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1917-2017
Quaderni di Storia
Direttore:
Fulvio Cammarano (Università di Bologna)
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© 2014 Mondadori Education S.p.A., Milano
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Coordinamento redazionale Alessandro Mongatti
Redazione BaMa Servizi Editoriali
Impaginazione BaMa Servizi Editoriali
Progetto grafico Cinzia Barchielli
Progetto copertina Alfredo La Posta
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e controllo sulle informazioni contenute nel testo, sull’iconografia e sul rapporto che intercorre
tra testo e immagine. Nonostante il costante perfezionamento delle procedure di controllo,
sappiamo che è quasi impossibile pubblicare un libro del tutto privo di errori o refusi. Per
questa ragione ringraziamo fin d’ora i lettori che li vorranno indicare alla Casa Editrice.
Le Monnier Università
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In copertina: Vignetta del disegnatore gallese Leslie Gilbert Illingworth, pubblicata sul
quotidiano britannico «Daily Mail» il 29 Ottobre 1962 (p. 8). La didascalia fa dire a Kruscev:
«Ok, Mr. President, let’s talk» (Ok, Sig. presidente, parliamo).
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Ringraziamenti
Introduzione
1. Prologo
3. «Il nodo della guerra». I giorni della crisi dei missili di Cuba
5. Italia
La politica
La stampa
L’opinione pubblica
Gli intellettuali
Conclusioni
Conclusioni
Note
Fonti e bibliografia
English abstract
Indice dei nomi
Il mondo era attaccato a un filo.
Nikita S. Kruscev (discorso ai membri del
Presidium. Sera del 28 ottobre 1962)
Dulcis in fundo, gli affetti. Non posso non ringraziare Stefania, che
durante la fase di revisione del testo ha sopportato con affettuosa pazienza
le mie sessioni di lavoro interminabili, senza neppure minacciarmi mai di
attuare, come forse le avrebbe suggerito Kennedy, una «full retaliatory
response»…
Infine, che dire dei miei genitori? Hanno fatto tanto che non si può
neanche cominciare a dirlo. Il minimo che possa fare è dedicare questo
lavoro a loro.
John L. Harper
Professor of American Foreign Policy
Johns Hopkins University, Bologna Center
Introduzione
«Che cosa c’è di nuovo da dire sulla crisi dei missili di Cuba? Nessun
episodio nella storia delle relazioni internazionali è stato sottoposto a esami
tanto microscopici da parte di tanti storici».
Attaccava così, nel 1997, un saggio di John Lewis Gaddis, uno dei più
celebrati storici della guerra fredda 1. Gli rubiamo volentieri l’incipit, perché
se questo è il primo problema che si poneva a lui, evidentemente ben più
esso si pone per un ricercatore italiano che scelga di affrontare oggi un tema
simile.
Gaddis ha ragione: per quanto gli eventi di quei pochi giorni
effettivamente racchiudano, come un prezioso scrigno, tante storie e
microstorie interessanti, tanti importanti aspetti, tanti significati e lezioni da
comprendere, come si possono apportare ancora degli elementi di reale
novità riguardo a eventi sui quali ormai sembra essersi scritto e detto già
tutto e il contrario di tutto?
Il nostro tentativo di risposta sarà semplice: cambiando prospettiva.
Collocazione nella letteratura
Che la Cuban Missile Crisis (come gli americani sono soliti chiamarla, e
come anche noi la abbrevieremo, usando qui il comodo acronimo CMC)
sarebbe diventata una sorta di irresistibile calamita per storici, teorici della
politica, scrittori, registi o semplici appassionati, apparve presto chiaro, fin
dal momento in cui essa si concluse. Lo stesso Kruscev, infatti, appena due
giorni dopo che era terminata, lo predisse, a modo suo, scrivendo a
Kennedy: «A quanto pare, ci saranno certi imbrattacarte [scribblers] che si
ingaggeranno in una competizione di spaccatura-di-capello riguardo al
nostro accordo, staranno a scavare su chi fece le concessioni maggiori a chi.
Per quanto mi riguarda, io direi che entrambi abbiamo fatto una
concessione alla ragione e trovato una soluzione ragionevole che ci ha
permesso di assicurare la pace per tutti, inclusi quelli che cercheranno di
rovistare qualcosa» 2.
Col suo abituale sarcasmo, Kruscev 3 aveva visto giusto. Gli
«imbrattacarte», come lui li battezzò ironicamente, accorsero presto a gran
frotte, soprattutto dall’America, mostrandosi più o meno dotati ed obiettivi,
producendo analisi e conclusioni più o meno solide e durature,
soffermandosi su aspetti diversi ed iscrivendosi in varie scuole di tendenza
storiografica.
Il primo grande affresco della crisi, all’interno del suo fortunato A
thousand days, lo fornì Arthur Schlesinger Jr., storico di chiara fama oltre
che ex consigliere della Casa Bianca, kennediano di stretta osservanza.
Sempre a metà degli anni Sessanta, analoga tendenza seguì il resoconto di
Ted Sorensen (Kennedy), che del Presidente era stato fidato speechwriter e
ancor più fervente ammiratore. Uscì poi Thirteen days, il racconto della
crisi di Cuba basato sui diari di Robert Kennedy. Quest’ultimo, che aveva
cominciato a scriverlo mentre era in corsa per la presidenza, venne ucciso
prima di poterlo finire, cosicché il testo fu poi revisionato e fatto
pubblicare, postumo, sempre dal fido Sorensen. La prosa scorrevole e il
contenuto a tratti emozionante, assieme alle particolari circostanze
dell’uscita, gli valsero una grande fortuna. Ma fin lì era stato tutto un
trionfo kennediano, una rappresentazione così completamente positiva ed
agiografica di quel leader, di quell’amministrazione (soprannominata non a
caso «Camelot», come la leggendaria corte di re Artù) e del suo calibrato
operato durante la crisi di Cuba, che evidentemente ciò non poteva che dar
luogo, presto o tardi, a un qualche salutare riesame critico. Cosa che infatti
avvenne, con la successiva tendenza «revisionista», la quale sorse
alimentata dalle rivelazioni di metà anni Settanta a proposito
dell’Operazione Mangusta e toccò probabilmente il suo apice verso la fine
degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, producendo tra l’altro
riconsiderazioni delle linee politiche dell’amministrazione kennediana,
come quella di Thomas Paterson, e biografie al vetriolo come quelle di
Thomas C. Reeves o di Seymour Hersh 4. La tendenza revisionista, talvolta
costruttiva e circostanziata, spesso scadeva però in un furore iconoclasta
animato più da livore e voglia di stupire e vendere che non da obiettività e
rigore storiografico. L’eroico e pacifico Kennedy della prima ora, che
mixando magicamente forza e moderazione aveva salvato
contemporaneamente sicurezza, onore e pace dell’America e del mondo,
per alcuni anni sembrò essersi tramutato in un mero playboy, ipocrita,
troppo malato per governare ma abbastanza cinico e senza scrupoli da
essere disposto a rischiare una guerra atomica pur di fare la figura del
‘macho’ e rosicchiare voti ai repubblicani. Poi, per fortuna, cominciarono
ad arrivare studi più equilibrati, che cercavano di contemperare elementi
validi sia dell’una che dell’altra tendenza, in una sorta di sintesi hegeliana
di ortodossia e revisionismo che si è soliti chiamare scuola
«postrevisionista» 5.
Come si vede, abbiamo parlato finora solo di opere americane. Ma col
tramonto della guerra fredda cominciarono ad aumentare sia la volontà sia
la possibilità di vedere pure gli altri lati della vicenda. La crisi difatti non si
era giocata solo a Washington, come fino allora poteva essere sembrato, ma
anche – almeno! – a Mosca e a L’Avana. Così, in clima di perestrojka e poi
dopo il crollo della cortina, vennero organizzate conferenze internazionali,
in cui storici e veterani della CMC statunitensi, sovietici e cubani si
rincontravano, scambiandosi non solo ricordi e spiegazioni, ma anche
documenti progressivamente declassificati. Emersero così particolari anche
importanti e del tutto insospettati. Frattanto non solo venivano pubblicate
nuove edizioni delle memorie di Kruscev, ma soprattutto la graduale
apertura degli archivi sovietici (anche ai ricercatori occidentali) rendeva via
via possibile una maggiore comprensione dell’azione di Mosca nella crisi,
come attestato per esempio dalla monografia One hell of a gamble, datata
1997 e frutto della cooperazione tra uno studioso russo (Fursenko) e un
occidentale (Naftali). Qualche volume frattanto cominciava a mettere in
luce anche il punto di vista cubano (October 1962; Cuba and the Missile
Crisis; Sad and luminous days). Da allora ad oggi, ulteriori libri sono
comparsi. Solo nel 2012, in concomitanza col cinquantesimo anniversario
della crisi, negli Stati Uniti ne sono usciti altri sette, più una innovativa
raccolta di documentazione sull’evento 6.
Così la storiografia sulla crisi dei missili è giunta ormai a dimensioni
praticamente ingestibili. In questo vero mare magnum di studi, documenti e
tendenze, molte nozioni che di quei fatti si avevano si sono col tempo
dimostrate false o quantomeno gravemente incomplete. Viceversa molti
aspetti che non si conoscevano sono poi stati scoperti, e altri ancora
periodicamente vengono e verranno fuori. Né l’interesse per quegli anni,
per quei personaggi e per quel particolare evento accenna a diminuire. Ciò è
del tutto comprensibile, del resto, se si considera non solo l’innato fascino
ma anche l’importanza cruciale che la CMC rivestì. Difatti, come ha
confermato proprio Gaddis,
Più in generale, con il presente lavoro si è inteso tentare uno studio della
percezione immediata di un evento dato. Per questa ragione, relativamente
all’opinione pubblica ci si è concentrati sulle percezioni fatte registrare
all’epoca degli eventi, non sui ricordi che la gente comune ne espresse poi a
distanza di anni 19.
Ci sembra inoltre che questa prospettiva della percezione possa essere
interessante e forse ancora da sfruttare appieno, applicandola magari ad altri
eventi storici di caratteristiche similari: pochi, cruciali eventi, ben
selezionati in base alla loro importanza del tutto particolare (così da
mantenere reale significatività all’analisi) e in base al loro sorgere e
compiersi entro intervalli di tempo relativamente brevi (come è appunto il
caso della CMC e di pochi altri eventi del Novecento). Un siffatto studio
delle percezioni, naturalmente poggiando su precedenti studi riguardanti
l’evento in sé, finirà così sia per completare quel che già sapevamo di quei
fatti, sia per svelarci caratteristiche delle società che a quell’evento, in quel
momento, stavano assistendo o partecipando. Sarà insomma un po’ come
trovarsi in un teatro e, dopo aver osservato abbastanza a lungo cosa succede
sul palcoscenico, girarsi per rivolgere lo sguardo al volto degli spettatori
seduti in platea, che fino allora erano rimasti avvolti dal buio. O sarà un po’
come ricostruire l’andamento di una partita (di calcio, poniamo) non
solamente riguardando le registrazioni di quello che stava accadendo sul
campo di gioco, ma anche volgendo lo sguardo agli spettatori presenti sugli
spalti, fin lì considerati quasi privi di interesse. Interpretando le loro
reazioni ed emozioni del momento, finiremo per capire qualcosa sia
dell’andamento della partita sia della natura collettiva di quel pubblico (o
meglio, di quei pubblici: obiettivi o faziosi? pacifici o violenti? composti di
tifosi schierati o di appassionati neutrali? posti in condizione di vedere bene
o solo in modo lontano e distorto il campo di gioco? ecc.). Finiremo così
probabilmente con lo scoprire intanto che certe reazioni degli spettatori
ebbero talvolta una influenza non trascurabile e insospettata su quanto stava
avvenendo sul palcoscenico o sul campo (come del resto il teatro e lo stadio
ci confermano pienamente, dagli applausi ai mormorii, dai cori di supporto
ai fischi); e poi per scoprire qualcosa sui gusti, le aspettative e le
caratteristiche di quella tipologia di persone che in quel momento
ricoprivano il ruolo di audience. Fuor di metafora, lo stesso potrà osservarsi
nelle società umane 20.
– reazioni politico-diplomatiche;
– reazioni della stampa;
– reazioni dell’opinione pubblica;
– reazioni tra gli intellettuali.
una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a
lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili
per un’infinità di generazioni: esse ingombrano la storia, ne
impacciano, e quindi ne determinano, il corso. Altre si sgretolano
più facilmente; ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli
ostacoli. […] Si pensi alle difficoltà di spezzare certi quadri
geografici, certe realtà biologiche, certi limiti della produttività,
ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali
sono delle prigioni di lunga durata. […] L’uomo è prigioniero per
secoli di climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, […] Si veda
il posto della transumanza nella vita montana, la persistenza di una
certa vita marinara, radicata in questo o quel punto privilegiato del
litorale […] 7.
Quel che abbiamo appena cercato di mettere in luce sul piano militare e
geografico, partendo dallo schema di Braudel, McLuhan lo mette in luce
invece partendo dal piano dell’informazione. Le due prospettive si
confermano a vicenda.
Ciò che è unificazione militare dei destini in caso di guerra
termonucleare diviene in McLuhan unificazione diremmo cognitiva e
sociologica, anche in tempo di pace, attraverso i media. La comunicazione
intercontinentale, l’istantaneo trasmettersi delle notizie da una parte all’altra
del globo (rivoluzione compiutasi, egli ci spiega, attraverso alcune tappe
storiche progressive: prima la stampa, poi – ai suoi tempi – la radio e la
tv 35, e ora potremmo aggiungere Internet, a conferma del valore anche
profetico delle sue analisi), è già un qualcosa di estremamente potente ed
unificatore, che cambia radicalmente la situazione mondiale, nonché la
percezione che avevamo di noi stessi e degli altri, il nostro modo di agire e
di pensare.
Il fatto che le notizie arrivino e siano condivise in un attimo a così grandi
distanze in un certo senso annulla tempo e spazio. Si tratta, continua
McLuhan, di una sorta di estensione dell’essere umano, ed è dunque
finanche più importante del contenuto stesso delle singole notizie trasmesse
attraverso quel mezzo. In questo senso va dunque intesa la sua celebre
affermazione che «il mezzo è il messaggio».
Un’autentica rivoluzione insomma è ormai avvenuta. E McLuhan ne
illustra avvento, portata e conseguenze. Ascoltiamolo: «È sorprendente
vedere come Marx sia riuscito a ignorare i media della comunicazione come
il fattore fondamentale nel processo di mutamento sociale. Perché i mezzi
di produzione [cioè quello che secondo Marx era il vero fattore
determinante], specialmente dopo Gutenberg, non sono che note a pie’ di
pagina o appendici della stampa in sé» 36.
«La mera veste tipografica della pagina di giornale fu più rivoluzionaria
nelle sue conseguenze intellettuali ed emozionali di qualsiasi cosa che possa
essere detta riguardo qualsiasi parte del globo» 37. Di conseguenza (e quanto
suonano attuali queste sue frasi ai tempi di Internet), «l’uomo nell’era
elettronica non ha alcun possibile ambiente se non il globo e nessuna
possibile occupazione se non la raccolta di informazioni».
McLuhan interpreta le tecnologie prodotte dall’uomo come estensioni o
viceversa autoamputazioni del suo stesso essere. Esse estendono la portata
del corpo umano: si pensi al megafono, il quale estende il potere delle
nostre corde vocali, al binocolo che estende la nostra vista, alla radio che
estende la capacità delle nostre orecchie, e così via. Quanto poi al computer,
scrive McLuhan, esso è «con ogni probabilità la più straordinaria veste
tecnologica mai messa a punto dall’uomo, in quanto è estensione del nostro
sistema nervoso centrale» 38. «Nelle ere della meccanica avevamo esteso i
nostri corpi nello spazio. Oggi […] abbiamo esteso il nostro stesso sistema
nervoso centrale in un abbraccio globale [a global embrace] che, per quanto
concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo che lo spazio» 39.
«Global» è vocabolo frequente nella terminologia dello studioso
canadese, il quale, in due saggi usciti proprio tra il 1962 e il 1964 40 – cioè a
pochi mesi dalla crisi di Cuba, con tutte le connesse suggestioni di rischi
atomici che l’autore, vivendo a Toronto, non poteva non subire – sviluppava
il concetto, oggi divenuto espressione comune, di «villaggio globale». Quel
che egli intedeva dirci con questo splendido ossimoro è come, soprattutto
tramite l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e l’avvento dei satelliti, il
mondo sia ormai divenuto piccolo e interconnesso, ed abbia assunto di
conseguenza i tratti tipici di un vecchio villaggio, sebbene di dimensioni
planetarie. «La famiglia umana esiste ormai sotto le condizioni di un
villaggio globale. Viviamo in un unico costretto spazio risonante di tamburi
tribali» 41. È «un mondo di informazione simultanea, vale a dire un mondo
di risonanza, in cui tutti i dati influenzano altri dati» 42. Non a caso, nel 1962
le notizie della crisi di Cuba giungevano fino agli angoli del mondo abitato:
i media stavano annullando le distanze comunicative proprio come le armi
termonucleari stavano annullando quelle militari in termini di impatti di una
guerra. La crisi nucleare in corso rivelava dunque la sua natura pienamente
globale e suscitava attenzione mediatica di raggio analogo, come abbiamo
verificato consultando quotidiani di ogni continente, isole Pacifiche incluse
(si veda la Bibliografia), trovandoli tutti intenti a descrivere la crisi in
corso 43.
EVENTI
1
Prologo
«If they want this job, fuck’em, they can have it! It’s no great joy to
me!» 1 – «Se vogliono il mio posto, beh, andassero a fanculo, possono anche
prenderselo! Non è che mi dia tante soddisfazioni!»
Il Presidente era furioso 2. Aveva appena finito di discutere con i
principali leader del Congresso, al piano di sotto della Casa Bianca, per
metterli al corrente della pericolosissima situazione creatasi, delle rischiose
contromisure che aveva deciso di prendere e che tra pochi minuti anche il
popolo americano e il mondo intero avrebbero appreso da lui. Quelli del
Congresso non l’avevano presa affatto bene: anzi, le critiche più aspre gli
erano arrivate proprio dagli esponenti del suo partito. Ora quindi c’era solo
da sperare che col mondo andasse un po’ meglio.
Non è difficile immaginare quali pensieri dovessero affollargli la testa in
quei momenti, mentre, riprendendosi dall’ira, lasciava l’ala privata della
Casa Bianca e percorreva in fretta i corridoi interni che conducevano al
luogo dal quale, tra pochi minuti, avrebbe dovuto parlare alla nazione. La
prossima mezz’ora sarebbe stata particolarmente importante. Non poteva
più sbagliare, tantomeno riguardo a Cuba. Adesso, parlando in tv, avrebbe
dovuto mostrarsi fermo, determinato, cupo. A Mosca stavolta dovevano
proprio capire che faceva sul serio. Ma d’altra parte non poteva neanche
scatenare il panico, quindi doveva mostrarsi anche tranquillo, sicuro, in
controllo. Non poteva far trapelare più di tanto i suoi stessi dubbi sul fatto
che il corso d’azione prescelto potesse rivelarsi quello sbagliato, con
conseguenze inimmaginabili, forse fatali. Per quanto rischiosa o inefficace
quella mossa potesse sembrare (agli altri o perfino a se stesso) 3, il guaio era
che tutte le alternative erano anche peggio…
Qualcuno del suo seguito aprì davanti a lui la porta dello Studio Ovale.
Entrò. Lo trovò molto diverso rispetto all’ultima volta che era uscito da
lì, appena un’ora prima. Tutto il mobilio della stanza era stato rimosso. Al
posto dei mobili c’erano ingombranti telecamere, nastri adesivi, teli, una
sfilza di cavi elettrici e una pletora di cameramen e fotografi che si
muovevano indaffarati per la stanza, come in uno studio televisivo. John
Fitzgerald Kennedy, il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti
d’America, avanzò e andò a sedersi dietro la sua scrivania. Alle sue spalle,
davanti alle finestre, avevano sistemato uno sfondo scuro, per assicurarsi
che lo spettatore concentrasse l’attenzione su una cosa soltanto: il suo volto.
Che di fronte al teleschermo ci fosse Frank Sinatra o Joe l’idraulico 4, un
businessman o un intellettuale, un wasp 5 del New England o un
afroamericano del Mississippi, un esule cubano o finanche Fidel Castro o
Nikita Kruscev in persona, quella sera avrebbero dovuto ascoltarlo tutti con
estrema attenzione: le novità che aveva, presto, li avrebbero riguardati
molto da vicino.
Dall’altra parte del teleschermo, l’intera nazione era in allerta. Per
quanto si fosse riusciti quasi miracolosamente a tenere il segreto per quasi
una settimana, ormai le indiscrezioni avevano cominciato a trapelare. Una
grave crisi era nell’aria. Probabilmente si trattava di Cuba: evidenti
spostamenti di truppe ed armamenti verso la Florida sembravano
confermarlo. Il «raffreddore» che nei giorni scorsi aveva costretto il
Presidente ad abbandonare il suo viaggio elettorale a Chicago per tornare
improvvisamente a Washington cominciava ora ad acquistare più senso.
Quella mattina Pierre Salinger, addetto stampa della Casa Bianca, aveva
laconicamente annunciato ai reporter di aver chiesto e ottenuto dai
principali network televisivi mezz’ora di spazio per trasmettere un discorso
del Presidente «su questioni della massima urgenza per la nazione» 6. Le
edizioni pomeridiane dei giornali lo avevano subito stampato a quattro
colonne: «Highest National Urgency; JFK Talks to Nation Tonight» 7.
L’audience stimata era di circa cento milioni di americani 8. La
televisione era un mezzo relativamente nuovo, ma già parecchio diffuso.
Troppo giovane per aver potuto raccontare la seconda guerra mondiale, era
però ormai abbastanza adulta da essersi infilata nella grande maggioranza
delle case americane 9. Chi non la possedeva, comunque, quella sera era
andato ad affollarsi davanti al teleschermo di qualche bar, o almeno aveva
acceso la radio.
Giusto un’ora prima, intanto, mentre l’attesa e la tensione salivano
freneticamente in tutto il Paese, a Washington qualcuno aveva avuto il
privilegio di un’esclusiva anteprima. Si trattava dell’ambasciatore sovietico.
Anatoly Dobrynin era stato convocato d’urgenza al Dipartimento di Stato 10,
dove il segretario americano Dean Rusk, in pochi minuti di nervoso e
freddo colloquio, gli aveva consegnato una busta contenente il testo
dell’imminente discorso di Kennedy, più una breve lettera
d’accompagnamento, personalmente indirizzata da Kennedy al primo
segretario dell’Unione Sovietica, Nikita Kruscev. Dobrynin era pregato di
trasmetterla immediatamente a Mosca.
Rusk, lui per primo tremendamente scosso dagli eventi e dal peso delle
responsabilità decisionali degli ultimi giorni, adesso poteva vedere l’effetto
che quelle notizie facevano sul volto del suo interlocutore: «Lo vidi
invecchiare di dieci anni di fronte ai miei occhi», ricordò poi 11. Ed era
comprensibile, visto che, per poter negare più plausibilmente, Dobrynin
stesso era stato tenuto all’oscuro di importanti sviluppi dal suo medesimo
governo, e si trovava dunque completamente ‘al buio’. Lasciando Rusk e
uscendo, visibilmente impallidito, dai cancelli del Dipartimento di Stato,
egli naturalmente aveva trovato ad aspettarlo, prima ancora della limousine
nera dell’ambasciata sovietica, una frotta di cronisti americani assetati di
notizie. «È una crisi??» gli aveva urlato uno di loro nella ressa. «Tu cosa ne
dici?» aveva replicato lui, sventolandogli davanti per un attimo la busta
gialla e scomparendo in tutta fretta dentro l’auto 12.
Appena poche centinaia di metri più in là, al numero 1600 di
Pennsylvania Avenue, il Presidente era ormai pronto. Sulla sua scrivania,
coperta da un panno nero, era rimasto poggiato solo un piccolo leggìo, con
sopra i fogli del discorso che tra poco avrebbe dovuto leggere. Lo aveva
preparato accuratamente con il suo speechwriter e fidato consigliere, Ted
Sorensen, che negli ultimi tre giorni, partendo da una prima bozza, l’aveva
corretto, ribattuto e limato con lui un’infinità di volte, lavorandoci anche di
notte mentre «l’ora P» si avvicinava 13. Sotto la sua scrivania, invece, si
trovava un piccolo microfono nascosto. Il Presidente lo sapeva bene: era
stato proprio lui a chiedere che venisse installato, giusto qualche settimana
prima. Così, quando riteneva che una sua conversazione potesse essere una
di quelle «da ricordare», con noncuranza faceva scivolare la mano dentro
un piccolo vano portapenne incavato nella scrivania e con un colpetto del
dito azionava l’interruttore che vi era nascosto 14. A quel punto, qualche
metro più sotto, i nastri magnetici sistemati nel basement della Casa Bianca
cominciavano a girare, registrando tutto quanto avveniva al piano di sopra.
Quando un nastro finiva, automaticamente un altro entrava in funzione. A
conoscere l’esistenza di questo dispositivo segreto erano soltanto la sua
segretaria personale Evelyn Lincoln (la cui fedeltà a Kennedy era
leggendaria) e i due uomini del servizio segreto che erano stati incaricati di
installarlo e mantenerlo in funzione. Nessuno, dunque, né tra i suoi
interlocutori né tra i suoi più stretti collaboratori, era a conoscenza di poter
essere quotidianamente registrato quando entrava nello Studio Ovale a
parlare con il Presidente (o quando partecipava con lui ad una riunione
governativa nell’adiacente Cabinet Office, dove pure erano stati nascosti
microfoni e dispositivi analoghi). Soltanto Robert, suo fratello, ne era stato
informato a quattr’occhi 15. Ma la cosa di sicuro non aveva modificato il suo
comportamento, dal momento che entrambi i fratelli continuavano
tranquillamente, di quando in quando, a fare affermazioni forti e
potenzialmente dannose per la loro carriera politica, anche a microfoni
aperti 16. Non si sa con precisione perché Kennedy avesse fatto installare
quel sistema, ma si presume 17 che i motivi non potessero essere che due: o
per tirarli fuori all’occorrenza e provare così qualche specifico particolare,
in difesa di se stesso o contro qualche avversario politico; oppure, molto più
probabilmente, per aiutare la sua memoria quando, finiti i due mandati che
aveva in programma di trascorrere alla Casa Bianca, avrebbe cominciato a
stendere le memorie della sua presidenza. Proprio come aveva in mente di
fare, proprio come gli dettava la sua passione per la storia; proprio come
aveva fatto prima di lui il suo modello di statista: Sir Winston Churchill.
Le cose, com’è noto, andarono poi diversamente.
Ad ogni modo, quando nel settembre di quell’anno Kennedy aveva fatto
installare quei registratori (il cui contenuto, per la prassi vigente all’epoca,
sarebbe rimasto di sua esclusiva proprietà privata), egli probabilmente non
immaginava che di lì a breve essi avrebbero dato luogo ad una delle più
preziose fonti storiche mai apparse. L’esistenza di quei nastri – rimasta del
tutto ignota fino agli anni Settanta e le cui difficili operazioni di trascrizione
richiesero poi ulteriori anni – si sarebbe infatti rivelata di un’importanza
unica, dando agli studiosi l’opportunità di seguire da vicino (e dunque
ricostruire e comprendere) la genesi e lo sviluppo di una crisi internazionale
senza precedenti, attraverso l’ascolto dei dibattiti segreti della più potente
leadership coinvolta. In pratica Kennedy, consapevolmente o meno, aveva
regalato agli storici qualcosa che essi non avevano mai avuto, ma avevano
sempre desiderato: un buco della serratura affacciato sulla stanza dei
bottoni 18. Una vera miniera di materiale rivelatore, ampio e preziosissimo.
Magari difficile da decodificare (per via della bassa qualità di registrazione
dell’epoca, per i rumori, le molte voci che si sovrappongono, le persone non
identificate, le frasi lasciate a metà, la mancanza del linguaggio non
verbale, e così via); ma anche, per chi ama la storia, un materiale
straordinariamente emozionante. Con il suo personale buco nella serratura,
insomma, egli non aveva solo garantito alla comunità degli studiosi futuri
un impareggiabile strumento di analisi e la conseguente opportunità di
trarne giudizi e lezioni per le leadership future. Aveva anche, senza
immaginarlo, realizzato il sogno proibito di qualsiasi storico.
Che ogni nazione, che essa ci auguri del bene o del male, sappia che
noi siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo, sostenere qualsiasi
fardello, affrontare qualsiasi prova, appoggiare qualsiasi amico,
opporci a qualsiasi nemico. […] Alle Repubbliche sorelle a sud dei
nostri confini, offriamo una speciale promessa: […] una nuova
alleanza per il progresso 34 […]. E che ogni altra potenza sappia che
questo emisfero intende rimanere padrone di casa propria […].
Infine a quelle nazioni che si volessero fare nostre avversarie,
offriamo […] la ricerca della pace prima che gli oscuri poteri della
distruzione scatenati dalla scienza inghiottano tutta l’umanità in una
voluta o accidentale autodistruzione […]. Possiamo noi non
negoziare mai per paura; ma non aver mai paura di negoziare. […]
Pertanto, miei concittadini, non chiedetevi cosa il vostro Paese può
fare per voi; ma cosa voi potete fare per il vostro Paese.
Una delle prime decisioni importanti che questi si trovò a prendere una
volta entrato alla Casa Bianca riguardava il piano preparato sotto
Eisenhower per sbarazzarsi di Castro. Kennedy ne richiese una versione
ridotta, che comportasse ancora meno visibilità; poi diede il suo «via
libera». Fu un disastro senza precedenti. Lo sbarco degli esuli presso la
locale Baia dei Porci (in spagnolo, Bahia de Cochinos o Playa Giron) venne
respinto facilmente, e ben 1180 dei 1297 soldati che erano sbarcati furono
fatti prigionieri dall’esercito di Castro 35. Kennedy non volle acconsentire ad
un aperto coinvolgimento della marina e dell’aeronautica americana,
riducendo così ulteriormente le già basse probabilità di successo
dell’operazione. In appena tre giorni (17-19 aprile 1961), la disfatta era
compiuta. L’invasione non era neppure andata vicino al successo, ma in
compenso il mondo intero aveva capito perfettamente che dietro quegli
esuli non poteva esserci che Washington. L’idea stessa di poter invadere un
Paese senza che si intuisse chi lo aveva fatto era già abbastanza assurda 36.
In più essa era stata eseguita in modo talmente inefficiente da rasentare il
grottesco. Basti pensare che alcuni bombardieri vennero abbattuti dalla
contraerea nemica perché erano giunti sul luogo dell’attacco con un’ora di
anticipo rispetto ai jet provenienti dal Nicaragua, che avrebbero dovuto
assicurare loro la copertura. Il motivo? Un malinteso sui fusi orari 37.
Il «Financial Times» descrisse «l’inettitudine a stento credibile
dell’operazione» 38. Il «Guardian» stigmatizzò quei metodi, definendoli
«esattamente le stesse manovre usate da Hitler in Austria e da Stalin in
Cecoslovacchia» 39. Schlesinger, giunto in Europa, dovette riaprire il suo
diario: «Sono arrivato oggi a Bologna […]. È evidente che l’affare cubano
ci ha fatto un danno immenso […]. Non sembriamo soltanto degli
imperialisti; sembriamo degli imperialisti imbranati, il che è peggio» 40. Poi
stese un rapporto per il governo: «Le prime reazioni [europee] a Cuba sono
state naturalmente di acuto shock e disillusione […]. Kennedy era
considerato l’ultima grande speranza dell’Occidente contro il comunismo e
per la pace […]. Ora in un colpo solo tutto sembrava spazzato via» 41.
Anche in America Latina il prestigio degli Stati Uniti precipitava e
l’antiamericanismo trovava nuovi e potenti argomenti. Ma le conseguenze
non erano pesanti solo in termini d’immagine. A Cuba Castro raccoglieva
un trionfo propagandistico di proporzioni insperate. La sua già grande
popolarità tra i cubani ne usciva ulteriormente rafforzata, mentre egli
coglieva l’occasione dell’emergenza nazionale per dare un definitivo «giro
di vite» autoritario alla situazione interna. Nei soli tre giorni dello sbarco
americano si calcola siano state arrestate forse fino a centomila persone 42.
Così, tra quelli messi in prigione e i tanti che erano stati lasciati fuggire
all’estero, dopo quell’aprile a Cuba praticamente non c’erano più oppositori
in circolazione. Questo significava per Washington la fine di ogni speranza
di rivolte interne. Come se non bastasse, pochi giorni dopo la Baia dei Porci
un trionfante Castro annunciava per la prima volta che Cuba era divenuta
ufficialmente uno Stato socialista. Non ci sarebbero state più elezioni,
spiegò alla gente tra gli applausi, perché la rivoluzione era espressione
diretta della volontà popolare e dunque a Cuba le elezioni si tenevano ogni
giorno 43. Lui stesso, secondo quanto dichiarò qualche tempo dopo, era stato
un apprendista marxista fin da quando era studente, anche se finora non
aveva dato a vederlo, e tale sarebbe rimasto fino alla morte 44. La transizione
era ultimata. Un po’ come l’assassinio di Matteotti per il fascismo, la Baia
dei Porci per il castrismo aveva accelerato, anziché compromettere, la
definitiva instaurazione di un regime nascente.
A Washington, Kennedy era sconvolto. Furioso verso la CIA e i militari,
che a suo dire lo avevano mal consigliato; ma anche verso se stesso. «Come
posso essere stato così stupido da lasciarli fare?», confidò a Sorensen 45.
Aveva preteso di sbarazzarsi di Castro senza doverne affrontare le
conseguenze politiche; il risultato era stato l’esatto opposto: affrontare tutte
le conseguenze politiche senza sbarazzarsi di nessuno. Oltre
all’approvazione data a un piano impresentabile sotto ogni punto di vista,
egli era risultato ondivago anche nel modo di gestirla, non seguendo una
linea chiara; ciò ora lo avrebbe reso particolarmente esposto alle accuse di
irresolutezza nelle prossime crisi 46. E non solo tra i suoi rivali politici
interni: cosa poteva averne dedotto, per esempio, uno come Kruscev? 47
Presto avrebbe potuto verificarlo di persona: un mese e mezzo dopo era
infatti in programma a Vienna un summit bilaterale, cui il capo del Cremlino
aveva accettato di partecipare proprio dopo la Baia dei Porci. I due uomini,
fatta eccezione per un brevissimo scambio di battute in America nel 1959,
non si erano ancora mai incontrati. Ora giungevano all’appuntamento in
condizioni assai diverse. Kennedy veniva da una disfatta, mentre Kruscev
aveva appena raccolto un nuovo strepitoso successo internazionale
mandando in orbita il primo uomo nello spazio: Yuri Gagarin. La situazione
era quella giusta per fare pressione sul giovane avversario: decise che
sarebbe andato all’attacco.
L’autunno del 1961 ad ogni modo non passò tranquillo. Kennedy nominò
suo rappresentante personale a Berlino il generale Lucius Clay, ovvero colui
che aveva sovrinteso al «ponte aereo» nel blocco del 1948. Kruscev rispose
per le rime, richiamando in servizio per l’occasione il fidato maresciallo
Konev, proprio colui che nel 1945 era entrato nella Berlino nazista alla testa
dei carri armati sovietici. Erano nomine di chiaro significato politico,
indicanti reciproca fermezza 68. Poi, nel giro degli ultimi dieci giorni di
ottobre, successero tre fatti importanti. Il 21, mentre a Mosca era in corso il
XXII Congresso del PCUS (una solenne riunione del movimento comunista
mondiale alla presenza di 4800 delegati internazionali), il governo
americano, basandosi anche su informazioni segrete fatte filtrare da una
spia sovietica 69, dichiarò apertamente e con dovizia di dettagli – tramite un
discorso tenuto dal vicesegretario alla Difesa Roswell Gilpatric – che
l’arsenale nucleare statunitense era enormemente superiore a quello
sovietico. «Il fatto è che questa nazione [gli USA] ha una forza di
rappresaglia nucleare di tale potenza che ogni mossa nemica che la portasse
in gioco sarebbe un atto di autodistruzione» 70. La cortina di ferro non era
poi «tanto impenetrabile da costringerci a prendere per oro colato le
vanterie del Cremlino circa la sua forza» 71. «Perciò», concludeva Gilpatric,
«siamo fiduciosi che i sovietici non oseranno provocare un conflitto
nucleare». Così facendo, Kennedy di fatto scopriva di colpo anni di vanterie
e bluff missilistici del suo avversario. La reazione di Mosca arrivò
immediatamente, per bocca del ministro della Difesa Malinovsky: le cifre
citate erano tutte errate; inoltre «cosa si può dire di quest’ultima minaccia,
di questo discorso meschino? Una sola cosa: la minaccia non ci fa
paura!» 72. La mossa di JFK mirava a evitare ulteriori intimidazioni su
Berlino e a rassicurare gli alleati della NATO riguardo alle continue
spacconate nucleari che sentivano da Kruscev 73; ma certo era anch’essa
assai provocatoria, sia per i contenuti sia per i toni e il momento scelto (nel
pieno del Congresso del PCUS suonava come un’umiliazione studiata).
Alcuni storici addebitano infatti a JFK quel discorso provocatorio come uno
dei fattori che indirettamente portarono alla CMC 74.
Appena qualche giorno dopo (il 30), i sovietici fecero esplodere nel
Circolo Polare Artico, come pura dimostrazione di potenza, la bomba
«Tsar». La sua carica esplosiva, tra i 50 e i 57 megatoni, era quasi
cinquemila volte maggiore di quella che aveva distrutto Hiroshima. A
tutt’oggi è l’ordigno più potente mai realizzato dall’uomo. Naturalmente si
trattava anche qui di una mossa politica (per via delle sue enormi
dimensioni, quella bomba non era concretamente impiegabile come arma
nemmeno volendolo fare).
Infine, il 27 ottobre si arrivò a rischiare il confronto armato per le strade
di Berlino. Presso uno dei principali punti di frontiera tra i due settori della
città, il cosiddetto Checkpoint Charlie, una banalissima disputa doganale
sorta qualche sera prima riguardo al passaporto di un diplomatico
americano che stava andando a teatro nel settore Est bastò a portare i carri
armati sovietici e statunitensi schierati minacciosamente gli uni in faccia
agli altri, a cannoni spianati, separati da neanche cento metri e da un esile
posto di blocco. Non era mai successo, dall’inizio della guerra fredda. I tank
americani avevano anche delle pale tipo bulldozer montate ostentatamente
sul davanti, e non c’era dubbio su quale fosse il muro da abbattere al quale
esse erano destinate. A quel punto poteva accadere qualsiasi cosa: come ha
ricordato il comandante della fila di carri statunitensi 75, «sarebbe bastato
che un soldato innervosito si fosse messo a sparare» o che «un carrista
avesse premuto accidentalmente l’acceleratore» e la guerra fredda avrebbe
smesso di essere tale. Kruscev ricorda nelle sue memorie che «i carri armati
e le truppe di entrambe le parti trascorsero la notte allineati gli uni di fronte
agli altri lungo il confine. Era ottobre avanzato e faceva freddo. Certamente
sarà stato temprante per gli operatori dei nostri carri sedere tutta la notte in
fredde scatole di metallo» 76. In realtà c’era ben poco da scherzare. Come
ritirarsi da quella rischiosa prova di nervi? Il mattino seguente Kennedy
mandò suo fratello Robert da un emissario segreto del Cremlino a
Washington (Georgi Bolshakov, ufficiale dell’intelligence militare sovietica
e agente del KGB) e fece arrivare voce a Kruscev che se egli avesse fatto
indietreggiare i suoi carri armati di qualche metro, quelli americani
avrebbero immediatamente fatto altrettanto. Inoltre egli in cambio avrebbe
mostrato una certa flessibilità su Berlino. Kruscev intelligentemente
acconsentì, e così avvenne; i rispettivi tank indietreggiarono e si spostarono
ai lati della strada, ad uno ad uno. La situazione si risolse per il meglio e
dopo quell’episodio fu chiaro che il muro era un fatto accettato. Le
settimane passarono e la crisi andò scemando. La fine dell’anno arrivò
senza guerra. Kennedy tuttavia considerava il 1961 come un pessimo anno:
quando un giornalista gli accennò che stava pensando di scrivere un libro
sul primo anno della sua presidenza, il Presidente si stupì: «E chi potrebbe
aver voglia di leggere un libro che parla di disastri?» 77.
Uno dei modi più efficaci per risollevare il magro bilancio, si diceva
Kennedy, sarebbe stato riuscire finalmente a liberarsi di Castro. Anche se la
Baia dei Porci era fallita, pensava, non poteva rassegnarsi all’inazione e alla
presenza indefinita di Fidel al potere; non era possibile provare a
rovesciarlo in qualche altro modo? Nacque così la famigerata «Operazione
Mangusta». La CIA la conduceva; la supervisione politica e l’ardore alla
causa erano fornite da suo fratello Robert. Nominato dal Presidente
Attorney General (carica non esattamente traducibile, che nell’ordinamento
statunitense corrisponde alla direzione del Dipartimento di Giustizia del
governo), Robert Francis Kennedy (di qui in poi indicato anche come RFK)
era il più giovane e più emotivo dei due Kennedy. Quello che John
affrontava razionalmente, Robert lo sentiva emotivamente. Ciò valeva in
positivo e in negativo: dalla lotta contro la povertà o per i diritti civili degli
afroamericani, fino all’anticomunismo viscerale e all’ossessione per Castro.
Così fu lui il generale in prima linea di questa «guerra segreta» dei fratelli
Kennedy contro Castro. «La mia idea», aveva spiegato alla CIA, «è di
fomentare le cose sull’isola con spionaggio, sabotaggio, disordine generale,
condotti ed eseguiti dai cubani stessi, con ogni gruppo ad eccezione dei
batistiani e dei comunisti» 78. A questo scopo, praticamente ogni mezzo era
lecito. Benché non tutti i piani esaminati siano poi stati effettivamente
attuati (la maggior parte anzi rimaneva lettera morta), la lettura dei
documenti segreti relativi all’Operazione Mangusta risulta impietosa nei
confronti della reputazione della CIA e dei fratelli Kennedy. Lo stesso
Schlesinger, certo non sospetto di pregiudizi antikennediani, scriverà poi
che Operation Mongoose fu «la più lampante follia di Robert Kennedy» 79.
Qualche esempio ne darà un’idea: in una riunione tenuta nel suo ufficio
il 19 gennaio 1962, RFK spiega al gruppo incaricato che «una soluzione al
problema cubano oggi detiene ‘la priorità massima nel governo USA – tutto
il resto è secondario. Nessun tempo, denaro, sforzo o capitale umano deve
essere risparmiato’. […] Ieri», prosegue poi il sommario del meeting, «il
Presidente ha indicato al Procuratore Generale che ‘il capitolo finale non è
ancora stato scritto’ – deve essere fatto e sarà fatto» 80. Dal canto loro, i
Capi militari (Joint Chiefs of Staff: JCS) in marzo stilano liste di pretesti che
giustificherebbero un’invasione americana. Tra questi: «far esplodere una
nave statunitense nella Baia di Guantanamo e incolpare Cuba; […]
affondare navi vicino all’entrata del porto [e] condurre funerali per vittime
fasulle; […] sviluppare una campagna di terrore cubano comunista nell’area
di Miami, altre città della Florida e perfino Washington; […] combinare un
incidente che dimostrerà convincentemente che un aeroplano cubano ha
attaccato e abbattuto un aeroplano civile noleggiato […]» 81. Altre proposte
allo studio erano più colorite, come quella di un virus per far cadere la
barba a Castro così da diminuire il suo carisma tra la gente; o la
distribuzione tramite lancio aereo sopra la campagna cubana di foto false in
cui egli apparisse obeso e immerso nel lusso mentre si abbuffava del
miglior cibo cubano in compagnia di due belle ragazze, accompagnate dalla
scritta in spagnolo: «La mia razione è differente» 82. Tanto per non farsi
mancare nulla, qualcuno alla CIA progetta anche dei piani di diretto
assassinio del lìder màximo, perfino servendosi di noti mafiosi (tra i metodi
proposti, sigari velenosi portati in dono a Castro o conchiglie tossiche
sistemate sul fondo della baia dove egli era solito fare immersioni). Tutto
questo però ad insaputa, pare, dei Kennedy (che del resto non sarebbero in
ogni caso mai stati così sprovveduti da mettere simili ordini per iscritto) 83.
Ad ogni modo, al di là dei «memo» e dei piani top-secret passanti di
scrivania in scrivania, le cose non vanno molto avanti, soprattutto per i gusti
di RFK. Sicché il 4 ottobre egli si lamenta col gruppo che «la più alta
autorità [tradotto: mio fratello] è preoccupata riguardo al progresso del
programma Mangusta e sente che dovrebbe essere data maggior priorità ai
tentativi di montare operazioni di sabotaggio» 84. Il capo della CIA McCone
replica, come risulta sempre dalle minute dell’incontro, esponendogli
francamente la sua «impressione che gli alti livelli del governo [tradotto: il
Presidente] vogliano andare avanti con le attività ma tuttavia conservare un
livello di rumore basso. Egli [McCone] non crede che ciò sarà possibile.
Ogni sabotaggio verrebbe attribuito agli Stati Uniti […] Ha sollecitato che
gli ufficiali responsabili [tradotto: sempre il Presidente] fossero preparati ad
accettare un livello di rumore più alto se volevano andare avanti con le
operazioni». Era un po’ lo stesso discorso della Baia dei Porci: se vuoi che
riesca, non può non far chiasso. Al che «in parziale replica, il Procuratore
Generale […] si è chiesto se stessimo andando sulla strada giusta o se non
occorresse azione più diretta [more direct action]. Egli ha sollecitato che
piani alternativi e immaginativi venissero sviluppati per raggiungere
l’obiettivo complessivo».
Piani alternativi e immaginativi. Come potevano essere interpretate
parole come queste? In un simile clima esse non potevano forse significare
che, se per caso Castro fosse stato misteriosamente trovato morto qualche
giorno dopo, i due Kennedy non avrebbero versato troppe lacrime?
Qualcuno alla CIA poteva comprensibilmente dedurne questo; e difatti,
come poi è risultato, lo stava facendo. Come spiega bene l’autorevole
saggio di Freedman, la CIA già «sotto gli anni di Eisenhower si era abituata
all’idea che i loro padroni politici potevano apprezzare i risultati di azioni
estreme fintanto che non venivano direttamente implicati loro. Non c’è
prova che Kennedy abbia ordinato l’assassinio di Castro (o di nessun altro).
Tutto ciò che si può dire è che l’ossessione per Castro, e il costante
incitamento alla CIA di Robert, crearono un clima in cui gli ufficiali della
CIA avrebbero potuto venir perdonati per il ritenere che le più alte autorità
non sarebbero state infelici del decesso del leader cubano» 85.
Fiumi di inchiostro sono stati versati su questo tema. In questa sede, ad
ogni modo, l’Operazione Mangusta è rilevante in quanto i servizi segreti
cubani e sovietici (a differenza della gente comune, che non ne seppe nulla
fino a metà anni Settanta) erano perfettamente a conoscenza dell’esistenza
di questo tipo di manovre 86. Come ha ben sintetizzato Dobbs,
«l’Operazione Mangusta era la peggior combinazione possibile di politica
estera: aggressiva, rumorosa, inefficace. […] In Mangusta c’era abbastanza
sostanza per allarmare Castro e i suoi protettori sovietici verso l’adozione di
contromisure, ma non abbastanza da minacciare la sua presa sul potere».
Così, quell’operazione, insieme ad altri elementi 87 e a quell’atmosfera da
imminente «resa dei conti», portò L’Avana e Mosca all’ovvia aspettativa
che un secondo tentativo di invasione di Cuba sarebbe giunto, e anche in
tempi brevi. In realtà non era così: Kennedy, a differenza di molti altri nel
governo e nel Paese, non aveva alcuna intenzione di invadere Cuba in
mancanza di una seria e oggettiva provocazione. Ma tutto faceva pensare il
contrario. Lo stesso McNamara (allora segretario alla Difesa) ammetterà
decenni dopo: «se fossi stato un dirigente cubano, credo che mi sarei
aspettato un’invasione americana» 88.
Questa legittima preoccupazione portò Kruscev alla ricerca di una
soluzione drastica.
Una delle foto scattate dagli aerei U-2 mostra i lavori in corso a San Cristobal, una delle basi
cubane con rampe di lancio per missili a medio raggio.
Subito dopo rientrò alla Casa Bianca, dove stava per cominciare il
secondo meeting dell’ExComm. Sarebbe stata una riunione tra le più
significative di tutta la crisi. È una fortuna che ne possediamo le
registrazioni, perché nelle discussioni di quella prima sera non solo vennero
affrontate le opzioni allo studio, ma emersero per la prima volta diversi dei
principali aspetti della CMC, e quei nastri ci consentono di capire il modo
in cui essi via via si presentarono alla mente dei membri del governo
statunitense. Trascrizioni complete e commentate delle riunioni di quei
giorni sono state pubblicate in vari volumi. Qui ci limitiamo a riportarne
qualche stralcio, nella speranza che ciò faciliti la comprensione degli eventi
dei giorni successivi, fornendo un’idea del modo in cui si sviluppò il
processo decisionale alla Casa Bianca, tra forti pressioni, incertezza sul
futuro, confronti argomentativi tra consiglieri 28 e molteplici fattori da
considerare.
Verso l’inizio della riunione, il segretario di Stato Dean Rusk mette in
guardia sulle possibili ripercussioni internazionali di un attacco aereo: «Se
colpiamo quei missili, ci aspetteremmo, credo, la massima reazione
comunista in America Latina. […] Nel caso di circa sei di quei governi […]
uno o l’altro di essi potrebbero facilmente essere rovesciati. Penso al
Venezuela per esempio, o Guatemala, Bolivia, Cile, forse perfino il
Messico». Dunque, dice Rusk, quei governi forse vanno avvisati prima,
affinché prendano misure di sicurezza precauzionali. «L’altro problema è la
NATO. Riteniamo che i sovietici quasi certamente intraprenderanno
qualche tipo di azione da qualche parte [come rappresaglia]. Per noi
intraprendere un’azione simile senza lasciare che i nostri alleati sappiano di
un problema che li potrebbe assoggettare a un pericolo molto grande, è una
decisione molto impegnativa da prendere. E potremmo ritrovarci isolati, e
l’alleanza [NATO] che si sbriciola […]» 29.
Pochi minuti dopo interviene Robert McNamara (segretario alla Difesa:
da qui abbreviato in McN), cercando con grande lucidità di sistematizzare
le varie opzioni fin lì menzionate e introducendo un’alternativa.
Signor Presidente, posso delineare tre linee d’azione […]? La prima
è quella che chiamerei la linea d’azione politica, nella quale
seguiremmo alcune possibilità […] rivolgendoci a Castro,
rivolgendoci a Kruscev, discutendo coi nostri alleati. Un approccio
politicamente aperto e scoperto al problema, cercando di risolverlo.
Mi sembra presumibile che ciò non conduca a nessun risultato
soddisfacente, e praticamente blocca [ogni] successiva azione
militare. […] Una seconda linea d’azione che non abbiamo discusso
ma sta a metà tra la linea militare […] e la linea politica,
comporterebbe una dichiarazione di aperta sorveglianza: un
comunicato che imporremmo immediatamente un blocco contro
armi offensive in arrivo a Cuba nel futuro, e un’indicazione che […]
saremmo pronti ad attaccare immediatamente l’Unione Sovietica
nel caso che Cuba facesse qualsiasi mossa offensiva contro questo
Paese. […]
[Questa linea] ha alcuni difetti fondamentali. Ma la terza linea
d’azione è una qualsiasi tra le varianti di azione militare contro
Cuba, a cominciare da un attacco sui [soli] missili. Ma anche un
attacco così limitato è un attacco aereo molto esteso. Non sono venti
o cinquanta o cento sortite [di bombardamento], ma probabilmente
parecchie centinaia […] Mi sembra pressoché certo che ciascuna di
queste forme di azione militare diretta condurrebbe ad una risposta
militare sovietica di qualche tipo, in qualche posto del mondo. Può
ben valerne il prezzo, forse dovremmo pagarlo. Ma credo che
dovremmo riconoscere questa possibilità 30.
Anche JFK non vede molta utilità nella prima opzione (contattare
politicamente Castro o Kruscev): «Mandare una nota a Kruscev? Mi sembra
che il mio comunicato stampa [si veda il capitolo precedente, NdA] fosse
così chiaro riguardo alle circostanze in cui non avremmo fatto nulla e quelle
nelle quali lo avremmo fatto». Bundy: «Di certo è per questo che lui è stato
molto, molto esplicito con noi su quanto ciò [ossia un attacco a Cuba] sia
pericoloso, nella sua dichiarazione TASS dell’11 settembre e negli altri
messaggi» 31. JFK: «È vero. Ma è lui che ha iniziato il pericolo, davvero,
no? È lui che sta giocando a fare Dio, non noi» 32.
L’ExComm in riunione alla Casa Bianca durante la CMC. Sul lato destro si riconoscono i due
Kennedy (Robert in primo piano, il Presidente all’altezza della bandiera) e, sul lato opposto, il
segretario alla Difesa Robert McNamara.
Tra la notte del 17 e la mattina del 18, diversi consiglieri avevano scritto
e fatto giungere sulla scrivania del presidente dei «memo» per esporgli
ciascuno il proprio punto di vista. Intanto la CIA comunicava che nuovi voli
di ricognizione dimostravano che a Cuba erano in costruzione non solo
rampe per missili a medio raggio (i cosiddetti R-12, o SS-4 secondo la
classificazione NATO), ma anche rampe per missili a raggio intermedio (R-
14, o SS-5 secondo la classificazione NATO). Ciò significava che
praticamente tutto il territorio continentale degli USA ora era
potenzialmente a tiro 56.
Fu con questa inquietante novità che l’ExComm iniziò la nuova
riunione. George Ball tornò sui rischi di un attacco aereo a sorpresa:
«Uccideremo diverse centinaia di cittadini sovietici» (i soldati russi di
stanza a Cuba). E a quel punto «che tipo di risposta Kruscev si troverà
aperta? Mi sembra che dovrà proprio essere una risposta forte, e dovremmo
aspettarcela. […] Siamo disposti a pagare […]? Credo che il prezzo sarà
alto […] Il minimo assoluto che potrà essere sarà rimuovere i missili da
Italia e Turchia. [Ma] dubito che potremo risolverla così». Infatti una voce
in sala subito interrompe per offrire una stima più realistica: «Beh, io penso
che si prenderanno Berlino». JFK ne era altrettanto sicuro. Ball prosegue:
«Signor Presidente, credo sia facile, stando seduti qui, sottovalutare il senso
di paura che lei si ritroverà tra i Paesi alleati, forse perfino in America
Latina, se agiamo senza avvertimento, senza dare a Kruscev una qualche
via d’uscita per quanto illusoria […] È come Pearl Harbor. È il tipo di
condotta che uno si può aspettare dall’Unione Sovietica, non che uno si
aspetta dagli Stati Uniti». Ma JFK non è convinto che ciò faccia una gran
differenza pratica, perché «il punto è che lui si prenderà Berlino comunque.
Si prenderà Berlino in ogni caso» 57 (sia che l’attacco arrivi previo
ultimatum, sia che arrivi senza). L’intervento appassionato di Ball ha però
definitivamente convinto un proselito, e non uno di poco peso: Bob
Kennedy. «Credo che George Ball abbia dannatamente ragione […]
Assumendo che uno sopravviva a tutto questo, il fatto che noi non… che
genere di Paese siamo? […] Abbiamo fatto questo contro Cuba. Abbiamo
lottato per quindici anni con la Russia per prevenire un primo attacco contro
di noi […] Ora, nell’interesse del tempo, siamo noi a infliggerlo a un Paese
piccolo. Credo sia un maledetto fardello da portarsi addosso». Ball corre
subito in suo appoggio con un’immagine biblica: «questo fatto di portarsi ‘il
marchio di Caino’ sulla fronte» 58.
Tuttavia il Presidente è ancora propenso ad un attacco aereo. Per una
volta, i ruoli sono ribaltati: ora sembra Robert il fratello moderato.
(cioè la crisi di Suez del 1956: si veda il capitolo precedente). In tal caso,
noi saremmo visti come ‘gli americani dal grilletto facile’ che hanno
perso Berlino. Non avremmo alcun supporto dai nostri alleati. […]
Dopo tutto, Cuba è a cinque o seimila miglia da loro. Non gli frega
un bel niente di Cuba. Ma gli frega di Berlino e della loro propria
sicurezza. Così direbbero che abbiamo messo in pericolo i loro
interessi e sicurezza. […] Perciò […] è una posizione molto
soddisfacente per loro [i russi] […] se si assume che ciò che è
fondamentale per loro, davvero, è Berlino, e non ve n’è alcun
dubbio. In ogni colloquio con i russi, anche ieri sera [con Gromyko]
abbiamo parlato di Cuba per un po’, ma Berlino, è su quello che
Kruscev si è impegnato personalmente […] Se andiamo e li
togliamo di mezzo [i missili] con un rapido attacco aereo, […] non
può che esserci una rappresaglia dall’Unione Sovietica, […] [col
rischio] che loro semplicemente entrino e si prendano Berlino di
forza. Il che mi lascia con una sola alternativa, che è lanciare le armi
nucleari, che è una dannata alternativa. […] Dall’altro lato, se
cominciamo col blocco che stiamo discutendo ci sono probabilità
che loro inizino un blocco [parallelo su Berlino] e dicano che siamo
noi ad aver cominciato. E ci sarà qualche dubbio sull’atteggiamento
degli Europei. Dunque non credo che abbiamo alcuna alternativa
soddisfacente. […] Il nostro problema non è meramente Cuba, ma
anche Berlino. […] È questo ciò che ha reso questa faccenda un
dilemma per tre giorni. Altrimenti la nostra risposta sarebbe stata
abbastanza facile. D’altro canto, dobbiamo fare qualcosa. Perché se
non facciamo nulla, avremo il problema di Berlino comunque.
Questo è stato chiarito ieri sera [da Gromyko]. Avremo questo
coltello ficcato dritto nelle nostre viscere tra circa due mesi. E allora
dobbiamo fare qualcosa. Ora, la vera domanda è cosa?
Il generale Maxwell Taylor (uno dei pochi tra i militari di cui JFK si
fidasse) risponde: «Signor Presidente, noi riconosciamo tutte queste cose.
Ma credo che saremo tutti d’accordo nel dire che davvero la nostra forza a
Berlino, la nostra forza ovunque nel mondo, è la credibilità della nostra
risposta date certe condizioni. E se non rispondiamo qui a Cuba, riteniamo
che la credibilità sia sacrificata». JFK concorda: il punto infatti è come
rispondere. È qui che interviene LeMay:
Il presidente Kennedy nello Studio Ovale subito prima del suo discorso televisivo del 22 ottobre
1962.
FASE PUBBLICA
(cioè l’OAS, da cui essa era stata recentemente espulsa) 118. Il finale del
discorso era rivolto all’opinione pubblica nazionale:
Miei cari concittadini, che nessuno dubiti che questo sforzo che
abbiamo intrapreso è difficile e pericoloso. Nessuno può prevedere
con precisione in quale direzione esso si evolverà e quali costi o
vittime implicherà. Parecchi mesi di sacrifici e autodisciplina ci
attendono […] Ma il pericolo più grande sarebbe non far nulla. […]
Il prezzo della libertà è sempre alto, ma gli americani l’hanno
sempre pagato. C’è un solo sentiero che non sceglieremo mai, ed è
quello della resa e della sottomissione. Nostro obiettivo non è la
vittoria della potenza, ma la rivendicazione del diritto 119 – non la
pace a spese della libertà, ma pace e libertà, qui in questo emisfero
e, speriamo, in tutto il mondo. A Dio piacendo, questo obiettivo
verrà raggiunto. Grazie e buonanotte 120.
JFK: «Sembra che si metta davvero male, no? Ma d’altro canto non
c’era alcun’altra scelta. Se arrivano a comportarsi così male su
questo, nella nostra parte del mondo, Gesù Cristo, che altro cavolo
combineranno alla prossima [what are they gonna fuck up next]?
[…]»
RFK: «Beh, non c’era alcuna scelta. Voglio dire, saresti stato messo
sotto impeachment».
JFK: «Beh, è quello che penso. Sarei stato messo sotto
impeachment» 144. […]
RFK (cercando di rincuorare il fratello, evidentemente
preoccupato): «Non potevi fare niente di meno. Il fatto è che hai
tutti i Paesi sudamericani e centroamericani che hanno votato
all’unanimità [la risoluzione OAS], quando per due anni ci hanno
preso a calci nel sedere, […] e poi hai la reazione dagli altri alleati,
sai, come [l’ambasciatore britannico] David Ormsby-Gore e tutti gli
altri, che stanno dicendo che dovevi farlo. […] Voglio dire, se [la
guerra] deve venire, sarà venuta per qualcosa che non avresti potuto
evitare» 145.
Egli [JFK] parla della Carta dell’ONU. Nel preciso momento in cui
iniziano a violarla, invocano la Carta dell’ONU contro di noi! Noi
non abbiamo minimamente violato alcun articolo della Carta. […]
Egli dice: ‘I miei stessi pubblici avvertimenti ai sovietici il 4 e 13
settembre’. Che c’interessa a noi degli avvertimenti personali del
señor Kennedy? […]
Forse la cosa più insolente dell’intera dichiarazione del señor
Kennedy sono i paragrafi indirizzati al popolo di Cuba, che leggo
perché si possa vedere fin dove arriva il cinismo e la svergognatezza
di quest’uomo. Egli dice: ‘Vi parlo come un amico’ […]. [Ci]
chiama ‘il popolo prigioniero’. Avrebbe potuto dire: ‘il popolo
prigioniero e armato’. […] [Dice anche:] ‘Ora i vostri leader non
sono più leader cubani ispirati da ideali cubani’ – Devono essere
marziani! [risate].
Poi, dopo averlo paragonato a Hitler 160, concludeva l’esegesi del suo
discorso:
Il giovedì, col senno di poi, fu a ben vedere una giornata di svolta 191.
Non accadde nulla di definitivo, ma diversi fatti nel loro insieme
contribuirono silenziosamente a mettere in moto il meccanismo della
soluzione.
All’alba era giunto il messaggio di Macmillan sul quesito postogli da
Kennedy la sera prima. «Ho pensato alla ‘domanda da 64.000 dollari’ che
lei mi ha posto al telefono. Dopo parecchia riflessione, io credo che gli
eventi siano andati troppo in là. Sebbene delle circostanze possano sorgere
in cui una tale azione [invadere Cuba] sarebbe giusta e necessaria, credo
che ora ci troviamo tutti in una fase nella quale lei deve cercare di ottenere i
suoi obiettivi con altri mezzi» 192.
Il «Washington Post» quella mattina usciva in edicola con un articolo del
più autorevole columnist d’America: Walter Lippmann. Nel suo pezzo,
rifuggendo facili retoriche pseudopatriottiche e cercando invece soluzioni
pragmatiche, Lippmann metteva in guardia dal «tragico errore», a suo
avviso già commesso dagli USA nelle due guerre mondiali, consistente
nell’aver «sospeso la diplomazia» al momento di inizio delle prime ostilità.
In quest’ottica, egli scriveva, «un accordo salva-faccia» poteva invece
ancora essere negoziato a proposito delle basi USA in Turchia. La Turchia,
non Berlino, era nel mondo «l’unico posto davvero comparabile con Cuba».
Un doppio ritiro dalle rispettive basi strategiche ai confini avversari (Cuba e
Turchia, appunto) poteva dunque «essere fattibile» e rappresentare «una via
d’uscita dalla tirannia degli automatici e incontrollabili eventi» 193.
Intanto a Roma un altro personaggio centrale nella storia di quegli anni
aveva deciso di scendere in campo nella crisi: Giovanni XXIII. Il capo della
Chiesa cattolica era stato discretamente sollecitato a intervenire da
Andover, Massachusetts, dove era in corso una conferenza di dialogo
intercultural-politico tra selezionati accademici e giornalisti sovietici e
statunitensi, alcuni dei quali non privi di contatti con le leadership 194. Il
Papa aveva così deciso di usare la propria posizione di autorità morale
sovranazionale per dare voce a un anelito universale: quello per la
salvaguardia della pace. Così a mezzogiorno in punto egli lesse
personalmente alla Radio Vaticana – che trasmetteva su scala mondiale – un
messaggio accuratamente calibrato.
Lo sviluppo più importante della giornata avvenne però nel segreto del
Cremlino. Come le minute delle riunioni emerse solo di recente dagli
archivi sovietici stanno cominciando a documentare, Kruscev aveva appena
preso una decisione e ora la presentava al Presidium per ottenerne
l’approvazione. In qualche modo – disse quella mattina ai suoi colleghi
riuniti – al momento opportuno sarebbe stato necessario accettare di ritirare
i missili nucleari (almeno quelli balistici) da Cuba. Alcune cose erano già
state ottenute: la rivoluzione cubana era stata portata al centro
dell’attenzione mondiale. Gli americani si erano «senza dubbio» presi un
bello spavento. «Siamo riusciti in alcune cose e non in altre» aggiunse,
misteriosamente 208. «L’iniziativa è nelle nostre mani; non c’è bisogno di
aver paura», disse, come a rassicurare se stesso e i presenti; «abbiamo
iniziato noi, e poi ci siamo spaventati». Ora la strategia che egli proponeva
era di «guardarsi intorno» con calma e, individuato il momento opportuno,
offrire di ritirare quei missili in cambio di una garanzia americana che Cuba
non sarebbe stata invasa: «non è male» 209. Poi, come ad anticipare
prevedibili critiche, soggiunse: «questa non è codardia». «È una mossa
prudente». Semplice buon senso, insomma: il motivo del contendere non
valeva una guerra. «Il futuro non dipende da Cuba ma dal nostro Paese».
Inoltre, «in questo modo rafforzeremo Cuba e la salveremo per due o tre
anni». A quel punto – e qui riaffiorava il suo inguaribile ottimismo
rivoluzionario – «nel giro di pochi anni diventerà perfino più duro [per gli
USA] averci a che fare». La strategia di Kruscev parve a tutti convincente:
il Presidium approvò, all’unanimità.
26 ottobre 1962, venerdì
La Marucla viene ispezionata dal cacciatorpediniere americano Joseph P. Kennedy, Jr. (dietro).
