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Ladri di Biblioteche

Questo ebook è stato condiviso per celebrare il

Centenario della Rivoluzione russa

1917-2017
Quaderni di Storia

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e controllo sulle informazioni contenute nel testo, sull’iconografia e sul rapporto che intercorre
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sappiamo che è quasi impossibile pubblicare un libro del tutto privo di errori o refusi. Per
questa ragione ringraziamo fin d’ora i lettori che li vorranno indicare alla Casa Editrice.

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In copertina: Vignetta del disegnatore gallese Leslie Gilbert Illingworth, pubblicata sul
quotidiano britannico «Daily Mail» il 29 Ottobre 1962 (p. 8). La didascalia fa dire a Kruscev:
«Ok, Mr. President, let’s talk» (Ok, Sig. presidente, parliamo).

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Indice

Ringraziamenti

Prefazione, di John L. Harper

Introduzione

Premessa. Tra Braudel e McLuhan: una nuova chiave interpretativa


per la crisi dei missili di Cuba

Parte prima – EVENTI

1. Prologo

2. Verso il climax. Cenni sulla guerra fredda 1956-1962

3. «Il nodo della guerra». I giorni della crisi dei missili di Cuba

4. Capire la crisi. Considerazioni sugli eventi

Parte seconda – PERCEZIONI E REAZIONI

1. Dagli eventi alle reazioni

2. Stati Uniti d’America


La politica
L’opinione pubblica
La stampa
Gli intellettuali
Conclusioni
3. «Thinking about the unthinkable». Politologi
Conclusioni

4. Testimoni dell’apocalisse? Religiosi


Conclusioni

5. Italia
La politica
La stampa
L’opinione pubblica
Gli intellettuali
Conclusioni

6. Scienza e guerra atomica. Scienziati


Conclusioni

Conclusioni

Note
Fonti e bibliografia
English abstract
Indice dei nomi
Il mondo era attaccato a un filo.
Nikita S. Kruscev (discorso ai membri del
Presidium. Sera del 28 ottobre 1962)

La crisi dei missili di Cuba non fu solo il


momento più pericoloso della guerra fredda. Fu il
momento più pericoloso in tutta la storia umana.
Arthur M. Schlesinger Jr. (storico e consigliere di
Kennedy. «The Washington Post», 24 aprile 2006)

Sì che davvero fu tremendo, / […]


Ogni mattina, quando si aprivano gli occhi, /
venivano e dicevano a uno: Stanotte abbiamo
passato un pericolo terribile / eravamo sul punto
di termonuclearizzarci tutti nel pianeta. /
Uno si sentiva contento di aver raggiunto l’alba.
Roberto Fernandez Retamar (poeta cubano.
Sonata para pasar esos dìas y piano)
Ringraziamenti

La realizzazione di questo lavoro è durata oltre sette anni. Pur nelle


condizioni di ricerca precarie e difficili in cui essa si è quotidianamente
svolta, vi sono state alcune persone che hanno trovato il modo di aiutare il
progetto, almeno in qualche sua fase.
Tra gli storici, desidero ringraziare coloro che hanno letto e commentato
una delle progressive stesure. In ordine cronologico, Leopoldo Nuti (che
cinque anni fa lesse e annotò una prima versione); Alessandra Lorini e
Duccio Basosi (specialisti di storia cubana che mi hanno fornito entrambi
indicazioni puntuali e preziose per migliorare il testo); Giovanni Sabbatucci
(che mi ha dedicato tempo con grande disponibilità, leggendo i miei libri e
incoraggiandomi a pubblicarli); Elena Aga Rossi (per il generoso
apprezzamento e le indicazioni fornitemi); Silvio Pons (per le sue
impressioni relative al capitolo sull’Italia); il peer-reviewer anonimo della
collana (per il dettagliato feedback e i preziosi suggerimenti). E
naturalmente John Harper, per avermi onorato della sua prefazione.
Vorrei ringraziare inoltre, per la disponibilità manifestatami, il
vaticanista Gianfranco Zizola, il collega di studi americani Giacomo
Mazzei, il sociologo Alessandro Orsini, gli storici Giuseppe Conti, Carlo
Pinzani, Giovanni Orsina, Len Scott, Campbell Craig, David W. Ellwood e
Barry Carr.
Un ringraziamento collettivo va agli archivisti di centri di ricerca e
biblioteche che in tutti questi anni hanno sopportato le mie richieste di
materiale, anche quando consegnate sul filo dell’orario di chiusura (specie
al Centro Studi Americani di Roma, alla Library of Congress di Washington
e alla State Library of Victoria di Melbourne).
I ringraziamenti relativi a punti specifici del lavoro – non meno
importanti – li ho indicati invece in nota alle pagine corrispondenti.
Un ringraziamento speciale per il generoso sotegno a Luca Barone,
Francesco Campus, Andrea Carnevali, Aurelio e Ida Chiusano, Vittorio e
Marco Di Lullo, Lorenzo Dutto, Maurizio Fiorilla, Filippo Ghirelli,
Ruggero Longo, Michele e Silvia Malatesta, Matteo Motolese, Alberto
Pronti.

