos, podrá hablarse de
convergencia entre medidas independientes.
Las estrategias antes planteadas como ya se hizo referencia su principal
característica es que permiten integrar aspectos de índole cuantitativa y
cualitativa conservando la independencia tanto de su propia naturaleza como
de sus métodos, ya que cada uno de éstos se usa para responder a
interrogantes diferentes de la investigación. Pese a ello hay un punto de
encuentro que es el propio objeto de estudio el cual permite converger en los
resultados.
Con esta singularidad es que para poder estudiar la configuración y
construcción del objeto de estudio que ocupa esta investigación que gira
sobre “la mediación como estrategia para la resolución de conflictos en el
espacio universitario del Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades de la
Universidad Autónoma del Estado de Hidalgo” se elige el método de
integración en función de la compleja naturaleza del mismo y para dotar de
un eficiente soporte metodológico al objeto de estudio en función de cada
uno de los objetivos que orientan la investigación.
En tanto, para el desarrollo del método de integración esta investigación
plantea como objetivo rector “Estudiar la mediación como estrategia para la
resolución de conflictos entre alumnos en el espacio universitario del
Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades”. El cual a su vez está
integrado por objetivos específicos que permiten identificar cuáles son los
aspectos que se abordaran desde un referente cuantitativo y/o cualitativo.
Dichos objetivos son los siguientes:

➢ Identificar y describir los conflictos entre alumnos que se desarrollan


en el espacio universitario del Instituto de Ciencias Sociales y
Humanidades;
➢ Identificar el escenario donde se desarrollan con mayor frecuencia
los conflictos en el espacio universitario del Instituto de Ciencias
Sociales y Humanidades;
➢ Identificar los aspectos prácticos de la mediación que los alumnos
utilizan para la resolución de sus propios conflictos en el espacio
universitario del Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades;
➢ Proponer un modelo para la formalización de la mediación como
estrategia para la resolución de los conflictos entre alumnos en el
espacio universitario del Instituto de Ciencias Sociales y
Humanidades.

Cabe mencionar que para develar el primer y segundo objetivo se plantea


utilizar como técnica de recolección de información la encuesta. Se utiliza la
encuesta como instrumento de investigación de índole cuantitativa. Esta se
enfoca dos poblaciones alumnos y tutores grupales.
La primera encuesta es dirigida a quienes son los sujetos principales de
esta investigación, es decir, los alumnos. Para su aplicación se toma como
muestra a los alumnos inscritos formalmente en los séptimos semestres de
nueve licenciaturas del Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades,
durante el periodo julio-diciembre 2014.
La razón de ser de la encuesta dirigida a los alumnos es obtener
información sobre qué tipo de conflictos entre alumnos se gestan y
desarrollan en el espacio universitario, quiénes son los sujetos que tienen
mayor protagonismo en el desarrollo de los conflictos. Así como el clima de
convivencia que posee el espacio universitario y el clima de convivencia que
propicia la presencia de conflictos.
Finalmente conocer cómo abordan los alumnos los conflictos en el
espacio universitario, quiénes son los sujetos que aplican estrategias para la
resolución de conflictos y qué componentes prácticos de la mediación
utilizan para la resolución de los conflictos.
La segunda encuesta es dirigida a los tutores grupales, a quienes se elige
debido a que son ellos quienes llevan un seguimiento formal de la trayectoria
académica de los alumnos e incluso como representantes de los docentes,
pero sobre todo porque son ellos quienes llevan el seguimiento de la
trayectoria socio-educativa de los alumnos, es decir, mantienen una relación
estrecha con los alumnos debido al rol que fungen con ellos. La finalidad de
la aplicación de esta encuesta fue el contrastar los datos obtenidos en la
encuesta con los referentes teóricos. La cual se trabaja desde un enfoque
cuantitativo, pues de acuerdo con Navarro (2012) en principios de la
estadística matemática, como son los que regulan las relaciones existentes
entre una población y las muestras extraídas de ella. Por otro lado, la técnica
de la encuesta descansa en unos principios de la teoría de la comunicación,
en el interrogatorio o conversación entre dos interlocutores, el encuestador y
el encuestado.
Para poder alcanzar el objetivo de la investigación se planteó utilizar una
encuesta debido a la naturaleza de la temática que de acuerdo con Navarro
(2012) la encuesta puede asociarse con temas como:

a. Composición social y Población: Características socio-demográficas de


la familia: composición por sexo y edad; número de aportantes; oficio y
posición ocupacional; matrimonio y familia; roles sexuales;
b. Condiciones de la reproducción social: Vivienda; acceso a medios de
consumo colectivo: transporte, educación, servicios médico-asistenciales;
espacios públicos; delincuencia y victimización; políticas sociales: salud
pública; prevención y asistencia sanitaria;
c. Opinión Pública: Identificación de contenidos de la imagen existente.
Pulsar la opinión de públicos especializados y predeterminados;
d. Grupos y organizaciones: Organizaciones complejas; burocracia;
grupos formales e informales; estructura social: estratificación y clases
sociales; élite; cambio social;
e. Medio ambiente: Ecología; participación de comunidades urbanas y
rurales;
f. Economía y trabajo: Actitudes y comportamientos económicos,
laborales, empresariales, consumo, políticas económicas; sociología
industrial; mercado de trabajo; sindicatos; profesiones; turismo;
g. Política: Ideologías políticas; sistema político; partidos y grupos de
presión; comportamiento político; elecciones; actitudes políticas;
h. Cultura y socialización: Procesos culturales; tiempo, recreación y ocio;
religión; ciencia y tecnología; medios de comunicación de masas; educación.

Se plantean diversas razones por las cuales se puede optar por la encuesta
como un instrumento de recolección de información y que se complementan
con las propias características estructurales, temporales y contextuales que
configuran el objeto de estudio que hace referencia a “la mediación como
estrategia para la resolución de conflictos de los alumnos del Instituto de
Ciencias Sociales y Humanidades de la Universidad Autónoma del Estado de
Hidalgo”.
Entre las razones que se rescatan de los planteamientos de Navarro
(2012) son las siguientes:

1. La encuesta es una de las técnicas disponibles para el estudio masivo


de conocimientos, actitudes y prácticas sociales. Por lo tanto, dicha
investigación hace referencia al Instituto de Ciencias Sociales y
Humanidades como espacio en el que se desarrolla la investigación.
Planteando como sujetos de investigación los alumnos de sexto
semestre de dicho instituto como muestra representativa de la
población total de los alumnos de dicho instituto.

Cabe mencionar que la muestra representativa de la población se


determina a partir de los criterios que configuran la muestra intencional. En
este tipo de muestreo, puede haber clara influencia de la persona o personas
que seleccionan la muestra o simplemente se realiza atendiendo a razones de
comodidad. Salvo en situaciones muy concretas en la que los errores
cometidos no son grandes, debido a la homogeneidad de la población.
Con dicha muestra se identifica la frecuencia de la aparición del
conflicto, así como de su naturaleza. A su vez caracterizar el tipo de
estrategias que utilizan los alumnos para resolver los conflictos en el aula.

2. La encuesta puede adaptarse para obtener información generalizable


de casi cualquier grupo de población, lo cual lo podremos observar
al establecer una tipología del conflicto en el aula a partir de las
propias prácticas de los alumnos;
3. Hay un tercer aspecto que hace recomendable el uso de encuestas y
es que se trata de una técnica que permite recuperar información
sobre la historicidad de cada de los sujetos de investigación e incluso
de la propia investigación;
4. La cuarta es porque es un instrumento que tiene que ver con la
eficiencia en la población con la cual se trabaja, que son un total de
367 alumnos de sexto semestre.
Por lo tanto, la encuesta será el instrumento de investigación que permita
identificar qué tipo de conflictos se generan en el ámbito universitario. Así
como las estrategias que utilizan los universitarios para abordar dichos
conflictos tomando como referentes las tipologías que plantean autores como
T. Parsons, Lewis Coser, Dahrendorf, Lockwood, Johan Galtung, Vinyamata,
Freud, Kurt Lewin, Morton Deutsch, Ron Fisher quienes conforman el
núcleo central del marco teórico de esta investigación.
En un primer momento se rescatan los planteamientos teóricos de los
autores anteriores sobre el conflicto para identificar similitudes y diferencias
entre estos planteamientos, y posteriormente plantear una tipificación de los
conflictos en el aula.
En tanto, los conocimientos teóricos previos que plantean los autores
anteriores se centran en una constante evolución en función del tiempo,
espacio y formación disciplinar de los autores. Así como la incorporación de
factores culturales, contextuales, económicos, sociales y políticos que
conceptualizan y sustentan las diferentes teorías del conflicto. Por lo tanto,
en la siguiente matriz se rescatan los principales exponentes así como sus
propuestas que en vienen a sustituir o a complementar nuevos elementos
como lo podremos observar.
Tabla. 1. Matriz teórica propia sobre el conflicto

Los planteamientos de los diversos autores de quienes se ha hecho


referencia sobre la teoría del conflicto, permiten la construcción de una
tipología del conflicto en función de diferentes categorías como claridad,
actores, impacto en el rendimiento organizacional, intereses, motivación e
intelecto y satisfacción de necesidades. Lo que se puede observar en la tabla
2.
Tabla 2. Taxonomía del conflicto en el ámbito universitario

A la luz del referente teórico señalado en la tabla 1 y 2 para poder diseñar


y construir el instrumento de índole cuantitativo, es decir, la encuesta se
realiza un trabajo previo, el cual permite identificar qué tipo de conflictos se
generan en el aula en educación superior; en específico en el Instituto de
Ciencias Sociales y Humanidades. Posteriormente una vez identificados y
caracterizados los conflictos de los alumnos en el aula, se da paso a la
elaboración de la encuesta a partir de la redacción de cada una de las
preguntas que se plantean ejemplificar empíricamente los planteamientos
sobre el conflicto y su tipología en función de la información obtenida con la
técnica de trabajo de grupo.
El trabajo previo se sustenta en la técnica denominada “trabajo de grupo”.
El sentido y el valor del trabajo de grupo radica en la relación que establecen
los miembros entre sí dentro del grupo, y en la situación de grupo en sí
misma, que actúa como “contexto y medio de ayuda” para el individuo y
para el propio grupo para obtener información sobre el grupo (Rossell,
1998). Cabe mencionar que el objetivo de dicha técnica fue conocer e
identificar que conflictos se gestan en el aula entre pares a la luz de los
planteamientos teóricos que permiten un mayor entendimiento al vincular el
campo teórico y empírico.
La aplicación del trabajo de grupo se desarrolla a partir de tres fases. Las
cuales permiten conocer los factores espaciales, temporales y contextuales
que inciden en la gestación y de desarrollo del conflicto.

1era. Fase
La primera fase que hace referencia a la aplicación de la técnica trabajo
de grupo se refiere a la gestión para poder aplicar dicha técnica, así como la
selección de la muestra. Cabe mencionar que la elección de la muestra fue
intencional o no probabilística, ya que fue la población más cercana y
factible para poder aplicar dicha técnica. En tanto, se solicita a la
coordinación de la licenciatura en Ciencias de la Educación la autorización
para la aplicación de la técnica de grupo a los alumnos de sexto semestre,
cabe mencionar que la razón de la elección del grupo está en función de la
trayectoria académica que tienen, es decir, que hay una sobrevivencia
académica. Una vez autorizada la petición se procedió a la aplicación de
dicha técnica, la cual da paso a la siguiente etapa.

2da. Fase
La segunda fase está enfocada como tal a la aplicación de la técnica, la
cual se puede caracterizar con la información contenida en la siguiente tabla.

Tabla. 3 Ficha sobre la técnica de trabajo de grupo

La actividad se inicia informando a los alumnos el objetivo del estudio, el


cual consiste en identificar los conflictos en el aula, así como sus principales
características, como los sujetos que intervienen en el desarrollo de los
conflictos en el aula.
Una vez que se comenta sobre la finalidad de la técnica se dan las
instrucciones sobre lo que los alumnos tienen que hacer. Primero se indica a
los alumnos que se les proporcionaran tres tipos de tarjetas y que en el lado
A tienen que hacer referencia a los conflictos en el aula que han tenido en los
últimos seis meses. Por el lado B tienen que mencionar su edad, género y
lugar de procedencia.
Primero se reparten las tarjetas blancas en donde los alumnos harán
referencia al conflicto en el aula de mayor importancia en los últimos seis
meses y si en dado caso no existiera pueden hacer referencia al que haya
sido el de mayor importancia en su trayectoria académica universitaria.
Posteriormente, una vez que los alumnos escribieron el conflicto con
mayor importancia, se reparte la tarjeta de color rosa que hace referencia a
los conflictos en el aula de mediana importancia. Cabe mencionar que
nuevamente se les menciona que tienen que mencionar y describir
detalladamente el conflicto en el aula que consideren de mediana
importancia en los últimos seis meses o durante su trayectoria académica
universitaria.
Finalmente una vez que concluyeron con la tarjeta de color rosa en donde
hacen referencia al conflicto de mediana importancia, se reparten las tarjetas
de color verde en las que señalaran el conflicto en el aula que consideren de
menor importancia.
Después de cinco minutos se solicita a los alumnos entreguen las tres
tarjetas y se les agradece por la participación y cooperación.

3era. Fase
La tercera fase es la que corresponde a la interpretación de la información
obtenida a través de las tarjetas de colores en la aplicación de la técnica de
grupo, la cual se clasifica de la siguiente manera en tres categorías. La
primera es sobre datos generales de la población como sexo y edad. La
segunda hace referencia a la actores quienes son partícipes en los conflictos
y finalmente la última se refiere a la tipología de conflictos en el aula.
En cuanto a “datos generales” referidos en la aplicación de la técnica de
trabajo de grupo en la Grafica 1. se identifica que del 100% de la población
el 75% corresponde a la población femenina y el 25% restante corresponden
a la población masculina. Evidentemente se identifica que la población
tienen un alto porcentaje de mujeres de quienes el 39% tiene 20 años de
edad, el 27% de las mujeres tienen 21 años. Mientras que el 6% de la
población tiene 23 años y finalmente el 3% tiene 22 años. En cuanto a la
población masculina el 10.8% son hombres con 21 años de edad. El 7.1%
cuenta con 22 años de edad; el 3,2% tiene solamente 23 años y finalmente
con un 3.6 % corresponder a los 25 años. Una primera lectura de estos datos
es que es un grupo conformado por más de la mitad de mujeres, lo cual
permite interpretar que las mujeres tienen mayor incidencia en el desarrollo
de conflictos en el aula.
Grafica. 1. Población estudiada. (Variables sexo y edad)

En cuanto a la segunda categoría referida a “los actores”, los resultados


obtenidos con las tarjetas blancas referente a quiénes son los actores que
están más involucrados en los conflictos en el aula, el 59% de las mujeres,
así como el 21% de los hombres plantea que los conflictos entre pares, es
decir, ente alumnos son de mayor importancia y se presentan con mayor
frecuencia en el aula. Mientras que sólo el 16% de las mujeres plantea que
los conflictos que emergen en el aula se dan entre no pares, es decir, entre
profesor-alumnos, lo mismo refiere el 4% de los hombres. Dichos
porcentajes permiten concluir que los conflictos con mayor importancia se
dan entre pares, es decir, entre alumnos.
En cuanto a los datos obtenidos con las tarjetas de color rosa sobre los
conflictos de mediana importancia, se identifica que el 38% de las mujeres
considera de mediana importancia los conflictos que se dan entre no pares,
es decir, entre profesor-alumnos, el 37% de las mujeres considera de
mediana importancia los conflictos entre pares. A diferencia el 16% de los
hombres considera de mediana importancia el conflicto entre pares y sólo el
9% entre no pares. Por lo tanto existe diferencia entre la percepción entre
hombre y mujeres en cuanto a los conflictos de mediana importancia, pues
para mujeres el conflicto entre no-pares (profesor-alumnos) es de mediana
importancia, mientras que para los hombres el conflicto entre pares
(alumnos-alumnas) sigue siendo el de más importante.
Finalmente en la grafica 4 sobre los conflictos de menor importancia el
53% de las mujeres y el 22% de los hombres consideran que los conflictos
entre no pares (profesor-alumnos) son los de menor importancia, mientras
que el 22% de las mujeres y el 3% de los hombres consideran que son los
conflictos entre pares (profesor-alumnos) son los de menor importancia.
Cabe mencionar que hombres y mujeres coinciden en esta consideración.
La tercera categoría que hace referencia a la tipología de los conflictos
que se identifica en el trabajo de campo. En cuanto a la información obtenida
en las tarjetas blancas se identifica que los conflictos se presentan entre pares
y no pares, en función del tipo de conflicto que se haya trabajado.
De acuerdo con la grafica 5 los conflictos entre pares de mayor
importancia con un 25% son los que se refieren a la ausencia de valores.
Mientras que con un 16% hacen referencia a los conflictos de organización y
finalmente con un 6% el conflicto de poder entre no pares. En lo que
respecta al trabajo entre no pares el 38% menciona que el de mayor
importancia es el referente a los intereses, con un 12% se hace referencia a
los conflictos relacionados con la ausencia de valores, finalmente con un 6%
hacen referencia al poder.
Los recursos que se obtuvieron en función de la tarjeta rosa hacen
referencia en primer lugar a la división a los conflictos entre pares y no
pares. En los conflictos entre pares (alumn@-alumn@) con el 41% están
presentes los conflictos generados por la ausencia de valores, con un 13%
están latentes los conflictos interpersonales, con un 6% los referentes a los
conflictos de organización y finalmente se hacen presentes con un 3% los de
motivación. Mientras que los conflictos entre no pares (profesor-alumn@) el
16% representa a los conflictos por ausencia de valores, el 22% se refieren a
los conflictos de intereses. Finalmente se puede identificar que los conflictos
de mediana importancia son los que corresponden a la ausencia de valores
entre pares y en cuanto a los no pares el conflicto de intereses es el que tiene
mayor impacto.
Finalmente la tipología que se configura en función de la tarjeta verde
que hace referencia a los conflictos de menor importancia plantea que el
42% de los conflictos entre pares son intergrupales, el 33% corresponde a los
conflictos entre pares. Mientras que los conflictos de poder son los que se
gestan en un 13% y los conflictos de intereses entre no pares se hacen
presentes en un 12%.
De acuerdo a la aplicación de la técnica de trabajo de grupo podemos
hacer las siguientes conclusiones que aportan elementos importantes para la
conformación y reconstrucción del objeto de estudio.

1. Se identifica que las mujeres son los actores principales que


participan en el desarrollo de un conflicto;
2. Los conflictos entre pares (alumno-alumno, alumna-alumna) desde
la perspectiva de las mujeres son los que tienen mayor importancia
mientras que para los mismo para los hombres;
3. En cuanto a la tipología del conflicto en el aula de mayor
importancia, están la ausencia de valores;
4. En cuanto a la tipología del conflicto en el aula los que tienen
mediana importancia son los de intereses y los de ausencia de
valores;
5. En cuanto a la tipología del conflicto en el aula los que tienen menor
importancia son los conflictos interpersonales y los de organización.

Con los referentes anteriores sobre la técnica de trabajo de grupo y el


referente teórico se construye la “encuesta”, la cual tienen como objetivo
identificar cuáles son los conflictos que se hacen presentes en el ámbito
universitario y la frecuencia con las que éstos surgen.
El diseño y construcción de la encuesta parte de los elementos teóricos en
función de los diversos referentes teóricos y empíricos obtenidos en la
técnica de trabajo de grupo, con la integración de estos elementos establecen
como ejes conductores de la investigación, así como para la construcción de
los instrumentos de investigación las siguientes categorías.
Tabla 4. Construcción propia de las categorías de análisis

En lo que respecta a la configuración del método de integración en el


referente cualitativo se plantea como instrumento principal la técnica de los
grupos focales para dar respuesta a los planteamientos referidos de los
objetivos tres y cuatro, los cuales hacen referencia a identificar y estudiar las
prácticas mediacionales como estrategias no formales para la resolución de
los conflictos en el aula.
Los grupos focales Escobar (2013) los define como una técnica de
recolección de datos mediante una entrevista grupal semiestructurada, la cual
gira alrededor de una temática propuesta por el investigador. Cabe
mencionar que existen diferentes conceptualizaciones sobre éstos, sin
embargo, diferentes autores como Aigneren, Beck, Bryman y Futing (citados
en Escobar, 2013) coinciden y construyen una definición sencilla sobre los
grupos focales, los cuales son definidos como un grupo de discusión, guiado
por un conjunto de preguntas diseñadas cuidadosamente con un objetivo
particular. El propósito principal del grupo focal es hacer que surjan
actitudes, sentimientos, creencias, experiencias y reacciones en los
participantes; esto no sería fácil de lograr con otros métodos. Los elementos
que configuran y caracterizan a los grupos focales permiten diferenciarlos de
otros como la entrevista individual, ya que los grupos focales permiten
obtener una multiplicidad de miradas y procesos emocionales dentro del
contexto del grupo.
En este caso la razón de utilizar los grupos focales como un instrumento
de índole cualitativo tiene como objetivo identificar y comprender a partir
del contacto directo con los sujetos de investigación con quienes se
identificara cuáles son la practicas mediacionales no formales que utilizan
los alumnos del Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades para la
resolución de conflictos en el ámbito universitario.
Bibliografia
Bericat, Eduardo, La integración de los métodos cuantitativo y
cualitativo en la investigación social, Ariel, Barcelona 1998.
Vasilachis de Gialdino, Irene, Métodos Cualitativos, Centro Editor de
América Latina, Buenos Aires 1992.
Navarrro, E., El instrumento de recolección de información de la técnica
de la encuesta social, Universidad de Antioquia, 2012.
Escobar, Jazmine, Grupos Focales: una guía conceptual y metodológica,
Universidad El bosque, 2013.
Rossell, Teresa, Trabajo social de grupo: grupos socioterapéuticos y
socioeducativos, en “Cuadernos de Trabajo Social”, 1998, 11.
Il processo verso la mediazione:
percorsi giudiziari, sociali e relazionali
a confronto nei reati di bullismo scolastico
Marta Lombardi e Paola Loiacono - Procura della Repubblica
presso il Tribunale per i Minorenni di Piemonte e Valle d’Aosta

Premessa
Il progetto qui presentato nasce da una collaborazione fra magistratura e
polizia, dunque fra professionalità e approcci molto diversi. Sono professio-
nalità abituate a collaborare, ma su terreni codificati 69. Il progetto si è potuto
sviluppare grazie alla capacità di queste professionalità di dialogare fra loro,
di integrare le differenze tanto da poter creare una base solida per spingersi
verso una sperimentazione che, stando nel perimetro del terreno codificato,
si spingesse a reinterpretare l’azione di ciascuno in chiave di apertura verso
l’esterno, in particolare verso la scuola.
La scelta di scrivere a più mani la presentazione del progetto costituisce
un ulteriore momento d’integrazione e di costruzione di un linguaggio condi-
viso.
Il progetto è nato dall’esigenza concreta di dare una risposta efficace alle
denunce per fatti-reato di bullismo scolastico, avviando i protagonisti dei
fatti alla mediazione e coinvolgendo nella mediazione la comunità scola-
stica70. Poiché dunque il Progetto è nato dalla necessità di dare risposte a
problemi concreti, nell’esposizione che segue sono prima indicati i problemi
e le criticità e poi l’impianto teorico cui ci si è riferiti per risolverli.

La nascita del Progetto


Il progetto è nato nella seconda metà degli anni 2000, da una collabora-
zione fra Procura della Repubblica per i Minorenni del Piemonte e della
Valle d’Aosta e Polizia Municipale di Torino, Nucleo di Prossimità. In quegli
anni c’era stata un’impennata di denunce relative a fatti-reato commessi da

69 Letteralmente, cioè sulla base di un rapporto che è regolato dalla legge.


70 Sulla mediazione, anche in campo educativo, con coinvolgimento della
comunità scolastica cfr. Jaqueline Morineau, Lo Spirito della mediazione, Franco
Angeli editore, Milano 2000.
minori in ambito scolastico71. Alcune denunce riguardavano azioni com-
messe da ragazzi contro altri ragazzi, altre invece da ragazzi contro profes -
sori o altro personale scolastico. I fatti – reato denunciati erano molto diversi
fra loro, ma appariva chiaro che, tutti, rappresentavano dei momenti di emer-
sione di tensioni e conflitti di più ampia portata, fra persone appartenenti a
una stessa comunità (la comunità scolastica); che, inoltre, la comunità stessa
non era capace né di risolvere, né di contenere tali tensioni, prima che ne
scaturissero fatti tanto gravi da essere denunciati. Le denunce rappresenta-
vano, in qualche modo, un appello estremo di aiuto che la Scuola rivolgeva
alla Giustizia.
A fronte di quest’appello di questa richiesta, si sono posti alcuni pro-
blemi. Il processo penale riguarda solo la vittima e l’autore materiale del
fatto, ma non coinvolge la comunità, l’ambiente entro cui il reato si è gene-
rato. Per esempio, viene denunciato un ragazzo che ha aggredito un profes-
sore in classe; ma nel processo non compare la classe, anche se è probabile
che – analizzando la questione sotto un profilo non giuridico, ma relazionale
– quell’aggressione sia scaturita da una dinamica di relazioni che coinvolge
anche la classe. Ciò è ancor più vero per i fatti-reato ascrivibili a bullismo
scolastico. Nel bullismo infatti il gruppo-pari ha un ruolo centrale, per i pro-
cessi identificativi cui dà luogo, per i ruoli che al suo interno si formano, per
i ruoli che ha la forza di attribuire sia al suo interno sia all’esterno e, infine,
perché il gruppo è il teatro, lo spazio entro cui si agiscono gli atti di bul-
lismo. Ma nel processo penale non compare né il gruppo-pari né la scuola,
all’interno della quale questo vive. Conseguente e ulteriore problema è che il
processo penale raramente modifica la realtà sociale o migliora la qualità
della vita della comunità che fa appello alla Giustizia, proprio nella speranza
di risolvere così le conflittualità che si muovono al suo interno. Per es., nel
caso del bullismo, il processo non raggiunge il gruppo – pari, che però è il
vero generatore del bullismo stesso. Non solo. Infatti, all’interno del pro-
cesso penale, il minore denunciato e la vittima possono fare dei percorsi per-
sonali con esiti anche molto soddisfacenti, che li portano a superare comple-
tamente la posizione nella quale si trovavano al momento del fatto-reato 72.
71 L’impennata si ebbe dopo che la Procura minorile, nel 2006, si occupò delle
indagini relative a un caso che molti ricorderanno, in cui era stato “up-lodato” su
“you-tube” il filmato di un ragazzo disabile che, in classe, era preso in giro e
malmenato dai compagni.
72 Nel processo penale minorile italiano la condanna può essere evitata attraverso
un istituto che si chiama messa alla prova, disciplinato dal DPR 22 settembre 1988
n° 448 “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati
minorenni”, art.28 (l’imputato accetta un programma d’impegni formativi,
lavorativi, di volontariato, di evoluzione personale. Può essere prevista anche una
mediazione, che coinvolge autore e vittima del reato. Il processo si sospende e, allo
scadere del tempo, il giudice verifica se il programma è stato rispettato ed è
compiuta l’auspicata evoluzione della personalità del minore, in tal caso il reato è
dichiarato estinto). Istituti simili, di probation, esistono in vari Paesi.
Ma questo loro lavoro avviene tutto all’interno del processo e, spesso, non
coinvolge l’ambiente in cui vivono e che li conosce come i soggetti che un
tempo si comportavano in un certo modo, ambiente che quindi è impreparato
ad accoglierli come persone diverse e a rinforzarli nella nuova immagine che
hanno di sé e nell’evoluzione fatta73.
Infine, si è posta la questione di fondo di facilitare interventi atti a indivi-
duare le dinamiche disfunzionali, con un lavoro preventivo volto a conte-
nere, ma anche a recuperare la capacità autonoma della comunità sociale di
curare e sanare le proprie disfunzionalità, prima e invece di fare appello alla
Giustizia.

Obiettivi del Progetto


Alla luce di tutte queste problematiche, il progetto è stato pensato per ren-
dere il processo penale, uno strumento d’intervento capace di promuovere un
nuovo assetto di relazioni fra i soggetti coinvolti strettamente nel fatto-reato
(autore e vittima), nonché fra questi, la comunità e l’ambiente coinvolti in
senso lato. Attraverso un protocollo articolato nei seguenti passaggi: 1) coin-
volgere tutti i protagonisti del fatto: autore, vittima, gruppo-pari, ambiente
(quindi, la scuola; 2) comprendere la dinamica dei rapporti all’interno del
gruppo e dell’ambiente (quindi, senza limitarsi ai soggetti e ai fatti riportati
in denuncia) e ricostruire il ruolo dell’autore del fatto e della vittima all’in-
terno di tale dinamica; 3) dare impulso alla modifica dei codici di comporta-
mento del gruppo-pari, e dell’autore del fatto e della vittima, ponendoli in
ascolto reciproco, attraverso tecniche di mediazione; 4) produrre un’osmosi
fra gruppo-pari e ambiente, con un’integrazione reciproca che allenti la chiu-
sura del gruppo verso l’ambiente; 5) rivisitare le tecniche d’indagine in
modo da renderle non solo strumenti di acquisizione d’informazioni 74, ma
anche strumenti di ascolto e dialogo fra tutti i soggetti coinvolti nella vi-
cenda e, quindi, strumenti per veicolarli verso la mediazione; 6) coinvolgere

73 Per un inquadramento del bullismo scolastico nei suoi vari aspetti (giuridici,
psicologici, sociologici) si veda: Anna Livia Pennetta (a cura di) La responsabilità
giuridica per atti di bullismo, G. Giappichelli Editore, 2014.
74 Le tecniche d’indagine sono gli strumenti attraverso cui il pubblico ministero,
direttamente o tramite la polizia giudiziaria, acquisisce gli elementi necessari a
capire e provare cosa è accaduto, chi ne è autore, che condotta ha tenuto, chi è la
vittima, quando è avvenuto il fatto, chi era presente. Ma anche, nel processo penale
minorile italiano, qual è la storia personale dell’autore e se sia giuridicamente
maturo e, quindi, perseguibile penalmente. Per i fatti-reato di questa natura, tecniche
d’indagine fondamentali sono: l’ascolto delle persone informate sui fatti, la raccolta
di materiale scolastico (per esempio: temi, diari scolastici, registri, referti, etc.),
l’interrogatorio dell’indagato.
l’istituzione scolastica e sostenerla nella capacità di gestire in futuro dina-
miche analoghe, cogliendole sul nascere, prima ancora che da queste scaturi-
scano fatti-reato.

Riferimenti teorico-metodologici
Non è un caso che il progetto sia nato dalla collaborazione di due settori
specifici della magistratura e delle forze di polizia: la Procura minorile e il
Nucleo di Prossimità della Polizia Municipale. Questi due Uffici hanno una
funzione che non è solo di controllo, sicurezza, accertamento dei reati (etc.)
ma di promozione della persona nella comunità in cui vive.
Per la Procura per i minorenni, questo mandato deriva esplicitamente
dalle fonti internazionali. Le “Regole Minime per l’Amministrazione della
Giustizia minorile” (approvate dal VI Congresso delle Nazioni Unite svoltosi
a Pechino nel 1985 e adottate con risoluzione dell’Assemblea Generale
40/33 del 29.11.198575) nella prima parte, dedicata ai “Principi generali”,
sollecita gli Stati a promuovere la protezione dei minori attraverso un’opera
di prevenzione sociale in cui è centrale lo sforzo proteso ad assicurare ai mi-
nori una compiuta partecipazione alla comunità di appartenenza 76. Il Consi-
glio d’Europa nella Raccomandazione 87/20 (approvata nel 1987 a Stra-
sburgo) sottolinea l’importanza, in materia penale, della ricomposizione del
conflitto (mediation) e l’uso di tale strumento da parte dell’organo che eser-
cita l’azione penale (in Italia la Procura minorile). La strada indicata dalle
fonti internazionali conduce dunque proprio al progetto che qui è presentato,
di promozione di modalità d’intervento che portino non solo all’accerta-
mento dei fatti, e alla rapida fuoriuscita del minore dal processo 77 ma, soprat-
tutto, raggiungano quest’obiettivo attraverso metodologie conciliative o me-
diative. Con l’ulteriore obiettivo di non chiudere l’azione all’interno delle

75 Le Regole di Pechino sono la prima compiuta enunciazione a livello


internazionale dei principi concernenti il diritto e la procedura penale minorile. Alle
Regole si sono informati i più recenti codici minorili adottati dagli Stati. L’Italia ha
pienamente dato attuazione ai principi espressi nelle Regole, nel Codice di
Procedura Penale Minorile (D.P.R. 448 del 1988, citato).
76 Cfr. “www.altrodiritto.unifi.it/” Capitolo 1 Il processo penale minorile
nell’ordinamento vigente.
77 L’obiettivo della rapida fuoriuscita del minore dal processo è posto sia dalla
normativa internazionale (Regole di Pechino citate, Convenzione di New York sui
Diritti del Fanciullo fatta a Roma il 20 novembre 1989, Ratificata dall’Italia con
Legge 27 maggio 1991, n. 176) che dalle fonti nazionali (cfr. sul principio si basa
l’intero D.P.R. 448/88 citato; cfr. inoltre la sentenza della Corte Costituzionale n.
109 del 1997).
aule di giustizia ma di coinvolgere l’ambiente del minore e del conflitto, cioè
la comunità teatro del reato e del conflitto sottostante.
La Polizia di Prossimità è destinataria di un mandato analogo. Si legge
nel “Manifesto delle città Sicurezza & Democrazia”, Napoli, 7.8 e 9
dicembre 2000” che (...)” Il governo della sicurezza rafforza la percezione di
un sistema di giustizia equo facendo leva su una gestione partecipata degli
interventi sulle insicurezze reali, sui malesseri e sui problemi sociali.
Famiglie, adulti, abitanti, comunità: la loro partecipazione è la risposta. Il
ricorso alla conciliazione, alla mediazione e all’arbitrato ricompone le
relazioni sociali a partire da regole e norme vicine alle nostre tradizioni e ai
nostri usi; i legami di prossimità, di convivialità e di comunità e il
sentimento di appartenere ad una città comunitaria e multiculturale sono
rafforzati”78. Su quest’idea la Polizia Municipale di Prossimità di Torino ha
organizzato un servizio di polizia in grado di cogliere e interpretare il bi -
sogno sicurtario della comunità, partendo dal problema del singolo, per for-
nirgli ascolto e rassicurazione nonché mettere in campo tutte le attività utili a
risolvere o almeno ridurre il disagio lamentato. Per fare questo la Polizia si
avvale di una formazione continua e dedicata, fondata sulla disposizione al
cambiamento per non rimanere indietro rispetto all’evoluzione sociale.
Il mandato dunque è chiaro a entrambi gli Uffici. Il problema è inserirlo
nell’attività ordinaria d’indagine, cioè nell’attività che i due Uffici svolgono
di accertamento dei fatti reato (quindi rispetto a procedimenti penali a carico
di minori, iscritti presso la Procura minorile e rispetto alle relative indagini,
svolte sia direttamente dalla Procura sia dalla Polizia Municipale, su delega
d’indagine). Infatti, nell’attività ordinaria d’indagine, i due Uffici utilizzano
le metodologie classiche dell’indagine (vedi nota 5). per pervenire al loro

78 Si vedano, sullo stesso punto, i seguenti documenti, richiamati dal Manifesto


citato: Consiglio d’Europa. Dichiarazione finale. Conferenza sulla riduzione
dell’insicurezza urbana, 17-20 novembre 1987, Barcellona, Spagna; Forum Europeo
per la sicurezza urbana, Federazione Canadese dei Comuni, Conferenza dei Sindaci
degli Stati Uniti. Agenda for Safer Cities, Dichiarazione Finale. Conferenza europea
e nordamericana sulla sicurezza urbana e la prevenzione della criminalità, 10-13
ottobre 1989, Montreal, Canada; Forum Europeo per la sicurezza urbana,
Federazione Canadese dei Comuni, Conferenza dei Sindaci degli Stati Uniti.
Dichiarazione Finale. Seconda Conferenza internazionale sulla sicurezza urbana, le
droghe e la prevenzione della delinquenza, 18-20 novembre 1991, Parigi, Francia;
Forum Europeo per la sicurezza urbana, Programma di Gestione Urbana (PNUD
CNUEH-Habitat, Banca Mondiale), Città di Saint-Denis-de-la-Réunion. Conferenza
internazionale Giustizia, Città, Povertà, 4-8 dicembre 1995, Saint-Denis-de-la-
Réunion, Francia; Forum Europeo per la sicurezza urbana, Dichiarazione di Dakar:
creazione del Forum Africano per la sicurezza urbana, 7 febbraio 1998, Dakar,
Senegal; Nazioni Unite, PNUD/UNCHS/Habitat, Conferenza «Safer Cities»
Johannesburg, 1997; Nazioni Unite, Centro per gli insediamenti umani (UNCHS).
Testo «The Global Campaign for Good Urban Governance» (allo stato di Progetto al
1° maggio 2000).
obiettivo principale: accertare che reato è stato commesso, da chi e se questi
sia responsabile. Solo una volta acquisiti questi elementi, propongono la me-
diazione o la riconciliazione all’autore del fatto e alla vittima, avvalendosi
del Centro di Mediazione Penale di Torino e, la Polizia di Prossimità, di
propri operatori formati ad hoc con l’ausilio di un criminologo 79. Tuttavia si
è costatato che molto spesso gli interessati rifiutano l’intervento, nonostante
sia altamente qualificato: le indagini tradizionali rafforzano la chiusura nelle
loro posizioni di conflitto e nel meccanismo amico/nemico reato/pena.
Dunque, sia la Procura minorile sia la Polizia di Prossimità si sono scontrate
con la difficoltà di dare attuazione al mandato di cui sopra, così innovativo
rispetto alla connotazione classica degli organi di Giustizia e di Polizia, ma
usando gli strumenti tradizionali. Il risultato è che le persone coinvolte nel-
l’attività d’indagine, dopo mesi in cui avevano un confronto tradizionale con
Procura e Polizia, non sono disponibili ad affacciarsi alla mediazione. Ci
vuole una preparazione.
Questo si è reso molto evidente specie con riferimento all’accesso alla
Mediazione Penale. È chiaro sia alla Procura sia alla Polizia, che nei casi di
bullismo il miglior intervento è quello della Mediazione. Ma lo stesso Centro
di Mediazione non può agire prima che sia chiarito cosa è successo, chi ha
fatto che cosa, chi sono le parti in conflitto etc. Dunque non è possibile giun-
gere alla Mediazione senza compiere indagini, a volte anche molto approfon-
dite.
Questa impasse ha portato i due Uffici a un’azione sinergica, produttiva
di un’interpretazione degli strumenti d’indagine secondo il canone della
prossimità con l’idea che per raggiungere l’obiettivo sia necessario operare
con modalità che già lo realizzino in itinere. I canoni esplorati si avvicinano
forse all’informal justice e all’ADR (Alternative Dispute Resolution)80 ma ri-
condotti nei parametri dell’azione di due Uffici rappresentativi della fun-
zione giudiziaria e di polizia e nella loro azione verso i cittadini.
Oggi dunque, nel progetto qui presentato, gli strumenti classici dell’inve-
stigazione sono reinterpretati e riproposti in chiave proattiva:

79 Il criminologo dott. Marco Bertoluzzo.


80 Sulla prossimità come metodo mirata ad attivare una comunicazione-
negoziazione tra persone al fine di un’adeguata risoluzione della disputa, anche con
possibilità di richiamarsi a un’istanza terza, con metodi di cooperazione e dialogo
che escano dalla logica amico-nemico, basati sull’ascolto dell’altro come persona
umana autonoma cfr. Fulvia D’Elia “Mitezza e Mediazione”, minorigiustizia 2015,
vol. 1, Franco Angeli Editore.
Sulla prospettiva pedagogica e la necessità che essa attivi le persone a ristabilire
relazioni, co-gestire conflitti, assumere il reato e le responsabilità, cercare linguaggi
diversi dalla sofferenza e dall’offesa, coinvolgendo non solo i singoli ma la
comunità, cfr. Luciano Eusebi (a cura di) “La risposta al reato. Oltre il diritto di
punire: prospettive pedagogiche”, Una Giustizia Diversa, il modello riparativo e la
questione penale, VP Vita e Pensiero Ricerche e Diritto, Milano 2015.
➢ si va incontro ai problemi, mediante una lettura delle situazioni, che
possano costituire i “sintomi” di un problema;
➢ si ascolta in modo “situazionale”, cioè contestualizzando quanto si
ascolta al contesto;
➢ si dialoga con l’interlocutore, aiutandolo a esprimere tutti gli ele-
menti caratterizzanti del problema, comprendendolo;
➢ si agisce in ottica di problem solving;
➢ si mira alla ricomposizione dei conflitti.

Ciò significa che già durante le sommarie informazioni, gli interrogatori,


le perquisizioni ecc., alle persone coinvolte non sono solo poste domande sui
fatti e la responsabilità, che le persone sono ascoltate in senso più lato, e sol-
lecitate a riconoscere il proprio ruolo, ciò che hanno fatto, ciò che avrebbero
potuto fare, allargando gli orizzonti dal reato alle dinamiche personali e col-
lettive nel quale si è generato.

La delega d’indagine
Operativamente l’azione è promossa sui due piani: la delega e l’attività
delegata. Quanto alla delega, i fatti-reato oggetto del Progetto – caratterizzati
come detto da bullismo scolastico – vanno da fatti meno gravi (come lesioni,
percosse, ingiurie, diffamazioni), a fatti decisamente gravi (quali diffama-
zioni a mezzo internet, estorsione, rapina, atti persecutori, violenze sessuali).
Sulla base del progetto qui esposto, una volta ricevuta la denuncia, l’Autorità
Giudiziaria promuove un’azione non confinata nelle aule giudiziarie, ma che
entra all’interno della scuola, coinvolgendo anche gli insegnanti e la classe o
il gruppo intercalsse entro cui i fatti sono avvenuti. In concreto, la Procura
per i Minorenni chiede esplicitamente, nella delega alla polizia giudiziaria,
di verificare se, alla base dell’episodio denunciato, vi sia un conflitto di più
ampie dimensioni, destinato a perpetuarsi nell’ambiente da cui è scaturito,
cioè la scuola. Nella delega si richiede di svolgere un’attività iniziale, perlu-
strativa, volta a comprendere se la situazione si è ripianata e, quindi, di pro-
cedere sentendo come persone informate sui fatti i compagni di scuola e il
personale scolastico che ha assistito o ha avuto conoscenza del fatto-reato, e
interrogando l’indagato81. Tutte le audizioni sono svolte con un approccio
che favorisca il dialogo fra le persone e il coinvolgimento della scuola; con
indicazione di partire dal fatto-reato ed estendere poi l’indagine fino a com-
81 Viene anche chiesto di verificare quale sia la storia personale e familiare
dell’autore del fatto; molto spesso, infatti, i comportamenti d aggressivi assunti dal
ragazzo in ambito scolastico sono espressione di una condizione di disagio o di vero
e proprio pregiudizio riconducibile al contesto familiare.
prendere tutta la dinamica da cui quel fatto è nato, quale percezione ne abbia
la scuola, quali interventi siano stati eventualmente attuati dalla scuola stessa
al fine di sanare il conflitto e perché tali interventi non abbiano avuto suc -
cesso. Con metodi che escludano la stigmatizzazione e favoriscano invece la
reintegrazione scolastica degli interessati. Nella delega, si chiede alla polizia
giudiziaria di verificare se le persone coinvolte siano disponibili a un even-
tuale intervento di mediazione.
La polizia giudiziaria avvia dunque le indagini delegate. Parallelamente,
propone un’attività di educazione alla legalità che è più libera e informale e
che coinvolge tutto l’ambiente entro cui si è sviluppata la dinamica del fatto-
reato (per es. la classe frequentata dalla vittima, dall’autore, dai membri del
gruppo-pari e dagli insegnati). La funzione è di dare avvio a un momento
che è insieme di formazione e di acquisizione di consapevolezza da parte di
tutti i soggetti che fanno parte di quell’ambiente (chi sapeva, chi non sapeva,
chi ha agito, chi non ha avuto il coraggio di soccorrere, chi non ha voluto ve -
dere, chi ha subito). Anche l’attività di educazione alla legalità è gestita in
modo da favorire il dialogo fra tutti i presenti e la nascita di un rapporto di
fiducia tra operatori di polizia e ragazzi.
Può capitare che sia denunciato un minore non imputabile 82. Il procedi-
mento potrebbe quindi chiudersi subito con richiesta di archiviazione per di-
fetto di imputabilità. Tuttavia, se vi sono elementi da cui ritenere che sussi-
stano le problematiche fin qui esposte, il progetto è ugualmente attivato, con
l’obiettivo di evitare la commissione di nuovi fatti-reato e di lavorare sul-
l’ambiente, come sopra.

Specificità del Nucleo di prossimità della Polizia


Municipale: tecniche di espletamento dell’attività
di indagine
La Polizia Municipale di prossimità si è rivelata particolarmente adatta a
compiere l’attività delegata sopra descritta, perché formata con particolare
cura all’ascolto e alla relazione con i cittadini.

82 In Italia, prima dei quattordici anni c’è una presunzione assoluta di non
imputabilità per incapacità di intendere e volere. Dopo i quattordici anni e fino ai
diciotto la capacità di intendere e volere deve essere provata e, se non lo è,
l’imputato deve essere assolto per incapacità di intendere e volere dovuta alla
minore età (art. 98 codice penale) (dopo i diciotto anni invece si presume la capacità,
fino a prova contraria). L’attivazione del Progetto anche per gli infraquattordicenni è
consentita, stante l’obbligo della polizia giudiziaria di impedire che il reato porti a
conseguenze ulteriori (art. 55 c.p.p.) e la possibilità che all’infraquattordicenne sia
applicata una misura di sicurezza (artt. 36 ss. DPR 448/88 citato).
Il Nucleo di Prossimità è nato con l’obiettivo di garantire un servizio ade-
guatamente strutturato contro il cosiddetto disagio urbano e di dare ai citta-
dini una risposta efficace e concreta rispetto alla convivenza civile e ai pro-
blemi di allarme sociale; è impegnato quotidianamente nella ricerca di solu-
zione ai problemi del cittadino, lavora a stretto contatto con le ferite della so-
cietà e impatta quotidianamente con problematiche connesse alla gestione di
conflitti. È noto, infatti, che molti reati nascono da conflitti non gestiti o ge-
stiti malamente e che spesso forniscono, come risultato, un’aggressione, più
o meno grave, a danno di una delle parti. In un’ottica di prevenzione e di ri-
duzione del danno, la politica di gestione e superamento del conflitto diventa
lo scopo degli interventi del Nucleo di Prossimità nei diversi contesti in cui è
chiamata a operare.
L’elemento distintivo degli operatori a ciò formati sta nell’elevato livello
di preparazione nell’approccio relazionale e nell’aperta sensibilità; alle com-
petenze ordinarie di polizia, è affiancata una specifica competenza a gestire,
contenere e, se possibile, risolvere situazioni di conflitto.
Il Nucleo di Prossimità ha progettato un percorso da compiere a fianco
dei minori, con l’appoggio della scuola e delle associazioni da sempre coin-
volte nelle attività scolastiche, cercando di coniugare attività di polizia e per-
corso di responsabilizzazione dei minori. La strategia è di mettere il più pos-
sibile a loro agio i ragazzi in un contesto per loro abituale (quale la propria
classe o un gruppo di coetanei solidali), in modo da favorire la comunica-
zione fra loro e con la polizia delegata. L’approccio del Nucleo di Prossimità
verso la scuola non è, dunque, quello tipico di “polizia”, cioè improntato al
controllo e alla repressione, ma un approccio del tutto diverso, di “prossi-
mità” appunto, cioè di vicinanza, volto alla prevenzione e agito per il tramite
di incontri di informazione e educazione. In quest’ottica, anche l’emersione
di fatti o informazioni utili alle indagini, che deriva dal rapporto di fiducia
che s’instaura con la vicinanza, non è utilizzato per punire, bensì per soste-
nere i soggetti coinvolti.
I passaggi dell’attività di indagine possono essere così riassunti:

➢ Acquisizione: in relazione a ciascuna delega, è costituito un tavolo


di lavoro cui partecipano l’ufficiale di polizia giudiziaria responsa-
bile dell’attività d’indagine, gli altri operatori della polizia munici-
pale, un criminologo e talvolta la psicologa;
➢ Istruttoria: si parte dal fatto-reato e lo si ricostruisce nella sua ma-
trice relazionale e sociale, così da comprendere da quale contesto è
nato e chi sono i soggetti coinvolti, indipendentemente dal fatto che
abbiano un ruolo nel processo penale 83. Si cercano, per ciascun at-
83 L’attività d’indagine qui descritta permette di comprendere il ruolo avuto anche
dai ragazzi che non hanno una responsabilità penale rispetto al fatto-reato, ma che
hanno un ruolo determinante nel mantenimento della dinamica disfunzionale
tore, le informazioni relative al contesto sociale e familiare, scola-
stico e urbano.

Si acquisiscono informazioni per comprendere le dinamiche con cui si re-


lazionano i soggetti coinvolti, sia fra loro sia con l’ambiente circostante.
Sono sentiti anche gli insegnanti. Si svolge l’attività delegata, che, come
detto, consiste prevalentemente nel sentire le persone informate sui fatti e in-
terrogare l’indagato. Le audizioni diventano momenti di ascolto, di sollecita-
zione a prendere coscienza di quanto avvenuto e del ruolo avuto, di invito a
mettersi in ascolto delle ragioni e del vissuto dell’altro. Per esempio, sen-
tendo una persona informata sui fatti che ha assistito alla commissione del
reato, le si domanda non solo cosa ha visto, ma cosa ha fatto, come è interve-
nuta. Alla risposta di non avere fatto nulla, la si sollecita a pensare cosa
avrebbe potuto fare, a chi avrebbe potuto rivolgersi per interrompere la com-
missione del reato, cosa la ha trattenuta dall’intervenire. Lo stesso vale
quando è sentita una persona che ha assistito all’escalation della tensione fra
autore e vittima del reato (magari con piccoli episodi premonitori avvenuti
nei giorni e mesi precedenti), portandola, attraverso le domande, a riflettere
sul significato degli episodi cui ha assistito, sull’eventuale scelta di ignorarli,
non cogliendo che si trattava di campanelli di allarme. Chi è ascoltato è così
sollecitato a riconoscere e a riconoscersi. Parallelamente, viene preparata una
lezione di educazione alla legalità, conformata alle esigenze emerse dalle at-
tività preparatorie sopra descritte (dal tavolo di lavoro, dall’assunzione di in-
formazioni dagli interessati etc.). I contenuti della lezione vengono concor-
dati con gli insegnanti e integrati con eventuali attività già in corso presso la
scuola (per esempio percorsi didattici dedicati alla legalità o alla conflittua-
lità giovanile). La lezione viene gestita da un operatore in divisa (lezione con
ausilio di presentazione Power Point, con molte fotografie e filmati, per sti-
molare l’attenzione dei ragazzi) e uno in borghese. L’agente in borghese (di
solito scelto fra il personale femminile) sta seduto in fondo all’aula con a
fianco l’insegnante, osserva le dinamiche della classe e, particolarmente, il
ragazzo/a interessato/a dal procedimento penale, rilevando se è agitato, se
cerca con lo sguardo compagni o l’insegnante, come si comporta quando il
gruppo viene sollecitato su un argomento specifico. a mano a mano che la le-
zione si sviluppa, i ragazzi vengono sollecitati dall’agente in divisa con do-
mande, con considerazioni sulle foto, sui filmati, con un percorso di avvici-
namento ai fatti-reato, senza mai focalizzarli esplicitamente (per non mettere
in difficoltà il ragazzo/a in esso coinvolto/a). Talvolta, intervengono l’inse-
gnante o l’agente dal fondo dell’aula. Quando si è instaurato un clima di co-
noscenza, quando i ragazzi comprendono che il ruolo della polizia non è solo
quello comunemente conosciuto di controllo, ma anche di supporto e di
aiuto, si apre la comunicazione e la fiducia cresce. Non è infrequente, allora,

all’interno della quale il fatto è nato.


che emergano vissuti di esclusione da parte del bullo, piuttosto che paure
della vittima, storie personali e familiari e percorsi scolastici dolorosi e acci-
dentati.