«Ma in cuor suo», ricorda RFK proprio a proposito di quel mattino, «il
Presidente non era ottimista […] Man mano che le ore passavano la
situazione diventava sempre più grave. Aumentò la sensazione che non
sarebbe andata liscia e che un confronto armato diretto fra le due grandi
potenze nucleari fosse inevitabile. Tutti, ‘falchi’ e ‘colombe’, avvertivano
che l’uso combinato della forza, sia pure limitata, e della diplomazia non
aveva avuto successo». La quarantena certo aveva evitato che ulteriori armi
giungessero a Cuba, ma quanto a quelle che già si trovavano sull’isola, essa
non poteva nulla. Che fare, dunque? L’ExComm ne discuteva
nervosamente. JFK ammise: «non li porteremo via [i missili] con la
quarantena. […] O li mercanteggiamo, o dovremo entrare e portarli via da
noi» 212. Insomma, a questo punto rimanevano solo due strade: negoziati o
invasione. E al momento egli pareva propendere di nuovo per una soluzione
militare 213. Ci sono tracce che la pressione crescente non fosse avvertita
solo dai due Kennedy: anche a Londra Macmillan quel giorno scriveva così,
con cupa sintesi, nel suo diario: «due lunghe conversazioni telefoniche col
Presidente. La situazione è molto oscura e pericolosa. È una prova di
volontà» 214.
Intanto proseguiva la mobilitazione militare, sia per essere pronti
all’eventuale invasione, sia come mezzo di pressione indiretta su Kruscev
(che naturalmente veniva costantemente informato di quei movimenti dalla
propria intelligence). Come ha ricordato Rusk, «la Florida era sul punto di
affondare nel mare sotto il peso della potenza militare che [vi] avevamo
assemblato» 215.
Alle 14.30, nella War Room del Pentagono, Robert Kennedy riuniva di
nuovo i responsabili dell’Operazione Mangusta. Tornando sulle sue
precedenti direttive, ordinava adesso la momentanea sospensione dei più
rischiosi atti di sabotaggio in programma (litigando tra l’altro furiosamente
con il capo della task force, che ci rimise il posto) 216.
Nel frattempo al governo continuavano a giungere report sulla
prosecuzione dei lavori di installazione presso le basi cubane. Qualcuno alla
Casa Bianca arrivava a chiedersi se «qualche generale o membro del
Politburo avrebbe messo una pistola alla testa di Kruscev e detto: ‘Signor
Premier, lanci questi missili o le facciamo saltare la testa!’» 217.
A Mosca fortunatamente Kruscev non aveva pistole puntate contro, ma
piuttosto report allarmanti, benché sostanzialmente inesatti. Uno dei
principali tra questi (e ciò illustra quanto enorme fosse la sproporzione tra
qualità delle informazioni e rischi in ballo) era basato su una semplice
conversazione tra due giornalisti origliata al bancone di un club di
Washington da un barman di origini lituane 218. Messi insieme, quei
frammenti di informazioni fecero temere a Kruscev che un’invasione
americana fosse imminente. In ogni caso egli capiva che non avrebbe
potuto rispettare indefinitamente una quarantena che, non a torto,
considerava «piratesca»: e così, presto l’escalation sarebbe iniziata. Si rese
conto che il «momento opportuno» che aspettava per presentare la sua
offerta era già urgentemente arrivato 219. Così chiamò uno stenografo e
cominciò a dettare una lettera privata per Kennedy. Appena fu pronta, senza
neppure passare al Ministero degli Esteri per il sigillo, fu recapitata
all’ambasciata americana a Mosca. Scritta in inchiostro viola, essa portava
varie cancellature e correzioni, apposte a mano dalla stessa calligrafia della
firma 220. All’ambasciata il testo fu subito diviso per brevità in quattro
sezioni, tradotto in inglese, codificato, decodificato e trasmesso a
Washington via telescrivente. L’operazione, in circostanze in cui ogni ora
pesava quintali e poteva portare a svolte fatali, richiese la bellezza di oltre
undici ore 221. «Caro Signor Presidente», cominciarono finalmente a battere
verso sera le telescriventi del Dipartimento di Stato, sotto gli occhi ansiosi
di Robert Kennedy, Rusk ed altri,
Robert Kennedy quella mattina si recò alla Casa Bianca «con un cattivo
presentimento» 243. L’FBI gli aveva appena passato un’informativa sul fatto
che «certi funzionari sovietici a New York, a quanto sembrava, stavano
preparandosi a distruggere tutti i documenti più delicati» – una misura che
tipicamente si prende, per evitare che essi cadano in mano nemica, quando
ci si aspetta una guerra ormai imminente. «Recandomi alla Casa Bianca mi
chiedevo: se i russi erano ansiosi di trovare un rimedio alla crisi, perché i
loro funzionari si comportavano in questo modo? La lettera di Kruscev
indicava veramente che una soluzione era possibile?» Cominciò la riunione
dell’ExComm. Dopo pochissimi minuti, come risulta dai nastri, qualcuno
consegnò al Presidente un’agenzia stampa appena battuta. Egli la lesse al
gruppo: «Il premier Kruscev ha detto al presidente Kennedy in un
messaggio odierno che egli ritirerebbe le armi offensive da Cuba se gli Stati
Uniti ritirassero i loro razzi dalla Turchia». Varie voci intervennero stupite:
«No, non ha detto così»; «No, no». JFK fu il primo a intuire cosa stava
accadendo: «Può star mandando un’altra lettera» 244.
«In caso che questa sia una dichiarazione esatta, a che punto siamo con
le nostre conversazioni coi Turchi a proposito della rimozione di queste
[basi]?» La risposta non fu quella che egli sperava: «Hare [l’ambasciatore
USA in Turchia] dice che ciò è assolutamente innominabile [it’s absolutely
anathema] ed è una questione di prestigio e di politica». Ball: «abbiamo
anche un report da Roma sugli italiani che indica che ciò [ottenere il ritiro
dei missili italiani] sarebbe relativamente facile. La Turchia crea un
problema maggiore. […] È un problema complicato perché questi [missili]
furono introdotti per decisione della NATO» (cioè dell’alleanza nel suo
insieme: e dunque anche la rimozione andava decisa insieme). Bundy:
«Beh, io risponderei dicendo: ‘Preferirei trattare sulle sue interessanti
proposte della sera scorsa’». Ma JFK non era convinto: «[…] Ci troveremo
in una posizione insostenibile su questo punto se diventa questa la sua
offerta. Anzitutto, abbiamo provato lo scorso anno a ritirare i missili da lì
perché non sono militarmente utili. In secondo luogo, a qualsiasi persona
alle Nazioni Unite o qualsiasi altro uomo razionale sembrerà uno scambio
molto onesto» 245. Ma Bundy insisteva per ignorarlo: altrimenti «[…]
sarebbe chiaro che stavamo cercando di svendere i nostri alleati per i nostri
interessi. Questa sarebbe la prospettiva in tutta la NATO. Ora, è irrazionale,
è pazzesco, ma è un fatto terribilmente potente». Anche RFK e molti altri
erano su una linea simile. McNamara poi era confuso e irritato: «Come
possiamo negoziare con qualcuno che cambia la sua proposta perfino prima
che abbiamo la possibilità di rispondere e annuncia pubblicamente l’offerta
[nuova] prima che la riceviamo noi?» 246. JFK: «Non prendiamoci in giro.
Hanno una proposta molto buona, che è il motivo per cui l’hanno fatta
pubblicamente». Bundy lo informò che intanto, «mentre lei era fuori della
stanza», c’è un punto su cui l’ExComm si era trovato d’accordo: «che il
messaggio di ieri notte era di Kruscev, e questo, quello pubblico, è dei suoi
uomini della linea dura [hard-nosed people] che lo stanno scavalcando. […]
Non gli è piaciuto ciò che le ha detto ieri sera. Né sarebbe piaciuto a me, se
io fossi un sovietico della linea dura» 247. Ecco che i principali elementi del
problema stavano emergendo. E l’ExComm cominciava a capirci sempre
meno. Cosa diamine stava succedendo a Mosca? Un altro doppio gioco per
ingannarli? Un golpe interno al Cremlino? Kruscev era ancora in controllo?
Perché intanto che offrivano di smantellare le basi, continuavano i lavori a
Cuba? E cosa avrebbero detto i turchi vedendosi improvvisamente ritirare i
loro missili – cui, pur senza motivo, tenevano tanto – per un accordo
concluso sopra le loro teste tra il loro potente alleato e il temibile nemico ai
propri confini?
Oggi sappiamo che l’annoso «mistero della seconda lettera» celava non
un qualche ricatto della «linea dura» del Cremlino, ma semplicemente un
momento di maggior calma dello stesso Kruscev e la lettura dell’articolo di
Walter Lippmann. Il Premier ne aveva ricevuto una traduzione dalla sua
intelligence proprio in quelle ore; sapeva dell’autorevolezza e delle fonti
molto qualificate di quel giornalista, che stimava e conosceva anche
personalmente: lo interpretò come un possibile ballon d’essai negoziale,
forse inviatogli proprio per conto della Casa Bianca 248. A torto o a ragione?
Generalmente si è ritenuto che Lippmann avesse scritto il pezzo in completa
autonomia. Tuttavia, a ben vedere, c’è qualche traccia 249 che il 24, cioè il
giorno prima che l’articolo uscisse, Lippmann abbia pranzato al
Dipartimento di Stato con George Ball (membro dell’ExComm) e gli abbia
menzionato di stare per pubblicare un pezzo su quelle linee, senza
incontrare obiezioni. Né la Casa Bianca quando l’articolo uscì si era
preoccupata di emettere smentite ufficiali 250. Fatto sta che quella mattina un
nuovamente baldanzoso Kruscev aveva detto al Presidium: «Possono
attaccarci ora? Non credo che si avventureranno a far ciò». Qualcosa
doveva pur significare se non l’avevano fatto finora. Forse «volevano
presentarci come i colpevoli e poi invadere» ma la rigorosa condotta
sovietica non gliel’aveva permesso. Allora perché non provare ad alzare la
posta? «Se ottenessimo anche la liquidazione delle basi in Turchia, noi
vinceremmo» 251. Il Presidium aveva approvato. Così una nuova lettera era
stata redatta, e trasmessa stavolta (anche per far prima) direttamente dalle
frequenze di Radio Mosca. Il tono, pur cortese, ora era più controllato e
formale:
Uscendo dalla Casa Bianca, come ricorderà egli stesso decenni dopo,
Mc-Namara aveva visto il cielo. E, accorgendosi che era una bella serata
autunnale, si era domandato istintivamente se sarebbe «vissuto abbastanza
da vedere un altro sabato sera» 294.
Il Presidente, dal canto suo, era tornato nella sua camera per un momento
di relax. C’erano l’amico Dave Powers e Mimi Alford, una stagista
diciannovenne che Kennedy faceva spesso convocare alla Casa Bianca nei
weekend in cui Jacqueline era assente. Quella sera però, secondo il recente
racconto della Alford, non ci fu spazio per il sesso. «Si capiva che era
distratto. Aveva un’espressione grave». «Dopo aver lasciato la stanza per
rispondere a un’altra telefonata urgente, ritornò scuotendo il capo e disse:
‘Preferisco che i miei figli siano rossi piuttosto che morti’». Era una battuta
che capovolgeva lo slogan dell’oltranzismo anticomunista, «better dead
than red». Date le circostanze, è verosimile che egli l’abbia detta. «Fu
l’unica nota leggera della serata», ricorda la Alford, aggiungendo che poi il
Presidente tornò di sotto a lavorare (mentre lei, aspettatolo inutilmente in
camera tutta la sera, finì per addormentarsi) 295.
Risultano difatti partite dopo mezzanotte due lettere identiche indirizzate
da JFK al cancelliere tedesco Adenauer e al presidente francese De Gaulle.
Lo scopo dei messaggi era di avvertirli che la crisi si stava mettendo male:
«La situazione sta chiaramente aumentando di tensione e se non si
riceveranno risposte soddisfacenti dall’altro lato in quarantott’ore, è
probabile che la situazione entrerà in una fase progressivamente
militare» 296. Infine, forse troppo stressato per dormire, cercò di rilassarsi un
po’ facendosi proiettare in piena notte, nella sala proiezioni della Casa
Bianca, il film Vacanze romane 297.
Nella notte arrivò un altro messaggio di Macmillan a JFK, contenente
una frase che mostrava come anche da Londra egli riuscisse bene a cogliere
l’evolversi della situazione: «La prova di volontà sta ora raggiungendo un
climax» 298.
Poi si ripeteva «una volta di più» che lo scopo di quel dispiegamento era
stato solo difensivo, perché il popolo cubano era «stato sotto il costante
pericolo di un’invasione» e «noi non potevamo essere indifferenti a ciò».
4. La CMC fu risolta anche per mezzo della saggezza dei due singoli
individui che in quel frangente si trovavano al potere. Il ruolo decisivo
svolto da Kruscev e Kennedy è evidente. Pur avendo avuto responsabilità
gravi nel provocare la crisi, entrambi lavorarono poi con impegno e abilità
alla sua risoluzione pacifica una volta che essa era scoppiata. Che la loro
moderazione personale si sia rivelata così decisiva mostra l’importanza che
in taluni frangenti possono assumere nella storia anche figure individuali,
pure in un’era tecnologica e apparentemente impersonale come quella
nucleare. In un’epoca simile, però, ciò può diventare anche fonte di rischi
eccessivi. Secondo gli storici russi Zubok e Pleshakov, «molti ancora non
riescono ad afferrare il fatto che le vite di milioni di americani, sovietici, e
di fatto di tutti i popoli, erano legate a un singolo filo, controllato da due
uomini mortali, John F. Kennedy e Nikita Kruscev» 14. Lo stesso JFK in
quei giorni fu sentito dire alla Casa Bianca: «è folle [it’s insane] che due
uomini, seduti su lati opposti del mondo, debbano essere in condizioni di
decidere di mettere fine alla civiltà» 15. Entrambi i leader furono inoltre
aiutati dalla particolare solidità della loro posizione di comando: il
Presidente USA infatti, oltre che massima autorità politica è – secondo la
Costituzione – anche il comandante in capo delle Forze Armate; quanto a
Kruscev, in quella fase egli non doveva preoccuparsi di nemmeno un
oppositore interno in grado di contraddirlo seriamente, soprattutto in
politica estera 16. Ciò però è circostanza rara. Se la loro leadership fosse
stata più esposta o in bilico, se il comando fosse stato più condiviso,
entrambi avrebbero conosciuto maggiori difficoltà, e in particolare Kruscev
non avrebbe probabilmente potuto permettersi una tale clamorosa ritirata.
Istintive ed inquietanti sorgono le ipotesi di counterfactual history: Robert
Kennedy, per esempio, scrive che malgrado i membri dell’ExComm fossero
tutti «tra le persone più capaci del Paese, […] se uno qualsiasi della metà di
essi fosse stato presidente, molto probabilmente il mondo sarebbe
precipitato in una guerra catastrofica» 17. E secondo sia Schlesinger sia
Sorensen, così sarebbe finita se il presidente fosse stato Nixon 18. Sono
ipotesi non irrealistiche. Perciò, se da un lato, come ha concluso
Schlesinger, «Kennedy e Kruscev meritano la gratitudine dell’umanità» 19,
dall’altro, come avverte Norman Cousins, non si può «assumere che uomini
come loro sorgeranno in azione automaticamente in un momento di
massimo rischio. La ragione domanda che strumenti adeguati siano
approntati» 20.
Infine una certa gratitudine, per i motivi che abbiamo visto, spetta in
qualche misura anche a un oscuro ufficiale sovietico, morto nel totale
anonimato, di nome Vasily Arkhipov.
11. Perché Kruscev aveva messo i missili a Cuba? Ecco uno degli
interrogativi centrali della CMC, su cui la storiografia non ha mai smesso di
interrogarsi. Quali motivazioni avevano spinto Kruscev a una mossa tanto
rischiosa e destabilizzante? Dopo tutto l’URSS non aveva mai posto missili
nucleari fuori dai suoi confini nazionali, figuriamoci introdurli proprio sotto
il naso degli americani, per di più di nascosto. Non si rischiava così di
fornire agli avversari il perfetto pretesto per invadere l’odiata Cuba? Una
mossa simile sembrava tanto azzardata che il governo americano (con la
sola eccezione del capo della CIA, John McCone) era sicuro che i sovietici
non l’avrebbero compiuta. Se lo fecero, dunque, dovettero almeno avere
degli ottimi motivi. Ma quali? In mancanza di un documento degli archivi
sovietici che delinei precisamente i moventi dell’operazione o il piano da
attuare a dispiegamento ultimato, la riflessione storiografica su questo
punto ha dovuto necessariamente basarsi su deduzioni, sulle memorie di
Kruscev e su altre fonti indirette. La rosa dei motivi possibili comprende:
– proprio perché Cuba era geograficamente così vicina agli USA Kruscev
volle piazzarvi i suoi missili, nell’esplicito desiderio di far provare agli
americani cosa significasse vivere con missili nucleari puntati a ridosso
dei propri confini (così come l’URSS viveva a ridosso delle basi
turche);
– proprio perché Cuba era così vicina agli Stati Uniti quelle basi nemiche
vennero «sentite» – emotivamente, ben prima che militarmente – come
assolutamente intollerabili, come una sorta di anatema, dal governo e
dall’opinione pubblica americana 74. Del resto il fattore della prossimità
geografica era tutt’altro che ininfluente anche dal lato sovietico 75;
– proprio perché Cuba era così vicina agli USA, e dunque nel cuore della
sfera di influenza statunitense, l’inquilino della Casa Bianca (Kennedy
come chiunque altro fosse stato al suo posto) fu in qualche modo quasi
costretto a reagire vigorosamente, sebbene ne temesse i rischi;
– fu proprio perché Cuba era così vicina agli USA e così lontana da
Mosca che, per Kruscev, l’eventualità di accettare che vi iniziassero
ostilità militari (forzando quel blocco che egli pure definiva illegale e
piratesco, o anche solo consentendo che avesse inizio l’imminente
invasione per poi provare a respingerla o poter replicare altrove) non
rappresentò mai un’opzione accettabile. Il leader sovietico infatti era
perfettamente cosciente della lontananza dalla madrepatria di quella
preziosa ma fragile «testa di ponte», della conseguente difficoltà di
portarvi rinforzi militari, della minore esperienza dei suoi
nell’ingaggiare combattimento in quei contesti climatici e territoriali.
Nell’Emisfero Occidentale la supremazia militare convenzionale del
nemico (sia come Marina sia come forze di terra) era netta: quello
scenario era per Mosca tatticamente infelice almeno quanto quello di
Berlino lo era per la NATO. Fu dunque anche questo fattore militar-
geografico (insieme naturalmente al maggior timore di un’escalation
nucleare) che lo indusse a cercare in tutta fretta un accordo con
l’avversario, quasi a tutti i costi, prima che nei Caraibi, in un modo o
nell’altro, si cominciassero a sparare i primi colpi;
– fu proprio perché Cuba si trovava nel cuore dell’Emisfero Occidentale,
cioè di una zona che fino ad allora era rimasta relativamente esente da
basi straniere e dagli aspetti militari della guerra fredda, che la mossa di
Kruscev rappresentava un’alterazione dello status quo temeraria e
destabilizzante; e fu appunto per questo che suscitò una reazione di
rigetto continentale – da parte dell’OAS – di compattezza perfino
imprevista;
– fu proprio perché Cuba era così vicina agli USA che i principali alleati
europei di Washington, diversamente da quanto avrebbero fatto per
un’analoga decisione americana su Berlino, considerarono la mancata
consultazione come uno sgarbo tutto sommato tollerabile. Agli occhi
degli europei, infatti (e De Gaulle in privato lo disse anche
esplicitamente), Cuba era considerabile come un problema interno degli
americani: un qualcosa che, essendo avvenuto nel cortile di casa loro,
gli dava in qualche modo diritto ad una maggiore autonomia
decisionale, per quanto i rischi di rappresaglia nucleare coinvolgessero
poi anche l’Europa. Oltretutto Cuba si trovava geograficamente fuori
dalla zona di applicazione del trattato militare NATO;
– fu infine per la sua vicinanza geografica all’America e per la sua
caratteristica forma oblunga, «a salsiccia», particolarmente esposta agli
sbarchi, che Cuba sarebbe stata difficilmente difendibile nell’eventualità
di una nuova invasione americana. Questa considerazione contribuì non
poco alla decisione di Kruscev di piazzarvi un deterrente nucleare, come
egli ricorda nelle sue memorie 76. Se non voleva assistere impotente alla
perdita di Cuba, Kruscev sapeva che non c’era alternativa, in termini di
qualità o quantità di armamenti convenzionali che potesse inviarvi, che
sarebbe stata sufficiente a respingere l’attacco o a far da deterrente per
prevenirne l’inizio. Date la posizione geografica e la morfologia
indifendibile di Cuba, la sola mossa militare efficace che Mosca potesse
fare per non perdere Cuba era appunto quella di installarvi un deterrente
di tipo nucleare;
– altro aspetto geograficamente interessante, seppure per motivi diversi, è
il fatto che quella che giunse ad un soffio dal diventare la terza guerra
mondiale stesse per scatenarsi nei Caraibi. Ovvero, a differenza delle
prime due, in un luogo extraeuropeo. Ciò a conferma della dimensione
mondiale assunta dalla guerra fredda, nonché dell’avvenuta perdita di
importanza, sullo scacchiere mondiale, del vecchio continente:
quell’Europa che fino a pochi decenni prima era dominatrice del mondo,
arbitro dei propri destini e teatro di tutti i conflitti più importanti;
– infine, a proposito dell’importanza del fattore spazio e delle ricadute che
esso talvolta può avere anche sul piano delle psicologie collettive, si
veda come nella CMC entrino pesantemente in gioco anche alcuni di
quei modi collettivi di intendere la dimensione spaziale che
l’economista François Perroux ha individuato come «complessi
patologici» (complesso di accerchiamento, complesso della piccola
nazione, complesso del popolo senza spazio, e così via). Perroux si
riferiva alle nazioni europee, ma alcuni di questi suoi concetti ci
sembrano essere concretamente all’opera anche nel caso della CMC.
Proprio sulle linee suggerite da Perroux, infatti, gli Stati Uniti ritennero
il regime castrista un nemico intollerabile in quanto si trovava nel
proprio cortile, ed emotivamente lo sentivano come minaccioso ben al
di là della sua portata reale (già da prima dell’installazione dei missili).
Come ha ammesso perfino Wayne Smith, per molti anni funzionario del
Dipartimento di Stato USA relativamente agli affari cubani, «Cuba ha
sulle amministrazioni statunitensi lo stesso effetto che la luna piena
aveva sui lupi mannari: semplicemente perdono la loro razionalità alla
menzione di Castro o Cuba» 77.
Constatazioni speculari valgono per quest’ultima nazione, che assunse
progressivamente una mentalità da «cittadella assediata» (per usare
appunto un’espressione di Perroux) 78, sentendosi fin troppo a rischio di
una seconda invasione da parte del potente vicino e gettandosi
sostanzialmente per questo nelle braccia di Mosca. E cosa sono dunque
tutti questi, se non ulteriori esempi di strutture, qui intese come quadri
mentali collettivi derivanti dallo spazio ambientale? 79 È dunque
evidente qui come il fattore geografico (naturalmente in concomitanza
con altri fattori economici e politici) abbia contribuito a dare luogo a
quadri mentali (in buona parte distorti) di psicologia nazionale, e come
questi ultimi a loro volta abbiano «plasmato» linee politiche e decisioni
dei vertici, che portarono poi a pericolose catene di événement.
14. Se è vero, come mostrato, che Cuba nella CMC costituì poco più che
un campo di battaglia per un più ampio braccio di ferro in corso tra le due
superpotenze mondiali, dal punto di vista cubano però la crisi è
inquadrabile anche e soprattutto al di fuori della guerra fredda, cioè nel
contesto delle relazioni col potente vicino statunitense. Nella storia
dell’isola, infatti, la CMC si inserisce come uno dei vari episodi del lungo
scontro con gli USA. Non a caso i cubani la chiamano «la crisis de
octubre», quasi a distinguerla da altri momenti di tensione con gli USA
capitati in altri mesi dell’anno (l’affondamento della Coubre, Playa Giron,
infiltrazioni e sanzioni varie). Quello che identificava la crisi nella
prospettiva dei cubani non erano tanto i missili nucleari (sulla cui presenza
governo e media nazionali in quei giorni non ponevano l’accento, pur senza
negare), bensì la minaccia di un’invasione statunitense, in una sorta di resa
dei conti finale. Gli USA infatti, come si è detto, già prima della guerra
fredda tendevano a considerare l’isola come una loro naturale propaggine,
bisognosa della loro paternalistica tutela e naturalmente appartenente alla
loro sfera d’influenza. In questo senso, la rivoluzione castrista – che era
nazionalista e antiamericana ben prima di divenire socialista – costituiva
una sfida clamorosa alla storia delle relazioni (asimmetriche) tra i due
Paesi. Anche oggi che la guerra fredda è finita, difatti, una certa ostilità e
paternalismo statunitense verso Cuba permane, seppur in modo meno
virulento, nonostante non ci sia più il timore di un’avanzata sovietica
nell’emisfero occidentale. Sarà interessante verificare se e come tali
sentimenti si evolveranno nella Cuba postcastrista. Al di là degli assetti
politici, però, è ipotizzabile che rimanga comunque un fondo di diffidenza
reciproca. Ad ogni modo, rebus sic stantibus, l’attuale stato delle relazioni
tra i due Paesi offre un altro esempio di una permanenza geopolitica nel
senso delle strutture braudeliane, sopravvissuta ad événement come la CMC
e a congiunture apparentemente interminabili come la guerra fredda 80.
15. Si è accennato qui al diverso nome usato a Cuba per riferirsi alla
CMC (crisis de octubre). L’evento era cioè identificato per il momento in
cui avveniva, non per la peculiarità della sua natura: l’accento era sulla
ricorrenza di momenti di crisi con gli USA, come in una serie di aggressioni
(quella di aprile, quella di ottobre…). Viceversa il nome statunitense,
«Cuban missile crisis», metteva l’accento su quello che lì era sentito come
l’oggetto caratterizzante, la minaccia: i missili nucleari. In Russia, infine, la
crisi è nota sotto un nome ancora diverso: «Kapu6ckuŭ kpu3uc», ovvero la
crisi dei Caraibi. L’accento qui è sull’area geografica, e implicitamente,
sulla sua estrema lontananza dalla Russia (geografica ma anche di interessi
strategici, come vedremo illustrato anche dal politologo Raymond Aron). Il
riferimento russo ai Caraibi, inoltre, comprendeva, oltre all’isola di Cuba,
anche i mari limitrofi, perché è appunto lì che si verificò l’azione militare,
per navi e sommergibili sovietici braccati da quelli nemici 81. Come si vede,
dunque, i tre nomi diversi usati per identificare lo stesso evento
rispecchiano le diverse percezioni nazionali dei medesimi accadimenti.
16. L’invasione di Cuba, che nelle fasi finali della crisi pareva ormai solo
questione di ore, si sarebbe presto rivelata un errore di proporzioni tragiche.
Ciò per due principali ordini di motivi. Il primo è che essa avrebbe
chiaramente aumentato esponenzialmente i rischi di rappresaglie a Berlino
o in Turchia, come pure le possibilità che semplici incidenti portassero
all’escalation definitiva 82. Il secondo è che anche nell’ipotesi (molto
dubbia) che il tutto fosse rimasto limitato a Cuba, l’invasione si sarebbe
probabilmente tramutata in una sorta di Vietnam ante litteram.
Difatti, lungi dall’essere una campagna risolvibile con poche perdite o
pochi giorni, come molti sembravano immaginare, essa sarebbe presto
divenuta una guerra – o più precisamente una guerriglia – tanto logorante
quanto sanguinosa.
Ciò per varie ragioni. Intanto, come gli USA avrebbero presto
sperimentato appunto in Vietnam, un popolo che conosce bene il territorio
su cui si combatte e che lotta motivato a difendere la propria terra, diventa
terribilmente duro da sconfiggere. Quello cubano, poi – forte di un esercito
di quasi trecentomila unità, preparatosi all’assalto ormai da mesi, condotto
da guerriglieri del carisma, fanatismo ed esperienza di Castro e Guevara, e
animato da un nazionalismo innato oltre che abilmente fomentato dal
regime – difficilmente si sarebbe arreso prima di aver esaurito tutte le sue
possibilità di resistenza. Poi c’erano i sovietici, i quali avevano anch’essi
forti motivazioni, come risulta dal dettagliato resoconto della CMC stilato
recentemente dal generale sovietico Anatoly Gribkov, in quei giorni di
stanza a Cuba:
PERCEZIONI E REAZIONI
1
Dagli eventi alle reazioni
L’avvenimento testimonia […] meno per ciò che è
che per le reazioni che scatena.
Pierre Nora 1
Insomma, ciò che JFK confidò a Schlesinger era il suo timore «che la
gente traesse da questa esperienza la conclusione che trattando coi russi ci
sarebbe bastato tenere duro per farli crollare» 11.
In effetti era esattamente quel che stava succedendo. «Ho detto in cento
discorsi», dichiarò per esempio il senatore repubblicano Capehart (che alla
vigilia della crisi era stato uno dei critici più feroci della linea attendista di
JFK), «che se fossimo stati risoluti (firm) e avessimo bloccato e intrapreso
azioni militari contro Cuba, Kruscev si sarebbe messo la coda tra le gambe
e sarebbe scappato, e questo è ciò che sta facendo». Firmness: risolutezza,
fermezza. Ritroviamo il medesimo vocabolo (per limitarci qui ai soli
commenti riportati da questo stesso articolo) anche nelle dichiarazioni del
senatore Keating e dei deputati Pelly e Tollefson. A Key West un soldato
gridò: «Il vecchio Kruscev se l’è svignata da noi» 12. L’autorevole
giornalista Walter Trohan scrisse: «Per la prima volta in vent’anni, gli
americani possono tenere le loro teste alte perché il presidente degli Stati
Uniti ha affrontato il premier della Russia e lo ha fatto indietreggiare» 13.
Joseph Alsop, altro autorevole columnist, intitolava il suo pezzo
semplicemente Victory! 14. Per George Kennan, l’ideatore della politica del
containment all’inizio della guerra fredda, la gestione della crisi da parte di
Kennedy era stata «magistrale» 15. Dello stesso avviso l’ex vicepresidente di
Franklin Roosevelt, Henry A. Wallace 16. Secondo il futuro presidente
Richard Nixon, l’esito della crisi «dimostra nuovamente che quando tu
affronti gli aggressori comunisti, loro indietreggiano» 17. Così anche l’ex-
Presidente Harry Truman: «Sapevo molto bene che se avessimo affrontato
Kruscev frontalmente, questo è ciò che lui avrebbe fatto» 18. Un generale del
Pentagono ricorda che in quei giorni «per tutta la città potevi incontrare
ogni quantità di persone che togliendosi il cappello ti dicevano quanto tutti
noi fossimo bravi – che avevamo davvero scoperto come si faceva, che
quello era crisis management della miglior specie» 19. Un’ondata di
trionfalismo stava insomma attraversando la nazione. Di fronte alla
minaccia reale dell’uso della forza americana, dicevano in molti, il nemico
aveva clamorosamente capitolato. La vittoria era stata totale. «Newsweek»
quella settimana titolò il pezzo sulla crisi Showdown – Backdown (Prova di
forza – Ritirata). Accanto a quel titolo c’era una grande foto di Kruscev, di
spalle, che camminava a capo chino e con le mani dietro la schiena. Vicino,
alcune frasi della sua lettera annunciante lo smantellamento, riprodotte in
grande come certificato della ritirata, e, nell’articolo, l’accenno
all’«accettazione totale delle condizioni del presidente Kennedy» 20.
Analogamente, il resoconto della crisi su «Time Magazine» (Showdown)
seguiva la stessa sequenza logica: dopo aver presentato la quarantena come
una mossa che «avrebbe dato al Premier tempo e nutrimento per
riflessioni», illustrava come «Kruscev improvvisamente propose il suo
cinico baratto» sulle basi turche – che però «Kennedy rigettò bruscamente»,
mentre al tempo stesso «accresceva la velocità del rafforzamento militare
degli USA» e sottolineava «il bisogno di azione urgente». Col che l’ultimo
paragrafo dell’articolo (intitolato Surrender, cioè resa), poteva
inevitabilmente concludere: «il giorno dopo […] Kruscev disse che si stava
arrendendo» 21.
In realtà, lo abbiamo visto, le cose non erano andate proprio in quei
termini. Solo che all’epoca nessuno lo sapeva. L’autocompiacimento,
almeno in parte comprensibile, dopo una gravissima crisi risoltasi
positivamente per il proprio Paese, stava cioè venendo rafforzato
dall’ignoranza di una parte dei termini del compromesso realmente
concluso. «Negammo in ogni luogo che ci fosse stato alcun accordo»,
almeno nel senso stretto del termine, ammetterà decenni dopo Bundy (uno
degli unici nove americani ad essere a conoscenza dell’assicurazione fornita
sul ritiro degli Jupiter in Turchia). Ma, prosegue, «una segretezza di questo
tipo ha i suoi costi. Tenendo per noi l’assicurazione sugli Jupiter
ingannammo i nostri colleghi, i nostri compatrioti, i nostri successori, i
nostri alleati. Consentimmo a tutti loro di credere che nulla di ricettivo era
stato offerto in risposta al secondo messaggio di Kruscev». Bundy, pur
confermando che «rimane unanime giudizio dei sopravvissuti partecipanti
alla strutturazione di quell’assicurazione segreta che sia l’assicurazione
stessa sia la segretezza con cui la circondammo fossero giustificate»,
ammette però che «così incoraggiammo la conclusione che era stato
sufficiente tener duro [to stand firm] quel sabato» 22.
Era così 23. E se «un trionfo autentico può generare una malsana
tracotanza, il pericolo è ancor più grande quando la vittoria è più
immaginata che reale» 24. L’equivoco infatti non sarebbe rimasto senza
conseguenze: lo storico Lebow scrive che «l’uso riuscito della diplomazia
coercitiva da parte di Kennedy condusse ineluttabilmente all’intervento
americano in Vietnam» 25. Una conseguenza tutt’altro che di poco conto.
Dello stesso avviso, già negli anni Settanta, lo storico James Nathan 26.
Né sono solo gli storici a sostenere una simile relazione tra i due eventi.
Bill Moyers, addetto stampa del presidente Johnson, dichiarò poi che nella
cerchia di quel governo, ai tempi del Vietnam «c’era una fiducia» latente,
«un residuo forse del confronto sui missili a Cuba, che quando davvero il
gioco fosse arrivato al sodo, l’altro popolo sarebbe crollato». Anche il
successore di McNamara alla Difesa, Clark Clifford, ricorderà poi che erano
«profondamente influenzati dalle lezioni della crisi dei missili di Cuba» e
che «il loro successo nel gestire una prova di forza nucleare con Mosca
aveva creato la sensazione che nessuna nazione così arretrata e piccola
come il Vietnam del Nord potesse resistere alla potenza degli Stati Uniti».
Lo stesso McNamara ha poi ammesso tale influenza 27.
Oltre a produrre questo vago senso di semionnipotenza, la percezione
distorta dell’esito della crisi di Cuba finì per ritorcersi contro il successore
di Kennedy, caricandolo di una forte pressione politica e psicologica a non
essere da meno di lui in termini di fermezza. Una pressione che i sostenitori
della linea dura non mancarono di sfruttare. L’influente e battagliero
columnist Joseph Alsop, per esempio, dalle colonne del «Washington Post»
agitò esplicitamente quel paragone, esortando Johnson a non «eludere la
sfida» postagli dal Vietnam, così come Kennedy non l’aveva elusa nella
CMC (senza rilevare la netta differenza tra i due scenari, né poter sapere
che Kennedy nella CMC era stato più flessibile di quanto avesse fatto
trapelare). Lyndon Johnson, insicuro di temperamento e perennemente
tormentato dal paragone con Camelot, ne fu oltraggiato 28.
Nel frattempo, inoltre, la crisi di Cuba era divenuta anche materia di
analisi per i teorici del crisis management, che costruivano a tavolino
modelli di comportamento politico, secondo i quali mixando forza e
diplomazia in modo ben calibrato si sarebbe sempre finito per ottenere lo
stesso felice risultato. Sfortunatamente però, come ha scritto Dobbs, «i
leader nordvietnamiti erano poco a conoscenza della ‘teoria dei giochi’
come insegnata ad Harvard e promossa dalla RAND Corporation.
Mancarono di comportarsi in modo ‘logico’ e ignorarono i segnali da
Washington. Invece di ritirarsi, risposero agli Stati Uniti escalation per
escalation» 29.
Ma chi poteva aver voluto quelle accuse? Tra lui e il Presidente c’era da
tempo una latente inimicizia 37. Gli autori dell’articolo (Stewart Alsop e
Charles Bartlett) erano due reporter quotati e ‘ben inseriti’, e il secondo era
anche un amico personale del Presidente (era stato lui a presentargli Jackie).
Contattato per lettera da Bartlett riguardo alla preparazione dell’articolo,
JFK aveva dato ai due reporter accesso a documenti e a persone da
intervistare alla Casa Bianca. Inoltre, a quanto risultò solo in seguito, egli
aveva poi riletto personalmente l’articolo prima che andasse in stampa,
proponendo solo pochi cambiamenti e senza obiettare nulla sulle frasi su
Stevenson, anzi ribadendo di volerle dentro 38. L’impaginazione poi aveva
anche peggiorato le cose. Stevenson provò a difendersi apparendo in una
trasmissione della NBC: «Mi sembra un articolo notevole sotto un aspetto:
per quanto mi riguarda, è errato letteralmente in ogni dettaglio» 39. Kennedy
allora prima mandò a dire a Stevenson, tramite Schlesinger, «che io non ho
mai parlato della crisi di Cuba né con Charlie né con altri giornalisti, e che
quest’articolo non esprime il mio punto di vista». Poi dovette scrivergli
anche un messaggio pubblico per rinnovargli la fiducia, perché Stevenson
era ormai sul punto di dimettersi 40. Ma di fatto Kennedy «evitò di ripudiare
l’articolo, suppur dando un tiepido supporto all’ambasciatore» 41. La
calunnia, che arrivasse direttamente dal Presidente o da qualcuno vicino a
lui 42, lasciò qualche cicatrice su Stevenson. Ball dirà poi che «dopo la crisi
dei missili di Cuba, Adlai si limitava al lavoro di routine» all’ONU,
consapevole che non avrebbe più avuto voce in capitolo sulla politica estera
del governo 43.
Interessante in merito anche il tagliente commento pubblicato sul «New
Yorker» dall’influente columnist e scrittore Richard H. Rovere (in nota) 44.
Il caso Stevenson qui è rilevante in quanto rappresenta un esempio di
percezione distorta della CMC indotta dall’alto nell’opinione pubblica. Il
Presidente fu cioè sostanzialmente lieto che un suo alto collaboratore
venisse visto dagli americani come un appeaser per aver consigliato un
approccio negoziale verso i sovietici, quando lui stesso aveva concluso con
loro un accordo, in segreto. Evidentemente, come ha scritto Freedman, «gli
istinti di JFK durante la crisi erano stati da colomba, ma egli non voleva
un’immagine pubblica troppo da colomba» 45. Secondo George, il caso
Stevenson fu una «chiara prova di manipolazione della stampa per
raggiungere un obiettivo politico», un uso della stampa come «arma politica
[…] per pugnalare un avversario alle spalle» 46. White lo definisce un atto
«cinico, vendicativo e cattivo» 47. Certo così facendo JFK coltivò abilmente
un’immagine di sé da «cold war warrior» e dirottò su altri le critiche della
destra; ma contribuì a diffondere nell’opinione pubblica americana proprio
quella percezione della crisi idolatrante lo stand firm che a Schlesinger
aveva detto di temere.
La reazione di J. Edgar Hoover …
Uno dei barometri della situazione è dato, specie in USA, dalle reazioni
finanziarie. Come reagirono i mercati americani a un simile shock? Essi, a
cominciare naturalmente da quello di New York, risentirono, com’era
inevitabile, del discorso di Kennedy e del conseguente rischio di guerra con
l’URSS, registrando un iniziale brusco ribasso, seguito da un «rimbalzo»
nei giorni successivi. Tuttavia nel complesso non diedero luogo né a ondate
di panico finanziario né a significativi impatti di lungo termine sugli assetti
o le politiche economiche una volta finita la crisi.
L’ambasciatore russo a Washington riportò in un suo cablo a Mosca
l’iniziale instabilità dei mercati: «La preoccupazione riguardo alla
possibilità di una grande guerra è avvertita anche nei circoli affaristici, ed è
riflessa negli acuti alti e bassi delle azioni sul mercato di titoli di New
York» 56. Altri ragguagli in merito li offre il «New York Times», che il 28
ottobre nel riassumere la settimana finanziaria appena conclusasi, scrisse
che a Wall Street «il mercato ha giocato al gatto e topo con le notizie che si
susseguivano». «I broker lunedì mattina sono stati accolti da pile di ordini
di vendita in attesa sulle loro scrivanie. […] Ma quando la settimana è
finita, le ondate shock di acquisti e vendite si erano appiattite e il mercato
ha chiuso vicino a dov’era una settimana prima. […] Quando Wall Street ha
deciso che un olocausto nucleare non era immediatamente in vista, gli
scambi sono tornati ad un passo più normale per il resto della settimana.
[…] Giustificato o meno, il sospiro arrivò quando le telescriventi
riportarono che il premier Kruscev aveva detto al filosofo britannico
Bertrand Russell che l’Unione Sovietica non avrebbe compiuto decisioni
‘avventate’ […]» 57.
In conclusione, dunque, sebbene ci sia stato «per brevi periodi qualcosa
di vicino al panico, mentre Wall Street tentava l’impossibile: adattarsi ad
Armageddon», nel complesso la diagnosi era che «il mercato azionario ha
reagito come uno yo-yo alle strazianti tensioni della crisi di Cuba», ma al
termine di esse, «la comunità finanziaria […] era molto cambiata. Aveva
superato una prova del fuoco. […] Era il primo test simile e il suo valore è
stato nel ‘lasciar uscire il vapore’» 58. Effettivamente, date la natura dei
rischi e la totale assenza di precedenti di una situazione simile, le
ripercussioni avrrebbero potuto essere assai maggiori e sfociare nel panico.
Dalle elezioni di midterm alla firma del Limited Test Ban Treaty
Come risulta dai nastri, l’ExComm nei suoi dibattiti aveva (giustamente)
riservato un’attenzione assai marginale alle possibili ricadute della crisi dal
punto di vista strettamente elettorale 59. Tuttavia l’esito positivo di quella
prova di forza non poté che aiutare il partito del Presidente nelle elezioni
per il rinnovo del Congresso, in programma appena pochi giorni dopo. Il 6
novembre infatti si recarono alle urne poco meno di cinquantaquattro
milioni di americani, ovvero quasi sei milioni in più rispetto alla tornata
precedente (1958): fu in assoluto l’affluenza più alta mai fatta registrare in
USA da un’elezione non presidenziale. I risultati per i democratici furono
relativamente buoni, considerato che le elezioni di midterm
tradizionalmente finivano sempre per penalizzare il partito al momento al
governo. I democratici guadagnarono quattro seggi al Senato e ne persero
solo due alla Camera. I pareri sono però discordi su fino a che punto tali
risultati vadano attribuiti alla CMC 60.
Quel che è certo è che JFK, oltre ad aver numericamente «limitato i
danni» al Congresso, ora soprattutto aveva una statura personale molto
diversa agli occhi del popolo americano. I dubbi sulla sua inesperienza
erano caduti. Aveva dimostrato di saper tener testa a Kruscev, provato sul
campo di possedere coraggio e sangue freddo, raccolto un successo
internazionale evidentissimo. Ora i suoi critici avrebbero avuto meno
argomenti e l’opinione pubblica sarebbe stata forse più disposta a seguirlo
anche su temi più delicati 61. In breve, egli aveva ora maggiori margini
d’azione politica. E, va detto, cercò di metterli a frutto. Insieme a Kruscev e
Macmillan, impresse una nuova spinta ai negoziati per provare ad arrivare a
un trattato internazionale di messa al bando degli esperimenti atomici, fino
a raggiungerne infine l’agognata conclusione. Il Limited Test Ban Treaty
(LTBT), firmato a Mosca il 5 agosto 1963, rappresentò così, anche al di là
dei suoi specifici contenuti 62, un primo segno concreto della nuova
distensione internazionale. Appena pochi mesi dopo aver sfiorato la più
distruttiva delle guerre della storia, le due superpotenze nucleari si sedevano
al tavolo e firmavano insieme la prima misura mai presa per il controllo
delle armi nucleari 63. Un accordo che era chiaramente figlio della CMC.
Oltre a questo, e proprio per preparare il terreno alla firma e alla successiva
ratifica congressuale del trattato, Kennedy chiese esplicitamente
all’opinione pubblica americana di riconsiderare certe mentalità e dogmi
della guerra fredda. Tale nuovo corso troverà il suo culmine nel famoso
«discorso all’American University», dal nome dell’ateneo della capitale in
cui fu pronunciato, il 10 giugno 1963. In quello che viene considerato il suo
discorso più bello 64, JFK, oltre ad annunciare due passi concreti (l’inizio di
nuovi negoziati a Mosca in vista di quel trattato e una ripresa unilaterale
della moratoria sui test atomici USA) decise di parlare di un tema «su cui
troppo spesso abbonda l’ignoranza», benché sia «il tema più importante al
mondo: la pace».
Che tipo di pace intendo, e che tipo di pace cerchiamo? Non una
‘Pax Americana’ imposta al mondo dalle armi di guerra americane.
[…] Parlo di una pace autentica […] La guerra totale non ha alcun
senso in un’era in cui […] una singola arma nucleare contiene quasi
dieci volte la carica esplosiva detonata da tutte le forze aeree alleate
nella seconda guerra mondiale. Essa non ha alcun senso in un’era in
cui i veleni mortali prodotti da uno scambio nucleare verrebbero
trasportati da vento e acqua e suolo e semi fino ai più remoti angoli
del globo e a generazioni ancora neppure nate. […] Parlo perciò
della pace come del fine razionale e necessario degli uomini
razionali. Mi rendo conto che […] non è teatrale come il
perseguimento della guerra, […] Ma non abbiamo compito più
urgente.
Alcuni dicono che è inutile parlare di pace mondiale […] finché i
leader dell’Unione Sovietica non adottano un atteggiamento più
illuminato. […] Credo che possiamo aiutarli a farlo. Ma credo anche
che dobbiamo riesaminare il nostro stesso atteggiamento, come
individui e come nazione. […] Primo: riesaminiamo il nostro
atteggiamento verso la pace stessa. Troppi di noi pensano sia
impossibile […] Ma questa è una convinzione pericolosa e
disfattista. Porta alla conclusione che la guerra è inevitabile, che
l’umanità è condannata […] I nostri problemi sono prodotti
dall’uomo – perciò possono essere risolti dall’uomo. E l’uomo è
tanto grande quanto desidera. […] La pace è un processo, una via di
risolvere i problemi. E la storia ci insegna che le inimicizie tra le
nazioni, così come tra gli individui, non durano per sempre. Per
quanto fisse le nostre preferenze o avversioni possano sembrare, la
marea del tempo e degli eventi spesso porterà cambiamenti
sorprendenti.
Letto oggi, quest’accenno può suonare profetico della fine della guerra
fredda, che allora sembrava dover continuare in eterno.
Non è immediato oggi capire quanto queste parole fossero, per l’epoca in
cui furono pronunciate, audaci, quasi rivoluzionarie. Fu una vera sferzata.
Kruscev lo definì pubblicamente «il più bel discorso di un presidente dopo
Roosevelt» 66. Il testo venne pubblicato dalla stampa di Mosca (cosa
naturalmente tutt’altro che usuale) e molti cittadini sovietici lo ritagliarono
per conservarlo 67. Era una svolta verso il periodo della distensione. Ma cosa
era cambiato? Secondo Fursenko e Naftali, «la crisi dei missili di Cuba
permetteva una nuova retorica. ‘È ben possibile’, ricorderà poi Bundy, ‘che
egli fosse convinto degli elementi chiave del suo discorso all’American
University prima del 1963, ma non sentiva di poterli dire
pubblicamente’» 68. Dello stesso avviso anche lo storico Beschloss: «in
questo discorso non c’era una sola frase su cui egli avrebbe dissentito in
privato anche nel 1960. Il cambiamento non era avvenuto in Kennedy, bensì
in quello che egli considerava il suo ambiente politico» 69. L’origine del
discorso dell’American University e di quel nuovo clima risiedeva insomma
chiaramente nella CMC. Non solo per un diverso atteggiamento tra gli
americani, quanto soprattutto per una consapevolezza nuova nella
leadership, cosciente che quei rischi enormi avrebbero potuto ripresentarsi
se la situazione non fosse stata riportata in fretta su canali di maggior buon
senso da ambo le parti. Come poi ricorderà nelle sue memorie Rusk, «la
crisi dei missili di Cuba fece realizzare a tutti noi nell’amministrazione
Kennedy che uno scambio nucleare sarebbe stato una calamità indicibile.
Eravamo stati sull’abisso, avevamo scrutato oltre il bordo ed eravamo
estremamente sconvolti da ciò che avevamo visto» 70.
L’opinione pubblica
Bert the Turtle era la star del filmato informativo realizzato dalla Civil Defense.
New York. Un gruppetto di donne del Women Strike for Peace chiede a Kennedy prudenza e ricorso
all’ONU.
Tra i vari gruppi presenti, proseguiva il «New York Times», «la Student
Peace Union aveva di gran lunga il più ampio numero di manifestanti. […]
Predominavano i giovani, ma c’era una consistente manciata di donne di
mezza età ed anziane, indossanti tesserini di appartenenza al Women Strike
for Peace». Alcuni dei loro cartelli chiedevano: «Disarmo sotto il diritto
mondiale», «Non dobbiamo invadere Cuba», «Fermate questa follia», «La
pace è l’unico rifugio». Un opuscolo della Student Peace Union definiva la
reazione USA «sconsiderata» e proclamava: «Non siamo qui per
giustificare i missili sovietici e le minacce di guerra, ma […] l’unica
risposta risiede in un atteggiamento di conciliazione e onesta
contrattazione». Di ben diverso avviso i cartelli dei Giovani Americani per
la Libertà: «‘L’appeasement è per i codardi’ […] ‘Invadete!’», e i loro
opuscoli: «Le persone che chiedono pace, che vogliono che teniamo giù le
mani, sono la quinta colonna comunista. Sono dei traditori del nostro Paese
e dovrebbero esser trattati come tali» 232. Piccoli incidenti si ebbero quando
alcuni dei cubani anticastristi tirarono uova e pomodori sul gruppo pro-
pace, schizzando anche alcuni poliziotti, che poi li arrestarono.
Fatti come quest’ultimo del resto si erano verificati un po’ per tutta la
settimana in vari luoghi del Paese. «Negli ultimi tre giorni», scrive il
«Boston Globe», «qualsiasi cosa dal raggelante silenzio alle uova e ai pugni
ha accolto i picchetti e i discorsi di alcuni gruppi ‘anti-guerra’ o ‘[pro]
pace’» 233. In una nota università dello stato di New York un oratore
pacifista aveva chiesto provocatoriamente al suo uditorio: «Siete pronti per
la guerra nucleare?», attendendosi evidentemente un no. Ma la folla,
fomentata da locali gruppi di minutemen, replicò gridando: «YES!» 234.
Quali furono gli slogan tipici dei contromanifestanti di destra?
«All’inferno Fidel» (the hell with Fidel), «Abbasso le tre C: Cuba, Castro,
Comunismo» 235, «We back Jack!» (noi appoggiamo Jack, gioco di parole
col soprannome familiare di JFK), o ancora, «180 milioni di americani non
possono sbagliarsi», «Cuba per i cubani, la Russia per i comunisti» 236. Ma
soprattutto sonore bordate di fischi: quelle regolarmente indirizzate dalla
maggioranza degli ascoltatori verso gli speaker che chiedevano di
riconsiderare le politiche statunitensi verso un approccio negoziale. Episodi
simili si registrarono per esempio all’Università di Minneapolis (Minnesota:
qui anche con lanci di uova), all’Università di Bloomington (Indiana: qui ci
furono anche degli scontri), all’UCLA 237 e a Berkeley 238 (California).
Tuttavia quest’ostilità non scoraggiò le sparute minoranze dall’esprimere il
loro dissenso. Tra coloro che salirono su un palco a parlare ci fu anche, a
San Francisco, l’attore di Hollywood Sterling Hayden 239: ovvero, guarda
caso, il futuro interprete del generale Ripper nel dissacrante Dottor
Stranamore di Stanley Kubrick. Ad Harvard il «Crimson», il noto
quotidiano dell’Università – per cui lo stesso Kennedy, da studente, aveva
scritto – ora lo criticò per aver «scartato freneticamente» la via della
diplomazia 240. Insomma, benché palesemente minoritaria nell’opinione
pubblica, «in tutta la nazione ci fu una raffica di manifestazioni nei
campus» 241. Un segnale, questo, che un settimanale di impronta liberale
come «The Nation» non mancherà di notare con soddisfazione:
[…] Dall’altro lato della strada del nostro raduno, Martin Luther
King stava parlando quella sera in una sala più grande. (Mandammo
da lui un emissario, chiedendogli di unire i due raduni e parlare ad
entrambi, ma egli rifiutò) 248. Ognuno dei due raduni aveva attratto
una folla di un migliaio o più come da capienza ed una ancor
maggiore stipata in sovrannumero. Fuori dalla nostra sala, diverse
dozzine di emigrati anticastristi che erano arrivati in ritardo
battevano a porte e finestre. In un angolo, destrorsi dei Giovani
Americani per la Libertà sollevavano ombrelli neri, sottintendendo
che noi eravamo gli equivalenti, con mentalità da Monaco, di
Neville Chamberlain 249 e fischiarono sporadicamente per tutta la
serata. […]
Moore era nel bel mezzo della sua omelia quando Stuart Hughes,
fresco di un altro discorso, arrivò sul palco – e suscitò una standing
ovation. […] Fui commosso dalla stretta di mano; […] [Ma] La
bomba ideologica di Moore continuò ad esplodere per giorni.
Quando finì il raduno, io e i miei amici tornammo in camera mia e
stemmo alzati per ore dibattendo le implicazioni del suo discorso.
Se Moore aveva ragione, cosa contavano il Tocsin e la sua politica?
Avevamo messo via i nostri romantici attaccamenti al socialismo,
all’anarchismo, alla resistenza, e puntato tutto sulla chimera della
praticabilità. Ora, al momento che il gioco si faceva duro, le potenze
a Washington – e Mosca – non potevano fregarsene di meno di cosa
pensasse un bel mucchio di loquaci studenti di college. Le grandi
potenze potevano trascinare il mondo sull’orlo dell’annientamento
ogni dannata volta che più lo gradissero. Quella notte, per me, il
Tocsin svanì in fumo.
«Negli Stati Uniti», è stato scritto, a differenza che altrove «la stampa ha
un peso eccezionale e determinante sui grandi orientamenti dell’opinione
pubblica» 260. Per questo un’analisi della copertura della CMC da parte della
stampa americana può risultare particolarmente significativa e meritevole di
spazio, più ancora che quella di altri Paesi. Quale dunque la performance
che essa seppe fornire e quali i suoi rapporti col potere di fronte a un test
della portata della CMC? «La relazione stampa-potere presidenziale
[avutasi in quell’occasione] è spesso citata come un evidente esempio di
dominio presidenziale della stampa a causa della copertura stampa durante
la settimana di crisi iniziata il 22 ottobre. Ma la questione dei missili
sovietici a Cuba era iniziata due mesi prima, a fine agosto e inizio
settembre. E molta di questa copertura iniziale era dannosa per
Kennedy» 261. Lo abbiamo visto (capitolo Verso il climax). Per citare qui un
solo altro esempio, ecco cosa scriveva la diffusa rivista «Life» in un
editoriale di fine settembre, quando ancora non c’erano prove di basi
nucleari: «Il rafforzamento di armi di Kruscev a Cuba è un’insolente sfida
all’Emisfero Occidentale che per ora non ha portato ad alcuna risposta
adeguata dal presidente degli Stati Uniti. La Casa Bianca sembra
avviluppata in ciò che pare indecisione. […] Il Presidente deve agire, e lo
sollecitiamo ad invocare la dottrina Monroe» (la dichiarazione fatta nel
1823 dal presidente omonimo, in base a cui gli USA annunciavano che non
avrebbero reclamato voce in capitolo nelle vicende europee, ma parimenti
non avrebbero tollerato nuove intrusioni coloniali da parte di potenze
esterne nell’Emisfero Occidentale). «Cosa è successo alla dottrina Monroe?
[…] Essendo essa unilaterale, la dottrina ha sempre significato quel che gli
USA intendono che significhi, compreso che tipo di ‘colonizzazione’
intende vietare. Ma per significare qualcosa agli occhi di Kruscev, essa ha
bisogno di una definizione fresca. […] Kennedy deve al mondo questa
chiarificazione» 262. In realtà JFK, al di là di ogni dichiarazione pubblica,
non teneva quella dottrina in alcun conto, evidentemente considerandola
superata – non a caso essa non verrà menzionata neppure una volta nel suo
discorso del 22 263.
Ma ecco che appena la crisi scoppia, si assiste a un cambiamento, un
subitaneo riavvicinamento tra i due soggetti in questione. Stampa e governo
si riaccostano. Anzi, addirittura in quei giorni «l’amministrazione cercò di
usare la stampa come uno strumento di politica nazionale. Ad essa fu
richiesto di mantenere il segreto finché Kennedy potesse annunciare
drammaticamente la sua politica, e di lì in poi da essa ci si aspettò che
abbracciasse l’interpretazione governativa della faccenda. Con assai poche
eccezioni, reporter, direttori e columnist accettarono questa strategia. In
mancanza di spiegazioni alternative […] la stampa permise a Kennedy,
McNamara e altri funzionari di disseminare le loro opinioni senza repliche,
e perciò contribuì durante la crisi dei missili a una significativa espansione
del potere presidenziale» 264. Secondo un altro studio, «messi di fronte alla
prospettiva di guerra imminente, politici e giornalisti si radunarono intorno
a Kennedy come bambini spaventati, offrendo un supporto quasi
incondizionato» 265. Anche «Crimson», il quotidiano di Harvard, denunciò
l’assenza di critiche formulate dalla stampa, per cui Kennedy era «divenuto,
almeno per una settimana, il nostro leader infallibile» 266. Questi passi citati
colgono tutti una parte della realtà, ma a nostro avviso va sottolineato come
quel riavvicinamento sia stato spontaneo più ancora che indotto dal
governo. Dall’analisi della stampa nazionale, infatti, ciò che vediamo
emergere è un sentimento di istintivo radunarsi intorno al proprio leader in
un momento di grave pericolo per la nazione. Un patriottismo che appare
affiancato, ma non frenato, dalla compresenza di forti timori per i rischi
della situazione.
Si veda per esempio l’editoriale del «New York Times» del 23 ottobre.
La scoperta delle basi nucleari a Cuba, afferma il quotidiano, «altera
drasticamente la situazione». Dunque ora «drastica azione era richiesta. […]
Non è un’azione così drastica come molti americani vorrebbero prendere;
ma […] lodiamo il Presidente per la sua moderazione nel non andare oltre
un blocco parziale […]. Questo è in se stesso un passo considerevole, della
massima gravità; e il pubblico americano non dovrebbe essere illuso a
pensare che ciò non possa avere le più serie conseguenze. Tuttavia, […] alla
luce delle nuove circostanze scoperte il Presidente non avrebbe potuto fare
molto meno di ciò che ora ha fatto» 267.
Nei giorni successivi, gli editoriali del «New York Times» sostengono
apertamente la necessità, da ambo i lati, di negoziare e ricorrere alla
diplomazia per evitare «conseguenze letteralmente incalcolabili». «La
violenza non è la via per sistemare questa o altre dispute. […] Come questo
giornale ha reiterato più e più volte, la negoziazione è la via. […] Come ha
detto l’ambasciatore Stevenson: ‘Questo è un tempo per la diplomazia’.
Non è un tempo per il reciproco annientamento» 268.
Quanto al «Washington Post», i suoi editoriali non firmati di quei giorni
contengono posizioni così fedelmente affini all’evoluzione della linea
governativa che il Presidente non avrebbe avuto difficoltà a metterci la
propria firma. L’editoriale del 24 ottobre usa toni duri verso il Cremlino
(ammonendo tra l’altro l’URSS a mostrare nei Caraibi la stessa cautela
usata dagli USA in Ungheria nel 1956, quando non vi fu replica militare
all’intervento sovietico nella propria zona d’influenza); poi fa intravedere
delle possibili concessioni ai russi: prima generiche (25), poi esplicitamente
menzionanti le basi turche (28), sempre sostenendo le ragioni e il merito
delle posizioni assunte dal Presidente 269.
Un senso di consapevolezza del ruolo dell’America e delle sue
accresciute responsabilità di fronte al mondo è ciò che emerge invece
dall’autorevole «Christian Science Monitor». In questa crisi, si legge
nell’editoriale del 24 ottobre,
«Questo fa di voi un’arma da guerra fredda», dice il governo ai media, facendogli indossare il suo
cappuccio del controllo delle notizie 293.
Flotta USA comincia blocco di Cuba. («Los Angeles Times», Oct. 23, 1962, p. 1.)
Rapporto dal blocco: le navi comuniste girano. Khrushchev risponde – tono mite; Thant chiede
tregua di due settimane. («San Francisco Chronicle», Oct. 25, 1962, p. 1.)
Kennedy dice ‘No’ all’accordo di K. ‘Missili a Cuba in cambio di razzi in Turchia’ inaccettabile.
(«Boston Globe», Oct. 27, 1962, Evening, p. 1.)
(K naturalmente stava per: Kruscev). La lettura congiunta di questo titolo e dei due successivi rende
evidente come le notizie disponibili ai media e dunque al pubblico americano sulle fasi finali della
crisi possano aver incoraggiato deduzioni non suffragate dai termini reali dell’accordo conclusosi.
I missili se ne vanno! Kruscev decreta rimozione e smantellamento delle basi a Cuba. («Los Angeles
Times», Oct. 29, 1962, p. 1.)
I rossi indietreggiano su Cuba. («The Kansas City Times», Oct. 29, 1962, p.
1.)
Gli intellettuali
Ne lesse poi un’altra, Our doom to bloom (Il nostro destino di fiorire),
che si apriva con una significativa citazione del poeta americano Robinson
Jeffers: Shine, perishing Republic (Splendi, Repubblica morente). Frost la
introdusse dicendo: «È una poesia emozionante. È una poesia disperata. Ed
egli [Jeffers] ci parla di noi; egli dice: ‘Splendi, Repubblica morente’».
Una volta lettala, riallacciandosi al verso finale della poesia (che
recitava: «a meno che non preferisca avvizzire che svanire»), chiese ai circa
seicento ascoltatori presenti: «E noi, come Stati Uniti, avvizziremo piuttosto
che svanire? No, noi piuttosto svaniremo – affronteremo tutto» 315.
Un’affermazione volitiva, che si comprende meglio se si considera che –
come ha osservato uno dei suoi studiosi – Frost «riteneva che una delle
conseguenze pratiche dell’indecisione del liberalismo politico è che
incoraggia i convinti rivoluzionari imbevuti di ideologia totalitaria a credere
che le nazioni ispirate da un credo liberale non opporranno resistenza alla
loro aggressione» 316. Un concetto molto simile, guarda caso, a quello che
Frost aveva attribuito a Kruscev (il rischio cioè che gli USA fossero
diventati «troppo liberali per lottare» e che rimanessero fermi per un secolo
intero a dirsi: «da un lato…, ma dall’altro lato…») 317. «Frost in politica
ammirava la decisione e il coraggio, e preferiva vedere un uomo assumere
la posizione sbagliata piuttosto che rimanere paralizzato
nell’indecisione» . In questo senso appare dunque da intendersi la
318
posizione quasi di sfida di fronte agli eventi che egli assunse nel suo
intervento alla Library of Congress. Un atteggiamento che colpì molto, in
negativo, un altro importante poeta presente in sala, W.D. Snodgrass. Come
questi ricorderà decenni dopo, in un momento in cui «tutti ci aspettavamo di
essere fatti esplodere in pezzi di lì a qualche ora», Frost parlava «riferendosi
alla crisi in corso con una chiara aria di trionfo». Era a dir poco
«euforizzato dall’aria di scontro e […] vedeva la crisi come una
confutazione dei suoi critici liberali, una prova che la diretta asserzione e/o
minaccia di guerra nucleare ERA il modo giusto di gestire i conflitti
internazionali. Ma alcune delle osservazioni che fece suggerivano anche
che egli era lieto di non morire da solo – e che, per giunta, noi saremmo
morti non avendo la piena carriera che aveva avuto lui. A un certo punto
improvvisò: ‘Beh, non volevate semplicemente svanire, no? Perché allora
non andarsene in una fiammata di gloria?’ Veramente una presa in giro
crudele» 319.
Sempre in quei giorni, però, Udall notò anche che «Frost era stranamente
ottimista sull’esito» della crisi: «ammirava la reciproca moderazione dei
due leader, ed era sicuro che Kennedy e Kruscev l’avrebbero ‘risolta
pacificamente’» 320.
Un altro dei suoi biografi conferma che «Frost fu debitamente
impressionato dalla risolutezza del Presidente» nella crisi 321, tanto che
quando la crisi fu definitivamente chiusa, a fine novembre, Frost scrisse a
Udall per chiedergli di riferire a Kennedy, da parte sua, le seguenti parole:
«great going» (ben fatto). A suo avviso, infatti, tutto ciò che la situazione
richiedeva era decisione da parte americana. Parte del merito per la
risoluzione della crisi doveva però andare, secondo l’anziano poeta, anche a
Kruscev 322.
Appena poche settimane dopo, le sue condizioni di salute si
aggravarono, e di lì a poco, senza che JFK gli si fosse riavvicinato, Frost
morì 323.
Del tutto diverso il mondo letterario cui apparteneva Allen Ginsberg.