Dulcis in fundo, gli affetti. Non posso non ringraziare Stefania, che
durante la fase di revisione del testo ha sopportato con affettuosa pazienza
le mie sessioni di lavoro interminabili, senza neppure minacciarmi mai di
attuare, come forse le avrebbe suggerito Kennedy, una «full retaliatory
response»…
Infine, che dire dei miei genitori? Hanno fatto tanto che non si può
neanche cominciare a dirlo. Il minimo che possa fare è dedicare questo
lavoro a loro.

Roma, ottobre 2014


Prefazione

Questo studio mostra la Crisi dei missili di Cuba da una prospettiva


radicalmente diversa da quella cui siamo abituati. La più pericolosa crisi
nucleare mai verificatasi è stata indagata molto e assai in dettaglio, ma la
sua dimensione socio-culturale e la sua natura transnazionale ci rimangono
ancora sostanzialmente sconosciute. Questo libro porta un contributo in
tale direzione.
La tendenza della più recente storiografia internazionale verso un
allargamento e una deamericanizzazione della prospettiva di studio della
crisi è del resto già visibile nella corposa raccolta di documentazione
internazionale curata dal Cold War International History Project (2012) o
nel recentissimo An International History of the Cuban missile crisis
(2014), cui l’autore stesso ha partecipato con un capitolo sulla reazione
italiana. Qui però egli mira a mostrare come il «braccio di ferro» nucleare
combattutosi in pubblico nell’ottobre 1962 tra gli Stati Uniti e l’Unione
Sovietica (e tra i due uomini che ne erano i leader) abbia costituito una
esperienza globale. In quei giorni infatti la prospettiva concreta di
un’escalation nucleare generò riflessioni, manifestazioni e ripercussioni in
tutto il mondo (seppur naturalmente con intensità diverse). Fu perciò
un’esperienza tanto unica quanto rivelatrice: unica giacché nulla di simile
era mai accaduto prima, né fortunatamente è più accaduto dopo;
rivelatrice perché consente di comprendere aspetti e dinamiche che senza di
essa non sarebbero emersi con altrettanta chiarezza. L’ambizione di questo
libro quindi non è quella di «dir tutto» sulle reazioni e percezioni
internazionali della crisi, bensì quella di aprire una strada, mostrando
quanto potenzialmente proficua possa rivelarsi questa nuova prospettiva
d’indagine. A confermarlo vi è la ricchezza dei documenti inediti qui
presentati.
La Parte Prima offre una necessaria ricostruzione degli eventi (la cui
dettagliata conoscenza non è scontata da parte del pubblico italiano), non
priva tra l’altro di elementi nuovi. Essa inoltre rende il senso dell’incedere
veloce degli accadimenti di quei giorni.
La natura eminentemente globale della crisi di Cuba emerge sin dalle
pagine della Premessa, nelle quali l’autore applica a quell’episodio –
rivisitandole – le teorie di due autori classici quali Fernand Braudel e
Marshall McLuhan, uno storico modernista e un teorico dei media.
Particolarmente interessante in questo senso pare la sua individuazione di
una nuova struttura braudeliana propria dell’era termonucleare, che egli
definisce «globalizzazione del teatro di guerra». Con tutto quello che ne
consegue in termini di interdipendenza tra gli uomini e attenzione politico-
mediatica globale a certe controversie tra Stati che un tempo potevano
rimanere su scala solo continentale o regionale.
Di qui il suo riferimento successivo, al teorico dei media McLuhan e al
suo concetto di «villaggio globale». E di qui anche la centralità riservata
dall’autore alla stampa dell’epoca, sia come fonte che come uno degli
oggetti stessi dell’analisi. Lo spoglio di oltre un centinaio di testate
giornalistiche internazionali, delle più diverse provenienze geografiche e
colori politici, aiuta a comprendere i vari modi in cui gli eventi della crisi
di Cuba furono presentati all’opinione pubblica. E come la percezione di
quest’ultima ne fu influenzata. Ma è vero anche il contrario: a sua volta la
stampa spesso rispecchia la società cui si rivolge, ne fissa l’immagine, i
sentimenti prevalenti. Basterà leggere qui, nel capitolo sulle reazioni
statunitensi, come la compattezza pro-Kennedy dell’opinione pubblica
nazionale si ritrovi fedelmente nei quotidiani USA di quei giorni; o come al
