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N° 20, 4 | 2014
Il diritto militante
Edizione digitale
URL: http://journals.openedition.org/diacronie/1661
DOI: 10.4000/diacronie.1661
ISSN: 2038-0925
Editore
Association culturelle Diacronie
INDICE
I. Laboratorio
L’attentato di Ceretolo
Nicola Caroli
Il delitto di Roncosaglia
Simeone Del Prete
II. Miscellaneo
III. Recensioni
Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano
Jacopo Perazzoli
Paolo Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità
atlantica (1943-1954)
Rosaria Leonardi
Giovanni Pedrini (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale
Luca Zuccolo
AUTORI
JACOPO BASSI
Nel 2006 consegue la Laurea Triennale in « Storia del mondo contemporaneo » presso l’Università
di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra
Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle diocesi dell’Epiro all’amministrazione della Chiesa di Grecia e la
‘Praxis’ del 1928, relatore il Professor Enrico Morini. Nel 2007, nel quadro del programma di
scambio Erasmus, ha frequentato per un trimestre l’École Normale Supérieure (ENS) di Parigi; ha
effettuato un periodo di soggiorno durante i mesi di gennaio e febbraio 2008 presso l’ École
Française d’ Athènes, sotto il tutorato del dottor Anastassios Anastassiadis, membro del comitato
scientifico di questa istituzione. Nel luglio 2008 ha discusso la Tesi Specialistica in Storia della
Chiesa – relatore il Professor Umberto Mazzone, correlatore il Professor Enrico Morini – dal titolo
Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967).
Ha lavorato come redattore per la casa editrice L’Inventaire e ha curato il progetto Dictionnaire
universel des femmes créatrices – secteur “Femmes du livre” in corso di pubblicazione presso Editions
des Femmes. Attualmente collabora con la casa editrice Il Mulino alla creazione dell’archivio
digitale dei libri del Mulino, Darwinbooks e con la casa editrice Carocci.
DEBORAH PACI
Nel 2006 consegue la Laurea Triennale in «Storia contemporanea» presso l’Università di Bologna
discutendo una tesi sulla battaglia autonomista condotta dal Partito d’Azione in Valle d’Aosta e in
Sicilia durante il triennio 1943-1946, dal titolo Il contributo del Partito d’Azione nella lotta per le
autonomie. Sicilia e Valle d’Aosta a confronto (1943-1946). Nel 2007 partecipa al programma
internazionale «Cursus intégré franco-italien d’ histoire européenne comparée», promosso
dall’Università di Bologna e dall’Université Paris VII – Denis Diderot. Nel 2008 consegue un
doppio titolo di Laurea Specialistica in «Storia d’Europa» e di Master 2 «Histoire et civilisations
comparées», sostenendo una tesi sulla ricezione del pensiero di Pierre-Joseph Proudhon presso i
fuorusciti italiani in Francia dal titolo Dall’anarchia al federalismo. La tradizione proudhoniana nei
Fuorusciti italiani in Francia. L’attenzione in questo studio è stata rivolta alla lettura delle teorie
proudhoniane operata dal sociologo Georges Gurvitch e alla sua trasmissione negli ambienti del
fuoruscitismo italiano negli anni tra le due guerre. Tra il 2009 e il 2011 è stata borsista presso
l’Ecole Française de Rome e visiting student presso l’University of Malta. Nel 2013 consegue un
dottorato di ricerca in cotutela in «Scienze storiche» presso l’Università di Padova e in «Histoire»
presso Université de Nice Sophia-Antipolis, svolgendo una ricerca sul mito del Risorgimento
mediterraneo e sul progetto imperialista fascista in Corsica e a Malta negli anni tra le due guerre.
Fa parte del Centro Interuniversitario di Storia Culturale (CSC) e del Centre de la Méditerranée
Moderne et Contemporaine (CMMC). Attualmente Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia sta conducendo uno studio sulle politiche identitarie e sull’immaginario
insulare nelle isole del Mediterraneo e del Baltico.
I. Laboratorio
dell’istituzione manicomiale. De Ghantuz Cubbe e Zanasi analizzano dal canto loro due
processi che hanno segnato la storia del nostro paese, quello del Petrolchimico di Porto
Marghera e quello sull’Eternit. Il saggio di De Ghantuz Cubbe ha il pregio di mettere per
la prima volta a fuoco in una prospettiva storiografica il ruolo svolto dai periti e l’uso
della scienza fatto da costoro in questa tipologia di processi i cui esiti dipendono dalla
decisione dei magistrati di optare per l’una o l’altra delle perizie di parte sui danni
commessi o meno da determinate sostanze sulla salute dei lavoratori e dei cittadini. La
ricostruzione del lungo iter processuale sulla fabbrica piemontese dell’amianto
compiuta da Costanza Zanasi fa emergere il profilo di Sergio Bonetto, il prototipo
dell’avvocato militante del XXI secolo, che ha dedicato la sua vita professionale alla
difesa dei lavoratori e dei cittadini vittime delle stragi compiute dal capitalismo.
5 Pochi giorni fa la Corte di Cassazione ha nei fatti annullato la sentenza d’appello del
processo Eternit, nella quale era stato riconosciuto il danno che la fabbrica aveva
arrecato alla salute dei lavoratori e dei cittadini. La notizia ha scosso profondamente
l’opinione pubblica e ha mostrato con assoluta evidenza che oggi come ieri, il diritto
militante che lotta in difesa dei deboli, degli oppressi, degli esclusi è un terreno nel
quale si combattono battaglie all’ultimo sangue.
AUTORE
MARIA MALATESTA
Laureata in Filosofia nel 1972 presso l'Università di Bologna. Professore ordinario di Storia
contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Materie di insegnamento: Storia
contemporanea, Storia delle istituzioni sociali, Storia delle professioni. Ex coordinatore del
Dottorato in Storia e geografia d'Europa, coordina dal XXVI ciclo il Dottorato in storia. Titolare
dell'insegnamento di Storia contemporanea nell'a.a. 1995-1996 presso l'Université Denis Diderot-
Paris 7. Professore invitato nel 2000 presso l'Ecole Normale Superiéure; nel 2001 e nel 2003 presso
la Maison des Sciences de l'Homme; professore invitato all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences
Sociales nel 2008. E'stato membro della Commissione per la storia dell'avvocatura del Consiglio
Nazionale Forense dal 199 al 2007; è attualmernte membro del Consiglio Italiano delle Scienze
sociali e del comitato scientifico dell'Istituto per la storia di Bologna; Coordinatore scientifico del
Centro di ricerca sulla storia delle professioni (http://www.ceprof.unibo.it/). Ha partecipato
come responsabile di un'unità di ricerca locale a due progetti ex-40% (1991-1994, 1998-1999) e
come membro locale al progetto PRIN 2005-2006 su Migrazioni maschili, migrazioni femminili:
per una cartografia della mobilità geografica in Italia tra età moderna e contemporanea.
Coordinatore nazioanale del progetto PRIN 2007 “Le professioni:dal progetto della politica alla
politica del quotidiano”. Coordinatore del progetto strategico finanziato nel 2007 dall'ateneo di
Bologna dal titolo Atlante storico delle professioni. Ha partecipato dal 1987 al 1991 al gruppo di
ricerca sulla Storia sociale europea diretto da Hartmut Kaelble (Freie Universität Berlin). Ha
partecipa dal 2004 al 2018 al gruppo di ricerca diretto da Yves Dezalay (CNRS- Maison des
Sciences de l'Homme- Paris) e Brian Garth (American Bar Foundation) sulle trasformazioni dei
campi giuridici internazionali. Collabora dal 2007 con il Centre de sociologie Maurice Halbwachs
– CNRS- Paris -Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Nel 1996 ha insegnato per un
semestre Storia contemporanea all'Università di Paris VII- Denis Diderot- Paris. Dal 2000 al 2011
è' stata più volte professeur invitée all' Ecole Normale Superieure e all'Ecole des Hautes Etudes en
sciences sociales. Membro del comitato scientifico delle seguenti riviste “Actes de la Recherche
en Sciences Sociales”, “Comparative Sociology”, "Le Mouvement Social", "Società e Storia".
1. Il contesto storico
Resistenza patriottica non inficiata dalle violenze. Questo atteggiamento unito alla
propaganda della stampa moderata che seguì con estremo interesse i processi, mise
seriamente in discussione il peso e il valore della lotta resistenziale. L’iniziativa anti-
partigiana sembrava essere volta a depotenziare le spinte innovatrici che si erano
affermate nel triennio 1943-1945 e a criminalizzare i comunisti per minarne la
legittimità parlamentare e democratica indicandoli come gli ispiratori di azioni volte a
destabilizzare la democrazia. Ricorriamo anche a questo proposito alle parole di Alatri:
per questa classe di funzionari dello stato un partigiano, un comunista hanno molte
probabilità di essere, a priori, dei delinquenti: sono comunque degli agitati che
hanno un ideale di lotta e di vita in contrasto con la maestosa immagine dello stato
e della società che essi si son fatta alla vecchia scuola tradizionale della classe
dirigente italiana, della classe burocratica che ci governa da quando l’Italia è nata
come nazione11.
7 I processi vengono strumentalizzati politicamente con un duplice scopo: colpire il Pci e
reprimere la conflittualità sociale omologandola con la delinquenza comune.
8 Infine un ultimo dato è subito rilevato dai contemporanei e confermato dalle ricerche
storiografiche successive: un paradossale ribaltamento della realtà. Da una parte,
infatti, si ebbe il congelamento dei processi a carico dei fascisti grazie alla spinta verso
la normalizzazione e stabilizzazione del Paese e alla conseguente “amnistia Togliatti”,
dall’altra i partigiani che avevano combattuto per la guerra di liberazione venivano
perseguiti per reati di violenza comune. «È questo che ti colpisce: due pesi e due misure
a seconda che si tratti di fascisti o di antifascisti. E non come sarebbe pure lecito
semmai aspettarsi a favore di quelli che hanno combattuto e sofferto per l’Italia, ma a
favore di coloro che si sono battuti per la fazione opposta e per i tedeschi contro
l’Italia»12.
9 La difesa degli ex partigiani implicati in procedimenti penali fu assunta nella
maggioranza dei casi dal Comitato di Solidarietà Democratica, nato il 2 agosto 1948
dopo i numerosissimi arresti avvenuti in seguito alle manifestazioni del 14 e 15 luglio
dello stesso anno successive all’attentato a Togliatti. Quest’ultime avevano provato la
capacità di mobilitazione di ampi strati della popolazione che avevano deciso di
scendere in piazza dimostrando tutta la propria volontà riformatrice. Ciò spaventò il
governo centrista e l’opinione pubblica moderata: non è un caso, infatti, che da qui in
avanti braccianti, militanti politici e sindacali nonché ex partigiani furono imputati in
numerosi procedimenti penali. A promuovere la nascita di questa struttura furono
sollecitazioni interne ai partiti comunista e socialista, e in special modo la figura
dell’onorevole Umberto Terracini, che divenne presidente del Comitato Nazionale di
Roma nel 1951. I primi comitati di Solidarietà Democratica nacquero in seguito proprio
a questa ondata di repressione con lo scopo immediato di sostenere gli imputati e le
loro famiglie sia materialmente che moralmente e allo stesso tempo di fornire
assistenza legale gratuita durante le cause. Data la mole di processi che investirono
partigiani ed ex combattenti in Emilia-Romagna, non è un caso se proprio questa
regione fu tra le prime a organizzarsi in maniera immediata e capillare. Nel 1951 si
erano costituiti ben 866 comitati suddivisi tra provinciali, comunali, rionali e
aziendali13. L’idea che stava alla base del movimento di Solidarietà Democratica era
quella della difesa delle libertà democratiche e soprattutto dei diritti sanciti dalla
Costituzione della neonata Repubblica. Per far questo si cercò di raccogliere l’adesione
e la collaborazione di quanti più giuristi, avvocati14 e uomini di diritto possibile
indipendentemente dall’appartenenza politica. Tuttavia nella realtà i membri dei
collegi di difesa erano in maggioranza legati o militavano nelle file del Pci e del Psi, e da
questi due partiti il Comitato riceveva notevoli contributi finanziari.
10 Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta in corrispondenza di quella che
si è definita come una vera e propria repressione anti-partigiana, il Comitato si
concentrò principalmente nella difesa dei partigiani e dei militanti volendo agire da
tutela dei diritti costituzionali e contro l’azione e la politica repressiva attuata dal
governo di De Gasperi e dal ministro degli Interni Scelba. Il fine del Cds era infatti
quello di creare una «solida base di massa, mobilitando in ogni provincia, avvocati,
studiosi di diritto, in modo da studiare l’esagerato prolungarsi dei processi, le
condizioni di vita dei carcerati e la veridicità dei soprusi della polizia, degli arbitri, nel
periodo precedente all’istruttoria, e delle violenze durante gli interrogatori» 15. L’intero
mondo partigiano sembrava essere sotto accusa e furono proprio gli avvocati che
collaboravano con il Comitato a denunciarlo. Il senatore Carmine Mancinelli, ad
esempio, in una delle discussioni della Commissione Parlamentare d’inchiesta sui fatti
dell’Emilia, già nel 1948 poneva in luce «il piano di aggressione che il governo e le forze
reazionarie agrarie e neofasciste si sono proposte ai danni del movimento partigiano» 16.
La linea che il Comitato e gli avvocati che ne gravitavano attorno decisero di seguire fu
quindi il doppio binario della difesa e dell’attacco. Seguendo le argomentazioni
suggerite da Liora Israel nel suo libro17 sul mondo del diritto e del soccorso militante
soprattutto in Francia, ci sentiamo di poter affermare che anche in questo caso ad
operare siano state le due facce del diritto come arma capace di contestare e
eventualmente modificare rimanendo all’interno delle istituzioni riconosciute dallo
Stato una situazione di fatto: «il diritto, è quindi, sia arma offensiva, per far valere dei
diritti, sia arma difensiva,perché imposta da una indagine o da una imputazione: è
perciò uno degli strumenti coni quali spesso si misura, per scelta o per necessità, chi
voglia contestare una situazione, uno stato, degli avversari» 18. Significativo appare
quindi rilevare come lo sforzo portato avanti dal Comitato si muovesse da un lato
difensivamente per assistere nelle cause gli imputati, dall’altro offensivamente
denunciando nelle arringhe in aula l’illegittimità della azione persecutoria
indiscriminata e massiccia: l’obiettivo dei difensori non era solo l’assoluzione degli
imputati come scopo in sé compiuto, ma anche l’affermazione dei valori costituzionali
nati proprio grazie alla lotta dei partigiani durante la Resistenza. A ciò va aggiunto il
tentativo di elaborare proposte volte al superamento della legislazione fascista ancora
in vigore19.
11 Come sottolineano Angela Maria Politi e Luca Alessandrini, che per primi studiarono in
maniera sistematica l’insieme documentario degli archivi del Comitato e di alcuni
avvocati ad esso afferenti, «il Cds era parte integrante delle lotte sociali delle cui
conseguenze penali si faceva carico» agendo più come «un movimento» che come «un
ufficio»20. Era quindi molto difficile ricondurre tutte le cause ad una medesima
direzione centrale, soprattutto quando si trattava di dover cercare soluzioni e prendere
decisioni celermente. Per questo vennero presi come punto di riferimento alcuni
elementi solidi e stabili su cui poter contare in quanto a professionalità e militanza.
Caso emblematico fu quello dell’avvocato bolognese Leonida Casali che si trovò al
centro dei collegi difensivi della quasi totalità dei processi svoltesi contro partigiani nel
bolognese e nel modenese e al cui ufficio venivano sottoposti tutti i casi inerenti quella
zona per una prima valutazione preliminare. Proprio per questo motivo il presente
lavoro si incentra sullo studio di alcune cause curate da Casali, grazie al patrimonio
documentario del suo curato e ricco archivio, depositato oggi presso l’Istituto per la
Storia e le Memorie del ’900 Parri – Emilia Romagna.
12 Nella consapevolezza che anche una monografia, per quanto particolare, possa
contribuire a rendere ragione di processi molto più generali che la sovrastano, ma di
cui permette l’analisi, l’obiettivo del presente lavoro è di ricostruire la funzione e il
ruolo di Casali all’interno sia del Comitato di Solidarietà Democratica sia del Partito
Comunista e di comprendere l’articolarsi , lo strutturarsi e lo svolgersi delle difese a
livello sia giurisprudenziale sia politico, partendo dalla peculiarità dei singoli casi
affrontati.
2. Il profilo biografico
13 Leonida Casali nasce a Bologna l’8 febbraio 1898 dall’avvocato Enrico Mariano Casali e
da Romana Lodi, primo di otto figli. Consegue la maturità classica al Liceo Minghetti 21.
Nel 1916 si iscrive all’Università di Bologna alla facoltà di Giurisprudenza corso
Procuratori, ma lo scoppio del primo conflitto mondiale interferisce con il normale
svolgimento della sua vita universitaria. Non sappiamo se il giovane Casali prende parte
alla Prima guerra mondiale, ma risale al dicembre del 1917 una sua giustificazione circa
l’impossibilità di adempiere al pagamento delle tasse universitarie per il secondo
semestre del primo anno «per ragioni di obbligo militare e altre che spiegherà a voce,
se richiesto, frequentare regolarmente le lezioni e pagare la seconda rata del I anno
(1916-17) e la prima rata del II anno ora in corso»22. Nel 1916 inizia la sua attività
politica militando nel Partito Socialista. La scissione gramsciana consumata durante il
Congresso di Livorno nel gennaio del 1921, avvicina Casali alle istanze del comunismo
italiano e difatti risulta essere uno dei fondatori della sezione bolognese del Partito
Comunista d’Italia23. Anche se stava muovendo i primi passi della sua attività politica gli
vengono comunque affidati ruoli di responsabilità nella cellula bolognese del PCd’I;
diviene ad esempio segretario dell’Unione Inquilini. Il 3 giugno del 1921 si iscrive
all’Albo dei Procuratori e quindi può finalmente fare il suo ingresso nel mondo
dell’avvocatura nelle vesti di Procuratore24. Da quando Mussolini prende il potere la sua
militanza comunista diviene un problema e Casali diventa una delle tante vittime della
violenza del nascente fascismo. Essendo uno dei membri più importanti del Partito
Comunista emiliano e da subito oggetto di vessazioni, viene più volte aggredito,
bastonato, aggiunto all’elenco degli schedati politici e sottoposto a continua vigilanza 25.
Le violenze subite hanno naturalmente ripercussioni nella sua carriera universitaria
che, d’altronde, non risultava neanche troppo brillante. Tra il 1929 e il 1930
«approfittando del R.D. 21 marzo 1929 n. 841 che prorogava il termine concesso ai
procuratori legali per conseguire la laurea in giurisprudenza allo scopo di ottenere
l’iscrizione all’albo degli avvocati, tenta di dare gli esami che ancora doveva superare»
26
, ma anche questo tentativo risulta fallimentare poiché «elementi fascisti gli imposero
di non metter più piede nell’università pena la vita. [...] sospese [quindi] gli studi e solo
dopo la liberazione fece ricorso al ministero dell’istruzione per essere autorizzato a
sostenere gli esami»27.Il più efferato di questi pestaggi (avvenuto nel 1925) lo riduce tra
la vita e la morte e gli fa perdere quasi completamente la vista da un occhio
compromettendo una già cagionevole salute; infatti durante la sua vita saranno lunghe
e frequenti le sue permanenze presso istituti ospedalieri che non faranno altro che
interferire pesantemente con la sua carriera. Benché Casali sia stato una personalità
molto importante nel mondo comunista bolognese, le notizie sulla sua vita risultano
ancora molto poche soprattutto per quanto riguarda gli anni Trenta. Il clima politico
incandescente che caratterizza quell’epoca e le persecuzioni a cui era sovente
sottoposto, portano Casali a vivere gli anni del fascismo nell’ombra ma rimanendo
sempre collegato alla struttura decisionale del PCd’I. La sua situazione economica
durante questi anni non è affatto rosea, risulta anzi essere contraddistinta da
un’elevata instabilità e nel corso degli anni è costretto a contrarre sempre maggiori
debiti.
14 Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la fede comunista di Casali lo porta ad
avvicinarsi agli ambienti della Resistenza arrivando a ricoprire ruoli di rilievo. Gli viene
affidata la guida della 63esima Brigata Garibaldi Bolero, protagonista di numerose
azioni di guerriglia e sabotaggio nel basso Appennino Bolognese e nelle zone dei
comuni di Zola Predosa, Casalecchio di Reno, San Giovanni in Persiceto, Sasso Marconi e
Crevalcore; tale attivismo gli varrà il riconoscimento del grado di Maggiore Partigiano,
conferitogli nel 1943 e l’elezione nel Collegio dei Probiviri dell’ANPI provinciale di
Bologna. Anche in questo caso le notizie riguardanti la sua militanza nei ranghi della
resistenza sono assai parziali e sconnesse fra loro; nonostante ciò, sappiamo che nel
1943 diviene Segretario della cellula bolognese del CLN, diventando membro del
comitato legislativo clandestino, e membro del Comando Unico Militare dell’Emilia
Romagna. Finita la guerra, ritorna all’Università per terminare i propri studi interrotti
negli anni Venti e consegue la laurea in Giurisprudenza nel dicembre 1947 con una tesi
dal titolo Sull’obbligazione alimentare ex lege con relatore il Professor Antonio Cicu 28. La
sua attività di avvocato si aggiunge alla sua carriera politica nel Consiglio Comunale di
Bologna. Subito dopo il termine del conflitto il Governo Militare Alleato nomina
sindaco il comunista Giuseppe Dozza e Casali viene nominato consigliere comunale,
incarico che verrà poi riconfermato dalle elezioni amministrative del 24 Marzo 1946.
Dopo vent’anni di fascismo l’intera cittadinanza bolognese, in questo caso per la prima
volta anche le donne, torna a poter scegliere liberamente e democraticamente i suoi
rappresentanti, e Leonida Casali risulta eletto tra le fila del Partito Comunista. Il PCI
ottiene 71.369 voti, può in questo modo conquistare 24 seggi nel Consiglio, distanziando
di gran lunga il PSIUP e la DC. Casali diventa assessore effettivo con delega all’ufficio
legale29, incarico che mantiene anche dopo le elezioni del 1951; la sua lunga attività
politica a Bologna si conclude nel 1964.
15 In concomitanza con gli impegni in Consiglio Comunale Casali, fin dai primi anni dopo
la fine della Seconda Guerra Mondiale, è impegnato nella difesa di "compagni"
comunisti ed ex-partigiani accusati di violenze e atti delittuosi che sono da inserire
all’interno di quel clima sempre più incandescente che caratterizza il secondo
dopoguerra. Il 2 agosto 1948 viene fondato il Comitato di Solidarietà Democratica grazie
all’impegno di personalità del PCI e del Partito Socialista desiderosi di fornire
assistenza legale gratuita ai tanti uomini vicini alle sinistre che vengono tratti in
arresto; difatti una grande pioggia30 di arresti comincia dopo l’attentato a Palmiro
Togliatti. Casali, grazie alle sue competenze legali, diventa uno degli avvocati più
rappresentativi del foro di Bologna e molto impegnato nella difesa di militanti accusati
dei più svariati delitti. «Si trovò in prima fila dalla parte di coloro che venivano colpiti
dall’offensiva scatenata dai governi e dalle classi che diressero il paese, negli anni
seguenti quella rottura [dell’unità antifascista], contro le masse popolari, contro i
lavoratori, contro i singoli dirigenti dei lavoratori, contro i partigiani» 31.
16 L’attività di Casali, quindi, non si ferma solo ad una semplice difesa processuale ma,
insieme al Comitato di Solidarietà Democratica, si impegna a smontare gli attacchi
politici sferrati contro le sinistre alla luce del mutato quadro internazionale, entrato
nel vortice della Guerra Fredda e, nel caso italiano, in una contesa sempre più accesa
tra partiti di governo e la minoranza di sinistra.
17 La stagione dei processi politici si conclude durante gli anni Cinquanta e Casali può così
tornare ad una normale attività forense, anche se sempre molto alto sarà il suo
impegno civico. Antonioni ricorda l’azione di Casali in occasione dei processi nati dal
cosiddetto «Dossier Due Torri»32, uno studio sulla realtà del neo-fascismo bolognese
redatto dallo stesso Pci e poi trasmesso alla Procura di Bologna.
18 Nella seduta comune del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati del 28
Novembre 1962 viene nominato Giudice aggiunto della Corte Costituzionale 33.
19 Nel corso degli anni Sessanta e Settanta però la sua salute comincia a peggiorare, la
vista diventa sempre più debole e con il passare degli anni la perderà quasi del tutto.
20 L’impossibilità di lavorare e di continuare la sua attività di avvocato lo inducono a
togliersi la vita nel corso del 1977.
NOTE
1. DONDI, Mirco, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori
Riuniti, 1999.
2. I primi studi a questo proposito risalgono agli anni Ottanta. Cfr. CONTI, Stefania, La repressione
anti-partigiana: il triangolo della morte, Bologna, Clueb, 1979; NEPPI MODONA, Guido, Giustizia penale
e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984. Successivamente, negli anni Novanta,
l’interesse si focalizzò principalmente sui processi contro i partigiani. Cfr. POLITI, Angela Maria,
«Una nuova fonte sui processi contro i partigiani: gli archivi degli avvocati difensori», in Rivista di
storia Contemporanea, 19, 2/1990, pp. 304-327.
3. Cfr. PISANÓ, Giorgio, Storia della guerra civile in Italia, Milano, Fpe, 1966. in cui si parla di
diecimila morti solo in Emilia Romagna. I dati forniti, invece, dal ministero degli Interni
presieduto da Scelba parlavano di 1732 morti fascisti in tutto il nord Italia negli anni successivi
alla liberazione.
4. DONDI, Mirco, op. cit., p. 91.
5. PAVONE, Claudio, Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, in LEGNANI, Massimo, VENDRAMINI,
Ferruccio, Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 25-36.
6. DONDI, Mirco, op. cit., p. 163.
7. Cfr. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi
del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e
dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale Della Resistenza,
1992; PONZANI, Michela, «I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana. L’attività di Solidarietà
Democratica (1945-1959)», in Italia Contemporanea, 237, 2004, pp. 611-632.
8. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, op. cit., p.312.
9. ALATRI, Paolo, I triangoli della morte, Roma, Comitato di Solidarietà Democratica, 1948, p. 5.
10. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO,
Francesco (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Milano, Einaudi, 1997, pp. 84-85.
11. ALATRI, Paolo, op. cit., p. 6.
12. Ibidem, p. 42.
13. SOLDATINI, Simonetta (a cura di), La difesa organizzata nei processi politici degli anni ’50 e ’60: gli
archivi di solidarietà democratica, Siena, Edizioni Cantagalli, 2006, p. 2.
14. Citiamo alcuni degli avvocati implicati nei collegi difensivi organizzati dal Comitato di
Solidarietà Democratica: Giuseppe Ferrandi, Battista Giaquinto, Lucio Luzzato, Emilio Rosini,
Antonio Zoboli, Lelio Basso, Aldo Buzzelli, Giulio Polcaro, Carlo Caldera, Raimondo Ricci, Leonida
Casali, Leonetto Amedei, Ferdinando Targetti, Pasquale Filastò,Fausto Fiore, Umberto Terracini,
Ellenio Ambrogi, Alessandro De Feo, Luciano Ventura, Aldo Cavallo, Vittorio Paparazzo,
Domenico Rizzo, Giuliano Vassalli, Leto Morividi, Mario Palermo, Renato Sansone, Mario Gomez
D’Ayala, Corrado Graziadei, Pompeo Rendina, Virginio Borioni, Leo Leoni, Emilio Lopardi, Ubaldo
Lopardi, Mario Assennato, Giusepppe Papalia, Francesco Capacchione, Michele Bianco, Fausto
Gullo, Francesco Geraci, Rocco Minasi, Antonino Varvaro, Francesco Musotto, Francesco
Taormina.
15. PONZANI, Michela, op. cit., p. 622. Ponzani ha lavorato sulle carte e sugli appunti presenti
nell’archivio di Solidarietà Democratica.
16. SENATO DELLA REPUBBLICA, Atti parlamentari, Legislatura I, 9 dicembre 1948, p. 4288. in
PONZANI, Michela, op. cit., p. 623.
17. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffré, 2012.
18. Ibidem, p. 3.
19. A questo proposito molto interessante appare il dibattito che si sviluppò in quegli anni sulla
rivista giuridica «Il Ponte».
20. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani», in
Italia Contemporanea, 178, 1990, p. 52.
21. ARCHIVIO STORICO STUDENTI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, fascicolo «Leonida Casali».
22. Ibidem.
23. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b.127, f. 200.
24. Ibidem.
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. ARCHIVIO STORICO STUDENTI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, fascicolo «Leonida Casali».
28. Ibidem.
29. URL:
<http://www.comune.bologna.it/storiaamministrativa/people/detail/36243/0> [consultato il 14
giugno 2014].
30. In questo modo la definisce il consigliere Antonioni durante l’orazione funebre in memoria di
Casali. Gli interventi per la commemorazione di Casali sono consultabili sul sito URL:
<http://www.comune.bologna.it/storiaamministrativa/media/files/
antonioni_casali_1luglio1977_1.pdf> [consultato il 14 giugno 2014].
31. Orazione del Consigliere Antonioni in occasione della morte di Leonida Casali nel 1977.
32. Ibidem.
33. URL:
<http://www.camera.it/_dati/leg03/lavori/Seduta_comune/sed008/sed008.pdf> [consultato il 14
giugno 2014].
RIASSUNTI
Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale
bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato
di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari,
quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca
politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia
operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di
delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana
dell’immediato dopoguerra.
This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali,
one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the
Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases,
as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating
the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and
the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist
Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a
unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.
INDICE
Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza
Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence
AUTORI
GIANLUIGI BRIGUGLIO
Ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Messina con una tesi
intitolata Cesare Mori e la campagna antimafia del fascismo. Attualmente è iscritto al corso di laurea
magistrale in Scienze Storiche dell’Università di Bologna.
NICOLA CAROLI
Ha conseguito la laurea triennale in Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di
Bari con una tesi dal titolo La discussione parlamentare sull’adesione italiana al Sistema Monetario
Europeo nel 1978. Frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di
Bologna e il secondo anno del corso di laurea presso l’Universität Bielefeld.
GRETA FEDELE
Studentessa del corso integrato franco-italiano Histoire et civilisations comparées. Precedentemente
ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Milano discutendo
una tesi dal titolo Storia e globalizzazione nella recente produzione storiografica.
1. Il contesto storico
della fazione partigiana della Dc, che venne poi, tra l’altro, confermata anche nel
successivo processo di Lucca. La versione dei partigiani comunisti fu tratta dalle
dichiarazioni dei testimoni raccolte dal Casali sin dal Luglio del 1949. Nella
ricostruzione comunista, il giovane seminarista venne inviato in montagna dal
Reggente del Fascio Repubblicano di Castellarano (Reggio Emilia) allo scopo di
raccogliere informazioni sui partigiani operanti in quelle zone. Stando alle
testimonianze rilasciate, fu Ildebrando Bertoni, comandante della formazione
partigiana “Caino”, il primo a imbattersi in Rolando Rivi. Questi diede false
informazioni al comandante partigiano, facendolo cadere, assieme alla sua formazione,
in un’imboscata tedesca nel paesino di Roteglia. A seguito di quest’agguato persero la
vita 6 partigiani e altri 3 rimasero gravemente feriti3. Il 10 aprile 1945 il Rivi scomparve
da casa; l’11 aprile arrivò presso una formazione garibaldina (distaccamento “Martelli”)
e qui chiese la strada per raggiungere la Brigata “Italia” (democristiana). Secondo
quanto raccontato, sottrasse, non visto, la rivoltella del partigiano Arturo Ruggi (una
Beretta calibro 9 corto) e vagabondò da distaccamento a distaccamento chiedendo
continuamente la strada per raggiungere la Brigata Italia – benché la strada gli fosse già
stata indicata in precedenza4.
6 La sera dell’11 aprile raggiunse finalmente la Brigata Italia: all’alba del 12 aprile fuggì
portando con sé una machine-pistole, ritornando, successivamente, nella zona
controllata dalle formazioni garibaldine5.
7 Poiché camminava tenendosi quanto più possibile nascosto e in atteggiamento
sospetto, venne avvistato da due contadini del posto (Leuterio Tinconi e Dante Ruffaldi)
generando in costoro il dubbio che non si trattasse di un partigiano, bensì di una spia. I
due contadini avvertirono i partigiani, i quali perlustrando la zona, scoprirono il Rivi in
un boschetto, con la machine-pistole a tracolla e la rivoltella in mano. Allorché gli
venne intimato di fermarsi, il Rivi, per non lasciarsi catturare, sparò un colpo contro il
partigiano Virgilio Franchini, non riuscendo nell’intento di colpirlo poiché la pistola si
inceppò. Arrestato e disarmato, il Rivi venne sottoposto a interrogatorio 6.
8 Durante l’interrogatorio (effettuato dal Commissario Giuseppe Corghi, in presenza di
tutti i partigiani e le staffette della formazione) il Rivi si comportò con freddezza
indescrivibile, affermando cinicamente che se fosse stato liberato avrebbe riferito tutto
ciò che aveva visto al Reggente di Castellarano. Alla staffetta Cristina Bassi che gli
chiese come si sarebbe comportato se – una volta liberato – egli l’avesse vista in paese
mentre svolgeva la sua opera di staffetta, il Rivi rispose candidamente che l’avrebbe
denunciata e fatta arrestare7.
9 Saputo dell’arresto del Rivi, alcuni partigiani appartenenti a diverse formazioni della
zona notificarono che il seminarista il giorno prima aveva chiesto anche a loro la strada
per Gusciola, luogo in cui era stanziata la Brigata Italia. Secondo le fonti partigiane lo
stesso Rivi confermò che si trattava solo di una scusa per poter osservare minutamente
la dislocazione dei reparti8.
10 Dopo queste confessioni e risultanze, il Rivi (munito di una carta d’identità alterata e
indossante sotto la camicia una maglietta bianca con sopra un fascio littorio e una M
nera) fu condannato a morte dalla formazione partigiana riunita in Tribunale
straordinario e giustiziato come delatore confesso. Numerose testimonianze
comprovarono che egli non fu affatto torturato e seviziato, prima dell’esecuzione e che
la sua salma non fu mai sottoposta a atti di spregio da parte di chicchessia 9.
altri partigiani che tra i boschi «vi era della gente armata». Trovato il ragazzo, armato
(o almeno così racconta il Teste), gli fu intimato di fermarsi, ma il giovane rispose
sparando un colpo con una rivoltella, che si inceppò20.
24 Disarmato fu tratto in arresto e poi interrogato dallo stesso Franchini. In questo
interrogatorio emerse il dettaglio delle 500 lire in possesso del giovane: secondo il
Franchini il seminarista le aveva ricevute direttamente dal Commissario prefettizio
«per spiare i movimenti partigiani», al contrario Don Camellini dichiarò che il ragazzo
«le aveva avute dal Parroco di San Valentino in ricompensa dei servizi prestati in
chiesa». Quest’ultima tesi venne avvalorata dal geom. Afro Benevelli, all’epoca
Commissario prefettizio al Comune di Castellerano, ovvero la persona che avrebbe
dovuto dare le 500 lire a Ronaldo Rivi e che invece negò puntualmente di aver mai
conosciuto la vittima21.
25 A confermare la presenza delle percosse subite da Rolando Rivi, e negate puntualmente
dai partigiani, vi fu la testimonianza della settantenne Domenica Ferrari, padrona della
casa in cui il Rivi fu condotto e interrogato. La Teste ammise di «avergli parlato più
volte, di avere udito dei colpi quando egli veniva percosso» 22.
26 Secondo l’avvocato di parte civile le varie deposizioni dei testimoni partigiani furono
«di poca considerazione, in discordanza fra loro», se il giovane seminarista «dichiarò
cose gravissime contro se stesso, compiendo affermazioni false, lo fece perché percosso
e minacciato: una confessione estorta con la forza ed i cui punti salienti sono
inverosimili cominciando dalla storia delle armi che egli avrebbe rubate ai partigiani» 23.
Secondo Il P.G. si «giunse al parossismo della mistificazione per voler dimostrare che il
ragazzo era una spia», e quindi era legittimo chiedere «la condanna dei due per il reato
di omicidio a anni 24 ciascuno di reclusione ed anni 3 per il reato di sequestro di
persona»24.
27 Infine il Presidente dott. Renis lesse la sentenza con la quale
si dichiaravano il Corghi e il Rioli colpevoli del reato di sequestro di persona e di
omicidio – esclusa l’aggravante della premeditazione – determinato da movente
politico, per cui si condanna alla pena della reclusione per anni 23 ciascuno, al
pagamento in solido delle spese processuali, a quelle del mantenimento in carcere,
al pagamento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede e alle spese di
costituzione in lire 88 mila. Ma in applicazione delle leggi di condono del 1946, ’48,
’49, la stessa sentenza dichiarava condonati ambedue a anni 16 e mesi quattro della
pena loro inflitta25.
28 La sentenza di primo grado venne confermata tanto in Appello quanto in Cassazione,
determinando «tre colpevoli condannati dopo tre gradi di giudizio a 22 e 16 anni, anche
se ne scontarono solo 6 grazie all’amnistia di Togliatti» 26. Nel gennaio 2006 venne
avviata la pratica per la canonizzazione di Rolando Rivi, riconosciuto martire il 28
marzo 2013 da Papa Francesco e successivamente beatificato il 5 ottobre 2013. Una
ricostruzione degli ultimi momenti in vita di Rolando Rivi venne fatta dai testimoni che
presenziarono al processo di canonizzazione del 2006.
29 La forte dedizione religiosa del giovane Rivi simboleggiata dalla famosa frase: «studio
da prete e la tonaca è il segno che io sono di Gesù» costò la vita al ragazzo. I genitori,
fortemente preoccupati dalla forte componente antireligiosa presente nella zona
modenese, lo avevano ammonito: «Rolando, non portarla ora. È più sicuro se vai in giro
per il paese con gli abiti civili», ma il ragazzo non ascoltandoli finì nelle mani di
assassini che si erano annidati nelle formazioni partigiani, e che, sempre secondo
questi testimoni, sentirono dire al commissario politico della formazione partigiana
fila partigiane, salvo essere rifiutato e sparire il mattino seguente portando con se una
machine-pistole.
36 L’intervento di Leonida Casali al processo di Lucca nell’udienza antimeridiana del 12
gennaio 1951 riassume quanto detto. L’avvocato bolognese parlò per oltre due ore
cercando «di dimostrare la inesistenza di qualunque movente, che non fosse quello
derivante da ragioni belliche e che costrinsero il Corghi a sopprimere il giovane
seminarista, ritenuto una spia»33. Inizialmente non fece mancare struggenti parole per
la vittima, poi
compiva una acutissima disamina delle risultanze processuali, prima per scagionare
completamente il Rioli da ogni responsabilità affermando la mancata
partecipazione a ognuno di quegli episodi che poi portarono all’uccisione del Rivi;
poi, per analizzare e dimostrare le condizioni in cui venne a trovarsi il Corghi,
convinto come lo erano tutti gli altri di trovarsi di fronte a una spia, sia pure in
giovane età ma con le armi in mano. Sulla scorta dei testi affermava l’esistenza di
queste armi e come di esse il Rivi ne fece uso contro i partigiani 34.
37 Infine Casali «chiedeva alla Corte una sentenza di illuminata giustizia, che riporti
questo tragico e disgraziato episodio nel giusto quadro della guerra partigiana che
contò a migliaia i suoi morti valorosi e generosi»35. Le stesse argomentazioni vennero
riprese dall’avvocato Mario Frezza, sostenendo in pieno le tesi di Casali circa l’assoluta
estraneità dei fatti per il Rioli, aggiungeva che il Corghi si vide costretto a uccidere il
Rivi, per la certezza, di tutti i partigiani, «di trovarsi di fronte a una spia, a un traditore
che aveva tentato di sopprimere uno di loro». Il Corghi non poteva essere punito in
quanto il delitto rientrava tra le azioni di guerra, come più volte sottolineato dal Casali,
«illustrava le disposizioni di legge e le loro ragioni per cui sé voluto, riconoscendo e
facendo propri gli ideali che animarono la lotta partigiana, chiudere quelle pagine che
in qualche caso solo la inesperienza bellica ha potuto aprire» 36.
38 La linea difensiva dei due avvocati non portò a una conclusione positiva del processo,
tanto che la sentenza di primo grado verrà poi confermata anche negli altri gradi di
giudizio. Emerge l’innegabile ruolo centrale che assunse la figura di Leonida Casali nella
vicenda fin qui esposta. Sia gli imputati, sia il collega Mario Frezza, chiesero
continuamente consiglio all’avvocato bolognese, come sembrerebbe dimostrare la
vicenda legata a un altro testimone scovato dal Rioli, tale Eugenio Pancani, che avrebbe
assistito alla cattura dello stesso Rioli «confermando con tale sua deposizione quelle di
Tincani e Ruffaldi sull’aggirarsi del Rivi armato nelle retrovie partigiane» 37. Tale
Pancani era imputato in un altro processo del Casali, a Macerata, e quindi sarebbe
potuto essere avvicinato facilmente dallo stesso avvocato bolognese. In merito a questo
nuovo testimone fu lo stesso avvocato bolognese a muovere due obiezioni: 1) «Non
sappiamo con esattezza che cosa dichiarerà Pancani e non vorrei che poi le sue
dichiarazioni contenessero inesattezze o contrasti con le dichiarazioni di altri
testimoni»; 2) «Non vedo proprio come possa la dichiarazione di Pancani in circostanze
non nuove e sulle quali già vi sono in atti altre disposizioni» 38. Pancani, a quanto ci
risulta, non verrà mai preso in considerazione come testimone.
39 Costante della casistica riguardante i “preti morti” era il forte odio antireligioso che
animava certe frange della resistenza comunista (e questo caso sembra esserne un
fulgido esempio), tanto che lo stesso Corghi scrive a Casali per cercare di fugare ogni
dubbio circa la sua posizione a questo merito. Scrive il Corghi: «ti dissi che non mi
sarebbe stato difficile avere dei parroci che mi hanno conosciuto, prima, durante e
dopo la guerra, così che ho già ricevuto le tre lettere escluso l’ultima dimostranti il mio
NOTE
1. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 61.
2. Una breve biografia di Rolando Rivi è presente nel sito, a lui dedicato, http://
www.rolandorivi.eu/ e nel volume RISSO, Paolo, Rolando Rivi, un ragazzo per Gesù, Padova, Edizioni
del Noce, 2004.
3. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 61.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. «Dal Triangolo della morte. Partigiani di Reggio Emilia imputati dell’uccisione di un
seminarista», in Il Tirreno, 9 gennaio 1951, p. 4.
15. Ibidem.
16. «L’uccisione di un quattordicenne rievocata in Assise», in Il Tirreno, 10 gennaio 1951, p. 4.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. «Il dibattito in assise per l’uccisione di un seminarista. Drammatico e serrato confronto tra il
parroco e il comandante partigiano», in Il Tirreno, 11 gennaio 1951, p. 4.
20. Ibidem.
21. Ibidem.
22. Ibidem.
23. «Il P.G richiede 27 anni per i responsabili dell’uccisione del seminarista. Un’arringa di due ore
dell’avvocato di Parte Civile», in Il Tirreno, 12 gennaio 1951, p. 4.
24. Ibidem.
25. «23 anni ai due responsabili dell’uccisione del seminarista i condannati godranno del
condono di 16 anni e 4 mesi», in Il Tirreno, 13 gennaio 1951, p. 4.
26. TURRINI, Davide, «Mostra sul beato Rivi, ucciso dai partigiani. Scuola nega visita: “Infanga
Resistenza”», in Il fatto quotidiano, URL:
<http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/26/una-mostra-per-il-beato-rivi-ucciso-dai-
partigiani-la-scuola-nega-la-visita-infanga-la-resistenza/791020/> [consultato il 3 giugno 2014].
27. «Il Papa ricorda Rivi Beato», URL:
<http://gazzettadimodena.gelocal.it/cronaca/2013/10/07/news/il-papa-ricorda-rivi-beato-
esempio-per-i-giovani-1.7882856> [consultato il 3 giugno 2014].
28. Ibidem.
29. BERETTA, Roberto, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Milano, Piemme, 2005.
30. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f.61.
31. URL:
<http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.presidenziale:1946-06-22;4>
[consultato il 23 agosto 2014].
32. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f.61.
33. «23 anni ai due responsabili dell’uccisione del seminarista i condannati godranno del
condono di 16 anni e 4 mesi», in Il Tirreno, 13 gennaio 1951, p. 4.
34. Ibidem.
35. Ibidem.
36. Ibidem.
37. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f. 61.
38. Ibidem.
39. Ibidem.
40. Questo testo, che raccoglie le memorie dell’avvocato Odoardo Ascari, è contenuto nel sito
URL: <http://ricordare.wordpress.com/perche-ricordare/022-ricordi-di-un-avvocato-segue/>
[consultato il 3 giugno 2014].
RIASSUNTI
Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale
bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato
di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari,
quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca
politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia
operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di
delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana
dell’immediato dopoguerra.
This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali,
one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the
Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases,
as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating
the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and
the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist
Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a
unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.
INDICE
Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence
Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza
AUTORE
GIANLUIGI BRIGUGLIO
Ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Messina con una tesi
intitolata Cesare Mori e la campagna antimafia del fascismo. Attualmente è iscritto al corso di laurea
magistrale in Scienze Storiche dell’Università di Bologna.
L’attentato di Ceretolo
Nicola Caroli
in scontri con le forze dell’ordine, causano decine di morti e feriti e migliaia di arresti.
Tra gli arrestati c’è lo stesso Angelo Piazzi benché rilasciato dopo pochi giorni. Dal 1948
diventa segretario della Camera del Lavoro e, dopo la fine del processo, sindaco di
Casalecchio di Reno dal 1956 al 1962. Oltre a Angelo Piazzi tra gli accusati con ruoli
politici ricordiamo Albertino Masetti e Andrea Bentini dirigenti del Pci locale e una
serie di ex combattenti e partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale: Ubaldo Gardi,
Angelo Piazzi, Giorgio Finelli, Celestino Cassoli e Novello Landi.
4 L’attentato, che qui viene ricostruito dalla sentenza dei giudici della Corte di Appello di
Brescia, permette di evidenziare il livello di tensione e di conflittualità presente
nell’Emilia subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Le carte della sentenza
mettono in luce come la paura dei rossi fosse un sentimento presente anche tra la
semplice popolazione del luogo oltre che nelle stanze del potere romane. Difatti fin da
subito le attenzioni e i sospetti sono rivolti verso i comunisti di Ceretolo; la madre
dell’ucciso individua nelle «bandiere rosse»3 i responsabili dell’omicidio mentre la
sezione di Casalecchio di Reno della Camera Confederale del Lavoro pubblica un
manifesto in cui riconosce la responsabilità dell’attentato nella «mano fascista» 4,
nonostante l’Arma dei Carabinieri «metteva in risalto la carenza di qualsiasi elemento
per attribuire il gesto dinamitardo a movente politico poiché nessuna lagnanza poteva
muoversi su quel terreno al parroco il quale durante il suo soggiorno a Ceretolo non si
era occupato di politica ed era in paese benvoluto da tutti»5. Risulta a questo riguardo
di grande interesse la lettura dei rapporti dei CC. di Bologna in cui si descrivono le varie
personalità accusate dell’atto delittuoso; queste attivisti o simpatizzanti del PCI
vengono chiamati «fanatici propagandisti», «elementi pericolosi per l’attuale
ordinamento democratico»; «elementi capaci di azioni delittuose. Eseguono senza
discussione e senza scrupoli gli ordini del loro partito» 6. Da ciò emerge un clima
sicuramente surriscaldato e di reciproca incomprensione e ignoranza. Infatti la vicenda
si colora ben presto di fosche tinte di lotta politica in un’Italia ancora segnata dagli odi
generati dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla difficile transizione verso una normale
vita democratica e repubblicana. Nell’Emilia dell’epoca dominava la paura dei
comunisti che durante i comizi si scagliavano contro i preti, i carabinieri e la polizia; le
voci si rincorrevano ma erano concordi nel ricercare i colpevoli tra le bandiere rosse 7.
La paura dei rossi cresce nell’Emilia degli anni Quaranta, da quando l’unità antifascista
si è ormai definitivamente sfaldata dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale. In
Italia segue un periodo in cui si susseguono una serie di governi centristi con le sinistre
escluse da compiti di governo a causa delle pressioni degli USA che non avrebbero
accettato un forte partito comunista al governo in Italia e la spaccatura del PSI dopo la
fuoriuscita di Saragat evidenzia come l’attrazione dell’Occidente fosse molto forte
anche nella sinistra italiana.
5 La violenza la fa da padrona nell’Italia centrale e settentrionale, ed è tendenza della
storiografia affermare che era una violenza perpetrata dagli stessi comunisti o
simpatizzanti di sinistra che si scontravano con coloro che venivano identificati come
fascisti. Il “triangolo della morte”, come giornalisticamente è stata chiamata una zona
della provincia di Bologna in cui si registrarono un gran numero di omicidi politici, è
l’esempio più famoso di quella sorta di guerra civile che insanguinò l’Italia a partire
dall’armistizio dell’8 settembre 1943 fino al 1949, ed è in questo contesto che si
svolgeranno le indagini e una parte del processo.
6 Sarà solamente tra l’aprile e il maggio del 1948, in concomitanza con le elezioni
politiche, che cominceranno a uscire i primi nomi di uomini molto vicini agli ambienti
comunisti di Ceretolo accusati dell’attentato, tra questi Giuseppe Finelli e Giovanni
Seidenari; quest’ultimo viene indicato da Don Ghelfi nel maggio 1948 come l’autore di
alcune lettere minatorie recapitate durante il maggio del 1946 al Cardinale di Bologna
per farlo desistere dal trasferire a Ceretolo il nuovo parroco, definito in queste missive
«reazionario e fascista»8. Da alcune anomalie riscontrate nelle lettere si era riusciti a
identificare la macchina da scrivere sovente utilizzata dalla sezione del Partito
Comunista di Casalecchio e il segretario Angelo Piazzi, ora coinvolto, cerca di chiarire la
posizione del partito e la sua estraneità ai fatti.
7 Le indagini delle forze dell’ordine e l’intero processo sono considerati da parte del
Partito Comunista un attacco politico e a questo proposito la sentenza ricostruisce il
tentativo del Pci locale di avviare un’inchiesta per scovare i veri responsabili
dell’attentato. Difatti Albertino Masetti, segretario della Federazione Comunista di
Bologna, informa il prefetto Gen.D’Antoni che indagini interne del partito riconoscono
nell’ex-repubblichino Aldo Osti, spalleggiato da una donna di nome Bice, come gli
autori del delitto9. Seconda la sentenza il tentativo del Pci era di far ricadere la colpa
dell’accaduto sui democristiani i quali in questo modo cercavano di colpire i comunisti
della zona, ben sapendo che ben presto i primi sospetti sarebbero ricaduti proprio su di
loro a causa di quella “paura rossa” di cui abbiamo fatto cenno. Molto bene si prestava
la figura di Aldo Osti poiché un suo parente era segretario della Dc ed era descritto in
paese come un violento10. Il Maresciallo Gorgone e il Maresciallo Mingarelli, dopo una
serie di indagini sul conto di Aldo Osti, mettono in luce la pochezza delle accuse e,
attraverso il Sindaco Dozza, viene informato Masetti dei risultati degli accertamenti 11. A
causa di questi sviluppi Masetti e Bentini vengono denunciati da Aldo Osti con l’accusa
di calunnia il 13 aprile 194912.
8 Nel corso del 1949 i Carabinieri riprendono la pista di Antonio Seidenari e dei suoi
compagni che erano entrati in contatto con Don Ghelfi e il 6 febbraio 1949 il Giudice
Istruttore del Tribunale Penale di Bologna emette il mandato di cattura nei confronti di
Angelo Piazzi, Antonio Seidenari, Giuseppe Bolognini e altri cinque uomini accusati di
avere agito in concorso al fine di uccidere Don Guerrino e per detenzione di materiale
esplosivo13 Giuseppe Bolognini durante il terzo interrogatorio ammette che, durante
una riunione della cellula dieci giorni prima dell’esplosione dell’ordigno, si era parlato
di possibili attentati contro chiese e sacerdoti che troppo si interessavano di politica e
rubavano voti ai partiti di sinistra14 e Angelo Piazzi viene indicato come l’ideatore
dell’attentato per mandare un segnale a Don Ghelfi che dal pulpito lanciava messaggi
politici sgraditi. Il Congresso della Gioventù Cattolica del 21 settembre, con ciò si spiega
la presenza dei due ragazzi che con Don Ghelfi preparavano dei cartelloni per la
manifestazione, era una buona occasione per raggiungere questo scopo.
9 Nei mesi successivi si svolgono gli interrogatori degli accusati che in un primo
momento ammettono la loro colpevolezza per poi prontamente revocare le confessioni
perché estorte dalla Polizia giudiziaria del luogo con la violenza 15. Mentre gli ufficiali di
Polizia e il Capitano Bianco respingevano ogni accusa 16, Seidenari17, Finelli e Collina
decidono di ritrattare le deposizioni rese in precedenza. Emblematico è il caso di
Giorgio Finelli: viene interrogato in caserma il primo febbraio in cui fa limitate
ammissioni, successivamente decide di ritrattare davanti al Giudice Istruttore poiché
«non aveva potuto resistere alla fame, alla sete, al freddo, al sonno, alle botte», dopo
1. La difesa di Casali
11 Il processo viene recepito come un attacco politico e per questa ragione si mette
immediatamente in moto la macchina organizzativa del Comitato di Solidarietà
Democratica che investe l’avvocato Leonida Casali di Bologna del compito di difendere i
comunisti accusati dell’attentato. Difatti appena pochi giorni dopo l’attentato lo zio di
Giuseppe Bolognini, Aldo, affida la difesa del nipote a Casali 22. Che il processo sia ormai
diventato un processo politico è chiaro fin dalle prime battute e Casali lo afferma a
chiare lettere in una breve memoria del 31 Marzo 1950 scritta pochi giorni dopo l’uscita
della requisitoria del Pubblico Ministero. Afferma l’Avvocato del Pci: «Questo processo
è purtroppo il risultato di una artificiosa macchinazione avente come obiettivo
essenziale lo scopo di colpire i comunisti più in vista della zona di Casalecchio e di
Ceretolo e con essi il Partito Comunista, onde potere fomentare quella campagna
anticomunista che il partito al potere sta conducendo con sempre più ampi sviluppi dal
1948»23. Un governo centrale che suole sfruttare gli organi di polizia, «fedeli discepoli di
Scelba»24 per colpire gli otto di Ceretolo e quindi di riflesso anche il Partito Comunista
Italiano.
12 Secondo Leonida Casali il potere giudiziario, fin quando è legato a doppio filo con
l’esecutivo e con un governo di parte, non potrà che incolpare, quando le condizioni lo
permettono, dei comunisti innocenti per favorire gli interessi del partito al potere. Nel
caso specifico l’avvocato Casali mostra come le confessioni fossero state estorte con la
violenza e sia stato sfruttato un «demente» come Giuseppe Bolognini per avvalorare le
tesi dell’accusa.
13 Giuseppe Bolognini sembra quindi essere l’elemento di disturbo di tutto l’impianto
difensivo e perciò si cerca di spezzare i possibili collegamenti tra lui e l’ambiente
comunista definendolo semplicemente un «non comunista» e quindi non conosciuto dal
partito e dall’ambiente.
Noi che conosciamo gli imputati del reato più grave (a esclusione del Bolognini che
non è mai stato comunista) e che sappiamo come essi fossero elementi attivi e
strettamente aderenti alla linea ideologica del Pci, siamo certi che essi mai
avrebbero potuto nemmeno pensare a porre in esecuzione un atto terroristico come
quello di cui si tratta25.
14 L’essere comunista equivale a essere innocente dal punto di vista penale perché il tutto
è stato ordito dal potere centrale nemico della causa comunista; prima che processuale
la difesa è organizzata politicamente in quanto bisogna rispondere a un processo che,
per i comunisti, è politico.
15 In questo senso risulta importante quello che succede tra l’aprile e il giugno 1950; in
questi mesi Ubaldo Gardi, Angelo Piazzi, Giorgio Finelli, Celestino Cassoli e Novello
Landi vengono riconosciuti «Partigiani Combattenti» dalla Commissione regionale per
il riconoscimento delle qualifiche di partigiani26. Su queste qualifiche, ed in particolar
modo sulla carta stampata, si poteva costruire un impianto retorico 27 tale che la
possibile condanna non riguardava dei semplici cittadini ma dei partigiani che avevano
lottato sul campo per la costruzione di un’Italia antifascista 28.
16 La stampa quotidiana legata agli ambienti comunisti seguì con grande partecipazione lo
sviluppo del processo, giornalmente scrivevano pezzi aggiornando l’opinione pubblica
dell’andamento delle udienze ed infine accogliendo con grande sollievo la notizia
dell’assoluzione degli imputati. L’avvocato Casali, in un articolo apparso su «La Lotta»
definisce il processo una delle più grandi macchinazioni mai organizzate contro il Pci e
come un «prodotto di quella pratica di anticomunismo idiota e criminale con il quale si
cerca di dividere il popolo italiano»29.
17 L’attività della difesa comincia immediatamente dopo l’arresto degli imputati.
L’avvocato Casali, difensore di fiducia, in data 27 gennaio 1949 richiede in via
immediata la scarcerazione o in via subordinata la liberà provvisoria di Giuseppe
Bolognini. Giovanni Seidenari, Giorgio Finelli e Baleotti Stefano. L’istanza viene
rigettata dal Giudice Istruttore il 15 febbraio 1949.
18 Dai resoconti del dibattimento che comincia il 14 maggio 1951 si legge la divisione da
parte degli avvocati della difesa degli imputati nel processo di appello di Brescia. 30
L’avvocato Casali difende Angelo Piazzi, Celestino Cassoli, Albertino Masetti e Andrea
Bentini, l’avvocato Quaglia difende Novello Landi e Ubaldo Gardi; l’avvocato Alberini
difende Giuseppe Bolognini, Giuseppe Collina e Alfredo Busi. E’ possibile ravvisare una
preferenza accordata all’avvocato Casali per gli imputati con ruoli politici importanti
nel bolognese; ricordiamo che Angelo Piazzi è il presidente della Camera del Lavoro di
Casalecchio di Reno, Masetti e Bentini dirigenti del Pci locale e Celestino Cassoli ex
combattente e partigiano durante la Seconda guerra mondiale.
19 Alcune lettere spedite a Casali da Giuseppe Ferrandi e dall’avvocato Quaglia forniscono
informazioni importanti sul funzionamento del Comitato e sull’organizzazione del
gruppo degli avvocati.
20 Chi sia a decidere gli avvocati per le varie cause è evidente in una corrispondenza tra
l’On. Giuseppe Ferrandi e Casali in cui il primo afferma: «Ho scritto al Generale Zani e
scrivo a te perché provvediate a tempo a assicurare un difensore in mia vece» 31. Il
Generale Francesco Zani è il presidente del Comitato di Solidarietà Democratica}.
Leonida Casali ha quindi un ruolo attivo nello smistamento degli avvocati e la
corrispondenza con l’avvocato socialista Ferrandi dimostra, come già affermato
NOTE
2. Gli accusati sono: Piazzi Angelo, Seidenari Antonio, Bolognini Giuseppe, Finelli Giorgio, Collina
Giuseppe, Landi Novello, Cassoli Celestino, Gardi Ubaldo, Busi Alfredo, Bolognini Aldo, Masetti
Albertino, Bentini Andrea, Falzoni Antonio. I primi nove accusati della preparazione e attuazione
dell’attentato e i restanti di reati connessi e collaterali all’atto delittuoso.“Sentenza della Corte di
Assise di Brescia”, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1.
3. Mafalda Sartori afferma: «Ripetei allora la frase della sera precedente, perché il mio sangue
così mi suggeriva e pensavo che all’infuori di quelli nessuno poteva essere stato» in Corte di
Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo dibattimento,
Sesta Udienza; ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.95, f.5, p.4. Da queste poche parole della madre
del bambino ucciso si evince il grado di paura che porta, in seguito a un attentato di tal genere, a
far ricadere i primi sospetti sui comunisti della zona.
4. Tribunale di Bologna Volume V, Fascicolo e Documenti, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94,
f. 5, p. 6.
5. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, p. 4.
6. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, pp. 23-26.
7. Il maresciallo Carmelo Giorgione, nella sua deposizione durante il dibattimento, ricorda come
le indagini fossero frenate dalla paura che regnava nella zona e tra la popolazione locale. ISPER,
Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, Decima Udienza p. 26.
8. ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 5.
9. Benché nella sentenza si parli di una vera e propria indagine interna, nel memoriale di Casali si
afferma che, dopo l’arrivo di alcune lettere anonime presso la sede del Pci in cui si indicava Aldo
Osti responsabile dell’attentato, sia Masetti che Bentini non potevano sapere se costui fosse o
meno colpevole ma avevano ottemperato ai loro obblighi informando il Prefetto delle lettere. Ben
diversa risulta l’analisi del Capitano Bianco che afferma: «Alla strategia delle risultanze si può
senz’altro affermare che con la presentazione dello appunto [...] gli esponenti comunisti locali
altro scopo non si siano prefissi di raggiungere all’infuori di quello tendente a fuorviare le
indagini addossando deliberatamente a altri quelle responsabilità che col volgere del tempo è
invece emersa chiara nei riguardi di loro seguaci». ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, pp.
13-14.
10. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, p. 70.
11. Ibidem, pp. 10-11.
12. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, p. 4.
13. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 3.
14. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, pp.
15-16.