Voce tra le più celebri della controcultura americana, vita da poète maudit,
scritti provocatori, Ginsberg fu tra i massimi esponenti della Beat
Generation. All’epoca della CMC, lo scrittore si trovava in India (dove
peraltro era contemporaneamente in atto un’altra grave crisi militare, al
confine con la Cina). Nel suo peregrinare però egli teneva degli appunti, poi
pubblicati come Indian Journals, i diari indiani. Ecco cosa egli si appuntò il
24 ottobre, in una nota intitolata Rivolta delle macchine. «I sistemi di armi
impongono atteggiamenti, bollettini radio-tv comportano stili di linguaggio
e dichiarazioni, l’economia comporta abitudini di vita, ecc. – Ho ritagliato
oggi le dichiarazioni di Kennedy e della TASS [agenzia stampa sovietica]
sul blocco della crisi di Cuba e l’impersonale chiacchiericcio del
‘giornalese’ diplomatico suonava come metallici-meccanici-mediocri
computer di idee smerciabili provenienti da Nessunposto, come
un’astronave stazione telepatica librantesi sopra la terra, invisibile,
equipaggiata da fantascientifici attendenti di alluminio-diamante,
telecomando alla [maniera del] ‘trust di insetti giganti da un’altra galassia’
di Burroughs» 324. (William S. Burroughs era lo scrittore amico di Ginsberg
che aveva usato quest’espressione a proposito di un personaggio di un suo
libro) 325. Ciò che risalta da questo passo, pur di non immediata
interpretazione, è la prospettiva distaccata ed estetica con cui egli guardò ad
un fatto politico pur così concreto come la CMC. A ciò può aver contribuito
anche la sua momentanea lontananza geografica, ma probabilmente
anzitutto la sua visuale estetica prima che politica. Così nelle notizie della
CMC riportate dai media egli scorge non tanto i contenuti ma la forma:
l’aspetto linguistico, il modo di parlare computerizzato, proprio quasi di
esseri robotici, senza più nulla d’umano. Un’interpretazione visionaria, la
sua, senz’altro assai diversa da molte di quelle che incontreremo in seguito
da parte di altri intellettuali, statunitensi e di altri Paesi 326.
Altro poeta americano tra i più rinomati dell’epoca, anch’egli con una
vita da maudit, era Robert Lowell, fondatore della cosiddetta «poesia
confessionale». Già obiettore di coscienza durante la seconda guerra
mondiale 327, nel 1961 Lowell aveva saputo racchiudere in tre versi la
logorante tensione atomica dei mesi della crisi di Berlino 328. Nel 1962, con
uno scritto su «Partisan Review» aveva preso una netta posizione a favore
del disarmo e contro il «nazionalismo da crociata» 329. Le settimane della
CMC Lowell le passò invece in un ospedale psichiatrico di Hartford, nel
Connecticut, in quanto soggetto a ricorrenti disturbi mentali 330. Ne uscì ad
inizio novembre, apparentemente ristabilito, e alla vigilia di Natale scrisse
una lettera alla sua amica poetessa statunitense Elizabeth Bishop, residente
in Brasile, nella quale le raccontava le proprie percezioni della crisi. «Qui
[in USA] l’atmosfera è molto diversa dall’America Latina e molto diversa,
credo, anche dall’anno scorso. Noi tutti eravamo o molto eccitati o
spaventati a morte da Cuba, e poi sollevati. Ora improvvisamente non c’è
nessuna critica, e credo che nessun governo da quando io son vivo sia mai
stato meno odiato. Eppure sembra esserci un grande malessere nella nostra
cultura e una sorta di contentezza stordita riguardo al nostro posto nel
mondo. La scorsa notte mi sentivo come se avessimo rinunciato ad avere
convinzioni chiare [strong feelings] riguardo a noi stessi e avessimo lasciato
la cosa ai sudamericani» 331. In una lettera di un mese dopo, poi, egli
definiva il successo di Kennedy nella CMC «il più grande colpo di fortuna
di un giocatore d’azzardo» e, pur essendo ben lieto, da buon liberale, del
momento di quiete che la guerra fredda stava attraversando, confessava di
«avvertire stranamente che noi [USA] avessimo poco a che vedere con
ciò» 332. Detto altrimenti, nell’esito della CMC Lowell aveva visto più
fortuna che meriti, e nel successivo periodo di distensione, un
compiacimento nazionale stordito e privo di basi reali.
Chi invece aveva un’idea molto precisa sugli eventi in corso, tanto da
esprimerla pubblicamente sul «Washington Post», era il matematico James
R. Newman. Autore di una popolare storia della matematica in quattro
volumi, Newman era anche un saggista e proprio nel 1962 aveva pubblicato
The rule of folly (Il regno della follia), un pamphlet che si autodefiniva «un
potente e irato attacco contro le politiche nucleari e di civil defense che
stanno portando gli Stati Uniti verso l’autodistruzione» 366. Date queste
premesse, non sorprende che la sua reazione alla CMC sia stata di forte
dissenso. Nel suo lungo articolo sul «Post», infatti, Newman cominciava
schernendo (come già Hoppe sul «San Francisco Chronicle») i tentativi
«assurdi» della Casa Bianca di distinguere tra i propri missili in Europa e
quelli sovietici a Cuba definendo difensivi gli uni e offensivi gli altri («un
argomento che mi tratta come fossi un idiota»); poi criticava duramente sia
la provocazione sovietica sia la reazione americana, parlando di «psicosi
suicida di massa» diffusasi in USA e ricordando una dichiarazione di
Lyndon Johnson che alla vigilia della crisi aveva definito un eventuale
blocco navale «un atto di guerra». Infine concludeva in modo solenne: «Io
imploro gli uomini a ricordarsi della loro umanità e agire in base ad essa
prima che non rimanga altro che ceneri» 367. Al di là delle opinioni espresse,
il fatto che un intellettuale americano di vedute minoritarie rispetto
all’opinione pubblica nazionale potesse esprimere critiche così dure sul
prorio Paese e pubblicarle in quei giorni con largo spazio sul «Washington
Post» marca la differenza rispetto alla totale impossibilità di critica
consentita dal sistema sovietico.
che chi riceve questo premio offra commenti personali o dotti sulla
natura e la direzione della letteratura. Tuttavia in questo particolare
momento credo sarebbe bene considerare gli alti doveri e
responsabilità di coloro che fanno letteratura. […] L’umanità è
passata attraverso un grigio e desolato tempo di confusione. […]
L’attuale paura universale è stata il risultato di un’ondata in avanti
nella nostra conoscenza […] Ho letto la vita di Alfred Nobel
[inventore della dinamite, prima di fondare l’omonimo premio].
[…] Egli perfezionò il rilascio di forze esplosive, capaci di bene
creativo o di male distruttivo, ma mancanti di scelta, non governate
da coscienza o giudizio. Nobel vide alcuni dei crudeli e sanguinosi
abusi delle sue invenzioni. […] Credo che egli si sia sforzato di
inventare un controllo, una valvola di sicurezza. Credo l’abbia
trovata alla fine solo nella mente e nello spirito umano. Ciò per me
è indicato chiaramente nelle categorie di questi premi. […] Meno di
cinquant’anni dopo la sua morte, le porte della natura vennero
aperte e ci fu offerto il tremendo fardello della scelta. […] Timorosi
e impreparati, abbiamo assunto signoria sulla vita e la morte del
mondo intero […] Avendo acquisito poteri divini, dobbiamo
ricercare in noi stessi la responsabilità e la saggezza che un tempo
pregavamo potesse avere qualche divinità. L’uomo stesso è divenuto
il nostro più grande azzardo e la nostra sola speranza […] 377.
[…] Venne la Baia dei Porci. Non c’è bisogno di soffermarsi sulla
rabbia, l’indignazione, il senso di tradimento, ecc. ecc. che si provò.
[…] Kennedy aveva indubbiamente commesso uno dei più grandi
errori del secolo. Possiamo soltanto rallegrarci per il fatto che non
riparò all’errore spedendo sull’isola forze sufficienti per schiacciare
Castro. Cuba sarebbe ancora sotto le nostre forze d’occupazione;
tutti i giorni si troverebbero sulle colline corpi di soldati e marine
americani uccisi nelle imboscate tese dai guerriglieri. Tutta
l’America Centrale e l’America Latina graviterebbero
silenziosamente e costantemente verso i comunisti. Così si diede a
Kruscev la possibilità di commettere un errore non meno marchiano
di quello di Kennedy; quando i missili atomici furono spediti a
Cuba, Kruscev restituì all’America i cinquant’anni di vantaggio
politico che gli aveva dato Kennedy. Se ne potrebbe forse ricavare il
principio politico in base al quale un grosso errore turba
sufficientemente l’equilibrio politico per provocarne un altro.
Inoltre, prosegue Mailer, JFK dopo tutto aveva pur sempre l’evacuazione
garantita in un rifugio della Virginia. Esigenza politicamente comprensibile,
eppure «nessuno di noi può esser certo che la nostra protezione dalla morte
non ci lascerà segretamente indifferenti all’estinzione di un milione di altri
individui». E qui allora Mailer lancia una surreale provocazione.
In sostanza quel che sembra voler dire Mailer è che dagli uomini Dio
esigeva buon senso e coraggio, e il Demonio paura, e gli uomini avevano
ceduto alla paura; per questo in quei giorni essi restarono apatici, non
protestarono di fronte all’assurdità della situazione, sperando anzi
inconsciamente che una morte atomica collettiva evitasse loro il giorno del
Giudizio in cui rispondere di tale tradimento a Dio. Che le si giudichi
riflessioni profonde o, al contrario, astrusi intellettualismi di uno scrittore
vanitoso, quel che qui rileva è che i giorni della CMC suscitarono anche
riflessioni metafisiche di questa natura.
***
Chiudiamo con la musica. Come poteva l’arte dei suoni trovar posto
durante la più pericolosa e febbrile crisi nucleare? Una prima risposta
emerge dal «Washington Post»: «La musica ha trovato il modo di insinuare
il suo fascino risollevante tra alcuni dei più tesi momenti di diplomazia
internazionale della settimana scorsa» 393. La sera stessa del discorso
televisivo di Kennedy, infatti, diplomatici di tutto il mondo appena usciti
dal cupo briefing informativo al Dipartimento di Stato si erano spostati
nell’adiacente auditorium dell’edificio, per ascoltare suonare Isaac Stern. Il
celebre violinista russo naturalizzato americano, incontrando poco prima
dietro le quinte il critico musicale del «Post», lo aveva salutato così: «Che
notte, per la musica» 394. Salito poi sul palco, si era rivolto al pubblico di
diplomatici: «La musica è l’unica cosa che ha resistito lungo i secoli. E
forse questo è il momento per la musica» 395. Poi aveva attaccato a suonare
Bach, producendo quella che il critico del «Post» definì «musica del più
esaltato e glorioso ordine», con un «suono davvero radioso» 396. La sera
seguente, Ted Sorensen e alcuni colleghi della Casa Bianca erano seduti nel
box presidenziale della Constitution Hall ad ascoltare il Concerto n. 3 di
Rachmaninoff (anch’egli russo). Il pomeriggio del 24, poi, mentre il blocco
era appena entrato in vigore, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, prima di
riunirsi a discuterne, aveva dovuto attendere la fine del concerto celebrativo
dell’«UN Day» (l’anniversario della nascita delle Nazioni Unite), tenuto nel
Palazzo di Vetro dalla Leningrad Philarmonic Orchestra 397. Appena quattro
miglia più in là, nel quartiere afroamericano di Harlem, quella stessa sera il
soulman James Brown si esibiva nello storico Apollo Theatre e, investendo
tutti i suoi risparmi, registrava il proprio concerto. Da quei nastri sarebbe
nato Live at the Apollo, uno dei primi album registrati dal vivo, oggi
considerato tra i dischi più importanti nella storia della musica
americana 398. Sempre quel mercoledì sera, a Washington il cartellone
dell’Howard Theatre annunciava: «jazz con Miles Davis» 399. La paura di
una guerra nucleare, insomma, a quanto pare non aveva scoraggiato gli
artisti di alcun Paese o genere musicale dal fare il loro mestiere. A tutto ciò
va aggiunto che a Mosca, come si è visto, Kruscev aveva usato la propria
presenza al teatro dell’opera Bolshoi e il suo brindisi dietro le quinte col
tenore americano Jerome Hines per far filtrare all’estero un primo segnale
di distensione.
Ma al di là di queste intrusioni della musica ai margini della crisi,
significative reazioni ad essa arrivarono dal mondo della musica popolare
americana. Alcuni noti songwriter infatti misero in musica i propri stati
d’animo di fronte a quegli eventi. Come Phil Ochs, importante protest
singer degli anni Sessanta, autore di canzoni basate sui fatti d’attualità che
egli leggeva sulla stampa. Così questo sarcastico ed appassionato singing
journalist (come egli amava definirsi), tanto ammirato anche dall’amico-
rivale Bob Dylan, in occasione della CMC compose un pezzo molto
significativo, chiamato Talking Cuban Crisis.
Ciao Mamma,
Io esco a sganciare la bomba
quindi non mi aspettare.
Ma mentre soffochi
laggiù nel tuo rifugio
puoi vedermi nella tua tv.
***
2. Quanto poi alla stampa, si è visto qui come, dopo le critiche del
periodo precedente la crisi, vi sia stato un immediato riavvicinamento al
governo allo scoppio della stessa, manifestatosi perfino nell’accettazione
della richiesta presidenziale di mantenere il silenzio nell’imminenza della
crisi. Si può quindi condividere l’affermazione fatta dallo studioso William
LeoGrande che la stampa (e i media televisivi) «agirono come partner
consenziente nella strategia dell’amministrazione» 426. Durante il corso della
crisi, poi, la stampa rispecchiò in pieno il sostegno dell’opinione pubblica al
governo. E al termine di essa, a larghi tratti anche il trionfalismo. Tuttavia
da talune voci della stampa nazionale (si pensi all’editoriale del «Christian
Science Monitor», oltre che ai commenti di Lippmann e del «San Francisco
Chronicle») è emersa pure l’immagine di un Paese che si interroga sulla
propria posizione di leadership, sulle responsabilità e i rischi di eccessi
connessi al ruolo mondiale recentemente acquisito 427. Dopo la crisi, infine,
il dibattito accesosi sulla gestione strategica della diffusione di notizie da
parte governativa mostrò la comparsa delle prime crepe nel rapporto fin lì
confidenziale tra la stampa e la Casa Bianca, destinato negli anni seguenti
ad incrinarsi definitivamente.
Herman Kahn.
I ricordi delle mie ansietà riguardo alla crisi dei missili di Cuba
sono mischiati in modo incongruo con le reminiscenze dei miei
sforzi di imparare il biliardo. […] Diversi tra noi si erano
appropriati di uno scantinato nella Lowell House [storico edificio
all’interno dell’Università di Harvard] e lo avevano trasformato nel
nostro privato covo d’azzardo. Poker di notte, biliardo di giorno. E
così, durante quegli snervanti giorni d’ottobre, e specie dopo il
discorso di Kennedy rivelante la presenza di missili a raggio medio
e intermedio nel regno di Castro, io cercavo di allontanare dalla mia
mente i neri pensieri giocando un gioco che richiede di concentrarsi
al punto da divenire dimentico – almeno per il momento – della
possibilità che il mondo possa finire il giorno dopo. Ma non si può
giocare a biliardo tutto il giorno. […] Beh, grazie a Dio la crisi
passò […] Ci fu un generale sollievo (esemplificato da una coppia
che conoscevo che aveva già fatto le valigie ed era pronta a volare
in Nuova Zelanda, ma poi si calmò e diede un’altra chance alla
coesistenza) 21.
Gli eventi della CMC furono seguiti con particolare attenzione dal
grande filosofo politico francese Raymond Aron. Personaggio centrale
(insieme all’amiconemico Sartre) del dibattito intellettuale francese del
Novecento, Aron, che era amico personale di esponenti statunitensi quali
Bundy e Kissinger, espresse le proprie riflessioni sulla CMC in vari tempi e
sedi: nell’aggiornamento del suo corposo saggio politologico Pace e guerra
tra le nazioni 25, poi a distanza di un decennio, ma soprattutto a caldo, nei
numerosi ed elaborati articoli di commento pubblicati in quelle stesse
settimane sulla prima pagina del quotidiano «Le Figaro». Ecco alcuni passi
tratti da quegli editoriali.
Già il mattino del 24 ottobre Aron è pronto a presentare ai lettori francesi
esaurientemente quelli che sono a suo avviso i termini della crisi. La
decisione di JFK, scrive, «apre la crisi più grave che il mondo abbia
conosciuto da quando i due Grandi dispongono entrambi di un apparato
termonucleare». Poi afferma senza girarci intorno che «un blocco, benché
parziale, senza dichiarazione di guerra, non è previsto dal diritto
internazionale». Cioè è illegale. Allora «quale giustificazione propone il
presidente Kennedy per il suo atto? La giustificazione che è stata
tradizionalmente quella delle grandi potenze: l’installazione d’una base
militare offensiva a portata delle coste americane è una provocazione di
natura [tale] da modificare il rapporto delle forze e dunque mettere la pace
in pericolo». L’URSS non tollera forse che la sua piccola vicina, la
Finlandia, abbia un diverso regime, multipartitico, ma solo a condizione che
essa mantenga una sorta di neutralità politica? Si trattava insomma di
«finlandizzare» Cuba. Dunque «la posta di questa partita di poker all’ombra
dell’Apocalisse è ormai chiara. […] Kennedy ha rilevato la sfida e […] ha
chiesto a Kruscev di sacrificare non il regime fidelista ma le installazioni
militari dell’isola. Che prezzo esigerà Kruscev per questa concessione?».
Secondo Aron «bisogna attendersi una crisi prolungata» e confusa, tra
dibattiti ONU, discorsi dei leader e misure militari, «fino a un esito,
speriamo, pacifico».
Inoltre, egli prevede, ora «si risolleverà inevitabilmente la vecchia
querelle relativa alle consultazioni distinte dall’informazione. Poiché gli
alleati degli Stati Uniti possono essere colpiti dalle reazioni sovietiche, essi
non avrebbero dovuto essere consultati in anticipo? Rivendicazione difficile
tanto da rifiutare quanto da soddisfare. Nell’era termonucleare, la
diplomazia-strategia si confonde con l’arte di creare dei fait accompli.
Bisognava che Mosca fosse incapace di prevenire la decisione americana
[…] Una volta apertasi la crisi, il dovere dei paesi della NATO è chiaro: è
mantenendo la loro solidarietà che essi hanno la miglior possibilità di
ridurre i pericoli» 26.
Pochi giorno dopo, scrivendo a crisi ancora aperta, egli allargava lo
sguardo ai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo:
Un gran numero di Stati del Terzo Mondo, tra i quali stati africani di
solito favorevoli all’Occidente, hanno adottato un atteggiamento
ostile riguardo alle decisioni del presidente Kennedy. [in realtà Aron
esagera: l’atteggiamento del Terzo Mondo non era stato così critico,
NdA] […] Uno Stato sovrano non deve forse essere libero di
scegliere il proprio regime, i propri alleati, le proprie armi? […]
Questa reazione è comprensibile e tutte le ochette della stampa
mondiale hanno moltiplicato le variazioni su questo tema. Ma i
giornalisti e gli uomini politici, almeno quelli che sono capaci di
riflettere, riconosceranno domani la vera posta della crisi attuale: la
libertà che giustamente rivendicano gli Stati del Terzo Mondo di
scegliere il loro regime interno non è compatibile con la pace che a
condizione che tali Stati restino fuori della rivalità militare tra i due
Grandi e non cerchino di modificare le modalità dell’equilibrio
termonucleare.
Esempi di Stati che hanno già dovuto imparare a non sorpassare questi
limiti sono l’Ungheria, la Finlandia, l’Austria, la Norvegia. Così,
specularmente, «non è impossibile persuadere il governo americano che i
cubani hanno il diritto di preferire un certo socialismo, anche di ispirazione
sovietica (benché non si possa convincere Kruscev dei diritti del popolo
ungherese). Ma non è né possibile né desiderabile persuadere il signor
Kennedy o il popolo americano che devono adattarsi a delle rampe di
missili di lancio sovietiche al largo delle coste della Florida. Nessuna
grande potenza ha spinto il rispetto del diritto internazionale fino
all’accettazione passiva d’un pericolo percepito, a torto o a ragione, come
mortale».
«Kennedy, che aveva dichiarato poche settimane fa che non avrebbe
tollerato armi offensive a Cuba, era costretto ad agire, non foss’altro che per
convincere il signor Kruscev a non giudicarlo sulla base del fiasco
dell’invasione tentata e abbandonata nel 1961. L’equilibrio del terrore non
dipende solo dalle armi di cui dispongono i due Grandi, dipende dall’idea
che i due ‘K’ si fanno l’uno dell’altro. Se uno disprezza l’altro e lo crede
incapace di tenere una prova di forza, la catastrofe per malinteso diviene
possibile» 27.
Raymond Aron.
«La crisi cubana aprirà un periodo di relativa distensione o al contrario il
signor Kruscev cercherà altrove una rivincita spettacolare? La prima ipotesi
mi sembra più probabile della seconda. Il signor Kruscev ha appena
mostrato che egli resta un buon discepolo di Lenin, il quale raccomandava
di rifiutare le provocazioni e di non lasciarsi imporre il luogo e il momento
della battaglia». Aron aveva visto giusto, sia nel pronosticare l’inizio di una
fase distensiva da parte sovietica, sia nel richiamo a Lenin: come abbiamo
mostrato nella Parte prima, infatti, proprio al padre dell’URSS Kruscev si
era richiamato il 28 ottobre per spiegare al Presidium la necessità di
ritirarsi. Il leader sovietico, prosegue Aron, «ha compreso il pericolo
dell’ebbrezza del successo e dell’eccessivo disprezzo dell’avversario».
Ribadendo poi che Kennedy era stato costretto ad agire e che almeno in
parte «l’equilibrio del terrore […] dipende dall’idea che i due ‘K’ si fanno
l’uno dell’altro», Aron concludeva che «in tal senso, l’operazione
americana, poco compatibile col diritto internazionale e maledetta dai
pacifisti, contribuisce efficacemente alla pace» 28.
Come si vede, due sono i principali tratti caratterizzanti l’analisi di Aron:
lucidità e realismo. Gli stessi che ritroviamo anche nel successivo articolo,
significativamente intitolato Realtà e finzioni del diritto internazionale.
«Questa quarantena era legale?» torna a chiedersi Aron. «La verità è che il
mondo nel quale viviamo differisce fondamentalmente da quello che
progettavano i redattori della Carta [dell’ONU], e che il diritto
internazionale effettivo non ha che dei rapporti lontani col diritto
internazionale teorico. […] L’equilibrio militare tra i due blocchi, che la
Carta non prevedeva […], è ormai ammesso, tanto a Mosca quanto a
Washington, come un dato permanente». Di nuovo, i casi di Austria,
Norvegia e Finlandia son lì a mostrare «questo privilegio, tradizionale e
cinico, delle grandi potenze di imporre dei limiti all’azione dei piccoli», ed
è lì che risiede «l’effettivo fondamento dell’azione americana. Questo
diritto o pseudodiritto è sicuramente anteriore alla Carta, avrebbe dovuto
essere eliminato dalla Carta se essa fosse stata applicata, ma ‘essendo le
cose quel che sono’, il problema dell’equilibrio deve, nell’interesse della
pace, avere la meglio sul rispetto delle formule». Insomma, in quello che
Aron definisce «diritto internazionale reale», gli USA hanno chiarito che
c’è «una distinzione radicale tra il diritto al socialismo e il diritto alle armi
termonucleari» 29.
È interessante infine notare, con l’ausilio del saggio di George-Henri
Soutou, come le ripetute riflessioni sulla CMC portino Aron ad una
progressiva evoluzione delle sue vedute, in un senso crescentemente affine
all’amministrazione Kennedy 30. E sì che prima della crisi egli aveva avuto
modo di criticarlo, sia privatamente 31 sia pubblicamente, con una «lettera
aperta al presidente Kennedy» pubblicata su «Le Figaro» a proposito della
crisi di Berlino (lettera riguardo alla quale l’amico Kissinger gli aveva poi
scritto, divertito: «Mi è piaciuta molto la tua lettera aperta a Kennedy di
settembre, anche se conosco alcune persone che l’hanno apprezzata un
pochino meno, compreso il destinatario») 32. Poi però la CMC arriva e
conferma le convinzioni di Aron sulla natura del sistema internazionale. Il
suo esito inoltre spalanca forti (e positive) conseguenze politiche anche di
lungo termine. Così a fine novembre Aron, rivisto Kissinger, torna a
scrivere su «Le Figaro»: «uno dei miei amici americani, consigliere
intermittente dell’amministrazione [si tratta appunto di Kissinger, NdA], mi
diceva pochi giorni fa: ‘Che fortuna ha avuto il Presidente che il signor
Kruscev abbia commesso un tale svarione!’. Al che io risposi, citando i più
illustri capi di guerra, che la strategia diventerebbe un’arte impossibile se
non si potesse contare sugli errori dell’avversario. E aggiunsi che, malgrado
tutto, il signor Kennedy aveva avuto qualche merito nell’agire poiché la
maggior parte della stampa britannica fu violentemente ostile alla
‘quarantena’ […]» 33.
Quando poi, all’inizio del 1963 si attua discretamente il ritiro dei missili
NATO dalla Turchia e dall’Italia, Aron (sempre su «Le Figaro») smentisce
nettamente i sospetti diffusi tra gli europei che ciò sia frutto di un qualche
«accordo clandestino» concluso tra Washington e Mosca. Lo stesso fa
privatamente, in una lettera a Bundy 34. Ma sul punto, come è ormai noto, le
voci di corridoio erano assai più vicine al vero dell’illustre politologo
francese.
Nato in Germania nel 1904 ed emigrato negli USA negli anni del
nazismo, Hans J. Morgenthau è considerato uno dei massimi teorici delle
relazioni internazionali del Novecento. Il suo saggio Politics among
nations, del 1948, lo ha reso un pilastro fondamentale della cosiddetta
scuola «realista» della teoria delle relazioni internazionali. Un approccio,
questo, che si ritrova anche nel suo modo di osservare il problema cubano e
la crisi dei missili.
Scrivendo nel marzo del 1962 sul «New York Times Magazine», egli si
chiedeva: L’opinione pubblica mondiale è un mito? E la risposta che dava
era affermativa. «Gli Stati Uniti sono stati, in tutta la loro storia,
particolarmente preoccupati dell’opinione pubblica, a casa e all’estero.
Tocqueville chiamava l’opinione pubblica ‘l’autorità predominante’ in
America e la fede in essa ‘una specie di religione’». Da allora le cose non
sono molto cambiate: «quando l’anno scorso [alla Baia dei Porci] gli Stati
Uniti hanno rifiutato di impiegare truppe americane all’invasione di Cuba –
un’azione che, diciamo cinquant’anni fa, sarebbe stata presa quasi come
una procedura ordinaria – ciò fu motivato in buona misura dalla paura
dell’opinione pubblica mondiale» 39. Convinzione, questa, che troviamo
Morgenthau ribadire pure in una lettera privata di pochi giorni dopo 40.
Prosegue allora l’articolo: «Cos’è questa cosa chiamata ‘opinione pubblica
mondiale’, che nessuno ha mai visto o toccato, che non ha né ambasciatori
né armate, ma ha un modo di prevalere a volte sopra entrambe?». La realtà
dell’umanità, «lungi dal fornire prove dell’esistenza di un’opinione
pubblica mondiale, dimostra piuttosto la sua impossibilità […]». Perfino
considerando un tratto condiviso universalmente come «l’avversione alla
guerra», infatti, «l’opinione pubblica mondiale si divide nelle sue
componenti nazionali, quando il punto non è più la guerra in sé, in astratto,
ma una guerra particolare […] Ciò a cui possiamo riferirci quindi è solo un
numero di opinioni pubbliche nazionali […]». Perciò, conclude il politologo
tedesco naturalizzato americano, «invece di soddisfare una ‘opinione
pubblica mondiale’ che come tale non ha realtà, potrebbe essere un inizio di
saggezza occuparsi delle varie opinioni pubbliche nazionali» 41. A
cominciare naturalmente da quella statunitense, era il suggerimento
implicito nell’articolo di Morgenthau.
Si arriva poi all’autunno, e alla vigilia della scoperta dei missili
Morgenthau ribadisce queste sue critiche all’esitazione mostrata nella Baia
dei Porci 42 e conclude invocando anch’egli una qualche forma di azione.
Appena dopo la crisi dei missili di Cuba, i giorni del 1962 in cui il
mondo fu sull’orlo della guerra atomica, m’imbattei per strada nella
mia insegnante Hannah Arendt. La crisi dei missili l’aveva scossa,
come chiunque altro, ma aveva anche confermato le sue più
profonde convinzioni. Nella Condizione umana, lei aveva sostenuto
pochi anni prima che il costruttore, o qualsiasi fabbricante di oggetti
materiali, non è padrone della sua stessa casa; la politica, restando al
di sopra del lavoro fisico, deve fornire la guida. Lei era giunta a
questa convinzione dal tempo in cui il progetto Los Alamos aveva
creato le prime bombe atomiche nel 1945. Ora, durante la crisi dei
missili, anche gli americani troppo giovani per la seconda guerra
mondiale avevano avvertito la vera paura. Faceva un freddo gelido
sulla strada di New York, ma la Arendt ne era dimentica [del gelo].
Voleva che io traessi la lezione giusta: le persone che fabbricano le
cose di solito non comprendono ciò che stanno facendo 51.
Hannah Arendt.
***
Conclusioni
Alessio I, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, primate della Chiesa ortodossa russa.
Una dura critica rispetto al blocco deciso dagli Stati Uniti fu espressa
anche dal leader della Chiesa cattolica apostolica brasiliana (Igreja
Catòlica Apostòlica Brasileira: ICAB), una chiesa locale separatasi da
Roma nel 1945 e contraddistinta da un maggior radicalismo. Da Rio, il suo
primate, monsignor José Aires da Cruz, dichiarò, come riportato dalla
stampa cubana, che il blocco americano era «un atto di grossolana
violenza» 13.
***
Veniamo dunque agli Stati Uniti, di cui abbiamo già illustrato varie
reazioni attinenti alla sfera religiosa nella parte dedicata a quel contesto
nazionale. Si tenga presente che nella società statunitense la religione ha
sempre avuto una presenza particolarmente forte 27 e ha giocato un ruolo
notevole come fattore identitario e politico specie nei primi anni della
guerra fredda, nei quali la fiera opposizione al comunismo ateo portava
l’America a riconoscere la sua diversità appunto nella propria religiosità,
vivendo la guerra fredda come una sorta di crociata, come mostrato dalla
recente storiografia culturale 28. Per queste ragioni, vari studi hanno cercato
anche di mettere a fuoco le complesse e variabili relazioni d’influenza tra
appartenenze religiose e linee di politica estera, sia presso l’opinione
pubblica sia nelle leadership 29.
Nei mesi precedenti la CMC, inoltre, tra i teologi americani si stava
sviluppando un dibattito sui gravi dilemmi etici posti dalle nuove armi
termonucleari e dalle politiche ruotanti intorno ad esse 30. E per una
interessante coincidenza, proprio negli ultimi giorni della crisi veniva
presentato al pubblico il risultato di uno studio sul rapporto tra Chiesa e
guerra nucleare, elaborato nell’arco di un anno da un comitato di
ventiquattro esponenti episcopali, sia preti sia laici. Secondo le conclusioni
di tale studio, «la Chiesa deve proclamare la condanna categorica della
guerra aperta, totale [eufemismo per: guerra nucleare]. Nelle condizioni
moderne, una simile guerra non può servire alcun fine morale e neppure
utile». Tuttavia, si aggiungeva a margine della presentazione del rapporto il
29 ottobre, da un lato gli USA dovevano necessariamente mantenere un
forte arsenale nucleare come deterrente finché il disarmo generale non fosse
divenuto fattibile; dall’altro, una guerra limitata poteva invece avere il
completo appoggio della Chiesa episcopale, purché fosse combattuta con
«obiettivi quanto più chiaramente definiti. Dobbiamo avere la disciplina e
l’autocontrollo di dire specificamente quali sono i nostri obiettivi e attenerci
a quelli quando sono stati ottenuti. Dobbiamo fare proprio come abbiamo
fatto a Cuba: andarci, lottare per vincere, e poi fermarci» 31. Un
lasciapassare così formulato, si potrebbe osservare, era abbastanza ampio da
legittimare non solo l’operato della Casa Bianca nella CMC ma di fatto
qualsiasi guerra non nucleare (presente o futura), compresa naturalmente
un’invasione di Cuba per togliere di mezzo i missili. Sfuggiva,
evidentemente, anche a molti ecclesiastici tra i più preparati, che dopo una
simile invasione i rischi di definitiva escalation nucleare (anche
involontaria) sarebbero saliti alle stelle, dimostrando illusoria la pretesa di
potersi fermare a piacimento, «attenendosi» ad obiettivi prefissati a
tavolino. Come in quei giorni Kruscev aveva scritto segretamente a
Kennedy, «se davvero una guerra dovesse scoppiare, non sarebbe in nostro
potere fermarla. Perché tale è la logica della guerra» 32.
A presentare alla stampa questo rapporto e ad aggiungervi oralmente
quei distinguo (che non a caso ebbero subito il sopravvento sui restanti
contenuti del rapporto, venendo scelti come titolo sul «New York Times»),
era stato il reverendo William G. Pollard. Particolare rilevante, Pollard era
sia un pastore episcopale sia un fisico nucleare. Già prima di prendere i voti
infatti egli aveva partecipato al Manhattan Project che aveva realizzato la
prima atomica e al momento della CMC era direttore esecutivo di un
importante Istituto di studi nucleari (a Oak Ridge, Tennessee). Il suo profilo
perciò era a metà tra le due categorie di scienziato e religioso, tanto che egli
dedicò vari libri al complesso rapporto tra le due forme di conoscenza e
comunità, uno dei quali intitolato appunto Fisico e cristiano.
Ad ogni modo, a conferma di una certa diversità di vedute esistente
anche all’interno delle medesime confessioni, si ricorderà dal capitolo Stati
Uniti d’America che due giorni prima il Presidente della Chiesa episcopale,
reverendo Arthur Lichenberger, si era invece detto contrario a un’invasione
unilaterale di Cuba, aggiungendo che, nella crisi in corso, «i cristiani
dovrebbero evitare parole sconsiderate e azioni precipitose» e che «l’amara
lezione della crisi attuale è che gli Stati nazionali non possono più
permettersi di giocar d’azzardo col futuro della civiltà umana» 33.
[…] All’apice della crisi un bel po’ di gente – tra cui alcuni che
prima non avevano mai dato molta attenzione alla situazione
internazionale – dovettero affrontare il fatto che le armi
termonucleari sono ‘per davvero’, che esse potrebbero, e a quanto
pare stavano per, essere usate, e che la situazione stava diventando,
per dirla col Presidente stesso, ‘ingestibile’ [unmanageable].
Abbiamo avuto l’esperienza di stare sull’orlo della guerra nucleare,
sebbene senza cadere o venir spinti dentro l’abisso. E per un periodo
lo stato d’animo prevalente non fu: ‘Ciò che è successo all’apice
della crisi non deve mai più succedere; una volta è stata
abbastanza’, ma piuttosto: ‘Se possiamo arrivare all’orlo una volta e
non sorpassarlo, potremmo farlo una seconda, una terza, o chissà
quante altre volte’. Non pochi americani erano perfino dell’opinione
che avessimo trovato una formula per tenere la situazione sotto
controllo – una formula combinante durezza, astuzia e fortuna.
Ciò che viene perso di vista in questo atteggiamento è la natura
della decisione che ha caratterizzato la crisi al suo apice. Il
Presidente si è incaricato, per conto del governo e del popolo, di
rischiare la guerra nucleare […]
Seguivano i nomi dei sette firmatari 49, tra cui, ultimo, compariva anche il
tedesco naturalizzato americano Paul Tillich, settantaseienne professore di
teologia ad Harvard, oggi considerato uno dei più grandi teologi di tutto il
Novecento.
Accanto a Tillich, tra gli scelti firmatari di questa importante
dichiarazione compariva anche un altro nome fondamentale della teologia
novecentesca: Reinhold Niebuhr. Definito da Schlesinger «il più influente
teologo americano del XX secolo» 50, molto letto e ammirato da Martin
Luther King, e recentemente citato anche da Obama come «uno dei miei
filosofi preferiti» 51, Niebuhr esercitò sul pensiero politico novecentesco
un’influenza profonda. «Nessun uomo», diceva di lui Schlesinger, «ha
avuto tanta influenza, come predicatore, su questa generazione e nessun
predicatore ha mai influito tanto sul mondo laico». «Con lui», aggiunse
l’illustre collega Emil Brunner, «la teologia fece irruzione nel mondo: non
era più tenuta in quarantena e letterati, filosofi, storici e persino uomini
politici cominciarono a prestarle attenzione» 52. Occupatosi molto del
concetto di «guerra giusta», Niebuhr relativamente ai rapporti tra morale
religiosa e teoria politica viene considerato il massimo rappresentante della
scuola di pensiero detta del «realismo cristiano» 53. Vigorosamente
interventista durante la seconda guerra mondiale, il «realista» Niebuhr
condannerà però con durezza la successiva guerra del Vietnam 54. Come,
allora, si espresse egli in merito alla CMC? Non solo firmando l’importante
dichiarazione pubblica appena illustrata, ma anche con un articolo di taglio
prettamente politico, pubblicato poche settimane dopo sulla rivista «New
Leader».
***
Gli Stati Uniti – egli scrive nella sua prefazione alle Cold War
letters – nella guerra fredda sono in grave pericolo di cessare
d’essere ciò che rivendicano di essere: la casa della libertà. […]
Questo Paese è divenuto francamente uno Stato bellicista [warfare
state] […] C’è stata soprattutto una tendenza all’isolamento sotto
uno spesso strato di disinformazione e distorsione, cosicché
l’opinione maggioritaria negli Stati Uniti è adesso una visione
altamente semplicistica e mitica del mondo diviso in due campi:
quello dell’oscurità (i nostri nemici) e quello della luce (noi stessi).
[…] Tutto ciò che il nemico fa è diabolico e tutto ciò che noi
facciamo è angelico. Le sue bombe H vengono dall’inferno e le
nostre sono strumenti di giustizia divina [Torna qui la denuncia del
manicheismo di cui abbiamo parlato nel capitolo sugli USA: si veda
pp. 174, 197, NdA]. Ne consegue che noi abbiamo una missione
d’origine divina di distruggere questo mostro infernale ed ogni
passo che compiamo per farlo è innocente e perfino santo.
Interessante poi notare come, con precisione inconsapevole, via via che
le pagine del diario di Merton si avvicinano al momento in cui scoppierà la
CMC, esse fissino su carta impressioni di un clima sempre più
surriscaldato. «27 febbraio 1962. Da un punto di vista umano e razionale
c’è ogni probabilità di una guerra disastrosa entro i prossimi tre o cinque
anni. Benché sia quasi incredibile immaginare questo Paese venir ridotto
alla desolazione, è ciò che molto probabilmente accadrà. Senza ragioni
serie, senza che la gente ‘lo voglia’, e senza che essi siano in grado di
prevenirlo» 86. Arriva l’estate e Merton annota: «Finora (agosto 1962) ci
sono stati 106 esperimenti nucleari dall’inizio della loro ripresa (un anno
quasi). […] Totale degli esperimenti effettuati fin dall’inizio: USA 229,
URSS 86, Inghilterra 22, Francia 5. Totale generale: 342 esperimenti
nucleari, di cui 282 nell’atmosfera. Andiamo bene, ragazzi!» 87.
Qualche settimana dopo, alla vigilia della CMC:
Appena pochi giorni dopo, ecco che puntuale arriva la crisi. Nei suoi
diari, pubblicati postumi, si ritrovano annotati dapprima altri segnali di
tensione mentre la CMC già andava montando segretamente nell’ExComm;
poi alcune frammentarie impressioni iniziali sugli eventi in corso, per quel
poco che le notizie gli giungevano in monastero; quindi, a crisi risolta e con
più informazioni, una parziale riconsiderazione delle sue impressioni
iniziali.
Infine, due sue riflessioni più distaccate sulla CMC emergono da lettere
indirizzate, nella successiva primavera, a due illustri destinatari.
La prima è quella per Ethel Kennedy, la moglie di Robert Kennedy.
Merton le spiega, con la consueta ironia: «Ho scritto un libro sulla pace che
i Superiori hanno deciso che dovrei seppellire circa dieci piedi sotto terra,
da qualche parte dietro il monastero, eppure io non penso sia così malvagio.
[…] gliene mando una copia, solo per archivio, o chissà, magari il
Presidente potrebbe metter da parte cinque minuti per guardarlo 92. […]
Nell’affare di Cuba ci è mancato poco, ma date le circostanze credo che
JFK l’abbia gestita molto bene. Dico nelle circostanze perché solo uno
sguardo a breve termine alla cosa rende molto felici. Era una crisi e
qualcosa doveva essere fatto e c’era solo una scelta di vari mali. Lui ha
scelto il male minore, e ha funzionato. L’intera faccenda continua ad essere
disgustosa» 93. Lo stesso Kennedy, uscito dalla crisi come un uomo politico
sensibilmente diverso da quello che v’era entrato, non avrebbe avuto
difficoltà a concordare su questa dichiarazione.
La seconda lettera in questione, infine, è una risposta al rinomato
filosofo cattolico francese Jacques Maritain, che pochi giorni prima gli
aveva scritto sottoponendogli alcune proprie riflessioni sul dilemma posto
all’etica cristiana dalle politiche di deterrenza nucleare: Maritain gli
spiegava di non sentirsela di condannare tali politiche, «fin tanto che non si
avrà un governo mondiale (o almeno di un serio patto che assicuri che
nessuno ne fabbricherà più)», di «queste armi diaboliche» 94. Merton gli
risponde concedendo che in effetti al momento la detenzione di armi
nucleari è «inevitabile», ma il problema è più ampio:
Spedito Russo negli USA 1 e presenziata poi la riunione del 23, Piccioni
si concesse lo svago di una visita pomeridiana al campo di battaglia di
Waterloo 2; dopodiché tornò a Roma la mattina del 24. Ducci venne a sapere
del ritorno in Italia dall’usciere del ministro, che, mentre ne preparava i
bagagli, glielo annunciò così, «con un accento trasteverino più greve del
solito» che ne svelava l’irritazione: «‘Ma come? […] non ne sa niente? Ci
hanno fatto sape’ che dobbiamo torna’ a Roma. Ma, dico io, non ce
potevano lassa’ qua? Che ci andiamo a fare a Roma, a salvare il mondo?
Ma quando se renderanno conto che c’abbiamo così poco da di’?’» 3.
L’usciere del ministro però, col suo simpatico disincanto trasteverino,
quella volta si sbagliava. Il ruolo dell’Italia nella CMC non sarebbe stato
poi così inutile.
La politica
Come illustrato nella Parte prima del volume, alla Casa Bianca nella fase
segreta della crisi vennero esaminate varie linee d’azione e le probabili
reazioni sovietiche a ciascuna di esse. In tali discussioni, emerge
chiaramente nell’ExComm fin dal primo giorno come tra gli obiettivi più a
rischio di rappresaglia ci sia proprio l’Italia. I missili NATO posizionati sul
suo territorio – precisamente trenta Jupiter a raggio intermedio, sparsi in
dieci basi tra gli altipiani pugliesi e lucani delle Murge, in posizione tanto
visibile quanto vulnerabile 4 – la rendono, insieme ai quindici Jupiter turchi,
tra i bersagli militarmente e politicamente più adatti per una dura reazione
sovietica. I documenti preparatori americani per il piano d’attacco aereo
sulle basi cubane menzionano infatti esplicitamente, tra le reazioni
sovietiche attese, minacce e possibili attacchi contro «l’Italia, la Turchia o
Berlino» 5.
Gli Jupiter erano stati offerti dagli USA agli alleati europei nella
riunione del Consiglio NATO del dicembre 1957. Nei mesi successivi
l’Italia di Fanfani li aveva accettati per un misto di deferenza verso la
richiesta di Washington e di desiderio di ottenere maggior prestigio tra i
paesi dell’Alleanza acquisendo uno status nucleare. Al presidente
Eisenhower Fanfani aveva chiesto però che l’operazione venisse presentata
«quasi come un episodio di routine di natura militare», nel chiaro intento di
attirare meno attenzione possibile 6. Tanto che la questione era stata poi
regolata con uno scambio di note diplomatiche, anziché con un apposito
accordo o trattato, al fine di non dover ottenere approvazioni o ratifiche dal
Parlamento 7. Difatti, quando la questione era stata discussa in aula (in
seguito a interpellanze o a fughe di notizie sui negoziati in corso), non
erano mancate – da parte di parlamentari PCI e PSI – denunce della poca
trasparenza governativa sull’argomento, oltre a moniti sui rischi di attacchi
che quei missili avrebbero comportato in caso di conflitto. In una di queste
interrogazioni parlamentari, il ministro della Difesa e futuro presidente
della Repubblica Antonio Segni aveva difeso la scelta governativa di
accogliere i missili minimizzandola come un semplice ammodernamento
dell’arsenale, in funzione deterrente, e, pur precisando di non poterne
divulgarne dislocazione e numero («del resto limitato»), aveva rassicurato
che non c’era da temere che i missili attirassero rappresaglie (anche per la
loro «scarsa vulnerabilità») 8. In realtà i rischi non erano affatto assenti,
come dimostrano le summenzionate previsioni stilate da Washington
durante la CMC, oltre ai ricordi dell’ambasciatore USA a Roma 9 nonché le
esplicite, seppur strumentali, minacce di rappresaglia rivolte da Kruscev
proprio in faccia a Segni nel 1961 10.
Oltre che come bersaglio militare, nella CMC le basi italiane appaiono
subito importanti anche come possibile oggetto di contropartita per ottenere
la rimozione delle basi da Cuba. E in tal senso l’ExComm appare subito
disposto a pagare un prezzo del genere 11. Lo stesso Kennedy, come visto, il
20 ottobre assicura a Stevenson che benché non sia il caso di offrirlo fin
dall’inizio, al momento opportuno e su richiesta sovietica gli USA
avrebbero dovuto dirsi d’accordo a rimuovere le proprie basi da Turchia e
Italia. Il 22 poi lo stesso JFK ordina di prendere precauzioni speciali per
scongiurare lanci non autorizzati di quei missili, «anche nel caso di un
attacco nucleare […] contro queste installazioni da parte dell’Unione
Sovietica come risposta ad azioni che noi possiamo intraprendere
altrove» 12. A tal proposito va aggiunto che secondo la recente testimonianza
del generale Genta, comandante della 36 a Aerobrigata che controllava i
missili, nei giorni della CMC le basi italiane passano dallo stato di allarme
livello 3 (Stand by) al livello 2 (Ready to fire). L’ordine, proveniente dal
comando NATO, non sposta nulla in termini operativi, giacché i missili
erano sempre pronti al lancio in quindici minuti, ma può leggersi come un
segnale politico di fermezza rivolto dalla NATO all’intelligence sovietica 13.
Nel frattempo, gli ambasciatori USA in Italia e Turchia cominciano a
sondare discretamente quali sarebbero le reazioni dei rispettivi Stati ad
un’eventuale richiesta di rimozione dei loro missili. Le due risposte,
secondo il riassunto che ne fa Bundy all’ExComm, contrastano «come la
notte e il giorno» 14. Da Roma infatti l’ambasciatore ha scritto nel suo
telegramma che «probabilmente si potrebbe fare», purché l’operazione
venga «maneggiata con cura» (cioè condotta consultando il governo
italiano, presentata come un contributo italiano alla distensione, e così
via) 15; inoltre sempre nella riunione del 27 McNamara fa presente
all’ExComm che lo stesso ministro della Difesa Andreotti gli ha detto
appena poche settimane prima che «gli italiani sarebbero felici di
sbarazzarsene, se noi li vogliamo togliere» 16. Viceversa da Ankara
l’ambasciatore ha avvisato che la cosa presenterebbe seri problemi, in
quanto i turchi tengono molto ai missili e il ritiro verrebbe visto come un
mercanteggiamento a spese della loro sicurezza; il telegramma da Ankara
aggiunge però che, ove fosse proprio necessario, una parallela rimozione
dall’Italia «avrebbe reso più facile l’approccio col governo» turco 17. Difatti,
come visto, il 27 pomeriggio McNamara suggerisce all’ExComm proprio
questa mossa (togliere i missili italiani per far pressione su una rimozione
analoga di quelli turchi), e il Presidente si dice subito favorevole all’idea 18.
Così, per quanto la lettera di Kruscev (e l’assicurazione segreta fornita
quella sera da Bob Kennedy a Dobrynin) si limiti alle basi in Turchia, anche
i missili italiani di fatto entrano indirettamente nel pacchetto di misure che
diventa necessario prendere per risolvere la crisi di Cuba 19. Questa dunque
la prima conseguenza della CMC sull’Italia. Grazie a questo doppio ritiro,
come ha scritto lo storico Freedman, «ogni diretta relazione con la Turchia
venne oscurata dalle mosse parallele con l’Italia» 20. Naturalmente un tale
diretto legame con la CMC verrà poi negato dalla Casa Bianca in ogni sede
– perfino privatamente allo stesso Fanfani 21 – e l’operazione verrà
presentata al pubblico come un semplice ammodernamento dell’arsenale
nucleare NATO (cosa che era pur vera, giacché i sostitutivi Polaris, essendo
sistemati su sommergibili di stanza nelle acque del Mediterraneo,
garantivano, rispetto agli Jupiter, minore vulnerabilità). Ma di fatto, come
riporta Kissinger nel corso di un suo viaggio a Roma all’inizio del 1963,
«‘quasi tutti’» gli esponenti italiani con cui egli aveva parlato «sospettavano
che il ritiro potesse essere conseguenza di un accordo degli USA coi russi».
Il presidente della Repubblica Antonio Segni arrivò a lamentarsi
esplicitamente con Kissinger «che la decisione USA sul ritiro era stata presa
a quanto pare durante la crisi cubana e l’Italia era stata informata solo tre
mesi dopo» 22. In ogni modo, entro il 1° aprile 1963, come previsto, il ritiro
degli Jupiter dalla Puglia era stato ultimato. Tappe principali
dell’operazione erano state: un colloquio tra i due ministri della Difesa
(McNamara e Andreotti) al Consiglio Atlantico a Parigi il 13 dicembre
1962 23; una lettera tra i due che metteva per iscritto la richiesta, in data 5
gennaio 1963 24; il viaggio di Fanfani a Washington, dieci giorni dopo, in
cui il Primo Ministro italiano discute ed accetta le modalità della rimozione.
Fanfani però viene a sapere dell’intenzione americana solo dopo la seconda
di queste tappe, come egli non manca di annotare, furente, nei suoi diari
privati (9 gennaio 1963): «Andreotti ha comunicato a me e a Piccioni
insieme di aver saputo a metà dicembre a Parigi da McNamara che gli USA
desiderano ritirare le basi missilistiche dalla Turchia e dall’Italia. Alcuni
giorni fa di ciò McNamara ha anche scritto ad Andreotti determinando la
data del ritiro il 1° aprile. […] Piccioni ed io ci riserviamo di riflettere per la
novità tenutaci nascosta per oltre venti giorni dal M. della Difesa» 25.
[a che riunione alludesse con Fanfani, Bernabei nel libro non lo dice, ma
noi lo vedremo tra breve].
Primavera 1963: uno dei trenta Jupiter smantellati viene trasportato all’aeroporto di Gioia del
Colle.
Riflessi sulla politica interna. Da Nenni a Craxi, il PSI osservato speciale
La CMC ebbe riflessi importanti anche sul piano della politica interna.
Per comprenderlo bisogna considerare il particolare momento di passaggio
che stava attraversando l’Italia nel 1962. Nel pieno del suo «miracolo
economico», che ne stava profondamente mutando realtà, strutture e
mentalità, la Repubblica stava cercando di ridisegnare anche i suoi equilibri
politici. La Democrazia cristiana era sempre saldamente al potere ma, ormai
esauritasi la stagione del «centrismo», cercava di estendere il suo appoggio
parlamentare includendovi anche il Partito socialista, guidato dal suo leader
storico Pietro Nenni. Questa svolta, definita «apertura a sinistra», aveva
com’è noto il doppio scopo di attuare una politica più riformista e di isolare
il Partito comunista, antico alleato dei socialisti, ancora elettoralmente
molto forte. Si trattava però di un’operazione politica tutt’altro che
semplice, apertamente avversata da molti e guardata con sospetto da molti
altri, tanto in Italia quanto all’estero. Tuttavia il progetto stava ormai
maturando, e il governo in carica al momento della CMC contava già
sull’astensione dei parlamentari socialisti (anche se non ancora sul loro voto
favorevole), in quel che si chiamava «appoggio esterno». Il governo
presieduto dal democristiano Fanfani si reggeva quindi sulla maggioranza
formata, oltre che dalla DC, dai partiti Liberale e Repubblicano a destra, e
da quello Social-democratico a sinistra. Come esaustivamente ricostruito
dal saggio di Nuti Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Washington
osservava da tempo con estrema attenzione l’evoluzione di quelle
dinamiche italiane. Contrari sotto Eisenhower, con l’amministrazione
Kennedy e via via che i tempi apparivano più maturi gli USA iniziarono a
guardare al possibile esperimento italiano del centro-sinistra con maggior
simpatia. Sussistevano però in merito fortissime resistenze e una pluralità di
vedute. Tra i favorevoli si contavano molti esponenti della Casa Bianca, tra
cui Schlesinger, Komer, Bundy e lo stesso presidente Kennedy; assai più
sospettosi erano gli ambienti del Dipartimento di Stato e dell’ambasciata
USA a Roma. Così tra il 1961 e il 1963 i due contrapposti atteggiamenti
americani verso il nascente esperimento italiano combatterono
politicamente quella che Schlesinger ricorderà poi come «una battaglia
senza fine», «una lotta lunga ed esasperante», in cui «ci si sentiva soffocare
come in un romanzo di Kafka» 59. Nonostante l’atteggiamento favorevole
espresso dal presidente Kennedy, infatti, molti esponenti del governo
americano continuavano a chiedersi se i socialisti italiani avessero davvero
rotto i ponti con i comunisti e con l’antiamericanismo. Il punto che destava
maggiore perplessità era proprio la loro linea in politica estera: l’ingresso
dei socialisti nel governo non sarebbe stato il preludio a un allontanamento
dell’Italia dalle posizioni di Washington, se non proprio a una deriva
neutralista equivalente ad un’uscita de facto dalla NATO? L’Italia era un
pezzo assai importante dello scacchiere europeo su cui e per cui si giocava
la guerra fredda: non si rischiava così di comprometterne la solidità
atlantica? Nenni e i suoi si sarebbero mostrati davvero affidabili al
«momento della verità»?
In questo senso la CMC giunse come una vera prova del nove.
Non stupirà allora scoprire, in una lettera di poche settimane dopo, che
Craxi – tornato in Italia – abbia scritto a Lister che «i miei amici milanesi,
che avevano indugiato in un romantico filocastrismo, hanno riconsiderato
parecchie posizioni dopo notevole discussione e riflessione» 77.
Analogamente, lo stesso Nenni in una lettera privata del 30 ottobre
ammette che «nella questione di Cuba non siamo stati capaci di individuare
fin dal primo momento che le basi sovietiche erano una violazione
dell’indipendenza cubana e fornivano un pretesto alla eccitata opinione
pubblica americana per soffocare la rivoluzione in ciò che ha di
autenticamente cubano e socialista. E anche ci è caduta tra capo e collo la
decisione di Chruscev di smantellare le basi missilistiche delle quali fino al
giorno prima si era contestata l’esistenza» 78. Analoga autocritica egli
effettuò a metà novembre in un colloquio telefonico con l’ambasciata
americana 79.
«Cominciava così», conclude infatti l’analisi di Nuti, «un processo di
approfondimento e di lenta revisione della politica estera professata dal
partito», destinato poi ad acuirsi ulteriormente nel 1963 80. Tale esibita
disponibilità socialista al riesame delle proprie posizioni, unita alla
disponibilità italiana a ritirare i propri missili (senz’altro utile e gradita alla
Casa Bianca già per come esposta nel telegramma di Reinhardt, anche
prescindendo dalla sopraesposta riservata offerta fanfaniana di ritiro),
fecero pendere la bilancia delle valutazioni USA sulla perfomance del
centro-sinistra durante la CMC in senso positivo, «più di quanto
affermassero le valutazioni ufficiali del Dipartimento di Stato» 81. Test
superato, dunque, tanto che Nuti definisce la CMC «una prova decisiva per
testare la solidità del governo di centrosinistra in Italia», e Di Nolfo parla a
tal proposito addirittura di «slancio definitivo». Lo stesso esito della crisi,
poi, al di là della reazione italiana, apriva una nuovo clima di distensione
internazionale, che incoraggiava aperture 82. La crisi di Cuba ebbe dunque
conseguenze di grande importanza per gli assetti interni dell’Italia,
marcando ed affrettando un importante momento di svolta della sua storia
repubblicana.
Fanfani, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, la DC
Ma come aveva reagito Fanfani allo scoppio della crisi? Egli ne era stato
avvisato con appena poche ore d’anticipo. La sera del 22 ottobre – «alle
20.45», come egli precisa nei suoi diari – l’ambasciatore Reinhardt gli
consegna il testo dell’imminente discorso di JFK con una breve lettera
d’accompagnamento del Presidente stesso.
Già questa circostanza è significativa. Tutti gli alleati di Washington
erano stati solo informati, non consultati, sulle decisioni prese da Kennedy.
Tuttavia, il britannico Macmillan l’aveva saputo già il 21 ottobre, per
primo, e De Gaulle e Adenauer l’avevano saputo nel corso della giornata
del 22, tramite delegazioni speciali inviate a Parigi e Bonn con le foto
comprovanti l’esistenza di missili a Cuba. L’Italia invece fu informata solo
in serata e semplicemente tramite l’ambasciatore. Altri Paesi furono
informati ancora più tardi 83. Ciò (come già l’assenza dell’Italia dal gruppo
consultivo quadripartito d’emergenza 84) fornisce una indiretta quanto
limpida conferma della gerarchia de facto esistente 85 tra gli alleati degli
Stati Uniti.
Fanfani, naturalmente sorpreso e turbato dalle novità comunicategli, si
riserva di rispondere l’indomani e, notata la preoccupazione del latore della
lettera, gli chiede «se non stanno per far scattare una trappola che avrà
possibili gravi ripercussioni a Berlino ed altrove» 86. Si attiva poi per un
immediato giro di telefonate. Il giorno dopo riceve una lettera del premier
britannico Macmillan, «evidentemente critico per le decisioni di Kennedy e
chiedente intesa», alla quale risponde «subito raccomandando azione pro-
pace» 87.
Quella sera espone poi alle Camere la posizione pubblica del governo
italiano sulla crisi, leggendo una dichiarazione accuratamente calibrata:
Era un supporto agli USA solo «timido e indiretto» 89. Come noterà poi
un’analisi del Dipartimento di Stato americano, tra le due affermazioni di
Fanfani che gli USA avevano fatto ricorso all’ONU e che l’Italia non
poteva mancare di mostrarsi solidale con l’alleato, «un implicito ‘quindi’ fu
subito evidente a tutti gli osservatori. […] L’enfasi era sul ricorso all’ONU,
col supporto italiano seguente come per conseguenza» di esso 90. Questa
predilezione italiana per l’ONU, si noti, era tutt’altro che condivisa in
Europa, se si considera lo scetticismo e finanche il disprezzo per le Nazioni
Unite emergente invece dalle reazioni (private) di De Gaulle e Adenauer 91.
La dichiarazione parlamentare di Fanfani suscita subito varie reazioni.
Al Senato, il socialista Lussu commenta che affermare che Cuba minaccia
gli USA sarebbe «come dire che Pantelleria minaccia l’Italia». (Ma a
Pantelleria non ci son missili!, gli ribatte subito un DC). Il comunista
Terracini critica Fanfani, il quale lo interrompe dicendo: «Senatore
Terracini, io spero che lei mi rilegga attentamente dopo, al di fuori del
dibattito parlamentare». Come a dire: guardi che la mia posizione, a
leggerla tra le righe, è meno filoamericana di come le appare 92. Poi parla il
missino Ferretti, che chiede a Fanfani fedeltà atlantica e osserva come sui
muri romani quella notte siano già comparse delle scritte intimanti a tenere
«Giù le mani da Cuba» – ma qualcun altro, sempre prima dell’alba, vi abbia
poi preposto un soggetto a suo avviso più indicato: «URSS» 93. A
Montecitorio, dove Fanfani riferisce poco dopo, interviene per primo il
comunista Ingrao, che – prevedibilmente insoddisfatto dalla dichiarazione
appena letta da Fanfani – gli chiede: «voi approvate o no il blocco
americano contro Cuba? Di fronte a questa violazione patente […] è
necessaria una posizione chiara del nostro governo, senza ambiguità. […]
Dovete dirci qual è la vostra posizione sulle basi che sono nel nostro Paese.
[…] Cuba è un simbolo e al suo popolo mandiamo da qui l’espressione
della solidarietà e l’appoggio di tutti i lavoratori italiani». (E a questo punto
il verbale registra: «i deputati dell’estrema sinistra si levano in piedi e
applaudono a lungo – vivaci proteste a destra – scambio di apostrofi fra i
deputati dell’estrema sinistra e della destra – agitazione – ripetuti richiami
del Presidente») 94. I giornali aggiungono che a quell’applauso comunista e
alle grida di «Viva Cuba» si erano aggiunti vari deputati socialisti (mentre
altri di loro, tra cui De Martino, Greppi e il futuro presidente della
Repubblica Sandro Pertini, erano restati seduti senza applaudire) 95,
provocando grida da destra: «Li vedi i socialisti da che parte sono! I tuoi
alleati!»; «Venduti alla Russia!», e così via 96. Addirittura un paio di deputati
da destra e da sinistra fanno «l’atto di gettarsi contro l’altra parte», frenati
subito dal «solito robusto schieramento dei commessi» 97. Ristabilita
faticosamente la calma, parlano poi il missino Roberti (insoddisfatto dal
«difetto di chiarezza» di Fanfani) e, come già visto, il socialista De Martino
– interrotto, nel momento in cui definisce illegale il blocco, da un nuovo
grido a destra: «Ecco la maggioranza! Ecco il doppio giuoco!».
Repubblicani e liberali approvano la dichiarazione governativa 98.
«Stupefatti» i monarchici, cui «la dichiarazione governativa […] è apparsa
piuttosto l’esposizione del capo di un governo neutralista che non quella
[…] di un governo solidamente legato a patti d’onore e ad alleanze». Un
altro missino lo giudica «atteggiamento equivoco e quasi neutralistico» e,
dopo aver espresso «piena soddisfazione per l’azione militare degli Stati
Uniti» («da troppi mesi gli anticomunisti di tutto il mondo attendevano
dagli Stati Uniti d’America un’azione energica»), fa sapere che «una azione
comunista quale quella minacciata nelle piazze, qualora non trovasse un
deciso contrasto da parte delle autorità di pubblica sicurezza, dovrebbe
essere controbattuta dalla difesa spontanea e civile dei cittadini italiani»,
giacché «il popolo italiano non può tollerare […] la canaglia rossa
impazzare per le strade» 99.
Questo il clima. Il giorno dopo «l’Unità» definirà quello di Fanfani un
«discorso da satellite» 100. Nei suoi diari questi annota però una buona
accoglienza riservata in generale al suo discorso dalla stampa italiana, dal
segretario della DC Moro e dall’ambasciatore francese, nonché le critiche
mossegli dall’agenzia russa TASS e dall’ambasciatore Kozyrev a conferma
che i sovietici lo avevano «interpretato pro-USA» 101. L’ambasciatore
americano infine riporta a Washington il giudizio dei suoi colleghi alla
NATO, secondo i quali «la linea piuttosto equivoca di Fanfani è all’incirca
il meglio che potessimo sperare alla luce delle pressioni interne cui è
soggetto» 102.
A Botteghe Oscure il bilancio della settimana della CMC non era più
allegro. Le mobilitazioni di piazza erano state al di sotto delle attese (o
«d’avanguardia», secondo l’eufemismo usato nel rapporto interno del
PCI 114): e ciò non solo per la partecipazione ristretta e perché la sperata
unità d’azione internazionalista coi socialisti non si era attuata neanche in
piazza, ma perché gli stessi vertici del partito, colti di sorpresa e confusi sul
da farsi, avevano finito per tenere un atteggiamento indeciso. Ciò era
dovuto anche alla condotta poco chiara di Mosca, come lamentarono gli
stessi Togliatti, Alicata, Cossutta e Berlinguer in una «lunghissima e
intensissima» 115 riunione di direzione del partito, tenutasi il 31 ottobre. Si
era registrata inoltre una netta spaccatura interna, tra chi lodava l’URSS per
aver salvato la pace mondiale e chi invece avrebbe preferito portare avanti
la prova di forza per non dar l’impressione di debolezza e di abbandonare la
rivoluzione cubana. Togliatti le definì «due posizioni contrastanti e
paralizzanti». Pur essendo preoccupato per il «malcontento dei dirigenti
cubani» (cioè di Castro), raccomandò ai suoi di «evitare le discussioni nel
partito su questo o quell’episodio», e chiese di verificare «concretamente le
zone di passività che vi sono state nel partito» per la mancata mobilitazione,
inferiore a quella avutasi l’anno prima per la Baia dei Porci 116.
Anche l’ambasciata americana non mancò di notarlo. «Un aspetto che
colpisce della reazione italiana al problema cubano», riportarono da Via
Veneto il 26 ottobre, «è che ancora oggi […] non c’è stata alcuna – ripeto
alcuna – notevole manifestazione comunista, né a Roma né da nessuna
parte in Italia. […] Questa relativa tranquillità comunista sta suscitando
crescenti commenti nei circoli non comunisti» 117. In realtà qualche
manifestazione poi ci fu; ma complessivamente assai minori che in altri
Paesi e di quanto la gravità delle circostanze potesse suggerire. La
mutevolezza della situazione, la mancanza di riferimenti chiari sulle
intenzioni di Kruscev, il timore di risultare politicamente isolati (e infine
forse anche la prevedibile accusa di ipocrisia, per il fatto di marciare contro
l’azione militare USA ma non contro quella – contemporaneamente in
corso – della Cina maoista contro l’India), furono i principali elementi che
spiegano ciò che il Dipartimento di Stato USA chiamò «la riluttanza dei
comunisti a tradurre i loro attacchi isterici sulla stampa contro sia gli USA
sia il governo Fanfani in manifestazioni estese» 118.