contrario la cronica divisività politica italiana si rispecchi nel racconto
fortemente bipolare fornito dalla stampa conservatrice e da quella
progressista in merito ai medesimi accadimenti cubani.
Accanto all’opinione pubblica e ai media troviamo poi indagato
l’aspetto politico e quello culturale: la reazione alla crisi di politici e
diplomazie, ma anche quella di intellettuali ed artisti. Per poi scoprire tra
l’altro che le due sfere erano meno distanti di quanto si potesse pensare, e
che non mancarono, in quei giorni cruciali, reciproci tentativi di esercitare
influenza nel campo altrui.
(Basti pensare ai telegrammi inviati a Kennedy e Kruscev dall’anziano
matematico Bertrand Russell, cui entrambi rispondono pubblicamente; o
all’impatto apparentemente avuto da un articolo del columnist Walter
Lippmann sulla decisione di Kruscev di chiedere la rimozione dei missili
turchi; o ancora all’uso propagandistico di istituzioni culturali e religiose
da parte del Cremlino).
Uno degli obiettivi essenziali di questo libro sta appunto in questo: nella
volontà di presentare un quadro d’insieme, non settoriale, del modo in cui
determinate società reagirono alla crisi cubana. A tal fine all’autore ha
scelto di integrare approcci e documentazione di tipologie diverse: non solo
archivi governativi e dispacci diplomatici, ma anche telegrammi dei
cittadini e carteggi tra scrittori; non solo la stampa dell’epoca, ma anche
sue interviste a testimoni politici della crisi ancora in vita; non solo verbali
parlamentari ma anche analisi di politologi, petizioni di fisici, sermoni del
clero, versi e musiche composte in quei giorni. Perciò troviamo qui passi di
storia diplomatica, storia del giornalismo e storia culturale; ma anche di
«black history» (la reazione alla crisi degli afroamericani), di «gender
history» (la percezione della crisi tra le donne, in Italia e in USA), di storia
economica (la reazione della borsa di Wall Street) e di storia dei movimenti
studenteschi (i raduni nei campus americani, l’uccisione di uno studente
nelle manifestazioni di piazza a Milano).
Tutto questo per mostrare come una simile crisi (che l’autore definisce
«una sorta di ‘concentrato’» della Guerra fredda) abbia «toccato» le
società nel profondo (e possa perciò aiutarci a comprenderle).
Il caso dell’Italia in questo senso è esemplare, mostrando come un
Paese apparentemente solo spettatore della crisi ne sia risultato invece
fortemente coinvolto, se non altro per la presenza di missili nucleari nelle
Murge (che furono anche al centro di un probabile tentativo di mediazione
di Fanfani, qui ricostruito) e per le ripercussioni di quegli eventi sugli
equilibri di politica interna. Tra i vari aspetti nuovi emergenti da quel
capitolo basterà segnalare l’aspro sfogo del Presidente della Repubblica
contro il suo capo del governo in presenza di una fonte della CIA; la vivida
ricostruzione del «black Saturday italiano»; il divario tra posizione
pubblica e giudizio privato di Togliatti in merito alle mosse di Kruscev; il
contrastato rapporto fra intellettuali e potere, in quegli anni di piena
guerra fredda, tra pacifismo, engagement e accuse di asservimento ai
partiti.
Infine, l’indagine dei casi nazionali di Stati Uniti e Italia è integrata
dall’analisi – non meno importante nella struttura del lavoro – di tre
particolari categorie transnazionali, analizzate cioè a prescindere dalla
loro nazionalità: politologi, religiosi, scienziati. Con questi ultimi che
risultano nel complesso tra i più preoccupati per le possibilità di
un’escalation nucleare. Emblematica in tal senso la reazione personale del
fisico Leo Szilard, o lo scambio epistolare tra i due premi Nobel Max Born
e Bertrand Russell sul modo migliore di protestare per cercare di evitare
un’escalation nucleare.
Resta infine da sottolineare la scorrevolezza di lettura, mantenuta, pur
nell’ampiezza e rigore dei contenuti, al fine di risultare godibile anche per i
non specialisti.
Il lavoro si chiude con un’apertura verso studi futuri, tra l’auspicio di
ampliamenti della prospettiva qui inaugurata e la previsione che l’aspetto
socio-culturale si riveli «la prossima frontiera» degli studi sulla CMC.