➢ Valutazione della strategia: si verifica che effetto hanno avuto gli sti-
moli verso una maggiore apertura all’altro e che strategia adottare
per completare questo percorso. Nei casi più semplici, l’obiettivo
può essere la siglatura di un patto simbolico tra i protagonisti della
vicenda;
➢ Riparazione: Le attività di indagine e gli interventi paralleli di natura
didattica, aprono all’analisi condivisa con i ragazzi e gli insegnanti
di quanto è successo; si evidenziano le responsabilità e i ruoli. Viene
dedicata una particolare attenzione alla vittima 84, che si sente vista
nella sua difficoltà, ascoltata, supportata e aiutata; si offre all’autore
una possibilità di confronto, riflessione e recupero; infine, si solle-
cita il gruppo a vedere, discutere ed elaborare al suo interno i com-
portamenti dei protagonisti dei fatti, ma anche il proprio modo di
funzionare. Ci si confronta sulla modalità, sul senso, sull’agito, sulla
motivazione. Le vittime e gli autori del fatto/reato, tutti i soggetti
che hanno avuto parte alle attività (gli operatori di polizia, gli inse-
gnanti, gli educatori, le famiglie, avvocati) analizzano il percorso ef-
fettuato: la scoperta dei fatti, l’acquisizione di consapevolezza del
ruolo avuto da parte di tutti i soggetti coinvolti (aggressore, vittima,
compagni di scuola, genitori, insegnanti educatori), la comprensione
della gravità dei fatti, le esperienze vissute da ciascuno, gli stati d’a-
nimo. È uno spazio libero, in cui ognuno può narrare agli altri il per-
corso secondo il proprio punto di vista e questo evidenzia il cambia-
mento. Si tratta di un momento di elevato impatto emotivo, dove
tutte le parti si liberano dei pesi dell’anima e vedono nell’altro il
proprio simile, con le forze, ma soprattutto con le debolezze, che
contraddistinguono ciascuno. Spesso, spontaneamente, da tutto ciò
emerge la spinta verso una nuova costruzione di rapporti. Il conflitto
viene superato e, con gesti rituali, catartici, aggressori e vittime s’in-
contrano e si rapportano secondo dinamiche di vicinanza. Il prin-
cipio che muove la ricomposizione è che la comunità – cresciuta
essa stessa nella consapevolezza di quanto è avvenuto al suo interno
– si stringe intorno ai ragazzi e diventa attrice e testimone del cam-
biamento (della consapevolezza raggiunta da tutti, della assunzione
di responsabilità, delle scuse, degli investimenti sul futuro etc.). Tutti
84 Nel processo penale minorile italiano, la vittima non può costituirsi parte civile.
Il processo è incentrato sul recupero dell’autore del reato e pone la vittima in
secondo piano. Questo spesso va a detrimento dello stesso autore, poiché il
confronto con la vittima può essere di grosso stimolo per attivare le sue capacità
empatiche.
i soggetti brevemente annotano i fatti e raccontano, raccontano, rac-
contano pubblicamente.

A questo punto, sovente nasce la spinta a sanare la frattura tra vittima e


autore del reato e sono questi stessi, insieme al gruppo pari e ai soggetti che
fanno parte dell’ambiente coinvolto (per es. insegnanti), che attivano il pro-
cesso verso una ricomposizione del conflitto. Il dialogo e il confronto su
quanto accaduto, cui i ragazzi vengono condotti con l’attività qui descritta,
porta, non infrequentemente, i protagonisti a uscire dal loro ruolo tanto di
vittima che di autore del fatto e ad acquisire la capacità di modificare il pro-
prio comportamento, il modo di relazionarsi. Il valore aggiunto è che tutto
ciò avviene all’interno del loro ambiente di vita, come frutto di un lavoro in-
tegrato a livello scolastico e con restituzione alla scuola stessa del muta-
mento avvenuto. Questo consolida i ragazzi nelle loro nuove conquiste e nel
rapporto di fiducia con le istituzioni, sperimentato nel corso degli incontri.
Spesso nasce la volontà di compiere un’attività riparatoria. La polizia di
prossimità non ha competenza sulle attività riparatorie e, pertanto, è stata
coinvolta un’associazione del terzo settore, che, con un pool di educatori, in-
troduce i ragazzi a un’attività che contribuisca alla ricostruzione della perso-
nalità. L’attività riparatoria non deve essere umiliante e non deve essere in-
terpretata come un lavoro “da fare” nel più breve tempo possibile; viene, in-
vece, scelta sulla scorta delle caratteristiche dei ragazzi, anche in riferimento
ai fatti compiuti, finalizzandola a un “bel periodo” da vivere. Le ragazze e i
ragazzi associati devono stare bene, costruire nuove amicizie, vivere un
mondo nuovo con esempi positivi. Le attività hanno una certa durata (da un
paio di mesi, fino a tutto l’anno scolastico, con cadenza di un paio di volta la
settimana) e devono produrre un concreto cambiamento in queste persone.
Fintanto che non venga a manifestarsi questo cambiamento, le attività prose-
guono. Quando gli educatori hanno la percezione dell’avvenuto cambia-
mento, ne fanno segnalazione al Nucleo. Nella quasi totalità dei casi, il cam-
biamento avviene completamente e addirittura certi ragazzi cambiano
aspetto, postura. In parecchi casi i ragazzi chiedono di continuare in auto-
nomia le attività proposte, perché in esse hanno trovato un ambiente posi-
tivo, trovato nuove amicizie, si sono sentiti realizzati come persone attive e
responsabili. Tutte le attività, seppur supervisionate dagli educatori, hanno
come caratteristica quella di far sentire i ragazzi capaci di assumersi delle re -
sponsabilità (per es. gestione di bambini più piccoli) e di aprire a una socia-
lità positiva.
Nei casi più complessi, la ricomposizione spontanea non avviene né viene
sollecitata già in questa fase, che è ancora d’indagine. Si apre una seconda
fase, davanti al Centro di Mediazione Penale di Torino, su invio dell’Auto-
rità Giudiziaria. Il Centro Mediazione è formato da operatori che sono me-
diatori e opera in uno spazio proprio, esterno al Palazzo di Giustizia. Nei casi
che, come quelli in esame, lo richiedono, può intervenire ad ampio raggio, su
tutto il contesto nel quale i fatti-reato sono avvenuti, anche quindi coinvol -
gendo soggetti che non hanno una veste nel procedimento penale (per
esempio compagni di classe, insegnanti). Altre volte un operatore del Centro
Mediazione può venire integrato nel percorso spontaneo che nasce dai ra-
gazzi a scuola.

Esito della delega e definizione del processo penale


Una volta espletata l’attività, la Polizia Municipale trasmette alla Procura
per i minorenni delegante i verbali delle sommarie informazioni, degli inter-
rogatori, delle altre eventuali attività effettuate, corredate da un’estesa anno-
tazione in cui espone sull’attività nel suo complesso. Nella quasi totalità dei
casi emerge che i minori e la scuola hanno fatto un percorso nel quale hanno
non solo compreso cosa è accaduto, ma anche acquisito degli strumenti per
essere più consapevoli delle proprie azioni e del significato delle azioni degli
altri. Emerge che l’autore del fatto ha saputo riflettere sul suo gesto ed ha ac-
quisito la capacità di esprimersi, di affermarsi, di relazionarsi, senza prevari-
care e trascendere nell’aggressione dell’altro. A questo punto è possibile che
il procedimento penale sia definito già in fase d’indagine, con una pronuncia
d’incapacità di intendere e volere dovuta alla minore età ovvero con una pro-
nuncia d’irrilevanza del fatto. Ciò se l’autore del fatto era molto giovane ed è
emerso (come spesso accade) che il reato abbia espresso sue fragilità perso-
nali dovute alla giovane età e alla storia di vita; oppure se il fatto iniziale non
era grave ed era isolato. Negli altri casi, specie se il fatto-reato è di una certa
gravità, il procedimento penale è definito nella fase del giudizio, ma la pro-
nuncia del giudice tiene conto del percorso effettuato e v’è la quasi totale ga-
ranzia che la condanna sia evitata (attraverso la concessione del perdono giu-
diziale o attraverso la messa alla prova).

Formalizzazione del Progetto e valutazione dell’impatto


Nel 2009, la collaborazione è stata formalizzata in un protocollo d’intesa
tra la Procura presso il Tribunale per i Minorenni e il Corpo di Polizia Muni-
cipale (Nucleo di Prossimità), ed esteso nel 2010 anche a un’associazione
del terzo settore (ASAI Associazione di Animazione Interculturale).
Le attività si svolgono su tutto il territorio della Città di Torino (dai quar-
tieri “popolari”, ai quartieri residenziali) e coinvolgono le scuole di ogni or-
dine e grado (dalle scuole dell’infanzia, alle primarie e secondarie di primo e
di secondo grado). Ovviamente modulando l’intervento secondo le età dei
minori coinvolti, con quella capacità duttile e plastica che è propria di questo
progetto (vedi paragrafo successivo). In ogni caso il punto fermo è che le
scuole siano coinvolte e collaborino attivamente nella definizione delle situa-
zioni e nelle attività di specifica competenza.
Tutti i casi trattati hanno evidenziato un profondo disagio familiare e so-
ciale dei minori coinvolti, trasversale ai contesti sociali: abbandono, assenza
genitoriale, disvalori, noia, mancanza di figure di riferimento sono le motiva-
zioni più comuni che stanno a monte delle dinamiche che orbitano intorno
alle conflittualità giovanili trattate. Dopo l’intervento qui descritto, nella
quasi totalità dei casi è stato riscontrato un effettivo cambiamento del ra-
gazzo/a, con buoni risultati scolastici, miglioramento dei rapporti familiari e,
in un terzo dei casi, i ragazzi hanno proseguito l’attività presso l’associa-
zione, consolidando il proprio ruolo di parti attive della comunità.
L’attività svolta all’interno delle scuole ha consentito al Nucleo di Prossi-
mità di sviluppare non solo buone prassi per la soluzione dei conflitti, ma
anche di creare un rapporto di fiducia con le istituzioni scolastiche. Da
qualche tempo, sono gli stessi dirigenti scolastici che, avuta notizia di
qualche dinamica disfunzionale tra gli allievi, richiedono l’intervento del
Nucleo di Prossimità per lo svolgimento di attività di educazione/formazione
alla legalità, in modo da far emergere eventuali episodi critici prima di arri -
vare alla denuncia e con l’obiettivo di gestire il conflitto prima che questo,
degenerando, si traduca in un fatto-reato.
Questo realizza uno degli obiettivi principali del Progetto, verso l’acqui-
sizione da parte della comunità scolastica della capacità autonoma di ricono-
scere e risolvere al suo interno le disfunzionalità.
Secondo i dati della Procura per i Minorenni, il Progetto ha determinato
un forte abbattimento delle recidive. L’attività preventiva che ne è derivata, e
che a oggi si realizza nella richiesta della scuola d’intervento prima che av-
vengano reati, ha determinato un forte abbattimento del numero di denunce.

Evoluzione
Questo progetto è nato da prime piccole sperimentazioni, da cui si è evo-
luto fino alla forma attuale. Mantiene ancora oggi questo carattere di work in
progress. Nel 2014 si è aperta una nuova fase: la Procura per i Minorenni,
unitamente al Nucleo di Prossimità, ha promosso una sperimentazione nelle
scuole denominata “Progetto Gruppo NOI”, mirato ad agire il più possibile a
livello preventivo. Il progetto ha l’obiettivo di gestire il disagio scolastico
dall’interno della scuola e di promuovere il benessere giovanile, mediante la
costituzione, all’interno della scuola, di gruppi di studenti che svolgano fun-
zione di auto-mutuo-aiuto tra pari. Il gruppo, denominato “NOI”, è costituito
da studenti che vivono la quotidianità della scuola, e possiede le seguenti ca-
ratteristiche:

➢ è composto da studenti (nel limite del possibile, già entrati in con-


tatto con bullismo o altre forme di disagio o conflitto giovanile);
➢ è a composizione aperta e ha un’ottica inclusiva;
➢ si presenta alle classi e promuove la propria funzione, anche al fine
di alimentarne un ricambio;
➢ si pone a disposizione degli studenti (accoglie, ascolta, si confronta
con i pari, organizza eventi di discussione, attività esterna anche di
volontariato, offre aiuto allo studio, ecc.);
➢ beneficia delle risorse esterne della rete locale di prossimità;
➢ è supportato da un docente di riferimento, con cui s’interfaccia.

La sperimentazione è stata avviata su varie scuole della Regione Pie-


monte con l’obiettivo di trarre dalle varie esperienze un modello da diffon-
dere a un numero sempre maggiore di scuole, con l’obiettivo di esportare il
metodo di prossimità a tutta la Regione Piemonte. Durante il corrente anno
scolastico (2014-2015) questo nuovo step ha preso avvio in otto scuole,
presso le quali si sono creati dei “gruppi NOI”; con una rete di supporto
composta da risorse del territorio di appartenenza (sia istituzionali, sia del
terzo settore). Il progetto, nato senza budget, ha trovato grande entusiasmo e
partecipazione, tanto da sviluppare un volano positivo e stimolare l’appoggio
anche economico di soggetti del settore secondario.
In esito alla sperimentazione, è stato organizzato, per il giorno 4 giugno
2015, un Convegno NOI, interamente gestito dai ragazzi, che sarà momento
di restituzione ad adulti e a pari dell’esperienza vissuta. La programmazione
dell’evento prevede una parte di riflessione e momenti di esibizioni artistiche
ed è ispirato ai temi del benessere scolastico e del contrasto al disagio mino -
rile. Le Autorità nazionali invitate avranno modo di assistere e ascoltare e
partecipare al dibattito; sono già confermati 480 partecipanti circa.
Mediazione penale minorile e senso di comunità
Angela Laconi - Università di Sassari

Introduzione
Tempo fa, come studentessa del Corso di Studio in Servizio Sociale del-
l’Università degli Studi di Sassari, ho partecipato alla presentazione della
“riapertura” del Centro per la Mediazione Pacifica dei Conflitti della Pro-
vincia di Sassari85. Un’esperienza significativa che mi ha fornito l’opportu-
nità di esplorare, e per quanto possibile approfondire, un tema oggi più che
mai attuale: l’importanza della comunità locale nella gestione e regolazione
dei conflitti che vengono a riguardare minori autori di reato. Con questo con-
tributo intendo quindi proporre alcune prime riflessioni legate alle possibili
connessioni tra la pratica della mediazione penale minorile e i programmi di
sviluppo di comunità, uscendo dall’ambito strettamente giudiziario, per rag-
giungere i mondi vitali in cui sorgono i conflitti. Una riflessione accompa-
gnata dal riferimento costante alla realtà socio-culturale della Sardegna, an-
dando però oltre le “regole” di questo specifico contesto, con l’intento di evi-
denziare come i conflitti appartengano alla loro comunità, che deve essere in
grado di offrire occasioni di crescita e di cambiamento.

Prendersi cura del conflitto


Il rispetto e l’accettazione dell’altro sono concetti oggi poco praticati,
come se fossero caduti nell’oblio e dimenticati. Questo conduce inevitabil-
mente a liti, controversie, scontri quotidiani o, per esprimersi con un’unica
parola, al conflitto. La comunicazione e la prossimità empatica tra le parti
coinvolte vengono annullate, per cui la regolazione del conflitto attraverso
un’impostazione fondata solo sul diritto non appare sufficiente poiché, pre-
vedendo l’intervento di un giudice che ha il compito di assegnare torto o ra-
gione, non favorisce di certo il dialogo e il confronto. Il diritto e i sentimenti
sembrano così due realtà inconciliabili tra loro di fronte alla dicotomia vin-
cente-vincitore dove le parti desiderano solo vedere inflitta una pena al ne-
mico; è una ferita che continua a rimanere aperta, uno strappo che non si

85 Il Centro nasce nel 1999 e inizia la sua attività con un seminario pubblico
mirato alla diffusione della cultura e della prassi mediativa sul territorio. Dopo
alcuni anni in cui è stato chiuso, nel mese di Aprile 2010 il Centro è stato
“ripresentato” in un incontro avvenuto presso il Palazzo della Provincia di Sassari.
riesce a ricucire. Pertanto, è necessario promuovere nuovi percorsi di com-
prensione che insegnino a riconoscere il conflitto come un fatto naturale, ac-
quisendo la consapevolezza che in questo esiste un’opportunità di sviluppo e
crescita. D’altra parte, il conflitto è parte della vita dell’uomo e della sua
quotidianità, per cui è utopico pensare ad un mondo senza di esso; si pre-
senta come “un momento ricco di energia che deve essere incanalata per
poter consentire ai soggetti che lo stanno vivendo di passare da una condi-
zione in cui subiscono le proprie reazioni emotive, a quella di attori che ela-
borano e sviluppano un progetto costruttivo di crescita” (Campanini 2003).
L’obiettivo è fare del conflitto una risorsa, non una malattia da curare; una
fonte di confronto, di dialogo e condivisione di cui è necessario prendersi
cura, imparando a valorizzarlo come agente di cambiamento.
In Sardegna, tale pratica del prendersi cura del conflitto, affonda le sue
radici nel passato, nelle modalità pacifiche di risoluzione dei conflitti, tra cui
il ricorso a Sos Omines86, tre uomini del paese riconosciuti come onesti, seri
e giusti: “amichevoli compositori ed esperti che potevano evitare lo scandalo
di una lite” (Masia 2009: 36). Ciascuna delle parti coinvolte nel conflitto
sceglieva il proprio difensore al quale venivano esposti il fatto, le proprie ra-
gioni o i presunti diritti. I due difensori sceglievano, a loro volta, S’Omine
de Mesu87, una persona che godesse della stima e della fiducia di entrambi,
oltre al fatto di essere super partes. Una figura che nelle situazioni critiche
faceva da intermediario non solo tra due soggetti ma tra il singolo e la comu-
nità, adoperandosi per la ricerca di un accordo e di una soluzione, evitando
quindi l’uso della violenza. In merito, il Codice Barbaricino 88 stabilisce che
“le controversie di natura penale possono essere risolte per mezzo di arbitri
chiamati Omines de Mesu” (Liori 2003), uomini onesti, non coinvolti in
faide, che hanno l’obbligo della segretezza e dell’imparzialità, peculiarità
queste ultime dei mediatori.
Il mediatore è un facilitatore della comunicazione, non si sostituisce alle
parti, non dispensa soluzioni “preconfezionate”; è un soggetto neutrale che
promuove il confronto e accoglie la sofferenza, “ma poi se ne distacca per
inviarla ai suoi autori in una nuova prospettiva” (Morineau 1997), che è pro-
prio quella di imparare a prendersi cura del conflitto, attraverso l’accetta -
zione e il riconoscimento dell’altro. Il mediatore dovrebbe porsi come uno
specchio che accoglie le emozioni dei protagonisti per rifletterle; dovrebbe
imparare a tollerare il silenzio in quanto linguaggio dell’anima; dovrebbe es-
sere semplicemente colui che facilita e risveglia le voci interiori (Morineau,
86 Traduzione in italiano: “gli uomini”.
87 Traduzione in italiano: “l’uomo di mezzo”.
88 Le consuetudini relative al meccanismo della vendetta, tramandate oralmente e
in sardo, vengono “trasformate” da Antonio Pigliaru in un codice. L’autore,
attraverso un’indagine diretta svolta tra i membri della comunità, ricava una serie di
norme di comportamento millenarie a cui tutti dovevano conformarsi perché
regolavano l’ordine e la convivenza sociale.
1997: 79). Tutte virtù che gli consentono di entrare nel conflitto senza mo-
strare di parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti, ma parteggiando per
entrambi “tutto con una parte, tutto con l’altra parte, e tutto completamente
esterno alle parti” (Lenzi, 2003: 51).

I molteplici volti della mediazione


Dare una definizione univoca della parola “mediazione”, dal verbo latino
mediare, “essere nel mezzo”, non è semplice poiché si tratta di un fenomeno
plurale. Bonafè-Schmitt (1992) la definisce “come un processo, il più delle
volte formale, con il quale un terzo neutrale tenta, mediante scambi tra le
parti, di permettere loro di confrontare i propri punti di vista e di cercare con
il suo aiuto una soluzione al conflitto che le oppone, soluzione che contiene
forme di riparazione simbolica, prima ancora che materiale”. Per Scivoletto
(1999: 25) è “un’attività che ha lo scopo di riallacciare i fili di una comuni -
cazione interrotta e che offre uno spazio di ascolto e di parola a chi lo desi-
dera, ed è caratterizzata da neutralità, libera adesione e confidenzialità”. Si-
gnificativa la metafora utilizzata da Maieli (2009: 129) che definisce la me-
diazione “come una tela che, trama dopo trama, costruisce un percorso. A
volte c’è l’effetto Penelope, nel senso che si va avanti ma poi si ritorna in-
dietro, allora ci vuole molta più fatica per accompagnare le persone lungo il
cammino che porta ad un incontro”.
La mediazione è un processo informale, libero e volontario, in cui le
parti, guidate da uno o più mediatori, discutono consensualmente degli effetti
del conflitto sulla loro vita e sulle loro relazioni, al fine di individuare una
soluzione. Al centro dell’interesse vi sono solo i conflitti (familiari, sociali,
di vicinato, quelli che nascono in seguito alla commissione di un reato, etc.)
e i punti di vista dei soggetti partecipanti, i quali accettano spontaneamente
di ricevere aiuto da un mediatore che, senza alcuna autorità di imporre una
sua soluzione, facilita modalità di dialogo e confronto. È una pratica ripara-
tiva che allontana da ogni forma di giudizio su che cosa è bene e male, e si
pone come obiettivo quello di facilitare tra i protagonisti un dialogo libero e
finalizzato all’esternazione dei sentimenti e delle emozioni, per ricostruire
l’ordine infranto dal conflitto e ripristinare le norme che permettono di svi-
luppare azioni ed interazioni sociali (Mannozzi, 2003: 145). In un certo
senso, la mediazione può essere definita come “una nuova chance” per gli
uomini perché li aiuta a trovare una soluzione, né violenta né impotente, alle
loro controversie: è come Ermete, l’agile messaggero degli dei, il dio del di-
scorso, “abile a comporre le liti, riconciliare il contrastante e unire in pace il
discorde e l’opposto” (Messner, 1996: 93).
La mediazione, soprattutto in questi ultimi anni, ha avuto uno sviluppo in
tanti ambiti, quali la scuola (episodi di bullismo), il mondo del lavoro (epi-
sodi di mobbing), la famiglia (crisi della coppia), i quartieri (problemi con-
dominiali, di vicinato e di integrazione) e in ambito penale. Quest’ultimo ap-
pare come il campo di applicazione più significativo poiché non c’è reato
che non generi dolore e sofferenza alla vittima e che non manifesti il pro-
fondo disagio psico-sociale dell’autore del reato. Due sofferenze così di-
verse, ma parimenti dolorose, che generano caos e disordine nei tessuti di
appartenenza, per cui è fondamentale la volontà di ricucire lo strappo: “forse
non abbiamo mai davvero sperimentato la dirompente energia che può ema-
nare dalla nostra capacità evolutiva di uomini di porre riparo, tra elabora-
zione del dolore e svelamento della verità responsabile, alle più terribili vi-
cende che siamo capaci di infliggerci” (Giulini 2001).
Il primo programma di mediazione in ambito penale, riconosciuto come il
precursore dei programmi successivi, è il Victim-Offender Reconciliation
Program (VORP), letteralmente programma di riparazione vittima-colpe-
vole. Questo venne applicato per la prima volta nel 1974 in Canada, nella
città di Kintchener, nell’Ontario89. Due giovani, accusati di aver compiuto
sotto l’effetto dell’alcool atti vandalici, vennero condannati al pagamento di
una multa e furono assegnati ad un programma di probation (letteralmente
prova) per un periodo di 18 mesi. Il giudice impose ai due giovani il paga-
mento di una somma di denaro a titolo di compensazione, da versare alle vit-
time per i danni subiti. L’aspetto innovativo riguardò proprio l’incontro con
le vittime per spiegare loro chi fossero e che cosa esattamente avessero fatto.
D’altra parte, la mediazione penale parte dalle esperienze di vita quotidiana e
rivolge la stessa attenzione all’autore del reato, alla vittima e al tessuto co-
munitario90. Non è il luogo dove si attribuiscono ragioni o torti, dove si giu-
dica e si condanna; non è lo spazio della vendetta da parte della vittima ma è
piuttosto uno spazio d’incontro, il cammino che porta ad una relazione.

Il conflitto e i minori autori di reato


Quanto affermato, pur estendibile a diverse situazioni, è fondamentale
che si realizzi soprattutto con riferimento ai soggetti deboli come i minori
per i quali, in caso di conflitto, ci si deve confrontare con motivazioni che
hanno radici più profonde e tacite rispetto a ciò che emerge in superficie e
89 Il linguaggio e le pratiche della mediazione penale, dopo l’esperienza dei
VORP, si diffondono velocemente negli Stati Uniti e nei paesi europei dando vita a
quella che è stata definita come mediazione diretta, nel senso che le due parti, dopo
una fase di preparazione, hanno la possibilità di incontrarsi direttamente.
90 Nel 1999 il Consiglio d’Europa ha adottato la Raccomandazione n. 19 sulla
mediazione in materia penale. Questa Raccomandazione fornisce ai paesi membri
del Consiglio una serie di indicazioni riguardanti le caratteristiche che i programmi
di mediazione penale dovrebbero avere.
che il diritto non è sempre attento a prendere in considerazione 91. Una condi-
zione giovanile che oggi, considerata la complessità sociale, appare sempre
più legata a termini come incertezza e assenza di futuro; si rafforza l’ideo-
logia del “carpe diem”, del vivere alla giornata, “dell’hinc et nunc” (Berti e
Nasi, 2010: 13-14). Una crisi che produce nei giovani insicurezza e paura, si
sentono soli e incompresi all’interno di una società che non capiscono e di
cui non si sentono parte. Un isolamento e una fragilità che conducono a
forme di rabbia e ribellione, ad atteggiamenti talvolta violenti con cui attirare
l’attenzione degli adulti, fino ad arrivare a percorrere strade devianti. L’esi-
genza di mettere alla prova le proprie capacità psichiche e fisiche, spinge
loro ad attuare comportamenti estremi: si tratta di una sfida con se stessi per
dimostrare di esserci e di essere forti (De Leo e Patrizi 2000). Azioni fatali,
azioni anche crudeli che possono generare dolore e sofferenza negli altri:
“sono dei Peter Pan al contrario, travolti dalla fretta di crescere, pronti a
spiccare un salto verticale oltre il perimetro della loro infanzia, senza fasi in-
termedie, senza progressioni” (Lombardo Pijola 2009). Adolescenti, spesso
incapaci di riconoscere e gestire le proprie emozioni, che si dirigono alla ri-
cerca di divertimenti che non portano alcuna gioia; non sanno mettersi nei
panni degli altri perché non hanno ancora imparato ad indossare i propri:
“un’epoca delle passioni tristi” a dirla con le parole di Benasayag e Schmit
(2004). Si può arrivare in questo modo a commettere dei reati dei quali gli
stessi autori non hanno piena consapevolezza e rispetto ai quali è difficile
comprendere il significato. Passioni tristi che equivalgono alla rottura del le-
game fra noi e gli altri e dentro ognuno di noi, quel legame che la media-
zione tenta di “ricucire”. Attraverso un percorso di mediazione il minore
può, infatti, comprendere il significato e il valore negativo della sua azione,
mentre il confronto con la vittima e la sua sofferenza lo conducono ad una ri-
scoperta dell’altro come persona degna di rispetto.
Le motivazioni che conducono alle pratiche di mediazione nell’ambito
del procedimento penale minorile sono molteplici: il minore autore di reato è
messo di fronte alle conseguenze del suo gesto; la vittima urla la sua soffe-
renza e diventa protagonista; il reo e la vittima sono soggetti attivi e hanno
91 Nell’ordinamento italiano la mediazione ha trovato applicazione in ambito
minorile con riferimento principalmente agli artt. 9, 27 e 28 del D.P.R. 22 Settembre
1988, n. 448, “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di
imputati minorenni”. La prima esperienza viene intrapresa a Torino nel gennaio del
1995 e viene formalizzata nel 1999 con la firma di un protocollo d’intesa sottoscritto
dalle istituzioni promotrici. A Sassari, sebbene il Centro di mediazione pacifica dei
conflitti sia operativo dal 1999, solo nel 2003 viene definito un protocollo
interistituzionale tra l’Ufficio di Servizio Sociale dell’amministrazione provinciale e
l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni del Centro per la Giustizia Minorile.
Tale intesa sancisce la collaborazione tra i due partner per l’invio di giovani,
adolescenti e minori per i quali si valuta necessario realizzare percorsi di
consapevolezza e responsabilità per superare situazioni conflittuali, riferibili alla
rottura del patto sociale e promuovere un orientamento pro-sociale.
l’opportunità di esprimere le proprie emozioni; è possibile, oltreché oppor-
tuno, coinvolgere le famiglie e la comunità; il reciproco riconoscimento e ri-
spetto rendono inutile l’applicazione della pena tradizionalmente intesa.
D’altra parte, la finalità della mediazione è proprio quella di co-costruire un
linguaggio comune tra le parti, di riconoscere sentimenti fino a quel mo-
mento taciuti, di ricomporre o ridurre il conflitto, rendendo le ferite profonde
delle cicatrici che causano sempre meno dolore.

La voce della vittima


“L’illuminazione” nell’analizzare il ruolo della vittima è arrivata ripen-
sando alle parole di una canzone che hanno accompagnato la mia infanzia e
rimandano alla pratica della vendetta92. Uno spunto riflessivo che mi ha con-
sentito di approfondire il ruolo da essa occupato nell’ambito del diritto pe-
nale, con uno specifico riferimento al contesto sardo.
La nostra terra è stata per lungo tempo accompagnata dal fenomeno della
faida che trae origine proprio dalla cultura della vendetta, da intendersi non
“come pratica individuale ma sociale, non come pratica di alcuni nella co-
munità, ma come una pratica voluta da tutta una comunità per dare alla pro-
pria vita un sistema di certezza in un mondo sentito come estraneo e ostile”
(Pigliaru 2000). Nel concreto la faida non è altro che un susseguirsi di azioni
conflittuali tra gruppi o famiglie specifiche e scaturisce dall’esigenza di ri-
scattare quelle che sono ritenute gravi offese 93.
La norma della vendetta veniva considerata come azione di tutela giuri-
dica per il singolo, per i gruppi e per l’intera comunità e l’offesa stessa “più
che poter essere, deve essere vendicata: è un obbligo sociale poiché l’offesa
fatta turba l’ordine e provoca conflitto all’interno della società stessa” (Pi-
gliaru 2000). Parole che ci portano ad una riflessione proprio sulla vittima,
poiché si evince che nelle società tradizionali, come quella sarda, questa
aveva un ruolo decisivo nella punizione del reo e l’offesa della sua dignità e
moralità veniva vendicata. Tuttavia, emerge un problema, individuato dallo
stesso Pigliaru, ossia il fatto che l’azione vendicatrice rivela in breve tempo
la sua inadeguatezza come mezzo di restaurazione dell’ordine sociale. Il
92 Sambene sardu si ribella(t), lu devia, po’nde fagher vendetta, chircare, fi(t)
frade meu e fizu tou, o mama mia, s’assassinu devia(t) pagare. “Il sangue sardo si
ribella, lo dovevo cercare per fare vendetta; era mio fratello e tuo figlio, o madre
mia, l’assassino doveva pagare”. Le parole sono tratte da una delle canzoni più
conosciute del Coro di Usini (SS) e raccontano la sofferenza di un uomo che, non
riuscendo a sopportare l’assassinio del fratello, decide di farsi vendetta da solo.
93 Il ricorso ad una vendetta privata nasce per lo più da una sfiducia nei confronti
dello Stato e del suo sistema giudiziario, ritenuto inadeguato a far fronte a tali
tipologie di conflitti.
principio degenera e diventa incontrollabile come le faide interminabili che,
ancora in tempi recentissimi, hanno devastato la nostra terra. Il Codice Bar-
baricino regola il conflitto, ma non lo elimina, sebbene non vi sia alcun
dubbio che gli antichi sistemi giuridici, ora considerati per lo più barbari e
violenti, fossero molto più attenti nei riguardi della vittima di quanto non lo
sia stata la moderna giustizia penale tesa a tutelare principalmente la posi -
zione del reo. Solo in tempi recenti, infatti, la vittimologia, riconosciuta nella
sua scientificità, ha indirizzato la sua attenzione al rispetto della vittima,
come persona concreta che ha subito delle violenze. Finalmente il conflitto è
definito come “un dramma a due protagonisti e non più come l’unilaterale
azione del criminale verso una vittima ridotta a mero oggetto materiale del
reato” (Correra e Riponti 1990).
Tali riferimenti sono utili per non dimenticare che uno dei presupposti
delle pratiche riparative, e nello specifico della mediazione, è proprio l’emer-
gere della vittima come protagonista all’interno delle vicende processuali. Le
viene restituita la parola, “viene riconosciuta come persona che prova senti-
menti rispetto all’evento, i quali necessitano di essere esplicitati e rielaborati,
attraverso un processo di riconoscimento reciproco” (Morineau 1997). Il
principio fondamentale su cui si basa la mediazione penale è proprio quello
di cercare di ripristinare nella vittima la condizione precedente la commis-
sione del reato; un’offesa che porta inevitabilmente ad una perdita, “la per-
dita del prima, una perdita ontologica della fiducia nei confronti di quel
mondo che è capace di donare anche sicurezza e che loro hanno detto che
non tornerà mai più. Su questo “mai più”, chi si occupa di giustizia riparativa
cerca invece di investire, per creare le condizioni in cui rei e vittime possano
iniziare a scommettere su dei futuri credibili” (Ceretti 2008). Nell’incontro
con chi “le ha fatto del male” la vittima può recuperare la sua dignità di per -
sona, può esprimere la sofferenza provata e le emozioni vissute: essere vit-
tima di un reato è una delle esperienze più negative che possano riguardare
una persona, specie se minorenne, un soggetto debole la cui personalità è in
piena fase di evoluzione.
La riflessione, come riferito in precedenza, ha preso spunto dalle parole
di una canzone che rimanda alla cultura della vendetta; un rimando per espli-
citare come la vendetta stessa non sia mai considerabile come strumento di
giustizia. Il confronto e la comunicazione, presupposti dei programmi di me-
diazione, possono al contrario agire un cambiamento e rompere il muro del
silenzio generato dal reato: “la mediazione consente di tramutare il soffrire
in agire, di scacciare la nebbia (...) per incominciare un percorso di riappro-
priazione dell’incontro con l’altro” (Ceretti 2008).
Il senso di una connessione comunitaria condivisa
La società attuale è talmente complessa e incerta da aver “spazzato via” i
valori che stanno alla base della solidarietà: i conflitti sociali non vengono
compresi e gestiti, la comunicazione e la cooperazione entrano in crisi. Si as-
siste ad una perdita del senso di comunità, di quel sentimento “che i membri
hanno di appartenere e di essere importanti gli uni per gli altri, una fiducia
condivisa che i bisogni dei membri saranno soddisfatti dal loro impegno di
essere insieme” (Martini e Sequi 1992). Il senso di essere e sentirsi parte at-
tiva di un insieme di persone, l’essere una parte del tutto, il senso del noi, del
condividere, del non sentirsi mai soli. Noi tutti siamo connessi, seppure
spesso lo dimentichiamo; una dimenticanza che ci conduce all’alienazione,
alla divisione e l’appartenenza è sempre più una questione di occasione, più
che un sentimento in senso classico (Sandri 2008).
Per riconquistare fiducia negli altri, per offrire a chi ha sbagliato una se-
conda possibilità ci attende quindi un duro compito: ricostruire relazioni e
promuovere valori universalmente condivisi, diventando capaci di ricono-
scere e provare i sentimenti dell’altro. In tale prospettiva, il fine di questo
contributo, come anticipato in precedenza, è quello di legare la mediazione
penale minorile al senso di comunità, dal momento che le pratiche riparative
si connotano di una valenza educativa e sociale e la ricomposizione del con-
flitto volge non solo a beneficio dell’individuo ma dell’intera comunità. Il
confronto tra il minore e la vittima è fondamentale, ma non sufficiente se al-
l’interno delle famiglie interessate prevale la conflittualità e nella comunità
predominano pregiudizi e stereotipi: è necessaria una “grammatica condi-
visa” (Orlando e Pacucci 2005).
La comunità deve imparare a farsi carico della conflittualità e del disagio
di cui essa è generatrice e vittima allo stesso tempo; deve diventare compe-
tente, prendendo consapevolezza delle sue conoscenze, capacità e risorse per
realizzare al suo interno processi di cambiamento costruttivo. Fare sviluppo
di comunità significa proprio fare attenzione non solo alla persona che in un
dato momento è in difficoltà ma “ricucire gli strappi” che l’evento, in questo
caso il reato, produce anche a livello sociale. La mediazione, intesa in un’ot-
tica comunitaria, si colloca “come un’arma vincente poiché permette di co-
struire insieme le regole sociali della convivenza e di focalizzare l’attenzione
sulle relazioni tra le persone. Occorre superare il tempo dell’orgoglio e
aprirsi al tempo del perdono” (Sandri 2008). Il modello comunitario, al con-
trario delle procedure della giustizia tradizionale che anziché restaurare il le-
game spesso contribuiscono a distruggerlo per sempre, tenta di evitare una
competizione tra le parti in conflitto in cui una sarebbe destinata a crollare.
L’intento è quello di restituire il conflitto alle parti che ne sono protagoniste
e alla collettività che ha un interesse a risolverlo. La comunità rimane il
luogo delle relazioni e del vivere quotidiano, e come tale va osservata, ana-
lizzata e promossa; assicurarle il potere di gestire, almeno in parte, i conflitti
che si verificano al suo interno, significa restituirle la capacità di recuperare
il controllo su se stessa.

Il quartiere come spazio di comunità


L’analisi e lo studio dei programmi di mediazione penale in ambito mino-
rile, oltreché l’osservazione degli interventi posti in essere dai servizi pre-
senti nel territorio di Sassari, hanno condotto ad una riflessione sul quartiere,
inteso come spazio di comunità che crea legami e percorsi significativi: una
sorta di “antidoto” alle strade devianti. Il quartiere, sebbene spesso venga ri-
dotto nell’immaginario collettivo a luogo di trasgressione e di manifesta-
zione della devianza, è invece per i giovani uno spazio simbolico rappresen-
tativo del loro mondo vitale. È uno spazio informale, un punto di riferimento
privilegiato, dove i giovani si danno appuntamento, parlano e vivono il pro-
prio tempo libero.
Il quartiere deve essere riconosciuto e valorizzato come luogo di comuni-
cazione e spazio di vita in cui si organizzano svariate attività, attraverso le
quali le persone si conoscono, si accettano e si rispettano. Promuovere espe-
rienze di gruppo come canali privilegiati per stimolare la realizzazione di
percorsi partecipativi nel territorio, al fine di prevenire la devianza minorile,
promuovere l’identità del quartiere e costruire ponti che evitano l’isola-
mento. Questo consente di stimolare negli adolescenti la conoscenza di sé,
presupposto per costruire relazioni, di educare alla gestione e regolazione
delle emozioni, di educare alla condivisione e alla solidarietà, di promuovere
la creatività e la fantasia attraverso il gioco e altre attività ludiche, di educare
alla legalità. I giovani, sin da piccoli, devono comprendere che la violenza è
sempre da condannare, soprattutto quando viene utilizzata per regolare i con-
flitti; devono acquisire la consapevolezza di un necessario rispetto delle re-
gole sociali e devono imparare ad essere responsabili. È necessario educare
alla legalità tutti i ragazzi, anche quelli cosiddetti “normali”, cioè quelli che,
seppure ben inseriti socialmente, vivono un forte disagio umano e una soffe-
renza che trova nella commissione di forti trasgressioni una forma esasperata
di espressione.
Il quartiere dovrebbe essere valorizzato come uno spazio in cui identifi-
carsi, incontrare l’altro, accettare e promuovere la diversità; un luogo educa-
tivo in cui possono convivere più pensieri, più stili di vita, più punti di vista.
Il luogo in cui è possibile, con il coinvolgimento di tutti gli attori sociali, va-
lorizzare e tutelare le tradizioni e i saperi locali, poiché conoscere il patri-
monio della propria terra può consentire ai ragazzi di apprendere le proprie
radici e di sviluppare un senso di appartenenza alla comunità.
Il quartiere, nel suo insieme di forze, è quindi da intendersi come lo stru-
mento idoneo per co-costruire interventi di prevenzione e un ottimo alleato
per i programmi di mediazione comunitaria. Attraverso la comunicazione e il
confronto tra le persone (principi che stanno alla base della mediazione) è
possibile creare partecipazione e collaborazione attiva: questo non porterà al-
l’assenza di conflitti, ma potrà contribuire alla costruzione di modalità alter-
native per gestirli ed eventualmente risolverli. I conflitti, soprattutto quelli
che riguardano gli adolescenti, non sono di esclusivo interesse del mondo
giudiziario ma appartengono alla comunità. Non si deve pensare di cambiare
i minori autori di reato, dobbiamo pensarli come ragazzi e non come crimi-
nali: io accetto l’altro se l’altro mi accoglie per come sono, solo in questo
modo si potrà creare una relazione che porta al cambiamento.
La mediazione nella sua forma comunitaria potrebbe realizzare le condi-
zioni che riflettono la possibilità di tutti i membri della società di partecipare
alla costruzione della convivenza sociale per gestire e regolare i conflitti,
poiché “quando le persone partecipano direttamente alla progettazione e alla
realizzazione di un’attività, tendono a sentirsi maggiormente ‘proprietari. È
di ciò che si sta facendo e corresponsabili del suo successo o insuccesso”
(Ripamonti 2009). È necessario partire proprio dai giovani che devono impa-
rare a vivere il territorio, devono “innamorarsene”; un innamoramento che
può avvenire solo promuovendo il senso di appartenenza alla comunità.

Brevi conclusioni riflessive


La mediazione come pratica comunitaria accompagna le persone in un
processo di cambiamento individuale e collettivo, promuovendo il coinvolgi-
mento, la partecipazione attiva e la condivisione delle responsabilità. È
un’ottima alleata nei percorsi che conducono allo sviluppo di comunità com-
petenti che gradualmente diventano capaci di mettere in rete le proprie com-
petenze e risorse per fronteggiare le difficoltà e realizzare azioni che condu-
cono al benessere. Comunità direttamente impegnate nel processo di crescita
collettiva e di promozione di quel senso di appartenenza di cui troppo
spesso, spinti dall’individualismo dilagante, ci dimentichiamo. Comunità
dove si scambiano e si sviluppano idee, si promuove il capitale sociale pre-
sente e si attivano sinergie tra agenti del cambiamento. Comunità da vivere
come focolari che ci riscaldano, rifugi in cui sentirci protetti, luoghi in cui è
possibile sentire gli altri ed essere il Noi.
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La mediazione dei conflitti dei cittadini
con la Pubblica Amministrazione
Francesco Martines e Ferdinando Croce* - Università degli Studi
di Messina

La mediazione nei rapporti di diritto amministrativo


come strumento di democrazia partecipativa
Il tema della mediazione, quale strumento alternativo alla giurisdizione
ordinaria per la risoluzione di conflitti fra due o più soggetti 94, è molto at-
tuale; prova ne sia l’introduzione nel sistema processual-civilistico, ad opera
del D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, della procedura di mediazione obbligatoria
in alcune materie del contenzioso di diritto civile e commerciale 95 nonché la

94* Il presente contributo è frutto del lavoro comune dei due autori; ciò
nondimeno la stesura dei paragrafi 1, 2 e 3 è da attribuire a Francesco Martines e
quella dei paragrafi 5 e 6 a Ferdinando Croce.
La definizione di mediazione è rinvenibile nel Libro Verde della Commissione
Europea del 19.04.2002 COM(2002)/196, relativo ai metodi alternativi di
risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, il quale descrive
sinteticamente gli stessi come “le procedure non giurisdizionali di risoluzione delle
controversie condotte da una parte terza neutrale, ad esclusione dell’arbitrato
propriamente detto”. La direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 21 maggio 2008 (art. 3) definisce la mediazione come il
“procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più
parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un
accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore”. Per
ulteriori approfondimenti, A. Caputo, Arbitrato, ADR, conciliazione, Bologna, 2009,
1184 e ss.
95 L’introduzione nell’ordinamento italiano del procedimento di mediazione
preventivo obbligatorio per alcune materie del contenzioso civile, pur dovuto in
ragione dei vincoli comunitari di cui alla Dir. 2008/52/Ce del Parlamento Europeo e
del Consiglio dell’Unione Europea, ha incontrato non pochi ostacoli.
Originariamente previsto dall’art. 5, comma 1, del D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 in
attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della L. 18 giugno 2009, n. 69 è stato
giudicato non conforme al dettato costituzionale con sentenza Corte Cost. 6
dicembre 2012, n. 272. Il procedimento di mediazione obbligatoria, sia pure con una
clausola di efficacia temporale provvisoria (quattro anni dalla entrata in vigore) ed
espressa previsione di monitoraggio a cura del Ministero della Giustizia, è stato
reintrodotto attraverso la novella dell’art. 5 del D. Lgs. 28/2010 ad opera dell’art. 84,
comma 1, lett. b) del D.L. 21 giugno 2013, n. 69. Sull’argomento, A. Castagnola - F.
Delfini (a cura di), La mediazione delle controversie civili e commerciali.
recente disciplina in tema di procedimento arbitrale e negoziazione assistita
prevista dalla L. 10 novembre 2014, n. 162.
A distanza di oltre quattro anni dalla prima introduzione della mediazione
obbligatoria nel rito civile si propone una riflessione sul possibile “contagio”
che tale strumento di risoluzione alternativa del contenzioso possa avere pro-
dotto (o possa produrre in futuro) sul sistema di giustizia amministrativa.
Il tema della applicabilità di forme di risoluzione del contenzioso ammi-
nistrativo alternative alla giurisdizione è stato già esplorato da una parte
della dottrina amministrativistica96 che ha espresso la (per alcuni versi condi-
visibile) difficoltà di superare l’ostacolo principale all’applicabilità della me-
diazione ai rapporti fra cittadini e Pubblica Amministrazione (P.A.): la natura
di interesse legittimo della posizione giuridica soggettiva del privato che
fronteggia l’esercizio della funzione pubblica nonché l’indisponibilità della
situazione di potere da parte dell’autorità amministrativa vincolata al rispetto
del principio di legalità. In altri termini si è considerato come un ostacolo,
pressoché insuperabile, la circostanza che la P.A. sia titolare di poteri confor-
mati dalla legge, che esercita nell’interesse della collettività, rispetto ai quali
la posizione giuridica del destinatario dei provvedimenti amministrativi
adottati è qualificabile alla stregua di interesse legittimo non “mediabile” at-
traverso procedure che, per definizione, presuppongono da parte dei conten-
denti un alto livello di disponibilità delle rispettive situazioni giuridiche
coinvolte nel rapporto conflittuale.
Preliminarmente occorre delimitare il campo d’indagine del presente
studio il cui oggetto concerne la possibilità di estendere l’applicazione di
strumenti di mediazione dei conflitti (alternativi alla tutela erogata dal si-
stema di giustizia statale) ai rapporti “puri” di diritto amministrativo fra cit-
tadino e P.A.; restano, dunque, esclusi i rapporti paritetici di natura privati-
stica fra un soggetto pubblico ed uno privato nei quali pacificamente pos-
Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e al decreto ministeriale 18
ottobre 2010, n. 180, Padova, 2012.
96 V. Dominichelli, Giurisdizione amministrativa e arbitrato: riflessioni e
interrogativi, in Dir. Proc. Amm., 1996, 227; Id. Le prospettive dell’arbitrato nei
rapporti amministrativi fra marginalità, obbligatorietà e consensualità, in Dir. Proc.
Amm., 1998, 241; M.P. Chiti, Le forme di risoluzione delle controversie con la
amministrazione alternative alla giurisdizione, in Riv. It. Dir. Pubb. Comun., 2000,
8; A. Romano Tassone, Giurisdizione amministrativa ed arbitrato, in Riv. Arb.,
2000, 245; A. Zito, La compromettibilità per abritri con la pubblica
amministrazione dopo la legge n. 205 del 2000: problemi e prospettive, in Dir.
Amm., 2001, 343; F. Bocchini, Contributo allo studio del processo amministrativo
non giurisdizionale, Napoli, 2004; N. Longobardi, Modelli amministrativi per la
risoluzione delle controversie, in Dir. Proc. Amm., 2005, 52; F. Goisis,
Compromettibilità in arbitri (e transigibilità) delle controversie relative all’esercizio
del potere amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2006, 241; M. Giovannini,
Amministrazioni Pubbliche e risoluzione alternativa delle controversie, Bologna,
2007.
sono trovare ingresso sistemi di mediazione dei conflitti (si pensi, ad
esempio, al settore degli appalti di opere o a quello dei servizi pubblici) 97.
Nelle dinamiche dei rapporti di diritto amministrativo, ed in particolare
nel confronto fra le posizioni giuridiche soggettive vantate dalle parti (potere
pubblico da un lato, interesse privato dall’altro), accade sovente che si creino
dei conflitti generalmente connessi all’obiettiva impossibilità di conciliare
l’esercizio del potere pubblico (dunque, il soddisfacimento dell’intesse col-
lettivo) con l’interesse privato di uno o più soggetti incisi dall’efficacia del
provvedimento che del potere pubblico costituisce esercizio. E ciò in quanto,
nella maggior parte dei casi, il soddisfacimento dell’interesse della colletti-
vità comporta un sacrificio, totale o parziale, della posizione giuridica sog-
gettiva di uno o più soggetti privati.
Secondo l’impostazione tradizionale il prisma attraverso il quale questa
dinamica di soddisfacimento/sacrificio va esaminata è la legittimità dell’e-
sercizio dell’azione pubblica: se l’autorità pubblica opera nel rispetto delle
norme che disciplinano l’esercizio del potere, nulla potrà eccepire o conte-
stare il privato cittadino che subisce il sacrificio della propria posizione giu-
ridica soggettiva. Di contro, la violazione delle norme che vincolano, con
maggiore o minore intensità, l’esercizio del potere crea il presupposto per
una reazione da parte del soggetto privato “sacrificato” che potrà chiedere
tutela all’autorità giurisdizionale (autorità terza distinta dalla P.A.) attraverso
l’annullamento in toto dell’atto assunto in violazione della legge, con travol-
gimento degli effetti eventualmente prodotti e conseguenziale ripristino della
lesione subita.