15. Ibidem, p.35.
16. Ibidem, p.70.
17. In una relazione sulla modalità del suo arresto racconta dei giorni di abusi e violenze subite
dalla polizia e dal Cap. Bianco. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 7.
18. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.95, f.1, p.105.
19. Ibidem,p. 105.
20. Ibidem,p. 97.
21. Ibidem,p. 130.
22. Lettera redatta a macchina da Bolognini Aldo indirizzata a Leonida Casali. ISPER, Fondo Casali,
Sez.2, Sett.2, b.95, f.7.
23. «Avanti la sezione istruttoria presso la corte di Appello di Bologna, breve memoria» ISPER,
Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 4, pp. 1-2.
24. «Il verdetto della Corte d’Assise di Brescia ha bollato gli autori dell’infame congiura», in La
Lotta, 22 giugno 1951.
25. Avanti la sezione istruttoria presso la corte di Appello di Bologna, breve memoria. ISPER,
Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 4, p. 5.
26. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione regionale riconoscimento qualifiche
partigiani Emilia e Romagna. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 6.
27. A questo proposito è sufficiente sfogliare quotidiani come «l’Unità» per notare questo intento
retorico negli articoli che si interessavano dei processi contro uomini del PCI.
28. Angelo Piazzi, Celestino Cassoli e Novello Landi fecero parte della 63esima Brigata Bolero
della quale Brigata Casali era Maggiore.
29. ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8.
30. Corte di Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo
dibattimento. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, p. 3.
31. Lettera di Giuseppe Ferrandi a Leonida Casali del 20 aprile 1951 in cui informa che, a causa di
impegni di campagna elettorale, non potrà rivestire il ruolo di avvocato difensore nel processo di
Ceretolo. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 9.
32. Corte di Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo
dibattimento. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, pp. 6-50.
33. Lettera dell’Avvocato Quaglia a Leonida Casali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 9.
RIASSUNTI
Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale
bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato
di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari,
quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca
politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia
operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di
delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana
dell’immediato dopoguerra.
This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali,
one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the
Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases,
as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating
the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and
the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist
Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a
unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.
INDICE
Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence
Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza
AUTORE
NICOLA CAROLI
Ha conseguito la laurea triennale in Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di
Bari con una tesi dal titolo La discussione parlamentare sull’adesione italiana al Sistema Monetario
Europeo nel 1978. Frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di
Bologna e il secondo anno del corso di laurea presso l’Universität Bielefeld.
Il delitto di Roncosaglia
Simeone Del Prete
soqquadro generale, anche se sul corpo della Zanarini non erano ravvisabili segni di
lotta1.
4 Durante l’interrogatorio a Pia Pini, che intanto era stata trattenuta presso il comando
di Roncoscaglia per ulteriori accertamenti, emerse il fatto che i tre fratelli della giovane
erano rientrati in casa molto tardi la sera del delitto, approssimativamente intorno alle
due del mattino e che quindi sicuramente non si trovavano in casa all’orario
dell’omicidio, ipotizzato dagli inquirenti intorno alle nove, come in principio aveva
asserito Pia. Poiché la voce pubblica, che descriveva i tre fratelli come esaltati ex
combattenti, accusava del delitto i fratelli della Pini e poiché questa, interrogata circa il
modo in cui i propri fratelli avessero trascorso la notte del 24 gennaio e circa l’ora del
loro rientro in casa, aveva fornito dati incongruenti e contraddittori, i carabinieri
ritennero di procedere alla perquisizione dell’abitazione della famiglia Pini. Durante la
stessa vennero così sequestrati un paio di pantaloni di tela sui quali vennero notate
delle macchie aventi caratteristiche simili a quelle di sangue, indumento che i
componenti della famiglia Pini concordemente dichiararono appartenere al loro
congiunto Alberto2.
5 Dato che i sospetti già gravanti su costui e sui suoi fratelli Remigio e Mauro venivano
rafforzati dal sequestro del suddetto indumento, i carabinieri procedettero al fermo dei
tre indiziati, onde svolgere più accurate indagini dirette ad accertare la fondatezza o
meno degli elementi di accusa a loro carico. Tutti e tre i fermati, interrogati si
professavano estranei al delitto, fornendo particolareggiate indicazioni sul modo in cui
avevano trascorso la sera del 24 gennaio, che trovavano conferma negli accertamenti
eseguiti dagli inquirenti3.
6 Intanto, l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Bologna, cui erano stati rimessi
per i dovuti accertamenti tecnici i pantaloni sequestrati in casa Pini, in una nota del 17
febbraio 1948 informava che le macchie esistenti sull’indumento sequestrato dovevano
«con tutta probabilità non essere riconducibili a sangue umano» 4. Venuto così a
mancare anche l’ultimo elemento di sospetto giustificante il fermo dei tre fratelli Pini,
con provvedimento in data 26 febbraio 1948 del Pretore di Pavullo, veniva ordinata la
loro scarcerazione. Così si concludeva la prima fase delle indagini di polizia.
7 Senonché i carabinieri della squadra giudiziaria del gruppo di Modena, in data 9 marzo
1949 nell’ambito di nuove indagini condotte nella zona di Montecreto e Sestola,
dichiararono5 di essere riusciti ad identificare i responsabili dell’omicidio Zanarini,
riferendo che essi, interrogati, avevano finito con il confessare la loro partecipazione
all’omicidio, fornendo ampi particolari in ordine all’organizzazione ed all’esecuzione
del delitto. In base a tale denuncia, il procuratore della Repubblica di Modena
procedette contro sei ex partigiani, tra i quali spiccavano i nomi di due dei fratelli Pini,
Mauro e Alberto. Oltre ai due fratelli Pini furono arrestati anche Gino Bonaccorsi, Silvio
Fiocchi, Mario Covili, Francesco Santini e Eraldo Querciagrossa, tutti ex combattenti in
formazioni partigiane legate al Partito Comunista Italiano. Solo l’ultimo di questi fu
difeso in giudizio dall’avvocato Casali, che però, come si vedrà in seguito, riuscì a
dimostrare la mendacità delle presunte ammissioni di colpa, riuscendo a scagionare
tutti gli imputati.
8 Stando al rapporto dei carabinieri6, infatti, tutti gli indagati si erano resi rei confessi
ammettendo di aver ordito e organizzato l’omicidio a scopo di rapina a danno della
signora Zanarini; in particolare secondo le deposizioni attribuite a Pini Mauro la banda,
scorgendo la possibilità di arricchirsi procurandosi illegalmente il denaro della
Nonostante ciò, la sentenza di primo grado, redatta dal procuratore Baratti, risultava di
segno opposto: secondo il procuratore infatti, le confessioni costituivano prove
sufficienti a carico di tutti i prevenuti per il loro rinvio al giudizio della Corte d’Assise.
15 Nella sentenza di primo grado, infatti, si adduceva la tesi secondo cui costoro avrebbero
cercato di togliere valore alle ampie e particolareggiate confessioni rese che
avevano trovato riscontro nelle obiettive risultanze dei fatti con il solito pretesto
che esse fossero state estorte con violenza, che nemmeno nella specie sarebbero
state limitate a semplici percosse ma si sarebbero concretate in vere e proprie
feroci torture, che si ritengono poco plausibili. Anche a voler trascurare la versione
negativa opposta dai pretesi seviziatori, l’asserzione degli imputati contrastava
anzitutto con la mancanza assoluta di dati obiettivi ricercati non appena l’assenza
delle sevizie fu mossa perché il medico delle carceri rilevò lievissime ecchimosi
delle quali persino gli stessi indagati si erano disinteressati 12.
Proprio dopo tale sentenza e in preparazione del passaggio in Corte d’Assise, è
verosimilmente presumibile che il Partito Comunista abbia incaricato l’avvocato Casali
di difendere uno dei sei imputati, Eraldo Querciagrossa, il quale risultava iscritto e
militante del partito.
16 La molto meticolosa difesa dell’avvocato bolognese fu incentrata sulle clamorose
incongruenze che emergevano tra le dichiarazioni estorte con la violenza e la
verosimiglianza delle stesse e su elementi che ne inficiavano pesantemente la
spontaneità. Alla evidente carenza di naturalezza, testimoniata da una mole di
particolari che difficilmente potevano essere stati confessati da un colpevole, infatti, si
aggiungeva anche un difetto di verosimiglianza di alcuni particolari dei fatti confessati;
innanzitutto le narrazioni che i prevenuti avrebbero fatto dell’organizzazione e
dell’esecuzione del delitto non risultavano verosimili soprattutto laddove si
evidenziava la necessità di correi per attuare il proposito criminoso in danno di una
persona anziana che viveva in una casa del tutto isolata. Non è irrilevante per
dimostrare l’inverosimiglianza della confessione in esame porre, come fece Leonida
Casali, in evidenza l’esagerata sproporzione dell’armamento in possesso dei
partecipanti al delitto in rapporto alla limitatissima capacità difensiva della vittima
designata13. Ma ciò che più inficia la verosimiglianza delle confessioni è la versione
circa la divisione del bottino della rapina tra i compartecipi del delitto, che risultava
fortemente sproporzionata, tanto che ad uno dei sei, secondo le confessioni, non
sarebbe stata assegnata alcuna parte del bottino14.
17 Proprio grazie allo scrupoloso lavoro di analisi delle confessioni e di confronto tra le
stesse e le prove giudiziali, Casali riuscì ad ottenere il proscioglimento per insufficienza
di prove di tutti i sei imputati e la loro immediata scarcerazione. La bontà e il successo
di tale lavoro sono ravvisabili anche e soprattutto nella sentenza della Corte d’Appello:
Vero è che di qualsiasi confessione, giudiziale o stragiudiziale, il giudice può trarre
in materia penale elementi per il suo libero convincimento; ma è altresì vero che in
ogni caso essa, per acquistare rilevanza probatoria, anche solo indiziaria oltre a non
essere invalidata da altri elementi di prova, deve rispondere a quei requisiti di
spontaneità, verosimiglianza, determinatezza, precisione ed esplicitezza che di
norma ne caratterizzano l’attendibilità, anche se poi ritrattata. A tali requisiti di
certo non rispondevano le confessioni in esame: in ordine a queste è anzi da
osservare che la loro attendibilità, se non del tutto annullata fu certamente di molto
affievolita dalle prove documentali che confermavano gli alibi dedotti dai prevenuti
in base ai quali, se non con assoluta certezza, almeno con plausibile probabilità e
verosimiglianza, è lecito ritenere che non ci siano prove che la sera del 24 gennaio
incarichi politici a livello locale, lo rende un fine conoscitore degli assetti statali e della
strategia politica.
28 La sua adesione al Pci, dunque, appare totale sia a livello ideologico, sia a livello
strategico; lo specchio di tale adesione, però, è una rilevanza e un’autorevolezza a lui
riconosciuta dalle alte sfere del Partito Comunista Italiano, cosa che colloca l’avvocato
Casali in un ruolo che, se non del tutto inedito, fu ben poche volte notato nella storia
delle avvocature militanti in Italia. Nella sua persona, dunque, la figura dell’avvocato
militante si mescola a quella dell’uomo di partito, mostrandoci la complessità del ruolo
di un uomo che ha inequivocabilmente segnato la storia del dopoguerra italiano.
NOTE
1. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Nota dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Bologna. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.
2, b.103, f. 25.
5. Rapporto della Squadra giudiziaria dei carabinieri di Modena. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2,
b. 103, f. 25.
6. Ibidem.
7. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Secondo le confessioni dei sei, infatti, gli stessi sarebbero stati dotati di circa una ventina di
armi contundenti, tra mazze, bastoni e martelli. Tale numero, probabilmente gonfiato dai
membri delle forze dell’ordine proprio per farlo apparire come una prova inconfutabile
dell’intenzionalità dell’omicidio, appariva del tutto improbabile, dal momento che ognuno degli
indagati avrebbe dovuto sorreggere tre corpi contundenti.
14. Le confessioni estorte con la violenza metterebbero in luce una divisione del bottino del tutto
inusuale, dal momento che, secondo le medesime, a Silvio Fiocchi non sarebbe spettato nulla del
bottino, disvelando in maniera evidente, se non l’innocenza dello stesso, almeno l’erroneità del
movente della rapina.
15. Ibidem.
16. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO,
Francesco, op. cit., pp. 84-85.
17. Nell’unica lettera pervenutaci dell’on. Ricci all’avvocato Casali risulta interessante notare
come il primo si fosse firmato come “Comandante Armando”, pseudonimo che lo stesso utilizzava
durante le azioni della divisione partigiana di cui era al comando e a cui peraltro aveva dato il
nome, la Divisione Modena-Armando, passata alla storia per la fondazione della prima Repubblica
Partigiana in Italia, la Repubblica di Montefiorino. L’ipotesi che i due avessero avuto contatti
durante l’esperienza resistenziale è avvalorato solo flebilmente dal fatto che i due operassero in
territori contigui; si ritiene un dato importante da rilevare il fatto che il primo specifichi il
proprio pseudonimo al secondo poiché anche egli ex partigiano.
18. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25.
19. Per un’analisi del diritto come strumento offensivo e difensivo si rimanda al lavoro svolto da
Liora Israel sul mondo del diritto e delle avvocature militanti soprattutto in Francia e
specialmente al volume Le armi del diritto (Milano, Giuffré, 2012) nel quale la studiosa ravvede nel
diritto sia un carattere offensivo, atto a far valere e a conquistare diritti, sia un carattere
difensivo, poiché imposto da una indagine o da una imputazione.
20. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.103, f.25.
21. L’on. Terracini si riferisce ai materiali relativi al caso inviatigli da Casali a seguito della lettera
pocanzi citata.
22. Ibidem.
23. Ibidem.
24. Proprio in occasione di tale processo riprenderà il carteggio tra Casali e Terracini. Tale
carteggio, principalmente incentrato sullo scambio di un fascicolo che Terracini curiosamente
non riusciva a trovare nel disordine del suo ufficio, sarà l’occasione per l’onorevole genovese di
invitare l’avvocato a presenziare, in qualità di consulente, come dirà lo stesso in una lettera del
29 aprile 1952, «a quel processo in quel tribunale».
RIASSUNTI
Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale
bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato
di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari,
quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca
politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia
operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di
delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana
dell’immediato dopoguerra.
This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali,
one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the
Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases,
as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating
the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and
the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist
Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a
unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.
INDICE
Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence
Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza
AUTORE
SIMEONE DEL PRETE
Ha conseguito la Laurea triennale in Storia presso l’Università di Bologna con una tesi di laurea in
storia economica sul conflitto nordirlandese, frutto di ricerche effettuate presso l’University
College Cork. Attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso il
medesimo ateneo.
1. Il contesto storico
5 I tre casi presi in esame nel presente lavoro vennero considerati dal Cds e dal Pci non
apertamente riconducibili a quello schema di «attacco alla resistenza» 2 entro cui
rientravano pienamente invece gli altri casi seguiti dal Comitato. A Casali vennero
perciò affidate queste cause con un duplice scopo apparentemente opposto, ma in
realtà convergente: da un lato esprimere la piena condanna da parte del Partito
Comunista di queste azioni, dall’altra fungere da trait d’union e mirare al riassorbimento
all’interno del partito delle istanze portate avanti dagli imputati.
6 Tutto ciò, ancora una volta, a riprova dell’importanza e della centralità dell’avvocato
bolognese sia a livello giuridico che politico.
21 In una corrispondenza33 con l’avvocato Domenico Rizzo, all’epoca senatore del Pci,
risalente al 195134, Casali lo ringraziava per aver accettato di collaborare al processo e
gli esponeva la linea difensiva finora seguita:
montatura della polizia, violenze esercitate su Cattabriga per imporgli dichiarazioni
compromettenti e chiamate in correità, nessun movente. Seghedoni era un
partigiano, comunista, ben voluto, amico di Govoni e di altri. Tutto il resto è
fantasia. Tutto ciò si capisce a grandi linee senza scendere per il momento nei
particolari. Il processo certamente si presenta male, credo però ci sia molto da
discutere35.
22 Si può notare come Casali propugnasse l’innocenza per i propri assistiti e diffidasse
dalle ricostruzioni fatte dai Carabinieri. Ciò è confermato da alcuni appunti da lui
conservati36, che con molta probabilità dovevano essere degli spunti per l’arringa al
processo, in cui si accusano i carabinieri di trovare prima i colpevoli e poi di cercar le
prove a suffragio della loro colpevolezza e si ribadiscono ancora le violenze perpetrate
nel corso degli interrogatori. A emergere è anche un altro aspetto, già per altro
riscontrato anche negli appunti ritrovati per il caso di Gaggio Montano, ossia il
riferimento alla situazione della zona all’epoca dei fatti, zona che aveva risentito in
maniera «più acuta le conseguenze della guerra».
23 Casali così scriverà nelle motivazioni di appello37 presentate contro la sentenza di
primo grado del 1952: «numerose sono le contraddizioni, incongruenze e assurdità
contenute nella motivazione della sentenza impugnata. […] Purtroppo questo primo
esperimento della corte di Assise di primo grado non è molto confortante e lascia assai
perplessi e turbati su quello che potrà essere il futuro andamento della giustizia». E più
avanti così continua: «in una conferenza stampa il capitano Vesce si impegna di
scoprire i colpevoli di tutti i delitti o, per essere più precisi, di trovare le prove contro i
presunti colpevoli». Casali intese sottolineare come la volontà dei carabinieri sembrava
essere quella di voler coinvolgere tutti i comunisti di quella zona invece di concentrarsi
solo sui colpevoli38. Per quanto riguardava poi le violenze subite da Renato Cattabriga
così si esprimeva Casali:
i primi giudici se la sono cavata molto brillantemente circa la coazione morale
subita dal Cattabriga durante gli interrogatori di polizia, in quanto non ne hanno
nemmeno parlato. Negare infatti che il Cattabriga abbia subito lunghi e estenuanti
interrogatori notturni sarebbe stato impossibile. […] La mancanza di cibo, la
mancanza di sonno, l’obbligo di stare in piedi per ore e ore, anzi per giornate intere,
le violenze fisiche di altro genere come pugni, schiaffi, calci ecc, […] e ci si venga a
dire che la confessione del Cattabriga è stata spontanea, sincera, non imposta, non
suggerita, veritiera. È un racconto stentato, talora stupido talora fantastico alla
ricerca di una specie di adattamento a quella che era la costruzione del delitto già
fatta dalla polizia39.
24 Infine Casali passa ad esaminare il movente: anche in questo caso la trattazione è
illuminante non solo per la vicenda in sé, bensì per molti dei processi contro ex
partigiani svoltesi in quegli anni in quanto presentano lo stesso schema. Nella versione
fornita da Cattabriga il motivo per cui si era giunti all’uccisione di Seghedoni
riguardava dei copertoni di alcune gomme che la vittima avrebbe venduto tenendosi il
guadagno per sé. Cosi scrive Casali:
e la causale? La stessa sentenza impugnata non crede a quella stupidissima storia
delle quattro gomme rubate40, però crede a delle voci vaghe e incerte, incontrollate
che non hanno alcuna conferma in dati obiettivi di fatto. […] Il Seghedoni minaccia
di denunciarli, di farli arrestare, di interrompere la loro attività diretta a sovvertire
l’ordine sociale e i suoi compagni allora lo fanno fuori! Se così stanno le cose, e
secondo l’accusa stanno così, si può negare se mai il movente politico 41?
25 Da una parte quindi l’accusa vuole derubricare il caso a delinquenza comune, dall’altra
sottolinea di credere in un movente tutto politico e interno alle dinamiche tra
partigiani. Secondo Casali in sede di dibattimento processuale veniva sostenuto un
impianto accusatorio fortemente incentrato sul politico, salvo poi negare la politicità
stessa del reato nella sentenza, e questo come accennato poco sopra sarà un aspetto
ricorrente in questo tipo di processi.
26 Un ultimo documento consente di delineare la strutturazione della difesa da parte di
Casali e del collegio da lui diretto. Si tratta dei motivi di ricorso presso la corte di
Cassazione di Roma a seguito della sentenza della corte di Assise di appello di Bologna
del 1953. Casali critica ancora una volta la magistratura:
E così anche la corte di Assise di appello ha fatto giustizia, o meglio, ha creduto di
far giustizia. Una giustizia un po’ spicciativa, fatta con molta fretta […] Un processo
indiziario che lasciava molto a desiderare per il modo come in sede di indagini di
polizia giudiziaria, poi di istruttoria scritta, poi di istruttoria dibattimentale era
stato condotto, meritava in grado di appello un esame più approfondito, cosa che
non è stata fatta da parte dei giudici nonostante ogni sforzo della difesa 42.
27 Questo passaggio del ricorso in appello mette in evidenza uno degli aspetti su cui si
incentravano le difese di Casali: il fatto cioè che le istruttorie tendessero a assumere
come assodate le indagini fatte dalle forze di polizia, mancando volontariamente a un
proprio ruolo di accertamento e di verifica.
3. Il delitto Fanin
28 Terzo e ultimo caso che non vide la presenza ufficiale del Cds e del Pci è il processo
riguardante l’omicidio del sindacalista cattolico Giuseppe Fanin avvenuta la sera del 4
novembre 1948. Su questo caso, a differenza dei due in precedenza analizzati, molto è
stato scritto43. Si è ritenuto quindi più fruttuoso focalizzare l’attenzione sulle modalità
con le quali fu articolata la difesa e sul significato politico assunto dall’intero processo:
tematiche che la storiografia recente ha trascurato per privilegiare invece l’aspetto
della violenza che caratterizzò l’evento.
29 Questo omicidio matura in un contesto differente rispetto agli altri essendo ormai
lontana la fine della guerra e caratterizzandosi per i suoi aspetti più legati al quadro
socio-economico che agli strascichi della vicenda resistenziale. Bisogna ricordare come
la storia di San Giovanni in Persiceto fosse caratterizzata da una lunga tradizione di
lotte agrarie acutizzatasi già a partire dal primo dopoguerra e come quindi questo
omicidio rientri a pieno nello schema di alta conflittualità presente nelle campagne
emiliane.
30 Giuseppe Fanin fu ritrovato la sera del 4 novembre agonizzante da un passante, morì
nella notte all’ospedale dove era stato portato. Essendo la vittima un giovane attivista
delle Acli e essendo da poco avvenuta la scissione del sindacato con l’uscita dell’ala
cattolica e moderata, subito le indagini si indirizzarono verso l’ipotesi di un movente
politico-sindacale. Tale ipotesi era suffragata dalla presenza di un manifesto per le
strade di San Giovanni in Persiceto in cui Fanin veniva descritto come «servo sciocco
degli agrari appoggiati dagli organi di governo»44. Nel giro di pochi giorni la questura
provvide a numerosi fermi: si trattava di trenta persone45 tutte appartenenti a un’unica
area politica, quella comunista e legata al sindacato e alla Federterra. Come negli altri
casi, la stampa moderata iniziò una campagna contro le violenze comuniste e
parallelamente elevando al tempo stesso la vittima a martire, il cui sacrificio era un
esempio tragico di coerenza e alti ideali. Non è quindi difficile comprendere come,
anche questa volta, la linea difensiva di quelli che saranno poi gli imputati nel processo
non poté coinvolgere direttamente il Comitato di Solidarietà Democratica e il Partito
Comunista. La presa di distanza fu netta in questa occasione. Un comunicato della
Federazione Comunista «nel porgere il suo cordoglio alla famiglia dello scomparso
deplora vivamente l’assassinio, così come ha sempre deplorato e deplora le uccisioni di
sindacalisti e dirigenti di massa»46, e ancora ricordava come «quanto sono contrari alla
attività e alla stessa impostazione politica dei comunisti quei metodi di violenza che
essi hanno subito per molti anni e ancor oggi subiscono quasi quotidianamente» 47.
31 Ventun giorni dopo il delitto, Gino Bonfiglioli, uno dei fermati nonché segretario della
locale sezione del Pci, confessava indicando in Gian Enrico Lanzarini, Renato Evangelisti
e Indrio Morisi i suoi complici. Il collegio di difesa degli imputati, ancora una volta,
ruotava intorno a Casali. Il processo iniziò il 15 novembre 1949 presso la corte di Assise
dell’Aquila dove fu spostato per legittima suspicione. Questo provvedimento
teoricamente veniva applicato quando la sede scelta non garantiva un clima di serenità
al processo, in questo caso però contribuì a isolare gli imputati 48. L’accusa fu tutta
incentrata sul movente politico e sulla colpevolizzazione dell’estremismo del Pci.
L’arringa dell’avvocato Bettiol, onorevole della Dc, rappresentante per parte civile, ben
sintetizza questo schema: «complici del delitto sono, in certo senso, tutti coloro che
appartengono alla cerchia degli assassini. Una precisa responsabilità morale ricade
infatti sopra chi, in qualche modo, influì su gli odierni accusati». Bettiol accusa gli
imputati di aver compiuto «il delitto più grave che sia stato commesso in questo
inquieto e tormentato dopoguerra, l’avete commesso in una regione dove la coscienza
democratica non si è ancora veramente consolidata. Un delitto grave e odioso il quale
ha fatto sì che il nome di Giuseppe Fanin sia oggi avvicinato ed equiparato ai più noti e
recenti martiri»49. La sentenza che venne pronunciata il 22 novembre 1949 accoglieva
in pieno la linea dell’accusa affermando
la responsabilità di tutti gli imputati in ordine al delitto ad essi ascritto di omicidio
volontario premeditato ed ulteriormente aggravato. Il delitto si ravvisa
indubbiamente grave, in quanto esso rappresenta un attentato alla libertà di
pensiero, che è una delle principali basi su cui poggia la società e quindi uno Stato
democraticamente organizzato, ed è fra l’altro un indubbio sintomo di quello
spirito di intolleranza che anima alcune correnti estremiste. […] La circostanza che
gli imputati tutti furono indubbiamente vittime a loro volta delle idee
propagandate dallo loro corrente politico-sindacale e si illusero di poter con il loro
gesto di violenza, sopprimere con un uomo, un’idea contraria alla propria 50.
32 La linea difensiva si era basata su tre nodi centrali: l’inesistenza della premeditazione,
l’inesistenza di un mandato a uccidere e l’ipotesi di omicidio preterintenzionale e non
colposo. Si voleva dimostrare che gli imputati non volevano uccidere il sindacalista:
l’arma usata era infatti una sbarra di ferro e non per esempio una pistola, che gli
imputati sarebbero stati in grado di usare essendo ex partigiani e avendone avuto
dimestichezza durante la guerra. Inoltre si ribadì il fatto che Fanin fu trovato ancora in
vita. Così scrive Casali nei motivi di ricorso alla corte suprema di Cassazione: «in tema
di omicidio doloso è inattendibile la tesi del dolo indeterminato che viene determinato
dall’evento, essendo necessaria nei delitti dolosi la volontà di produrre l’evento. Il
mandato ad uccidere presuppone l’impeccabile nella preparazione e nell’esecuzione, è,
come è stato giustamente definito, il calcolo sublime del delitto, il massimo dello studio
e delle cautele»51. Due ulteriori aspetti emergono dai documenti contenuti del fascicolo
che Casali dedicò al caso Fanin. L’arringa del senatore Carmine Mancinelli, anch’egli
parte del collegio difensivo, mette in evidenza l’importanza del contesto in cui si
svolsero i fatti. Le sue parole, infatti, sono eloquenti in questo senso: «profilo
evidentissimo della situazione emiliana, quale nasce da una lotta ormai secolare dei
lavoratori di questa terra. Dall’esame di questa lotta non si può astrarre, come non si
può astrarre dal fatto che la creazione degli uffici governativi di collocamento abbia
rincrudito questa lotta. Ho chiesto che la corte tenga presente questa situazione per
decretare una forte riduzione di pena»52. L’arringa di Casali invece fa capire come la
volontà del Partito Comunista fosse quella di una condanna netta dell’accaduto, ma allo
stesso tempo di contemplare la possibilità di una rieducazione politica. Casali, infatti,
chiese ai giudici di non condannare gli imputati all’ergastolo «per concedergli la
possibilità di pentirsi alla luce di una futura liberazione» 53.
33 Questo processo è risultato di particolare interesse per contestualizzare il ruolo
dell’avvocato Casali all’interno del Comitato di Solidarietà Democratica. Il Cds, come
abbiamo visto, rimase estraneo al caso, salvo intervenire nel processo di appello come
assistenza economica agli imputati. Tuttavia mantenne sempre un rapporto con Casali,
testimoniato dalla corrispondenza da lui raccolta. In una lettera del 29 ottobre 1949,
indirizzata al presidente del Comitato della sede di Bologna Francesco Zani, Casali
espresse tutte le sue perplessità circa il coinvolgimento nel collegio difensivo del
senatore Mancinelli e premette affinché si rivedesse la decisione presa.
Questo è un processo molto delicato e grave specialmente sotto l’aspetto politico.
Gli avversari speculeranno in campo nazionale e tutto sarà soppesato. Mancinelli
aveva detto con me che non poteva più curarsi di alcun processo, ora invece anche
lui vuole andare. E sta bene. Però se devo dire il mio pensiero, credo che sia un
errore che Mancinelli vada a difendere in quel processo dato che oggi egli riveste la
carica di Segretario Nazionale della Federterra. Potrebbe essere ritenuto un
intervento…troppo ufficiale della organizzazione sindacale, il che non va bene.
Peggio poi, a mio avviso, se si desse ancora più risalto ad un intervento del Partito 54!
34 Casali era preoccupato di una ancor più esasperata politicizzazione del processo e di
come questo potesse nuocere agli interessi nonché all’immagine del partito. Tale
preoccupazione veniva ribadita anche in un’altra lettera:
Abbiamo già visto quali speculazioni si fanno sul nome di Fanin e in questo
processo. […] è trattenuto ancora solo per questa speculazione e bisogna fare in
modo che venga assolto, perché se lo dovessero condannare (il che mi pare
impossibile) quei giudici servili e fascisti sarebbero capaci di condannarlo ad una
pena maggiore del minimo giustificando la condanna con la gravità del reato, con la
necessità di un esempio, con l’opportunità di essere severi data la situazione
politica in Emila, ecc.55.
35 Casali occupò una posizione centrale all’interno del Comitato, almeno per quanto
riguardava la sezione bolognese. Ciò è confermato anche da una corrispondenza
successiva tra Zani e Casali in cui il presidente della sezione bolognese si premurava di
far sapere all’avvocato riguardo al processo di appello che «la difesa non sarà
certamente imposta dall’alto» e che nonostante i difensori sarebbero stati nominati dal
comitato nazionale la sua presenza all’interno del collegio era assicurata 56.
36 L’analisi di questi tre casi nei quali il Partito comunista e il Comitato di Solidarietà
Democratica ebbero una posizione di presenza/assenza, configura il ruolo della
giustizia in quegli anni: un’arena57 nella quale si scontravano due ideologie opposte. Se
non è possibile parlare di difesa di rottura così come venne teorizzata dall’avvocato
francese Jacques Vergès riguardo ai processi avvenuti durante le lotte anticoloniali, è
indubbio il fatto che il ruolo svolto da Casali e dai collegi di avvocati da lui diretti
andasse nella direzione di una costruzione della strategia giudiziaria volutamente e
consapevolmente diretta a una difesa politica e a uno smascheramento di quello che
appariva essere da parte della magistratura un attacco indiscriminato a una
determinata area ideologica.
37 Non è un caso quindi trovare tra gli appunti di Casali le seguenti parole:
Nel gioco delle forze conservatrici contro la grande ondata popolare innovatrice
scatenatasi nel 1943, ha avuto una incalcolabile importanza il fatto che la vecchia
macchina statale e in particolare, l'alta burocrazia, siano riusciti a sopravvivere alla
caduta del fascismo. In un periodo in cui le vecchie classi dominanti erano
disorganizzate economicamente, sbandate politicamente, squalificate di fronte alla
nazione, il vecchio apparato statale ha ben funzionato, si può dire, come un volano
che trasforma in inerzia la forza viva di un movimento 58.
38 Casali voleva mettere in risalto il ruolo avuto dalla magistratura come appoggio alla
volontà dei governi centristi a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta di frenare e
arginare le spinte innovatrici a livello sociale e politico utilizzando la giustizia penale
come strumento di repressione della sempre più estese manifestazioni di protesta,
come scrisse molto dopo un importante storico come Guido Neppi Modona 59.
NOTE
1. A tale proposito molto interessanti risultano essere le analisi di Luca Alessandrini e Angela
Maria Politi che per primi hanno lavorato su queste carte. Cfr. POLITI, Angela Maria,
ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953», in Italia
Contemporanea 178, 1990, pp. 42-62; POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani
emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA
RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto
Storico Provinciale Della Resistenza, 1992.
2. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del
dopoguerra, in POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai
processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e
dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale Della Resistenza,
1992, pp. 1-27.
3. Settimanale di cronache poliziesche, scienze occulte, criminologia. L’articolo citato è stato
trovato conservato nelle carte dell’avvocato Casali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 12.
4. Nei fascicoli custoditi presso il Fondo Casali all’Istituto per la storia e le memorie del ’900 Parri
Emilia Romagna non è conservata copia del dibattimento processuale e della sentenza, a
differenza della maggior parte degli altri casi trattati dall’avvocato Casali che presentano invece
una documentazione più completa.
5. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, ff. 12-13-14.
6. Da tener presente ai fini giudiziari è il fatto che Gaggio Montano fu liberata il 21 ottobre 1944. I
fatti si svolsero quindi sette mesi dopo la fine della guerra e quasi un anno dopo la liberazione del
paese.
7. Deposizione di Rovinetti Mario, imputato per i fatti di Gaggio. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2,
b.101, f.12.
8. Gaetani Ivo, Rovinetti Mario, Camurri Antonio, Torri Giuseppe, Stefanini Settimio, Casalini
Gianni, Mazzini Giorgio, Franchi Adriano, Baldi Alfredo, Ropa Giovanni, Lolli Lodovico.
9. Il 06 dicembre 1952 la corte di Assise di appello di Firenze riconfermò sostanzialmente la
sentenza di primo grado, alle pene vennero però applicati gli indulti del 1946, 1948 e 1949.
10. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.12.
11. Ibidem.
12. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.13.
13. Ibidem.
14. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f.13. Comunicato del comitato provinciale di Bologna
dell’Anpi in cui viene ricostruita e criticata la versione dei fatti di Gaggio Montano proposta da
un volantino moderato che circolava per il paese.
15. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.13.
16. La Gazzetta dell’Emilia, 18 giugno 1946. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b. 101, f. 13.
17. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani
1948-1953», in Italia Contemporanea, 178, 1990, p. 50.
18. In particolare nei processi successivi al secondo grado venne più volte richiesta dalla difesa
l’applicazione della legge indulto del 19 dicembre 1953 n.922 che all’articolo 2 recitava «deve
essere ridotta ad anni due la pena di reclusione superiore ad anni venti e condonata interamente
la pena non superiore ad anni venti per i reati politici ai sensi dell'art. 8 c.p. e per i reati connessi,
consumati dall'8 settembre 1943 al 18 giugno 1946». Nella fattispecie si ricordava che «si tratta di
delitti politici (gli omicidi) e di reati connessi (le rapine) consumati il 16 novembre 1945». ISPER,
Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 13.
19. ALATRI, Paolo, op. cit., p. 19.
20. Il collegio di difesa era composto dagli avvocati: Casali, Geraci, Cappello, Comini, Lenzi,
Mauceri, Magnarini, Destito, Veronesi.
21. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, ff. 12-13-14.
22. CRAINZ, Guido, «Il conflitto e la memoria. Guerra civile e triangolo della morte», in Meridiana,
13, 1990, p. 26.
23. Questa argomentazione la troviamo meglio esplicitata nei suoi appunti riguardanti un altro
caso per certi aspetti simile a quello qui preso in esame: quello del sequestro e dell’uccisione di
Sisto Costa, vecchio podestà di San Pietro in Casale, e della famiglia. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2
Sett. 2, b. 118.
24. Cfr PAVONE, Claudio, «Le tre guerre: patriottica, civile e di classe», in Rivista di storia
contemporanea, 2/1989, pp. 209-218.
25. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 12.
26. DI LORETO, Pietro, Togliatti e la doppiezza. Il Pci tra democrazia e insurrezione, Bologna, Il Mulino,
1991.
27. Esami testimoniali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1.
28. Ibidem.
29. Rinascita, 8 novembre 1946. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1.
30. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1.
31. Il 16 aprile 1946 il deposito di munizioni di Ponte Ronca, una frazione del comune di Zola
Pedrosa, veniva assalito e il custode, il maresciallo Vannetti, veniva ucciso.
32. Il collegio difensivo diretto da Casali era così formato: l’avvocato Casali per Govoni Rino, e i
latitanti Bottazzi Dante, Stoppazzini Giuseppe e Bolognini Vittorio, l’avvocato Rizzo per
Cattabriga Renato, l’avvocato Corrias per Bottazzi Venusto accusato di aver favorito Cattabriga a
eludere le indagini. Nel corso del processo si aggiungeranno al collegio di difesa anche l’avvocato
senatore Domenico Rizzo.
33. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b. 98, f.3.
34. Il processo di primo grado si concluderà con la sentenza della corte di Assise di Bologna il 16
gennaio 1952, mentre quello di secondo grado con la sentenza della corte di Assise di appello di
Bologna del 10 luglio 1953. Gli imputati verranno condannati per sequestro di persona, omicidio
premeditato e porto abusivo di armi da guerra.
35. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b. 98, f.3.
36. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.98, f.2.
37. Ibidem.
38. Cfr. Tesi sostenuta anche da Politi e Alessandrini in POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI,
Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO
PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, op. cit.
39. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2.
40. È lo stesso procuratore generale a scrivere: «Il vero movente deve essere ricercato non già
nell’oscura vicenda, cui è stato dal Cattabriga accennato, di certe gomme di automobile in
possesso del Seghedoni, ma dal fatto che costui, a conoscenza di numerosi misfatti del Bottazzi
Dante e di altri suoi ex compagni di lotta clandestina, non avrebbe potuto mancare di
manifestare pubblicamente il proprio sdegno e la propria riprovazione al riguardo, attirandosi
così l’odio degli interessati ed esponendosi alla loro vendetta». ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.
98, f.2.
41. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2.
42. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2.
43. Si veda tra gli altri: l’opuscolo Giuseppe Fanin, Bologna, A.B.E.S., 1949; ALBERTAZZI,
Alessandro, Per Giuseppe Fanin, Bologna, Nuova Universitaria Cappelli, 1987; TREVISI, Giuseppe, Il
delitto Fanin, Bologna, Il Mulino, 1998.
44. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
45. Cfr. ALBERTAZZI, Alessandro, Documenti per Giuseppe Fanin, Quaderni della biblioteca
comunale G.C. Croce, 20, 1986, pp. 1-83.
46. TREVISI, Giuseppe, op. cit., p. 25.
47. Ibidem, p.79.
48. Angela Maria ha analizzato come nei processi contro ex partigiani molti furono spostati di
sede per legittimi suspicione, ma il clima delle nuove sedi scelte non era dei più favorevoli per gli
imputati. Un esempio per tutti è il caso di Perugia dove esercitava il giudice Missere di Modena il
cui figlio era stato ucciso dai partigiani. Cfr. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, POLITI,
Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in
ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e
polemiche recenti, cit., pp. 323-324.
49. PERBELLINI, A.M. «Processo Fanin: verso l’epilogo», in L’Avvenire d’Italia, 20 novembre 1949.
ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.2, f.5.
50. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.2, f.5.
51. Ibidem.
52. L’Unità, 22 novembre 1949. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
53. PERBELLINI, A.M., «L’ultimo giorno al processo Fanin», in L’Avvenire d’Italia, 22 novembre
1949. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
54. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
55. Qui Casali si riferisce a Sighinolfi Adorno imputato per aver più volte in San Giovanni in
Persiceto in epoca anteriore e prossima al 4 novembre 1948 istigato pubblicamente a commettere
il delitto di omicidio di persona del dottor Fanin pronunciando in pubblico la frase: «Fanin è
cristiano crumiro che bisogna far fuori perché è la rovina di noialtri, bisogna accopparlo». ISPER,
Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
56. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5.
57. Espressione presa in prestito da ISRAËL, Liora, op. cit., p. 49.
58. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 13.
59. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO,
Francesco, op.cit., p. 107.
RIASSUNTI
Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale
bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato
di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari,
quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca
politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia
operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di
delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana
dell’immediato dopoguerra.
This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali,
one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the
Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases,
as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating
the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and
the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist
Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a
unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.
INDICE
Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence
Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza
AUTORE
GRETA FEDELE
Studentessa del corso integrato franco-italiano Histoire et civilisations comparées. Precedentemente
ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Milano discutendo
una tesi dal titolo Storia e globalizzazione nella recente produzione storiografica.
Francesco Mantovani
una grande diffusione, tanto da divenire durante il Sessantotto uno dei testi guida della
cultura anti-autoritaria giovanile.
8 All’interno della professione psichiatrica si venne perciò a consolidare un forte
impegno, inteso da un lato come critica della società e del «nesso sapere/potere» che la
regolava, dall’altro come ricerca di un’attività rispettosa dei diritti e della soggettività
dei pazienti7. Quello che Basaglia e collaboratori vollero fare non fu solo una riforma
dei metodi terapeutici, bensì una messa in discussione del sistema che vi stava dietro,
sul quale si reggevano i manicomi, «uscendo dal suo campo specifico e tentando di
agire sulle contraddizioni sociali»8. Questi spunti critici furono accolti dal gruppo di
magistrati riformisti e la battaglia che portò nel 1978 all’approvazione della legge n. 180
fu condotta anche sul piano costituzionale: a essere messa in discussione fu la
legittimità della legge del 14 febbraio 1904, n. 36, che – salvo alcune modifiche –
regolava ancora l’istituzione manicomiale italiana.
9 Il tema della salute mentale e della riforma degli ospedali psichiatrici viene affrontato
in questa sede a partire dalla lettura delle fonti presenti nella rivista «Quale giustizia»,
dalle quali emerge un utilizzo del diritto come strumento per portare avanti campagne
riformiste e per sensibilizzare l’opinione pubblica, vista la vasta risonanza che la
questione ebbe in Italia.
17 Tutto il sistema che regolava la cura della malattia mentale, dal ricovero al
funzionamento degli istituti psichiatrici, era legata alla legge 14 febbraio 1904, n. 36 e al
relativo regolamento di esecuzione del 1909, che dettavano le «disposizioni sui
manicomi e sugli alienati» e operano conformemente alla «prevenzione e difesa
sociale». L’analisi di «Quale giustizia» si focalizzò essenzialmente sulle tematiche di
esclusione dei malati e di prevenzione dei sani nei confronti di coloro che risultano di
pubblico scandalo. La legge in questione, sopravvissuta senza grossi cambiamenti
durante il fascismo e la fase costituzionale, venne letta come uno strumento repressivo
di controllo sociale e di salvaguardia della «morale piccolo-borghese», all’interno di un
«sistema economico basato sul profitto [che] esclude le forze-lavoro improduttive» 18.
18 Il testo della legge riporta che possano essere considerati «manicomi» tutti quegli
«istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque
genere»: non vi è quindi una definizione precisa dello spazio adibito agli infermi,
perché in realtà è importante soprattutto che si tratti di un luogo idoneo a isolarli dalla
società. D’altra parte, cosi come non è definito precisamente il manicomio, nel testo
della legge non viene definita la natura della malattia mentale e su questo punto i
redattori di «Quale giustizia» si concentrarono mostrando il circolo vizioso creatosi:
«sono gli alienati che caratterizzano un luogo come manicomio; d’altra parte è il
manicomio a caratterizzare come alienati i ricoverati in esso» 19. Le uniche
caratteristiche che la legge esplicita perché determinate persone possano essere ridotte
in manicomio sono l’essere «pericolose a sé e agli altri» e il riuscire «di pubblico
scandalo».
19 Proprio per semplificare l’isolamento di chi poteva turbare l’ordine pubblico, la
procedura d’ammissione agli istituti era piuttosto rapida e regolata da certificati medici
e ordinanze dei pretori. La stessa cosa non si poteva dire dell’eventuale «licenziamento
dal manicomio», il cui procedimento era complesso e richiedeva tempi alquanto
dilatati20. Un altro aspetto importante regolato dalla legge del 1904 era il fatto che la
vigilanza su manicomi e «alienati» fosse affidata al Ministro dell’Interno e ai prefetti: il
personale di guardia non era quindi composto solo da infermieri, ma anche da guardie
vere e proprie. Era inoltre ammessa la possibilità che l’infermo di mente potesse essere
ricoverato in una casa di cura privata, equiparata negli artt. 1 e 2 agli istituti pubblici.
Gli interventi di «Quale giustizia» mostrano che tale distinzione sia fondamentalmente
di natura economica: chi aveva i mezzi per farlo preferiva ricorrere agli istituti privati,
che però, dietro una parvenza di pulizia, efficienza e buon trattamento dei ricoverati,
spesso non tenevano conto neanche delle poche misure di tutela nei confronti dei
malati disposte dalla legge. I casi di abuso di autorità, di soprusi e maltrattamenti erano
frequentemente riportati dalla stampa italiana, come vedremo meglio nel terzo
capitolo.
20 Se gli ospedali psichiatrici rappresentavano uno strumento di controllo sociale, nei
manicomi giudiziari «Quale giustizia» lesse una «doppia violenza istituzionale»,
l’unione cioè dei sistemi coercitivi del carcere e del manicomio 21. Nonostante il Codice
penale definisse «incomunicabili» queste due istituzioni, dal momento che il carcere si
doveva occupare delle persone imputabili «in grado di intendere e di volere» (quindi
anche in grado di «emendarsi»), il manicomio invece delle persone non imputabili per
«infermità mentali», sul piano effettuale non c’è differenza tra cura e repressione, tra
custodia e carcerazione dal momento che, notano gli autori della rivista, «alla base
della carcerazione manicomiale vi è una responsabilità oggettiva, la colpa di essere
malato di mente o di essere considerato tale da altri» 22. Questa confusione tra
delinquenza e disadattamento portò a una «penosa e irrazionale promiscuità» nei
manicomi giudiziari tra persone realmente malate e altre invece che vi erano
ricoverate. Una lettera, inviata il 16 dicembre 1971 dal giudice di sorveglianza
Alessandro Margara al Ministero di Grazia e Giustizia sulla situazione nel carcere
dalla relazione del giudice di sorveglianza del Tribunale di Firenze Margara su alcuni
ricoverati del manicomio giudiziario di Montelupo, i quali si trovavano di fatto in un
«ergastolo di sicurezza»26. L’art. 148 del Codice penale prevedeva, in caso di infermità
mentale sopravvenuta, la sospensione di un procedimento penale, della pena o delle
misure detentive. Tutti questi casi comportavano il ricovero in manicomi giudiziari e
spettava al giudice di sorveglianza decidere se far cessare questa sospensione, qualora il
soggetto avesse recuperato le capacità di intendere e volere. Ciò che l’articolo della
rivista fa notare è che era impossibile auspicare un miglioramento delle condizioni
psichiche dei sospesi a giudizio, visto l’ambiente carcerario in cui venivano posti:
venivano a crearsi invece «situazioni di perdita della libertà personale praticamente
perpetue», con casi frequenti di sospensione non giustificata 27.
26 Per questo motivo, si auspicava una scrupolosa perizia psichiatrica del soggetto, per
comprendere se l’infermità fosse sopravvenuta al fatto o lo precedesse, nel qual caso
l’imputato andava prosciolto. Per i ricoverati a pena sospesa invece, in primo luogo le
critiche andavano contro le negligenze nelle perizie stesse, che facevano sì che molte
persone venissero «dimenticate nei manicomi»28. D’altra parte venne messa in luce che,
in base alla legge, il periodo di restrizione personale in manicomio era irrilevante ai fini
dell’espiazione della pena. Secondo gli autori degli articoli di «Quale giustizia», ciò era
l’ulteriore dimostrazione del carattere segregativo e punitivo del Codice penale: la
questione era che andavano salvaguardati la consapevolezza e la partecipazione
cosciente dei soggetti rispettivamente alla pena o al processo, non tanto la guarigione
dall’infermità psichica, pressoché impossibile viste le condizioni disastrose dei
manicomi giudiziari29.
27 La questione della legittimità costituzionale dell’art. 148 del Codice penale e dell’art. 88
del Codice di procedura penale venne sollevata a partire dall’art. 24, 2° Comma della
Costituzione, che nel diritto alla difesa prevedeva la partecipazione dell’interessato e la
sua assistenza per mezzo di un difensore. Fu sostenuta l’illegittimità del regime di
sospensione dell’esecuzione della pena per infermità sopravvenuta e
l’incostituzionalità del fatto che il periodo trascorso in manicomi giudiziario con pena
sospesa non venisse sottratto alla pena da espiare. Il principio ispiratore della norma
non poteva essere la correzione dell’imputato attraverso l’afflizione. Dopo un iter
piuttosto lungo, la Corte costituzionale si espresse nel giugno 1975, dichiarando
illegittimo l’art. 148
nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio
giudiziario del condannato caduto in stato d'infermità psichica durante
l'esecuzione di pena restrittiva della libertà personale, ordini che la pena medesima
sia sospesa. Ha dichiarato del pari l'incostituzionalità dell'art. 148 nella parte in cui
prevede che il giudice ordini la sospensione della pena anche nel caso in cui il
condannato sia ricoverato in una casa di cura e di custodia ovvero in un manicomio
comune (ospedale psichiatrico)30.
Tuttavia fu dichiarata inammissibile la questione di incostituzionalità in riferimento
all’art. 24 della Costituzione.
28 La reticenza da parte della Corte costituzionale a una riforma radicale del sistema
giudiziario in riferimento ai manicomi venne letta dagli autori della rivista come una
«scelta politica»: non vi era intenzione di compromettere l’impianto legislativo della
legge del 1904 che faceva perno sul concetto di «pericolosità sociale» degli infermi di
mente. A questo proposito venne riportata la richiesta da parte giudice Cerminara della
Pretura di Roma di verifica della costituzionalità dei primi due articoli della legge, in
4. Le cronache giudiziarie
29 L’analisi e la critica della società italiana condotte dai giuristi che scrivevano su «Quale
giustizia» erano integrate con sentenze di vario argomento che venivano riportate per
intero. È questa probabilmente una delle caratteristiche più interessanti della rivista, in
grado di arricchire il dibattito con esempi concreti di applicazione della giustizia. Si
trattava spesso di casi che trovavano spazio anche nelle cronache dei quotidiani e, per
quanto riguarda il tema della salute mentale, in gran maggioranza sono riportati per
mostrare le forme di coercizione presenti nella legislazione italiana, tra cui spicca
l’istituzione manicomiale.
30 Una delle sentenze citate è quella della Pretura di Parma del 21 aprile 1972, riguardante
la denuncia esposta dal dottor Euplio Mastrangelo contro il medico di guardia
dell’Ospedale psichiatrico il Colorno, il dottor Franco Rotelli. Questi avrebbe rifiutato
«per ragioni di ordine specialistico-sanitario e per ragioni di ordine burocratiche
amministrative (sic.) in quanto proveniente da altra provincia» 32 il ricovero di Tiziano
Bigi, persona affetta da «etilismo cronico»; costui si era precedentemente rivolto al
dottor Mastrangelo, il quale aveva riconosciuto i sintomi di «deterioramento psichico»
e aveva chiesto all’autorità di pubblica sicurezza il ricovero d’urgenza in via
provvisoria, approvata dal Questore. Con questo esempio si vuole mettere in luce il
potere della pubblica amministrazione e dell’atto d’ordinanza: senza aver fatto ricorso
agli strumenti di interpretazione dell’ordinanza e senza aver effettuato una visita più
accurata del signor Bigi, ciò che risulta è la messa in discussione dell’«Autorità» dello
Stato. Il rifiuto del dottor Rotelli era perciò attribuito a una mancanza di rispetto delle
istituzioni33. D’altra parte, il caso è un’ulteriore dimostrazione che la semplicità con la
quale si poteva entrare in manicomio – seppur in via provvisoria – non fosse
controbilanciata da una rapida dismissione, qualora si fosse provveduto a una perizia
psichiatrica più accurata.
31 Accanto alla critica del concetto di autorità, le pagine di «Quale giustizia» riportano
anche due episodi drammatici di morte avvenuti nei manicomi. Era piuttosto raro che
la responsabilità dei fatti ricadesse sugli infermieri di reparto o sui medici stessi ed
erano poche le cronache giudiziarie che trattavano casi di questo tipo: tuttavia quelle
poche condanne registrate sono utili per comprendere quali fossero che condizioni
all’interno degli ospedali psichiatrici.
32 Il primo di questi due casi riguarda la condanna del prof. Benigno Di Tullio, titolare
della Casa di Salute per Malattie Nervose Parco delle Rose: si trattava di una cosiddetta
«clinica aperta» privata, dove potevano essere ricoverati solo malati «non pericolosi»,
ai quali era concessa maggiore libertà, e dove erano assenti rigide misure di sicurezza e
personale diverso dagli infermieri. Il 12 ottobre 1973 vi fu ricoverato tale B. A., ritenuto
sofferente di schizofrenia catatonica, non pericolosa per sé. Egli però il 14 ottobre,
elusa la sorveglianza, riuscì ad allontanarsi dalla clinica e venne ritrovato impiccato il
giorno dopo. Questo triste caso, attribuito inizialmente a un difetto di sorveglianza,
viene riportato nella rivista in quanto esempio di come le cliniche private tendessero a
eludere la legislazione corrente: la casa di cura in questione – viene detto – «era
formalmente una clinica aperta ma operava, sostanzialmente, come clinica aperta e
come clinica chiusa»34, dal momento che era divisa in due reparti, uno dei quali era
dotato di reti metalliche, finestre con inferriate e porte di sicurezza. In base a ciò, era
equiparabile ai manicomi chiusi pubblici, ai sensi dell’artt. 1 e sgg. l. 14.2.1904 n. 36 e
artt. 1, 2, 3, 4 e segg. del R.D. 16.8.1909 n. 615, cosa non rispettata dalla Casa Parco delle
Rose. Non solo: l’art. 2 della legge 18.3.1968 n. 431 prevedeva un «rapporto di un
infermiere per ogni tre posti-letto», anch’esso eluso essendo presenti nella clinica solo
due infermieri per un totale di 45 ricoverati al momento del fatto.
33 Oltre al non rispetto del regolamento, la questione di fondo è che non si sia tenuto
conto del fatto che il paziente soffrisse in realtà di schizofrenia paranoica: nella sua
cartella clinica erano registrati infatti casi precedenti di tentato suicidio, di
allucinazioni e di istinti omicidi. Durante il processo, il pubblico ministero cercò di
sciogliere il nesso tra azione-omissione colposa del dottor Di Tullio e il fatto delittuoso,
sostenendo che il malato avesse scelto coscientemente il suicidio. In realtà, la condanna
fu di aver accettato nella propria clinica non idonea un malato che presentava gravi
sintomi, dei quali però non si era tenuto conto. Questo caso mostra, secondo i redattori
della rivista, quanto dietro a un’apparenza di maggior pulizia ed efficienza delle
cliniche private vi fossero in realtà interessi economici, non terapeutici: tale problema
non era quindi caratteristica esclusiva delle strutture pubbliche, ma coinvolgeva
l’istituzione manicomiale nel suo complesso35.
34 Uno dei casi tristemente più noti di violenza fu quello avvenuto nel manicomio
giudiziario femminile di Pozzuoli, dove la signora Antonia Bernardini, arrestata per
oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale e sofferente di ripetuti esaurimenti nervosi, era
ricoverata in attesa di giudizio. Pur essendo accusata di un reato da quattro o cinque
mesi con la condizionale, la Bernardini rimase a Pozzuoli più di un anno, finché nella
notte del 27 dicembre 1974, nonostante fosse legata al letto di contenzione, riuscì a
darsi fuoco; morì il 31 dicembre in seguito alle ustioni riportate. Si trattò di una notizia,
resa pubblica solo il 4 gennaio 1975, che ebbe una vasta risonanza mediatica 36, fino alla
sentenza del 17 giugno 1977 con cui il Tribunale di Napoli condannò per omicidio
colposo, abuso di autorità e di falso ideologico in atto pubblico i responsabili: quattro
anni di carcere furono dati al dottor Francesco Corrado (direttore dell’ospedale),
quattro e mezzo al dottor Giuseppe Tempone (direttore di reparto), un anno e mezzo
alla suora responsabile del personale e a tre vigilatrici.
35 Riguardo questo caso, il dibattito di «Quale giustizia» è incentrato sulla liceità e utilità
come strumento terapeutico del letto di contenzione e delle altre forme coercitive che
possono incidere violentemente sulla personalità del malato. Il ricorso a esse era
ancora permesso nelle strutture, nonostante fosse in qualche modo limitato o regolato
da norme, soprattutto in ospedali come quello di Pozzuoli, che all’epoca poteva vantare
poche carenze dal punto di vista della manutenzione e del personale. Qualora però si
fosse dimostrato che l’uso di mezzi coercitivi fosse stato fatto «per motivi utilitaristici
provenienti dalla società civile più progressista, ma ciò comportò in molti casi
l’abbandono delle posizioni più radicali quali poteva avere – nel nostro caso – il
movimento anti-istituzionale basagliano. In questo modo il ricorso al diritto e ai
principi costituzionali come strumento di contestazione operato da Magistratura
democratica può aver avuto come conseguenza indiretta la legittimazione di quello
Stato contro il quale si protestava40. Nonostante la messa da parte di molti obiettivi che
questi movimenti si erano dati, essi riuscirono nel caso della salute mentale a porre
l’accento sul fatto che essa fosse in primo luogo una questione sociale, non solo
biologica. Ciò che la rivista «Quale giustizia» e Psichiatria democratica cercarono di fare
fu quindi porsi «come punto di riferimento tecnico per le forze politiche progressiste» 41
indirizzate alla chiusura dei manicomi, interpretati come simbolo lampante di
controllo ed esclusione.
39 Dopo che la legge ponte del 1968 ebbe modificato in parte le condizioni interne ai
manicomi, nell’aprile 1977 la Camera dei deputati diede il via alla discussione sul
disegno di legge «Istituzione del servizio sanitario» (la futura legge 1978, n. 833),
all’interno del quale doveva essere trattata anche l’assistenza psichiatrica. Il ruolo di
mediatore tra le varie sollecitazioni fu svolto dal deputato democristiano e psichiatria
Bruno Orsini: se da un lato si era d’accordo sull’abrogazione della legge manicomiale
del 1904 e 1909, dall’altro l’ammissibilità e la regolamentazione del ricovero non
volontario fu fonte di dibattito, per le implicazioni costituzionali, politiche e sociali che
esso aveva. La stesura legge quadro n. 180, inoltre, rispose alla necessità di uscire da
una situazione difficile. Entro l’11 maggio 1978 il disegno di legge avrebbe dovuto
essere approvato, altrimenti si sarebbe proceduto a un referendum sull’abolizione della
normativa precedente (proposto dai radicali), il cui esito però non era scontato. Inoltre
erano quelli i mesi in cui l’Italia visse la vicenda del sequestro del presidente della
Democrazia cristiana Aldo Moro.
40 In questo clima, il disegno di legge portato avanti da Orsini sulla riforma dell’assistenza
psichiatrica fu presentato, discusso e approvato in tempi record da Camera e Senato: il
10 maggio 1978 la legge n. 180 «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e
obbligatori» venne firmata dal capo dello Stato Giovanni Leone, dal guardasigilli Paolo
Bonifacio e dal ministro della Sanità Tina Anselmi. Venne così attuata una rivoluzione
nella psichiatria italiana: i manicomi sarebbero stati chiusi. Tuttavia la 180 non poteva
essere la «legge Basaglia», come spesso è definita: non era nemmeno una legge a se
stante, ma parte del sistema sanitario nazionale. Lo stesso Basaglia il giorno prima della
ratifica sottolineò il fatto che si trattasse certamente di un compromesso politico, per
cui era consigliabile evitare facili euforie: «non si deve credere di aver trovato la
panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali
tradizionali»42.
41 Nonostante i risultati non fossero all’altezza delle aspettative di coloro che, nel corso
degli anni, si erano battuti per la chiusura dei manicomi, la legge n. 180 rappresentò un
tappa fondamentale del processo di democratizzazione della società italiana e di
riconoscimento della dignità di persona e dei diritti civili e politici anche di coloro che
potevano essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori. Questo saggio breve ha
cercato di mostrare quanto, nel raggiungimento di questo traguardo, l’uso del diritto
come arma per mobilitare l’opinione pubblica e spingere alle riforme abbia giocato un
ruolo centrale. Tuttavia, la chiusura dell’esperienza di «Quale giustizia» col numero di
giugno 1979, pressoché in concomitanza col tramonto delle grandi riforme del
decennio, lascia aperta la domanda se il ricorso al diritto con obiettivi politici o sociali
possa portare a risultati concreti per una vera democratizzazione della società anche al
giorno d’oggi, o se invece il formalismo e la sovrapposizione di norme e regolamenti lo
rendano al contrario uno mezzo per disinnescare tale spinta alle riforme 43. Al di là di
questi interrogativi, il contributo di Magistratura democratica e dalla sua rivista fu
senz’altro importante per superare la definizione che la legge del 1904 dava dei malati
di mente come persone «pericolose a sé o agli altri [e] di pubblico scandalo» 44.
NOTE
1. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 9.
2. MALATESTA, Maria, Professioni e impegno negli anni Sessanta agli anni Ottanta, in MALATESTA,
Maria (a cura di), Impegno e potere. Le professioni italiane dall’Ottocento a oggi, Bologna,
Bononia University press, 2011, p. 73.
3. Ibidem, pp. 74-75.
4. BASAGLIA, Franco (a cura di), L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968, p. 116.
5. Ibidem, pp. 122-123.
6. Ibidem, p. 329.
7. MALATESTA, Maria (a cura di), op. cit., p. 79.
8. BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., p. 8.
9. BERTI ARNOVALDI VELI, Giuliano, Post-fazione: il Sessantotto e il mondo del diritto in Italia, in
ISRAËL, Liora, op. cit., p. 115.