Lo stesso Togliatti, al di là di quanto scrisse su «Rinascita» in sostegno
dell’URSS 119, era in realtà assai perplesso sulle mosse di Mosca. Il
retroscena emerge (più ancora che dalla riunione del 31 ottobre 120) dalle
cronache di Luciano Barca, allora membro della segreteria nazionale del
partito. Questi, dopo aver annotato il 24 ottobre: «viviamo giorni
drammatici nei quali la pace appare veramente in pericolo», il 29 scrive sul
suo taccuino:
L’URSS è uscita indebolita, non solo sul piano dei rapporti tra Stati,
dalla forzatura compiuta col tentativo di installare missili a Cuba e
dal dietrofront imposto dal rischio reale di una guerra nucleare.
Togliatti appoggia ufficialmente l’URSS e ‘l’atto di saggezza’
compiuto in extremis con l’inversione di rotta delle navi che
trasportavano i missili, ma in segreteria è duramente critico verso
l’avventurismo di certi comportamenti. Il suo giudizio su Kruscev
diviene ancora più severo. Paragona l’avventurismo dell’operazione
militare a quella del rapporto segreto [quello della clamorosa
denuncia di Stalin, nel 1956] non fondato su una seria analisi e
privo di proposte correttive adeguate agli errori ed orrori
denunciati 121.
Manifestanti per Cuba, immortalati dal settimanale del PCI. («Vie Nuove», 1° novembre 1962.)
Come il lettore avrà già avuto modo di capire da alcuni dei documenti
sopra presentati, emerge come caratteristica peculiare della reazione italiana
alla CMC una tendenza, del resto storicamente tipica, alla litigiosità, alla
riduzione di una gravissima crisi internazionale a mera occasione di
polemica interna. Da ambo le parti, cioè, spesso la si vide come
un’occasione d’oro per dar sfogo alle proprie rivalità partitiche. Che in ciò
si celasse anche una maniera inconsapevole dell’italiano di reagire, di
allontanare quelle ansie di guerra nucleare? Una sorta di «litiga che ti
passa»? Sarebbe una spiegazione perfino consolante. Resta il fatto che dalla
stampa e dai dibattiti parlamentari emerge chiaramente un largo uso
dell’evento storico in corso come semplice opportunità polemica per
rafforzare i propri ranghi o indebolire quelli dell’avversario, trovare
conferma alle tesi della propria bandiera o mettere in ridicolo quelle delle
bandiere altrui. Anche in quest’occasione, insomma, l’Italia pare
confermare il suo carattere di Paese storicamente litigioso e intrinsecamente
diviso. Difatti nell’analizzare le reazioni di altre nazioni (per esempio la
Gran Bretagna) abbiamo riscontrato anche lì nette diversità di opinioni,
avvertendovi però una maggiore coesione ed unità di fondo. E in ogni caso
tali divisioni sono parse riguardare più il succo del problema: l’occhio cioè
appare in quei casi davvero rivolto a Cuba, e non a «Cuba-nella-misura-in-
cui» essa può servire a continuare a segnare punti nelle proprie beghe di
partito o di corrente di partito. Va detto tuttavia che tale litigiosità (che
naturalmente come ogni generalizzazione presentò varie eccezioni) era
allora aggravata anche dalla generale spaccatura ideologica della guerra
fredda, nonché dalla presenza in Italia del Partito comunista più forte e
vitale dell’intera Europa occidentale. Tre fattori, dunque: uno che diremmo
storicamente cronico, se non antropologico; due, invece, più contingenti.
C’è poi un altro aspetto sul quale può essere interessante riflettere. In
quei giorni le manifestazioni per la pace furono promosse in area PCI
(seppure spesso sotto l’egida del sindacato di riferimento – la CGIL – o di
sigle affini come il Comitato di solidarietà per Cuba): molto altro, di fatto,
non vi fu. Ciò sembra confermare come l’espressione di istanze di pace,
diffuse tra la gente ben oltre i confini di un singolo partito, operasse in
quella fase storica quasi in una sorta di monopolio propagandistico
comunista, sicché i cittadini che non volessero scendere in piazza sotto
l’egida del PCI o affiliati non avevano di fatto alternative per manifestare la
propria volontà politica di pace. Giusto la Chiesa giovannea in quegli anni
cominciava a riappropriarsi di un tema universale che per molto tempo era
stato lasciato ad appannaggio d’una singola ideologia politica. Eppure
ancora nel 1962 simili istanze spesso non avevano altro spazio
d’espressione che l’ombrello, grande ma non per tutti adeguato, del
movimento comunista. Tale confusione – che rischiava di divenire
identificazione univoca – tra il tema universale della pace e una singola
ideologia politica derivava certo, di nuovo, anche dalla generale forte
bipolarità del confronto ideologico internazionale allora in corso; ed era poi
ben sfruttata ed alimentata dalla propaganda comunista (che – non solo in
Italia – era naturalmente ben contenta di poter raccogliere tra le proprie file
anche istanze di diversa provenienza: non a caso il PCI, per favorire
l’intercettazione di tali segmenti di opinione pubblica, presentò le
manifestazioni di quei giorni come mobilitazioni «per la pace» o «per la
libertà di Cuba», e non per il socialismo o, meno che mai, per l’URSS) 142.
Eppure tale situazione di confusione, per quanto non solo italiana, in talune
altre nazioni appariva minore: già meglio, per esempio, sembrava andare in
Gran Bretagna, dove esisteva il CND (Campaign for Nuclear
Disarmament), che, per quanto lo si potesse considerare tendente a sinistra,
era piuttosto una lobby: altra cosa, cioè, rispetto ad un partito politico.
Il Black Saturday italiano
Quello che negli Stati Uniti passerà alla storia come Black Saturday fu
per l’Italia un giorno particolarmente nero. Due uccisioni funestarono infatti
la giornata di sabato 27 ottobre: quella di Enrico Mattei e quella di
Giovanni Ardizzone. Un influente imprenditore e un semplice studente di
medicina; uno a bordo del suo aereo privato, l’altro per le strade d’un
corteo. Due lutti assai diversi ma contemporanei, che, seppur per motivi
differenti, scossero entrambi profondamente il Paese, smorzando il generale
sollievo per la soluzione della crisi, giunta appena poche ore dopo.
Quanto a Mattei, allora presidente dell’ENI e grande artefice della
politica petrolifera italiana, egli morì, com’è noto, a bordo del suo aereo,
precipitato intorno alle 19 sulla campagna pavese in circostanze misteriose
(solo recentemente la giustizia, grazie a nuovi elementi, ha potuto
confermare definitivamente i sospetti di abbattimento doloso, pur restando
ignoti gli esecutori) 143. Per completezza va qui ricordato che, accanto alle
note ipotesi di coinvolgimenti mafiosi e/o americani nella vicenda, lo
storico Nico Perrone ha ipotizzato anche possibili legami con la stessa
CMC, nel senso che il rischio concreto e imminente di guerra potrebbe aver
reso più urgente – o più presentabile, internamente, come necessaria –
l’eliminazione di un soggetto già ritenuto pericoloso per gli equilibri
internazionali dell’Italia 144. Si tratta però solo di un’ipotesi, che oltretutto
nella fattispecie appare un po’ eccessiva.
E veniamo ad Ardizzone, la cui morte diede ulteriore motivo
d’espressione a quella litigiosità che poc’anzi individuavamo come uno dei
tratti caratterizzanti la reazione italiana. Quella sera, nel corso di un corteo
svoltosi a Milano sulla crisi cubana – corteo sostanzialmente pacifico,
benché «non autorizzato», come poi preciserà la stampa conservatrice, nel
senso che esso s’era formato spontaneamente al termine di un comizio
organizzato dalla Camera del Lavoro e dalla CGIL presenziato da alcune
migliaia di persone 145 – un giovane di ventuno anni, manifestante tra gli
altri intorno a piazza del Duomo, restava ucciso, investito a quanto parve da
una camionetta della polizia che compiva veloci «caroselli» per disperdere
la folla. Vari testimoni oculari, tra i manifestanti e tra gli stessi deputati,
confermarono tale dinamica, come risulta dalla stampa dei giorni
successivi 146. Anche altri, tra i manifestanti come tra gli agenti 147, erano
rimasti feriti negli scontri, ma il ragazzo si spegneva in ospedale la sera
stessa. Si chiamava Giovanni Ardizzone. La notizia si diffuse in fretta
scatenando una fortissima ondata di commozione e indignazione. Un
massiccio e sentito sciopero generale si tenne a Milano il successivo lunedì
29. Nelle locali università vennero sospesi lezioni ed esami. Veglie e sit-in
proseguirono per giorni interi nel punto in cui Ardizzone era caduto,
testimoniando il clima, che paradossalmente si faceva più acceso e più cupo
proprio nel momento in cui invece sul piano internazionale la crisi andava
risolvendosi e gli animi rasserenandosi. Oggetto del contendere ora non era
più Cuba o la pace, quanto l’eterno problema d’un uso corretto e misurato
della forza per mantenere l’ordine pubblico. «Assassinato della polizia
borbonica», si leggeva su uno dei cartelli affissi nel luogo in cui il giovane
era stato investito 148. Ma è piuttosto chi crea questo continuo clima di
ribellione che porta la responsabilità morale di quanto successo,
rispondevano alla Camera dai banchi della DC 149. «I fatti di Milano non
sono un incidente. Essi sono soltanto l’ultimo anello di una catena di
eccidi» ribatteva «l’Unità», parlando di «bravacci in divisa a disposizione
dei donrodrighi scelbiani e tambroniani che ancora si annidano nelle
questure italiane» 150. Di «soliti coccodrilli di estrema sinistra» parlò invece
alla Camera il missino Almirante, suscitando subito violenti alterchi in
aula 151. «Finisca una volta per sempre la violenza poliziesca», titolava
l’«Avanti!», definendolo un «problema di civiltà» 152. «La morte di
Ardizzone», replicava «Il Tempo», «non è da imputarsi alla polizia, che ha
fatto a Milano […] il minimo necessario per la tutela dell’ordine, [bensì
alle] falsità [e] menzogne che hanno sollevato o tentato di sollevare le folle
in queste ultime terribili giornate. […] Menzogne e falsità smascherate
proprio ieri non da noi né dagli americani, ma dal loro stesso oracolo […]
Nikita Kruscev in persona» 153. Intanto a Milano proteste contro gli abusi
della polizia venivano firmate da centodieci docenti locali (tra cui Carlo Bo,
Ludovico Geymonat, Cesare Musatti, Remo Cantoni, Mario Dal Pra), i
quali si dicevano «sgomenti e offesi per l’arbitraria violenza che ha reciso la
vita di un nostro condiscepolo». Attraverso il Circolo Turati di Milano
firmavano anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli e il giornalista Eugenio
Scalfari, protestando per «la inutile brutalità della polizia, che ha causato
un’altra vittima in Italia», e invitando Fanfani a prendere provvedimenti
contro «metodi […] indegni di un Paese civile quale l’Italia aspira ad
essere» 154. L’episodio, si tenga presente, va inquadrato nel contesto caldo di
quegli anni, quando erano ancora freschi nella memoria del Paese i cinque
morti avutisi a Reggio Emilia negli scontri con la polizia per i fatti del
luglio 1960 sotto il governo Tambroni 155.
La notizia della morte di Ardizzone finì anche sulla stampa cubana, dove
il quotidiano del partito, «Hoy», gli dedicò subito un’elegia, tra il patriottico
e il propagandistico 156. Un locale istituto di medicina verrà poi intitolato a
suo nome; come pure, nel suo paese natale (Castano Primo), una delle
piazze principali. Intanto però, mentre il ministro dell’Interno Taviani
faceva partire un’inchiesta, la tragedia veniva ulteriormente invelenita dalle
immancabili polemiche politiche legate al fatto che, come spesso avviene,
le spoglie di un martire fanno gola a tanti. Così l’appartenenza politica del
giovane divenne un piccolo caso, quantomeno sui giornali, quando venne
fuori che egli, benché le circostanze dell’uccisione ne facessero supporre
l’appartenenza alla sinistra, risultava invece essersi iscritto nel 1958
nientemeno che all’MSI 157. L’«Unità» dapprima accennò, con abile
vaghezza, che egli «aveva compiuto in questi anni una progressiva
evoluzione nel suo orientamento politico. Partito da posizioni assai distanti
dalle nostre, egli era venuto man mano accostandosi agli ideali della classe
operaia e del socialismo fino ad assumere una posizione di aperta adesione
alla lotta dei lavoratori» 158. Poi aggiunse che non era affatto vero che egli
non avesse posizioni politiche ma anzi, essendo iscritto alla FGCI
(Federazione Giovanile Comunisti Italiani), era «un altro comunista caduto
al suo posto di lotta» 159. Togliatti stesso lo definì poi al congresso del
partito «un giovane compagno [che] ha pagato con la vita la sua devozione
alla causa democratica» 160. Sulla stampa conservatrice, invece, era
naturalmente l’appartenenza alla prima delle due fazioni qui citate ad essere
messa in rilievo, sempre allo scopo di segnare punti contro l’avversario
politico, che a loro dire si sarebbe dimenticato di controllare le reali
convinzioni di colui del quale si appropriava. Ma al di là di quale fosse la
sua ultima posizione politica o il suo numero di tessera più recente,
Ardizzone era, soprattutto e prima di tutto, uno studente universitario di
medicina: cioè a dire, un ragazzo, che aveva perso la vita manifestando per
la pace. Difatti i familiari chiesero espressamente di sottrarre almeno il
momento delle esequie ad ogni polemica e strumentalizzazione partitica,
«per essere lasciati al loro dolore, che è senza bandiere, senza violenze e
senza odio» 161. In realtà qualche mazzo di fiori a firma politica comparve
immancabile anche alla cerimonia (cui erano accorse per omaggiarlo oltre
cinquemila persone) 162; ma forse, a distanza di decenni e di tante
polemiche, l’episodio appare meglio riassunto proprio dal manifesto che la
sua famiglia aveva fatto affiggere il giorno dei funerali per le vie del
paesino di Castano Primo: «Il suo olocausto sia invito alla pace ed alla
fratellanza umana» 163.
Non si può che iniziare dal «Corriere della Sera», il più noto e autorevole
quotidiano italiano, la cui influenza sul Paese – come ha scritto lo storico
inglese Denis Mack Smith – «è stata spesso rilevantissima, se non altro
perché è letto da quasi tutta la ristretta classe politica. All’occasione, esso
ha contribuito a orientare l’azione dei governi» 188.
La posizione assunta dal «Corriere della Sera» riguardo alla crisi di Cuba
è affidata agli editoriali pubblicati in prima pagina in quei giorni da
Augusto Guerriero e ad altri due senza firma (attribuibili cioè direttamente
alla direzione). Soprattutto in questi ultimi, emerge una posizione schierata
molto nettamente dalla parte degli USA. Il coraggio della pace (titolo
dell’editoriale del 28) si riferisce infatti alla dote mostrata da Washington,
che, con svolta storica, ha «deciso di opporsi a qualsiasi iniziativa
sovietica» che insidi l’Occidente – cosa che non aveva più fatto dalla fine
della presidenza Truman. Opponendosi ai «nemici della pace» (quell’URSS
che «dovunque ha cospirato e cospira»), «l’America vuole restaurare il
diritto e la morale». Il blocco kennediano è dunque «un atto di legittima
difesa contro il colpo alla nuca meditato e organizzato dalla Russia» 189. Due
giorni dopo (il 30), a crisi attenuatasi, un altro editoriale non firmato
annunciava trionfalisticamente che «la prova di forza, alla quale Kennedy e
il popolo americano erano stati obbligati dalla tracotanza e dalla temerarietà
di Kruscev, è stata completamente vinta dall’America». La ritirata di
Kruscev era stata «saggia»; la mobilitazione delle forze cosiddette pacifiste,
«assurda», e «troncata bruscamente e goffamente dal cinismo di Kruscev.
Per il quale l’isterico Castro, il mite filosofo Russell, alcuni gruppi di
intellettuali, le masse popolari sono semplici carte figurate del suo giuoco».
Quanto poi al neutralismo (tra i due blocchi), che in Italia trova echi tra
socialisti e cattolici, esso non solo «non serve la causa della pace», ma
poiché «indebolisce il mondo democratico» è da considerarsi «colpevole».
Tanto per chiarire: «quando in Italia si fa del neutralismo ci si mette
praticamente dall’altra parte: dalla parte del comunismo» 190.
La maggior parte degli editoriali di quei giorni erano stati firmati da
Guerriero, noto anche con lo pseudonimo di Ricciardetto e definito «il
Lippmann italiano» (come il grande columnist americano, di cui abbiamo
già parlato) per l’autorevolezza e chiarezza dei suoi articoli di politica
estera. Di particolare importanza la prima presa di posizione (sua e del
giornale) sulla crisi appena scoppiata, contenuta nel suo editoriale del 24,
Decisione tardiva. Un pezzo che, forse anche per l’estrema ansia delle
prime ore, quelle subito prima dell’entrata in vigore del blocco, appare tra
le righe sorprendentemente critico verso la scelta kennediana – definita non
solo «tardiva» ma «gravissima, per il fatto che, così com’è stata concepita e
annunziata, non lascia a Mosca – e allo stesso governo americano – altra via
che o una umiliante ritirata o una prova di forza». Essa «difficilmente si
giustifica» dal punto di vista del diritto formale (tantomeno ricollegandosi
alla dottrina Monroe, che è «pretesa caduta da un pezzo»), ma solo
«secondo il diritto sostanziale», quello cioè «di difendersi da un pericolo
gravissimo e imminente» quali i missili. La notazione più importante
dell’articolo sta però nella frase d’attacco (semplicissima e categorica,
eppure affatto scontata, a scriverla in quei primi incerti e tesissimi
momenti): «Non scoppierà la guerra. Complicazioni di ogni sorta possono
sorgere; ma non scoppierà la guerra» 191.
Nei giorni successivi poi Guerriero coglie bene che «tutte e due le parti
hanno una gran voglia di trattare» (ma giudica eccessive le precondizioni
poste dagli USA per iniziare tali trattative) 192; riflette sui motivi
dell’iniziativa sovietica (non senza evidenziare alcuni errori di
percezione) 193; e infine commenta l’annuncio di Kruscev di smantellare le
basi, chiedendosi «Perché ha ceduto» e rispondendo che Kruscev aveva
capito che «questa volta l’America faceva terribilmente sul serio» (nello
specifico, bilancia degli armamenti ancora favorevole agli USA, difficile
posizione geografica e ferma brinkmanship di JFK erano stati a suo avviso i
tre fattori decisivi) 194. Un mese dopo infine Guerriero torna a tracciare il
bilancio di quell’«hora de verdad» in cui l’URSS – avendo commesso il
grave errore di «sfidare l’America in casa sua» e su una posta vitale – aveva
«subito una sconfitta senza precedenti nella storia della guerra fredda». Così
a Cuba, «in pochi giorni, il mondo è cambiato. […] L’America ha
acquistato coscienza della sua potenza e la Russia ha acquistato coscienza
dei limiti della sua. […] Non si è combattuto, ma è come se si fosse
combattuto: anzi, come se si fosse combattuta una grande guerra e la Russia
l’avesse perduta» 195.
Dall’altra parte della barricata stava «l’Unità», il quotidiano del PCI,
caso unico in Europa Occidentale di organo di partito largamente diffuso tra
la popolazione 196. Anche qui abbondano toni netti e semplificazioni nel
descrivere le situazioni. Cuba bloccata dalle armate degli Stati Uniti il
titolo a caratteri cubitali che campeggia sulla prima pagina del 23.
«L’imperialismo americano porta il mondo sull’orlo del conflitto – Si levi la
protesta in nome della libertà dei popoli!» completano occhiello e
catenaccio. L’editoriale (A fianco di Cuba!) parla di «misure militari […] di
gravità estrema», la cui «motivazione addotta è semplicemente inaudita».
Una «guerra preventiva […] alle intenzioni presunte». «C’è nel gesto di
Kennedy un puzzo di provocazione deliberata che è impossibile non
avvertire […] un puzzo di tentativo di rivincita che è impossibile negare.
[…] Nessuno crederà mai alla favola secondo cui Cuba minaccerebbe gli
Stati Uniti. Si allarga la convinzione, invece, che gli Stati Uniti siano
incapaci di affrontare i problemi posti dalla rivoluzione cubana con mezzi
politici e non militari». (Si aggiunge poi, del tutto erroneamente, che il
ministro Piccioni sapeva della mossa da settimane: «Perché l’opinione
pubblica italiana è stata tenuta all’oscuro?») 197. Il giorno dopo, sotto
l’enorme titolo Libertà per Cuba, proclama l’URSS, un editoriale a firma
della direzione del PCI chiama alla mobilitazione l’opinione pubblica:
***
***
Una percezione della CMC non solo attutita ma quasi del tutto
inconsapevole si ritrova poi nelle Murge, la zona delle basi nucleari NATO,
uno dei bersagli più probabili in caso di escalation della crisi. Qui, tra gli
altipiani poco abitati della Puglia interna e della Basilicata, una popolazione
tra le più povere d’Europa, composta di contadini e braccianti, viveva
accanto ai trenta bianchi missili progettati dall’ingegnere von Braun, in un
surreale accostamento tra tecnologia moderna e arretratezza plurisecolare.
Questa singolare convivenza durava già da un paio d’anni, ma la
popolazione era ben lontana dal poter realizzare il significato geopolitico e i
pericoli insiti in quella misteriosa presenza, complice anche la volontà
governativa di pubblicizzare il meno possibile la situazione 242. Anche
l’opposizione (il PCI) non batteva su questo tema, conscia che il
proletariato locale non l’avrebbe seguita, avendo le sue più pressanti
rivendicazioni nella sopravvivenza alimentare, prima che nucleare 243. Solo
recentemente un libro e un documentario hanno ricostruito questa storia,
andando tra l’altro a raccogliere i ricordi degli anziani abitanti della zona e
trovandoli spesso ignari di aver vissuto su uno dei fronti più esposti
dell’intera guerra fredda 244. I missili vennero poi ritirati proprio in seguito
all’esito della CMC, come illustrato; e sempre volutamente in sordina. Ma
durante i sei giorni di massimo rischio, anche quei pugliesi che seguivano
l’evolversi della crisi internazionale non poterono coglierne il nesso con le
basi italiane, poco chiaro e poco sottolineato dai media 245. Neppure nelle
cronache provinciali della «Gazzetta del Mezzogiorno» di quei giorni ne
abbiamo trovato traccia 246.
D’altro canto, pur in questo quadro di generale inconsapevolezza
pubblica, a livello politico si verificarono alcune iniziative. Il 28 ottobre una
manifestazione organizzata a Matera dalla locale FGCI radunò diecimila
persone, provenienti «con pulmann e con i mezzi più vari» da tutta la
Lucania, finendo così per risultare una delle più riuscite a livello
nazionale 247. Essa vide anche la partecipazione di delegati cubani e di due
voci autorevoli come lo studioso meridionalista Tommaso Fiore e il
professor Aldo Capitini 248. Il Gandhi italiano, come quest’ultimo verrà poi
ricordato in quanto profeta della nonviolenza italiana, aderì alla
manifestazione invitando però gli organizzatori ad aprirla «a tutte le persone
che aspirano al disarmo ed alla pace e a tutte le popolazioni
indipendentemente da ogni idea religiosa e politica» 249. Un tratto distintivo,
quest’ultimo, che ritroveremo tra breve tornando sulle reazioni di Capitini.
Fotogramma dal Cinegiornale della pace di Cesare Zavattini che mostra un contadino delle Murge al
lavoro nel suo campo, non lontano da uno dei missili Jupiter, visibile sullo sfondo (in alto a sinistra).
A crisi finita, poi, fiochi segnali di una qualche consapevolezza politica
della situazione si ritrovano nei consigli (e congressi di partito)
provinciali 250. Infine il 13 gennaio 1963 si tenne un’apartitica ‘marcia della
pace’, ad Altamura, la località ospitante due delle basi di cui si chiedeva la
rimozione (proprio nella settimana in cui Fanfani si recava alla Casa Bianca
per discuterne segretamente il ritiro). Presenziata da diverse migliaia di
persone 251, tra cui ancora l’intellettuale altamurano Tommaso Fiore, la
marcia ottenne una notevole risonanza e ricevette messaggi d’adesione da
Capitini e perfino da Bertrand Russell 252.
***
‘isola del piacere’ […] era diventata ‘isola dei guai’, ed erano guai
che riguardavano tutto il mondo e che rapidamente si erano
proiettati in ogni campo. Essi non toccavano soltanto l’economia e
la politica […], ma anche la coscienza di ognuno. […]
L’allarmismo e perfino il pessimismo dei giorni scorsi erano
talmente plausibili che persino Giovanni XXIII aveva parlato per
convincere le parti avverse a non dare il via alla tremenda macchina
della distruzione. […] Gli intellettuali si sono giustamente messi in
stato d’allarme e le organizzazioni che in politica estera seguono
una certa linea, hanno organizzato comizi in difesa di Cuba. Ma di
là di questi aspetti d’una lotta che dura da anni, bisogna dire che
l’animo popolare non ha dato segni vistosi di drammaticità.
L’allarmismo e il pessimismo hanno toccato molto più da vicino
altri popoli che non il nostro. La nostra gente comune, quella che
lavora e traffica sodo dalla mattina alla sera, non ha fatto
dell’argomento ‘Cuba’ centro per lunghe o apocalittiche discussioni.
C’era stato maggior fermento all’inizio del conflitto in Corea o
all’epoca dei fatti d’Ungheria […]. In molti Paesi d’Europa erano
ricomparse le code davanti ai negozi, tetro presagio di tempi
difficili. [Non così in Italia, dove] il nostro animo popolare, pur
parteggiando per l’una o per l’altra parte contendente, […] sentiva
che nessuno dei due avrebbe ‘premuto il bottone’ per dare inizio al
reciproco sconquasso. La paura, l’allarmismo, il pessimismo,
potevano entrare per un attimo nei discorsi quotidiani, ma subito
l’istinto li cacciava lontani. Nel fondo del proprio animo il popolo
sentiva che ‘non era possibile’. […] Il cadere in un baratro, di cui
non era nemmeno possibile valutare l’estensione e la profondità per
una faccenda che tutti sapevano risolvibile con trattative e
discussioni, appariva un delitto e una pazzia. La nostra umanità e la
nostra buona fede non volevano immaginare una soluzione diversa
da quella pacifica 258.
«Il Tempo», 28 ottobre 1962. Il quotidiano conservatore ironizza sull’ambiguità di certi intellettuali
di partito, che firmano contro l’aggressione a Cuba ma tacciono sulla contemporanea aggressione
all’India della Cina comunista.
In un mattino di quest’anno,
azzurrino nella profondità dei secoli,
il convoglio va verso Cuba.
In un mattino di quest’anno,
buio nelle viscere dei secoli,
un poeta dorme nel suo lettuccio.
In un mattino di quest’anno,
buio nelle viscere dei secoli,
sorride, in fondo al sonno di un poeta, Krusciov.
Solo l’uomo per cui l’oceano è un piccolo lago,
può comportarsi come un vecchio padre,
perché solo la Rivoluzione salva il Passato.
Pur essendo ormai in Italia, ma forte dei tre decenni trascorsi a New
York, Prezzolini qui aveva colto bene l’atteggiamento assunto dalla
maggioranza degli americani di fronte alla crisi. Nel suo elogio c’è
probabilmente anche la riconoscenza per un Paese che lo aveva accolto e
valorizzato, e di cui egli era divenuto cittadino.
Prezzolini commenta poi, col consueto disincanto beffardo, anche le
reazioni europee alla crisi: «10 novembre. Il malumore di certi alleati degli
Stati Uniti per l’azione di blocco decisa contro Cuba […] si capisce
benissimo, [data] l’affermazione che gli Stati Uniti facevano, di fronte alle
Nazioni Unite ed agli Alleati, che quando si arrivava in certe regioni della
politica, le Nazioni Unite contavano come un materazzo del quale ci si può
servire in caso di caduta, e gli Alleati, come di un coro che deve ripeter il
motivo del tenore. Ma come mai ci son degli Alleati che non si rendon
conto che alla resa dei conti soltanto chi ha denaro in cassa conta?» 302.
Infine, lo scrittore perugino ritornò a paragonare la CMC col De Civitate
Dei di sant’Agostino, sviluppando riflessioni di filosofia della storia. «Non
so se qualcheduno dei miei lettori», scrisse Prezzolini sul «Resto del
Carlino», «si è domandato nei giorni recenti, come me: ‘Dunque duemila
anni circa sono passati invano, la parola di Cristo non ha servito a nulla,
un’altra gigantesca guerra stava per scoppiare e avrebbe inghiottito la
maggior parte di noi, cattivi e buoni, […]?’. Tutta la storia dell’umanità ha
fatto fallimento, compreso il verbo cristiano? Qualche cosa di simile
accadeva nel quarto secolo dopo Cristo, quando Alarico entrò a Roma e
distrusse la capitale del mondo d’allora. La notizia destò un’immensa
impressione». Ma Roma antica, prosegue Prezzolini, era caduta perché
peritura, inadeguata a soddisfare le più alte aspirazioni umane. Se non si
ammette il Vangelo, «non si può nemmeno ammettere che le lotte fra gli
uomini cesseranno, che gli sforzi per raggiungere la pace saranno premiati.
[…] Se la storia umana non è soprannaturale […] essa è soltanto storia
naturale» e la specie umana potrà «cedere il passo alle formiche ed agli
scarafaggi […] che continueranno a muovere le loro schiere senza sapere
che Giulio Cesare il quale contese il mondo ad Antonio, e Kruscev che lo
contende a Kennedy, sono mai esistiti» 303.
Sono riflessioni «alte», trascendenti, che da un lato richiamano, anche
negli accenni metafisici, quelle già incontrate in Norman Mailer; dall’altro
confermano ancora quanto esposto nella Premessa: il senso planetario,
unitario della minaccia termonucleare manifestatasi con evidenza nei giorni
della CMC.
Altra voce di un certo rilievo nella cultura politica italiana dell’epoca era
Enzo Enriques Agnoletti. Anch’egli mandato al confino sotto il fascismo,
poi partigiano e azionista, era allora vicesindaco di Firenze (giunta La Pira)
e direttore della prestigiosa rivista «Il Ponte», fondata dal suo maestro Piero
Calamandrei. Alla CMC Enriques Agnoletti dedicò un articolo scritto a crisi
ancora non del tutto risolta e significativamente intitolato ONU sì, yankee
no, parafrasando lo slogan diffuso tra i comunisti («Cuba sì, yankee no»).
***
Durante la fase centrale della settimana della CMC, emerge da tutti i principali quotidiani il
carattere drammatico della crisi in corso.
***
27 ottobre 1962: Kruscev propone pubblicamente un ritiro congiunto di missili dalla Turchia e da
Cuba. Il giorno dopo «l’Unità» e «Il Tempo» riportano così la notizia.
Il 28 ottobre Kruscev comunica che rimuoverà i missili da Cuba e la crisi si risolve.
Ecco come lo raccontarono alcuni quotidiani italiani. Da destra a sinistra in senso politico, «Il
Tempo», il «Corriere della Sera», l’«Avanti!», «Il Paese», «l’Unità».
(N.B.: «Il Paese» e l’«Avanti!», che non uscivano il lunedì, diedero la notizia martedì 30 ottobre.)
6
Scienza e guerra atomica.
Scienziati
Leo Szilard.
Ciò spiegherebbe anche il tono giustificatorio emergente da una «bozza
di memorandum sulla crisi dei missili di Cuba», che Szilard redasse nei
mesi successivi alla CMC, e che risulta interessante anche in quanto
esprime le sue considerazioni politiche riguardo a quegli eventi.
Considerazioni che, anche a crisi risolta, restavano contrarie alla rischiosa
condotta adottata da JFK: «In queste circostanze» in cui gli eventi andavano
troppo veloci
Bertrand Russell.
***
Tuttavia, i fisici non furono gli unici scienziati a reagire; né lo furono gli
scienziati occidentali. Anche in URSS, nonostante la percezione della crisi
lì fosse più attutita, diversi scienziati risultarono allarmati.
Ecco per esempio il ricordo di un grande astronauta sovietico, Alexei
Leonov, il primo uomo a «camminare» nello spazio. Quando la crisi
scoppiò, «pensai che avrei dovuto abbandonare il programma spaziale e
ritornare al servizio normale come pilota di combattimento. Sembrava
sicuro che il conflitto sarebbe finito male. Avevo incubi su un imminente
olocausto nucleare. Ma Kennedy fu più saggio dei suoi [pochi] anni. Riuscì
a disinnescare la situazione» 53.
Significativo della tensione che attraversò durante i giorni della crisi i
vertici del mondo scientifico e missilistico sovietico è pure l’episodio
recentemente rivelato dall’ingegnere spaziale Boris Chertok (che era il vice
del leader del programma spaziale sovietico, Sergei Korolev). Egli racconta
come i preparativi in corso alla base/cosmodromo di Baikonur (in
Kazakhstan, allora parte dell’URSS) in vista dell’imminente lancio del
razzo sovietico diretto a Marte vennero improvvisamente interrotti dalla
crisi cubana, il 27 ottobre, quando il razzo spaziale venne rimosso dalla
rampa di lancio per sostituirlo con uno dei missili nucleari intercontinentali
R-7, su ordine tassativo delle autorità militari 54. La sorpresa e i tentativi di
Chertok di convincere il responsabile della base, il colonnello Anatoliy S.
Kirillov, a provare ad obiettare ad un ordine così duro da accettare, si
scontrarono con la sua intransigenza. Chertok provò a far leva
sull’importanza di non interrompere la missione spaziale; poi passò alla
motivazione etica: «Anatoliy Semyonovich! Detto tra noi due. Tu hai il
coraggio di dare il comando ‘lancio!’ ben sapendo che ciò significherà la
morte non solo di centinaia di migliaia [di persone] per quella specifica
testata, ma forse l’inizio della fine per tutti quanti? Tu comandavi una
batteria al fronte, e quando gridavi ‘Fuoco!’ era tutt’un’altra cosa». Ma il
colonnello non si scompose. «Non c’è bisogno di tormentarmi. Io ora sono
un soldato; eseguo un ordine proprio come facevo al fronte. Un ufficiale
missilistico come me, non un Kirillov ma un qualche Jones o simile, sta al
periscopio in attesa di dare l’ordine di lancio contro Mosca o contro il
nostro campo d’azione. Perciò, ti consiglio di sbrigarti ad andare a casa».
Mandato via così dal colonnello, Chertok si riunì ai suoi colleghi della base
di Baikonur, i quali mangiavano cocomero e giocavano a carte, per riempire
il tempo in attesa di notizie sulla crisi. Avendo udito alla radio degli sforzi
diplomatici ancora in corso da parte dell’ONU, il gruppo fece un brindisi
«alla salute di U Thant», aggiungendo: «E voglia Dio che questo non sia il
nostro ultimo drink». Chertok, nel frattempo, usando una linea telefonica
riservata di cui però era riuscito a procurarsi i codici di accesso, riuscì a
mettersi brevemente in contatto col suo capo, Korolev, che da Mosca lo
rassicurò di essere al corrente di quanto stava succedendo alla base e gli
ordinò di «non fare niente di stupido». L’attesa riprese. Alcune ore dopo,
arrivò infine il messaggio di Kruscev che annunciava la risoluzione della
crisi. Fu proprio il colonnello Kirillov, che lo aveva mandato via dalla base,
a darne notizia a Chertok: fermando di colpo la macchina su cui stava
procedendo e saltandone fuori appena intravisto Chertok sulla porta di casa,
Kirillov si precipitò ad abbracciarlo, urlandogli: «Tutto a posto!». I razzi
sulla rampa di lancio potevano tornare ad essere quelli spaziali. I due si
fecero dare una bottiglia di cognac e andarono immediatamente a brindare
con gli altri 55.
***
Linus Pauling.
Quanto poi alle reazioni registratesi nei contesti esposti nella Parte
seconda, si rimanda anzitutto alle conclusioni espresse in calce ai rispettivi
capitoli. Volendo tuttavia provare a sintetizzare ulteriormente quelle
conclusioni, si potrebbe dire che di fronte allo shock della CMC gli Stati
Uniti ebbero una reazione scossa ma compatta, l’Italia una divisa ma
dinamica; tra le categorie transnazionali di osservatori, i politologi parvero
inclini ad analizzarla come un caso di scuola, gli scienziati a preoccuparsi
più per i suoi rischi, mentre i religiosi oscillarono tra silenzi, preghiere e
appelli per la pace 3.
Inoltre, a livello più generale si può evidenziare (sempre in estrema
sintesi) che:
***
Prima di chiudere, resta infine da dire qualche parola sugli esiti della
CMC, ricollegandoci alle percezioni illustrate nella Parte seconda e ai
concetti teorizzati nella Premessa. Sul piano braudeliano delle strutture,
risulta ribadito come la CMC abbia costituito l’evento più importante
dell’era termonucleare, con la sua clamorosa epifania internazionale della
nuova struttura connessa all’avvento di quelle armi, che abbiamo teorizzato
e definito come ‘globalizzazione del teatro di guerra’. Sul piano braudeliano
delle congiunture, la CMC si rivelò a posteriori il punto di svolta centrale
della guerra fredda (non tanto in quanto avrebbe evidenziato limiti militari –
per altro in seguito largamente colmati – della superpotenza poi risultata
perdente alla fine di quella congiuntura, quanto perché essa ebbe
ripercussioni decisive sul suo prosieguo, quali la fine delle crisi
internazionali per Berlino, l’avvio della prima distensione tra le due
superpotenze e l’abbandono delle politiche di brinkmanship). Quanto al
piano dell’événement, infine, sarà il caso di tornare, come promesso, su una
delle considerazioni avanzate nel capitolo Capire la crisi, e cioè sul
problema, ivi affrontato, del chi avesse vinto la crisi. Alla luce delle
percezioni internazionali qui illustrate (e a quelle di altri Paesi a cui qui si è
potuto solo accennare), risulta confermato che presso l’opinione pubblica
internazionale l’esito dell’événement CMC fu percepito pressoché ovunque
come una vittoria per gli Stati Uniti 7.
I principali atteggiamenti che gli osservatori assunsero a riguardo, infatti,
sembrano essere riassumibili sotto le seguenti tre macrocategorie.
– L’opinione pubblica (e la relativa stampa) più conservatrice (quella,
per intenderci, che a sinistra definivano «reazionaria») si compiacque della
apparente ritirata sovietica, spesso con un cinismo di toni più adatto ad una
sfida tra gang di periferia che non ad una crisi internazionale tra
superpotenze atomiche.
– L’opinione pubblica moderata (e la relativa stampa, le cui più
autorevoli testate erano lette con attenzione dai cosiddetti «quadri dirigenti»
dei vari Paesi) attribuì decisamente la vittoria agli Stati Uniti,
complimentandosi per la fermezza e il coraggio mostrato da Kennedy di
fronte alla sfida che gli era stata tesa, ma senza omettere di riflettere sulle
ragioni di quanto era appena successo (compatibilmente con le informazioni
allora note), né di riconoscere la saggezza di Kruscev come componente
importante e meritoria.
– Ad attribuire la vittoria all’Unione Sovietica restò dunque la sola
stampa propriamente comunista, che, con ben più sicurezza di quanta non
nutrisse il suo stesso segmento di lettori ed opinione pubblica, sostenne che
Mosca non solo aveva salvato la pace mondiale ma aveva costretto
l’aggressore ad abbassare la testa e rinunciare ai suoi propositi imperialisti,
riportando dunque una vera vittoria.
Date queste proporzioni, la gran parte dell’opinione pubblica
internazionale ebbe dunque la netta impressione che la CMC si fosse risolta
in una chiara vittoria americana. Lo stesso ambasciatore sovietico Dobrynin
ammetterà nelle sue memorie che «Kennedy fu proclamato il grande
vincitore della crisi» e che «il mondo intero pensò che Kruscev aveva
perso» 8. Tuttavia a ben vedere e mettendo nel conto anche la rimozione dei
missili da Turchia e Italia, risulta oggi chiaro che di fatto la CMC era stata
«un pareggio, con guadagni e perdite da ambo i lati» 9. E non solo era stata
un pareggio in quanto ai contenuti concreti dell’accordo, ma anche nel
modo in cui lo si era raggiunto, nel senso che entrambi i leader si erano
vicendevolmente aiutati nel lasciare aperta all’avversario la via d’uscita;
entrambi avevano accettato di fare delle concessioni; ed entrambi avevano
provato una salutare, benedetta paura. Come è stato scritto, parafrasando la
famosa frase pronunciata il 24 alla Casa Bianca da Dean Rusk («…the other
fellow just blinked»), al momento della verità «both leaders blinked»
(hanno sbattuto le ciglia entrambi i leader) 10. Ciò che in seguito, agli occhi
del mondo, aveva fatto pendere la bilancia a favore degli USA era stata
piuttosto la percezione di quell’accordo. Cioè un aspetto indotto, più
apparente che reale. Ma nelle logiche particolari della guerra fredda, come
Kennedy aveva perfettamente compreso e spiegato agli americani, «le
apparenze contribuiscono a plasmare la realtà» 11.
C’era infine un terzo aspetto. Al di là cioè del risultato prettamente
«numerico» (pareggio) e di quello prettamente «politico» (vittoria netta
degli Stati Uniti), il risultato autentico della crisi era stato il trionfo della
pace sulla guerra, della diplomazia sugli eventi incontrollati e
sull’escalation militare che si stava mettendo in moto. Non si tratta di
volerne trarre morali edificanti, quanto semplicemente di constatare la
realtà storica, su un punto sul quale del resto concordano le percezioni di
buona parte dell’opinione pubblica internazionale di allora 12, le
testimonianze a posteriori dei protagonisti della crisi da ambo le parti e le
analisi della storiografia. L’obiettivo principale – evitare una guerra che
sarebbe stata catastrofica per tutti – era stato raggiunto, ed in quello
consisteva il vero successo. Kruscev lo definì un «trionfo del buon
senso» 13. Così anche l’americano Sorensen: «Il mondo fu il vincitore» 14.
Sul lungo termine, però, esiti così felici non possono certo darsi sempre
per scontati. E ciò per una ragione molto semplice e molto umana,
sintetizzata così, in una sorta di inquietante postulato, dall’ex Segretario alla
Difesa McNamara, nell’intervista-testamento in cui egli rifletteva sui molti
errori da lui commessi come capo del Pentagono. «La maggior lezione della
crisi dei missili di Cuba è questa: la combinazione indefinita di fallibilità
umana e armi nucleari distruggerà nazioni» 15.
Motivo per cui, fintanto che le armi termonucleari resteranno in
circolazione, la CMC rimarrà un monito.
Quasi un riassunto della CMC, pubblicato a crisi appena attenuatasi.
«Troviamo un lucchetto per questo coso», si dicono i due sudati leader mentre si sforzano insieme di
contenere il mostro della guerra nucleare.
L’autore è Herblock, diminutivo di Herbert Block, tre volte vincitore del Pulitzer.
(HERBLOCK, «The Washington Post», 1° novembre 1962, p. A24.)
Note
Introduzione
1
J. GADDIS, We now know. Rethinking Cold War History, Clarendon
Press, Oxford, 1997, p. 260. Gaddis del resto non è il solo ad aver espresso
questa constatazione. «Pochi eventi nella storia sono stati studiati e
analizzati come la crisi dei missili di Cuba» (M. DOBBS, One minute to
midnight. Kennedy, Khrushchev and Castro on the brink of nuclear war,
Knopf, New York, 2008, p. XIII); «Nessun episodio del secolo scorso è
stato così elaboratamente documentato, così spesso rivissuto in libri e film,
così tante volte francamente riesaminato in straordinarie riunioni di veterani
russi, americani e cubani» (M. FRANKEL, High Noon in the Cold War,
Random House, New York, 2004, p. 3). L’immagine più efficace resta però
quella di Bundy: «Forests have been felled»: «[Intere] foreste sono state
tagliate», egli scriveva già venticinque anni orsono, «per stampare le
riflessioni e conclusioni di partecipanti, osservatori e studiosi» della crisi di
Cuba. McG. BUNDY, Danger and survival, Vintage, New York, 1988, p. 391.
2
Lettera segreta di Kruscev a Kennedy del 30-10-1962 (testo integrale
in L. NUTI, I missili di ottobre. La storiografia americana e la crisi cubana
dell’ottobre 1962, LED, Milano, 1994, p. 357).
3
Per la traslitterazione di questo ed altri nomi russi (di cui varie sono le
versioni usate) utilizzeremo qui quella più vicina alla usuale pronuncia
italiana (Kruscev), lasciando però, ove esso faccia parte di titoli o
virgolettati citati in lingua, la traslitterazione originale (in genere l’inglese
Khrushchev).
TH. PATERSON , Fixation with Cuba: The Bay of Pigs, missile crisis and
4
the covert war against Fidel Castro, in IDEM (a cura di), Kennedy’s quest for
victory. American Foreign policy 1961-1963, Oxford University Press, New
York, 1989, pp. 123-155; TH. REEVES, A question of character. A life of John
F. Kennedy, Free Press, New York, 1991 (da non confondersi con
l’omonimo Richard Reeves, autore di un’altra biografia kennediana); S.
HERSH, The dark side of Camelot, Little, Brown & Co., New York, 1997.
5
Il termine «sintesi hegeliana» è di L. NUTI, I missili di ottobre…, cit.,
p. 45. Per una sintesi sulle tendenze storiografiche di fondo sulla guerra
fredda, cfr. J. HARPER, Guerra Fredda. Storia di un mondo in bilico, Il
Mulino, Bologna, 2013, pp. 105-112.
6
Tale corposa raccolta – The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012 – assembla documentazione diplomatica
proveniente dai più diversi archivi internazionali. Per questo, a detta dei
curatori del Cold War International History Project, essa apre una «terza
ondata» nella storiografia sulla CMC, più multinazionale e decentrata, dopo
quella legata alla sola documentazione statunitense e quella legata
all’emergere dei primi documenti sovietici. Il presente studio, realizzato
prima della comparsa di questa raccolta (anche se si è fatto in tempo ad
includerne alcuni contributi), assiste ora con particolare favore all’arrivo di
questa «terza ondata», avendo scelto un approccio multinazionale in linea
con essa.
7
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 261 (termini enfatizzati in corsivo
nell’originale).
8
Con l’interessante eccezione di A. GEORGE, Awaiting Armageddon.
How Americans faced the Cuban Missile Crisis, University of North
Carolina Press, Chapel Hill, 2002, cui faremo riferimento. La sua ottica è
comunque diversa, inserendosi tra gli studi su quel decennio della storia
USA. Prende cioè in esame la sola reazione statunitense e vi cerca un
«punto di partenza» per «capire gli anni Sessanta» (p. 6).
9
J.F. SIRINELLI, G.H. SOUTOU (dir.), Culture et guerre froide, PUPS, Paris,
2008, p. 7.
10
L’antologia francese M. VAISSE (dir.), L’Europe et la crise de Cuba,
Armand Colin, Paris, 1993, e il saggio britannico di L. SCOTT, Macmillan,
Kennedy and the Cuban missile crisis, Macmillan Press, London, 1999,
affrontavano rispettivamente le reazioni di alcuni Paesi dell’Europa
occidentale e quelle del Regno Unito. Inoltre, entrambi si concentravano
sugli aspetti politico-diplomatici e militari, non su quelli pubblici, mediatici
e socioculturali, qui invece centrali.
11
Come si vede, il termine transnazionale è qui usato in riferimento a
categorie di osservatori, più che a organizzazioni e reti di attivisti come
invece in M. EVANGELISTA, Transnational organisations and the Cold war, in
The Cambridge history of the Cold war, Cambridge University Press,
Cambridge, 2010, vol. 3, pp. 400-422. Tuttavia, come vedremo, vari
osservatori di cui parleremo coincidono con gli ‘attori transnazionali’ di cui
tratta Evangelista.
12
Naturalmente, per quanto questa riduzione dello spettro d’analisi
abbia consentito un maggior grado d’approfondimento dei contesti qui
esposti, non per questo ci si illude di averli presentati nella loro assoluta
completezza. Infatti il tema resta pur sempre vasto e l’eterogeneità dei
contesti analizzati potrebbe esporre comunque il presente studio a
prevedibili osservazioni, anche in contraddizione tra loro (per esempio
quella sulla lunghezza eccessiva del testo e quella sulla mancanza di
approfondimenti interpretativi ulteriori). In fase di revisione si è intervenuti
a smussare tali punti critici, riscontrando però che alcuni di essi erano
intrinseci all’approccio scelto: lo stesso nel quale ci pare risieda anche il
carattere innovativo del lavoro.
13
Relativamente al capitolo sull’Italia, resta attuale quanto notava nel
1998 A. VARSORI, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992,
Laterza, Roma, 1998, p. IX, ossia che l’accessibilità ancora incompleta
delle nostre fonti archivistiche fa sì che in diversi casi il materiale più
interessante sulla situazione italiana finisca per trovarsi in archivi esteri.
14
Al ruolo della televisione e della radio nel raccontare la crisi
accenneremo in più punti, senza però farne qui oggetto di indagine in
maniera analoga, anche per la carenza di documentazione (assente, per
esempio, dal catalogo RAI, da noi consultato). Si consideri inoltre che
all’epoca la stampa aveva una posizione centrale nell’approfondimento
degli eventi di politica internazionale.
15
L’opinione pubblica, come vedremo meglio all’inizio della seconda
parte, è un soggetto sfuggente alle definizioni, specie ove non limitato a
contesti nazionali. È però comunque utile richiamare al lettore le distinzioni
teoriche elaborate in merito dagli studiosi americani Gabriel Almond e
James Rosenau (rispettivamente nei saggi The American people and foreign
policy, Hartcourt, Brace, New York, 1950 e Public opinion and foreign
policy, Random House, New York, 1961). Essi la consideravano divisa in
due blocchi: «opinion-maker» e «opinion-holder» – ossia chi forma le
opinioni e chi le detiene – dividendo poi quest’ultima categoria in due
sottogruppi, relativamente alle questioni internazionali: «attentive public» e
«mass public» – ovvero coloro «che sono molto interessati e ben
informati», e il pubblico di massa, «totalmente disinteressato e disinformato
riguardo agli affari internazionali». Il secondo gruppo, come suggerisce il
nome, è sempre il più largo dei due, anche se con variazioni da Paese a
Paese. In ogni caso noi faremo qui riferimento all’opinione pubblica nel suo
senso più ampio, e – nelle parti che le riserveremo nei capitoli su USA e
Italia – la intenderemo principalmente come composta da «opinion-holder»
(la gente comune), vista la presenza di spazio espositivo a parte per l’analisi
di politici, giornalisti e intellettuali: soggetti considerabili come «opinion-
maker».
16
Tra i due termini c’è differenza, giacché la seconda può non
comportare la prima. La percezione, cioè, non implica necessariamente un
atto di reazione, potendosi risolvere anche in semplice inazione o totale
indifferenza di fronte all’evento; la percezione, inoltre, attiene più da vicino
alla sfera mediatica, mentre la seconda più ad una sfera politica. Ciò detto,
si tratta comunque di distinzioni semantiche che avranno importanza
relativa, nell’uso, talora interscambiabile, che faremo di questi due termini
nel corso del presente studio.
17
Parallelamente all’emergere di fattori connessi quali la diffusione
dell’alfabetizzazione, la democrazia di massa, l’opinione pubblica, i mass
media, ecc.
18
T. JUDT, Thinking the Twentieth century, Penguin Press, New York,
2012, p. 285.
19
La memoria, come gli studiosi di contemporaneistica sanno bene, può
rivelarsi metodologicamente un’arma a doppio taglio. Il passare del tempo
infatti altera i ricordi, talvolta anche notevolmente e inavvertitamente. A ciò
si aggiungono i rischi di distorsione dati dal famoso «senno di poi» (si
ricorda e si interpreta l’evento alla luce del suo esito). Un episodio come la
crisi di Cuba può essere particolarmente soggetto a tali rischi, per il suo
carattere traumatico e la sua breve durata.
20
Sono aspetti, questi, che recentemente stanno cominciando a ottenere
attenzione. Gli studiosi americani Johnson e Tierney, per esempio, hanno
scritto che «la letteratura sulla percezione e la percezione errata [perception
and misperception] è una parte crescentemente importante degli studi di
relazioni internazionali» (D. JOHNSON – D. TIERNEY, Essence of victory:
winning and losing international crises, in «Security Studies», vol. 13, n. 2,
2003-2004, pp. 350-381). I loro studi però si concentrano essenzialmente
sulla percezione degli esiti delle crisi; così come quelli di R. JERVIS,
Perception and misperception in international politics, Princeton University
Press, Princeton, NJ, 1976, riguardavano il ruolo delle percezioni nei
processi decisionali delle leadership. Il nostro approccio invece, come si
vede, riguarda in primo luogo (seppur non esclusivamente) le percezioni
pubbliche della crisi, ossia l’esperienza che la gente ne maturò durante essa.
21
G. DE GROOT, The Bomb. A life, Harvard University Press, Cambridge,
MA, 2005, p. IX.
22
Come invece aveva scelto di fare, per esempio, il pur ottimo saggio
del 1988 sulla storiografia sulla crisi, W. MEDLAND, The Cuban Missile
Crisis of 1962: needless or necessary?, Praeger, New York, 1988.
23
Per esempio, nel caso della citazione più lunga, quella dal resoconto
di Rossana Rossanda, nessuna parafrasi avrebbe potuto restituire al lettore il
pathos, la volontà ideologico-letteraria di ‘epicizzare’ quei frangenti come
la scrittura originale, e ciò è parso elemento da fornire per aiutare a
comprendere la percezione italiana della CMC e il suo carattere di
divisività.
24
Il verbale è riportato in The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWHIP Bulletin», Fall 2012, p. 402.
25
Allison nel 2012 ha definito il crescente attrito USA-Iran «una crisi
dei missili di Cuba al rallentatore» (G. ALLISON, The Cuban missile crisis at
50. Lessons for U.S. foreign policy today, in «Foreign Affairs», July-August
2012). Quanto alla Corea del Nord, le esplicite minacce nucleari rivolte (più
o meno credibilmente) agli USA dal nuovo leader Kim Jong-un, appena
trentenne, hanno spinto l’ottantaseienne Castro a interrompere un lungo
silenzio e scrivere un articolo in cui definiva la situazione «uno dei più
gravi rischi di guerra nucleare dalla crisi di ottobre del 1962». (F. CASTRO, El
deber de evitar una guerra en Corea, in «Granma», 5-4-2013).
26
Si veda per esempio il discorso di Obama a Praga (5-4-2009) o quello
al vertice di Seul (26-3-2012).
Prologo
1
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 486.
2
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 41.
3
Uno dei suoi più alti consiglieri, Bundy, scriverà poi che ciò che più lo
colpì, favorevolmente, di quella decisione fu che il Presidente l’aveva presa
«contrariamente alla propria (stessa) opinione che essa difficilmente
avrebbe funzionato». MCG. BUNDY, op. cit., p. 457.
4
«Joe the plumber» (Joe l’idraulico) è la personificazione
comunemente usata in USA per descrivere l’americano medio (non troppo
dissimile dal nostro «signor Rossi» o dal nostro «uomo della strada»).
5
Acronimo di white anglo-saxon protestant che identifica i connotati
tipici degli esponenti della tradizionale classe dirigente USA.
6
T. SORENSEN, Kennedy, Mondadori, Milano, 1966, p. 937.
7
«New York Journal American», 22-10-62, p. 1.
8
R. DALLEK, An unfinished life, Little, Brown & Co., New York, 2003,
p. 558. (Anche M. DOBBS, op. cit., p. 50, parla di «oltre cento milioni»,
mentre 50 milioni era la stima fatta all’epoca dal «Los Angeles Times», 24-
10-62, e riportata da A. GEORGE nel suo Awaiting Armageddon, cit., p. 93,
che però si corregge raddoppiando la cifra nel suo più recente The Cuban
missile crisis. The Threshold of nuclear war, Routledge, New York, 2013, p.
67.)
9
Nell’88 per cento delle famiglie, secondo quanto precisa G. RUBIN, 40
ways to look at JFK, Ballantine Books, New York, 2005.
10
A. DOBRYNIN, In confidence, Times Books Random House, New York,
1995, p. 78.
11
D. RUSK, As I saw it, W.W. Norton & Co., New York, 1990, p. 235.
12
M. DOBBS, op. cit., p. 42.
13
Così era definita l’ora del discorso nel programma cronologico stilato
per coordinamento interno (T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 932).
14
Un altro interruttore era celato in un fermalibro accanto all’altra sedia
della stanza. S. STERN, The week that the world stood still, Stanford
University Press, Stanford, California, 2005, p. 6.
15
S. STERN, The Cuban missile crisis in American memory, Stanford
University Press, Stanford, 2012, pp. 11 e 35. Che Robert Kennedy ne fosse
a conoscenza si evince anche dal fatto che una delle primissime cose che
egli fece non appena apprese dell’attentato al fratello fu di far
immediatamente smantellare il dispositivo (E. THOMAS, Robert Kennedy,
Simon & Schuster, New York, 2000, p. 275).
16
E. MAY – PH. ZELIKOW, The Kennedy Tapes. Inside the White House
during the Cuban Missile Crisis, Belknap Press of Harvard University
Press, Cambridge, 1997, p. X.
17
È un’opinione ormai abbastanza pacifica tra gli storici. Cfr. per
esempio S. STERN, The week…, cit., p. 6.
18
Usando un’altra, bella, immagine, Stern la definisce invece «the
chance to be the fly on the wall»: l’opportunità di essere la mosca sul muro
(ivi, p. 5).
19
Lo riporta P. SALINGER, With Kennedy, Doubleday Co., Garden City,
NY, 1966, p. 265.
20
Lo ricorda la stessa Jacqueline, nelle testimonianze di storia orale
registrate nel 1964 con lo storico Schlesinger e rese pubbliche nel 2011. J.
KENNEDY, Jacqueline Kennedy. Historic conversations on life with John
Kennedy, Hyperion, New York, 2011, pp. 262-263. (Cfr. sul punto anche M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 481; S. STERN, The week…, cit., 74). In quei giorni,
un’analoga intenzione di rimanere comunque al proprio posto la espresse
pure Robert Kennedy (cfr. E. THOMAS, Robert Kennedy, cit., p.224) nonché il
Giudice della Corte Suprema Earl Warren, che restituì il pass per il bunker
quando fu informato che la moglie non avrebbe potuto seguirlo (A. GEORGE,
The Cuban missile crisis, cit., p. 93).
21
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 21.
Verso il climax. Cenni sulla guerra fredda 1956-1962
1
N. COUSINS, The improbable triumvirate, W.W. Norton & Co., New
York, 1972, pp. 151-152.
2
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, W.W. Norton &
Co., New York, 2006, p. 8.
3
W. TAUBMAN, Khruschev: The man and his era, W.W. Norton & Co.,
New York, 2003, p. 671.
4
L’episodio della scelta dell’aggettivo è in E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 669.
5
V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, Inside the Kremlin’s Cold War, Harvard
University Press, Cambridge, 1996, p. 175.
6
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, Sugar, Milano, 1970, pp. 370-373.
7
Questa stima numerica si trova in A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell of
a gamble, W.W. Norton & Co., New York, 1997, p. 186.
8
Si veda per esempio il titolo, oltre che il contenuto, del volume di F.
BURLATSKY, Khrushchev and the first Russian Spring, Macmillan Publishing
Company, New York, 1988.
9
Tra i recenti studi sul tema segnaliamo: C. BEKES – M. BYRNE – J.
RAINER (a cura di), The 1956 Hungarian Revolution: A history in documents,
Central European University Press, Budapest, 2003; CH. GATI, Failed
illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt,
Stanford University Press, Stanford, CA, 2006; V. SEBESTYEN, Twelve days:
the story of 1956 Hungarian Revolution, Weidenfeld & Nicolson, London,
2006; trad. it. Budapest 1956, Rizzoli, Milano, 2006; P. LENDVAI, One day
that shook the Communist world: the 1956 Hungarian uprising and its
legacy, Princeton University Press, Princeton, 2008.
10
Sull’episodio si vedano la raccolta di studi The Suez-Sinai crisis,
1956: retrospective and reappraisal, Frank Cass, London, 1990 e le
monografie di K. KYLE, Suez: Britain’s end of empire in the Middle East,
I.B. Tauris, London, 1991 e D. TAL, The 1956 War: collusion and rivalry in
the Middle East, Frank Cass, London, 2001.
11
Benché su originaria ispirazione del suo rivale Malenkov, poi da lui
deposto (J. GADDIS, We now know…, cit., p. 229).
12
Per un dettagliato e vivace resoconto del viaggio di Kruscev in
America, si veda ora P. CARLSON, K blows top, Public Affairs, New York,
2009.
13
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 237.
14
Riportato ivi, pp. 239 e 248.
15
Sull’argomento, cfr. anche P. DICKSON, Sputnik: The shock of the
century, Walker, New York, 2001; M. BRZEZINSKI, Red Moon rising: Sputnik
and the hidden rivalries that ignited the space age, Bloomsbury, London,
2007.
16
Copia della prima pagina del quotidiano esposta all’interno dello
Space and Air Museum, in Washington, DC.
17
Massive retaliation era appunto il modo in cui veniva definita la
strategia americana di quegli anni.
18
Eisenhower, per esempio, dichiarò nel 1956: «stiamo accumulando
questi armamenti perché non sappiamo cos’altro fare per provvedere alla
nostra sicurezza». R. RHODES, Arsenals of folly, Knopf, New York, 2007, p.
100.
19
R. CROCKATT, Cinquant’anni di Guerra Fredda, Salerno Editrice,
Roma, 1997, p. 198.
20
Ivi, p. 202; E.J. HOBSBAWM, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006, p.
287; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 77.
21
Cfr. per esempio E.J. HOBSBAWM, Il secolo breve, cit., p. 511: «La
maggior parte dei cubani visse sinceramente la vittoria dei ribelli come un
momento di liberazione e di promesse infinite incarnate nel giovane
comandante […]. Probabilmente nessun capo nel Secolo breve […] ebbe
ascoltatori più entusiasti e appassionati di questo omone barbuto, con la
mimetica sgualcita, che si presentava sempre in ritardo ai comizi e poi
parlava per ore, ininterrottamente […]. Per una volta la rivoluzione venne
sperimentata come una specie di luna di miele collettiva. Dove avrebbe
condotto? Da qualche parte doveva pur esserci un futuro migliore».
22
E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, cit., p.
1055.
23
A. FURSENKO, T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 9.
24
H. THOMAS, Storia di Cuba, Einaudi, Torino, 1973, p. 929.
25
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 8.
26
Come ben riassunto da Walter Cronkite, il decano del giornalismo
USA, «la consideravamo un po’ parte degli Stati Uniti […] era una piccola
colonia» (OHI realizzate dal NSA per la CNN Cold War Series.
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/episode-10/cronkite3.html).
Già nel 1899, il presidente USA McKinley aveva proclamato nel discorso
sullo stato dell’Unione che, alla fine della guerra in corso, Cuba avrebbe
dovuto «necessariamente essere legata a noi da legami di singolare intimità
e forza, affinché il suo perdurante benessere sia assicurato. Che tali legami
siano organici o convenzionali, i destini di Cuba sono in qualche legittima
forma e maniera irrevocabilmente legati ai nostri». (Cit. in L. PEREZ, Cuba
and the United States, University of Georgia Press, Athens, 2003, epigrafe.)
27
Per comprendere la misura di tale predominanza, si considerino
intanto i suoi paletti formali: il controllo sulla politica estera cubana
previsto dall’emendamento Platt (in vigore dal 1903 al 1934) e la
concessione di una base militare permanente sull’isola (Guantanamo). Ma
anche al di là di ciò, la posizione degli USA a Cuba è ben riassunta dalla
testimonianza resa al Senato nel 1960 da Earl T. Smith, ultimo ambasciatore
statunitense sull’isola prima della rivoluzione: «Fino all’arrivo di Castro»,
disse Smith, «gli USA erano così soverchiantemente influenti a Cuba che
l’ambasciatore americano era il secondo uomo più importante, a volte
persino più importante del presidente cubano». (Cit. in D. KELLNER, Ernesto
«Che» Guevara, Chelsea House Publishing, New York, 1988, p. 66.)
28
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp. 40-44; H. THOMAS,
Storia di Cuba, cit., pp. 968-969. A proposito di questo discorso il
pensatore francese Jean-Paul Sartre, che era presente, scrisse: «Scoprii
l’angoscia cubana, perché ad un tratto la condivisi».
29
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 44 (sono le parole esatte
del piano sottoposto ad Eisenhower).
30
Ivi.
31
A. SCHLESINGER Jr., Journals 1952-2000, The Penguin Press, New
York, 2007, p. 93.
32
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 16 (questa frase era stata da lui
pronunciata in merito al suo programma per la politica di difesa, ma
rispecchiava bene anche il resto del suo programma).
33
R. CROCKATT, Cinquant’anni di Guerra Fredda, cit., p. 189.
34
Quest’accenno si concreterà poi nell’Alleanza per il Progresso: un
programma di finanziamenti per lo sviluppo del Sud America (G. GARAVINI,
Dopo gli imperi, Le Monnier, Firenze, 2009, p. 33).
35
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1044.
36
Cosa di cui Schlesinger aveva avvertito il Presidente, in un «memo»
dell’11 febbraio 1961: «Per quanto ben mascherata una qualsiasi azione
[contro Cuba] possa essere, essa verrà ascritta agli Stati Uniti». Cit. in J.
BLIGHT – P. KORNBLUH (a cura di), Politics of illusion: The Bay of Pigs
invasion reexamined, Lynne Rienner Publishers, Boulder, 1998, p. 218.
37
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1043.
38
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 102.
39
Riportato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy and the Cuban missile
crisis, cit., p. 20.
40
A. SCHLESINGER Jr., Journals 1952-2000, cit., p. 120.
41
Riportato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., p. 22.
42
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1040.
43
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1045.
44
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 71.
45
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 136.
46
Cfr. L. FREEDMAN, Kennedy’s wars, Oxford University Press, New
York, 2000, p. 147.
47
Al di là delle prevedibili veementi proteste verbali, che egli sollevò in
due lettere personali a Kennedy inviate rispettivamente il 18 e 22 aprile
1961 (cfr. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 123).
48
Ivi, p. 196.
49
R. VAN DIJK (a cura di), Encyclopedia of the Cold War, Routledge,
London, 2008, p. 942; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 129.
50
R. VAN DIJK (a cura di), Encyclopedia of the Cold War, cit., p. 942; M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 201.
51
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 105; F. TAYLOR, The
Berlin Wall, Harper Perennial, New York, 2006, p. 119.