John L. Harper
Professor of American Foreign Policy
Johns Hopkins University, Bologna Center
Introduzione

«Che cosa c’è di nuovo da dire sulla crisi dei missili di Cuba? Nessun
episodio nella storia delle relazioni internazionali è stato sottoposto a esami
tanto microscopici da parte di tanti storici».
Attaccava così, nel 1997, un saggio di John Lewis Gaddis, uno dei più
celebrati storici della guerra fredda 1. Gli rubiamo volentieri l’incipit, perché
se questo è il primo problema che si poneva a lui, evidentemente ben più
esso si pone per un ricercatore italiano che scelga di affrontare oggi un tema
simile.
Gaddis ha ragione: per quanto gli eventi di quei pochi giorni
effettivamente racchiudano, come un prezioso scrigno, tante storie e
microstorie interessanti, tanti importanti aspetti, tanti significati e lezioni da
comprendere, come si possono apportare ancora degli elementi di reale
novità riguardo a eventi sui quali ormai sembra essersi scritto e detto già
tutto e il contrario di tutto?
Il nostro tentativo di risposta sarà semplice: cambiando prospettiva.
Collocazione nella letteratura

Che la Cuban Missile Crisis (come gli americani sono soliti chiamarla, e
come anche noi la abbrevieremo, usando qui il comodo acronimo CMC)
sarebbe diventata una sorta di irresistibile calamita per storici, teorici della
politica, scrittori, registi o semplici appassionati, apparve presto chiaro, fin
dal momento in cui essa si concluse. Lo stesso Kruscev, infatti, appena due
giorni dopo che era terminata, lo predisse, a modo suo, scrivendo a
Kennedy: «A quanto pare, ci saranno certi imbrattacarte [scribblers] che si
ingaggeranno in una competizione di spaccatura-di-capello riguardo al
nostro accordo, staranno a scavare su chi fece le concessioni maggiori a chi.
Per quanto mi riguarda, io direi che entrambi abbiamo fatto una
concessione alla ragione e trovato una soluzione ragionevole che ci ha
permesso di assicurare la pace per tutti, inclusi quelli che cercheranno di
rovistare qualcosa» 2.
Col suo abituale sarcasmo, Kruscev 3 aveva visto giusto. Gli
«imbrattacarte», come lui li battezzò ironicamente, accorsero presto a gran
frotte, soprattutto dall’America, mostrandosi più o meno dotati ed obiettivi,
producendo analisi e conclusioni più o meno solide e durature,
soffermandosi su aspetti diversi ed iscrivendosi in varie scuole di tendenza
storiografica.
Il primo grande affresco della crisi, all’interno del suo fortunato A
thousand days, lo fornì Arthur Schlesinger Jr., storico di chiara fama oltre
che ex consigliere della Casa Bianca, kennediano di stretta osservanza.
Sempre a metà degli anni Sessanta, analoga tendenza seguì il resoconto di
Ted Sorensen (Kennedy), che del Presidente era stato fidato speechwriter e
ancor più fervente ammiratore. Uscì poi Thirteen days, il racconto della
crisi di Cuba basato sui diari di Robert Kennedy. Quest’ultimo, che aveva
cominciato a scriverlo mentre era in corsa per la presidenza, venne ucciso
prima di poterlo finire, cosicché il testo fu poi revisionato e fatto
pubblicare, postumo, sempre dal fido Sorensen. La prosa scorrevole e il
contenuto a tratti emozionante, assieme alle particolari circostanze
dell’uscita, gli valsero una grande fortuna. Ma fin lì era stato tutto un
trionfo kennediano, una rappresentazione così completamente positiva ed
agiografica di quel leader, di quell’amministrazione (soprannominata non a
caso «Camelot», come la leggendaria corte di re Artù) e del suo calibrato
operato durante la crisi di Cuba, che evidentemente ciò non poteva che dar
luogo, presto o tardi, a un qualche salutare riesame critico. Cosa che infatti