97 In materia di appalti pubblici, F. Astone, Il preavviso di ricorso (ovvero


dell’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso giurisdizionale), in Dir. e
Proc. Amm. 2010, 103; G. Montedoro - C. Gentili, Il futuro dell’arbitrato in materia
di lavori pubblici fra interventi della giurisprudenza e lacune della normazione, in
Dir. Proc. Amm., 2005, 537; G. Tropea, Transazione e accordo bonario, in F. Saitta
(a cura di), Il nuovo codice dei contratti pubblici, 2008, 1165.
Per il settore dei servizi pubblici in generale, G. Della Cananea, La risoluzione
delle controversie nel nuovo ordinamento dei servizi pubblici, in Riv. It. Dir. Pubb.
Comun., 2001, 743; S. Cadeddu, Strumenti alternativi di soluzione delle
controversie fra erogatori e utenti di servizi pubblici, in Riv. It. Dir. Pubb. Comun.,
2001, 685.
Per i c.d. settori sensibili (comunicazioni, tutela della concorrenza, privacy),
affidati alla vigilanza delle autorità indipendenti, M. Clarich, L’attività delle autorità
indipendenti in forme semicontenziose, in S. Cassese - C. Franchini (a cura di), I
garanti delle regole, Bologna, 1996, 158; L. Cocchi, Tecniche alternative di
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Politica del diritto, 1997, 437; G. Della Cananea, Regolazione del mercato e tutela
della concorrenza nella risoluzione delle controversie in tema di comunicazioni
elettroniche, in Riv. Dir. Pubbl., 2005, 612; M. Libertini, Le decisioni “patteggiate”
nei procedimenti per illeciti antitrust, in Giorn. Dir. Amm., 2006, 1284.
Questo assioma, ancora certamente valido, è peraltro suscettibile di essere
ripensato alla luce di una nuova visione del rapporto cittadino/autorità at-
tenta al ruolo partecipativo che il cittadino può assumere rispetto all’eser-
cizio della funzione amministrativa. Questa nuova visione prende spunto da
due dati obiettivi e concreti.
A partire dalla fine degli anni ’70 si è iniziata a maturare la consapevo -
lezza che l’esercizio del potere amministrativo secondo lo schema classico
della c.d. autoritatività (schema per il quale la P.A. esercita unilateralmente
un potere imperativo che, per assicurare la tutela del bene comune, può com-
portare il sacrificio di interessi privati) sovente non garantisce l’effettivo
soddisfacimento dell’interesse collettivo. Si è compreso che l’elevato tasso
di conflittualità pubblico-privato, che questo modo di amministrare com-
porta, refluisce negativamente nella misura di soddisfazione dell’interesse
collettivo. In effetti, la soddisfazione del pubblico interesse passa anche – ed
in misura rilevante – attraverso il livello di percezione del soddisfacimento
da parte della collettività. In altri termini, il puntuale rispetto delle norme
nell’esercizio della funzione pubblica non implica automaticamente che il ri-
sultato finale sia percepito quale “buon risultato” dalla collettività. Proprio
allo iato fra azione e risultato percepito va imputato il tasso sempre più ele-
vato di contenzioso, consumato dinanzi alle corti di giustizia, con evidenti ri-
cadute negative sotto il profilo economico e sociale.
Il secondo dato a sostegno della necessità di accogliere una nuova visione
del rapporto cittadino/autorità è legato alla maturata sensibilità del legisla-
tore (non solo italiano) per l’importanza che, pur nel rispetto della natura im-
perativa ed unilaterale del potere amministrativo, assume il ruolo attivo e
partecipativo del cittadino nell’esercizio del potere pubblico 98. Se una P.A.,
per conseguire l’interesse pubblico attraverso l’esercizio del potere di cui è
titolare per legge, è costretta a sacrificare d’imperio, in tutto o in parte, inte-
ressi privati di uno o più cittadini è giusto che a questi ultimi la legge for-
nisca gli strumenti per collaborare ed interagire in maniera concreta ed effi-
cace con l’autorità pubblica al fine di contribuire all’individuazione del mi -
glior contemperamento degli interessi, pubblici e privati, coinvolti. La scelta
finale è, e rimane, propria dell’autorità pubblica ma essa non è più frutto di
un processo valutativo svolto “in solitudine” bensì assume i connotati di un
percorso che si avvantaggia dell’eventuale apporto pervenuto dai soggetti
privati destinatari degli effetti del provvedimento finale.
L’evoluzione del pensiero sopra descritta ha trovato piena affermazione
attraverso l’introduzione nell’ordinamento italiano della legge fondamentale
sul procedimento amministrativo, ovvero sul modulo attraverso il quale il
potere amministrativo deve essere esercitato (L. 7 agosto 1990, n. 241).
98 Sul tema F. Manganaro, Strumenti giuridici alternativi alla tutela
giurisdizionale nell’ordinamento amministrativo italiano, relazione tenuta
nell’ambito delle Jornadas sobre solucion extrajudicial de conflictos, Università di
Santiago de Compostela, 9-11 maggio 2007, pubblicata in www.giustamm.it.
Questa importante novità legislativa, accompagnata da altre norme che
hanno introdotto disposizioni analoghe con riferimento a particolari procedi-
menti, ha certamente costituito un passo fondamentale verso la nuova conce-
zione del rapporto cittadino/autorità.
Il nuovo impianto del rapporto procedimentale introdotto dalla L. 241/90,
peraltro, non ha portato con sé tutti i risultati migliorativi che in molti proba-
bilmente si attendevano. In particolare, sul fronte della gestione dell’even-
tuale conflitto post esercizio del potere, le cose non solo non sono migliorate
(le cause non sono diminuite) ma addirittura sono peggiorate (i processi au-
mentano esponenzialmente anno dopo anno). In effetti, pur nella ritrovata
sensibilità per il ruolo del cittadino nel procedimento amministrativo (quindi
nella fase antecedente alla adozione del provvedimento finale), si è dovuto
riscontrare che il tasso di conflittualità P.A./privati non si è assolutamente ri-
dotto. Quindi, se la riforma del procedimento amministrativo ha certamente
giovato ad accogliere e realizzare, anche nell’esercizio del potere pubblico, i
principi della “partecipazione” (con conseguente maggiore gradimento per la
collettività dell’azione dell’amministrazione), la stessa riforma non ha favo-
rito il ridursi della conflittualità.
Muovendo da questi dati è possibile avviare una serie di riflessioni incen-
trate sulle potenziali ulteriori iniziative che nel nostro ordinamento possono
mettersi in campo per attenuare la misura del conflitto fra cittadino e autorità
pubblica. Del resto, giungono delle spinte in tal senso – nel diritto ammini-
strativo più debolmente che nel diritto privato e commerciale – dal recente
potenziamento di strumenti di mediazione dei conflitti ad opera del D.L. 12
settembre 2014 n.132 convertito in L. 10 novembre 2014 n.162 99. Con speci-
fico riguardo ai rapporti di diritto pubblico, poi, va segnalata l’introduzione –
ad opera dell’art. 9 del D.L. 6 luglio 2011 n. 98, convertito in L. 15 luglio
2011 n. 111 – della mediazione dei conflitti fra contribuente ed amministra-
zione finanziaria, titolare del potere impositivo100.
99 Il D.L. 132/2014, conv. in L. 162/2014, al fine di ridurre la mole di contenzioso
pendente dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria civile, ha previsto la facoltà
per le parti di trasferire il processo dinanzi ad un collegio arbitrale (art.1); è stato
altresì previsto l’istituto della negoziazione assistita, quale rimedio facoltativo ed
alternativo alla giurisdizione statale, per la risoluzione di controversie che non
abbiano ad oggetti diritti indisponibili o materia di lavoro (art. 2); l’accesso alla
procedura di negoziazione assistita è obbligatorio, a pena di improcedibilità
dell’azione giudiziaria, per le controversie in materia di risarcimento del danno da
circolazione stradale (art. 3).
100 La mediazione nei rapporti di diritto tributario è stata resa obbligatoria con
una recente riforma dell’istituto introdotta dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 (art. 1,
comma 611, lett. a); il contribuente, prima di accedere alla giurisdizione dinanzi alle
giudice tributario, è tenuto a promuovere il procedimento di composizione in
mediazione dinanzi agli appositi uffici istituiti presso le agenzie fiscali dello Stato. Il
vincolo di obbligatorietà nonché la gestione della procedura di mediazione ad opera
di uffici costituiti presso le agenzie fiscali sono stati riconosciuti come scelte
La chiave per approcciare il tema della mediazione dei rapporti di diritto
pubblico, dunque, deve essere quella che riconosce nella mediazione stessa
uno strumento di partecipazione del cittadino alla funzione pubblica. In que-
st’ottica, la mediazione si pone come ulteriore traguardo del più ampio e
complesso processo di realizzazione di una piena democrazia partecipa-
tiva101: l’accessibilità generalizzata a procedure di mediazione del conflitto
garantirebbe, a beneficio sia del privato che dell’amministrazione pubblica,
un proficuo dialogo in una fase che, collocandosi dopo l’esercizio del potere
(dunque dopo l’adozione del provvedimento) ma prima dell’eventuale fase
contenziosa, ad oggi è priva di adeguate tutele e garanzie.

Pro e contro della mediazione nel diritto amministrativo


Se, come detto, la vera sfida per l’ordinamento dei rapporti gius-pubblici-
stici, è il riconoscimento di un sistema generalizzato di mediazione dei con-
flitti, occorre esaminare con maggiore attenzione quella che la dottrina mag-
gioritaria adduce quale ragione ostativa, da individuarsi – come sopra accen-
nato – nella considerazione che la P.A. opera nei limiti imposti dalla legge
attributiva del potere che, condizionandone in modo più o meno incisivo gli
aspetti fondamentali (an, quantum, quando, quomodo), non consente alla
P.A. medesima di “scendere a compromessi” in sede di mediazione con i de-
stinatari degli effetti del provvedimento finale. In altri termini l’autorità pub-
blica, stretta nelle maglie delle norme di legge che presiedono all’esercizio
del potere, non avrebbe quella libertà di movimento e quel margine di dispo-
nibilità necessari per avviare una mediazione del conflitto. A rendere impra-
ticabile l’accesso alla mediazione dei conflitti di diritto amministrativo sa-
rebbe, dunque, il principio di legalità, declinato nelle sue varie accezioni.
Oltre alle considerazioni già svolte sul ruolo della mediazione come stru-
mento di partecipazione del privato all’esercizio della funzione pubblica (e,
dunque, non solo come tipico strumento di deflazione del contenzioso) è
possibile tracciare degli ulteriori percorsi argomentativi per tentare di supe-
rare il tabù dell’impraticabilità della mediazione nel diritto amministrativo.
Invero, se il sistema è riuscito in passato a superare le resistenze (an -
ch’esse, peraltro, connesse ai valori della autoritatività, unilateralità e impe-
ratività del potere) all’introduzione della partecipazione procedimentale, si
conformi alla Costituzione con pronuncia della Corte Costituzionale del 16 aprile
2014, n. 98.
101 In questa prospettiva, sia pure sotto altro profilo e con diverse finalità, deve
ricordarsi l’introduzione, ad opera dell’art. 5 del D. Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, del
c.d. accesso civico, che ha esteso il proprio raggio d’azione ben oltre i confini
tracciati dal diritto di accesso riconosciuto da più di vent’anni ai soggetti interessati
dalla L. 241/1990.
ritiene che i tempi siano maturi per fare un passo ulteriore che possa con-
durre all’accoglimento della mediazione nei rapporti di diritto amministra-
tivo.
Non si tratta di un mero auspicio quanto piuttosto di una convinzione che
affonda le proprie radici in diversi elementi certi e di diritto positivo.
Milita a favore dell’accoglimento di strumenti di mediazione nel diritto
amministrativo la nuova concezione del processo fatta propria dal Codice
del Processo Amministrativo approvato con D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104. In
estrema sintesi, nel nuovo codice viene abbandonata definitivamente e a
chiare lettere l’impostazione del processo amministrativo come giudizio sul-
l’atto (destinato esclusivamente a verificare la legittimità dello stesso ed a
conseguirne, in caso di accertata illegittimità, l’annullamento) e viene piut-
tosto accolta una nuova impostazione del processo come giudizio sul rap-
porto. Ciò, ai fini della tutela processuale, ha consentito l’apertura in via le-
gislativa verso ulteriori rimedi (sovente più efficaci di quella annullatorio)
quali quello dichiarativo e quella risarcitorio (artt. 29-32 D. Lgs. 104/2010).
Orbene, le potenzialità di questa nuova impostazione sono certamente ampie
e consentono di ricomprendervi anche l’istituto della mediazione da inten-
dersi come tutela astrattamente ammissibile fra gli strumenti di efficace com-
posizione dei conflitti, ancorché non consumata in sede processuale.
Sotto altro profilo, a rendere superabile il dogma della non mediabilità
del potere amministrativo, concorre il processo (certamente in atto) di c.d.
dequotazione del principio di legalità. Il principio di legalità, inteso nell’ac-
cezione più tradizionale, comporta l’annullabilità del provvedimento adot-
tato in violazione della legge; peraltro, l’art. 21 octies della L. 241/1990, in-
trodotto con la riforma di cui alla L. 11 febbraio 2005 n. 15, ha messo in crisi
la graniticità di questa regola ammettendo alcuni casi nei quali – pur nella ri-
conosciuta illegittimità del provvedimento – il giudice non lo deve annullare
(patologie formali o comunque di modesta intensità viziante) 102. Se, dunque,
la legge riconosce casi nei quali l’atto illegittimo non viene annullato (supe-
rando così l’interpretazione più rigorosa del principio di legalità) per quale
ragione la mediazione dovrebbe escludersi a priori in virtù dei vincoli che il
medesimo principio di legalità impone all’esercizio del potere amministra-
tivo?
Vi è una terza ragione che spinge verso la possibilità di introdurre stru-
menti generalizzati di mediazione dei rapporti di diritto pubblico: come già
102 F. Fracchia, M. Occhiena, Teoria dell’invalidità dell’atto amministrativo e
art. 21 octies, L. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in
www.giustamm.it; F. Saitta-G. Tropea, L’articolo 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990 approda alla Consulta: riflessioni su un (opinabile) giudizio di (non)
rilevanza, in www.giustamm.it, 2010; F. Astone, Nullità ed annullabilità del
provvedimento amministrativo. Profili sostanziali e tutela giurisdizionale, Soveria
Mannelli (CZ), 2009, 263 ss.; A. Romano Tassone, Contributo sul tema della
irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993.
rilevato, infatti, in alcuni settori speciali del diritto amministrativo (appalti e
servizi pubblici, contenzioso tributario) sono state introdotte forme di media-
zione con un buon riscontro in termini di riduzione del tasso di conflittualità
oltre che di maggiore efficienza e gradimento per la collettività.
Non deve essere trascurata, poi, l’influenza che sulla disciplina interna
assume l’ordinamento comunitario nel quale, sin dal 1992, opera con suc-
cesso l’ufficio del Mediatore Europeo che ha il compito di facilitare la com-
posizione di conflitti potenziali e reali fra cittadini e istituzioni comunitarie.
Last but not least, l’introduzione della mediazione nei rapporti di diritto
amministrativo rappresenterebbe l’unica concreta misura deflattiva del con-
tenzioso: è evidente che, se il conflitto viene composto in sede di media-
zione, non residuano margini per la proposizione di un gravame dinanzi al-
l’autorità giudiziaria.
Le ragioni che fanno propendere per l’introduzione in via generale della
mediazione nel diritto amministrativo sono, dunque, plurime e fondate. Oc-
corre, a questo punto, verificare attraverso quale istituto possa concretamente
raggiungersi nel nostro ordinamento questo risultato.

La soluzione della tutela giustiziale


Se, come proposto, si riesce a mettere da parte le perplessità aprioristiche
in ordine all’introduzione di strumenti generalizzati di mediazione dei con-
flitti di diritto amministrativo il passo ulteriore è quello di individuare la via
per conseguire l’obiettivo in concreto.
Occorrerà, dunque, fornire risposte plausibili a interrogativi riguardanti
l’identità del soggetto mediatore, le sue funzioni, la natura giuridica dell’ac-
cordo di mediazione, i rapporti col sistema di giustizia statale.
La tentazione, in una prospettiva de iure condendo, è quella di invocare
un intervento innovativo del legislatore domestico che introduca un istituto
verosimilmente ispirato ai modelli di mediazione già esistenti nei settori spe-
ciali oppure al Mediatore Europeo.
Questa ipotesi, tuttavia, non appare del tutto convincente o comunque
non è l’unica percorribile: un intervento di totale novità ha, di certo, un suo
fascino ma rischia di rivelarsi difficilmente metabolizzabile dal sistema esi-
stente. Ricorrendo ad una metafora di ambito medico potrebbe dirsi che
iniettare una nuova sostanza in un organismo non consente di prevederne le
reazioni, ivi compresa quella del totale rigetto; ecco perché potrebbe essere
più indicata una terapia che sfrutti una sostanza già presente nell’organismo
stesso.
Abbandonando la metafora, si ritiene che, per accogliere in via generale
la mediazione nei rapporti di diritto amministrativo, sia possibile ricorrere al-
l’utilizzo di strumenti già esistenti nell’ordinamento. In particolare, alle fina-
lità proprie della mediazione nel diritto amministrativo, sembra possa rispon-
dere lo strumento della c.d. tutela giustiziale conseguibile attraverso l’esperi-
mento dei ricorsi amministrativi non giurisdizionali disciplinati dal D.P.R.
24 novembre 1971, n. 1199103. Più specificamente, lo strumento del ricorso
gerarchico proprio, opportunamente adattato in via interpretativa, potrebbe
costituire il contesto ottimale per accogliere forme di mediazione dei con-
flitti P.A./cittadini. Esso, difatti, consente un pieno riesame (anche nel me-
rito) della scelta compiuta dalla P.A. sulla base dei rilievi mossi dal ricor-
rente. Occorre tuttavia che detto strumento sia, per così dire, rivitalizzato.
Per molto tempo, infatti, il ricorso gerarchico ha costituito una procedura che
occorreva attivare preventivamente rispetto all’eventuale ricorso all’autorità
giurisdizionale. Successivamente, nella convinzione che tale obbligatorietà
comportasse una limitazione al pieno esercizio del diritto di difesa, il legisla-
tore ha ritenuto di eliminare tale vincolo favorendo, di fatto, la rimessione di
ogni conflitto direttamente ed in via immediata al giudice. La tutela giusti-
ziale attraverso il ricorso gerarchico è così divenuta residuale e, nella pratica,
poco azionata dal cittadino. E ciò anche per i dubbi in ordine all’imparzialità
dell’organo amministrativo cui era affidato il compito di decidere il ricorso.
Alla luce delle riflessioni svolte è possibile investire sulle potenzialità
dello strumento del ricorso gerarchico per renderlo funzionale all’esigenza di
introdurre, anche nel diritto amministrativo, la mediazione degli interessi in
conflitto. In quest’ottica occorrerebbe ridimensionare la sua vocazione para-
contenziosa (tradizionalmente indicata come aspetto caratterizzante del ri-
corso in via amministrativa) a vantaggio delle potenzialità di strumento attra-
verso il quale il cittadino (che propone il ricorso) può invitare la P.A. a modi-
ficare la propria decisione rendendola più equilibrata rispetto alla dinamica
degli interessi coinvolti.

103 Gli studi su questo strumento sono numerosi. Per tutti si segnala V. Bachelet,
I ricorsi amministrativi, originariamente pubblicato nel 1965, successivamente
ripubblicato in Scritti giuridici. Le garanzie dell’ordinamento democratico, II,
Milano, 1981, 422; A.M. Sandulli, Ricorso amministrativo, voce in Noviss. Dig.
Ital., Torino, 1968, 975; G. Paleologo, La riforma dei ricorsi amministrativi, Milano,
1975; L. Arcidiacono, Ricorsi amministrativi e Ricorso gerarchico, voci in Enc.
Giur. Treccani, 1991; V. Caputi Jambrenghi, La funzione giustiziale
nell’ordinamento amministrativo, Milano, 1991; M.P. Chiti, L’effettività della tutela
avverso la pubblica amministrazione nel procedimento e nell’amministrazione
giustiziale, in Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, I, 546; A. Travi, Ricorsi
amministrativi, voce in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1997, 382; A. Pajno,
Amministrazione giustiziale, voce in Eng. Giur. Treccani, Roma, 2000; M.
Giovannini, Il ricorso straordinario come strumento alternativo alla giurisdizione
amministrativa: il difficile percorso di un rimedio efficace, in Dir. Amm., 2002, 61;
G. Ferrari, I ricorsi amministrativi, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto
amministrativo (diritto amministrativo speciale), V, Milano, 2003, 4147.
Il risultato potrà così essere l’emanazione di un nuovo provvedimento
(dunque non un accordo di mediazione in senso proprio) che però – dal
punto di vista sostanziale e funzionale – costituirà l’effetto di una reale me-
diazione del conflitto fra autorità e cittadino.

Percorribilità della soluzione della mediazione tramite


la tutela giustiziale alla luce della disciplina vigente
Per apprezzare compiutamente la soluzione appena prospettata, si ritiene
utile soffermarsi su alcune perplessità che, accogliendo la tutela giustiziale
come strumento generale per la mediazione dei conflitti fra P.A. e privati,
potrebbero sorgere in relazione alle caratteristiche tradizionali del ricorso ge-
rarchico proprio.
Il riferimento è, in particolare, alla progressiva marginalizzazione che ha
caratterizzato siffatto rimedio negli ultimi decenni, alla luce, da un lato, del
superamento della necessità che l’azione giurisdizionale (potenzialmente
susseguente alla definizione in via amministrativa della controversia) potesse
essere intrapresa soltanto avverso provvedimenti amministrativi che fossero
(o che divenissero) “definitivi”; dall’altro, alla supposta carenza di indipen-
denza del soggetto deputato alla composizione della controversia poiché
sempre strutturalmente riferibile ad una delle parti in causa.
Nel descritto contesto, si rende necessario un ritorno alle origini, nel di-
chiarato intento di recuperare la valenza pre-contenziosa del ricorso gerar-
chico.
Il legislatore del 1971, infatti, nel disciplinare i ricorsi amministrativi
aveva intuito in nuce la necessità che venisse posto un filtro all’attivazione
diretta della tutela giurisdizionale tramite la previsione di proporre obbliga-
toriamente il ricorso gerarchico, che si poneva quindi – come è oggi riscon-
trabile in pressoché tutti i vigenti strumenti di giustizia alternativa – come
una vera e propria condizione di procedibilità della medesima 104.
104 Sulla mediazione intesa quale condizione di procedibilità si veda la recente
sentenza della Corte costituzionale n. 98/2014 del 16 aprile 2014, che nel dichiarare
l’incostituzionalità dell’art. 17-bis del D. Lgs. n. 546/1992 laddove sanziona
l’omessa previa presentazione del reclamo amministrativo ivi disciplinato con la
conseguente inammissibilità del ricorso alla giurisdizione tributaria afferma che “la
giurisprudenza costituzionale ha costantemente subordinato la legittimità di forme di
accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri finalizzati al
perseguimento di interessi generali al triplice requisito che il legislatore non renda la
tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, contenga l’onere nella misura
meno gravosa possibile e operi un congruo bilanciamento tra l’esigenza di assicurare
la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa
intende perseguire. La censurata previsione, discostandosi dalle riferite indicazioni
Più in particolare, l’esperimento del rimedio gerarchico costituiva nella
stragrande maggioranza dei casi la condizione perché si formasse il c.d. “atto
definitivo”105, e ciò in quanto il giudizio era considerato una continuazione,
sia pur in sede contenziosa, dell’azione amministrativa e interveniva nei con-
fronti della determinazione finale dell’amministrazione, a sua volta configu-
rata come la decisione di un ricorso di primo grado rispetto a quello giurisdi-
zionale.
La vicenda della definitività, ricostruita in origine come momento di cor-
relazione tra l’ordinamento amministrativo e quello generale, rappresentava
l’esigenza di garantire l’unitarietà dell’amministrazione; in quest’ottica, sol-
tanto le decisioni rappresentative della volontà ultima dell’amministrazione
di vertice potevano essere sottoposte al sindacato giurisdizionale.
Successivamente, questa limitazione è stata rimossa, favorendo così la ri-
messione di ogni conflitto in via immediata al giudice e rendendo il ricorso
gerarchico un istituto per la verità obsoleto e poco utilizzato.
In particolare, l’importanza della nozione è stata fortemente ridimensio-
nata in seguito all’entrata in vigore della L. 1034/1971, che ha riconosciuto
la possibilità di chiedere tutela giurisdizionale anche contro atti non defini-
tivi e, dunque, anche senza il previo esperimento del ricorso gerarchico.

giurisprudenziali, comporta la perdita del diritto di agire in giudizio e, quindi,


l’esclusione della tutela giurisdizionale. Pertanto, con riguardo ai rapporti non
esauriti ai quali sarebbe ancora applicabile la disposizione in esame, l’eventuale
omissione della previa presentazione del reclamo rimane priva di conseguenze
giuridiche”, o per meglio dire la semplice improcedibilità del successivo ricorso
tributario, che potrà riprendere il suo corso una volta esperito il rimedio del reclamo
anche successivamente all’instaurazione del giudizio (e, naturalmente, solo
allordove lo strumento precontenzioso in esame non abbia sortito l’effetto – sperato
– di “mediare le posizioni”)”. L’intervento della Corte costituzionale, in definitiva,
sembra aver “normalizzato” l’impiego del rimedio in commento, alla cui mancata
proposizione non possono essere ricollegate sanzioni irrecuperabili del tipo di quella
dell’inammissibilità del successivo ricorso tributario.
105 Secondo E. Casetta, manuale di diritto amministrativo, Milano, 2013, 1107, la
definitività si acquisisce con la decisione sul ricorso gerarchico, sul ricorso in
opposizione o sul ricorso gerarchico improprio, ovvero, in caso di mancata decisione
dell’autorità adita entro il termine di 90 giorni dalla proposizione del ricorso (art. 6
del D.P.R. n. 1199/71). Sono definitivi anche gli atti espressamente dichiarati dalla
legge (c.d. definitività esplicita). La definitività è altresì riferibile agli atti emanati
dalle autorità di vertice dell’amministrazione (c.d. definitività soggettiva). Gli atti
degli organi collegiali infine sono considerati definitivi in ragione di una
incompatibilità intrinseca tra vincolo gerarchico e composizione collegiale, come
pure quelli emanati da un’amministrazione nell’esercizio di una competenza
considerata esclusiva (c.d. definitività implicita). Sul punto, cfr. anche A. Travi,
Provvedimento amministrativo definitivo, voce in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1997,
430.
L’art. 20 della L. 1034/1971, ora abrogato, sancendo la regola della imme-
diata impugnabilità in sede giurisdizionale dei provvedimenti amministrativi
(ancorché non definitivi), ha introdotto il principio della non necessarietà del
previo esperimento del ricorso amministrativo (in particolare di quello gerar-
chico), contribuendo così a svalutarne l’importanza pratica.
Infine, il vigente art. 7 del Codice del Processo Amministrativo non fa
alcun cenno alla definitività, confermando l’impugnabilità, direttamente
nella sede giurisdizionale, dei provvedimenti amministrativi.
Alla luce delle superiori constatazioni, una parte della dottrina 106 ha rite-
nuto che il rimedio del ricorso gerarchico sia stato privato di ogni possibile
utilità. Tuttavia, sembra che a tale conclusione la citata dottrina giunga in
quanto ancorata ad una visione del ricorso gerarchico come rimedio neces-
sario esclusivamente per conseguire una definitivizzazione dell’atto ammini-
strativo, utile a sua volta per l’accesso alla tutela giurisdizionale.
Non si è invece contestualmente inteso conferire allo strumento in esame
il ruolo (già prospettato nel precedente paragrafo) di utile ricollocazione
della partecipazione del cittadino, e ciò non soltanto nella c.d. fase istruttoria
del procedimento amministrativo (rispetto alla quale la L. 241/90 pone già
un dettagliato statuto) ma anche in una fase successiva all’adozione del prov-
vedimento ed antecedente a quella stricto sensu contenziosa. Ed in tal senso
militerebbe altresì, una volta per tutte, la mai censurata ed eccezionalissima
previsione della rilevabilità in sede gerarchica di eventuali vizi attinenti
l’ambito (tradizionalmente insindacabile dal giudice) del merito amministra-
tivo.
D’altro canto, i vantaggi derivanti dall’eventuale accoglimento del ricorso
gerarchico, anche laddove riletto in chiave moderna come strumento di me-
diazione precontenzioso a carattere obbligatorio, esistono e sono di estremo
rilievo, ed in questa sede appare utile richiamarli sommariamente:

➢ la possibilità di ottenere una ulteriore pronuncia da parte dell’ammi-


nistrazione, tendenzialmente in tempi rapidi e con un costo econo-
mico certamente inferiore rispetto a quello che il ricorrente dovrebbe
affrontare in caso di ricorso giurisdizionale;
➢ la possibilità di far valere i vizi di merito, in linea di massima non
sindacabili dal giudice;
➢ l’opportunità, per l’amministrazione, di risolvere in via interna le
controversie, così reintegrando l’ordine giuridico violato dall’ema-
nazione di atti amministrativi illegittimi ed evitando una pronuncia
giurisdizionale sfavorevole107.

106 M. Giovannini, Amministrazioni pubbliche e risoluzione alternativa delle


controversie, Bologna, 2007, 142 e ss.
107 E. Casetta, op. cit., 994.
Come già accennato in precedenza, sussiste un’ulteriore obiezione – di
natura, per così dire, soggettiva – che ostacolerebbe la configurabilità del ri-
corso gerarchico proprio quale sedes appropriata per la collocazione di una
forma di mediazione amministrativa precontenziosa, e che è individuata
nella supposta carenza di terzietà da parte del soggetto deputato alla risolu-
zione della controversia, incardinato nella medesima struttura cui appartiene
l’organo che ha emanato l’atto e che per questo motivo, secondo alcuni, sa-
rebbe legittimato ad adottare la decisione proprio sulla base della contiguità
di tipo gerarchico che legherebbe la prima alla seconda 108.
Per confutare siffatta argomentazione, si possono invocare due valuta-
zioni di natura squisitamente empirica.
La prima consiste nel fatto che già in riferimento ad un’altra importante
relazione interorganica, quella del controllo, il legislatore italiano si è reso
protagonista di una significativa evoluzione normativa, che ha condotto, nel
1999, all’introduzione di quattro tipologie di controlli interni 109, tramite i
quali, cioè, si è determinato lo spostamento della competenza all’esercizio
del controllo in capo ad organi interni allo stesso soggetto controllato e senza
che con ciò si sia procurato un vulnus alla necessaria indipendenza che deve
connotare un’attività doverosa e delicata quale è quella in questione.
Appare utile, piuttosto, rilevare che l’introduzione di siffatta tipologia ri-
sulta ispirata a una logica differente rispetto a quella che aveva caratterizzato
la precedente stagione dei controlli (che per antonomasia erano esterni e di
legittimità) e che la stessa risponde a nuove esigenze, quali il supporto all’at-
tività di indirizzo e dirigenziale e la valenza conformativa della successiva
azione amministrativa110.
La seconda valutazione è desumibile dall’ulteriore introduzione nell’ordi-
namento di un distinto strumento “speciale” di mediazione, e cioè quello ine-
rente i rapporti fra contribuente e amministrazione finanziaria di cui all’art.
17 bis del D. Lgs. 546/1991, che prevede che per le controversie di valore
non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle en-
trate, “chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare
un reclamo, che a sua volta costituisce condizione di procedibilità del ri-
corso ordinario dinanzi alla competente Commissione Tributaria”.

108 M. Giovannini, op. cit., 143.


109 Il riferimento è al D. Lgs. n. 286/1999, in parte superato dal successivo D.
Lgs. n. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta), che ha individuato quattro tipologie ben
precise, e cioè: la valutazione della dirigenza; il controllo di gestione; il controllo
strategico; il controllo di regolarità.
110 R. Lombardi, Contributo allo studio della funzione di controllo, Milano,
2003; A. Cardone, Il controllo interno di regolarità amministrativa (ovvero quel che
resta dei controlli amministrativi) fra autonomia e legalità, in Riv. Dir. Pubbl., 3,
2013, 915.
Ebbene, il comma 5 del citato art. 17 bis prevede espressamente che “il
reclamo va presentato alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale
che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture di-
verse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili”.
In altre parole, nel caso di specie il legislatore, nonostante si dichiari che
chiamata a decidere sul reclamo proposto dal contribuente avverso un atto
dell’Agenzia delle Entrate è la medesima Amministrazione finanziaria, si è
preoccupato di dettare una precisa regola sulla competenza, utile a chiarire la
piena indipendenza della decisione assunta.
Questa impostazione può essere utile ai fini della presente indagine
poiché il processo tributario rappresenta il rito che, per caratteristiche e com-
plessivo svolgimento, si avvicina maggiormente al processo amministrativo
(in primis per la previsione, in entrambi, del metodo impugnatorio a carattere
eliminatorio degli atti da censurare, nonché di un termine decadenziale colle-
gato all’instaurazione degli stessi).
Prima di pervenire alle conclusioni, appare quindi utile spendere qualche
parola proprio sulla validità del recente esperimento della mediazione nel
processo tributario.
Nel caso del processo tributario, infatti, l’opportunità di addivenire a una
concreta deflazione del contenzioso ha definitivamente preso il sopravvento
sulle vetuste regole (che informavano anche il processo tributario) tipiche di
un giudizio rigidamente imperniato “sull’atto” e sulla sua potenziale lesività.
In altre parole, quello che sembrerebbe pianamente assimilabile allo
schema dei tradizionali ricorsi amministrativi assume delle caratteristiche
per così dire “camaleontiche”, che cioè consentono all’Amministrazione fi-
nanziaria che riceve il reclamo di mutare il titolo della domanda giustiziale
avanzata dal contribuente inserendo per l’appunto la mediabilità degli inte-
ressi in gioco, e di tentare quindi l’individuazione di un punto di incontro.
Anche in questo caso, come nel caso del ricorso gerarchico, gli effetti be-
nefici sono di diversa natura: innanzitutto (e si tratta di un beneficio di carat-
tere generale), viene scongiurato un nuovo contenzioso tributario, con conse-
guente esaltazione del c.d. valore della deflazione; in secondo luogo (dal
punto di vista dell’Amministrazione finanziaria), diventa possibile recupe-
rare dal contribuente somme nella cui riscossione risultava problematico
confidare; infine (dal punto di vista del contribuente), si finiscono per sanare
celermente potenziali situazioni debitorie rimuovendo morosità odiose e po-
tenzialmente lesive.
Tornando al campo del diritto amministrativo, esiste un’ultima proposta –
alternativa all’impiego del ricorso gerarchico proprio – per consentire l’ac-
cesso a strumenti di giustizia alternativa nei rapporti tra P.A. e privati; si
tratta del ricorso gerarchico improprio, ovvero di quello strumento che il
D.P.R. 1199/1971 disciplina come rimedio proponibile, in casi tassativa-
mente previsti dalla legge, dinanzi ad un’autorità amministrativa che, pur
non essendo legata da vincolo di gerarchia con quella che ha adottato il prov-
vedimento, esercita su di essa un generico potere di vigilanza.
Questa soluzione non appare percorribile per due ordini di ragioni: in
primo luogo, in quanto il ricorso gerarchico improprio – come detto – è un
rimedio a carattere eccezionale e non generale; inoltre, esso può essere espe-
rito unicamente per far valere vizi di legittimità e non anche di merito, pre-
cludendo in tal modo l’opportunità di una composizione del conflitto che in-
vesta ogni aspetto dell’esercizio del potere pubblico.

Un caso di mediazione generalizzata nel diritto


amministrativo: la Ley 7675 della Provincia
de San Juan (Argentina)
L’indagine svolta sulla configurabilità di un sistema di mediazione dei
conflitti di diritto amministrativo nell’ordinamento italiano può, infine, av-
vantaggiarsi dell’esperienza di diritto positivo avviata nell’ordinamento ar-
gentino ed in particolare nella Provincia de San Juan.
Con la Ley n. 7675, la Provincia di San Juan ha introdotto uno strumento
di mediazione obbligatoria nell’ambito delle controversie di diritto ammini-
strativo, da promuoversi – a pena di improcedibilità del ricorso giurisdizio-
nale – a cura dei cittadini che vogliano censurare l’operato della P.A.
L’art. 4 della legge citata afferma a chiare lettere il carattere obbligatorio
della mediazione preventiva ad ogni giudizio in cui sia parte “el Estado Pro-
vincial, sus Entes Descentralizados y Empresas y Sociedades del Estado”.
Quanto alle materie in cui sia esercitabile la mediazione, il legislatore ar-
gentino ha scelto di indicare in modo tassativo (art. 3) i casi in cui essa non
si applica111, rendendo così la mediazione uno strumento di carattere generale
nella materia del diritto amministrativo.
Altrettanto significativa appare la scelta di richiamare espressamente le
disposizioni della previgente legge sulla mediazione civile e commerciale 112
(art. 4), ponendo così un intimo collegamento tra i due istituti di composi-
zione dei conflitti.

111 Si tratta, più in particolare: delle azioni puramente dichiarative, il cui risultato
mediato non implica un obbligo di dare somme di denaro o cose; delle
espropriazioni; delle azioni di “amparo” (protezione), di habeas corpus e habeas
dati (procedimenti giurisdizionali attraverso cui qualunque cittadino può comparire
direttamente davanti al Giudice per ottenere una decisione sulla legittimità del
proprio arresto); azioni di esecuzione di obbligazioni liquide ed esigibili contenute in
titoli esecutivi.
112 Ley n. 7454.
Più nel dettaglio, si nota che la Ley 7675 prevede lo svolgimento del pro-
cedimento di mediazione obbligatoria dinanzi ad un soggetto terzo (Centro
Judicial de Mediación), cui è affidato il delicato compito di agevolare il rag-
giungimento di un accordo di composizione della fra le parti. L’accordo di
mediazione raggiunto, una volta approvato dall’autorità amministrativa (art.
9) ed omologato dal Tribunal che sarebbe stato competente per l’eventuale
processo giurisdizionale (art. 10), costituirà il nuovo assetto dei rapporti fra
le posizioni giuridiche soggettive del cittadino e dell’amministrazione, in
luogo del provvedimento originariamente adottato e censurato dal soggetto
privato.
È stata, dunque, scelta la via della mediazione tramite sottoscrizione di un
accordo fra le parti (cioè la mediazione nella sua versione “pura”) preve-
dendo, altresì, un procedimento di omologazione da parte dell’autorità giuri-
sdizionale, evidentemente destinato a verificare che la soluzione raggiunta in
concreto non sia contraria all’interesse pubblico.
La mediazione accolta nella Provincia de San Juan con la Ley 7675 po-
trebbe costituire un modello, alternativo a quello proposto nel presente
studio, a cui ispirarsi anche nell’ordinamento italiano, considerato fra l’altro
che la L. 241/1990 (art. 11) disciplina espressamente lo strumento degli ac-
cordi P.A./privato sostitutivi del provvedimento finale 113. Si tratta di accordi
che, ai sensi dell’art. 11, devono essere conclusi durante la fase di istruttoria
procedimentale e che per tale ragione – salvo un futuro intervento di riforma
del legislatore – non sono idonei ad essere utilizzati per la mediazione del
conflitto insorto successivamente all’adozione del provvedimento.
Pertanto, allo stato, la soluzione dell’utilizzo dello strumento del ricorso
gerarchico proprio rimane quella che, più di altre, appare convincente per ac-
cogliere anche nel diritto amministrativo italiano forme di mediazione gene-
ralizzata dei conflitti fra cittadino e P.A.

113 Per la ricostruzione della fattispecie degli accordi procedimentali, F. Cangelli,


Potere discrezionali e fattispecie consensuali, Milano, 2004; F. Tigano, Gli accordi
procedimentali, Torino, 2002; G. Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino,
2001.
El despido disciplinario como objeto
de la conciliación-mediación
Alberto Ayala Sánchez - Universidad de Cádiz

Introducción
Las condiciones laborales en las que se desarrolla el trabajo han originado
conflictos de esta naturaleza, tanto en su vertiente colectiva como individual,
debido a la oposición social y desigualdad implícita entre empresario y
trabajador. Esta conflictividad se ha tratado de encauzar, con mayor o menor
éxito, a través del ordenamiento jurídico laboral; pero en ocasiones, la
regulación que ofrece ha resultado insuficiente, o el incumplimiento en su
aplicación hace necesario acudir a los órganos jurisdiccionales competentes.
En España los interlocutores sociales no se han preocupado por
desarrollar unos efectivos sistemas alternativos de resolución de conflictos
aplicables a los conflictos individuales, y menos aún, al despido
disciplinario, como máximo exponente de esta tipología de conflictos entre
empresario y trabajador; dicho desarrollo legislativo corresponde a la
normativa que reguló la actuación del Instituto de Mediación, Arbitraje y
Conciliación (IMAC) de finales de los setenta y principios de los ochenta,
siéndole de aplicación actualmente al Centro de Mediación, Arbitraje y
Conciliación (CMAC) autonómico respectivo, tras el proceso de
transferencias competenciales de la Administración Central española a las
comunidades autónomas.
Entendemos que las conciliaciones motivadas por los despidos
disciplinarios y celebradas ante los organismos administrativos
correspondientes son percibidas, más que como un real y verdadero intento
alternativo de resolución de conflictos, simplemente como un requisito de
procedibilidad para tener expedita la vía jurisdiccional.
Movidos por esta inquietud, es por ello que, en este estudio, en primer
lugar, haremos una breve exposición de los conceptos que vamos a utilizar:
despido disciplinario, conciliación, mediación y conflicto. Si bien el despido
disciplinario se ubica en el ámbito de las relaciones laborales, no sucede lo
mismo cuando nos referimos a la mediación o al conflicto, por lo que, para
empezar debemos contextualizarlos dentro de dicho ámbito.
En segundo lugar, planteamos como alternativa a la tradicional
conciliación administrativa, una conciliación privada en el seno de la
empresa al amparo del art. 91.5 del Estatuto de los Trabajadores (ET) y, por
qué no, entendemos que también podría implantarse por medio de acuerdos
interprofesionales o de materias concretas (art. 83. 2 y 3 ET), tal y como se
ha actuado en el supuesto del conflicto colectivo en España.
En tercer lugar, haremos una breve exposición de la normativa jurídico-
laboral española relativa a los sistemas alternativos de resolución de
conflictos para poner de manifiesto cómo ésta ha alcanzado mayor desarrollo
cuando su objeto son los conflictos colectivos y no tanto cuando son
individuales.
Y, por último, analizaremos cada una de las causas motivadoras del
despido disciplinario, tanto desde el punto de vista doctrinal como
jurisprudencial, deteniéndonos en aquellos aspectos que presentan a la
mediación-conciliación como vía idónea para la resolución de este tipo
concreto de conflicto individual.
Este estudio responde a nuestra intención de que tomemos conciencia de
si estamos utilizamos adecuadamente la conciliación-mediación ante el
organismo administrativo competente, o si por el contrario, estamos
infravalorando esta herramienta tal útil de resolución de conflictos.

Conceptos implicados: despido disciplinario,


conciliación-mediación laboral y conflictos de trabajo
Es nuestra intención ofrecer un concepto tanto de despido disciplinario
como de conciliación-mediación, que permite reconocer y apreciar que no
son nociones antitéticas, todo lo contrario, son figuras abocadas a
entenderse, a reconocerse y a ser utilizadas en beneficio de las relaciones
laborales y de la sociedad en su conjunto.
Una primera aproximación a la noción de despido es aquella que la
configura como la decisión unilateral del empresario, encaminada a extinguir
el contrato de trabajo que le une a un trabajador determinado 114. O de forma
más elaborada de definir el despido y haciendo ya referencia a su
motivación, es aquel que lo conceptúa como el incumplimiento grave y
culpable por parte del trabajador respecto de sus obligaciones laborales 115.

114 Bayón Chacón, G. y Pérez Botija, E., Manual de Derecho del Trabajo, Vol. II,
9.ª edic., Marcial Pons, Madrid, 1975-1976, pág. 581. Pérez Botija, E., El Contrato
de Trabajo, Instituto de Estudios Políticos, Madrid, 1945, pág. 270.
115 Martín Valverde, A., Rodríguez-Sañudo Gutiérrez, F. y García Murcia, J.,
Derecho del Trabajo, 22.ª edic., Tecnos, Madrid, 2013, pág. 784. Molero Manglano,
A. (director) et al., Manual de Derecho del Trabajo, 11.ª edic., Civitas-Thomson
Reuters, Navarra, 2011, pág. 703.
Cruz Villalón, J., Compendio de Derecho del Trabajo, 6.ª edic., Tecnos, Madrid,
2013, pág. 406. Montoya Melgar, A. (director), et al., Derecho del Trabajo. Textos y
Materiales, Civitas-Thomson Reuters, Navarra, 2011, pág. 635. Alonso Olea, M., y
A ello hace referencia el Derecho Positivo español: desde el punto de
vista sustantivo, en los arts. 49.1 k) y 54 a 57 del Real Decreto Legislativo
1/1995, de 24 de marzo, por el que se aprueba el Texto Refundido de la Ley
del Estatuto de los Trabajadores (ET); y en su vertiente rituaria, en los arts.
103 y siguientes relativos al procedimiento sobre despido disciplinario y los
arts. 278 a 286 referentes a la ejecución de las sentencias firmes de despidos,
todos ellos de la Ley 36/2011, de 10 de octubre, reguladora de la
Jurisdicción Social (en lo sucesivo, LRJS).
Una vez expuesto el despido disciplinario, nos adentramos en el concepto
de mediación abordando, primero, su perfil jurídico 116 y, seguidamente,
centrarnos en la perspectiva jurídico-laboral.
Para una primera aproximación, hemos elegido una definición
descriptiva, esto es, la mediación concebida como “un proceso
transformativo de comunicación circular que coloca las personas
descentradas en su centro, y ordena el fluir de los conflictos que las enfrenta
al hallazgo de la misma cosa justa, evitando la recaída en la espiral de la
venganza”117.
De estas primeras ideas sobre la mediación podemos extraer las
siguientes notas: primero, es un proceso estructurado; segundo, las partes
son las auténticas protagonistas del mismo, siendo ellas las que buscan la
solución del conflicto; y, tercero, las partes están asistidas en todo momento
por un tercero imparcial no dirimente llamado mediador, protagonista
“invisible” del proceso.
¿Y qué ocurre cuando a la “mediación” le añadimos el adjetivo
“jurídica”?, ¿cambia o enriquece su significado? El término “jurídica”
significa “que atañe al derecho o se ajusta a él” 118, por lo tanto, si lo
conectamos con mediación nos podría parecer que da un valor añadido al
concepto usual expuesto con anterioridad. Sin embargo, no es así:
entendemos que toda mediación es jurídica al tener como objeto del
conflicto, de una u otra forma, un derecho sobre el que las partes discrepan o
discuten119.

Casas Baamonde, M.ª E., Derecho del Trabajo, 28.ª edic., Civitas, Madrid, 2000,
págs. 422 y 447.
116 Puy Muñoz, F., «La expresión “mediación jurídica”, un análisis tópico», en
Soleto Muñoz, H., y Otero Parga, M. (coordinadoras), Mediación y Solución de
Conflictos. Habilidades para una necesidad emergente, Tecnos, Madrid, 2007, pág.
23.
117 Puy Muñoz, F., «La expresión “mediación jurídica”, un análisis tópico», op.
cit., pág. 26.
118 Real Academia De La Lengua, Diccionario de la lengua española, op. cit.
119 Puy Muñoz, F., «La expresión “mediación jurídica”, un análisis tópico», op.
cit., pág. 31.
Si defendemos que toda mediación es jurídica en cuanto que afecta a un
derecho y, por tanto, añadir el vocablo “jurídica” es simplemente un
pleonasmo, ahora debemos dar nuestro último paso y centrarnos en la
mediación laboral. El Diccionario define laboral como “perteneciente o
relativo al trabajo, en su aspecto económico, jurídico y social” 120.
Al hilo de ello, mediación laboral será aquella que tenga por objeto
controvertido un derecho perteneciente o relativo al trabajo, ya tenga su
origen en la ley, un convenio colectivo o en cualquier otra fuente de la
relación laboral (art. 3.1 ET). Con otras palabras, podemos decir que es un
procedimiento autónomo de resolución de conflictos de trabajo caracterizado
por la intervención “activa” de un tercero, llamado mediador, el cual no solo
facilita la comunicación entre las partes, sino que además tiene la facultad de
proponer soluciones a las mismas, si bien sin carácter vinculante 121.
Como se observa, en el ámbito de las relaciones laborales hay que hacer
una precisión terminológica; la mediación laboral se distingue de cualquier
otra mediación, sea civil, mercantil, penal, etc., en un elemento
determinante: el mediador en las relaciones de trabajo, sí propone soluciones
no vinculantes, hecho impensable en las otras mediaciones. No obstante, en
Derecho del Trabajo español tenemos la institución de la conciliación que sí
es la equivalente a la mediación en el ámbito no laboral español 122.
Esta diferencia terminológica crucial para la doctrina no lo es tanto en la
práctica, en donde se utilizan indistintamente los conceptos de conciliación-
mediación. La Ley Rituaria Laboral española utiliza de forma indiscriminada
ambos términos; así, en los arts. 64 y siguientes de la LRJS, se refiere a ellos
de forma indiscriminada, como si fueran vocablos sinónimos 123.
Centrándonos a continuación en el conflicto de trabajo, lo definimos
como la discrepancia o disputa exteriorizada que surge entre el empresario y
el trabajador con motivo de sus condiciones de trabajo 124.
Puede ser clasificado desde distintas ópticas 125: si bien podemos distinguir
entre conflictos pacíficos o violentos, conflictos de interpretación (jurídicos)
o de intereses126 (también llamados novatorios, de regulación o de
120 Real Academia De La Lengua, Diccionario de la lengua española, 22.ª edic.,
Espasa, Madrid, 2001 (www.rae.es).
121 Montoya Melgar, A., Derecho del Trabajo, 33.ª edic., Tecnos, Madrid, 2012,
págs. 715 a 717.
122 Cruz Villalón, J., Compendio de Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 580.
123 Alonso Olea, M., y Casas Baamonde, M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit.,
pág. 980.
124 Alonso Olea, M., y Casas Baamonde, M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit.,
pág. 963.
125 Molero Manglano, A. (director) et al., Manual de Derecho del Trabajo, op.
cit., pág. 1064.
126 Álvarez Del Cuvillo, A. «Conflicto colectivo y medidas de presión», en
reglamentación), nos vamos a detener en la distinción entre conflicto
individual, conflicto colectivo y conflicto plural, al ser el despido
disciplinario el conflicto individual por antonomasia, donde la pretensión se
basa únicamente en los intereses personales del trabajador afectado por la
decisión extintiva127.
De esta enumeración, lógicamente por la materia objeto de este estudio,
nos centramos en los conflictos individuales de especial relevancia, estos es,
los que conllevan la extinción del contrato de trabajo, a instancias del
empresario, dado el actuar grave y culpable del trabajador.
Conforme a lo anterior, el despido disciplinario es definido por la
doctrina como la resolución unilateral del contrato de trabajo a instancias del
empresario, fundada en un incumplimiento grave y culpable del
trabajador128.
El concepto legal está descrito en el art. 54.1 del ET en los siguientes
términos: el contrato de trabajo podrá extinguirse por decisión del
empresario, mediante despido basado en un incumplimiento grave y culpable
del trabajador129.