52
F. TAYLOR, The Berlin Wall, cit., p. 125; N. KRUSCEV, Kruscev ricorda,
cit., pp. 486-487.
53
Su questo aspetto si veda H. HARRISON, Driving the Soviets up the
wall, Princeton University Press, Princeton, 2003, pp. 139-224.
54
M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 218 e ss. (sul vertice di Vienna nel suo
complesso, cfr. pp. 196-238).
55
Ivi, p. 231.
56
Riportato ivi, p. 227.
57
Virgolettati riportati, ivi, pp. 228-229; M. DOBBS, op. cit., p. 7; F.
TAYLOR, The Berlin Wall, cit., p. 129. Studi come D. KAGAN, On the origins
of war and preservation of peace, Doubleday, New York, 1995, pp. 475-
476, mostrano che effettivamente l’idea che Kruscev si era fatto del suo
avversario era quella. Recenti documenti sovietici sembrano confermarlo:
per esempio, in una riunione del Presidium di alcuni mesi dopo (8-1-1962),
Kruscev disse ai suoi: «l’uomo in sé [Kennedy] ha molto poca autorità tra
coloro che decidono e dirigono la politica degli Stati Uniti». (Cit. in J.
HASLAM, Russia’s cold war, Yale University Press, New Haven, 2011, p.
188.)
58
JFK Berlin speech, July 25, 1961 (testo completo originale reperibile
sul sito della JFK Library); M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 262-265.
59
Ivi, pp. 267-8. Il punto è contestato: secondo altri, una tale mossa
sarebbe stata un’alterazione degli accordi di Potsdam (conclusi da USA,
URSS e UK nel 1945 proprio per definire insieme il problema di Berlino).
60
Neanche quando l’affermazione di Fulbright fu menzionata da un
giornalista a JFK nel corso di una sua conferenza stampa (ivi, p. 272).
61
Ivi, p. 270 (e H. HARRISON, op. cit., p. 195). Si precisa comunque che
da testimonianze più recenti rispetto al volume di Beschloss risulterebbe
che un primo generico assenso di Mosca alla chiusura dei confini fosse
stato fatto filtrare ai vertici della DDR già all’inizio di luglio (H. HARRISON,
op. cit., p. 186).
62
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 274.
63
Ivi, p. 278.
64
Ivi, p. 281.
65
Ivi, p. 282.
66
Ivi, p. 278.
67
A. PEYREFITTE, C’était De Gaulle, 2 voll., Fayard, Paris, 1994-1997
(**), p. 19. (Cfr. anche M. BESCHLOSS, op. cit., p. 285.)
68
Quanto alla nomina di Konev, per esempio, Kruscev stesso nelle sue
memorie la definirà «puramente amministrativa, tanto per dimostrare agli
occidentali che seguivamo la situazione altrettanto seriamente di loro» (N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 491).
69
Oleg Penkovski, colonnello dell’intelligence militare sovietica,
cominciò spontaneamente a collaborare con il servizio segreto britannico
MI6 e la CIA, nell’aprile 1961, rivelando i segreti militari cui aveva accesso
in patria. Fornì preziose informazioni sullo stato dell’arsenale sovietico,
invitando tra l’altro la Casa Bianca ad essere «risoluta» (firm), giacché
Kruscev non era «pronto per alcuna guerra». (Cfr. J. HASLAM, Russia’s cold
war, cit., p. 196.)
70
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 33.
71
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 256.
72
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 336.
73
In tal senso, cfr. per esempio MCG. BUNDY, op. cit., p. 419.
74
Di questo avviso, tra gli altri, M. BESCHLOSS, op. cit., p. 355.
75
Ivi, p. 337. Il nome del comandante era Thomas Tyree.
76
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 492.
77
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 354.
78
L. FREEDMAN, op. cit., p. 153.
79
A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy and his times, Houghton Mifflin
Co., Boston, 1978, p. 534.
80
Meeting with Attorney General of US Concerning Cuba, Jan. 19th
1962 (un breve estratto è riportato anche in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura
di), The Cuban Missile Crisis, 1962. A National Security Archive
Documents Reader, The New Press, New York, 1998, p. 362).
81
JCS Memo to DoD, Mar. 13th 1962, Justification for US Military
Intervention in Cuba (Enclosure A, pp. 8, 10). Si tratta del documento della
cosiddetta Operazione Northwoods. (Su questi piani dei militari, cfr. anche
M. DOBBS, One minute to midnight…, cit., p. 17.)
82
Operation Good Times era l’ironico nome dell’operazione (JCS Ideas
in support of Cuba Project, Feb. 2, 1962. L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura
di), op. cit., pp. 53-61).
83
Perfino lo stesso capo della CIA John McCone era probabilmente
all’insaputa di questi complotti di omicidio, poiché come cattolico
osservante egli si era detto contrario all’idea («potrei essere scomunicato»).
84
Memo of SGA Meeting, 4-10-1962 (declassificato: 2-7-1997).
85
L. FREEDMAN, op. cit., p. 150 (il carattere corsivo è mio).
86
A conferma di ciò, cfr. per esempio E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
673.
87
Per esempio, la conversazione tra il Presidente e il genero di Kruscev
tenutasi alla Casa Bianca il 12 marzo 1962, in cui JFK aveva fatto un
esplicito e stizzito paragone tra come i sovietici avevano risolto il loro
problema dell’Ungheria e come gli americani avrebbero potuto risolvere il
proprio problema di Cuba. Passaggio che impressionò molto (forse anche
troppo) il genero di Kruscev, che tornato in patria lo riportò, con un
apposito memorandum, al suo importante suocero (Adzhubei’s account of
his visit to Washington to the CC CPSU – 12 March, 1962: documento
sovietico declassificato nell’aprile 2002, tradotto e pubblicato dal National
Security Archive:
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/620312%20Adzhubei%27s%20
Account.pdf).
88
Conferenza rievocativa della CMC tenuta a Mosca nel 1989: frase
riportata in J. BLIGHT – J. LANG, The Fog of War. Lessons from the Life of
Robert S. McNamara, Rowman & Littlefield, Lanham, 2012, p. 41; J.
GADDIS, We now know…, cit., p. 262.
89
Nell’interesse di chiarezza e sintesi, cito su questo punto in modo
combinato, naturalmente senza minimamente alterarne il senso, le memorie
di Kruscev come trascritte nelle edizioni del 1970 (N. KRUSCEV, Kruscev
ricorda, cit., pp. 523-526) e del 2007 (N. KHRUSHCHEV, Memoirs, vol. 3,
Brown University, Providence, 2007, pp. 320-326).
90
Su quella riunione del Presidium, cfr. J. HASLAM, Russia’s cold war,
cit., p. 202.
91
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 191.
92
A. GRIBKOV – W. SMITH, Operation Anadyr, Edition Q, USA, 1994, p.
15; J. GADDIS, We now know…, cit., p. 267.
93
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit, p. 83.
94
Ivi, p. 75.
95
Anni dopo, infatti, due membri del governo USA (Bundy e Sorensen)
confermeranno che se il dispiegamento fosse stato fatto pubblicamente
sarebbe stato molto più difficile per JFK trovare supporto per una reazione
(ivi, p. 80; M. BESCHLOSS, op. cit., p. 453, nota).
96
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 77 (il trattato fu firmato il 27 agosto,
da Che Guevara. Cfr. J. HASLAM, Russia’s Cold war, cit., p. 203).
97
L. FREEDMAN, op. cit., p. 174.
98
Si vedano per esempio C.B. LUCE, Cuba: Let’s have the whole truth,
in «Life», Oct. 5, 1962, con richiamo in copertina, e i due duri articoli
comparsi in quelle settimane The ugly choice, in «Time Magazine», Sep.
14, 1962, e The durable doctrine, in «Time Magazine», Sep. 21, 1962.
99
R. KENNEDY, I tredici giorni della crisi di Cuba, Garzanti, Milano,
1969, p. 22.
100
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 206.
101
MCG. BUNDY, op. cit., p. 393.
102
Riportato in E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit., p. 681; R. LEBOW – J. STEIN,
op. cit., p. 84; W. TAUBMAN, op. cit., p. 557.
103
Riportato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 84.
«Il nodo della guerra». I giorni della crisi dei missili di Cuba
1
T. SMITH The Cuban Missile Crisis and U.S. Public, in «Public Opinion
Quarterly», Summer 2003, p. 265.
2
M. DOBBS, op. cit., p. 5; M. BESCHLOSS, ivi, p. 8; MCG. BUNDY, op. cit.,
pp. 392 e 414; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 46.
3
«He can’t do this to me!». Probabilmente rispetto a questa versione
ufficiale ci fu anche qualche termine più colorito. In proposito infatti Bundy
(il latore della notizia) ricorderà poi con un filo di implicita ironia: «non
credo che quelle fossero proprio le parole giuste, ma non c’è niente di
sbagliato sulla musica». MCG. BUNDY, op. cit., p. 414.
4
M. BESCHLOSS, Guerra fredda…, cit., p. 8; MCG. BUNDY, op. cit., p. 392:
«Quando dissi al Presidente la brutta notizia […] la sua prima reazione, da
cui non si scosse più, fu che sarebbe servito qualcosa in più delle parole per
rispondere a questa sfida sovietica».
5
R. KENNEDY, op. cit., p. 18.
6
La determinazione dello stato di installazione e operatività dei missili
fotografati fu resa possible anche dalla documentazione sovietica che nei
mesi precedenti era stata fatta filtrare alla CIA dalla spia russa Oleg
Penkovski. Appena pochi giorni dopo (precisamente il 22 ottobre),
Penkovsky, che già da settimane veniva seguito dal KGB, fu scoperto,
arrestato, interrogato e successivamente giustiziato (M. DOBBS, op. cit., pp.
56-57). Su Penkovski cfr. anche R. GARTHOFF, A journey through the Cold
War, Brooking Institution Press, Washington, 2001, pp. 110-117 e J.
SCHECTER – P. DERIABIN, The spy who saved the world, Charles Scribner’s
Sons, New York, 1992.
7
S. STERN, The week…, cit., p. 22; M. DOBBS, op. cit., p. 9.
8
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 11.
9
La cosa gli fu anche fatta esplicitamente notare: cfr. T. SORENSEN,
Counselor. A life at the edge of history, Harper, New York, 2008, p. 289.
10
S. STERN, The week…, cit., p. 65.
11
T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 925; R. KENNEDY, op. cit., p. 33.
12
Qui RFK ‘dimentica’ che McCone in agosto aveva fatto presente al
governo la concretezza di una tale eventualità. Tuttavia si trattava pur
sempre della previsione di un individuo solo, senza prove e contro il parere
di tutti gli altri.
13
R. KENNEDY, op. cit., pp. 18 e 21.
14
S. STERN, The week…, cit., p. 44.
15
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 94.
16
Ivi, p. 85.
17
Per una conferma di queste difficoltà, cfr. anche R. KENNEDY, op. cit.,
p. 26.
18
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 440; L. FREEDMAN, op. cit., p. 178. Tojo era il
generale e primo ministro giapponese che approntò l’attacco a Pearl Harbor
(R. KENNEDY, op. cit., p. 24, erroneamente ricordava di aver passato il
biglietto al fratello invece che a Sorensen. Sul punto, cfr. L. FREEDMAN, op.
cit., p. 450 nota).
19
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 62.
20
Ivi, p. 66. Qui questa sua affermazione era riferita ai britannici ed alla
scelta in quel momento considerata, cioè l’airstrike, ma essa restò valida
anche quando vennero considerati gli altri alleati e le altre opzioni.
21
Ivi, p. 77; A. STEVENSON, The papers of Adlai E. Stevenson, Little,
Brown & Co., Toronto, Boston, 1979, vol. 8, p. 299.
22
Per l’orario, cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 14.
23
«Mongoose Meeting with Attorney General» (memo), Oct. 16, 1962,
riportato in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., pp. 62-63.
24
M. DOBBS, op. cit., p. 8.
25
Qui (come risulta da E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 102-103 e M.
DOBBS, op. cit, p. 17) è sorprendente notare come la questione (azioni di
sabotaggio compiute ai danni di un Paese straniero, per giunta appena
divenuto teatro di una gravissima crisi nucleare) sia considerata di
importanza marginale e tutto sommato scontata. Il tutto infatti si risolve nel
giro di pochissime battute e Bundy quasi si scusa per dover interrompere
«una riunione di questo tipo» per chiedere conferma a JFK della sua
approvazione riguardo a una generica «lista di opzioni di sabotaggio».
Bundy gliene menziona l’esistenza e subito conclude tagliando corto: «la
prendo come una sua approvazione del sabotaggio». L’unico punto della
lista che egli ritiene importante portare esplicitamente all’attenzione del
Presidente è quello riguardante l’operazione di minare le acque d’accesso ai
porti cubani. Bundy si domanda se ciò non sia troppo pericoloso, visto il
momento e comportando ciò il rischio di danneggiare anche navi di Paesi
alleati, poiché «le mine sono molto indiscriminate». JFK: «È questo ciò di
cui parlano? Minare?» Bundy: «Sì, è uno dei punti. La maggior parte
riguardano infiltrazioni di razziatori, e saranno semplicemente negabili
[come] attività cubane interne». Ma minare forse non è il caso. JFK
accoglie il consiglio: «Non credo che abbiamo bisogno di piazzare mine
proprio ora, no?» Bundy incassa e chiude: «Bene, allora mettiamo in azione
quelle interne a Cuba e non le altre».
26
M. DOBBS, op. cit., pp. 14-15.
27
Il torero era lo spagnolo Domingo Ortega. La poesia è stata spesso
attribuita al poeta inglese Robert Graves (cfr. M. BESCHLOSS, op. cit, p. 12), il
quale in realtà ne aveva solo effettuato una recente traduzione (come risulta
dal «New Yorker» del 3-11-1962, nell’articolo a firma di Richard H.
Rovere).
28
In particolare su quest’ultimo aspetto delle «conversational
dynamics» createsi nell’ExComm si concentra ora il saggio di D. GIBSON,
Talk at the brink, Princeton University Press, Princeton, 2012, che ne
sostiene l’importanza nell’orientare il processo decisionale della Casa
Bianca e dunque il corso della crisi. La pubblicazione di tale studio
conferma la nostra scelta di dar conto qui, seppur sinteticamente, di tali
dibattiti.
29
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 83-84.
30
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 86-87.
31
Nella nota d’agenzia stampa dell’11 settembre, il governo sovietico
aveva ribadito che le armi fornite a Cuba erano solo difensive e che un
attacco americano a Cuba non sarebbe rimasto impunito e anzi sarebbe stato
«l’inizio dello scatenamento della guerra» (TASS Statement, Sept. 11,
1962: reperibile online e sul «New York Times», Sept. 12, 1962, p. 16).
32
«He’s the one that’s playing at God, not us». La frase dai nastri non
risulta del tutto chiara, ma questa è la versione accreditata da tutte le
trascrizioni (Beschloss propone anche, ma solo come alternativa minore, la
possibilità che egli abbia detto, con accento bostoniano: «he’s the one that’s
playing HIS CARD, not us». M. BESCHLOSS, op. cit., p. 447).
33
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 89-92.
34
Ivi, p. 114. Quando Ball si esprime così, JFK ha già lasciato la
Cabinet Room da qualche minuto.
35
E. THOMAS, Robert Kennedy, cit., p. 213; S. STERN, The Cuban missile
crisis in American memory, cit., pp. 42-45; M. WHITE, Robert Kennedy and
the Cuban missile crisis: A reinterpretation, in «American diplomacy», 7-7-
2007. RFK il primo giorno era particolarmente furioso, anche perché le
false rassicurazioni di Kruscev sulle armi a Cuba erano state comunicate a
lui, tramite l’agente Bolshakov. Si sentiva perciò ingannato anche
personalmente.
36
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 100-101. Nel 1898, in seguito
all’affondamento della nave da guerra americana Maine (forse da parte
degli spagnoli) gli USA avevano finito per entrare in guerra contro la
Spagna per l’indipendenza di Cuba. Ora RFK pensava di poter organizzare
un incidente simile per poter essere legittimati ad intervenire di nuovo a
Cuba. Anni dopo, nel redigere il suo resoconto della crisi (Thirteen Days)
mentre correva per la Presidenza, pensò bene di tralasciare questi suoi
suggerimenti.
37
Robert Kennedy accarezzò davvero seriamente quest’idea in quelle
ore, visto che telefonò perfino a un anticastrista cubano veterano della Baia
dei Porci (Roberto San Romàn) con cui appunto «discusse la creazione di
una provocazione», incluso il danneggiamento di una nave russa in acque
cubane. La CIA, però, il giorno dopo (17 ottobre) decise più saggiamente di
mettere in attesa le più rischiose tra le operazioni di sabotaggio considerate,
«alla luce della mutata situazione riguardo a Cuba». E. THOMAS, Robert
Kennedy, cit., p. 234.
38
(«I don’t know quite what kind of a world we live in after we’ve struck
Cuba and we’ve started it».)
39
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 96-97.
40
Ivi, p. 116. Inoltre T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 910 aggiunge tra le
località elencate dall’ExComm come possibili bersagli anche il Pakistan e
la Scandinavia (oltre alle più ovvie Berlino, Turchia, Italia).
41
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 99-100.
42
L. NUTI, L’Italie et les missiles Jupiter, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p.
135.
43
La dislocazione era terminata tra il luglio 1960 e il giugno 1961 per le
basi missilistiche italiane (L. NUTI, ivi, p. 131) e a marzo 1962 per quelle
turche (P. NASH, The Other Missiles of October. Eisenhower, Kennedy and
the Jupiters, 1957-1963, University of North Carolina Press, Chapel Hill,
1997, p. 103; aprile secondo L. CHANG, P. KORNBLUH, a cura di, op. cit., p.
351).
44
Per una conferma tra tante su questa valutazione, cfr. G. BALL, The
past has another pattern, Norton & Co., New York, 1982, pp. 295 e 305 («I
Jupiter, una delle prime forme di missili a carburante liquido, erano
obsoleti; nessuno poteva neppure essere sicuro che fossero utilizzabili»).
45
M. DOBBS, op. cit., p. 37.
46
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 105.
47
Ivi, p. 107.
48
Ivi, pp. 112-123; S. STERN, The week…, cit., p. 52.
49
Sul ricorrere nella CMC dell’analogia con quest’evento, cfr. D.
TIERNEY, «Pearl Harbor in reverse». Moral analogies in the Cuban missile
crisis, in «Journal of Cold War Studies», 9, 3, 2007, pp. 49-77.
50
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 118.
51
«The New York Times», Oct 22, 1962, p. 1 (E. MAY – PH. ZELIKOW,
op. cit., p. 245).
52
Ivi, pp. 118-119; il testo completo della lettera è reperibile alla JFKL
(NSF, Cuba), oltre che online.
53
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 290 (che certifica anche che il
colloquio con l’ExComm avvenne il 17, come confermato anche in L.
CHANG – P. KORNBLUH, a cura di, op. cit., p. 360); M. DOBBS, One minute…,
cit., p. 250 (basato sull’intervista di storia orale sempre di Sorensen); J.
CHACE, Acheson, Simon & Schuster, New York, 1998, pp. 398-406. (Infine
secondo D. BRINKLEY, Dean Acheson, Yale University Press, New Haven,
1992, pp. 154-174 e in part. pp. 156-157, Acheson avrebbe partecipato
all’ExComm già dal 16 pomeriggio, ma le trascrizioni dei nastri e gli altri
volumi citati non supportano questa affermazione.)
54
BESCHLOSS, op. cit., p. 461.
55
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 361; M. BESCHLOSS, op.
cit., p. 461; S. STERN, The week…, cit., p. 64.
56
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 120-122. La sola zona fuori tiro di
quei missili sarebbe stata l’angolo nord-occidentale degli USA, sulla costa
del Pacifico e confinante col Canada. Si precisa che in realtà i soli missili
giunti a Cuba erano quelli a medio raggio, essendo quelli a raggio
intermedio ancora in navigazione (mentre le relative testate giunsero in
porto), benché a Washington non potessero assumerlo, avendone
individuato le specifiche infrastrutture preparatorie già in costruzione
sull’isola. A Washington dunque erano «preoccupati per entrambi i tipi» di
missili (N. POLMAR – J. GRESHAM, DefCon-2, Wiley, New Jersey, 2006, pp.
XXIII e 313-315).
57
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 143.
58
Ivi, p. 149.
59
M. DOBBS, op. cit., p. 17; L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit.,
pp. 358-359; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 237. Data l’aria di
crisi nel frattempo sopravvenuta, l’esercitazione fu usata come copertura
per muovere e preparare le truppe a un attacco. Kruscev era perfettamente a
conoscenza dell’Operazione ORTSAC: ne parla al leader ceco Antonìn
Novotný già il 30 ottobre. Cfr. The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 401.
60
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 20.
61
Sulla data precisa dell’arresto c’è discordanza: per Dobbs avvenne la
notte del 2 (One minute to midnight…, cit., p. 341), mentre J. ARBOLEYA, The
Cuban counterrevolution, Ohio University Press, Athens, 2000, p. 121 e
altre cronologie sulla crisi la collocano il 5 novembre.
62
Sull’episodio, cfr. L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 385;
J. ARBOLEYA, ivi, p. 121; D. DETZER, The brink. Cuban missile crisis, 1962,
Cromwell, New York, 1979, p. 94; e soprattutto M. DOBBS, op. cit., pp. 20,
24, 114-116, 118-119, 152, 213, 330-332, 341, la cui recente ricostruzione
si basa su varie fonti, tra cui il colloquio con Pedro Vera e i verbali del
processo cubano. A definire i due agenti «presumably lost» nella riunione
era stato il capo della task force William K. Harvey (si veda oltre).
63
A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 544.
64
Citato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 121.
65
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 77.
66
D. RUSK, op. cit., p. 233.
67
Riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 169; cfr. anche M.
BESCHLOSS, op. cit., pp. 462-463.
68
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 237. Su questo colloquio
di Gromyko, Kruscev commenterà poi in privato: «Stava mentendo.
Eccome! Ed era la cosa giusta da fare; aveva ordini dal Partito». The Global
Cuban missile crisis, in «CWIHP Bulletin», cit., Fall 2012, p. 402.
69
Qualche estratto è stato pubblicato da lui stesso nel suo recente T.
SORENSEN, Counselor…, cit., pp. 291-292.
70
Secondo Sorensen, ivi, p. 292, quello «può essere stato un punto di
svolta» in tal senso.
71
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 171.
72
S. STERN, The week…, cit., p. 66 (SIOP = Single Integrated Operation
Plan).
73
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 5 e 6.
74
Il suo incarico era denominato precisamente con la sigla CSAF (Chief
of Staff of the Air Force).
75
M. DOBBS, op. cit., p. 21.
76
M. DOBBS, op. cit., p. 97.
77
M. DOBBS, op. cit., p. 22.
78
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 234. La frase risale a
giovedì 18 (la sera prima dell’incontro con JFK).
79
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 173-188; S. STERN, The week…, cit.,
pp. 67-71.
80
Cfr. STERN, The week…, cit., p. 68. Sul significato di Monaco, si veda
anche il capitolo precedente.
81
M. DOBBS, op. cit., p. 22.
82
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 188.
83
M. DOBBS, op. cit., p. 23, S. STERN, The week…, cit., p. 71.
Quest’episodio s’inserisce nella lunga storia del dualismo esistente tra i
comandi civili e militari delle nazioni, costellata di recriminazioni dei
secondi per gli ordini ricevuti dai primi. La storia degli USA di quel
periodo ne offre almeno altri due esempi. Nel 1951, durante la guerra di
Corea, il presidente Truman arrivò a sollevare dall’incarico il celebre
comandante MacArthur, che stava ormai conducendo la guerra in contrasto
con le direttive ricevute da Washington (cfr. D. HALBERSTAM, The coldest
winter. America and the Korean war, Hyperion, New York, 2007, pp. 589-
619). Durante la guerra del Vietnam, poi, si diffuse l’idea che la sconfitta
sul campo fosse causata dal fatto che i militari USA dovevano «combattere
con un braccio legato dietro la schiena», per via di restrizioni politiche
imposte loro all’uso pieno della forza militare (cfr. R.D. JOHNSON, Congress
and the Cold war, Cambridge University Press, New York, 2005, p. 109; B.
FRANKLIN, Vietnam and other American fantasies, University of
Massachusetts Press, Amherst, 2000, p. 52).
84
R. REEVES, President Kennedy, Simon & Schuster, New York, 1991, p.
385.
85
S. STERN, The week…, cit., p. 72.
86
R. KENNEDY, op. cit., p. 36.
87
L. FREEDMAN, op. cit., p. 190.
88
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 238 (JFK usò questa
frase due giorni dopo, spiegando ancora la sua decisione all’ExComm).
89
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, pp. 234-235. Ciò aveva
l’inquietante conseguenza che un missile che fosse sfuggito ad un primo
attacco aereo avrebbe potuto essere lanciato in rappresaglia anche subito.
Inoltre l’indomani il generale Walter Sweeney confermerà a JFK (cfr. S.
STERN, The week…, cit., p. 74; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 206) che il
massimo che potevano garantirgli era di riuscire a distruggere il 90 per
cento dei missili noti. Si consideri che i militari ora erano particolarmente
attenti a non promettere percentuali di riuscita esagerate, in quanto questo
era l’errore che JFK aveva additato loro per la Baia dei Porci.
90
Come ben notato sia da S. STERN, Averting the final failure, Stanford
University Press, Stanford, 2003, p. 136, sia da E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 202 (i quali riportano anche il testo completo di tali minute: pp. 191-
202).
91
Minute della riunione del 20 ottobre del National Security Council,
riportate in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 201-202 e 209. (Si noti che
Beschloss, op. cit., p. 464 menziona il cambio di termine come avvenuto già
giovedì 18, mentre Freedman, op. cit., p. 188, sostiene che la dicitura sia
stata proposta da Acheson e accettata da JFK il 21.)
92
Cfr. anche L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 375.
93
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 474.
94
Anni dopo, morto Stevenson, lo riconoscerà anche R. KENNEDY, op.
cit., p. 38: «Benché dissentissi decisamente dalle sue proposte pensai che
Stevenson nel farle aveva dimostrato molto coraggio e, potrei aggiungere,
esse erano almeno tanto ragionevoli quanto altre esaminate in quel
periodo».
95
S. STERN, The week…, cit., p. 74; M. DOBBS, op. cit., p. 31.
96
A. FURSENKO – T NAFTALI, One hell…, cit., pp. 235-236; E. MAY – PH.
ZELIKOW, op. cit., p. 207.
97
T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 934.
98
Il nome di Graham come interlocutore del «Washington Post» a cui
JFK si rivolse è indicato come praticamente certo («it is a safe bet») da
BUNDY, op. cit., pp. 402-403. Ivi anche i nomi di Reston e Frankel. Per
Reston, cfr. pure M. BESCHLOSS, op. cit., p. 474.
99
BUNDY, op. cit., pp. 402-403; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 204; M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 474; McNamara aggiunge, nell’intervista contenuta
nel documentario di History Channel Cuban Missile Crisis Declassified
(part 1), che fu l’unica volta che una cosa simile accadde nei sette anni in
cui egli frequentò la Casa Bianca.
100
«Credo che lei stia facendo l’unica mossa che può fare»; «qualsiasi
cosa lei stia cercando di fare […] farò del mio meglio per appoggiarla»
(trascrizione completa della telefonata in The Presidential Recordings, John
F. Kennedy, vol. 3, Oct. 22, 1962, 10.40 AM, pp. 11-15, qui, p. 12. Ascolto
della conversazione: audio reperibile sul sito del Miller Center, Univesity of
Virginia:
http://millercenter.org/scripps/archive/presidentialrecordings/kennedy/1962/
10_1962).
101
Ivi, p. 11.
102
«Una volta cominciato questo primo passo con la forza, lei dovrà se
necessario rendere queste scelte decisioni unilaterali». Ivi, p. 13.
103
«Qualcosa potrebbe farglieli lanciare [i missili] a questa gente [i
sovietici]. Solo che non credo che questo lo farà». Ivi, p. 15.
104
Ivi, p. 15.
105
«Non sono molto d’accordo su questo ragionamento, signor
Presidente», replica infatti Eisenhower quando JFK gli nomina Berlino
come motivo che lo ha indotto a iniziare solo col blocco. «La mia idea è che
i dannati sovietici faranno qualsiasi cosa vogliano, quel che credono sia
utile per loro, e non credo che relazionino una situazione all’altra. […]
Potrei sbagliarmi in pieno, ma la mia convinzione è che non troverà un gran
legame tra i due [luoghi]». Ivi, pp. 14-15.
106
Riunione in cui dirà: «Kruscev non prenderà questo [nostro atto]
senza una risposta, qui o altrove» S. STERN, The week…, cit., p. 80.
107
The Presidential Recordings…, cit., vol. 3, Oct. 22, 1962, p. 13.
108
Ivi, p. 8 nota.
109
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 258.
110
Ivi, p. 259.
111
Ivi, p. 264 («One hell of a gamble»).
112
Ivi, p. 256.
113
Ivi, pp. 264-265.
114
Ivi, pp. 274-275.
115
Lo fa notare proprio il suo autore: T. SORENSEN, Counselor…, cit., p.
299.
116
Il trattato di Rio era un’alleanza difensiva che legava gli Stati
dell’Emisfero Occidentale riunitisi nell’OAS: Organizzazione degli Stati
Americani.
117
Il titolo della sua tesi era «Why England Slept»: Perché l’Inghilterra
dormì.
118
Alla conferenza di Punta del Este, gennaio 1962 (con 14 voti a
favore, tra cui naturalmente quello degli USA, 1 contrario, 6 astenuti).
119
Come spiega lo stesso autore del discorso (T. SORENSEN, Counselor…,
cit., p. 297), questa frase (“Our goal is not the victory of might, but the
vindication of right”) era parafrasata da un passo della dichiarazione di
guerra alla Germania pronunciata dal Presidente Wilson nel 1917.
120
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 276-281 (testo completo).
121
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 281-282.
122
Ivi, pp. 268-269.
123
Ivi, p. 285.
124
S. STERN, The week…, cit., p. 82.
125
Lo confidò al figlio, che in quel momento era a casa con lui (M.
DOBBS, op. cit., p. 32).
126
Per la ricostruzione della riunione di quella notte e le relative
citazioni mi sono servito di A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp.
240-243 e 247-248; A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit.,
pp. 467-476; M. DOBBS, op. cit., pp. 32-35 e 42-45.
127
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 469.
128
M. DOBBS (op. cit., pp. 124 e 145-146) sostiene che i LUNA vennero
poi individuati (briefing CIA all’ExComm del 26-10), ma non i missili
FKR. Fatto sta che, nel 1992, nella conferenza rievocativa sulla CMC
svoltasi a L’Avana, McNamara mostrò enorme stupore nell’apprendere i
particolari relativi ai LUNA (anche perché lui e JFK avevano deciso che le
truppe USA avrebbero invaso senza essere equipaggiate con analoghe
testate nucleari. A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 68). Ad ogni modo, si
può sintetizzare che il contingente sovietico e il relativo equipaggiamento
fossero noti a Washington solo in modo assai parziale.
129
M. DOBBS, op. cit., p. 45.
130
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., pp. 528-529.
131
G. BALL, op. cit., p. 299. Quella di Rusk a Ball non era solo una
boutade. Era una constatazione seria, che egli infatti rimarcò anche poco
dopo nella riunione dell’ExComm (cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
312).
132
R. KENNEDY, op. cit., p. 44.
133
De Gaulle non sollevò obiezioni e assicurò che a suo avviso non vi
sarebbe stata una guerra, ma anche in tal caso la Francia avrebbe agito con
gli USA (Paris to SoS, 22-10-1962, DNSA, CU00570). Il cancelliere
tedesco Adenauer addirittura consigliò a JFK di smetterla con la
Papierkrieg, «guerra di carta», e decidersi a invadere Cuba (Bonn to SoS,
24-10-1962, DNSA, CC01224 e The global Cuban missile Crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, pp. 624-625; H.P. SCHWARZ, Adenauer et la
crise de Cuba, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p. 86; Bonn to SoS, 28-10-1962,
DNSA, CU00844).
134
I Paesi che potevano fornire ai sovietici scali utili per quelle rotte
erano Guinea, Senegal, Ghana, Liberia, Marocco e Mali. I primi quattro
acconsentirono alla richiesta degli ambasciatori USA già entro il 24 ottobre;
il Marocco diede primi informali segnali positivi il 24 e li confermò il 27,
quando il Re e il Ministro degli Esteri tornarono nella capitale; il Mali
rimase in silenzio sul punto, ma facendo filtrare che da tempo non riceveva
più richieste di scalo dai sovietici (African reaction to the Cuban crisis,
DNSA, CC02528; Mennen Williams to SoS, 29-10-1962, African
Government attitudes and reactions to U.S. Request interdict Soviet bloc
flight sto Cuba via Africa, DNSA, CC01644; Dakar to SoS, 23-10-1962,
DNSA, CC01062; Rabat to DoS, 24-10-1962, n. 756, DNSA; PH.
MUEHLENBECK, Betting on the Africans. John F. Kennedy’s courting of African
Nationalist Leaders, Oxford University Press, New York, 2012, pp. 213-
222).
135
DoS memo, 23-10-1962, World Reaction to the President Speech on
Cuba, DNSA, CC00938; DoS memo, The Cuban Crisis: Asian Reactions
and US Policy, DNSA, CC01415; USIA report, 23-10-1962, Overseas
reactions, DNSA, CC01091; Tokyo to SoS, 27-10-1962, NARA, 611.37,
MI1855, R. 44.
136
DoS memo, 26-10-1962, Free world reactions to Cuban crisis,
DNSA, CU0777; DoS memo, The Cuban Crisis: Asian Reactions and US
Policy, DNSA, CC01415; Wellington Airgram, enclosure, 23-10-1962,
NARA 611.37, MI1855, R.43; FBIS report, 23-10-1962, DNSA, CC0906.
137
D. RUSK, op. cit., p. 236.
138
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 312.
139
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 379. Cfr. anche
l’analoga valutazione contenuta nel «CIA Daily Memo» del 24, che
definiva il comunicato sovietico «highly critical but uncommiting»,
altamente critico ma non impegnativo (documento reperito in DNSA,
CC01123).
140
Comunicato TASS riportato interamente sul «New York Times»,
Oct. 24, 1962, pp. 1 e 20. Si noti che nell’edizione più recente delle sue
memorie, Kruscev sostiene che si trattava solo di «una dichiarazione
dimostrativa fatta per la stampa, per cercare di influenzare le menti degli
aggressori americani. In pratica non prendemmo alcuna misura reale perché
non credevamo che una guerra sarebbe scoppiata». (N. KHRUSHCHEV,
Memoirs, cit., vol. 3, p. 338). Ciò parrebbe confermato dai ricordi
dell’analista Samuel Halpern: «C’è una cosa strana. Intorno al quinto giorno
[…] osservando le informazioni di intelligence provenienti da varie fonti,
una cosa era chiara dal lato russo: […] non potevamo vedere alcun segno di
mobilitazione sovietica […] Non c’era alcuna indicazione, almeno al mio
livello, che i sovietici stessero facendo nulla a parte far un gran rumore con
le loro discussioni e le loro dichiarazioni […] non vedevamo alcuno sforzo
da parte dei sovietici per prepararsi a combattere una guerra. E uno dei miei
amici mi disse: ‘Abbiamo già vinto?’ Io dissi: ‘Non esserne troppo sicuro,
non ho idea di cosa si preparino a fare’». (OHI realizzate dal NSA per la
CNN Cold War Series:
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/episode-10/halpern1.html).
141
Testo completo riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 321-
322.
142
Testo della lettera riportato in L. NUTI, I missili di ottobre…, cit.,
appendice documentaria, p. 333.
143
RFK nel suo resoconto la riportava per errore come avvenuta il
mattino dopo. Solo alcuni tra i molti studi successivi hanno riconosciuto
l’imprecisione (R. DALLEK, An unfinished life, cit., p. 560; E. MAY – PH.
ZELIKOW, op. cit., pp. 342-343; M. DOBBS, op. cit., p. 68; S. STERN, The
week…, cit. pp. 105-106).
144
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 342; R. KENNEDY, op. cit., p. 52; S.
STERN, ivi, p. 106; M. DOBBS, op. cit., p. 68. L’impeachment è la rarissima e
clamorosa procedura costituzionale che può mettere sotto accusa il
Presidente USA e costringerlo alle dimissioni. Avverrà, come noto, per
Nixon.
145
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 343 (edizione rivista, 2002); S.
STERN, Averting the final failure, cit., p. 204.
146
A. DOBRYNIN, op.cit., pp. 81-82.
147
Memo From Attorney General Kennedy to President Kennedy about
his meeting with Soviet Ambassador Dobrynin, Oct. 24, 1962 (Avalon
Project, Yale Law School online documents database, e in FRUS, vol. XI);
cfr. anche R. KENNEDY, op. cit., p. 50.
148
M. DOBBS, op. cit., p. 73.
149
A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 81-82. Tornato alla Casa Bianca intorno alle
22.15, Robert trovò suo fratello a colloquio con l’amico ambasciatore
britannico Ormsby-Gore. Su consiglio di questi, JFK telefonò a McNamara
chiedendogli di apportare una modifica dell’ultimo minuto alla quarantena:
spostare la linea d’intercettazione un po’ più indietro (da 800 a 500 miglia
dalle coste cubane), così da dare a Kruscev almeno qualche frazione di
tempo in più prima che le sue navi raggiungessero il temuto punto di
scontro (R. KENNEDY, op. cit., p. 51. Cfr. pure E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
pp. 345-346, che puntualizza che in realtà la quarantena non si svolgeva su
una linea così precisa, dovendo la Marina tener conto di varie circostanze in
loco).
150
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 528; M. DOBBS, op. cit., p. 84.
151
«Le Figaro», 26-10-1962 p. 4. L’uso della fonte a stampa dell’epoca,
che qui fa esplicito riferimento alle «venti ore dopo l’annuncio del blocco»
(ossia appunto il 23 sera), aiuta a chiarire la cronologia di quest’episodio
(che anche studi accurati come quelli di S. STERN, The week…, p. 121 e A.
FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 260 riferivano erroneamente come
avvenuto il 24). Da un altro quotidiano, il cileno «El Mercurio», affiora
anche il preciso racconto di Hines sul contenuto della conversazione: «‘Ha
fatto anche un discorso politico’, ha spiegato l’artista nordamericano,
‘anche se non ha menzionato la situazione cubana. Kruscev ha detto che
molti artisti temono la rivoluzione perché pensano che distruggerà la
cultura. Ha aggiunto che la cultura fiorisce in Unione Sovietica’. Hines ha
aggiunto che Kruscev, che indossava un vestito azzurro, era molto allegro».
«El Mercurio», 24-10-1962, p. 34.
152
M. DOBBS, op. cit., p. 48.
153
Ivi, p. 53.
154
«Revolucion», 23-10-1962, p. 1; «Hoy», 23-10-1962, p. 1 (testo
identico in entrambi i giornali, a conferma dell’origine governativa).
155
J. BLIGHT – B. ALYN – D. WELCH, Cuba on the brink, Pantheon Books,
New York, 1993, p. 318.
156
R. QUIRK, Fidel Castro, W.W. Norton & Co., New York, 1993, pp.
434-435; H. THOMAS, op. cit., pp. 1071-1072; R. GOTT, Storia di Cuba,
Mondadori, Milano, 2008, pp. 242-243; M. DOBBS, op. cit., pp. 73-75.
157
Testo integrale del discorso in «Revolucion», Oct. 24, 1962, pp. 2, 7,
8; una traduzione integrale in inglese è reperibile nel database online del
LANIC (Latin American Network Information Center: centro affiliato con
la University of Texas).
158
Playa Giron, come detto, era il nome cubano della località nota
anche come Baia dei Porci.
159
Nonostante ciò, il report interno della CIA («CIA Daily Memo», 24-
10-1962, reperito in DNSA, CC01123) riportava che il discorso di Castro
(definito «una performance relativamente mite e scialba») conteneva «una
maldestra smentita della presenza di armi offensive a Cuba». Il report
interno preparato lo stesso giorno dal FBIS (Foreign Broadcast Information
Service: reperito in DNSA, CC01167) parlava invece (a p. 11) di «punto
evitato» da Castro nel suo discorso.
160
Anche Hitler, ricordò Castro, nell’iniziare l’invasione della Polonia
«aveva rilasciato un comunicato che le sue truppe […] avevano iniziato a
rispondere al fuoco polacco», come fossero stati i polacchi ad iniziare le
ostilità.
161
Riferimento ironico ai due celebri pirati del passato, Henry Morgan e
Francis Drake.
162
E ancora: se gli USA ora chiamavano a raccolta altri Stati
(americani) contro un presunto pericolo cubano, evidentemente, celiava
Castro, significa che «lo squalo è spaventato e sta chiamando le altre
piccole sardine per cercare di divorare l’ex sardina, Cuba».
163
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 75.
164
Ivi, pp. 95-96; W. TAUBMAN, op. cit., p. 565, ecc. Altri studi, tuttavia,
suggeriscono invece che la trasmissione in chiaro delle variazioni di
DEFCON fosse all’epoca una procedura di routine (S.D. SAGAN, The limits
of safety, Princeton University Press, Princeton, 1993, pp. 68-69; L. SCOTT,
The Cuban Missile Crisis and the threat of nuclear war, Continuum,
London, 2007, p. 84).
165
I due si erano già incontrati una volta nel 1960 (cfr. M. BESCHLOSS, op.
cit., p. 501). Si veda anche il «memo» tratto dal rapporto fornito da Knox al
DoS al suo ritorno in America: Khrushchev’s conversation with W.E. Knox,
Oct. 26, 1962, in DNSA.
166
R. REEVES, op. cit., p. 402.
167
M. DOBBS, op. cit., p. 85; A. GEORGE, Awaiting Armageddon, cit., p.
53.
168
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 256.
169
Come ben ricostruito proprio di recente da M. DOBBS, op. cit., pp.
125-129, 178-189, 205-206, 236, 249.
170
M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 501-502.
171
Può apparire sorprendente che Kruscev abbia menzionato anche la
Grecia a Knox, non essendovi lì missili nucleari in grado di raggiungere
l’URSS, eppure la menzione risulta dal memorandum governativo
dell’incontro (Khrushchev’s conversation with W.E. Knox, Oct. 26, 1962, in
DNSA).
172
A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 83-84.
173
R. KENNEDY, op. cit., pp. 52-55.
174
Per il riferimento a Bundy, cfr. R. REEVES, op. cit., p.403. Sul verbo
«sussurrare», cfr. S. STERN, The week…, cit., p.112. Nelle trascrizioni dei
nastri infatti la frase non compare, ma fu certo pronunciata, come
confermano anche i precisi riferimenti ad essa espressi nei dibattiti
ExComm del giorno dopo da Bundy e JFK (E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit.,
p.423 e 425; S. STERN, The week…, cit., p. 129).
175
Infatti si infuriò moltissimo quando scoprì che qualcuno aveva
spifferato alla stampa la sua frase istintiva (D. RUSK, op. cit., p. 237).
176
S. STERN, The week…, cit., p. 112.
177
Attraverso un accurato lavoro di ricostruzione, M. DOBBS (op. cit., pp.
88-91) ha recentemente mostrato come in realtà quella mattina le navi
sovietiche in questione si trovassero già ben lontane dalla linea della
quarantena, perché l’ordine da Mosca era giunto parecchie ore prima.
Tuttavia ci volle del tempo perché tale ordine divenisse visibile e giungesse
alla Casa Bianca. La novità sposta relativamente poco, almeno ai fini della
tensione avvertita all’epoca, che fu del tutto reale, sia tra i decision-maker
sia nell’opinione pubblica mondiale. Le informazioni disponibili erano
infatti quelle qui descritte. Esse erano tardive e inaccurate? Certo. Ma era
appunto questo uno dei fattori che rendevano la crisi così rischiosa.
178
L. FREEDMAN, op. cit., p. 197.
179
Pur continuando a seguirla e a discuterne le vicende anche il giorno
dopo, cioè il 25 (il sorpasso della linea della quarantena avvenne alle 7.15
di mattina del 25: cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 394).
180
Cfr. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 509 nota.
181
R. KENNEDY, op. cit., p. 59.
182
The guns of August, di Barbara Tuchman, vinse il Premio Pulitzer nel
1963.
183
Frase riportata anche in M. DOBBS, op. cit., p. 226.
184
R. KENNEDY, op. cit., pp. 48-49 e 97.
185
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 502 nota.
186
Il testo completo della lettera si trova in B. RUSSELL, La vittoria
disarmata, Longanesi, Milano, 1965 pp. 50-52.
187
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 384-389.
188
A. HORNE, Harold Macmillan, vol. II, Viking, New York, 1989, p.
371.
189
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 389-391.
190
Ivi, p. 421.
191
Dello stesso avviso, E. MAY – PH. ZELIKOW, ivi, p. 694.
192
Ivi, pp. 393-394. Il virgolettato a ‘domanda da 64.000 dollari’ è mio
(per indicare che si trattava di un’espressione metaforica: nei quiz inglesi la
domanda più difficile a cui rispondere aveva appunto quel montepremi).
193
W. LIPPMANN, Blockade Proclaimed, in «The Washington Post», Oct.
24, 1962, Section A.
194
Ci riserviamo di spiegare meglio quest’aspetto in un prossimo
studio. Cfr. intanto G. FOGARTY, La crisi dei missili a Cuba: un’iniziativa
papale per il mondo, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del Concilio Vaticano II,
vol. 2, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 114-125; N. COUSINS, The improbable
triumvirate, cit., pp. 10-19.
195
Il testo completo in francese (qui utilizzato) si trova nella raccolta
ufficiale degli atti del pontificato roncalliano: GIOVANNI XXIII, Discorsi,
messaggi, colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, Tipografia
poliglotta vaticana, 1963, pp. 614-615.
196
Per una prima sintetica conferma della sua eco, si veda intanto L.
MARTINI, L’enciclica Pacem in terris, in M. FRANZINELLI – R. BOTTONI (a cura
di), Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla Pacem in terris, Il
Mulino, Bologna, 2005, p. 619.
197
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 387-388. (Si precisa che U Thant
in quel momento era un segretario «facente funzioni», essendo stato scelto
per subentrare al ruolo lasciato scoperto dalla morte improvvisa del
precedente segretario, Dag Hammarskjold.)
198
Ivi, p. 419. JFK aggiungeva infine in spirito conciliatorio che
Stevenson era pronto a discutere con lui le proposte di negoziati e lo
assicurava del loro desiderio di raggiungere una soluzione pacifica.
199
Il tramite di questa comunicazione fu Ball (il quale nelle sue
memorie – op. cit., p. 301 – si attribuisce anche il merito di aver proposto
lui l’idea a JFK).
200
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 391-392; cfr. pure W. DORN – R.
PAUK, Unsung Mediator, in «Diplomatic History», Ap. 2009, pp. 270-274.
201
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 426 e 439. L’accettazione arrivò
nella notte tra il 25 e il 26 (ora di Washington).
202
Per le citazioni di questa seduta si sono utilizzati i verbali originali:
United Nations Security Council – Verbatim Record, Oct. 25, 1962, in
DNSA, CC01287; cfr. anche A. STEVENSON, op. cit., pp. 330-335.
203
R. REEVES, op.cit., p. 406.
204
«Il discorso di Stevenson assestò un colpo finale alla causa sovietica
davanti all’opinione pubblica mondiale». A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni di
John F. Kennedy alla Casa Bianca (tit. or. A thousand days), Rizzoli,
Milano, 1966, p. 813.
205
Ivi, pp. 809-810. La telefonata risaliva alla sera prima (il 24) rispetto
al cablo.
206
«to get tougher and to escalate» diceva il testo originale,
consultabile nel database di documenti online dell’Avalon Project di Yale:
USUN to DoS, Oct. 25, 1962, 8.40 PM. Letto alla Casa Bianca da Bundy
alle 11 PM.
207
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, cit., p. 810.
208
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 483-484
(cfr. anche, degli stessi autori, il precedente One hell…, cit., pp. 259-260,
cui però mancavano ancora minute resesi disponibili invece per il loro
volume del 2006).
209
M. DOBBS, op. cit., pp. 112-113.
210
R. KENNEDY, op. cit., p. 63.
211
M. DOBBS, op. cit., pp. 135-136.
212
S. STERN, The week…, cit., p. 140.
213
S. STERN, The week…, cit., p. 146.
214
H. MACMILLAN, At the end of the day, Harper & Row, New York,
1973, p. 209 («lunghe» era enfatizzato in corsivo nel diario).
215
D. RUSK, op. cit., p. 238.
216
In quella riunione RFK accusò infatti il capo della «Task force W»,
l’eccentrico William Harvey, di aver mandato sessanta infiltrati a Cuba in
un momento così delicato senza chiedere la sua autorizzazione (si trattava
di altri infiltrati rispetto ai due della miniera di Matahambre). «Ero furioso»,
ricorderà poi RFK. Harvey gli rispose per le rime, dando ai fratelli Kennedy
la colpa della crisi in corso. Robert Kennedy ordinò che quegli infiltrati
venissero immediatamente richiamati e poi, infuriato, uscì dalla stanza. «Da
allora», dirà anni dopo, «non l’ho più rivisto» (M. DOBBS, op. cit., p. 152; E.
THOMAS, op. cit., p. 235; A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 533).
217
D. RUSK, op. cit., p. 238.
218
In seguito al report del barman (Prokov), il giornalista in questione
(Warren Rogers, del «New York Herald Tribune») era poi stato meglio
«interrogato» in un pranzo informale da un funzionario dell’ambasciata
sovietica (Kornienko). Accortosi che il diplomatico stava cercando da lui
informazioni sulle intenzioni della Casa Bianca, Rogers volutamente
enfatizzò la serietà dei rischi e la determinazione di JFK ad agire. Il KGB e
Dobrynin riportarono immediatamente la cosa a Mosca e il report finì sulla
scrivania di Kruscev la mattina del 26. Ma quelle di Rogers non erano che
impressioni personali… (sull’episodio, cfr. A. FURSENKO – T. NAFTALI, One
hell…, cit, pp. 257-258 e 260-262; M. DOBBS, op. cit., pp. 117-118; e
l’intervista a Warren Rogers nel recente documentario di History Channel,
Cuban Missile Crisis Declassified, part 2).
219
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 486; E. MAY
– PH. ZELIKOW, op. cit., p. 685.
220
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 521.
221
M. DOBBS, op. cit., p. 164. Precisamente essa fu consegnata
all’ambasciata alle 16.42 ora di Mosca, corrispondenti alle 9.42 ora di
Washington. Qui si cominciò a riceverla alle 18, ma l’ultima sezione arrivò
solo dopo le 21.
222
Kruscev qui parla di richiesta del governo cubano; in realtà, come
visto nel capitolo precedente, quanto ai missili nucleari l’idea era stata sua.
223
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 485-491 (testo completo).
224
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 524.
225
G. BALL, op. cit., p. 304. Decenni dopo, anche MCG. BUNDY, op. cit.,
pp. 441-442, scriverà che quella lettera «merita un posto elevato negli
annali delle comunicazioni in tempo crisi […] Leggerla intera in
retrospettiva significa avere rinnovato rispetto per l’uomo che la scrisse».
R. MCNAMARA, Blundering into disaster. Surviving the first century of
nuclear age, Pantheon Books, New York, 1986, p. 10 lo definirà addirittura
«il più straordinario messaggio diplomatico che io abbia mai visto».
226
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 525.
227
S. STERN, The week…, cit., p. 147; M. DOBBS, op. cit., p. 165
(letteralmente LeMay aveva detto «a bunch of dumb shit»).
228
R. KENNEDY, op. cit., p. 71.
229
Precisamente si trattava dell’Occidental Restaurant (C. ANDREW – O.
GORDIEVSKY, KGB: The inside story of its foreign operations from Lenin to
Gorbachev, Hodder & Stoughton, London, 1990, p. 392).
230
Di tale avviso, tra gli altri, S. STERN, The week…, cit., p.143, e M.
DOBBS, op. cit., pp. 167, 290.
231
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 529. L’ultimo brano eseguito quella sera
dall’orchestra cubana «Bocucos» fu l’Inno del 26 Luglio, in onore
dell’omonimo movimento rivoluzionario di Castro. «The Washington
Post», Oct. 27, 1962, p. A8.
232
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 527.
233
A conferma di una tale disponibilità si consideri pure che in un
nuovo incontro segreto svoltosi quella sera tra RFK e Dobrynin era stata
esplorata in via preliminare, pare, anche la possibilità di un accordo
comprendente i missili turchi. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 527; L. CHANG, P.
KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 386.
234
Tra gli altri, cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 183.
235
M. DOBBS, op. cit., p. 191.
236
Una traduzione inglese completa della lettera è riportata in J. BLIGHT
– B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 509-510.
237
Ricorderà in seguito Castro: «Partivamo dall’assunto che se c’era
un’invasione di Cuba, sarebbe scoppiata una guerra nucleare. Eravamo certi
di questo». «Ero convinto che un’invasione sarebbe divenuta una guerra
termonucleare» (J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 360 e 111).
238
J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 109 e 111 (e A.
FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 272). Castro temeva infatti che i
sovietici ripetessero l’errore compiuto nel 1941, quando avevano ignorato i
segnali di imminente attacco tedesco, soffrendo poi gravi perdite per essere
stati colti di sorpresa.
239
Secondo W. TAUBMAN (op. cit., p. 573) e M. DOBBS (op. cit., p. 295),
Kruscev sarebbe stato informato del messaggio all’una della notte
successiva (tra il 27 e il 28), quando era già tornato a casa. Anche secondo
il ricordo di Troyanovsky (in J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., p.
115) il messaggio arrivò a Mosca il 28 «very early in the morning» e fu
letto a Kruscev per telefono. Ciò non collima con le memorie di Kruscev,
che, come si vede dal passo qui citato, ne raccontano invece l’arrivo a
riunione in corso. Tuttavia può anche essere che Kruscev ricordasse male.
240
N. KHRUSHCHEV, Memoirs, cit., vol. 3, p. 341.
241
Così dirà Kruscev già il 30-10-1962, in un colloquio col leader
cecoslovacco Novotny (The global Cuban missile crisis at 50, in «CWHIP
Bulletin», Fall 2012, p. 401).
242
Per una spiegazione delle circostanze in cui esso fu reso noto, J.
BLIGHT – B. ALLYN, D. WELCH, op. cit., pp. 502-503.
243
R. KENNEDY, op. cit., p. 70.
244
M. DOBBS, op. cit., pp. 231-232; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
494; S. STERN, The week…, cit., p. 148.
245
E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 496-498
246
S. STERN, The week…, cit., pp. 151-152.
247
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 512-513.
248
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 487-488 e
616. Il vicepremier Anastas Mikoyan disse poi ai cubani che era stato
appunto l’articolo dell’americano Lippmann l’ispirazione per la seconda
lettera di Kruscev (nota n. 81); M. WASNIEWSKI, Walter Lippmann, Strategic
internationalism, the Cold War and Vietnam, 1943-1967, PhD dissertation,
pp. 209-210.
249
R. STEEL, Walter Lippmann and the American Century, Transaction
Publishers, New Brunswick, NJ, 1999, p. 535 (e L. FREEDMAN, op. cit., pp.
207 e 457 nota).
250
L. FREEDMAN, op. cit., p. 207; M. BESCHLOSS, op. cit., p. 529. Ciò
sebbene privatamente Rusk possa (stando a quanto riferì a Mosca
l’ambasciatore russo Dobrynin, basandosi su «dati confidenziali») aver
criticato il pezzo di Lippmann e negato la disponibilità americana a
effettuare uno scambio di quel genere, in un meeting del 25 a cui egli aveva
convocato «i più importanti giornalisti americani», per ammonirli che
l’idea, diffusa da certa stampa, di un calo d’intensità della crisi, era
tutt’altro che reale. Dobrynin to Soviet Foreign Ministry, Oct. 25, 1962,
CWIHP Virtual Archive.
251
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp. 273-274.
252
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 505-508 (testo completo della
lettera).
253
M. DOBBS, op. cit., p. 201; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit.,
p. 276 (messaggio per Alekseev, da riferire a Castro).
254
S. STERN, The week…, cit., p. 156 (JFK aveva risposto stizzito: «se ho
scelto la quarantena, è perché mi sono chiesto se il nostro popolo è pronto
per la Bomba»); per l’orario (mezzogiorno), cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 518.
255
Ivi, p. 519; M. DOBBS, op. cit., p. 266.
256
R. KENNEDY, op. cit., pp. 72-73.
257
S. SAGAN, op. cit., p. 136.
258
M. DOBBS, op. cit, p. 255. Sull’episodio si veda anche S. SAGAN, op.
cit., pp. 135-138.
259
Riportato in M. DOBBS, op. cit., p. 269.
260
Ivi, p. 270. Inoltre L. FREEDMAN, op. cit., p. 219, aggiunge che subito
dopo aver riportato quella notizia Hilsman «quasi collassò», e poiché non
aveva chiuso occhio da circa trenta ore, il Presidente stesso lo mandò a
dormire.
261
R. KENNEDY, op. cit., p. 75.
262
«Non ne vedo il vantaggio», concluse JFK, d’accordo con
McNamara ed altri (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 528).
263
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 528.
264
Deducendolo, ipotizza Thompson, dall’articolo di Lippmann e dalla
proposta di Bruno Kreisky, un politico austriaco che in quei giorni aveva
sollevato anch’egli il parallelismo tra le basi in Cuba e in Turchia. E. MAY –
PH. ZELIKOW, op. cit., p. 534 e 593.
265
Ivi, pp. 534-535; STERN, The week…, cit., p. 162.
266
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 539-540.
267
Ivi, pp. 548-550 (e altro intervento analogo a p. 545).
268
Basandosi sui resoconti della prima ora, come A. SCHLESINGER Jr., I
mille giorni…, cit., p. 817 («Robert Kennedy intervenne con un’idea di
semplicità e genialità disarmanti») e poi lo stesso R. KENNEDY, op. cit., p. 76
(«Io sostenni, e fui appoggiato da Sorensen ed altri […]»).
269
Questo stratagemma verrà poi denominato «Trollope ploy», dal nome
di Anthony Trollope, romanziere inglese dell’Ottocento che nei suoi
romanzi descriveva la scena in cui una ragazza in cerca di marito sceglieva
di interpretare una semplice stretta di mano come una proposta di
matrimonio (M. DOBBS, op. cit., p. 344).
270
S. STERN, The week…, cit., p. 169 e 171.
271
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
272
Ivi, p. 563.
273
S. STERN, The week…, cit., pp. 174-175.
274
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 571.
275
Ivi, p. 593.
276
S. STERN, The week…, cit., pp. 174-175.
277
A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., pp. 66-67; M DOBBS, op. cit., pp. 230-
31, 236-237, 393 nota; J. GADDIS, We now know…, cit. p. 276. In quel clima
di frenetica attesa di un attacco, quella mattina i soldati cubani, su ordine di
Castro, avevano cominciato a sparare sui voli USA, pur mancando il
bersaglio. Così, ricorda il generale Gribkov, «il generale Grechko, che
aveva il comando sovietico della difesa aerea di Cuba, prese ispirazione
dall’esempio cubano» e, inquadrato l’U-2 sul radar e vedendolo ormai sul
punto di lasciare l’isola, telefonò a Pliyev per avere l’autorizzazione, ma –
non trovandolo – decise di assumersi la responsabilità dell’ordine.
«L’opinione comune», spiega Gribkov, «era che il combattimento fosse
cominciato e che i precedenti freni alle forze sovietiche fossero stati
superati. Questi ufficiali non tanto trasgredirono ordini, ma reagirono in un
ragionato modo militare, secondo la loro comprensione di ciò che la
situazione richiedeva».
278
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 576.
279
S. STERN, The week…, cit., p. 189 (tale decisione, precisa Stern,
risaliva al 23 ottobre).
280
R. KENNEDY, op. cit., p. 74.
281
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 592.
282
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 304. Precisiamo tuttavia che in altri,
precedenti punti dei nastri di quella stessa riunione, il parere di Johnson
appare talvolta più cauto e favorevole a uno scambio, salvo poi ritornare ad
esprimere vigorosa opposizione ad esso appena pochi minuti dopo, perfino
direttamente a JFK (nel frattempo rientrato in stanza). Si veda S. STERN,
Averting the final failure, cit., pp. 353-354, 360 (suoi interventi di pro
scambio), e pp. 363, 367 (interventi contrari). Cercando di spiegare al
lettore una di queste oscillazioni che trascrive, Stern chiosa: «Appena pochi
momenti prima, Johnson era apparso appoggiare lo scambio, ma
chiaramente aveva ancora dei dubbi» (p. 363). Per questo inoltre appare non
sostenibile la visione solo «dovish» che di quegli interventi di Johnson offre
lo storico T. JUDT, L’età dell’oblio, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 320-321.
283
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 583.
284
Ivi, p. 602.
285
Sul punto si veda, per esempio, R. DALLEK, An unfinished life, cit., p.
574. Per un parere di diverso e minoritario avviso si veda invece TH.
PATERSON, Fixation with Cuba, in IDEM (a cura di), Kennedy’s quest for
victory…, cit., pp. 123-156, riportato in italiano da L. NUTI, I missili di
ottobre…, pp. 115-143.
286
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 604 (le virgolette interne erano già
nell’originale della lettera).
287
Alla presenza di pochissimi consiglieri: oltre al Presidente c’erano
RFK, McNamara, Rusk, Bundy, Sorensen, Thompson e forse anche Ball e
Gilpatric (cfr. MCG. BUNDY, op. cit., pp. 432-433, che nomina anche questi
ultimi due). L’incontro non fu registrato. Ne abbiamo queste notizie da
Bundy, che era presente. (Cfr. anche E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 605-
606.)
288
Quest’ultima affermazione venne probabilmente interpretata in modo
esagerato da Kruscev. Il cablo di Dobrynin a Mosca affermava infatti che
RFK gli disse che «a causa dell’aeroplano abbattuto ora c’è forte pressione
sul Presidente per dare ordine di rispondere al fuoco» nei prossimi sorvoli.
Poi «RFK ha menzionato quasi di passaggio che ci sono parecchie teste
irragionevoli tra i generali e non solo tra i generali, che scalciano per un
combattimento» (cablo di Dobrynin al Ministero degli Esteri Sovietico, Oct.
27, 1962, riportato anche in J. HERSHBERG, Anatomy of a controversy, in
«CWHIP Bulletin», Spring 1995; cfr. anche A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 86-
88). Ma Kruscev nelle sue memorie sostiene addirittura che RFK avesse
menzionato la possibilità che i militari potessero «rovesciare» JFK e
«prendere il potere». «L’esercito americano poteva finire fuori controllo»
(N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, p. 529). Non era così: le pressioni c’erano, e
forti, come visto, ma non tali da rovesciare il governo; né del resto pare
immaginabile che RFK possa aver parlato in quei termini del fratello.
Tuttavia è possibile che Kruscev fosse in buona fede nell’aver così
compreso l’accenno di RFK riportatogli da Dobrynin, anche per via dei
propri forti timori e pregiudizi sul potere delle lobby del Pentagono.
289
Sull’episodio, cfr. A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 86-88; «memo» di RFK a
Rusk, declassificato nel 1991 e riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
pp. 607-609.
290
R. REEVES, op. cit., p. 420.
291
Cablo di Dobrynin al Ministero degli Esteri Sovietico, Oct. 27, 1962
(cit. pure in Hershberg, op. cit.).
292
Letteralmente, «he chickened out again» (S. STERN, The week…, cit.,
p. 188). Tuttavia, come mostrano recenti minute delle riunioni tenute in
quei giorni dai JCS («Notes Taken from Transcripts of Joint Chiefs of Staff,
Oct. Nov. 1962», p. 23, reperibili al sito:
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/621000%20Notes%20Taken%2
0from%20Transcripts.pdf), anche LeMay a quel punto si disse contrario ad
abbattere in rappresaglia una sola postazione di contraerea, in quanto ciò li
avrebbe esposti a rischio di essere colpiti. LeMay avrebbe preferito poter
procedere direttamente con un attacco aereo massiccio, e da un punto di
vista strettamente militare aveva probabilmente ragione. Sul punto, cfr.
anche M. DOBBS, op. cit., p. 301.
293
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 628; The Presidential recordings…,
cit., vol. 3, p. 510 (trascrizioni e ascolto audio).
294
Il ricordo di McNamara (cfr. per esempio sua intervista a «Time»,
Feb. 11, 1991) è riportato, tra gli altri, da M. DOBBS, op. cit., p. 311. Si
aggiunga che McNamara per tutta la settimana della crisi aveva dormito al
Pentagono invece che a casa, come riportò il «New York Times», Oct. 29,
1962, p. 16.
295
M. ALFORD, Ho amato JFK, Rizzoli, Milano 2012, p. 110. Il recente
libro di rivelazioni della Alford non ha provocato particolari smentite tra gli
storici e appare sostanzialmente attendibile, per quanto evidentemente un
po’ sensazionalistico.
296
R. REEVES, op. cit., p. 423.
297
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 543.
298
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 629.
299
Ivi, p. 543.
300
M. DOBBS, op. cit., pp. 297-303, 317-318, 327-328, 399 nota.
Sull’episodio cfr. anche T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 305; W. BURR –
TH. BLANTON (a cura di), The Submarines of October, in National Security
Archive Electronic Briefing Book, n. 75, 2002 (articolo e allegati).
301
Savitsky e Arkhipov sono già morti. Il racconto di Orlov è comparso
nel libro, non ancora pubblicato in Occidente, che il russo Aleksandr
Mozgovoi ha dedicato interamente ai movimenti dei sottomarini sovietici
durante i giorni della CMC (La samba cubana del quartetto di Foxtrot,
Military Parade, Mosca, 2002: «Foxtrot» era la denominazione NATO del
modello dei quattro sottomarini sovietici, da cui il gioco di parole del
titolo). L’estratto del libro contenente il racconto di Orlov è stato però
tradotto in inglese a cura dei NSA, ed è qui usato come fonte. Recollections
of Vadim Orlov (USSR Submarine B-59). ‘We will sink them all, but we will
not disgrace our Navy’.
(http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB75/asw-II-16.pdf). Si
vedano infine anche due recenti documentari storici sull’episodio: il primo
è Vasilij Arkhipov, dell’italiano Giuseppe Saponara, contenente delle
videointerviste allo stesso Orlov, a Valentin Vagenin (ufficiale a bordo del
B-4, uno degli altri sottomarini sovietici in zona) e alla moglie di Arkhipov
(Olga Grigorievna Arkhipova), tutti confermanti questa versione degli
eventi; il secondo è The man who saved the world, documentario inglese del
2012, contenente interviste di analogo tenore a veterani russi e americani.