10. PEPINO, Livio, «Appunti per una storia di Magistratura democratica», in Questione giustizia, 1,
2002, pp. 11-12, URL:
<http://www.magistraturademocratica.it/mdem/materiale/storia_md.pdf> [consultato il 6
novembre 2014].
11. Storia di MD, Magistratura democratica, URL:
<http://magistraturademocratica.it/mdem/storia.php> [consultato il 6 novembre 2014].
12. MALATESTA, Maria (a cura di), op. cit., pp. 80-82; BABINI, Valeria P., Liberi tutti. Manicomi e
psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 285.
13. «Psichiatria democratica», in Quale giustizia, 21-22, 1973, p. 583.
14. Un’altra interessante pubblicazione del periodo fu La Questione criminale, curata dalla scuola
penalistica di Bologna che faceva capo a Franco Bricola, docente di diritto penale presso l’Alma
mater studiorum.
15. RAMAT, Marco, «Un solo padrone», in Quale giustizia, 1, 1970, p. 7. In questo editoriale è
espresso chiaramente cosa intendessero per giustizia i redattori della rivista: «Ci torna in mente
questo bellissimo e amaro ritratto fatto da A. France: “Ho conosciuto un giudice austero. Si
chiamava Thomas de Maulon ed apparteneva alla piccola nobiltà provinciale. Era entrato
volontariamente nella magistratura sotto il settennato del maresciallo McMahon nella speranza
di rendere un giorno la giustizia in nome del Re. Aveva dei princìpi che poteva credere
irremovibili, non avendoli mai mossi. Quando si muove un principio, si trova sempre qualcosa
sotto, e ci si accorge che non era un principio. Thomas de Maulon teneva accuratamente al riparo
della sua curiosità i propri princìpi religiosi e sociali”. Ecco perché abbiamo dichiarato ‘eretica’
questa rivista. Il significato etimologico di eresia è ‘ricerca’, ‘scelta’. Ma per cercare e per
scegliere è necessario lo stimolo della curiosità, il coraggio di essere curiosi. “Aveva dei princìpi
che poteva credere irremovibili, non avendoli mai mossi”: a quanti uomini, a quanti magistrati si
può attribuire questo stato d’ animo?».
16. LIBERTINI, Raffaele, «Il manicomio non ha mai fine», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 624.
17. «Manicomio a vita. Le situazioni giuridiche sospese», in Quale giustizia, 29, 1974, pp. 568-580.
18. AMBROSINI, Giangiulio, CECCARELLI PULITANÒ, Elisa, «L’esclusione manicomiale e la sua
legge», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 581.
19. Ibidem, p. 580.
20. Legge 14 febbraio 1904, n. 36, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli
alienati, artt. 2 e 3.
21. CAPPELLI, Igino, «Il manicomio giudiziario», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 620.
22. AMBROSINI, Giangiulio, CECCARELLI PULITANÒ, Elisa, «L’esclusione manicomiale e la sua
legge», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 584.
23. «Il manicomio giudiziario come doppia esclusione», in Quale giustizia, 17-18, 1972, pp. 622-33.
24. BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., p. 146; «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia,
41-41, 1977, pp. 702-703.
25. «Il convegno nazionale di Psichiatria Democratica», in Quale giustizia, 30, 1974, p. 767.
26. «Manicomio a vita. Le situazioni giuridiche sospese», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 568.
27. Ibidem, p. 570.
28. Esempi di queste “dimenticanze” sono G. Angioni, B. Vangiu, i quali erano innocenti o infermi
prima di commettere il delitto. Caso emblematico è quello di Andrea Pellerano che, pur dovendo
scontare solo tre anni di carcere per furto, ritenuto insano di mente ne passò venti in un
manicomio giudiziario; cfr. CARBONE, Fabrizio, «Doveva scontare 3 anni per furto. Ne passò venti
in un manicomio», La Stampa, 29 aprile 1975, p. 11.
29. LIBERTINI, Raffaele, «Il manicomio non ha mai fine», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 621.
30. Corte costituzionale, 19 giugno 1975, n. 146.
31. Cfr. «La legge sui manicomi di nuovo sotto accusa», in Quale giustizia, 36, 1975, pp. 746-48;
BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., pp. 122-123.
32. «Il manicomio facile», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 469.
33. Ibidem, p. 470.
34. «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia, 41-42, 1977, p. 699.
35. Ibidem, pp. 696-700.
36. Cfr. «Bloccata nella camicia di forza si libera e si dà fuoco: è morta», La Stampa, 5 gennaio
1975, p. 9; PUNTILLO, Eleonora, «Senza soccorsi muore bruciata legata al letto di contenzione», in
l’Unità, 5 gennaio 1975, p. 5.
37. «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia, 41-42, 1977, p. 703.
38. Ibidem, p. 704; cfr. PUNTILLO, Eleonora, «Condannati per Antonia Bernardini bruciata viva nel
carcere-manicomio», in l’Unità, 18 giugno 1977, p. 5.
39. Cfr. nota 23.
40. È questa una delle problematiche più interessanti messe in luce ne Le armi del diritto, nel
momento in cui si parla di «legittimazione involontaria» e di «relativa eufemizzazione dei
conflitti» qualora la contestazione si serva del diritto: cfr. ISRAËL, Liora, op. cit., pp. 79-84.
41. BABINI, Valeria P., op. cit., p. 285.
42. GILIBERTO, Franco, «Che dice Basaglia», in La Stampa, 12 maggio 1978, p. 12.
43. ISRAËL, Liora, op. cit., pp. 108-109.
44. Legge 14 febbraio 1904, n. 36, art. 1.
RIASSUNTI
Il presente saggio è incentrato sul rapporto tra salute mentale e diritto nel contesto riformistico
italiano degli anni Settanta del Novecento. La lotta condotta insieme dagli esponenti di
Magistratura Democratica e Psichiatria Democratica per la chiusura degli ospedali psichiatrici e
dei manicomi giudiziari è ripercorsa attraverso la lettura di «Quale giustizia», rivista giuridica
impegnata in questa e in altre campagne: in essa sono presenti da un lato articoli di psichiatri e
giuristi, dall’altro alcune cronache giudiziarie significative. In questa sede si vuole mettere in
luce l’efficacia e i limiti concreti dell’impiego del «diritto come arma» per portare avanti riforme
giuridiche e sociali, attraverso l’appello alla Costituzione.
This paper focuses on the relationship between mental health and law in the Italian reformist
context in the decade of the seventies of the 20th century. The mutual agreement of the
members of Magistratura democratica and Psichiatria democratica for the closure of psychiatric
hospitals and judicial asylums for the criminally insane is analyzed through the reading of «Quale
giustizia», juridical magazine committed to this and other campaigns: on the one hand articles of
psychiatrists and lawyers, on the other some significant judicial reports. Here we want to
highlight the effectiveness and the practical limitations of the use of the «law as a weapon» to
advance legal and social reforms, through an appeal to the Constitution.
INDICE
Parole chiave : diritto, ospedali psichiatrici, psichiatria, Quale giustizia, questione manicomiale
Keywords : asylum issue, law, psychiatric hospitals, psychiatrist, Quale giustizia
AUTORE
FRANCESCO MANTOVANI
Ha studiato Storia presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito la Laurea triennale nel 2013
con una tesi sul nuovo ordine mediterraneo fascista. Iscritto a Scienze storiche nello stesso
ateneo, partecipa attualmente al secondo anno del Corso di Laurea Magistrale integrato italo-
tedesco in Scienze storiche (BiBoG) presso l’Universität Bielefeld.
1. Il polo industriale
2. Il processo
5 Sul finire degli anni Sessanta tra gli operai e i sindacati di Porto Marghera si sapeva
poco o niente rispetto ai rischi corsi ogni giorno nei reparti di lavorazione CV. Nel 1966
la forte alluvione che sommerge Venezia preoccupava il mondo intero e le istituzioni
varavano nel 1973 la prima legge speciale per Venezia; era la prima legge a non dare
avvio a nuovi lavori bensì atta a difendere un patrimonio storico e ambientale. Ma la
legge riguardava Venezia, non la vicina Marghera. In quegli anni infatti all’interno del
polo industriale la problematica non era ancora la salvaguardia dell’ambiente né tanto
meno la salute umana: «dell’ambiente nocivo e di rischio al Petrolchimico, come in
tante altre fabbriche, se ne dava per scontato un certo grado come dato obbligato e lo si
ripagava con una indennità salariale ai lavoratori, considerata persino una conquista»
13
.
6 Gianfranco Bettin, oggi assessore all’ambiente presso il Municipio di Mestre, ricorda
con queste parole quel periodo e l’atteggiamento generale che definisce tra
l’irresponsabile, il fatalistico e il temerario:
prima dell’approvazione della legge speciale, a Porto Marghera ci sono fughe di gas,
incidenti, c’è questo tipo di problematica; l’incidente più che l’impatto che in sé il
polo industriale può avere, produce le prime voci attorno al rischio del CVM
soprattutto nella parte chimica, oppure al rischio implicito nella presenza di grandi
depositi di fosgene. Io abitavo al confine con la zona alfa, quella dove la distruzione
sarebbe stata totale in caso di incidente14.
7 Sono voci quelle attorno al CVM (Cloruro di vinile monomero) e non riguardano ancora
la pericolosità della sostanza in sé; la paura è dovuta alle fughe di gas, alle possibili
esplosioni, agli incidenti sul lavoro. Anni dopo, durante una riunione sindacale
nell’apposito capannone del Petrolchimico (una delle conquiste dell’ “autunno caldo”),
si concretizzano i timori e le voci. Ma in qualcosa che nessun operaio lontanamente
sospettasse: il cancro.
8 La storia di Porto Marghera e della sua principale impresa è tristemente legata alla
morte di 157 operai, ai danni ambientali causati dalle industrie alla laguna, ai danni
fisici e morali subiti dalle famiglie dei lavoratori. Non solo: la storia della Montedison è
stata scritta anche dal processo penale che l’ha riguardata per anni. Il processo a
Marghera e tutto ciò che lo ha causato hanno rappresentato lo scontro tra la società
civile e i personaggi che erano a capo delle imprese, Eugenio Cefis in primis; la tensione
tra il diritto al lavoro e il diritto alla vita ma anche tra diritto penale, scienza e verità
storica.
9 Le denunce che portarono al processo del 1994 furono il risultato di una lunga serie di
tensioni e paure che andavano accumulandosi a Porto Marghera da più di venti anni:
del 1974 è la riunione sindacale in cui ai lavoratori venne per la prima volta esplicitata
la pericolosità della sostanza lavorata in alcuni stabilimenti del Petrolchimico.
Due anni prima, nel 1972, moriva Simonetto Ennio capo turno del famigerato
reparto CV 14-16 in cui veniva lavorato il CVM e, a detta del professor Cesare
Maltoni dipendente della Montedison, moriva di angiosarcoma epatico, raro tumore
associato alla suddetta sostanza15.
10 Cesare Maltoni, oncologo bolognese, fu sovvenzionato dalla Montedison per
approfondire le ricerche già effettuate da Luigi Viola per conto di un’altra industria, la
Solvay.
Quest’ultimo era partito dall’osservazione dei troppi casi di sindrome di Raynaud
riscontrati tra gli operai del CVM-PVC nello stabilimento di Rosignano nel corso dei
primi anni Sessanta. Le ricerche erano state condotte sui ratti e anche Maltoni
proseguì su questa strada confermando nel 1974 l’attribuzione della sindrome
proprio al CVM16.
11 Tornando a Simonetto Ennio, primo caso italiano, al momento della sua morte nessuno
aveva collegato l’angiosarcoma al CVM perché le ricerche di Viola non erano state rese
note ai lavoratori. Ma due anni dopo Maltoni durante l’assemblea nel capannone del
Petrolchimico, confermava sia tale associazione sia che le morti degli operai della
società B. F. Goodrich di Louisville negli Stati Uniti erano dovute anch’esse al CVM. Due
anni, ma in realtà molti di più, in cui gli altri autoclavisti come Simonetto Ennio
avevano continuato a lavorare immersi in quella sostanza tossica. Con queste parole
Renzo Marin, autoclavista, ricorda quel lavoro:
Al Cv6 si produceva il Pvc, una polvere di plastica, noi dovevamo fare il carico, lo
scarico e la pulizia delle autoclavi. Per pulire le incrostazioni ci facevano entrare
nelle autoclavi attraverso uno stretto boccaporto, eravamo imbracati, dall’esterno
un compagno ci teneva con una corda e era pronto a tirarci fuori nel caso qualcuno
si sentisse male o svenisse. Si entrava tramite una scala a pioli, si scendeva di circa
tre metri, l’interno era illuminato da una lampada che si agganciava alle pareti, la
temperatura raggiungeva i 40° C, le incrostazioni di plastica si formavano in
particolare sulle pale dell’agitatore e sui bocchettoni di entrata dei prodotti.
Bisognava toglierle con lo scalpello e battere con una certa forza. Restavi dentro
fino a che riuscivi a resistere, talvolta anche per quindici minuti. Le incrostazioni
emanavano una quantità impressionante di gas17.
12 Un altro autoclavista operaio della Montedison, era Gabriele Bortolozzo. Aveva lavorato
per venticinque anni nel reparto CV-6 e nel 1982 era stato spostato al CV 14-16. Mal
voluto sia dai sindacalisti sia dai dirigenti fu lui, assieme a Medicina Democratica, a
portare sul tavolo dell’allora Procuratore della Repubblica Felice Casson le denunce da
cui partirà il processo. Proprio Felice Casson riferisce del rapporto tra sindacati e
Bortolozzo, mettendo in luce la difficoltà di un singolo individuo che durante i primi
anni Ottanta
aveva cominciato a protestare, duramente, anche più della Commissione ambiente
del Petrolchimico e dei sindacati. Li aveva scavalcati e anche accusati di inerzia. Era
entrato in conflitto con tutti coloro che comandavano in fabbrica, da una parte (i
dirigenti) e dall’altra (i sindacati)18.
13 Difficoltà nel fare indagini, raccogliere dati e informazioni sui colleghi, tali e tanti da
poter sporgere denuncia contro l’impero di Eugenio Cefis. Bortolozzo non era
completamente solo, almeno non fuori dal Petrolchimico: Medicina Democratica ha,
dalla sua fondazione, sempre e conformemente a quanto prevede il suo statuto,
presentato esposti e denunce in relazione soprattutto al decesso di lavoratori esposti a
sostanze cancerogene. Tale associazione vede il suo fondatore in Giulio Alfredo
Maccacaro e
dalla fine degli anni Sessanta ad oggi si pone in continuità storica, culturale,
economica, scientifica, operativa e ideale con il Movimento di Lotta per la salute. Le
azioni portate avanti, tutte di carattere pacifista e non violento, vertono al pieno
rispetto e alla tutela dei diritti civili e dei diritti umani. In primis il diritto alla
salute (art. 32 della Costituzione) e il diritto all'ambiente (art. 9) vengono difesi ogni
qual volta essi siano violati attraverso una militanza volontaria e con azioni
concrete: promozione di iniziative sociali, culturali, politiche nonché con il ricorso
all'Autorità Giudiziaria19.
14 Gabriele Bortolozzo fu informato e formato, sostenuto, supportato in ogni singola
azione da Medicina Democratica e in nome di una giustizia sociale calpestata, rischiava
ogni giorno di subire forti ritorsioni da parte dell’azienda. Ad accompagnare in prima
persona Bortolozzo a sporgere denuncia fu proprio un esponente di Medicina
Democratica, Luigi Scatturin.
Raro esempio di professionalità e di passione civile (Casson), è stato un avvocato
membro di importanti collegi di difesa nazionali, costituiti per rilevanti processi
penali e civili negli anni '70/'80 patrocinando operai, studenti, forze politiche o
singoli imputati. Nel processo penale di primo grado contro Montedison, Enichem,
Montefibre, e in altri processi relativi al polo chimico di Marghera è stato difensore
delle Parti Civili (Medicina Democratica, Associazione Sindacale Lavoratrici/
Lavoratori Chimici della Federazione di Venezia), come di altre persone fisiche 20.
15 Con l’esposto di Scatturin e Bortolozzo, iniziano, da parte di Felice Casson, gli
accertamenti preliminari e le prime relazioni tecnico-scientifiche degli esperti
nominati dal Procuratore stesso. Nel novembre del 1996 viene dunque depositata dal
PM una richiesta di rinvio a giudizio «della quale colpisce una lista infinita di nomi: le
persone offese21». Assieme a loro, chiedono la costituzione di parte civile anche enti
pubblici e organizzazioni: comune, provincia, regione, WWF, Greenpeace, Lega
Ambiente, associazioni sindacali, Medicina Democratica.
16 Il processo, iniziato effettivamente il 3 marzo 1997, si è svolto sino alla Cassazione, la
cui sentenza fu emanata nel maggio del 2006; l’esito confermava la precedente sentenza
d’Appello (2004) e abbandonava definitivamente la motivazione che aveva voluto
l’assoluzione di tutti gli imputati in I° grado di giudizio. All’epoca della prima sentenza
la stampa, che aveva seguito il processo del secolo con attenzione crescente e di pari
passo all’aumentare della sensibilità collettiva rispetto al tema, riporta il grido che
aveva accompagnato in aula le parole del presidente della Corte 22:
Sconcertata la reazione dei presenti nel corso della lettura. Nei cinque minuti che
sono serviti al presidente del tribunale, Ivano Nelson Salvarani, per leggere le
decisioni dei giudici, nell'aula bunker si è scatenato il finimondo: familiari e
dipendenti del Petrolchimico hanno iniziato a urlare “vergogna, vergogna”; il
prosindaco di Venezia, Gianfranco Bettin, è scoppiato in lacrime 23.
17 Quando in Appello e in Cassazione venne ribaltata la sentenza con la condanna di
cinque dirigenti Montedison, si parlò non solo di giustizia ma anche di «sconfitta della
macchina giudiziaria24». Molte imputazioni caddero infatti in prescrizione e alle cinque
condanne se ne sarebbero aggiunte altre due se Eugenio Cefis e un suo alto dirigente
non fossero nel frattempo deceduti.
18 Il valore del diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione italiana veniva
ripristinato. Tra le cinque condanne quella di Emilio Bartalini, responsabile medico-
sanitario centrale della Montedison, potrebbe risultare la più agghiacciante dato che la
struttura sanitaria è preposta alla salvaguardia della salute dei lavoratori. Invece «se
qualcuno lamentava un piccolo fastidio al fegato, i medici di fabbrica ripetevano
sempre di bere meno»25.
19 Era iniziata così l’avventura del Petrolchimico: la promessa di uno sviluppo che avrebbe
portato benessere a tutti, concentrata nelle mani di pochi; è finita con il fallimento di
fronte alla storia e alla legge di quei pochi che avevano avuto tra le mani non solo una
promessa ma le vite di molti.
statistiche così elevate (superiori all’80-90%) da far ritenere che vi sia un’alta
probabilità che, dato un fenomeno F, si sia verificato anche F1 nel singolo caso. Anche
sul valore probatorio delle frequenze statistiche vi è una discussione di metodo e
sempre Stella, definito «maestro indiscusso della causalità» 31, sostiene che quando la
probabilità statistica non è elevata i processi non dovrebbero neanche iniziare. È ciò
che disse anche nel caso del processo a Marghera. Allo stesso tempo «le frequenze
statistiche basse o molto basse sono proprio quelle fornite dalle indagini
epidemiologiche sull’esposizione a sostanze tossiche»32 e sarebbe impensabile non
istruire quei processi che sulle indagini epidemiologiche si basano: da Porto Marghera
al processo Eternit (in questo ultimo caso morirono più tremila persone tra operai,
dirigenti, familiari e cittadini). Né si può pensare che l’unico criterio per stabilire se
esiste colpa sia quello della causalità: la Corte di Cassazione del processo alla
Montedison stabilì che anche se ci fossero stati solo dei dubbi (e ce ne erano molti) sul
nesso causa-effetto, bisognava comunque intervenire.
30 Dunque il punto non è se istruire processi o meno ma risiede nella valutazione delle
prove scientifiche da parte dei giudici. Un primo aspetto riguarda il contraddittorio:
scrive Paolo Tonini, Ordinario di Diritto Processuale Penale, che il contraddittorio
relegato apparentemente solo alla prova dichiarativa si deve e «si può fare anche sulla
scienza, valorizzando il confronto tra gli esperti sia nel selezionare i fatti rilevanti, sia
nell’applicazione delle leggi scientifiche a quei fatti. […] In sostanza il contraddittorio
va applicato anche alla prova scientifica»33. Evitando così il rischio di sussumere come
assolutamente certe valutazioni che hanno base scientifica.
31 La fase successiva al contraddittorio è quella della formulazione della decisione finale
sui fatti: anzitutto la decisione deve essere presa oltre ogni ragionevole dubbio.
Tale principio, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, rappresenta il
limite alla libertà di convincimento del giudice, apprestato dall’ordinamento per
evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti discrezionali,
soggettivi e confinanti con l’arbitrio; si tratta di un principio che permea l’intero
ordinamento processuale34.
32 A partire da questa base fondante, la scienza potrebbe essere uno strumento efficace
per arrivare a sentenziare oltre ogni ragionevole dubbio e proprio per questo
l’utilizzazione della scienza nella fase di decisione finale assume un rilievo
fondamentale. «È questa la fase del processo in cui il giudice si fonda sulle conoscenze
scientifiche acquisite al giudizio per accertare, e eventualmente valutare, i fatti della
causa»35.
33 Ed è questa la fase in cui il giudice deve fare i conti con il secondo problema dibattuto
tra i giuristi: «la perizia è ancora interpretata come una prova del giudice e gode di un
credito particolare di per sé»36. Ciò, continua Tonini, «ostacola il contraddittorio» ma
inoltre «si ripercuote immediatamente sulla motivazione e induce il giudice ad
appiattirsi sulla perizia, che, così, rischia di diventare un nuovo tipo di prova legale» 37.
Il professore è invece per la neutralità della prova scientifica «che è diventata la più
importante nel processo penale»38 e asserisce che essa deve essere considerata al pari
delle prove portate dalle parti (le consulenze) perché, a non essere neutrale, è lo
scienziato: «In verità, la scelta del metodo scientifico non è mai, in sé, neutra; dipende
dal singolo esperto, dalla sua competenza, dal laboratorio in cui opera […]» 39.
34 In tale complesso quadro, vale un principio fondamentale, ben esplicitato da Taruffo:
le conoscenze fornite dall’esperto, le sue informazioni, le sue valutazioni e le sue
opinioni, per quanto esse siano autorevoli, attendibili e influenti, non possono mai
considerarsi vincolanti per il giudice. L’esperto, […] non può mai sostituirsi al
giudice nella formulazione della decisione finale: […] il giudice conserva intatta la
sua discrezionalità nell’accertamento e nella valutazione dei fatti, in base al
principio fondamentale del libero convincimento40 del giudice stesso, che ormai da
tempo sta alla base di tutti gli ordinamenti processuali 41.
35 Se però il giudice utilizza i risultati delle prove scientifiche aderendo alle conclusioni
formulate dall’esperto (e ciò avviene a maggior ragione se parliamo di perizie), c’è il
rischio di una sorta di subordinazione del giudice alle risultanze della prova scientifica
e una sostanziale rinuncia dello stesso a esercitare la propria funzione autonoma di
controllo. «Il giudice non deve limitarsi a rinviare a ciò che è emerso dalla consulenza
tecnica o dalla perizia perché in questo modo egli evita di elaborare la propria
motivazione del giudizio»42.
36 Facendo il punto della situazione, le sentenze dei giudici all’interno dei processi penali
che prevedono prove scientifiche sono minate da: l’idea che la scienza sia fonte di
verità praticamente assoluta; il fatto che la prova scientifica sia spesso anche perizia
cioè valutazione “superiore” rispetto a quelle di parte.
37 Alla luce di tale complessa situazione, in che modo si mossero il PM Felice Casson e le
parti civili, gli avvocati della difesa e infine i giudici durante il processo a Porto
Marghera?
essendoci leggi generali certe non fosse verificato né verificabile dai dirigenti
Montedison il nesso causa effetto.
43 Proprio attorno alla dimostrazione dell’esistenza effettiva o non effettiva del rapporto
causa-effetto tra sostanza e carcinogenesi ruotano le perizie e gli studi riproposti nella
sentenza di I° grado, che seguì la linea della difesa dell’avvocato Stella.
44 La prima sentenza presenta i risultati degli studi epidemiologici, delle valutazioni di
rischio sulla base di modelli matematici, degli studi sui meccanismi molecolari e sulla
carcinogenesi. Gli studi epidemiologici hanno portato a inquadrare la tipologia dei
tumori (cancro del fegato, del polmone, del cervello, tumori del sistema
emolinfopoietico, cirrosi), il periodo in cui gli operai li avrebbero potuto contrarre. Gli
studi cui nella sentenza si fa maggior riferimento sono lo Studio Simonato (1991) e il
relativo aggiornamento di Ward-Boffetta (2000); gli Studi epidemiologici a Porto
Marghera (1991-1995) e il relativo aggiornamento del 1999.
45 Lo Studio Simonato partiva da studi precedenti sui roditori (Viola- Maltoni) e sull'uomo
(Crech-Jones-Wu), iniziò nel 1987 e rappresentava, con i suoi 12.706 casi esaminati, il
più ampio modello epidemiologico portato a termine sugli esposti a CVM. A differenza
del secondo è stato svolto non solo a Porto Marghera ma anche in altri paesi d’Europa
ma entrambi conclusero che l’associazione tra esposizione a CVM e tumore del fegato
sussistesse. Gli studi risultarono divergenti riguardo gli altri tre organi bersaglio: il
polmone, il cervello e il sistema linfatico. Lo studio Simonato evidenziò che non furono
colpiti dal CVM, lo studio a Porto Marghera riscontrò invece come fra gli insaccatori vi
fosse stato un incremento significativo del tumore polmonare.
46 Anche altri studi epidemiologici confermarono una forte associazione tra esposizione
lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato, nonché l’ insorgenza negli insaccatori del
tumore del polmone45.
47 L’aggiornamento da parte di Ward, Boffetta e altri estese lo studio Simonato per gli
anni Novanta giungendo agli stessi risultati; venne osservata inoltre l’insorgenza della
cirrosi senza evidenziare rischi significativi e anche nel caso del dicloroetano non
risultò alcun nesso con le neoplasie gastriche46.
48 Gli studi caso-controllo riguardanti i tumori e le malattie epatiche e polmonari dei
lavoratori di Porto Marghera durante gli anni Cinquanta e Sessanta, hanno confermato
che il CVM fosse la causa scatenante dei casi di angiosarcoma e epatocarcinoma 47 e
nonostante gli esperti avessero stabilito un nesso cogente tra malattia epatica e
esposizione al CVM, il Tribunale si basò sul parere dei periti e dei consulenti della difesa
concludendo che le epatopatie fossero associate non già all’esposizione a CVM, bensì a
consumo alcolico o a epatiti virali. Attraverso la diversa letteratura scientifica cui periti
e consulenti della difesa fecero riferimento il Tribunale sentenziò anche che a
determinare un aumento del rischio di tumore fossero il sovrappeso corporeo, il
diabete, la steatoepatite non alcolica, l'accumulo epatico di ferro e la celiachia.
Solamente la Sindrome di Raynaud fu riconosciuta come dovuta a microtraumi causati
da sostanze chimiche come il CVM.
49 Infine vennero presentate e accolte le valutazioni di rischio sulla base di modelli
matematici attraverso cui si specificava che sebbene non fosse possibile stabilire livelli
sicuri di esposizione, a livelli bassissimi non c’erano rischi significativi per la salute 48.
50 Il pubblico ministero nel corso dell'istruttoria dibattimentale mediante i suoi
consulenti tecnici introdusse il tema dei meccanismi molecolari attraverso i quali si era
visto che il CVM induceva non solo l'angiosarcoma ma anche l' epatocarcinoma 49. Il
Tribunale però non considerò queste analisi per le sue decisioni finali e ciò fu uno dei
motivi per cui il PM ricorse in Appello.
51 Dunque, passati in rassegna molto sinteticamente gli studi scientifici cui si fece
riferimento per la stesura delle sentenze, non rimane che esplicitare i parametri scelti
di volta in volta dai giudici per definire o meno l’esistenza della colpa 50.
52 La sentenza di I° grado si articola in più di duemila pagine in cui sono dettagliatamente
esposte le perizie e gli studi; nelle successive due sentenze sono riportate le doglianze
di accusa e difesa che vennero accolte o rifiutate ma soprattutto viene ridiscusso il
ragionamento del Tribunale. Esso venne a tal punto modificato nella sostanza che
l’assoluzione divenne condanna. Il ragionamento dei giudici di I° grado considerò la
colpa non attribuibile perché dalle perizie e dalle prove raccolte, emergeva che la
scienza non fosse arrivata a indicare con precisione il rischio del nesso CVM-tumore.
Nei successivi gradi del processo a Marghera non fu il nesso di causalità, tanto caro
all’avvocato della difesa Stella, ad essere determinante nell’attribuzione o meno della
colpa e dunque della pena ma il parametro del rischio; per comprendere l’iter logico
seguito nei tre gradi di giudizio e le sostanziali differenze, si ripercorre adesso la
sentenza di Cassazione: nella parte di fatto e di diritto i giudici riproposero il cardine
del ragionamento del Tribunale e concordarono con la Corte d’Appello nel ribaltarne le
conclusioni.
53 Il Tribunale, scrisse la Corte di Cassazione «rileva che la misura della diligenza dovuta
[dagli imputatati] è correlata alla prevedibilità dell’evento che deve essere riconosciuta
sulla base della migliore scienza e esperienza presenti in un determinato settore e in un
preciso momento storico»51. La prevedibilità deve riguardare un evento «che possa
concretamente e effettivamente verificarsi e non già un evento di contenuto generico o
realizzabile in via di mera ipotesi. La prevedibilità di un evento può essere formulata
solo allorquando […] sussistano leggi scientifiche di copertura le quali permettano di
stabilire che da una certa condotta possano conseguire determinati effetti» 52. Dunque,
continua la Cassazione, secondo il ragionamento seguito in I° grado: «non esiste
responsabilità per colpa quando l’agente non abbia la possibilità di rappresentarsi non
tanto gli esatti sviluppi dell’azione lesiva, ma certamente la tipologia delle conseguenze
cui il proprio eventualmente negligente operato può dar luogo»53. Infine sempre il
Tribunale sostenne che
l’adeguamento del datore di lavoro alle nuove conoscenze scientifiche deve essere
tempestivo ma sarà esigibile nel momento in cui le stesse abbiano raggiunto un
grado adeguato di consistenza e di solidità, cioè allorquando sia stato conseguito un
patrimonio scientifico consolidato, alla luce degli organismi internazionali operanti
in materia. Deve quindi escludersi, secondo il Tribunale, l’esistenza della colpa
perché l’evento tumore è divenuto prevedibile soltanto nel 1974 e, da quell’epoca in
poi, la Montedison adottò tutti gli opportuni interventi per eliminare o ridurre al
minimo le esposizioni54.
54 Il secondo grado di giudizio ribaltò però le suddette conclusioni affermando che
il parametro di valutazione nella colpa è il rischio e non è richiesto che l’agente
conosca i meccanismi causali della sostanza. A differenza che nella causalità la
prevedibilità va valutata con riferimento alle nozioni conosciute o conoscibili
all’epoca in cui la condotta è stata posta in essere55.
55 Alla luce di questi principi la Corte d’Appello ritenne errato il percorso seguito dalla
sentenza di I° grado:
Conclusioni
61 Si vuol concludere questa analisi, che risente dei limiti imposti dall’ingente quantità di
documenti da consultare e della loro specificità tecnica, con le parole di Gianfranco
Bettin, uno dei protagonisti di questa vicenda, ringraziandolo per l’intervista
rilasciatami.
Porto Marghera doveva rappresentare lo sviluppo capitalistico di Venezia, Lei ha scritto in
Petrolkiller che è stata comunque una straordinaria avventura industriale e scientifica oltre
che umana. Ad una decina d’anni dalla sentenza definitiva, come rivive il disastro causato
dalle industrie e quell’avventura?
[…] Si può anche mettere nel conto che un secolo e più fa quando si è deciso
l’insediamento, non ci fossero i criteri che abbiamo noi oggi, oppure si può anche
capire l’ingenuo entusiasmo in cui un po’ tutti, compresi i lavoratori, hanno accettato
lo sviluppo industriale come elemento di progresso e anche di propria personale
emancipazione da una condizione di povertà; si può persino capire la resistenza nel
cogliere gli elementi distruttivi e persino devastanti che quel modello aveva in sé da
parte di chi ne era beneficiato secondo la logica di prima: l’idea del progresso,
l’emancipazione dalla povertà… se ne sentiva beneficiato ma ne era anche vittima
come abbiamo scoperto ben prima del processo ma sancito dal processo. Questi
schemi mentali, culturali, anche politici, li si può capire ma per esempio è impossibile
assolvere chi, sapendo che un certo modo di organizzare la produzione e di esporre i
lavoratori ai suoi effetti, aveva conseguenze anche letali, ha nascosto. Mentre
appunto il discorso di prima per me è accettabile sulla base del quadro storico, degli
elementi culturali e anche delle forme politiche di allora, quando invece queste cose
sono emerse, attestarsi sulla difesa secca con qualche aggiustamento del modello e
niente più, quando erano evidenti i danni provocati direttamente sui lavoratori, per
me è inaccettabile. Penso che questi dieci anni o più che ci separano dalla sentenza
abbiano consentito di digerire un poco questi elementi e che oggi si possa parlare a
mente più fredda.
Secondo Lei, se posso parlare di una persona scomparsa, Maltoni come ricorderebbe quel
periodo? Con amarezza?
Un po’ sì. Io l’ho visto qualche volta. Mi sembrava una persona sicura di sé, delle
proprie opinioni e della correttezza del proprio agire quindi in questo senso
tranquillo con se stesso. Però abbastanza amareggiato col resto del mondo scientifico.
Proprio per questa vicenda. Non potrei dire di averlo sentito dire cose pesanti o
meglio, cose pesanti sì ma non dirette del tipo: sono venduti! Però una chiara
consapevolezza della dipendenza del mondo scientifico dai finanziamenti
dell’industria chimica, per il legame che ha con l’industria farmaceutica e medica in
generale, certamente l’aveva e l’ha detto.
L’analisi del processo a Marghera qui presentata ha voluto porre in evidenza il
rapporto tra scienziati, scienza, dirigenti delle imprese e applicazione della legge. La
sentenza finale ha sancito la vittoria di quest’ultima, precedentemente messa in
pericolo. Ma il processo non ha riportato in vita i lavoratori morti nelle fabbriche,
vittime del tempo utilizzato per cercare di subordinare fino all’ultimo, la salute degli
uomini alle conoscenze scientifiche. L’incertezza della scienza, che ha bisogno dei
suoi tempi per arrivare a dei risultati concreti non può divenire incertezza della vita,
giustificazione della morte. Se ciò avviene quella stessa subordinazione non deve
essere estesa tra chi ha il compito di ristabilire la giustizia attraverso la legge.
NOTE
1. ROVERATO, Giorgio, La terza regione industriale in LANARO, Silvio (a cura di), Storia d’Italia. Le
regioni dall’Unità ad oggi. Il Veneto, Torino, Einaudi, 1984, pp. 193.
2. CHINELLO, Cesco, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia 1951-1973, Roma,
Editori Riuniti, 1975, p. 14.
3. La prima legge a istituzionalizzare la composizione del Consorzio è la n. 1233 del 20 ottobre
1960; essa conferisce piena legittimità anche alle opere realizzate precedentemente. Oltre ai
proprietari delle singole industrie (insieme a G. Volpi altri otto privati), vengono nominati a
contribuire economicamente: la Camera di commercio, industria e agricoltura di Venezia; il
comune di Venezia; la provincia di Venezia e il Provveditorato al porto di Venezia.
4. Il 28 giugno 1883 entrò per la prima volta in funzione in Italia la centrale termoelettrica che
inaugura il servizio di distribuzione pubblica dell’energia elettrica. Con sede a Milano, l’Edison si
espanse notevolmente dal primo dopoguerra in avanti anche ad altri settori, in particolare quello
chimico.
5. BARIZZI, Sergio, RESINI, Daniele (a cura di), Portomarghera. Il Novecento industriale a Venezia (cd-
rom), Venezia, Vianello Libri, 2004, p. 251.
6. La Montecatini nasce nel 1888 a Firenze per lo sfruttamento delle miniere di rame del posto;
nel 1910 si orientò verso l’industria chimica in particolare nella produzione di fertilizzanti
necessari all’agricoltura. Nel 1936 insieme allo Stato italiano fondò l’ANIC per la produzione di
benzina e la raffinazione del petrolio.
7. ZUCCONI, Guido, Marghera e la scommessa industriale veneziana, in ADORNO, Salvatore, NERI
SERNERI, Simone (a cura di), Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree
industriali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 145-146.
8. CERASI, Laura, Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Milano,
Franco Angeli, 2007.
9. BETTIN, Gianfranco, DIANESE, Maurizio, Petrolkiller. In appendice i documenti segreti delle aziende
chimiche, Milano, Feltrinelli, 2002.
10. BARIZZI, Sergio, RESINI, Daniele (a cura di), Portomarghera, cit, p. 253.
11. CHINELLO, Cesco, Storia di uno sviluppo capitalistico cit., p. 53.
12. Ibidem.
13. Ibidem.
14. Intervista realizzata da DE GHANTUZ CUBBE, Marina, il 7 marzo 2014 presso il Municipio di
Mestre.
15. CASSON, Felice, La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera, Milano, Sperling &
Kupfer, 2007, p. 27.
16. Ibidem, p. 28.
17. SACCAROLA, Antonella, Pensando a Marghera. Il luogo e la memoria: viaggio in forma di interviste-
racconti, Treviso, Alcione, 2006, p.51.
45. Studi della coorte USA; studi di Waxweiler, Storevedt-Heldaas, Jones, Wu, Comba-Piratsu-
Chellini e del NIOSH.
46. Studi di Hogstedt (1979); Austin (1983); Olsen (1997); NCI.
47. Studi di Gennaro; Mastrangelo; Martines; Popper; Pinzani .
48. Relazioni del prof. Zapponi e dell’Enviromental Protection Agency.
49. La parte relativa alle perizie e agli studi scientifici si trova integralmente nella sentenza di I°
grado scaricabile dal sito e in particolare nella sezione ENICHEM capitolo EPIDEMIOLOGIA e
CAUSALITÀ. URL:
<http://ivdi.it/Petrolchimico/home_petrolchimico.htm> [consultato il 20 agosto 2014].
50. La colpa è il criterio di attribuzione soggettiva della responsabilità penale che si contrappone
al dolo in quanto è caratterizzato dall' assenza della volontà di alcuno o di tutti gli elementi
del fatto tipico. […] La colpa può essere specifica o generica; la sentenza finale accusò gli imputati
di colpa generica perché essa consiste in un comportamento imprudente, un'azione, cioè, che,
secondo le massime d'esperienza, non doveva essere compiuta o doveva esserlo in guisa
differente; un comportamento non diligente e, cioè, l'omissione di un atto dovuto secondo le
prescrizioni delle massime d'esperienza; un'imperizia e, cioè, un comportamento imprudente o
non diligente per violazione di regole tecniche da parte di soggetti particolarmente qualificati.
URL:
<http://www.diritto-penale.it/la-colpa.htm> [consultato il 20 agosto 2014].
51. Sentenza presente in estratto in Cass. sez. IV pen. 6 febbraio 2007, n. 4675 in Cassazione penale,
2009.
52. Ibidem.
53. Ibidem.
54. Ibidem, p. 49.
55. Ibidem, p. 62.
56. Esso recita che: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell'impresa le misure
che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
57. Cass. sez. IV pen. 6 febbraio 2007, n. 4675 cit., p. 62.
58. Ibidem, p. 277.
59. Ibidem, p. 282.
60. Ibidem, p. 286.
61. Ibidem, p. 287.
62. Ibidem, p. 290.
RIASSUNTI
Lo chiamavano Morto Marghera. Il polo sito a Mestre, accanto alla bella Venezia è stato almeno
dal 1917 scenario di uno sviluppo industriale fondamentale per l’Italia. Porto Marghera ha
ospitato aziende come la Montedison che ha costruito qui la sua fortuna. La promessa di un
futuro migliore anche per i lavoratori e per le famiglie che da tutta Italia vi approdavano si è
trasformata nella morte di 157 operai. Le sostanze che lavoravano li avevano uccisi. La storia di
Porto Marghera si sposta così nelle sentenze di un discusso processo in cui la “verità” della prova
scientifica rischia di prevalere sulla giustizia. Gianfranco Bettin in un’intervista ritorna con la
mente al processo: “è impossibile assolvere chi, sapendo di esporre i lavoratori a effetti letali, ha
nascosto”.
It was called Morto Marghera. By the beautiful Venice, Porto Marghera has been since 1917 the
area where a very important italian industrial development has taken place. It was the industrial
estate where for example the Montedison company has empowered itself. The promise of a
better future was the reason why a lot of workers and families moved here from all Italy. But
after the seventies and the worker’s struggles the expectation moved in tragedy: 157 workers
dead, killed by the substance they handled. Porto Marghera’s history shifts through a lawsuit in
which the “truth” of scientific evidence risks to crush the justice and italian laws. In an interview
Gianfranco Bettin recall the process: “it’s impossible to absolve who, knowing that workers were
exposed to lethal effects, has hid”.
INDICE
Keywords : industrial pollution, Montedison, Porto Marghera, safety at work, workplace death
Parole chiave : inquinamento industriale, Montedison, morti sul lavoro, Porto Marghera,
sicurezza sul lavoro
AUTORE
MARINA DE GHANTUZ CUBBE
Ha conseguito la laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università la Sapienza. Studia
Scienze storiche presso l’Università di Bologna con particolare interesse per la storia e il diritto
del lavoro. Attualmente collabora con l’associazione Articolo 21.
Costanza Zanasi
1. Introduzione
«Quando si tratta di far valere «i diritti», è appunto la giustizia lo strumento adatto
sia a convincere l’opinione pubblica che a smuovere le istituzioni in favore della
propria causa. Al contrario quando ci si trova di fronte a episodi di tipo repressivo –
si tratti di un’indagine penale, di un arresto o di un processo – il diritto dà modo di
difendersi, […] di divenire parte di un procedimento giudiziario 1.
2. La fabbrica
5 All’inizio del ventesimo secolo, nel 1906, a Casale Monferrato (AL) sorse una nuova
industria: l’Eternit.
6 Lo stabilimento fu costruito a Casale Monferrato, anche se la società che sovrintendeva
alla sua gestione aveva sede a Genova, dove era stata fondata il 6 gennaio 1906 3.
7 L’Eternit era una fabbrica nata allo scopo di tradurre in produzione industriale il
brevetto di Ludwig Hatschek, un austriaco che nel 1901 aveva creato una formula di
cemento amianto battezzata Eternit dal latino aeternitas. Quel materiale, infatti, creato
aggiungendo una piccola percentuale di amianto a un impasto di acqua e cemento era
ritenuto indistruttibile. L’amianto, che era molto diffuso nella vicina cava di Balangero,
è un minerale altamente resistente e flessibile allo stesso tempo; ha un’ampia
resistenza termica e può arrivare anche a 500 gradi, inoltre resiste all’azione di agenti
chimici e biologici, all’abrasione e all’usura.
8 Questa nuova sostanza rivelò da subito le sue enormi potenzialità in campo industriale:
poteva, infatti, essere impiegata per innumerevoli applicazioni quali tubi, lastre e foglie
in cemento-amianto, mattonelle per pavimentazioni, frizioni, freni e prodotti vari per
attrito, guarnizioni, filtri per bevande, tute, coperte, guanti antincendio, pannelli
fonoassorbenti e isolanti, vernici, rivestimenti, stucchi, feltri, tegole, fioriere, sedie da
spiaggia e molto altro.4
9 L’Eternit iniziò a espandersi molto rapidamente, e proprio a questo si deve la creazione
dello stabilimento monferrino, sorto come costola di una società, la Schweizerische
Eternitwerke Ag, fondata da un commerciante svizzero Alois Steinmann, allo scopo di
tradurre in produzione industriale il brevetto di Hatschek.
10 Lo stabilimento di Casale Monferrato si estendeva per circa 96.000 chilometri quadrati,
era proprietà dell’ingegner Adolfo Mazza che nel 1906 aveva costituito la società Eternit
Pietra Artificiale Società Anonima, poi Eternit Spa mantenendone la direzione fino al
1952. In seguito l’azienda passò sotto la gestione belga della famiglia Emsens-De Cartier
che la gestì dal 1952 al 1972. Nel 1972, l’Italia fu colpita da una grave crisi, in seguito
alla quale la famiglia Emsens, che non riusciva più ad assolvere la gestione dell’azienda
vendette la sua quota alla famiglia svizzera Schmidheiny che amministrò l’Eternit fino
alla sua chiusura nel 19835.
11 La fabbrica di Casale Monferrato è diventata nota al panorama internazionale non tanto
per la sua produzione, quanto per le innumerevoli morti sul lavoro che hanno scandito
gli ottant’anni di vita dell’Eternit.
12 Nella cittadina di Casale Monferrato gli stabilimenti erano due: il magazzino in Piazza
d’Armi e la fabbrica di via Oggero6.
13 Dal 1906, anno d’apertura della fabbrica, fino al 1980 tutti i rifornimenti di materie
prime, ossia l’amianto sfuso proveniente dalle miniere di Africa, Russia, Canada,
Brasile, arrivavano in treno prevalentemente dal porto di Genova; i prodotti finiti
compivano invece il percorso inverso. Le strade di Casale, quindi erano percorse
quotidianamente da camion che disperdevano nell’aria nuvole di polvere d’amianto,
elemento ormai familiare per i casalesi.
14 L’amianto sfuso, contenuto in sacchi di juta, veniva scaricato manualmente collocato su
carretti destinati ai singoli reparti di lavorazione7. Quindi veniva accumulato in silos
elevatissimi da cui gli operai dovevano estrarre con dei forconi le matasse d’amianto.
Quest’operazione doveva essere eseguita il più rapidamente possibile, la massa fibrosa,
infatti, veniva giù di colpo e con una forza tale da far cadere in terra una persona.
L’operaio doveva poi addentrarsi nella nuvola di polvere per recuperare il carico da
mandare alla lavorazione. Altri addetti erano impiegati alle sfilacciatrici, macchine
impiegate per ovattare l’amianto grezzo al fine di renderlo più amalgamabile nella
lavorazione del cemento. Poi attraverso alcuni ventilatori, l’amianto veniva soffiato in
un altro ambiente della fabbrica, all’interno di grandi tubi. Una volta che anche questo
locale era pieno, gli addetti dovevano entrarvi e rimettere con i forconi l’amianto
semilavorato all’interno dei carrelli.
15 Tutta la lavorazione dell’amianto avveniva all’interno di una nebbia fitta di
microscopiche fibre di quel materiale, che aumentò nelle quantità di lavorazione con
l’automazione dei processi di lavorazione. Agli operai destinati a lavorare a stretto
contatto con l’amianto era riconosciuta qualche piccola indennità in busta paga anche
se non aveva ancora preso piede la cultura della salute nei luoghi di lavoro. Le
condizioni dei lavoratori Eternit non migliorarono nemmeno in epoche più recenti
quando anche gli operai stessi iniziarono a preoccuparsi per la polvere che respiravano
quotidianamente8.
16 Nel 1947 l’INAIL riconobbe il primo caso di asbestosi (una tosse secca di cui erano affetti
quasi tutti gli operai) contratta da un dipendente. Nonostante l’accertamento da parte
dell’INAIL, il massimo che si riuscì ad ottenere fu qualche punto d’invalidità e soltanto
dopo una certa soglia della malattia. Con il trascorrere degli anni gli operai si
ammalavano e sempre di più coloro che avevano lavorato all’Eternit morivano di una
forma di cancro che qualcuno cominciò a definire «il tumore di Casale» 9. Anche in
assenza di un’indagine epidemiologica era ormai chiaro che vi fosse un nesso molto
preciso tra la polvere della fabbrica e quelle malattie polmonari. Non passava settimana
senza che comparisse un nuovo manifesto funebre per la morte di un ex operaio
Eternit.
17 A partire dagli anni Settanta si capì chiaramente che lavorare all’Eternit poteva costare
anche la vita. Anche diversi membri della dirigenza, che avevano ostinatamente negato
qualsiasi nesso tra amianto e tumori iniziarono a preoccuparsi, specie quando
costatarono che il tumore non faceva differenze tra tute blu e colletti bianchi. Il
mesotelioma, una forma tumorale che si accanisce contro la pleura, la membrana che
riveste i polmoni e poi produce metastasi che aggrediscono gli altri organi e le ossa,
uccise un ex dirigente, che aveva vissuto addirittura sopra la fabbrica, e molti altri tra i
quadri e i dirigenti dell’Eternit di Casale.
3. La battaglia sindacale
18 Nel novembre del 1974, Nicola Pondrano entrò all’Eternit e appena due mesi dopo
diventò portavoce del consiglio di fabbrica. Con l’inizio del suo mandato si aprì una
nuova fase che coincise con una svolta importante nella battaglia sindacale in materia
di salute dei lavoratori. A tracciare il primo solco di quella nuova fase di attività
sindacale fu padre Bernardino Zanella, un prete operaio che proveniva da altre
esperienze in aziende con problemi di nocività ambientale e che aveva già avviato
un’indagine conoscitiva sulle condizioni di lavoro e sui cicli produttivi della fabbrica 10.
A fare da sponda esterna al giovane e battagliero Consiglio di Fabbrica del 1979 si
associò anche il nuovo segretario della Camera del lavoro di Casale Monferrato, Bruno
Pesce.
19 Nel 1979 con Pesce alla guida del principale sindacato e Pondrano nel cuore del
Consiglio di Fabbrica, la battaglia sindacale crebbe vistosamente con continue
assemblee, rivendicazioni e un’indagine ambientale scientificamente attendibile,
conquistata dopo un investimento di 87 ore di sciopero. Fu realizzato uno studio,
affidato alla Clinica del lavoro di Pavia e si protrasse per una quarantina di giorni.
Entrando in certi reparti la vista era terribile: sacchi sventrati accatastati ovunque,
filtri ormai del tutto otturati dalle fibre di amianto, uomini ricoperti da quella sottile
patina bianca. Nonostante l’evidente inquinamento l’indagine non portò a risultati
sostanziali, i cambiamenti si limitarono a piccole modifiche nei cicli produttivi per
ridurre la polverosità e al peggioramento dei rapporti sindacali con l’azienda che
introdusse anche elementi di ricatto con l’obiettivo di dividere il fronte operaio. Pesce e
Pondrano, Cgil e Inca, però, proseguirono la loro battaglia.
5. Il percorso legislativo
24 Il 2 Dicembre del 1987 Riccardo Coppo, all’epoca sindaco di Casale Monferrato emise
un’ordinanza che vietava l’uso dell’amianto18 nell’ambito del territorio comunale di
Casale Monferrato. L’ordinanza emessa da Riccardo Coppo, sanciva per la prima volta in
Europa il divieto con decorrenza immediata dell’impiego di lastre di cemento-amianto e
di altri manufatti di amianto nelle costruzioni di qualsiasi genere, il divieto
dell’utilizzazione per qualsiasi uso, di materiale anche residuo a precedenti processi di
produzione,contenenti fibre di amianto e che, in caso di rimozione e smaltimento di
materiali contenenti fibre di amianto le ditte esecutrici avrebbero dovuto attenersi alle
norme tecnico-sanitarie stabilite. Grazie alla caparbietà dei Casalesi e all’impegno di
CGIL, CISL e UIL nazionali, nel 1992 viene approvata la legge che mette al bando
l’amianto anche a livello nazionale, vietandone19 l’estrazione, la commercializzazione e
la produzione di manufatti. Non solo: stabilisce anche un programma di dismissione,
con un termine ultimo fissato al 28 aprile 1994, termine che purtroppo si rivelerà
simbolico senza essere effettivamente rispettato.
25 Il risultato di una legge a livello nazionale contro l’amianto, è nato dopo un grande
lavoro di squadra reso possibile grazie all’impegno di molti fronti tra cui Medicina
Democratica20 che ha contribuito, insieme ai suoi esperti, ad affiancare diversi
parlamentari nella presentazione di proposte di legge riguardo problemi dell’ambiente
e di lavoro e della sanità, collaborando per una proposta di legge sulla messa al bando
dell’amianto. Questa proposta di legge è poi confluita nel rispettivo testo unificato da
cui è uscita la sopracitata legge 257/92 per la cessazione dell’impiego dell’amianto e
questa legge oltre il sostegno di MD vanta quello dell’Associazione Esposti Amianto e di
un deputato di Democrazia Proletaria che partecipò alla presentazione come prima
firmataria della proposta di legge: Bianca Guidetti Serra 21.
26 Bianca Guidetti Serra, poi, prenderà nuovamente parte alla vicenda Eternit in veste di
avvocato. Il legale torinese infatti sarà proprio la prima ad offrire il proprio aiuto. Con
il piglio ereditato dall’esperienza partigiana, Bianca accorre volontaria quando si tratta
di difendere sindacalisti e lavoratori dalle accuse da strada (i tipici postumi da
manifestazioni e cortei) e seguirà questa vicenda fino al processo contro l’azienda.
Arriva anche Sergio Bonetto che insieme all’esperienza forense porta con sé un passato
di collaborazione stretta con la Cgil, sempre dal punto di vista dell’assistenza legale. La
pattuglia di legali al fianco di Casale cresce. Dallo studio Guidetti Serra arriva il
supporto dell’avvocato Anna Fusari,dallo studio Bonetto arriva Bruno Lasagno, da
Alessandria l’avvocato Oberdan Forlenza e da Genova Paolo Pissarello.
27 Nel 1993, quasi in concomitanza con la legge nazionale contro l’amianto arriva un
primo riconoscimento giuridico, bisogna però aspettare fin al 1997 prima che la Corte
di cassazione renda definitiva le condanne a sei dirigenti italiani dell’Eternit, ma per un
solo caso di morte e con pene molto miti.
6. Le parti civili
28 In un processo molto vasto che ha visto la presenza di duemilanovecentosessantanove
vittime, innumerevoli sono anche le parti civili. L’INAIL si è costituita parte civile con
l’entrata in vigore del decreto di legge n. 81/2008 articolo 61 comma 1, secondo cui «in
caso di esercizio dell’azione penale per i delitti d’omicidio colposo o di lesioni personali
colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro o relativo all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia
professionale»
22
. Inoltre si è costituita parte civile per vedersi rimborsare «le erogazioni previdenziali
corrisposte a lavoratori vittime di malattie professionali causate da fatti di reato
perseguibili di ufficio»23. Le richieste di risarcimento hanno coinvolto anche l’istituto
INPS le cui erogazioni hanno riguardato due diverse categorie di lavoratori: coloro che
hanno contratto la malattia professionale a causa dell’esposizione all’amianto e coloro
che sono stati semplicemente esposti per un periodo superiore a dieci anni 24. I due
imputati Louis De Cartier De Marchienne e Stephan Schmidheiny sono stati inoltre
condannati a risarcire, in quanto parti civili, la Regione Piemonte, Provincia di Torino,
Provincia di Alessandria, i Comuni di Casale Monferrato, Mirabello, Monferrato,
Morano sul Po, Coniolo, Villanova Monferrato, Pontestura, Balzola e Ozzano
Monferrato, l’Asl di Alessandria, la Regione Emilia Romagna e il Comune di Rubiera 25.
29 La Regione Piemonte si è costituita parte civile anche per le ingenti spese dovute alle
bonifiche nell’area di Casale Monferrato e Cavagnolo e per gli interventi sanitari attuati
in materia di patologie di asbesto correlate. Il Comune di Casale Monferrato ha
acquisito lo stabilimento dopo la sua chiusura e oltre alla sua bonifica ha provveduto a
bonificare tutti gli edifici pubblici e a censire gli edifici privati. Per la bonifica del solo
stabilimento, il Comune di Casale ha affrontato una spesa di 4.700.000 euro, la bonifica
dei tetti di Casale ha richiesto una spesa di 12.700.000 euro e la bonifica della sponda
destra del Po, contaminata dalle scorie di amianto è costata 700.000 euro 26.
30 L’Asl di Alessandria ha assunto «la qualità di soggetto danneggiato sia in relazione al
pregiudizio arrecato al territorio e alla popolazione dai fatti oggetti del processo, sia in
relazione al discredito della sfera funzionale, alla frustrazione degli scopi e alla perdita
di prestigio dell’ente derivante dalle condotte illecite degli imputati. Discredito della
sfera funzionale certamente aggravato da una lesione della salute pubblica destinata, a
causa della lunga latenza del mesotelioma, a protrarsi, se non acuirsi nei prossimi
decenni»27. L’impressionante numero di lesioni e decessi nella provincia di Alessandria
a causa dell’esposizione di lavoratori e cittadini ha comportato un rilevantissimo
impiego di risorse umane, materiali ed economiche finalizzate al sostegno sanitario e
psicologico dei malati, allo sviluppo di iniziative finalizzate a ridurre il rischio di
esposizione nonché al monitoraggio delle neoplasie correlabili all’amianto.
31 Gli imputati De Cartier e Schmidheiny sono stati inoltre condannati al risarcimento dei
danni a favore di CGIL Piemonte, la Camera del Lavoro di Alessandria e ALLCA
Nazionale CUB28 (l’Associazione Lavoratrici e Lavoratori chimici affini). Gli imputati
sono stati condannati a risarcire la UIL di Alessandria, la UIL Piemonte e la Uil Regione
Campania;devono inoltre risarcire le associazioni delle vittime già riconosciute come
parte civile nel processo: AFEVA, AIEA e MEDICINA DEMOCRATICA 29. Anche il WWF
«può considerarsi soggetto danneggiato dal reato in conseguenza della lesione diretta
delle proprie finalità istituzionali e della vanificazione delle risorse umane e finanziarie
impiegate nella tutela dell’ambiente contro l’inquinamento […] essendo tale
associazione portatrice di interessi collettivi territorialmente determinati, lesi dai fatti
illeciti contestati agli imputati»30.
32 Uno per uno in aula vengono pronunciati 6300 nomi: sono le parti civili, che devono
essere risarcite e a ciascuno viene associato il nome del coniuge scomparso. La lettura
dell’intero dispositivo richiede poco più di tre ore e comprende anche il lunghissimo
elenco dei risarcimenti: 100 mila euro andranno ai sindacati, 4 milioni al comune di
Cavagnolo, 15 milioni all’Inail, 5 milioni all’Asl, 20 milioni alla regione Piemonte, 25
milioni al Comune di Casale Monferrato, 100 mila euro all’Associazione vittime
dell’amianto, 30 mila euro a ciascuno dei parenti delle vittime decedute, 35 mila euro
ad ogni ammalato, per un totale che si avvicina ai 100 milioni di euro.
si rivolse all’avvocato Bonetto, ma non giunse mai al processo perché morì prima che
fosse celebrato35.
38 Sergio Bonetto prese parte come legale di parte civile anche al processo Thyssenkrupp
in veste di uno dei legali dei 48 ex colleghi delle vittime del rogo di Torino che, insieme
ai sindacati, non hanno ritirato la costituzione di parte civile anche se sono già stati
risarciti dall’azienda. Il fatto accade nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Nello
stabilimento Thyssenkrupp di Torino avviene un incidente. Da un vascone fuoriesce
una quantità di olio bollente in pressione che in pochi minuti sviluppa un incendio. Non
è la prima volta che accade un incidente simile, ma stavolta è un rogo. Gli operai
cercano di avvisare la sicurezza ma vengono travolti dal fuoco. Un lavoratore perde la
vita dopo pochi minuti, altri sei nei gironi successivi.
39 Il procedimento di primo grado si è aperto il 15 gennaio 2009 nel palazzo di Giustizia di
Torino. Secondo l’accusa l’amministratore delegato della multinazionale tedesca,
Harald Espenhahn, conosceva le carenze nella sicurezza dello stabilimento, ma aveva
stabilito di posticipare i lavori di adeguamento. In ottantotto udienze vengono ascoltati
centinaia di testimoni da entrambe le parti, con l’obiettivo di stabilire le responsabilità
su una delle maggiori tragedie sul lavoro della storia italiana. Il 4 novembre 2009
l’amministratore delegato Harald Espenhahn è stato interrogato per tre ore. Alla fine
Guariniello ha chiesto: «Gli operai deceduti hanno fatto tutto quello che dovevano
fare?». Espenhahn ha dichiarato: «È una domanda molto difficile alla quale
rispondere». L’ad stava per aggiungere qualcosa, ma Guariniello l’ha interrotto: «Basta
così». Dopo una serie di ulteriori sedute, e diversi rinvii dovuti ai tempi della giustizia, è
iniziata la requisitoria dei pm: Guariniello, pubblico ministero anche nel processo
Eternit, ha chiesto 16 anni e mezzo di reclusione per Espenhahn, 13 anni e 6 mesi per
quattro dirigenti, 9 anni per il quinto36.
40 Sergio Bonetto mantenendosi fedele alle cause che hanno costellato la sua lunga
carriera rappresenta anche oltre 300 delle circa 6 mila parti civili del maxi-processo
Eternit, inoltre ha richiesto un risarcimento danni per il cosiddetto «danno da
esposizione» all’amianto. Questo provvedimento è stato riconosciuto per la prima volta
in Italia (è contemplato nell’ordinamento giudiziario di altri Stati, come per esempio la
Francia) creando un precedente per l’ordinamento giuridico del nostro paese.