avvenne, con la successiva tendenza «revisionista», la quale sorse
alimentata dalle rivelazioni di metà anni Settanta a proposito
dell’Operazione Mangusta e toccò probabilmente il suo apice verso la fine
degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, producendo tra l’altro
riconsiderazioni delle linee politiche dell’amministrazione kennediana,
come quella di Thomas Paterson, e biografie al vetriolo come quelle di
Thomas C. Reeves o di Seymour Hersh 4. La tendenza revisionista, talvolta
costruttiva e circostanziata, spesso scadeva però in un furore iconoclasta
animato più da livore e voglia di stupire e vendere che non da obiettività e
rigore storiografico. L’eroico e pacifico Kennedy della prima ora, che
mixando magicamente forza e moderazione aveva salvato
contemporaneamente sicurezza, onore e pace dell’America e del mondo,
per alcuni anni sembrò essersi tramutato in un mero playboy, ipocrita,
troppo malato per governare ma abbastanza cinico e senza scrupoli da
essere disposto a rischiare una guerra atomica pur di fare la figura del
‘macho’ e rosicchiare voti ai repubblicani. Poi, per fortuna, cominciarono
ad arrivare studi più equilibrati, che cercavano di contemperare elementi
validi sia dell’una che dell’altra tendenza, in una sorta di sintesi hegeliana
di ortodossia e revisionismo che si è soliti chiamare scuola
«postrevisionista» 5.
Come si vede, abbiamo parlato finora solo di opere americane. Ma col
tramonto della guerra fredda cominciarono ad aumentare sia la volontà sia
la possibilità di vedere pure gli altri lati della vicenda. La crisi difatti non si
era giocata solo a Washington, come fino allora poteva essere sembrato, ma
anche – almeno! – a Mosca e a L’Avana. Così, in clima di perestrojka e poi
dopo il crollo della cortina, vennero organizzate conferenze internazionali,
in cui storici e veterani della CMC statunitensi, sovietici e cubani si
rincontravano, scambiandosi non solo ricordi e spiegazioni, ma anche
documenti progressivamente declassificati. Emersero così particolari anche
importanti e del tutto insospettati. Frattanto non solo venivano pubblicate
nuove edizioni delle memorie di Kruscev, ma soprattutto la graduale
apertura degli archivi sovietici (anche ai ricercatori occidentali) rendeva via
via possibile una maggiore comprensione dell’azione di Mosca nella crisi,
come attestato per esempio dalla monografia One hell of a gamble, datata
1997 e frutto della cooperazione tra uno studioso russo (Fursenko) e un
occidentale (Naftali). Qualche volume frattanto cominciava a mettere in
luce anche il punto di vista cubano (October 1962; Cuba and the Missile
Crisis; Sad and luminous days). Da allora ad oggi, ulteriori libri sono
comparsi. Solo nel 2012, in concomitanza col cinquantesimo anniversario
della crisi, negli Stati Uniti ne sono usciti altri sette, più una innovativa
raccolta di documentazione sull’evento 6.
Così la storiografia sulla crisi dei missili è giunta ormai a dimensioni
praticamente ingestibili. In questo vero mare magnum di studi, documenti e
tendenze, molte nozioni che di quei fatti si avevano si sono col tempo
dimostrate false o quantomeno gravemente incomplete. Viceversa molti
aspetti che non si conoscevano sono poi stati scoperti, e altri ancora
periodicamente vengono e verranno fuori. Né l’interesse per quegli anni,
per quei personaggi e per quel particolare evento accenna a diminuire. Ciò è
del tutto comprensibile, del resto, se si considera non solo l’innato fascino
ma anche l’importanza cruciale che la CMC rivestì. Difatti, come ha
confermato proprio Gaddis,