302
Questo preciso punto della testimonianza di Orlov (che cioè Savitsky
sia arrivato anche ad ordinare di armare il siluro) ha sollevato dubbi tra
alcuni degli ufficiali degli altri sottomarini. Tuttavia si consideri che Orlov,
allora venticinquenne, era testimone oculare, trovandosi con lui nella
camera di controllo (cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 303).
303
La cifra è 10 per Dobbs e 15 secondo l’articolo dei NSA. Si
consideri che l’atomica di Hiroshima ne misurava 14.
304
Secondo la testimonianza della moglie di Arkhipov, contenuta nel
succitato documentario di Saponara del 2005, Arkhipov addirittura avrebbe
fatto quanto segue: «Lo prese [Savitsky] per il collo per impedirgli di girare
la chiave sulla plancia di comando. Mio marito mi ha sempre detto che non
poteva rimanere a guardare senza reagire. In quel momento doveva fare
qualcosa. Il suo grado su quel sottomarino glielo permetteva».
305
K. SULLIVAN, 40 years after missile crisis, players swap stories in
Cuba, in «The Washington Post», Oct. 13, 2002.
306
Il resoconto per esempio combacia con le informazioni già note sulle
condizioni esistenti a bordo dei sottomarini, nonché coi documenti ufficiali
illustranti i movimenti del B-59 (cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 399 nota).
307
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 531.
308
Secondo i ricordi del figlio, egli avrebbe usato queste parole:
«Rimuoveteli, il più presto possibile. Prima che succeda qualcosa di
terribile» (S. STERN, Averting the final failure, cit., p. 384).
309
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 323.
310
M. DOBBS, op. cit., pp. 321-325; A. FURSENKO – T. NAFTALI,
Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 489-491.
311
M. DOBBS, op. cit., pp. 332-333; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…,
cit., p. 286.
312
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 446 nota; cfr. anche F. BURLATSKY, The
lessons of personal diplomacy, in «Problems of communism», Special
Edition, Spring 1992, p. 11.
313
S. KHRUSHCHEV, Nikita Khrushchev and the creation of a superpower,
p. XVI; History Channel, Cuban Missile Crisis Declassified, part 2
(intervista al figlio di Kruscev, Sergej).
314
W. TAUBMAN, op. cit., p. 576.
315
T. SORENSEN, Kennedy, cit., pp. 957-958; T. SORENSEN, Counselor…,
cit., p. 305.
316
«I could hardly believe my ears». M. DOBBS, op. cit., p. 334.
317
Don Wilson, OHI (in DNSA, CC0321), p. 30 (cfr. anche M. DOBBS,
op. cit., p. 334).
318
MCG. BUNDY, op. cit., p. 406.
319
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 305. Si precisa che, quanto al
particolare della presenza a messa della first lady, la memoria inganna
Sorensen: Jacqueline quel weekend era fuori città (non a caso alla Casa
Bianca c’era la Alford). Anche le foto scattate quella mattina al Presidente
mentre esce dalla chiesa di St. Stephen lo ritraggono infatti da solo.
320
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 547. L’assistente, nonché amico, cui JFK
aveva detto questa frase era Dave Powers.
321
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 630-635.
322
R. REEVES, op. cit., p. 424.
323
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 636-637 (la lettera fu resa
pubblica).
324
S. STERN, op. cit., p. 188 («Castro’s joy was indescribable»); M.
DOBBS, op. cit., p. 317.
325
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 249 (testo completo
della lettera).
326
M. DOBBS, op. cit., p. 335; H. THOMAS, op. cit., p. 1076; M. BESCHLOSS,
op. cit., p. 549 (maricon è l’equivalente spagnolo di «frocio»).
327
M. DOBBS, op. cit., p. 335; Carlos Franqui era il direttore di
«Revolucion». Successivamente, in seguito a crescenti dissidenze con il
governo, dovrà lasciare il giornale e la stessa Cuba.
328
Riportati in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., pp. 251-252;
S. TUTINO, L’ottobre cubano, Einaudi, Torino, 1968, pp. 31-32.
329
La supposizione, che presentiamo a titolo del tutto ipotetico, è
nostra. Si consideri tuttavia in tal senso che Castro stesso dirà poi che se
all’epoca fosse stato ammesso ai negoziati per la crisi, egli avrebbe insistito
come minimo per il ritiro da Guantanamo e la fine del blocco economico
(ovvero i punti 1 e 5). J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., p. 359.
330
I «cinque punti» di Cuba erano diretti verso i sovietici non meno che
verso gli americani. Come spiegò bene il ministro degli Esteri Raul Roa,
parlando con l’ambasciatore jugoslavo: «Noi esistiamo. Loro devono
saperlo. Questo lato [i sovietici], così come l’altro lato [gli americani]».
(The global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012,
pp. 602 e 593.)
331
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 250 (testo completo
della lettera).
332
P. BOSCHESI, Storia della Guerra Fredda, Mondadori, Milano, 1977,
p. 174.
333
P. KALFON, Il Che, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 393.
334
Rapporto a Belgrado dell’ambasciatore jugoslavo a L’Avana, Boško
Vidakovič, sulla conversazione avuta con Guevara la sera dell’8-11-1962.
The global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p.
614. Cfr. anche J. CASTANEDA, Companero. Vita e morte di Ernesto Che
Guevara, Mondadori, Milano, 2007, p. 246.
335
Testo completo dell’articolo (uscito poi sulla rivista delle forze
armate cubane «Verde Olivo» il 9-10-1968) in E. GUEVARA, Leggere Che
Guevara. Scritti su politica e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 333-
344. Cfr. anche P. KALFON, op. cit., p. 391; J.L. ANDERSON, Che Guevara,
Groove Press, New York, 1997, p. 545.
336
«The Miami News», Oct. 23, 1962, p. 2.
337
A. de la CARRERA Cuba: what now?, «The New Leader», May 15,
1963, p. 5.
338
US tells refugees to set up new regime, «The Miami News», Oct. 28,
1962, p. 1. La notizia, confermata da Cardona, è ribadita il giorno dopo,
«The Miami News», Oct. 29, 1962, p. 1.
339
Cardona calls for unity, «The Miami News», Oct. 28, 1962, p. 2A.
340
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 549; «The New York Times», Oct. 29,
1962, p. 19; Exiles’ reaction: despair, frustration, «The Miami News», Oct.
29, 1962, p. 1.
341
CIA daily brief, 28-10-1962, p. IIIb.
RDP79T00975A006600490001-5 CREST, NARA.
342
Definizione del Ministro dell’Interno venezuelano, riportata in
«Revolucion», 30-10-1962, p. 1.
343
«Apparently acting on orders from Havana», dicevano i dispacci da
Caracas («The Miami News», Oct. 29, 1962, p. 1). A sostegno di un diretto
collegamento con l’appello di Radio Havana, pure il «Washington Post» (D.
KURZMAN, Latins fear Castro may spark new sabotage, Oct. 30, 1962, p. A5)
e il «New York Times» (Caracas guards oil after 4 Reds blasts, 29-10-
1962, pp. 1 e 19). Anche R. THOMPSON, The missiles of October, Simon &
Schuster, New York, 1992, p. 340, basandosi su un rapporto CIA, cita in
merito l’appello lanciato da Radio Havana alla distruzione di «ogni genere
di proprietà yankee». Infine si legga nel verbale dell’ExComm del 3
novembre: «il segretario Rusk si è riferito ai rapporti sul sabotaggio in
Venezuela a quanto pare istigati da un gruppo pro-Castro o da cubani. Il
Presidente ha detto che dovremmo essere il più duri possibile nell’affrontare
situazioni del genere». FRUS, vol. XI, Doc. 138: «Summary record of the
19th meeting of the Executive Committee».
344
«Revolucion», 29-10-1962, pp. 1 e 3. Si veda inoltre l’articolo: Por
cada cubano caìdo, morirà un yanqui en Venezuela, in «Hoy», 26-10-1962,
p. 6.
345
Discorso del 2-1-1963, citato in J.J. NATTIEZ, Castro, Sansoni
Accademia, Firenze, 1970, p. 171.
346
Di quei sabotaggi parlano il vicepremier sovietico Mikoyan e
Guevara il 16 novembre nell’ufficio ministeriale di quest’ultimo. Mikoyan
sconsiglia azioni simili, ma il Che ne difende l’utilità (trascrizione sovietica
del colloquio, riportata in The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 348). Analogo collegamento coi
guerriglieri venezuelani, in termini di guida strategica e assistenza fornita,
emerge dalle parole di Guevara all’ambasciatore jugoslavo nella loro
conversazione dell’8-11-1962. Rapporto di Vidakovič a Belgrado, in The
global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, pp.
612-613 (cfr. inoltre pp. 658, 775, 778).
347
A Caracas, per esempio, si verificarono altri attentati minori, di cui
dà notizia «Hoy», 26-10-1962, p. 8 (Audaces atentados dinamiteros en la
capital venezolana); altri vennero compiuti il 3 novembre nell’Est del
Venezuela (CIA Daily Brief, 5 Nov 1962, p. VI, CIA-
RDP79T00975A006700050001.2, CREST, NARA); a Santiago del Cile poi
fu scoperta una bomba artigianale per un attentato in una casa di «terroristi
pro-Castro» («The Washington Post», 30-10-1962, p. pro-Castro A10). È
interessante notare che la CIA si aspettava ancor più sabotaggi durante la
crisi, giacché in un rapporto ad uso interno si sottolineava che «I sostenitori
di Castro in tutta l’America Latina, con poche benché importanti eccezioni
(cioè, il sabotaggio di infrastrutture petrolifere in Venezuela), hanno
mancato di rispondere alla crisi delle basi missilistiche con effettivi atti di
sabotaggio o con massicce manifestazioni pubbliche» (Castro’s subversive
capabilities in Latin America, p. 8, CIA-RDP80B0167R001800020034-6,
CREST, NARA).
348
A. HORNE, op. cit., pp. 377-378.
349
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 89 («And, for the first time since the crisis
began, I saw him smile»).
350
Così dice S. STERN (The week, p. 197), pur in genere non avaro di
elogi per la gestione della crisi da parte di JFK.
351
S. STERN, The week…, p. 197; Presidential Recordings: John F.
Kennedy, vol. 3, pp. 519-521 (trascrizione della telefonata Kennedy-
Eisenhower, Oct. 28, 1962, 12.08 PM).
352
R. KENNEDY, op. cit., p. 83; E. THOMAS, op. cit., p. 231.
353
A. SCHLESINGER, Robert Kennedy, cit., p. 525 (che riporta la nota di
RFK, datata 15-11-1962).
354
R. REEVES, op. cit., p. 424; M. DOBBS, op. cit., p. 337.
355
«diplomatic blackmail»: E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 635 (JCS
to President Kennedy, – Oct. 28, 1962); L. FREEDMAN, op. cit., p. 219.
356
S. STERN, The week…, cit., p. 196.
357
Amm. Anderson (indicato con la sigla CNO) in «Notes Taken from
Transcripts of Joint Chiefs of Staff, Oct. Nov. 1962», p. 24 (NSA).
358
Cfr., tra gli altri, S. STERN, The week…, cit., pp. 196-197. Si consideri
pure che quella stessa mattina, appena prima che arrivasse la lettera, egli
aveva detto ai colleghi di voler «andare a vedere il Presidente», per
sostenere che l’attacco iniziasse al massimo entro l’indomani (A. FURSENKO –
T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 287). Ora capiva invece che sarebbe stato
tutto definitivamente annullato.
359
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 550; S. STERN, The week…, p. 196.
360
L. FREEDMAN, op. cit., p. 219; S. STERN, The week…, cit., p. 196.
361
Riportato in MCG. BUNDY, op. cit., p. 444.
362
Minute della riunione ExComm del 28 ottobre, riportate in L. CHANG
– P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 255; M. DOBBS, op. cit., p. 337. Sulle
frequenti e dirette contrapposizioni di Bundy rispetto alla linea più
negoziale del Presidente (specie nei dibattiti verso la fine della crisi), si
veda S. STERN, The Cuban crisis, cit., pp. 109-128.
Capire la crisi. Considerazioni sugli eventi
1
Su questi aspetti e sui difficili colloqui tra Castro, Guevara e il
vicepremier sovietico Mikoyan, si veda ora anche A. MIKOYAN – S.
SAVRANSKAYA (a cura di), The Soviet Cuban Missile Crisis: Castro, Mikoyan,
Kennedy, Khrushchev, and the Missiles of November, Stanford University
Press, CA. 2012.
2
Nelle sue memorie, Kruscev accenna anche alla rimozione dei missili
italiani, effettivamente poi ritirati, che però non figurano nelle sue richieste
a JFK. Il perché è ancora dubbio. L’ufficiale sovietico Georgi Kornienko ha
perfino ipotizzato che tale omissione dell’Italia dalla seconda lettera a JFK
(quella del 27) possa essere stata dovuta a un semplice errore tipografico (T.
DIEZ ACOSTA, October 1962, The Missile crisis as seen from Cuba,
Pathfinder, New York, 2002, p. 173 nota). Ciò pare improbabile; ad ogni
modo, Kruscev sapeva bene che una richiesta riguardante una parte del
sistema difensivo NATO avrebbe probabilmente rimesso in questione tutto
l’insieme (cfr. E. DI NOLFO, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in M.
VAISSE (dir.), op. cit., p. 114).
3
D. JOHNSON, D. TIERNEY, Failing to win. Perceptions of victory and
defeat in International Politics, Harvard University Press, Cambridge,
2006, p. 106.
4
Alcuni esempi. Kennedy confidò ai colleghi: «Gentlemen, we won»
(in altra occasione, sempre privatamente, pare abbia avuto meno aplomb:
«gli ho tagliato le palle»). A Mosca, invece, emblematica fu la prima
reazione del figlio di Kruscev (anche se negli anni egli avrebbe poi riveduto
la sua valutazione): sentendo alla radio della decisione del padre di
smantellare i missili, pensò: «Ecco qua. Ci siamo arresi». Gli suonò come
«una vergognosa ritirata» (cit. in M. DOBBS, op. cit., p. 333). Suo padre (che
stando al collega Pyotr Demichev la vide anch’egli in cuor suo come una
sconfitta) nelle sue memorie la definirà invece «un trionfo della politica
estera sovietica e un personale trionfo della mia carriera di statista» (N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 533). Tuttavia, quantomeno tra i suoi
colleghi, l’opinione era diversa: secondo gli storici Blight e Brenner infatti
«nel Cremlino, in definitiva, l’esito fu visto come una vittoria americana e
un’umiliazione sovietica» (citazioni tutte tratte, ove non diversamente
specificato, da D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., pp. 96 e 100).
5
MCG. BUNDY, op. cit., p. 517.
6
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 71.
7
Schelling è citato in G. DE GROOT, The Sixties Unplugged, Harvard
University Press, Cambridge, 2008, p. 78. Mikoyan (insieme alla stessa
frase di Schelling) è citato in J. NATHAN (a cura di), The Cuban Missile
Crisis revisited, St. Martin Press, New York, 1992, pp. 178-191 e riportato
in nota da J.-Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba, in
«Cultures et conflits», nota 36, 2000.
8
J. GADDIS, We now know…, cit., pp. 279-280.
9
Si veda sopra, p. 40.
10
Riportato in V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 266 («Khrushchev
shit in his pants»).
11
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 20.
12
J. BLIGHT, Fear and learning in a nuclear crisis (pp. 4-5 dell’edizione
dattiloscritta, in JFKL, Sorensen Papers, Box 107).
13
Riportato in J.Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba,
in «Cultures et conflits», n. 36, 2000, partie 6.
14
V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, Inside the Kremlin’s Cold War, cit., p. 259.
Considerazioni analoghe aveva fatto U THANT, View from the UN,
Doubleday Co., Garden City, NY, 1978, p. 157.
15
M. DOBBS, op. cit., p. 229.
16
Sulla posizione di Kruscev, cfr. pure l’intervista di storia orale
rilasciata da S. Mikoyan, figlio del vicepremier sovietico: «At the time he
did not have any opposition against him» (Mikoyan OHI, p. 7, in DNSA,
CC03323).
17
(M. DOBBS, op. cit., p. 351). Perché quella metà di loro voleva attuare
un attacco aereo invece del blocco.
18
Cfr. D. TALBOT, Brothers. The hidden story of the Kennedy years,
Simon & Schuster, London, 2007, p. 171; T. SORENSEN, Counselor…, cit., p.
296.
19
Intervento di Schlesinger alla conferenza del 20 ottobre 2002 alla
JKFPL («on the brink», p. 12 del transcript).
20
N. COUSINS, op. cit., p. 154.
21
«Plain dumb luck»: Acheson commentò così l’esito positivo ottenuto
da JFK nella CMC malgrado una gestione a suo dire errata (M. DOBBS, op.
cit., p. 353).
22
The Cuban Missile Crisis. revisited on the anniversary, in «Arms
control today», vol. 32, Nov. 2002
(www.armscontrol.org/act/2002_11/cubanmissile).
23
E. MORRIS, The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S.
McNamara, al minuto 15 del documentario (cap. «Lesson n. 2: Rationality
will not save us»); cfr. anche il libro tratto dal documentario J. BLIGHT – J.
LANG, The Fog of War…, cit., p. 59.
24
Ecco alcuni esempi. Frankel: «La fortuna giocò un ruolo nell’evitare
il disastro, nel prevenire che gli eventi sfuggissero fuori controllo» (M.
FRANKEL, op. cit., p. 5); Stern: «non senza un po’ di autentica fortuna» (S.
STERN, The week…, cit., p. 217); T. Blanton: «McNamara ha detto a L’Avana
che […] crede che evitammo la guerra nucleare in buona parte per fortuna.
[…] Non fu fortuna che Kennedy e Kruscev evitarono di spingere il bottone
perché entrambi erano impegnati a non farlo, ma certo fu fortuna che
nessun altro abbia spinto i molteplici bottoni che erano dispersi per tutta
Cuba e lungo la linea della quarantena» (The Cuban Missile Crisis: 40
years later – trascrizione della sessione di conversazione online organizzata
dal Washingtonpost.com).
25
Si veda il capitolo Verso il climax.
26
J.-Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba, in «Cultures
et conflits», n. 36, 2000, parte 5, nota 30.
27
MCG. BUNDY, op. cit., p. 450, che così continua: «Le decisioni critiche
potrebbero essere state un pochino più dure da prendere, […] ma non credo
che […] le risposte sarebbero state differenti: […] In particolare un
controblocco su Berlino sarebbe stato comunque troppo rischioso».
28
D. RUSK – R. MCNAMARA – G. BALL – R. GILPATRIC – MCG. BUNDY, The
lessons of the Cuban Missile Crisis, in «Time», Sept. 27, 1982. Di avviso
analogo lo storico G.H. SOUTOU, La guerre de cinquante ans. Les relations
Est-Ouest 1943-1990, Fayard, Paris, 2001, p. 427.
29
Passo riportato in G. DE GROOT, The Bomb…, cit., p. 270.
30
Nella sua intervista televisiva del 17-12-1962: «penso che sarebbe
meglio che le comunicazioni fossero più rapide di quanto sono ora. Nella
faccenda di Cuba ci vollero alcune ore, e per conto mio ritengo che le
comunicazioni siano molto importanti».
31
Precisamente dalle 9.42 alle 21 (ora di Washington). M. DOBBS, op.
cit., p. 164.
32
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 96.
33
Riportato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit, p. 136.
34
Sulla vicenda si veda V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 267.
35
L’idea era stata proposta a Kruscev dal fisico nucleare Leo Szilard già
nel 1960 (Cfr. G. SZILARD – B. BERNSTEIN – H. HAWKINS – G.A. GREB (a cura
di) Toward a livable world. Leo Szilard and the crusade for nuclear arms
control, MIT Press, Cambridge, 1987, pp. 284-285).
36
In tal senso, cfr., già nel 1993 (in era pre-web), M. BESCHLOSS,
Presidents, Television and foreign crises, p. 40.
37
S. STERN, The week…, cit., p. 52 (meeting ExComm del 16
pomeriggio; cfr. pure, nello stesso meeting, frasi analoghe di JFK, p. 48).
38
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 296.
39
Riportato ivi, p. 99.
40
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 691 (corsivo mio).
41
Kennedy, intervista televisiva del 17-12-1962 (riportato anche in
MCG. BUNDY, op. cit., p. 452).
42
Testo completo della lettera in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 486.
43
Si ricordi, tra l’altro, che nel 1960 in campagna elettorale Kennedy
aveva affermato: «dovremmo negoziare coi russi al summit o dovunque
altro. […] È molto meglio incontrarsi al summit che non al precipizio
[brink]» (riportato in A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 418).
44
S. STERN, Averting the final failure, cit., p. 225. («Lo credo anch’io.
Assolutamente inutile», concordò subito Dirksen.)
45
Si veda il capitolo precedente (e A. HORNE, op. cit., p. 372).
46
In tal senso è significativo quanto il segretario di Stato Rusk scrive
nelle sue memorie: «Mi corrono ancora brividi sulla schiena quando penso
a cosa sarebbe potuto succedere se Kruscev e Kennedy si fossero incontrati
faccia a faccia durante la crisi dei missili di Cuba». D. RUSK, op. cit., p. 220.
47
Su questo particolare aspetto del punto b), si veda anche C. LINDEN,
Khrushchev and the Soviet leadership, Johns Hopkins University Press,
Baltimore, 1966, p. 152, che in un saggio del 1966 aveva ben messo in luce
come la politica di deterrenza di Kruscev – privilegiante l’uso politico
dell’armamento strategico rispetto a quello convenzionale, e già passata per
un massiccio taglio delle forze convenzionali sovietiche al fine di
reindirizzare fondi verso lo sviluppo economico del Paese – avrebbe trovato
piena conferma e coronamento nella mossa cubana, se essa avesse avuto
successo.
48
Infatti, portando dei missili a medio raggio (MRBM) abbastanza
vicini al nemico da poterne raggiungere il territorio, li si rendeva di fatto
equivalenti a dei missili intercontinentali (ICBM), categoria di cui l’URSS
aveva ancora pochissimi esemplari. Il tutto è stato riassunto con la formula
MRBM + CUBA = ICBM (cfr. J. GADDIS, We now know…, cit., p. 268).
49
Nel resoconto della crisi che fece privatamente al Cremlino al leader
cecoslovacco Novotný il 30-10-1962, Kruscev affermò: «I missili servivano
a proteggere Cuba da un attacco […] e perciò hanno servito il loro scopo
principale»; e ancora: «il nostro scopo principale era salvare Cuba» (The
global missile crisis at 50, in «CWHIP Bulletin», Fall 2012, pp. 401-402).
Nelle sue memorie, poi, egli aggiungerà anche le motivazioni b) e d):
«Oltre che proteggere Cuba, i nostri missili avrebbero equiparato ciò che in
Occidente piace chiamare la bilancia del potere. Gli americani avevano
circondato il nostro Paese con basi militari e ci minacciavano con armi
nucleari ed ora essi avrebbero imparato che cosa significa avere missili
puntati contro. Non facevamo altro che somministrare loro la stessa
medicina. Ed era tempo che l’America sapesse che effetto fa avere la
propria terra e il proprio popolo minacciato». N. KRUSCEV, Kruscev ricorda,
cit., p. 525.
50
Per esempio A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 168.
51
In tal senso, cfr. per esempio S. STERN, The week…, cit., p. 42.
52
Cioè quando Thompson finalmente la intravede, dicendo
all’ExComm il 27 pomeriggio: «La cosa importante per Kruscev, mi
sembra, è poter dire: ho salvato Cuba, ho fermato un’invasione» (E. MAY –
PH. ZELIKOW, op. cit., p. 554).
53
Riunioni ExComm del 22 pomeriggio (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
p. 236). Un paio d’ore dopo, Thompson ribadisce (p. 254).
54
Ivi, p. 61. ExComm (16 mattina).
55
S. STERN, The week…, cit., p. 198.
56
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 668; G.H. SOUTOU, op. cit., pp. 402 e
421.
57
Nell’agosto 1961, il Presidium sovietico approvò una strategia del
KGB consistente nel «creare circostanze in varie aree del mondo che
aiutino a distogliere l’attenzione degli Stati Uniti e dei suoi alleati e li
vincoli durante la risoluzione del problema di un trattato di pace tedesco e
di Berlino Ovest». La mossa di Cuba può apparire un’implementazione di
questa strategia. Inoltre, i verbali della riunione del Presidium dell’8
gennaio 1962 mostrano che Kruscev avvisò i suoi colleghi: «Ora dobbiamo
prepararci per lo scontro finale su Berlino Ovest». J. HASLAM, op. cit., pp.
189 e 195.
58
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 169; W. TAUBMAN, op. cit.,
p. 541.
59
Cfr. anche J. HARPER, op. cit., p. 160 («Pura e semplice rabbia e
sfida»).
60
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda., cit., p. 525.
61
E. MAY – PH. ZELIKOW, op.cit., p. 88; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One
hell…, p. 182.
62
Riportato in W. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 259.
63
Questo, significativamente, il titolo da lui scelto per l’intero capitolo
sulla CMC (W. TAUBMAN, op. cit., pp. 529-578).
64
«Con un solo tiro del dado nucleare, Kruscev poteva raddrizzare lo
squilibrio strategico, umiliare gli americani, rassicurare i cubani, zittire gli
stalinisti e i generali, confondere i cinesi e acquisire un potente gettone di
contrattazione quando scegliesse di rigiocare Berlino. I rischi sembravano
di media entità; le ricompense, colossali». A. SCHLESINGER Jr., Robert
Kennedy…, cit., p. 504.
65
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 669.
66
Report citato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., p. 67.
67
Ivi, p. 68. Cfr. inoltre la stima stilata dopo la crisi dalla CIA:
«Motivazione principale […] fu la stringente necessità di un sensazionale
passo avanti che rafforzasse la posizione dell’URSS su un’intera gamma di
questioni» (Ivi, p. 66).
68
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 483.
69
Washington to FO, 25-10-1962, PREM 11/3690, MF R.37, UK
National Archives, Kew. (Corsivo nostro). Tale gruppo è definito
«Ambassadorial» nei documenti americani (Per esempio:
NSC/ExCom/BER-NATO, Record of Meeting No.1, 24-10-1962, 11 hours.
DNSA, CC01189).
70
Tra i motivi d’interesse di questo documento c’è il fatto che conferma
il ruolo di fatto secondario nella NATO di Italia e Turchia, escluse dal
ristretto novero degli Stati chiamati a consulto nel momento decisivo
d’emergenza nonostante la presenza di missili nucleari sul loro territorio.
Ciò mostra come, nelle gerarchie tra Stati, le diverse carature geopolitiche e
storiche di lunga durata (braudelianamente quasi strutturali, potremmo dire)
abbiano contato più della (congiunturale) presenza o meno di armi nucleari
sul proprio suolo. Il che dice dell’infondatezza della speranza di certe élite
italiane di poter salire di rango internazionale grazie all’accettazione di
missili e rischi connessi. Ritroveremo questi aspetti nel capitolo sull’Italia
(pp. 277 e 292).
71
Tale linea, del resto, si intravedeva già in un passo della lettera inviata
da Kennedy a Macmillan tre giorni prima. «Io ho ritenuto assolutamente
essenziale, nell’interesse di sicurezza e velocità, prendere la mia prima
decisione su mia propria responsabilità, ma da ora in poi mi aspetto che
possiamo e dovremmo tenerci nel più stretto contatto, e so che insieme ai
nostri altri amici affronteremo con risolutezza questa sfida. Capisco bene
che la principale intenzione di Kruscev possa essere di aumentare le sue
opportunità a Berlino e noi dovremmo essere pronti ad assumere un pieno
ruolo lì come nei Caraibi» (riportata in H. MACMILLAN, op. cit., p. 182).
72
W. TAUBMAN, op. cit., p. 538; D. WELCH, Intelligence and the Cuban
missile crisis, Frank Cass, London, 1998, p. 31.
73
Tale sguardo ai fattori regionali naturalmente non è in contraddizione
col precedente discorso sul «teatro di guerra globale»: i due aspetti anzi si
integrano.
74
Dello stesso avviso, per esempio, Walter Cronkite: «Credo che fu
proprio la vicinanza del nemico a creare il serio allarme» (OHI, CNN Cold
War Series, op. cit.).
75
Infatti, sebbene il territorio dell’URSS fosse a tiro (oltre che delle
forze USA) di 60 missili intermedi britannici, 30 italiani e 15 turchi, erano
soprattutto questi ultimi, a quanto pare, a dar noia a Kruscev – anche
emotivamente, come rivelano le sue frequenti lamentele espresse ai leader
stranieri in visita alla sua dacia sul mar Nero (si veda il capitolo
precedente). Tale fattore emotivo contribuisce, insieme ad altri motivi
politici, a spiegare perché egli pensò di dare agli americani «un po’ della
loro stessa medicina» posizionandogli missili egualmente vicini e perché
poi chiese a Kennedy di rimuovere proprio quelli turchi, anziché i più
numerosi italiani o britannici, in cambio dei propri a Cuba.
76
«La posizione geografica di Cuba l’ha sempre resa vulnerabile ai suoi
nemici. La costa cubana è solo poche miglia lontana da quella americana, e
si allunga come una salsiccia, forma questa che la rende facile agli attacchi
e difficile da difendere. Ci sono infinite opportunità per invasioni». N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 523.
77
Citato in L. GELDOF, Cubans. Voices of change, St. Martin’s Press,
New York, 1991, p. XV.
78
F. PERROUX, L’economia del XX secolo, Etas Kompass, Milano, 1969,
p. 127.
79
Cioè intese qui non tanto nell’accezione braudeliana del termine,
come «permanenze», ma piuttosto nell’accezione del Perroux. Per
un’illustrazione più chiara del termine struttura nelle sue varie accezioni si
veda G. ALIBERTI, Metodologia della storia nel ’900, cit. (su Perroux, in part.
pp. 78-82).
80
Sulle relazioni USA-Cuba, si vedano L. PEREZ, op. cit. e soprattutto L.
SCHOULTZ, Little infernal Cuban Republic, University of North Carolina
Press, Chapel Hill, 2011, 2 (in particolare cap. 7: pp. 183-191, 209-210,
215, 226). Sul tema ora si aggiunge l’antologia di saggi S. CASTRO MARINO –
R. PRUESSEN (a cura di), Fifty Years of Revolution: Perspectives on Cuba, the
United States, and the World, University of Florida Press, Gainesville,
2012.
81
Sul punto, si veda quanto scritto sia dagli studiosi statunitensi J.
BLIGHT – PH. BRENNER, Sad and luminous days, Rowman & Littlefield,
Lanham, MD, 2002, pp. 7 e 247-248, sia dallo studioso cubano E.M.
DOMINGUEZ, ¿Crisis de los misiles o crisis de octubre?
(http://www.ritsumei.ac.jp/acd/cg/ir/college/bulletin/vol16-2/16-
2esteban.pdf).
82
Lo confermano sia le memorie di Kruscev («Gli americani sapevano
che se si fosse versato sangue russo a Cuba, sicuramente quello americano
sarebbe corso in Germania». N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 532) sia le
conclusioni di McNamara («Molto probabilmente, il risultato sarebbe stato
un’incontrollabile escalation». MCNAMARA, The Conference on
Disarmament should focus on steps to move forward a “Nuclear free
world”, in «Disarmament Diplomacy», n. 4, Apr. 1996).
83
A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 65 (cfr. anche J. GADDIS, We now
know…, cit., p. 275). (Gribkov aveva il ruolo di coordinatore logistico
presso il comando militare locale).
84
R. MCNAMARA, Blundering into disaster…, cit.
85
Per farsene un’idea, si consideri che la loro carica esplosiva misurava
2 kilotoni, cioè circa sette volte meno della bomba che rase al suolo
Hiroshima (A. LEPRE, op. cit., p. 353).
86
Sugli FKR e il loro movimento, cfr. M. DOBBS, op. cit., pp. 124-125,
178-181, 205-206, 351-352.
87
Ivi, p. 58.
88
Riportato in A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 66.
89
Come sembrava pensare lo stesso Kruscev, a quanto emerge ora
anche da un nuovo documento: se gli USA avessero attaccato Cuba, disse
Kruscev a colloquio col leader cecoslovacco Novotny il 30-10-1962, «ciò
avrebbe significato la guerra nucleare» (The global Cuban missile crisis at
50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 401).
90
L. FREEDMAN, op. cit., p. 175.
91
Mostrando all’ExComm le nuove foto scattate dagli U-2 su Cuba, il
26 pomeriggio McCone aveva ammesso: «Invadere sarà un’impresa molto
più seria di quanto la maggioranza della gente realizzi. […] È roba molto
letale quella che hanno lì». S. STERN, The week…, cit., p. 145.
Italia
1
Russo viene inviato all’ONU, a New York (non a Washington come
ricordava Ducci) e vi arriva il pomeriggio del 24 (tel. n. 368, 23-10-1962,
Archivio Storico-Diplomatico MAE, Telegrammi ordinari, 1962, vol. 71,
ONU. Italnation, Italninf, NY).
2
Il particolare della visita a Waterloo fu confidato, con intento
esplcitamente critico, dal segretario generale del Ministero, Attilio Cattani,
all’ambasciatore italiano a Parigi, Manlio Brosio, il quale lo annotò nei suoi
diari (M. BROSIO, op. cit., p. 255).
3
R. DUCCI, I capintesta, Rusconi, Milano, 1982, pp. 143-148.
4
Le località delle dieci basi erano: Gioia del Colle (la principale e la
prima a divenire operativa), Acquaviva delle Fonti, Altamura (due basi),
Gravina, Irisina, Laterza, Matera, Mottola, Spinazzola. I missili erano
sempre eretti e con le testate già montate, giacché dovevano essere
perennemente pronti al lancio in quindici minuti. Essi avevano una potenza
equivalente a cento volte l’atomica lanciata su Hiroshima (sulla presenza
delle testate in cima ai missili, cfr. L. NUTI, La sfida nucleare, Il Mulino,
Bologna, 2007, p. 203).
5
«Air strike Plan» (NSA) e altra documentazione riportata in L. NUTI,
Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 539.
6
Cfr. L. NUTI, La sfida nucleare. Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 173-
199; Rome to Secr. of State, Oct. 26, 1962. DNSA, CU00763; A. VARSORI,
op. cit., p. 136; E. MARTELLI, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera
italiana (1958-1963), Guerini e Associati, Milano, 2008, pp. 40-41.
7
Lo scambio di note è del 26 marzo 1959. Cfr. L. NUTI,
Dall’Operazione Deep Rock all’Operazione Pot-Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in Storia delle Relazioni
Internazionali, 1996-1997, n. 1, pp. 95-139 e n. 2, pp. 105-149; D. SORRENTI,
L’Italia nella Guerra fredda. La storia dei missili Jupiter 1957-1963,
Edizioni Associate, Roma, 2003, p. 18; DoS to Bundy, memo, Jupiters in
Italy and Turkey, DNSA, CC00822.
8
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta del 30-9-
1958, pp. 1863-1871 (sui dibattiti parlamentari in merito, cfr. anche D.
SORRENTI, op. cit., pp. 120-123 e 144-161).
9
Quei missili, ricorda Reinhardt nel 1966, «erano una forma di difesa a
dir poco difficile. Giacevano risplendenti sull’altopiano della Puglia, alla
vista di tutti, ed era abbastanza palese che la loro distruzione con un
improvviso attacco aereo nemico non sarebbe stata una cosa molto difficile
da ottenere». F. Reinhardt OHI, p. 9., DNSA, CC03232.
10
Nel corso della visita a Mosca di Fanfani e Segni (2-5 agosto 1961),
Kruscev aveva detto loro, con ovvi intenti politici di intimidazione e
divisione della NATO, che in caso di conflitto i missili italiani sarebbero
stati un bersaglio sicuro e facile, facendo dell’Italia una sorta di ostaggio
nelle mani di Mosca: «Se Washington scatena la guerra sarete voi a dover
morire» (citato in B. BAGNATO, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia
nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica 1958-1963, Olschki,
Firenze, 2003, p. 475).
11
Si ricordi per esempio la già vista frase di Ball nella riunione del 18
ottobre: «Credo che il prezzo sarà alto […] Il minimo assoluto che potrà
essere sarà rimuovere i missili da Italia e Turchia. [Ma] dubito che potremo
risolverla così» (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 143).
12
Citato in L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 540; cfr. pure S. STERN, The
Cuban missile crisis…, cit., p. 167.
13
Pur in attesa di una necessaria conferma da documenti NATO, la
testimonianza del generale Genta è suffragata dal maresciallo Antonio
Mariani, anch’egli di stanza alle basi in quei giorni, sia nel suo libro sia in
un colloquio avuto con noi sull’argomento (A. MARIANI, La 36 a Aerobrigata
Interdizione Strategica ‘Jupiter’. Il contributo italiano alla Guerra Fredda,
Roma, Stato Maggiore Aeronautica, Uffico Storico, 2013, pp. 28 e 299;
intervista con l’autore, 2013). Del resto risulta che anche gli analoghi
missili turchi in quei giorni furono posizionati in «un qualche stato di allerta
più alto del normale» (PH. NASH, op. cit., pp. 126 e 202).
14
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
15
Anche perché «la consapevolezza pubblica delle installazioni Jupiter
in Italia è, considerate tutte le circostanze, minima»: cioè gli italiani sanno a
malapena di averle. Rome to Secr. of State, Oct. 26, 1962, DNSA,
CU00763. Ciò costituisce un esempio delle interazioni tra gli aspetti
diplomatico-militari e quelli sociali della CMC.
16
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
17
riportato in L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 543.
18
Si veda la Parte prima (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564). Inoltre,
si noti che nel prosieguo della riunione, mentre McNamara parlava della
Turchia, il Presidente torna a soggiungere: «e l’Italia, tira dentro l’Italia
(Or… and Italy, throw in Italy)». S. STERN, Averting the final failure, cit., p.
351.
19
A tal proposito è interessante (perché significativo del legame
implicito esistente tra ritiro delle basi turche e ritiro delle basi italiane)
notare come, benché i due «memo» ufficiali stilati da RFK e Dobrynin per i
rispettivi governi sul contenuto del loro incontro segreto del 27 ottobre
menzionino solo la Turchia e non l’Italia, quest’ultima compaia però poi sia
nel resoconto di quell’incontro incluso nel successivo libro di R. KENNEDY
(op. cit., p. 82), sia nelle memorie di Kruscev (edizione 1974, p. 512;
edizione 2007, p. 350). Sul punto, cfr. anche J. HERSHBERG, Anatomy of a
controversy, in «CWHIP Bulletin», Spring 1995.
20
L. FREEDMAN, op. cit., p. 222 (cfr. anche L. NUTI, La sfida nucleare,
cit., p. 247).
21
Seppure solo relativamente al fatto di non averne esplicitamente
«trattato coi sovietici», a quanto risulta dalle note sui colloqui del 16
gennaio 1963 stilate da ambo le parti (Memo of Conversation, Jan. 16,
1963, in JFKL, NSF, Italy, Box 121; 16 gennaio 1963, Diari Fanfani,
ASSR). Sul fatto che Fanfani fosse consapevole dell’insincerità di queste
assicurazioni USA concorda anche E. MARTELLI, op. cit., p. 401.
22
Rome to DoS, Jan. 17, 1963, in DNSA, CC02859.
23
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 555.
24
McN to Andreotti, Jan. 5, 1963. «Dear Mr. Minister: You will recall
that, during our conversation in Paris on December 13, I expressed the
view that the Jupiter missiles should be replaced by more effective missiles
now available. […]» Ist. Sturzo, Fondo Andreotti, Scritti («Gli Usa visti da
vicino»), Busta 632.
25
9 gennaio 1963, Diari Fanfani, ASSR. Si precisa inoltre che sempre il
9 gennaio la comunicazione era stata esposta anche in via orale a Piccioni
dall’ambasciatore Reinhardt, come risulta dai diari dell’ambasciatore
italiano a Parigi (M. BROSIO, op. cit., p. 298).
26
P. NEGLIE, La stagione del disgelo, Cantagalli, Siena, 2009, pp. 166-
167.
27
La situazione non migliora (anzi!) nella sua versione più recente della
medesima storia, E. BERNABEI, L’Italia del ‘miracolo’ e del futuro,
Cantagalli, Siena, 2012, pp. 121-128. Per limitarsi agli esempi di errori più
macroscopici: Cousins non va né a Roma né a Mosca durante la CMC (è in
Massachusetts) e non parla direttamente né con JFK né con Kruscev; non è
affatto vero che i missili a Cuba fossero i primi a poter raggiungere gli USA
(i sovietici avevano già gli ICBM dal 1957), né che quelli italiani fossero
gli unici a poter raggiungere il territorio sovietico (c’erano anche quelli
turchi e i britannici); inoltre Robert Kennedy non fece nessun annuncio in
tv alla fine della crisi.
28
E. BERNABEI, L’uomo di fiducia, Mondadori, Milano, 1999, pp. 166-
169.
29
26 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR. Il virgolettato, relativo
appunto al colloquio Segni-Kissinger, è riportato in L. NUTI, Gli Stati
Uniti…, cit., p. 565.
30
L’ipotesi che l’offerta sia stata formulata invece dal ministro Piccioni
nell’incontro che questi ebbe il 25 pomeriggio a Roma con l’ambasciatore
USA Reinhardt, che pure abbiamo considerata, è apparsa poi da scartare
giacché il telegramma con cui quest’ultimo riferisce a Washington
dell’incontro (conservato in NARA, 611.65, Reel 93 e 611.37 Reel 44) non
fa minimamente menzione dell’argomento Jupiter. Inoltre l’incontro era
stato richiesto da parte americana, non italiana (cfr. «La Stampa», 26-10-
1962, p. 3).
31
Nov. 2, 1962, Memorandum for the President, Relations with the
Vatican, in JFKL, POF, Box 428.
32
Calendar for Saturday October 27 (indicante anche l’orario d’inizio
dell’incontro: 11.30 AM), in JFKL, Schlesinger Papers, Box 52.
33
Rome to DoS, Sep. 21, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box
12A (declassificato nel 2004).
34
Quest’ultima parte – l’uso di Schlesinger come mediatore – era
un’idea di Bernabei (non di Fanfani o del Papa), come egli stesso precisa a
George Lister, il funzionario americano che lo scortò alla Casa Bianca. Oct.
30, 1962, messaggio senza oggetto, in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box
12A.
35
Nov. 2, 1962 Memorandum for the President, Relations with the
Vatican, in JFKL, POF, Box 428.
36
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 585.
37
G. ANDREOTTI, Gli USA visti da vicino, Rizzoli, Milano, 1989, p. 55.
38
Intervista (scritta) ad Andreotti (Campus, 2009).
39
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009). Sulla prassi di Fanfani di
servirsi di intermediari informali, anche per una non totale fiducia nel
Ministero degli Esteri, cfr. A. VARSORI, op. cit., p. 133.
40
Benché, aggiungiamo per completezza, nel suo libro egli neghi che
McNamara a dicembre gliene avesse parlato in termini imminenti (G.
ANDREOTTI, op. cit., p. 55). Ma i diari di Fanfani, come mostrato,
testimoniano invece che Andreotti gli aveva menzionato quella richiesta di
ritiro come espressagli da McNamara già nel colloquio di dicembre.
41
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, pp. 560-561 (e L. NUTI, in M. VAISSE (dir.),
op. cit., pp. 154-155).
42
26 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
43
«Ho risposto», scrive Russo, «che problema meritava venire
approfondito sede NATO ma sembravami comunque preferibile mantenere
tale contropartita nel quadro negoziato disarmo e limitare negoziato Cuba a
situazione questo emisfero». Telegramma n. 712, 26-10-1962, 0.40 [ora di
NY; la ricezione a Roma è segnata alle 8.30 del mattino]. Archivio Storico-
Diplomatico, MAE, Telegrammi Segreti, 1962, ONU – New York, vol. II.
44
Del medesimo avviso, del resto, si era detto due giorni prima anche il
segretario generale del Ministero, Cattani, in un colloquio privato avuto il
24 ottobre con l’ambasciatore italiano a Parigi, come questi annotò nei suoi
diari: «Cattani ritiene che non si possa sollevare l’argomento [del ritiro
degli Jupiter] in Italia su basi bilaterali con gli americani. Bisognerà
attendere che si arrivi a una soluzione multilaterale». Cfr. M. BROSIO, op.
cit., p. 255.
45
Colloquio Fanfani-Russo, in «La Giustizia», 27-10-1962, p. 1.
46
27 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR: «Vedo Piccioni e gli dico di
telegrafare a Russo che torni a vedere U Thant incoraggiandolo e
sostenendolo nella sua opera conciliativa. […] Quaroni […] suggerirebbe
che in caso di necessità e se richiesto dagli USA si potrebbe anche
considerare […] lo smantellamento delle basi europee missilistiche USA».
47
Su questo particolare politico-cronologico, precisatoci personalmente
da Bernabei (Intervista 2009, Campus-Nuti) c’è un’indiretta conferma di
Andreotti in un suo articolo su papa Giovanni pubblicato nell’aprile 2002
sul suo mensile «Trenta Giorni». Nella crisi di Cuba, scrive Andreotti, «vi
fu […] un’iniziativa del nostro presidente del Consiglio Amintore Fanfani e
che io apprendo solo ora pur essendo in quel momento ministro della
Difesa». (Così dicendo Andreotti entra inavvertitamente in flagrante
contraddizione con sé stesso, visto che lo aveva rivelato già nel suo libro
del 1989, spiegando di averlo appreso da McNamara pochi mesi dopo la
crisi.) «Per corrispondere all’invito del Papa», continua Andreotti
riferendosi all’appello del 25, «–nelle ultime ventiquattro ore utili prima
dell’ultimatum di Washington – Fanfani incaricò Bernabei, che era negli
Stati Uniti per ragioni di lavoro RAI, di comunicare a Washington che
l’Italia era pronta a far ritirare i missili di Gioia del Colle […] In effetti lo
scambio tra i missili italo-turchi e quelli cubano-sovietici avvenne, ma non
so se l’idea di Fanfani fu alla base dell’intesa o si aggiunse». In realtà
Bernabei ricevette solo la risposta (non propose lui l’offerta, come ci ha
confermato lui stesso). La dichiarazione è comunque interessante perché,
come detto, mette anch’essa in relazione causale la diplomazia di Fanfani
con l’appello papale.
48
Scrive Fanfani nei suoi diari del 25, come primo fatto della giornata,
evidentemente mattutino (infatti la nota seguente è su un incontro delle ore
11): «Il Papa che è venuto a conoscenza della mia attività dei giorni scorsi
per la pace, mi ha fatto esprimere la sua soddisfazione». Ciò collima
precisamente con quanto ci aveva detto Bernabei, e cioè che «Fanfani parlò
con Dell’Acqua, già prima dell’appello; (…) probabilmente Dell’Acqua
andò a colazione a casa Fanfani, perché se Fanfani fosse andato in Vaticano
sarebbe stato notato» (Intervista a Bernabei. Campus-Nuti, 2009). Mons.
Angelo Dell’Acqua, membro della Segreteria di Stato, era uno strettissimo
collaboratore del Papa e proprio quella notte aveva steso con lui il testo
dell’appello poi pronunciato a mezzogiorno.
49
Schlesinger Papers, Box 52 JFKL (White House Daily Schedules).
50
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009).
51
Che JFK in quel momento fosse lì nel Cabinet Office risulta sia da
ciò che Schlesinger spiegò a Bernabei, sia dalle trascrizioni dei nastri. Si
tenga inoltre presente che in quella stessa riunione JFK aveva chiamato
Stevenson al telefono a New York, e i nastri (da cui risulta udibile solo il
lato di JFK) registrano lunghe pause in cui egli ascolta Stevenson. Alla fine
della conversazione JFK dice a Stevenson: «quel che dobbiamo fare è
convincerli ad accettare di fermare il lavoro [alle basi] mentre discutiamo di
tutte queste proposte, tutte queste offerte» (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
321 dell’edizione 2002, corretta dagli autori rispetto alla loro precedente
trascrizione errata. Cfr. anche S. STERN, Averting the final failure, cit., p.
305). Il plurale della frase usata da JFK (all these proposals, all these
propositions) potrebbe riferirsi sia solo alle due lettere di Kruscev, sia anche
ad un’eventuale offerta italiana. Appena poche battute dopo la fine della
loro telefonata (durata «parecchi minuti»: S. STERN, The week…, cit., p.
155), i nastri si interrompono di colpo, e perciò la seconda parte della
riunione del 27 mattina non è registrata (presumibilmente a causa
dell’improvvisa fine del nastro, in un momento in cui nessun addetto alla
manutenzione era nel basement a rimpiazzarlo: questa l’ipotesi sia di E.
MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 516 sia di S. STERN, The week…, cit., p. 155).
Ciò significa che – sempre ammesso che la comunicazione di un’offerta
italiana non sia giunta da Stevenson durante quella telefonata – un
eventuale veloce ingresso di Schlesinger in stanza per chiamare il
Presidente a conferire a quattr’occhi con lui e concordare la risposta da dare
all’emissario italiano Bernabei (in attesa d’essere ricevuto nella stanza
accanto) potrebbe non risultare dai nastri anche per questo banale motivo.
52
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009); E. BERNABEI, L’uomo di
fiducia, cit., p. 169.
53
Nel 1983 Fanfani accennò qualcosa in proposito in un discorso
all’Università di Chicago (cfr. «Il Messaggero», 15-12-1987, p. 4). Poi nel
1987 – quando «Il Mondo» pubblicò alcuni brevi stralci dalle prime
trascrizioni declassificate dei nastri dell’ExComm, in cui (come abbiamo
mostrato anche qui) il 27 veniva nominato e brevemente discusso il ritiro
delle basi italiane – Fanfani, sentendosi forte a quel punto di una sorta di
conferma documentale divenuta pubblica, intervenne a rivendicare il suo
ruolo con un comunicato stampa, scritto di suo pugno, in cui precisava
quanto segue: «Queste rivelazioni confermano che aveva ragione Fanfani, e
non i giornalisti che tentarono di smentirlo, quando negli anni scorsi egli
ricordò che ad evitare lo scontro di Cuba nell’ottobre 1962 aveva
contribuito anche il governo da lui presieduto, annuendo alla richiesta USA
di procedere allo smantellamento dei missili Jupiter esistenti in Italia e
mettendo l’URSS in condizioni di recedere dallo scontro con gli USA»
(ASSR, Carte Fanfani, Sez. I, Serie I, Busta 71). Infine, non ci pare senza
significato l’inserimento di un suo foglio autografo tra le pagine dei suoi
diari del 1963 relative al ritiro degli Jupiter, foglio in cui egli scrive: «Basi
Jupiter – cfr. ottobre 62 crisi Cuba». Qualcosa di simile a un’indicazione
agli studiosi futuri a confrontare e mettere in relazione causale i due eventi
(ASSR, Diari Fanfani).
54
A conclusione del suo discorso per l’approvazione parlamentare del
bilancio del Ministero degli Esteri, Piccioni aveva rivendicato che anche
nella crisi appena alleviatasi il governo italiano «non ha cessato di
adoperarsi. […] I contatti, ripetuti e costanti, dell’onorevole Russo con il
signor U Thant hanno portato il nostro incoraggiamento all’azione di
conciliazione da questi svolta e ci hanno consentito di seguire da vicino
tutte le fasi della trattativa. Inoltre, non abbiamo mancato di far pervenire
alle parti più direttamente interessate la nostra parola per facilitare il
raggiungimento di una soluzione consensuale». Quest’ultima frase è quella
che evidentemente lascia intendere qualcosa di più (Atti parlamentari,
Verbali della Camera dei deputati, seduta del 30-10-1962, pp. 35346-
35347).
55
Il motivo per cui Fanfani nei suoi diari non specifica il contenuto
della telefonata negli USA del 26 sera e non menziona neppure quella della
mattina a Russo (e potrebbe ben avergli chiesto di usare analoga
riservatezza in merito, nei successivi telegrammi), potrebbe essere dovuto
alla consapevolezza della delicatezza di una mossa che oltretutto stava
attuando senza consultarsi né col presidente della Repubblica Segni (Capo
delle Forze Armate) né col ministro della Difesa Andreotti (il quale infatti,
come visto, si dirà poi piccato di esserlo venuto a sapere solo da
McNamara). Del resto non sarebbe questo l’unico punto sul quale i diari di
Fanfani restano volutamente silenti: basti pensare, in quegli stessi giorni,
alla totale mancanza di cenni sulla presenza di Bernabei a Washington e sul
suo incontro segreto con Schlesinger per parlare del Vaticano: un fatto
certo, e politicamente rilevante, di cui Fanfani era stato l’ispiratore, ma che
egli non annota. O ancora, si pensi al resoconto incompleto del proprio
colloquio con Eisenhower alla Casa Bianca il 30 luglio 1958: Fanfani ne
riporta tutta la parte relativa al Medio Oriente, ma ‘dimentica’ quella sui
missili Jupiter, che invece proprio in quel colloquio egli comunica di
accettare (ponendo la condizione che tutto avvenga in sordina: a cominciare
evidentemente dai suoi stessi diari…).
56
Se infatti nel 1958 accettare l’installazione dei missili aveva
significato per Fanfani accreditare a Washington il suo governo come
affidabilmente atlantico, offrire ora di ritirarli sarebbe rientrato non in una
mutata logica neutralista, ma nella medesima logica di ‘altro atlantismo’
(per usare la definizione di Martelli), configurandosi cioè come un tentativo
di aiutare gli USA ad uscire da una situazione pericolosa per tutti.
57
L. NUTI, Italy and the Cuban Missile crisis, in The global Cuban
missile crisis, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 662.
58
Nell’ipotesi, invece, che tale iniziativa risulti infine più esagerata che
reale, la presunzione della sua esistenza da parte di Fanfani negli anni
Ottanta sarebbe indicativa di una volontà di attribuirsi il ruolo del
mediatore internazionale: un tratto del resto non raro tra i leader della storia
italiana (si veda sotto, nota 320).
59
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, pp. 872 e 874 (sull’atteggiamento
dell’amministrazione Kennedy, si vedano anche A. VARSORI, op. cit., pp.
143-144 e 148-149, e S. DI SCALA, Renewing Italian socialism, Oxford
University Press, New York 1988, pp. 123-132).
60
Assistance to the Italian Socialist Party, Oct. 19, 1962, in JFKL,
Schlesinger Papers, White House Files, Box 12 (Italy) e, in una versione più
completa (non sanitized), in JFKL, NSF, Italy, Box 121 declassificato nel
2005. Il termine «ogni» era sottolineato nell’originale.
61
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34924-34925.
62
A differenza di come giudicò quello di Lussu al Senato (23-10-1962,
Diari Fanfani, ASSR: «Agisco su PSI perché non si associ al PCI e prenda
una posizione moderata, come poi fa con De Martino alla Camera, ma non
con Lussu al Senato»).
63
Nenni: Chiediamo un incontro K-K e l’assemblea generale dell’ONU,
in «Avanti!», 24-10-1962, p. 1.
64
Rome to DoS, Italian reactions to the Cuban crisis, Nov. 28, 1962, in
JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
65
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 549 (Informal tour d’horizon with
Prime minister, Dec. 8, 1962).
66
Lo si ritrova infatti in vari documenti: Rome to DoS, Oct. 26, 1962
(in NARA, 611.37, Reel 27); Italy’s Center-Left government and the Cuban
crisis (in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A); Our major European
allies and the Cuban crisis (in DNSA, CC01937).
67
Meloy to Tyler, Your meeting with Ambassador Fenoaltea, Oct. 27,
1962, in NARA, 611.65, Reel 93.
68
Italy’s Center-Left government and the Cuban crisis, in JFKL,
Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
69
«Dato che», scrive Schlesinger dopo aver riportato quel brano, «la
posizione del PSI [sulla crisi], benché deplorevole, era prevedibile (e molto
simile a quella presa dal «Manchester Guardian» in Inghilterra), e poiché è
difficile concepire una situazione in cui il Cremlino possa basare la sua
stima della determinazione dell’Occidente sull’atteggiamento del governo
italiano, si deve concludere che questo ragionamento viene avanzato meno
sulla base dei suoi meriti che non come una nuova versione della vecchia
convinzione che il centro-sinistra è di per sé una cosa cattiva» (sottolineato
nell’originale). U.S: policy and the Center-Left in Italy, Dec. 10, 1962, in
JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
70
P. NENNI, Gli anni del centro sinistra. Diari 1957-1966, Sugarco,
Milano, 1982, pp. 247-248.
71
P. NENNI, E ora, negoziare un accordo generale, in «Avanti!», 4-11-
1962, p. 1.
72
Nenni’s November 4 Editorial, in JFKL, Schlesinger Papers, WH,
Box 12A. Questo «memo» (senza data e firma) conteneva il testo inglese
dell’editoriale di Nenni (in «Avanti!» 4-11-1962) e il commento ad esso,
nonché, in allegato, il bollettino della TASS riportante la traduzione inglese
dell’articolo della «Pravda», 13-11-1962. Tale critica della «Pravda» al PSI
era inoltre da rilevare perché, come notò un documento britannico
riguardante il medesimo articolo, la stampa sovietica in genere era solita
trattare i socialisti italiani «con più rispetto delle loro controparti in
Germania Ovest o Francia». Moscow to FO, FO 371/163716, UK National
Archives, Kew.
73
Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Scatola 152, Fasc. 23, Istituto
Sturzo.
74
Rome to DoS, Oct. 24, 1962 (n. 930), in NARA, 611.37, Reel 27.
75
Schaetzel to Tyler, U.S. Embassy and Nenni, Nov. 23, 1962, in
NARA, 611.37, CC0069, Reel 28.
76
Nenni’s November 4 Editorial, in JFKL, Schlesinger Papers, WH,
Box 12A, «memo» senza data e firma. Il viaggio di Craxi negli USA risale
probabilmente a novembre o dicembre.
77
Craxi to Lister, Jan. 11, 1963, in JFKL, Schlesinger Papers, White
House Files, Box 12A.
78
Nenni a Codignola, 30-10-1962, riportata in L. NUTI, Gli Stati
Uniti…, cit., p. 552.
79
Nenni spiegò loro che inizialmente si era avuta l’impressione che «gli
USA stessero usando le basi come un pretesto per invadere, specialmente in
vista del tentativo abortito dello scorso anno di sbarcare esuli cubani», e che
la «genuina paura tra la gente dello scoppio di una guerra nucleare» aveva
fatto il resto. Poi, benché egli avesse capito in fretta chi fosse il vero
aggressore (l’URSS), «nei primi giorni della crisi non era riuscito a
convincere i colleghi» ma ora «avrebbe fatto sì che l’originale errore di
valutazione […] venisse gradualmente corretto». Rome to DoS, Nenni’s
view on political situation, Nov. 19, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers,
White House Files, Box 12A.
80
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 553.
81
Ivi.
82
L. NUTI, L’Italie et les missiles Jupiter, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p.
156; E. DI NOLFO, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in M. VAISSE (dir.),
op. cit., p. 120; A. VARSORI, op. cit., p. 152.
83
Cfr. anche la lista cronologica di azioni ‘Action contemplated’, NSF,
Box 36, JFKL.
84
si veda il capitolo Capire la crisi e relativa nota n. 70.
85
Sul fatto che la gerarchia tra gli alleati europei della NATO si
prestasse a qualche ambiguità cfr. C. SANTORO, La politica estera di una
media potenza, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 198.
86
22 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
87
23 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR. Tra le carte di Fanfani vi sono
anche i testi delle lettere. Macmillan scrive a Fanfani: «[…] Ho ricevuto il
messaggio dal Presidente sul problema a Cuba […] Questa vicenda mi
sembra avere implicazioni gravissime. Le sarò grato se mi farà conoscere i
suoi pensieri. […] Ho ritenuto giusto assicurare al presidente Kennedy che
gli daremo pieno supporto nel Consiglio di Sicurezza ma al tempo stesso
indicare alcune delle ovvie ripercussioni che possono seguire sia nei Caraibi
sia forse in Europa. Dobbiamo certamente mantenerci nel più stretto
contatto […]». Fanfani risponde a Macmillan: «[…] Condivido le sue
preoccupazioni circa le implicazioni gravissime che questa faccenda può
avere. L’Italia non fa oggi parte del Consiglio di Sicurezza e per ora deve
limitarsi ad auspicare che in seno ad esso si trovi una soluzione pacifica.
Non dobbiamo perdere tempo per evitare pericolose ripercussioni […]».
Carte Fanfani, ASSR, Sez. I, Serie I, Sottoserie 4, Busta 14, Fasc. 1.
88
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34918-34919; DNSA, CC01039.
89
(L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 547). La definizione più comune
della posizione italiana che si ritrova nei documenti americani è «cauta»
(nel senso di: un po’ troppo, per i nostri gusti…).
90
Italy’s Center-Left Government and the Cuban Crisis, Nov. 30, 1962,
in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A. Analoga impressione si ritrova
nell’analisi britannica del discorso. L’ambasciatore Ward riporta a Londra
che Fanfani «ha espresso solidarietà agli Stati Uniti nel suo ricorso alle
Nazioni Unite ma non nell’instaurazione del blocco». Differences existing
between the parties in the Italian Government coalition & the Socialist
Party on foreign policy, emphasized by the Cuban crisis, Rome to FO, 21-
11-1962. FO 371/163714, UK National Archives, Kew.
91
De Gaulle «ha parlato in modo offensivo dell’ONU», riferisce
l’ambasciatore USA Bohlen dopo averlo visto il 27 ottobre. Già nel
colloquio con Acheson del 22 il generale si era detto scettico sull’utilità del
ricorso al Consiglio di Sicurezza (Paris to SoS, 22-10-1962, DNSA,
CU00570; 27-10-1962, DNSA, CU008004). Quanto al leader tedesco, la
sua forte avversione per ciò che egli definiva «guerra di carta» emerge da
entrambi i suoi colloqui con l’ambasciatore USA Dowling (Bonn to SoS,
24-10-1962, DNSA, CC01224; 28-1-1962, DNSA, CU00844). Sul costante
sostegno all’ONU della politica estera italiana di quegli anni, si veda invece
A. VILLANI, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-
1968), Cedam, Padova, 2007, pp. 165-168 e 429-430.
92
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2; «La Stampa», 24-10-1962, p. 1; Atti
parlamentari, Verbali del Senato della Repubblica, Seduta pomeridiana del
23-10-1962, pp. 29346-2964.
93
Verbali del Senato della Repubblica, Seduta pomeridiana del 23-10-
1962, p. 29355.
94
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34917-34930.
95
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2.
96
Animato dibattito al Senato e alla Camera, in «Il Tempo», 24-10-
1962, p. 1.
97
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2.
98
Pur notando Malagodi per i liberali che «ogni esitazione da parte
nostra, […] ogni ambiguità, sarebbe una grave minaccia contro la pace»,
anche se «sappiamo bene che la vita politica di questo governo dipende
dall’appoggio del partito socialista che su questi problemi la pensa assai
diversamente».
99
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34928-34930 (gli ultimi due esponenti
citati erano il monarchico Alfredo Covelli e il missino Giulio Caradonna).
100
Discorso da satellite, in «l’Unità», 24-10-1962, p. 1.
101
24 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
102
Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932. In DNSA, CU00721.
103
Il retroscena si evince dalla prima stesura del testo, conservata tra le
carte di Fanfani (Box 11, Fasc. 10.2, ASSR), su cui si legge chiaramente, in
rosso, nell’alto della pagina: «Testo sottoposto al Capo dello Stato e
corretto».
104
Fanfani to JFK, Oct. 23, 1962, in JFKL, POF, Box 119 (Italy).
105
Relativamente a Londra, il particolare del sommario e del suo
apprezzamento risulta dal cablo dell’ambasciatore Ward del 25 ottobre e
dalla relativa risposta inviatagli dal FO la stessa sera: PREM 11/3690, MF
R.37, UK National Archives, Kew. Relativamente a Mosca, esso risulta
invece da un documento sovietico recentemente reperito da A. SALACONE,
L’Unione Sovietica e l’Italia del centro-sinistra (1958-1968), Tesi di
dottorato, Università Roma Tre, XXI ciclo, p. 206.
106
Sugli analisti USA e UK, si veda sopra. Inoltre pure il settimanale
USA «Time Magazine», Nov. 2, 1962, p. 25, attribuì le difficoltà di Fanfani
alla presenza dei socialisti nella sua coalizione, definendolo il leader «più
addolorato» per la CMC tra quelli dell’Europa Occidentale.
107
In tal senso si vedano anche gli ulteriori incoraggiamenti di Russo a
U Thant e Stevenson nei colloqui rispettivamente del 26 e 27 sera
(Telegrammi nn. 714 e 722, Archivio Storico-Diplomatico, MAE,
Telegrammi Segreti, 1962, ONU – New York, vol. II).
108
Segni’s view on the Italian political situation, Dec. 31, 1962, CIA
Secret – Telegram Information report, in JFKL, NSF, Italy, Box 121. (Va
aggiunto che, stando ai diari di Fanfani, Segni si trovava a Sassari e
Fanfani, che gli telefona già il 22, il 23 gli consiglia di tornare a Roma in
giornata, cosa che accade appunto quella sera, la stessa in cui viene
pronunciata la dichiarazione incriminata. Ciò non toglie che i due potessero
concordarla anche per telefono, volendo.) Una conferma della forte distanza
tra Segni e Fanfani emerge inoltre da un rapporto dell’ambasciata inglese
stilato poche settimane dopo: Segni, vi si legge, «come idee è molto lontano
dal suo dinamico primo ministro, signor Fanfani, e non è un amante del
centro-sinistra e del suo alto sacerdote [Fanfani]; e questo incoraggia intrigo
politico e incertezza». Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual report for
1962, FO 371/169339, UK National Archives, Kew.
109
Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con l’Estero,
Scatola 159, Fasc. 15, Ist. Sturzo.
110
Italian reactions to the Cuban crisis, Nov. 28, 1962, in JFKL,
Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A (Italy).
111
Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932. In DNSA, CU00721.
112
L’ambasciatore italiano a Parigi, Brosio, annotò così nel suo diario
privato il contenuto del colloquio avuto il 24 ottobre: «Cattani [Segretario
Generale del MAE] non esclude una crisi governativa in Italia se la crisi
internazionale si aggraverà» (M. BROSIO, op. cit., p. 254).