41 Bonetto ha richiesto un risarcimento di diecimila euro per ognuno dei suoi assistiti,
tutti residenti nelle zone di Cavagnolo (Torino) e Casale Monferrato (Alessandria) dove
si trovavano gli stabilimenti Eternit «Il tempo di esposizione si può quantificare
mediamente in 20 anni» dice il legale. La richiesta quindi è di circa 60 milioni per i soli
clienti dell’avvocato Bonetto37. L’impegno dell’avvocato torinese non termina però con
la chiusura del processo, infatti il legale ha preso parte insieme agli altri avvocati di
vittime dell’amianto alla creazione di una ONG.
42 Questa ONG si chiamerà Interforum e si batterà contro i crimini industriali
internazionali È stata presentata a Torino il giorno dopo la condanna degli ex vertici
della Eternit, dal presidente dell’organizzazione, Jean-Paul Teissonière, dal segretario
Sergio Bonetto e dall’avvocato belga Jan Fermont. Questa ONG è nata dopo l’esperienza
Eternit in cui molti avvocati si trovarono a lavorare in paesi diversi sulle responsabilità
penali dell’Eternit ciascuno per conto proprio. Poi, con l’inizio dell’inchiesta e durante
il processo i legali hanno iniziato a collaborare scambiando idee e documenti,
conseguendo risultati nei rispettivi paesi. Il gruppo tra i suoi primi obiettivi si impone
quello di esportare il modello torinese. L’avvocato Jean-Paul Teissoniére afferma «in
Italia si considera quanto accaduto un crimine collettivo con gravità penale, mentre in
Francia e in Belgio no, perché l’ordine pubblico non è stato danneggiato. Da noi la
definizione di disastro ambientale non c’è, non si incrimina per un reato alla
collettività, ma per il singolo omicidio colposo. Ci sono molti problemi e crimini
industriali sul pianeta. Bisogna completare il puzzle delle responsabilità delle
multinazionali». Bonetto fa un esempio: «Vogliamo essere molto pratici. Sceglieremo i
casi di rilevanza internazionale, come la questione dei rifiuti speciali inviati verso
l’Africa o l’India, dove le istituzioni non sembrano interessate ad agire. Cercheremo di
ricostruire i diversi tasselli in modo da avere un quadro concreto da presentare alle
autorità». «Non siamo in grado di affrontare tutti i problemi del mondo, ma proveremo
a ottenere qualcosa. Per tentarci gli avvocati, i giuristi, ex magistrati (tra cui Mario
Vaudano, ex consigliere giuridico all’OLAF, ufficio europeo contro le frodi) di
Interforum puntano a usare vari metodi, dalla formulazione di leggi e l’ideazione di
istituzioni internazionali capaci di perseguire questi reati, fino al sostegno giuridico
delle vittime di disastri industriali». Noi abbiamo un vantaggio – afferma Bonetto –,
senza una gerarchia siamo più agili e spontanei, contiamo di superare così le differenze
di patrimonio38.
8. Un nuovo processo
43 Una nuova speranza per pene più giuste arriva nel 2003. In quell’anno infatti si
ripresenta la questione Eternit su segnalazione di Enzo Merler, medico di Padova che da
tempo stava svolgendo un’indagine epidemiologica su ex lavoratori di origine italiana
della sede svizzera Eternit, a Niederumen, che si erano ammalati di mesotelioma,
cancro maligno della pleura e del peritoneo causato dalle polveri di amianto 39. Merler
segnala al procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, che si era già occupato a
lungo di disastri ambientali il caso specifico di un operaio, che dopo essere tornato nel
capoluogo piemontese, era morto di mesotelioma a distanza di anni.
44 In breve tempo, si mobilitano tutti i Comuni dove Eternit aveva operato in Italia, a
partire da Casale Monferrato, sede dello stabilimento più vecchio, sino a giungere alla
stesura di un maxiesposto accompagnato da una corposa documentazione medica, che
testimonia la morte e la malattia di un migliaio di persone.
45 Il 22 Dicembre 2004 a Torino l’avvocato Sergio Bonetto si reca al palazzo di giustizia
seguito dai colleghi Anna Fusari, Paolo Pissarello, Oberdan Forlenza, il legale dell’Inca
Massimo Di Celmo Bruno Pesce e Nicola Pondrano e con l’appoggio incondizionato di
Bianca Guidetti Serra.
46 Gli avvocati presentano alla cancelleria un esposto - denuncia di 56 pagine dove sono
elencati i danni subiti, le cause che li hanno provocati e i nomi di coloro che hanno
permesso che tutto avvenisse, i proprietari del colosso mondiale: i fratelli svizzeri
Thomas e Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis de Cartier de Marchienne.
47 Stephan Schmidheiny all’epoca dell’apertura del dibattimento era rappresentante
dell’Onu per lo sviluppo sostenibile, inoltre è stato consigliere di Bill Clinton, docente di
globalizzazione per alcune università pontificie, ha due lauree ad honorem negli Stati
Uniti, è ideatore della “Swatch”, filantropo pluripremiato con 1,5 miliardi di dollari
devoluti in beneficienza. A ventisei anni ha ereditato la guida del gruppo Eternit
ramificato in 72 paesi. Schmidheiny è consapevole dei danni provocati dall’amianto, ma
non ha mai considerato l’ipotesi di essere stato responsabile della tragedia di Casale
9. I capi d’accusa
54 Schmidheiny e de Cartier sono chiamati a rispondere alla giustizia italiana per due capi
di imputazione. Il primo risponde all’articolo 437 del Codice Penale, ossia «per aver
omesso di collocare impianti, apparecchi e segnali destinati a prevenire malattie-
infortunio e in particolare, patologie da amianto (carcinomi polmonari, mesoteliomi
pleurici e peritoneali, asbestosi o patologie absesto correlate di natura non tumorale)
presso gli stabilimenti di Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli, Rubiera e per aver
omesso di adottare idonei impianti di aspirazione localizzata, idonei sistemi di
ventilazione dei locali, sistemi di lavorazione dell’amianto a ciclo chiuso, volti a evitare
la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione dell’amianto; idonei apparecchi
personali di protezione, organizzati sistemi di pulizia degli indumenti da lavoro
all’interno degli stabilimenti; con l’aggravante che dal fatto derivano più casi di
malattia-infortunio in danno di lavoratori addetti presso i suddetti stabilimenti ad
operazioni comportanti esposizione incontrollata e continuativa ad amianto, e deceduti
o ammalatisi per patologie riconducibili ad amianto» 40.
55 Il secondo capo d’imputazione riguarda l’articolo 434 del Codice penale «per aver
commesso fatti diretti a cagionare un disastro e dai quali è derivato un pericolo per la
pubblica incolumità, e per aver omesso di adottare i provvedimenti, tecnici,
organizzativi, procedurali,igienici necessari per contenere l’esposizione all’amianto» 41.
56 I vertici Eternit, infatti, avrebbero dovuto farsi carico di «attuare provvedimenti che
comprendessero impianti d’aspirazione localizzata, adeguata ventilazione dei locali,
utilizzo di sistemi a ciclo chiuso, limitazione dei tempi d’esposizione, procedure atte a
evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione delle sostanze
precedentemente elencate, sistemi di pulizia degli indumenti di lavoro in ambito
aziendale.
57 Inoltre sono accusati di aver omesso di curare la fornitura e l’effettivo impiego di idonei
apparecchi personali di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo
sanitario mirato sui rischi specifici da amianto, di informarsi e informare i lavoratori
medesimi circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e circa le misure per ovviare a
tali rischi; in aree private e pubbliche al di fuori dei predetti stabilimenti fornito a
privati e a enti pubblici, e mantenuto in uso materiali di amianto per la pavimentazione
di strade, cortili, aie, o per la coibentazione di sottotetti di abitazione civile,
determinando così un’esposizione incontrollata, continuativa e a tutt’oggi perdurante,
senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei predetti materiali.
58 Vi è stata per giunta un’esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività
ludiche, presso le abitazioni private dei lavoratori con omissione di organizzare la
pulizia degli indumenti in ambito aziendale; non è stata organizzata la pulizia degli
indumenti in ambito aziendale, in modo da evitare l’indebita esposizione ad amianto
dei familiari conviventi e delle persone addette alla predetta pulizia.
59 Vi è l’aggravante che il disastro è avvenuto in quanto l’amianto è stato immesso in
ambienti di lavoro e ambienti di vita su vasta scala e per più decenni, mettendo in
pericolo e denunciando l’integrità fisica sia di un numero determinato di lavoratori sia
di popolazione causando il decesso di un elevato numero di lavoratori e di cittadini
[...]»42.
60 In aula il procuratore Guariniello poi riassume di nuovo le responsabilità dei due eredi
delle famiglie proprietarie dell’Eternit e cita i provvedimenti che furono imposti alle
industrie dell’amianto: «sostituzione del materiale, apparecchi chiusi, apparecchi
muniti di aspirazione di raccolta delle polveri, inumidimento del materiale, separazione
delle lavorazioni pericolose o insalubri, sistemi adeguati di pulizia dei locali di lavoro,
deposito e scarico adeguato di rifiuti o altri materiali insalubri, armadi separati, servizi
igienico-assistenziali idonei (primo fra tutti doccia e refettorio adeguati), adeguata
informazione e formazione dei lavoratori circa i rischi specifici ed i modi di prevenire i
danni derivanti da questi rischi, fornitura, impiego capillare, manutenzione di mezzi
personali di protezione appropriati e resistenti, accertamenti sanitari preventivi
periodici e non burocratici, ma mirati sul rischio specifico e idonei a scongiurare il
passaggio dallo stato di salute allo stato di malattia» 43.
61 Con il passaggio dalla gestione belga a quella elvetica, in realtà si era verificato qualche
miglioramento passando da una lavorazione a ciclo secco a una a ciclo umido, con una
riduzione della polvere sollevata e quindi una minore minaccia per i polmoni. Questa
miglioria però non era dovuta a un nuovo impulso improntato sulla sicurezza, ma era
una scelta inevitabile per la sopravvivenza del colosso svizzero. All’epoca infatti si
erano già diffuse nell’opinione pubblica alcune informazioni sulla pericolosità
dell’amianto. La nuova minaccia per la società svizzera non arrivava più dall’amianto, i
cui effetti negativi erano noti da tempo, ma dal fatto che ormai la sua pericolosità fosse
nota anche all’opinione pubblica.
62 Quindi pur di continuare a produrre e ad avere profitti, gli svizzeri scelsero di
difendere la tesi dell’uso controllato dell’amianto e di piegarsi a qualche miglioria.
63 Qualcosa di simile accade anche con le pulizie, sommarie e inadeguate. Gli strumenti
messi a diposizione dall’azienda per rimuovere i chili di polvere annidati ovunque
erano semplicemente delle scope. Vi furono molte proteste, ma chi faceva attività
sindacale era redarguito con mansioni punitive come le pulizie dei filtri o del vascone
dell’amianto.
elenco dei risarcimenti: 100 mila euro andranno ai sindacati, 4 milioni al comune di
Cavagnolo, 15 milioni all’INAIL, 5 milioni all’ASL, 20 milioni alla regione Piemonte, 25
milioni al Comune di Casale Monferrato, 100 mila euro all’Associazione vittime
dell’amianto, 30 mila euro a ciascuno dei parenti delle vittime, 35 mila euro ad ogni
ammalato, per un totale che si avvicina ai 100 milioni di euro.
69 Schmidheiny e De Cartier sono finalmente condannati, ma per il novantunenne belga
(deceduto il 21 maggio 2013) questa condanna rappresenta solo un fastidio nominale,
molto più pesante è l’effetto che il verdetto avrà sulla vita e l’immagine di Stephan
Schmidheiny.
70 Sergio Bonetto, l’avvocato che ha accompagnato fin dai primi momenti il gruppetto di
Casale, diventato una folla sempre più grande, a sentenza avvenuta dice: «Ora è una
verità giudiziaria: quello che è accaduto non è figlio di nessuno, ma è figlio dei consigli
di amministrazione di grandi gruppi internazionali» 46. È emozionato anche Riccardo
Coppo, l’ex sindaco, l’uomo che nel 1987 ebbe il coraggio di firmare l’ordinanza che
proibì l’uso dell’amianto.
71 «Non ero da solo, però ho agito con la soddisfazione di aver messo l’istituzione al
servizio della collettività, non bastava la chiusura dell’Eternit bisognava dare un
segnale concreto»47.
72 Pietro Condello, l’ex operaio che ha seguito le 66 udienze sempre indossando la sua
vecchia tuta blu rilascia interviste a raffica: «La pena è giusta ma non riesco ad essere
contento, perché non c’è denaro né galera che possa ripagare quelli che sono morti. Se
non li condannavano, allora mi sarei sentito umiliato. Diciamo che oggi non sono
umiliato e non sono contento»48.
73 Il 3 giugno 2013 è stata emessa la sentenza di appello, con la quale la Corte d’Appello di
Torino ha non soltanto confermato, ma aumentato la pena inflitta a Stephan
Schmidheiny a 18 anni di carcere. La medesima Corte d’Appello di Torino ha sancito il
non luogo a procedere per Cartier de Marchienne per sopravvenuto decesso
dell’imputato.
Conclusione
74 Nel 1995 il Comune di Casale Monferrato ha acquisito lo stabilimento che occupava
96.000 metri quadri, la bonifica dello stabilimento Eternit è finora l’unico intervento di
bonifica di un vasto insediamento portato a termine in Italia, lo stabilimento casalese,
era il più vasto d’Europa. Oltre alla bonifica dello stabilimento si è rivelato necessario
procedere alla bonifica di tutto il territorio cittadino. Fino alla fine degli anni Ottanta, il
materiale prodotto dall’Eternit era considerato ottimo materiale isolante per i
sottotetti, era utilizzato per la ricopertura dei cortili e più in generale come materiale
di riempimento e potendo essere reperito a costo zero dai cittadini era impiegato in
quantità elevatissime, per questo il comune ha attivato numerose aree di bonifica
anche in molte zone della città. Un altro intervento che ha comportato grandi sforzi da
parte dell’amministrazione casalese ha riguardato l’intervento sulla sponda destra del
fiume Po. Questo intervento si era reso necessario perché i detriti dispersi da un canale
di scarico dell’Eternit avevano creato una vera e propria spiaggia ricoperta da
vegetazione spontanea, contaminata da amianto in polvere o in fibre misto alla sabbia,
un luogo che era stato frequentato a lungo dalla popolazione casalese. Depurare
totalmente l’area della fabbrica e le molte aree del paese si è rilevato molto complesso,
ancora oggi continuano ad essere denunciati nuovi siti urbani in cui sono state rilevate
tracce d’amianto e ancora oggi le persone continuano ad ammalarsi di mesotelioma
pleurico.
75 Daniela Degiovanni, la giovane dottoressa che aveva dato per prima un grande
contributo all’apertura del processo insieme ai due sindacalisti Nicola Pondrano e
Bruno Pesce, oggi è oncologa e primario dell’hospice di Zaccheo di Casale Monferrato,
struttura nata per accogliere i malati terminali di Casale. In questa struttura solo nel
2012 sono stati accolti 35 nuovi malati, e questo è un numero in difetto perché non tutti
i malati di mesotelioma hanno scelto di andare a morire in quella struttura. La ricerca è
ai suoi primi passi, per questo a differenza di altri tumori la diagnosi precoce, non
allunga le speranze di vita, ma solo la consapevolezza della malattia. Gli epidemiologi
sostengono che il picco della malattia ci sarà nel 2020, poi ci saranno quindici,
vent’anni di stabilità e poi la curva della malattia comincerà a decrescere.
76 L’amianto è fuori legge sul suolo nazionale dal 1992, e nel comune di Casale dal 1987.
Questo non basta ancora però ad assicurare che l’amianto finisca la sua strage. È ancora
legale in moltissimi paesi, come Cina, India,Indonesia, Usa, Canada. Nel mondo, ancora
oggi, oltre cento milioni di persone lavorano a stretto contatto con l’amianto. La strage
di questo minerale killer sembra inarrestabile, la battaglia di Casale però, seppur impari
ha portato ad enormi risultati grazie agli sforzi e all’impegno di pochi uomini. Questo
induce a sperare che anche nei paesi dove l’amianto è tutt’ora legale si possa arrivare al
suo completo disuso.
NOTE
1. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 3.
2. Ibidem, p. 22.
3. ROSSI, Giampiero, Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo Editore, 2012, p.
53.
4. ROSSI, Giampiero, La lana della salamandra. La vera storia della strage dell’amianto a Casale
Monferrato Roma, Ediesse, 2008, p. 48.
5. Tribunale di Torino, sezione I, sentenza del processo Eternit 13 febbraio 2012, pp. 212-222.
6. ROSSI, Giampiero, La lana della salamandra. La vera storia della strage dell’amianto a Casale
Monferrato Roma, Ediesse, 2008, p. 51.
7. Ibidem, p. 51.
8. Ibidem, p. 53.
9. Ibidem, p. 58.
10. ROSSI Giampiero, op. cit., p.60
11. Nicola Pondrano oggi è presidente del Fondo Nazionale vittime amianto
12. URL: <http://www.afeva.it/files/brasilia_pesce_2010.pdf> [Consultato il 29 luglio 2014]
13. ROSSI Giampiero, op. cit. p.70
14. URL: <http://www.afeva.it/files/storiaeternit.pdf> [consultato il 2 ottobre 2014].
15. GUIDETTI SERRA, Bianca, Bianca la rossa, Torino, Einaudi, 2009, p. 221.
RIASSUNTI
Questo articolo si concentra sulla vicenda relativa alla presenza dell’Eternit a Casale Monferrato.
L’Eternit nacque ad inizio Novecento e divenne rapidamente una delle industrie più importanti
della zona, attirando moltissimi lavoratori. L’Eternit produceva cemento-amianto, un materiale
ad altissima resistenza termica, adatto per innumerevoli scopi, ma allo stesso tempo molto
pericoloso. L’inalazione di questo minerale poteva portare a malattie respiratorie e, nel peggiore
dei casi, a un tumore che portava a morire dopo sei mesi/un anno di incubazione. Questo fattore
generò un altissima mortalità non solo tra gli operai, ma anche nel resto della popolazione civile.
Negli anni Settanta iniziarono le prime lotte sindacali che, dopo anni di indagini, porteranno ad
un processo nei confronti dei responsabili della strage.
This essay is focused on the story of the Eternit factory in Casale Monferrato. Eternit was
estabilished in the beginning of the 20th century, becoming one of the most important local
factories drawing lots of workers. Eternit produced asbestos cement, a type of material with a
high heath resistance. Useful for many things but very dangerous at the same time, in fact
breathing the mineral could bring respiratory deseases or in worst cases cancer that brought to
death after six months. This causes a high rate of mortality not only among workers but also in
the population. In the seventies the unions started the first protests which developed in the trial
of the people responsible of the slaughter.
INDICE
Keywords : asbestos, Casale Monferrato, Eternit, safety at work, workplace death
Parole chiave : amianto, Casale Monferrato, Eternit, morti sul lavoro, sicurezza sul lavoro
AUTORE
COSTANZA ZANASI
Ha conseguito la Laurea triennale in Lettere Moderne presso l’Università di Bologna; è iscritta al
secondo anno del corso di Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’università di Bologna.
URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#Zanasi
8 Prima di affrontare l’analisi della seconda funzione occorre chiarire meglio quale sia
per Marx il rapporto tra il diritto e lo stato. Lo stato marxiano è uno strumento di classe
multiforme nato anch’esso come conseguenza dello sviluppo di determinati rapporti di
produzione. Esso sarebbe quindi un elemento sovrastrutturale la cui forma
dipenderebbe dal diritto costituzionale (come lo chiameremmo noi oggi) e la cui
funzione ultima sarebbe quella di mantenere lo status quo socio economico mediante
l’utilizzo della forza. Tutto ciò e ben sintetizzato all’interno di un passo tratto dall’
Ideologia tedesca riportato nell’Antologia di Cain e Hunt
Their personal power is based on conditions of life which as they develop are
common to many individuals, and the continuance of which they, as rulling
individuals, have to mantain against others and, at the same time, to mantain that
they hold good for everybody. The expression of this will, which is determined by
their common itrests, is the law8.
9 La funzione coercitiva del diritto è quindi contenuta, almeno in parte, all’interno del
diritto penale. La funzione principale di tale branca del diritto sarebbe quella di
impedire lo sviluppo di eventuali ostacoli al processo di accumulazione capitalistica.
Alcuni articoli tratti dalla «Neue Rheinische Zeitung» raccolti sotto il titolo di La
borghesia e la contro-rivoluzione, contengono un passo in cui e ben sintetizzato il
contenuto di questo paragrafo
But if the people obstinately stuck to their purpose, very well, than he would
“strengthen the state”, the police, the army, the courts, the bureaucracy, and would
set his bears on them, for “trust” had become a “business question”, and:
“Gentleman, business is business!”9.
10 L’interpretazione del diritto come elemento sovrastrutturale in grado di mistificare la
reale natura dei rapporti di produzione venne approfondita da Engels e ripresa dai
protagonisti del recupero del concetto gramsciano di egemonia durante gli anni
Settanta, per queste ragioni essa verrà trattata in seguito.
11 Dopo aver osservato la natura sovrastrutturale di almeno due delle funzioni del diritto
individuate dal Marx scienziato, resta da considerare il ruolo, ben descritto nella
famosa introduzione a Per la critica dell’economia politica e in parte contenuta
nell’antologia di Cain e Hunt, che il diritto gioca all’interno di tale sovrastruttura; esso
sarebbe una particolare sovrastruttura ben distinta sia dalla sovrastruttura ideologica
che da quella scientifica (le due principali forme della coscienza sociale).
The sum total of these relations of production constitutes the economic structure of
society, the real foundation, on which rises a legal10 and political superstructure and
to which correspond definite forms of social consciousness 11.
Poche righe dopo Marx prosegue con
[...] a distinction should always be made between the material transformation of the
economic conditions of production, which can be determined with the precision of
natural science and the legal, political, religious, aesthetic or philosophic, in short,
ideological forms in which men became conscious of this conflict and fight it out 12.
12 In questa seconda citazione sembrerebbe contenuta una contraddizione relativa
all’inserimento del diritto all’interno della sfera delle ideologie dalla quale sembrava
appena essere stato escluso. In realtà, una spiegazione potrebbe risiedere nella
distinzione tra forma e contenuto13 delle norme giuridiche; è infatti possibile che Marx
ritenesse il contenuto del diritto come non ideologico14, e la sua forma, una forma
ideologica15.
20 La trattazione leniniana sul tema del diritto può essere divisa in due parti. La prima
parte comprende, in piena continuità con Marx, la riflessione teorica sul ruolo del
diritto all’interno, sia della formazione economico-sociale capitalistica, sia
dell’ipotetica società senza classi. Tali riflessioni sono contenute nel principale testo
politologico di Lenin: Stato e rivoluzione.
21 In esso Lenin, nel tentativo di ricollegarsi alla teoria dello stato presente in Marx ed
Engels, ribadì la natura sovrastrutturale del diritto costituzionale e la sua funzione di
strumento di oppressione nelle mani delle classi dominanti 27. Fatto ciò, l’autore
proseguì illustrando il ruolo e i mutamenti ai quali il diritto borghese sarebbe andato
incontro nell’ottica di un mutamento rivoluzionario della società (prendendo come
esempio l’esperienza della Comune di Parigi). Secondo Lenin e Marx, infatti,
un’eventuale rivoluzione proletaria avrebbe avuto come risultato sul fronte giuridico
solamente quello di mutare il diritto privato (come lo chiameremo noi oggi) in diritto
“collettivo”, permettendo così la socializzazione dei mezzi di produzione 28.
22 Dall’analisi dell’esperienza della Comune di Parigi, risultò infatti evidente
l’impossibilità di un immediato superamento di tutto il diritto borghese. Infatti,
riprendendo ancora una volta Marx, Lenin sostenne che, a rivoluzione avvenuta,
sarebbe rimasto comunque ancora da risolvere il problema del superamento di quella
parte del diritto borghese necessaria alla regolamentazione della distribuzione della
ricchezza sociale.
La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e
l’uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e differenze ingiuste; ma non sarà
più possibile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, poiché non sarà più
possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione,
fabbriche, macchine, terreni, ecc29.
23 Secondo Lenin ci si sarebbe trovati infatti di fronte a una distribuzione della ricchezza
basata ancora sulla quantità del lavoro fornito (quindi meritocratica) e non sulla base
delle reali necessità dei singoli individui. Tutto ciò servì a Lenin come punto di
partenza per una breve riflessione sulla natura mistificatoria del diritto borghese.
24 Egli, una volta constatata la natura puramente formale dell’uguaglianza proclamata dal
diritto borghese, insieme con Marx ed Engels, criticò tale uguaglianza in tutte le sue
forme. La proclamazione dell’uguaglianza giuridica apparì a Lenin come insensata a
causa della disuguaglianza di fondo tra gli individui (e le classi) soggetti a tale diritto.
Per Lenin la natura mistificatoria del diritto risiederebbe quindi nel suo tentativo di
mascherare le diseguaglianze strutturali, ponendo tutti gli individui in una situazione
di formale uguaglianza giuridica30.
25 La seconda parte della riflessione leniniana ha natura prettamente pratica e consiste in
una serie di affermazioni che consentono di ricostruire una bozza di teoria dello
sfruttamento del diritto in ottica rivoluzionaria (quindi restando comunque lontano
dall’interpretazione riformista). La maggior parte di tali affermazioni sono presenti in
una lettera inviata a Elene Stasova, segretaria del partito di San Pietroburgo, e in alcuni
testi minori. Dall’analisi di questi documenti si possono evincere i lineamenti
fondamentali di una teoria, trattata in modo più approfondito nella sezione dedicata a
Marcel Willard, dell’”autodifesa rivoluzionaria”.
26 Il 19 gennaio del 1905, nel tentativo di rispondere ad una lettera inviata dalla Stasova e
contenente domande sul modo in cui comportarsi nei confronti di alcuni militanti
rivoluzionari detenuti a Mosca, Lenin, pur ricordando al mittente che non si trattava di
modo creare dei giudici in grado di emettere sentenze sotto la sola guida dalla loro
“coscienza socialista”, infatti, il giudice così inteso non sarebbe stato sottoposto al
controllo del partito unico.
34 A questa proposta si oppose fermamente Vyšinskij. Egli sostenne la necessità di
sottoporre l’attività dei giudici al controllo del partito. Nella costituzione del 1936
venne ripresa questa seconda concezione del diritto penale e al partito unico venne
riconosciuto il ruolo di guida38.
35 Sul tema del codice penale sovietico e dell’origine delle norme in esso contenute, si
scontrarono i due giuristi Michail Rejsner e Pëtr Stučka. Secondo Rejsner, all’origine del
codice post rivoluzionario ci sarebbe stato il cosiddetto diritto di classe intuitivo.
Rejsner riprese tale categoria giuridica da Petrażycki per indicare il diritto delle classi
rivoluzionarie, opposto al diritto positivo, sorto sulla base dello sviluppo della
contraddizione fondamentale tra forze produttive e modo di produzione 39.
36 Il giurista sovietico pervenne a tale conclusione ragionando sul diritto inteso come
“forma ideologica”. Nel far ciò egli però non tenne conto della distinzione tra forma e
contenuto del diritto, riflessione che invece si pose alla base della teoria elaborata da
Stučka.
37 Quest’ultimo, non comprendendo a fondo la modifica applicata da Rejsner alla
categoria petrażyckiana, si oppose fermamente al suo utilizzo. Infatti egli, oltre a
promuovere la distinzione tra forma e contenuto del diritto, affermò l’impossibilita
dell’utilizzo della categoria di diritto intuitivo ai fini della ricostruzione del
fondamento del diritto rivoluzionario40.
38 Come sostenne Guastini, tutte queste teorizzazioni, con l’avvento di Stalin, lasciarono il
posto al dogmatismo delle teorie di Vyšinskij, funzionali alla progressiva
centralizzazione del potere, richiesta per la gestione dell’economia politica staliniana 41.
39 In conclusione, all’interno della realtà sovietica degli anni Trenta si affermò una
concezione del diritto generale, e in particolare del diritto penale, che sostanzialmente
tentò di renderlo subalterno alle decisioni del potere politico centrale. Tale tentativo di
“controllare” il potere giuridico da parte delle forze “rivoluzionarie” si manifestò
anche negli stati dell’Europa occidentale. In questo diverso contesto istituzionale, in cui
le forze rivoluzionarie dovettero confrontarsi con legislazioni che spesso ne sancirono
l’illegalità, tale tentativo prese la forma della cosiddetta “avvocatura comunista”.
40 Essa si sviluppò all’interno della tradizione politica stalinista del partito comunista
francese. Il principale teorico di tale coniugazione del lascito leniniano fu Marcel
Willard42, avvocato comunista francese fondatore dell’Association Juridique
Internationale43.
41 Nel 1938, Willard scrisse un testo intitolato La defense accuse 44, all’interno del quale,
sulla base del contenuto della lettera a Elena Stasova, teorizzò la figura dell’avvocato
votato alla causa rivoluzionaria. Sulla base di quest’opera sorse buona parte dell’azione
giuridica (penale) dei partiti stalinisti dagli anni Trenta agli anni Settanta del secolo
scorso. Nel testo, dopo aver interpretato come eccesso di modestia il consiglio di Lenin
di non prendere troppo sul serio il contenuto della sua lettera 45, Willard stilò una sorta
di “decalogo” del comportamento di un rivoluzionario di fronte alla giustizia borghese
Defendre sa cause et non sa personne.
Assurer soi-même sa défense politique.
Se montrer physiquement et politiquement courageux.
Ne pas renseigner l’ennemi sur ce qu’il doit ignorer.
Essi misero in relazione l’evoluzione della forma della pena con le dinamiche del
mercato del lavoro55.
Così, se in un’economia schiavistica si verifica una situazione di scarsità di offerta di
schiavi a fronte di una domanda pressante, diverrà difficile ignorare la schiavitù
come metodo punitivo56.
48 Alla luce di quanto sinora detto, è possibile sostenere che la Scuola di Francoforte, con
la sua analisi storiografica, tentò di rafforzare le teorie marxiste precedenti dotandole
di un certo spessore empirico. Nel fare ciò però essi si limitarono alla conoscenza
critica, che la loro opera ampliò indubbiamente, allontanandola però dalla funzione
rivoluzionaria che aveva avuto, seppure con accezioni diverse, nella riflessione
giuridica (marxista) precedente.
61 Ribaltando totalmente il significato della lettera di Lenin, come già accaduto in Francia
grazie all’opera, prima di Willard e poi di Verges, il Soccorso rosso
se distinguait aussi par la revendication d’un rôle militant exercé par les «
intellectuels specifiques », entendus dans le sens foucaldien du terme, parmi
lesquels les avocats étaient des gures saillantes. Ceux-ci devaient mettre leur savoir
au service de la classe ouvriere, en reconnaissant le rôle hégémonique, et en même
temps revendiquer l’utilité de leur contribution à la lutte des classes 69.
62 Come si può osservare dunque, anche in Italia, la lettera di Lenin diede il via ad un
parabola che, partendo dalla figura dell’“avvocato comunista” e passando per quella
dell’“avvocato militante”, giunse alla giustificazione dell’attività professionale di quegli
stessi avvocati, nella veste “definitiva” di intellettuali specifici, che Lenin nella famosa
lettera aveva definito reazionari.
63 Parallelamente a questi sviluppi più pratici, alcuni giuristi legati alla rivista «La
Questione criminale» misero in moto un recupero delle teorizzazioni scaturite
dall’opera di Rusche e Kirchheimer. I principali esponenti della ripresa di questo
dibattito furono Dario Melossi e Luigi Ferrajoli.
64 Il dibattito tra Melossi e Ferrajoli si sviluppò attorno al problema dell’origine della
proporzionalità tra pena e reato. Melossi, che in questo riprese sia i francofortesi che
l’analisi di Pašukanis, sostenne, nella sua introduzione all’opera francofortese, che
l’origine della proporzionalità fosse da ricercare nella «retribuzione equivalente della
forza-lavoro», a sua volta basata sul «avoro umano astratto misurato dal tempo». In
sostanza è riassunto in questi termini il tentativo di sfruttare la teoria del valore-lavoro
nella sua versione marxiana, come base sulla quale teorizzare la succitata
proporzionalità. Quindi, secondo Pašukanis, citato da Melossi, la privazione della
libertà «è la forma specifica in cui il diritto penale moderno [...] realizza il principio
della retribuzione equivalente»70.
65 L’autore sostenne questo punto di vista in critica nei confronti dei contenuti di un
articolo di Ferrajoli e Zolo, apparso un anno prima, nel 1977, tra le pagine di «La
questione criminale»71. In tale articolo i due autori, avvicinandosi alle teorie kelseniane,
ritennero di poter intravedere già negli ordinamenti penali dell’antichità, come per
esempio nelle XII Tavole, tale «criterio della commisurazione della pena all’entità
dell’offesa»72.
66 Secondo Melossi, invece, alla base della natura multiforme della pena detentiva vi
sarebbe il tentativo da parte delle classi dominanti di imporre un certa “antropologia
borghese” attraverso l’esportazione al di fuori delle mura della fabbrica della disciplina
del lavoro73.
67 In conclusione, questa ripresa italiana del lascito francofortese tese allo confutazione di
alcune critiche mosse nei suoi confronti e al tentativo di ampliamento dello stesso.
Melossi infatti sostenne la complementarità delle due cause succitate; mercato del
lavoro e disciplina dovrebbero quindi essere intese, secondo il giurisperito, come due
facce della stessa medaglia74.
68 Nel corso degli anni Settanta si osservò in Europa lo sviluppo di una serie di
interpretazioni del rapporto tra diritto e materialismo dialettico, la cui peculiarità fu
quella di tentare, per la prima volta nella storia della tradizione marxista successiva a
Lenin, di analizzare il diritto evitando di porre tutta l’enfasi sul suo carattere
coercitivo75. Tali interpretazioni riportarono il dibattito ad un livello di astrazione
superiore a quello che aveva caratterizzato molte delle riflessioni precedenti, infatti, la
maggior parte di queste scuole di pensiero si concentrò sulla natura e sulle funzioni del
diritto costituzionale piuttosto che su quelle del diritto penale. Una prima
interpretazione76 che mosse in questa direzione fu quella portata avanti in Germania-
ovest da Tuschling, Sauer e Hirsh, sulle orme dell’elaborazione di Pašukanis, volta a
intendere lo stato come strumento di classe borghese in grado di difendere interessi
interclassisti e di mediare le transazioni di mercato al fine di permettere
l’accumulazione capitalistica.
69 Sulla base di questa impostazione, i tre autori summenzionati elaborarono tre teorie in
parte divergenti e in parte convergenti tra di loro, conosciute con il nome di Capital-
logic. Oltre all’impostazione teorica, i tre autori ripresero da Pašukanis anche il metodo
idealista di analisi che li portò a scegliere un punto di partenza altamente astratto dal
quale fare derivare logicamente concetti sempre più concreti77.
70 Burkhard Tuschling, dopo aver individuato la peculiarità del diritto borghese
nell’istituzionalizzazione della totalità delle relazioni sociali, ampliò il punto di
partenza della teoria di Pašukanis. Egli infatti tentò di derivare la forma del diritto
borghese dalla stessa sfera della produzione, andando così oltre il livello della
circolazione al quale si era fermato il giurista sovietico 78. Nonostante questa differenza
tra i due teorici, anche Tuschling concluse il proprio lavoro sostenendo la neutralità
dello stato capitalista. Le due ragioni che indussero il teorico in tale direzione furono: la
sua capacità di andare contro gli interessi di classi altre rispetto al proletariato, come
quelli della piccola-borghesia e il suo tentativo di limitare il carattere di sostanziale
disuguaglianza alla base dello sfruttamento capitalistico della forza-lavoro 79.
71 Dieter Sauer aggiunse all’elaborazione tuschlingiana una tipologia degli interventi
statali volti al mantenimento o al raggiungimento delle condizioni necessarie
all’accumulazione. Il sociologo individuo quattro tipi di interventi statali: gli interventi
atti a modificare la struttura legale delle relazioni di scambio, quelli atti alla modifica
delle condizioni in cui si sviluppano i conflitti di interesse, quelli a supporto della
riproduzione privata e quelli volti alla fornitura del materiale necessario a garantire la
riproduzione privata80.
72 Il terzo autore, Joachim Hirsch, pur ponendosi in linea con le interpretazioni sinora
analizzate, riportò, almeno parzialmente, il discorso verso una maggiore enfasi sulla
funzione coercitiva dello stato. Hirsch infatti riuscì a inserire, all’interno di un contesto
culturale che ritenne sostanzialmente neutrale l’azione dello stato, come quello del
Capital-logic, alcuni elementi in grado di confutare questa posizione. Secondo l’autore
infatti, lo stato valicherebbe costantemente il dominio della legge agendo al di fuori di
essa per mantenere intatte le condizioni necessarie all’accumulazione capitalistica.
Hirsch sostenne la necessaria duplicità della natura dello stato: libertà, uguaglianza e
dominio della legge da un lato, violenza e ragione di stato dall’altro 81.
73 Riassumendo, le tre interpretazioni riportate, pur essendo sorte all’interno della
tradizione marxista inaugurata da Pašukanis, da essa si allontanarono nel momento in
cui giunsero, in virtù del metodo idealista di analisi adottato dai loro autori, alla
giustificazione, praticamente acritica, dell’attività dello stato in virtù della sua
supposta neutralità. In sostanza esse si rivelarono poco più che delle teorie volte alla
giustificazione dell’intervento statale in economia.
74 Concludiamo questa breve rassegna con una teoria sulla natura dello stato
maggiormente legata alla tradizione marxista-leninista: la teoria del capitalismo di
stato. Tale teoria, pur non negando il primato della sua funzione coercitiva, mise in
luce, sin dai suoi primi sviluppi, la funzione economica principale dello stato e quindi
del diritto che lo mantiene in vita, ovvero quella di “capitalista collettivo ideale” 82.
75 Presente implicitamente nei testi marxiani e esplicitamente all’interno della terza
sezione del succitato Antidühring, la teoria del capitalismo di stato fu ripresa da alcuni
marxisti-leninisti nel secondo dopoguerra per spiegare la natura sociale dell’Urss 83.
Secondo questa teoria lo stato, raggiunto un certo livello di accumulazione capitalistica
in alcuni settori produttivi, rappresenterebbe l’unica organizzazione in grado di
difendere il capitale sia dagli attacchi del proletariato, che da quelli dei singoli
capitalisti privati84, nonché l’unica in grado di investire somme di denaro come quelle
richieste per la competizione in settori ad elevata concentrazione di capitali.
4. Conclusioni
76 Come si e cercato di dimostrare, le riflessioni in ambito marxista post-leniniano sul
diritto possono essere divise in due gruppi: quelle che analizzarono ruoli e funzioni del
diritto penale (riflessione sovietica e francofortese) e quelle che si soffermarono
sull’analisi del ruolo dello stato (Capital-logic e capitalismo di stato). All’interno del
primo gruppo e poi possibile individuare due sottogruppi: coloro che interpretarono il
diritto penale come strumento di repressione (diritto sovietico e avvocatura politica) e
coloro che lo ritennero funzionale al processo di accumulazione capitalistica
(Francoforte e interpretazioni successive).
77 In comune a queste interpretazioni vi fu la convinzione dell’esistenza di una duplice
natura del diritto: diritto come sovrastruttura e diritto come strumento politico.
78 Nonostante ciò, la maggior parte delle interpretazioni successive a Lenin, a causa del
focus posto di volta in volta solo su una, o comunque non su tutte le funzioni del diritto
che la concezione materialistica della storia aveva permesso di individuare, non sono
riuscite a portare avanti una chiara visione d’insieme, almeno fino al recupero del
leninismo con la teoria del capitalismo di stato.
79 Tutto ciò ha portato, nel caso delle interpretazioni più “pratiche”, come quella
dell’avvocatura militante, all’allontanamento dalla prassi rivoluzionaria (eccezione
fatta per alcune dichiarazioni formali) e nel caso delle interpretazioni più teoriche,
addirittura allo stravolgimento in senso idealistico del metodo materialistico di analisi
dei fatti sociali, come sottolineato da Jessop nel caso del Capital-logic 85.
NOTE
1. In questa sede le opere di Marx verranno divise, riprendendo la famosa divisione
althusseriana, tra opere giovanili, influenzate dall’idealismo tedesco e opere della maturità, di
carattere scientifico. Non verrà tuttavia accettato completamente il rifiuto althusseriano
dell’esistenza di elementi di coerenza tra le due produzioni.
2. Come esempi si prendano: MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto: Antologia di scritti
giuridici, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 9; VINCENT, Andrew, Marx and law, in EASTON, Susan (edited
by), Marx and Law, Farnham, Ashgate, 2008, p. 44.
3. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., pp. 9-13.
4. In contrasto con questa interpretazione può essere ritenuta l’elaborazione di Paul Phillips, poi
ripresa da Tom Campbell, secondo la quale negli scritti giovanili di Marx sarebbe possibile
individuare una vera e propria teoria del diritto naturale che col tempo avrebbe lasciato il posto
alla convinzione dell’esistenza del solo diritto positivo, quindi sovrastrutturale. (, Andrew, Marx
and law, cit., pp. 60-62). Questo dibattito si ricollega a quello che coinvolse Allen Wood, George G.
Brenkert e Ziyad I. Husami, che ebbe luogo tra il 1972 e il 1979, sulla natura della morale come
base del diritto in Marx. Per approfondire il tema vedi: COHEN, Marshall et al. (edited by), Marx,
Justice, and History, Princeton, Princeton University Press, 1980.
5. Ciò non significa che esso non possa comunque avere delle conseguenze a livello strutturale,
come vorrebbe un’interpretazione economicista del marxismo.
6. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, Marx and Engels on Law, London, Academic Press, 1979, p. 153.
7. MARX, Karl, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, in ID., Opere complete, Roma, Editori Riuniti,
1980, pp. 222-264.
8. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., p. 153.
9. Ibidem, p. 166.
10. Corsivo mio.
11. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., p. 52.
12. Ibidem, p. 52.
13. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 15.
14. Questa sembra l’interpretazione più coerente con l’impostazione marxiana; se infatti per
ideologia si intende un sinonimo di falsa coscienza, come spesso fu per l’autore, il tentativo di
normare un fenomeno sociale messo in atto da una legge non sembrerebbe un tentativo di
spiegazione inesatta (ideologica) del fenomeno in questione.
15. L’interpretazione migliore a riguardo sembrerebbe quella contenuta nell’elaborazione di
Stučka che approfondiremo nella sezione dedicata alla riflessione giuridica sorta in ambiente
sovietico; secondo tale interpretazione, la forma del diritto non sarebbe che “il punto di vista
borghese nella scienza giuridica”. (MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 16).
16. A riguardo si rimanda all’elogio dell’attività “giuridica” di Leonard Horner presente nel
primo libro del Capitale e ripresa da Marcel Willard. (WILLARD, Marcel, La défense accuse, Paris
Éditions Sociales, 1951, pp. 47-55).
17. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 12.
18. Per approfondire le sue posizioni espresse in altre opere o per confrontarsi con con la sua
posizione giovanile vedi: CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., pp. 1-47, 177-197.
19. In aggiunta a queste riflessioni teoriche Engels, sempre all’interno dell’Antidühring, propose
una riflessione sulla principale funzione economica dello stato, quella di “capitalista collettivo
ideale”. Tale riflessione, come si vedrà più avanti, pose le basi per la cosiddetta teoria del
capitalismo di stato, che si rivelò fondamentale per la comprensione della reale natura sociale del
mondo sovietico. (ENGELS, Friedrich, Antidühring. La scienza sovvertita dal signor Dühring, Milano,
Lotta Comunista, 2003, p. 336; PEREGALLI, Arturo, TACCHINARDI, Riccardo, L’Urss e la teoria del
capitalismo di stato. Un dibattito dimenticato e rimosso 1932-1955, Milano, Pantarei, 2011, pp. 17-24).
20. ENGELS, Friedrich, Antidühring, cit., p. 116.
21. Ibidem, pp. 117-118.
22. Ibidem, p. 122.
23. Ibidem, p. 131.
24. Ibidem.
25. Ibidem, pp. 132-133.
TELLA, Maria Josè, FALCÒN Y TELLA, Ferdinando, Fondamento e finalità della sanzione: diritto di
punire?, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 51-52.
52. Ibidem, p. 52.
53. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., p. 46.
54. FALCÒN Y TELLA, Maria Josè, FALCÒN Y TELLA, Ferdinando, op. cit., p. 52.
55. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., pp.12-13.
56. Ibidem, p. 47.
57. JESSOP, Bob, On recent Marxist Theories of Law, the State, and Juridico-Political Ideology, in
EASTON, Susan (edited by), Marx and Law, Farnham, Ashgate, 2008.
58. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, cit., p. 54.
59. Ibidem.
60. Ibidem, p. 56.
61. Ibidem, p. IX.
62. L’argomento non verrà trattato in questa sede proprio in quanto teorizzazione che si pose al
di fuori della tradizione marxista, per ulteriori approfondimenti si veda il testo di Liora Israël e la
presentazione di Maria Malatesta in esso contenuta. Ibidem, pp. IX-XI, 56-60.
63. SOLDATINI, Simonetta (a cura di), La difesa organizzata nei processi politici degli anni ’50 e ’60. Gli
archivi di solidarietà democratica, Siena, Cantagalli, 2006, p. 6.
64. Per un elenco dettagliato dei Comitati e dei principali avvocati che ne fecero parte vedi:
Ibidem, p. 3.
65. Ibidem, p. 2.
66. I tre membri romani del Comitato nazionale di Solidarietà democratca venivano infatti
nominati dalla Cgil, dal Pci e dal Psi. SOLDATINI, Simonetta, op. cit., p. 4.
67. MALATESTA, Maria, «Défenses militantes. Avocats et violence politique dans l’Italie des
annnées 1970 et 1980», in Le mouvement sociale, 3/2012, pp. 85-103, p. 88.
68. Per approfondire il tema della difesa dei brigatisti e dei membri di prima linea vedi: Ibidem.
69. Ibidem, pp. 88-89.
70. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., p. 15.
71. FERRAJOLI, Luigi, ZOLO, Danilo, «Marxismo e questione criminale», in La questione criminale:
Rivista di ricerca e dibattito su devianza e controllo sociale, 1/1977, pp. 97-133.
72. Ibidem, p. 100.
73. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., pp. 13-19.
74. Ibidem, p. 19.
75. VINCENT, Andrew, op. cit., p. 46.
76. Per approfondire tutte le interpretazioni qui trattate vedi: JESSOP, Bob, op. cit.
77. Ibidem, p. 173.
78. Ibidem, p. 177.
79. Ibidem, p. 177.
80. Ibidem, p. 178.
81. Ibidem, p. 180.
82. ENGELS, Friedrich, op. cit., p. 336.
83. Per una dettagliata rassegna dei vari teorici del capitalismo di stato vedi: PEREGALLI, Arturo,
TACCHINARDI, Riccardo, op. cit.
84. ENGELS, Friedrich, op. cit., p. 336.
85. JESSOP, Bob, op. cit., p. 172.
RIASSUNTI
Questo saggio rappresenta un tentativo di riassumere, senza pretese di esaustività, le teorie e le
pratiche legate al diritto sorte dal pensiero, quasi mai sistematico, di Karl Marx, Friedrich Engels
e Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin). Dopo un iniziale breve riassunto della concezione del diritto
individuabile in alcuni testi dei tre autori, verranno riportate le varie interpretazioni e
teorizzazioni elaborate negli anni Venti e Trenta da alcuni giuristi attivi nell’ambiente sovietico
(o filo-sovietico) e da alcuni intellettuali della Scuola di Francoforte. In seguito ci si concentrerà
sulle interpretazioni sorte nel secondo dopoguerra all’interno dei più svariati ambiti di ricerca;
verrà analizzato il fenomeno dell’avvocatura militante, la ripresa delle teorizzazioni di
Francoforte, la teoria Capital-logic e infine la teoria del capitalismo di stato.
This essay represents an attempt, although not exhaustive, to clarify some theories and practices
of law derived from the thougth of Karl Marx, Friedrich Engels and Vladimir Il’ič Ul’janov
(Lenin). After a short summary of the “materialist conception of law” contained in some works of
this authors, I will focus on some interpretations developed during the 1920s and the 1930s by
some soviet (or filo-soviet) jurists and by some intellectuals from the Frankfurt School. After
that, I will consider some theories of the post-world war II era from the most various areas of
study: the “militant legal activity”, the rethink of Frankfurt theories, the Capital-logic
interpretation and the state capitalism theory.
INDICE
Parole chiave : diritto, Friedrich Engels, Karl Marx, materialismo storico, Vladimir Il’ič Ul’janov
Lenin
Keywords : Friedrich Engels, Historical Materialism, Karl Marx, Law, Vladimir Il’ič Ul’janov
Lenin
AUTORE
WILLIAM MAZZAFERRO
Studente al secondo anno del corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di
Bologna. Ha frequentato il corso di laurea triennale in Storia presso l’Università di Torino
laureandosi con una tesi di ricerca sul sindacato dal titolo Il sindacato e la ristrutturazione aziendale
torinese: resistenza o subalternità? (1973-1977), sotto la supervisione del Professor Brunello Mantelli.
Attualmente si occupa di storia economica con particolare attenzione nei confronti della storia
del lavoro e della storia d’impresa.
II. Miscellaneo
Steven Forti
Sessanta Paolo Spriano iniziò a scrivere la monumentale storia del PCI 13, che rimane il
referente storiografico imprescindibile, e proprio in quegli stessi anni si ripubblicò
l’edizione completa dei Quaderni dal carcere di Gramsci, che venne ad essere, in un certo
senso, il referente teorico14.
8 Quella che potremmo definire la sinistra comunista, che trovò nell’anziano Amadeo
Bordiga il suo sopravvissuto e il suo infaticabile teorico, sviluppò un’analisi non del
tutto dissimile da quella della cosiddetta vulgata comunista. Negli anni Sessanta le
pubblicazioni di Sinistra Comunista e gli studi di storici come Aurelio Lepre e Silvano
Levrero e del gruppo che faceva capo alla Rivista storica del socialismo – Luigi Cortesi,
Andreina De Clementi e Stefano Merli – tentarono di recuperare e ridare centralità a
quel bordighismo che fu uno dei pilastri portanti della scissione di Livorno. Per quanto
critici con lo stalinismo e il togliattismo e a parte gli attacchi al gruppo ordinovista, il
giudizio generale che la sinistra comunista diede del “biennio rosso” rimaneva pressoché
identico a quello delineato da Togliatti e Berti. Una prova ulteriore della sintonia di
vedute (al di là delle notevoli differenze politiche e organizzative) sulle ragioni che
portarono alla scissione dal vecchio tronco socialista nel gennaio 1921 15.
9 Attorno al ’68, nacque anche un’altra lettura del “biennio rosso”, critica sia con la
cosiddetta vulgata comunista sia con l’interpretazione della sinistra comunista. Con
l’occhio alle lotte politiche e sociali di quegli autunni caldi, si rilesse il primo
dopoguerra come l’epopea dorata dell’autonomia operaia e si accusò il PCI
dell’appropriazione indebita fatta a suo tempo del consiliarismo, svuotato della sua
carica rivoluzionaria. A monte di un’interpretazione come quella di Giuseppe Maione,
attenta a ricostruire lo spontaneismo operaio e che fu vessata di critiche a suo tempo,
stava la Storia delle classi subalterne di Renzo Del Carria 16.
10 Rimane poi tutta la storiografia socialista, che a partire dai primi anni Sessanta si
impegnò nel recupero della storia e della memoria delle origini del PSI e della CGdL. Ai
pionieristici lavori di Luigi Ambrosoli, Leo Valiani, Gaetano Arfè e Franco Pedone 17, nel
decennio successivo al 1965 si pubblicarono i primi grandi studi complessivi sul
socialismo italiano prefascista (lo stesso Arfè, Gastone Manacorda, Alceo Riosa) 18 e sul
sindacalismo confederale (Luciana Marchetti, Adolfo Pepe, Idomeneo Barbadoro) 19.
Però fu soprattutto dalla metà degli anni Settanta che si potenziarono gli studi sul
socialismo italiano dell’Italia liberale: l’attenzione fu posta in particolar modo sul
riformismo, sia dell’epoca giolittiana sia del primo dopoguerra. Per il 1919-1920 si
stigmatizzò la scissione comunista portatrice di discordie, sconfitte ed eccessi e si
continuò a condannare il massimalismo, bollato come una via di mezzo che non poteva
portare ad altro che a un vicolo cieco. La serie di congressi e incontri organizzati dal PSI
tra 1976 e 1982 diede visibilità al ruolo avuto da dirigenti riformisti come Camillo
Prampolini e Anna Kuliscioff, ma soprattutto a Filippo Turati, capace nel mezzo di quel
torbido “biennio rosso” di un discorso di così ampio respiro come il Rifare l’Italia, un
programma per tutta la nazione20.
11 Ma gli anni Settanta furono realmente un tuffo nel passato prefascista per la
storiografia italiana. Si pensi ai primi studi sul sindacalismo rivoluzionario, sul
futurismo, sul nazionalismo, sul combattentismo o sul fiumanesimo e il grande sforzo
fatto per studiare il fascismo e le sue origini a livello nazionale e locale, con o contro
l’interpretazione che ne fece Renzo De Felice. Il primo dopoguerra veniva ad essere per
forza di cose il nodo gordiano della questione. Che si studiasse l’origine del fascismo o
la crisi dello Stato liberale, bisognava rispondere – che lo si volesse o meno – anche a
delle difficili domande sul socialismo. Non fu il PSI il partito più votato alle elezioni del
novembre 1919 ottenendo 156 seggi alla Camera dei Deputati? Non ebbe in quella
delicata congiuntura la CGdL oltre due milioni di iscritti su una popolazione
complessiva di circa quaranta milioni (il 5% di tutto il popolo italiano)? Non si creò
proprio allora il mito dell’occupazione delle fabbriche? E, appunto, il fascismo non
salvò l’Italia da quella che si definiva “l’idra bolscevica”?
pensare la politica […] fuori dalla normalità, di inventare qualcosa di nuovo» 28. Marco
Revelli ha definito il 1919-1920 come «foro di entrata del Novecento», in quanto
momento in cui «nascono le forme organizzative» del secolo scorso 29, mentre Fabio
Vander ha individuato nel primo “biennio rosso” un importante momento di rottura
nella storia politica della sinistra italiana30.
15 La centralità e le peculiarità attribuite al biennio 1919-1920 (ma anche al biennio
1968-1969), sia per la storia della sinistra italiana che di tutto il Novecento italiano, non
sono affatto casuali: la ricerca di nuovi approcci per lo studio di quel frangente storico,
prestando attenzione a questioni e problematiche finora lasciate in secondo piano (o
ignorate del tutto), può essere un campo interessante. Le metodologie di ricerca
proposte da Gareth Stedman Jones, Roger Chartier e soprattutto Lynn Hunt 31 risultano
di grande utilità. Di importanza capitale risulta essere la centralità data al momento –
unita a quella critica alla genealogia di cui scrisse Foucault parlando della «chimera
dell’origine»32 – e l’analisi orizzontale del linguaggio politico proposti dall’autrice de La
Rivoluzione francese.
16 Abbiamo dunque formulato delle domande per poter ripensare il primo “biennio
rosso”: di cosa si parlò nel 1919-1920? Quali furono le questioni fondamentali affrontate
che permettevano di pensare la politica? Che parole si usarono? Cosa mostravano,
dicevano o suggerivano tali parole nella relazione tra il pensiero e l’azione politica? A
chi erano rivolte queste parole? Lo studio dei dibattiti interni al mondo socialista nel
1919 e nel 1920 ricopre un ruolo assolutamente centrale. Attraverso di essi, difatti, si
possono mettere a prova le posizioni politiche e se ne possono determinare con
maggiore precisione confini ed eventuali giustapposizioni; alla luce di essi si possono
riconsiderare le riletture e le interpretazioni che la storiografia ha proposto del
“biennio rosso” fino ai giorni nostri; infine, grazie ad essi si possono rilevare le parole
(chiave) della politica che permettono di procedere all’analisi del linguaggio politico del
socialismo italiano.
rosso”, sono divenuti gli sconfitti e gli incapaci, per antonomasia. E dunque i colpevoli.
Il capro espiatorio. Pochi si sono presi la briga di andare al di là dei giudizi politici, per
vedere cosa realmente fu il massimalismo, decifrarne le tendenze, capirne le dinamiche
interne, le origini ante-guerra e le innovazioni posteriori all’Ottobre russo 34. Spesso è
mancata un’adeguata lettura dei dibattiti congressuali e delle riunioni di partito e di
sindacato. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta solo Bosio, le Edizioni del Gallo e le
Edizioni Samonà e Savelli si mossero in questa direzione, ripubblicando i verbali delle
riunioni di partito e di sindacato del 192035. Il rischio è altrimenti di fare degli errori
grossolani. O, più frequentemente, di proporre delle letture parziali, presentando il
“biennio rosso” – ma, possiamo dire, tutto il primo dopoguerra italiano – da due sole
prospettive: la crisi del sistema liberale e le origini del fascismo. Come ha notato
Andrea Baravelli,
nel nostro paese, infatti, gli stessi motivi che hanno favorito la nascita di un precoce
interesse per il periodo storico preso in esame (ovvero l’analisi dei motivi della crisi
dello stato liberale e del conseguente avvento del regime fascista) hanno poi
contribuito a consolidare una particolarmente tenace forma di presbiopia storica 36.
19 Molte di queste analisi si servono sovente di categorie di interpretazione della politica
posteriori ai fatti, che in quel frangente storico non erano assolutamente centrali nel
pensare e nell’agire politico. Una su tutte: la democrazia. Una questione che già
Brunello Vigezzi rilevò parecchi anni fa, parlando dell’«antistorico rimprovero ai
socialisti del 1919-20 di non avere realizzato con i liberali, i popolari ed i combattenti
un centrosinistra ante litteram»37.
20 In tutto questo è logico che il massimalismo finisce per essere un pezzo d’antiquariato,
che, se non viene condannato e considerato un eccesso dovuto ai quattro anni di guerra
di trincea e frutto di quella che Mosse definì brutalizzazione della politica, può, nel
migliore dei casi, solo far sorridere. Per capire il massimalismo bisogna capire in primo
luogo l’Italia massimalista e in secondo luogo le parole della politica del primo
dopoguerra, riconoscendo quello che era centrale nel dire e nel fare la politica e quello
che invece non lo era, senza voler anticipare la storia dell’Italia repubblicana 38. Solo in
questo modo si può riuscire a capire come e perché il massimalismo dominò il
socialismo italiano in un momento cruciale. È necessaria, insomma, una specie di
rivoluzione copernicana nello studio del “biennio rosso”, come si fece nello studio del
fascismo tra anni Sessanta e Settanta, quando si abbandonarono definitivamente le
letture del fascismo come di una parentesi o di un fenomeno di follia collettiva e si
iniziò a parlare dell’esistenza di una ideologia e di una cultura fascista.
21 Il massimalismo fu un grande contenitore, dentro il quale si celarono posizioni
divergenti e che spesso vennero considerate qualcosa di esterno e distinto al
massimalismo. A grandi linee, per il biennio 1919-1920, all’interno del massimalismo si
possono individuare almeno due posizioni. Non sono correnti, né frazioni, né gruppi
costituiti, ma tendenze, i cui limiti sono pertanto incerti e ambigui 39. La prima è quella
che si riunisce attorno a Serrati, direttore dell’«Avanti!»; la seconda quella
rappresentata da Bombacci, segretario politico del PSI fino al febbraio del 1920. Sono
due posizioni con notevoli punti di similarità e che si vanno evolvendo, e distanziando,
col passare dei mesi. La rottura del massimalismo a Livorno è rappresentativa di questa
differenziazione: da una parte, Serrati, strenuo difensore dell’unità del partito, rimarrà
nel PSI; dall’altra parte, Bombacci, con Gennari, Graziadei ed altri, sarà tra i fondatori
del PCd’I, Sezione della Terza Internazionale.
7. Conclusioni
34 In queste pagine si è scelto il Partito come esempio di una parola chiave del linguaggio
politico e come questione cruciale della politica (socialista, ma non solo) del primo
“biennio rosso”. Ma il Partito, come si è detto, non fu l’unica parola che permise di
pensare la politica in quel frangente storico: il dibattito sulla costituzione dei Soviet che
coinvolse il PSI e tutto il movimento operaio italiano tra il gennaio e l’aprile del 1920
mostrò la centralità di almeno altre tre parole: Rivoluzione, Soviet e Guerra. Procedere
a un’analisi di tali parole, seguendo i suggerimenti di chi nell’ultimo decennio ha
proposto un ripensamento del primo dopoguerra italiano, permetterebbe di
intraprendere nuove strade per l’interpretazione del primo “biennio rosso” e aprirebbe
cammini finora poco esplorati.
35 Ci si è proposti di tentare una prima, parziale definizione della strada che si vorrebbe
percorrere. Per poter fare questo si è considerato necessario, innanzitutto, tracciare un
(breve) bilancio delle diverse interpretazioni storiografiche esistenti – sia del primo che
del secondo “biennio rosso” – e, in secondo luogo, dopo aver deciso di centrarsi su ciò
che disse e ciò che fece il movimento operaio italiano del 1919-1920, eseguire una
radiografia del socialismo italiano del primo “biennio rosso”. In questo modo, si è
potuto rilevare:
a. lo stretto legame instauratosi tra le interpretazioni storiografiche del primo “biennio rosso”
e il pensiero politico degli anni immediatamente successivi al secondo “biennio rosso”;
b. la relazione tra le interpretazioni storiografiche del primo “biennio rosso” date durante
tutto il Novecento e le divisioni politiche del movimento operaio italiano del 1919-1920;
c. l’importante ruolo ricoperto dal massimalismo nel primo dopoguerra e la quasi totale
assenza di studi su di esso.