Velasco Portero, T. y Miranda Boto, J. M.ª, Derecho del Trabajo y de la Seguridad


Social para titulaciones no jurídicas, 3.ª edic., Tecnos, Madrid, 2013, págs. 247 a
249.
127 Hernainz Márquez, M., Tratado Elemental de Derecho del Trabajo, Vol. II,
12.ª edic., Instituto de Estudios Políticos, Madrid, 1977, págs. 112 a 114. Serrano
Argüello, N., «El conflicto laboral y sus manifestaciones más típicas», en Dueñas
Herrero, L. J. (director), Guía práctica de mediación sociolaboral, Lex Nova-
Thomson Reuters, Valladolid, 2013, pág. 51. Alonso Olea, M., y Casas Baamonde,
M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 964.
128 Martín Valverde, A., Rodríguez-Sañudo Gutiérrez, F. y García Murcia, J.,
Derecho del Trabajo, op. cit. págs. 783 a 786. Alonso Olea, M., y Casas Baamonde,
M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 447.
129 Art. 54 del ET, Despido disciplinario. 1. El contrato de trabajo podrá
extinguirse por decisión del empresario, mediante despido basado en un
incumplimiento grave y culpable del trabajador. 2. Se consideran incumplimientos
contractuales: a) Las faltas repetidas e injustificadas de asistencia o puntualidad al
trabajo. b) La indisciplina o desobediencia en el trabajo. c) Las ofensas verbales o
físicas al empresario o a las personas que trabajan en la empresa o a los familiares
que convivan con ellos. d) La transgresión de la buena fe contractual, así como el
abuso de confianza en el desempeño del trabajo. e) La disminución continuada y
voluntaria en el rendimiento de trabajo normal o pactado. f) La embriaguez habitual
o toxicomanía sí repercuten negativamente en el trabajo. g) El acoso por razón de
origen racial o étnico, religión o convicciones, discapacidad, edad u orientación
sexual y el acoso sexual o por razón de sexo al empresario o a las personas que
trabajan en la empresa. Gorelli Hernández, J., El coste económico del despido o el
precio de la arbitrariedad. Un estudio sobre la eficacia del despido disciplinario
ilícito. Monografías de Temas Laborales, n.º 44. Consejo Andaluz de Relaciones
Laborales, Sevilla, 2010, págs. 17 a 21.
Una alternativa a la conciliación administrativa:
la conciliación-mediación en la empresa
Según nuestro sistema normativo, para impugnar su despido disciplinario
ante los Tribunales de lo Social (art. 59.3 ET), el trabajador necesita de un
intento previo y preceptivo de conciliación ante el CMAC 130; intento que no
deja de ser un trámite vacío de contenido, puesto que no busca la solución
del conflicto planteado entre empresario y trabajador, sino obtener la
certificación justificativa de dicho trámite, nada más.
En el análisis de los sistemas extrajudiciales de resolución de conflictos,
sean denominados como conciliación o como mediación, la mayoría de la
doctrina se refiere a los conflictos colectivos y no tanto a los individuales, y
aún menos, en los supuestos de despido disciplinario 131. Las razones la
fundamentan básicamente, en primer lugar, en su falta de trascendencia
pública132 y, en segundo lugar, a que no repercuten en el clima laboral 133. Se
estudian más como requisito de procedibilidad que como una alternativa
real, seria y eficaz al proceso judicial.
Sin embargo, no estamos de acuerdo con esta línea doctrinal. El despido
disciplinario sí puede ser objeto de la conciliación-mediación, no solo como
requisito previo y preceptivo a la vía jurisdiccional, sino desde el apoyo, de
forma decidida, por los agentes sociales a través de la negociación colectiva
y, por qué no, por la Administración Pública, institucionalizado como
“verdadero” sistema alternativo de resolución de conflictos, y no solo ante
un organismo administrativo que ha demostrado suficientemente su
ineficacia, como es, el Centro de Mediación, Arbitraje y Mediación andaluz
(español).

130 Art. 59 Prescripción y caducidad del ET. 3. El ejercicio de la acción contra el


despido o resolución de contratos temporales caducará a los veinte días siguientes de
aquel es que se hubiera producido. Los días serán hábiles y el plazo de caducidad a
todos los efectos. Cruz Villalón, J., Compendio de Derecho del Trabajo, op. cit., pág.
415.
131 Cruz Villalón, J., Compendio de Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 631.
Dueñas Herrero, L. J., «La solución extrajudicial y los medios autónomos de
solución de los conflictos laborales en el ordenamiento español», en Dueñas
Herrero, L. J. (director), Guía práctica de mediación sociolaboral, op. cit., pág. 225.
Alonso Olea, M., y Casas Baamonde, M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit., págs.
979 a 985. Montoya Melgar, A., Derecho del Trabajo, op. cit., págs. 713 a 724.
Serrano Argüello, N., «El conflicto laboral y sus manifestaciones más típicas», op.
cit., págs. 49 y ss.
132 Álvarez De La Rosa, M., La construcción jurídica del contrato de trabajo, 2.ª
edic., Comares, Granada, 2014, pág. 137.
133 VIana López, C. J., Mediación Laboral, Dykinson, Madrid, 2013, pág. 63.
Muestra de ello, según las series estadísticas del Ministerio de Empleo
español referentes a las conciliaciones individuales comprendidas entre
enero de 2011 a mayo de 2014, solo el 36,75 % de los despidos finalizan con
avenencia; si bien, estos datos no diferencian si estamos en presencia de un
despido disciplinario, objetivo, colectivo o por fuerza mayor 134. Esta falta de
transparencia por la Administración, al no discriminar ante qué tipo de
despido nos encontramos, denota el escaso interés que tiene por los despidos
disciplinarios al carecer de trascendencia pública.
Puesto que el sistema de conciliación administrativa no ha funcionado,
defendemos la hipótesis de implantar la conciliación-mediación en el seno
de la empresa, desde la cobertura legal del art. 91.5 del ET: “Los
procedimientos de solución de conflictos a que se refiere este artículo serán,
asimismo, de aplicación en las controversias de carácter individual, cuando
las partes se sometan a ellos”.
Teniendo la habilitación legal como punto de partida, no hay
inconveniente para que a través de la negociación colectiva se puedan
desarrollar estos procedimientos alternativos de resolución de conflictos en
sede empresarial, atribuyéndoles la competencia por razón de la materia en
los conflictos individuales y, sobre todo, en el paradigma de ellos: el despido
disciplinario. Estaría concebido como un trámite preprocesal “privado” con
los mismos efectos que los celebrados ante el CMAC. Esta línea argumental
también encuentra apoyo en el art. 63 de la vigente LRJS 135, al recoger
expresamente la posibilidad de establecer estos sistemas alternativos de
resolución de conflictos por medio de acuerdos de interprofesionales o sobre
materias concretas, con lo que se pone de manifiesto por el legislador el
escaso resultado positivo que tiene la conciliación administrativa.
En razón de lo anterior, tras la exteriorización del conflicto por medio de
la carta de despido, documento en donde el empresario plasma los motivos
en los que se fundamenta su decisión de extinguir la relación laboral debido
a un incumplimiento previo del trabajador, manifestado en las acciones u
omisiones causantes del conflicto, el siguiente paso sería acudir a la
institución mediadora-conciliadora “en casa”, lo que proporcionará una
respuesta aún más rápida y eficaz, en busca de un acuerdo que tenga por
objeto la readmisión del trabajador, con ahorro de costes de toda índole

134 Datos obtenidos de http://www.empleo.gob.es/series/


135 Art. 63 de la LRJS, Conciliación o mediación previas. Será requisito previo
para la tramitación del proceso el intento de conciliación o, en su caso, de mediación
ante el servicio administrativo correspondiente o ante el órgano que asuma estas
funciones que podrá constituirse mediante los acuerdos interprofesionales o los
convenios colectivos a los que se refiere el artículo 83 del Texto Refundido de la
Ley del Estatuto de los Trabajadores, así como mediante los acuerdos de interés
profesional a los que se refieren el art. 13 y el apartado 1 del artículo 18 de la Ley
del Estatuto del trabajo autónomo.
(tiempo, dinero, etc.), donde los verdaderos protagonistas del citado acuerdo
han sido empleador y trabajador136.
Cuestión diferente es determinar o nombrar a la persona que ejercerá de
mediador. El hecho de que defendamos la mediación intraempresarial no
significa que el mediador tenga que ser una persona de la empresa; es más,
consideramos que no debe serlo. El mediador-conciliador, para poder ejercer
adecuadamente su cometido, en primer lugar ha de ser un profesional con la
formación adecuada; y en segundo término, ha de ser imparcial, por tanto,
será una persona ajena a la empresa para poder hacer valer su neutralidad.
La elección del mediador se podría de hacer de dos formas: una, acudir a
la lista de mediadores profesionales inscritos en los registros creados al
efecto por los organismos competentes de las Comunidades Autónomos, que
tenga su despacho profesional en el municipio o provincia donde radique la
empresa; sería algo similar al turno de oficio por el que se rigen los
abogados y procuradores. En Andalucía este organismo sería el Sistema
Extrajudicial de Resolución de Conflictos Laborales de Andalucía
(SERCLA). Como segunda vía para el nombramiento, la libre designación
por las partes.

Marco normativo
El dato de que la doctrina, ante un conflicto colectivo, haya mostrado
mayor interés por los sistemas alternativos de resolución de conflictos que
ante un conflicto individual, tiene su reflejo en nuestro marco normativo. En
este sentido, se ha desarrollado una cobertura legal y convencional más
prolija y actualizada. En relación a ello podemos destacar:
En primer lugar, en el nivel estatal, véase en este sentido el V Acuerdo
sobre Solución Autónoma de Conflictos Colectivos, de 7 de febrero de 2012
(en lo sucesivo ASAC)137 a desarrollar ante el Servicio Interconfederal de
Mediación y Arbitraje (SIMA).
En segundo lugar, en el nivel autonómico, la mediación tendrá lugar ante
el Sistema Extrajudicial de Resolución de Conflictos Laborales de Andalucía
Acuerdo interprofesional de 3 de abril de 1996, aprobado por Resolución de
8 de ese mes (en lo sucesivo SERCLA) 138. Si bien por Acuerdo de 4 de
marzo de 2005, aprobado por Resolución de 28 de ese mes, se prevén
algunas reclamaciones individuales (v.gr.: la movilidad funcional y trabajos
136 Otero Parga, M., «Ventajas e inconvenientes de la mediación», en Soleto
Muñoz, H., y Otero Parga, M. (coordinadoras), Mediación y Solución de Conflictos.
Habilidades para una necesidad emergente, op. cit., págs. 146 a 149.
137 BOE de 23 de febrero de 2012, n.º 46.
138 BOJA de 23 de abril de 1996, n.º 48.
de superior o inferior categoría, la modificación sustancial de condiciones de
trabajo, etc.)139.
Sin embargo, en materia de conflictos individuales, y por ende, en los
despidos disciplinarios, la regulación es más parca, estando atribuida, a los
Centros de Mediación, Arbitraje y Conciliación (CMAC) autonómicos
respectivos140.
Los convenios colectivos suelen reservar en su articulado un capítulo
relativo al régimen disciplinario, también llamado, código de conducta,
regulando en ocasiones el procedimiento sancionador y tipificando las
infracciones y las sanciones en leves, graves y muy graves, pero no hacen
mención alguna a la conciliación-mediación como verdadero sistema
alternativo de resolución de conflictos individuales con motivo del despido
disciplinario141. Otros en cambio sí hacen referencia expresa a la mediación
en temas tan dispares como desavenencias originadas por el calendario
laboral o supuestos de acoso laboral142.
Como excepción, sí hay alguna norma convencional que recoge la
mediación como “...fase previa al procedimiento disciplinario...” 143, y dentro
del “protocolo de actuación en caso de acoso sexual (...), como garantía
adicional y respetando las posibles actuaciones ante la jurisdicción que
pudiesen emprenderse por parte de los afectados” 144.
Además, la actual Ley Adjetiva ha impulsado estas formas alternativas de
resolución de conflictos individuales, regulando la conciliación-mediación
intrajudicial ante el Secretario del órgano jurisdiccional (art. 82 LRJS).

139 BOJA de 8 de abril de 2005, n.º 68.


140 En Andalucía el traspaso de las competencias del Instituto de Mediación,
Arbitraje y Mediación (IMAC) se produce por R.D. 4103/1982, de 29 de diciembre
(RCL 1983\365, BOE de 24 de febrero de 1983).
141 Convenio colectivo de Capital Genetic EBT, SL (BOE, de 30 de julio de
2014, n.º 184).
142 Convenio colectivo de Demag Cranes & Components, SAU (BOE, de 11 de
abril de 2014, n.º 88); VII Convenio colectivo de V2 Complementos Auxiliares, SA
(BOE, de 11 de abril de 2014, n.º 88).
143 Convenio colectivo de Exide Technologies España, SLU (BOE, de 7 de marzo
de 2014, n.º 57), Anexo I, 2 Objetivos.
144 Art. 7 del Convenio colectivo de Exide Technologies España, SLU (BOE, de 7
de marzo de 2014, n.º 57). En el mismo sentido, Convenio colectivo para los
trabajadores de servicios auxiliares de ISS Facility Services, SA (BOE, de 12 de
septiembre de 2014, n.º 222).
Causas de despido disciplinario susceptibles
de conciliación-mediación: estado actual de la doctrina
y de la jurisprudencia
Los supuestos de despido como forma de extinción del contrato de
trabajo, son “hechos o causas acaecidos durante su ejecución” 145 que, con
carácter general, pueden ser subjetivas, al basarse en incumplimientos
relevantes e imputables al trabajador, u objetivas como pueden ser el
incendio de la empresa o la inviabilidad de la misma por causas económicas
(fuerza mayor propia o impropia).
A pesar de los graves supuestos que relaciona el art. 54 del ET,
merecedores del despido disciplinario, prima facie defendemos que todos
son susceptibles de conciliación-mediación intraempresarial. Si lo son ante
el organismo autonómico competente (CMAC) y la norma no excluye
ninguno de los supuestos de dicho trámite, en el sentido literal de la
expresión, no hay motivo dogmático alguno para sustraerlo de una
conciliación-mediación enfocada a tratar el fondo del asunto hasta
resolverlo. ¿Si no qué objeto tiene la mediación ante el CMAC?: ¿retrasar la
interposición de la demanda de impugnación del despido?
Si bien las causas del despido disciplinario facultan al empresario para
llevar a cabo la resolución del contrato de trabajo ante los incumplimientos
contractuales, graves y culpables de sus trabajadores (art. 54.1 del ET en
relación con el art. 1124 del Código Civil 146 (en adelante Cc)), también el
empresario está capacitado para tolerarlo, no ejercitando el derecho subjetivo
del que es titular y, conservando el negocio jurídico, dejando en vigor la
relación contractual147.
145 Alonso Olea, M., y Casas Baamonde, M.ª E., Derecho del Trabajo, op. cit.,
pág. 422. BAYÓN CHACÓN, G., «El despido, concepto y clases, significación
jurídica y social», en Universidad De Madrid - Facultad De Derecho, Dieciséis
lecciones sobre causas de despido, Sección de Publicaciones e Intercambio,
Seminario de Derecho del Trabajo, Madrid, 1969, pág. 21.
146 Art. 1124 del Código Civil - La facultad de resolver las obligaciones se
entiende implícitas en las recíprocas, para el caso de que uno de los obligados no
cumpliere lo que el incumbe.
El perjudicado podrá escoger entre exigir el cumplimiento o la resolución de la
obligación, con el resarcimiento de daños y abono de intereses en ambos casos.
También podrá pedir la resolución, aun después de haber optado por el
cumplimiento, cuando éste resultare imposible (...).
147 Díez-Picazo, L. y Gullón Ballesteros, A., Sistema de Derecho Civil,
Introducción. Derecho de la persona. Autonomía privada. Persona jurídica, Vol. I,
5.ª edic., Tecnos, Madrid, 1984, pág. 438. Molero Manglano, C., La Supletoriedad
del Derecho Común en el Derecho del Trabajo, Instituto de Estudios Políticos,
Madrid, 1975, págs. 43 a 57.
Es nuestra intención poner de manifiesto que, dos incumplimientos
similares en relevancia pueden ser percibidos de distinta forma por dos
empresarios diferentes, del tal modo que uno puede presentar la carta de
despido al trabajador y el otro no, circunstancia que se observa asimismo
cuando comparamos distintos convenios colectivos. Si tomamos como
ejemplo la falta de puntualidad, para unos es una falta leve tres faltas de
puntualidad en un mes (Convenio colectivo sectorial de la construcción) 148, y
para otros solo se habla de retraso sin más detalle, tipificando como falta
grave la falta de puntualidad entre 6 y 8 días en un período de 30 días
(Convenio colectivo marco estatal de acción e intervención social) 149.
En el análisis de las causas del despido disciplinario, vamos a seguir el
orden expositivo del art. 54 del ET.

Faltas repetidas de asistencia y puntualidad


(art. 54. 2 a del ET)
En primer lugar debemos clarificar dos conceptos: uno, qué es asistencia
y, otro, qué debemos entender por puntualidad. Así, las faltas de asistencia
implican la ausencia total o parcial en el puesto de trabajo; en cambio, las
faltas de puntualidad suponen un incumplimiento del horario de trabajo, bien
sea a la entrada, bien sea a la salida 150. Ambos motivos tienen en común que,
durante esos lapsos de tiempo, la prestación laboral no se está llevando a
término, produciéndose la ruptura del equilibrio de las prestaciones
respectivas entre empresario y trabajador (onerosidad), de lo que deriva un
perjuicio para la empresa al no hacerse efectivo el objeto de la relación
jurídica laboral151.
En segundo lugar, para que estas faltas de puntualidad o asistencia sean
sancionables con despido requieren:

➢ Que sean graves, en este caso, “reiteradas”;


➢ Que el incumplimiento sea culpable significa que, el
comportamiento del trabajador sea a título de dolo, culpa o
negligencia. La norma se refiere a ello con el calificativo de

148 BOE, de 15 de marzo de 2012, n.º 64.


149 BOE, de 19 de junio de 2007, n.º 146.
150 Aranzadi Experto, «Despidos: Despidos disciplinarios», DOC 2012\305,
Thomson Reuters, pág. 3. Profundiza en los citados conceptos, la STS 29-9-1983,
RJ 1983, 4299, que equipara acudir al puesto de trabajo sin trabajar a la inasistencia.
151 Aguilera Izquierdo, R., Las causas del despido disciplinario y su valoración
por la jurisprudencia. Aranzadi, Navarra, 1997, págs. 239 y 240.
“injustificadas”; si las faltas estuvieran justificadas eventualmente
podríamos encontrarnos ante un supuesto de despido objetivo (art.
52. d) ET).

Ambas notas deben ser ponderadas y aplicadas con cautela; no hay dos
supuestos hipotéticamente similares, merecedores de despidos análogos.
Ante un hecho objetivo, por ejemplo tres faltas de asistencia consecutivas al
trabajo, habrá que poner en marcha el poder disciplinario de forma
proporcionada, teniendo especial relevancia el factor humano y, sobre todo,
ver cuáles son las circunstancias personales y familiares del trabajador,
presuntamente, incumplidor; examinar la relación de confianza con el
empresario, su grado de responsabilidad en el puesto de trabajo que
desempeña, su grado de autonomía en la ejecución de la prestación de
servicios, y el perjuicio real causado a la empresa.
Entendemos que, al ser la casuística infinita, habrá que analizar cada
supuesto concreto152 y valorar, de forma prudente, los elementos de
reiteración y culpabilidad, situándonos en la “realidad sociológica de tiempo
y lugar”153, así como el elemento humano, teniendo presente que los
convenios colectivos, cuando describen el régimen disciplinario, lo hacen
con carácter general, sin tener presente el puesto de trabajo desempeñado, ni
el posible daño irrogado al empresario.
Entre algunos de los supuestos susceptibles de ser conciliados-mediados
podemos indicar cuando la falta de asistencia está realmente justificada por
motivos de enfermedad: no se trata de un incumplimiento grave y culpable,
sin embargo, se produce el despido disciplinario ante la falta de notificación,
a su debido tiempo, de los parte de baja o de confirmación de la misma.
O aquellos casos en los que, tras la resolución del expediente de invalidez
sin declaración de incapacidad permanente, sí subsiste una situación de
incapacidad temporal que impide al trabajador incorporarse a su puesto de
trabajo, pero no lo notifica en forma, o desconoce la ejecutividad de los actos
administrativos, independientemente de que éstos sean recurridos
posteriormente.
Otros supuestos objeto de despido, y que obtuvieron en los tribunales la
calificación de improcedente, fueron: la intransigencia de la empresa en la
concesión de permisos cuyo fin era la asistencia a clases o exámenes 154; a
pesar de cierto régimen de tolerancia por parte de la empresa, descontando
parte del salario en función del tiempo de ausencia, sin embargo, de forma
sorpresiva se incoa el despido155.
152 STS de 27 de marzo de 2013, RJ\2013\3475.
153 Molero Manglano, A. (director) et al., Manual de Derecho del Trabajo, op.
cit., pág. 705.
154 STS de 19 de diciembre de 1989, RJ 1989, 9050.
155 Aranzadi Experto, «Despidos: Despidos disciplinarios», op. cit., pág. 5.
Otro supuesto paradigmático para la conciliación-mediación podría ser la
mujer que llega tarde a su puesto de trabajo por ser víctima de violencia de
género, no habiéndolo puesto en conocimiento de los órganos
competentes156.
Estos tipos de incumplimientos contractuales relativos a la puntualidad o
asistencia al puesto de trabajo, son especialmente conciliables-mediables por
cuanto que no suelen tener apreciaciones subjetivas. Incluso algún convenio
colectivo no tipifica estas conductas como faltas graves y, por tanto, las
excluye del despido disciplinario157. Esto es, las distintas normas colectivas
al tipificar las distintas infracciones del trabajador lo hacen de forma dispar,
poniéndose de manifiesto la imposibilidad de determinar un tratamiento
igualitario ante supuestos que solo lo son en apariencia.

La indisciplina o desobediencia en el trabajo (art. 54. 2 b)


del ET
La manifestación más genuina del poder de dirección es la facultad
empresarial de dictar órdenes e instrucciones para el adecuado devenir de la
organización, siempre teniendo como fundamento el contrato de trabajo; en
caso contrario, las mismas tendrían el carácter de ilegítimas 158.
Nos ocuparemos de la indisciplina o desobediencia ejercida por varios o
por un solo trabajador, pues si el incumplimiento fuera generalizado, nos
encontraríamos ante un conflicto colectivo como puede ser una huelga.
Perfilando los conceptos, la desobediencia se produce ante
incumplimientos de las órdenes impartidas, y la indisciplina sería una
contravención de las instrucciones, órdenes y preceptos contenidos en una

156 Art. 21.4 de la Ley Orgánica 1/2004, de 28 de diciembre, de Medidas de


Protección Integral contra la Violencia de Género: Las ausencias o faltas de
puntualidad al trabajo motivadas por la situación física o psicológica derivada de la
violencia de género se considerarán justificadas, cuando así lo determinen los
servicios sociales de atención o servicios de salud, según proceda, sin perjuicio de
que dichas ausencias sean comunicadas por la trabajadora a la empresa a la mayor
brevedad. Velasco Portero, M.ª T, «El despido de la trabajadora víctima de violencia
de género», en Pérez Amorós, F. (director), Fusté Miquela, J. M., La extinción del
contrato de trabajo, Bomarzo, Albacete, 2006, pág. 229.
157 Convenio colectivo general del sector de mantenimiento y conservación de
instalaciones acuáticas (BOE de 19 de agosto de 2014, n.º 201).
158 Diéguez, G., Lecciones de Derecho del Trabajo, 2.ª edic., Civitas, Madríd,
1988, págs. 205 a 209. González González, A., El Despido. Cuestiones prácticas,
jurisprudencia y preguntas con respuestas, Lex Nova, Valladolid, 2009, pág. 33 a
36.
norma general159. La Norma Sustantiva Laboral configura como deber básico
de los trabajadores cumplir con esas órdenes e instrucciones 160.
A diferencia de las faltas de asistencia y puntualidad, la actual causa
objeto de análisis sí implica una mayor carga emocional entre las partes
implicadas, lo que puede llevar a la creencia, cierta, de la dificultad de
someterla a conciliación-mediación.
Así, el mayor obstáculo al que nos enfrentarnos en los casos de
indisciplina o desobediencia es el deterioro de la relación entre
empleador/jefe y trabajador y, en función de ello, la voluntariedad de los
sujetos implicados en querer participar o no en un proceso de conciliación-
mediación.
A pesar de la dificultad apuntada, el empresario/jefe en muchos casos
debe reflexionar y sopesar su modo de proceder, pues en algunos supuestos
es el causante de la presunta indisciplina o desobediencia al impartir órdenes
e instrucciones ilegitimas, al no estar amparadas por el contrato de trabajo.
De este modo antes de promulgarse el ET, el trabajador debía una obediencia
absoluta al empresario; débito que estaba matizado por el principio “obedece
y luego reclama”; una vez vigente dicho Cuerpo Normativo, y tomando
como pieza angular el contrato de trabajo que legitima el ejercicio regular
del poder de dirección, el trabajador solo debe una obediencia justa.
Los despidos basados en el ejercicio irregular del poder de dirección que
dan como fruto órdenes injustas, véase la desobediencia por negarse a
trabajar fuera de la jornada habitual o llevar a cabo una prestación en nada
relacionada con su contrato de trabajo 161, son susceptibles de ser encauzados
a través de la mediación-conciliación y, en este sentido, también son
ejemplos del ejercicio irregular del poder de dirección las órdenes que
afectan:

➢ 1. A los derechos irrenunciables del trabajador;


➢ 2. A la dignidad del trabajador;
➢ 3. Supongan abuso de derecho por parte del empresario;

159 Carro Igelmo, A. J., El despido disciplinario, Bosch, Casa Editorial,


Barcelona, 1984, págs. 76 y 77. Aguilera Izquierdo, R., Las causas del despido
disciplinario y su valoración por la jurisprudencia, op. cit., pág. 125.
160 García-Perrote, I., Manual de Derecho del Trabajo, 3.ª edic., Tirant lo Blanch,
Valencia, 2013, pág. 620. Art. 5 Deberes laborales del ET. - Los trabajadores tienen
como deberes básicos: (...) c) Cumplir las órdenes e instrucciones del empresario en
el ejercicio regular de sus facultades directivas (...). Precepto que debe ponerse en
conexión con el art. 20 Dirección y control de la actividad laboral. (...) 2. - (...) las
órdenes o instrucciones adoptadas por el empresario en el ejercicio regular de sus
facultades de dirección (...).
161 Alonso García, M., Curso de Derecho del Trabajo, 7.ª edic., Ariel, Barcelona,
1981, pág. 563.
➢ 4. En general, todas aquellas órdenes que se incumplan de forma
razonable (ius resistentiae), valorando en primer lugar, la
regularidad o no de la orden impartida y, en segundo lugar,
aplicando la regla general “obedece y luego reclama”, con
excepciones a la misma, por ejemplo, cuando se imparten órdenes
peligrosas que pongan en peligro su integridad física162.

Ejemplos típicos de desobediencia aptos para someterse a los sistemas


alternativos de resolución de conflictos son los ocasionados por la movilidad
geográfica, funcional, cambio de horario, vacaciones, permisos.

Las ofensas verbales o físicas al empresario,


o a las personas que trabajan en la empresa, o a los
familiares que convivan con ellos (art. 54. 2 c) del ET
A través del contrato de trabajo se crea una comunidad de trabajo, no solo
entre el empresario y el trabajador sino con el resto de compañeros. Además,
el precepto hace extensivo esta conducta inapropiada a los familiares de
todos los anteriores163.
En esta casuística lo fundamental es el deterioro de las relaciones
interpersonales, pues implica una falta de respeto mutuo que afecta, de un
lado, al clima laboral y, de otro, a la dignidad de la persona.
Ante estos supuestos en los que se atenta contra la pacífica convivencia y
el buen orden que debe presidir en toda organización, procede extinguir el
contrato de trabajo basado en estos supuestos de despido disciplinario 164; sin
embargo, entendemos que el papel de la conciliación-mediación puede ser
crucial, siempre y cuando los sujetos implicados estén dispuestos a
someterse al procedimiento.
Es cierto que con estas conductas se rompen las bases mínimas de
convivencia en esa pequeña sociedad que es la empresa; nos planteamos que
si cabe la mediación penal ante supuestos análogos, ¿por qué no es adecuada
asimismo en el ámbito laboral? Estableciendo el paralelismo con el ámbito
penal, en el que se puede mediar y solucionar el conflicto puesto que en
muchos supuestos no había esa previa relación de confianza, o si la había

162 Aguilera Izquierdo, R., Las causas del despido disciplinario y su valoración
por la jurisprudencia, op. cit., págs. 128 a 141.
163 Pérez Botija, E., El Contrato de Trabajo, op. cit., pág. 275. Igartua Miró, M.ª
T., «Ofensas verbales o físicas», en Gorrelli Hernández, J. (coordinador), El
Despido. Análisis y aplicación práctica. Tecnos, Madrid, 2004, págs. 87 a 100.
164 STS de 20 de abril de 2005, RJ 3532.
queda zanjado el mismo sin la necesidad de restablecer la confianza mutua
entre los sujetos implicados, que no tienen que mantener una relación; sin
embargo, en la relación laboral han de perdurar esos lazos de recíproca
confianza que implica, el contrato de trabajo, y ello solo se consigue por
medio de una adecuada conciliación-mediación, en la que empresario y
trabajador toman conciencia de sus propios errores y de cómo los ha
percibido su contrario. Una vez truncada de forma definitiva la relación de
confianza intrínseca al contrato de trabajo, la continuidad del mismo se ve
dificultada.
No obstante, habrá que valorar caso por caso y, sobre todo, examinar el
contexto en el que se produce la ofensa verbal o física. De esta manera,
habrá que evaluar el supuesto de hecho específico cuando dichas expresiones
están amparadas por el derecho fundamental a la libertad de expresión, no
siendo justificables ni los insultos ni los juicios de valor con ánimo de
ofender165.
Entendemos que son objeto de conciliación-mediación aquellos
improperios proferidos en el calor de una discusión en defensa de una
colectividad de trabajadores sin realmente ánimo de ofender a persona
alguna166; o cuando en el seno de un conflicto un representante de los
trabajadores ofende a otro167.

La trasgresión de la buena fe contractual, así como el abuso


de confianza en el desempeño del trabajo (art. 54.2 d)
La buena fe contractual está concebida como un principio que sirve de
límite para el ejercicio de los derechos 168. Así, toda comunidad tiende a una
convivencia pacífica, de tal modo que las relaciones jurídicas se regirán
conforme a la buena fe contractual, proclamada en el art. 1258 del Código
Civil: “Los contratos (...) obligan, no sólo al cumplimiento de los
expresamente pactado, sino también a todas las consecuencias que, según su
naturaleza, sean conformes a la buena fe (...)”.
La buena fe como principio general no es una creencia subjetiva; todo lo
contrario, es un comportamiento honrado y justo (bonus pater familias), en
donde cada una de las partes del contrato cumple y puede exigir conforme a
165 Martín Valverde, A., Rodríguez-Sañudo Gutiérrez, F. y García Murcia, J.,
Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 788.
166 STS de 27 de diciembre de 1989, RJ 1989\9091.
167 STSJ de Madrid, de 5 de marzo de 1999, AS 1999,607, nombrada en Aranzadi
Experto, «Despidos: Despidos disciplinarios», op. cit., pág. 11.
168 Art. 7 del Código Civil: 1. - Los derechos deberán ejercitarse conforme a las
exigencias de la buena fe. (...).
este modelo objetivo o standard jurídico, como modelo de conducta social.
En definitiva, la buena fe nos sirve para determinar con mayor precisión el
contenido del negocio jurídico169.
Dicho principio ayuda al adecuado cumplimiento del fin propuesto en el
contrato, del que deberán hacerse efectivas no solo las estipulaciones
contractuales, sino además, todas aquellas que redunden en el mejor
cumplimiento del mismo170; es por tanto una norma de integración del
contenido del contrato de trabajo. Así este obliga no solo a lo estrictamente
estipulado, sino también a todo aquello que derive de las exigencias de la
buena fe171.
Otro sector de la doctrina científica, sin desdeñar este esfuerzo por acotar
el principio general de buena fe, señala que estamos en presencia de un
concepto jurídico indeterminado o “norma abierta” 172, cuyo contenido no
puede establecerse con carácter general, sino que depende del supuesto
concreto al que ha de ser aplicado.
En el área del Derecho del Trabajo, el principio de buena fe está
incardinado dentro de los deberes laborales básicos y demás normas
concordantes del ET173, de tal modo que el trabajador ha de acomodar su
conducta y su prestación de trabajo a las exigencias del citado principio
general; en caso contrario, habilita al empresario para sancionar las
conductas contrarias a la buena fe, a través del despido disciplinario 174.

169 O´Callaghan Muñoz, X., Compendio de Derecho Civil, Parte General, T. I,


3.ª edic., Edersa, Madrid, 1997, págs. 223 y 224. Díez-Picazo, L. y Gullón
Ballesteros, A., Sistema de Derecho Civil, Introducción. Derecho de la persona.
Autonomía privada. Persona jurídica, Vol. I, op. cit., pág. 444. GARCÍA
VALDECASAS, G., Parte General del Derecho Civil Español, Civitas, Madrid,
1983, pág. 185.
170 Alfonso Mellado, C. L., Rodríguez Pastor, G. E., Salcedo Beltrán, M.ª C.
(coordinadores) et al. Extinción del Contrato de Trabajo, Tirant lo Blanch, Valencia,
2013, pág. 350.
171 Gómez Abelleira, F. J., La causalidad del despido disciplinario, Civitas -
Thomson Reuters, Navarra, 2009, págs. 198 a 204.
172 Domínguez Luelmo, A. (director), Comentarios al Código Civil, Lex Nova,
Valladolid, 2010, pág. 1372.
173 Art. 5 del ET: Deberes laborales. - Los trabajadores tienen como deberes
básicos: a) Cumplir con las obligaciones concretas de su puesto de trabajo, de
conformidad a las reglas de la buena fe y diligencia (...). Art. 20 Dirección y control
de la actividad laboral del ET. (...) 2. - En el cumplimiento de la obligación de
trabajar asumida en el contrato, el trabajador debe al empresario la diligencia y la
colaboración en el trabajo que marquen las disposiciones legales, los convenios
colectivos y las órdenes o instrucciones adoptadas por aquél en el ejercicio regular
de sus facultades de dirección y, en su defecto, por los usos y costumbres. En
cualquier caso, el trabajador y el empresario se someterán en sus prestaciones
recíprocas a las exigencias de la buena fe. (...).
En el precepto que estamos comentando, junto a la buena fe está el
“abuso de confianza”; éste caso, además de transgredir la buena fe, el
trabajador se aprovecha de una circunstancia que concurre solo en él, como
puede ser desarrollar su prestación laboral en determinadas situaciones (v.gr.:
vigilante de seguridad en turno nocturno), puestos de especial confianza
(guarda, cajero, etc.) o puestos de dirección, entre otros.
Hay una multiplicidad de actos son considerados como transgresiones de
la buena fe: concurrencia desleal, valerse en beneficio propio de bienes de la
empresa, ocultación de información a la empresa, trabajar estando de baja
por incapacidad temporal, sustracción de dinero o bienes de la empresa, etc.
En primer lugar, tales conductas implican una conculcación del principio
objeto de estudio; no obstante, esta variedad de actuaciones ha de ser
examinada caso por caso, llevando a término una valoración individualizada
de circunstancias variables, que no permiten generalizaciones fuera de cada
caso específico175.
Esta individualización necesaria convierte a tales conductas en objeto de
un proceso de conciliación-mediación. En situaciones como actuar con celo,
probidad, rectitud, lealtad, diligencia, honradez, etc., qué mejor que los
protagonistas de la mediación para transmitir a la contraparte cómo las
perciben, y por qué no han llegado a entendimiento alguno al no coincidir en
el enfoque ante los citados comportamientos.
A través de la conciliación-mediación, como proceso transformativo que
es, las partes en conflicto interiorizan cómo se ve afectado por estos
comportamientos la contraria, para de esta manera poder llegar a comprender
su modo de proceder y, si es posible, encontrar a un punto de equilibrio en
beneficio de ambos.

La disminución continuada y voluntaria en el rendimiento


de trabajo normal o pactado (art. 54. 2 e) del ET)
Lo trascendental de este motivo de despido es la voluntariedad del
trabajador en la disminución, de forma relevante, su rendimiento habitual en
el desempeño de su actividad laboral.
Debemos distinguir tres elementos concurrentes para estar en presencia
de esta causa de despido176:

174 Carrizosa Prieto, E., «Transgresión de la buena fe contractual y derechos del


trabajador. STC 192/2003, de 27 de octubre», en Temas Laborales, n.º 74/2004, pág.
251.
175 Por todas, STS de 28 de junio de 2006, RJ 2006, 8452.
176 Molero Manglano, A. (director) et al., Manual de Derecho del Trabajo, op.
➢ 1. Voluntariedad, en el sentido de ausencia de causa de justificación
que pueda amparar la conducta, tales como: motivos personales o
familiares de importancia (enfermedad propia o de un familiar,
embarazo de la pareja, etc.);
➢ 2. Parámetro objetivo de comparación que sirve para cuantificar la
bajada del rendimiento pactado;
➢ 3. Reiteración de la conducta, es esto, no puede ser algo esporádico,
tiene que haber una habitualidad. Dicha continuidad, en algunos
supuestos basta que observe en unos días; en otros, es necesario unas
semanas.

En definitiva, estamos en presencia de una disminución no justificada del


rendimiento que permanece en el tiempo. El nivel de rendimiento exigible
será el pactado en convenio colectivo, en el contrato de trabajo o el que nos
señale la costumbre del lugar177.
Ahora bien, ¿qué ocurre cuando el trabajador realiza durante cierto
tiempo su prestación por encima de los parámetros “pactados”, y
posteriormente, baja su rendimiento a dichos niveles? Entendemos como
este supuesto es un ejemplo claro de conciliación-mediación, más si cabe,
cuando la jurisprudencia se muestra dispar al considerarlo como motivo de
despido178.
El proceso de conciliación-mediación al estar basado en el diálogo
constructivo de las partes en continua búsqueda de una solución óptima para
ambas, será una buena oportunidad para clarificar qué motivó la bajada de
rendimiento y, una vez solventado el problema, restablecer la relación de
trabajo.

La embriaguez habitual o toxicomanía sí repercuten


negativamente en el trabajo (art. 54. 2 f) del ET
Esta causa motivadora del despido tiene dos elementos necesariamente
conectados: uno, tanto la embriaguez habitual como la toxicomanía, que
lleva de suyo esa habitualidad, son patologías; y, dos, ambas deben de
repercutir de forma negativa en el trabajo entendido en sentido amplio,
comprendiendo tanto la propia prestación laboral del enfermo, como por

cit., págs. 719 y 720. Resume las citadas notas la STS de 25 de enero de 1988, Tol.
2361936.
177 Montoya Melgar, A., Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 474.
178 La STS de 24 de febrero de 1990, Tol 2403604, por ejemplo, no está a favor
del despido, y sí la STSJ de Madrid de 22 de mayo de 1991, AS 1991, 2975.
cuanto afecta al clima laboral o al interés legítimo de la empresa y, siendo
más graves, cuando se ve perjudicada la seguridad y la salud en el trabajo 179.
No obstante, aunque no esté presente la nota de la habitualidad cabe el
despido por este motivo cuando los hechos revisten suficiente gravedad,
como puede suceder en el supuesto de un conductor profesional dedicado al
transporte público colectivo de viajeros, aun cuado no se materialice en un
accidente de tráfico180. Incluso hay algunos pronunciamientos de los
tribunales que no exigen que se “consuma o beba” en el centro de trabajo,
siempre y cuando tenga repercusión en la actividad laboral, o en la imagen o
interés de la empresa181.
No está demás mencionar que esta causa de despido no puede hacerse
efectiva en las empresas de inserción, pues éstas buscan la reinserción de las
personas que están en exclusión social con motivo de esas y otras
enfermedades similares (art. 14.3 Ley 44/2007)182.
El precepto es claro al utilizar el adverbio condicional “si”, en el sentido
de que el empresario solo podrá despedir al trabajador en el caso de que su
patología repercuta de forma negativa en el trabajo; si no fuera de este modo,
la empresa podrá fundamentar la extinción de la relación laboral por
despido, por ejemplo, al conculcarse el principio de buena fe al ejecutar la
prestación DE servicios, o al verse deteriorado el clima de trabajo 183.
Queremos destacar que esta causa específica de despido disciplinario nos
resulta innecesaria por cuanto que es perfectamente subsumible en los
motivos enumerados con anterioridad en el art. 54.2 del ET: el trabajador
está conculcando su deber de disciplina en el trabajo, el principio de buena

179 STSJ de Madrid de 11 de diciembre de 1989, AS 1989, 2839M.


180 STSJ del País Vasco, de 13 de mayo de 2010, Rec. 178/2010; STSJ de Castilla
y León (Valladolid), de 22 de diciembre de 2008, Tol 1450741.
181 STSJ de Andalucía (Málaga), de 9 de junio de 2000, Rec. 462/2000.
182 Ley 44/2007, de 13 de diciembre, para la regulación del régimen de las
empresas de inserción. En concreto, su art. 14 Extinción y suspensión del contrato.
(...) 3. - No será de aplicación a los trabajadores a que se refiere el artículo 2.1 d) de
esta Ley la causa de despido disciplinario establecida en el artículo 54.2 f) del
Estatuto de los Trabajadores. En los supuestos en que, durante la vigencia del
contrato, la empresa de inserción tuviera conocimiento de que el trabajador incurre
en la causa mencionada en el párrafo anterior, lo pondrá en conocimiento de los
Servicios Sociales Públicos competentes, a fin de que por los mismos se proponga al
trabajador afectado iniciar un proceso de deshabituación o desintoxicación. En este
caso, el contrato de trabajo podrá suspenderse cuando, a juicio de los citados
Servicios Sociales, fuera necesario para el éxito de dicho proceso. Si el trabajador no
iniciara dicho proceso de deshabituación o desintoxicación, o lo abandonara sin
causa justificada, se considerará un incumplimiento de las obligaciones asumidas en
el itinerario de inserción, siendo entonces de aplicación lo establecido en el artículo
54.2.f) del Estatuto de los Trabajadores.
183 STSJ del País Vasco, de 12 de diciembre de 2000, Tol 325135.
fe en la prestación laboral y, también, su deber de diligencia y trato adecuado
a los compañeros184. La repercusión negativa en el trabajo de estas patologías
se puede manifestar en ofensas verbales, físicas, disminución voluntaria y
continuada del rendimiento laboral, indisciplina o desobediencia, etc. 185.
Cierto sector de la doctrina argumenta que el precepto es contrario a la
Constitución, y concretamente al art. 14 186, al conferir un trato
discriminatorio a estas enfermedades frente a las restantes. Si para la
generalidad de las patologías se prevé en el ET la suspensión del contrato de
trabajo187, por qué en cambio la embriaguez habitual y la toxicomanía son
consideradas causas de despido. Con esta tipificación como causa de
despido, se está sancionando a un trabajador debido en su condición personal
de alcohólico o toxicómano, y no en atención a su conducta derivada de esos
estados188.
Entendemos que para estos supuestos la institución de la conciliación-
mediación no es la más idónea. Participar en estos procesos implica ir a él de
forma libre y voluntaria, pero sobre todo, con las facultades mentales plenas,
hecho que no sucede en los que padecen de alcoholismo o toxicomanía, los
cuales tienen su capacidad volitiva mermada, llegando a ser inimputables.
En razón de ello, las partes en conflicto no estarían en un plano de igualdad,
lo que haría inviable la conciliación-mediación o cualquier otro sistema de
resolución extrajudicial de conflictos. Tampoco la vía judicial con el despido
disciplinario es la más idónea, pues si a la enfermedad añadimos el despido
el problema se agravaría sin duda.
La opción óptima, pero por el momento irreal dado el cambio legislativo
que supone, es que estas patologías dieran lugar a una suspensión del
contrato de trabajo, si bien como fórmula intermedia no estaría de más que

184 STSJ de Asturias de 25 de octubre de 2013, AS\2013\3202.


185 Fita Ortega, F., «La relación laboral y en consumo de alcohol o sustancias
tóxicas: en torno a la conveniencia de suprimir la embriaguez habitual o toxicomanía
como causa autónoma de despido disciplinario», en Pérez Amorós, F. (director),
Fusté Miquela, J. M. (coordinador), La extinción del contrato de trabajo, Bomarzo,
Albacete, 2006, pág. 180.
186 Art. 14 de la Constitución. - Los españoles son iguales ante la ley, sin que
pueda prevalecer discriminación alguna por razón de nacimiento, raza, sexo,
religión, opinión o cualquier otra condición o circunstancia personal o social.
187 Art. 45. Causas y efectos de la suspensión del ET. - 1. El contrato de trabajo
podrá suspenderse por las siguientes causas: (...) c) Incapacidad temporal de los
trabajadores (...).
188 Fita Ortega, F., «La relación laboral y en consumo de alcohol o sustancias
tóxicas: en torno a la conveniencia de suprimir la embriaguez habitual o toxicomanía
como causa autónoma de despido disciplinario», en Pérez Amorós, F. (director),
Fusté Miquela, J. M. (coordinador), La extinción del contrato de trabajo, op. cit.,
págs. 180 y 181.
tuvieran reflejo en los convenios colectivos con estos efectos suspensivos de
la relación laboral.
El acoso por razón de origen racial o étnico, religión o convicciones,
discapacidad, edad u orientación sexual y el acoso sexual o por razón de
sexo al empresario o a las personas que trabajan en la empresa (art. 54. 2 g)
del ET).
La mayoría de los actos que componen este último apartado de las causas
de despido disciplinario, podrían incardinarse en otras de las ya descritas,
como por ejemplo, a través de la transgresión de la buena fe contractual u
ofensas verbales189. Ahora bien, con este tratamiento individualizado el
legislador pretende reforzar una serie de derechos básicos por afectar a la
igualdad de trato, a la integridad física y moral, o en general, a la dignidad
de la persona (art. 10 CE), norma pórtico para interpretar todos los derechos
fundamentales190.
Nos encontramos ante una serie de conductas que tienen una triple
vertiente: la primera y más importante, su repercusión en la persona
afectada, que puede llegar a padecer graves trastornos psicológicos al tener
que desarrollar su actividad laboral en un entorno ofensivo, intimidatorio,
humillante, degradante, hostil, etc., o incluso, en los supuestos más graves,
llegar a abandonar el puesto de trabajo; la segunda, el trabajador agente del
acoso, con independencia de su categoría o rango en la organización, ha de
estar sujeto a los poderes de organización y dirección de la empresa; y, por
último, en tercer lugar, la empresa círculo donde se producen unos hechos
perturbadores de la convivencia social, que incluso pueden repercutir en la
actividad productiva191.
Dentro de este amplio motivo de despido, podemos distinguir los
siguientes conceptos:

➢ 1. Acoso cuando está relacionado con una discapacidad es: toda


conducta no deseada relacionada con la discapacidad de una
persona, que tenga como objetivo o consecuencia atentar contra su
dignidad o crear un entorno intimidatorio, hostil, degradante,
humillante u ofensivo;
➢ 2. Acoso discriminatorio que se produce cuando se distingue a una
persona de forma peyorativa en razón de una causa discriminatoria,
véase el origen étnico, convicciones religiosas, orientación sexual o
edad;

189 Martín Valverde, A., Rodríguez-Sañudo Gutiérrez, F. y García Murcia, J.,


Derecho del Trabajo, op. cit., pág. 790.
190 STC 224/1999, de 13 de diciembre, Tol 2110.
191 Aranzadi Experto, «Despidos: Despidos disciplinarios», DOC 2012\305, op.
cit., pág. 19.
➢ 3. Acoso sexual se define como “cualquier comportamiento, verbal o
físico, de naturaleza sexual que tenga el propósito o produzca el
efecto de atentar contra la dignidad de una persona, en particular
cuando se crea un entorno intimidatorio, degradante u ofensivo” 192
cuya finalidad es obtener favores sexuales de la otra persona 193. En
palabras de la doctrina especializada se define como: “aquel tipo de
insinuaciones sexuales indeseables, o un comportamiento verbal o
físico de índole sexual que persigue la finalidad o surte el efecto de
interferir en el rendimiento laboral de una persona, o bien de crear
un ambiente de trabajo intimidante, hostil u ofensivo”194.

En relación con el acoso sexual, con carácter general se pretenden


proscribir del ámbito laboral aquellas conductas que objetivamente generen
un ambiente hostil, teniendo siempre presente, por un lado, la sensibilidad
del sujeto pasivo, y por el otro, las circunstancias concurrentes, así como la
intensidad de los actos y su reiteración195.
Respecto al acoso moral debemos distinguir dos componentes: uno
subjetivo, plasmado fundamentalmente en la intencionalidad de los actos
junto con el fin perseguido por ellos y, otro objetivo, percibido a través de la
actuación sistemática, reiterada y frecuencia de ésta. En palabras de los
tribunales: “(...) un desprecio hacia la persona del acosado al que se humilla
injustamente, haciéndole víctima de una íntima coacción psicológica de todo
punto inadmisible y facilitando, con ello, el aislamiento de esa persona que
sufre, consecuentemente, un claro demérito en la normal convivencia con los
demás. Los comportamientos propios de acoso tienden, en todo caso, a
socavar la moral de la persona acosada, haciéndole perder su autoestima y
sometiéndola a un proceso de aislamiento que degrada la consideración
personal y de la misma”196.
El acoso en sus distintas variantes pone de manifiesto la conducta abyecta
de determinadas personas; este comportamiento difícilmente se podrá
someter a conciliación-mediación, sobre todo, por los estragos que puede
llegar a producir en el sujeto pasivo de la conducta. Tal vez en supuestos

192 Blasco PelliceR, A., «Tema 16. - La extinción del contrato de trabajo por
voluntad del empresario», en Camps Ruíz, L. M. y Ramírez Martínez, J. M.
(coordinadores), Derecho del Trabajo, 3.ª edic., Tirant lo Blanch, Valencia, 2013,
pág. 488.
193 STSJ de las Islas Canarias (Santa Cruz de Tenerife), de 21 de julio de 2009,
Tol 1648735.
194 Pérez Del Río, T., «Acoso sexual en el trabajo», Doctrina, Tirant lo Blanch,
13-02-2014, Tol 4.091.533.
195 STSJ de Islas Canarias (Santa Cruz de Tenerife), de 30 de junio de 2011, Tol
2200119.
196 STSJ de Madrid, de 24 de noviembre de 2008, Tol 1446513.
excepcionales se podría acceder al inicio de un proceso de conciliación-
mediación, pero solo en aquellos supuestos en los que el acosado esté en sus
plenas capacidades intelectivas, volitivas y afectivas.
Para evitar estas actuaciones multiofensivas que afectan a una pluralidad
de derechos fundamentales (libertad, desarrollo integro de su personalidad,
integridad física y moral, dignidad, intimidad, convicciones religiosas,
igualdad) lo mejor es, primero, educar en el respeto y, segundo, ya con
carácter más específico, implantar en la empresa una serie de medias
preventivas con la colaboración de los órganos de representación de la
empresa o, incluso, a través de la negociación colectiva mediante el
establecimiento de Códigos de Conducta con la finalidad de que estos
hechos no se produzcan, implementando la difusión de los citados códigos
de buenas prácticas, a través de campañas informativas o desarrollando
acciones formativas y, si tuvieran lugar, arbitrando los mecanismos
pertinentes para resolver el problema o, en su caso, intentando evitar que se
reproduzcan. Con ello se abre la posibilidad de implantar a través de la
negociación colectiva la solución de estos graves conflictos por medio de la
mediación, siempre con la prevención apuntada más arriba 197.