113
Rome to DoS, Informal tour d’horizon with Prime Minister, Dec. 8,
1962, in JFKL.
114
Relazione di Alicata alla Direzione del PCI, 31-10-1962 (O.
PAPPAGALLO, Il PCI e la rivoluzione cubana, Carocci, Roma, 2009, p. 183).
115
Così la definisce Pappagallo, nel riportare i verbali di quella riunione
(ivi, pp. 181-191).
116
Togliatti rimarcò che «i limiti del movimento sono evidenti […] in
parecchie città non si è fatto nulla o quasi, al massimo qualche manifestino»
(ivi, p. 184).
117
Rome to DoS, Oct. 26, 1962, in NARA, 611.37, C0069, Reel 27.
118
Our major European allies and the Cuban crisis, Nov. 3, 1962, in
DNSA, CC01937. Cfr. anche il rapporto Italian reactions to the Cuban
crisis, Nov. 28, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A,
che definisce il PCI «incapace di montare alcuna notevole manifestazione
pubblica sulla crisi cubana».
119
«L’Unione sovietica ha puntualmente adempiuto la funzione che le
spetta come grande potenza socialista. Ha difeso l’indipendenza di un
piccolo popolo, che l’imperialismo americano vorrebbe soggiogare; […] in
pari tempo si è mossa con estremo senso di realismo e di responsabilità, non
perdendo mai di vista che il più grave problema dei nostri giorni è di evitare
una guerra […]». P. TOGLIATTI, Potenza socialista, potenza di pace, in
«Rinascita», 3-11-1962, pp. 1 e 2.
120
Nei quali si trova a verbale la sua «impressione che non sappiamo
tutto» riguardo ai motivi dell’agire di Mosca (O. PAPPAGALLO, op. cit., p.
184).
121
L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del PCI, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2005, vol. 1, pp. 303-304 (cfr. pure C. SPAGNOLO, Sul
memoriale di Yalta, Carocci, Roma, 2007, p. 244).
122
Si ricorderà che contro Kennedy l’aveva usata, seppur in privato, il
generale LeMay, e che poi Kennedy stesso o qualcuno vicino a lui l’aveva
dirottata su Adlai Stevenson, tramite l’articolo di Alsop e Bartlett (si
vedano la Parte prima e il capitolo Stati Uniti d’America).
123
Intervento di Togliatti, «l’Unità», 3-12-1962, p. 4.
124
Ciò risulta sia dalla stampa (R. PISU, I cinesi attaccano Togliatti, in
«ABC», Dic. 1962, p. 14), sia dalla relazione del Ministero degli Interni sul
Congresso PCI, nella quale, rilevando il mancato applauso dei cinesi, si
aggiunge che «la circostanza ha destato molta sensazione ed i congressisti
hanno a bella posta insistito nell’applaudire, ma i cinesi sono rimasti
insensibili alla scoperta sollecitazione» (2-2-1962, p. 2: ACS, MI, Partiti
Politici, b. 41). Sullo scontro ideologico sino-sovietico riguardo alla CMC,
si vedano anche L. LUTHI, The Sino-Soviet split, Princeton University Press,
Princeton, 2008, pp. 224-228, 231, 252-254; O. PAPPAGALLO, op. cit., pp. 70-
71; S. PONS, La rivoluzione globale, Einaudi, Torino, 2012, p. 301.
125
Nota dell’ufficio di Segreteria sull’azione nei giorni della crisi
cubana. Istituto Gramsci, Fondo Palmiro Togliatti, Serie Botteghe Oscure,
PCI, UA 41 (b. 6, p. 8).
126
La CGIL oltretutto scelse come oratore per la manifestazione di
Roma il vicesegretario Fernando Santi, che era socialista, invece che un
esponente comunista – evidentemente per il desiderio del PCI di dare alla
manifestazione un carattere unitario e frontista più che partitico. Santi andò,
nonostante ci fossero stati dei tentativi del PSI di farlo rinunciare (Rome to
DoS, Italian Labor attitudes in the Cuban Crisis, Nov. 5, 1962, NARA,
611.37, Reel 45).
127
Italian Labor attitudes in the Cuban Crisis, in NARA, 611.37, Reel
45; Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932, in DNSA, CU00721.
128
Sempre a Roma, in quei giorni una scritta comparve anche sullo
spiazzo della scalinata di Trinità dei Monti. Si trattava di una sorta di lungo
monito in francese, scritto a vernice sui sanpietrini, che si concludeva con
un eloquente: «Sii cosciente se tutti gli altri non lo sono; ricordati di
Hiroshima». «l’Unità», 29-10-1962, edizione romana.
129
In tal senso si consideri che, oltre al summenzionato riassunto della
lettera da lui fatto conoscere a Londra, già all’inizio della crisi sera vi era
stato uno scambio di lettere informative tra Macmillan e Fanfani; inoltre il
23, mentre il sottosegretario Russo era ancora in volo per New York,
Londra fu informata che egli era «particolarmente ansioso di mettersi
immediatamente in contatto col segretario di Stato» britannico. FO
371/163718, UK National Archives, Kew.
130
Ciò risulta da ambo i lati: Piccioni subito dopo la risoluzione della
crisi affermò alla Camera che «l’amicizia italo-britannica non è forse mai
stata più intensa e salda di oggi» (Atti parlamentari, Verbali della Camera
dei deputati, seduta del 30-10-1962, p. 35344); l’ambasciatore inglese
qualche settimana dopo riportò a Londra che «le relazioni angoitaliane sono
state eccellenti lungo tutto l’anno» (Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual
report for 1962, FO 371/169339, UK National Archives, Kew).
131
Al di là delle diversità di linee in politica estera (più aperta verso
l’URSS quella di Fanfani, più antisovietica quella di Adenauer e De
Gaulle), l’Italia temeva l’asse francotedesco anche nel contesto europeo
(giacché in un’Europa a Sei priva dell’adesione britannica l’Italia avrebbe
rischiato di essere lasciata di fatto alla mercé di Parigi e Bonn, finendo per
contare quanto il Benelux): di qui il sostegno italiano all’ingresso britannico
nella CEE, duramente osteggiato invece da De Gaulle. Infine, sul piano
personale, come scrisse l’ambasciatore britannico, «Fanfani stesso non fa
segreto della sua antipatia e diffidenza per il generale De Gaulle» (Rome to
FO, 11-2-1963 Italy: Annual report for 1962, FO 371/169339, UK National
Archives, Kew).
132
Sull’offerta inglese, che proponeva di immobilizzare
temporaneamente i propri missili Thor in cambio di uno stop russo alla
costruzione di quelli cubani, così da facilitare la convocazione di un summit
d’emergenza, si veda L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., pp. 158-159. I
Thor verranno poi rimossi nell’agosto del 1963, ma in attuazione di una
decisione presa prima della CMC. (L. SCOTT – S. TWIGGE, The other other
missiles of October. The Thor IRBMs and the Cuban Missile Crisis, in
«Electronic Journal of International History», 3, 2000).
133
Va considerato però che quella nota diaristica di Macmillan non era
tenera con nessuno degli alleati europei. L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…,
cit., p. 181.
134
(modificando cioè non la posizione internazionale dell’Italia, ma il
linguaggio in cui essa veniva espressa, evitando toni antisovietici e
sottolineando l’importanza dei negoziati.)
135
Rome to FO, 21-11-1962, Differences existing between the parties in
the Italian Government coalition & the Socialist Party on foreign policy,
emphasized by the Cuban crisis, FO 371/163714 UK National Archives,
Kew.
136
Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual report for 1962, FO
371/169339, UK National Archives, Kew.
137
Rome to FO, 21-11-1962, Differences existing between the parties in
the Italian Government coalition & the Socialist Party on foreign policy,
emphasized by the Cuban crisis, FO 371/163714 UK National Archives,
Kew.
138
«Il governo sovietico è grato a quello italiano per l’azione distensiva
da esso svolta in questa circostanza e per i sentimenti di pace che lo
animano», disse il viceministro degli Esteri Arkadiy Sobolev al nostro
ambasciatore a Mosca. 31-10-1962, Telegramma n. 1316, Archivio Storico-
Diplomatico, MAE, Telegrammi Segreti, 1962, Russia.
139
Documenti sovietici, questi, reperiti e riassunti da A. SALACONE, op.
cit., pp. 206-208 (che ringraziamo per i chiarimenti forniti via mail. Anche
l’ultimo virgolettato relativo a Mechini è parte integrante del documento
sovietico).
140
ASSR, Diari Fanfani, 11-12-1962. Sulla visita di Fanfani e Segni a
Mosca (2-5 agosto 1961), si veda B. BAGNATO, op. cit., pp. 473-490.
141
A. SALACONE, op. cit., p. 208.
142
Cfr. per esempio «l’Unità», 25-10-1962, p. 3, «Il Paese », 26-10-
1962, p. 4. Si vedano anche molti degli slogan scritti sui cartelli comparsi in
quelle manifestazioni: «Salviamo la pace», «No alla guerra», «Disarmo»,
«Per la libertà di Cuba», «Siamo con Cuba e per la pace», «Al bando le
armi atomiche», ecc. Vedremo comunque tra breve un tentativo,
parzialmente riuscito, di sottrarre il tema della pace a colori partitici nella
reazione di Aldo Capitini e poi nella marcia di Altamura.
143
Cfr. per esempio Enrico Mattei, fu attentato, ma l’inchiesta va
archiviata, in «La Repubblica», 12-4-2005.
144
N. PERRONE, Obiettivo Mattei, Gamberetti Editrice, Roma, 1995, pp.
188, 201, 211-2.
145
Diecimila secondo «l’Unità», tremila secondo il «Corriere della
Sera». (Ucciso a Milano uno studente per la libertà di Cuba, «l’Unità», 28-
10-1962, pp. 1 e 2; Un giovane muore in ospedale dopo le manifestazioni
per Cuba, «Corriere della Sera», 28-10-1962, pagine della cronaca
milanese. Si noti tra l’altro la diversità dei due titoli e del risalto dato alla
notizia tramite la pagina di collocazione).
146
Cfr. per esempio «Avanti!», 28-10-1962, pp. 1 e 10; o «l’Unità», 30-
10-1962, p. 1, che riporta la testimonianza resa a Montecitorio al ministro
degli Interni dal deputato PCI Davide Lajolo («Ho visto io, con i miei
occhi, il giovane Ardizzone travolto da una camionetta della polizia»). Si
precisa però che, stando a quanto affermato in seguito dal noto militante di
sinistra Primo Moroni (in «Primo Maggio», n. 18, autunno-inverno 1982-
83, pp. 27-37, reperibile anche online), la magistratura concluse infine
(secondo Moroni a torto e nonostante la sua testimonianza oculare,
screditata dallo stesso PCI per non «esacerbare la situazione») che il
ragazzo era invece rimasto semplicemente schiacciato dalla folla. In seguito
a quest’ultimo episodio Moroni, deluso, decise di abbandonare la militanza
nel PCI.
147
Quanto agli agenti, cfr. «Il Tempo», 31-10-1962, p. 1 e «Avanti!»,
30-10-1962, p. 1.
148
«l’Unità», 29-10-1962, p. 1 (foto).
149
«Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 2.
150
«l’Unità», 30-10-1962, pp. 1 e 12 (Editoriale).
151
«Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 2; «Il Secolo d’Italia», 30-10-
1962, p. 8.
152
«Avanti!», 30-10-1962, p. 1.
153
«Il Tempo», 30-10-1962, p. 1.
154
Protesta e firmatari riportati in «l’Unità», 31 ottobre, p. 3.
155
Non a caso «l’Unità» (30-10-1962, p. 1) non aveva mancato di
rilevare come il battaglione della celere impiegato a Milano fosse il
medesimo battaglione padovano impiegato a Reggio Emilia nel luglio 1960
(cfr. anche il reportage da Padova di C. CEDERNA, Il bastone di stato, in
«L’Espresso», 16-12-1962, pp. 16-19).
156
«Hoy», 2-11-1962, p. 2. La poesia, a firma di Angel Augier (e seppur
con errore nel nome: Elegia a Vittorio Ardizzone invece che a Giovanni
Ardizzone), era accompagnata da un’introduzione in cui si spiegava ai
cubani del «giovane italiano ucciso a Milano dalla polizia durante una
manifestazione di appoggio alla nostra patria. La terra di Garibaldi e quella
di Marti si uniscono così […]». Eccone un estratto: «Tus 21 años, Vittorio
Ardizzone, / estudiante de quimica, / se disolvieron de repente / allì en
Milàn, cerca del Duomo. / Ibas junto a tu peublo, / y la luz del otoño se
llenaba de gritos: / ‘Manos fuera de Cuba’, / ‘Fuera, piratas yanquis’. /
Sabìas que acà, lejos de Italia, / pero de ti tan cerca / en tu amor a la
justicia, / un pequeño paìs erguiase heroico / ante un nuevo crimen ‘made
in USA’. / […] / Allì, cerca del Duomo, / en una flor de sangre / se
disolvieron de repente / tus generosos 21 años, / Vittorio Ardizzone, /
estudiante de quimica. / Justo una bala de carabinero, / quizà también
‘made in USA’ / cortò tu camino por tus calles. / Pero hasta aquì has
llegado, / querido camarada, / ya estàs en Cuba para siempre, / vivo en la
sangre de este pueblo, / Vittorio Ardizzone».
157
«Il Tempo», 31-10-1962 p. 1; Ecco la prova delle menzogne rosse, in
«Il Secolo d’Italia» 7-11-1962, p. 1.
158
La figura del ragazzo ucciso, in «l’Unità», 28-10-1962, p. 2.
159
«l’Unità», 29-10-1962, p. 2. Il punto era rinforzato da una lettera di
suoi amici (pubblicata sempre da «l’Unità») per chiedere al «Corriere della
Sera» di rettificare quanto scritto in merito.
160
«l’Unità», 3-12-1962, p. 4. Si vedano pure le definizioni
«compagno» e «giovane comunista» in «l’Unità», 31-10-1962, p. 3, e 1-11-
1962, p. 1, nonché il ritratto di Ardizzone tracciato dal segretario della
federazione milanese del PCI, Armando Cossutta, nella sua relazione del
22-11-1962 («Dicono che egli nel 1958, all’età di 16-17 anni, avesse la
tessera dell’MSI; può darsi, e d’altronde quella era anche la tessera del
padre. Ma come era ormai lontano per Ardizzone quel 1958! Venuto a
Milano, conosce un altro mondo: l’Università, […] gli operai […] la ‘vera’
realtà. Ed Ardizzone diviene comunista»). ACS, Min. Interni, Gabinetto,
Partiti Politici, Busta 12.
161
«Il Tempo», 31-10-1962, p. 1.
162
«Il Tempo», 31-10-1962, p. 1; «Corriere della Sera», 31-10-1962.
163
Testo del manifesto riportato sia da «Il Tempo», 31-10-1962, p. 1, sia
da «l’Unità», 31-10-1962, p. 3.
164
Il testo originale, reperibile online, cominciava così: «M’han dit che
incö la pulisia / a l’ha cupà un giuvin ne la via;/ sarà stà, m’han dit, vers i
sett ur / a un cumisi dei lauradur». Eccone un estratto tradotto: «M’hanno
detto che oggi la polizia / ha ammazzato un giovane per la via; / sarà stato,
m’han detto, verso le sette, / a un comizio di lavoratori. / Giovanni
Ardizzone, era il suo nome, / di mestiere studente universitario, / comunista,
amico dei proletari: / l’hanno ammazzato vicino al nostro Duomo. / E i
giornali di tutta la Terra / dicevano: Castro, Kennedy e Kruscev; / e lui
gridava: ‘Sì alla pace e no alla guerra’; / e con la pace in bocca è morto. / In
via Grossi i poliziotti coi manganelli, / venuti da Padova, specializzati in
dimostrazioni, / hanno attaccato, con le jeep, un carosello / e con le ruote
han schiacciato l’Ardizzone. / […] / I giornali dell’ultima edizione dicono
tutti: / ‘Un giovane studente, / oggi, durante una grande manifestazione, / è
morto per un fatale incidente, / è morto per un fatale incidente’».
165
La Rossanda, da noi interpellata su chi fosse quest’intellettuale, non
lo ricordava ed ha escluso i tre nomi ipotetici da noi prospettatile (email
all’autore, marzo 2014).
166
In realtà (fatta salva la presumibile buona fede della Rossanda) si
ebbero almeno altri cinque morti negli scontri boliviani di La Paz (come
riportato anche dall’«Avanti!», 28-10-1962, p. 2), oltre al pilota USA
abbattuto e ai sovietici morti in stiva durante i viaggi di trasporto segreto
dei missili.
167
R. ROSSANDA, L’ottobre milanese, in «Il Contemporaneo», Nov. 1962,
pp. 3-12.
168
Cfr. E. BALDUCCI, Giorgio La Pira, Giunti, Firenze, 2004, p. 21. Sulla
reazione alla CMC di La Pira, si veda anche L. CAMPUS, Missili e
democristiani. Giorgio La Pira, la DC e la crisi dei missili di Cuba, in
«Nuova Storia Contemporanea», n. 6, Nov.-Dic. 2012, pp. 55-68.
169
In una delle sue lettere alle monache claustrali, del 1965, definirà
Kennedy «la più alta guida politica che la Provvidenza ha dato ai popoli»
(G. LA PIRA, Lettere alle claustrali, Vita e Pensiero, Milano, 1978, p. 508).
170
GIOVANNI XXIII, Pater Amabilis. Agende del Pontefice 1958-1963,
Istituto per le Scienze religiose, Bologna, 2007, p. 389 (l’appunto è del 21
maggio 1962. La Pira gli aveva scritto per rilanciare l’idea di una sessione
fiorentina del Concilio, in ricordo del Concilio di Firenze del 1439). Si veda
anche (ivi, p. 328, 6-1-1962): «Continua la corrispondenza fastidiosa, a cui
non si può fare cattiva ciera, perché sotto sotto ci sono delle anime da
salvare e da aiutare. […] c’è ora il sindaco di Firenze, La Pira che torna col
suo riavvicinamento tra il sacro e profano […]».
171
E. BALDUCCI, Giorgio La Pira, cit., p. 104.
172
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
173
Difatti questo telegramma (uno dei pochissimi tra i suoi di quei
giorni a divenire relativamente pubblico) non manca di suscitare critiche.
«Io non credevo ai miei occhi», scrive ad «Epoca» un lettore fiorentino
dopo averlo letto, offrendo al settimanale l’occasione per rispondere
criticando la grafomania di La Pira («egli crede nella potenza del telegrafo,
e continuamente telegrafa a tutti […] è convinto che la volontà di pace non
sia credibile se non è ‘stesa’ su un modulo del Ministero delle Poste e
Telecomunicazioni. Gioca coi santi, col Papa, col Concilio, con le officine
Galileo, con Sviatoslav Richter come se fossero carte da scopone. Migliaia
di sindaci che non hanno telegrafato – secondo la logica lapiriana – sono
gente che sospira il momento di vedere la propria città ridotta a braciere da
una bomba atomica. Soltanto lui vuole la pace, dopo il concerto. Ed è
pronto, al caso, a farsi mediatore tra russi e americani», anche se
«regolarmente i contendenti ci rispondono, in perfetta concordia, di levarci
di torno»). La Pira telegrafa, in «Epoca», 4-11-1962.
174
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
175
Cfr. P. NEGLIE, op. cit., pp. 139, 146, 168-171.
176
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
177
A questo telegramma La Pira riceve subito risposta dal Papa, tramite
un suo alto collaboratore: «Augusto Pontefice ringrazia devoti auguri et
sentimenti S.V. mentre di cuore la benedice – Cardinal Cicognani». Carte
La Pira, Busta CLX, Fasc. 5.
178
Carte La Pira, Faldone USA, Fasc. JFK.
179
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
180
Carte Fanfani, Sez. I, Serie I, Busta 133, Fasc. 1.7 (e anche in Carte
La Pira, Busta CLX, Fasc. 5).
181
Carte La Pira, Busta CLX, Fasc. 5. Precisiamo che in queste frasi La
Pira stava riportando al Papa, per condividerlo con lui, quanto La Pira
stesso aveva detto quel giorno ad alcuni religiosi suoi amici.
182
Messaggi conservati in Carte La Pira, filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
183
Stevenson-La Pira, 29-10-1962; Thant-La Pira, 2-11-1962; Cootes-
La Pira, 30-12-1962 (Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1). Cicognani-La
Pira, 30-10-1962 (Carte La Pira, Busta CLX, Fasc. 5).
184
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009).
185
E. BERNABEI, in G. LA PIRA – A. FANFANI, Caro Giorgio… Caro
Amintore…, Edizioni Polistampa, Firenze, 2003, p. 32.
186
Così il quotidiano della DC: Sgabello strategico, in «Il Popolo», 28-
10-62, p. 1.
187
S. ROMANO (a cura di), Giornalismo italiano…, cit., pp. 34 e 35.
188
D. MACK SMITH, Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il
Corriere della Sera, Rizzoli, Milano, 1978, p. 7.
189
Il coraggio della pace, in «Corriere della Sera», 28-10-1962, p. 1.
190
Neutralismo colpevole, «Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 1.
191
A. GUERRIERO, Decisione tardiva, «Corriere della Sera», 24-10-1962,
p. 1.
192
A. GUERRIERO, Lento cammino verso un negoziato, in «Corriere della
Sera», 26-10-1962, p. 1.
193
A. GUERRIERO, Perché lo hanno fatto, in «Corriere della Sera», 27-10-
1962, p. 1.
194
A. GUERRIERO, Perché ha ceduto, in «Corriere della Sera», 29-10-
1962, p. 1.
195
A. GUERRIERO, Il mondo dopo Cuba, «Corriere della Sera», 28-11-
1962, p. 1.
196
Lo ricorda Giuseppe Boffa in S. ROMANO (a cura di), Giornalismo
italiano…, cit., p. 108.
197
A fianco di Cuba!, in «l’Unità», 23-10-1962, p. 1.
198
Il PCI agli italiani, in «l’Unità», 24-10-1962, p. 1.
199
M. ALICATA, Sull’orlo dell’abisso, in «l’Unità», 25-10-1962, p. 1.
200
«l’Unità», 24-10-1962, p. 7 (Reticenti su Cuba); 25-10-1962, p. 7
(Quattro minuti); 29-10-1962 (La verità distorta); 30-10-1962, p. 7 (E
Milano in sciopero?). Negli ultimi due di questi articoli si criticava che il
commentatore del telegiornale Gianni Granzotto avesse parlato di «ritirata»
di Kruscev e si sposava perciò una richiesta di sue dimissioni avanzata
dall’on. Lajolo (PCI). Più interessante nella nostra ottica appare però –
anche per contribuire a spiegare un certo carattere relativamente attutito
della percezione pubblica italiana – il pezzo precedente, Quattro minuti. Vi
si legge: «Pensavamo ieri sera guardando il ‘telegiornale’ a quali amare
considerazioni potrebbe fare un cronista del futuro se decidesse di
ricostruire, sugli archivi della tv italiana, le ore drammatiche che il mondo
sta vivendo dopo la criminale decisione americana […] ‘In quelle cupe
sere’ potrebbe scrivere quel cronista se, come tutti ci auguriamo, ne avesse
la possibilità, ‘in cui tutti tenevano il fiato sospeso e ogni uomo cosciente
cercava di dare il suo contributo per difendere la pace, il telegiornale
italiano dedicava quattro minuti alla situazione internazionale e altrettanti a
una mostra di antiquariato e alle novità nel campo degli accessori di moda
femminile…’. Insomma, com’è possibile che i dirigenti del telegiornale non
si rendano conto che non si può trattare la minaccia di guerra che pesa sul
mondo come un qualsiasi altro avvenimento, sia pure importante? Eppure è
così. […] Forse ci si illude di ‘sdrammatizzare’, in questo modo? Oppure si
tace perché ci si rende conto che troppi fatti dimostrano l’enormità delle
responsabilità americane?».
201
M. ALICATA, La trattativa, «l’Unità», 29-10-1962, p. 1. Recentemente
un giovane studioso francese nella sua tesi, poi pubblicata, ha posto a
confronto «l’Unità» col suo corrispettivo «L’Humanité», organo del Partito
Comunista Francese. Ne è emerso che tra i due vi fu in quei giorni una
sensibile differenza, sia quantitativa che qualitativa. Infatti su «l’Unità» non
solo il risalto dato alla crisi fu molto maggiore (in termini di articoli
dedicati), ma l’enfasi fu posta più su Cuba che non sull’URSS. E anche
quando si trattava di elogiare la condotta sovietica, mentre «L’Humanité»
riportava dirette citazioni della «Pravda», «l’Unità» lo faceva riportando
dichiarazioni dei dirigenti comunisti italiani. Ciò a ben vedere rispecchiava
il diverso orientamento politico e ideologico dei due partiti: strettamente a
ricasco della linea sovietica il PCF; più terzomondista e policentrista il PCI,
impegnato a individuare una «via italiana al socialismo» (N. BADALASSI,
Pour quelques missiles de plus. La crise de Cuba au miroir de la presse
communiste française et italienne, Sarrebruck, Editions universitaires
européennes, 2011).
202
Rome to DoS, n. 946, Oct. 29, 1962 (Joint Embassy-USIS message).
NARA, 611.37, C0069, R. 27.
203
Cenere, in «Il Paese», 24-10-1962, p. 1.
204
La verità, in «Il Paese», 27-10-1962, p. 1. «La strategia americana, al
contrario», continuava l’editoriale, «si fonda su uno sterminato arsenale
atomico per la maggior parte vulnerabile e affidato a mezzi vettori che non
hanno raggiunto ancora la potenza di quelli sovietici. Per questo motivo gli
Stati Uniti hanno bisogno di mantenere basi vicino al territorio dell’URSS».
Precisiamo che come fonte alla base della smentita delle foto americane dei
missili, «Il Paese» citava un giudizio del «Times» e una frase del
funzionario del governo americano George Ball del 19 ottobre (quando la
Casa Bianca ancora non faceva riferimento ai rivelamenti fotografici più
recenti, ma per ovvi motivi di segretezza connessi alla fase decisionale,
come il redattore del «Paese» era perfettamente in grado di immaginare).
205
Messinscena, in «Il Paese», 27-10-1962, pp. 1-2.
206
«Il Paese», 28-10-1962, p. 1.
207
C’è da dire che un analogo rifiuto delle prove fotografiche mostrate
dagli USA veniva espresso anche in sede politica. Quello stesso giorno alla
Camera ne smentì la veridicità l’on. Silvio Ambrosini del PCI (cfr. Atti
parlamentari, Verbali della Camera dei Ddeputati, Seduta del 27-10-1962, p.
35212). Lo stesso aveva fatto il mattino precedente l’on. Tullio Vecchietti
del PSI, definendo quelle foto «le solite armi propagandistiche» ed
escludendo che l’URSS potesse aver mandato armi offensive a Cuba
contraddicendo così i propri precedenti annunci sulla gittata dei propri
missili intercontinentali: giacché «qualora li avesse mandati, avrebbe con
ciò stesso riconosciuto di aver fatto il più grande, storico bluff che un Paese
possa fare» (cfr. Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati,
Seduta antimeridiana del 26-10-1962, p. 35146).
208
Potenza socialista, potenza di pace, in «Rinascita», 3-11-1962, p. 1.
Indicativo in tal senso anche il titolo scelto da «Rinascita» per presentare la
rassegna stampa degli altri giornali: Apologia dell’aggressione
(«Rinascita», 3-11-1962, p. 4).
209
Semplicità sospetta, in «Il Popolo», 25-10-1962, p. 1.
210
Italian press comment on Cuban situation, FO371/162379, MF R.31,
UK National Archives, Kew. A conferma dell’osservazione britannica, si
leggano i titoli d’apertura scelti dal «Popolo»: I missili russi a Cuba
minacciano la pace. Auspici di una soluzione in seno all’ONU (24-10-1962,
p. 1); In corso un’azione mediatrice dell’ONU mentre entra in vigore il
blocco di Cuba (25-10-1962, p. 1). Nei due giorni seguenti, lo stesso risalto
alle Nazioni Unite è assicurato dalle foto d’apertura in prima pagina,
raffiguranti Stevenson all’ONU e le foto delle basi mostrate al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU.
211
Battersi per la pace, in «Avanti!» 24-10-1962, p. 1; Negoziare è
possibile, Non ci sono altre strade, in «Avanti!», 28-10-1962, p. 1.
212
Trionfo della ragione, in «Avanti!», 30-10-1962, p. 1. Lo stesso
titolo, A triumph of reason, era stato usato il giorno prima dall’editoriale del
«New York Times» (si veda il capitolo Stati Uniti d’America).
213
«Mettere le basi di missili a Cuba […] non è lavorare per la pace.
Detto questo, […] non è con atteggiamenti drastici come quello deciso dal
governo americano che la situazione può migliorare […] si tratta pur
sempre di un atto che viola la sovranità di un altro Paese». G. SARAGAT,
Cuba, in «La Giustizia», 24-10-1962, p. 1.
214
G. SARAGAT, Cuba e l’opinione europea, in «La Giustizia», 28-10-
1962, p. 1; G. SARAGAT, Nuove speranze, in «La Giustizia», 30-10-1962, p.
1.
215
L’ambasciatore Reinhardt riporta che «Saragat ha preso un deludente
atteggiamento legalistico», previo colloquio con Nenni e «principalmente
perché non voleva isolarsi dal PSI». Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932, in
DNSA, CU00721.
216
«Riflessi della crisi cubana sulla situazione politica interna», Fondo
DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con l’Estero, Scatola 159,
Fasc. 15, Ist. Sturzo.
217
Momento grave, in «Il Messaggero», 23-10-1962, p. 1.
218
Solidarietà italiana, in «Il Messaggero», 24-10-1962, p. 1.
219
Fine di un incubo, in «Il Messaggero», 29-10-1962, p. 1.
220
Alla svolta?, in «Il Messaggero», 30-10-1962, p. 1.
221
Il ricatto della politica estera, in «L’Espresso», 4-11-1962, p. 1.
222
«Il Tempo», 25-10-1962, p. 1; 28-10-1962, p. 1; 29-10-1962, p. 1.
223
«La Nazione», 2-11-1962, p. 1 (e ritaglio in: Archivio Andreotti,
Faldone Cuba).
224
Ricciardetto, Noi e Cuba, in «Epoca», 11-11-1962, pp. 17 e 19.
225
Pur dando atto a Fanfani che egli almeno formalmente «non è uscito
di un millimetro […] dai patti sottoscritti» con la NATO e che date le
circostanze «più di così non poteva fare. Ma questo è il dramma dell’Italia
del 1962: la maggioranza che ci governa». G. ALMIRANTE, Guardiamo
all’Italia, in «Il Secolo d’Italia», 25-10-1962, p. 1.
226
Ivi.
227
«Il Secolo d’Italia», 24-10-1962, p. 1.
228
«Avanti!», 25-10-1962, p. 1.
229
«È una lezione – quella di Cuba […] Da vent’anni il comunismo
avanza nel mondo avvalendosi della minaccia di chissà mai quali cataclismi
[…] E il mondo anticomunista, il mondo ‘civile’, si ritira un passo dietro
l’altro […] Ma nei Caraibi, laddove cioè l’Occidente […] ha voluto e
saputo affrontare la… minaccia [punti di sospensione presenti nel testo
originale, a segnalare perplessità sul termine], ecco che il comunismo si è
ritirato. E l’apocalissi, anziché protendersi sull’umanità ha finito per esserne
allontanata. Di poco o di molto, lo si vedrà nei prossimi mesi che ‘grazie’
alla fermezza dimostrata dall’Occidente nella questione cubana potrebbero
anche avvicinarci ad un qualche accordo sul disarmo, sino al 22 ottobre del
tutto inattendibile […]». Dai Caraibi una lezione, editoriale non firmato, in
«Il Secolo d’Italia», 30-10-1962, p. 1.
230
«È una lezione. […] chi avrà saputo comprenderla non subirà più il
ricatto dell’insurrezione armata e della guerra civile, e riderà in faccia a
qualsivoglia Nenni che ritorni a proporre l’inesistente alternativa: ‘o
l’apertura a sinistra o il caos della rivolta e della sedizione’» (ivi).
L’allusione qui era ai moniti di Nenni ed altri ad aprire il governo anche ai
socialisti per non ritrovarsi a dover cercare appoggi troppo pericolosamente
a destra, col rischio di riaccendere scontri di piazza, come avvenuto nel
1960 per il governo Tambroni (sostenuto appunto dai voti dell’MSI), cui
avevano fatto seguito i cruenti «fatti di Genova». Dopo quell’episodio e le
dimissioni di quel governo si era di fatto aperta la stagione preparatoria
dell’apertura a sinistra e l’MSI era finito in un isolamento politico da cui
qui cercava di uscire cercando argomentazioni anche nella CMC.
231
«Diversi funzionari del Ministero degli Esteri e altri preminenti
italiani ci hanno espresso calda soddisfazione per il successo degli Stati
Uniti ma sembra esserci considerevole consapevolezza che vanterie
[crowing] [da parte dell’]Occidente siano indesiderabili (il governo italiano
ha consigliato in tal senso la stampa italiana)». Rome to SoS, 31-10-1962,
n. 951, 611.37 Reel 27, C0069, NARA.
232
Difatti, lo stesso documento aggiunge subito che «almeno un
direttore [di giornale], tuttavia, ha detto privatamente che sarebbe sbagliato
[anche] andar troppo in là all’opposto – ossia che l’URSS era stata messa in
scacco e, se non altro per ragioni interne dell’Italia, la stampa dovrebbe
dirlo, cosa che in certa misura [i giornali] hanno fatto».
233
«Il mantenimento della pace nella presente circostanza dipende dalla
esatta comprensione, per parte di tutti, di che cosa è in questione tra USA e
URSS. sul terreno di Cuba. La questione è se gli Stati Uniti potevano
sopportare senza reagire che Cuba – o meglio: un qualsiasi punto
dell’emisfero americano – fosse trasformato in una base di guerra nucleare
sovietica. Tutti i discorsi sulla libertà di Cuba, sulla politica americana nei
riguardi di Cuba e via dicendo – quale che sia il loro contenuto intrinseco di
realtà – non debbono distogliere l’attenzione da questo punto
fondamentale». L. SALVATORELLI, La vera questione, in «La Stampa», 25-10-
1962, p. 1.
234
Il compromesso da lui ipotizzato prevedeva un’offerta USA di
garanzia dell’indipendenza cubana e ritiro da Guantanamo, in cambio del
ritiro dei missili e della rinuncia sovietica alla posizione «dominatrice»
assunta a Cuba.
235
Western European reactions to the Cuban situation, Oct. 28, 1962, p.
10. DNSA, CU00855. L’analista del DoS definisce Salvatorelli «noted
Italian historian and respected and influential editorialist».
236
I. MONTANELLI, I protagonisti – Castro, in «Corriere della Sera», 25-
10-1962, p. 3.
237
Rome to FO, 25-10-1962, FO 371/162379, MF R.31, UK National
Archives, Kew.
238
A. VARSORI, op. cit., pp. 250 e 252.
239
«Si compari ciò con, per esempio, la situazione nel luglio 1960»,
proseguiva infatti la fonte della CIA, per argomentare come le cose fossero
perfino migliorate rispetto a quando il PSI non aveva alcun legame col
governo. Il rapporto, declassificato nel 2002 e solo parzialmente (p. 4), si
trova in Schlesinger Papers, Box 12A, WH, JFKL.
240
JFKL, Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A (Italy) (decl. 2000).
Si veda inoltre il telegramma spedito dall’ambasciata già il 23 pomeriggio:
«Eccetto per i comunisti e l’ala sinistra del PSI e suindicate riserve
autonomisti PSI, l’opinione italiana appare finora largamente favorevole
agli USA» (Rome to DoS, Embtel 919, in JFKL, ib.). E ancora, il 26 sera:
«Nonostante l’approccio cauto del governo italiano e dei partiti politici,
avvertiamo diffusa approvazione in Italia della determinazione USA ad
opporsi all’intrusione sovietica in un’area di vitale interesse americano. Essi
[gli italiani] rispettano una dimostrazione di forza su basi che possano
essere prontamente comprese» (Rome to DoS, n. 936, in DNSA, CU00763).
241
AmConsul Milan to DoS, Oct. 30, 1962, Milan reaction to United
States blockade of Cuba, + Enclosed 1 (NARA, 611.37, MI855, Reel 44).
Sui movimenti femminili italiani di quegli anni nel contesto della guerra
fredda, si veda ora W. POJMANN, Italian women and International Cold War
Politics, 1944-1968, Fordham University Press, New York, 2013, che
analizza i due principali raggruppamenti esistenti: la UDI (Unione Donne
Italiane), di area comunista, e la CIF (Centro Italiano Femminile), di area
cattolica. Nel nostro caso, però, come si capisce dal rapporto del consolato,
le donne non facevano riferimento a nessun gruppo o colorazione politica
particolare.
242
Lo conferma tra l’altro un rapporto del Dipartimento di Stato
americano stilato il 18-9-1961. Così scrive il funzionario USA Allen James
dopo aver visitato le basi di Gioia del Colle: «Non ha chiaramente senso
continuare a mantenere segreta l’esistenza degli Jupiter e il loro
dislocamento, ma il governo italiano sembra volere questo per motivi
politici. Quando il Ministero degli Esteri ha dato il permesso per visitare
Gioia […], hanno sottolineato che il permesso veniva dato a condizione che
non vi fosse pubblicità»
(http://www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/NC/nuchis.html, p. 3).
243
D. SORRENTI, op. cit., pp. 108 e 170.
244
D. SORRENTI, op. cit., p. 169; F. GALATEA, Murge, il fronte della Guerra
Fredda, 2012. Analogo sbigottimento hanno espresso non pochi tra i
telespettatori del documentario, trasmesso dalla Rai nel 2013 (cfr. commenti
al video: www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a40f6f3b-
c8d4-43e9-a248-e6f6d0c05302.html?refresh_ce). Dello stesso avviso ora
anche A. MARIANI, op. cit., p. 215: «i cittadini non ebbero il minimo sentore
della grave crisi e la classe politica italiana fece di tutto per non far
trapelare la possibilità che anche il nostro Paese potesse essere coinvolto
[…]».
245
Cfr. per esempio la testimonianza di Onofrio Petrara, poi senatore
del PCI, contenuta in F. GALATEA, op. cit., minuto 39. La stessa esistenza di
Cuba era semisconosciuta tra gli abitanti delle Murge.
246
Al massimo vi si apprende di un Ordine del Giorno «sugli
avvenimenti di Cuba» approvato all’unanimità dal Consiglio provinciale di
Bari (guidato dal DC Matteo Fantasia), che esprimeva «con tono accorato
l’ansia delle genti pugliesi», ma senza alcun riferimenti ai missili («La
Gazzetta del Mezzogiorno», 27-10-1962, p. 5; OdG conservato in Archivio
Storico-Diplomatico MAE, A.P. Vers., Crisi cubana, p. 219). Parimenti non
si parlava di missili nell’OdG su Cuba approvato in quei giorni dalla
Federazione Giovanile Socialista («La Gazzetta del Mezzogiorno», 26-10-
1962, p. 4). Ironicamente, i titoli dedicati in quei giorni a Gravina, una delle
località ospitanti i missili, riguardavano faccende minime come il
cedimento del manto stradale in via Garibaldi («La Gazzetta del
Mezzogiorno», 26-10-1962, p. 11). Solo in una lettera al giornale firmata da
un insegnante di Gravina si intravede un’implicita consapevolezza della
presenza di basi; il giornale gli replica che tutti vogliono la pace ma la via
per l’Italia non può essere nel neutralismo (30-10-1962, p. 5).
247
I partecipanti furono «oltre diecimila» secondo «l’Unità» e secondo
il già citato rapporto della segreteria PCI (Istituto Gramsci, Fondo Togliatti,
Carte Botteghe Oscure, PCI, UA 41); «oltre quindicimila» secondo i ricordi
dell’organizzatore, Domenico Notarangelo (F. GALATEA, op. cit., minuto 46).
Fu proprio durante la manifestazione che arrivò il radiomessaggio di
Kruscev sulla rimozione dei missili. La buona notizia venne data agli
astanti proprio dal palco del comizio (F. GALATEA, op. cit., parte
dell’intervista a Notarangelo non inclusa nel montaggio finale. Si ringrazia
il regista per averci fornito le sbobinature integrali).
248
Diecimila in piazza a Matera, in «l’Unità», 29-10-1962, p. 2.
Capitini aveva mandato un messaggio (trovandosi in quella settimana prima
a Milano e poi a Perugia), mentre Fiore parlò dal palco, come pure i
delegati cubani, che si trovavano in Puglia in quei giorni per il congresso
della FGCI a Bari.
249
«l’Unità», 24-10-1962, p. 2.
250
Uno fu l’Ordine del Giorno per la pace e rimozione delle basi che il
Consiglio provinciale di Matera riuscì ad approvare con i voti non solo dei
consiglieri del PCI, ma anche del PSI e della DC: un piccolo miracolo
d’unità, reso possibile presumibilmente dalla dimensione ristretta e
personale del Consiglio provinciale (PC, PSI, DC a Matera contro le basi
USA in Italia, «l’Unità», 1-11-1962, p. 3). Un altro minimo segno di
consapevolezza della dirigenza politica locale (non, quindi, dell’opinione
pubblica) si ritrova nelle carte dei congressi provinciali del PCI, tenutisi a
novembre, in cui tra le altre cose si notava che quei missili rischiavano di
diventare «potenziali calamite di altri missili» (nemici) e si proponeva di
intensificare le iniziative per chiederne la rimozione, conformemente alle
nuove tesi postcrisi del PCI nazionale. V. VETTA, Il PCI in Puglia all’epoca
del ‘poli di sviluppo’ (1962-1973), Argo, Lecce, 2012, p. 100.
251
«Alcune migliaia» secondo «La Gazzetta del Mezzogiorno», 14-1-
1963, p. 16; «ventimila» secondo «l’Unità», 14-1-1963. Dalla «Gazzetta»
emerge inoltre che, nonostante il divieto assoluto degli organizzatori di
portare alla marcia bandiere o slogan di singoli partiti, la segreteria
provinciale DC sconsigliò ai suoi di parteciparvi, per paura di
strumentalizzazioni da sinistra (13-1-1963, p. 5). Tale caveat conferma
indirettamente quanto dicevamo riguardo all’esistenza di un’identificazione
de facto tra tema della pace e PCI (anche se essa non fu mai totale, come
dimostrato pure nel caso specifico dal fatto che qualche esponente
democristiano locale disobbedì, partecipando alla marcia).
252
«l’Unità», 12-1-1963, p. 1; 13-1-1963, pp. 1 e 2; 14-1-1963, pp. 1 e
8; C. ZAVATTINI, Cinegiornale della pace, 1963. È questa marcia la misteriosa
manifestazione cui facevano spesso riferimento i ricordi della gente raccolti
da D. SORRENTI, op. cit., pp. 88 e 102, senza riuscire a identificarla.
253
«Il Paese», 25-10-1962 (rubrica «Il giornale dei lettori»).
254
D. ELLWOOD, Containing Modernity. Domesticating America in Italy,
in A. STHEPHAN (a cura di), The Americanization of Europe. Culture,
diplomacy and anti-Americanization after 1945, Berghahn Books, New
York, 2006, p. 271.
255
«Il Paese», 3-11-1962 (rubrica «Il giornale dei lettori»).
256
Da On. Russo affronta i problemi dell’ONU, Cinegiornale «Politica –
panoramica», senza data ma chiaramente del 1972, bobina a 35 mm,
Archivio famiglia Russo.
257
Maria Russo, intervista con l’autore (2013).
258
E. EMANUELLI, Nessuno nel nostro paese ha fatto incetta di viveri, in
«La Stampa», 30-10-1962, p. 3.
259
C. ZAVATTINI, La pace la pace la pace, in «Rinascita», 9-6-1962, p.
32.
260
C. ZAVATTINI, Cinegiornale della pace, cit.
261
U. ECO, L’atomica e la cultura, in «Corriere della Sera», ritaglio
senza data (risalente a fine 1962).
262
G.B. ZORZOLI, Un obiettivo per gli anni Sessanta, in La condizione
atomica, fascicolo speciale del «Verri», n. 6, 1962, pp. 4 e 22.
263
Solidarietà degli intellettuali con Cuba, in «l’Unità», 24-10-1962, p.
3.
264
A. GRANDI, Giangiacomo Feltrinelli, BCD, Milano, 2012, p. 288.
265
Seborga, inoltre, in una lettera a Togliatti di quel periodo, parla di
‘aggressione terribile e ridicola a Cuba’. Archivio Gramsci, Fondo Togliatti,
Carte Botteghe Oscure, Corrispondenza, UA 41, Busta 3, Palchetto 8
(lettera senza data).
266
«l’Unità», 25-10-1962, p. 3. Il testo: «In questa drammatica
situazione ci uniamo alla solidarietà degli uomini coscienti e operanti per la
repubblica cubana». Si veda inoltre la dichiarazione di Nono del giorno
seguente (in «l’Unità», 26-10-1962, p. 3), che si concludeva con: «Que viva
Castro!».
267
L’episodio risulta da un’interrogazione parlamentare del PCI, in cui
oltre a Nono era menzionato anche il pittore Emilio Vedova tra i
manifestanti «brutalmente percossi» dalla polizia (Atti parlamentari, Verbali
della Camera dei deputati, Seduta del 25-10-1962, p. 35116).
268
Precisamente, negli interventi di Guttuso e Pajetta (in quanto
«arrestato e malmenato», e «condannato per aver detto sì alla pace»).
Archivio Istituto Gramsci, APC, Serie X Congresso, Busta 0320, pp. 1849 e
1908. A conferma della presenza del tema nucleare nel quadro culturale
italiano dell’epoca, oltre che della personale attenzione di Nono al tema,
giova inoltre ricordare che proprio nella primavera del 1962 egli aveva
composto un opera dal titolo Sul ponte di Hiroshima.
269
Il virgolettato è di Dal Pra. «l’Unità», 25 e 26-10-1962, p. 3.
270
Cfr. «Hoy», 27-10-1962, p. 8.
271
Resoconto della manifestazione al Brancaccio e relativi interventi in:
«l’Unità», 26-10-1962, pp. 1 e 4; «Il Paese», 25-10-1962 (per l’adesione di
Antonioni), 26-10-1962, p. 4; «l’Unità» 28-10-1962, p. 1 (per la definizione
di «bambola tecnologica»). La definizione di «nazismo atomico» tradisce il
gusto di Levi per la frase a effetto più che per un serio impegno di denuncia
circostanziata: un aspetto, questo, che in quei giorni noterà in lui anche
Aldo Capitini (si veda sotto, nota 312).
272
«l’Unità», 27-10-1962 p. 3 (Rino Dal Sasso e Alberto Carocci erano
gli altri due membri della delegazione).
273
Il tradimento dei chierici, in «Il Tempo», 27-10-1962, p. 1.
274
Torna il ‘culturame’, in «l’Unità», 28-10-1962, p. 1.
275
Da Sforza a Piccioni, in «La Nazione», 29-10-1962, p. 1.
276
Ragazzi di vita a Montecitorio, in «Il Secolo d’Italia», 27-10-1962,
p. 1.
277
L’impresa va ascritta a Gianna Preda, la quale, in un articolo al
vetriolo sul «Borghese» contro Piccioni – reo d’aver dato udienza a quella
delegazione di intellettuali («ambasciatori di Togliatti, che piangono a
comando secondo gli ordini ricevuti») – richiamò appunto il celebre caso di
cronaca nera dai risvolti politici risalente alla prima metà degli anni
Cinquanta, per sostenere che se il Ministro degli Esteri di un governo
atlantico si permetteva di ricevere una delegazione di intellettuali critica
dell’operato USA, ciò era un atto di tale «servilismo» da far «sospettare che
qualcosa di strano, qualcosa di vero, dovesse esserci nelle molte accuse»
sollevate a suo tempo contro il figlio del Ministro (il quale era stato
coinvolto e poi scagionato dalle indagini sull’omicidio della Montesi). La
«coda di paglia» di Piccioni verso «gli scaltri marpioni che lei ha accolto
con tanta benevolenza», poteva cioè derivare – insinuava la Preda –
dall’effettiva «coscienza di queste colpe e il terrore che di nuovo, qualcuno
possa rinverdirle» (La ‘coda di paglia’ di Piccioni, in «Il Borghese», 1-11-
1962, pp. 328-329). Riassumendo: attacchi politici portati sul piano
personale, dietrologia, un pizzico di supposta omertà all’insegna del ‘tengo
famiglia’: un mix di litigiosità così tipicamente italiano da non potervi
rinunciare neppure nei giorni di una crisi nucleare planetaria.
278
Il corrispondente del «Times» definisce le opinioni di quegli
intellettuali «assai meno problematiche per il Governo» che non quelle
espresse in Parlamento da presunti sostenitori della maggioranza. Appeal to
Reason in World Affairs, «The Times», 27-10-1962, p. 7.
279
Passeggiate alla Farnesina, in «La Discussione», 4-11-1962, p. 24.
Si precisa che mentre secondo «La Discussione» e «La Nazione» l’incontro
si era tenuto alla Farnesina, per «l’Unità» e «Il Secolo» esso era avvenuto a
Montecitorio – il che pare più verosimile, considerando il fatto che Piccioni
quella mattina era alla Camera, come risulta agli Atti parlamentari. In ogni
caso il particolare sposta poco, trattandosi comunque di due sedi
istituzionali.
280
Cuba insegna, in «La Discussione», 2-11-1962, p. 2.
281
Citato in O. PAPPAGALLO, op. cit., p. 181.
282
L’editoriale diceva: «Il governo italiano, che ha solidarizzato con gli
Stati Uniti, […] dev’essere posto dinanzi alla responsabilità gravissima che
esso si è assunto mettendo il territorio nazionale a disposizione della basi
missilistiche della NATO. […] Il Partito socialista italiano non può, proprio
in questo momento, abbandonare la richiesta di liquidazione delle basi
missilistiche della NATO in Italia, che ha costituito un obiettivo costante
della politica estera di neutralità da esso perseguita» (Rafforzare ed
estendere l’azione per Cuba e per la pace!, in «l’Unità», 1-11-1962, p. 1).
Quanto all’origine di questa mobilitazione, data la tempistica collimante
con la promessa fatta da Kennedy a Kruscev di rimuovere le analoghe basi
turche, non ci sarebbe da stupirsi se prima o poi dagli archivi del Cremlino
dovesse venir fuori una direttiva indirizzata in quei giorni al PCI per
chiedere di mobilitarsi su questo tema, al fine di facilitare una doppia
rimozione turco-italiana (poi verificatasi).
283
«l’Unità», 6-11-1962, p. 1.
284
Lista parziale, stilata a partire dai vari elenchi di adesioni pubblicati
in «L’Unità», 6-11-1962, p. 1; 19-11-1962, p. 1; 2-12-1962; «Il Paese», 6-
11-1962; 8-11-1962, pp. 1 e 2; «Rinascita», 24-11-1962, p. 3.
285
La COMES era una rete radunante circa un migliaio di scrittori,
specie italiani, francesi e sovietici. Vicepresidente era Sartre. Dopo la CMC
il segretario Giancarlo Vigorelli propose d’inviare la tessera di membro
onorario della COMES a Bertrand Russell, in riconoscimento ai suoi sforzi
di mediazione nella crisi. N. RACINE, La COMES (1958-1969). Une
association d’écrivains dans la guerre froide, in J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU
(dir.), op. cit., pp. 281-300.
286
«l’Unità», 18-11-1962, p. 1. Perfino il quotidiano DC in questo caso
apprezza lo spirito distensivo di quegli intellettuali, pur dissentendo
sull’effettiva utilità per la pace della rimozione dei missili (A. NARDUCCI, Gli
tnellettuali e la pace, «Il Popolo», 18-11-1962, p. 3).
287
Italian communists revive anti-missile campaign, Rome to DoS, Nov.
10, 1962 (NARA, CC0069, Reel 28).
288
Intervento di Guttuso al Congresso PCI (Archivio Ist. Gramsci,
APC, Serie X Congresso, Busta 0320, pp. 1849-1850).
289
«Vie Nuove», 8-11-1962, p. 23.
290
Riportato in P.P. PASOLINI, I dialoghi, Editori Riuniti, Roma, 1992, p.
129.
291
P.P. PASOLINI, Lettere (1955-1975), Einaudi, Torino, 1988, p. 518.
292
P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, A. Mondadori,
Milano, 2006, p. 869 (da Quasi un testamento).
293
Riportato in P.P. PASOLINI, I dialoghi, cit., p. 86.
294
P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 858 (da
Quasi un testamento).
295
(servendosi della voce familiarmente sarcastica dello stesso
doppiatore di don Camillo.)
296
G. GUARESCHI, La rabbia, 1963, minuto 82.
297
In questo accenno si intravede il suo disappunto per il fallimento
della Baia dei Porci, annotato già all’epoca nel suo diario: «Arrabbiatissimo
per insuccesso operazione contro Cuba di Castro: imbecilli, fannulloni, e
ipocriti». G. PREZZOLINI, Diario, 1942-1968, Rusconi, Milano, 1980, p. 313.
298
Passando poi alle reazioni italiane: «Ora vorrei saper che cosa farà
Nenni. Sarebbe carino veder gli alleati dividersi quando si tratta di vita o di
morte e non c’è che l’onore da dividere, dopo essersi uniti per una divisione
delle spoglie». La frase sembra interpretabile come una speranza che il PSI
di Nenni, al momento della verità di un’eventuale escalation militare, si
schieri col PCI invece che con gli alleati DC, rompendo così
clamorosamente l’unione creata per spartirsi il potere. «Il Borghese», 1-11-
1962, p. 331.
299
Il termine «vittima» è sottolineato nell’originale, stando a rimarcare
che egli di quella fine non aveva paura. Cocteau aveva 73 anni; morirà
l’anno dopo. J. COCTEAU, Le Passé défini, 23-10-1962, Fond Cocteau,
Bibliothèque Historique de la Ville de Paris. Poiché la pubblicazione
progressiva del diario di Cocteau (Le passé défini), giunta attualmente al
sesto volume, non è ancora arrivata a coprire gli ultimi anni della sua vita,
la consultazione dei manoscritti è chiusa agli studiosi. Tuttavia, previe
nostre ripetute richieste e limitatamente al periodo della CMC, uno speciale
permesso di consultazione ci è stato accordato, dal presidente del Comitato
Jean Cocteau, Pierre Bergé, che ringraziamo.
300
La stessa notazione la si ritrova pure in una sua lettera all’amico
scrittore Ardengo Soffici: «Krushev ci ha voluto dar un’altra volta la
sensazione delle montagne russe». G. PREZZOLINI – A. SOFFICI, Carteggio, Vol.
II, 1920-1964, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 1982, p. 281 (lettera
dell’1-11-1962).
301
«Il Borghese», 8-11-1962, p. 364. Nel diario aggiunge: «28 ottobre
1962. Grandi meraviglie – e gioia – per la decisione di Kruscev di ritirare le
armi atomiche da Cuba. Ma la sua ritirata è oggetto di riflessione. Non sono
poi tanto temibili quei russi». G. PREZZOLINI, Diario…, cit., p. 344.
302
«Il Borghese», 22-11-1962, pp. 456-457.
303
G. PREZZOLINI, Una guerra scongiurata, «Il Resto del Carlino», 25-
11-1962 (anche su «La Nazione», Le due città, stesso giorno).
304
A. SPINELLI, L’Europa fra armamento atomico e armamento
convenzionale, in «Il Mulino», Nov.-Dic. 1962, pp. 1129-1135.
305
«È appena necessario avvertire che la tanto invocata dottrina di
Monroe non ha nessun valore internazionale, trattandosi di una
dichiarazione unilaterale del governo americano, che lo stesso governo
americano ha del resto da tempo ripudiato con i fatti: essa infatti affermava
il diritto degli americani di respingere qualunque ingerenza europea nel
nuovo continente ma parallelamente l’obbligo degli USA di disinteressarsi
delle vicende europee.»
306
L. BASSO, Appunti sulla crisi cubana, in «Problemi del socialismo»,
Nov. 1962, pp. 960-969.
307
Egli aggiungeva poi che, benché nel caso specifico USA e URSS
avessero entrambi la loro parte di torti, «purtroppo […] si cerca soltanto
l’umiliazione della parte avversa e il momentaneo successo della propria, ci
si rallegra se Mosca ha dovuto cedere, non si loda la sua sperata
moderazione». E. AGNOLETTI, ONU sì, yankee no, in «Il Ponte», Ott. 1962,
pp. 1265-1268.
308
Come confermatoci da Michele Gesualdi, presidente della
Fondazione don Lorenzo Milani, che ha aggiunto: «Poiché la scuola di
Barbiana tutti i giorni leggeva e commentava ad alta voce il giornale,
sicuramente si è parlato e discusso della crisi di Cuba, però tutto è rimasto
nell’ambito della sua scuola». Email all’autore, maggio 2008.
309
«È noto», scrive don Milani ai suoi giudici, «che l’unica ‘difesa’
possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa venti minuti
prima dell’ ‘aggressore’. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama
aggressione e non difesa. Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che
per sua ‘difesa’ spari venti minuti dopo. Cioè che sparino i suoi
sommergibili unici superstiti d’un Paese ormai cancellato dalla geografia.
Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa. Mi dispiace se il
discorso prende un tono di fantascienza, ma Kennedy e Krusciov (i due
artefici della distensione!) si sono lanciati l’un l’altro pubblicamente
minacce del genere. ‘Siamo pienamente conspevoli del fatto che questa
guerra se viene scatenata, diventerà sin dalla primissima ora una guerra
termonucleare e una guerra mondiale. Ciò per noi è perfettamente ovvio’
(lettera di Krusciov a B. Russell, 23-10-1962). [recte, 24-10, ma l’errore
nulla sposta, NdA] Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra
difensiva non esiste più. Allora non esiste più una ‘guerra giusta’ né per la
Chiesa né per la Costituzione. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti
che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. (Per esempio Linus
Pauling, premio Nobel per la chimica e per la pace). E noi stiamo qui a
questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?». L.
MILANI, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, 1965, p. 62.
310
Cfr. C. FOPPA PEDRETTI, Spirito profetico ed educazione in Aldo
Capitini, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 96.
311
Capitini sceglie quest’organo – anziché la Consulta per la Pace, da
lui costituita e presieduta – perché più uniforme e dunque di posizioni più
definite. Viceversa l’eterogenea composizione della Consulta (cattolici,
protestanti, comunisti, socialisti, etc.) rendeva difficile assumere una
posizione condivisa sulla CMC, come egli stesso scrive a Fofi: «Come
Consulta è difficile pronunciarsi perché si scontenta o l’uno o l’altro, quindi
ognuno si regolerà come crede» (Su quest’organo cfr. La consulta per la
pace, Numero unico, Maggio 1962 e A. MARTELLINI, Fiori nei cannoni.
Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma,
2006, pp. 135-144).
312
Così scrive Capitini in un altro passo della lettera: «Carlo Levi che
viene fuori quando c’è la piazza in subbuglio, nel momento ‘poetico’,
mentre disdegna la nostra prosa quotidiana nella quale ci affatichiamo da
due anni non è un esempio buono. Le manifestazioni esplosive non contano
molto, e spesso conducono a errori, come lo fu l’interventismo
dannunziano. Io ho scritto allo stesso Carocci parlandogli del nostro lavoro,
della Consulta. […] i comunisti ci corrispondono molto fiaccamente; e poi
tutto ad un tratto vorrebbero fare manifestazioni decisive». A. CAPITINI,
Lettere agli amici 1947-1968, Linea d’Ombra, Milano, 1989, pp. 26-27. Sui
rapporti tra Capitini e la sinistra italiana, si veda anche A. D’ORSI,
Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino, 2001, pp. 127 e 136.
313
Infatti, argomentava Jemolo, «in mancanza di trattati non c’è alcun
diritto d’imporre ad un altro Paese di limitare i suoi armamenti, né di
sorvolare sul suo territorio con voli d’ispezione. Né […] il diritto
d’impedire che in tutto il continente americano s’instaurino governi
comunisti, anche se sinceramente voluti dal popolo, anche se pongano fine
ad anarchie od a regimi tra i peggiori che la storia registri. […] Non siamo
così ingenui da ignorare che la parità fra Stati è una finzione giuridica […]
Ma sappiamo altresì che molte volte l’enunciazione di certi principi legali è
stato l’avvio alla penetrazione in cerchie sempre più vaste della regola etica
che ne era alla base». Jemolo criticava poi la politica di corsa agli
armamenti («Non c’è frase dei retori che abbia recato maggiore male del si
vis pacem para bellum»), e i suoi risvolti culturali («un continuo
sfruttamento della psicosi di guerra ai fini di politica interna: dovunque ad
occidente e ad oriente il buon cittadino deve credere che quelli del blocco
opposto non sono dei pacifici, lo insidiano, da un giorno all’altro possono
assalirlo; questa mentalità della diffidenza metodica […] è la più funesta
[…])». A.C. JEMOLO, La testa sotto l’ala, in «Il Ponte», Apr. 1963, pp. 469-
478.
314
Basti pensare ai dibattiti avutisi in Italia nel 2003 in occasione della
guerra in Iraq, pur osteggiata dalla larga maggioranza degli italiani, o alla
crescente ostilità relativa al prolungarsi della guerra NATO in Afghanistan.
315
Su questi due colpi di stato, cfr. per esempio G. GARAVINI, Dopo gli
imperi, cit., pp. 19-20.
316
Qui anche Spadolini si sbaglia, come già specificato nella nota a
proposito della Rossanda.
317
G. SPADOLINI, La crisi di Cuba, in «Nuova Antologia», Nov. 1962, pp.
291-298.
318
Si precisa per completezza che, come messo in luce dal saggio di
F.S. SAUNDERS, La guerra fredda culturale, cit., la rivista «Tempo Presente»
faceva parte della rete internazionale di riviste collegate e sostenute dal
«Congress for Cultural Freedom», ente controllato dalla CIA e
dall’establishment statunitense, che lo usava per dare spazio e visibilità ad
esponenti ed argomenti di una cultura di segno non filocomunista. «Tempo
Presente», tuttavia, pur facendo parte di questo circuito culturale non aveva
mai subito condizionamenti di alcun tipo, tanto che Chiaromonte rimase
sorpreso e imbarazzato quando venne fuori questo retroscena, di cui era il
primo ad essere all’oscuro.
319
N. CHIAROMONTE, Riflessioni su una crisi, in «Tempo Presente», pp.
769-775.
320
Come registrava già il succitato rapporto della DC sulle reazioni alla
crisi: «Profonde ripercussioni sono state registrate negli ambienti culturali
[…] Su posizioni decisamente oltranziste, infine si sono posti numerosi
scrittori» marxisti. Riflessi della crisi cubana sulla situazione politica
interna, Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con
l’Estero, Scatola 159, Fasc. 15, Ist. Sturzo.
321
Inoltre, se le iniziative delle delegazioni di Pasolini e soci
richiamano l’attivismo contemporaneamente adottato da Fanfani sul piano
diplomatico, quest’ultimo a sua volta potrebbe essere messo in relazione,
pur con le ovvie differenze, con le mediazioni di Mussolini del 1938 (alla
conferenza di Monaco) o quella di Berlusconi nel 2008 (al telefono con
Putin per il conflitto con la Georgia), entrambi poi proclamatisi salvatori
della pace internazionale. L’analogia evidentemente non è tesa a stabilire
improbabili equivalenze tra i tre leader e le rispettive iniziative, bensì a
sottolineare la ricorrenza storica di certe istanze (più o meno sincere) delle
leadership italiane a giocare il ruolo di mediatori internazionali. È ben
possibile che il nostro Paese si riveli alla fine troppo piccolo per poter
sostenere simili ambizioni, ma d’altro canto è anche vero che vi sono
ambizioni nazionali peggiori.
322
Tale doppia rimozione tra l’altro fu particolarmente significativa
perché rappresentò, come ha notato Nuti, un «simbolico spartiacque della
guerra fredda», tra la sua fase più acuta e quella relativamente più distesa
che seguì, anche se ciò divenne chiaro solo a posteriori (L. NUTI,
Dall’Operazione Deep Rock all’Operazione Pot-Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in Storia delle Relazioni
Internazionali, 1996-1997, n. 2, p. 143).
323
Tra le conseguenze minori vi fu poi anche il fatto che il PCI trasse
dall’esperienza, pur politicamente infelice, della CMC, l’occasione per
ribadire la propria linea strategica all’interno del movimento socialista
internazionale: la linea cioè di una ‘via italiana al socialismo’, che fosse
pacifica, non rivoluzionaria (Cfr. O. PAPPAGALLO, op. cit., pp. 16-17).
324
Se il dirigente del PCI, nella già vista riunione di direzione,
giustificò la pochezza numerica delle manifestazioni dicendo che «ciò è
dovuto al fatto che molta gente non credeva reale il pericolo di guerra» (O.
PAPPAGALLO, op. cit., p. 183), il missino Romualdi a crisi ancora in corso
affermò alla Camera dei deputati «che, fin dal momento in cui la crisi
scoppiò, si ebbe la netta impressione che la pubblica opinione fosse meno
allarmata di quanto non lo fossero i responsabili dei maggiori governi
impegnati. Forse l’opinione pubblica si rendeva conto che, nonostante i fatti
gravissimi che stavano accadendo, non vi erano le ragioni per un conflitto
reale. […] La pubblica opinione italiana ha forse avvertito che, più che allo
scontro, era facile che si volesse arrivare a un incontro» (Atti parlamentari,
Verbali della Camera dei deputati, seduta del 26-10-1962, p. 35183).
325
Come mostrato per esempio, a livello locale, dalla generale
inconsapevolezza dei pugliesi riguardo ai rischi legati ai vicini missili
NATO, a fronte del maggior dinamismo manifestato invece dalle locali
dirigenze politiche ed intellettuali (FGCI, Tommaso Fiore, ecc.).
326
Per citarne un paio tra i più recenti, L. DI NUCCI – E. GALLI DELLA
LOGGIA, Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia
dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2003; M. SALVADORI, Italia
divisa. La coscienza tormentata di una nazione, Donzelli, Roma, 2007.
327
Ciò non va inteso necessariamente come un giudizio di inferiorità,
giacché la capacità di dividersi dialetticamente, così come quella di
esprimere compattezza, possono avere i loro pregi.
Scienza e guerra atomica. Scienziati
1
H. BROWN, The twentieth year, «Bulletin of Atomic Scientists», Dec.
1962, pp. 2-3.