36 Vi è ancora parecchia strada da percorrere, per quanto negli ultimi anni si sia tentato
di superare le posizioni ormai consolidate delle diverse interpretazioni storiografiche
del primo “biennio rosso” e si sia finalmente tentato di avanzare verso delle analisi
comparative sul lungo periodo della storia italiana del Novecento, come il congresso I
due bienni rossi del Novecento, 1919-20 e 1968-69: studi e interpretazioni a confronto, tenutosi a
Firenze nel settembre del 2004, ha ampiamente dimostrato 57. Il 1919-1920 è ancora in
attesa di una sua rivoluzione copernicana dal punto di vista dell’analisi della storia
della politica e del linguaggio politico – una rivoluzione copernicana che utilizzi nuove
prospettive d’interpretazione, togliendo così le troppe stratificazioni sedimentatesi su
ciò che si disse e ciò che si fece in quel biennio –, mentre il 1968-1969 sta aspettando i
suoi storici, dopo i racconti e le memorie dei suoi protagonisti e delle sue comparse.
NOTE
1. FABBRI, Fabio, Le origini della Guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918-1921),
Torino, Utet, 2009, p. XIII.
2. Già Angelo Tasca criticò la definizione “biennio rosso”, così poi, tra gli altri, R. Vivarelli, G. Turi
e P. Ginsborg. A. Lepre sostenne che quella di “biennio rosso” è «una definizione limitata e
fuorviante. Limitata, perché tiene conto solo della lotta politica, trascurando gli aspetti della vita
quotidiana, altrettanto importanti; fuorviante, perché quegli anni furono rossi soltanto nei sogni
dei socialisti italiani e nei timori della borghesia», citato in FABBRI, Fabio, op. cit., p. XVII.
3. Oltre a E. Nolte, sono stati soprattutto C. Pavone e, recentemente, E. Traverso a porre in primo
piano la categoria di guerra civile per l’interpretazione della storia italiana ed europea del
Novecento. Vedasi, PAVONE, Claudio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza,
Torino, Bollati Boringhieri, 1991; TRAVERSO, Enzo, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945,
Bologna, Il Mulino, 2007. Fabbri propone di applicarla al primo dopoguerra, augurandosi che
«possa finalmente assumere un carattere esplicativo e non solo descrittivo», FABBRI, Fabio, op. cit.,
p. XXII.
4. In un recente articolo, Claudio Natoli ha apprezzato il lavoro di Fabbri, pur criticando l’uso
della categoria di «guerra civile» a cui preferisce «controrivoluzione preventiva» e
«riorganizzazione autoritaria dello Stato e della società». Vedasi, NATOLI, Claudio, «Guerra civile
o controrivoluzione preventiva? Riflessioni sul “biennio rosso” e sull'avvento al potere del
fascismo», in Studi Storici, 53, 3/2012, pp. 205-236.
5. Traverso ha sviluppato queste riflessioni nella conferenza Entre memoria e historiografía. Lecturas
del siglo XX tenuta all’Università Autonoma di Barcellona l’11 maggio 2010.
6. VENTRONE, Angelo, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma,
Donzelli, 2003; ALBANESE, Giulia, La marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2006; BARAVELLI,
Andrea, La vittoria smarrita: legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del
sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci, 2006; PASETTI, Matteo, Tra classe e nazione.
Rappresentazioni e organizzazione del movimento nazional-socialista (1918-1922), Roma, Carocci, 2008.
7. Rispettivamente, GIOVANNINI, Elio, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel
primo dopoguerra italiano, Roma, Ediesse, 2001, p. 19 e ALBANESE, Giulia, Programmi e strategie
eversive della destra nel primo biennio, in I due bienni rossi del Novecento, 1919-20 e 1968-69: studi e
interpretazioni a confronto, Atti del Convegno nazionale, Firenze, 20-22 settembre 2004, Roma, Ediesse,
2006, p. 198.
8. TASCA, Angelo, La naissance du fascisme, Parigi, Gallimard, 1938 [Ed. italiana: La nascita del
fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1950]; NENNI, Pietro, Storia di quattro anni. La crisi socialista dal
1919 al 1922, s.l., Libreria del Quarto Stato, 1927; BUOZZI, Bruno, Scritti dall’esilio, a cura di
Alessandro Schiavi, Roma, Opere Nuove, 1959.
9. SABBATUCCI, Giovanni, Fare come in Russia, in BELARDELLI, Giovanni et al., Miti e storia dell’Italia
unita, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 107-114.
10. Il riferimento è a SALVEMINI, Gaetano, Lezioni di Harvard. L’Italia dal 1919 al 1929 in Scritti sul
fascismo, vol. I, Milano, Feltrinelli, 1961.
11. TOGLIATTI, Palmiro, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967-84, 6 voll.; BERTI, Giuseppe, «Il gruppo
del Soviet nella formazione del PCd’I», in Stato Operaio, Parigi, dicembre 1934 e più in generale,
ID., Appunti e ricordi 1919-1926, Milano, Annali Feltrinelli, 1966. Sulla stessa linea anche DETTI,
Tommaso, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano. Storia della frazione
terzinternazionalista, 1921-1924, Roma, Editori Riuniti, 1972.
12. Sulla traiettoria di Nicola Bombacci, vedasi NOIRET, Serge, Massimalismo e crisi dello Stato
liberale. Nicola Bombacci (1879-1924), Milano, Franco Angeli, 1992; SALOTTI, Guglielmo, Nicola
Bombacci: un comunista a Salò, Milano, Mursia, 2008; FORTI, Steven, «Partito, Rivoluzione e Guerra.
Un’analisi del linguaggio politico di un transfuga: Nicola Bombacci (1879-1945)», in Memoria e
Ricerca, 17, 31/2009, pp. 155-175; ID., El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez
Solís en la Europa de entreguerras, Santiago de Compostela, USC, 2014.
13. Per quanto riguarda il “biennio rosso”, SPRIANO, Paolo, L’occupazione delle fabbriche. Settembre
1920, Torino, Einaudi, 1964 e soprattutto ID., Storia del Partito Comunista Italiano. Da Bordiga a
Gramsci, vol. I, Torino, Einaudi, 1967.
14. GRAMSCI, Antonio, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1948-1951, 6 voll. I Quaderni furono
ripubblicati molte volte, tra cui vale la pena ricordare, per ciò che si sostiene in queste pagine,
l’edizione completa del 1966 e quella in 4 volumi curata da Valentino Gerratana nel 1975,
entrambe pubblicate da Einaudi.
15. CORTESI, Luigi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione 1892/1921, Bari, Laterza, 1969 (poi,
ID., Le origini del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1977); DE CLEMENTI, Andreina, Amadeo Bordiga, Torino,
Einaudi, 1971; LEPRE, Aurelio, LEVRERO, Silvano, La formazione del Partito comunista d’Italia, Roma,
Editori Riuniti, 1971. Alla base di tutto vi è una rilettura della storia della sinistra comunista
scritta dallo stesso Bordiga: [s.a.], Storia della sinistra comunista, Milano, Il Programma Comunista,
1964 (poi, in 3 voll., Milano, Il Programma Comunista, 1972-1986).
16. Soprattutto, MAIONE, Giuseppe, Il biennio rosso: autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920,
Bologna, Il Mulino, 1975 e DEL CARRIA, Renzo, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi
subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, Edizioni Oriente, 1966. In parte anche, CORVISIERI,
Silvano (a cura di), Il biennio rosso 1919-1920 della Terza internazionale, Milano, Jaca Book, 1970.
17. ARFÈ, Gaetano, Storia dell'Avanti, 1896-1926, Milano-Roma, Avanti!, 1956; PEDONE, Franco (a
cura di), Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, 5 voll., Milano, Avanti!, 1959-1968;
AMBROSOLI, Luigi, Né aderire né sabotare, 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!, 1961; VALIANI, Leo, Il
partito socialista italiano nel periodo della neutralità, 1914-1915, Milano, Feltrinelli, 1962.
18. ARFÈ, Gaetano, Storia del socialismo italiano, (1892-1926), Torino, Einaudi, 1965; MANACORDA,
Giuseppe (a cura di), Il socialismo nella storia d'Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla
Repubblica, Bari, Laterza, 1966; RIOSA, Alceo, Il Partito socialista italiano dal 1892 al 1918,
Bologna, Cappelli, 1969.
19. MARCHETTI, Luciana (a cura di), La Confederazione generale del lavoro negli atti, nei documenti, nei
congressi (1906-1926), Milano, Feltrinelli, 1962; PEPE, Adolfo, Storia della CGdL dalla guerra di Libia
all’intervento 1911-1915, Bari, Laterza, 1971; ID., Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia
1905-1911, Bari, Laterza, 1972; BARBADORO, Idomeneo, Storia del sindacato italiano dalla nascita al
fascismo, vol. II., La C.G.d.L., Firenze, La Nuova Italia, 1973.
20. L’intervento di Turati alla Camera dei Deputati del 26 giugno 1920 venne pubblicato in
opuscolo con il titolo Rifare l’Italia! Vedasi il lunghissimo elenco di pubblicazioni che a partire
dalla metà degli anni Settanta recupera la storia dimenticata del riformismo italiano dalla
fondazione del PSI all’esilio parigino. Sintomatici i congressi Anna Kuliscioff e l'età del riformismo
(Milano, 1976), Prampolini e il socialismo riformista (Reggio Emilia, 1978) e Filippo Turati e il socialismo
europeo (Milano, 1982), in cui l’allora segretario del PSI Bettino Craxi tenne un discorso dal titolo
che non ha bisogno di spiegazioni: Turati e Pertini. O la serie di incontri organizzati dalla
Fondazione Giacomo Matteotti nei primi anni Ottanta: Filippo Turati cinquant’anni dopo (Roma,
1982), Riformismo e socialdemocrazia ieri e oggi (Milano, 1983) e Giacomo Matteotti a sessant’anni dalla
morte (Rovigo, 1984). Vedasi, tra le molte ricerche, anche l’interessante CARTIGLIA, Carlo, Rinaldo
Rigola e il sindacalismo riformista in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976 e la serie di studi di
DEGL’INNOCENTI, Maurizio, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976; ID.
Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Napoli, Guida, 1983; ID. (a cura di), Filippo Turati e il
socialismo europeo, Napoli, Guida, 1985 che avrebbero portato all’ultima storia “ufficiale” del PSI,
CIUFFOLETTI, Zeffiro, DEGL’INNOCENTI, Maurizio, SABBATUCCI, Giovanni, Storia del P.S.I., 3 voll.,
Roma-Bari, Laterza, 1992-1993.
21. TRENTIN, Bruno, Autunno caldo: il secondo biennio rosso 1968-1969, Roma, Editori Riuniti, 1999.
22. BECCHETTI, Margherita, Operai in scena. L’occupazione delle fabbriche e il primo antifascismo nel
teatro giovanile degli anni settanta, in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 373-386. Significativi
furono soprattutto due spettacoli: La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche della
Compagnia del Collettivo di Parma (1970) e Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il
padrone? di Dario Fo (1971).
23. Citato in DETTI, Tommaso, Biennio rosso, in LEVI, Fabio, LEVRA, Umberto, TRANFAGLIA, Nicola
(a cura di), Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, vol. I, t. I, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 60.
24. La fortuna storiografica del 1968-1969 ha avuto generalmente a che fare con gli anniversari di
quegli avvenimenti. Ad esempio, SCALZONE, Oreste, Biennio rosso: ’68-’69. Figure e passaggi di una
stagione rivoluzionaria, Milano, SugarCo, 1988. O come si è palesato per il quarantesimo
anniversario del ’68 con le “celebrazioni”, la pubblicazione di memorie e interviste, di saggi e
documentari, dove sovente il ’68 finisce per essere la culla della stagione del terrorismo.
25. ROMITELLI, Valerio, Il Sessantanove/Settanta sindacale: di che biennio si è trattato?, in ID., Storie di
politica e di potere, Napoli, Cronopio, 2004, pp. 125-148.
26. GIUGNI, Gino, Il sindacato tra contratti e riforme: 1969-1973, Bari, De Donato, 1973; ID. et al., Gli
anni della conflittualità permanente: rapporto sulle relazioni industriali in Italia nel 1970-1971, Milano,
Franco Angeli, 1976; FOA, Vittorio, Sindacati e lotte operaie, Torino, Einaudi, 1975; PIZZORNO,
Alessandro (a cura di), Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, 6 voll., Bologna, Il Mulino,
1974-1978. Vedasi anche i più recenti CIAMPANI, Andrea, PELLEGRINI, Giancarlo (a cura di), La
storia del movimento sindacale nella società italiana. Venti anni di dibattiti e storiografia, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2005 e LORETO, Fabrizio, L’unità sindacale (1968-1972): culture organizzative e
rivendicative a confronto, Roma, Ediesse, 2009.
27. ROMAGNOLI, Guido, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Milano, Mazzotta, 1976;
GIGLIOBIANCO, Alfredo, SALVATI, Michele, Il maggio francese e l’autunno caldo: la risposta di due
borghesie, Bologna, Il Mulino, 1980; DE MASI, Guido et al., I consigli operai, Roma, Samonà e Savelli,
1972.
28. Le citazioni di Cella e Ginsborg, rispettivamente, in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 355,
459.
29. Interessante anche l’ipotesi proposta da Francesco M. Biscione di una lettura del 1919-20
come di un fenomeno di isolamento e di «alterità sostanziale» e non come forma di egemonia
dentro la storia dell’Italia contemporanea. Le citazioni di Revelli e Biscione si trovano,
rispettivamente in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 234 e 199-200.
30. VANDER, Fabio, Livorno 1921. Come e perché nasce un partito, Manduria-Roma-Bari, Lacaita, 2008.
Per Vander, la fondazione del PCd’I significherebbe la rottura con la tradizione del socialismo
italiano e la sua principale debolezza: voler «governare senza avere responsabilità di governo»
(p. 56).
31. STEDMAN JONES, Gareth, Languages of class. Studies in English working class history, 1832-1982,
Cambridge, Cambridge University Press, 1983; CHARTIER, Roger, La rappresentazione del sociale.
Saggi di storia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989; HUNT, Lynn, La Rivoluzione francese.
Politica, cultura, classi sociali, Bologna, Il Mulino, 1989.
32. FOUCAULT, Michel, Nietzsche, la genealogia, la storia, in ID., Microfisica del potere, Torino,
Einaudi, 1978, p. 34.
33. BOSIO, Gianni, La grande paura: settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche nei verbali inediti delle
riunioni degli Stati generali del movimento operaio, Roma, Samonà e Savelli, 1970; GIOVANNINI, Elio,
L’Italia massimalista, cit.
34. Oltre agli studi di Bosio e Giovannini, poche sono le eccezioni: BERMANI, Cesare, Tutti o
nessuno. Lo sciopero agricolo dei cinquanta giorni e l'occupazione delle fabbriche nel biennio rosso a Novara
(1919-1920), Milano, Shake, 2005; DE FELICE, Franco, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della
rivoluzione in Italia, 1919-1920, Bari, De Donato, 1971; NOIRET, Serge, «Protagonismo delle masse e
crisi dello stato liberale», in Intersezioni, 2, 1988, pp. 269-299; ID., Il partito di massa massimalista dal
PSI al PCd’I, 1917-1924: la scalata alle istituzioni democratiche, in GRASSI ORSINI, Fabio,
QUAGLIARELLO, Gaetano (a cura di), Il Partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della
rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), Bologna, Il Mulino,
1996, pp. 909-965; FRANCESCANGELI, Eros, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione
antifascista (1917-1922), Roma, Odradek, 2000; BIANCHI, Roberto, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia,
Roma, Odradek, 2006.
35. BOSIO, Gianni, op. cit.; Il Consiglio nazionale socialista. Sessione tenutasi a Milano dal 18 al 22 aprile
1920. Testo stenografico integrale inedito, 3 voll., Milano Edizioni del Gallo, 1967-1968; GRAMSCI,
Antonio, BORDIGA, Amadeo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, Samonà e Savelli, 1973.
36. BARAVELLI, Andrea, Propagandare l’eccezionale. L’eroismo bellico nel linguaggio politico dei
candidati francesi e italiani (1919), in RIDOLFI, Maurizio (a cura di), Propaganda e comunicazione
politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 83.
37. Citato in GIOVANNINI, Elio, L’Italia massimalista, cit., p. 229. Un «antistorico rimprovero» che
mantiene soprattutto Marco Gervasoni che lamenta la «scarsa diffusione di una civic culture
democratica in larga parte delle masse operaie e contadine». GERVASONI, Marco, Speranze
condivise. Linguaggi e pratiche del socialismo nell’Italia liberale, Cosenza, Marco, 2008, p. 12.
38. Alcuni passi in questo senso furono fatti a suo tempo da alcune ricerche su questioni
specifiche, come sul dualismo Soviet-Consigli (BENZONI, Alberto, TEDESCO, Viva, «Soviet,
Consigli di fabbrica e “preparazione rivoluzionaria” del PSI (1918-1920)», in Problemi del
socialismo, 13, 2-3/1971, pp. 188-210 e pp. 637-665), sulla struttura del socialismo (MESSERI,
Andrea, Socialismo e struttura di classe, Bologna, Il Mulino, 1978) o sulla relazione tra socialismo e
combattentismo (ISOLA, Gianni, «Socialismo e combattentismo: la Lega Proletaria», in Italia
Contemporanea, 32, 141, 1980).
39. Giovannini ha sollevato una questione centrale nell’analisi del socialismo prefascista, troppe
volte risolta con categorizzazioni semplicistiche. Sarebbe a dire, che «nel Commonwealth socialista
non è così importante quella distinzione fra riformisti e rivoluzionari pur così fortemente
sottolineata da gran parte della storiografia del primo biennio», in GIOVANNINI, Elio, Federterra
e FIOM, in I due bienni rossi del Novecento, cit., p. 180. Una problematica individuata anche in DE
MARIA, Carlo, Alessandro Schiavi: dal riformismo municipale alla federazione europea dei comuni. Una
biografia: 1872-1965, Bologna, CLUEB, 2008.
40. Il progetto di Bombacci fu ripubblicato poi in opuscolo: SEZIONE SOCIALISTA DI PISTOIA, Per
la costituzione dei Soviet. Relazione presentata al Congresso Nazionale da Nicola Bombacci, Pistoia,
Tipografia F.lli Cialdini, 1920. La proposta di Egidio Gennari si pubblicò con il titolo «Per un
Soviet urbano» sull’edizione milanese dell’«Avanti!» nei giorni 21, 22 e 24 febbraio 1920.
L’interesse suscitato da tale progetto, checché ne dica gran parte della storiografia che lo ha
bollato unicamente come astruso, «famigerato» (SABBATUCCI, Giovanni, “Fare come in Russia”,
cit., p. 109) o come «astratte progettazioni» (CARETTI, Stefano, I socialisti italiani, in BENZONI,
Alberto et al., La dimensione internazionale del socialismo italiano. 100 anni di politica estera del PSI,
Roma, Edizioni Associate, 1993, p. 121), fu invece notevole. Nel febbraio del 1920, ad esempio, fu
pubblicato nella rivista «España», fondata da Ortega y Gasset e diretta in quel tempo da Luis
Araquistáin, mentre nel 1921 lo si pubblicò informa di opuscolo in Argentina, Hacia una sociedad
de productores. Lucha de ideas sobre los organismos de la Revolución Proletaria en Italia, Buenos Aires,
Editorial Argonauta, 1921.
41. Un dibattito che ho affrontato più a fondo in FORTI, Steven, «“Tutto il potere ai Soviet!”. Il
dibattito sulla costituzione dei Soviet nel socialismo italiano del biennio rosso: una lettura critica
dei testi», in Storicamente, 4, 2008, URL: <http://www.storicamente.org/01_fonti/forti.html>
[consultato il 10 settembre 2014]. Uno dei pochi studi che ha dedicato una certa attenzione a
questo dibattito è CARETTI, Stefano, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Pisa,
Nistri-Lischi, 1974, pp. 243-254.
42. Tra gli altri, KÖNIG, Helmut, Lenin e il socialismo italiano, Firenze, Vallecchi, 1972; VENTURI,
Antonello, Rivoluzionari russi in Italia 1917-1921, Milano, Feltrinelli, 1979; PETRACCHI, Giorgio, La
Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-25, Roma-Bari, Laterza, 1982.
43. ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni
pubbliche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, pp. 212-216. Revelli individua il fallimento del
“biennio rosso” proprio nella «impossibilità di replicare altrove un’esperienza già conosciuta», in
I due bienni rossi del Novecento, cit., p. 233.
44. DE FELICE, Franco, op. cit. Cfr. anche VANDER, Fabio, op. cit.
45. ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, op. cit., pp. 70-71.
46. BADIOU, Alain, La Comune di Parigi, Napoli, Cronopio, 2004, p. 20.
47. I riformisti non parteciparono al dibattito, considerando i soviet un’importazione straniera
che poco o nulla aveva a che fare con la realtà italiana fatta di camere del lavoro e cooperative.
Turati, Treves, Modigliani e compagni si concentrarono su altre questioni, come la relazione tra
socialismo e democrazia e tra socialismo e libertà, stigmatizzando l’esperimento russo, criticando
il rivoluzionarismo parolaio del massimalismo e ribadendo la necessità di un gradualismo che
avrebbe portato il socialismo ad inserirsi “naturalmente” nello Stato liberale, portando un giorno
al socialismo. «Critica Sociale» non dedicò nemmeno un articolo al dibattito sui Soviet nei primi
quattro mesi del 1920. Solo in maggio, dopo il Consiglio nazionale del PSI di Milano si toccò
l’argomento, ma solo per ribadire la giustezza della via riformista, che Claudio Treves spiegò
bene nell’opposizione tra «Rivoluzione trascendente» (la via massimalista) e «rivoluzione reale»
(le riforme), in TREVES, Claudio, «La nostra crisi», in Critica Sociale, 16-31 maggio 1920, pp.
150-151.
48. Le citazioni sono tratte da SERRATI, Giacinto Menotti, «I Soviety in Italia», in Comunismo, 11,
1920, pp. 757-764 e ID., «Qualche osservazione critica preliminare», in Avanti!, 14 marzo 1920.
49. Le citazioni sono tratte da BOMBACCI, Nicola, «La costituzione dei Soviet in Italia», in Avanti!,
28 gennaio 1920; ID., «I Soviet in Italia. Pregiudiziali, critiche e proposte concrete», in Avanti!, 27
febbraio 1920; GENNARI, Egidio, «Per un Soviet urbano», in Avanti!, Milano, 21, 22 e 24 febbraio
1920; ID., «Formiamo i Soviet», in La Squilla, 28 febbraio 1920; ID., «Come a Bologna!», in Avanti!,
21 marzo 1920.
50. Le citazioni sono tratte da BORDIGA, Amadeo, «Per la costituzione dei Consigli operai in
Italia», in Il Soviet, 4 gennaio 1920; ID., «Per la costituzione dei Consigli operai», in Il Soviet, 11
gennaio 1920; ID., «La costituzione dei consigli operai», in Il Soviet, 1, 8 e 22 febbraio 1920; «Tesi.
Sulla costituzione dei Consigli operai proposte dal C. C. della Frazione Comunista Astensionista
del P.S.I.», in Il Soviet, 11 aprile 1920.
51. Le citazioni sono tratte da NICCOLINI, Carlo, «La costituzione dei Soviety», in Avanti!, 5
febbraio 1920; ID., «La costituzione dei Soviet», in Avanti!, 15 febbraio 1920; ID., «La costituzione
dei Soviety», in Comunismo, 12, 1920, pp. 821-833; ID., «Soviet e Consigli di fabbrica. Non bisogna
temporeggiare», in Avanti!, 30 marzo 1920.
52. Le citazioni sono tratte da «La costituzione dei Soviet in Italia», in l’Ordine Nuovo, 7 febbraio
1920; TOGLIATTI, Palmiro, «La costituzione dei Soviet in Italia (Dal progetto Bombacci all’elezione
dei Consigli di Fabbrica)», in l’Ordine Nuovo, 14 febbraio e 13 marzo 1920; LEONETTI, Alfonso, «Lo
Stato dei Consigli», in Avanti!, 1 aprile 1920.
53. LORETO, Fabrizio, Il sindacalismo confederale nei due bienni rossi, in I due bienni rossi del Novecento,
cit., pp. 161-178. Anche TRENTIN, Bruno, Autunno caldo, cit., pp. 123-126.
54. Non è un caso che Trentin, nella sua intervista sull’autunno caldo, rievochi il dibattito sugli
«istituti di fabbrica» e le possibili forme del controllo operaio che si aprì sulle pagine dell’«Unità»
nell’estate del 1956 e i dibattiti interni alla sinistra in occasione di due importanti incontri
organizzati dall’Istituto Gramsci a Roma sulle Tendenze del capitalismo italiano nel 1962 e sulle
Tendenze del capitalismo europeo nel 1965. In tutti e tre i dibattiti Trentin rileva due linee
principali: la prima che si affidava al primato della politica (e dunque del partito) sull’economia
(e dunque sul sindacato), l’altra al primato dell’economia sulla politica. Vedasi, TRENTIN, Bruno,
Autunno caldo, cit., pp. 23-38.
55. DETTI, Tommaso, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano, cit.
56. SPRIANO, Paolo, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. I, cit. e l’introduzione di Franco
Livorsi a BORDIGA, Amadeo, Scritti scelti, Milano, Feltrinelli, 1975.
57. I due bienni rossi del Novecento, cit.
RIASSUNTI
Dopo un bilancio delle diverse interpretazioni che la storiografia ha dato del biennio 1919-1920 e
del loro stretto legame con la politica e dopo un breve bilancio delle interpretazioni date del
biennio 1968-1969, nell’articolo si presenta una radiografia del socialismo italiano del primo
“biennio rosso” – rilevando il ruolo centrale giocato dal massimalismo – e si illustra una nuova
proposta interpretativa che, a partire da una rilettura dei dibattiti politici e dall’analisi dei testi,
dia centralità allo studio del linguaggio politico e delle parole della politica. A una di queste
parole chiave – il Partito – si dedica l’ultima parte del testo, come prima, seppur parziale,
esplicazione della suddetta proposta interpretativa.
After a review of the different interpretations given by historiography to the biennium 1919-1920
and their close link to politics as well as after a short summary of the interpretations of the
biennium 1968-1969, the article presents a radiography of Italian socialism in the first biennio
rosso – observing the central role played by maximalism – and discusses a new interpretive
proposal, which, starting from a reinterpretation both of the political debate and the analysis of
texts, gives centrality to the study of political language and words of politics. The last part of the
text is dedicated to one of these keywords – Party –, as a first, albeit partial, explanation of this
interpretation.
INDICE
Parole chiave : Biennio rosso, linguaggio politico, partito, socialismo, storiografia sul socialismo
Keywords : historiography on socialism, party, Political language, Red Biennium, socialism
AUTORE
STEVEN FORTI
Dottore di ricerca per l’Universidad Autónoma de Barcelona con una tesi sulla questione del
passaggio di dirigenti politici di sinistra al fascismo nell’Europa interbellica, è attualmente
ricercatore presso l’Instituto de História Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa (IHC-
UNL). Membro del CEFID (Centre d’Estudis sobre les Epoques Franquista i Democràtica), del
gruppo HISPONA, del SIdIF (Seminario Interuniversitario de Investigadores del Fascismo) e
dell’Asociación de Historia Contemporánea (AHC) spagnola.
Matteo Anastasi
1. Introduzione
7 Tuttavia, la condivisione del proprio arsenale nucleare con gli alleati poneva vari
problemi ai dirigenti della Casa Bianca, dal momento che il McMahon Act 12, approvato
dal Congresso degli Stati Uniti nel 1946, proibiva espressamente di fornire informazioni
o armi nucleari a paesi terzi. Eisenhower doveva perciò trovare una formula che
consentisse di venire incontro alle richieste degli europei senza violare apertamente la
legge13. In merito alla politica nucleare da seguire, il Congresso e il presidente avevano,
infatti, opinioni divergenti, poiché il numero uno della Casa Bianca riteneva
eccessivamente restrittiva la legge che regolava la condivisione e il possesso delle armi
atomiche statunitensi con gli alleati14.
8 Il problema del controllo delle testate atomiche era inoltre strettamente connesso alla
questione della Germania. Mosca si opponeva all’eventualità che la Germania federale
ricevesse dai suoi alleati armi atomiche di cui potesse condividerne l’utilizzo, poiché ciò
avrebbe rappresentato una minaccia quanto mai temibile in caso di guerra, almeno fino
a quando il governo di Bonn non avesse riconosciuto come legittima l’esistenza della
Germania orientale. I sovietici avrebbero preferito che la Germania divenisse un
territorio neutrale, «perché ciò avrebbe rappresentato la logica premessa per la
definitiva stabilizzazione delle frontiere dell’Europa centrale, e quindi non avrebbero
accettato che la Repubblica federale tedesca potesse avere un arsenale atomico sotto il
suo diretto controllo»15. Contrariamente il presidente Eisenhower era convinto che la
Germania ovest, facendo parte dell’Alleanza atlantica, non potesse essere discriminata
rispetto agli altri Stati membri e che quindi dovesse avere accesso all’armamento
atomico degli occidentali. I sovietici insistevano per affermare le proprie ragioni
facendo leva su quello che in Europa era un punto debole, e cioè puntando sul problema
di Berlino e sulla questione del riconoscimento della Germania orientale da parte dei
paesi occidentali. Come messo in luce dallo storico statunitense Marc Trachtenberg, che
ha dedicato uno studio approfondito a questi problemi:
There were two basic ways of dealing with the issue of control of a Nato, and
eventually a European, nuclear force. In both cases the problems were enormous.
The first alternative was for this force to be organized in the same way as the rest of
Nato on a national basis, under ultimate national control, but with plans worked
out within the Nato structure, and with a unified command becoming fully effective
in the event of war. Planning, and especially targeting, could be done primarily on
an alliance-wide basis, although there was no reason why arrangements for various
fallback contingencies could not also be worked out on a national basis. […] The
second and more basic problem with a Nato or European nuclear force organized on
a national basis was that it meant Germany finger on the nuclear trigger. A German
state with a nuclear capability of its own would no longer be locked into a purely
defensive policy; and if it looked like Germany was developing a nuclear force
under national control, the Soviets might be tempted to act before it was too late 16.
9 Rispetto ai rapporti che gli Stati Uniti avevano con il governo inglese, quelli con gli altri
alleati determinavano quindi una situazione più complessa, per cui il programma
presentato al Consiglio atlantico del 1957, a parte l’immediata risposta entusiastica
della Turchia17, non trovò facilmente altre offerte di collaborazione. Si può affermare
che, dinanzi alla proposta di Eisenhower, i paesi alleati si divisero in tre gruppi,
individuabili in base alle loro reazioni: quelli favorevoli all’attuazione del programma, e
cioè Francia, Olanda e Turchia, altri sei paesi che assunsero un atteggiamento più
contrastato, ovvero Belgio, Repubblica federale tedesca, Grecia, Italia, Lussemburgo e
Portogallo, e gli ultimi due, Danimarca e Norvegia, che furono nettamente contrari 18.
Infine, ad accettare la possibilità di ospitare le armi offerte dagli Stati Uniti furono
soltanto Italia e Turchia, in quanto gli altri paesi presentarono problemi politici interni
o di altra natura che non consentirono la conclusione dell’accordo. Per esempio, benché
la Francia si trovasse in cima alla lista dei possibili ospitanti e avesse espresso
apertamente il proprio interesse per il programma degli Irbm già prima dell’annuncio
che Eisenhower aveva fatto alla Nato, non si riuscì a raggiungere con essa alcuna intesa.
A Parigi si ambiva a realizzare un progetto nucleare autonomo, e perciò si considerava
assai preziosa la collaborazione con gli Stati Uniti. Tuttavia i negoziati sui missili Jupiter
si arenarono sul punto riguardante il controllo delle testate, che i francesi volevano
sotto la loro diretta responsabilità, senza dipendere né dall’Alleanza né dal suo
"comandante" in Europa. Obiettivo del Quai d’Orsay era di occupare una posizione
privilegiata nei rapporti con Washington analoga a quella detenuta dalla Gran
Bretagna19. Il dialogo franco-statunitense si protrasse a lungo (passando in mezzo alle
vicende politiche che in Francia portarono alla caduta della Quarta Repubblica e al
ritorno al governo di De Gaulle) ma, vista l’intransigenza transalpina, il negoziato fu
definitivamente abbandonato nell’autunno 1958. I militari statunitensi, del resto, già da
alcuni mesi avevano iniziato le consultazioni con i rappresentanti degli altri paesi,
assegnando una priorità secondaria a quelle con i francesi 20.
10 Nella Germania federale la possibilità di ospitare gli Irbm si unì a un più ampio dibattito
sulla questione delle armi nucleari. Sebbene Adenauer, condividendo il parere di
Washington, ritenesse opportuno lo schieramento di quei missili, sia l’opinione
pubblica tedesca sia le forti perplessità dei militari, condizionarono l’andamento dei
negoziati, finché lo stesso Supreme Allied Commander Europe (Saceur) concluse che non
era possibile raggiungere alcun accordo21.
11 La Turchia era stata invece l’unico paese ad aver immediatamente dimostrato la
propria disponibilità verso i progetti statunitensi. Il governo di Ankara, infatti,
considerava di grande rilevanza l’occasione di possedere armi atomiche al fine di
conseguire il prestigio internazionale che le sarebbe derivato da una stretta
collaborazione con la Casa Bianca.
12 In Italia, intanto, le elezioni del maggio 1958 erano state vinte dalla Democrazia
cristiana con il 42,4% dei voti22. Tale esito elettorale rese possibile la formazione di un
esecutivo moderato (costituito dal partito cattolico insieme ai socialdemocratici e con
l’appoggio esterno dei repubblicani) guidato da Amintore Fanfani, il quale ambiva a
realizzare, oltre a una serie di riforme sociali e economiche, anche una politica estera
“neo-atlantica”, in conformità della quale l’Italia avrebbe dovuto svolgere un ruolo più
attivo ed autonomo nelle relazioni internazionali. Uno dei principali obiettivi del nuovo
corso di Fanfani era aumentare l’influenza diplomatica di Roma nel Medio Oriente,
attribuendole un ruolo di mediazione nei rapporti fra quest’area e gli Stati Uniti, come
del resto la crisi di Suez aveva fatto sperare con la disfatta di Francia e Gran Bretagna.
Per muoversi in tale direzione, tuttavia, era necessario innanzitutto rafforzare i
rapporti con l’alleato principale e quindi manifestare a Washington una fedeltà politica
e un appoggio diplomatico indiscussi23.
13 Se si accetta questa interpretazione, sembra plausibile ipotizzare che la disponibilità a
ospitare i missili Jupiter con testate atomiche, non fosse quindi per l’Italia una scelta
sostenuta semplicemente da motivi di sicurezza collettiva, ma bensì il risultato
dell’applicazione di una politica che rispondeva soprattutto a una logica di tipo
nazionale. Nell’accettare la proposta statunitense per il dispiegamento di quelle armi,
l’Italia si metteva in una condizione di assoluto prestigio anche perché, essendo
presidente del Consiglio dichiarò alla Camera il pieno appoggio del governo agli Stati
Uniti, ma «fece anche appello al dialogo per la rimozione delle cause che avevano
spinto Washington al blocco e al mantenimento del contatto fra Washington e Mosca»
42
. Fanfani proseguì:
proprio nel momento in cui più intensi si svolgono i dialoghi per il disarmo e la
tregua nucleare, appaiono contraddittori gli atti rivolti a creare basi dove non
esistono, ad accrescere preoccupazioni ove già ne esistono, ad aggravare il già
troppo precario equilibrio, dal cui mantenimento, in attesa di auspicabili
ragionevoli e leali accordi, dipende ancora la malferma pace del mondo. L’Italia
giudica positivo il fatto che il governo degli Stati Uniti abbia chiesto all’Onu di
decidere un intervento che sotto controllo internazionale accerti ed elimini le cause
dell’allarme stesso43.
22 Tornato a Roma, Piccioni convocò gli ambasciatori statunitense e sovietico, poi inviò
Carlo Russo, sottosegretario agli Esteri, a New York per seguire le trattative e dirigere
la delegazione italiana alle Nazioni Unite con l’incarico di favorire l’azione del
segretario generale U Thant.
23 Il 26 ottobre, giorno in cui Kennedy ricevette la lettera privata di Chruščëv che gli
proponeva la smobilitazione in cambio dell’assicurazione di non invadere Cuba, Russo
incontrò l’ambasciatore americano presso l’Onu Adlai Stevenson, che lo ringraziò per le
parole di appoggio agli Stati Uniti pronunciate in Parlamento da Fanfani e gli chiese un
giudizio sull’ipotesi di uno scambio tra il ritiro dei missili nell’isola caraibica e di quelli
in basi europee, specie se superati44. Russo interpretò questa richiesta come puramente
esplorativa e rispose che sarebbe stato preferibile negoziare la smobilitazione delle
postazioni missilistiche europee nel quadro della conclusione delle trattative sul
disarmo, ma non opporre ostacoli di principio. L’Italia seguì l’evoluzione della crisi e
cercò di incoraggiare i negoziati principalmente dal foro delle Nazioni Unite, dove U
Thant stava trattando per evitare l’escalation nucleare. Il segretario generale dell’Onu
aveva rivolto il 24 ottobre un appello a Chruščëv, chiedendo la sospensione dell’invio di
armi, e a Kennedy, domandando la dilazione del blocco navale. Nei giorni successivi
proseguì la febbrile attività del palazzo di vetro per una mediazione e
un’individuazione delle misure di controllo e di assicurazione reciproca fra Stati Uniti e
Unione Sovietica.
24 Kennedy non fece ricorso alle Nazioni Unite e rispose ufficialmente al messaggio di
Chruščëv del 26 ottobre dichiarando la disponibilità a non invadere l’isola e la generica
condiscendenza a lavorare per un accordo più generale riguardante altri armamenti.
Simultaneamente Robert Kennedy, ministro degli Esteri di Washington, incontrò
l’ambasciatore sovietico Dobrynin al ministero di Giustizia accordandosi sul
compromesso sostanziale che prevedeva lo smantellamento dei missili in Turchia, e
accessoriamente in Italia, in cambio della smobilitazione da Cuba 45. L’amministrazione
statunitense conosceva la posizione del governo italiano che, diversamente da quello
turco, era favorevole al ritiro dei Jupiter, auspicandone la sostituzione con mezzi più
adeguati e sicuri46. Il ministro della Difesa, Andreotti, aveva ripetutamente ribadito tale
disponibilità e, proprio alla vigilia dei fatti di Cuba, lo aveva confermato a McNamara 47.
L’esecutivo di Roma sosteneva, infatti, con forza una soluzione pacifica alla crisi ed era
a tal fine impegnato sul fronte delle trattative all’Onu. Sia nella lettera a Kennedy che
nell’intervento in Parlamento Fanfani aveva appoggiato la soluzione negoziale ed
espresso la condiscendenza all’apertura di colloqui su tutte le questioni che erano
suscettibili di turbare la pace internazionale.
25 La posizione assunta dal presidente del Consiglio e dal suo governo erano, inoltre,
congeniali anche per l’effettiva convergenza della posizione governativa con quella dei
socialisti. Nel Psi la corrente degli autonomisti, guidata da Nenni, si schierò su posizioni
pacifiste, chiedendo un serrato dialogo tra Stati Uniti e Unione Sovietica e il ricorso alla
mediazione dell’Onu48. Si trattava di una posizione coerente con quanto era emerso in
occasione dell’ultimo congresso socialista, il XXXIV, tenutosi a Milano fra il 15 e il 19
marzo del 1961. In questa circostanza, la contrapposizione fra autonomisti nenniani – la
cui linea sarebbe prevalsa con duecentosettantamila voti favorevoli e
duecentocinquemila contrari49 – e sinistre interne si era manifestata duramente. In
politica interna, Nenni aveva accelerato la marcia verso l’area democratica, staccandosi
in maniera netta dai comunisti, tanto sul piano ideologico quanto su quello politico.
Viceversa, le sinistre interne, guidate da Basso e Vecchietti, «pur facendo dichiarazioni
di adesione alla politica di autonomia del partito, tentavano di fatto di ricondurre il Psi
su posizioni di solidarietà e in definitiva di subordinazione nei confronti dei comunisti»
50
. In politica estera, gli autonomisti si presentarono come difensori del Patto Atlantico,
ritenuto fattore oramai ineliminabile per un paese come l’Italia, geograficamente e
culturalmente occidentale. Tale posizione si scontrò accesamente con quella delle
sinistre interne, filo-comuniste e ostili alla Nato51. A complicare ulteriormente il quadro
intervenne, circa un anno più tardi, la posizione dell’autonomista Riccardo Lombardi
che, l’11 gennaio 1962 presso il Comitato centrale del Psi, sottolineò come i socialisti
accettassero la Nato solo in chiave difensiva. Tale posizione era già stata chiaramente
espressa da Nenni. Lombardi la riprese, precisando, tuttavia, che l’espressione
«difensiva» era da intendersi esclusivamente come monito a non favorire un riarmo
tedesco52.
26 Ad ogni modo, durante la crisi di Cuba, le perplessità italiane circa il ricorso di
Washington alla quarantena e il costante riferimento alle Nazioni Unite quale foro
competente per il negoziato si conciliavano, di fatto, con le manovre politiche interne.
Tuttavia è necessario sottolineare come esse rispondessero altresì ad alcuni basilari
obiettivi di politica estera, svincolati dalle considerazioni relative alle alleanze
domestiche. L’Italia fu, infatti, costantemente una tenace sostenitrice del ruolo dell’Onu
per attutire la tensione est-ovest e per gestire le crisi bipolari.
27 L’adesione totale dell’Italia alle decisioni statunitensi circa la risoluzione della crisi e la
corrispondenza delle posizioni dei due esecutivi portò un “atlantista” intransigente
quale Sergio Fenoaltea, ambasciatore a Washington, a descrivere così i rapporti tra i
due Stati: «L’amministrazione Kennedy ha una grande fiducia verso il primo ministro
Fanfani e considera l’Italia, soprattutto con Fanfani alla sua guida, come uno dei suoi
alleati più fedeli e più importanti»53. Fenoaltea telegrafò a Roma dopo il discorso del
presidente del Consiglio al Parlamento, comunicando che esso era stato ben accolto alla
Casa Bianca ed era stato interpretato come la manifestazione di un appoggio totale a
Kennedy.
28 Più sfumato fu l’apprezzamento nei confronti italiani del dipartimento di Stato
americano, per i distinguo che avevano caratterizzato la posizione di Roma rispetto a
Washington nel corso della crisi54. Qui si giudicava che i motivi dell’appoggio
incondizionato fossero da ricercarsi nella necessità di rafforzare politicamente l’asse di
centro-sinistra, nell’orgoglio nazionale e nella maggiore prosperità del paese. Tali
fattori, anche se nel complesso positivi, avrebbero comportato in futuro un appoggio
meno scontato e totale dell’Italia alla politica statunitense 55.
29 Diverso fu invece il giudizio che ne diedero alcuni organi di stampa italiani, che
considerarono l’intervento governativo come manifestazione di una pericolosa
tendenza al neutralismo e all’indebolimento dell’Alleanza atlantica 56. Nel dibattito alla
Camera sul bilancio degli Esteri, che si svolse dal 26 al 30 ottobre, si delinearono
posizioni molto variegate e al governo pervennero critiche da settori della destra,
anche interni alla Dc, che accusarono l’esecutivo di aver sostenuto troppo timidamente
gli Stati Uniti57. Il deputato del Pri Randolfo Pacciardi parlò a tal proposito di
«svuotamento dall’interno» dell’Alleanza58. Nel Psi emerse il travaglio
dell’avvicinamento all’area governativa e del definitivo abbandono dell’alleanza con i
comunisti. I socialisti autonomisti mostrarono, infatti, comprensione per
l’orientamento dell’esecutivo e ribadirono che esso dimostrava che anche nella cornice
della Nato c’era posto per iniziative di pace. I socialisti di sinistra si unirono invece al
Pci nello stigmatizzare il moderatismo del governo59.
30 Concludendo il dibattito, Piccioni disse il 30 ottobre che il governo italiano si era
sempre mostrato favorevole ai negoziati nel quadro Onu e che non aveva cessato di
lavorare in tal senso. Affermò poi: «Il sottosegretario Russo ha trasmesso
l’incoraggiamento dell’Italia all’azione conciliativa del segretario generale dell’Onu, U
Thant; al tempo stesso abbiamo fatto conoscere alle parti più direttamente interessate
nel conflitto il nostro desiderio di una soluzione pacifica. La solidarietà tra alleati
atlantici si è rivelata totale»60.
31 Se dal punto di vista interno la crisi di Cuba rappresentò in Italia un momento di
coesione tra le forze che promuovevano il centro-sinistra e di dissenso con i gruppi che,
sia a destra che a sinistra, vi si opponevano, dal punto di vista delle relazioni
internazionali costituì un momento di non minore importanza. Gli Stati Uniti, infatti,
dopo lunghi mesi di progressivo avvicinamento e maturazione di una disposizione
favorevole, si decisero ad appoggiare più apertamente l’esperimento dell’apertura ai
socialisti, constatando che la coalizione che si veniva a formare in Italia aveva
dimostrato di reggere alla prova dell’atlantismo ed aveva assicurato il totale sostegno
alle decisioni della Casa Bianca61. Testimonianza di ciò risiede nel fatto che quando
Fanfani, nel gennaio 1963, si recò negli Stati Uniti, fu accolto a Washington con grande
cordialità62, per una visita durante la quale «furono verosimilmente discusse sia le
questioni riguardanti lo smantellamento dei Jupiter sia le scelte politiche che avrebbero
successivamente governato l’Italia»63.
4. Conclusioni
32 Secondo Sergio Romano,
il centro-sinistra […] divenne gradito a Washington nel momento in cui fu chiaro
che la nuova costellazione [il governo Fanfani IV] […] sarebbe stata ancora più
infeudata all’America, per certi aspetti, del vecchio centrismo degasperiano. L’Italia
era, infatti, la più piccola e la più debole delle grandi potenze, ma poteva sfruttare
la forza degli altri e concorrere a risultati in cui il suo ruolo sarebbe stato
valorizzato […] Era, quella di Fanfani, la versione aggiornata e volontaristica di
quella politica del peso determinante che il paese aveva praticato per gran parte
della sua storia unitaria64.
33 Leopoldo Nuti, dal canto suo, ricorda che «in ogni discussione sulla politica estera di un
futuro governo di centro-sinistra, la questione centrale era sempre la stessa: quale
atteggiamento avrebbe assunto un governo di centro-sinistra nei confronti
dell’Alleanza atlantica?»65. Le parole di questi due autorevoli studiosi dei rapporti italo-
americani e più in generale delle relazioni di Roma con il resto del mondo, mettono in
risalto ciò che si è cercato di evidenziare in questa ricerca, ovvero l’intima connessione
esistente tra questioni domestiche italiane e politica estera. Si tratta di un dualismo che
affonda le sue radici nella seconda metà del XIX secolo: Romano allude a un fil rouge che
da Cavour giunge sino ad Amintore Fanfani per poi proseguire e arrivare ai giorni
nostri. Il tradizionale "pendolarismo" italiano, fatto di machiavellismo e razionalità,
costituisce, infatti, una costante della tradizione diplomatica del paese. Per dare credito
a tale tesi si può partire addirittura dal 1855, quando Cavour e i dirigenti piemontesi
vararono l’invio di truppe nella lontana Crimea allo scopo, raggiunto dati gli esiti
successivi, di favorire il processo di unificazione nazionale. Ancora, si può pensare alla
celebre enunciazione del più volte ministro degli Esteri Emilio Visconti-Venosta che,
con fredda lucidità, amava sottolineare la necessità per gli italiani di essere
«indipendenti sempre, isolati mai». Furono poi Sidney Sonnino e, soprattutto, Dino
Grandi, vero astro della politica del peso determinante, a cercare di fare dell’Italia l’ago
della bilancia durante le due guerre mondiali.
34 Successivamente, nel secondo dopoguerra, il paese si trovò nella necessità di prendere
posizione nell’ambito del bipolarismo emerso dopo gli eventi bellici. La scelta a "stelle e
strisce" trovò il suo momento emblematico nel viaggio di De Gasperi a Washington del
1947. Da allora il primato dell’atlantismo nella politica estera italiana fu indubbio,
nonostante le perplessità avanzate da diverse parti politiche, non solo della sinistra (si
pensi a quei settori interni alla Dc che, sedotti dal neutralismo e dal non allineamento,
osteggiarono l’ingresso nella Nato66). La testimonianza più rilevante dell’assoluta
fedeltà agli Stati Uniti si deve probabilmente rintracciare proprio nel periodo
considerato in questo lavoro. A cavallo fra la seconda metà degli anni Cinquanta e la
formazione del primo governo di apertura al Psi, infatti, le questioni interne furono
affrontate da Palazzo Chigi sempre con estrema cautela, attenzione volta a
comprendere se le dinamiche italiane fossero gradite e approvate dalla Casa Bianca. In
politica estera, inoltre, per Roma si dimostrò evidente che l’unica possibilità di
concorrere alle scelte fondamentali dell’Alleanza e al suo dispositivo di difesa nucleare
era quella di appoggiare le proposte statunitensi, orientate ad una maggiore
integrazione ed al controllo americano sull’arsenale atomico della Nato. Per questo
l’Italia, sotto la guida del secondo esecutivo Fanfani, accettò di ospitare sul suo
territorio missili a media gittata provenienti da Washington e gestiti da un sistema che
prevedeva il simultaneo consenso della Casa Bianca e di Roma per il loro utilizzo.
35 Durante la crisi di Cuba, Fanfani si strinse ancora di più attorno al blocco occidentale.
Prima, il 23 ottobre, si rivolse a Kennedy con una missiva colma di parole piene di
riguardo nei confronti del “grande alleato”, che informò del suo pieno sostegno; poi
non oppose alcuna resistenza alla rimozione dei Jupiter, che pure costituivano il
simbolo tangibile dell’importanza che Washington conferiva al partner italiano, oltre
che uno strumento concreto di difesa in caso di attacco sovietico. Quando gli Stati Uniti
proposero il ritiro dei vettori, i dirigenti italiani accolsero la richiesta, non volendo
contrastare gli interessi fondamentali dell’amministrazione americana. «Anche se
consapevoli che il ritiro dei missili Jupiter era stato oggetto di trattativa segreta tra i
sovietici e gli americani, mantennero un contegno riservato, accettando la versione
ufficiale statunitense che il ritiro era dovuto all’obsolescenza di quel sistema difensivo»
67
.
NOTE
1. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, Firenze, Polistampa, 2010, p. 421.
2. L’Icbm, acronimo dell’espressione inglese Intercontinental Ballistic Missile, è un missile balistico
per il trasporto a lungo raggio di ordigni nucleari. Esso si distingue da altri missili balistici, come
gli Irbm (Intermediate Range Ballistic Missile) e gli Srbm (Short Range Ballistic Missile), per la sua ampia
gittata, superiore a cinquemila km. Cfr. CARTER, Ashton, SCHWARTZ, David, Ballistic Missile
Defense, Washington, The Brookings Institution, 1984, pp. 122-153. Il primo Icbm della storia, l’R-7
Semërka, fu lanciato in orbita dai sovietici il 21 agosto 1957. Cfr. GADDIS, John Lewis, La guerra
fredda: rivelazioni e riflessioni, Milano, Mondadori, 2007, p. 471.
3. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963,
London, North Carolina University Press, 1997, p. 13.
4. SCHWARTZ, David, NATO’s Nuclear Dilemmas, Washington, The Brookings Institution, 1983, p.
35.
5. «Durante il Consiglio atlantico di Parigi del 16-19 dicembre 1957, gli Stati Uniti, per superare il
cosiddetto missile gap, proposero la dislocazione di missili del tipo Jupiter e Thor in alcuni paesi
europei, fra cui l’Italia». FERRARIS, Luigi Vittorio, Manuale della politica estera italiana, Bari,
Laterza, 1996, p. 113.
6. Cfr. NUTI, Leopoldo, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991,
Bologna, Il Mulino, 2007, p. 139.
7. Il summit alle Bermuda fu organizzato congiuntamente da MacMillan ed Eisenhower per
dimostrare pubblicamente il permanere di buoni rapporti fra Londra e Washington, dopo che gli
eventi di Suez dell’anno precedente avevano fatto sorgere delle frizioni fra le due
amministrazioni. In questa circostanza, dopo aver ricordato cordialmente il servizio militare
prestato fianco a fianco in nord Africa durante la seconda guerra mondiale, i due leader
discussero della questione mediorientale e raggiunsero un accordo in base al quale MacMillan si
impegnava a ospitare sul suolo britannico sessanta missili statunitensi Irbm del tipo Thor. Cfr.
MAMMARELLA, Giuseppe, Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile (1945-1973), Firenze, Vallecchi,
1973, p. 198.
8. «In early 1957, Eisenhower formally accepted the principle of providing the British with Irbm.
He did not insist or even suggest at the time that these missiles would be subject to Nato control.
The agreement with Britain simply called for missiles to be “made available by the United States
for use by British forces” and said nothing at all about Nato. It was clear that Eisenhower
intended to treat the British generously. In late 1957, he wanted to “take the British into the fold
on the basis of mutual confidence”, and called for a full exchange of information».
TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963,
Princeton, Princeton University Press, 1999, pp. 207-208.
9. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, Roma, Edizioni
Associate, 2003, p. 12.
10. «The Thors might convince the British to abandon Blue Streak. This would indirectly
strengthen Western defense by preventing wasteful duplication and preserving British funds for
conventional forces, while it would also head off what might become a fully independent British
missile capability». NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters
1957-1963, cit., pp. 10-11.
11. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 13.
12. Il McMahon Act (noto anche come Atomic Energy Act) fu firmato dal presidente Harry Truman
nell’agosto 1946 ed entrò in vigore nel gennaio dell’anno successivo. Ispirato dal senatore
democratico del Connecticut Brien McMahon, tale provvedimento affermò il monopolio di
Washington nella gestione e nel controllo della tecnologia nucleare sviluppata congiuntamente
da Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada durante il secondo conflitto mondiale. Cfr. LEVI, Edward
Hirsch, Memories about the McMahon Act, Chicago, University of Chicago Press, 1984, pp. 1-3.
13. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit.,
p. 12.
14. In un discorso ufficiale dell’ottobre 1957 Eisenhower enunciò chiaramente le sue perplessità
riguardo il McMahon Act: «‘The Atomic Energy Act had been a great mistake. The policy it
mandated seemed to run counter to common sense’, he told De Gaulle in September 1959. ‘The
law’, he told the French leader a few months later, was ‘somewhat absurd’. […] The president
took exactly the same line in meetings with United States officials. In May 1959, for example, he
complained about being handcuffed by the ‘senseless limitations’ Congress had placed on the
administration». TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement
1945-1963, cit., p. 197.
15. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 14.
16. TRACHTENBER, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., pp.
201-203.
17. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit.,
p. 18.
18. Cfr. Ibidem.
19. Cfr. SCHWARTZ, David, NATO’s Nuclear Dilemmas, cit., pp. 69-70.
20. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit.,
pp. 53-56.
21. Ibidem.
22. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza
americana in Italia, Bari, Laterza, 1999, p. 128.
23. Cfr. Ibidem, pp. 130-155. A due mesi dalla nomina a capo del governo, il 27 luglio 1958, Fanfani
rilasciò un’intervista al Washington Post nella quale dichiarò a chiare lettere la fedeltà italiana nei
confronti della Casa Bianca. Lo statista aretino affermò: «La più completa e operante solidarietà
atlantica è, oggi come ieri, la stella polare della politica estera italiana». WOLLEMBORG, Leo,
Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche fra Roma e Washington, Milano, Mondadori,
1983, p. 65.
24. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», in Storia delle Relazioni Internazionali, 1, 1996-1997,
p. 107.
25. Ibidem, pp. 146-147.
26. Cfr. CORALLUZZO, Valter, La politica estera dell’Italia repubblicana 1946-1992. Modello di analisi e
studio di casi, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 116.
27. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 18.
28. «[…] Fanfani aveva chiesto che l’accordo fosse perfezionato nella forma di uno scambio di
note, per evitarne il passaggio parlamentare e le prevedibili polemiche delle sinistre. […] Gli Stati
Uniti acconsentirono a tale richiesta e l’intesa fu siglata il 26 marzo 1959 con uno scambio di note
tra il ministro degli Esteri Pella e l’ambasciatore americano a Roma Zellerbach. Se fu possibile
aggirare il voto delle Camere con l’artificio dello scambio di note non si evitarono però le
polemiche. La reazione in Parlamento fu vivace e trovò concordi i deputati comunisti e socialisti,
seppur con numerosi distinguo, nello stigmatizzare l’accordo che portava l’Italia, secondo la
valutazione dei parlamentari dell’opposizione di sinistra, ad abdicare alla sovranità nazionale e
ad esporsi al rischio di distruzione atomica. […] Successivamente anche le dichiarazioni di Pella a
Washington in occasione della riunione convocata per il decimo anniversario della Nato
suscitarono una vivace polemica per lo spirito bellicoso che le sinistre attribuivano al governo. Il
ministro aveva affermato: 'Se mia figlia dovesse correre il rischio di vivere in un mondo
comunista, io come padre scelgo per la mia bambina piuttosto il rischio della bomba atomica'».
MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), Milano, Guerrini
e Associati, 2008, pp. 114-115. L’accordo raggiunto fra Roma e Washington «poneva le basi per la
dislocazione sul territorio italiano di 30 missili a media gittata […] Jupiter, che sarebbero divenuti
operativi sin dal 1960, prima dell’ascesa alla presidenza di Kennedy». DI NOLFO, Ennio, La guerra
fredda e l’Italia, cit., p. 424.
29. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», cit., pp. 97-101.
30. Ibidem, p. 102.
31. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., pp. 19-20.
32. Cfr. TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963,
cit., pp. 146-200.
33. In particolare durante le trattative si stabilì che il governo americano avrebbe contribuito
all’operazione con una somma totale di oltre dodici milioni di dollari, più una quota ulteriore
destinata agli imprevisti. A ciò si sarebbe aggiunta anche la fornitura di materiali e servizi per lo
stesso ammontare, mentre il governo italiano si impegnò a finanziare la costruzione delle
strutture delle basi missilistiche, il loro funzionamento e la loro manutenzione per una spesa
annua di circa nove milioni di dollari. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock
all’operazione Pot Pie: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», cit., pp.
111-112.
34. Le dieci località erano: Acquaviva delle Fonti, Altamura (Castel Sabini e Santeramo), Gioia del
Colle e Gravina in Puglia, Laterza, Mottola e Spinazzola in Puglia; Irsina e Matera in Basilicata.
Cfr. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 10.
35. La strategia della flexible response prevedeva risposte proporzionali, da parte della Casa
Bianca, in base alla gravità delle situazioni da affrontare. Si trattava di un’inversione di tendenza
rispetto alla massive retaliation, sostenuta in precedenza dall’amministrazione Eisenhower, e
richiedente risposte militari rapide e decise dinanzi ad ogni minaccia nemica. Cfr. DAALDER, Ivo,
The Nature and Practice of Flexible Response. Nato Strategy and Theater Nuclear Forces since 1967, New
York, Columbia University Press, 1991, pp. 4-16.
36. Cfr. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 21.
37. «Kennedy hoped the two major powers could find some way to live with each other in peace
[…] A European force that included a German contingent was out of the question, because it
meant in the final analysis a German finger on the nuclear trigger, and a force built up from
British and French contingents alone would scarcely solve Germany’s security problem, or lead
the Germans to accept a permanent non-nuclear status. […] The assumption was that the
development of a German nuclear force would be a source of instability both in itself and because
of the likely Soviet reaction. […] And that general policy implied that the U.S. government would
have to tighten control over American nuclear weapons with the Nato forces in Europe. The
deployment of American strategic missiles on European soil would also have to be opposed,
because these weapons might fall too easily into the hand of host country forces».
TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., pp.
283-285.
38. Del comitato, ufficializzato il 16 ottobre, facevano parte il numero due della Casa Bianca
Lyndon Johnson, il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il
direttore della Cia John McCone, Robert Kennedy e i più stretti consiglieri del presidente. Cfr.
SMITH, Thomas, Encyclopedia of the Central Intelligence Agency, New York, Facts on File, 2003, p. 90.
39. Cfr. NUTI, Leopoldo, L’Italie et les missiles Jupiter, in VAÏSSE, Maurice (a cura di), L’Europe et la
crise de Cuba, Parigi, Armand Colin, 1993, p. 140. In particolare l’Excomm stabilì, in caso di via
libera all’offensiva sull’isola caraibica, di avvertire preventivamente MacMillan, Adenauer, De
Gaulle e, solo nell’imminenza dell’attacco, Fanfani e i turchi. La decisione di informare Palazzo
Chigi solo all’ultimo momento era dettata dalla volontà di impedire che Roma tentasse di opporsi
all’eventuale offensiva statunitense. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica
estera italiana (1958-1963), cit., p. 390.
40. Lettera di Amintore Fanfani a John F. Kennedy, Roma, 23 ottobre 1962, citata in GENTILONI
SILVERI, Umberto, Fanfani visto da Washington, in GIOVAGNOLI, Agostino, TOSI, Luciano (a cura
di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana: atti del convegno di studi (Roma, 3-4 febbraio 2009),
Venezia, Marsilio, 2010, pp. 113-114.
41. Come ha ricordato Evelina Martelli, «la concomitanza della crisi di Cuba fece sì che nella
riunione fossero discusse principalmente le questioni internazionali ed in particolare le possibili
ripercussioni della crisi nei Carabi su Berlino» mentre, invece, «non furono fatti progressi nelle
trattative europee». MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana
(1958-1963), cit. p. 391.
42. Ibidem.
43. VILLANI, Angela, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-1968), Padova,
Cedam, 2007, p. 166.
44. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p.
392.