Conclusiones
Primera - Consideramos que se parte de un error de concepto o de raíz:
sin bien los sistemas alternativos de resolución de conflictos encuentran su
razón de ser en la voluntariedad de las partes implicadas, sin embargo
nuestro ordenamiento jurídico-laboral regula la conciliación-mediación
como requisito previo para impugnar el despido ante el orden jurisdiccional
social, con lo que estamos destruyendo la piedra angular de estos sistemas
alternativos a la vía judicial, esto es, la nota de la voluntariedad. Las partes,
197 Ley Orgánica 3/2007, de 22 de marzo, para la igualdad efectiva entre mujeres
y hombres, en su Artículo 48 Medidas específicas para prevenir el acoso sexual y el
acoso por razón de sexo en el trabajo, indica: 1. Las empresas deberán promover
condiciones de trabajo que eviten el acoso sexual y el acoso por razón de sexo y
arbitrar procedimientos específicos para su prevención y para dar cauce a las
denuncias o reclamaciones que puedan formular quienes hayan sido objeto del
mismo. Con esta finalidad se podrán establecer medidas que deberán negociarse con
los representantes de los trabajadores, tales como la elaboración y difusión de
códigos de buenas prácticas, la realización de campañas informativas o acciones de
formación. 2. Los representantes de los trabajadores deberán contribuir a prevenir el
acoso sexual y el acoso por razón de sexo en el trabajo mediante la sensibilización
de los trabajadores y trabajadoras frente al mismo y la información a la dirección de
la empresa de las conductas o comportamientos de que tuvieran conocimiento y que
pudieran propiciarlo. Pérez Del Río, T., «Acoso sexual en el trabajo», op. cit., págs.
3 a 6.
esto es, empresario, trabajador y abogados o graduados sociales de ambos,
acuden “obligados” a las dependencias del CMAC, con el único objeto de
cumplir ese “trámite previo”.
Nuestra cultura se apoya en la confrontación, en la que unos ganan y
otros pierden, y no en la cultura integrativa cuyo fin último es que ganemos
todos (win-win), creando un ambiente de respeto, de colaboración y de
confianza mutua, para poder discernir cuáles son las prioridades y las
diferencias de cada una de las partes, lo que nos ayudaría a identificar las
hipotéticas alternativas a la solución del conflicto.
Cuando se manifiesta el despido disciplinario, lo primero que debemos
pensar es que el conflicto que ha desembocado en la extinción de la relación
laboral se ha gestionado, casi con toda certeza, desde la óptica de conceptuar
el conflicto como algo negativo, disfuncional. Sin embargo, tenemos que ser
conscientes de que vivir en sociedad o pertenecer a una organización, en este
caso empresarial, implica relaciones humanas y de trabajo causantes de
conflicto, pero puede ser asumido como una oportunidad de construir y
beneficiar a trabajador y empresario.
Segunda - Del mismo modo que los agentes sociales han desarrollado
toda una normativa convencional, cuyo objeto es solventar los conflictos
colectivos fuera de los tribunales, también deben asumir el compromiso de
actuar de forma análoga en relación al conflicto individual y, por ende,
respecto al despido disciplinario, mediante la firma de acuerdos
interprofesionales o sobre materias concretas o, incluso en convenios
colectivos sectoriales y, por qué no, de empresa, que regulen la conciliación-
mediación en el seno de la empresa, o a través de entidades privadas.
Tercera - Que la negociación colectiva reconozca la posibilidad de crear e
implantar centros privados de conciliación-mediación, dentro o fuera de la
empresa, supone: por un lado, una predisposición a solucionar el conflicto, y
por otro, su contribución a atenuar la nota de la obligatoriedad de la que
antes hemos hablado, al ser un órgano creado y pactado por las partes
posteriormente implicadas en el conflicto.
Siendo esto así, la actitud frente al conflicto por cada una de las partes es
ya diferente: se acudirá a los centros de conciliación-mediación privada con
verdadera voluntad e intención de llegar a un acuerdo que satisfaga a ambas
partes dentro de ese proceso integrador, pues tanto empresario como
trabajador están interesados en controlar y tener la certidumbre de cómo se
solucionará su conflicto, a diferencia de lo que ocurre en la vía
jurisdiccional.
Cuarta - Tras analizar todas y cada una de las causas motivadoras del
despido disciplinario, desde la perspectiva doctrinal, jurisprudencial y de la
negociación colectiva, llegamos a la conclusión de que no podemos dar
soluciones unívocas ante distintos supuestos de hecho, aunque todos ellos
sean subsumibles en el enunciado de alguna de las causas de despido
establecidas legalmente. Es determinante para la graduación de las
infracciones, no solo valorar las circunstancias subjetivas del afectado, sino
distintos factores como la trascendencia, importancia e intencionalidad de su
comportamiento constitutivo de un incumplimiento grave y culpable; todo
ello bajo el prisma de la realidad social imperante en cada momento.
Igualmente habrá que ponderar, por un lado, el puesto de trabajo
desempeñado y, por otro, el quebranto económico o de imagen que con tal
actuación se haya podido ocasionar a la empresa.
Toda esta multiplicidad de aspectos se refleja en la distinta graduación
que hacen los convenios colectivos de tales comportamientos; así, no tiene la
misma relevancia que llegue tarde a su puesto de trabajo un vigilante de
seguridad que un administrativo; por todo eso la conciliación-mediación es
el mecanismo idóneo para resolver estos conflictos, en los que subyace la
tensión permanente entre la libertad de empresa y la estabilidad en el
empleo.
Quinta - Defendemos la institucionalización de la conciliación-mediación
en el seno del procedimiento sancionador como fase previa al despido
disciplinario, ya sea ante el organismo administrativo, o privado constituido
en virtud de la autonomía colectiva, siempre con carácter facultativo para no
conculcar el principio de voluntariedad que preside los sistemas alternativos
de resolución de conflictos.
El fin último es evitar, en la medida de lo posible, la extinción de la
relación laboral a instancias del empresario. Más aún, favorece la evolución
del Derecho del Trabajo en su vertiente individual, tal y como se ha
conseguido en el ámbito colectivo, con el recurso al diálogo y a la
comunicación, desde un enfoque positivo del conflicto entendido como
oportunidad de mejorar el clima laboral y las relaciones interpersonales.

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STC 224/1999, de 13 de diciembre (BOE de 20 de enero de 2000, n.º 17).

Sentencias del Tribunal Supremo


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Sentencias de los Tribunales Superiores de Justicia.
STSJ de Asturias de 25 de octubre de 2013, AS\2013\3202.
STSJ del País Vasco, de 13 de mayo de 2010, Rec. 178/2010.
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WEBS
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edic., Espasa, Madrid, 2001 (http://www.rae.es)
Adquirir competencias en resolución
de conflictos
Icíar Fernández Villanueva y Cristina Merino Ortiz -
Universidad del País Vasco

Introducción
En la actualidad, el análisis de los conflictos y los procesos de resolución
mediante estrategias cooperativas es una materia de estudio en los grados
universitarios de Psicología, Criminología y Trabajo Social de la
Universidad del País Vasco (UPV-EHU). Se trata de una asignatura de tercer
curso de grado y de carácter obligatorio para el alumnado de Psicología y
Criminología, siendo optativa en el grado de Trabajo Social.
El interés de iniciar este estudio surge en el 2011, ante el reconocimiento
de esta materia como troncal en el programa docente de Psicología. En ese
momento se diseñaba un estudio piloto sobre el que posteriormente se centró
la investigación durante los cursos académicos 2012-2013 y 2013-2014. La
motivación del equipo docente para poner en marcha este trabajo era doble:
por una parte, conocer el impacto que la asignatura pudiera causar en
jóvenes de 20 y 21 años de edad para su aprendizaje personal en la gestión
de conflictos. Por otro lado, obtener un feedback del contenido de esta
asignatura por parte de las personas destinatarias que nos sirviera como
evaluación a quienes impartimos esta materia.
La premisa de partida era pensar que formación en materia de gestión de
conflictos ofrece a las personas la oportunidad de asimilar e interiorizar
conceptos clave del análisis de los conflictos e incorporarlos a su vida
personal. El objeto de esta investigación es constatar si la adquisición de las
destrezas y las competencias que figuran en el programa docente transciende
el contenido curricular, poniendo de manifiesto que se obtiene un
aprendizaje significativo extrapolable a su vida personal contextualizado en
un supuesto relacional de amistad y connotación afectiva.

Imparcialidad y capacidad empática


El principio de imparcialidad es uno de los principios de la mediación
más cuestionados. La imparcialidad ha sido identificada en diversas
investigaciones como un sinónimo de neutralidad, en el sentido de que
ambos conceptos representan el antídoto de la parcialidad, de los prejuicios
hacia una parte o de favoritismos (Rifkin, Millen, Cobb 1991). Por tanto, se
incumple este principio de imparcialidad cuando una de las partes tiene una
relación previa con la persona mediadora o existe un interés especial en que
se tomen una serie de decisiones o acuerdos. Asimismo, se considera
vulnerada la imparcialidad cuando se manifiesta un rechazo, real o aparente,
hacia una de las partes o con relación a la obtención de un resultado.
Es decir, la pretensión de mantenerse imparcial entre las partes en
conflicto implica la necesidad de mantener equidistancia entre ellas así como
desarrollar empatía hacia cada una, para que no se sientan juzgadas por su
forma de actuar en el conflicto. En este sentido, es fundamental generar
confianza, ya que si la persona se siente cuestionada actuará a la defensiva lo
que aumentará su agresividad o pasividad a la hora de comunicarse.
Sara Cobb habla de neutralidad: ser activamente neutral o imparcial,
(Suares 2002). La imparcialidad aboga por no favorecer ni a uno ni a otro,
ofrecer un trato equivalente, garantizando la igualdad de oportunidades a las
partes. En última instancia la imparcialidad o neutralidad ha de ser entendida
como la autodeterminación de las partes (Douglas 2008); esto es, “que las
partes sean capaces de tomar sus propias decisiones con la mayor autonomía
posible, en la situación de mayor equilibrio entre ambas, pensando en los
intereses de los dos y en las otras posibles partes afectadas” (Merino, 2013:
94).

Asertividad y estilos de afrontamiento de los conflictos


El estilo de comunicación no violenta apuesta por la asertividad como
estilo de comunicación eficaz para la gestión colaborativa de los conflictos.
Dificultan las relaciones interpersonales y complican el afrontamiento eficaz
de los conflictos, los estilos de comunicación pasivo y el agresivo, en el que
la persona defiende sus intereses sin tener en cuenta a la otra parte ni a la
relación.
En general, las personas tendemos a responder a las situaciones de
conflicto con un estilo predominante de aproximación al mismo. Cuando
existe un conflicto hay un número limitado de métodos de enfrentarse a él.
Según Rubin y sus colaboradores las estrategias para afrontar los conflictos
serían: dominación, sumisión, retirada, inactividad, negociación o
intervención de terceras partes (Rubin, Pruit y Kim 1994).
Hoy en día, la mayoría de conflictólogos o teóricos del conflicto aceptan
el modelo bidimensional original de Managerial Grid, (Blake y Mouton
1964), como precursor de estas taxonomías, desarrollado posteriormente por
diversos autores, entre ellos Thomas&Kilmann, modelo que hemos utilizado
para este estudio.
La categorización de Thomas y Kilmann (1974) analizada en su TKI
(Thomas-Kilmann Conflict Mode Instrument), muestra que cada estilo de
afrontamiento de los conflictos se manifiesta en un conjunto de
comportamientos. Aunque un estilo suele ser el dominante, cada persona es
capaz de variar el estilo de comportamiento a medida que un conflicto se
desarrolla, empleando comportamientos situacionales. Los estilos que
categorizan estos autores son cinco: evitación, acomodación, confrontación,
compromiso y colaboración.

Negociación
La negociación es un proceso que se ejerce de forma espontánea desde el
momento en que dos personas interrelacionan y se debaten sobre un asunto
en el que ambas tienen interés. Cuando hablamos de negociación, en un
sentido formal, se hace referencia a un proceso de comunicación en el que se
respetan y desarrollan un estilo de compromiso en el afrontamiento de los
conflictos.
La negociación es una forma básica de obtener lo que se desea utilizando
la comunicación, tanto la verbal como la no verbal. Todas las personas
negociamos a diario. La negociación, además de una clasificación inicial en
formal o informal, se desarrolla de modo totalmente diferente en función del
estilo que se utilice: bien sea adversarial o colaborativo, basado en intereses.

Mediación
La mediación como estilo colaborativo en el afrontamiento de los
conflictos, se identifica como medida alternativa y/o complementaria al
proceso judicial ha sido definida de múltiples maneras. Concretamente
“mediación” deriva del latín medius-medium, que significa “en el medio”.
Así, las personas mediadoras se sitúan en medio del conflicto para ayudar en
la comunicación, exploración de opciones y toma de decisiones a las
personas que protagonizan ese conflicto.
Son múltiples las definiciones que se pueden encontrar sobre mediación.
Es destacable de todas estas definiciones que la mediación pone el énfasis en
la carencia de aspectos formales, en la comunicación abierta y directa, en el
reforzamiento de los vínculos positivos y la evitación de los reproches y
culpabilidades. Por ello, resulta de importancia destacar que la mediación lo
que ofrece es precisamente un espacio físico y un tiempo, aspectos
facilitadores y necesarios para el diálogo.

Método
Muestra
La población objetivo son estudiantes, de la Universidad del País Vasco,
de tercer curso de los grados de Psicología y Criminología que cursan la
asignatura “Análisis y Resolución de Conflictos” así como los estudiantes
del grado de Trabajo Social que cursan: “Métodos y Técnicas de
Transformación de Conflictos”. Ambas son impartidas por el equipo docente
del departamento de Procesos Psicológicos Básicos y su Desarrollo
(Facultad de Psicología de la EHU/UPV).
La muestra se ha recogido en dos cursos diferentes: en 2012/2013 se
obtuvieron 318 respuestas, 168 en el pretest y 205 en el postest; de los cuales
127 completaron el ejercicio en ambos momentos (pre y postest). En
2013/2014 se obtuvieron 310 respuestas, 150 en el pretest y 160 en el
postest; de los cuales 120 completaron el ejercicio en ambos momentos.

Los análisis estadísticos realizados se centran exclusivamente en la


muestra de 247 sujetos que contestaron tanto el pretest como el postest. El
48,6 % de la muestra es del curso 2012/13 y el 51,4% es del curso
2013/2014. La mayoría de la muestra estudia el grado de Psicología, un
58,3%; el 25,9% estudia Criminología y el 15,8% restante realiza estudios de
grado de Trabajo Social. La muestra se divide en 77,7% mujeres y 22,3%
hombres; con edades próximas a los 20 años, siendo la media de edad los 23
años con una varianza de 44,3 y desviación típica de 6,6. Se repartieron dos
versiones diferentes del instrumento: la versión A, cuyo protagonista es un
varón, en el pretest la contestaron el 49,8% de la muestra y en el postest un
51,4%. La versión B, en la que la protagonista es una mujer, la completaron
en el prestest un 50,2%, y en el postest un 48,2%.

Diseño
El objetivo principal de la investigación es demostrar que las personas
que cursan las asignaturas Análisis y Resolución de conflictos & Métodos y
técnicas de transformación de conflictos, mejoran habilidades y
herramientas eficaces para manejar sus conflictos cotidianos. Mediante el
instrumento creado se contrastarán las siguientes hipótesis de trabajo.

➢ Tras cursar la asignatura, mejora la capacidad empática del


alumnado en la medida en que tienden a juzgar por igual a las
personas que representan las distintas partes del conflicto,
independientemente de que sean hombres o mujeres;
➢ Tras cursar la asignatura, mejorar la gestión de alternativas para
afrontar el conflicto de un más colaborativo y asertivo;
➢ Tras cursar la asignatura, tenderán a proponer más la negociación
como método de transformación de los conflictos afectivos y
relacionales;
➢ Tras cursar la asignatura, tenderán a proponer más la mediación
como método de transformación de los conflictos afectivos y
relacionales.

Instrumento de medida
Se crea un instrumento, con una situación figurada de conflicto afectivo
entre jóvenes y un cuestionario ad hoc que combina variables de tipo
cuantitativo y de tipo cualitativo, que permiten que los datos estadísticos
vayan acompañados de aclaraciones de orden cualitativo. El instrumento
creado se aplica en dos momentos diferentes: al comienzo de la asignatura
(medida pretest) y al finalizar el cuatrimestre (medida postest). Esto permite
hacer medidas comparativas entre el comienzo y el final de la asignatura,
para concluir si se han obtenido diferencias significativas en el aprendizaje e
interiorización de conceptos y estrategias de afrontamiento de los conflictos
trabajados.
El instrumento consta de dos partes, la primera en la que se presenta la
situación: en la versión A un chico como protagonista y en la versión B una
chica es la protagonista de la historia. La segunda parte del instrumento
incluye una batería de preguntas de las que seleccionamos cuatro para los
análisis que presentaremos.
Para medir el grado de empatía y realizar comparativas analizamos la
respuesta cuantitativa a la pregunta acerca de cómo valora a cada uno de los
protagonistas de la situación planteada. La segunda pregunta analizada hace
referencia a los estilos de afrontamiento basado en la categorización de
Thomas y Kilmann (1977), quienes distinguen cinco modos diferentes de
responder ante los conflictos: evitación, acomodación, competición,
compromiso y colaboración. Partiendo de estos cinco estilos se dicotomiza la
variable, agrupando las tres primeras opciones en estilo de comunicación
pasivo-agresivo (evitación, acomodación y competición) y las otras dos
como paradigma de la comunicación asertiva (compromiso/negociación y
colaboración/cooperación). La tercera pregunta alude a un posible proceso
de negociación y la última, hace referencia a un posible proceso de
mediación como vía para solucionar el conflicto afectivo-relacional.

Procedimiento
El trabajo de campo se implementó durante dos cursos, en dos momentos
diferentes. Al comienzo de la asignatura, en enero de 2013 y enero de 2014
respectivamente; y al finalizar el curso en mayo de 2013 y 2014. La prueba
se hizo en el aula, de forma individual y anónima (las personas participantes
utilizaron un seudónimo para poder comparar los prestest con los postest).
Una diferencia importante observada al realizar el trabajo de campo es que
en todos los casos las personas tardaban menos tiempo en completar la
prueba postest que la pretest, siendo la misma prueba. Esto da muestra de la
familiaridad que el alumnado tiene con los conflictos y los métodos de
resolución de los mismos al final de curso, mayor que al comienzo de la
asignatura.

Análisis de datos
Los datos recogidos con el instrumento creado se trabajan mediante el
análisis de contenido (ATLAS.ti) para las variables cualitativas y los análisis
estadísticos descriptivos y comparados (SPSS) de las medidas pretest y
postest, durante dos cursos consecutivos (2012/13 y 2013/14), desde una
perspectiva de género y en función de los estudios que cursan (Grado de
Psicología, Criminología o Trabajo Social).
A partir de las preguntas planteadas se crean las variables de respuesta
que se recogen en la siguiente tabla:
Cuadro 2. Variables. Categorías y codificación de cada variable.
Fuente: elaboración propia
Cada una de las categorías de estas variables van asociadas a un número
que son la codificación que se emplea para analizar los datos
estadísticamente que a modo de resultados exponemos a continuación.

Resultados
La lógica en la presentación de resultados responde a las hipótesis de
estudio planteadas previamente y se recogen bajo los epígrafes que engloban
cuatro grandes temas: la imparcialidad, relacionada con la capacidad
empática de la persona mediadora; la asertividad que se deriva del análisis
de los estilos de afrontamiento ante el conflicto; la negociación y la
mediación como posibles alternativas de gestión del conflicto.

Imparcialidad
La empatía está muy vinculada con el principio de imparcialidad de los
procesos de mediación. La capacidad de empatizar no se limita a empatizar
con la parte con la que siente mayor simpatía, mayor afinidad, la persona
mediadora ha de empatizar con todas las partes en conflicto y no tomar
partido por ninguna de ellas. Las partes en conflicto son quienes le van a dar
a quien media (o simplemente escucha) la legitimidad que necesita para
velar por el proceso manteniéndose imparcial.

Gráfica 1. Resultados sobre variable empatía


Los resultados muestran cómo la imparcialidad ha aumentado
sustancialmente. Al comienzo sólo el 28,7% de la muestra fueron
imparciales y al finalizar el curso el 42,5% del alumnado participante se
mostró imparcial, valorando a todos los protagonistas por igual.
Quienes no puntuaron igual a los tres personajes de la situación
experimental: en torno al 25% empatizaron más con la persona que contaba
la historia. En concreto en el pretest un 24,5% y en el postest un 26,3%.
Cabría pensar que en un primer momento las alumnas valoran más alto a la
persona de la que obtienen la versión porque es la que les narra lo sucedido
desde su perspectiva subjetiva y por lo tanto sesgada. Sin embargo, tener una
sola versión puede provocar el efecto contrario, en torno al 15% evalúa más
negativamente a la persona protagonista que a las otras dos.
Hay quienes empatizaron más con la otra parte: un 9,7% en el pretest y
un 8,3% en el postest; en este caso las explicaciones que dio la protagonista
entendieron que la otra parte tenía más razón. Y por el contrario, un 5,1% en
el pretest y un 3,3% en el postest culparon de la situación a la otra parte del
conflicto (la chica en la versión A y el chico en la versión B).
Un porcentaje similar se da entre quienes juzgan que tiene más razón la
tercera persona en conflicto (pretest: 10,1% y postest: 8,8%) y quienes
culpan más a ese amigo o amiga que interfiere en la relación de pareja
(pretest: 6,3% y postest: 3,3%).
En relación a la hipótesis vemos que, si bien las diferencias no son
estadísticamente significativas, un 14% del total de la muestra ha valorado a
todas las partes por igual buscando la imparcialidad. Cualitativamente, al
preguntar por qué daban esa puntuación, los argumentos señalan hacia la
motivación que apunta nuestra hipótesis: valorar por igual a todas las partes
implicadas en el conflicto sería lo deseable desde el punto de vista
profesional, cuando el equipo mediador no toma partido por ninguna de las
partes y es capaz de empatizar con todas ellas.
“No me puedo posicionar, ya que solo conozco una pequeña parte de él.
Además lo poco que sé de éste es desde un punto de vista en el que existe
tensión y conflicto, por lo que generalmente no actuará del mismo modo”.
(Postest, mujer, 21, Psicología).
Con el objeto de detectar un posible sesgo de género en cuanto a que si
quien juzga es hombre o mujer, si su valoración tiene que ver con que la
protagonista es hombre o mujer; analizamos la variable empatía en relación a
la variable sexo y el análisis de contingencia nos muestra que existe una
coherencia entre lo que opinan al principio y al final de curso y que esa
coherencia es estadísticamente significativa especialmente en mujeres.
Hombres: Chi-cuadrado: 59,492 / GL:36 / sig.:,008** / V-Cramer:,445
Mujeres: Chi-cuadrado: 103,829 / GL:36 / sig.:,000*** / V-Cramer:,309
Y el análisis de contingencia en función de cuál era la versión que
respondían, la del chico y la de la chica, se obtiene una relación estrecha
entre el pretest y el postest, especialmente ente quienes contestaron la
versión en la que la protagonista era una mujer.
Versión A: chico: Chi-cuadrado: 64,196 / GL:36 / sig.:,003** / V-
Cramer:,309
Versión B: chica: Chi-cuadrado: 97,516 / GL:36 / sig.:,000 ***/ V-
Cramer:,370
También existe coherencia entre las respuestas en el pretest y en el
postest en todos los grados; en Criminología algo menos, pero también
estadísticamente significativa.
Psico: Chi-cuadrado: 90,399 / GL:36 / sig.:,000*** / V-Cramer:,329
Crimi: Chi-cuadrado: 19,975 / GL:1 / sig.:,000*** / V-Cramer:,453
T.Soc: Chi-cuadrado: 6,975 / GL:1 / sig.:,008** / V-Cramer:,581

Análisis de género
El análisis de contingencia entre las variables: empatía & versión & sexo
nos muestra que las mujeres tienden a empatizar más con el protagonista
cuando es una chica -versión B- (n=35 / Z=+3,1). Y esta relación es
estadísticamente significativa en el pretest (Chi-cuadrado= 23,1 / GL:6 /
sig.:,001**) y no en el postest (Chi-cuadrado= 16,6 / GL:6 / sig.:,011). Si
bien en el postest se ha podido observar que existe también una relación
estrecha entre las mujeres que empatizan más con la protagonista cuando es
mujer (n=23 / Z=+3) y le culpan más cuando es varón(n=21 / Z=+2,4).
Entre los hombres participantes también se observa una mayor empatía
con la protagonista cuando es chica que cuando es chico (n=28/39; z=+3,2).
Pero esta diferencia no es estadísticamente significativa Y también se
observa que en los varones tienden a empatizar más con la tercera persona
cuando es un chico, en la versión A del cuestionario, (n=6/6; Z=+2,3); si bien
no es una diferencia significativa estadísticamente (Chi-cuadrado: 15,316 /
GL:6 / sig.:,018 / V-Cramer:,253).
En general, pese a que no obtener diferencias estadísticamente
significativas (Chi-cuadrado: 15,316 / GL:6 / sig.:,018 / V-Cramer:,253), se
tiende a empatizar más con la protagonista cuando es chica que cuando es
chico (n=28/39; z=+3,2).

Afrontamiento de los conflictos


El análisis de los conflictos presta atención a cómo se responde ante los
conflictos y en este caso cuando se les pedía a los sujetos que se pusieran en
la piel del protagonista y pensaran en cómo reaccionaría ante esa situación,
las respuestas fueron las siguientes:
Gráfica 2. Resultados de la variable: estilos de afrontamiento

Un 11,8% al comienzo y un 6,1% al final de curso optarían por no hacer


nada y evitar así el conflicto. La respuesta menos aceptada es la de ceder y
acomodarse a las exigencias de la otra parte, el porcentaje es menor de 0,5%
en ambos momentos. Como también residual es el estilo de afrontamiento
que apuesta por la confrontación, en torno al 1,5%. La mayoría de los
participantes optan por una solución negociada del conflicto o bien por
aquellas alternativas que implican compromiso, donde ambas partes están
dispuestas a perder algo para poder ganar algo. En el pretest es el 35% y en
el postest el porcentaje aumenta hasta casi el 41% del total de la muestra. Y
otro amplio porcentaje opta por el estilo más colaborativo de afrontar el
conflicto; al comienzo casi un 25% y al finalizar el curso el 34,4% de la
muestra sigue apostando por la alternativa más cooperativa. El 27,2% de la
muestra da su propia alternativa de respuesta y este porcentaje disminuye en
el postest hasta el 16,6%.

Asertividad
Dicotomizamos la variable estilos de afrontamiento, creando una nueva
variable a la que llamamos asertividad; que agrupa por un lado los estilos de
afrontamiento asociados a un estilo comunicativo o bien agresivo o bien
pasivo. Esos estilos son la evitación y la acomodación como modos pasivos
de responder ante el conflicto y la competición como modo agresivo de
respuesta al conflicto. Y por otro lado la categoría que hace referencia al
estilo de comunicación asertivo propiamente dicho que son las respuesta de
compromiso-negociación y colaboración-cooperación.
Gráfica 3. Resultados sobre variable asertividad

Tal y como era de prever, en el pretest el 74,4% de la muestra optó por


medidas asociadas a un estilo de comunicación asertivo, y en el postest
mejoraron aún más los datos: el 86,4% de la muestra eligió medidas
asertivas.
Los análisis de contingencia entre esta variable y las variables: grado y
sexo no hallan diferencias significativas, por lo que se concluye que en todos
los estudios de grado y tanto en hombres como mujeres, se mantiene la
tendencia entre la respuesta dada al comienzo del curso y al finalizar el
mismo.
Entre las diversas estrategias de resolución de conflictos posibles se
analizan dos alternativas, la negociación como herramienta más conocida y
con la que el alumnado pudiera estar más familiarizado de partida y la
mediación.

Negociación
La negociación es una herramienta que las personas participantes
conocían de antemano. En esta ocasión, las alternativas de respuesta
planteaban rechazar una negociación para ese conflicto, o bien apostar por
una negociación o un rechazo encubierto a negociar, lo que hemos llamado
una negociación mal entendida:

➢ respuesta 4: Hablar sí, negociar no. Podría empeorar las cosas;


➢ respuesta 5: Intentarlo es positivo, teniendo mucho cuidado con
ahondar en el conflicto).
Los resultados muestran, ya desde el comienzo, una amplia aceptación de
la mediación como una forma viable de resolver la situación de conflicto. En
el prestest el 63,5% recurriría a la negociación y en el postest el 60,8%. El
porcentaje de personas que no negociarían en esta situación disminuye del
pretest al postest (-0,9%); sin embargo aumenta los que optarían por una
negociación mal entendida (+3,8%).

Gráfica 4. Frecuencias de la variable negociación

Los análisis descriptivos no confirman la hipótesis planteada para este


supuesto dado que en vez de aumentar la aceptación de la negociación como
método de resolución del conflicto el porcentaje ha disminuido (si bien
estadísticamente no es un cambio significativo), y el respaldo sigue siendo
mayoritario, más del 60%. En términos globales no hay diferencias
significativas en el antes y el después porque existe una relación de
contingencia entre el pretest y el postest (Chi-cuadrado: 50,630 / GL:6 /
sig.:,000*** / V-Cramer:,321).
El análisis de contingencia de la variable negociación con las variables
sexo y grado, nos confirma igualmente que existe una relación significativa
entre antes y después tanto en mujeres como en hombres.
Hombres: Chi-cuadrado: 24,184 / GL: 6 / sig.:,000*** / V-Cramer:,469
Mujeres: Chi-cuadrado: 28,668 / GL: 6 / sig.:,000*** / V-Cramer:,275
En relación a los estudios de grado la relación significativa entre el
pretest y el postest se ha obtenido tanto para el alumnado de Psicología como
para el de Criminología (Chi-cuadrado: 45,050 / GL:9 / sig.:,000*** / V-
Cramer:,325). Sin embargo, entre el alumnado de Trabajo social no se
confirma esto, excepto para quienes eligieron que querían negociar. Esto es,
quienes eligieron negociar lo hicieron tanto al comienzo como al final de
curso (n=13, Z=+2,4). Lo que este resultado nos muestra es que 13 personas
que eligieron negociar en el pretest también optaron por negociar en el
postest y esto estadísticamente es una frecuencia más alta que la que cabría
esperar por simple azar.

Mediación
La mediación es una de las herramientas principales, y novedosas para el
alumnado, que se estudian en esta asignatura. Y esto es precisamente lo que
reflejan los datos obtenidos, que al comienzo del cuatrimestre sólo el 45,9%
opta por mediar en la situación de conflicto planteada y al final de curso un
71% elegiría la mediación como un método viable para abordar el mismo
conflicto. En contraposición el porcentaje de personas que rechazan
abiertamente la mediación pasa de un 26,8% a un 13,5%. Y también se
reduce el porcentaje de lo que hemos llamado mediación mal entendida
(respuesta 2: sí que hablan con un amigo que les dé su opinión de lo que
deberían hacer); pasa de ser un 12,6% a un 7,8%. También existía la
posibilidad de dar una respuesta cualitativa (opción de respuesta abierta) y
en el pretest un 14,7% da una respuesta libre mientras que en el postest se
reduce a un 7,7%. En ambos momentos (pre y pos) el tamaño de la muestra
es el mismo N=245.
Las tablas de contingencias nos muestran una vez más que no hay
diferencias significativas en el antes y el después (Chi-cuadrado: 41,907 /
GL:9 / sig.:,000*** / V-Cramer:,239). La comparativa en función de la
variable sexo, sí que muestra diferencias de género. Mientras que en las
mujeres se confirma esa relación significativa entre el pretest y el postest
(Chi-cuadrado: 41,586 / GL:9 / sig.:,000*** / V-Cramer:,269). En los
hombres no hay significatividad estadística en este punto (Chi-cuadrado:
19,639 / GL:9 / sig.:,020). La relación sólo se confirma entre quienes
rechazan la mediación o quienes la acepta (de modo correcto), pero no entre
quienes confunden la mediación y optan por una mediación mal entendida
(que una tercera persona les diga lo que tienen que hacer).
Gráfica 5. Frecuencias de la variable Mediación

Fuente: elaboración propia

El análisis de contingencia entre la variable de mediación y los diferentes


estudios de grado apunta a que existe una relación significativa entre el antes
y el después sólo para los alumnos de Psicología (Chi-cuadrado: 45,050 /
GL:9 / sig.:,000*** / V-Cramer:,325). No se confirma la relación para el
alumnado de Criminología, excepto para los que eligieron la mediación bien
(n=26, Z=+2,5) que fueron más de los que cabría esperar por simple azar; ni
se confirma la relación entre los alumnos de Trabajo Social. La conclusión
en este punto sería por tanto que el aumento porcentual que se da en elegir la
mediación al final de curso está fundamentalmente entre el alumnado de
Criminología y Trabajo Social.

Discusión
La principal conclusión de este estudio es que el alumnado participante,
estudiantes de tercer curso de los grados de Psicología, Criminología y
Trabajo Social de la UPV-EHU, partió con una buena predisposición hacia la
resolución positiva de los conflictos. Cursar esta asignatura ha permitido
afianzar y en algunos casos mejorar cuestiones referidas a la capacidad
empática, la asertividad, la negociación y la mediación en relación a
conflictos interpersonales que como profesionales deberán afrontar en un
futuro.
A grandes rasgos podemos afirmar que ha mejorado la capacidad
empática de los y las futuras profesionales, en el sentido en que al final de
curso eran menos las personas que se posicionaban a favor de la parte más
vulnerable del conflicto o de la persona de la que recibían la versión de los
hechos; porque tendían a hacer una valoración equidistante y no
discriminatoria de los tres personajes.
Respecto al modo de afrontar los posibles conflictos, al final de curso
apenas un 13% no optaría por un método asertivo y colaborativo como el
modo más idóneo de gestionar una situación de carácter interpersonal. Más
del 86% negociaría o cooperaría con las otras partes para obtener un
resultado más satisfactorio para todas las partes en conflicto.
La negociación ya era un recurso conocido antes de cursar la asignatura
por lo que no ha habido un cambio significativo en cuanto a su aceptación.
Se considera un recurso disponible y viable para conflictos de orden
afectivo-relacional.
Uno de los resultados más destacados de la investigación es el importante
aumento en la aceptación de la mediación por parte del alumnado, como
método adecuado para el afrontamiento de este tipo de conflictos. Al
constatar que tras cursar la asignatura, el alumnado conoce mejor el recurso
de la mediación y aumenta su disponibilidad para ser utilizado en el ámbito
de los conflictos interpersonales propios y ajenos.
Los análisis de contingencia muestran el aumento del 25% en elegir la
mediación como una alternativa viable en conflictos relacionales que se da
entre el alumnado de Psicología, pero especialmente entre los de
Criminología y los de Trabajo Social; cabe interpretar que para los alumnos
y alumnas de Psicología, además de la mediación tal vez tengan en mente
otro tipo de abordaje más terapéutico para los conflictos de pareja y por eso
el porcentaje no haya variado tanto entre el pretest y el postest. En cualquier
caso queremos destacar que un 71% de la muestra global cuya opción es la
mediación como recurso al final del curso, es un resultado satisfactorio.
Otro resultado, más intangible pero no menos interesante, encontrado en
este estudio es que ha habido una evolución (un aprendizaje) en el alumnado.
Se ha producido una especie de giro epistemológico, de construcción de un
discurso común, o mejor dicho, de un lenguaje compartido que se ha hecho
evidente al aplicar el postest. Los sujetos tardaron menos tiempo en hacer la
prueba y plantearon menos dudas sobre el instrumento. La interpretación que
hacemos de esto es que al final de curso están mayormente familiarizadas
con el abordaje de los conflictos y por ello tardan menos tiempo en
completar el cuestionario.
Por otro lado, una de las limitaciones de este estudio es el tamaño de la
muestra, que si bien va aumentando año tras año con nuevo alumnado
(estudio transversal); sigue siendo insuficiente para poder constatar si los
cambios observados son estadísticamente significativos y aumentar así la
fiabilidad. Consideramos necesario que, para asegurar la validez de los
resultados, consideramos necesario aplicar el instrumento en población
universitaria que no curse esta asignatura de tal modo que se disponga de un
grupo de control que nos permitiera aumentar la validez a la hora de
generalizar los resultados obtenidos y poder afirmar que los cambios
observados se deben (especialmente) al hecho de haber cursado la asignatura
de Análisis y Resolución de Conflictos y Estrategias de Cooperación en la
UPV-EHU.

Bibliografía
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Suares, Marines, Mediando en sistemas familiares, Paidós, Buenos Aires
2002.
The subject’s emancipation in community mediation:
from judicial decision to conflict dealing
Fabiana Marion Spengler and Charlise Paula Colet Gimenez -
UNISC, Santa Cruz do Sul University

Introduction
The evolution of society as well as of the human being, regarding the
ways of solving conflicts, has progressed from self-defense to State power.
After that, State power was transferred to the Judiciary and it is represented
by the figure of the judge who has the power of deciding a conflict. How-
ever, the traditional ways do not reach the demands and they are generating
dissatisfaction among people. Taking into consideration these aspects, the
mediation has been proved to be the chosen consensual model between the
involved parts.
The changing ways of dealing with conflicts in order to answer the needs
of the involved parts allows the creation of a fair and free society which
gives place for diversity, freedom, individuality and equality among all
people who are capable and have positive needs. In fact, the community is
the adequate place to develop the mediation through autonomous and con-
sensual practice what creates a feeling of social inclusion.
Thus, the current research aims at approaching community mediation as a
public policy which characterizes a new citizenship culture having its basis
on the appreciation of the person as human being and through the equality
pact, promoting cooperation, understanding and consequently social justice.
This research adopted the hypothetic-deductive approach method and the
monographic procedure one as well.

Conflict inside social fabric


Conflict is a word that comes from Latin, conflictu, confligere, and it
means to fight, to shock or oppose ideas, and that is the reason why this
word is always related to a clash involving people or things. However, when
it comes to giving this word a concept, a hard task is generated because the
meaning can be connected to many different situations. The meaning can be
social, political or psychoanalytic; internal, external or involving families;
ethnic, religious or be related to values. (Spengler, 2010)
Our history reports that human evolution was followed by the existence
of conflicts and humanity has adopted many distinct ways to solve them.
These ways were through wars, physical fight, revenge and ordeal or through
the intervention of normative or judicial processes. (Gorczevski 2007)
Conflict can be established between a union and a company, between na-
tions, husbands and wives, among children etc. In the same way its existence
raises questions of intrapersonal, interpersonal, intra-collective, inter-col-
lective and international interests. (Deutsch 2004)
Therefore, the human path describes a kind of reality where the human
being always lived surrounded by conflict, and this is revealed under the way
of slavery, homosexuality, environmental preservation, freedom of belief,
women rights for equal treatment among other disputes which were not de-
bated. However, the evolution of human thinking created the possibility of
integrating conflicting sides and also satisfying their needs.
Thus, each society is strongly marked by the existence of positive and
negative conflicts. It is possible to notice the values and motivations of each
part involved in the conflict, the aspirations and objectives, the physical, in-
tellectual and social resources to evoke or deal with a conflict.
It is also possible to notice that each participant from a social interaction
responds to the other according to their perceptions and cognitions, which
cannot correspond to the reality of the other. In the same way, each parti-
cipant is influenced by their own expectations about the actions and behavior
of others. The social interaction can start with a distinct reason from the ones
that maintain the integration of the parts.
(...) conflict is a social way of enabling evolutionary and retroactive elab-
orations regarding institutions, social structures and interactions, having the
capacity of reconstruct itself in a space where confront is an act of recogni-
tion generating, simultaneously, a transformation in the resulting relations.
This way, conflict can be classified as a dynamic process of human interac-
tion and power confrontation where one part influences and qualifies the
movement of the other198. (Spengler, 2010: 248)199
In the interaction, the actors are shown as models and examples to be fol-
lowed and the others should identify themselves with them. This way, it is
understood that the social interaction is developed in an environment

198 All quotes have been translated by the author.


199 (...) o conflito é uma forma social possibilitadora de elaborações evolutivas e
retroativas no concernente a instituições, estruturas e interações sociais, possuindo a
capacidade de se construir num espaço em que o próprio confronto é um ato de
reconhecimento produzindo, simultaneamente, uma transformação nas relações daí
resultantes. Desse modo, o conflito pode ser classificado como um processo
dinâmico de interação humana e confronto de poder no qual uma parte influencia e
qualifica o movimento da outra (Spengler, 2010: 248).
(family, group, community, nation, civilization) which found out techniques,
symbols, categories, rules and relevant values for such.
In order to comprehend the events triggered by social interaction, it is ne-
cessary to understand the interrelations of the events according to the social
context where each one happens. Besides that, it is highlighted that despite
the social interaction of a participant, a person or a group, this participant is
a complex unit composed by many interactive subsystems and can act in a
unified way regarding a determined aspect of their environment. And, as
consequence, the participant can take decisions about the individual plan or
the national plan and this can trigger a fight among different interests and
values of control. (Deutsch 2004)
When social roles are not performed in an adequate way according to the
expectations of the social group, conflicts start (Spengler 2010). They can be
evaluated as constructive, in other words, they have positive functions. Ac-
cording to Deutsch (2004: 29) a conflict:
(...) prevents stagnation, stimulates interest and curiosity, it is the way
that problems can be manifested and where solutions can be found, it is the
root for social and personal change. Conflict is frequently part of the process
of testing and evaluating someone. This can be pleasant, according to the
way that pleasure is experimented, in order to make a complete use of its ca-
pacity200.
Moreover, in groups created with loose bonds and in open societies, con-
flict has the role of integrating and stabilizing the relationship between the
antagonist parts because it allows a direct and immediate expression of rival
complaints. So, when the burst of a conflict indicates the rejection of a pre-
vious accommodation between the parts that is the moment when the re-
spective power of the contenders is verified; and a new balance can be estab-
lish making the relationship continue on new basis. (Coser apud Deutsch
2004).
According to Julien Freund (apud Morais and Spengler 2012: 46), a con-
flict: “is able to break the strength of the other because it consists in two con-
front wills; when one tries to dominate the other with the expectation of im-
posing their solution. This attempt to dominate can become real through
direct or indirect violence or through physical or psychological threat. At the
end, the conclusion can come from the recognition of victory over defeat.
Conflict is a way to have independent reason about rational or reasonable ar-
guments (...). So, it is not a simple confrontation of wills, ideas or interests.

200 (...) previne estagnações, estimula interesse e curiosidade, é o meio pelo qual
os problemas podem ser manifestados e no qual chegam as soluções, é a raiz da
mudança pessoal e social. O conflito é frequentemente (sic) parte do processo de
testar e de avaliar alguém e, enquanto tal, pode ser altamente agradável, na medida
em que se experimenta o prazer do uso completo e pleno da sua capacidade.
It is a contentious procedure in which the antagonists treat themselves as
opponents or enemies”. (author’s italics)201.
Many times conflict is searched on competitive sports and games, movies
or books, when we listen to the news or read a newspaper, in a provocation
between couples and in intellectual work. These examples show that it
should not be eliminated or suppressed for a long time because its existence
is inherent to the human being. (Deutsch 2004)
From this perspective, it is verified that conflict can change people re -
garding themselves or the others, showing consequences that can be: puri-
fying, distorted, undermining or consolidating. Therefore, an external con-
flict determines the limits of the group and contributes for the building of a
feeling of identity as well as it centralizes the internal structure of the group
and gives the possibility of defining the allies. The external conflict unites
the group and makes it be cohesive, enhancing the concentration of an
already existent unit, eliminating elements that can obscure the limits with
the enemy. This type of conflict can approach people and groups which, in a
different situation, would not have any relationship. (Spengler 2010)
However, it is highlighted that a conflict can have a constructive connota-
tion as well as destructive one especially when the participants are dissatis-
fied with the conclusions and at the end they feel the defeat. From this af-
firmation, it is understood that a conflict with a productive result is that one
where all participants are satisfied with the effects and consequences.
(Deutsch 2004)
Thus, conflict is inevitable and beneficial. It demands autonomous means
to be treated and needs to be seen as a positive or negative fact, according to
the current values in the analyzed social context. A society without conflicts
is static. (Morais and Spengler 2012)
In order to solve conflicts that happen in society the State uses the Judi-
cial Power through the intervention of the judge, who is the authority re-
sponsible for solving a conflict and will take a definitive decision.
On the other hand, it raises the practices related to conflict dealing. These
practices aim at comprehending and analyzing the people involved in the
conflict with the purpose of reaching an adequate qualitative treatment. This

201 trata de romper a resistência do outro, pois consiste no confronto de duas


vontades quando uma busca dominar a outra com a expectativa de lhe impor a sua
solução. Essa tentativa de dominação pode se concretizar através da violência direta
ou indireta, através da ameaça física ou psicológica. No final, o desenlace pode
nascer do reconhecimento da vitória de um sobre a derrota do outro. Assim, o
conflito é uma maneira de ter razão independentemente dos argumentos racionais
(ou razoáveis) (...). Então, percebe-se que não se reduz a uma simples confrontação
de vontades, idéias ou interesses. É um procedimento contencioso no qual os
antagonistas se tratam como adversários ou inimigos. (grifou-se)
treatment is built by the parts with the help of a third mediator, subject that
will be studied as follow.

Community study in Amitai Etzioni


The definition for community is considered challenging to many authors,
including Bottomore (2006: 115) because they considered it vague and
evasive. According to Bottomore, the term community “has become a
keyword used to describe social units that vary from villages, condos, neigh-
borhoods to ethnic groups, nations and international organizations. At least, a
community generally indicates a group of people in a limited geographic
area that interact with common institutions and has a common sense of inter-
dependence and integration”202.
On its turn, communitarianism, whose main affirmation is the relevance
of the community for the construction of a good society, presents some im-
portant elements to build a society politically matching democratic and hu-
manist ideals of social inclusion and sustainable development.
The study about communitarianism covers a diversified set of philosoph-
ical, sociological and political formulations present in different religions and
systems of thought. It can be identified, at least, nine theoretical matrixes of
the Western communitarianism thought, which are: a) the Aristotelian tradi-
tion; b) the Jewish-Christian tradition; c) the utopian tradition; d) the liber-
alism; e) the socialist and anarchist ideas; f) the sociologic studies about
community; g) the authoritarian thought; h) the republicanism; i) theories of
social capital; and j) the responsive communitarianism. According to
Schmidt (2011), among these matrixes only the authoritarian one does not
have elements to build a new democratic ideal and life in society.
It is verified that the term communitarianism has a recent history and it
was designated by Barmby in 1841 when he founded the Universal Com-
munitarian Association. However, the popularization of the word happened
only in the 70’s and it has intensified the old controversy about what really
constitutes a good society examining the social order with basis on moral
values and autonomy.
The American sociologist, Amitai Etzioni, who is a representative of the
responsive communitarianism development, a movement that highlights the

202 tornou-se uma palavra-chave usada para descrever unidades sociais que
variam de aldeias, conjuntos habitacionais e vizinhanças até grupos étnicos, nações e
organizações internacionais. No mínimo, comunidade geralmente indica um grupo
de pessoas dentro de uma área geográfica limitada que interagem dentro de
instituições comuns e que possuem um senso comum de interdependência e
integração.
centrality of the community’s role in the social life, affirms that “las
comunidades constituyen uno de los componentes principales de la buena
sociedad”203. (Etzioni 2001: 23)
According to Etzioni (1996), the communitarian paradigm applies the
golden rule204 to characterize the good society as what fosters social virtues
as well as individual rights, affirming that a good society should search for
dynamic balance between both. This has to be carried out through setting
moral responsibilities (obligations which are not imposed by coercion) and
are seen as social virtue.
This way, balance between individual rights and social responsibility is
reached as well as autonomy and social order. Concerning this subject, the
referred author develops the idea about community from villages and towns,
in other words, from what makes a social identity, from a village to a group
of nations that becomes a community.
A community is not a concrete place; however, it is a set of attributes
being distinct from one another due to affective relationships and the sharing
of values and meanings. (Etzioni 1996)
Etzioni (2001, p. 24) states that: “community, in my understanding, is
based on values that reinforce the relationship I-You. In first place, com-
munities create bounds of affection that change groups of people into social
identities similar to big families. In second place, communities convey a
shared moral culture: a set of values that are regarded as virtuous against
what is regarded as unacceptable behaviors and they are transmitted from
generation to generation at the same time that their own moral reference is
reformulated day after day”205.
Moreover, Schmidt (2011, p. 312) presents the characteristics of a com-
munity:
(a) community is an ontological condition of the human being; (b) it is
opposition to individualism and collectivism; (c) it is opposition to State gi-
gantism; (d) priority to personal values over market values; (e) subsidiarity,

203 “The communities constitute one of the main elements of a good society”.
(Etzioni, 2001: 23)
204 To the author, the old Golden rule established the prevalence of the common
well and social order while the new order searches for balance between social order
and the individual.
205 La comunidad, a mi entender, se basa en dos fundamentos, reforzadores
ambos de las relaciones Yo-Tú. En primer lugar, las comunidades proporcionan
lazos de afecto que transforman grupos de gente en entidades sociales semejantes a
familias amplias. En segundo lugar, las comunidades transmiten una cultura moral
compartida: conjunto de valores y significados sociales compartidos que
caracterizan lo que la comunidad considera virtuoso frente a lo que considera
comportamientos inaceptables y que se transmiten de generación en generación, al
tiempo que reformulan su propio marco de referencial moral día a día.
local power, associations and self-management; (f) fraternity, equality and
freedom206.
Community is an ontological condition of the human being because we
are political and social beings who are only complete when living with other
people, the relationship I-We. Furthermore, “Etzioni brings into discussion
an important empiric argument favoring the position that a community is the
ontological condition of the human being: who lives in a community lives
longer and with more quality of life”. (Schmidt, 2011: 308)
The idea of community is against individualism and collectivism because
it sustains the position between the relationship of man with man and the re-
lationship of society over man. At the same time, it is against State gigantism
because a good society finds a balance between State actions in indispens-
able areas to common good and active participation of community and cit-
izens. It is also highlighted the priority of personal values over market values
because “in a community there are relationships that involve people, in-
timacy, affection, solidarity and commitment with the common good, all of
them based on trust and reciprocity”. (Schmidt, 2011: 309)
It is verified that valuing requests which are near people makes the com-
munity perspective get closer to the theories about local power, cooperation,
self-management and third sector. Besides these, there are fraternity, equality
and freedom as well. Fraternity refers to friendship, companionship and
solidarity while equality corresponds to the affirmation of political equality,
development of oriented policies in order to reduce social and economic in-
equalities and the defense of well-being social status. In turn, real freedom is
sustained in concrete social conditions and the community enables the condi-
tions to individual freedom. (Schmidt 2011)
Therefore, a social order that has a set of shared values which are re-
spected by the individuals is the aim. However, a good society corresponds
to an order of consonance with the moral commitments of its members. This
way, the challenge to the ones who desire a good society is to constitute and
sustain a social order considered legitimate, in a permanent way, by its mem-
bers. It is highlighted, in what refers Etzioni, that a good society demands
balance among State, community and market because they complement each
other being irreplaceable.
The communitarian paradigm recognizes the necessity of nurturing social
bonds as part of the effort to keep social order at the same time that these
bonds do not eliminate autonomous expressions. In other words, a good so-
ciety does not privilege social well over individual options, nor vice versa,

206 (a) a comunidade é condição ontológica do ser humano; (b) oposição ao


individualismo e ao coletivismo; (c) oposição ao gigantismo estatal; (d) primazia dos
valores pessoais sobre os valores do mercado; (e) subsidiariedade, poder local,
associativismo e autogestão; (f) fraternidade, igualdade e liberdade.
on the contrary it defends the social formations as social virtues. (Etzioni,
1996)
Accordingly, it is understood that “en una sociedad comunitaria (...) los
valores, antes que inventarse o negociarse, se transmiten de generación en
generación. Ésta es la implicación profunda de la afirmación de que una
comunidad tiene una identidad, una historia, una cultura” (Etzioni, 1996:
121); that is why it is affirmed that one good society comprehends that the
expected actions are inherent to the believed values instead of just showing
obedience due to fear of authority.
The members follow the precepts of constructing communities based on
free participation, open dialogues and in truly shared values. This way, the
communities do not hold the final word concerning what is right or wrong,
they just establish a dialogue whose result is not imposed. (Etzioni 1996)
In this manner, it is sustained that the essential elements to constitute and
maintain a shared milestone consist in: 1) democracy as a value (not just a
procedure); 2) the constitution and its declaration of rights; 3) stratified loy-
alties (the own and general community); 4) neutrality, tolerance and respect;
5) limitation of the identity policy; 6) dialogues about the whole society;
and, 7) reconciliation.
According to this, Schmidt (2013) affirms that communities have a fun-
damental role in the actions concerning child care, therapies regarding drug
and alcohol addiction, reduction of child delinquency and criminality, etc. In
the same way, it is also fundamental the existence of a community when
dealing with conflicts in order to attend the real necessities of the parts; from
the ideal of fraternity allowing the parts to build together an answer to the
conflict always observing the feelings and values that guarantee the preser-
vation of the human rights, citizenship and as a consequence, the preserva-
tion of social justice and peace.
According to Spengler (2012: 87): “(...) it is not possible to be individu-
ally happy inside a socially unhappy community. The society/community
where the individual is inserted also contributes (or not) to their happiness
and well-being. The formula that emerges nowadays in relation to the scope
(changeable) of the search for happiness can be translated as “security” (in
the place of freedom), “parity” (in the place of equality) and “net” (in the
place of fraternity)”207.

207 (...) não é possível ser feliz individualmente no interior de uma comunidade
socialmente infeliz. A sociedade/comunidade na qual se encontra inserida (sic) o
indivíduo também oferece sua parcela de contribuição (ou não!) na construção de
sua felicidade e bem-estar. A fórmula que emerge atualmente quanto ao escopo
(mutável) da busca da felicidade pode ser traduzida pelos termos “segurança” (no
lugar da liberdade), “paridade” (no lugar da igualdade) e “rede” (no lugar da
fraternidade).
Schmidt (2011: 311) defends that all the main communitarian theories
combine, in a certain way, the concept of community with fraternity prin-
ciples. “Fraternity has a consensual welcome: friendship, companionship and
solidarity are all characteristics of communitarian life”.
In this context, the Fraternal Law developed in the sphere of the Philo-
sophy of the Law by the Italian professor Eligio Resta, demands the rescuing
of community concept and its relation with the institute being studied be-
cause one of the co-responsible social actors in conflict dealing is the com-
munity, as previously analyzed, and next will be studied from the perspective
of community mediation.