2
Una reazione che nella rivista naturalmente non era limitata al solo
Brown, come mostra il fatto che tale articolo fosse pubblicato come
editoriale della testata, e come conferma la reazione «inorridita» del
cofondatore e direttore del «Bulletin», lo scienziato Eugene Rabinowitch,
che vedremo tra breve.
3
Non a caso era appunto alla data della prima reazione a catena
controllata dall’uomo (2 dicembre 1942) che si riferiva l’anniversario cui
accennava sopra il «Bulletin of Atomic Scientists».
4
«Caro Signor Presidente, sono convinto che la prossima fase del
cosiddetto stallo atomico, che ora si sta rapidamente avvicinando, sarà
intrinsecamente instabile e potrebbe esploderci in faccia la prima volta che
entriamo in un conflitto con la Russia nel quale siano coinvolti
fondamentali interessi nazionali. Perciò, credo sia imperativo che
raggiungiamo un incontro delle intenzioni [a meeting of minds] coi russi
riguardo a come vivere con la bomba oppure come liberarsi della bomba.
Fin qui, non abbiamo fatto nessuna delle due cose». Lettera Szilard – JFK,
May 10, 1961. Leo Szilard Papers (Mandeville Special Collection Library,
UCSD), MSS 32, Box 11, Folder 5.
5
Lettera Szilard – Kruscev, Oct. 9, 1962. Szilard Papers, UCSD, MSS
32, Box 12, Folder 9.
6
Frase rivolta da Szilard a Weisskopf, riportata in T. POWERS,
Intelligence wars, New York Review Books, New York, 2002, p. 158.
7
M. BESS, Realism, Utopia and the mushroom cloud, The University of
Chicago Press, Chicago, 1993, p. 61.
8
W. LANOUETTE, Genius in the shadows. A biography of Leo Szilard, the
man behind the Bomb, The University of Chicago Press, Chicago, 1992, p.
461 (che qui riporta una lettera indirizzata nel 1963 da Szilard all’amico
René Spitz).
9
Ivi, pp. 456-464, da cui provengono anche i successivi virgolettati.
10
Lettera Livingston – Szilard. Nov. 9, 1962. Szilard Papers, UCSD,
MSS 32, Box 12, Folder 9.
11
Lettera Kruscev – Szilard, Nov. 4, 1962. Szilard Papers, UCSD, MSS
32, Box 11, Folder 7.
12
«Ho ricevuto una telefonata da Washington», scrive Szilard a
Kruscev, da Ginevra, «che indica che l’Angels Project è incorso lì in una
seria difficoltà. […] Uno dei funzionari governativi chiave […] è stato
contattato prematuramente da uno degli Angeli e ha reagito abbastanza
negativamente». Lettera Szilard – Kruscev, Nov. 25, 1962. Szilard Papers,
UCSD, MSS 32, Box 11, Folder 7.
13
Tra questi, la sua lettera a Bundy del 26-12-1962. Szilard Papers,
UCSD, MSS 32, Box 20, Folder 30.
14
Sull’Angels Project, si veda anche M. EVANGELISTA, Unarmed forces,
Cornell University Press, Ithaca, NY, 1999, pp. 40-44.
15
W. LANOUETTE, op. cit., pp. 459 e 464. In tal senso si veda anche la
secca replica di Bundy a un messaggio speditogli da Szilard: «Il suo
immaginoso messaggio del 14 novembre [conteneva] un suggerimento
caratteristicamente originale, ma dubito che per noi sarebbe utile condurre
le nostre relazioni col presidente Kruscev tramite lei» (L. WITTNER, Resisting
the Bomb…, cit., p. 373).
16
W. LANOUETTE, op. cit., pp. 447 e 461.
17
Ivi, p. 460.
18
G. SZILARD – H. HAWKINS – G.A. GREB – B. BERNSTEIN (a cura di),
Toward a livable world, cit., pp. 478-479.
19
«Overkill» in gergo militare indica un uso eccessivo e non necessario
della forza.
20
«Boston Globe», Oct. 21, 1962, p. 1 (Says U.S. bombs can ruin
Russia 25 times).
21
Il mondo per 12 volte sull’orlo della strage atomica, «l’Unità», 22
Ott. 1962, p. 1.
22
«The New York Times», Oct. 26, 1962, p. 27.
23
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 256. Tre anni dopo, infine,
Lapp scrisse un nuovo libro per mettere in guardia dai pericoli
dell’eccessiva influenza assunta dagli scienziati presso il potere politico,
specie negli USA. In esso tra l’altro Lapp concordava sul chiaro fatto che
«la prova di forza su Cuba aveva moderato la politica sovietica» (R. LAPP,
The new priesthood: the scientific elite and the uses of power, Harper &
Row, New York, 1965, p. 149).
24
E. SEGRÈ, A mind always in motion. The autobiography of Emilio
Segrè, University of California Press, Berkeley, 1993, p. 282.
25
Ecco i nomi degli otto premi Nobel: Owen Chamberlain (Fisica),
Peter J.W. Debye (Chimica), Donald A. Glaser (Fisica), Arthur Kornberg
(Medicina e Fisiologia), Fritz A. Lipmann (Medicina e Fisiologia),
Hermann J. Muller (Medicina e Fisiologia), Edward Mills Purcell (Fisica),
Harold C. Urey (Chimica). Nobel prize winners propose neutral Cuba and
non-military Guantanamo, in «I.F. Stone Weekly», Nov. 5, 1962, p. 4.
26
Videointervista a Joseph Rotblat, 2002 (realizzata dal Vega Science
Trust). Tape 8, minuto 13.
27
Elaine Kistiakowski, email all’autore, 21 agosto 2009.
28
FAS Newsletter, Apr. 1963, p. 1.
29
Su questo punto, riconosciuto anche da JFK nel suo colloquio privato
con Schlesinger subito dopo la crisi (si veda il capitolo Stati Uniti
d’America), si rilegga il punto 6 del capitolo Capire la crisi.
30
FAS Newsletter, Feb. 1963, pp. 1 e 6. Tali affermazioni erano
contenute in una dichiarazione ufficiale della Federazione, che premeva per
l’adozione esplicita di una «no first strike policy», consistente nel garantire
che gli USA non avrebbero mai usato per primi le armi nucleari, né
avrebbero minacciato di farlo.
31
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 256.
32
E. RABINOWITCH, New year’s thoughts, 1964, in «Bulletin of Atomic
Scientists», Jan. 1964, p. 2. Era così. Si è già accennato, per esempio, a
come l’interesse pubblico per i rifugi antiatomici e le tematiche nucleari in
genere sia crollato a picco proprio dopo la CMC.
33
(Lett. «War is at hand»). W. LANOUETTE, op. cit., p. 458. La vedova
Elaine Kistiakowski, da noi interpellata, non ha potuto smentire né
confermare quella frase del marito («Temo sarebbe un disservizio alla storia
cercare di ricordare […] ciò che qualcuno disse all’epoca». Email
all’autore: 20 giugno 2010). Una ricerca tra le carte di Kistiakowski
conservate ad Harvard non ha evidenziato sue menzioni della CMC.
34
J. ROTBLAT, Leaving the Bomb project, in «Bulletin of Atomic
Scientists», Aug. 1985, pp. 16-19.
35
J. ROTBLAT, Scientists in the quest for peace, MIT Press, Cambridge,
MA, 1972, p. XIII.
36
J. ROTBLAT, Scientists in the quest for peace, cit., p. 34. Inoltre,
secondo altre fonti (D. FAZZI, La pace calda, tesi di dottorato, Università di
Bologna, XXII ciclo, p. 166; E. SALMON, Against the bomb, in «Financial
Times», 12-2-1989), gli scienziati americani avrebbero fatto filtrare in quei
giorni anche una proposta di rimozione congiunta dei missili cubani e
turchi. Rotblat però non ne fa menzione nel suo resoconto.
37
FO371/163163, UK National Archives, Kew.
38
Videointervista a Joseph Rotblat, 2002 (realizzata dal Vega Science
Trust). Tape 8, minuto 13.
39
Anche Russell conferma che durante la crisi «Rotblat […] ebbe un
gran da fare a spedire cablogrammi agli scienziati degli USA e dell’URSS
aderenti al movimento per incitarli a usare la loro influenza presso i
rispettivi governi». B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 13 nota.
40
J. ROTBLAT – D. IKEDA, A quest for global peace, I.B. Tauris, New
York, 2006, p. 131.
41
B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 39.
42
(lett.: «cut much ice»). B. RUSSELL, Autobiografia, Longanesi, Milano
1970, vol. 3, p. 213.
43
Citato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy, …, cit., p. 89.
44
«Daily Mail», 29-10-1962, p. 2.
45
Lettera Born – Russell, 23-10-1962. Box RA2 350, Bertrand Russell
Research Centre, McMaster University. Si ringraziano Nancy Greenspan,
biografa di Born, e il dr. Andrew G. Bone, del Bertrand Russell Research
Centre, per il prezioso aiuto fornito nel reperimento delle lettere tra i due
scienziati.
46
Si consideri che – particolare fin qui trascurato dalla storiografia – i
primi telegrammi di Russell ai vari leader partirono alle 2 di mattina del 23
ottobre (ora britannica), cioè appena un’ora e mezza dopo la fine del
discorso di Kennedy. Ciò aiuta a comprenderne anche il tono concitato (BR
to NK, JFK, U Thant, H. Macmillan, H. Gaitskell, 23-10-1962. Box RA1
650, Bertrand Russell Research Centre).
47
Cablogrammi M. Born – BR e risposta, 25-10-1962. Box RA2 350,
Bertrand Russell Research Centre, McMaster University.
48
«Caro prof. Russell, abbiamo trovato sui giornali i suoi messaggi a
Kennedy e Kruscev, e oggi è apparsa una sua foto. Sono estremamente lieto
che lei abbia fatto questo. Un messaggio diretto da parte sua è di sicuro più
efficace di qualunque lettera congiunta da parte di un gruppo. Ha reso un
grande servizio al mondo, e io la ringrazio. […]». Born a Russell, 26-10-
1962. Box RA2 250, Bertrand Russell Research Centre.
49
Lettera Russell – Born del 30-10-1962. N. GRIFFIN (a cura di), The
Selected letters of Bertrand Russell, Routledge, New York, 2001, pp. 555-
556.
50
Per un resoconto più dettagliato dei vari telegrammi di Russell
durante la CMC occorrerebbe naturalmente più spazio. Potrà essere oggetto
di uno studio ad hoc.
51
Cfr. D. KEVLES, The physicists, Harvard University Press, Cambridge,
MA 1995, p. IX.
52
Tanto che proprio all’inizio del 1962 lo scienziato politico Robert
Giplin dedicava un intero libro ai rapporti tra scienziati e potere politico,
auspicandone una più chiara definizione, giacché «mai prima d’ora la
partecipazione di scienziati alla determinazione di politiche pubbliche è
stata così pervasiva e importante come oggi». R. GIPLIN, American scientists
and nuclear weapons policy, Princeton University Press, Princeton, NJ,
1962, p. 10.
53
D. SCOTT – A. LEONOV, Two sides of the moon, Simon & Schuster, New
York, 2004, p. 66.
54
Allora l’URSS utilizzava le stesse basi per i missili militari e per i
razzi di esplorazione spaziale.
55
B. CHERTOK, Rockets and people, NASA History Series, Washington
2009, vol. 3, pp. 96-102 (Per una versione simile del medesimo episodio,
cfr. J. HARTFORD, Korolev, John Wiley and Sons, New York, 1997, pp. 150-
151; J. DORAN – P. BIZONY, Starman, Bloomsbury Publishing, London, 2011,
p. 150).
56
L’americano Rabinowitch definisce Topchiev «membro di un certo
rango della gerarchia comunista», dotato di grande energia e devozione alla
causa del disarmo (A Topchiev, 1907-1962, in «Bulletin of Atomic
Scientists», March 1963, p. 8). Anche Rotblat lo ricorda come «un membro
molto importante del Partito comunista» (OHI British Library, 27di40,
minuto 29: http://sounds.bl.uk/Oral-history/Science/021M-
C0464X0017XX-2800V0) e come «un comunista ardente e un membro
della linea dura, ma con un cuore d’oro» (J. ROTBLAT, Scientists in the quest
for peace, cit., p. XVIII).
57
B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 13 nota. Con ogni
probabilità Russell ebbe da Rotblat tale notizia del colloquio.
58
In tale colloquio il chimico sovietico, pur essendosi precedentemente
dichiarato pronto a volare a Londra per il summit di emergenza del
Pugwash, avvisò Rotblat che ormai «non c’era più alcun bisogno
dell’incontro, perché […] la situazione si era raffreddata [the heat was off]».
29-10-1962, FO 371/163163, UK National Archives, Kew. Topchiev morì
due mesi dopo la CMC, il 27 dicembre.
59
«What Soviet People are being told through Soviet press and radio»,
Oct. 26, 1962. DNSA, CC01422.
60
Questo l’inizio dell’appello: «Noi approviamo caldamente la
dichiarazione del governo sovietico e ci rivolgiamo agli studiosi di tutti i
Paesi del mondo, indipendentemente dalle loro idee e convinzioni politiche,
ai rappresentanti di tutte le scienze ad intervenire in modo particolarmente
attivo a difesa del mondo». Prizyv k uc enym vsego mira («Appello agli
studiosi di tutto il mondo»), «Pravda», 26-10-1962, p. 3. Si ringrazia la
dott.ssa Sara Tavani per la traduzione dal russo.
61
L’appello, dopo aver nominato significativamente al primo posto
proprio i fisici, proseguiva chiamando a raccolta altre categorie di studiosi.
«Giuristi internazionalisti! Dite alle persone tutta la verità sulla completa
illegalità delle azioni piratesche del governo degli Stati Uniti, che
costituiscono una violazione senza precedenti delle norme del diritto
internazionale! Sociologi ed economisti! Intervenite in difesa dei diritti e
della libertà della Repubblica di Cuba – uno stato sovrano, membro
dell’ONU! Rappresentanti di tutti i settori della scienza la cui vocazione è
servire il progresso umano, gli alti principi dell’umanesimo! Aderite
attivamente alla lotta contro le forze aggressive che minacciano la pace
sulla terra». Prizyv k uc enym vsego mira («Appello agli studiosi di tutto il
mondo»), «Pravda», 26-10-1962, p. 3.
62
R. STAAR, Foreign Policies of the Soviet Union, Hoover Press,
Stanford, 1991, pp. 79, 81, 84. Il WPC, tra l’altro, era l’erede diretto
dell’organizzazione dei Partigiani della Pace che nel 1950 aveva diffuso la
celebre ‘petizione di Stoccolma’ contro le armi nucleari, apparentemente
neutrale ma di fatto frutto della propaganda sovietica. M. NOLAN, The
Transatlantic century. Europe and America, 1890-2010, Cambridge
University Press, 2012, p. 235; L. WITTNER, One world or none. The struggle
against the bomb – A history of the world nuclear disarmament movement,
vol. II, Stanford University Press, 1993, pp. 182-190.
63
A. BROWN, J.D. Bernal: the sage of science, Oxford University Press,
Oxford, 2005, p. 426.
64
«Il Paese», 26-10-1962 (Appello all’ONU di J.D. Bernal –
L’aggressione USA non dev’essere legalizzata). Cfr. anche «l’Unità», 25-
10-1962, p. 3 (Bernal: ‘L’ONU fermi l’azione degli USA’).
65
Il messaggio era indirizzato al «Movimento cubano per la difesa della
pace e la sovranità dei popoli». Mensaje de John Bernal en apoyo a los
cubanos, «Revolucion», 26-10-1962, p. 3.
66
A. BROWN, J.D. Bernal…, cit., p. 427.
67
Ivi, p. 427.
68
Ivi, p. 489.
69
Ivi, p. 433 e 489. L’ipotesi del biografo di Bernal naturalmente va
letta come riferita a un’influenza di tipo indiretto e generico, in assenza di
documenti relativi a un concreto coinvolgimento dello scienziato nei giorni
della crisi.
70
A. SAKHAROV, Memoirs, Knopf, New York, 1990, p. 211.
71
R. LOURIE, Sakharov: a biography, Brandels University Press,
Waltham, MA, 2002, p. 178.
72
Le parole rivoltegli in quell’occasione da Kruscev sono
esemplificative delle difficoltà che può caratterizzare i rapporti tra scienza e
potere politico. (Può essere utile leggerle in relazione con quelle, che
vedremo tra poche pagine, rivolte invece da Kennedy al proprio scienziato
critico, Linus Pauling.) Kruscev infatti rispose che Sakharov si era
«spostato al di fuori della scienza, nella politica. Sta ficcando il naso dove
non gli spetta […] Lasci la politica a noi – noi siamo gli specialisti. Voi fate
le vostre bombe e sperimentatele, e noi non interferiremo con voi. […] Ma
ricordatevi: dobbiamo condurre la nostra politica da una posizione di forza.
[…] I nostri avversari non capiscono altro linguaggio. […] Sarei uno
smidollato e non il Presidente del Consiglio dei ministri se ascoltassi gente
come Sakharov!» (citato in L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 340;
cfr J. BERGMAN, Meeting the demands of reason. The life and thought of
Andrei Sakharov, Cornell University Press, Ithaca, NY, 2011, pp. 95-97).
Alla fine della lunga scenata, nessuno dei colleghi si avvicinò a Sakharov
per esprimergli solidarietà.
73
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 281.
74
F. LIZHI with R. RATMESAR, The Dissident Andrei Sakharov, «Time», 14
June 1999.
75
Per una prima conferma sulla minore percezione della crisi in terra
sovietica, cfr. A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 65, e la
testimonianza del figlio di Kruscev, contenuta nella videointervista
realizzata per il Watson Institute for International Studies (cfr. inoltre, in
bibliografia, le testate sovietiche da noi consultate).
76
Andrei Sakharov Archives, bMS Russ 79 (6223), Houghton Library,
Harvard University. A margine del documento vi è l’indicazione
archivistica che esso fu redatto «dopo il 1987» e la notazione manoscritta
dello stesso Sakharov di non ricordare il titolo del film (aggiungendo però
che esso è stato recensito su «Moskovskie Novosti»). Si ringrazia Micah
Hoggatt per l’aiuto nella consultazione del documento.
77
N. KHRUSHCHEV, Khrushchev remembers. The last testament, Little
Brown & Co., Boston, 1974, p. 69.
78
M. PISZKIEWICZ, Von Braun, Praeger, Wesport, 1998, p. 101.
79
Dello stesso avviso anche il suo biografo D. NEUFELD, op. cit., p. 406.
80
Ivi, p. 382 (cfr. anche Piszkiewicz, op. cit., p. 148). La singolare
notizia del rifugio antiatomico era stata rivelata da un quotidiano locale,
l’«Huntsville Times», nonostante gli sforzi della NASA di evitarne la
pubblicazione, nell’intento di tenere von Braun lontano dai riflettori. (Cfr.
H. YOUNG – B. SILCOCK – P. DUNN, Journey to Tranquillity, Doubleday Co.,
Garden City, NY, 1970, p. 8). Tale intento è anche tra i fattori che
presumibilmente spiegano la scarsità di notizie trapelate in merito alla sua
reazione di fronte alla CMC, insieme naturalmente alla sua personale
ammirazione per Kennedy, che rende difficile pensare ad una sua
contrarietà rispetto alla linea scelta dal Presidente.
81
E. TELLER, Memoirs, Perseus Publishing, Cambridge, MA, 2001, p.
465.
82
Nonostante i suoi sforzi, mossi dalla convinzione di fondo che dei
sovietici non ci si potesse fidare, Teller non riuscì a impedire la conclusione
dell’accordo né la sua ratifica in patria, giacché l’amministrazione Kennedy
– presso la quale egli non godeva di gran credito – ribattè alle sue
affermazioni, come pure la maggioranza del Congresso e della comunità
scientifica (I. HARGITTAI, op. cit., pp. 332-336, 342, 366). Riuscì però a
diminuirne la portata effettiva tramite la sua influenza sul Pentagono e a
dare un’immagine divisa, e perciò politicamente meno influente, della
comunità scientifica (P. RUBINSON, Crucified on a Cross of Atoms: Scientists,
Politics and the Test Ban Treaty, in «Diplomatic History», Apr. 2011, pp.
314-316).
83
Cfr. K. OLMSTED, Linus Pauling: a case studies in counter-intelligence
run amok, in L. JOHNSON (a cura di), Handbook of Intelligence Studies,
Routledge, London, 2006, p. 274.
84
Cfr. L. PAULING, Linus Pauling on Peace, Rising Star Press, Los Altos,
CA, 1998, p. 134. È a questo tipo di apertura intellettuale che si riferiva
Norman Mailer quando, come abbiamo visto nel capitolo Stati Uniti
d’America, dopo Dallas confesserà di rimpiangere il clima creato da
Kennedy, che in quegli anni gli aveva reso naturale dialogare con lui anche
se in disaccordo con molte delle sue politiche.
85
L’ora che appare riportata in alto a destra del telegramma è infatti
«4.50 PM, 22 October 1962», il che, con l’aggiunta delle tre ore di fuso
separanti l’Oregon dalla capitale, dà appunto le 7.50 PM, cioè 33 minuti
dopo la fine del discorso.
86
Pauling to JFK. Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State
University Libraries, Manuscripts of Articles, Box 1962a3, Folder 3.2 (si
ringrazia per la particolare disponibilità Chris Petersen, Faculty Research
Assistant).
87
Overseas reaction to the Cuban situation, p. 17, USIA report (Oct.
24, 1962, 3.30 PM), in DNSA, CC01268.
88
L’on. Silvio Ambrosini (PCI) citò nel suo discorso Pauling,
«scienziato americano il quale, rivolgendosi a Kennedy, definisce
irresponsabile la sua azione e quindi anche quella del governo italiano».
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, seduta del 27-10-1962,
p. 35213.
89
U THANT, op. cit., p. 169.
90
L’assegnazione del Nobel a Pauling, relativa all’anno 1962, fu
annunciata il 10 ottobre 1963, in coincidenza con l’entrata in vigore del
trattato LTBT, per cui egli si era battuto.
91
Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State University
Libraries, Manuscripts, Box 1962s, Folder 19 (disponibile anche in versione
digitalizzata). Glenn T. Seaborg, già premio Nobel per la chimica, era il
presidente dell’AEC, la Commissione per l’energia atomica; William
Chapman Foster era a capo dell’Agenzia statunitense per il Disarmo e il
Controllo degli armamenti; Jerome Wiesner era il consigliere scientifico del
presidente Kennedy.
92
Questo virgolettato di Pauling è riportato in L. JOHNSON (a cura di), op.
cit., p. 274. Qui il riferimento di Pauling era all’influenza politica del
«complesso militare-industriale», di cui già Eisenhower aveva denunciato i
pericoli, nel suo celebre ultimo discorso da Presidente, pronunciato al
momento di lasciare la Casa Bianca (17 gennaio 1961) e in seguito
denominato appunto Military-Industrial Complex Speech (Testo ufficiale in
Public Papers of the Presidents, Dwight D. Eisenhower, United States
Government Printing Office, Washington, DC, 1960, pp. 1035-1040).
93
L. PAULING, op. cit., p. 135.
94
Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State University
Libraries, Manuscripts, Box 1962s, Folder 19 (disponibile anche in versione
digitalizzata).
95
Pauling to Baker, Nov. 1, 1962. Ava Helen and Linus Pauling Papers,
Oregon State University Libraries, Correspondence, Box 40, Folder 1. Nel
1963, Pauling volle però render merito a Kennedy di aver raggiunto il
trattato internazionale sulla messa al bando parziale dei test atomici
(LTBT). Quest’accordo, gli scrisse, «sarà ricordato dalla storia come uno
dei più grandi eventi nella storia del mondo». Cfr. L. JOHNSON (a cura di), op.
cit., p. 274.
96
M. PINAULT, Expert set/ou engagés? Les scientifiques entre guerre et
paix de l’UNESCO à Pugwash, in J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU (dir.), op. cit.,
pp. 235-249.
97
Sulle proteste contro i test nucleari di quegli anni, cfr. L. WITTNER,
Resisting the Bomb…, cit. (Quanto poi ai rapporti tra comunità scientifica e
potere politico, oltre al già citato saggio di Giplin, si veda J. WANG,
American science in an age of anxiety. Scientists, anticommunism and the
Cold war, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1999, relativo ai
primi anni della guerra fredda.)
98
T. MERTON, New seeds of contemplation, Shambhala Publications,
Boston, 1961, pp. 123-124. Merton era in contatto in particolare con Leo
Szilard. Cfr. PH. THOMPSON, Between Science and Religion. The Engagement
of Catholic Intellectuals with Science and Technology in the Twentieth
Century, Lexington Books, Plymouth, 2009, pp. 122-123.
Conclusioni
1
The continuing crisis, «The Washington Post», 30-10-1962, p. A12
(editoriale non firmato).
2
Fa eccezione, oltre alla già ricordata antologia storiografica I missili di
ottobre…, il memoriale di R. KENNEDY, op. cit., che però offre un resoconto
degli eventi datato (1969), incompleto e ovviamente tutt’altro che
imparziale e disinteressato.
3
Naturalmente una sintesi così telegrafica rischia di banalizzare: la si
presenta solo per fornire delle coordinate orientative, non come un riassunto
esaustivo.
4
Sarebbe difficile infatti comprendere isolatamente, per esempio, la
reazione politica di un dato Paese senza far riferimento allo stato della sua
opinione pubblica, o cogliere appieno le reazioni di determinati ambienti
culturali senza contestualizzarli nella posizione politico-diplomatica assunta
dal Paese in cui quegli intellettuali e organizzazioni vivevano e operavano.
5
J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU (dir.), op. cit., pp. 7-8 e 301-306.
6
In questa direzione muovono ora anche la summenzionata raccolta di
documenti internazionali (The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012) e due antologie di studi multinazionali sulla
CMC, entrambe comprendenti un nostro saggio: An International History of
the Cuban Missile Crisis. A 50-year retrospective (Routledge, 2014) e
Global Nuclear Vulnerability. 1962 as the Inaugural Crisis (a cura di B.
Pelopidas), in preparazione.
7
Dello stesso avviso D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 106.
8
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 91 e sua intervista nel documentario CNN
Cold War – Cuba 1959-1962.
9
D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 123.
10
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 144.
11
Kennedy, intervista in tv del 17-12-1962. Dello stesso avviso ora
anche D. JOHNSON – D. TIERNEY, Essence of victory, in «Security Studies»,
vol. 13, n. 2, 2003-2004, pp. 375-376: «Nella crisi dei missili di Cuba […]
percezioni e mispercezioni furono l’essenza della vittoria». Esse,
attribuendo la vittoria agli USA, «produssero una sconfitta sovietica molto
reale, chiudendo il gap, a posteriori, tra percezione e realtà».
12
(in modo spesso anche concomitante, cioè senza contraddizioni,
rispetto alla percezione sull’esito politico favorevole agli USA di cui sopra.)
13
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, (edizione del 1970), p. 532.
Analogamente anche D. RUSK, op. cit., p. 235: «Io l’ho sempre vista come
un trionfo per la diplomazia sia americana sia sovietica».
14
Intervista a Sorensen, documentario di History Channel Cuban
Missile Crisis Declassified (part 2).
15
E. MORRIS, The Fog of War, cit., 15’ (cap. «Lesson No. 2: Rationality
will not save us»).
Fonti e bibliografia
Fonti primarie
1. Fonti d’archivio
Italia
Roma
Archivio Storico del Senato della Repubblica Italiana
Diari Amintore Fanfani
Carte personali Amintore Fanfani
Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri
Raccolta Telegrammi Ordinari – 1962
Telegrammi Segreti – 1962
DGAP (Direzione Generale per gli Affari Politici e la sicurezza) –
Ufficio I, Primo Versamento – 1962
Ambasciata Italiana a Washington
Archivio Centrale di Stato
Fondo Presidenza del Consiglio (Segreteria particolare Fanfani)
Ministero degli Interni (Gabinetto: Fascicoli Correnti, 1961-1963;
Fascicoli Permanenti, 1944-1966; Partiti Politici)
Istituto Sturzo
Carte Giulio Andreotti
Fondo DC (Serie: Segreteria Politica; Direzione Nazionale)
Istituto Gramsci
ACP – Archivio Partito Comunista (MF 0320 – X Congresso PCI)
Carte Enrico Berlinguer
Fondo Palmiro Togliatti
Archivio audiovisivo Teche RAI (notiziari dell’epoca, tv e radio)
Firenze
Fondazione La Pira – Carte Giorgio La Pira
Milano
Arcidiocesi di Milano – Archivio Storico Diocesano
Washington, DC
National Archives (College Park, MD)
RG 59 (DoS Central Files)
CC0069 (Cuba DoS Files – Reel 21-28)
Central Decimal File 611.37 (US-Cuba Relations – Microfilm:
M1855 – Reel 38-42 e 43-46, relativi ai giorni di della CMC)
Central Decimal File 611.65 e 611.65a (Us-Italy Relations, Us-
Vatican Relations – Microfilm: M1855 – Reel 93-95)
RG 84 (Foreign Service Post Files)
RG 273 (National Security Council)
RG 306 (US Information Agency)
CREST (CIA Records Search Tool) database
Los Angeles, CA
Charles E. Young Research Library, UCLA – Norman Cousins Papers
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Andover-Harvard Theological Library – Paul Tillich Papers
Houghton Library, Harvard University – Andrei Sakharov Archives
San Diego, CA
Mandeville Special Collection Department, UCSD – Leo Szilard Papers
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University of Iowa, Special Collections – Digital Library – Henry A
Wallace Papers
Corvallis, OR
Oregon State University Libraries – Linus Pauling Papers
Regno Unito
Londra
National Archives (Kew Gardens)
PRO (Public Record Office) Class: FO 371 (Foreign Office)
PRO (Public Record Office) Class: PREM 11 (Prime Minister’s Office:
Correspondence and papers)
PRO (Public Record Office) Class: CAB 128 – 129 (Cabinet Papers)
Canada
Hamilton, ON
Bertrand Russell Papers – Bertrand Russell Research Center, McMaster
University
Francia
Parigi
Bibliothèque Historique de la Ville de Paris (BHVP) – Fond Cocteau
Germania
Berlino
John F. Kennedy Institute, Freie Universitat – Microfilm Collections
Robert F. Williams Papers
Philip A. Randolph Papers
NAACP Papers
Bayard Rustin Papers
Paul Robeson Collection
Intervista scritta:
Giulio Andreotti (ministro della Difesa italiano)
USA
The New York Times
The International Herald Tribune
Boston Globe
Christian Science Monitor
The Washington Post
Los Angeles Times
The Dallas Morning News
San Francisco Chronicle
The Miami News
New York Amsterdam News
Chicago Defender
The Pittsburgh Courier
Baltimore Afro-American
The Washington Reporter / The Washington Observer
Crimson
Atlantic Monthly
The Nation
Saturday Review
Newsweek
New Republic
Christian Century
The Lutheran
Life
Time
New Leader
The New Yorker
Commentary
The Crisis
Jet
Ebony
The Florida Star
The Washington Afro-American
Negro Digest
I.F. Stone Weekly
Bulletin of the Atomic Scientists
Partisan Review
Foreign Affairs
URSS
Pravda
Current Digest of Soviet Press
(Izvestjia) – estratti
(Red Star) – estratti
Krokodil
Cuba
Revolucion
Hoy
Verde Olivo (25-11-1962, Anno III, n. 47)
Italia
Il Corriere della Sera
Il Corriere d’Informazione
L’Unità
Il Paese
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La Nazione
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Il Tempo
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Questitalia
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La Consulta italiana per la pace (numero unico; maggio 1962)
Il Mulino
Il Verri
UK (Regno Unito)
Daily Mirror
Daily Telegraph (+ Sunday Telegraph)
Daily Worker
Daily Mail
The (Manchester) Guardian
The Times (+ The Sunday Times)
Observer
The Economist
Encounter
New Statesman
New Scientist
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Le Monde
Le Figaro
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Les Temps Modernes
Le Figaro littéraire
L’Express
Paris Match
Germania Ovest
Der Kurier (Berlino Ovest)
Die Welt
Frankfurter Allgemeine
Süddeutsche Zeitung (25-10-1962)
Germania Est
Berliner Zeitung (Berlino Est)
Neue Deutschland
Ghana
Daily Graphic
Ghanian Times
Cile
El Mercurio
El Siglo
Giappone
Japan Times
Fonti secondarie
Volumi
Sulla metodologia della ricerca storica
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scorrono sulle pagine del Corriere, a cura di G. Scirocco, pp. 301-503).
Giornalismo italiano e vita internazionale, a cura di S. Romano, Jaca,
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Oxford University Press, 1990.
Articoli
***
Cinegiornali
Film
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Kubrick, USA-UK, 1963 (film).
Inside ‘Dr. Strangelove – or How I learned to stop worrying and love the
Bomb’, Naylor, USA, 2000 (documentario sul film).
Fail-Safe, S. Lumet, USA, 1964.
La rabbia, P.P. Pasolini, G. Guareschi, Italia, 1963.
Seven days in May, J. Frankenheimer, USA, 1964.
Soy Cuba, M. Kalatozov, URSS – Cuba, 1964.
Soy Cuba – Il mammut siberiano, V. Ferraz, Brasile, 2004 (documentario
sulla realizzazione del film Soy Cuba).
Documentari
The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara, E.
Morris, USA, 2003.
Vasilij Arkhipov, G. Saponara (RaiEducational – La Storia siamo noi),
Italia, 2005.
The man who saved the world (Secret of the dead – Bedlam Productions),
UK, 2012.
Murge, il fronte della Guerra Fredda, F. Galatea (Italia, 2012),
visualizzabile al sito:
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a40f6f3b-c8d4-
43e9-a248-e6f6d0c05302.html?refresh_ce
CNN Cold War – Cuba 1959-1962, CNN, 1998.
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Audio
http://millercenter.org/scripps/archive/presidentialrecordings/kennedy/1962/
10_1962 (Miller Center, University of Virginia. Database delle clip
audio delle sessioni quotidiane dell’ExComm e relative trascrizioni tratte
da The Presidential recordings.)
www.cubacrisis.net (sito a cura del Memorial de Caen)
www.italia-
cuba.it/associazione/mostre/crisi%20dei%20missili/nuova_pa.htm
(Mostra dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, esponente
materiale dell’Archivio del Lavoro di Milano)
http://avalon.law.yale.edu/subject_menus/msc_cubamenu.asp (275
documenti sulla CMC – a cura della Yale Law School)
http://dosfan.lib.uic.edu/usia/abtusia/commins.pdf (USIA: A
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www.cubanmissilecrisis.org/ (buon sito introduttivo sulla CMC, realizzato
dall’Harvard University’s Belfer Center for Science and International
Affairs in collaborazione con i produttori del film Thirteen Days)
www.cnn.com/SPECIALS/cold.war/episodes/10 (CNN Cold War Series –
materiali interattivi)
www.mtholyoke.edu/acad/intrel/cuba.htm (Mount Hoyloke College –
database di documenti sulla CMC)
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/ (Oral history interviews
realizzate dal NSA per la CNN Cold War Series)
www2.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/docs.htm (documentazione a
cura del NSA)
http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/2317931.stm (Missile crisis: Your
memories)
www.adst.org (trascrizioni complete delle interviste realizzate per la
Foreign Affairs Oral History Collection – Association for Diplomatic
Studies and Training – Lauinger Library, Georgetown University,
Washington, DC – dalla homepage, scegliere Oral History – Frontline
Diplomacy)
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/chron.htm (Cronologia
dettagliata della CMC – a cura del NSA)
www.youtube.com/watch?v=phpe0DsisbY&feature=related – Watson
Institute for International Studies – The Choices program
(videointervista a Sergeji Khrushchev)
http://roosevelt.nl/topics/presentatie_on_cuba_final.pdf CUBA: A bottom-
up perspective. Roosevelt Studies Center (documenti sul SANE e la
CMC)
www.vega.org.uk/video/programme/219 (videointerviste a Joseph Rotblat,
2002, 2005)
http://sounds.bl.uk/Oral-history/Science/021M-C0464X0017XX-2800V0
Interviste audio a Joseph Rotblat (British Library- Oral history of British
Science, 2000-2007)
http://cloudsovercuba.com/ Documentario interattivo, USA, 2012
www.wilsoncenter.org/index.cfm?
topic_id=1409&fuseaction=va2.browse&sort=Collection&item=Cuban
%20Missile%20Crisis (documenti sulla CMC – a cura del CWHIP –
Cold War International History Project)
Legenda abbreviazioni
This work shows the Cuban Missile Crisis from a different perspective. The most dangerous
nuclear crisis has been widely and accurately studied, but its transnational nature, and its socio-
cultural dimension still remain largely unknown. This study aims to provide a contribution in this
direction.
Based on more than 7 years of research conducted in the archives of several countries (US, UK
and more), the book also makes extensive use of the international press of those days, complemented
by selected oral history interviews.
It argues that the public showdown between the US and the USSR constituted a global experience,
as the fear of a nuclear escalation ignited reflections, demonstrations and repercussions all over the
world, with different intensity and color). The global nature of the crisis is highlighted in the Preface
chapter, applying theories by Fernand Braudel and Marshall McLuhan. Part One provides a detailed
account of the crisis’ events. Part Two then turns to their perceptions, both on a political and socio-
cultural level, showing the interconnections between the two spheres. Such approach is applied here
to two national contexts (US, Italy) and three transnational categories of observers (political thinkers,
religious figures, scientists).
Indice dei nomi
N.B.: Non sono inclusi nell’elenco i nomi citati come autori di testi (in bibliografia e nelle note).
Sono invece presenti laddove inseriti nel discorso (es. non: MARTELLINI , Fiori nei cannoni, p. 1; ma
sì: «…come mostra Martellini …»).
N.B.: Non sono inclusi, per l’altissimo numero di occorrenze che avrebbe reso inutile un loro elenco,
John F. Kennedy, Nikita Kruscev e Fidel Castro.
A
Abrams, E., 456 n, 514 n
Acheson, D., 63, 64, 71, 101, 126, 401 n, 403 n, 419 n, 468 n, 506 n,
507 n
Adams, F., 442 n
Adams, K., 209, 445 n, 524 n
Adenauer, K., 74, 112, 287, 292, 293, 383, 405 n, 471 n
Adler, M., 195
Agostino (S.), 342
Aires da Cruz, J., 254
Alarico, 342
Aleksandrov, P. 371
Alekseev, A., 37, 412n
Alessio I, 251, 252, 253, 453 n
Alford, M., 112, 414 n, 415 n
Aliberti, G., 12, 390 n
Alicata, M., 298, 352, 469 n
Allende, S., 383
Allison, G., 10, 389 n
Almeida, J., 84
Almirante, G., 305, 322
Almond, G., 388
Alphand, H., 134
Alsop, J., 150, 151, 197, 424 n, 425 n, 441 n
Alsop, S., 153, 425 n, 426 n, 470 n
Ambrosini, S., 476 n, 491 n
Anderson, J.W. (ammiraglio), 70
Anderson, R.(maggiore), 109
Andreotti, G., 109, 278, 279, 282, 283, 284, 302, 322, 352, 462 n, 463
n, 464 n, 465 n
Andrew, C., 392 n
Antonio, M., 342
Antonioni, M., 334, 337, 480 n
Aragones, E., 50
Arboleya, J., 402 n
Ardizzone, G., 304, 305, 306, 309, 310, 332, 472 n, 473 n
Arendt, H., 246, 247, 248, 452 n
Argan, G.C., 337
Aristarco, G., 337
Arkhipov, V., 113, 114, 126, 234, 414 n, 415 n
Arkhipova, O.G., 414 n
Arnaudi, C., 309
Aron, R., 138, 238, 239, 240, 241, 242, 249, 450 n, 451 n
Aronson, J., 440 n
Augier, A., 472 n
B
Balducci, E., 270, 311
Baldwin, J., 179, 180, 188, 189, 435 n,
Ball, G., 60, 61, 64, 81, 101, 104, 105, 110, 127, 154, 222, 400 n, 405
n, 409 n, 413 n, 430 n, 462 n, 475 n
Barca, L., 298
Barraclough, G., 13
Bartlett, C., 153, 426 n, 470 n
Basso, L., 290, 343, 344
Bates, D., 181, 436 n
Batista, F., 35, 36, 65, 324
Battista, G. 332
Bayo, A., 325
Beethoven, L., 446 n
Ben Bella, A., 313
Bennett, J.C., 456 n, 457 n, 458 n
Bensi C., 291
Berio, L., 334
Berlinguer, E., 298, 334, 351
Berlusconi, S., 484 n
Bernabei, E., 279, 280, 281, 282, 283, 284, 302, 314, 463 n, 464 n, 465
n, 466 n, 474 n
Bernal, J.D., 366, 372, 373, 379, 382, 489 n
Berrigan, D., 459 n
Berrigan, P., 459 n
Beschloss, M., 44, 158, 182, 397 n, 400 n, 403 n, 426 n
Betancourt, R., 120
Bettiol, G., 297
Bianchi, H., 280
Bishop, E., 204
Blanton, T., 114, 419 n
Blight, J., 124, 220, 418 n
Block, H. (Herblock), 386
Bo, C., 305, 337
Bobbio, N., 332
Bohlen, C., 468 n
Bolivar, S., 35
Bolshakov, G., 46, 148, 400 n
Born, M., XIII, 368, 369, 488 n
Boyer, P., 430 n
Branch, T., 427 n
Brandt, W., 44
Braudel, F., XI, 8, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19, 135, 391 n
Brauer, J.C., 457 n
Braun, W.v., 207, 327, 374, 375, 379, 444 n, 490 n
Brenner, Ph., 418 n
Breznev, L., 83
Brosio, M., 451 n, 461 n, 469 n
Brown, E., 106
Brown, H., 359, 367, 485 n,
Brown, J., 217, 446 n
Brunner, E., 262
Bryce, J., 222, 451 n
Brzezinski, Z., 236, 237, 250, 381, 382, 448 n, 450 n
Bundy, M.G., 53, 56, 59, 60, 61, 71, 73, 104, 107, 108, 110, 116, 122,
124, 127, 151, 158, 159, 187, 236, 238, 242, 278, 286, 287, 350,
361, 363, 387 n, 393 n, 398 n, 399 n, 400 n, 404 n, 408 n, 409 n,
410 n, 413 n, 417 n, 426 n, 428 n, 451 n, 461 n, 486 n
Burdick, E., 195, 443 n
Burroughs, W.S., 203
Bush, G.H. (Sr), 258
Bush, G.W. (Jr), 457 n
C
Caen, H., 195
Calamandrei, P., 344
Calvino, I., 334, 448
Cantoni, R., 305
Capehart, H., 150
Capitini, A., 329, 334, 335, 337, 345, 346, 381, 471 n, 479 n, 480 n,
483 n, 484 n
Caradonna, G., 468 n
Cardinale, I., 281
Cardona, M., 120, 416 n
Carocci, A., 337, 345, 480 n, 483 n
Carroll, C.F., 264
Casardi, A., 275
Casey, S., 448 n
Castro, R., 84
Catledge, T., 440 n
Cattani, A., 461 n, 464 n, 469 n
Cesare, G., 342, 453 n
Chamberlain, N., 42, 187, 228, 437 n
Chamberlain, O., 365, 487 n
Chertok, B., 370, 382
Chiaromonte, N., 348, 349, 350, 351, 382, 484 n
Chrystall, A., 392 n
Churchill, W., 25
Cicognani, A. G., 314, 474 n
Clancy, T., 166
Clausewitz, K.v., 232
Clay, L., 44
Clifford, C., 151
Clifton, C., 439 n
Cockroft, J.D., 367
Cocteau, J., 341, 482 n
Colby, K.M., 195
Congar, Y., 265
Coppi, S., 330
Cossutta, A., 298, 473 n
Cousins, N., 14, 122, 126, 249, 256, 463 n
Covelli, A., 468 n
Craxi, B., 285, 290, 291, 467 n
Cronkite, W., 192, 395, 422 n, 438 n
Cushing, R., 264, 431 n
D
Dal Pra, M., 305, 334, 480 n
Danton, G.J., 212
Davis, A., 188, 189, 308, 435 n
Davis, M., 217
De Filippo, E., 337
De Gasperi, A., 335
De Gaulle, C., 44, 74, 112, 136, 287, 292, 293, 383, 405 n, 468 n, 471
De Martino, F., 287, 288, 294, 466 n
De Seta, V., 334
Dell’Acqua, A., 283, 464 n
Della Mea, I., 306
Demichev, P., 418
Dessì, G., 337
Di Nolfo, E., 36, 143, 292, 423 n
Diem, N.D., 425 n
Dillon, D., 109, 149
Dirksen, E., 130, 420 n
Dobbs, M., 48, 139, 152, 220, 393 n, 402 n, 408 n
Dobrynin, A., 24, 83, 89, 110, 115, 124, 148, 192, 193, 206, 278, 284,
385, 410 n, 411 n, 412 n, 413 n, 414 n, 444 n, 462 n
Dossetti, G., 459 n
Drake, F., 86, 407 n
Dryfoos, O., 440 n
Ducci, R., 275, 276
Dun, A., 457 n
Dungan, R., 458 n
Dylan, B., 186, 217, 219, 220, 221, 446 n, 447 n
E
Einstein, A., 260, 360, 366
Eisenhower, D., 13, 37, 38, 41, 48, 53, 56, 61, 62, 73, 74, 97, 121, 205,
233, 258, 268, 277, 286, 347, 365, 366, 395 n, 404 n, 466 n, 491 n
Enriques Agnoletti, E., 344
Evangelista, M., 388
Evtusenko, E., 30, 340, 383
F
Fanfani, A., XII, 94, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284,
286, 288, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 300, 301, 302, 305,
310, 312, 313, 314, 321, 322, 329, 330, 351, 352, 461 n, 462 n, 463
n, 464 n, 465 n, 466 n, 467 n, 468 n, 469 n, 470 n, 471 n, 476 n,
484 n
Fantasia, M., 478 n
Fedorov, E., 367
Feliksov, A. (agente Fomin), 102
Fermi, E., 360, 364, 376
Ferretti, L., 293
Festa Campanile, P., 337
Fiore, T., 329, 479 n, 485 n
Fisher, L., 455 n
Fofi, G., 345, 483 n
Ford, G., 242
Fornari, G., 275, 276
Forrestall, M., 426 n
Fortini, F., 309, 337
Foster, W.C., 378, 491n
Franck, C., 466 n
Franco, F., 287, 307
Frankel, M., 73, 194, 404 n, 419 n
Frankenheimer, J., 206
Franqui, C., 118, 415 n
Freedman, L., 48, 154, 278, 403 n, 412 n
Fromm, E., 332, 445 n
Frost, R., 201, 202, 203, 225, 442 n
Fry, F., 454 n, 455 n
Fulbright, J.W., 43, 74, 397 n
Fursenko, A., 2, 158, 426 n
G
Gaddis, J.L., 1, 3, 33, 124, 209, 387 n
Gagarin, Y., 40
Gandhi, M., 183, 329
Garibaldi, G., 472 n
Genta, O., 278, 462 n
George, A., 154, 170, 174, 182, 194, 393 n, 427 n, 433 n, 437 n
Gerstle, G., 448 n
Gesualdi, M., 483 n
Geymonat, L., 305, 309
Gilpatric, R., 45, 127, 413 n
Ginsberg, A., 203, 220, 350, 442 n
Giovanni XXIII, 93, 145, 253, 255, 256, 266, 270, 273, 280, 282, 283,
311, 312, 313, 314, 331, 361, 453 n, 458 n, 463 n, 464 n, 474 n
Giplin, R., 488 n, 491 n
Giradoux, J., 348
Gitlin, T., 185, 186, 188, 189, 308, 437 n
Glaser, D.A., 487 n
Godunov, B., 83
Goldwater, B., 160
Gonella, G., 297
Gorbacev, M., 31, 374,
Gorky, M., 442 n
Graham, B., 257, 258, 456 n
Graham, P., 73, 404 n
Granger, L., 178
Granzotto, G., 475 n
Graves, R., 400 n
Grechko, S., 413 n
Greenspan, N., 488 n
Grewe, W., 134
Gribkov, A., 53, 118, 139, 405 n, 412 n, 413 n, 422 n
Gromyko, A., 66, 67, 69, 76, 402 n
Guareschi, G., 340
Guerriero, A., 315, 316, 322
Guevara, E., 35, 50, 84, 119, 120, 138, 383, 395 n, 398 n, 416 n, 417 n,
418 n
Guillen, N., 383
Gurion, B., 313
Gutenberg, J., 17
Guttuso, R., 310, 334, 335, 337, 351, 381, 480 n, 482 n
H
Hack, R., 155
Halifax, L., 42
Hall, E., 392 n, 392 n
Halpern, S., 406 n
Hammarskjold, D., 409 n
Hare, R., 104
Harper, J.L., XIII, 387 n, 421 n
Harriman, A., 96, 97
Harrington, D.S., 165, 430 n
Harris, J. B., 433 n
Harris, L., 428 n
Harvey, W.K., 402 n, 410 n
Height, D., 181
Hennagan, T., 179
Henriksen, M., 185
Herblock (Herbert Block), 386
Hero, A.O., 431 n, 456 n
Hikmet, N., 384
Hilsman, R., 107, 412 n
Hines, J., 83, 217, 407 n
Hitler, A., 38, 43, 44, 192, 299, 374, 407 n, 437 n, 458 n
Hobsbawm, E., 12, 390 n, 395 n
Hoenikker, F., 209
Hoffman, A., 189, 438 n
Holifield, C., 171
Hooft, V., 254, 454 n
Hoover, J.E., 121, 154, 155, 427 n
Hoppe, A., 196, 197, 210
Hughes, S., 186, 187, 189, 441 n
I
Ingrao, P., 293, 334
Isaacson, W., 244
J
James, A., 478 n
Jeffers, R., 202
Jemolo, A.C., 334, 346, 347, 484 n
Johnson, D., 123, 143, 389 n, 418 n, 492 n
Johnson, L.B., 43, 74, 110, 121, 151, 210, 237, 413 n, 445 n
Johnson, M.S., 424 n
Judt, T., 6, 413 n
K
Kafka, F., 286
Kahn, H., 205, 207, 231, 232, 233, 234, 235, 332, 444 n, 449 n
Keating, K., 150
Kennan, G., 150, 424 n
Kennedy, J.P. Jr., 37, 98
Kennedy, Jacqueline, 26, 112, 116, 153, 214, 394 n, 415 n, 426 n
Kennedy, R. (RFK), 2, 8, 25, 46, 47, 48, 54, 55, 56, 57, 59, 60, 64, 65,
66, 71, 72, 81, 82, 83, 89, 90, 98, 99, 102, 103, 104, 106, 107, 108,
109, 110, 111, 112, 115, 121, 125, 128, 164, 181, 206, 271, 278,
284, 393 n, 394 n, 399 n, 400 n, 401 n, 406 n, 410 n, 411 n, 412 n,
413 n, 414 n, 417 n, 425 n, 427 n, 430 n, 444 n, 460 n, 462 n, 463 n
King, M.L., 177, 178, 180, 183, 187, 225, 258, 262, 427 n, 434 n, 437
n, 457 n
Kirillov, A.S., 370
Kissinger, H., 207, 238, 242, 243, 244, 250, 278, 281, 382, 440 n, 444
n, 451 n, 452 n, 463 n
Kistiakowski, E., 365, 487 n
Kistiakowski, G., 366
Knox, W.E., 88, 90, 408 n
Kohler, F., 82
Komer, R., 286, 287
Konev, I., 45, 397 n
Kornienko, G., 410 n, 418 n
Kozyrev, S., 280, 294
Kreisky, B., 412 n
Kristol, I., 235, 246, 250
Kubrick, S., 185, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 225, 432 n, 444 n, 445
n, 449
Kuklick, B., 249
Kuznetsov, V., 124, 127, 134
L
La Pira, G., 297, 301, 310, 311, 312, 313, 314, 335, 344, 351, 473 n,
474 n
Labedz, L., 236
Lajolo, D., 472 n, 475 n
Lansing, S., 184
Lapp, R.E., 364, 379, 486 n
Lawler, J.G., 460 n
Lebow, R., 151
Lehrer, T., 221
LeMay, C., 67, 68, 69, 70, 71, 88, 102, 106, 111, 121, 207, 410 n, 414
n, 424 n, 470 n
Lenin, V., 115, 213, 241
LeoGrande, W., 224, 448 n
Leonard, D., 423 n
Leonov, A., 369
Leonov, N., 126
Lercaro, G., 265, 459 n
Levi, C., 333, 334, 335, 337, 346, 351, 480 n, 483 n
Levillain, P., 143
Libertini, L., 290
Lichtenberger, A., 165, 257
Lifton, J., 204, 205, 225, 381, 443 n
Lincoln, A., 121
Lincoln, E., 25
Lippmann, W., XII, 93, 105, 192, 224, 316, 343, 381, 411 n, 412 n,
439 n
Lister, G., 289, 290, 291, 463 n, 467 n
Lizzani, C., 337
Lowell, R., 203, 204, 225, 442 n, 443 n
Lowry, L., 181
Lussu, E., 288, 293, 334, 466 n
Luzzatto, L.M., 290
Lynd, A., 186
M
Mac Intyre, J.F., 431 n
MacArthur, D., 403 n
Maccari, M., 337
Machiavelli, N., 126
Macmillan, H., 42, 79, 91, 92, 93, 98, 112, 120, 156, 253, 292, 301,
367, 369, 421 n, 467 n, 468 n, 470 n, 471 n, 488 n
Mailer, N., 186, 189, 212, 213, 214, 215, 216, 233, 249, 342, 351, 382,
446 n, 490 n
Malagodi, G., 468 n
Malcolm X, 180
Malenkov, G.M., 394 n
Malinovsky, R., 45, 50, 132, 390 n
Manzù, G., 337
Mao (Tze Tung), 119, 238, 460
Marcuse, H., 189
Mariani, A., 462 n, 478 n
Maritain, J., 272, 461 n
Martelli, E., 462 n, 466 n
Marti, J., 35, 472 n
Martin, E., 60
Marx, K., 17
Maslennikov, I., 114
Mattei, E., 304
Matteotti, G., 39
Maultsby, C., 106
May, E., 132, 133, 406 n, 409 n, 465 n
Mays, B., 178
Mazzolari, P., 270
McCone, J., 47, 51, 89, 116, 130, 170, 368, 398 n, 399 n, 423 n
McKinley, W., 395
McLuhan, M., XI, 17, 18, 392 n, 393 n
McNamara, R. (McN), 48, 58, 59, 60, 61, 66, 71, 89, 104, 106, 108,
109, 111, 112, 122, 125, 126, 127, 139, 151, 190, 233, 278, 279,
282, 302, 362, 385, 390 n, 404 n, 405 n, 406 n, 410 n, 412 n, 413 n,
414 n, 419 n, 422 n, 462 n, 463 n, 464 n, 465 n
McWilliams, C., 442 n
Mechini, R., 302, 471 n
Meiklejohn, A., 195
Melman, S., 442 n
Merton, T., 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 379, 382, 459 n,
460 n, 461 n, 491 n
Mikoyan, A., 49, 411 n, 417 n, 418 n
Mikoyan, S., 124, 419 n
Milani, L., 270, 345, 483 n
Miller, S., 457 n
Monnet, J., 383
Montanelli, I., 323, 324, 325, 382
Montesi, W., 335, 481 n
Montini, G.B., 265, 459 n
Moore Jr, B., 187, 188, 350
Moravia, A., 334, 335, 337, 351
Morgan, B., 442 n
Morgan, H., 86, 407 n
Morgenthau, H.J., 244, 245, 246, 248, 250, 447 n, 451 n, 452 n
Morin, E., 16
Moro, A., 294, 297
Moroni, P., 472 n
Morrison, P., 372
Moyers, B., 151
Mozart, W.A., 446 n
Mozgovoi, A., 414 n
Mueller, J., 448 n
Musatti, C., 305
Muste, A.J., 183, 258, 259, 260, 442 n, 457 n
N
Naftali, T., 2, 158, 407 n, 426 n
Napoleone III, 347
Nasser, G.A., 32, 383
Nenni, P., 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 467 n, 476 n, 477 n, 482
n
Neruda, P., 384
Neumann, R., 290
Neustadt, R., 172, 433 n
Newman, J.R., 210, 448 n
Niebuhr, R., 192, 262, 382, 448 n, 458 n
Nikodim, 252, 254, 453 n
Nitze, P., 109, 127
Nixon, R., 26, 36, 37, 150, 179, 196, 242, 258, 406 n, 424 n
Nkrumah, K., 383
Nobel, A., 211
Nono, L., 333, 334, 480 n
Notarangelo, D., 479 n
Novotny, A., 8, 402 n, 411 n, 420 n, 423 n, 424 n
Nuti, L., 3, 284, 286, 292, 387, 485 n
O
O’Donnell, K., 44, 72
Obama, B., 10, 262, 389 n, 391 n
Ochs, P., 217, 219, 446 n
Oppenheimer, R.J., 375, 376, 379
Orlans, H., 363
Orlov, V., 113, 114, 414 n, 415 n
Ormsby-Gore, D., 72, 73, 83, 134, 223, 249, 406 n
Orozco, M., 65
Ortega, D., 400 n
P
Paci, E., 332, 337
Pajetta, G., 334, 480 n
Pappagallo, O., 469 n
Parri, F., 334
Pasolini, P.P., 212, 334, 335, 337, 338, 339, 340, 351, 484 n
Paterson, T., 2
Pauling, L., 376, 377, 378, 379, 382, 448 n, 483 n, 489 n, 491 n
Payne, E.A., 454 n
Pella, G., 297
Pelly, Th., 150
Penkovski, O., 397 n, 399 n
Peròn, J.D., 323
Perrone, N., 304
Perroux, F., 137, 422 n
Pertini, S., 294
Petrara, O., 478 n
Petri, E., 337
Picasso, P., 384
Piccioni, A., 275, 276, 279, 284, 317, 334, 335, 351, 463 n, 464 n, 465
n, 470 n, 480 n, 481 n
Pieraccini, G., 286, 287
Pinault, M., 378
Piovene, G., 333, 334
Pipes, R., 236
Pleshakov, C., 125
Pliyev, I., 109, 413 n
Pollard, W.G., 257
Power, T., 88
Powers, D., 112, 207, 415 n
Preda, G., 480 n, 481 n
Prezzolini, G., 341, 342, 344, 347, 447 n, 482 n
Prokov, J., 410 n
Purcell, E.M., 487 n
Putin, V., 484 n
Q
Quaroni, P., 464 n
Quasimodo, S., 337
R
Rabinowitch, E., 366, 372, 379, 485 n, 488 n
Rachmaninoff, S., 217
Rago, R., 309
Ramsey, M., 256
Randolph, P., 112, 178, 181
Raskin, M., 361
Reed, J., 8
Reeves, R., 387
Reeves, T.C., 387
Reinhardt, F., 275, 287, 292, 461 n, 463 n, 476 n
Remond, R., 251
Reston, J., 73, 192, 404 n
Ricciardetto (vedi Guerriero, A.)
Richter, J.C., 133
Richter, S., 311, 474 n
Roa, R., 416 n
Roberti, G., 294
Roberts, F., 133
Robison, J., 179
Rogers, W., 410 n
Romano, S., 143, 315, 440 n
Romualdi, P., 485 n
Roosevelt, F., 150, 158, 193,
Roosevelt, T., 162, 429 n, 435 n
Rose, K.D., 169
Rosenau, J., 388 n
Rosi, F., 337
Rossanda, R., 306, 308, 389 n, 473 n, 484 n
Rostow, W., 439 n
Rotblat, J., 365, 366, 367, 371, 379, 381, 487 n, 488 n
Rovere, R.H., 154, 193, 400 n, 426 n
Rusk, D., 24, 42, 58, 66, 67, 71, 72, 79, 80, 81, 89, 90, 99, 101, 127,
129, 134, 158, 258, 385, 405 n, 411 n, 413 n, 414 n, 416 n, 420 n
Russell, B., XII, XIII, 90, 91, 96, 130, 145, 155, 183, 255, 311, 316,
332, 337, 366, 367, 368, 369, 371, 381, 382, 427 n, 481 n, 483 n,
487 n, 488 n
Russell, R., 74, 75
Russo, C., 275, 276, 281, 282, 283, 293, 330, 331, 461 n, 463 n, 464 n,
465 n, 469 n, 470 n, 480 n
Russo, M., 330, 480 n
Rustin, B., 179
S
Sakharov. A., 373, 374, 379, 489 n, 490 n
Salacone, A., 302, 469 n, 471 n
Salinger, P., 24, 71, 121, 429 n
Salvatorelli, L., 323, 477 n
San Roman, R., 401 n
Santi, F., 470 n
Sapegno, N., 337
Saponara, G., 414 n, 415 n
Saragat, G., 321, 476 n
Sartre, J.P., 238, 395 n, 481 n
Savitsky, V., 113, 114, 414 n, 415 n
Sayre, F., 260
Scaglia, G.B., 335, 337
Scalfari, E., 305
Scali, J., 102
Scelba M., 297
Schelling, T., 124, 418 n
Scherer, P., 458 n
Schiotz, F., 455 n
Schlesinger Jr, A., 1, 37, 38, 96, 125, 133, 149, 150, 152, 153, 154,
236, 258, 262, 280, 281, 282, 283, 286, 287, 289, 290, 311, 390 n,
394 n, 396 n, 412 n, 419 n, 424 n, 426 n, 463 n, 464 n, 465 n, 466
n, 487 n
Schuyler, G., 180
Schwartz, R., 220
Schweitzer, A., 384
Scott, L., 5, 388 n
Scott, M., 183
Seaborg, G.T., 378, 491n
Seborga, G., 333, 480 n
Segni, A., 277, 278, 281, 287, 295, 296, 297, 310, 352, 461 n, 463 n,
465 n, 469 n, 471 n
Segre, B., 334
Segrè, E., 364, 365
Sennett, R., 247
Shatrov, M., 30
Silone, I., 348
Sinatra, F., 23
Sirinelli, J.F., 4
Smith, D.M., 315
Smith, E.T., 395 n
Smith, H.K., 174
Smith, W., 137
Snodgrass, W.D., 202
Soffici, A., 482 n
Soldati, M., 337
Soper, D., 255, 273, 455 n
Sorensen, T., 1, 2, 25, 56, 63, 67, 72, 102, 108, 110, 115, 116, 125,
183, 217, 385, 398 n, 399 n, 401 n, 402 n, 404 n, 412 n, 413 n, 415
n, 426 n
Soutou, G.H., 4, 242, 382, 452 n
Spaak, P.H., 383
Spadolini, G., 347, 484 n
Spellman, F., 431 n
Spinella, M., 309
Spinelli, A., 343
Spock, B., 173, 433 n, 458 n
Stalin, J., 29, 30, 31, 33, 38, 41, 251, 299
Steinbeck, J., 210, 211, 225, 445 n, 448 n,
Stern, I., 216, 446 n
Stern, S., 394 n, 403 n, 407 n, 413 n, 417 n, 419 n, 465 n
Stevenson, A., 56, 63, 72, 78, 95, 96, 145, 152, 153, 154, 182, 189,
191, 207, 277, 281, 282, 283, 311, 313, 314, 403 n, 409 n, 426 n,
445 n, 464 n, 465 n, 469 n, 470 n, 474 n, 476 n
Stone, I.F., 438 n, 442 n
Sweeney, W., 403 n
Sylvester, A., 193, 194, 439 n
Symington, J., 430 n
Szilard, L., XIII, 360, 361, 362, 363, 364, 379, 419 n, 486 n, 491 n
T
Tambroni, F., 477 n
Taubman, W., 133, 411 n
Taviani, P.E., 305
Taylor, M., 69, 71, 102, 109, 140, 378
Tchaikovsky, P.I., 446 n
Teller, E., 207, 375, 379, 444 n, 490 n
Terkel, S., 447 n
Terracini, U., 293
Thant, U, 94, 105, 117, 166, 182, 183, 189, 223, 251, 283, 311, 312,
313, 314, 368, 369, 370, 377, 390 n, 409 n, 411 n, 436 n, 464 n,
465 n, 469 n, 474 n, 488 n
Thomas, N., 442 n, 456 n
Thompson, L., 101, 108, 131, 412 n, 413 n, 421 n
Thompson, R., 416 n
Thoreson, J., 455 n
Tierney, D., 123, 143, 389 n, 492 n
Tillich, P., 261, 381, 448 n, 456 n, 457 n, 458 n
Tito, J., 383
Tocqueville, A., 244
Togliatti, P., XIII, 290, 298, 299, 306, 308, 310, 318, 320, 351, 469 n,
470 n, 479 n, 480 n
Tojo, H., 56, 399 n
Tollefson, T., 150
Tolstoj, L., 442 n
Topchiev, A., 367, 370, 371, 379, 488 n, 489 n
Treccani, E., 309
Trohan, W., 150, 424 n
Trollope, A., 412 n
Troyanovsky, O., 51, 115, 411 n
Truman, H., 63, 64, 121, 150, 193, 258, 315, 360, 403 n, 424 n
Tubby, R., 254, 454 n
Tuchman, B., 408 n
Tyler, W., 287
U
Udall, S., 201, 202, 203
Ulam, A., 237, 238, 450 n
Ulbricht, W., 42, 43
Ungaretti, G., 337
Urey, H.C., 487 n
V
Vagenin, V., 414 n
Vaisse, M., 5, 388 n
Van Ronk, D., 220
Vecchietti, T., 476 n
Vedova, E., 333, 480 n
Vera, P., 65, 402 n
Vidakovic, B., 416 n, 417 n
Vigorelli, G., 481 n
Visconti, L., 333
Vittorini, E., 309, 333, 334
Volontè, G.M., 334
Vonnegut, K., 209, 210, 225, 445 n
W
Wadsworth, J., 365
Walker, A., 208
Wallace, H. A., 150, 424 n
Ward, J., 301, 325, 468 n, 469 n
Weart, S., 171
White, M., 154, 426 n
Wiesner, J., 367, 378, 491n
Wilkins, R., 180
Williams, R.F., 176, 434 n
Williamson, F., 282,
Wilson, B., 196
Wilson, D., 116, 415 n
Wilson, H., 427 n
Wilson, W., 161, 193, 404 n
Wisskopf, V., 362
Wyszynski, S., 265
Z
Zampa, L., 337
Zavattini, C., 328, 332, 333
Zelikow, Ph., 132, 133, 406 n, 409 n, 465 n
Zinn, H., 204
Zorin, V., 95, 96, 311, 312, 313
Zorzoli, G.B., 332, 333
Zubok, V., 125
Quaderni di storia
serie diretta da Fulvio Cammarano