In realtà quella avanzata da Stevenson era, per i dirigenti della Casa Bianca, più che una semplice
ipotesi. La necessità di rimuovere le basi statunitensi in Europa in cambio di un’azione analoga
dei sovietici a Cuba, era emersa come unica soluzione alla crisi fin dalla metà di ottobre: «Sin dal
19 ottobre McNamara sostenne la necessità di un compromesso basato sulla rinuncia alle basi
turche ed italiane, spingendosi persino ad ipotizzare una rinuncia alla base americana di
Guantanamo, nell’isola di Cuba. Una posizione, questa, condivisa anche da Adlai Stevenson […]. A
tale ipotesi si opponevano risolutamente soltanto i militari ed alcuni "falchi" della diplomazia
americana [tutti presenti all’interno dell’Excomm], come Paul Nitzte [assistente del segretario alla
Difesa per gli affari internazionali di sicurezza], Maxwell Taylor [membro dello Stato Maggiore
statunitense] e Douglas Dillon [segretario del Tesoro]. Lo stesso presidente Kennedy condivideva
questa posizione». DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 428.
45. «Uno dei momenti centrali per l’evoluzione della crisi fu l’impegno segreto, preso da Robert
F. Kennedy il 27 ottobre […] con il nuovo ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin,
di smantellare le basi di missili Jupiter situate sul territorio della Turchia e, in subordine, anche
quelli posti in Italia, entro un termine ragionevole, dopo il ritiro dei missili sovietici da Cuba». DI
NOLFO, Ennio, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in VAÏSSE, Maurice (sous la dir. de), L’Europe et la
crise de Cuba, cit., p. 109.
46. La disponibilità italiana era ben nota all’amministrazione statunitense. A tal proposito
l’ambasciatore americano alla Nato, Thomas K. Finletter, in una lettera indirizzata a Rusk,
scriveva: «L’ipotesi di smobilitare i missili da Turchia ed Italia presenta problemi specialmente in
relazione ad Ankara, che non sembra interessata all’obsolescenza dei mezzi ed al fatto che sono
facili bersagli quanto piuttosto al fatto che essi rappresentano la garanzia americana contro
l’invasione dell’Unione Sovietica. Sembra pertanto preferibile, essendo Cuba fuori dall’area Nato,
proporre la smobilitazione di basi esterne a tale area. Ci sembra che invece gli italiani siano più
propensi a smantellare i missili Jupiter, se si trova un’adeguata sostituzione». KEEFER, Edward,
Cuban Missile Crisis and Aftermath, Washington, United States Government Printing Office, 1997, p.
202. Analogamente l’ambasciata statunitense a Roma comunicava, il 26 ottobre, che la rimozione
dei missili dall’Italia «sarebbe probabilmente fattibile», essendo sufficiente che il governo di
Washington consultasse preventivamente quello italiano. Cfr. Ibidem, p. 215.
47. Cfr. KEEFER, Edward, Cuban Missile Crisis and Aftermath, cit., p. 205. «Andreotti incontrò
McNamara alla vigilia della crisi e gli disse che gli italiani sarebbero stati lieti di rinunciare ai
vecchi missili, se gli americani lo avessero voluto». DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit.,
p. 428.
48. «Il governo di centro-sinistra italiano accettò la quarantena [decretata da Kennedy alle navi
sovietiche in rotta verso Cuba] con una certa reticenza. Durante la crisi, soprattutto all’interno
del palazzo di vetro, esso fece il possibile per migliorare le relazioni con i sovietici e per spingere
Kennedy verso un negoziato con Chruščëv. Quando, il 27 ottobre, l’attacco americano parve
imminente, il primo ministro democristiano, Amintore Fanfani, chiese a Kennedy di rinviare la
scadenza dell’ultimatum e si dichiarò favorevole a un compromesso concernente i Jupiter
dislocati in Turchia. Il Psi, dal quale dipendeva il fragile equilibrio della coalizione, aveva
condannato la quarantena e senza dubbio aveva incoraggiato negoziati che mettessero fine alla
crisi». BERNSTEIN, Barton Bernstein, «The Cuban Missile Crisis: Trading the Jupiter in Turkey?»,
in Political Science Quarterly, 95, 1/1980, p. 101.
49. Cfr. PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, 34° Congresso nazionale, Milano, Ed. Avanti!, 1961, p. 9.
50. D’AURIA, Elio, Gli anni della «difficile alternativa». Storia della politica italiana 1956-1976, Napoli,
ESI, 1983, p. 108.
51. Cfr. VOULGARIS, Yannis, L’Italia del centro-sinistra (1960-1968), Roma, Carocci, 1998, pp. 111-116.
52. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., pp.
340-341.
53. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 431.
54. Il Dipartimento di Stato di Washington, infatti, si era espresso contrariamente all’intervento
dell’Onu, richiesto invece a più riprese da Fanfani. Cfr. VILLANI, Angela, L’Italia e l’ONU negli anni
della coesistenza competitiva (1955-1968), cit., p. 166.
55. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza
americana in Italia, cit., p. 551. Agli occhi del dipartimento di Stato e della diplomazia statunitense
(in particolare dell’ambasciata a Roma), l’azione del governo italiano era stata pesantemente
condizionata dall’atteggiamento di Nenni che, non volendo perdere terreno rispetto ai comunisti
in vista delle prossime elezioni politiche, aveva aderito ad una linea dichiaratamente filo-
statunitense. Tuttavia, secondo i funzionari di Washington, tale posizione, non essendo altro che
il frutto di scelte di convenienza, sarebbe potuta venir meno in breve tempo e con grande facilità.
Cfr. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 432. La diffidenza del dipartimento di Stato
nei confronti dei socialisti si evince da una missiva inviata alla fine dell’ottobre 1962 da Arthur
Schlesinger, come si è detto fra i maggiori fautori dell’apertura a sinistra in Italia, a McGeorge
Bundy, National Security Advisor del presidente Kennedy: «Da quindici mesi [scriveva Schlesinger]
la Casa Bianca si sforza di convincere il dipartimento di Stato che un atteggiamento di simpatia
verso i socialisti di Nenni favorirebbe gli interessi degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali.
[…] Durante tutto questo periodo quasi tutti gli eventi hanno dimostrato la fondatezza della
nostra opinione secondo la quale i socialisti di Nenni hanno definitivamente rotto i ponti con i
comunisti e sono risoluti a far aderire il loro partito alla causa della democrazia. […] Ciò
nonostante, durante questo periodo il Dipartimento di Stato ha ostacolato ogni possibilità
d’intesa tale da accelerare l’inserimento dei socialisti nel campo democratico». DI SCALA,
Spencer, Renewing Italian Socialism. Nenni to Craxi, New York, Oxford University Press, 1988, p. 93.
56. Fra gli altri, «Il Giornale d’Italia», avrebbe commentato in data 18 novembre: «La linea della
nostra politica estera inquieta i gruppi più coscienti […] della Democrazia cristiana […]. Non è
esagerato affermare che alcuni settori della Democrazia cristiana, suggestionati e spinti dal
neutralismo del Psi, stanno divenendo, non neutralisti, ma "pacifisti". Dal pacifismo a un
atlantismo emascolato e inerte non c’è che un passo: più esattamente, non v’è alcun passo, sono
la stessa cosa». Citato in MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana
(1958-1963), cit., pp. 395-396.
57. «La destra interna al partito e anche la maggioranza dei "dorotei" entrarono in fibrillazione
ai primi segni di ammorbidimento della rigorosa fedeltà italiana all’alleato d’oltreoceano,
ritenendo l’atteggiamento di Fanfani del tutto strumentale, atto solo a compiacere l’alleato
socialista. All’ambasciata americana fu riferito che Moro aveva addirittura minacciato le
dimissioni da segretario della Dc per far rientrare la critica, definita una vera e propria 'rivolta
della destra interna per l’annacquamento delle posizioni del governo su Cuba'. Ancor più
duramente, Flaminio Piccoli [deputato democristiano esponente di spicco dei "dorotei"] andò a
sostenere di fronte ai funzionari statunitensi che Fanfani era inaffidabile, perché dietro la
vantata amicizia con Kennedy stavano le tendenze, sue e del suo gruppo, a volere un’Italia
neutrale ed equidistante. Completava il quadro […] il nervosismo crescente del nuovo presidente
della Repubblica Segni, che più volte cercò di scavalcare il governo […] per correggere a destra la
politica estera del governo». FORMIGONI, Guido, Fanfani, la Dc e la ricerca di un nuovo discorso di
politica estera, in GIOVAGNOLI, Agostino, TOSI, Luciano (a cura di), Amintore Fanfani e la politica
estera italiana: atti del convegno di studi (Roma, 3-4 febbraio 2009), cit., pp. 88-89.
58. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 395.
59. Cfr. WOLLEMBORG, Leo, Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche fra Roma e
Washington, cit., pp. 136-151.
60. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), p. 395.
61. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza
americana in Italia, cit., pp. 545-553.
62. «Il 16 gennaio 1963, durante il brindisi al termine di una colazione alla Casa Bianca che
vedeva Fanfani ospite ufficiale in qualità di presidente del Consiglio, dopo averne elogiato i
notevoli meriti nella recente straordinaria rinascita del Paese dopo il 1945, [Kennedy] ne
tratteggiò in modo efficace e sintetico la concezione di base: Esso mi rammenta un aneddoto di
Abramo Lincoln. Dopo che egli fu eletto presidente, qualcuno disse: Signor Lincoln, che farete con
i vostri nemici? Lincoln rispose: Li distruggerò. Li farò miei amici. Questo sta facendo in Italia il
primo ministro [chiosò Kennedy con chiaro riferimento all’apertura democristiana nei confronti
dei socialisti]». GENTILONI SILVERI, Umberto, Fanfani visto da Washington, in GIOVAGNOLI,
Agostino, TOSI, Luciano (a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana: atti del convegno di
studi (Roma, 3-4 febbraio 2009), cit., p. 114.
63. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 431.
64. ROMANO, Sergio, Lo scambio ineguale. Italia e Stati Uniti da Wilson a Clinton, Bari, Laterza, 1995,
p. 94.
65. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in
Italia, cit., p. 423.
66. Nell’ambito della copiosa letteratura sul tema, cfr. FORMIGONI, Guido, La Democrazia cristiana
e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996.
67. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 445.
68. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in
Italia, cit., p. 665.
RIASSUNTI
Il presente saggio è incentrato sull’analisi del ruolo giocato dall’Italia durante uno dei momenti di
maggiore attrito della guerra fredda: la crisi dei missili di Cuba. La scelta di questo tema deriva
dalla volontà di esaminare un frangente della storia contemporanea particolarmente battuto,
quale la tensione dell’ottobre 1962, alla luce dell’azione italiana nella crisi, quest’ultimo aspetto,
invece, relativamente poco studiato. Obiettivo del lavoro è dimostrare da un lato l’impegno
profuso da Roma per favorire una soluzione pacifica della contesa, dall’altro la profonda
influenza che gli eventi cubani, e più in generale, l’acuirsi delle tensioni sovietico-statunitensi,
ebbero sulle dinamiche politiche italiane.
The current essay is focused on the analysis of the role played by Italy during one of the most
fractioning moment of the Cold War: the Cuban missile crisis. The choice of this topic derives
from the willingness to examine a particularly studied period of the contemporary history, that
is the tension of October 1962, in the light of the Italian action during the crisis (this latter
relatively less studied). The aim of the work is to demonstrate from one side the strong effort
made by Rome to promote a pacific solution of the dispute, from the other side the deep
influence that the Cuban events and, in general, the increase of the Soviet-American tensions had
on the Italian political dynamics.
INDICE
Keywords : Amintore Fanfani, Cuban missile crisis, Democrazia Cristiana, opening to the left,
Partito Socialista Italiano
Parole chiave : Amintore Fanfani, apertura a sinistra, crisi dei missili di Cuba, Democrazia
Cristiana, Partito Socialista Italiano
AUTORE
MATTEO ANASTASI
Ha conseguito la laurea in Storia presso l’Università Europea di Roma discutendo una tesi
sull’attività del quarto governo di Amintore Fanfani. Attualmente si sta specializzando in
Relazioni Internazionali presso l’Università LUISS Guido Carli, sotto la supervisione del professor
Francesco Perfetti. I suoi campi di studio sono l’analisi del fenomeno politico dell’ apertura a
sinistra nel dopoguerra e la storia diplomatica italiana.
Introdución
4 El periodo que se extiende desde 1900 a 1920 en Italia nos presenta a los judíos
totalmente insertados en la sociedad italiana, sin ningún tipo de recelo; además, su
presencia es importante, tanto cuantitativa como cualitativamente, haciéndose esto
último especialmente evidente en la ocupación por judíos italianos de puestos políticos
de especial delicadeza y de marcado carácter nacional, como pudieron ser la
Presidencia del Consejo de Ministros (Luigi Luzzati), el Ministerio de Guerra (Giuseppe
Ottolenghi) o el curioso caso del Ministerio de Gracia y Justicia y de los Cultos – de
todos los cultos existentes- (Ludovico Mortara). No puede pasar desapercibido el hecho
de encontrar a un judío como máximo encargado de los cultos, también del cristiano.
5 En palabras de Eugenio Artom, el judío «vive su vida de trabajo y su mentalidad
basándose únicamente en la nación y no como miembro del colectivo hebraico,
escogiendo la política, el arte, la filosofía, los partidos y las escuelas, aquéllos que mejor
se correspondían con sus propias tendencias personales», mientras otros, además,
«reniegan pertenecer a la religión de sus padres y abandonan la comunidad,
proclamando el laicismo de su pensamiento y de su vida» 5. Vemos que lejos de ser un
grupo aislado y extraño, el judío era un italiano más, y su participación y compromiso
con la sociedad italiana fue tan estrecha, que incluso lo encontramos en los partidos
políticos, siendo curiosa su militancia en el Partido nacional fascista (Pnf) en los
primero años pero, eso sí, sin llegar a ocupar puestos relevantes ni a formar parte de
grupos dirigentes. Tal es su reconocimiento dentro de la sociedad, que Italia se
pronunció oficialmente a favor de un «Centro nacional judío»6, hecho que constituyó
para los judíos italianos un estímulo moderno y concreto en la redefinición de la propia
pertenencia judía, italiana y judeo-italiana.
6 En cuanto al bando ideológico y político opuesto al Pnf, se puede observar la
participación de judíos en el periódico antifascista Critica Sociale a través de los índices
anuales de autores, al igual que está constatada la adhesión de un significativo número
de ellos al manifiesto antifascista de Benedetto Croce (1 mayo 1925). En cambio, nada se
sabe de la dimensión cuantitativa de la adhesión de los judíos a movimientos políticos
de orientación marxista o liberal en estos años. A pesar de todo, y en opinión de Piero
Treves, «los judíos antifascistas eran, respecto a los judíos fascistas o filofascistas, una
proporción muy superior a la media nacional»7.
7 Los judíos italianos gozaban de una total emancipación jurídica desde el siglo XIX, en
estrecha relación con el proceso del Risorgimento y la unidad nacional. Ya en 1930-1931
se sancionó la existencia de veinticinco comunidades judías, pertenecientes a la Ucii
(Unione delle comunità israelitiche italiane), dirigida por un Consejo, una Junta y un
Presidente. Esto no significaba estar al margen de la sociedad, siendo Ravenna quien
reafirmaba la “italianidad” de todo el grupo dirigente de la Ucii:
L’Unione cree que es un deber para los judíos libres como somos nosotros,
participar, con el consenso del gobierno, en las reuniones y las conferencias […],
adoptando medidas de orden económico, social y político, capaces de aliviar la
miseria de los miles de perseguidos y resolver su grave problema moral y material 8.
8 De hecho, antes de dar comienzo la persecución de los judíos en Italia, las fuentes
indican que el número de matrimonios mixtos se situaba cerca de igualar al de
matrimonios propiamente judíos, lo que supondrá un especial problema para los
legisladores racistas y la burocracia nacional a la hora de querer llevar a cabo una
clasificación con fines persecutorios.
9 No será hasta 1938 cuando Mussolini declare oficialmente antisemita al Pnf. No
obstante, con anterioridad, en su etapa en el Partido socialista italiano, el Duce ya había
hecho declaraciones de marcado carácter antisemita: presentación de los judíos como
el pueblo deicida, ataques a banqueros judíos de Londres y Nueva York, defensa de la
civilización heleno-latina, etc. Mussolini llegó incluso a afirmar en uno de sus discursos
que esperaba que los judíos italianos continuaran siendo lo suficientemente
inteligentes para no suscitar el antisemitismo que hasta entonces no había existido en
la península.
2. La persecución de la vida
16 La primera caída de Mussolini, el 25 de julio de 1943, conllevó la firma de un armisticio
con los gobiernos de Estados Unidos y Gran Bretaña, y a partir de éste la península
quedaba dividida en dos partes: al sur de la línea del frente (Italia meridional y las islas)
bajo poder anglo-americano y el Reino de Italia; el norte bajo el poder aliado-ocupante
alemán y la nueva República Social Italiana (RSI), con sede en Salò.
17 Las primeras acciones que tuvieron como finalidad el arresto de judíos se llevaron a
cabo el sábado 9 de octubre en Trieste y el sábado 16 en Roma 17. Tras estos primeros
arrestos vinieron otros como los de la región de la Toscana, Bolonia y Turín-Génova-
Milán y entre septiembre de 1943 y enero de 1944, los alemanes deportaron a la mayor
parte de los judíos que habían sido arrestados, con la colaboración italiana,
suficientemente documentada18.
18 El 30 de noviembre de 1943 se decretó el arresto de todos los judíos, pertenecieran a la
nacionalidad que pertenecieran, y su posterior reclusión en campos provinciales, a la
espera de reunirlos en campos de concentración especiales. En ese momento se trasladó
a las víctimas al único campo nacional preparado hasta ese momento, el campo de
Fossoli di Carpi (Módena). Posteriormente serían recluidos en el Campo di transito o
Campo de Bozen-Gries (en alemán, Durchgangslager Bozen) en Bolzano 19, más al norte y,
por tanto, más práctico para los alemanes. También cabe señalar la existencia de la
Risiera di San Sabba, en Trieste, primero como campo de concentración y, durante la
ocupación nazi, también de exterminio (1944-45)20. Fueron eximidos aquéllos que
estuvieran gravemente enfermos, los mayores de setenta años y los que tuvieran un
progenitor o cónyuge de raza aria.
19 Serían los alemanes los que se encargaran de las deportaciones, principalmente al
campo de Auschwitz-Birkenau y, en menor medida, a Bergen Belsen y Ravensbrück. La
mayoría fueron destinados a cámaras de gas, o murieron frecuentemente por
agotamiento como consecuencia de los trabajos forzosos, por asesinatos, por las
condiciones de vida o por las evacuaciones conocidas como «marchas de la muerte». La
confiscación de sus bienes21 se llevó a cabo mediante un decreto de 4 de enero de 1944 22,
que establecía que éstos pasarían a ser propiedad del Estado, administrándolos a través
del Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egli) 23. En junio-agosto de 1944 fueron
liberadas Roma y Florencia; en enero de 1945, Auschwitz; en abril de 1945, la llanura
padana. Así se puso fin a la sangre y al Holocausto nazi-fascista.
28 El periodo cronológico elegido, 1939-1945, responde a que será tras la Guerra Civil, y
hasta 1945, cuando el régimen de Franco conoció su fase totalitaria de corte más
fascista, y en el que, por tanto, las ideas y medias antisemitas se dejaron ver de manera
más evidente. En palabras de Maite Ojeda: «El triunfo del franquismo no sólo significó
la recuperación del vínculo privilegiado entre Iglesia y Estado, sino la exclusión, de
derecho y de hecho, de los no-católicos del acceso a la igualdad jurídica, incluyendo la
adquisición de la ciudadanía española»29.
29 No obstante, el antisemitismo en los primeros años de la España franquista, según la
tesis de José Lisbona, fue difundido de manera exagerada en el exterior, incluyendo
informaciones falsas sobre leyes antijudías. De hecho, la Embajada alemana en Madrid
presentará quejas por la escasa presencia de antisemitismo en España, tal y como ellos
lo entendían. Aun así, no podemos cometer el error de considerar a la España de la
época un país con ausencia de antijudaísmo, pues los judíos encontraron trabas y
problemas, tales como la prohibición de la circuncisión, los enlaces matrimoniales y los
entierros judíos. A estas medidas habría que sumar la prohibición de registrar a los
hijos de judíos si no habían sido bautizados, y la obligación de los niños y niñas en edad
escolar de asistir a clases de religión católica.
30 Habrá que esperar a 1945, cuando la Ley de Educación Primaria permita a los hijos de
extranjeros no católicos no asistir a clases de religión, y el Fuero de los Españoles (17 de
julio) otorgue la posibilidad de la práctica privada de religiones no católicas, abriéndose
las sinagogas que habían sido cerradas, junto con los cementerios. Aun así, el férreo
control ideológico que se llevó a cabo sobre el sistema educativo, llevará a incluir en los
manuales una «historia oficial» que presentaba a los judíos como enemigos históricos
del país, llegando incluso a culpabilizarlos de la guerra.
31 Pero fue en 1941 cuando se llevó a cabo la medida más amenazante y peligrosa contra
los judíos españoles, y no por casualidad, sino coincidiendo con el momento de mayor
relación entre la España franquista y la Alemania de Hitler. La Dirección General de
Seguridad ordenó a los gobernadores civiles provinciales redactar y enviar informes
sobre todos los judíos que residían en el país, destacando entre los datos a recoger, la
inclinación política y el «grado de peligrosidad»30.
32 En cuanto al discurso público de Franco, podemos encontrar declaraciones de carácter
abiertamente antisemita: alianza del espíritu judío con el marxismo, equiparación de
los términos capital-judaísmo-marxismo, y una carta dirigida al Papa Pío XII en la que
acusaba al judaísmo de llevar a cabo un programa de odio contra la civilización católica.
A diferencia del caso italiano, en el caso franquista no aparecen las teorías de la raza,
con una única referencia en un discurso al hablar de las razas que se caracterizaban por
su codicia. Podemos asegurar que Franco se posicionó contra los judíos, pero su
actuación distaba mucho del antisemitismo radical de la Alemania nazi o la Italia
fascista. Resulta muy interesante para ver la imagen que se proyectaba del judío en la
España franquista la obra de Álvarez Chillida31.
33 Los consulados de España, Turquía, Chile, Suiza e Irán pusieron interés en que sus
ciudadanos detenidos en París fuesen liberados, pero a principios de septiembre de
1941, sólo Italia lo había conseguido. Así las cosas, a mediados de 1942 y en contra de lo
recomendado por el embajador alemán en París, Otto Abetz, el Ministerio de Asuntos
Exteriores alemán decidió eximir de las deportaciones de Francia a Auschwitz, a los
judíos de los países aliados, neutrales e, incluso en algún caso, enemigos. A pesar de la
insistencia de Adolf Eichmann en las deportaciones (su objetivo era que todo el pueblo
judío hubiese sido deportado, como muy tarde, a mediados del año 1943), la Alemania
nazi dio, como ultimátum, dos alternativas: la repatriación o la deportación.
34 El conocimiento que el gobierno franquista tenía sobre la situación del Holocausto,
remite a la pregunta acerca de hasta qué punto los dirigentes españoles eran
conocedores o no de la persecución y asesinato de los judíos. En palabras de Martín de
Pozuelo,
«el exterminio de los judíos y otras minorías por parte de los nazis no fue un
secreto que se descubrió por sorpresa a final de la II Guerra Mundial tal como nos
han intentado hacer creer. Se supo lo que sucedía –y se supo con detalle- pese a que
los nazis trataron de ocultarlo […]»32.
35 Dicho autor señala el noble, pero aislado, papel jugado por ciertos diplomáticos
españoles en la protección de los judíos, derivó en una visión falaz explotada por el
propio régimen de un Franco filosemita. Esta supuesta acción humanitaria de Franco, se
ha visto desmentida y desacreditada por diversos trabajos históricos desde mitad de los
años setenta, tal y como afirma Rozenberg33.
36 Las primeras informaciones de lo que estaba ocurriendo llegaron de manos de un grupo
de médicos que había estado en Austria y Polonia, que avisaron en un informe al
ministro español de Gobernación sobre la eutanasia y el encierro de la población judía
en guetos. Posteriormente se desarrollará uno de los hechos más conocidos de esta
época con respecto a la persecución y eliminación de los judíos: el papel jugado por
algunos diplomáticos españoles, cuyas acciones de rescate fue encomiable, no dudando
en algunos casos ir más allá de sus competencias, infringiendo medidas ministeriales e
incluso arriesgando su propia vida. Entre estos diplomáticos habría que destacar los
siguientes nombres: Bernardo Rolland (París), Sebastían Romero Radigales (Atenas),
que ha recibido en el año 2014 la distinción de Justo entre las Naciones, Ginés Vidal
(Berlín), Julio Palencia (Sofía) llamado “el magnífico amigo de los judíos”, José Rojas y
Moreno (Bucarest) y Ángel Sanz Briz (Budapest) al que el Memorial Yad Vashem otorgó
la distinción de “Justo entre las Naciones”34. No obstante, y pese a la actuación de estos
diplomáticos, es necesario seguir reflexionando sobre la complicada relación entre
España y los judíos, ya que por lo visto:
[…] no es solamente la conexión Franco-Hitler en el contexto europeo lo que nos
vincula al Holocausto, sino el hecho de que en la España de Franco y mucho más allá
de la dictadura, el genocidio nazi fuera considerado un tema “de judíos y
alemanes”. ¿Cómo pensar que eso no nos afecta – recoge el autor palabras de Reyes
Mate – cuando tantos españoles fueron educados en una España franquista, es decir,
con categorías que privaban de significación a esta catástrofe? 35.
Conclusiones
41 Comenzaremos apuntando que en este artículo, en el que se compara la actitud de dos
regímenes dictatoriales frente a un mismo colectivo, el pueblo judío, a priori ambos
podrían resultarnos similares, pero a lo largo de este estudio hemos podido comprobar
cómo las políticas del fascismo italiano y español para con las comunidades judías,
pueden presentar puntos convergentes, pero para nada idénticas. Esta hipótesis que
apuntábamos al comienzo del artículo, la similitud de dos dictaduras fascistas en su
comportamiento hacia “lo judío”, se va diluyendo conforme avanzamos en la
investigación.
42 Si nos planteamos, en primer lugar, cuál era la situación de los judíos en ambos países
antes de la llegada al poder de Mussolini y Franco respectivamente, comprobaremos
rápidamente que la situación de la comunidad italiana nada tenía que ver con la de la
española. Nos encontramos, como hemos señalado, con una comunidad judía italiana
totalmente integrada en la sociedad (lo que podríamos dar en llamar judíos
“italianizados”), llegando incluso a desempeñar su labor en importantes puestos
políticos – recordemos la presidencia del Consejo de Ministros de Luzzati –, a lo que
habría que sumar la presencia en movimientos políticos de distinto posicionamiento
ideológico.
43 Por el contrario, en España observamos una comunidad judía que comenzará a alcanzar
visibilidad con la llegada de la Segunda República (a pesar de intentos anteriores, como
el de Ángel Pulido, “El apóstol de los judíos”) y sus intentos de regreso de los judíos a
Sefarad, pero cuya propuesta de concesión de nacionalidad siempre fue puesta en
entredicho y se hizo uso de ella como pretexto para numerosos enfrentamientos
políticos. Vemos, por tanto, que mientras en Italia, los autores nos hablan de que en los
judíos de la península itálica prevalecía la nacionalidad a la pertenencia al grupo/
comunidad, o por lo menos ambas cosas no eran excluyentes, en España estamos
haciendo referencia a unos judíos a los que se les quiere facilitar, de manera oficial, el
retorno, tras la expulsión de 1492.
44 Atendiendo ahora a la situación con ambos dictadores ya en el poder, las actuaciones
llevadas a cabo también fueron distintas. Sería conveniente recordar las palabras de
Mussolini en uno de sus discursos tras su llegada al poder, en las que presentaba a Italia
como la nueva Sión, antes, por supuesto, de que el Pnf se declarase abierta y
oficialmente antisemita. Mussolini, en sus primeros años de gobierno, se debate entre
el apoyo y la condena a los judíos, años en los que prima la ambigüedad. Este carácter
ambiguo será la principal característica de la postura franquista durante los primeros
años de gobierno: la controversia y la ambigüedad sí serán un punto común entre
ambas dictaduras.
45 Pero, pasados los primeros años de gobierno, en Italia se comenzó a desarrollar una
persecución oficial y pública de los judíos que, iniciada con la destrucción de sus
derechos, finalizó destruyendo sus vidas. Este giro radical está directamente
relacionado con la presión realizada por el Tercer Reich sobre Mussolini, hecho que
Franco pudo “evitar” con el inminente final de la Guerra Civil. Recordemos las palabras
que recogíamos de aquel profesor de universidad y cómo vio truncada su vida de la
noche a la mañana, para hacernos una idea del giro que experimentó la postura
mussoliniana.
46 Por esa presión y relación de Italia con Hitler, las políticas llevadas a cabo (leyes
raciales) y las actuaciones (persecuciones, detenciones, deportaciones) en Italia se
asemejaron más al llamado “perfecto plan” alemán de acabar con la existencia del
pueblo judío. Es por ello que, actuaciones como los ataques a sinagogas, la confiscación
de bienes y la existencia de campos de internamiento y trabajos forzosos, no puede sino
recordarnos a las medidas del gobierno nazi. En la España franquista, sin que el latente
recelo hacia los judíos pase inadvertido (recordemos la existencia del Archivo Judaico),
las medidas que se llevaron a cabo nunca alcanzaron en agresividad a las italianas,
aunque esto no puedo hacernos olvidar la reclusión en cárceles en penosas condiciones
de vida.
47 Si buscamos hacer un balance de la actitud del gobierno de Franco, podemos exponer
las palabras de Rother:
No se le puede atribuir a la dictadura de Franco que haya apoyado la persecución
judía llevada a cabo por el nacionalsocialismo. Este gobierno estaba tan ligado a los
valores católicos tradicionales que no pudo compartir las terribles consecuencias
que los nacionalsocialistas extrajeron de su ideología racista desde el principio de la
Segunda Guerra Mundial. Sin embargo, la dictadura tampoco fue un refugio para los
judíos perseguidos38.
48 Cabe recordar que la dictadura franquista sí facilitó el tránsito de los judíos hacia otros
países, pero nunca permitió la permanencia de éstos en la península, más por temor
político (contubernio judeo-masónico) que por otras cuestiones. Avni recoge, con
palabras certeras, cuál era la actitud franquista para con el paso de los judíos: debían
pasar «como la luz por el cristal, sin dejar rastro»39. Pero no debemos caer en la
tentación de considerar, tanto en un caso como en otro, en la Italia de Mussolini y la
España de Franco, que no actuar de manera directa (en Italia sólo durante los primeros
años) exime de responsabilidad. Dicho de otra manera: se puede “pecar” de acción pero
también de omisión.
NOTAS
1. CONTRERAS CONTERAS, Jaime, Historiar a los judíos: un asunto de pueblo, nación y etnia, in Actas de
la IV Reunión Científica de la Asociación Española de Historia Moderna de Alicante, vol.2, 1997, pp.
117-144.
2. Véase JOHNSON, Paul, La historia de los judíos, Barcelona, Ediciones B, 2006.
3. ELDER, Linda, PAUL, Richard, Los fundamentos del pensamiento analítico, p. 33, en URL:
<http://www.criticalthinking.org/resources/PDF/SP-Pensamientoanal%C3%ADtico.pdf> [visitado
el 15 de julio 2014].
4. Quisiera agradecer a los evaluadores externos (colaboradores de la revista Diacronie. Studi di
Storia Contemporanea) su valoración del artículo y sus propuestas de mejora que, sin duda, han
contribuido a enriquecer este trabajo.
5. SARFATTI, Michele, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi,
2007, p. 13.
6. En este largo proceso de reconocimiento influyó también, desde el impacto del libro de
Theodor Herlz, El Estado de los judíos (1896), hasta la Declaración Balfour formulada en noviembre
de 1917 por el ministro de Asuntos Exteriores británico, Arthur James Balfour, en la que
comunicaba a la comunidad sionista en Londres, mediante carta, que ‘el gobierno de Su Majestad
contemplaba favorablemente el establecimiento de una patria nacional para el pueblo judío en
Palestina’. Véase SEGURA, Antoni, Más allá del islam. Política y conflictos actuales en el mundo
contemporáneo, Madrid, Alianza Editorial, 2001, p. 238.
7. SARFATTI, Michele, Gli ebre nell’Italia fascista, cit., p. 25.
8. Ibidem, p. 114.
9. Mario Avagliano sostiene que en los primeros años del fascismo italiano el “problema judío” no
existía, basándose en unas palabras del propio Mussolini en Il popolo d’Italia, en 1920: «Italia no
hace absolutamente ninguna diferencia entre judíos y no judíos […]; los judíos italianos tienen
aquí la nueva Sión, en nuestra adorable tierra». AVAGLIANO, Mario, «Ebrei e fascismo, storia de
la persecuzione», en Patria Indipendente, 6-7, 2002, en URL: <http://www.storiaxxisecolo.it/
fascismo/fascismo18.htm> [consultado el 6 de julio 2014].
10. Uno de los aspectos más relevantes de esta campaña antijudía se desarrollará en la prensa.
Véase URL: <http://www.museoshoah.it/link.asp?id=campagna-stampa> [visitado el 8 de
noviembre 2014]
11. BARTOSOVÁ, Jana, Gli ebrei nell’Italia fascista. Lo sviluppo e gli obiettivi della politica razziale in
Italia, (Tesis doctoral), Masarykova Univerzita, Brno (República Checa), 2006, p. 17. URL: <http://
is.muni.cz/th/74230/ff_b/BAK_1_.PRACE.pdf> [visitado el 22 de mayo 2013].
12. En la historiografía española, los caracteres del Estado mussoliniano en perspectiva
comparada con el Estado nazi, en FERNÁNDEZ GARCÍA, Antonio, RODRÍGUEZ JIMÉNEZ, José Luis,
Fascismo, Neofascismo y Extrema Derecha, Madrid, Arco/Libros, 2001, pp. 30-33; autores que señalan
las diferencias en cuanto al tema del racismo entre la Alemania nazi y la Italia fascista, y que el
Manifiesto de defensa de la raza de 1938 en Italia, pese a sostener la desigualdad de las razas
humanas y la aproximación de forma lenta de la Italia fascista a los ideales de su aliado natural,
las medidas de 1938 deben entenderse como recursos de refuerzo de los lazos con su aliado antes
que aplicación de principios intrínsecos del régimen.
13. MINERBI, A., Il veleno delle parole. La propaganda antisemita del fascismo en 1938, Milán, CDEC,
2002, en URL: <http://www.cdec.it/home2_2.asp?
idtesto=185&idtesto1=887&son=1&figlio=878&level=2> [visitado el 7 de julio 2014].
14. En URL: < http://juliusevola.blogia.com/2006/102101-sintesis-de-la-doctrina-de-la-raza-08-
raza-y-espiritu.php> [visitado el 6 de noviembre 2014].
30. ISRAEL GARZÓN, Jacobo, «El Archivo Judaico del Franquismo», en Raíces, 33, 1977, p. 60. URL:
<http://observatorioantisemitismo.fcje.org/wp-content/uploads/wpcf7_uploads//2009/11/El-
Archivo-Judaico-del-Franquismo.pdf> [visitado el 03 de julio 2014].
31. ÁLVAREZ CHILLIDA, Gonzalo, El antisemitismo en España. La imagen del judío (1812-2002), Madrid,
Marcial Pons, 2002.
32. MARTÍN DE POZUELO, Eduardo, El franquismo, cómplice el Holocausto, Barcelona, La Vanguardia
Ediciones, 2012, p.17.
33. ROZENBERG, Danielle, La España contemporánea y la cuestión judía, op. cit., p.214. Entre otras
aportaciones cabe destacar: la del historiador israelí AVNI, Haïm, España, Franco y los judíos,
Madrid, Altalena, 1982; las de Antonio Marquina (MARQUINA, Antonio, La España de Franco y los
judíos, in MACÍAS KAPÓN, U. et al., Los judíos en la España contemporánea. Historia y visiones,
1898-1998, Cuenca, Universidad de Castilla-La Mancha, 2000); o tesis como las de OUAHNON,
Josette, L'Espagne et les juifs séfardites depuis 1920, (Tesis doctoral), Universidad de la Sorbona, 1981,
BLIN, Pascale, Franco et les juifs: paroles et actifs. De sa rencontre avec les juifs à la reconnaissance de la
communauté juive d'Espagne (1968): un itinéraire controversé , Paris, Etudes ibériques, 1992, así como
la de ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, Madrid, Marcial Pons, 2005.
34. El papel jugado por estos diplomáticos ha sido recogido en una exposición itinerante
promovida por el Centro Sefarad-Israel con sede en Madrid y el Ministerio de Asuntos Exteriores
de España, bajo el título “Visados para la libertad”, 2014.
35. BAER, Alejandro, «Los vacíos de Sefarad. La memoria del Holocausto en España», en Política y
Sociedad, 48, 3/2011), p. 504.
URL: <http://revistas.ucm.es/index.php/POSO/article/view/36416/36918> [visitado el 8 de julio
2014].
36. ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, cit., p. 396.
37. Denominación que hace referencia a dos informes sobre los asesinatos masivos que se
llevaron a cabo en Auschwitz, basados en datos proporcionados por cuatro prisioneros que
lograron escapar en 1944. Los protocolos fueron enviados a través de diversos canales a
Occidente. La información llegó al Departamento de Estado norteamericano el 16 de junio, y la
BBC difundió partes del informe el 18 de junio de 1944. Véase ZADOFF, Efraim, Enciclopedia del
Holocausto, Jerusalén, E.E.Z. Ediciones Jerusalén, 2004, pp. 138-139.
38. ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, cit., p. 405.
39. AVNI, Haïm, España, Franco y los judíos, cit., p. 209.
RESÚMENES
Son muchas las investigaciones realizadas sobre la situación de los judíos en la Alemania de
Hitler, sin embargo, hay una clara deficiencia de estudios científicos sobre las comunidades judías
bajo las dictaduras de Mussolini y Franco, especialmente en el último caso. Este artículo
contribuye al conocimiento de la controvertida relación que estas dictaduras del Sur de Europa
mantuvieron con sus respectivas comunidades judías, y profundiza, en perspectiva comparada y
desde el ámbito historiográfico, en los puntos de convergencia y divergencia entre ambos
poderes dictatoriales y su relación con lo judío, analizándose las similitudes en cuanto a las
acciones llevadas a cabo contra los judíos.
Sono molte le ricerche realizzate sulla condizione degli ebrei nella Germania di Hitler; si
riscontra invece una carenza di studi scientifici sulle comunità ebraiche sotto le dittature di
Mussolini e Franco, specialmente in quest’ultimo caso. Questo articolo contribuisce alla
conoscenza della controversa relazione tra le dittature dell’Europa meridionale e le loro
comunità ebraiche, e analizza, in prospettiva comparata e in ambito storiografico, i punti di
convergenza e divergenza tra i poteri dittatoriali e il loro legame con gli ebrei, analizzando le
similitudini sulla base dell’azione portata avanti nei loro confronti.
A lot of research has been done on the situation of the Jews in Hitler’s Germany, however, there
is a clear deficiency of scientific studies on the Jews communities under the dictatorships of
Mussolini and Franco, especially in the latter case. This article contributes to the knowledge of
the controversial relationship that these dictatorships of southern Europe had with their Jewish
communities, and it goes into detail in the common grounds and points of divergence between
the two dictatorial powers and their relationship with Jewish, in comparative perspective and
with a historiographical insight, analyzing the similarities in the actions taken against the Jews.
ÍNDICE
Parole chiave: antisemitismo, Benito Mussolini, Ebrei, Francisco Franco, olocausto
Palabras claves: antisemitismo, Benito Mussolini, Francisco Franco, holocausto, Judíos
Keywords: antisemitism, Benito Mussolini, Francisco Franco, holocaust, Jews
AUTOR
DAVID PÉREZ GUILLÉN
Licenciado en Historia por la Universidad de Murcia (España). Ha cursado el Máster en Historia
Social Comparada y recientemente ha emprendido sus estudios doctorales en la Universidad de
Murcia, donde pretende analizar la posición de los regímenes fascistas (la Italia de Mussolini, la
España de Franco y el Portugal de Salazar) ante las comunidades judías y el Holocausto.
NOTA DELL'EDITORE
richiede una riconfigurazione radicale del complesso teorico e della pratica politica
delle relazioni internazionali, sostenuta da tre orientamenti principali: la revisione
della storia delle relazioni internazionali, il rovesciamento di concetti centrali come
potere e Stato-nazione e, infine, il tornante epistemologico nella “geopolitica della
conoscenza”.
5 Lo studio delle relazioni internazionali non è assolutamente recente: al contrario,
considerazioni ed elaborati sul contesto internazionale sono ricorrenti nelle scienze
sociali, principalmente nella storia e nella scienza politica. La guerra del Peloponneso di
Tucidide è considerata da molti teorici come un’opera paradigmatica in questo campo
di studi, al pari di quelle di Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes per la teorizzazione
moderna del sistema internazionale e di interazione tra gli Stati 1. Tuttavia è stato
solamente durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Sessanta del XX secolo che le
relazioni internazionali si sono ritagliati una certa autonomia, separandosi dalla
scienza politica e costituendo un proprio filone narrativo2.
6 Lo studio delle relazioni internazionali rimane strettamente legato alla realtà politica
internazionale: le sue origini risalgono agli anni immediatamente successivi alla Prima
guerra mondiale, in cui nacque con il chiaro intento di evitare il verificarsi delle
circostanze che avrebbero potuto portare ad un’altra guerra. Come ricorda Halliday 3 fu
in questo periodo che vennero creati in Gran Bretagna, nelle università, le prime
cattedre e i dipartimenti relativi a questa materia: nella Aberystwyth, nella London
School of Economics a Oxford e, nel mondo non accademico nel Royal Institute of
International Affairs, votato a proporre e portare avanti politiche pubbliche. Questa
tendenza fu perseguita dagli Stati Uniti che, contemporaneamente, crearono cattedre
nelle università statunitensi e il Council of Foreign Relations. Come afferma Hoffman 4,
modernamente lo studio delle relazioni internazionali negli Stati Uniti si è
profondamente legato al problema, tanto politico quanto accademico, di come il Paese
avrebbe dovuto amministrare la sua egemonia internazionale contrastando la costante
minaccia sovietica, in modo che gli studiosi delle relazioni internazionali ponessero le
basi teorico-scientifiche per una “nuova diplomazia nordamericana”, di tendenze
imperialiste, che potesse mettere gli studi strategico militari in una posizione centrale 5.
Da allora la concettualizzazione della forza, del potere e delle sue dinamiche, interessi
tipicamente nordamericani, si trasformarono in fondamenti della teoria delle relazioni
internazionali successivamente divenuta ad una monocultura realista, che per questa
ragione – e per un lungo lasso di tempo – ha detenuto il monopolio della discussione in
questo campo di studi.
7 L’ondata liberale che investì la teoria delle relazioni internazionali nei primi decenni
del XX secolo incentrata sul diritto internazionale e sulla sua connotazione al mutare
del sistema internazionale per via istituzionale-legale, ricevette l’etichetta ampiamente
diffusa e accettata di “idealista”; venendo considerata ingenua, di poca rilevanza
scientifica è stata accusata di essere alla base del ritardo con cui le relazioni
internazionali sono emerse come scienza. Ad Edward Carr toccò, con la sua opera
fondamentale Twenty years’ Crisis6, l’incombenza di inaugurare la trattazione scientifica,
obiettiva ed empirica di un contesto politico definito come una lotta per il potere
oramai incompatibile con le sue proposizioni normative. Tuttavia fu solamente negli
Stati Uniti del dopoguerra, che erano allora emersi come superpotenza, che le relazioni
internazionali si stabilirono sulla base del realismo politico di Hans Morgenthau, un
concetto sviluppato nel suo Politics among Nations7. Proprio quest’ultimo nella sua opera
cercò di identificare quelle regolarità che avrebbero potuto fornire una prevedibilità
nel comportamento degli Stati basandosi principalmente sui concetti di potere e di
interesse nazionale. Fu proprio l’ambizione di Morgenthau di fissare i principi
irrefutabili della politica internazionale, unita alla sua argomentazione molto fragile a
generare un dibattito e una serie di letture volte a reagire proprio nei confronti
dell’approccio realista. In questo modo il campo di studi si consolidò in rapporto o in
contrapposizione con il realismo e, in una certa misura, continua a farlo.
8 Il cosiddetto secondo dibattito delle relazioni internazionali si svolse tra gli approcci
definiti “tradizionalisti” che ricavavano alcuni contributi dal behaviorismo, almeno per
quel che afferma riguardo alle metodologie che dovrebbero essere impiegate in questo
campo, ma non apportarono contributi all’estensione della materia di competenza della
disciplina, che continuò in larga scala a far riferimento ai dettami iniziali del realismo.
Secondo Hedley Bull fu solo al termine degli anni Settanta, con il movimento pacifista
mondiale, la fine di Bretton Woods, la percezione di una crescente interdipendenza tra
le economie nazionali e certi movimenti politici di contestazione del Terzo Mondo, che
la smisurata attenzione nei confronti delle dinamiche di potere e forza diede vita ad
altre problematiche, legate soprattutto all’accresciuta importanza della politica
economica internazionale8. Questa apertura nel campo teorico, intensificatasi negli
anni Ottanta, fece sì che fossero riconosciute tematiche che fino a quel momento erano
state messe al margine dalle stringenti formulazioni del Realismo, come gli studi sulla
pace le analisi di politica estera e l’importanza assunta dall’economia politica
internazionale.
9 In questo senso Halliday afferma che dopo una fase “protezionista”, recentemente le
relazioni internazionali si stanno aprendo a contributi provenienti da altri campi del
sapere che non erano tradizionalmente legati alla sua sfera teorica 9. Il risultato
ottenuto è che dalla fine degli anni Ottanta e, soprattutto, con le questioni sollevate dal
“terzo dibattito” delle relazioni internazionali sono stati introdotti in questo campo i
Critical Legal Studies (Crits), il costruttivismo, il postmodernismo e il femminismo, e
abbiamo assistito all’emergere di quegli itneressi, di quelle critiche e di quelle
operazioni di decostruzione che fino ad allora erano state escluse dal campo teorico
della disciplina. Tuttavia è necessario mettere in evidenza come la maggior parte della
produzione teorica risponda ad una prospettiva realista e sia riconducibile ai suoi
interessi tradizionali, ancorché riadattati ai tempi10. Al di fuori degli Stati Uniti si è
fatta sentire la dipendenza teorico-strutturale, consolidatasi nel corso dei decenni, che
ha impedito una teorizzazione indipendente o, se vogliamo, non egemonica, delle
relazioni internazionali, allora legata a livello globale, al linguaggio del potere, dello
Stato-Nazione e dell’interesse nazionale. Slater osserva come benché i teorici del Nord
possano concedersi il lusso di disconoscere o ignorare le teorie del Sud del mondo,
mentre lo stesso non avvenga con la controparte del Sud, la cui teorizzazione è sempre
stata in accordo, rifiuto o opposizione alla teoria sociale del Nord 11.
10 Halliday sottolinea come, forse, tra tutte le scienze sociali le relazioni internazionali,
siano quelle che più si sono tenute lontane dal marxismo e dalle questioni di genere; ciò
ha comportato una serie di problemi che hanno contribuito al loro indebolimento come
l’incapacità di mettere in dubbio criticamente il complesso delle relazioni Nord-Sud e le
stesse strutture globali di sfruttamento12. Non per niente, le relazioni internazionali
appaiono anche adesso come l’area delle scienze sociali che si mostra più indifferente
nei confronti degli approcci postcoloniali. Questa distanza si rende ogni volta più
Considerazioni finali
15 Gli studi postcoloniali contengono al loro interno la critica dei presupposti
epistemologici su cui si afferma la retorica della modernità e, conseguentemente, della
superiorità europea. Spivak considera la subalternità come un prodotto delle
penetranti relazioni di “violenza epistemica” causate dall’imposizione coloniale di un
ordine scientifico e di un sistema legale20. In questo modo la celebrazione della
modernità e dei suoi presupposti si iscrive in una relazione di potere regolata dalla
differenza coloniale fra quelli che “pensano, quindi, esistono” e quelli che non esistono
e non sono in ragione del fatto che sono oggetto di un’egemonia.
16 Il consolidamento della critica postcoloniale in un corpus teorico potrebbe trasformarlo
facilmente in generalizzazioni: si incorrerebbe negli stessi essenzialismi e
generalizzazioni che questa corrente teorica ambisce a combattere. Benché possa
essere concepito come un “sistema” di caratteristiche fondamentali condivise, il
colonialismo non si impose in maniera omogenea nei differenti contesti storici, sociali e
geografici su cui estese il suo dominio. Per questo motivo non è possibile fare
generalizzazioni, così come questo non rappresenterebbe un arricchimento per il
dibattito all’interno della corrente teorica.
17 Il post-colonialismo può fornire un contributo nell’ambito delle analisi culturali, sociali
e politiche di qualche parte del mondo, principalmente per ciò che afferma riguardo
alle asimmetrie del potere. Non volendo perdere di vista le potenzialità analitiche e
politiche dell’approccio postcoloniale e allo stesso tempo cercando di inquadrare il
problema della sua applicabilità, Boaventura de Sousa Santos propone un
“postcolonialismo circoscritto”, che prenda in conto la grande specificità di ogni
contesto storico dove i differenti colonialismi sono utili alla comprensione dei diversi
contesti postcoloniali21.
NOTE
1. INAYATULLAH, Naeem, BLANEY, David L., International Relations and the Problem of the Difference,
London Routledge, 2004, p. 45.
2. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, J. (org.),
International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 134.
3. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994.
4. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, James
(org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005.
5. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, James
(org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 135.
6. CARR, Edward H., Twenty years’ crisis 1919-1939: an introduction to the study of international
relations, London-New York, MacMillan-St Martin’s Press, 1946.
7. MORGENTHAU, Hans J., Politics among nations: the struggle for power and peace, New York, Alfred
A. Knoff, 1952.
8. BULL, Hedley, The theory of International Politics, 1919-1969, in DER DERIAN, James (ed. by),
International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 36.
9. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994, p. 26.
10. DER DERIAN, James, Introduction: Critical Investigation, in DER DERIAN, James (org.),
International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 56.
11. SLATER, David, «Post-colonial questions for global times», in Review of international Political
Economy, 5, 4/1998, p. 28.
12. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994, p. 130.
13. HOFFMAN, Stanley, op. cit., p. 136.
14. SANTOS, Boaventura de Sousa, Entre o próspero e o Caliban: Colonialismo, Pós-Colonialismo e
interidentidade, in RAMALHO, Irene, RIBEIRO, António Sousa (orgs.), Entre ser e estar: Raízes,
Percursos e Discursos da Identidade, Porto, Afrontamento, 2001, p. 38.
15. Ibidem, p. 39.
16. SAID, Edward W., Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 19.
17. BHABHA, Homi K., The location of culture, London, Routledge, 1994, p. 17.
18. SPIVAK, Gayatri Chakravorty, Can the subaltern speak?, in ASHCROFT, Bill, GRIFFITHS, Gareth,
TIFFIN, Helen, The postcolonial studies reader, London, Routledge, 1988, p. 54.
19. SANTOS, Boaventura De Sousa, Do Pós-Moderno ao Pós Colonial. E para além de um e outro,
Coimbra, Centro de Estudos Sociais, Universidade de Coimbra, 2004, p. 12, URL: <http://
www.ces.uc.pt/misc/Do_pos-moderno_ao_pos-colonial.pdf> [consultato il 16 novembre 2014].
20. SPIVAK, Gayatri Chakravorty, op. cit., p. 57.
21. SANTOS, Boaventura De Sousa, op. cit, p. 34.
RIASSUNTI
L’articolo affronta lo sviluppo degli studi postcoloniali, contestualizzando i dibattiti teorici
avvenuti nel campo delle relazioni internazionali. A partire dalla seconda metà del XX secolo, in
The article discusses the emergence of postcolonial studies, situating the theoretical debates of
the field of study of International Relations. It was from the second half of the twentieth century,
with the processes of decolonization and globalization, that a series of analyzes and studies
related to this new world scenario began to take shape and draw a new line of theory, the Post-
Colonialism.
INDICE
Keywords : decolonization, global South, globalization, post-colonialism, subaltern studies
Parole chiave : decolonizzazione, globalizzazione, studi postcoloniali, subaltern studies, Sud del
mondo
AUTORI
ANTÔNIO MANOEL ELÍBIO JÚNIOR
Ha conseguito un dottorato in Storia sociale presso l’Universidade Estadual de Campinas-
UNICAMP e un post-dottorato in Scienze politiche presso l’Universidade Federal de Pernambuco-
UFPE. Attualmente è professore nel Dipartimento di Storia nell’Universidade Estadual da Paraíba-
UEPB.
la documentazione prodotta dal comitato è scarsa e lacunosa, ma dai pochi fogli relativi
ai primi mesi dalla fondazione si possono già avere indicazioni interessanti sulla
colonia e sul suo livello di conoscenza, qualitativa e quantitativa, della lingua e della
cultura italiane, e sulla funzione di queste ultime nella riflessione sul nesso fra cultura e
idea nazionale9.
8 Le relazioni inviate a Roma dai presidenti locali evidenziano soprattutto le due
consuete questioni che riguardarono quanti operavano per il mantenimento e lo
sviluppo dell’italianità della colonia, e che avrebbero analogamente caratterizzato il
primo decennio di esistenza della Dante, vale a dire il rapporto con le numerosissime
scuole congregazioniste presenti in città e la concorrenza con le associazioni culturali
francesi che avevano rispettivi, analoghi scopi. Fra queste ultime la più acerrima
concorrente fu l’Alliance Française.
9 A questo si aggiungeva, elemento comune a tutti i comitati della Dante, una pressoché
continua richiesta di fondi, indirizzata direttamente alla sede centrale o al ministero
degli Affari esteri10. Ma le relazioni non mancano di mostrare anche uno spaccato sul
clima interno alla comunità dei soci, sui legami fra questa e le autorità diplomatiche
italiane e, infine, specie nei momenti di maggiore tensione dovuti alle crisi
internazionali che coinvolsero Italia e Turchia, i complessi rapporti con le autorità
locali11.
10 Se a livello nazionale, all’influente personalità del senatore Pasquale Villari seguirono
Luigi Rava (1903-1906) – ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Giolitti e poi
dell’istruzione nel terzo – e il senatore Paolo Boselli con la sua trentennale presidenza
conclusasi nel 1932; il periodo che va dalla fondazione al 1911 vide susseguirsi sette
presidenti alla guida del comitato12. I primi due anni di vita della Dante ad Istanbul
furono affidati alla presidenza del prof. Federico Morandi 13. Dalla sua corrispondenza
con la sede centrale si rileva che il numero dei soci già due mesi dopo l’inaugurazione
della sede – stabilita provvisoriamente presso la scuola tecnico-commerciale italiana
Principe Amedeo – «supera la sessantina», che si sarebbero tenute tre conferenze per i
soci e che dal gennaio successivo si sarebbe pubblicata una rivista quindicinale per
iniziativa della Camera di commercio, «che sarà anche organo ufficiale di questo
comitato»14. Si tratta de «La Rassegna Italiana», rivista nata, di fatto, dall’accordo fra le
due società ma che due anni dopo sarebbe rimasta organo ufficiale esclusivamente della
Camera di commercio15, mentre la Dante avrebbe visto la pubblicazione del suo primo
Bollettino ufficiale solo nel 1920.
11 La corrispondenza di questo primo periodo di attività si sofferma spesso sul rapporto
del comitato con gli ambienti cattolici presenti e operanti in città. Non di rado i soci
influenti agirono da mediatori fra la Roma dei ministri e quella del papa, durante gli
anni della questione romana. Ne è un esempio la vicenda di padre Aurelio Palmieri 16,
appartenente all’ordine degli Agostiniani dell’Assunzione. Il 17 dicembre 1895 il
presidente Morandi inviò una lettera alla presidenza centrale – che dopo la morte di
Ruggero Bonghi, nell’ottobre del 1895, fu retta per un breve periodo da Ernesto Nathan
– in cui esprimeva le sue opinioni in merito all’agostiniano. Qualche tempo prima,
infatti, padre Palmieri – missionario a Istanbul, nel quartiere di Kumkapı – aveva scritto
sia alla presidenza nazionale sia a quella di Istanbul richiedendo libri e riviste italiane,
testi di Manzoni, De Amicis, Stoppani e copie de «La Nuova Antologia». L’agostiniano
così concludeva la sua lettera a Morandi: «sappia che nel clero italiano l’amor della
Patria è sempre vivo, sempre fecondo, e da per tutto malgrado le influenze politiche
2. La stampa e la scuola
21 Dall’aprile del 1901 al settembre del 1907 la presidenza della Dante fu retta da Lewis
Mizzi33, anch’egli avvocato a Istanbul e, per la prima volta dalla fondazione del
comitato, un presidente di nazionalità non italiana. Lewis era infatti maltese, figlio del
magistrato Francesco Mizzi, fratello minore di Fortunato Mizzi 34 – fondatore del
movimento antiriformista e figura di spicco nella lotta contro l’amministrazione
inglese per la difesa della supremazia della lingua italiana nell’istruzione e del
cattolicesimo a Malta35. La storia della famiglia Mizzi non è solo la storia del loro
impegno politico, ma anche quella di una dinastia di editori e giornalisti. A Malta, fino
alla vigilia della seconda guerra il giornale nazionalista «Malta», fondato proprio da
Fortunato Mizzi nel 1883, fu l’ultimo baluardo della stampa politica italofona 36.
Presidente della Dante, Lewis Mizzi proseguì dunque a Istanbul l’azione familiare di
diffusione della lingua italiana, si trovò però nella curiosa situazione di presiedere il
sodalizio deputato a questo scopo essendo contemporaneamente proprietario di un
giornale inglese, il «Levant Herald».
22 Fra gli strumenti più efficaci ai fini della diffusione della lingua, la stampa italiana fu
invece una nota dolente all’interno della comunità nel XIX e XX secolo. Nonostante
fosse unanimemente riconosciuta dai notabili della colonia l’opportunità e anzi
l’esigenza di promuovere la creazione di un giornale italiano, non si arrivò mai a dare
vita una testata che potesse eguagliare o almeno tentare di concorrere con quelle in
lingua francese e inglese37. A voler indagare le cause di questa carenza – che,
considerati la consistenza numerica della comunità e i proclami governativi di quegli
anni, tutti tesi a promuovere azioni di diffusione culturale, appare quanto meno
singolare – essa non sembra potersi attribuire alla totale mancanza di personalità in
grado di portare avanti una simile iniziativa. Almeno tre testate a Istanbul infatti, il
francese «Beyoğlu», dell’italo-levantino Gilberto Primi, «La Turquie», bilingue italo-
francese e l’inglese «Levant Herald», erano di proprietà di italiani, o, come nel caso di
Mizzi, di italofoni sensibili alla causa della diffusione della lingua. La «Rassegna
Italiana», come accennato sopra, nonostante le iniziali ambizioni della Dante divenne
presto organo ufficiale esclusivamente della Camera di commercio, rimanendo di fatto
l’unica rivista della comunità pubblicata continuativamente fino agli anni Settanta del
Novecento, pur avendo rinunciato a una vocazione prevalentemente culturale.
23 In questo periodo merita invece qualche attenzione la tormentata vicenda del
quotidiano «La Turquie», fondato dal giornalista italiano Guglielmo de Bondini nel
1906. Il progetto editoriale di de Bondini non ebbe un esito felice, la testata non si
impose mai come organo ufficiale della cultura o degli interessi politici, finanziari e
commerciali italiani, come il direttore-proprietario avrebbe voluto, nonostante un
milieu politico e sociale almeno teoricamente disposto, anzi desideroso di aver
finalmente un giornale italiano di ampio respiro, prezioso strumento di diffusione,
oltre che di notizie, della lingua italiana. L’analisi di questo fallimento, tuttavia, può
contribuire a fare un po’ di luce su alcune dinamiche in atto fra il 1905 e il 1908 tanto a
livello nazionale quanto, soprattutto, all’interno della comunità.
24 Nell’agosto del 1905 de Bondini scrisse al Console italiano a Costantinopoli, il Cav.
Ciapelli, affinché intercedesse per ottenere l’iradè imperiale, ossia l’autorizzazione
ottomana necessaria per dare avvio alla pubblicazione del quotidiano. Così si
presentava: «il sottoscritto, Guglielmo di Bondini, italiano, residente in questa città da
molti anni datosi al giornalismo, vorrebbe fondare qui in Costantinopoli un giornale
quotidiano, politico, finanziario e di commercio, italiano nello spirito e che potrà un
giorno essere redatto tutto interamente in italiano: ma che ora, per poterlo far
conoscere, bisognerebbe redigere parte in italiano e parte in francese: italiano però
intanto il titolo: “La Turchia”»38.
25 A partire da questa richiesta, l’avventura editoriale di de Bondini fu costantemente
accompagnata, da parte delle autorità governative e di buona parte della colonia, da un
atteggiamento altalenante fra il concreto appoggio e un’aperta avversione. Questa
prima richiesta di de Bondini fu inviata dal Console Ciapelli all’allora ambasciatore a
Costantinopoli, il Marchese Imperiali di Francavilla, il quale a sua volta la inoltrò al
ministro degli esteri, Tommaso Tittoni. Quest’ultimo rispose molto sinteticamente
all’ambasciatore che per la necessaria autorizzazione si sarebbe rimesso al suo giudizio,
Triestino, tutti organismi che ricoprirono un’incisiva funzione politica nei territori di
interesse coloniale o inclusi nel raggio d’azione della spinta imperialistica. Del resto, la
pretesa di mantenere una posizione apolitica venne ribadita proprio nel 1920 anche a
livello nazionale, dove da tempo era in corso uno scontro fra due correnti interne, una
a favore dell’intervento attivo della Dante anche nel territorio nazionale – e non solo
nell’ambito dei comitati esteri, come sanzionato dallo Statuto – l’altra invece aperta a
una partecipazione attiva dei comitati nella vita nazionale in occasioni di significativi
avvenimenti anche politici. Questa seconda linea, respinta fino al 1920, prevalse
inevitabilmente dopo la guerra, ancora accompagnata da una condizione di apoliticità
destinata però a infrangersi presto contro le ingerenze (e le seduzioni) dell’ascesa
fascista49: una seduzione che nel comitato di Istanbul avrebbe dato presto i suoi frutti.