Community mediation through fraternity


The community approach should not be carried out as a being a place of
mutual comprehension where social conflicts do not exist. It is an illusion to
see the discussions which happen in the community as friendly and mild,
that the discussions are all of collective interest in favor of harmony. Despite
the unreal connotations conveyed by this word, it carries in its meaning
everything that people miss and is necessary to live safely in our contempor-
aneous world.
However, it is seen that the Fraternal Law rescues the communitarian re-
lations. According to what Sica (2007: 15) teaches: “What is observed is that
the content filling of the term “community” needs to be obtained according
to the operative peculiarities of each program. For instance, in certain places
community is understood as community of concern, in other words, it refers
to those people who are directed connected to the offender and the victim as
well (family, friends, neighbors) and, in some way, they can give a dimen-
sion to the effects or they were affected by the crime, so they can cooperate
to find a consensual solution. In other places, community can be designed
through the participation of entities from the organized social society which
work in determined situations, in other words, the basic rule is “different an-
swers to different contexts”208.

208 O que se observa é que o preenchimento do conteúdo do termo “comunidade”


deve ser obtido de acordo com as peculiaridades operativas de cada programa. Por
exemplo, em certos lugares a comunidade é compreendida no sentido de community
of concern, ou seja, aquelas pessoas mais diretamente relacionadas com o ofensor e
com a vítima (familiares, amigos, vizinhos) e que, de alguma forma, podem
dimensionar os efeitos ou foram afetados pelo crime e colaborar para uma solução
consensual. Em outros lugares, a comunidade pode ser concebida por meio da
participação de entidades da sociedade civil organizada que trabalham em
determinadas situações, ou seja, a regra básica é “respostas diferentes, para
contextos diferentes”.
In this context, fraternity is understood according to its meaning, which
comes from the German Law and means brother. Fraternity has three mean-
ings: a) brothers’ kinship b) love of neighbor c) union, peace, harmony. That
is why the idea of fraternity brings union from fraternal friendship because it
promotes common well and harmony.
The author Elígio Resta (2004) suggests a new possibility to establish re-
lations in society through the Fraternal Law. This way, a model of society is
searched. A society where justice is not only the application of cold rules but
such justice is linked to a shared moral between equals, in other words, a so-
ciety in which friendship is understood as a personal relation and as way of
solidarity. In the words of Spengler (2012: 45), Fraternal Law “is the one
that when equality is broken in the heart of sovereignty, this law seems to
carry out a symbolic project which was born with modernity. It is an abate-
ment of a paternal right existing forever and which was given by God, by
tradition and by nature”.
Furthermore, it is verified that the Fraternal Law is a mechanism to pro-
mote human rights because it values a man according to his equals as well as
people who shared values with no differences. This happens because these
people respect each other, that is why it is called an inclusive law which con-
siders all people as human beings. (Vial 2007)
These are ethical and primary postulates of all moral order and judi-
cial-positive that from their limits no political power can be away. They are
hallmarks of political power in an organized society founded on the rational
nature of the human being so, therefore, they are universal and constitute
principles and values.
According to Resta (2004: 31): “Friendship reappears in social systems as
a difference of interaction between individual identities which choose and
guide volunteer communication, bureaucratic and directed straight relations
of the mechanisms in big functional systems” 209.
Analyzing the citation above, society presents a need for insisting on
fraternal codes and tries to value different possibilities because fraternity re-
calls the pact communion among different concrete subjects regarding their
histories and differences. Friendship is an important element of life in social
systems because if friendship does not sustain the spontaneous relations in
society, a prescribed law will be needed; and as a consequence, it will be
needed a reverberation of the exclusion chains and social distinction among
enemies and citizens.
The peculiarity of the Fraternal Law is in the fact that the gratitude for the
recognition of a friend establishes a more consistent solidarity which sup-

209 A amizade reaparece nos sistemas sociais como diferença entre interação de
identidades individuais, que se escolhem e orientam a comunicação voluntariamente,
e as relações burocráticas e heterodirecionadas dos mecanismos dos grandes
sistemas funcionais.
ports the social system being able to create timeless bonds at the same time
that when friendship ends, it is given space for an enemy.
According to Resta, the humanity self is the place for ambivalence which
builds and destroys; loves and hates; which lives in solidarities and prepoten-
cies; of friendships and enmities, all simultaneously. In a war, humanity can
do nothing than threat itself, what shows that “man” does not correspond to
“humanity”. (Resta 2004)
This way, it can be affirmed that the misunderstanding should be solved
using other ways and the peoples should learn and comprehend what brings
them together as well as tolerate the differences. From war only mourning
emptiness and pain comes.
In this sense, to be a friend of humanity is to participate in the destinies of
man moved by an idea, respect any person, to have sensibility and responsib-
ility because humanity is an inclusive term. Besides, humanity is the
common place for differences because it has, at the same time, friendships
and enmities. (Resta 2004)
Therefore, the Fraternal Law is a law swore together by men and women,
a pact where small living rules are shared as a common decision. So, Resta’s
point of view regards human rights but not only the right of citizenship (what
is always a place of individualist exclusion). For him, humanity is a common
and universal place but not universal in the sense of the homogeneity that
disguises differences because they exist and need to be considered in the
sense of belonging to all human beings. In the Fraternal Law there is not
space for ethnocentrism because it is cosmopolitan (it reports to the cosmic,
to the universal value of human rights and not to the mercantilist logic). This
law is not violent because it is based on mediation (the idea of minimum jur-
isdiction); it is inclusive for the reason that chooses fundamental rights and
defines the universal shared access; and access granted to all people not only
one minority. (Resta 2004)
Friendship based on Fraternal Law is the bond that gives possibility to
direct communication and constructs a strategy of conflict dealing which is
based on a Law that has relation with the historical subjects not only with
procedural ones. As follows, it is allowed to face conflict as a physiologic
event which is “treatable” although not always “curable” when the positivist
dichotomy winner/loser is overcome to embrace the possible gain to both
parts. As a consequence it is perpetuated the being “with” another person in-
stead of being “against” another person. (Spengler 2012).
That is to say, in the communication process is fundamental the altern-
ative treatment of conflicts based on dialogues and consensus as well as the
total respect to human rights and the person’s dignity what advocates the
Democratic State of Law and ensures its principles and laws.
True friendship is not constituted by differences but by similarities. Due
to this, the resolution of conflicts by State intervention can emphasize/recog-
nize differences and disproportionalities. In this context, the fraternal com-
munity is not a place defined by goodness; it is just a common space, reason
why the same subject that are part of it can generate threat or fraternity
(Spengler 2012).
When loss of thrust in the traditional means of solving conflicts is faced,
communitarian mediation is characterized by proposing another culture
which will make use of consensual and autonomous practices to give back,
to people and community, the ability of conflict dealing inherent to its exist-
ence.
Thus, mediation is pointed out as:

(...) a way to establish the communitarian communication broken


among citizenships or groups because of their antagonistic position
created by the conflict. It is a communicative exchange in which
the parts stipulate what is concerning to each one during the
treatment of the conflict, mediation helps the dissent expression
defining a means to administrate the discordance and reach a
communicative understanding. (Spengler, 2012: 94)210.

The main mediation challenge is to create possibilities for a communic-


ative and peaceful living among people, that’s why it replaces the conflictive
communication by a cooperative and integrative communication of the prob-
lems helping to develop auto-determination and responsibility in each
person. (Spengler 2012)
Mediation is characterized as an ecological way to treat social and judi-
cial conflicts whose aim is to satisfy the wishes of the involved parts in the
dispute. The deal treats the problem from an answer which is mutually ac-
ceptable and it is organized to maintain the relationships involved in the con-
flict. (Warat 2001)
This way when there is conflict, there is the interference of a third part
which has a limited power of decision and helps the parts to reach, in a vo-
lunteer way, a deal. In other words, “it is the building and management way
of social life that happens many times thanks to the interference of a third
neutral and independent part with no other power than the authority given to
him/her by the parts or the authority freely recognized” (Morais and Spen-
gler, 2012: 131). Spengler (2010) states that the word mediation raises the
idea of center, balance, describing a third element not found over the parts
210 (...) uma maneira de instaurar a comunicação comunitária rompida entre os
cidadãos ou grupos em virtude da posição antagônica instituída pelo conflito.
Tratando-se de um intercâmbio comunicativo no qual os conflitantes estipulam o
que compete a cada um no tratamento do conflito em questão, a mediação facilita a
expressão do dissenso definindo um veículo que possa administrar a discordância e
chegar a um entendimento comunicativo. (Spengler, 2012:. 94)
but between them. Due to this, the author affirms that the mediation is a pro-
cess where a third helps the participants to deal with a conflictive situation
allowing an acceptable solution to the involved ones as well as a satisfying
solution. Regarding the same subject Warat (2001: 30-1) affirms: “The
biggest secret about mediation is very simple as all secret is. It is so simple
that is almost unnoticed. I do not say “let’s try to understand it because we
cannot”. Many things in a conflict are hidden; however, we can feel them. If
we try to understand we will not find anything and we can make the problem
even bigger. In order to mediate, as well as to live, we need to feel the
feeling. The mediator cannot worry about interfering in the conflict”.
He has to intervene in the feelings of people, help them to understand
their feelings renouncing his own interpretation. Conflicts never disappear,
they change. This generally happens because we try to intervene in the con-
flict instead of intervening in the feelings of people. For this reason, in the
presence of a personal conflict is recommended to intervene in our own
feeling first, change ourselves inside so, as a consequence, the conflict will
be dissolved (if all committed parts do the same thing). The mediator needs
to understand the difference between intervening in the conflict and in the
feelings of the parts. The mediator has to help the parts, helping them to look
at themselves instead of looking at the conflict as it was something totally
outside from them211.
Community mediation is different from other traditional practices con-
cerning conflict dealing because it acts in the community with the purpose of
reopening the communication channels and rebuilding destructed social
bonds. Its challenge consists in accepting the differences, diversity, dissents
and the disorder caused by the conflict. In this context it is highlighted that
“the new community is one, that in order to protect its participants, it gives
ways to find communitarian answers to its problems generating protection
and security without sacrificing freedom”. (Spengler 2012: 227)

211 O grande segredo, da mediação, como todo segredo, é muito simples, tão
simples que passa despercebido. Não digo tentemos entendê-lo, pois não podemos
entendê-lo. Muitas coisas em um conflito estão ocultas, mas podemos senti-las. Se
tentarmos entendê-las, não encontraremos nada, corremos o risco de agravar o
problema. Para mediar, como para viver, é preciso sentir o sentimento. O mediador
não pode se preocupar por intervir no conflito, transformá-lo. Ele tem que intervir
sobre os sentimentos das pessoas, ajudá-las a sentir seus sentimentos, renunciando a
interpretação. Os conflitos nunca desaparecem, se transformam; isso porque,
geralmente, tentamos intervir sobre o conflito e não sobre o sentimento das pessoas.
Por isso, é recomendável, na presença de um conflito pessoal, intervir sobre si
mesmo, transformar-se internamente, então, o conflito se dissolverá (se todas as
partes comprometidas fizerem a mesma coisa). O mediador deve entender a
diferença entre intervir no conflito e nos sentimentos das partes. O mediador deve
ajudar as partes, fazer com que olhem a si mesmas e não ao conflito, como se ele
fosse alguma coisa absolutamente exterior a elas mesmas.
Community mediation works with the logic “mediator citizen” because
the mediators are community members chosen and capable to mediate. They
are people who devote their time and responsibility to common well
searching an effective social bond among the members (Spengler 2012).
Therefore, community mediation builds up values, knowledge, beliefs, at-
titudes, strengthening behaviors of a politic-democratic culture and a culture
of peace fulfilling two functions: firstly, community mediation offers a place
for reflection and for searching alternatives in order to solve conflicts in all
areas as: family, school, workplace among others. Secondly, the individual
has an advantage which can acquire important political dimensions because
at the moment he/she starts to solve autonomously its conflicts, he/she starts
to participate more actively in political life of the community (Spengler
2012: 228).212
Regarding the same subject Warat (2004) affirms that community medi-
ation is a cooperative and solidary procedure which gives the possibility to
transform conflict and people. They have the chance of looking at them-
selves and accepting other points of view, in other words, it consists in the
ethics of alterity to understand the other and discharge old positions that
fragment, classify and separate people.
Community justice as an instrument of peace and democratic policy
causes emancipation, dialogue, solidarity, community network, and for this
reason new social practices arouse stimulating social changes. (Spengler
2012)
Community mediation is the most adequate proposal considering the cur-
rent social reality of Brazilian society presenting a new culture regarding
conflict dealing. Besides, it goes beyond the traditional jurisdiction because
through consensual and autonomous practices, it gives back to the individual
the capacity of dealing with conflict.
The importance of community mediation resides in the fact that it acts in
the community, where there is pluralism of values and various life systems,
where destructed social bonds can be rebuilt and communication can be rees-
tablished. It is not a matter of denying the need for State Justice; it is only an
alternative for the current moment of crisis and inefficiency considering that
this practice is inclusive and fraternal.

212 Primeiro oferece um espaço de reflexão e busca de alternativas na resolução


de conflitos nas mais diversas esferas: família, escola, no local de trabalho, entre
outros. Em segundo lugar o indivíduo possui um ganho que, não obstante parecer
secundário, assume proporções políticas importantes quando ao resolver
autonomamente seus conflitos passa a participar mais ativamente da vida política da
comunidade. (Spengler 2012: 228)
Conclusions
Community justice goes beyond the binary code friend-enemy which
changed society into written laws with the purpose of assuring acquaintance-
ship and also guaranteeing autonomy and responsibility of the community at
the moment of dealing with conflict. Instead of written laws the mediation
regards moral and friendship characteristics.
Besides, the community mediation strengthens and empowers people’s
social role to deal with conflict. Moreover, it is the most adequate way to
make the subject recognize and take responsibility in the community because
he/she will act with other people who share the same history, values, desires
and difficulties.

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Fuochi nella notte.
Uso di immagini d’arte in mediazione familiare
Conny Leporatti - Centro Co.Me.Te., Istituto di Terapia
Familiare di Empoli (Firenze)

Immagini e mediazione
La comunicazione verbale è solitamente più controllabile della comunica-
zione non verbale. Per questo motivo spesso il canale verbale è saturo di ele-
menti superflui o dispersivi che possono creare, anche involontariamente,
barriere alla comunicazione di ciò che sta a cuore al cliente, e di cui spesso
egli stesso non ha consapevolezza.
Il mediatore lavora sulle dissonanze e le discrepanze tra ciò che i clienti
dicono – l’immagine esterna – e ciò che i clienti esprimono non verbalmente
– l’immagine interna – e da questa ricostruzione il mediatore crea ipotesi re-
lazionali, il cui livello di accuratezza diventa più evidente con il progredire
del processo di mediazione. Per mezzo dell’immagine si può avere e dare ac-
cesso a mondi interni, non facilmente raggiungibili e spesso difesi dall’uso
del canale verbale.
Con questi presupposti, ed influenzata dal lavoro e dalle mostre curate da
Flavio Caroli dal 1980 ad oggi, ho iniziato dagli anni 90 ad usare immagini
d’arte nella mediazione familiare.
Il fecondo uso delle immagini nella relazione è stato ulteriormente con-
fermato in ambito neuroscientifico con le ricerche condotte nell’ultimo de-
cennio, in particolare da Rizzolatti, Gallese e Sinigaglia; la fondamentale
scoperta dei neuroni specchio e gli studi in ambito neuroscientifico eviden-
ziano come, grazie all’intersoggettività e all’empatia si creino quelle condi-
zioni fondamentali affinché la mente di ciascuno “si senta sentita dalla mente
dell’altro” (Siegel, 2001).
Grazie all’utilizzo delle immagini d’arte è possibile bypassare il canale
verbale ed entrare in contatto con la componente emotivo-affettiva dell’altro,
quindi con l’inconscio ottico. In questo modo i partner riescono a stabilire
una sintonizzazione emotiva tra sé e con il mediatore.
Uso di immagini d’arte in mediazione
L’uso delle immagini d’arte in mediazione nasce quasi casualmente, da
un’intuizione legata ad una faticosa mediazione familiare che segnava il
passo da tempo, dall’amore che da sempre mi lega all’arte e dalla forma-
zione personale effettuata presso l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze.
Amo l’arte da sempre, sin da piccola ho avuto la fortuna di frequentare
artisti e mostre di pittura, appassionandomi all’arte figurativa e al suo codice.
Così, nel corso della vita, ho raccolto cataloghi museali provenienti da
tutto il mondo e li ho tenuti in studio, quasi fossero un potenziale rifugio per
i momenti più faticosi, come a volte rileggere alcuni passi di certi libri può
esserlo.
Alcuni clienti hanno notato i cataloghi e me ne hanno chiesto la prove-
nienza; altri no.
Inizia così l’uso che faccio delle immagini d’arte in mediazione.
Ho continuato nel tempo ad usare le immagini d’arte ed ho definito me-
glio la procedura.
Ad oggi esse sono riunite in book di duecento immagini, suddivise per
venti categorie.
In mediazione la mia richiesta è la seguente: “Scelga un’immagine d’arte
che sente possa rappresentarla o rappresentare suoi stati d’animo”. Lascio
che i clienti sfoglino liberamente e senza fretta i cataloghi disponibili.
Il lavoro successivo alla scelta delle immagini, è un lavoro di connessione
tra le immagini scelte, le motivazioni di questa scelta, le emozioni connesse
a quelle immagini, l’immagine in relazione con il sé, con il mondo interno,
con l’inconscio ottico, con le relazioni familiari, col sistema terapeutico.
La connessione avviene per mezzo di domande circolari che pongo come
mediatore, connettendo le informazioni che i clienti mi hanno fornito della
loro storia con i pattern comunicativi che hanno caratterizzato la narrazione e
quanto le immagini scelte suscitano in me, in base alle ipotesi che ho elabo-
rato ed al mio “stare” in mediazione, secondo l’uso del mio Sé, della mia
storia di mediatore e della mia formazione.

Il Test delle immagini d’arte nella mediazione


Dalla feconda collaborazione clinica e formativa con Rodolfo De Bernart,
nasce nel 2002 la sistematizzazione dell’uso spontaneo che ho operato delle
immagini d’arte in mediazione fin dai primi anni ’90, in un “Test delle im-
magini d’arte”. L’intento del lavoro –forse chiamato impropriamente Test –
non è tanto quello di fornire uno strumento di natura diagnostica e predittiva,
quanto quello di fornire uno strumento di natura proiettiva, di supporto al la-
voro clinico ed alla relazione terapeutica con la coppia.
Le immagini che nel corso del lavoro clinico da me svolto nel decennio
precedente erano state più frequentemente scelte dai clienti, sono state riu-
nite in un book di 200 immagini, suddivise in 20 categorie:

➢ Bambino
➢ Casa
➢ Cibo
➢ Coppia
➢ DCA
➢ Famiglia
➢ Fratelli
➢ Genitori
➢ Gioco
➢ Identità di genere
➢ Individuo femminile
➢ Individuo maschile
➢ Lavoro
➢ Madre
➢ Malattia
➢ Morte
➢ Nonni
➢ Padre
➢ Sesso
➢ Vecchiaia

L’intuizione ha consentito la strutturazione di uno strumento di lavoro che


allo stato attuale è in sperimentazione presso diversi Istituti di Terapia Fami-
liare italiani – afferenti alla rete degli ITF – e circa 50 Istituti di Terapia Fa -
miliare in Europa – afferenti all’EFTA, European Family Terapy Associa-
tion.
L’uso del Test, nato in un primo momento per l’uso nella psicoterapia, è
stato da me esteso anche in Mediazione e lo utilizzo nei colloqui con le
coppie.
La sua utilizzazione avviene secondo la classica richiesta al cliente
“Scelga un’immagine d’arte che senta possa rappresentarla o rappresentare
suoi stati d’animo”.
Successivamente invito ciascun partner a procedere nella “lettura” delle
immagini scelte dall’altro.
La lettura che ha luogo è una lettura incrociata, ovvero viene richiesto al-
l’uno di “leggere” l’immagine scelta dall’altro, al fine di favorire il decentra-
mento cognitivo e la capacità di “mettersi nei piedi” dell’altra persona.
Le categorie che uso nel lavoro con la coppia sono:
nei colloqui di coppia: la coppia, individuo femminile, individuo ma-
schile, sesso, cibo;
per la coppia genitoriale: la famiglia, il padre, la madre, il bambino/i fra-
telli (a seconda che vi sia un figlio unico o vi siano fratelli);
per la famiglia separata: la famiglia, i genitori, il bambino/i fratelli, i
nonni, le case.

Desidero adesso presentare brevemente un caso per esemplificare l’uso


delle immagini d’arte in mediazione.

Il caso di Mara e Franco


Mara e Franco si rivolgono a me per un percorso di mediazione in fase di
separazione, separazione che desidererebbero potesse essere consensuale.
Mara fa grande fatica a parlare davanti a Franco e non riesce ad esprimere
le sue emozioni ed i suoi disagi nell’incontro con il marito.
Franco è rancoroso e ostile verso Mara e non riesce a comprendere la sua
sofferenza, nonostante sia ella stessa che ha scelto di separarsi. Non sono
presenti altri partner.
Mara e Franco lavorano insieme in uno Studio Associato, nel quale Mara
esercita la professione di Avvocato e Franco la professione di Commercia-
lista.
Confliggono in merito alla regolamentazione del regime di frequenta-
zione della loro figlia, Eleonora.
Decido di introdurre l’uso delle immagini d’arte poiché il canale verbale
è decisamente saturo e le parti non riescono ad effettuare alcun tipo di decen-
tramento cognitivo, passando dalla propria posizione alla possibilità di met-
tersi per breve tempo nei panni dell’altro.
Presento la categoria delle immagini d’arte “coppia” e chiedo ad entrambi di
scegliere un’immagine che rappresenti la relazione con l’altro durante la
crisi:
➢ Mara sceglie P. Gandolfi, Tenebre Invisibili (1995):
➢ Franco sceglie Chagall, La passeggiata (1917-18):

1. Chiedo successivamente a Franco di commentare l’immagine scelta


da Mara. Lui rimane a lungo silenzioso e poi dice “Forse Mara in-
tende dire che non è stato facile per lei chiedermi delle cose che le
facevano piacere”;
2. Chiedo a Mara di dire perché secondo lei Franco ha scelto questa
immagine. Lei dice “Lui pensa che io sia una sciocca che non ha i
piedi per terra e non ha capacità di portare avanti con determina-
zione il proprio lavoro”.
Lavoriamo su questi aspetti, chiedo poi a ciascuno di esprimere le reali
motivazioni per cui ha scelto quell’immagine:

➢ Mara dice di aver scelto quell’immagine perché è così che si è sen-


tita in tutto il periodo della crisi, fino alla decisione di separarsi. Lei
afferma “Non potevo parlare, sentivo non tanto lo sguardo coperto
quanto la testa schiacciata rispetto ai miei desideri nei confronti di
ciò che Franco desiderava per noi, sia all’interno del matrimonio che
nell’ambito lavorativo”;
➢ Franco dice di aver scelto quest’immagine che rappresenta effettiva-
mente come lui senta Mara, senza piedi per terra e senza capacità di
portare a termine un progetto.
➢ Invito entrambi a riflettere su quali altri aspetti possono stare dietro
la scelta dell’immagine che hanno fatto e dopo una lunga medita-
zione.
➢ Mara dice “forse l’immagine che ho scelto sta ad indicare il fatto che
un tempo con Franco condividevo un sogno, che poi non sono stata
più capace di vedere”;
➢ Franco, dopo un ancor più lunga meditazione, dice “forse Mara un
tempo costituiva la leggerezza che in genere mi manca”.
➢ L’apertura manifestata sul piano emotivo da entrambe le parti, mi
consente di chiedere loro di scegliere un’immagine che rappresenti
cosa pensano dell’altro come genitore.
➢ Dalla Categoria “Padre Madre” Mara sceglie E. Schiele, H. e il suo
figlio Otto (1913):
➢ Dalla categoria “Genitori” Franco sceglie P. Gauguin, Le Marie
(1891-92):
Chiedo di nuovo a ciascuno di dire perché l’altro può aver scelto quell’im-
magine.

➢ Franco dice “Mara ha scelto quell’immagine perché pensa che io sia


sempre stato condizionato da mio padre nelle scelte della mia vita”;
➢ Mara dice “Franco ha scelto quell’immagine perché pensa che da
quando è nata Eleonora, io non ho avuto occhi che per la bimba e ho
perso di vista lui”.

Chiedo poi ad entrambi il perché delle loro scelte.

➢ Mara dice “In essa è rappresentato un figlio succube del padre e in


protezione di sé, ma anche allo stesso tempo un padre direttivo così
come io sento che Franco è nei confronti di Eleonora; una direttività
rigida e senza spazi per le proposte di Eleonora”;
➢ Franco dice “Sento che Mara da quando è nata Eleonora, non ha
occhi e attenzioni che per lei e penso che le donne sullo sfondo siano
un po’ le donne che progressivamente si sono allontanate da me,
nello specifico mia madre e mia sorella”.

Chiedo a questo punto ad entrambi di scegliere un’immagine che rappre-


senti la loro figlia in questa fase della loro separazione.
➢ Mara sceglie N. Rockwell, Girl at mirror (1954):
➢ Franco sceglie N. Rockwell, Girl with black eye (1953):

➢ Franco dice: “Mara ha scelto quest’immagine perché Eleonora è va-


nesia come lei”;
➢ Mara dice: “Franco ha scelto quest’immagine perché lui vede Eleo-
nora goffa e impacciata esattamente come me”.

Chiedo la motivazione per cui effettivamente ciascuno ha scelto.


➢ Mara dice “Eleonora è grande e Franco deve rendersene conto. Eleo-
nora è un’adolescente, non è più una bimba ed ha bisogno di essere
rispettata nei suoi desideri. Orientata e obbligata a rispettare le re-
gole, ma anche ascoltata”;
➢ Franco dice “Rappresenta la curiosità e il desiderio di mettersi
sempre in gioco che è proprio di Eleonora. In questo riconosco che
Eleonora porta la forza che mi caratterizza e la leggerezza e l’ironia
che talvolta caratterizzano Mara”.

A questo punto riusciamo a costruire un’intesa relativa ai bisogni di Eleo-


nora, adolescente di 12 anni, alle soglie della pubertà, che necessita di essere
ascoltata e rispettata nei suoi desideri, oltre che orientata.
L’intesa è favorita dalla disponibilità all’ascolto che sia Mara che Franco
hanno manifestato l’uno verso l’altro, a seguito della visione delle immagini
che ciascuno aveva scelto.
La visione delle immagini ha infatti consentito di bypassare il canale ver-
bale ed ha favorito l’incontro emotivo e la costruzione della relazione empa-
tica.
Tutto ciò ha avuto luogo grazie alla scelta condivisa di immagini d’arte
ed all’attivazione di pensieri metaforici condivisi.
Da questo punto di vista, sappiamo quanto intersoggettività ed empatia
siano sostanziate dall’uso delle immagini nei rapporti di relazione e cura.
Spendiamo poi l’intera seduta sull’organizzare il diritto di visita che pre-
veda tempo adeguato di presenza del padre con Eleonora e della madre con
Eleonora, con domiciliazione prevalente di Eleonora presso la madre. In ori-
gine il padre chiedeva che la madre se ne andasse da casa in quanto era lei
che aveva chiesto la separazione e che Eleonora fosse domiciliata prevalen-
temente presso di lui.
È stato possibile giungere ad un accordo proprio perché la dimensione in-
tersoggettiva e l’empatia, sostanziate dall’uso delle immagini d’arte, sono
state attivate tra i coniugi.

Conclusioni
Come affermato in apertura della presente comunicazione, il canale ver-
bale è spesso più controllabile del canale non verbale, pertanto esso può pre-
sentare elementi superflui e dispersivi che possono creare sia ostacoli, che
una non chiara comprensione del reale problema dei clienti e dei minori
coinvolti nella separazione o nel divorzio.
Per un mediatore osservare è importante tanto quanto ascoltare e, dal con-
fronto tra ciò che egli vede e ciò che sente, nasce una lettura più complessa
della comunicazione in mediazione.
È pertanto importante che il mediatore sia capace di riconoscere le disso-
nanze tra ciò che i clienti dicono, “l’immagine esterna”, e ciò che invece essi
manifestano a livello non verbale, “l’immagine interna”.
Da questa osservazione il mediatore costruisce ipotesi relazionali il cui li-
vello di accuratezza diventerà sempre più evidente con il proseguire della
mediazione e, insieme ai clienti, co-costruisce nuovi scenari relazionali ed
un altro futuro per il legame genitori-figli.
In questo contesto, lavorare con le immagini d’arte consente la costru-
zione e la ricostruzione di un’esperienza attraverso l’attualizzazione e la
drammatizzazione del mondo relazionale interno degli attori coinvolti.
Attraverso le immagini d’arte è stato possibile costruire l’accesso a
questo mondo interno, un mondo non facile da raggiungere e spesso difeso e
mascherato dal canale verbale.
In tale contesto l’immagine d’arte è stata un mezzo per rappresentare le
parti dell’Io e degli altri secondo una prospettiva metaforica.
Le immagini d’arte sono state di grande ausilio in funzione della rela-
zione tra partner e tra clienti e mediatore.
Infine, le feconde ricerche condotte nell’ambito delle neuroscienze nel-
l’ultimo decennio, in particolare da Rizzolatti, Gallese e Sinigaglia, e la sco-
perta dei neuroni specchio hanno ulteriormente confermato l’uso delle im-
magini nella relazione, mostrando come l’intersoggettività e l’empatia, resi
possibili da meccanismi di simulazione incarnata, mediata appunto da neu-
roni specchio, creino condizioni a seguito delle quali la mente di ciascuno “si
sente sentita dalla mente dell’altro” (Siegel, 2001).
L’uso delle immagini d’arte ha consentito in questa prospettiva di oltre-
passare il canale verbale e raggiungere la componente emotivo affettiva e
l’inconscio ottico di ciascuno, favorendo la sintonizzazione emotiva tra
partner e tra di loro ed il mediatore e l’uso del Sé di tutti in funzione del
cambiamento.

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La Fatiga por Compasión en la Práctica
de la Mediación Familiar.
Hipótesis para una investigación
José F. Campos, Josefa Cardona, Ignacio Bolaños
y M. Elena Cuartero - Universidad de las Islas Baleares

Introducción
El presente trabajo pretende sostener las bases para el desarrollo de una
investigación orientada a responder a una pregunta sencilla: ¿el ejercicio de
la mediación provoca un desgaste en el mediador? Siendo así, ¿en que
consiste este desgaste y qué podemos hacer para prevenirlo o paliarlo, en el
mejor de los casos?. Nos interesa especialmente sentar las bases del futuro
trabajo, especialmente para despejar dudas teóricas y terminológicas
relacionadas con el fenómeno del malestar profesional. No nos adentraremos
en el estudio del Síndrome del Profesional Quemado (Burnout) ya que
nuestro interés no se centra en el proceso terminal de una situación de
malestar y desgaste, sino en los mecanismo que provocan el desgaste
vinculado al uso de la empatía, a lo que se ha denominado Compassion
Fatigue o Desgaste por Empatía. Conociendo de qué manera los
profesionales experimentan ese desgaste, será posible articular en un futuro,
los mecanismos de prevención necesarios. Entendemos la mediación familiar
como una de las múltiples formas de ayudar a las familias y a las personas
que atraviesan un conflicto, y consideramos el fenómeno del desgaste por
empatía como una realidad necesaria que comporta riesgos para el mediador,
en la medida que se trabaja con la capacidad de vincularse empáticamente
con todas las personas que viven el conflicto.

Mediación y Relación de Ayuda


A lo largo de este trabajo vamos a considerar que la mediación familiar es
una de las modalidades posibles de relación de ayuda en la medida que
cumpla los criterios que definen a ésta:
1. Es intencional y estratégica. Lo es en la misma medida que la
planteada por Rogers (1986):
Podríamos definir la relación de ayuda diciendo que es aquella en
la que uno de los participantes intenta hacer surgir, de una o de
ambas partes, una mejor apreciación y expresión de los recursos
latentes del individuo y el uso más funcional de estos (p. 46);

2. Busca aliviar el malestar y el sufrimiento de los actores. La mediación


familiar, en tanto relación de ayuda, junto a la búsqueda de acuerdos que
hagan viables las relaciones de las personas en conflicto, persigue también
una mejora de las situación de malestar que muestran los actores. Para
Dietrich (1986),

La relación de ayuda busca crear un clima e iniciar un diálogo con


el sujeto que permita a ésta aclararse sobre su propia persona y sus
propios problemas, liberarse y encontrar recursos para la solución
de sus conflictos, y activar siempre su propia iniciativa y
responsabilidad (p.14);

3. Se basa en una alianza entre mediador y personas. El éxito de la


mediación familiar se fundamenta en una relación significativa basada en la
confianza, entre mediador y las personas que mantienen el conflicto
(Rousseau, Burt y Camerer 1998; Poitras, Bowen y Byrne 2003; Goldberg
2005; Poitras 2009). Y así mismo la mediación familiar, como cualquier otra
tipología de mediación, se orienta hacia el cambio y persigue resultado;
4. Se fundamenta en un acuerdo. La práctica eficiente de la mediación
familiar requiere de una adecuada formulación del contexto de intervención
profesional en el cual, el mediador y su cliente, sea este una persona, una
pareja o una familia, va a experimentar acciones, cogniciones y emociones
necesarias para modificar su situación de malestar provocada por la
experiencia de una situación de conflicto. La naturaleza de las situaciones de
dificultad generadoras de malestar han sido identificadas en cuatro grandes
ejes (Cardona y Campos 2009): Necesidades, si la definición de la situación
problema está relacionada con la insatisfacción de la necesaria reproducción
de la vida material, es decir, de la propia supervivencia material de las
personas afectadas; Dificultades, en el caso de aquellas situaciones problema
en las cuales, existiendo soluciones, las personas o familias no pueden o no
saben desarrollar las estrategias de afrontamiento adecuadas para
transformar la situación; Problemas, entendidos como aquellas situaciones
que no tienen ningún tipo de solución, siendo irreversibles y no
modificables; y por último, Conflictos, entendidos como situaciones en las
cuales los partícipes, teniendo intereses y perspectivas divergentes sobre una
situación, se ven enfrentados de forma competitiva y pugnan por satisfacer
sus necesidades unilateralmente. Pensar que estos ejes generadores de
malestar psicosocial se manifiestan de forma pura y aislada sería incorrecto;
de hecho, se trata de todo lo contrario: la naturaleza compleja de las
situaciones de malestar psicosocial suelen ser el resultados de múltiples
combinaciones, con independencia de que exista algún eje hegemónico: las
necesidades generan, alimentan y conviven con los conflictos, los problemas
acaban construyendo necesidades y dificultades o las dificultades devienen,
como ya señaló Watzlawich et alt. (1995), en verdaderos problemas.
Parece evidente que la mediación familiar focaliza su atención en la di-
mensión conflictiva de las relaciones, aunque inevitablemente deberá consi-
derar el conjunto de situaciones que se generan tras la dinámica de los con-
flictos. Desde esta perspectiva, la mediación ya no es únicamente identifi-
cable por las interacciones entre mediador y partes, sino más bien por el
comportamiento del conjunto del sistema de ayuda, del sistema mediación.
En él, identificamos subsistemas claramente definidos, el mediador/a y la fa-
milia o la pareja en conflicto, y podemos ubicar a los componentes del si-
stema ampliado, es decir, a las familias extensas, los abogados, los jueces y
demás actores significativos que, de alguna manera, directa o indirecta-
mente, están ejerciendo influencia sobre el sistema mediación.

Mediación, toxicidad y desgaste


Desde una lógica analítica sistémica, es una evidencia que un sistema
abierto y vivo como es el de la mediación, se produce un permanente inter -
cambio de información, relaciones e influencias mutuas. Sostenemos que en
una mayoría de mediaciones, el contexto relacional está significado frecuen-
temente por su alta toxicidad, es decir, por un conjunto de relaciones y emo-
ciones tóxicas que afectan a todos los partícipes de la mediación, y que se re-
flejan a través de la ansiedad, el estrés y las emociones expresadas y sentidas
por todos los participantes.
La evaluación del impacto de la ansiedad y el estrés (Casado 1994), pone
de manifiesto una toxicidad fisiológica real que afecta con intensidades
distintas tanto a las partes como al mediador. Un incremento o decremento
de la química cerebral y endocrina, si este es mantenido en el tiempo, genera
un deterioro funcional y energético claramente identificado (Casado 1994):
deterioro de la función hepática (por exceso de adrenalina); alteraciones de
la función cardíaca (por exceso de epinefrina); disminución de la capacidad
de respuesta inmune (falta de cortisol); desequilibrios en el estado de sueño,
vigilia, apetito y temperatura corporal (falta de serotonina); descenso de
producción de dopaminas y endorfinas, lo cual permite experimentar más
dolor; disminución de la concentración de oxígeno en sangre, lo que produce
agotamiento, angustia, sensación de cansancio y déficit de memoria, y por
último, tensión muscular prolongada y sentido de alerta prolongados que se
traducen en malestar emocional y psicológico.
La dimensión fisiológica de los trastornos que se experimentan cuando se
está sumido en un contexto relacional y emocional tóxico nos permite
aproximarnos al conjunto de ideas clave que sustentan nuestra posición: el
trabajo que desarrollan los mediadores familiares genera un desgaste físico y
mental inevitable dada la naturaleza del contexto en el que se desenvuelven:
conflicto, tensión, estrés y dolor emocional. En consecuencia, desarrollar el
rol de mediador familiar conlleva un coste relacionado con la erosión y el
desgaste de las capacidades y competencias de los mediadores. Desde
nuestra perspectiva, desgaste no equivale a fatiga. Desgaste evoca términos
como erosión y reponer o reparar, recargar, equilibrar o cuidar. En este
sentido, el desgaste profesional del mediador, si es atendido, no genera
necesariamente el fenómeno de la fatiga.

Las fuentes del desgaste


Sostenemos que una mediación eficaz requiere del desarrollo de una
relación de confianza entre el mediador y las personas en conflicto (Golberg
2005). La relación de confianza se deriva del desarrollo de dos operaciones
vinculadas a las relaciones que el mediador establece en y durante el
contexto de mediación. En primer lugar, su capacidad de empatizar con las
personas con las que trabaja, es decir, la capacidad de ponerse en el lugar de
ambos para ver y comprender con la perspectiva de cada una de las partes,
sin entrar en valoraciones y juicios (Fernández Liria y Rodríguez Vega
2002). En segundo lugar, la necesidad de desarrollar una alianza entre el
mediador y sus clientes, la cual se concreta en la cualidad y fortaleza de la
relación de colaboración entre ellos que incluye: los lazos afectivos entre
ambos, la confianza mutua, el respeto y el interés por el proceso de cambio,
un compromiso activo por el proceso mediador y un sentido de asociación
para alcanzar un común objetivo (Friedlander, Escudero y Heatherintong
2006).
La empatía y la alianza generan tres significativas fuentes de desgaste:
1. Escucha activa y alianza. Considerando la escucha activa como
aquella predisposición a comprender e interiorizar la vivencia de las
personas en conflicto, la escucha activa se conduce preferentemente desde
un canal narrativo. Son las historias que nos cuentan nuestros clientes las que
nos permitirán aproximarnos a la naturaleza del conflicto en sus distintos
terrenos (Bolaños 2008). Las narrativas de los conflictos familiares reflejan
la toxicidad emocional y relacional, que se traduce en un incremento de la
tensión narrativa y relacional en el seno de las sesiones de mediación: rabia,
venganza, ansiedad, descalificación, miedo e incluso, violencia verbal
aparecen en numerosas ocasiones. El mediador no puede escapar de esta
tensión, se ve inundado en un mar de toxicidad medioambiental que
constituye una fuente primaria de desgaste.
Las narrativas de los conflictos, las historias que nos cuentan, están
inundadas de problemas, malestar y sufrimiento. Es en el marco de estas
aguas turbulentas donde el mediador debe hacer el esfuerzo de comprender,
colocándose en el lugar del otro y ajustar esta comprensión aprehendiendo el
significado que la situación tiene para las personas con las que trabaja (las
partes). Sin embargo, este ejercicio no es sencillo. La narrativa que
desarrollan las personas están formuladas en términos de puntuación de
secuencias (Watzlawick, Beavin y Jackson 1981), es decir, una ordenación
arbitraria y subjetiva para cada uno de ellos, mediante la cual las personas
ordenan las secuencian de hechos y acontecimientos que afectan a sus vidas
y, en este caso concreto, a sus conflictos. Estas historias contadas
superponen tres niveles de realidad:
a. Un primer nivel de realidad en el cual se reflejaría lo que realmente
sucedió en relación al conflicto. Este nivel es único, un único hecho o
acontecimiento que va a ser filtrado por cada uno delos participantes en la
mediación;
b. Un segundo nivel de realidad que incorpora la subjetividad de cada
partícipe, es decir, aquello que la persona vivió de aquello que sucedió,
encontrándonos que desde este momento las narrativas ya empiezan a
diferenciarse y a complementarse, por último;
c. Un tercer nivel de realidad, a saber, una historia narrada de aquello que
la persona vivió en relación a lo que le sucedió. Comprender el significado
de las situación y del conflicto, significa no solo escuchar la narración (el
tercer nivel), sino también adentrarse en el significado de la vivencia de los
hechos vividos (el segundo nivel).
La comprensión del significado de lo que están viviendo las personas que
acuden a mediación no es suficiente para procurar un proceso de cambio que
permita a las partes desbloquear sus narrativas y, en consecuencias sus
posiciones. El resultado de las investigaciones de Goldberg indica que la
clave del éxito radica en que el mediador pueda desarrollar una buena
relación con las partes contendientes. Si el mediador no es capaz de
desarrollar una buena relación, poco importa la competencia, su pericia o las
muchas tácticas que se propugnan en la literatura de mediación.
Las investigaciones de ponen en evidencia que el factor clave para el
éxito de las mediaciones radica en la capacidad de desarrollar una base de
confianza entre el profesional y las partes. Desde otros ámbitos como el de la
psicoterapia o el trabajo social (Cardona 2012) se ha prestado especial
atención a las relaciones entre los profesionales y sus clientes, considerando
que una buena alianza tiene una influencia crucial en los resultados del
trabajo de ayuda, siendo ésta el predictor más robusto para el éxito del
proceso de cambio. Desde nuestra perspectiva, hablar de alianza con las
partes implica referirnos a cuatro elementos: el enganche en el proceso de
mediación, la conexión emocional con el mediador, la seguridad dentro del
sistema de mediación y el sentido que el mediador desarrolla de compartir el
proceso con la pareja o la familia.
Estos cuatro movimientos que no vamos a describir en estos momentos,
implican un desgaste psíquico y emocional para el mediador que no
podemos ignorar. Vincularse, cuesta, no es un movimiento gratuito.
2 El uso necesario de la empatía. Entendemos a la empatía como esa
capacidad psicofisiológia que nos permite sentir y percibir el bienes y el
malestar del otro desde una perspectiva cognitiva y emocional (Davis 1994).
Posee una base neurofisiológica compleja en la cual destacan el papel de la
amígdala, el circuito cerebral específico y las neuronas espejo. Para Baron-
Cohen (2012), “la empatía se produce cuando suspendemos nuestro enfoque
de atención único centrado exclusivamente en nuestra mente y, en su lugar,
adoptamos un enfoque de atención doble que también se centra en la mente
del otro” (p. 27). Así pues, un enfoque de atención doble significa que en
nuestra mente tenemos presente al mismo tiempo la mente de alguien más.
Parece evidente que en el desarrollo de la mediación familiar, el
desarrollo de este mecanismo, no solo es inevitable sino que debe ser
conscientemente esencial, y en este sentido se han desarrollado interesantes
trabajos al respecto, considerándose en todos los casos que la empatía es la
capacidad de identificar lo que el otro piensa o siente, y responder antes sus
pensamientos o sentimientos con una emoción adecuada (Cohen 2012). La
empatía significa ser capaz de entender con precisión la posición del otro, ser
capaz de encontrar soluciones compatibles con las otras personas. Su
desarrollo en la mediación significa que los clientes se sienten escuchados y
valorados, reconocidos, legitimados y respetados. Es tan central que
podemos afirmar que sin el desarrollo y la puesta en juego de la empatía, la
mediación se hace sumamente difícil.
Sin embargo, el desarrollo y la puesta en juego de la empatía mediante la
escucha activa se convierten también en fuentes de desgaste del mediador.
En primer lugar, se hace necesario contrarrestar el reflejo empático. Éste es
espontáneo, irreflexivo e inconsciente, y se traduce en una escucha
desequilibrada de las narrativas de los conflictos que aportan las personas.
Dado que los mediadores no somos sujetos asépticos e inmaculadamente
imparciales, dado que tenemos historia e ideología, es inevitable que al
escuchar narraciones de problemas, narraciones cargadas de sufrimiento, de
dolor, malestar y, en ocasiones de significativas y lacerantes injusticias,
tengamos una tendencia espontánea a ser más empáticos con una parte que
con la otra. La identificación con nuestro propio género, las resonancias
emocionales que se ligan a nuestra propia historia, nuestro sentido de lo que
es justo o injusto, bueno o malo, todo ello nos inclina a una predisposición
empática que no está equilibrada y en la cual hay víctimas y victimarios,
ganadores y perdedores. Evidentemente, esta reacción empática espontánea
que nos inclina a predisponer una mayor atención y escucha hacia aquella
persona que identificamos como el perdedor o el maltratado, debe ser
corregida si queremos llevar a cabo una mediación adecuada. Este proceso
de corrección, de recolocarnos en una posición de no predisposición a la
parcialidad, implica una fuente de desgaste que consideramos muy
importante, ya que nos obligamos a comprender el significado de las
conductas y sentimientos de ambas partes, pero especialmente de aquella
persona que inicialmente nos despierta menor empatía.
Existe una segunda fuente de desgaste relacionada con la empatía que nos
obliga a desarrollar un trabajo adicional para contrarrestarla. Nos referimos
al impacto del uso de la escucha activa mediante el desarrollo de la actitud
empática. A diferencia del reflejo empático, la actitud empática implica una
predisposición consciente para comprender la posición del otro, el discurso
del otro y el significado que el otro da a su discurso, sus emociones y sus
vivencias. Para desarrollar una aprehensión de los significados que están en
juego y que están relacionados con las personas en conflicto, los mediadores
deben percibir y experimentar parte del malestar que sientes las personas
implicadas en el conflicto. Dicho en otros términos, en el marco de una
relación marcada por el conflicto, el desarrollo de una actitud empática
significa experimentar, en una aproximación vivencial, el sufrimiento, la
angustia, el dolor o el malestar que experimentan cada una de las partes. Una
escucha activa activada por una predisposición y una actitud empática,
implica percibir en si mismo parte del malestar del otro. Acabar una sesión
de mediación familiar con sensación de agotamiento, de angustia o de
malestar es frecuente y debe considerarse como parte de la normalidad de la
práctica profesional del mediador. Por tanto, una buena práctica implica
asumir y reconocer en sí mismo el malestar de los demás. Esta situación
origina un importante desgaste que si no es compensado, balanceado, puede
provocar efectos no deseados en la competencia inmediata o futura del
mediador.
3. La tensión entre empatía y ecpatía. Una mediación que pretenda ser
eficiente no puede quedar atrapada ni comprometida por la posibilidad de
identificación o sobre involucración del profesional. Construir una distancia
emocional adecuada para no identificarse o sobre-involucrarse y hacer
posible una relación de ayuda es imprescindible. El concepto de ecpatía hace
referencia a nuestra capacidad de controlar la reacción empática mediante la
exclusión activa de los sentimientos inducidos por los demás. Desarrollar la
ecpatía no significa renegar de la empatía ni adoptar una actitud dispática o
cínica respecto a los otros, se trata de “una maniobra o acción mental
positiva compensadora de la empatía y no de su carencia”. La práctica de la
ecpatía nos protege de la inundación afectiva y del dejarnos llevar por las
emociones de las partes mediante una forma de control intencional de la
subjetividad interpersonal.

Así pues, entre la empatía que se requiere para comprender al otro


y la ecpatía imprescindible para desarrollar la distancia emocional
necesaria, nos encontramos ante una tensión paradójica entre
distancia emocional y proximidad emocional que es necesario
mantener. Parece evidente que tal tensión provoca una nueva
fuente de desgaste.

Desgaste por empatía o Fatiga por Compasión


El término de Fatiga por Compasión proviene de la traducción literal de
su homónimo inglés compassion fatigue. La nomenclatura más utilizada en
lengua castellana es la de desgaste por empatía. El primer antecedente que
encontramos de un cierto interés por parte de los investigadores sobre los
posibles efectos perjudiciales de empatizar con personas con una historia
traumática de forma continuada se remonta a 1971. En este momento,
estudia por primera vez estas consecuencias con enfermeras que atendieron
veteranos de la guerra de Vietnam, en la década de los 60 y 70. Según este
autor, estas profesionales tenían sentimientos de culpa y remordimiento, por
no haber podido “salvar” a sus pacientes. Estos recuerdos se asociaban a
numerosos problemas psicológicos, que en 1980, se compilaron en el DSM-
III como “síndrome de estrés post-traumático”. El diagnóstico no sólo
incluía la traumatización consecuencia de ser víctima de un acontecimiento
altamente estresado si no también la sufrida por las personas que apoyan a
estas, como los familiares, amigos cercanos y profesionales, es decir, las que
sufren de forma indirecta el trauma. Joison utilizó el término Fatiga por
Compasión para referirse al efecto nocivo de la exposición continuada de las
enfermeras a las historias de dolor y sufrimiento de sus pacientes (Jiménez et
al. 2004).
Podemos definir la Fatiga por Compasión o el Desgaste por Empatía,
como “el estado de agotamiento y disfunción biológica, psicológica y social,
resultado de la exposición prolongada al estrés por compasión y todo el que
ello evoca”. Para Figley (2002), “la Fatiga por Compasión como cualquier
otra forma de fatiga, reduce nuestra capacidad o nuestro interés en soportar
el sufrimiento de los demás” (p. 1434). Si un profesional de la mediación
experimenta dicho fenómeno, su capacidad para empatizar, conectar y
ayudar a sus clientes se ve gravemente disminuida. añade el componente
espiritual a la definición, indicando que la Fatiga por Compasión “describe
el agotamiento emocional, físico, social y espiritual que se apodera de una
persona y provoca un descenso generalizado de su deseo, capacidad y
energía de sentir y tener la energía para ayudar a otro” (p. 14)., definen la
Fatiga por Compasión como “el resultado final del proceso progresivo y
acumulativo consecuencia del contacto prolongado, continuado e intenso con
pacientes, el uso de uno mismo y la exposición al estrés” (p. 237).