33 Per quanto concerne le scuole italiane a Istanbul volute dalla Dante, la loro vicenda
seguì l’andamento del dibattito nazionale. Dopo il 1903 il tentativo di imprimere
definitivamente alla Dante un’impostazione basata sugli ideali democratici
risorgimentali lasciò il posto a una visione che, da questo momento in poi, avrebbe
risposto prevalentemente alle tensioni imperialistiche50. Neppure la crescente
attenzione per i grandi centri d’emigrazione transoceanica riuscì a far prevalere le
ragioni sociali dell’azione della Dante sul vigore della spinta espansionista. Nel XV
congresso nazionale fu esplicitamente dichiarato che le scuole del Levante non avevano
in realtà alcuna utilità in quei paesi in cui l’emigrazione propriamente detta non era
più numericamente interessante, perché gli italiani presenti erano oramai
prevalentemente figli di quanti, legati al mondo del commercio, si erano stabiliti in
quei territori51, ma già nel congresso nazionale dell’anno successivo, il Levante, e più in
generale il mondo musulmano si imposero nuovamente all’attenzione dell’assemblea.
Le relazioni di Enrico Insabato52 e i suoi progetti per l’insegnamento nei paesi
musulmani e quella sulle scuole italiane del Levante di Giuseppe Solimbergo
riportavano entrambe l’attenzione sui potenziali vantaggi che un sistema di scuole
italiane nel Levante avrebbe potuto restituire in termini politici ed economici. E a
quanti obiettavano che i numeri dell’emigrazione imponevano maggiori interventi
nelle Americhe, Solimbergo replicava che la valenza politica dell’area mediterranea
costituiva un fattore imprescindibile:
le altre nazioni hanno altro: dei continenti interi popolati della loro razza, vasti
imperi coloniali, colossali interessi industriali e commerciali noti al mondo. Noi non
abbiamo in vista che il Mediterraneo – come in antico. Quello è il nostro naturale
campo, e il più importante, di osservazione e di operazione: con l’Italia che vi si
slancia attraverso; con tante vive traccie [sic] che vi abbiamo lasciato dappertutto,
nel nostro passato, sulle isole e sulla terraferma – rovine che ora accennano come a
rianimarsi, nel sentimento e nella fede dei nostri, che vi stanno intorno, con la
coscienza di una patria che va crescendo nella sua produzione e nei mezzi della sua
difesa, che comincia a contare; con la penisola Balcanica che rasenta l’Adriatico; con
l’Africa che si arriva a vedere53.
34 Più analitica e più orientata verso il delicato problema della comprensione dell’Islam –
tematica che si sarebbe posta in termini più concreti dopo la guerra di Libia ma già
presente nel dibattito politico italiano a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento 54 –
si presentava la relazione di Insabato. Sostenitore di un modello di scuola italiana
all’estero laica, specie nelle province musulmane, Insabato proponeva di creare scuole
differenziate per italiani e per indigeni e intanto di introdurre dei corsi di
giurisprudenza m,usulmana al fine di incoraggiare i locali ad inviare i propri figli in
scuole percepite come amiche e rispettose della religione del luogo 55.
delicato ufficio. Oggi la nuova scuola conta 224 alunni, ed a misura che se ne
conosce l’indirizzo educativo, le decenza del locale e la bontà della refezione,
aumentano le iscrizioni; cosicché comincia persino ad imporsi la necessità di
provvedere alla nomina di un altro insegnante59.
39 Marchione riferiva anche la ripartizione secondo la nazionalità dei 244 iscritti, 96
italiani e 123 ottomani, di questi ultimi poi, 60 erano turchi, 12 armeni, 25 israeliti e 26
greci. A questi si aggiungevano 2 russi, 1 austriaco, 1 francese e un persiano. Si
istituirono quattro classi che seguirono gli stessi programmi delle scuole del Regno,
«con qualche lieve modificazione per renderli più conformi alle esigenze ed ai bisogni
locali». Dalle 14 alle 16, «dopo due ore di riposo assegnate alla refezione e alla
ricreazione, vengono svolti i programmi delle materie complementari, destinate ad
imprimere il carattere particolare della scuola, e cioè: il turco, il francese, il lavoro
manuale, il disegno industriale, la plastica e la musica», queste ultime tre materie,
specificava Marchione, erano insegnate a titolo gratuito. La scuola dunque rispose fin
dalla sua istituzione alla missione di mantenere l’italianità fra i connazionali e
diffondere lingua e cultura italiana fra le popolazioni autoctone e straniere, eppure già
dal maggio del 1911 Marchione scriveva a Zaccagnini che le pesantissime difficoltà
economiche avrebbero presto minato l’esistenza della scuola se il governo italiano non
fosse intervenuto con sussidi congrui, non solo, ma riferiva di un atteggiamento
inizialmente poco propenso da parte delle autorità consolari per la concorrenza che la
scuola della Dante stava esercitando nei confronti della regia scuola elementare,
atteggiamento divenuto favorevole, scrive ancora Marchione, dopo che il Console ebbe
verificato l’efficienza dell’istituto60. L’intervento del Console presso il ministero degli
esteri non diede frutti, come scrive il presidente Zeri nella relazione di luglio sulle
attività svolte dalla Società durante l’anno, relazione che, dopo avere illustrato i
risultati eccellenti della scuola, si concludeva con una sorta di ultimatum al governo, il
cui mancato intervento avrebbe comportato inevitabilmente la chiusura della scuola 61.
40 L’ipotesi di dover porre fine a un’iniziativa che stava dando ottimi frutti, perfettamente
rispondente alle oramai decennali aspirazioni espansionistiche del Paese, sorta inoltre
in una delle zone di maggiore interesse politico e commerciale e in un periodo di
fortissima rinascita del sentimento nazionalista, sia a livello governativo sia presso la
direzione centrale della Società, si presentava quanto meno come un’anomalia, la cui
origine si può probabilmente rintracciare in una sorta di profonda incomprensione fra
la base dei comitati locali e il governo centrale62. La chiusura della scuola sopravvenne
comunque nel 1911, imposta infine non dalla mancanza di fondi ma dalla deflagrazione
della guerra di Libia, per la quale la colonia italiana si trovò improvvisamente a vivere
in territorio nemico. È in questa occasione che per la prima volta, nella
documentazione a diposizione fanno irruzione elementi di vissuto relativi ai rapporti
della colonia con l’ambiente esterno, le corrispondenze del presidente Zeri a Zaccagnini
offrono uno spaccato di quotidianità durante i mesi di conflitto che, pur immerso in un
clima ovviamente teso, non rivela momenti particolarmente drammatici 63:
[…] il punto nero era però la questione finanziaria, che, dopo lunghe trattative col
R. Ministero e col comitato centrale, si era potuta infine favorevolmente risolvere
per l’anno scolastico 1911-1912. Ma sopravvenne la guerra. Ci trovammo allora
costretti a chiudere la scuola; il Ministero e il comitato centrale ci sospesero il
sussidio, mentre il nostro bilancio era già in deficit, e mentre avevamo presi degli
impegni con alcuni insegnanti. Dopo lunghe pratiche col Comitato centrale, questi
indennizzò l’insegnante D’Ardes che noi avevamo già impegnato per l’anno
scolastico e indennizzò l’insegnante di francese. Non fu però indennizzato
l’insegnante di turco, malgrado che questi, avendo presi impegni con noi, per la
nostra scuola, avesse rinunziato ad altre lezioni, e, essendo straniero, più degli altri
avrebbe meritato qualche riguardo. […] Ora ci domandiamo; la scuola popolare deve
continuare o no? Il consiglio è stato sfavorevole alla riapertura della scuola, primo
perché l’impresa è grande in paragone delle risorse finanziarie della società,
secondo non crede che il momento sia opportuno per avere due scuole; tutti i nostri
sforzi devono ora farsi, onde la scuola governativa risorga rigogliosa per qualità e
per numero d’alunni; quando ciò sarà avvenuto si cercherà di risolvere i problemi
della scuola a pagamento e della scuola popolare»64.
41 In effetti la soppressione della scuola della Dante risanò la regia scuola elementare.
Secondo le cifre riportate dall’Annuario scolastico, nel 1911 risultavano iscritti alla
scuola elementare governativa 23 alunni, mentre alla scuola popolare della Dante 245.
Soppressa quest’ultima e riprese le attività scolastiche dopo la conclusione del
conflitto, nel 1913 gli iscritti alla scuola regia furono 144, tornando sostanzialmente agli
stessi numeri fatti registrare prima dell’apertura della scuola della Dante 65. Purtroppo
non si dispone della documentazione dettagliata delle iscrizioni per entrambe le scuole,
ma si può verosimilmente dedurre, visto l’andamento dei numeri, che si trattò degli
stessi iscritti che passarono da una scuola all’altra, ed essendo i programmi di studio, in
entrambi i casi, ricalcati su quelli governativi, la brevissima parentesi della scuola
elementare popolare della Dante non rappresentò tutto sommato un elemento di
discontinuità nell’ambito del progetto educativo italiano ad Istanbul. Fu però
un’esperienza interessante rispetto agli equilibri interni della parte più attiva della
comunità italiana. Contrariamente a quanto stava accadendo in quegli stessi anni
intorno alla vicenda de «La Turchia», che aveva evidenziato ed esacerbato alcune
tensioni fra i soci – tensioni che, si vedrà successivamente, negli anni della
fascistizzazione della Dante sarebbero riemerse – la gestione della scuola italiana fu
caratterizzata da una laboriosa e unanime collaborazione. La scuola, non più operativa
dal 1912, fu chiusa definitivamente nel 1913 e lo stabile venduto al governo.
42 Del resto la situazione nel Paese era radicalmente cambiata. Mentre il nazionalismo
italiano cercava le proprie declinazioni più consone ai suoi obiettivi nell’Impero, il
nazionalismo turco aveva fatto irruzione nell’età hamidiana fra il luglio del 1908 e
l’aprile del 1909. La rivoluzione dei Giovani turchi aveva imposto prima il ripristino
della costituzione del 1876 e poi l’abdicazione di Abdulhamid. Quali furono le
ripercussioni di questi cambiamenti nella vita della Dante di Istanbul? A giudicare dalla
corrispondenza conservata, si direbbe nessuna. Fatta eccezione per un appunto inviato
a Roma da Luigi Joli, capo contabile alla manifattura dei tabacchi, in cui riferiva che «le
sorti della Regìa sono indecise, poiché i Giovani turchi, malgrado le molte belle cose
fatte, sono poco propensi a rinnovare la concessione nel monopolio tabacchi» 66. Per
quanto ci è dato sapere, il vento rivoluzionario del luglio 1908 passò dunque sulla Dante
senza stravolgere la vita del sodalizio, le cui attività non subirono variazioni di
programma. Risonanza assai maggiore ebbe presso il comitato, anche per la
provenienza di molti dei suoi soci, la notizia del terremoto che devastò Messina e
Reggio Calabria nel dicembre dello stesso anno, in seguito alla quale tutte le attività
della Dante vennero sospese escluse quelle relative alle scuole.
Questo comitato locale ha deciso di tenere, fra qualche giorno, l’assemblea generale
dei soci, che non aveva più avuto luogo dal principio della guerra, onde il nuovo
consiglio che verrà eletto, possa riprendere l’attività dell’ante-guerra, e darsi con
maggior lena alla propaganda dell’idea e della lingua italiana che devono imporsi in
tutto il Levante, ora specialmente, che la dura guerra da noi vinta, ci ha innalzati
alla vera funzione di grande potenza civilizzatrice nel mondo 86.
50 Nel luglio 1920, in un lunghissimo articolo intitolato L’Italia sul mare, ripercorrendo le
antiche glorie italiche dalle imprese di Roma a quelle del Duca degli Abruzzi, si
riproponeva il consueto topos del ritorno allo splendido passato, per poi chiudere con
l’esortazione dannunziana «arma la prora e salpa verso il mondo!» 87. L’autore
dell’articolo era Padre Ferdinando Parri da Pesaro88, che sarebbe divenuto solo pochi
mesi dopo uno dei più energici sostenitori del fascismo di Istanbul. Parri fu anche uno
dei promotori, nel 1922, del segretariato cittadino dell’“Italica Gens” 89, la Federazione
per l’assistenza degli emigranti d’oltre oceano e del Levante. L’associazione, improntata
a uno spirito patriottico e nazionale, faceva parte di quella costellazione di organismi
sorti nel primo decennio del Novecento per rispondere all’esigenza della Chiesa di
intervenire in chiave assistenziale nella questione migratoria.
51 Quanto ai rapporti fra la Dante e la Chiesa, a livello nazionale l’influente personalità di
Ernesto Nathan, alla vicepresidenza della Dante dal 1889 al 1920, aveva mantenuto con
fermezza una linea di laicità – seppure mai connotata da anticlericalismo – che a
partire dal 1920 sarebbe venuta meno, denotando una maggiore apertura agli ambienti
clericali90. La prima adunanza dell’“Italica Gens” si tenne nella consueta sala della
Società operaia, il primo dato evidente che emerge dal resoconto che propone il
Bollettino è come i membri del comitato siano i soliti Joli, Mongeri, Pellegrini, Chabert,
Leone (le stesse persone cioè che animavano e guidavano la Dante, la Società operaia, la
Società di beneficienza e praticamente tutte le altre forme di associazionismo italiano
della colonia). L’elemento di novità era costituito invece dalla presenza di Padre Parri,
che tenne il discorso inaugurale e spiegò quale sarebbe stata l’azione del nuovo
organismo – «essa, in perfetta intesa con le autorità governative, si propone di
coordinare la sua attività a quella spiegata dallo Stato e di supplire colla sua
organizzazione ai molti bisogni e ai molti compiti cui l’azione governativa non può
arrivare» – quali le sue finalità – «migliorare le condizioni religiose, morali, intellettuali
ed economiche degli italiani all’estero» – e quali i mezzi – «Chiesa, Scuola, Segretariato» 91.
52 Dopo aver ribadito che l’Italica aveva un carattere eminentemente nazionale e sociale, e
che non era un’associazione religiosa, Parri spiegava il motivo per cui la Chiesa aveva,
di fatto, un ruolo essenziale come luogo dove «nel rito, nella lingua, nelle
manifestazioni dell’arte trovino la Patria, mantengano il loro carattere e conservino il
conforto di congiungere insieme i due grandi ideali: Dio e Patria». La morale umana,
sosteneva Parri, doveva essere alla base di ogni azione, a prescindere dalle posizioni
sociali, religiose o politiche degli individui, ma mentre una piccolissima parte
dell’umanità poteva rintracciarla al di fuori della religione, nella scienza o nella
filosofia, continuava il francescano, il popolo non conosceva queste distinzioni, dunque,
concludeva, per il popolo moralità e religione coincidono, «insegnare al popolo la
religione è insegnargli la base della morale, la sorgente dei suoi doveri, la ragione
ultima della sua onestà, il segreto della sua grandezza» 92. Altrettanto importante per la
conservazione del sentimento nazionale era considerata la scuola, non solo in quanto
luogo di apprendimento della lingua e della cultura natie, bensì anche come spazio di
formazione di una sorta di coscienza dell’emigrato che veniva così affrancato dal ruolo
che – nella visione dei nazionalisti – gli era stato attribuito dai liberali, quello cioè di
protagonista in negativo di un’emigrazione che svuotava il paese delle sue forze vitali e
produttive93. Il nuovo emigrante doveva essere invece investito in modo diretto e
consapevole della sua novella missione imperialista:
la Federazione si interessa perché si dia alla lingua italiana un’importanza uguale a
quella della lingua del luogo, dove s’ispiri all’emigrato che il suo esilio non è effetto
di decadenza della nostra Nazione, ma di fenomeni transitori economico-sociali. È
questo un punto che L’“Italica Gens” vuole ben chiarito e sviluppato nelle scuole,
affinché i giovani abbiano del fatto dell’emigrazione una comprensione esatta. Essi
devono restar persuasi che certi fenomeni economico-sociali sono inevitabili nella
vita di un popolo come il nostro di antica civiltà, ma di forze sempre giovani; di un
popolo cui all’esuberanza dello sviluppo demografico sempre crescente, è venuto
meno il relativo concomitante sviluppo economico; devono comprendere insomma
che l’emigrazione, se considerata nei suoi effetti immediati e negli interessi
individuali, può sembrare una triste e deplorevole necessità; considerata però negli
effetti remoti e negli interessi nazionali, deve essere giudicata come mezzo di
penetrazione italiana all’estero94.
53 Si preparavano così le basi di quella trasformazione dell’emigrazione che il fascismo,
soprattutto attraverso l’azione di Dino Grandi, avrebbe formalizzato a partire dal 1926
nel passaggio da emigrati a italiani all’estero, un passaggio che non trovò impreparata la
comunità di Istanbul95.
54 Infine, il segretariato della federazione si sarebbe occupato delle esigenze più materiali
della popolazione, esso sarebbe stato aperto a tutti, «a qualsiasi partito o fede
appartengano. La miseria non è né cattolica, né ortodossa, né israelita e non ha colore
politico: essa è semplicemente miseria»96. Rispetto all’azione praticamente uguale che
svolgeva già la società italiana di beneficenza – Padre Parri aveva comunque specificato
che l’Italica Gens non si proponeva di sostituirsi alle istituzioni già esistenti, ma di
integrarne l’opera in perfetto accordo – il segretariato si prefiggeva di porre
un’attenzione particolare all’assistenza agli ex-combattenti97, questa nuova categoria di
bisognosi che, seconda solo a quella dei caduti, in tutta Europa e non solo oramai
meglio di qualunque altra incarnava l’eroismo e il sacrificio nazionale 98. Alla sacralità
della patria si affiancò in questo periodo la sacralità della madre, della donna, sancita
già negli anni della guerra di Libia99 ma che a Istanbul si manifestò soprattutto nel
primo dopoguerra, dove oramai le commemorazioni erano sempre più spesso affidate
alla potenza simbolica ed evocativa delle donne, come nel caso delle cerimonia di
consegna delle bandiere durante la festa dello Statuto, uno dei pochi riferimenti alle
idee risorgimentali sopravvissuti alla bufera nazionalista, ma declinato anch’esso
oramai all’etica del sacrificio, alla commemorazione non più dei confini dell’Italia del
1861 ma dei «desiderati confini» del 1919, che tali erano rimasti alla fine della guerra.
55 Con questo spirito, durante la festa del giugno 1921 la marchesa Garroni, moglie del
regio ambasciatore, consegnò la bandiera d’Italia all’Associazione nazionale dei
combattenti: «Al grido di guerra Voi, Italiani qui residenti, avete corrisposto
accorrendo baldi e vigorosi col nome d’Italia sulle labbra, ma più ancora nel cuore,
sotto la patria bandiera. […] Onore a voi, o valorosi combattenti! A noi, donne d’Italia
qui riunite, la soddisfazione di consegnarvi questo Vessillo che è segnacolo di valore in
guerra e bandiera di civiltà in pace, di quella civiltà d’antica data che ha lasciato orme
incancellabili in questo Oriente, che ci auguriamo veder ritornato a quella pace che è
nel desiderio di tutti»100. Un onore tanto più meritato in quanto «moltissimi di questi
soldati non avevano mai visto l’Italia, che lo spirito mancava totalmente in questo
paese e che parecchi non conoscevano neppure la lingua italiana!» 101. Anche la raccolta
di fondi per l’edificazione del monumento alla madre italiana riscosse grandi adesioni
e, «con imponente solennità che non ha precedenti qui»102, in concomitanza con la
tumulazione romana all’altare della patria, la colonia si raccolse nella giornata di
commemorazione del milite ignoto, aperta dalla lunga prolusione del consueto Padre
Parri.
56 Questo rigoglio di sentimento nazionale non poteva non ripercuotersi sulle attività più
strettamente legate all’educazione dei giovai italiani di Istanbul. Il bollettino di agosto-
settembre 1920 fu in gran parte dedicato al resoconto sul XXV congresso della Dante –
il primo dopo l’interruzione del 1913 – che significativamente si svolse a Trieste, ma
conteneva anche, oltre alle indicazioni sui soci e un articolo celebrativo per i caduti
italiani nella guerra di Crimea, la cronaca della cerimonia di giuramento del corpo dei
Giovani esploratori celebrata in concomitanza con le celebrazioni per il 50°
anniversario della presa di Roma, organizzata dalla Società Operaia.. Come già
accennato, a parte il sottocomitato studentesco della Dante, che attraversava una fase
di declino, la nascita del corpo dei Giovani esploratori fu la prima esperienza di
associazionismo organizzato del dopoguerra destinata alla gioventù stambuliota 103. La
cronaca della cerimonia di giuramento è un esempio concreto della forza dell’impatto
della grande guerra sulla riorganizzazione delle strutture sociali, riprendendo il
percorso già avviato a inizio secolo, la cura dell’educazione nazionale dei più giovani –
o meglio, di educazione alla nazione – nel giro di pochissimi anni stravolse i suoi
riferimenti, e in questo caso con maggiore evidenza, laddove i giovani italiani avevano
l’arduo compito di rappresentare il corpo della nazione pur essendone, dimorando oltre
i suoi confini, membra staccate:
I Giovani Esploratori avevano formato un largo quadrato, su due righe, al comando
del capo-drappello di 2° grado Tenente M. Pari. – Da un lato si erano schierate tutte
le rappresentanze degli Esploratori stranieri, accorse numerose a festeggiare i
compagni italiani. A un tratto, in mezzo a un silenzio imponente, il Tenente Pari
s’avanza innanzi al gruppo delle Signore e delle Autorità riunite e stendendo la
mano, pronunzia a voce chiara la formula del giuramento, a cui tutti gli esploratori
rispondono col grido “lo giuro!”. Un brivido di commozione percorre l’assistenza,
mentre le musiche intonano la marcia reale. […] Poi, la signora Arlotta, dominando
l’emozione, impugna con virile baldanza la bandiera del corpo e dice ai giovani
l’alto significato che deve avere per essi la bandiera che loro consegna, e aggiunge
nobili parole, improntate di squisita gentilezza femminile. Infine la bandiera è
consegnata al graduato Sig. Umberto Sogno. Gli esploratori sfilano in platea, con
ordine perfetto, davanti alle Autorità ed alla folla plaudente 104.
57 Il passo da questo tipo di cerimonia a quelle dei Balilla sarebbe stato brevissimo. La
scarsa documentazione a disposizione non consente di sapere chi fossero i giovani
esploratori, ma proprio sul Bollettino si legge che fin dalle sue prime settimane di
esistenza si registrarono oltre duecento adesioni e che dalla comunità si raccolsero
quarantamila lire italiane per provvedere alle esigenze di equipaggiamento. Le foto che
corredano le cronache dei campi dei Giovani esploratori erano oramai immagini di
soldati – «68 giovani italiani vissero per 20 giorni attendati, sotto il solleone di luglio ed
a regime militare»105 – ragazzi in perfetta forma fisica ritratti nelle varie fasi del campo,
“l’attendamento”, “le esercitazioni sul mare”, “il rancio”, “il saluto alla bandiera”,
immortalati in pose atletiche e festose che ricordano lo spirito di agosto del 1914.
Sublimati i morti della grande guerra attraverso la loro eroicizzazione, si preparava in
questi anni una nuova generazione di combattenti e il nuovo nesso fra «guerra,
studenti” delle scuole superiori, per il dissidio prodottosi fra essi ed i professori
dell’Università, causa una malaugurata affermazione sostenuta da un insegnante, a
proposito del celebre poeta nazionale Faissulì110, che sarebbe… persiano e non
turco! Poi venne il “Ramazan”, e poscia le feste di “Bairam”, indi le frenetiche
dimostrazioni in onore di Ferrére e finalmente le scuole turche si son chiuse per le
vacanze estive! […] Ad ogni modo, se questo nostro primo esperimento non ha
prodotto, per cause di forza maggiore, l’esito sperato, noi siamo convinti della
necessità di persistere a continuarlo per l’anno prossimo, interessando anzi il R.
Governo a far pratiche dirette presso l’autorità ottomana, affinché i corsi di lingua
italiana siano ufficialmente riconosciuti ed appoggiati nelle scuole turche e, almeno
per il momento, in quelle scuole superiori a cui la Dante offre gl’insegnanti 111.
60 Già trapelano fra queste righe le effervescenze che agitavano il paese alla vigilia della
proclamazione della Repubblica. E proprio a partire dal 1923 si verificò un mutamento
profondo nella vita del comitato, legato sia agli sviluppi della vita politica turca che di
quella italiana. La proclamazione della repubblica di Turchia da una parte, dall’altra la
fondazione di istituzioni fasciste in città, generarono inevitabilmente attrito fra due
nazionalismi sempre più esuberanti e sempre meno propensi a condividere spazi
destinati alla propaganda politica. Fra questi spazi, quello destinato all’educazione dei
giovani era considerato da entrambi i paesi un terreno eletto su cui coltivare il futuro
delle due nazioni.
NOTE
1. Archivio Storico Dante Alighieri (da qui, ASDA), fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. La cifra
indicata da Buonaiuti non corrisponde probabilmente con esattezza alla realtà, e lo stesso
Zaccagnini in una sua pubblicazione del 1909 indica una cifra di circa 8.000 italiani regolarmente
registrati in città, cfr. ZACCAGNINI, Giuseppe, La vita a Costantinopoli, Torino, F.lli Bocca, 1909, p.
71. Angiolo Mori – cui si deve uno dei primi e più completi studi sulla comunità italiana di
Istanbul, nel 1906 – premettendo che non era possibile risalire al numero esatto poiché non tutti i
residenti italiani a Istanbul si iscrissero ai registri consolari, afferma che «mentre i nuovi registri
consolari, aperti il 1° gennaio 1881, danno al 31 dicembre 1905 un numero di iscritti di 8922
nazionali, i calcoli più recenti farebbero ammontare la nostra colonia a 12.500 per alcuni, a 14.000
nazionali per gli altri», MORI, Angiolo, Gli italiani a Costantinopoli. Monografia coloniale presentata
alla Camera di Commercio italiana di Costantinopoli alla mostra degli italiani all’estero, Modena, Società
tipografica modenese, 1906, p. 210.
2. Fratello di Ernesto, storico e sacerdote esponente del modernismo.
3. Secondo quanto si può dedurre dalle relazioni inviate alla sede centrale e, dal 1920 al 1925, dal
Bollettino ufficiale della Dante di Istanbul, il numero di soci iscritti per anno fu: 22 al momento
della fondazione, nel 1895; 102 nel 1896; 150 nel 1897; 210 nel 1898; 225 nel 1899; 283 nel 1908, 269
nel 1909; 168 nel 1918; circa 600 nel 1919; 1206 nel 1922; 1258 nel 1923; 1197 nel 1924; 1102 nel
1925; meno di 900 nel 1931, circa 1000 nel 1938.
4. MORI, Angiolo, Gli italiani a Costantinopoli, cit., p. 269.
5. «Nel vasto Lavorio di propaganda di assimilazione che si fa in Oriente da tutte le nazioni
europee, nella lotta aspra ed incessante che si combatte per l’incremento politico e commerciale,
il predominio della lingua ha evidentemente una importanza massima. Gli è perciò che a dare
sempre più vasto sviluppo al patrio idioma, sorse, in seno alla Società Operaia l’idea di fondare un
comitato della Dante Alighieri». GOSLINO, Pietro, PROVIDENTI, Ferdinando, Società Operaia di
Mutuo Soccorso in Costantinopoli. Memoria storica (1863-1906), Costantinopoli, Tipografia Ferd. Walla,
1906, p. 138. Nonostante questo rapporto di filiazione con il trascorrere degli anni, come si vedrà
più avanti, le relazioni fra le due «consorelle» furono caratterizzati da diversi momenti di
tensione, che si acuiranno nel periodo fascista, quando le fratture politiche all’interno della
comunità si riversarono inevitabilmente nelle sedi dell’associazionismo italiano.
6. Sulla storia della Società si vedano: BARBERA, Piero, La Dante Alighieri. Relazione storica al XXV
congresso Trieste-Trento 1919, Roma, Società Nazionale Dante Alighieri, 1919; SCODNIK, Enrico, «La
Società Nazionale Dante Alighieri nei suoi primi anni di vita», in La Rivista Dalmatica, 1-4/1966;
CAPARELLI, Filippo, La «Dante Alighieri», Roma, Bonacci, 1987; SALVETTI, Patrizia, Immagine
nazionale ed emigrazione nella Società «Dante Alighieri», Roma, Bonacci, 1995; PISA, Beatrice, Nazione
e politica nella Società «Dante Alighieri», Roma Bonacci, 1995.
7. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 16.
8. Ibidem, pp. 31 et seq. Villari fu presidente della Dante dal 1896 al 1901. La rinnovata
impostazione che Villari diede alla Società era perfettamente in linea con la sua formazione di
storico meridionalista e di uomo del Risorgimento. Sulla sua figura si vedano MORETTI, Mauro,
Pasquale Villari, storico e politico, Napoli, Liguori, 2005, p. 157; BALDASSERONI, Francesco, Pasquale
Villari. Profilo biografico e bibliografia degli scritti, Firenze, Galileiana, 1907; SALVEMINI, Gaetano,
Pasquale Villari, in ID., Scritti vari (1900-1957), Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 57-80. Sulla sua
presidenza alla Dante in rapporto all’irredentismo trentino cfr. MONTELEONE, Renato (a cura di),
Dai carteggi di Pasquale Villari: la Società “Dante Alighieri” e l’attività nazionale nel Trentino (1896-1916),
Trento, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1963.
9. Cfr. PISA, Beatrice, op. cit.
10. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 25.
11. In generale sulla comunità italiana di Istanbul si vedano PANNUTI, Alessandro, La comunità
italiana di Istanbul nel XX secolo. Ambiente e persone, Isis, Istanbul 2006; DE GASPERIS, Attilio,
FERRAZZA, Roberta (a cura di), Gli italiani di Istanbul. Figure, comunità e istituzioni dalle riforme alla
repubblica (1839-1923), Torino, Centro altreitalie, 2007.
12. Dal 1895 al 1945 furono diciassette i presidenti della società: Giuseppe Zaccagnini (1895-1900);
Angelo Zanotti (1900-1901); Lewis F. Mizzi, (1901-1907); dal 1907 al 1910 C. D’Agostino, Alberto
Theodoli, Edoardo De Nari; dal 1910 al 1915 Riccardo Zeri e Aldo Lombardo; Luigi Joli (1920-1930);
Aldo Mei (1930-1934); Carlo Rocco Simen (1934-1935); Francesco Feliziani (1935-1936); Giulio
Jacopi (1936-1938); Lamberto Biancone (1938-1940); Ezio Bartalini (1940-1945).
13. I primi presidenti, soci della Società operaia, erano quasi sempre insegnanti presso le scuole
italiane. Di queste purtroppo molta documentazione precedente la grande guerra è andata
smarrita a causa di un incendio.
14. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
15. Quanto successe viene spiegato in una relazione inviata alla sede centrale nel settembre 1897
dal presidente Giuseppe Zaccagnini: «Nel primo anno la Dante Alighieri pensò subito all’utilità di
due cose: avere un giornale italiano a cercar di riallacciare […] le sparse vestigia della colonia
promovendo delle riunioni e per mezzo di letture o di conferenze su svariati argomenti. Il
giornale sorto dal vecchio organo della nostra camera di commercio s’intitolò Rassegna Italiana.
Tre giovani volenterosi e valorosi che meritano tutti gli elogi e molta gratitudine, l’avv. Giorgio
Chabert, l’avv. Alberto Vuccino e il dott. Luigi Mongeri, ne assunsero a tutto loro rischio la
pubblicazione avendo redattori principali tutti i componenti il consiglio direttivo del comitato
della nostra società. Il giornale così rinnovato, in grande formato in 16 e 32 pagine, uscì
puntualmente due volte il mese per tutto un anno. Finito l’anno gli assuntori, per qualche
divergenza di criteri con la Camera di commercio, restituirono la Rassegna, secondo i patti
stabiliti colla camera stessa, restando perdenti di una somma non indifferente. Sarebbe troppo
lungo, e inutile, indagare qui la causa dello insuccesso: ché insuccesso, economicamente almeno,
la pubblicazione fu. Però restò l’iniziativa che, seguita, non può che dare risultati degni di non
essere abbandonati», ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. Un’analisi dei temi della rivista è
in PANNUTI, Alessandro, op. cit., pp. 119-152.
16. Padre Palmieri fu inoltre autore di una cronaca dell’“Associazione commerciale artigiana di
pietà in Costantinopoli”, PALMIERI, Aurelio, Associazione Commerciale Artigiana di pietà in
Costantinopoli. Cenni storici 1837-1902, Napoli, Giannini&figli, 1902. Cfr. PANNUTI, Alessandro, op.
cit., pp. 110-114.
17. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
18. A Mons. Augusto Bonetti, Delegato Apostolico a Istanbul dal 24 giugno 1887 fino alla morte,
nel 1904, si deve la fondazione a Istanbul dei due istituti dei Salesiani e delle Suore Carmelitane.
Alla sua morte lasciò ai Salesiani della città la somma che permise loro di consolidare e garantire
il futuro della scuola di arti e mestieri. Cfr. BISKUPSKI, Ludwik, L’origine et l’historique de la
Représentation officielle du Saint-Siège en Turquie (1204-1967), Istanbul, Ümit Basımevi, 1968, pp.
81-83; MORI, Angiolo, op. cit., p. 254.
19. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
20. Ibidem.
21. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 34.
22. Ibidem, p. 17.
23. Giuseppe Lombardo-Radice, in un polemico volume sulla «indecorosa politica della Consulta
da Rudinì a Tittoni» – come tuona il sottotitolo – applicata alla gestione delle scuole italiana
all’estero, così sintetizza la situazione del decennio 1888-98: «Fu quello il periodo dell’entusiasmo
[dopo la fondazione delle scuole governative, nel 1888], a cui seguì ben presto quello dell’insania,
poiché quando i germi gettati cominciavano a dare i loro buoni frutti e le scuole andavano
sempre più acquistando credito presso le popolazioni, il Ministero Rudinì, nel 1891, per ragioni di
gretta economia, procedette alla chiusura di oltre 50 scuole, alcune delle quali popolatissime. Una
passeggera fioritura si ebbe nel 1894 con il ritorno di Crispi al potere, ma fu di breve durata; dal
1895 in poi si ebbe il periodo della decadenza […]. Furono i 14 anni di dominio assoluto e senza
controllo del commendatore Scalabrini, ispettore generale, durante i quali la scuola di stato
decadde, intisichì, intristì; sulle sue rovine cominciò a spuntare o rifiorire la scuola
confessionale… sussidiata e favorita dallo Stato, e contro le scuole di stato e le stesse scuole
confessionali italiane ebbero a poco a poco ragione le scuole fondate da altre nazioni, che
assorbirono in pochi anni migliaia e migliaia dei nostri alunni […]», LOMBARDO-RADICE,
Giuseppe, Le scuole italiane all’estero. Note sulla indecorosa politica della Consulta da Rudinì a Tittoni,
Ortona a mare, Vincenzo Bonanni Editore, 1910. Sulla soppressione degli istituti attuata dal
governo Di Rudinì si vedano anche: Relazione sulle scuole italiane all’estero, A.P., Camera dei
Deputati, Documenti, Ses. 1890-92, Seduta del 9 marzo 1892. CORSI, Carlo, La soppressione delle
scuole italiane in Levante, Venezia, s.e., 1893.
24. MORI, Angiolo, op. cit., p. 252; PANNUTI, Alessandro, op. cit., p. 74-79.
25. ZACCAGNINI, Giuseppe, Ricordi di Costantinopoli, Lucchetti, Cingoli 1926.
26. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. Cfr. QUATAERT, Donald, Miners and the State in the Ottoman Empire. The Zonguldak Coalfield.
1822-1920, Oxford, Berghahn Books, 2006.
30. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
31. Ibidem.
32. Ibidem.
33. Lewis Mizzi fu una delle figure più poliedriche presenti a Istanbul nel quarantennio a cavallo
fra il XIX e il XX secolo. Avvocato, si trasferì a Istanbul negli anni Settanta, cfr. SCHIAVONE,
Michael J., SCERRI, Louis J., Maltese Biographies of the Twentieth Century, Pietà, Pubblikazzjonijiet
Indipendenza, 1997.
34. Su Fortunato Mizzi cfr.: VOLPE, Gioacchino, Italia moderna, Firenze, Sansoni, 1973, p. 209;
MEYNIER, Gilbert, RUSSO, Maurizio, L’Europe et la Méditerranée. Stratégies et itinéraires politiques et
culturels en Méditerranée France et Italie. XIXe-XXe siècles, une approche comparative, Paris,
L’Harmattan, 1999, p. 143; CASSAR, Carmel, Society, Culture and Identity in Early Modern Malta,
London, Mireva, 2000, p. XXIX; GOODWIN, Stefan, Malta, Mediterranean Bridge, Westport,
Greenwood Publishing Group, 2002, p. 87. La figura di Mizzi è ricordata inoltre in due discorsi di
commemorazione: CORTIS, Giulio, Fortunato Mizzi, padre della patria. Discorso commemorativo
pronunziato nell’aula magna della R. Università di Malta il 20 maggio 1922, La Valletta, Tipografia del
Malta, 1922; SAMMUT, Giovanni, Orazione ad esaltazione di Fortunato Mizzi, padre della Patria, nel 30.
annuale della sua morte, pronunziata nel Circolo La Giovine Malta, il 18 maggio 1935, La Valletta, Editrice
Melitense, 1935.
35. Cfr. DOBIE, Edith, «Malta and her Place in the Commonwealth», in The Western Political
Quarterly, 9, 4/1956, pp. 873-883.
36. PORTELLI, Sergio, op. cit., p. 344.
37. Cfr. GROC, Gérard, ÇAĞLAR, İbrahim, La presse française de Turquie de 1795 à nos jours. Histoire et
catalogue, Istanbul, Isis Press, 1985.
38. ASDMAE, Ambasciata d’Italia in Turchia (1829-1937), b. 101, f.5.
39. Ibidem.
40. Ibidem.
41. Ibidem.
42. La “Turchia” è molto maltrattata dalla Dante non solo ma anche dal Governo italiano.
Sebbene questo sia precisamente lo identico stato di cose del quale fruisce il mio Levant Herald,
pure non posso non capire né disapprovare i tristi lamenti del de Bondini […]. In un momento in
cui si sta facendo tutto per risvegliare il sentimento e la favella d’Italia in queste regioni, eccoti
spuntare sotto i migliori auspici un “giornale italo-francese”. Gli italiani naturalmente lo devono
tenere caro ed il Marchese Imperiali non ha omesso una sola circostanza nella quale non lo
raccomandò come opera nazionale italiana. Ora quale è l’accoglienza che è stata fatta dalla Dante
e dal governo italiano? Assolutamente nulla. La Dante, né come società, né come comitato locale
non ha ancora, per così dire, salutato l’arrivo di un giornale italiano. Ora, tu sai meglio di me che
gli scopi della dante sono, spargere la lingua e la coltura italiana ovunque. Se il giornale di
Bondini pro tanto non isparge gran fatto di coltura italiana, egli sparge certamente ed
indubitabilmente la lingua italiana. Sotto questo aspetto dunque ha diritto alla simpatia ed
all’incoraggiamento della Dante. Ora tu sai meglio di me che la dante come comitato locale non
può fare gran cosa pel Bondini, perché non è ricca […]. Ma la cosa è bene diversa colla Dante in
Italia. La società madre vede gli sforzi di Bondini, e se il governo non ha fatto nulla per lui, mi
sembra che la colpa tutta sia della Dante la quale ha voce in capitolo in Italia e non perderebbe
nulla se si mettesse un poco in campagna a prò di lui. […] Lo “Stanboul” riceve una splendida
sovvenzione dal governo francese, perché la “Turchia” non dovrebbe riceverne una dagli
italiani? il Levant Herald non ha un soldo dal governo inglese, ma anche lo stato inglese non ha
né viste né ambizioni in Turchia e se ne infischia dei giornali in generale e del Levant Herald in
particolare. […] E rifletti che se il governo non dà prova di buona volontà a l’interesse per il
giornale italiano locale, non si può, non si deve pretendere che la colonia lo prenda a ben volere.
Tu sai come vanno le cose qui. Se il movimento viene comunicato dall’alto, i nazionali, come le
pecore del nostro Padre Dante, seguiteranno a capo fitto, e quello che la prima fa, le altre
faranno. Io ti parlo in questo senso, come ho sempre parlato a tutti, sebbene che il mio interesse
personale sia precisamente che voi seguitiate a trattare la Turchia come l’avete trattata fin d’ora.
Anche io ho un giornale e, naturalmente, non ho nessun interesse a farne prosperare un altro.
Ora tu sai benissimo quali siano i miei veri sentimenti in proposito. Tu sai che ho avuto un
fratello che ha lasciato la sua preziosissima vita dopo una lotta omerica di 27 anni in difesa della
lingua italiana e tu sai che egli mi ha lasciato cotesto retaggio. E lo eseguisco fedelmente,
sinceramente e del mio meglio. […] Fa dunque del meglio per Bondini. Egli mi ha pregato di
scrivertene ed io te ne scrivo in tutta coscienza. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
43. ASDMAE, Ambasciata d’Italia in Turchia (1829-1937), b. 101, f.5.
44. Ibidem.
45. Ibidem.
46. Ibidem.
47. «Un solo foglietto di 4 pagine, col quale si farà propaganda dando conto ai soci di ciò che fa il
consiglio, di ciò che fanno, in ristretto succinto, gli altri comitati, notizie sui corsi, sulla
biblioteca, libri ricevuti, donazioni, movimento soci, brevi recensioni di pubblicazioni letterarie e
di conferenze […]. Io mi riprometto un risultato eccellente di propaganda nella Colonia nostra e
nelle altre di qui con questa pubblicazione – modesta da principio – ma che può avere grande
sviluppo, tanto più che, salvo quel povero bollettino della camera di commercio, fatica
particolare di Melia, qui non si stampa una parola d’italiano», Joli a Zaccagnini, 11 gennaio 1920,
ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
48. Bollettino, I, 1/1920, p. 1.
49. PISA, Beatrice, op. cit., p. 356.
50. PISA, Beatrice, op. cit., p. 14.
51. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 90.
52. Stretto collaboratore di Giovanni Giolitti negli anni in cui fu ministro degli interni, operò
principalmente in Egitto. Sulla figura di Insabato e sulla sua politica in questi anni cfr. IANARI,
Vittorio, La politica islamica dell’Italia durante la Triplice Alleanza. L’attività di Enrico Insabato, in
TRINCHESE, Stefano (a cura di) Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo all’alba del
’900, Milano, Guerini, 2005, pp. 199-246.
53. SOLIMBERGO, Giuseppe, Le scuole in Levante. Relazione al XVI Congresso della “Dante Alighieri”,
Roma, Tipografia La Sapienza, 1905, p. 11.
54. Cfr. MARONGIU BUONAIUTI, Cesare, Politica e religioni nel colonialismo italiano (1882-1941),
Milano, Giuffrè, 1982.
55. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p.98.
56. Come scrisse Theodoli a Zaccagnini, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
57. «Ragiono e dico che i 200 soci della Dante degli anni passati erano in gran parte italiani, e più
di tanti non ne avremmo mai avuti, che se volevamo aumentare sensibilmente il numero
bisognava cercare fra gli stranieri ed invogliarli. Gli stranieri si faranno soci della Dante per ciò
che la Dante darà loro e pagheranno pure per la festa a pagamento in riconoscenza del profitto
avuto, ma è illogico pensare che stranieri si faccian soci per gli scopi patriottici della Dante, o per
istruirsi in conferenze e commedie o in letture nelle quali poco ci capiscono. Alle prime 2 feste
furono ogni sera 300 gli intervenuti. Su 300 le assicuro che ce n’erano appena 100 che capivano
l’italiano». ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
58. De Nari a Zaccagnini, 8 dicembre 1907, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
59. Emilio Marchione a Riccardo Zeri, 3 marzo 1911, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
60. Marchione a Zaccagnini, 16 maggio 1911, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
61. «Il risultato della scuola popolare è stato veramente superiore ad ogni previsione. Sorta per
iniziativa di pochi, in mezzo alla diffidenza generale della colonia italiana che credeva non essere
il quartiere adatto per una scuola, l’affluire immediato degli allievi sia italiani sia di altre
nazionalità, venne subito a confermare le giuste previsioni dei fondatori. Non solo osservammo il
numero degli allievi, ma ci colpì il progresso in breve tempo dei loro studi […]. Voi sapete il
risultato finale degli iscritti nella scuola, questi sono stati 275, di cui ben 206 assidui e di questi 99
erano italiani, 126 ottomani, 44 greci, e 2 persiani; divisi per religione si contarono: 91 cattolici,
90 musulmani, 52 israeliti, 42 ortodossi. Gli esami finali ci hanno infine data la prova del
progresso reale fatto dagli alunni negli studi impartiti […]. Ottimi risultati, ottimi insegnanti che
ci lascerebbero fare le migliori previsioni per l’avvenire, se il punto nero non venisse dal nostro
bilancio. [...] In tali condizioni, visto l’indifferenza del R. Ministero a noi non resterebbe che
chiudere la scuola. Ci conforta il pensiero che avendo sacrificato tutto il suo capitale
nell’impianto della scuola popolare, la Dante ha potuto far sorgere in pochi mesi una scuola così
prospera e popolata come mai la scuola elementare governativa è stata in più di 20 anni». ASDA,
fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
62. Questo tipo di difficoltà è riferito, per esempio, da Marchione, il quale riferendo di
incomprensioni con il Console, riferiva all’Ambasciatore: «Ho creduto necessario d’esporre
quanto sopra, non per risentimento o rancore, né per dimostrare come viene gratificata alle volte
l’opera concordemente apprezzata e lodata di un insegnante, ma solo per dimostrare la necessità
d’un accordo fra la direzione generale delle RR. Scuole all’estero e il comitato centrale della
Dante Alighieri, perché, se non bastano le tassative disposizioni del regolamento, con opportune
istruzioni, si compiacciano di stabilire i limiti delle competenze e delle ingerenze del R. consolato
generale sulla scuola popolare di Costantinopoli, a fine di evitare in seguito nuovi equivoci e
malintesi, i quali potrebbero danneggiare una scuola che, sorta sotto lieti auspici e circondata da
molte simpatie, sembra destinata ad un ottimo avvenire», ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921,
167A.
63. «Caro Zaccagnini, da quattro giorni qui non abbiamo che notizie disastrose per l’Italia; Tripoli
ripresa dai turchi, Bengasi riespugnata e così via. Sono immolati montoni per ringraziare Allah
della vittoria e con che aria [parola incomprensibile] ora siamo guardati se lo può ben
immaginare lei […]. Notizie di qui non gliene do’: finora siamo restati tranquilli e non ci hanno
ancora trucidati, né evirati […]. Solamente mi volevano chiudere l’ospedale e poi non l’han fatto,
e nel quartiere turco dove si trova l’ospedale sono furibondi. Non posso andare da casa mia
all’ambulatorio perché quei bravi turchi che prendono il caffè in quelle bottegucce hanno voglia
di bastonare gl’italiani. Io pensando che è meglio di non dar loro tale fatica passo da un’altra
strada. Ed ora le chieggo aiuto per la scuola popolare che non è aperta. Io della Dante non ho più
un soldo; la cassa è vuota e non è questo il momento di domandar le quote ai soci. Ma il bidello lo
devo pagare, l’abbonamento dell’acqua anche; poi ci sono delle altre piccole spese […], per ora
pago io, ma se la guerra continua dovrei licenziare il bidello, e mentre tutti i lavoranti italiani
soffrono la fame non vorrei farne soffrire uno in più […]». Zeri a Zaccagnini, 2 novembre 1911,
ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
64. Relazione sull’andamento del comitato di Costantinopoli negli anni 1911-12, ASDA, fasc.
Costantinopoli 1895-1921, 167A.
65. A partire dall’anno scolastico 1902-1903 fino al 1909 gli iscritti alla scuola elementare
governativa furono rispettivamente 265, 219, 156, 157, 156, 124 Cfr. le corrispondenti
pubblicazioni dell’Annuario delle scuole italiane all’estero governative e sussidiate, Ministero degli
affari esteri, Roma.
66. Joli a Zaccagnini, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
67. Riccardo Zeri alla presidenza centrale, 3 marzo 1913, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
68. Proposte del comitato, Appunto, 26 marzo 1901, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
69. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
70. Nel 1897 l’avvocato Rosasco conferì su “La dignità della donna” e nel 1898 Carmelo Melia su
“La donna nella società”, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
71. Cfr. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 162 e sg.
72. Ibidem, pp. 280 et seq.; MOSSE, George L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e
rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 128.
73. Il periodico fu fondato nel 1912 come integrazione al Bollettino generale della Dante, ritenuto
troppo asettico ed eccessivamente incentrato sulle vicende interne della Società. PISA, Beatrice,
op. cit., p. 165.
74. «Ero lieta di non dover rendere conto del mio tempo di cui mi pareva di essere assoluta
padrona, mentre pur mi assoggettavo alle esigenze di un orario. Ma tale importanza davo al mio
lavoro, che le ore dedicate ad esso mi parevano così preziosamente riempite, e così feconde che
non osavo neppure a me stessa confessare la mia stanchezza. E con un profondo senso di
compatimento io consideravo la sorte delle altre donne, fanciulle o spose, le quali erano costrette
alla vita incolore imposta dalle esigenze domestiche. Ma poco a poco il mio entusiasmo si attenuò
senza che neppure io riuscissi a rendermene conto. A un certo punto mi accorsi di sentirmi come
straniera nella casa dove tornavo la sera, ove tutto era disposto senza il mio intervento che non
poteva e non doveva esser necessario mai. Non avevo più tempo neppure per i miei libri di
sociologia e di storia; e qualche volta, quando riuscivo ad aprirli, essi parevano parlarmi di un
mondo lontano, che non avrei raggiunto mai, poiché quello in cui vivevo, che pure era il più
ampio che potesse venir consentito alla mia attività femminea, non mi riconduceva, o per lo
meno non mi richiedeva quasi mai quel che i miei libri mi avevano insegnato», «Italia!», I, 1912,
p. 487.
75. CORSI, Carlo, op. cit., p. 62. «La generazione dei Levantini è come un anello intermedio che
unisce l’Occidente all’Oriente: fra l’Europa e l’Asia v’ha un terreno neutro che è stato preso da
loro: là si vengono ad incontrare due correnti opposte di civiltà e si corrompono
scambievolmente. Così tante volte all’imboccatura dei fiumi, l’acqua dolce mescolandosi all’acque
salse si guasta e riempie l’aria di pestifere esalazioni». Ibidem, p.67.
76. Regolamento interno del sottocomitato studentesco, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
77. Cfr. GIBELLI, Antonio, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla grande guerra a Salò, Torino,
Einaudi, 2005.
78. Ibidem, p. 4.
79. «La gran maggioranza dei soci è costituita da giovanotti sudditi italiani; vi sono pure alcuni
ottomani, elleni, tedeschi e austriaci. Il numero dei soci è dunque, chi consideri le condizioni
della colonia e delle altre società italiane, ragguardevole. […] Il sottocomitato si è dovuto
contentare di iniziative modeste sia per l’esiguità delle proprie risorse, sia perché le iniziative più
utili e più importanti erano già state assunte dal comitato maggiore, verso il quale i nostri
sentimenti sono sempre stati deferentissimi e i nostri rapporti cordiali. Abbiamo voluto dotare di
riviste italiane le sale di lettura dei vari circoli e clubs di qualsiasi nazionalità che ne erano privi e
che si manifestarono disposti a gradirne l’invio. Le riviste scelte furono: Patria e Colonia, Lettura,
Noi e il mondo. [Le riviste vennero spedite a varie associazioni giovanili] Young Man Christians
Association; Union des employèes grecs de commerce; Società dalmata di beneficenza; Club grec;
Unione italiana di Haidar-pascià; Club-Verein der deutschen juden […]. Ma ci pareva doveroso
che la maggior parte delle nostre risorse fosse quest’anno devoluta ad un atto che significasse la
nostra devozione alla scuola nella quale la maggior parte dei nostri soci sono educati. Abbiamo
provveduto ad acquistare e far inquadrare in eleganti e sobrie cornici riproduzioni in tricromia
di insigni opere d’arte italiane. Sono dieci grandi quadri che, decoreranno la bella sala di disegno
dei nostri regi istituti medi; e confidiamo che anche questo omaggio attesterà durevolmente
quanto schiettamente noi siamo affezionati alla Scuola della Patria, e quanto il nostro stesso
sodalizio si proponga di rinsaldare in ciascuno di noi questo sentimento», ASDA, fasc.
Costantinopoli 1895-1921, 167A.
80. Joli a Zaccagnini, 11 gennaio 1920, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
81. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 285 sg.
82. Ibidem, p. 355 et seq.
83. Sull’attività del corpo dei Giovani esploratori durante la guerra, riferimenti in VENTRONE,
Angelo, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003,
p. 68; FERRETTI, Lando, Il libro dello sport, Roma, Libreria del Littorio, 1928.
84. Bollettino della Dante (da qui Bollettino), IV, 21/1923, p. 77.
85. I Giovani Esploratori, Trento, Tip. Art. Tridentina G. Moncher, 1916, p. 11.
86. Zeri alla presidenza centrale, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
87. Bollettino, I, 2/1920, p. 14.
88. Autore di un volume sulla missione francescana a Istanbul, PARRI, Ferdinando, Costantinopoli e
i Francescani, Pesaro, Tip. Federici, 1930.
89. Sulla “Italica Gens” cfr. ROSOLI, Gianfausto, «La federazione “Italica Gens” e l’emigrazione
italiana oltreoceano, 1909-1920», in Il Veltro, 24, 1-2/1990, pp. 87-100; TOMASI, Silvano M., «Fede e
patria: the “Italica Gens” in the United States and Canada, 1908-1936. Notes for the History of an
Emigration Association», in Studi Emigrazione 28, 103, 1991, pp. 319-341; SARESELLA, Daniela, La
lingua italiana nel mondo attraverso l’opera delle congregazioni religiose. Atti del convegno di studio,
Perugia, 10 dicembre 1999, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001. Si vedano in particolare le pp. 51 et
seq.
90. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 398-399.
91. Bollettino, III, 15/1922.
92. Ibidem.
93. Cfr. SORI, Ercole, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il
Mulino, 1979.
94. Bollettino, III, 15, 1922.
95. Sulla politica estera del fascismo e la sua genesi fra la vasta bibliografia si vedano: COLLOTTI,
Enzo (a cura di), Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Scandicci, La Nuova Italia,
2000; GARZARELLI, Benedetta, Parleremo al mondo intero. La propaganda del fascismo all’estero,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; CAROCCI, Giampiero, La politica estera dell’Italia fascista
(1925-1928), Roma-Bari, Laterza, 1969; RUMI, Giorgio, Alle origini della politica estera fascista
(1918-1923), Roma-Bari, Laterza, 1968; DE FELICE, Renzo, L’Italia fra tedeschi e alleati. La politica estera
fascista e la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973; PETRELLI, Matteo, Il fascismo e gli
italiani all’estero, Bologna, Clueb, 2010; CAVAROCCHI, Francesca, Avanguardie dello spirito. Il fascismo
e la propaganda culturale all’estero, Roma, Carocci, 2010.
96. Bollettino, III, 15, 1922.
97. Esisteva già in città una sezione locale dell’Associazione nazionale combattenti e reduci,
fondata nel maggio 1921.
98. «Ricordiamolo sempre noi italiani, troppo avvezzi a dimenticare quello che di bene e di bello
compimmo, dappoi che una turba dolorante di madri orbate dei loro figli, di vedove, di orfani, di
giovani deturpati dalle ferite, passa ogi davanti ai nostri occhi ed attesta, come un quadro vivente
di storia imperitura, il grande contributo dato all’Italia per il trionfo della causa comune […], il
doveroso tributo di onore a tutti quelli che caddero per un santo ideale», La festa del 4 novembre
data in occasione del secondo anniversario della vittoria italiana, Bollettino, I, 4, 1920.
99. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 279 et seq.
100. La festa dello “Statuto”, Bollettino, II, 8, 1921.
101. Ibidem.
102. «Oggi, in Roma immortale, baciata dal sole autunnale, che indora i suoi monumenti, eterni
come la sua bellezza, là, sull’altare della Patria che sovrasta l’Urbe, sull’altare della Patria simbolo
magnifico della nostra unità indistruttibile, si è compiuta l’apoteosi dell’Eroe ignoto. […] Questo
figlio di tutte le madri è stato tumulato sull’altare sacro, mentre s’inchinavano davanti alle sue
misere spoglie le mille bandiere lacere che sanno le battaglie […] esso rappresenta il sacrifizio più
sublime per il trionfo di un’idea, il sacrifizio della propria vita!». Ibidem.
103. Il termine “stambuliota” è stato di recente oggetto di discussione e ritenuto preferibile,
insieme a stanbuliota, rispetto alle varianti stambulino/stanbulino, pure utilizzate. Si coglie qui
l’occasione per ringraziare Fabio L. Grassi per le preziose indicazioni in merito alla terminologia
in lingua turca.
104. Bollettino, I, 3, 1920, p. 30.
105. Bollettino, III, 15, 1922.
106. MOSSE, George, Sessualità e nazionalismo cit., pp. 129-151; si segnalano inoltre solo alcuni dei
testi che maggiormente hanno approfondito questi aspetti fra la vastissima bibliografia a
disposizione: ID. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp.
79-118 (per il mito del soldato caduto); FUSSEL, Paul, La grande guerra e la memoria moderna,
Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 345-394, GIBELLI, Antonio, La grande guerra e le trasformazioni del
mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Per il periodo precedente si veda BONETTA,
Gaetano, Corpo e nazione: l’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Franco
Angeli, 1990.
107. Bollettino, II, 2, 1921-1922.
108. LUPO, Salvatore, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2005, p. 62.
109. Joli a Zaccagnini, 7 luglio 1922, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
110. Si tratta del poeta Fużūlī, nome di penna di Mehmed bin Süleyman (1483c.-1556), uno dei
principali esponenti della poesia classica ottomana, «Fuzuli, Mehmed bin Süleyman», sub vocem
in Encyclopædia Britannica, URL: <http://www.britannica.com/EBchecked/topic/222964/
Mehmed-bin-Suleyman-Fuzuli> [consultato il 16 novembre 2014].
111. Joli a Zaccagnini, 7 luglio 1922, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.
RIASSUNTI
La Società Dante Alighieri fu fondata a Roma nel 1889. La sede di Costantinopoli fu inaugurata nel
1895; da allora è stata un centro di aggregazione sociale e culturale per la comunità italiana di
Istanbul operando attraverso iniziative quali l’istituzione di scuole, la biblioteca, l’organizzazione
di pubbliche conferenze, la promozione della lingua italiana. Ma la Società è stata anche il riflesso
dei cambiamenti sociali e politici che da Roma si imponevano alle comunità italiane all’estero.
Attraverso le fonti conservate presso l’Archivio della Società, questo articolo intende analizzare
da una parte il modo in cui la direzione centrale della Società ha affrontato il passaggio cruciale
fra XIV e XX secolo, quando visse il passaggio da un’impostazione basata su ideali risorgimentali
a una più marcatamente nazionalista, che sfocerà nella fascistizzazione della Società stessa,
dall’altra il modo in cui questa nuova concezione si scontra con il nascente nazionalismo turco
alla vigilia del crollo dell’impero.
The Dante Alighieri Society was founded in 1889 in Rome, in Istanbul it was inaugurated in 1895
and since then it became a reference point for italian community of the city working through
cultural initiatives such as the establishment of schools, libraries, the organization of public
conferences, the constant promotion of the Italian language. But the Society also reflected the
social and political changes imposed by Rome to the Italian communities abroad. Through the
sources preserved in the Archives of the Society, on the one hand this article aims to analyze the
way in which Rome addressed the crucial step from the ideals of Risorgimento to a more
markedly nationalist orientation (which will lead to a complete ‘fascistization’ of the Society), on
the other the way in which this new approach clashes with the nascent turkish nationalism on
the eve of the fall of the Ottoman empire.
INDICE
Parole chiave : comunità italiane all’estero, identità culturale, lingua e nazione, Società Dante
Alighieri, Turchia
Keywords : cultural identity, Italian communities abroad, nation and language, Società Dante
Alighieri, Turkey
AUTORE
STEFANIA DE NARDIS
Dottore di ricerca in Storia contemporanea, collabora con la cattedra di Storia contemporanea
dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara e con la Fondazione per le scienze religiose
Giovanni XXIII di Bologna.
Enrico Bullian
NOTA DELL'EDITORE
Il saggio – pubblicato su due numeri della rivista – è frutto della borsa di ricerca
dedicata allo studio di alcune aziende del Monfalconese. La borsa è stata gestita dal
Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste (con
cofinanziamento del Fondo Sociale Europeo), mentre il Dipartimento di Studi
Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste è stato la struttura ospitante
dell’attività di ricerca, in collaborazione con le 4 imprese partner (TreCoFer, Nuovo
Arsenale Cartubi, Strato e Coop Consumatori Nordest).
operanti nel 1963: Monfalcone, Monfalcone-porto, Turriaco, Ronchi dei Legionari, San
Canzian d’Isonzo, Pieris, Fiumicello e Papariano, con oltre 3.000 soci complessivi 7. Lo
storico Presidente del Consiglio di Amministrazione degli anni Sessanta e di buona
parte dei Settanta è Silvestro Tonizzo. L’orientamento politico della CCLM è legato a
quello del Partito Comunista Italiano (PCI). I negozi si configurano come spacci di
limitate dimensioni (solitamente di 200-300 mq), in linea con quanto avveniva a livello
nazionale, seguendo il motto «una cooperativa sotto ogni campanile», mutuato dalla
nota linea togliattiana volta al radicamento del partito di massa («una sezione
comunista e una Casa del Popolo sotto ogni campanile»8). Tuttavia, in quegli anni,
iniziava per le cooperative di consumo «la lunga marcia delle unificazioni» e
contemporaneamente l’aumento della superficie dei punti vendita (Renzo Testi).
Proprio nel 1963 a Reggio Emilia si inaugurava il primo supermercato cooperativo di
1.400 mq di superficie di vendita, il Coop 1, organizzato su due piani 9. Da lì prese avvio,
ad esempio, il percorso di concentrazione delle cooperative di Reggio Emilia, prima su
base comunale, poi intercomunale e successivamente provinciale. Nel 1974 costituirono
la Coop Nordemilia, assieme a quelle di Parma, Mantova e Piacenza che avevano seguito
itinerari simili10. Questi processi di fusione furono appannaggio – per il momento –
dell’avanguardia del movimento cooperativo, che storicamente aveva le sue roccaforti
nell’Italia centrale. Secondo Patrizia Battilani, a livello nazionale, «l’opera di
modernizzazione procedette molto lentamente […]: i negozi tradizionali restarono
l’ossatura della cooperazione di consumo per tutti gli anni Sessanta» 11. Ciò avvenne
anche nel Monfalconese e proseguì allo stesso modo nella prima metà degli anni
Settanta. I tempi non erano ancora maturi per un’autoriforma della rete di vendita,
anche se esisteva la consapevolezza delle difficoltà nella gestione dei negozi. Il CdA
della CCLM nel Bollettino d’informazione dell’aprile 1968 – nell’invito ai soci
all’assemblea di approvazione del bilancio per l’esercizio 1967 – scriveva:
le vendite, purtroppo, non hanno avuto quello sviluppo che il Consiglio di
Amministrazione ovviamente si aspettava: ciò è dovuto a diversi fattori. Enunciamo
soltanto i principali, che possono così essere indicati:
- il perdurare della seria crisi del settore industriale, con il conseguente diminuito
potere di acquisto dei lavoratori;
- la massiccia presenza delle grandi catene di distribuzione che attraverso i loro
supermarket sviluppano una spregiudicata politica tesa a confondere il
consumatore nelle sue scelte alimentari;
- l’attuarsi di una politica degli investimenti nel settore distributivo nel preminente
interesse dei gruppi finanziari monopolistici;
- il perdurare di una ormai intollerabile pressione fiscale che colpisce soprattutto il
Movimento Cooperativo ed i lavoratori a reddito fisso.
Nell’esercizio passato, la presenza e la funzione della nostra Cooperativa e del
Movimento Cooperativo nel suo insieme, nell’azione contro il caro vita, la
speculazione, le frodi, le sofisticazioni alimentari, in difesa del potere di
acquisto dei lavoratori e della salute del consumatore, si è maggiormente
sviluppata.
In particolare, le iniziative prese dal nostro Movimento si sono caratterizzate con
l’affermazione e lo sviluppo del MARCHIO COOP e di tutti quei prodotti garantiti e
controllati da COOP-ITALIA il grande CONSORZIO delle COOPERATIVE di CONSUMO
ITALIANE12.
6 Da questa lettera ai soci si può concludere che non esisteva ancora un’autocritica sulla
gestione della rete dei negozi, mentre i supermercati erano ancora considerati con
sospetto, dal momento che svolgevano una «spregiudicata politica tesa a confondere il
consumatore nelle sue scelte alimentari». Sono stati riportati anche i passaggi
promozionali finali, per dimostrare quali erano le parole d’ordine di allora, che, in
diversi casi, attraverso un messaggio attualizzato rappresentano ancora oggi un
patrimonio consolidato del movimento cooperativo.
7 Un altro passaggio interessante fa emergere l’impostazione di genere ancora imperante
all’epoca. Si plaudeva alla nuova apertura della Coop a Ronchi dei Legionari, «negozio
che corrisponde alle più moderne esigenze delle massaie e del consumatore» 13, dove
appare netta la sottesa separazione fra le donne, massaie massificate, e l’uomo,
consumatore consapevole.
8 Nella Relazione del CdA dell’anno successivo, si può leggere come nel 1968 la CCLM
abbia «contribuito alla creazione del nuovo grande magazzino COOP-ITALIA di
Pordenone, che rifornirà le cooperative del Friuli-Venezia Giulia e del Veneto con una
completa gamma merceologica», necessario per coordinare almeno una politica
unitaria degli acquisti14. Nello stesso documento si comunicava dell’acquisizione di un
terreno a San Canzian d’Isonzo «per la imminente costruzione di uno stabile da adibirsi
a un modernissimo COOP»15. Lo sviluppo dei fatti è emblematico per dimostrare la
prossimità (se non la sovrapposizione) che esisteva fra la CCLM e le organizzazioni del
PCI. La “modernissima Coop” di San Canzian d’Isonzo fu inaugurata qualche anno dopo,
il 29 maggio 1975, come si riportava addirittura in una cartolina dell’epoca.
Casa del Popolo e Coop di San Canzian nel 1975. Archivio della Casa del Popolo di San Canzian
modo, dopo l’esperienza della Nestpack seguirono altre aziende e quindi nacque l’idea
di avere un unico spaccio comune. Per questo alla fine del 1976 si formò nella Provincia
di Gorizia un Comitato di Coordinamento per la Cooperazione, promosso da CGIL, CISL,
UIL, Lega delle Cooperative (Federcoop), Confederazione Cooperative (Unione) e ACLI.
In quegli anni si stabilì che la presidenza della CCLM veniva gestita con una rotazione
biennale tra CGIL, UIL, CISL e ACLI, seguendo l’ordine esposto.
20 Il numero monografico «Speciale cooperazione» del novembre 1976 è dedicato proprio
alla nascita del Comitato in preparazione della prossima apertura del Discount di
Monfalcone. Nell’annuncio evidenziavano che quest’ultimo rappresentava la «seconda
esperienza della Regione, dopo quella positiva avviata nel giugno 1976 presso le officine
Danieli di Buttrio, dove attualmente si registrano vendite giornaliere per 4 milioni» 27 e
venivano sintetizzate le principali caratteristiche della struttura, con allegata la
planimetria:
Il Comitato di Coordinamento per la Cooperazione, oggi è in grado di presentare
concretamente una soluzione attraverso l’utilizzazione, come punto vendita
discount, di un capannone di 700 metri quadrati con altri 2600 mq di parcheggio,
sito lungo la Statale 14 per Trieste, nell’immediata perifieria di Monfalcone, nei
pressi della Zona industriale del Lisert28.
materiali edili: quello era il precedente utilizzo, considerato che, in quegli anni, la
destinazione di tutta l’area – stando al Piano regolatore comunale – era industriale. Qui
sotto si inseriscono delle immagini che mostrano come si presentava la struttura, di
proprietà della Stignano, che fu affittata alla CCLM e che immediatamente avviò i lavori
per consentire l’apertura del Discount.
23 Come si nota, l’area si prestava per impostare un hard Discount, che facesse della
concorrenzialità sul prezzo il proprio cavallo di battaglia, dal momento che si trattava
di un capannone che si collocava in una zona industriale e che solo a seguito di un
rifacimento completo avrebbe potuto eventualmente trasformarsi in supermercato.
24 La CCLM, effettuata la scelta di concentrare la vendita in un unico discount, procedette
con la dismissione degli 8 piccoli negozi di paese, rivendendoli ai gerenti e lasciandoli la
possibilità di affiliarsi a Conad30, con i quali fu raggiunto un accordo anche per
trasferire una parte della ventina di dipendenti (Adriano Persi). Una minoranza di
operatori restò invece alla CCLM, che iniziò l’attività con solo 7 addetti; uno di questi fu
Claudio Parolisi, che diventò in seguito capo negozio nel nuovo Discount di Monfalcone.
25 Il Discount Coop di Monfalcone aprì il 23 marzo 197731, mentre fu inaugurato il 4 giugno
197732. Si riporta integralmente il volantino diffuso in quest’ultima giornata, anche per
evidenziare l’impostazione che veniva data al punto vendita:
Monfalcone – Via Colombo – SS 14 per Trieste
Un negozio radicalmente nuovo in difesa dei consumatori
Il nuovo negozio di tipo “DISCOUNT” nasce dalla collaborazione tra le forze
democratiche della Cooperazione, della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL e le
ACLI, e dalla volontà e dall’impegno dei soci e dei dipendenti della COOPERATIVA
CONSUMO LAVORATORI.
La nuova struttura di vendita è impostata con dei criteri assolutamente nuovi:
infatti tutta una serie di costi di impianto e di servizio sono stati ridotti o eliminati:
scaffalature più semplici, meno spazi frigoriferi, meno casse, migliore utilizzazione
dello spazio.
L’assortimento è limitato ai prodotti essenziali, quelli che servono realmente a
soddisfare oggettive necessità familiari. Si pensi che in un normale supermercato vi
sono oltre 3000 prodotti: a Monfalcone, nel nuovo “DISCOUNT” COOP, le referenze
sono circa 700, ma che rappresentano l’80% dei consumi.
Un’offerta selezionata e vantaggiosa nei settori: pulizia della casa, igiene personale,
scatolame, salumi, formaggi e latticini, ortofrutticoli stagionali, bevande, vini e
liquori.
Gli articoli in vendita sono in gran maggioranza prodotti dalle Cooperative agricole
o realizzati sotto il controllo della COOP ITALIA che garantisce con il proprio
marchio la genuinità dei prodotti33.
26 La sede dell’assemblea dei soci, con il primo intervento riservato a Giorgio Fari come
rappresentante del Comitato Unitario di Coordinamento per la Cooperazione, era –
significativamente – la Sala della Federazione Unitaria Metalmeccanica. Lo slogan del
volantino recitava: «Forme nuove di distribuzione nell’interesse del consumatore nella
lotta al carovita»34.
27 In un comunicato ai soci diffuso 9 mesi dopo l’apertura in occasione della campagna
promozionale per gli acquisti natalizi, si parla di 6.000 soci, che crescevano man mano
si raccoglievano le adesioni dei CdF e in particolare dell’Italcantieri, di gran lunga la
maggiore azienda del territorio, che, rimasta inizialmente esterna alla costituzione del
Discount, poi assicurò la “massa” dei soci. Lo slogan scelto a chiusura del materiale
pubblicitario era:
La Cooperativa Consumo Lavoratori non mira al profitto.
È un servizio sociale al consumatore.
Chi può dire altrettanto35?
28 Già nel marzo 1978 fu organizzato a Udine da Associazione Regionale Cooperative di
Consumo FVG, Lega nazionale cooperative e mutue e Coop Italia, un seminario sulla
nuova formula e struttura distributiva dei discount. Nel convegno un intervento fu
dedicato alla comparazione tra 10 discount cooperativi, tutti aperti fra il 1976 e il
197736. Da questa importante pubblicazione si possono trarre alcune informazioni
significative per la ricerca. Quello di Monfalcone è l’unico discount a essere considerato
“extra cittadino”, mentre la maggioranza erano “cittadini”, due “extra urbani di zona”
(Buttrio e Gemona) e solo il discount di Fidenza risultava “aziendale”. Per estensione
delle superfici coperte, quello di Monfalcone (650 mq) era secondo solo a quello di
Buttrio (1.000 mq). Per i parcheggi, Buttrio aveva 2.400 mq e Monfalcone 2.000 mq,
superati da Gemona con 4.450 mq. Da notare che ben 4 discount non possedevano
parcheggi riservati, non trovandosi dunque in condizioni ottimali. Monfalcone, Buttrio
e Fidenza erano i tre discount riservati solo ai soci, mentre gli altri possedevano la
licenza di vendita al pubblico. A Monfalcone i locali erano ancora in affitto, per un
valore di 8.400.000 lire annue. A Monfalcone c’erano le scaffalature in ferro (solo a
Trieste risultavano in legno), i frigoriferi murali e le celle frigorifere, ma non le isole
frigo. Si utilizzavano i pallets, i transpallets e i muletti (solo a Trieste ciò non avveniva)
e 4 registratori di cassa. Lo scontrino medio a Monfalcone (22.500 lire) era secondo solo
a Buttrio (24.658 lire), mentre gli altri punti vendita variavano dalle 6.000 alle 13.000
lire. Monfalcone non si caratterizzava per un numero particolarmente alto di clienti
per giornata d’apertura (211) rispetto ad altri punti vendita, come Trieste che
raggiungeva anche gli 888 clienti, ma con spese medie molto più basse (6.461 lire). Per
quanto riguarda la parte commerciale del punto vendita, a Monfalcone i prezzi erano
praticati per 7 fasce di ricarico. Qui ogni discount si organizzava autonomamente,
infatti in 4 casi non si adottava il metodo delle fasce di ricarico, mentre in altri casi le
fasce erano minori (5 o 6) e in altri arrivavano fino a 17. Le referenze totali in
assortimento a Monfalcone erano 688 (nella media rispetto agli altri discount), di cui
567 di generi vari (82%), 81 di deperibili e semideperibili (12%) e 40 non alimentari (6%).
Quest’ultima categoria allora era presente solamente in 3 discount. Le vendite nel 1977
ammontavano a Monfalcone a 1.097.984.000 lire, secondo solo al risultato di Pisa di
1.847.299.000 lire, che però era già stato aperto a fine 1976 e dunque non aveva perso i
primi mesi dell’anno, come invece succedeva a Monfalcone. Se riferissimo le vendite
all’intero anno, il gap si ridurrebbe e Monfalcone arriverebbe a 1.300.000.000 lire;
tuttavia sarebbe superata – stando allo stesso ragionamento – da Trieste che
Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio del Consorzio Culturale del
Monfalconese
Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio personale di Mario Dal Canto
33 Le condizioni di lavoro nel primo periodo di attività del Discount di Monfalcone non
dovevano essere ottimali, a causa delle carenze strutturali che solo diversi anni dopo
(con la prima ristrutturazione-ampliamento del 1984) sarebbero state sanate.
L’ambiente di lavoro al Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio
personale di Mario Dal Canto
37 Così, all’interno del mondo della cooperazione, ma anche in quello collegato politico-
sindacale, si scelse il “modello discount”. Ciò significa che fu considerato più
determinante ridurre i prezzi rispetto al contrasto della maggiore flessibilità introdotta
dai discount, almeno nella formula adottata originariamente nei Paesi europei più
avanzati. In effetti, la versione italiana del discount fu rivista rispetto a quanto
avveniva altrove, come ricordava Fulvio Riva nelle conclusioni del seminario. Se da una
parte «Gli effetti più evidenti di questa razionalizzazione generale sono le cadute dei
monopoli di posizione e il ridemensionamento del lucro, che viene ad assumere la più
consona figura di giusta remunerazione della produttività»44, dall’altra «i discounts
italiani hanno in maggioranza l’apparenza di superettes che sono state riprese in
chiave di riduzione di assortimento, in chiave di risparmio di scaffalature, nonché di
riduzione degli oneri del personale»45.
NOTE
1. Nel 1924 Sandro Pertini, nell’introduzione della propria tesi di laurea dedicata alla
cooperazione, sosteneva: «Se rendiamo il faticoso cammino percorso da l’umanità, possiamo –
volendo – trovare i germi delle odierne società cooperative in antichissime istituzioni greche
romane ed anche ebraiche – ed in altre meno remote apparse nell’età di mezzo: ma noi riteniamo
oziosa una tale indagine storica, perché se si possono trovare delle analogie tra le cooperative
odierne ed alcune antiche istituzioni, è tuttavia evidente la differenza del principio economico,
sul quale esse riposano». PERTINI, Sandro, La cooperazione, Savona, Associazione per lo studio del
mutualismo e dell’economia solidale, 2013, p. 3. Per quanto attiene l’età contemporanea, la
storiografia ha convenzionalmente individuato delle cesure dalle quali si sviluppano le attuali
cooperative. A livello internazionale l’origine storica è stata individuata nella definizione degli
obiettivi dell’associazione degli Equitables pioneers of Rochdale del 24 ottobre 1844, mentre a livello
nazionale il 4 ottobre 1854 apriva il primo Magazzino di previdenza (un distributorio sociale)
della Società generale degli operai di Torino. Cfr. BOJARDI, Franco (a cura di), Dalla cooperazione di
Consumo alla Cooperazione dei Consumatori nell’Italia del Nord-Est, Reggio Emilia, Coop Consumatori
Nordest, 1994, pp. 5-6; ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, La cooperazione di
consumo in Italia. Centocinquant’anni della Coop consumatori: dal primo spaccio a leader della moderna
distribuzione, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 5-11.
2. Al mandamento Monfalconese – che conta circa 70.000 abitanti – appartengono i Comuni di
Monfalcone, Ronchi dei Legionari, Staranzano, San Canzian d’Isonzo, Turriaco, San Pier d’Isonzo,
Fogliano Redipuglia, Sagrado e Doberdò del Lago.
3. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., pp. 42, 46.
4. Archivio Storico Sindacale “Sergio Parenzan” della CGIL di Gorizia (d’ora in avanti, A. CGIL),
Lettura Record: n. file 312/1/1, Statuto sociale della Cooperativa Consumo dei Lavoratori del
Monfalconese C.C.L.M. Società cooperativa a responsabilità limitata Monfalcone, Monfalcone,
Stabilimento Tipografico Moderno, 1945. In occasione di questa prima citazione della
documentazione proveniente dall’A. CGIL, si specifica il significato delle cifre della Lettura
Record, che seguirà la medesima impostazione nelle successive note: n. file 312/1/2= faldone n.
312; cartella/fascicolo n. 1; documento n. 2. Nell’Archivio sono contenuti importanti documenti
sulla cooperazione di consumo nel Monfalconese in particolare nei seguenti Record: faldone n.
312; cartella/fascicolo nn. 1-2 (quasi tutti i documenti contenuti in entrambe le cartelle/
fascicoli).
5. Il titolo IV (artt. 19-34) definiva gli organi sociali e le rispettive competenze.
6. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/3, Cooperativa Consumo tra Lavoratori sede sociale in
Monfalconese. Statuto sociale, Monfalcone, Stabilimento Tipografico Moderno, 1963 (annotato a
penna).
7. Cfr. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/6, Le funzioni della Cooperazione in difesa dei lavoratori:
invito a spesarci nei nostri spacci!, Monfalcone, settembre-ottobre 1963. Gli spacci di Fiumicello e
Papariano escono dal mandamento Monfalconese, ma insistono su un’area limitrofa. Fra il 1964 e
il 1967, nella documentazione si ritrova anche lo spaccio di Cormons, il cui territorio rientra
nell’area Goriziana. Cfr. A. CGIL, Lettura Record: nn. 312/1/7 e 312/1/12.
8. Intervista di Enrico Bullian a Renzo Testi, Reggio Emilia, 18 marzo 2014. Dopo la prima nota, il
nome degli intervistati compare fra parentesi direttamente nel testo alla fine delle successive
citazioni.
9. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 56. Si segnala che non fu la cooperazione di consumo a
introdurre la moderna grande distribuzione in Italia, infatti il primo supermercato di
Supermarkets Italiani aprì a Milano nel 1957. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI,
Antonio, op. cit., pp. 344, 350.
10. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 56.
11. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., p. 350.
12. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/13, Consiglio di Amministrazione della CCL sede
Monfalcone (a cura di), Bollettino di informazione, Monfalcone, Stabilimento Tipografico Moderno,
aprile 1968.
13. Ibidem.
14. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/14, CCL – Soc. Coop. a r.l. Monfalcone, Relazione del
Consiglio di Amministrazione sull’Esercizio Sociale chiuso il 31 dicembre 1968, Monfalcone, 27 aprile
1969.
15. Ibidem.
16. Il supermercato è una struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 400 mq ai
2.500 mq, mentre nell’ipermercato supera i 2.500 mq, arrivando anche a 12.000 mq. A
differenziarli dal discount non è solamente l’estensione delle superfici, ma anche la filosofia di
organizzazione degli acquisti, del lavoro e delle vendite, come si vedrà in seguito.
17. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., p. 354.
18. Intervento di CHECCUCCI, Fulvio, presidente dell’ANCC, Assemblea dei soci per l’anno 1975, in
Coop Italia, 3-4 giugno 1976.
19. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., pp. 354-355. Va ricordato che
dopo l’abbandono da parte delle Coop della formula dei discount a metà anni Ottanta, all’inizio
del decennio successivo, sull’onda di una nuova crisi economica (1992-1993), si diffusero in Italia i
discount di seconda generazione, portati da società soprattutto tedesche. Così, a metà anni
Novanta, una parte della cooperazione investì nuovamente nella realizzazione di questi punti
vendita e gli sforzi di varie Coop confluirono nel 1999 nella Di.Co spa, che nel 2002 contava 188
discount cooperativi. Tuttavia, recentemente, Coop è uscita dalla gestione dei Di.Co. Ibidem, pp.
362-363.
20. BARAVELLI, Andrea, Il giusto prezzo. Storia della cooperazione di consumo in area adriatica
(1861-1974), Bologna, Il Mulino, 2008, p. 341.
21. Ibidem, pp. 30-31.
22. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 46.
23. Non era la prima volta che le Leghe delle cooperative affrontavano pubblicamente tali
dibattiti e anche parte del movimento sindacale (CGIL) già negli anni Sessanta si era mobilitata a
riguardo. Tuttavia con gli anni Settanta si modifica la portata di tali iniziative che divennero di
massa, organizzate unitariamente da CGIL, CISL e UIL. Per cogliere la differenza fra le
mobilitazioni degli anni Sessanta e Settanta, cfr. A. CGIL, Lettura Record: nn. file 312-1-5; 312-3-1;
312-4-7; 312-4-10; 313-1-15; 98-1-15 e 106-3-6; manifesti nn. 235-236.
24. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/15, Intervento del Presidente della Cooperativa Consumo
Lavoratori di Monfalcone comp. Silvestro Tonizzo al V Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale delle
Cooperative di Consumo – tenutosi a Roma il 26-27-28 giugno 1974.
25. Ibidem.
26. Interviste di Enrico Bullian a: Livio Aleotti, Reggio Emilia, 18 marzo 2014; Lucio Pieri, Ronchi
dei Legionari, 31 marzo 2014; Mile Marchese, Ronchi dei Legionari, 31 marzo 2014; Mario Dal
Canto, Fogliano-Redipuglia, 11 aprile 2014; Adriano Persi, Ronchi dei Legionari, 14 luglio 2014.
27. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/18, Comitato di Coordinamento per la Cooperazione-
Provincia di Gorizia, in Speciale cooperazione, Monfalcone, stampato in proprio, novembre 1976.
28. Ibidem.
29. Ibidem.
30. Conad, acronimo di Consorzio Nazionale Dettaglianti, è una società cooperativa con sede
centrale a Bologna attiva nella grande distribuzione organizzata.
31. Atti del seminario Discount: nuova formula e struttura distributiva. Udine 1-2-3 marzo 1978, Bologna,
Associazione Regionale Cooperative di Consumo Friuli Venezia Giulia, Lega nazionale cooperative
e mutue, Coop Italia, 1978 (presunta), p. 47; A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/20, Coop Discount
Cooperativa Consumo Lavoratori Monfalcone, «Obiettivi raggiunti dal programma Coop 79: 1) 23
marzo 1977-23 marzo 1980 / tre anni al servizio dei consumatori associati».
32. Archivio personale di Ezio de Luisa, San Canzian d’Isonzo, Cooperativa Consumo Lavoratori
sede sociale Monfalconese, Volantino inaugurazione Discount Coop di Monfalcone e assemblea
generale dei soci, 4 giugno 1977.
33. Ibidem.
34. Ibidem.
35. Archivio personale di Ezio de Luisa, San Canzian d’Isonzo, Cooperativa Consumo Lavoratori
sede sociale Monfalconese, Comunicato ai soci, 19 dicembre 1977.
36. VALERIANI, Valerio, PERTOLDI, Alberto (a cura di), Elementi di comparazione tra alcuni discounts
cooperativi, in Atti del seminario Discount, cit., pp. 42-54. Tutti i dati che seguono sono tratti dalle
schede da p. 47 a p. 54. I discount cooperativi interessati dalla ricerca erano: Unicoop Firenze
discount di Siena; Unicoop Pontedera discount di Pisa; A.C.M. Modena discount di Carpi; A.C.M.
Modena discount di Modena; Coop Nord Emilia discount di Fidenza; Coop Operaie di Trieste
discount di Trieste; Cooperativa di Monfalcone; Cooperativa di Buttrio; Cooperativa Carnica
discount di Tolmezzo; Cooperativa Carnica discount di Gemona. La pubblicazione è interessante
anche perché ripercorre l’evoluzione dei discount in Europa e approfondisce la situazione della
Germania Federale e in particolare l’ALDI dei fratelli Albrecht. Sulla base del raffronto fra la
situazione tedesca e quella italiana si ipotizzavano scenari futuri, riadattando le più avanzate
esperienze europee al contesto socio-economico italiano.
37. BARAVELLI, Andrea, op. cit., p. 26.
38. Relazione di RICCIONI, Giorgio, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit., p. 3.
39. Ibidem, p. 7.
40. Ibidem, p. 6.
41. Ibidem, p. 8.
42. Relazione di CATTARUZZI, Piero, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit., p. 11.
43. Ibidem, p. 14.
44. Conclusioni di RIVA, Fulvio, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit.,p. 56.
45. Ibidem, p. 57.
RIASSUNTI
Lo studio sull’evoluzione della cooperazione di consumo nel Monfalconese dal secondo
dopoguerra restituisce un quadro mai ricostruito dalla storiografia, perlomeno su una
dimensione locale. Si analizzano da una parte la crescita delle strutture aziendali dall’originaria
Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese (1945), alla Coop Consumatori Friuli (1985) e
infine alla Coop Consumatori Nordest (1995); dall’altra i passaggi dai “negozi di paese” al
Discount di Monfalcone degli anni Settanta fino alla successiva sostituzione con un rinnovato
Supercoop. In particolare la costituzione di uno dei primi Discount a livello nazionale
rappresentò per il territorio e per la cooperazione di consumo un’esperienza sperimentale
fondante, resa possibile dai collegamenti con gli enti locali e le organizzazioni politiche e
sindacali di allora.
The study on the evolution of the consumer co-operation in the area around Monfalcone in the
post-WWII period draws a picture never retraced before by historiography, at least locally.
Subject of the analysis is, on the one hand, the growth of business organizations – from the early
Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese (1945), through the Coop Consumatori Friuli
(1985) and up to the Coop Consumatori Nordest (1945); on the other hand, the transition from the
small town shops to the first Discount Store in Monfalcone in the 70s up to the following
substitution with the updated Supercoop. Specifically, the foundation of one of the first
nationwide Discount Stores was – for the Monfalcone area and the consumer co-operation – a
pilot experience achieved through the relationship with the local authorities, the political
organizations and the trade unions of that time.
INDICE
Parole chiave : beni di consumo, cooperativa, discount, Monfalcone, punti vendita
Keywords : consumer goods, cooperative, discount, Monfalcone, points of sale
AUTORE
ENRICO BULLIAN
Classe 1983, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Scienze Umanistiche a indirizzo
storico presso l’Università degli Studi di Trieste. Ha pubblicato monografie e saggi storici in
particolare sull’emergenza amianto e sulle condizioni di lavoro nella cantieristica navale.
Attualmente è borsista presso il Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di
Trieste.
III. Recensioni
NOTIZIA
Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari,
Laterza, 2013, 296 pp.
con il Psdi di Giuseppe Saragat. Alle prime aperture del leader di Via Del Corso nei
confronti della riunificazione con i socialisti democratici ribatté sull’«Avanti!» Tullio
Vecchietti, il futuro primo segretario del Psiup:
Noi non abbiamo nulla da condannare o da rivedere della politica del Psi in questi
ultimi dieci anni […] ci rifiutiamo di […] vedere grigio tutto il mondo, laddove
rimane viva e più necessaria di prima la lotta di classe, la lotta […] alle posizioni
capitolarde che così generosamente ci offrono gli amici della ventiquattresima
ora11.
4 Discrepanze di non poco conto, ulteriormente aggravate, nota Agosti, dalla differente
prospettiva che autonomisti e sinistra intendevano assumere nei confronti del Pci dopo
la rivoluzione ungherese del 1956 e la susseguente repressione armata sovietica. Se per
i nenniani si doveva giocoforza andare incontro ad una revisione di fondo, per gli
esponenti della minoranza il rapporto con il Pci non soltanto era irrinunciabile, ma,
con la solidarietà di classe e il ruolo guida dell’Urss, costituiva uno dei punti cardine
della propria impostazione politica.
5 A questa importante premessa, l’autore fa seguire una puntuale descrizione delle
differenze presenti all’interno della stessa minoranza socialista, andando ad
individuare tre componenti: la prima coincideva con i membri di estrazione
morandiana; la seconda viene definita «sentimentale»12 e si caratterizzava per un
impasto ideologico fatto di «massimalismo e orgoglio di partito, con venature di anti-
conformismo pregiudiziale»13; la terza ed ultima coincideva con l’area dell’Alternativa
Democratica di Lelio Basso, che proveniva direttamente dall’esperienza del Movimento
di unità proletaria (Mup). Fin dai passaggi preliminari del volume appare evidente un
elemento: le divergenze già presenti all’interno di quelle che poi sarebbero state le
componenti del Psiup erano senz’altro un punto di forza del partito, ma a lungo andare
lo avrebbero fortemente indebolito, logorandone la solidità.
6 Dopo averne appurato le origini, l’autore, nel corso del secondo capitolo, Il difficile
consolidamento, oltre a fare luce sulla struttura organizzativa e sull’attivismo politico del
partito, tanto a livello nazionale quanto in ambito locale, illustra a fondo le relazioni
internazionali che il Psiup instaurò fin dalla sua nascita. Questa è una pagina
sorprendentemente ricca di spunti: grazie all’intraprendenza del responsabile degli
esteri Pino Tagliazucchi, «una singolare figura di intellettuale e sindacalista, membro
dell’ufficio internazionale della Cgil»14, il partito di via della Vite riuscì a costituire una
fitta serie di relazioni con alcune rilevanti componenti del socialismo europeo, dal Psu
francese alla sinistra del Labour Party inglese, fino alla Sds nella Repubblica federale
tedesca. Vi è da notare che queste forze politiche erano quanto di più lontano vi fosse
da una concezione rigidamente filo-sovietica, a dimostrazione di come il Psiup non si
basasse esclusivamente sulla fedeltà a Mosca, ma fosse anche intenzionato a costituire
dei collegamenti autonomi con le sinistre dei partiti socialisti dell’Europa occidentale.
Ma ciò risulta ancora più sbalorditivo – ed ecco un altro tema fondamentale toccato
dall’autore in questa sezione – se si guarda ai cospicui finanziamenti che l’Urss assegnò
con regolarità alla sinistra socialista fin dal 1957 e che, nel corso degli otto anni di vita
del Psiup, corrisposero a 2 miliardi e mezzo di lire dell’epoca. Il sostegno economico
sovietico, che serviva anche per «esercitare una certa pressione […] sul Pci, il quale
proprio in quegli anni accenna a muoversi secondo direttrici più autonome da Mosca»
15
, fu sempre una sorta di rubinetto ad intermittenza, pronto a chiudersi in caso di
posizioni non affini alle finalità del Cremlino: anche su questi il partito di via della Vite
si mostrava sostanzialmente provvisorio.
9 Sorta su questioni internazionali, la tematica centrale del quinto capitolo, «La storia ha
la febbre», la cristallizzazione delle differenti anime del Psiup venne confermata anche
dal II congresso del dicembre 1968. Nonostante l’ondata di critiche cui andò incontro
qualche mese prima, la maggioranza filo-russa riuscì ad allargare il suo potere nel
partito, come risultò evidente dalle figure che vennero inserite nel nuovo ufficio
politico: fatta eccezione per Foa, l’inclusione di Vecchietti, Valori, Gatto e Ceravolo
rappresentava l’emblema del trionfo del vecchio gruppo dirigente. Tuttavia, proprio in
un momento in cui sembravano fossilizzarsi le divisioni, in un partito che parlava
«quasi […] due linguaggi diversi»22, la maggioranza, sotto l’impulso di Valori, decise di
assorbire molte iniziative della sinistra con l’intenzione di ricompattare l’intera
organizzazione. Andò però incontro ad un buco nell’acqua: benché vi fosse un generale
assenso sulle tematiche proprie del movimento di sinistra, come, ad esempio,
l’autogestione dei lavoratori, il controllo operaio e l’ampliamento della democrazia in
fabbrica, il mutamento di rotta non fu sufficiente a far crescere le iscrizioni al partito
che invece, proprio nel 1969, sfociarono in una prima e significativa diminuzione.
Ancora più rilevante fu il fatto che, come correttamente sottolineato da Agosti, la parte
più attiva dei militanti psiuppini, a fronte di un partito egemonizzato da posizioni filo-
sovietiche, cominciò a confluire in quei movimenti anche estremisti che davano linfa
alle contestazioni operaie e studentesche, privando in tal modo il Psiup di alcuni
potenziali contribuiti politici di livello.
10 A questi fattori d’instabilità endogeni, se ne aggiunsero altri due di natura esogena che
aggravarono la già complessa situazione in seno al partito: la crisi dell’unificazione
socialdemocratica e la conseguente rinascita del Psi e la capacità di riassorbire le
istanze contestatarie da parte del Pci. Come emerge dal sesto ed ultimo capitolo, Il
declino, lo scioglimento e l’eredità, le rotte intraprese dai due partiti principali della
sinistra furono prese sempre più in considerazione dagli iscritti del Psiup che vedevano
il loro partito in progressivo disfacimento. La rottura effettiva, iniziata con il III
congresso nazionale del marzo 1971 a causa della decisione della maggioranza di
presentare anticipatamente «un documento scialbo»23, confermata da alcune dimissioni
eccellenti dal partito, tra le quali spiccava quella di Lelio Basso, venne ufficializzata
dopo i pessimi risultati delle elezioni amministrative del 1971 e, soprattutto, delle
politiche del 1972, dove il Psiup, con appena l’1,9%, non ottenne alcun seggio alla
Camera. Il IV congresso nazionale del giugno 1972 non poté che confermare la
dissoluzione ormai in atto, mettendo in mostra tre differenti opzioni per i militanti
psiuppini: confluire nel Pci, come ipotizzato fin dal maggio dalla maggioranza di via
della Vite; rientrare nel Psi, come sostenuto da un piccolo nucleo tra cui spiccava la
figura dell’ex direttore di «Mondo Nuovo» Avolio; proseguire la battaglia nel Psiup, idea
che trovava concordi Foa e alcuni esponenti della sinistra radicale. Al di là delle
rispettive scelte, Agosti, nelle pagine finali del suo libro, fa notare come tutte e tre
andarono incontro ad un destino comunque beffardo: se per coloro che decisero di
aderire alle due forze principali della sinistra italiana si trattò di un ingresso «dalla
porta di servizio»24, per i militanti che rimasero nel Psiup la sorte non fu migliore
perché si dispersero nelle battaglie di retrovia del movimento operaio senza alcuna
possibilità di incidere sulla realtà.
11 Sono diversi, in conclusione, i pregi del libro di Agosti: oltre ad aver riscoperto
un’importante cultura politica come quella del socialismo di sinistra e ad aver portato
alla ribalta personaggi come Tagliazucchi e Vecchietti, solo per citarne due, che
NOTE
1. AGOSTI, Aldo, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l'azione politica, Bari, Laterza, 1971.
2. ID., Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Roma, Editori Riuniti, 1999.
3. ID., Storia del Partito comunista italiano 1921-1991, Roma-Bari, Laterza, 1999.
4. ID., Togliatti: un uomo di frontiera, Torino, UTET, 2003.
5. ID. (a cura di), Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 2000.
6. ARFÉ, Gaetano, «Psiup: un partito provvisorio», in Mondo Operaio, n. 12, dicembre 1968.
7. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari,
Laterza, 2013, p. V.
8. Cfr. CELADIN, Anna, Mondo Nuovo e le origini del Psiup: la vicenda socialista dal 1963 al 1967
attraverso cinque anni di editoriali, Roma, Ediesse, 2006.
9. CONDÒ, Mauro, Per una storia del Psiup (1964-1972). Un tentativo di organizzazione della sinistra
socialista, tesi di dottorato in Storia dell’Italia contemporanea, Università di Roma Tre, a. a.
2000-2001.
10. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, cit., p. VIII.
11. Cit. in Ibidem, pp. 18-19.
12. Ibidem, p. 29.
13. Ibidem.
14. Ibidem, p. 72.
15. Ibidem, p. 71.
16. Ibidem, p. 129.
17. Ibidem, p. 151.
18. Ibidem, p. 169.
19. Ibidem, p. 171.
20. Ibidem, p. 173.
21. Ibidem, p. 180.
22. Ibidem, p. 213.
23. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, cit., p. 244.
24. Ibidem, p. 270.
AUTORI
JACOPO PERAZZOLI
Laureato in storia presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul rinnovamento della
Socialdemocrazia tedesca nel corso degli anni cinquanta. Dal novembre 2011 è dottorando di
ricerca in scienze storiche presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale e dal febbraio
2013 al luglio 2013 è stato visiting student presso la Kingston University di Londra. Il suo progetto
di ricerca è dedicato allo studio comparato dell’evoluzione del partito laburista inglese, della SPD
e del PSI a cavallo tra gli anni cinquanta. Ha curato il volume Antonio Greppi. Novant’anni di
socialismo. Scritti scelti (Milano, Edizioni l’Ornitorinco, 2012) e contribuito alla stesura del saggio La
sinistra arancione. Da Milano all’Italia? (Milano, Edizioni l’Ornitorinco, 2012).
REFERENCES
Amedeo Osti Guerrazzi, The Italian Army in Slovenia, Strategies of antipartisan Repression,
1941-1943, New York, Palgrave Macmillan, 2013, 196 pp.
blatantly false. Guerrazzi goes to great lengths to show that ordinary soldiers were
bombarded with propaganda which de-humanised the enemy as racially inferior,
easing the process of killing and mass execution. Moreover, Italian commanders went
to great lengths not only to de-humanise, but to de-legitimise Slovenian partisans as
“irregular combatants”. This allowed their killing not only to become justified, but
legal. These were important steps that were, ultimately, the culmination of a long
process of de-Slavicisation in Fascist Italy. Those soldiers and units from the Venezia
Giulia could be particularly brutal their actions against the Slovenians, at least partially
due to the fact that they had been exposed to the greatest amount of anti-Slavic
propaganda. Yet, Guerazzi also shows the convergence of politics and race during this
period with great skill. Many of the Italian troops were told that they were not only
fighting Slavs, but Communists, to the point where the two terms became practically
synonymous terms in the zone.
4 These are not radical or new ideas within Guerazzi’s study. In this sense, Guerazzi
builds upon groundwork laid by other scholars, yet he augments this with his own
noteworthy archival digging. Not content with resting upon the laurels of those who
carried out work in the very same archives, Guerazzi has spent time examining not
only the propaganda which the soldiers were fed, but the historical diaries which allow
the author to analyse how it was digested. While no section makes this its distinct or
sole focus, Guerazzi does examine these reactions in detail. Indeed, this forms a central
part of his argument that violence against Slovenes was not “hot”, but cold and
calculated, even from the ordinary soldiers who carried it out. The propaganda which
produced this effect was almost certainly driven from the high echelons of the Italian
army. Both Roatta and Robotti pushed for harsh actions against the partisans, with the
now infamous “Circular 3C” forming the apex of a policy which drove for increasingly
bloody actions.
5 This increase in violence leads naturally to the final theme in Guerazzi’s study – that
partisan war moved the war away from set pieces between armies and brought the war
to Slovenia as a whole. Ljubljana is a prime example. The work skilfully shows how the
city was increasingly developed as a large-scale prison or concentration camp, while
uncertainty about exactly who the enemy was made Italian and Slovenian co-operation
increasingly unlikely to the point of impossible. Again, this point is not a new thesis
developed by Guerazzi, but it serves to cover this important aspect of partisan warfare.
The study successfully shows how partisan warfare in Slovenia – and this is true of the
rest of Yugoslavia and Greece, to say nothing of German occupied territories in the
Soviet Union – blurred lines between combatant and non-combatant so greatly that
everyone was treated as a potential combatant. The result was that the increasingly
brutal treatment of combatants mentioned above was meted out to growing portions of
the population. This would be one of the most salient features of warfare in the Balkans
during the Second World War and one of the primary reasons why attempts to occupy
and annex territories in the former Yugoslav states came to such bitter conclusions. As
“Balkanisation” swelled and more and more communities were pitted against one
another, the situation was exacerbated. Guerazzi makes this point with flair,
emphasising its role in the conflict. As the work points out, anti-partisan warfare
served only to radicalise portions of the Slovene community, whose participation in
resistance in turn radicalised an already extreme set of repressive tactics.
6 Perhaps the only real failing of the book is a lack of comparisons with other territories
in any real sense. Prior to its annexation as part of the Kingdom of Italy, Slovenia had
formed part of the former Yugoslavia. Comparisons with Italian anti-partisan actions in
Dalmatia and Montenegro, for example, could have provided a rounder analysis of the
zone. Slovenia’s status as an annexed territory, to be integrated fully as part of Italy
ultimately meant that actions differed slightly in this zone to others, yet Guerazzi does
not exploit this to its full advantage. The reader is kept guessing at points as to how
different Italian actions in Slovenia were, or whether they formed part of a larger
pattern that could be applied to the Balkans in large brush strokes. This is where
studies such as Rodogno’s make their most powerful points. By presenting different
zones of Italian occupation side by side, the reader can examine thematic issues in the
broadest sense. This, however, should not be intended as too great criticism for the
book to be of any merit. Guerazzi’s work was never intended to be an overarching study
of Italian occupation zones as a phenomenon, yet the most successful monographs
focusing on one Italian occupation in particular succeed not only by analysing the
chosen territory in detail, but by making these comparisons, either implicitly or
explicitly.
7 Despite this, Guerazzi has obviously produced a work of real quality. It should be of
interest not only to those interested in Balkan or Italian history, but those interested in
guerrilla warfare and responses to this style of fighting. The author not only weaves an
easy to follow narrative, but highlights the key themes in an area where academics are
only beginning to shine light.
NOTES
1. CUZZI, Marco, L’occupazione italiana della Slovenia, 1941-1943, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito,
Ufficio Storico, 1998; RODOGNO, Davide, Fascism’s European Empire, Italian Occupation during the
Second World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; GOBETTI, Eric, Alleati del nemico,
L’occupazione italiana in Jugoslavia, Rome-Bari, Laterza, 2013; ROCHAT, Giorgio, Le guerre italiane,
1935-43: dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005; DEL BOCA, Angelo (a cura di), I gas
di Mussolini: il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007.
2. BARTOV, Omer, The Eastern Front, 1941-45: German Troops and the Barbarisation of Warfare, Oxford,
Palgrave, 2001; BROWNING, Christopher R., Ordinary Men, Reserve Police Battalion 101 and the Final
Solution in Poland, London, HarperCollins, 1998.
AUTHORS
NIALL MACGALLOWAY
PhD student at the University of St Andrews in Scotland. His thesis is entitled, The Italian
Occupation of South-Eastern France, 1940-43, and his interests focus on the Second World War,
Italo-French relations, and inter-war Italy and France.
NOTIZIA
Diego Dilettoso, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio,
Milano, Biblion, 2013, 317 pp.
esilio fu ad ogni modo favorita anche dalle condizioni economiche agiate della famiglia
Rosselli, come suggerito anche dall’autore6. La relativa tranquillità economica permise
a Carlo di estendere la sua rete di relazioni sociali ben aldilà del solo contesto
antifascista italiano “geograficamente” circoscritto perlopiù ai quartieri settentrionali
di Parigi. Ciò significò entrare in contatto con un ambiente politico e intellettuale
sicuramente più trasversale di quelli legati direttamente ed esclusivamente ai partiti
operai transalpini, dato che la stessa Giustizia e Libertà non aveva referenti diretti nel
panorama politico francese dell’epoca.
4 L’obiettivo dell’autore di fornire una “biografia geografica” degli anni parigini del
leader di G.L. – di rendere conto cioè del contesto politico e ambientale entro cui il suo
pensiero si è evoluto fino a Bagnoles-de-l’Orne attraverso una guida della “Parigi di
Rosselli” – è supportato dall’uso di foto d’epoca, di lettere, e dalla minuziosa
ricostruzione degli indirizzi di case, sedi di partito e di giornali, brasseries, cinema e
luoghi di ritrovo di esuli e associazioni politiche. L’apparato fotografico e l’uso di
documenti di prima mano – molti dei quali inediti – attraverso una rigorosa ricerca
d’archivio tra Italia e Francia non possono che impreziosire questo libro, che ha il
merito di dare testimonianza quasi “palpabile” del modo in cui le idee circolavano e
permisero agli antifascisti italiani di entrare in contatto con le nuove tendenze che si
stavano sviluppando in seno al socialismo europeo e francese. Fanno parte di quel
periodo, per esempio, la corrispondenza avuta tra Carlo Rosselli e il dirigente néo-
socialista Déat, in seguito pesantemente compromesso con Vichy 7; la collaborazione –
sebbene sporadica – con le riviste dell’ambiente dei “non-conformisti” francesi; la
conferenza tenuta all’École Normale Supérieure sulla guerra civile in Spagna; la
consuetudine con i cafés di Montparnasse sotto lo sguardo vigile delle spie fasciste e
degli stessi cagoulards francesi che assassineranno i due fratelli Rosselli il 9 giugno 1937.
Una nota a parte merita, invece, la frequentazione con lo storico di origine ebraica Élie
Halévy, già conosciuto dal giovane Rosselli a Firenze negli anni Venti. Carlo divenne un
ospite pressoché fisso di casa Halévy, dove ebbe modo di entrare in contatto con
l’ambiente artistico e accademico parigino, e con numerosi intellettuali provenienti,
soprattutto, dall’Ecole Normale Supérieure tra cui spiccano i nomi di Dominique Parodi
e di Raymond Aron.8
5 Un altro tassello della bibliografia su Carlo Rosselli va quindi a comporsi nel contributo
di Dilettoso. Il libro, in effetti, non fornisce nuove interpretazioni riguardanti la teoria
politica dell’autore di Socialismo Liberale o sul processo di formazione del movimento
politico di “Giustizia e Libertà”, specie in relazione ai rapporti con gli altri partiti della
Concentrazione Antifascista, sebbene – come lo stesso autore suggerisce – la sporadica
frequentazione dei luoghi “istituzionali” del fuoriuscitismo italiano suggerisca anche
“fisicamente” una distanza che è anzitutto politica9. D’altronde non è questo lo scopo
principale dell’autore. La consolidata storiografia in materia fornisce il necessario
“background” per l’approfondimento della vicenda biografica e intellettuale di Rosselli
durante l’esilio parigino. Nondimeno, il lavoro di Dilettoso si presenta innovativo nella
forma e molto rigoroso da un punto di vista storiografico. Si pensi alle planimetrie di
Parigi “sulle orme di Rosselli” (i percorsi rosselliani in appendice al suo lavoro) 10;
all’apparato fotografico riguardante tanto la Parigi dell’entre-deux-guerres e
dell’antifascismo italiano in esilio quanto i frammenti di vita familiare dei Rosselli; ai
carteggi privati. Tutti documenti che rendono piacevole la lettura del libro e al tempo
stesso forniscono la base per futuri approfondimenti storiografici.
6 Come è stato notato, il pensiero socialista e liberale di Rosselli è tutt’oggi attuale 11; esso
vive ancora attraverso le pagine di Socialismo Liberale, delle numerose riviste pubblicate
durante la lotta antifascista, e attraverso il grande lavoro storiografico e biografico che
ancora oggi circonda la sua figura. Il libro di Dilettoso cerca di fornirci anche una
concreta ricostruzione geografica e “visiva” della vita di Rosselli e dei suoi ultimi anni,
quelli che – dopo la prima pubblicazione parigina di Socialismo Liberale e la fondazione
di GL – gli hanno assicurato un posto di primissimo piano nel “pantheon”
dell’antifascismo italiano e nella sua eredità politica. Nel farlo, l’autore cerca, per
quanto possibile, di privilegiare la dimensione familiare e “quotidiana” di Carlo;
eppure, ancora una volta il ritratto che ne esce è quello di un uomo che ha –
tragicamente – identificato fino all’ultimo la sua vita con l’impegno politico e con la
battaglia contro il fascismo, subordinando anzi gli aspetti più personali e privati alla
lotta per il socialismo e la democrazia, perché egli la considerava – come scrisse alla
moglie Marion – «un’opera santa, grande, per cui tu pure riconosci tutto va sacrificato,
salute dei figlioletti a parte»12.
NOTE
1. Tra i lavori più importanti o conosciuti sulla vita di Carlo Roselli, come GAROSCI, Aldo, La vita
di Carlo Rosselli, 2 voll., Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1945; le opere di TRANFAGLIA, Nicola,
Carlo Rosselli dall’interventismo a “Giustizia e Libertà”, Bari, Laterza, 1968, ID., Carlo Rosselli e il sogno di
una democrazia sociale moderna, Milano, Dalai Editore, 2010; BAGNOLI, Paolo, Carlo Rosselli: tra
pensiero politico e azione, Firenze, Passigli, 1985; CALABRÒ, Carmelo, Liberalismo, democrazia,
socialismo, Firenze, Firenze University Press, 2009. Sulle dinamiche inerenti all’assassinio dei
fratelli Rosselli, con taglio più divulgativo, ma ampio uso di fonti, si veda FRANZINELLI, Mimmo,
Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico, Milano, Mondadori, 2007.
2. DILETTOSO, Diego, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio, Milano,
Biblion, 2013.
3. Ibidem. p. 66.
4. Ibidem. pp. 68-72.
5. Ibidem. pp. 204.
6. Ibidem. pp. 270-271.
7. Su Marcel Déat, si veda la biografia di COINTET, Jean-Paul, Marcel Déat: du socialisme au national-
socialisme, Paris, Perrin, 1998.
8. DILETTOSO, Diego, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio, pp.
150-155.
9. Ibidem. pp. 271-272.
10. Ibidem. pp. 282-308.
11. Sull’attualità e l’influenza di Rosselli nel pensiero politico contemporaneo, si veda BAGNOLI,
Paolo, Carlo Rosselli: un pensiero che torna in ID., Il socialismo delle libertà, Firenze, Edizioni
Polistampa, 2002, pp. 34-49.
12. DILETTOSO, Diego, op.cit., p. 206.
AUTORI
MICHELE MIONI
Dottorando in cotutela presso l’Imt di Lucca (Political History) e presso l’Université Paris 1
Panthéon-Sorbonne, con una tesi sulle politiche in sociali in Gran Bretagna, Francia e Italia
durante la Seconda guerra mondiale. I suoi principali interessi di ricerca vertono attorno alla
storia del pensiero politico ed economico del XX secolo, alla storia delle politiche sociali e alla
storia comparata dei partiti politici nel secondo dopoguerra.
NOTIZIA
Paolo Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica
(1943-1954), Bologna, Il Mulino, 2013, 246 pp.
internazionali. L’Europa, come sottolinea Paolo Acanfora, infatti, era rimasta fino ad
allora in secondo piano nei progetti degasperiani e della maggioranza democristiana;
ma nei primi anni Cinquanta, il progetto europeista riprese vigore tanto che per lo
stesso De Gasperi l’atlantismo divenne progressivamente «lo sfondo, il contesto di
riferimento su cui sviluppare la strategia europeista»8. Nel terzo, quarto e sesto capitolo
del volume l’autore analizza l’evoluzione dell’identità italiana dalla macro
appartenenza occidentale all’identificazione con la civiltà europea. Tale civiltà, infatti,
come la civiltà occidentale, era una evoluzione di quella latina di cui condivideva
principi e valori: non una terza forza ma un’Europa pienamente inserita nella civiltà
occidentale, che si affiancava agli Stati Uniti. L’immagine dell’Italia nazione europea
non andava quindi a contrapporsi alle identità precedentemente elaborate ma ne
rappresentava una naturale evoluzione; anzi ci si persuase che l’identità europea
potesse, più di altre, penetrare nella coscienza del popolo italiano divenendo identità
veramente condivisa e suscitando quindi consenso e partecipazione. La Democrazia
Cristiana, particolarmente impegnata nel processo di costruzione dell’Europa unita e
convinta che le fondamenta della civiltà europea andassero cercate nel cristianesimo e
nel diritto romano, tese ad autorappresentarsi come l’unica forza politica in grado di
costruire un’Europa coerente con i suoi caratteri fondamentali e tradizionali, dunque
l’unico partito in grado di rappresentarne e difenderne pienamente l’identità.
All’interno della Democrazia Cristiana, tuttavia, non mancavano opinioni che si
differenziavano da quella di Alcide De Gasperi. Nel quinto capitolo del volume Paolo
Acanfora getta, quindi, uno sguardo, rapido ma efficace, sulle minoranze interne al
partito e sulle posizioni internazionali di tali minoranze: da Giovanni Gronchi che a
lungo rimase legato all’identità latina della nazione italiana, prima di approdare a un
terzoforzismo europeo affrancato da qualsiasi patto militare; a Giuseppe Dossetti,
vicino per molti aspetti alle idee identitarie e sovranazionali di De Gasperi, ma distante
per metodo politico e diplomatico e per approccio ideologico.
8 Come l’autore illustra, e come le note vicende della CED (Comunità Europea di Difesa)
dimostrano, la strategia degasperiana si rivelò un fallimento istituzionale, ideologico e
propagandistico. Lo statista trentino, infatti, non riuscì a trovare a livello continentale
partner altrettanto convinti del valore identitario dell’Europa e della necessità di
definire organismi sovranazionali con specifiche funzioni politiche. All’interno della
sua stessa maggioranza, lo statista dovette fronteggiare le posizioni poco convinte di
uomini come Mario Scelba e Giuseppe Pella, ancorati ad un anticomunismo ortodosso e
ad un ormai vetusto nazionalismo. Tuttavia, De Gasperi riuscì a radicare nelle masse,
come lo stesso Acanfora sottolinea, una «nuova identità politica» 9 e quell’immagine
della Democrazia Cristiana quale unico soggetto politico ad aver compreso e incarnante
esso stesso i caratteri originari e fondamentali della nazione italiana e quindi l’unico
partito in grado di tutelarne l’identità.
NOTE
1. CAPPERUCCI, Vera, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2010; ID., Le correnti della Democrazia Cristiana di fronte all’America. Tra
differenziazione culturale e integrazione politica, 1944-1954, in CRAVERI, Piero, QUAGLIARELLO,
Gaetano, L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2004, pp. 249-289.
2. SARESELLA, Daniela, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2011.
3. MATTESINI, Maria Chiara, La Base. Un laboratorio di idee per la Democrazia Cristiana, Roma,
Edizioni Studium, 2012.
4. FORMIGONI, Guido, La Democrazia Cristiana e l'alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino,
1996; ID., «Democrazia Cristiana, politica estera, identità nazionale della Repubblica», in
ROMERO, Federico (a cura di), «L’identità dell’Italia repubblicana. Un dibattito sugli orientamenti
storiografici», in Italia Contemporanea, 220-221/2000, pp. 414-418.
5. BALLINI, Pier Luigi, VARSORI, Antonio (a cura di), L’Italia e l’Europa (1947-1979), Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2004; VARSORI, Antonio, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione
europea dal 1947 a oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.
6. PREDA, Daniela, De Gasperi, la CECA e la scelta europea dell’Italia, in RUGGERI, Raniero, TOSI,
Luciano (a cura di), La comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (1952-2002). Gli esiti del trattato in
Europa e in Italia, Padova, CEDAM, 2004, pp.257-303; ID., Alcide De Gasperi federalista europeo,
Bologna, Il Mulino, 2004.
7. Cfr. CAPPERUCCI Vera, La sinistra democristiana e la difficile integrazione tra Europa e America
(1945-1958), in CRAVERI, Piero, QUAGLIARELLO, Gaetano (a cura di), Atlantismo e Europeismo,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 71-93; GIORGI, Luigi, Giuseppe Dossetti e la politica estera
italiana, 1945-1956: metodo, prospettive, sviluppo, Cernusco sul Naviglio, Scriptorium, 2005; MARTELLI
Evelina, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana 1958-1963, Milano, Guerini e Associati,
2008; SERIO MAURIZIO, Il mito della democrazia sociale. Giovanni Gronchi e la cultura politica dei
cattolici italiani (1902-1955), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009.
8. ACANFORA, Paolo, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica
(1943-1954), il Mulino, Bologna, 2013, p.238.
9. ACANFORA, PAOLO, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica
(1943-1954), cit., p. 245.
AUTORI
ROSARIA LEONARDI
Dottore di Ricerca in Storia dell’Europa Moderna e Contemporanea. Dopo la laurea triennale in
Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di Bari, ha conseguito, presso la
medesima università, la laurea specialistica in Storia e Società, con una tesi in Storia delle
Relazioni internazionali sul conflitto arabo-israeliano e la questione dei rifugiati palestinesi, e il
Dottorato di Ricerca con una tesi sulla politica arabo-mediterranea e atlantica dell’Italia negli
anni Cinquanta, nella quale ha analizzato, in modo particolare, le posizioni della Democrazia
Cristiana. Nel 2012 ha partecipato al VII Seminario nazionale Dottorandi organizzato dalla SISSCO
e alla Summer School organizzata presso la London University dall’ASMI (Association for the
Study of Modern Italy) di cui tuttora è membro. Ad oggi continua le sue ricerche sulla
Democrazia Cristiana e sulla politica estera della DC.
NOTIZIA
Giovanni Pedrini (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale,
Vicenza, Editrice Veneta, 2013, 382 pp.
NOTE
1. Nico Veladiano è consulente per attività di informazione, comunicazione e marketing
culturale, collabora con quotidiani e riviste ed è coordinatore di numerosi progetti tra cui la
collana Hodoeporica. Da più di un ventennio si interessa di temi etico-filosofici relativi ai processi
evolutivi del genere umano. Tra le sue principali pubblicazioni si segnalano: VELADIANO, Nico,
Ilfilodargento, Vicenza, Editrice Veneta, 2002; ID., Solo il silenzio è giusta voce, Vicenza, Editrice
Veneta, 2008; ID., Il settimo sogno di Giovanni, Vicenza, Editrice Veneta, 2011. Utili informazioni
sull’autore e sulla sua attività culturale si possono anche trovare nel sito internet: URL: <http://
www.nicoveladiano.it/Sito_ufficiale_di_Nico_Veladiano/Home_page.html> [consultato il 21
giugno 2014].
2. CIAMBETTI, Roberto, in PEDRINI, Giovanni (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente:
un’eredità culturale, Vicenza, Editrice Veneta, 2013, p. 11.
3. Professore di Lingua e Letteratura Turca e Filologia Uralo Altaica presso l’Università Ca’Foscari
di Venezia, Giampiero Bellingeri si occupa di letteratura contemporanea di Turchia e nella sua
attività scientifica segue in modo peculiare la ricezione della cultura ottomana e persiana a
Venezia e in Europa tra XV e XVIII secolo. Traduttore tra gli altri di Nazim Hikmet, Orhan Pamuk,
Yahya Kemal e dei classici turcofoni, di Persia, azerbaigiani, turkmeni e di transcaucasia, vede tra
le sue più recenti pubblicazioni l’edizione bilingue del catalogo della mostra Venezia e Istanbul in
epoca Ottomana/Osmanlı Döneminde Venedik ve Istanbul, Electa, 2009, e il volume: BELLINGERI,
Giampiero, Nedim: la Canzone d’Istanbul nel primo Settecento. Odi, canti, liriche dal Corno d’Oro, Milano,
Ariele, 2012.
4. BELLINGERI, Giampiero, «Sull’area d’Azerbaigian: qualche stilla dalle fonti venete», in PEDRINI,
Giovanni (a cura di), Studia Orientis, cit., pp. 29-74.
5. A lungo docente di Lingua e Letteratura Armena all’Università Ca’Foscari di Venezia,
attualmente Boghos Levon Zekian insegna Istituzioni Ecclesiastiche Armene al Pontificio Istituto
Orientale di Roma e compie ricerche sull’impatto della civiltà classica nella formazione
dell’ideologia dell’Armenia Cristiana. Tra i suoi ultimi contributi ricordiamo: ZEKIYAN, Boghos
Levon, VACCARO, Luciano, Storia religiosa dell’Armenia. Una cristianità di frontiera tra fedeltà al
passato e sfide del presente, Milano, Centro Ambrosiano Ed., 2010.
6. ZEKIYAN, Boghos Levon, Venezia, il luogo delle ‘rivelazioni’ della Provvidenza per gli Armeni, in
PEDRINI, Giovanni (a cura di), Studia Orientis, cit., pp. 75-102.
AUTORI
LUCA ZUCCOLO
Dottorando (PhD student) in Storia Contemporanea presso il SUM (Istituto Italiano di Scienze
Umane) di Napoli dove sta sviluppando una ricerca sulla stampa francofona ottomana e la sua
rappresentazione dell’Impero d’Oriente. Già dottore magistrale in Storia d’Europa (Bologna,
2008), il suo campo di ricerca si rivolge allo sviluppo della modernità durante l’ultimo secolo
dell’Impero Ottomano, al confronto/scontro tra modernità e tradizione in un contesto
cosmopolita e allo sviluppo dei movimenti sociali che hanno preparato l’avvento della società
turca contemporanea. Luca Zuccolo è il referente di Diacronie per la storia turca e ottomana.