Diferenciando la Fatiga por Compasión


Cómo constatan las obras de Figley. El uso de varios términos
relacionados con el desgaste por empatía para referirse a un misma situación
ha dado pie a confusiones y a un uso cuestionable de los diferentes términos.
Nos referimos al síndrome de estrés traumático secundario (estrés traumático
derivado del contacto con la víctima o el evento traumático) y de estrés post-
traumático, a la traumatización vicaria, la contratransferencia y también el
conocido síndrome de burnout, así como el contagio emocional. Todos ellos,
a excepción del conocido síndrome de Burnout, se desarrollan en actividades
relacionadas con el contacto o la atención directa con personas o situaciones
altamente traumáticas. En el caso de la mediación, quizás fuera más
adecuado hablar de situaciones altamente estresantes, aunque no
significativamente traumáticas. Nos interesa hacer una especial y concreta
diferenciación entre la Fatiga por Compasión (desgaste por empatía) y el
Síndrome del Profesional Quemado o Burnout, ya que pudiera parecer que
son estructuralmente semejantes.
En ocasiones han considerado a la Fatiga por Compasión como una sub-
tipología del Síndrome de Burnout. Diversos autores consideran que la
Fatiga por Compasión es una forma única de Burnout, en la cual la causa del
malestar no está tan relacionada con los factores estresantes del trabajo como
con la respuesta empática que los profesionales que trabajan con la empatía
proporcionan. Sabo (2006, 2011) describe el Síndrome de Burnout como un
proceso gradual resultado de las respuestas que damos en nuestro entorno de
trabajo, mientras que la Fatiga por Compasión tiene un inicio agudo que
resulta de la atención a las personas que están sufriendo, producto de la
experiencia de hacerse cargo, empáticamente, del malestar del otro.
Parece evidente que en último término hay un consenso generalizado en
considerar el Síndrome de Burnout como una respuesta acumulativa al estrés
crónico en el trabajo, a largo plazo, y que tiene efectos negativos en el
individuo y en el trabajo. Son claras las consecuencias básicas de este
síndrome (Maslach 1982): agotamiento emocional, despersonalización y
escasa realización personal. Estas consecuencias no coinciden con las que se
asocian con la Fatiga por Compasión: la re-experimentación, evitación y
embotamiento psíquico e hiperactivación El Desgaste por Empatía “es la
consecuencia natural, predecible, tratable y prevenible de trabajar con
personas que sufren; es el residuo emocional resultante de la exposición al
trabajo con aquellos que sufren las consecuencias de eventos traumáticos”.

Señales y signos de la Fatiga por Compasión


De acuerdo con Figley (2002) y Moreno los signos de la fatiga por
compasión o del desgaste por empatía, mantienen las tres variables
sintomáticas del estrés traumático secundario, es decir, la re-
experimentación, la evitación y embotamiento emocional y la
hiperactivación. En la tabla I, hemos organizado estos signos siguiendo la
organización de estructuración dela personalidad CASIC (conducta, afecto,
soma, interacción y cognición) que propone en su enfoque multimodal
(Tabla I).
En la revisión bibliográfica realizada por se constatan las diferentes
consecuencias que se atribuyen a la fatiga por compasión, las cuales
incluyen aspectos psicológicos como conductuales, relacionales o somáticos.
Desde la dimensión psicológica, hace referencia a una creciente
despersonalización y una actitud hipercrítica hacia los clientes, un descenso
de la perspectiva de autoeficacia y la aparición de sentimientos relacionados
con la apatía, la depresión, la ansiedad y el aislamiento. hace hincapié en la
separación emocional, la distancia con los familiares y los amigos, la pérdida
de actividades generadoras de placer y la aparición de pensamientos
recurrentes relacionados con los clientes y el trabajo. Por último destacan la
importancia dela pérdida de objetividad y la descenso de la competencia en
sentirse útil.

Desde la dimensión somática (Sabo 2011; McHolm, 2006; Showalter,


2010) se remarca la sensación de fatiga y agotamiento, cambios de peso,
agarrotamiento muscular, trastornos del sueño, cefaleas, taquicardia y
disminución de la eficacia del sistema inmunológico. En lo referente a su
dimensión relacional, diversos autores (Mathieu 2012; Negash & Sahin,
2011; Jacobson, Rothschild, Mirza, & Shapiro, 2013) señalan un incremento
del abuso de psicofármacos, y de la ingesta de alcohol, la disminución del
tiempo de dedicación a los clientes, el distanciamiento de las relaciones con
la familia y los amigos, el desarrollo de una actitud cínica hacia los demás, la
descalificación de los otros, el descenso significativo del deseo sexual, la
intolerancia y la culpa, así como el incremento de los conflictos
interpersonales. Parece evidente que tal situación también repercutirá en las
relaciones laborales. destaca la insatisfacción con el trabajo, el desarrollo de
juicios inadecuados, la dificultad para mantener el equilibrio entre empatía y
objetividad (la tensión entre empatía y ecpatía), la aparición de irritabilidad y
negatividad.

Tabla I. Señales y signos de la Fatiga por Compasión y Sistema CASIC.


Fuente: (Mathieu 2012) y elaboración propia
Modelo general de resiliencia a la Fatiga por Compasión
El Modelo ayuda a estimar el nivel de resiliencia a la Fatiga por
Compasión de los profesionales, determinando 10 medidas separadas pero
interrelacionadas (Figley, 1995; 2002; 2014)
El modelo general descrito por Figley (2014) se articula de la siguiente
manera (Figura I):
1. Exposición al cliente que sufre: cuanta más exposición al cliente que
sufre mayor es la respuesta empática, cuanto mayor es el estrés por
compasión residual, menor es la resiliencia a la fatiga por compasión.
2. Habilidad empática: es el grado en que el profesional puede predecir
de forma ajustada la emoción expuesta por el cliente y exponer emociones al
cliente que reflejan servicios efectivos y con resultados.
3. Preocupación por el cliente: es el interés en el bienestar y el éxito del
cliente. Motiva al profesional a buscar la mejor respuesta terapéutica.
4. Respuesta terapéutica: es la que el profesional utiliza para permitir al
cliente a) tener más voluntad para cambiar, b) tener menos temor, e) ser más
optimista acerca del resultado de la mediación, d) sentirse apoyado. Sin
embargo, dando la respuesta terapéutica adecuada, el trabajador experimenta
distrés vicario del cliente que carga en el profesional, de forma medible,
como Estrés por Compasión Residual.
5. Auto-regulación: es el grado por el cual el profesional puede manejar
de forma efectiva la causa y el impacto del estrés y separar el trabajo de la
vida personal; sentirse fresco cada día gracias a la habilidad del trabajador de
auto-regularse.
6. Satisfacción por Compasión y Apoyo: es el grado en que un mediador
siente un alto nivel de satisfacción personal por el trabajo con sus clientes y
percibe un alto grado de nivel de apoyo y respeto por los compañeros de
trabajo.
7. El estrés residual por compasión: es experimentado por los
mediadores como reacciones de estrés a la situación difícil del cliente y la
preocupación de hacer todo lo que uno pueda para ayudar al cliente que está
sufriendo. Adicionalmente a la respuesta terapéutica, la autorregulación y la
satisfacción por compasión y apoyo también afecta al nivel de estrés residual
por compasión.
8. Resiliencia a la Fatiga por Compasión: es la velocidad y grado de
recuperación total de una adversidad del profesionales después de haber
experimentado un significativo incremento en el volumen de estrés. El
Modelo sugiere que es una función en 4 variables diferentes: Estrés por
Compasión Residual, Exposición Prolongada a los Clientes, Manejo
Efectivo de los Recuerdos Traumáticos, si hay alguno, y Nuevos Estresores
de la Vida.
8.1. La exposición Prolongada a los Clientes es el número de clientes
asignados versus el tiempo al día para proveer servicios multiplicado por el
número de meses realizando estas tareas.
8.2. El Manejo Efectivo de Recuerdos Traumáticos es la satisfacción,
auto-reportada, manejando el número (si hay) y la intensidad de los
recuerdos del trauma pasado. Mientras mayor sea la satisfacción en manejar
los recuerdos, mayor es la Resiliencia a la Fatiga por Compasión. No es
importante solo para predecir la Resiliencia a la Fatiga por Compasión,
también para predecir como de bien el profesional utiliza las lecciones del
trauma pasado para ayudar a los clientes que están experimentando un
trauma similar y para adaptarse al trauma.
8.3 Nuevos Estresores de la Vida: Acontecimientos propios del desarrollo
del ciclo vital o de acontecimientos no previstos de que provocan crisis
personales y familiares que afectan a los profesionales en cuanto personas

Figura II. Modelo General de Resiliencia a la Fatiga por Compasión

Las variables descritas pueden ayudar a los profesionales y a sus


supervisores a estimar los niveles de resiliencia a la fatiga por compasión y
al diseño de programas de prevención para aumentar la resiliencia, mejorar
la satisfacción por compasión y apoyo, la auto-regulación, manejar el estrés
relacionado con los clientes, y manejar de forma efectiva el estrés impuestos
por la vida personal (Figley 2014).

Prevención de la Fatiga por Compasión


Se entiende por perspicacia empática213 (Empathic discerniment, Radey
& Figley, 2007) a la capacidad del profesional para reconocer y reducir a
tiempo la fatiga por compasión y aumentar la satisfacción por compasión
mediante el equilibrio e incremento de tres factores: el afecto, el auto-
cuidado y los recursos (Figura II).

Figura III. Modelo General de Resiliencia a la Fatiga por Compasión

El afecto positivo se refiere a las características de la relación que son


fundamento esencial para entrar en contacto con las necesidades de los
clientes: respuesta empática y alianza de ayuda. También se refiere a cubrir
necesidades del profesional de la mediación tales como la satisfacción por el
servicio prestado y el aprecio de los demás.
El autocuidado, incluye seguir estándares reconocidos para cuidar de uno
mismo (descansar, dormir...), pero también conviene utilizar un plan de auto-
cuidado diseñado individualmente y actualizarlo periódicamente. Es
fundamental la auto-monitorización o bien la monitorización a través del
apoyo social para conocer el nivel de satisfacción y fatiga de compasión. Un
pobre auto-cuidado puede tener consecuencias negativas como reducir el

213 Empathic discerniment, que también podría traducirse como discernimiento


empático o insight empático.
nivel de satisfacción por compasión, dañar la salud del profesional de ayuda
y de sus relaciones, así como dañar a los clientes.
Los recursos personales y sistémicos con los que puede contar el
profesional de ayuda son diversos. Por ejemplo, recursos intelectuales
(formación, el saber hacer que da la experiencia...), de salud (buena
nutrición, ejercicio físico...), sociales (amigos, compañeros de trabajo,
supervisores, organización etc.).
Las estrategias para el manejo del estrés son un buen instrumento para
mejorar la perspicacia empática. Hay diversas técnicas que se pueden utilizar
tales como la respiración, la relajación, la conversación con uno mismo, el
movimiento físico, la meditación consciente (mindfulness), la visualización,
arte-terapia, músico-terapia, llevar un diario, tener un hobby o actividad de
tiempo libre muy absorbente, etc. La mayoría de tratamientos de desorden de
ansiedad son relevantes para la Fatiga por Compasión.

Conclusiones
El concepto de Fatiga por Compasión continúa, aun en día, siendo
confuso. La revisión bibliográfica que hemos efectuado en las publicaciones
especializadas relacionadas con el cuidado profesional y la traumatización,
todavía permiten observar una cierta confusión al respecto.
En el transcurso de este trabajo hemos intentado deslindar el concepto de
Fatiga por Compasión de otras formas de desgaste profesional, enfatizando
su elemento más estructurales: la Fatiga por Compasión se desarrolla en
todas aquellas actividades profesionales que se sustenta sobre la base de una
relación de ayuda. A nuestro juicio, este es el punto de anclaje con la práctica
de la Mediación Familiar. Sin embargo, el concepto de Fatiga por
Compasión o Desgaste por Empatía es inexistente en la literatura
internacional especializada en Mediación Familiar.
Este trabajo ha pretendido acercarse al fenómeno del desgaste profesional
inevitable del mediador y proponer las bases para profundizar en el
conocimiento del fenómeno y orientar la investigación futura. Consideramos
que es relevante saber, con la máxima amplitud posible, cuál es el impacto
del desgaste en los mediadores familiares. Así mismo, consideramos
imprescindible conocer, en futuros trabajos, cuáles son los procedimientos
de autocuidado específicos e inespecíficos que los mediadores activan para
contrarrestar el desgaste, con la intención de avanzar en la construcción de
instrumentos de autoevaluación.
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La peor discapacidad es la actitud negativa
Claudia D’Alicandro - CEJUME, General Roca (Argentina)

Introducción
Este análisis parte de asumir cierto desconocimiento que existe respecto
de lo que es e implica la discapacidad, desde antaño rodeada de
concepciones negativas, que sostenían las ideas de negación y dominación.
La visión que se propone en estas líneas tiene una mirada desde la
inclusión y participación social y no desde la vulnerabilidad de las personas
con discapacidad.
Discapacidad que se conforma por el reverso y anverso de una misma
moneda. Por un lado, una cara personal y privada, dado que la misma se da
en algunas personas, haciéndolas ver diferentes; y la otra, porque la
discapacidad es un hecho de trascendencia social.
Esta circunstancia ha sido analizada por diversos modelos explicativos
que han surgido a lo largo del tiempo y han influido en la actuación pública
respecto de ella214.
Así el primer modelo, Tradicionalista, consideraba la discapacidad como
deficiencias del hombre, de carácter inmodificable, contemplando al hombre
con discapacidad como innecesario, por no tener nada que aportar a la
comunidad. El modelo Médico, en cambio, parte de la idea de que a través
de la rehabilitación o normalización de estas personas, ellas pueden
contribuir al desarrollo social, siendo por lo tanto el principal objetivo de
este modelo, la búsqueda de medidas terapéuticas tendientes a eliminar tales
deficiencias.
Desde una visión superadora, el modelo Social considera, en primer
lugar, que la discapacidad nace en razón de la incapacidad de la sociedad de
dar respuesta a las necesidades que surgen de una discapacidad. En un
segundo lugar, enfatiza y sostiene la condición irrevocable de la persona con
discapacidad como ser humano.
Concomitantemente, se desarrolló el modelo de Integración, que propone,
desde una visión muti-direccional y dimensional, la integración de los
niveles biológicos, personales y sociales en los cuales se manifiestan las
discapacidades.

214 Clasificación desarrollada en Discapacidad y Sistemas Alternativos de


Resolución de Conflictos.
Es a partir de estos dos últimos modelos que se nutre el marco de los
Derechos Humanos, sustentado, a su vez en los pilares de Igualdad,
Dignidad y Solidaridad.
La labor de promover y establecer un nuevo modelo de inclusión y
comprensión de la discapacidad ha generado un amplio espacio en las
instituciones, las cuales han patrocinado claras pautas en orden de ubicar a la
discapacidad como un asunto de relevancia internacional, cuya principal
bandera es la Convención Internacional sobre los Derechos de las Personas
con Discapacidad, aprobada el 13 de Diciembre de 2006, mediante
Resolución 61/106 de la Organización de Naciones Unidas.
Así vemos como desde hace tres décadas, en el ámbito del Derecho, se
evidencia claramente una transición al modelo Social y de la Integración, no
limitado al ámbito de la Discapacidad, sino inclusivo de nuevos métodos que
permitan emprender y aprehender realidades sociales largamente ignoradas,
permitiéndose así la visión de la discapacidad como un componente más de
la realidad social.
Esta idea de inclusión, que surge desde diversos marcos legislativos,
lleva ínsito en sí misma el principio inderogable que hace al derecho humano
fundamental del libre e igualitario acceso a la justicia, permitiéndose
entonces, a través de ella, el pleno y total goce de los derechos humanos, a
todos ellos, y especialmente en el ámbito de este trabajo, a las personas,
vistas no ya con discapacidades, sino a “personas en situación de
discapacidad.
Es en este marco que el presente trabajo busca señalar, y destacar, a la
Mediación, con todo el bagaje que implica ella desde su individualidad y
como perteneciente a los Mecanismos Alternativos de Resolución de
Conflictos, cuya presencia y preponderante crecimiento es innegable en la
realidad jurídica actual, como uno de los mecanismos por el cual “personas
en situación de discapacidad” pueden acceder a la inclusión social,
económica y política, por medio del ejercicio de los principios de libertad y
democracia, cuyo fin último es la paz social 215.
Así, la mediación, visto como uno de los métodos que permiten hacer
justicia de forma diferente a la justicia ordinaria, complementaria y no
disyuntiva a ésta, por sus especiales características, lleva adelante una
transformación cultural, como un nuevo modo de abordar controversias entre
individuos, recuperando la capacidad comunicativa y propiciando la “cultura
de la paz”, donde toda relación interacciona en una dinámica transformativa,
renovándose así a estas relaciones a través del diálogo.
Como fórmula de autocomposición, la mediación pretende la búsqueda
de un acuerdo de mutuas satisfacciones, pero es su particularidad de incluir
al sujeto, a través de la restitución de su propio discurso, lo que la instituye
215 Mediación con Personas con Discapacidad: Igualdad de Oportunidades y
Accesibilidad de la Justicia, 2012.
como el mecanismo fundamental de resguardo y ejercicio de los derechos
humanos de “personas con discapacidad”.

La peor discapacidad es la actitud negativa


Los derechos humanos son aquellas condiciones instrumentales que le
permiten a la persona su realización, subsumiendo aquellas libertades,
facultades, instituciones o reivindicaciones relativas a bienes primarios que
incluyen a toda persona, por el simple hecho de su condición humana, para
la garantía de una vida digna, sin distinción alguna de raza, color, sexo,
idioma, religión, opinión política o de cualquier otra índole, origen nacional
o social, posición económica, nacimiento o cualquier otra condición.
Ellos, son condición importante e indispensable para que se realicen las
aspiraciones y valores supremos del ser humano, tendiente hacia el
reconocimiento de su dignidad y libertad, dentro de un plano de absoluta
igualdad.
Pero, teniendo en cuenta la crisis por la que el actual orden social
atraviesa, debemos centrar nuestra atención en la praxis de los valores
intrínsecos del ser humano, como acción vital que justifique nuestras
concepciones sobre la realidad, adaptando normas y prácticas de
comportamiento a la realidad social.
Y esto, porque el reconocimiento de estos principios es el inicio de la
práctica del diálogo democrático y fructífero para comenzar y favorecer una
convivencia pacífica.
Ahora bien, a pesar de que se ha avanzado en el desarrollo declarativo de
estos principios primordiales, también es verdad que ha quedado rezagada su
afirmación y realización en la práctica cotidiana de la sociedad.
Por ello es de suma importancia, entonces, promover y practicar la
protección y defensa de los derechos humanos, impulsando la conciencia
social sobre su conocimiento y su difusión, ya que, su reconocimiento o
defensa no son posibles por el mero hecho de encontrarse plasmados en
documentos universales.
Esto hace imperioso, entonces, la existencia de mecanismos certeros,
efectivos y eficaces para la práctica de los derechos del ser humano.
En este marco y en estas líneas es de suma importancia subrayar la
protección de los derechos humanos de las personas en situación de
discapacidad, protegidas por medio de la Convención sobre los Derechos de
las Personas con Discapacidad216.

216 La Convención sobre los derechos de las personas con discapacidad y su


Protocolo Facultativo fueron aprobados el 13 de diciembre de 2006 en la Sede de las
Este texto internacional dispone como propósito principal el fomentar,
proteger y garantizar la vigencia plena, y en un pie de igualdad, de todos los
derechos humanos y libertades a los que son acreedores las personas con
discapacidad.
Es necesario prestar atención especial el Artículo 13 de esta
Convención217 el cual establece las pautas generales para asegurar el libre
acceso a la justicia a las personas en situación de discapacidad.
Y esto, porque plantea desde el inicio la existencia de igualdad de
condiciones para las personas con discapacidad, previendo incluso la
posibilidad de realizar ajustes y cambios en el procedimiento judicial, para
facilitar el desempeño de su papel, como participantes directos o indirectos,
en todas las etapas judiciales
La previsión de tal situación manifiesta la clara intención de inclusión
propuesta por la Declaración, a fin de permitir que las personas con
discapacidad puedan ejercer su protagonismo en el ámbito de la justicia sin
limitaciones, en el perímetro de todos los procedimientos judiciales. Tanto
como en etapas de investigación o etapas preliminares.
A su vez y de incluso mayor importancia, el segundo parágrafo de este
artículo dispone la obligación asumida por los Estados parte de promover la

Naciones Unidas en Nueva York, y quedaron abiertos a la firma el 30 de marzo de


2007. Se obtuvieron 82 firmas de la Convención y 44 del Protocolo Facultativo, así
como una ratificación de la Convención. Nunca una convención de las Naciones
Unidas había reunido un número tan elevado de signatarios en el día de su apertura a
la firma. Se trata del primer instrumento amplio de derechos humanos del siglo XXI
y la primera convención de derechos humanos que se abre a la firma de las
organizaciones regionales de integración. Señala un “cambio paradigmático” de las
actitudes y enfoques respecto de las personas con discapacidad.
La Convención se concibió como un instrumento de derechos humanos con una
dimensión explícita de desarrollo social. En ella se adopta una amplia clasificación
de las personas con discapacidad y se reafirma que todas las personas con todos los
tipos de discapacidad deben poder gozar de todos los derechos humanos y libertades
fundamentales. Se aclara y precisa cómo se aplican a las personas con discapacidad
todas las categorías de derechos y se indican las esferas en las que es necesario
introducir adaptaciones para que las personas con discapacidad puedan ejercer en
forma efectiva sus derechos y las esferas en las que se han vulnerado esos derechos
y en las que debe reforzarse la protección de los derechos.
217Artículo que dispone: “Los Estados Partes asegurarán que las personas con
discapacidad tengan acceso a la justicia en igualdad de condiciones con las demás,
incluso mediante ajustes de procedimiento y adecuados a la edad, para facilitar el
desempeño de las funciones efectivas de esas personas como participantes directos e
indirectos, incluida la declaración como testigos, en todos los procedimientos
judiciales, con inclusión de la etapa de investigación y otras etapas preliminares. 2.
A fin de asegurar que las personas con discapacidad tengan acceso efectivo a la
justicia, los Estados Partes promoverán la capacitación adecuada de los que trabajan
en la administración de justicia, incluido el personal policial y penitenciario”.
capacitación adecuada de quienes trabajen en el ámbito de la justicia para
que puedan fácilmente adaptarse y adecuarse al trato y situación que requiere
una persona en situación de discapacidad.
Hablamos entonces del reconocimiento que hacen los Estados parte de la
necesidad de contar con herramientas especiales y capacitación que asegure
a todo el personal de justicia, incluido el policial y penitenciario, el
conocimiento de técnicas que mediante su aplicación, permitan la existencia
real del acceso a la justicia en igualdad de condiciones de las personas con
discapacidad.
Esto significa que el libre acceso a la justicia, justicia social y el pleno
goce de los Derechos Humanos y las Libertades de personas en situación de
discapacidad, requieren la aplicación de técnicas innovadoras, que destaquen
las coincidencias, por sobre las diferencias.
Una de estas técnicas innovadoras, está formada, sin lugar a duda, los
Mecanismos Alternativos de Resolución de Conflictos, y entre ellos, la
Mediación, vista como un procedimiento aplicable en las diversas
dimensiones de la vida social, a través de respuestas creativas en ella
generadas, a debates concretos de la controversia humana.
La mediación por su naturaleza y objeto, puede ser la forma de
tratamiento de las situaciones sociales conflictivas que conllevan a la
práctica de la democracia y la libertad; por lo tanto, la practicidad y
protección de los derechos humanos, para la convivencia pacífica, haciendo
que cada uno de los intervinientes pueda acceder a esclarecer sus intereses,
objetivos, deseos y necesidades en igualdad de condiciones.
Esto, porque hablar de Mediación es hablar de la necesidad de una
trasformación cultural, que aporte un giro a la concepción litigiosa, como
modo de abordar las controversias, promoviendo una actitud proactiva a fin
de buscar soluciones a sus conflictos, fomentando la participación cívica,
como un modo de incrementar el bienestar del individuo dentro de la
comunidad.
Básicamente, la Mediación fomenta que las partes encuentren, por sí
mismas, acuerdos que les satisfagan mutuamente, mediante la restitución de
su propio discurso. Se constituye, entonces, como una apuesta a la madurez
ciudadana, y a su vez, y por su intermedio, es una apuesta a la
responsabilidad de la sociedad toda.
Así, si se pretende que la persona con discapacidad pueda ejercer sus
derechos, tome decisiones con autonomía, desarrolle habilidades para
manejar situaciones conflictivas, por lo que consideramos que la Mediación
es la herramienta eficaz, ya que ella promueve la transversalidad de la
discapacidad en la sociedad y protege los derechos colectivos.
Para que todo esto se pueda llevar a la práctica, es necesario que todos los
agentes incluidos en este proceso trabajemos conjuntamente en el desarrollo
de acciones, programas, políticas y entornos favorecedores de la plena
inclusión a fin de responder a las necesidades de todos.
Por ello, es necesario construir espacios positivos y fiables donde los
intervinientes se sientan seguros y puedan desenvolverse con la confianza
necesaria para transitar cualquier camino que elijan para resolver sus
conflictos.
Como Mediadores, es necesario comenzar por auto-legitimarse, legitimar
a cada persona ante sí misma – empowerment – y por último, intentar la
legitimación entre las partes; por esto, será necesario readaptar nuestros
esquemas de representación y enfocar la discapacidad desde una óptica que
asuma su irrenunciable dimensión social, en la que se prioricen
intervenciones de carácter integrador, donde se tome en consideración las
necesidades específicas de las personas con discapacidad, y se valore su
autonomía, para tomar sus decisiones en un plano de igualdad.
El objetivo principal surge de revalorizar la cultura de la paz y la actitud
positiva como método transformador de las situaciones institucionales
complejas en las que se ven inmersas las personas con discapacidad.
Todos como operadores de conflictos, y tendientes a la cultura de la paz,
debemos comprometernos a crear espacios constructivos, a través de una
mirada transformadora.
Esa mirada tiende a colocar en el epicentro, no el contenido del conflicto
en sí mismo, sino a considerar las relaciones interpersonales en ámbitos
institucionales.
Esto porque como operadores del conflicto, debemos pensar que el logro
de los objetivos debe tender a la paz social y la inclusión del ser humano en
forma íntegra en la sociedad, removiendo todo tipo de barreras socio
culturales, entendidas como la suma de las barreras actitudinales (prejuicios
y discriminación existentes en la sociedad e instituciones), las barreras
lingüísticas y la falta de toma de conciencia de las personas que operamos en
el sistemas alternativos de resolución de conflictos, entre otras, que se
interponen ante las personas con discapacidad en su interacción con el
sistema y dificultan su acceso igualitario a la paz.
Por ello, creemos que herramientas como la mediación, son instrumentos
que nos pueden guiar a mirar el conflicto con otra lente, el transformativo. Y
es esta capacidad transformadora la que adquiere especial dimensión ante
situaciones donde está en juego la dignidad de las personas con
discapacidad.
Así debemos tener especialmente en cuenta el aspecto actitudinal de las
personas que trabajamos frente a personas con discapacidad, ya que es
nuestra obligación estar capacitados para poder hacer efectiva la
comunicación ante situaciones de esta naturaleza.
De ahí que resulte interesante ver a la mediación como instrumento de
gestión de resolución de los conflictos en el ámbito de la discapacidad,
valorando siempre su carácter equitativo, participativo y, fundamentalmente
la corresponsabilidad hacia las situaciones.
Es necesario diseñar estructuras mediatorias que incidan en la autonomía
individual, en la libertad para tomar decisiones y en la capacidad de cada
persona para superar las diferencias, máxime cuando estamos frente a
personas con discapacidad, ya que tenemos que tener en cuenta que debemos
superar las diferencias, suponiendo un paso significativo hacia la
transformación individual y social a fin de alcanzar una sociedad pacífica,
justa y respetuosa con la diversidad218.

El caso concreto
El Hospital zonal Francisco López Lima ubicado en la ciudad de General
Roca, Provincia de Río Negro, uno de los más importantes al norte de la
Patagonia Argentina, solicitó la apertura de un proceso mediatorio, por
intermedio de la Defensoría Oficial 219, a fin de buscar una solución a un
problema – inicialmente – habitacional, que involucraba a un paciente,
residente del mismo nosocomio por más de dos años y medio, que tenía una
discapacidad motora, auditiva y mental.
Así, al analizar la situación inmediata, veíamos como el paciente había
llegado al hospital como consecuencia de padecer una enfermedad que
implicaba la inflamación del sistema respiratorio – neumonía –, pero que
después de su curación, sus familiares no fueron a buscarlo, a pesar de ya
contar con el alta médica.
Esta persona no contaba con cobertura asistencial alguna, siendo todas
sus necesidades cubiertas por el hospital. La vida de él sufrió una gran
transformación desde su internamiento e incluso mucho después,
desarrollando una faceta social que jamás había tenido, por encontrarse en
un ámbito que le otorgó la confianza y el apoyo necesario para desarrollarse
a sí mismo.
En este punto, fue fundamental el papel de un asistente social que
incentivó su inclusión en el ámbito educacional, alentando al paciente a que
tomara participación en talleres especiales para personas con discapacidad, e

218 Discapacidad, Justicia y Estado. Acceso a la Justicia de Personas con


Discapacidad (2012) 08/11/2011.
219 Órgano provincial encargado de asegurar, en forma gratuita, la efectiva
asistencia y defensa judicial de los derechos de las personas, teniendo entre sus
principales funciones proveer la asistencia de un abogado a las personas de escasos
recursos y otorgar asesoramiento y ejercer la defensa de la persona y los derechos de
los justiciables.
incluso más, procediera a finalizar sus estudios primarios, que había
abandonado muchos años atrás.
Esto, obviamente, implicaba el traslado del paciente, desde el hospital
hasta el lugar donde se realizaban las clases y talleres, requiriendo ello de no
sólo una silla de ruedas especial, apta para sus necesidades, sino también un
vehículo especial que permitiera el traslado de la silla en sí misma.
A pesar de estas dificultades, el paciente vio un cambio positivo en su
vida, sintiéndose integrado y parte de una sociedad que lo comprendía e
incentivaba. Se encontraba, entonces, en un entorno que le era familiar y
seguro, satisfaciendo sus necesidades.
A pesar de esta situación de inclusión, el contacto con sus familiares era
muy escaso, limitándose a dos visitas anuales, generalmente, sin ningún otro
tipo de contacto durante el resto del tiempo.
Ahora bien, la situación de los familiares del paciente tampoco era
favorecedora para la situación. Su familia estaba conformada por su padre,
de 93 años, quien sufría problemas cardíacos y también paciente del mismo
hospital. Había sufrido dos infartos y había sido objeto de dos angioplastias,
basando su subsistencia en su aporte jubilatorio y ubicándose su residencia
en una zona carenciada.
Asimismo, tenía una hermana de 40 años, madre soltera, que se
sustentaba, tanto a ella como a su hija, trabajando como empleada de casas
particulares, no registrada y en extrema precariedad laboral.
Su hija, de aproximadamente seis años, también tenía tanto
discapacidades mentales como físicas, siendo una situación más a considerar.
Además, su vivienda era muy precaria, limitada a las necesidades básicas y
con grandes deficiencias al momento de cubrir los requerimientos de una
niña con discapacidad.
La mediación es solicitada por parte de la Defensoría Oficial con el
objetivo de solucionar un problema habitacional, ya que el hospital mismo
poseía – incluso hasta el día de hoy - poca capacidad para albergar a todos
los pacientes que diariamente requerían atención médica. Esto motivó la idea
de la búsqueda de un nuevo lugar para este paciente, liberándose el mismo
para otras personas, con estados de mayor gravedad.
Pero hay que descartar – como contexto subyacente de toda la situación –
la preocupación que tenía la institución respecto del lugar donde el paciente
podía instalarse, debido a sus necesidades especiales, y además, el hecho de
que era necesario el consentimiento del paciente para proceder a su traslado.
Hubo que considerar que mantener a una persona en un hospital, sin que
se encuentre en estado de riesgo su salud, implica una problemática
institucional muy grave en este país, no solo por los recursos que podrían
destinarse a otras personas con mayores urgencias, sino también por la
responsabilidad que implicaba la presencia constante de una persona en el
hospital, considerando la gravedad a la que se expone por las infecciones
intrahospitalarias.
En el fondo, y siendo este el verdadero marco conceptual del conflicto
hasta aquí descripto, todas las partes coincidían en la necesidad de mantener
el bienestar del paciente, y el problema de fondo a solucionar era cómo
llevar a la práctica, ese bienestar220.
Nótese como, tanto en el plano teórico como en la realidad de los hechos,
la barrera de la discapacidad se mantiene a la misma altura; el reto continúa
siendo la búsqueda de caminos que lleven a la realización práctica de los
derechos indiscutidos de personas con discapacidad. Es decir, nadie niega
que los tengan, el problema es la senda, el cómo o la práctica de su
realización.
Desde una visión transformativa, y considerando siempre la necesidad del
cambio de paradigma al analizar la discapacidad, se buscó la manera de
voltear la tortilla, dar un giro a la cuestión, para analizar el problema desde
otro ángulo, sin centrarse en las diferencias que existían entre las posturas de
las partes, sino resaltando en todo momento los puntos en común.
Una de las herramientas utilizadas en la búsqueda del camino común fue
el torbellino de ideas, que dio paso a la convocatoria de un cuarto integrante
en el presente conflicto, el Programa de Atención Médica Integral (PAMI) 221,
para que permitiese otorgarle otro color y visión a la misma cuestión. Es de
destacar que el PAMI no se encontraba legalmente obligado a asistir, sino
que su participación parte de voluntariedad y firme intención de proveer a la
satisfacción de necesidades sociales de todo tipo.
Ahora bien, a pesar de todos los principios mediatorios que se refieren a
las características que tiene que tener el ámbito ideal para desarrollar las
audiencias de mediación, la realidad se impuso de otra manera: todo el
proceso se llevó adelante en la misma habitación del hospital donde el
paciente había vivido sus últimos dos años y medio. Incluso más, a fin de
llevar adelante reuniones privadas, fue necesario para su realización,
ubicarse en las salas destinadas a la toma de radiografías, con todos las
dificultades técnicas que ello puedan llegar a imaginarse, máxime si
consideramos que se trataba de un hospital en pleno funcionamiento y
sufriendo una dura crisis habitacional que había motivado el presente caso.
Situaciones como ésta no hacen más que destacar el postulado principal
de este trabajo: después de todo, con verdaderas intenciones de buscar
soluciones, toda circunstancia puede ser salvada e incluso aprovechada para
la resolución de un conflicto particular.

220 Mediación para Mejorar la Atención de las Personas que se encuentran en


Situación de Dependencia, Ma. Pilar Munera Gómez y Carmen Alemán Bracho.
221 Acrónimo: Programa de Atención Médica Integral, obra social de jubilados y
pensionados bajo control estatal federal, hoy se la redefine como Por una Argentina
con Mayores Integrados.
Se llevaron adelante seis audiencias, de casi tres horas promedio en total,
en las cuales se intentó trasformar la visión general del conflicto,
amalgamando no solo las necesidades del requirente, sino también las reales
posibilidades de los requeridos.
La participación del PAMI ayudó a la búsqueda de un lugar adecuado
para que viviera el paciente, siendo el mismo una residencia geriátrica
especializada en personas con discapacidad, altamente recomendada y con
habilitación para esta tarea, comprometiéndose el organismo estatal a abonar
la mitad de la estadía del paciente en tal nosocomio.
El monto restante, fue afrontado por la familia del paciente, en base a la
asignación familiar por hijo con discapacidad 222, que era percibida por el
padre del paciente, y utilizada para solventar otras necesidades familiares.
El PAMI, asimismo, se comprometió a la entrega de pañales, de forma
mensual, para co-ayudar a la calidad de vida de este paciente, haciéndose
responsable además del traslado del mismo, desde y hacia la escuela y
lugares de taller, a través de medios de transporte que se ajustaran a las
necesidades del paciente.
En el ámbito de las relaciones familiares, se estableció una constancia de
visitas, no obligatorias, nacidas de la buena voluntad de las partes, teniendo
en miras la recomposición del vínculo familiar. Incluso más, se llegó a
plantear la idea el almuerzo dominical en familia.
La hermana del paciente, por último, se comprometió a gestionar la
pensión no contributiva y asistencial 223 por discapacidad, a favor de su
hermano, a fin de que este contara con un ingreso extra.
Hoy, cuatro años después de haberse realizado la mediación, el acuerdo
se sostiene casi en su totalidad, estando solo faltante la gestión de este último
beneficio social.

Conclusión
En el desarrollo de todo proceso mediatorio, como mediadores, vemos
transcurrir una serie de etapas, que, sin estar predispuestas de antemano, se
suceden unas a las otras, sin que exista imposibilidad de que se alternen,
inviertan o repitan. Esto se debe, fundamentalmente, al carácter fluido y
constante que tiene este proceso, y este método, en comparación con el
estático proceso judicial.
222 Suma mensual que se liquida por cada hijo con discapacidad que se encuentre
a cargo del trabajador, sin requisito de topes, sin límite de edad y siempre que obre
autorización expresa del ANSES.
223 Beneficio otorgado por el Estado a quienes no han realizado aportes al
Sistema de Previsión Social, y acrediten tener necesidades básicas insatisfechas.
Es esta ductilidad la que le permite a la mediación afrontar problemas con
una capacidad increíble de metamorfosis, ajustándose a la realidad,
cambiante y anómala, y al mismo tiempo, manteniendo una estructura que
permita la confianza, el diálogo el crecimiento mutuo de las partes y la
relación que mantienen entre ellas y para con el resto de la sociedad.
Como operadores del conflicto, debemos en todo momento y lugar,
propiciar y proponer una cultura de la paz, comprometiéndonos, de forma
constante en crear espacios constructivos de soluciones y no de nuevos
enfrentamientos. Y es en esta tarea donde la mirada transformadora adquiere
su diametral importancia.
Ello porque este impulso transformador coloca como epicentro de todo el
problema a las relaciones entre las personas, tanto entre sí como con
instituciones públicas y privadas, en vez de limitarse a analizar solamente el
contenido del conflicto.
Esta nueva tendencia a la pacificación social y a la inclusión del ser
humano en forma íntegra en la sociedad224 – en contra a las tendencias
modernas de alienación, alentada principalmente por las innovaciones
tecnológicas que incentivan la tendencia a la soledad – nos permite enfrentar
y comprender los problemas sociales desde un punto de vista diverso, más
amplio, y por lo tanto, con mayores posibilidades de acción225.
Es envuelta en este marco de ideas revolucionarias en el que este proceso
de mediación tuvo lugar, se enfrentó el planteo del caso concreto de la
mediación, pero intentando desde el inicio de la misma, vaciarse de
percepciones, supuestos y perjuicios que llevarán a acciones concretas y por
lo tanto a hipótesis que impidieran el buen trabajo mediatorio.
Así, a fin de evitar perder la neutralidad, fue necesario desprenderse de
ideas previas y buscar un enfoque nuevo y límpido, libre de prejuicios y pre
concepciones, que pudieran interferir en la visión panorámica del conflicto.
Considerando siempre que la intervención de esta mediadora sería
positiva, se buscó aquellos elementos que, incluso con buena intención,
podían llegar a dificultar, o a imposibilitar, el proceso de mediación y la
búsqueda de una solución a todo el conflicto.
Es así como quedó claramente a la vista la existencia de una situación de
desequilibrio entre las partes 226, como consecuencia lógica e irremediable de
la situación fáctica particular que planteaba este caso en concreto.
Se planteó entonces, para esta parte, un reto de tamaño mayúsculo: por un
lado, vencer los preconceptos y opiniones que uno como persona –
independientemente del papel que uno cumpla en el momento de la

224 Protocolo para el Acceso a la Justicia de las Personas con Discapacidad.


225 Discapacidad, Justicia y Estado. Acceso a la Justicia de Personas con
Discapacidad (2012) 08/11/2011.
226 Protocolo para el Acceso a la Justicia de las Personas con Discapacidad.
mediación – puede albergar respecto de las personas con discapacidad,
principalmente motivados por el miedo, desconocimiento y, ¿por qué no
admitirlo? una cultura social que tiende, mecánicamente, a relegar a este tipo
de situaciones a un ámbito oculto o velado227.
Por el otro lado, el reto consistía en buscar el equilibrio entre partes, sin
caer en posturas protectorias que afectaran la imparcialidad de esta
mediadora. Mediadora que, como consciente ejecutora de su papel de madre
y preocupada por la desventaja social de una de las partes, tuvo que tener
especial cuidado en que el instinto básico de todo ser humano que conlleva
el preocuparse, interesarse e incluso buscar el auxilio del otro, como ser
social que somos los seres humanos, no interfiriera con su papel en el
proceso.
Pero, contrariamente a lo que uno podría suponer ab initio es justo en el
papel de mediadora que esta parte encontró las herramientas y métodos que
permitían, por un lado, cumplir con su rol imparcial en el proceso, y al
mismo tiempo, promover la equidistancia entre las partes, llegando ellas a un
plano de paridad que les permitiera trabajar de “tú a tú” la cuestión.
Sin la capacitación adecuada de los que trabajan en procesos mediatorios,
no hay acceso efectivo a la justicia, aunque se cuente con las mejores leyes e
intenciones de los operadores, en general formados en concepciones de la
sociedad y del derecho superadas por los nuevos paradigmas de protección
de derechos para las personas con discapacidad.
La vocación transformadora de la capacitación tiene como objetivo
cambios estructurales que desarticulen aquellos estereotipos y prácticas que
perpetúan la discriminación de las personas con discapacidad, fomentando
actitudes receptivas respecto de sus derechos.
No obstante todo ello, no por algo decimos que “la peor discapacidad es
la actitud negativa”.

Bibliografía
Álvarez Ramirez, Gloria, Discapacidad y Sistemas Alternativos de
Resolución de Conflictos, Grupo Editorial Cinca S.A, Madrid 2013.
Ministerio de Justicia y Derechos Humanos de la Nación, Discapacidad,
Justicia y Estado. Acceso a la Justicia de Personas con Discapacidad.
Buenos Aires 2012.

227 Discapacidad, Justicia y Estado. Acceso a la Justicia de Personas con


Discapacidad (2012) 08/11/2011.
Munera Gómez, María, P., Mediación con Personas con Discapacidad:
Igualdad de oportunidades y accesibilidad de la justicia, en “Política y
Sociedad”, 2013, 50, 1, pp. 163-178
Munera Gómez, María, P. y Alemán Bracho, Carmen, Mediación para
Mejorar la Atención de las Personas que se encuentran en Situación de
Dependencia, en “III Congreso Anual de la REPS: Los actores de las
Políticas Sociales en Contextos de Transformación”, REPSaren III, 2011,
Urteko Biltzarra.
Organización de las Naciones Unida, Convención Internacional sobre los
Derechos de las Personas con Discapacidad, Resolución 61/106:
“Mediación con Personas con Discapacidad: Igualdad de oportunidades y
accesibilidad de la justicia”, Nueva York 2006.
Protocolo para el Acceso a la Justicia de las Personas con Discapacidad.
Colección Documentos de Política n° 2 - Área Justicia. Octubre 2013.
Reflexão sobre e a teoria do pensamento
complexo de Edgar Morin: a reflexão sobre crise
da jurisdição e possibilidade da mediação
como perspectiva emancipatória e participativa
do cidadão na resolução de conflitos
Thaíse Nara Graziottin Costa - Universidade Estácio
de Sá do Rio de Janeiro (UNESA|RJ)

Introdução
No presente artigo pretende-se refletir sobre a complexidade que chegou
entre nós em todos os ramos da sociedade e a dificuldade de adaptação ao
pensamento complexo é ao enfrentamento do emaranhado de jogo da
atualidade, do infinito das inter-retroações, da solidariedade dos fenômenos
entre elas, as inúmeras incertezas e contradições que nos atingem. Diante da
realidade complexa e necessária deste século, apresentaremos a crise da
jurisdição que está intimamente ligada à crise do Estado Democrático de
Direito e a possibilidade da mediação como perspectiva inovadora de
autocomposição emancipatória e participativa dos cidadãos na gestão de seus
próprios conflitos, por meio de técnica não adversarial.
Sabemos que a prerrogativa constitucional (art. 5º, no inciso XXXV) de
que o Estado não deixará de jurisdicionar sobre lesão ou ameaça de direito
levada ao seu conhecimento e garanta a todos os indivíduos o direito de
acesso à Justiça não tem sido sinônimo de prestação jurisdicional efetiva.
Significa afirmar, em outras palavras, que o Poder Judiciário, embora
sustente um papel ativo na resolução das demandas sociais que são levadas à
sua apreciação, para que a solução seja encontrada, precisa garantir uma
participação mais direta da sociedade, como forma de democratização do
acesso à justiça.
Ainda, o acesso à justiça não se resume apenas à possibilidade de
submeter o conflito, por meio do processo, ao crivo do Poder Judiciário. É
muito mais. É superar o puro instrumentalismo, a formalidade e a
morosidade do Judiciário para assegurar a justiça, ou, segundo uma ótica
mais abrangente e complexa, é dar maior celeridade aos instrumentos e
técnicas existentes e capazes de solucionar os conflitos, sem que o Judiciário
tenha o único protagonismo das decisões. E uma das técnicas capazes de
democratizar o acesso à justiça é, sem dúvida, a mediação.
O modelo tradicional de jurisdição na atualidade apresenta-se como
atividade de monopólio estatal, exercida pelos juízes e esgotada pela
sentença, em função declaratória, impositiva, ineficaz e lenta, apenas
conferindo um direito formal ao cidadão, que é o direito de ação, na maioria
das vezes, insuficiente e insatisfatório.
Diante do panorama de crise jurisdicional, considerada por alguns a
própria crise do Estado, recorre-se à Teoria da complexidade de Edgar Morin
para demonstrar que ordem e desordem e complexidade andam juntas e, ao
mesmo tempo, pode não ser considerada uma crise, mas sim um paradigma
de universo em expansão e que busca o seu alinhamento, ajustando-se as
exigências, os reclamas do multiculturalismo e a necessidade do cidadão de
ser partícipe de sua história.
Neste panorama de transformação e mudanças, o Poder Judiciário não
pode mais ser considerado o único meio de resolução de conflitos, pois não é
capaz de decidir de maneira célere e eficaz os litígios atuais, que são
numerosos e complexos. Tampouco assumir uma posição tradicional de
tutela da justiça, pois justiça tardia não é justiça.
O propósito do presente texto é abarcar o pensamento complexo diante do
parâmetro da superação do paradigma da jurisdição tradicional, tendo em
vista facilitar o acesso à justiça e compreender que as políticas públicas de
resolução amistosa de disputas deve ser cada vez mais uma realidade nos
foros brasileiros para garantir o acesso à justiça.
Como referiu Cappelletti (1988, p.47), “O acesso à justiça não é apenas
um direito social fundamental, crescentemente reconhecido; ele é, também,
necessariamente, o ponto central da moderna processualística. Seu estudo
pressupõe um alargamento e aprofundamento dos objetivos e métodos da
moderna ciência jurídica”.
Analisar o pensamento complexo e enfrentar a complexidade das relações
e dos sistemas dá-nos a noção da necessária mudança de paradigma
estrutural do modelo de Jurisdição tradicional que está desajustado à época.
Não podemos estar cegos e tentar não ver que o modelo hierarquizado,
autoritário e repressivo não atende a uma sociedade multicultural e
humanitária.
A mudança de modelo se efetiva na operacionalização da mediação como
uma oportunidade de construção da cidadania participativa, em que o
diálogo surge como ferramenta capaz de assegurar a participação voluntária
dos envolvidos na resolução pacífica dos seus conflitos. Essa ótica complexa
e voluntária, na qual a figura do mediador aparece como elo facilitador do
diálogo (oralidade), sem imposições (não existência de sentença), sem a
figura da lide (pretensão x resistência), partes processuais (autor e réu),
cultura do litígio, (onde deve haver um ganhador ou perdedor) como ocorre
no processo tradicional, faz parte de um passado de togas pretas, martelo e
autoritarismo impositivo.
Busca-se identificar a complexidade e a tomada de consciência de que
sempre teremos ação e reação, certos e incertos, porém admitir um sistema
aberto que deve ser oferecido com opção, num sentido pela existência de um
caldo cultural, que em toda sociedade pode fecundar contribuições abertas,
flexíveis e não rígidas, com aceite da diversidade, por isso não é estático e
atende ao dinamismo do social.
Numa visão mais humanista e desafiadora sempre existirá o sujeito desta
relação em conflito, os interessados como os protagonistas do conflito,
igualmente personagens principais da busca pela sua resolução. Ou seja,
gestores de suas decisões, sujeitos capazes de buscar a outorga de cidadania,
de dignidade, de autonomia da vontade, numa visão de justiça, moralidade e
liberdade
No presente artigo não pretendemos afastar a jurisdição Estatal necessária
e valiosa, outorgada pelo processo e seus princípios e garantias. Antes,
objetivamos refletir sobre a complexidade das relações sociais, políticas e
econômicas, levando a questionar sobre a difícil forma de flexibilizar,
humanizar e desburocratizar a justiça.
Sabemos que não é fácil admitir tais mudanças, sem dialogar com a
segurança jurídica que se busca nas ações judiciais, mas sabemos também
que se faz necessário modificar o conceito angular, a ideia maciça e
elementar que sustenta toda a construção intelectual e histórica do acesso à
justiça.

Da definição de complexidade e a tomada


de consciência em Morin
Para falarmos em complexidade, a primeira dificuldade a enfrentar é sua
conceituação, visto que vivenciamos a realidade complexa, mas, segundo
Morin (2011, p.5), “a palavra complexidade não tem por trás de si uma nobre
herança filosófica, científica ou epistemológica, mas ao contrário, suporta
uma pesada carga semântica, pois traz em seu seio confusão, incerteza,
desordem”.
A definição de complexidade não pode definir nenhuma elucidação,
palavra-chave, o que não pode ser reduzido em lei, nem uma ideia simples. A
complexidade é uma palavra-problema e não uma palavra-solução.
Quando pensamos em complexidade das relações, da vida em si, dos
sistemas estatais, a jurisdição tradicional, imediatamente surgem as seguintes
indagações da complexidade: exprimir nosso incômodo, nossa confusão,
nossa incapacidade para definir de modo simples, nossa dificuldade para
nomear de modo claro, para ordenar nossas ideias em um mundo
multicultural?
Justifica-se a necessidade do pensamento complexo pelos limites, as
insuficiências e as carências do pensamento simplificador. Pergunta-se: Há
complexidades diferentes umas das outras? Elas podem ser unificadas num
complexo dos complexos? Precisamos verificar se há um modo de pensar, ou
um método capaz de responder ao desafio da complexidade? Trata-se de
exercer um pensamento capaz de lidar com o real, de com ele dialogar e
negociar.
Na visão de Morin, há necessidade de desfazer duas ilusões que afastam a
mente do problema do pensamento complexo:

A primeira é acreditar que a complexidade conduz à eliminação da


simplicidade. A complexidade surge, é verdade, lá onde o
pensamento simplificador falha, mas ela integra em si tudo o que
põe ordem, clareza, distinção, precisão no conhecimento. Enquanto
o pensamento simplificador desintegra a complexidade do real, o
pensamento complexo integra o mais possível os modos
simplificadores de pensar, mas recusa as consequências
mutiladoras, redutoras, unidimensionais e finalmente ofuscantes de
uma simplificação que se considera reflexo do que há de real na
realidade.
A segunda ilusão é confundir complexidade e completude. É
verdade, a ambição do pensamento complexo é dar conta das
articulações entre os campos disciplinares que são desmembrados
pelo pensamento disjuntivo(um dos principais aspectos do
pensamento simplificador). Este isola o que separa, e oculta tudo o
que religa, interage, interfere. Neste sentido, o pensamento
complexo aspira ao conhecimento multidimensional. Mas ele
sabbe desde o começo que o conhecimento completo é impossível:
um dos axiomas da complexidade é a impossibilidade, mesmo em
teoria, de uma onisciência” (MORIN, 2011, p. 6-7).

Então, pergunta-se o quanto é complexo julgar? Como realizar


julgamento justo mesmo existindo teoria e lei para tanto? Como realizar
justiça com a dificuldade de acesso à justiça de todos os indivíduos com
igualdade de direito? Como é ser imparcial nas situações fáticas e de direitos
humanos? A tais indagações, corresponde a afirmação de Morin: “A
totalidade é a não verdade” (2011, p.7), reconhece um princípio de
incompletude e de incerteza. O pensamento complexo também é animado
por uma tensão permanente entre a aspiração a um saber não fragmentado,
não compartimentado, não redutor e o reconhecimento do inacabado e da
incompletude de qualquer conhecimento.
A tensão da complexidade animou a vida de Edgar Morin, que afirma não
se resignar ao saber fragmentado, explicando que não se pode isolar o objeto
de estudo de seu contexto, de seus antecedentes. Quando pensamos em
jurisdição tradicional (dicção do direito pelo juiz), um dos pressupostos
processuais é limitar-se aos fatos e ao direito e ao conflito posto em causa.
Assim, a primeira coisa que a jurisdição tradicional faz é anular os sujeitos
(que são chamados de partes – formalismo jurídico) que pensam, possuem
sentimentos (afeto, raiva, ódio, dor e culpa). O juiz, por sua vez, de forma
aparente, tenta, com a máxima de imparcialidade, julgar de forma fria a lide
(pretensão autor x residência réu) como se fosse algo que pudesse ser
desvinculado do sentimento conflituoso que se apresenta e dos seus próprios
sentimentos.
A complexidade, ao ser algo presente no universo e dele fazer parte
indispensável, para Morin não é considerada uma crise, mas, pelo contrário,
“a chave do mundo, mas o desafio a enfrentar, por sua vez o pensamento
complexo não é o que evita ou suprime o desafio, mas o que ajuda a revelá-
lo, às vezes mesmo a superá-lo” (2011, p.08).
Morin, ao questionar e responder a pergunta: O que é complexidade?
afirma:

A um primeiro olhar, a complexidade é um tecido (complexus: o


que é tecido junto) de constituintes heterogêneas inseparavelmente
associadas: ela coloca o paradoxo do uno ou do múltiplo. Num
segundo momento, a complexidade é efetivamente o tecido de
acontecimentos, ações, interações, retroações, determinações,
acasos, que constituem nosso mundo fenomênico. Mas entoa a
complexidade se apresenta com os traços inquietantes do
emaranhado, do inextricável, da desordem, da ambiguidade, da
incerteza.... Por isso o conhecimento necessita ordenar os
fenômenos rechaçando a desordem, afastar o incerto, isto é,
selecionar os elementos da ordem e da certeza, precisar, clarificar,
distinguir, hierarquizar...Mas tais operações, necessárias à
inteligibilidade, correm o risco de provocar a cegueira, se elas
eliminam os outros aspectos do complexus; e efetivamente, como
eu o indiquei, elas nos deixaram cegos. (MORIN, 2011, p. 13)

Diante de um cenário complexo em que nos encontramos, devemos estar


preparados para assumir uma tomada de consciência radical frente aos
acontecimentos, pois, ao mesmo tempo, em todos os âmbitos, erro,
ignorância e cegueira progridem ao lado do conhecimento.
A tomada de consciência radical afirmada por Morin remete ao fato de
que a complexidade existe e o desafio é como tratá-la nos diferentes e
diversos casos do cotidiano e, principalmente, no jurídico, como o teórico
afirma:
1. A causa profunda do erro não está no erro de fato (falsa percepção) ou
no erro lógico (incoerência), mas no modo de organização de nosso saber
num sistema de ideias (teorias, ideologias);
2. Há uma nova ignorância ligada ao desenvolvimento da própria ciência;
3. Há uma nova cegueira ligada ao uso degradado da razão;
4. As ameaças mais graves em que incorre a humanidade estão ligadas ao
progresso cego e incontrolado do conhecimento (armas termonucleares,
manipulações de todo tipo, desregramento ecológico etc) (MORIN, 2011.
p.9).

Esse panorama leva-nos a muitas indagações: Será que Ciência Jurídica,


uma área tradicional, hierarquizada, inflexível e positivista, não chegou no
seu limite e está na hora de realizar abertura substancial? Será que não
necessita rever suas teorias, suas ideologias, principalmente, na forma de
julgar? Será que o Estado Democrático de Direito encontra-se enfraquecido
devido à rigidez e monopólio, sem deixar espaços a novas formas de hetero e
autocomposição de conflitos? E os Direitos Humanos estão longe de serem
algo simples, nem como categoria de direitos, nem como inovação política e
somente podemos compreender suas lutas, práticas e teorias mediante
análise da história que se apresenta em transformação?
Morin em sua obra Ciência com consciência entende que:

Quanto à história humana, inversamente, o primeiro olhar não foi o


da ordem, mas o da desordem. A História foi concebida como uma
sucessão de guerras, atentados, assassinatos, conspirações,
batalhas; uma história shakespeariana, marcada pelo sound and
furu. Mas veio o segundo olhar, sobre a partir do século passado,
quando se descobrem determinismos infra-estruturais, se procuram
as leis da história, os acontecimentos se tornam epifenomenais, e,
muito curiosamente, desde o século passado, as ciências
antropossociais, cujo objetivo é, todavia, extremamente aleatório,
esforçam-se por reduzir a aleatoriedade e a desordem,
estabelecendo ou julgando estabelecer determinismos econômicos,
demográficos, sociológicos. (2005, p. 196)

Cabe, também, indagar sobre a atuação do Estado-juiz. Será que sua


atuação deve ser de forma inflexível, intocável, soberana, sentencial e, na
maioria das vezes, fria diante da realidade e do direito alegado, visto que o
sistema lento, ineficaz, formal e moroso faz-se, consequentemente, injusto
perante as desigualdades sociais?
No panorama que se apresenta a ciência jurídica não adianta expulsar a
desordem. O que recomenda a teoria do pensamento complexo é “a
necessidade de pensar conjuntamente, em sua complementaridade, sua
concorrência e seu antagonismo, as nações de ordem e desordem levantam
exatamente a questão de pensar a complexidade da realidade física, biológica
e humana” (MORIN, 2005, p. 197). Porém, não adianta fazer esta mudança
de paradigma, este novo olhar, com o olhar do velho, do tradicional, do
formal da ciência jurídica. Assim, Morin aconselha que “temos de olhar para
o modo como concebemos a ordem e para nós mesmos olhando para o
mundo, isto é, incluir-nos em nossa visão do mundo”. (2005, p.197)
Outra questão de complexidade que cabe destacar é a cegueira ligada ao
uso degradado da razão no Poder Judiciário. Referimos o juiz que se
posiciona de forma legalista e positivista, sem dar atenção às demandas
complexas, sem conhecer a cultura do povo, as aspirações concretas, sem
vislumbrar que estamos tratando de indivíduos e que tudo envolve afeto,
solidariedade, culpa (onde a justiça finge que não pode enxergar e não é
problema seu). Assim, encontramos alguns casos que sustentam o Judiciário
há anos e são de impossível reparação psicológica. E o Juiz, do alto do seu
púlpito, na sua ponta de caneta Mont Blanc sentencia, o afastamento de uma
criança ou adolescente do pai, por existir nos autos uma denúncia de abuso
sexual, apenas pela alegação verbal da mãe, que num ato impensado, após o
divórcio conturbado e enraizado de rancores da infidelidade, está
participando de um processo de separação ou divórcio sem querer.
No entendimento de Morais e Spengler, o problema central da
magistratura é o total descomprometimento com o sujeito e o resultado fático
de suas sentenças. Assim afirmam:

Para os juízes, o outro não existe, sempre decidem a partir de si


mesmos, de seus egos enfermos. Decidem sem responsabilidade,
porque projetam a responsabilidade na norma. Decidem conflitos
sem relacionar-se com os outros. As decisões dos juízes são sem
rosto. Nestes termos, os juízes creem que sua função é administrar
a justiça e que a realizam, quando decidem, a partir de um
conceito, simultaneamente, metafísico e determinista, que não leva
em consideração, salvo raras exceções, o que as partes sentem
como o justo no litígio que vivem. (2012, p. 74)

O problema reside, muitas vezes, no pensamento simplificador, incapaz


de conceber a conjunção do uno e do múltiplo. Ou ele unifica abstratamente
ao anular a diversidade, ou, ao contrário, justapõe a diversidade sem
conceber a unidade.
O autoritarismo e a inteligência cega destroem os conjuntos e as
totalidades, isolam todos os seus objetos do seu meio ambiente. Não podem
conceber o elo inseparável entre o observador e a coisa observada. As
realidades-chaves são desintegradas. Elas passam por entre as fendas que
separam as disciplinas. Assim, as disciplinas de ciências humanas não têm
mais necessidades da noção de homem. E os pedantes cegos concluem então
que o homem não tem existência, a não ser ilusória. (MORIN, 2011, p.12)

A crise do modelo de jurisdição tradicional


O modelo de jurisdição que se entende por uma atividade substantiva do
juiz, cujo objeto é a eliminação de uma lide com força de coisa julgada em
uma atividade plenamente vinculada à lei, em muito tem encontra-se em
desuso. Porém, o formalismo exacerbado, o positivismo, o legalismo e a
inflexibilidade do processo nos reporta para a necessidade de inovação e
mudanças de paradigma no campo do direito processual. Compreende-se
que, diante da complexidade que se apresenta a jurisdição estatal, da
transformação e crise do Estado, assumindo a função central de regulação
social, os mecanismos econômicos, sociais e jurídicos de regulação do
Estado padecem de efetividade em decorrência dessa inevitável perda de
soberania e autonomia dos Estados Nacionais.
Streck (2003) entende que a crise do Direito ainda não foi descoberta
“como” crise, já que o paradigma liberal-individualista-normativista não
morreu e o modelo forjado a partir do Estado Democrático de Direito,
entendido este como plus normativo228 em relação aos paradigmas do Estado
Liberal e Estado Social, ainda não nasceu229.
A inadequação estatal se apresenta devido à complexidade das relações
sociais, nas quais o homem, passando a ser compreendido a partir de seu
contexto social, econômico e cultural, como bem destaca Habermas “não há
referenciais mudanças pura e simplesmente livres de contextos” (2002,
p.46.). Desta forma, as mudanças devem ocorrer a partir do paradigma e do
contexto social em que vive.
Para Morin, a noção de crise “acontece numa teoria científica ou no meio
científico, a partir do momento em que a teoria em vez de integrar os dados,
não pode mais fazê-lo e quando as anomalias se multiplicam tanto que,
228 Segundo STRECK, às facetas ordenadora (Estado Liberal de Direito) e
promovedora (Estado Social de Direito), o Estado Democrático de Direito agrega
um plus (normativo): o direito passa a ser transformador, uma vez que os textos
constitucionais passam a conter no seu interior as possibilidades de resgate das
promessas da modernidade, questão que assume relevância ímpar em países de
modernidade tardia como o Brasil, onde o welfare state não passou de um simulacro.
STRECK, Lenio Luiz. Quinze anos de Constituição – análise crítica da jurisdição
constitucional e das possibilidades hermenêuticas de concretização dos direitos
fundamentais-sociais. In: Revista Ajuris. Porto Alegre: Associação dos Juízes do Rio
Grande do Sul, n. 92, ano XXX, 2003 p. 205.
229 STRECK, Lenio Luiz. Jurisdição constitucional e hermenêutica: uma nova
crítica do direito. Porto Alegre: Livraria do Advogado, 2001, p. 18.
decididamente, questionam a teoria”(2005, p. 7). Assim podemos perceber
que o Estado está em crise e suas anomalias são tantas que está sendo
questionado a todo instante.
No intuito de entender a crise da jurisdição estatal, temos que analisar a
crise do Estado de direito, com afirma Morais:

Devido a essa assertiva é que se deve discutir a tão aclamada crise


da jurisdição a partir da crise do Estado, observando sua gradativa
perda de soberania, sua incapacidade de dar respostas céleres aos
litígios atuais, de tomar as rédeas de seu destino, sua fragilidade
nas esferas Legislativa, Executiva e Judiciária, enfim, sua quase
total perda na exclusividade de dizer e aplicar o direito. Em
decorrência das pressões centrífugas de desterritorialização da
produção e da transnacionalização dos mercados, o Judiciário,
enquanto estrutura fortemente hierarquizada, fechada, orientada
por uma lógica legal-racional, submisso à lei, se torna uma
instituição que precisa enfrentar o desafio de alargar os limites de
sua jurisdição, modernizar suas estruturas organizacionais e rever
seus padrões funcionais para sobreviver como um poder autônomo
e independente. (2012, p.76-77)

Problematizar a jurisdição é reconhecer como ela se apresenta no


momento, avaliar quais padrões merecem ser mantidos e ter condições de
revelar aqueles que devem ser revistos. Além disso, é preciso identificar
limites e possibilidades a seguir através de políticas públicas estatais de
acesso à justiça, assim como afirma Morais: “consciente dessa realidade
lançamos mão do debate que relaciona tempo, direito e sociedade na busca
de uma construção que tenha por base o consenso dos litigantes, na busca de
outras respostas: a “jurisconstrução” (2012, p.80).
No entendimento de Cappelletti e Grath (1988, p. 87), o acesso à justiça
está atrelado ao binômio possibilidade-viabilidade de ter condições de
acessar o sistema jurídico brasileiro em igualdade de condições a todos os
cidadãos, como prerrogativa de direitos humanos.

No entendimento de Barreto, a crise do direito, por sua vez, tem


um duplo sentido, pois se refere à crise na prestação jurisdicional,
e, também, a crise nos próprios institutos jurídicos do estado liberal
clássico. O contrato encontra-se em crise, face ao momento de
globalização da economia; a propriedade deixou de ser
basicamente fundiária e passa pela crise das novas formas de
propriedade do mundo globalizado e da Nasdaq; a família, até
então secularmente protegida no formalismo do direito liberal
clássico, também passa por uma crise, que alguns, mais temerosos,
chegam a identificar como a etapa final desse grupo social,
enquanto novos e, talvez, mais duradouras formas de organização
familiar começam a ser construídas, no contexto dos enfraquecidos
alicerces culturais, sociais e jurídicos da família liberal burguesa.
(BARRETO apud FACHIN, 2001. p. prefácio)

Neste sentido afirmam Trindade e Morais:

Nesse contexto, parece inevitável discutir o papel do Poder


Judiciário e os seus limites de atuação num paradigma
democrático. Isto porque, se os demais poderes constituídos teriam
a sua legitimidade derivada dos tradicionais dogmas da soberania e
da democracia representativa, o Judiciário inscrever-se-ia na
tradição de um poder contramajoritário, ao qual compete a garantia
dos direitos individuais. Ou seja, o Judiciário teria a experiência de
proteger o cidadão da atuação invasiva do Estado, e não de
estipular os meios próprios à realização de um modelo
prestacional. (2012, p.110)

A noção de jurisdição repousa não apenas no escopo jurídico. Ela é


complexa e engloba uma efetividade ampla abrangendo o que afirma
Moraes: “eliminação de insatisfação, o cumprimento do direito com justiça,
a participação ativa dos indivíduos, além de construir inspiração para o
exercício e respeito dos direitos e da própria cidadania” (2008, p.31).
Para Cappelleti, “o direito, não é encarado apenas do ponto de vista dos
seus produtores e do seu produto (normas gerais e especiais): mais é
encarado, principalmente, pelo ângulo dos consumidores do direito e da
justiça, enfim, sob o ponto de vista dos usuários do serviço processual”
(1988, p.88).
Ainda, a administração da justiça merece uma análise do fenômeno social
e cultural, pois, de acordo com os estudos de Santos, “(...) revelam que a
distância dos cidadãos em relação à administração da justiça é tanto menor
quanto mais baixo é o nível social a que pertencem e que essa distância tem
como causa próximas não apenas fatores econômicos...” (2008, p. 168).
Sabemos que o princípio de acessibilidade ampla ao judiciário surgiu
com a Contituição de 1946, que incluiu o que hoje é o nosso art. 5º, inciso
XXXV. Segundo Amaral, “No Estado Liberal burguês, o direito individual
era identificado com o direito subjetivo, o qual é definido por Iheing (1998,
p.31) como “o interesse juridicamente protegido. Essa concepção significa
que em primeiro lugar vem o indivíduo, que tem valor em si mesmo, e em
seguida o Estado” (2009,p. 48-49). Podemos dizer, assim, que os direitos
individuais antecedem o coletivo e advém dos princípios defendidos pelo
liberalismo político e econômico.
Já o direito de acesso à justiça atualmente é considerado um direito social
básico, mas a efetividade desse direito é um tanto vaga e muito complexa.
Entendemos que o direito ao acesso à Justiça não pode se limitar ao direito
de acessar o judiciário. Possui uma abrangência maior, ou seja, uma ordem
jurídica justa, que deve ser estendida a maior quantidade de pessoas possível.
As soluções buscadas para a problemática do acesso à Justiça nos países
ocidentais foram denominadas de “onda renovatórias” do direito. Nesse
sentido, a “primeira onda consistiu na assistência judiciária aos menos
favorecidos” (AMARAL, 2009, p.51-52). O segundo movimento foi a
representação dos interesses difusos, transformando o processo civil em
proteção aos novos direitos, pois o processo limitava-se a interesses
individuais entre as partes. A terceira onda renovatória trouxe um novo
paradigma de acesso à justiça, pois segundo Cappelletti e Garth encoraja
uma ampla variedade de reformas:

(...) incluindo alterações nas formas de procedimento, mudanças na


estrutura dos tribunais ou a criação de novos tribunais, o uso de
pessoas leigas ou paraprofissionais, tanto como juízes quanto como
defensores, modificações no direito substantivo destinadas a evitar
litígios ou facilitar sua solução e a utilização de mecanismo
privados ou informais de solução de litígios. (2002, p.71)
Luchiari menciona que o fundamento político das vias
conciliatórias consiste na sua função social, que, sabemos, não é
alcançada pela sentença. Já o fundamento político aparece com a
participação popular na administração da Justiça, afastando o
autoritarismo do Estado e, assim, a política publica que contempla
métodos consensuais de solução de conflitos “deve ser o de
proporcionar o oferecimento do meio mais adequado para a
solução de cada conflito que se apresenta, ou seja, promover
efetiva, adequada e tempestiva tutela de direitos, os que leva à
pacificação social e à consequente obtenção do acesso à justiça”.
(...) (2011, p.234)

No entendimento de Milhoranza, “a efetividade do processo não é


somente um direito constitucional da parte que procura a efetiva prestação
jurisdicional, mas também é um direito subjetivo da mesma na busca pela
justiça” (2010, p.145). Assim, faz-se necessário frente ao novo princípio
constitucional da efetividade da prestação jurídica que o Estado busque
regular e gerir formas hetero e autocompositivas, atendendo ao disposto
constitucional e da sociedade participativa que se apresenta.
A possibilidade da mediação como perspectiva emancipatória e
participativa do cidadão na resolução de conflitos:
Diante da complexidade da atividade jurisdicional numa sociedade
multicultural, o Estado, por meio da Secretaria de Reforma do
Judiciário, tem aberto significativos esforços, desde 2003, para
implementação de políticas públicas destinada à divulgação do uso
de mecanismo adequados para a solução de conflitos, na busca de
alcançar efetividade. Para tanto, criou a resolução nº 125 CNJ, em
29 de novembro 2010, com o intuito de abandonar as fórmulas
exclusivamente positivista, propondo “a implementação no nosso
ordenamento jurídico-processual de mecanismos processuais e pré-
processuais que efetivamente complementem o sistema
instrumental, visando ao melhor atingimento de seus escopos
fundamentais. (...) (AZEVEDO, 2013, p. 28)
A resolução nº 125, em 2010, foi um marco par o Poder Judiciário.
Trouxe um novo paradigma ao acesso à justiça, mudando as
perspectivas metodológicas da administração da justiça,
habilitando o operador do direito a ser não mais o ditador do
direito, mas o ente pacificador. A partir dessa política, passa-se a
redimensionar o judiciário como efetivo centro de harmonização
social.
Nesta perspectiva, afirma Azevedo, organizador do Manual de
Mediação Judicial, que baliza tal política pública:
Naturalmente, se mostra possível realizar efetivamente este novo
acesso à justiça se os tribunais conseguirem redefinir o papel do
Poder Judiciário na sociedade como menos judicatório e mais
harmonizador. Busca-e, assim estabelecer um nova face ao
judiciário: um local onde pessoas buscam e encontram suas
soluções- um centro de harmonização social. (2013, p. 31)

A mediação apresenta-se como método apropriado de resolução de


controvérsias. O conflito é abordado de forma integral e não apenas a
(pretensão x resistência) da lide processual. A mediação se apresenta como
um elo de ganhar e ganhar, uma forma de responsabilização do indivíduo
pela resolução de seus conflitos, tratando o conflito, promovendo uma
mudança no trato social do indivíduo e em sua amplitude.
O mediador é um terceiro neutro, sem poder decisório ou consultivo, mas
que amplia o consenso, o diálogo. É, em suma, um facilitador da
comunicação entre os interessados na resolução do conflito de forma não
violenta.
Estudar o significado da mediação na origem da terminologia é
extremamente importante. A expressão vem do latim mediatione, com
significado de intercessão, intermédio, intervenção. É derivado do verbo
latino mediare, mediar ou intervir (MÜLLER, 2009, p.77).
Ainda, a mediação judicial no modelo do CNJ é uma proposta diferente
de resolução de conflitos, em que se torna evidenciado “que as próprias
partes chegam à solução. Por isso, diz-se que a mediação é um mecanismo
autocompositivo, isto é, a solução não é dado por um terceiro. Difere,
também, pela informalidade. De fato, na mediação, o processo vai se
amoldando conforme a participação e interesse das partes” (AZEVEDO,
2013, p.97).
A importância do tema mediação de conflitos se dá como uma
oportunidade de construção da cidadania participativa (a parte se torna
autora da decisão, constrói a decisão e assume tal resolução como
compromisso de vida) a partir da ideia de Habermas (1987), que formula
uma teoria reconstrutiva inserida na esfera das interações comunicativas. O
autor parte do pressuposto de que o sujeito é capaz de linguagem e ação,
assim é possível estabelecer práticas argumentativas por meio das quais se
asseguram de que, intersubjetivamente, compartilhem de um contexto
comum, de um “mundo da vida”.
A teoria comunicativa estabelece um meio emancipatório para o
indivíduo resolver seus conflitos de interesses, pois, na medida em que os
membros de uma determinada sociedade realizam uma interação por meio da
linguagem, orientada pela razão comunicativa, excluem o individualismo
assoberbado e despertam para as suas responsabilidades como membro dessa
sociedade. Esta interação terá o escopo de bem estar ao indivíduo e será
construída pelo diálogo, cooperação e solidariedade. Mediante essa
interação, abre-se a oportunidade para a modificação da relação entre os
indivíduos, ampliando as possibilidades para uma maior compreensão tanto
dos fenômenos individuais como dos recorrentes no mundo a sua volta,
criando-se a possibilidade para uma maior compreensão tanto dos
fenômenos individuais quanto dos recorrentes no mundo.
Na mediação, o diálogo é fundamental para a resolução dos conflitos, ao
contrário do que ocorre no Judiciário, onde temos a figura do autor, do réu e
da configuração da lide (pretensão resistida da teoria de Liebman), outorgam
ao processo e ao Juiz (um terceiro imparcial) o poder de decisão dos
conflitos.
Na mediação, o mediador dialoga, escuta e participa como ente
facilitador da linguagem entre as partes, ao contrário do que ocorre com o
Juiz que detém o poder de julgamento, de sentenciar e fazer cumprir tal
decisão pela ação coercitiva. O mediador, como afirma Sales (2007, p.54), “é
a pessoa que auxilia na construção desse diálogo” e pelo diálogo e podendo
utilizar a ética discursiva de Habermas, que está fundada no princípio U
(universalisierungsgybdsarz), determina-se a validade da norma a partir da
aceitação de seus efeitos e consequências por todos os envolvidos. Trata-se,
na verdade, de um padrão de argumentação no âmbito das questões práticas.
No entendimento de Serpa, a mediação se apresenta informal e suas
características são:
É um “processo informal, voluntário, onde um terceiro interventor,
neutro, assiste aos disputantes na resolução de suas questões. O
papel do interventor é ajudar na comunicação, através de
neutralização de emoções, formação de opções e negociação de
acordos. Como agente fora do contexto conflituoso funciona como
um catalisador de disputas, ao conduzir as partes às suas soluções,
sem propriamente interferir na substância destas. (1997, p. 105)

Para Vezzulla, a mediação constitui-se em técnica não adversarial


de resolução de conflitos em que um profissional devidamente
preparado auxilia as partes a encontrarem seus verdadeiros
interesses e a preservá-los num acordo criativo, em que ambas
ganham. (2006, p.205)
Com o auxílio da psicanálise, verificaremos que o mediador deve
estar em constante estudo de si para entender o conflito consciente
e o inconsciente que habita as relações do outro. Zimerman afirma:
Na verdade, o inconsciente comanda a vida da espécie humana
muito mais do que, uma primeira vista, possa se imaginar. Para
esclarecer essa afirmativa, vamos à uma metáfora, empregada por
FREUD, com um iceberg, no qual a parte visível dessa montanha
de gelo pode ser comparada ao nosso consciente, no entanto, a
parte oculta, equivalente ao inconsciente humano, é muitíssimo
maior e é justamente onde os navios se espatifam, assim como os
psicóticos, psicopatas e neuróticos comandados por graves
conflitos inconscientes podem espatifar as suas vidas e a de outros.
(2010, p.118)

O conflito possibilita o crescimento dos sujeitos, e a mediação objetiva


transformar o conflito, trabalhar as questões que envolvem paixões e inserir
o tema diferenças e semelhanças com a meta de alcançar o diálogo, o
consenso, o entendimento saudável.
Neste sentido, Warat afirma que a mediação começa quando as partes
conseguem interpretar o significado dos comportamentos, das suas
diferenças e se disponibilizam a dialogar e construir o acordo. (1999,p. 130)
A mediação de conflitos é um prolongamento e aperfeiçoamento do
processo de negociação, que envolve a interferência de uma aceitável
terceira pessoa, que aceita pelas partes, conduzirá o diálogo responsável e
não autoritário. Desta maneira, a mediação é um processo voluntário em que
os participantes devem estar dispostos a aceitar a colaboração do interventor,
se sua função for ajudá-los a lidar com suas diferenças e resolvê-las
(MOORE, 2003, p.88).
Mediação de conflitos, nessa perspectiva, é considerada como um jogo
inter-relacional no qual cada um participa de um contexto em que cada
sujeito influi e é influenciado (VASCONCELLOS, 2002, p.42).
No entendimento de Warat, “a mediação difere da negociação direta por
ser, precisamente, uma autocomposição assistida...”; já na negociação existe
a interferência direta de terceira pessoa propondo e negociando o conflito, já
a mediação “é um trabalho de reconstrução simbólica imaginária e sensível,
como outro do conflito; de produção como o outro das diferenças que nos
permitam superar as divergências e forma identidades culturais” (2004, p.
57-58).
Sales destaca que o conflito pode ser entendido como luta, briga,
transtorno e dor, levando o ser humano a repudiá-lo. Pode também ser
compreendido como algo natural, próprio da natureza humana e necessário
para o aprimoramento das relações individuais e coletivas. Nesse caso, o
conflito passa a ser algo positivo, momentâneo, de construção (2003, p. 34).
A mediação de conflito propõe propiciar uma autonomia ao indivíduo, “a
terapia do reencontro é uma ajuda para deixar de ser carreirista, é uma forma
de encontrar-se com o outro, abrindo-se a outra realidade. Não estamos no
mundo para ganhar de ninguém” (WARAT, 2008, p.47).
A mediação é um processo peculiar, aberto e contínuo. N é uma terapia,
não é um processo tradicional, mas seu desenrolar irá acontecendo sem que
se perceba que está dividido em cinco fase, como afirma Azevedo: “i)
declaração de abertura; ii) exposição de razões pelas partes; iii) identificação
de questões, interesses e sentimentos; iv) esclarecimento acerca de questões,
interesses e sentimentos; e v) resolução de questões” (2013, p.97).
Para a solução de conflitos, faz-se necessária a possibilidade de diálogo e
de escuta. Tempo para escutar e tempo para falar. É imprescindível o respeito
mútuo, o que muitas vezes, teoricamente, seria impraticável, tendo em vista,
em alguns casos, a existência de mágoas profundas e amores mal resolvidos
(SALES, 2003, p.90).
Torna-se importante o estímulo à solidariedade, à compreensão, à
paciência de cada uma das partes no sentido de um ganho mútuo, de uma
vitória conjunta, com a clara percepção dos interesses em comum e não
somente das diferenças.
Num cenário de transformações significativas como o atual, a mediação
de conflitos surge como uma proposta que apresenta a possibilidade de
superar o litígio, respeitando as individualidades e reduzindo os danos
afetivos e emocionais. Assim, nas últimas décadas, emergiram em todo
mundo programas de solução de disputas e conflitos. Tais programas são
utilizados em vários contextos, como empresas, famílias, escolas e
comunidades.
A proposta de mediação de conflitos, portanto, caracteriza-se por um
contexto mais flexível na condução de disputas. É uma proposta que tem
uma prática geralmente formalizada em várias etapas, que variam segundo as
escolas de mediação, baseadas em diferentes fundamentações teóricas e
modelos (SUARES, 1997, p.67).
A mediação inicialmente tinha por objetivo, neste modelo, diminuir as
diferenças entre as partes, ou eliminá-las por meio do acordo. Com o
aperfeiçoamento dos processos de mediação, o objetivo se ampliou, visando
ao desenvolvimento do reconhecimento da alteridade, do reconhecimento do
outro como sujeito pensante, desejante e sofredor (BUCHER-
MALUSCHKE, 2007,p. 230). Busca-se então alcançar o desenvolvimento
de mudanças nas pessoas, ao descobrir suas próprias habilidades,
potencialidades, responsabilidades e o reconhecimento do outro como parte
do conflito.
O objetivo consiste em modificar a relação entre as partes, não
importando se chegam ou não a um acordo. Não está centrado na resolução
do conflito, mas sim na transformação relacional. (CEZAR-FERREIRA,
2004, p.145)
O modelo circular narrativo, inspirado nos princípios da teoria dos
sistemas, considera a retroalimentação do conflito. Visa melhorar as relações
interpessoais, independentemente da efetivação do acordo. Trata-se de um
modelo proposto por Sarah Cobb, em que a comunicação é entendida como
um todo no qual estão incluídas duas ou mais pessoas. A mensagem
transmitida inclui elementos verbais (conteúdo) e para-verbais (corporais,
gestuais etc). Busca-se, neste modelo, fomentar a reflexão, mudar o
significado da história e do conflito, possibilitando que as partes interajam
de maneira diferente, modifiquem o discurso e alcancem um acordo, ainda
que essa não seja a meta fundamental (Alvarez 1999, P.154).
No Brasil, algumas experiências pioneiras de mediação de conflitos vêm
sendo destacadas e multiplicadas em diversas cidades. No Estado de São
Paulo, existem setores de mediação anexos às varas judiciais em várias
cidades como São Paulo, Serra Negra, Patrocínio Paulista, Guarulhos,
Jundiaí, dentre outras (Pligher, 2007).
É imperioso que o próprio judiciário estimule, organize e realize a
propaganda da política pública de métodos não adversariais de solução de
conflitos e, mais do que isso, proporcione a sua utilização em nível nacional,
visando fortalecer a mediação e resolução de conflitos de forma não
adversarial.
Nesse sentido, conclui-se “que cabe ao Poder Judiciário, pelo CNJ,
organizar os serviços de tratamento de conflitos por todos os mecanismos
adequados, e não apenas por meio da adjudicação de solução estatal em
processo contencioso, cabendo-lhe em especial institucionalizar, em caráter
permanente, os meios consensuais de solução de conflitos de interesses,
como a mediação e a conciliação” (Watanabe, 2011, p.5).
Há um Projeto Piloto implantado pelo Tribunal de Justiça de Santa
Catarina (TJSC) nas Varas de Família do Foro Central da Comarca de
Florianópolis (Beiras, Cruz & Muller, 2007, p.230). Pode-se citar também a
experiência de Brasília (Distrito Federal), com a Justiça Comunitária,
coordenada pela Juíza Gláucia F. Foley e o projeto Mediação Comunitária da
Lomba do Pinheiro em Porto Alegre e o Tribunal de Justiça do Rio Grande
do Sul com centrais de mediações em segundo grau.
Ligados às Instituições de Ensino Superior, é possível destacar, entre as
várias iniciativas, a proposta de Mediação de Conflitos da Faculdade
Meridional de Passo Fundo - IMED e o Poder Judiciário (CNJ) e as duas
Varas de Família, sendo que tal proposta tem como objetivo promover
formas não adversariais de resolução de conflitos para o século XXI. De
forma multidisciplinar, envolvendo os medidores capacitados pelo curso de
pós-graduação em Mediação da própria instituição, alunos da disciplina de
Mediação e Práticas Restaurativas e Prática Jurídica IV, na ênfase de direitos
humanos e novos direitos, os alunos aprendem as aptidões intrapsíquicas, de
autoconhecimento, de autocontrole e de autoestima, de automotivação e
autodisciplina com o escopo-chave para ser um mediador na complexidade
da composição de conflitos nos casos concretos.
Sendo a mediação um instituto novo de autocomposição de conflitos,
possui características diferentes da jurisdição tradicional, tais como
voluntariedade, confidencialidade, flexibilidade e participação ativa, as
experiências são adquiridas diariamente, com mediações exitosas ou não, já
que o fim primordial é a participação ativa do cidadão no pertencimento da
possibilidade de encontrar a autocomposição com auxílio dos mediadores e a
participação secundária é o acordo realizado.
No entendimento de Cachapuz, a mediação deve ser compreendida como
“a chave do autoconhecimento, acesso aos próprios sentimentos e a
capacidade de discriminá-los e usá-los para orientar o comportamento e o
pensamento. “(2006, p.56-57)
Nesta nova leitura em que o Judiciário se propõe ser o centro efetivo de
harmonização social, o juiz não deve realizar mediações, devido o
preconceito e o manto rígido que a justiça tradicional se apresenta para os
jurisdicionados, assim elas devem ser realizadas por pessoas capacitadas
para resolver a disputa de forma construtiva, sem o manto do ganha e perde
do judiciário. Assim afimam Lyra e Gaglietti: Talvez assim: (...) social, o
ideal é que o juiz não realize as mediações. Tendo em vista a natureza desse
modelo, o melhor é que sejam realizadas por outros profissionais do sistema,
preparados para resolver a disputa de forma construtiva, sem o manto do
ganha e perde do judiciário. Assim...

(...) deve-se considerar a complexidade do paradigma de uma


justiça dual, da norma ao conflito, do conflito à norma, tendo a
defesa do Art. 5º da C.F/1988 como referência – o princípio da
defesa da dignidade humana –, sob pena da falta de
marginalização, pelo sistema oficial, do conteúdo
transformador, restaurativo e emancipatório dos meios
transformativos ou restaurativos de solução de controvérsias.
Diante deste parâmetro, busca-se incorporar as abordagens
dialógicas ao Poder Judiciário, sobretudo, àquelas associadas à
ação pedagógica desses meios de solução pacífica de
controvérsias. Assim, de regra, o juiz não deve mediar. Até
mesmo a conciliação deve ser conduzida por uma equipe
multidisciplinar independente da atuação judicial. Será
fundamental, no entanto, que os juízes tenham a compreensão
de que o julgamento é o mais poderoso e, ao mesmo tempo, o
mais precário modo de solucionar uma controvérsia. Na
verdade a sentença do magistrado não resolve o conflito, apenas
enseja o término de um processo, sendo que uma das partes –
por ficar contrariada – retornará, com um novo processo, ao
judiciário. (2012, p. 69)

Segundo os estudos realizados por Warat, a mediação deve ser entendida


como um novo paradigma de aprender a viver. Assim afirma:
A mediação, enquanto um novo e grande paradigma, como pedagogia que
ajuda a aprender a viver, é um novo paradigma, específico, da produção de
Direito (agora entendido como pedagogia que ajuda aprender a viver e não
mais como lei que pune o que considera conflitivo. (WARAT, 2004, p. 52)

Cabe destacar que, como parâmetro ético da mediação, deve prevalecer o


princípio da plena informação, pois assim somente pode ser considerada uma
mediação realizada se os envolvidos tiverem pela informação quanto aos
seus direitos e ao contexto fático no qual está inserido, visto que o mediador,
no próprio termo de abertura da mediação, terá que elucidar qualquer dúvida
e perguntar se, voluntariamente, os participantes estão de acordo.

Considerações finais
Na busca de compreender as mudanças e o fenômeno complexo de
transformação da jurisdição que ocorreu no decorrer da história, fizemos
algumas reflexões frente à Teoria do pensamento complexo, identificando
que é positivo a existência de ordem, desordem e conflito, sem que isso
tenha a aparência de crise. Porém, diante de uma sociedade multicultura,
complexa e aberta vivencia-se, de todo o lado, a transformação na estrutura e
na construção do paradigma da jurisdição.
O Estado está ciente de seu dever apontado pela prerrogativa
constitucional de que não poderá deixar de jurisdicionar sobre lesão ou
ameaça de direito (art. 5º, no inciso XXXV) levada ao seu conhecimento,
bem como garantir a postulação dos direitos a todos os indivíduos e o direito
de acesso à Justiça. Tal direito, no entanto, não tem sido sinônimo de
prestação jurisdicional efetiva, visto que as demandas judiciais são morosas
e as sentenças, muitas vezes, somente refletem a legalidade e não o direito
clamado entre as partes.
A resolução 125 do CNJ, embasando a política pública de harmonização
do judiciário e sua efetividade, ampliou aos cidadãos o acesso à justiça por
meios autocompositivos, como, por exemplo, a mediação, conciliação e
negociação, que acredita-se que, bem aplicada, de forma responsável, irá
transformar o judiciário num local de harmonização social,
consequentemente, a efetividade do método de resolução dos conflitos e
mostrar-se-á como os cidadãos serão partícipe da decisão e sentir-se-ão
emancipados e empoderados para enfrentar a complexidade dos conflitos
que os afligem.
Quando falamos em crise da jurisdição, entendemos que está intimamente
ligada à crise em que passa o Estado Democrático do Direito. Assim
podemos apontar em três categorias, pois a primeira diz respeito à crise
estrutural, em que sabemos que o judiciário está carente de infraestrutura, de
pessoal, de equipamentos e custos desnecessários devido ao alongamento
das demandas.
A segunda crise é pragmática, que diz respeito ao formalismo exacerbado
utilizado nos rituais e trabalhos forenses, a burocratização de processos e sua
lentidão pelo acúmulo de demandas. Mas a terceira pode ser a mais difícil de
ser solucionada: é a crise subjetiva ou tecnológica, que é a dificuldade dos
profissionais do direito de lidar com novas realidades dos conflitos
contemporâneos, sejam eles individuais ou transindividuais.
Nota-se que as necessidades sociais, o conteúdo das demandas e os
sujeitos envolvidos atingiram proporções significativas. Contudo, o Estado
ainda possui os mesmos instrumentos do século passado, ou seja, a utilização
da jurisdição tradicional através de um processo embasado no formalismo,
na lógica do ganha e perde, bem como ao final, uma resposta denominada de
sentença amparada na legalidade positivista.
Ao apontar a crise da jurisdição estatal estamos falando também em crise
do direito e da justiça. Por isso, o Estado deve buscar alternativas ao cidadão
para que possa aproximar-se do objetivo esperado pela sociedade plural,
afetiva, multicultural que vive na coletividade e deseja que assegure e
garanta a sua individualidade.
A jurisdição estatal deve ser reinventada. Mantendo-se as garantias
constitucionais, deve permitir ao indivíduo formas autônomas de resolução
de conflitos, criar oportunidade de opção na esfera estatal heterônoma e dar
oportunidade à forma autônoma de tratamento do conflito, incentivando a
mediação e divulgando o instituto na sua essência por meio do CNJ e suas
políticas públicas.
Far-se-á necessário realizar capacitações aos mediadores com o intuito de
aplicar tal método de tratar o conflito como fenômeno natural, e assim seja
entendido na forma positiva, com intuito de buscar a paz, o entendimento, a
solução, a compreensão, a felicidade, o afeto, o crescimento, o ganho e a
aproximação das partes, bem como afastando o modo tradicional de pensar
jurídico-formalista que conduzem a prática de ganhar e perder das
demandas.
A vantagem de realizar técnicas autocompositivas de resolução de
conflitos autoriza as partes a dialogar e compreender comportamentos,
analisar intenções, buscar soluções e gerir suas próprias emoções de forma
construtiva.

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Prima della scrittura: “Giochiamo al teatro...
giocare vuole dire misurarsi con se stessi
e con gli altri per aprirsi al cambiamento
e alla trasformazione”
Franca Fioravanti Romei - Teatro delle Nuvole

Il seminario e l’azione “Giochiamo al Teatro” si sono svolti il 26 set -


tembre 2014 nello Spazio Aperto e nel Cortile Maggiore di Palazzo Ducale
di Genova.
“Giochiamo al Teatro” è una prassi per l’espressività teatrale che applico
nei contesti in cui sono chiamata a operare: artistico, sociale, carcerario, in-
terculturale, universitario. Il seminario teatrale ha lavorato su alcuni aspetti
che considero in comune tra la mediazione comunitaria e l’arte teatrale: la
relazione, la consapevolezza, l’ascolto, l’accoglienza, la condivisione, il ba-
ratto e altri ancora. Il Teatro nel sociale attraverso la sua pratica può contri-
buire alla trasformazione positiva di sé e del proprio punto di vista.
Avevo chiesto ai partecipanti di portare un oggetto legato a un momento
specifico della propria vita, un abito considerato speciale, e una poesia, da
condividere con il gruppo.
Quel pomeriggio del 26 settembre sono arrivate in tante, alcune di loro le
conoscevo, erano state mie compagne durante il lavoro sulla mediazione co-
munitaria, svolto a Genova con Alejandro Natò, Mara Morelli e Danilo De
Luise, ma la maggioranza dei partecipanti li vedevo per la prima volta.
Qualcuno si fermava sulla soglia e, quasi intimidito dagli abiti appesi ai
muri, domandava se era lì che si sarebbe svolto il seminario; nel passo di al-
cuni leggevo la curiosità, in altri la voglia di immergersi in questo lavoro che
il X° Congresso Mondiale sulla Mediazione Comunitaria offriva agli interve-
nuti da tutto il mondo.
A supportarmi nel lavoro c’erano Marco Romei, il drammaturgo del
Teatro delle Nuvole, e Leonardo Olivetti, mio ex allievo, oggi traduttore e
regista dei testi teatrali di Marco Romei. A documentare il seminario e l’a-
zione la fotografa Patrizia Lanna.
Dopo avere spiegato come si sarebbe svolto il seminario, ognuno è stato
invitato a indossare l’abito che aveva portato con sé, o a sceglierlo dai co-
stumi appesi al muro.

Quando tutti avevano indossato il loro abito di scena ho proposto una


serie di esercizi preparatori al lavoro che saremo andati a realizzare.
Dopo di che abbiamo iniziato a dedicarci alla elaborazione testuale. Le
persone componevano il cartellone che avevamo posto al centro della stanza,
scrivendone insieme il testo. Le parole venivano incollate una a una su un
grande foglio giallo. Ognuno di loro stava partecipando a un rito collettivo.

Poi, evocando la memoria legata all’oggetto e all’abito, attraverso una


esplorazione sensoriale, ognuno di loro doveva scrivere un pensiero, una pa-
rola, una riflessione.
A questo punto sollecitavo il gruppo a barattare il proprio oggetto con gli
altri... e a scambiarsi il proprio abito di scena, tutto questo al ritmo di un
valzer.
Le persone si aprivano allegramente alla condivisione, giocando al
teatro; foulard, scarpe, fedi nuziali passavano di mano in mano, mentre i
loro corpi si infilavano in abiti stretti o in pantaloni enormi. Tutto succedeva
con una estrema semplicità, in un clima divertito e allegro: persone che non
si conoscevano accettavano di giocare a questo grande mistero che porta con
sé il Teatro. Vedevo i loro visi trasformarsi, e assumere differenti espressioni,
mentre liberavano le proprie energie e si rilassavano spensieratamente, senza
giudizio, liberi di giocare, come quando erano bambini.
Sulle note di Shostakovich abbiamo formato una coda ondeggiante, e,
come acqua, siamo usciti dallo spazio del lavoro per entrare ballando nel
grande cortile del palazzo. È stata una grande emozione, c’era silenzio in-
torno, le note della musica e la nostra presenza lo riempivano.
Poi ci siamo avvicinati al filo rosso, con cui da diversi anni segno gli
spazi dove agisco con le mie azioni performative. Ognuno vi ha appeso il
suo scritto. Come finale dell’azione, al centro del cortile, abbiamo fatto vo-
lare in alto nel cielo tra le nuvole una grande drappo rosso.
Così termina questo diario di un evento che rimane nella memoria dei
partecipanti e che ci unisce con un filo invisibile ma reale, come il filo rosso
a cui ognuno di noi ha appeso i suoi sogni per il mondo.
Il seminario ha offerto ai partecipanti una pratica dell’esperienza teatrale,
favorendo la presa di coscienza attraverso il corpo delle proprie sensazioni,
emozioni, pensieri, suggestioni; facilitando la ricerca della creatività attra-
verso il rapporto con l’altro. Il materiale elaborato ha composto la partitura
delle scritture realizzate durante il seminario. I testi sono stati esposti sul filo
rosso dell’azione, teso tra le colonne del Cortile Maggiore di Palazzo Du-
cale.
Un estratto dai testi appesi al filo rosso:

➢ “Il mio naso ride, è mobile, non c’è morte nel mio viso, c’è un sor-
riso.... Libertà di volare con i piedi come rondini che camminano li-
bere”;
➢ “Finalmente ridere a crepapelle rotolandomi nell’aria”;
➢ “L’oro del sorriso, l’oro del domani, l’oro della nascita, l’oro di un
altro tempo”;
➢ “Acqua che scorre e disseta, e sostiene e accarezza è sorella e
madre”;
➢ “Sogno: ognuno ha un sogno, come la luce della sera, portarci
avanti, avanti e arrivare a destinazione”;
➢ “Día lluvioso. Duda en mi mente. Amigo, gran amigo, gran regalo.
Camisa negra, Corazón blanco, Mente clara. Camino nuevo”;
➢ “..Qui vivono tutte le parole che avrei volute dirle e non ci sono riu-
scita...”;
➢ “..Posso scrivere le parole con le quali narrare il filo rosso della mia
vita...”;
➢ “Mi fa sentire a casa, più vicina alle mie radici”;
➢ “...Dentro di te questa storia si vuole raccontare...”;
➢ “Responsabilità è la via che può riportare verso la luce di una Fami-
glia Sociale”;
➢ “Indossarti significa aver raggiunto il traguardo”;
➢ “Dono... Questo piccolo oggetto fa parte del grande mistero dell’uni-
verso, ...di mano in mano genera relazioni”;
➢ “...Volare... guarire”:
➢ “La fede nuziale di mia Nonna...”.
Conclusioni
Luca Borzani - Presidente Palazzo Ducale Fondazione
per la Cultura Genova

Palazzo Ducale, in particolare dalla sua trasformazione in Fondazione


(2008), supporta il proprio ruolo di istituzione culturale con un’attenzione
costante alle iniziative per il sociale. È un Palazzo della città, aperto alla
città, dove tutti possono esprimersi liberamente nel rispetto e nell’ascolto
degli altri con la convinzione che fare cultura pubblica significa anche cer-
care di consolidare una dimensione di valori, di senso di comunità e di con-
sapevolezza critica e civica.
Questa è la ragione per cui all’interno della programmazione particolare
cura è dedicata all’attivazione di percorsi di dialogo con “pezzi di città”
(altre istituzioni, enti e associazioni) in funzione del superamento di pregiu-
dizi e stereotipi per favorire la cittadinanza attiva e partecipata.
Proprio in quest’ottica è nata la collaborazione con Fondazione San Mar-
cellino e il Dipartimento di Lingue e Culture Moderne Università di Genova
che ha portato al progetto Dialogo Cultura e Mediazione, laboratori di citta-
dinanza per dialogare e individuare, in modo condiviso, tematiche connesse
ad un’idea di città da discutere e approfondire, durante il quale è maturata
l’idea della possibilità di portare a Genova, e proprio al Ducale, il X Con-
gresso Mondiale di Mediazione con l’obiettivo di creare un’occasione in cui
la dimensione culturale, quella della solidarietà e del dialogo partecipativo si
potessero incontrare in un confronto mondiale interdisciplinare aprendo a
prospettive di diffusione, sensibilizzazione, consolidamento e radicamento di
esperienze e pratiche di mediazione al servizio delle comunità.
Fare “cultura pubblica” non può prescindere da una riflessione sulla me-
diazione comunitaria perché, come scrive Carlos Giménez, “lavorare nella
comunità e con la comunità per affrontare temi di interesse della medesima,
sia per migliorare la qualità della vita di un particolare gruppo o quartiere,
sia per passare dalla coesistenza alla convivenza, aggiungendo un principio
di interazione positiva tra le parti”, preservando il senso complessivo di el
enfoque cultural che si nutre di abilità, tecniche, competenze e discipline di-
verse.
Un modo per costruire strumenti che ci aiutino a leggere la crisi del no-
stro tempo. Una crisi che è economica in primo luogo, ma anche della comu-
nità e delle identità e che prosegue con effetti devastanti sia sociali che cultu-
rali, divenendo il nostro orizzonte, il luogo delle paure del futuro ma anche
dell’incubazione dei virus del razzismo, della xenofobia, dell’irresponsabilità
sociale. Con la convinzione di sempre e cioè che la conoscenza, il confronto,
la cultura siano strumenti per misurarci con il mutamento, per sfuggire alle
omologazioni, per costruire cittadinanza.
Il successo e la riuscita del Congresso, naturalmente, non possono che es-
sere il punto di partenza di un percorso articolato e inesauribile cui, il pros -
simo anno, ancora in partnership con San Marcellino e il Dipartimento di
Lingue e Culture Moderne Università di Genova, aggiungeremo un altro im-
portante tassello, la realizzazione di uno strumento formativo ad hoc, un vero
e proprio Corso di Perfezionamento Universitario rivolto a circa trenta per-
sone, tra studenti e operatori pubblici e privati, dal titolo Processi di media-
zione nelle comunità plurilinguistiche. L’avventura continua.
Sommario

Presentazione 7

Colpi di timone 9

Golpes de timón 19

La Dimensión Transversal de la Mediación.


29
Una Mirada Sistémica desde los Procesos
Il progetto Passaggi nella Canazzi di Legnano:
45
rigenerare i legami sociali
La Mediación Social Comunitaria en el Ayuntamiento de Alicante 61

Linguaggi artistici e trasformazione del conflitto.


Analisi dell’esperienza Scatenati della Casa Circondariale 77
di Genova-Marassi (Italia)
La arteterapia como herramienta de mediación comunitaria 91

Snodi: costruire comunità di mediatori e contagio culturale 107

La narrazione mediata nella Protezione Internazionale 117

Scegliere la scuola: tra bagaglio culturale e aspettative per il futuro 137

Mediazione educativa interculturale nelle scuole progettuali


149
dell’infanzia comunali: tracce di esperienze genovesi
Mediación escolar entre pares para la resolución de conflictos
159
interpersonales en el aula
Mediatori in erba: perché “osare” alla scuola dell’infanzia? 179

La mediación escolar entre pares como herramienta


para la previsión y resolución de conflictos 191
en la educación secundaria pública y privada de México
La mediación como estrategia para la resolución de conflictos
entre alumnos en el espacio universitario del instituto 205
de ciencias sociales y humanidades. Trabajo de campo
Il processo verso la mediazione: percorsi giudiziari, sociali
227
e relazionali a confronto nei reati di bullismo scolastico
Mediazione penale minorile e senso di comunità 243

La mediazione dei conflitti dei cittadini


255
con la Pubblica Amministrazione
El despido disciplinario como objeto de la conciliación-mediación 271

Adquirir competencias en resolución de conflictos 303

The subject’s emancipation in community mediation:


321
from judicial decision to conflict dealing
Fuochi nella notte. Uso di immagini d’arte in mediazione familiare 337

La Fatiga por Compasión en la Práctica de la Mediación Familiar.


353
Hipótesis para una investigación
La peor discapacidad es la actitud negativa 371

Reflexão sobre e a teoria do pensamento complexo de Edgar Morin:


a reflexão sobre crise da jurisdição e possibilidade da mediação
como perspectiva emancipatória e participativa do cidadão
na resolução de conflitos 385

Prima della scrittura: “Giochiamo al teatro... giocare vuole dire


misurarsi con se stessi e con gli altri per aprirsi al cambiamento 413
e alla trasformazione”
Conclusioni 425
www.editricezona.it
www.zonacontemporanea.it

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