ciò che non è cambiato, in tutte queste revisioni e riconsiderazioni, è


il posto centrale che la crisi dei missili di Cuba occupa nella storia
della guerra fredda; caso mai, risulta che essa fu una svolta più
importante di quanto prima credessimo che fosse stata. Fu l’unico
episodio dopo la seconda guerra mondiale in cui ciascuna delle più
importanti arene della competizione sovietico-americana si
sovrapposero: la corsa agli armamenti nucleari, certo, ma anche le
contrastanti aspirazioni ideologiche, le rivalità circa il ‘terzo
mondo’, le relazioni con gli alleati, le implicazioni interne della
politica estera, le personalità dei leader come singoli. La crisi fu una
specie di imbuto – una singolarità storica, se si preferisce – nel
quale tutto all’improvviso venne giù confusamente 7.

È chiaro che un simile evento non smetterà facilmente di interessare


studiosi e lettori, di arricchirsi di particolari e fornire spunti d’analisi e
lezioni sempre attuali.
D’altro canto, però, dei rilevanti gap sono ancora presenti nello studio
della crisi dei missili. Uno riguarda per esempio il nostro Paese. Benché,
infatti, il posto dell’Italia in quegli eventi sia stato tutt’altro che
insignificante (per ragioni anche strategiche che vedremo), quasi nessuno
storico si è dedicato a fondo allo studio della crisi. L’unica, importante,
eccezione a questa lacuna è costituita da Leopoldo Nuti, storico delle
relazioni internazionali, che alla CMC ha dedicato alcuni saggi brevi e
l’antologia I missili di ottobre, che riassumeva le principali interpretazioni
della storiografia americana sull’evento sino all’inizio degli anni Novanta.
Ma la sua, ci sembra, è appunto l’eccezione che conferma la regola.
Inoltre, a fronte di un’attenzione attualmente crescente per lo studio della
guerra fredda nei suoi aspetti culturali (la guerra fredda vista cioè come
battaglia di idee, come confronto ideologico tra due contrapposte visioni del
mondo), si riscontra invece un anello ancora debole nella storiografia
relativa alla CMC che riguarda proprio l’aspetto sociale e culturale di
quell’evento. Finora difatti praticamente tutti i saggi usciti 8 si sono
concentrati sulla comprensione dei fatti, degli eventi, ricostruiti giorno per
giorno, ora per ora, sempre più approfonditamente man mano che gli
archivi declassificavano nuovo materiale. Non ci si è però ancora chiesti in
modo sufficientemente esteso cosa significarono quegli eventi per il mondo
che vi assistette, come vennero percepiti e vissuti dalle popolazioni, che
sentimenti suscitarono, quali riflessioni misero in moto nei vari contesti
geografici e culturali.
È proprio questa la direzione in cui muove questo volume, tentando di
dare un contributo tramite un radicale cambio di prospettiva, che consista
nel girare l’occhio dell’analisi degli eventi alle loro percezioni, dai fatti alle
riflessioni che questi misero in moto in contesti diversi. Si cercherà dunque,
evidentemente senza pretese di esaustività, di dare un quadro sia della crisi
sia degli impatti che essa suscitò, su scala transnazionale e su diversi livelli
(politico-diplomatico, sociale, mediatico, culturale, psicologico, etico, ecc.).
Il tentativo è di inserirsi in quel particolare «nuovo campo di ricerca, per
ora poco dissodato» (come l’hanno recentemente descritto gli storici
francesi Sirinelli e Soutou) che si trova all’intersezione di due ambiti ancora
troppo impermeabili tra loro: quello della storia culturale e quello della
storia delle relazioni internazionali 9.
In questo contesto, l’obiettivo sarà dunque da un lato di cominciare a
mettere in luce il carattere eminentemente globale della CMC; dall’altro, di
dimostrare la ricchezza della sua dimensione socio-culturale, finora
trascurata.
Elaborazione e struttura della ricerca

Qualche cenno sulle varie fasi di lavorazione della ricerca contribuirà a


spiegare l’impostazione che si è scelto di darle.
L’ipotesi di partenza è stata la convinzione che la crisi di Cuba fosse un
evento così importante e, per molti aspetti, unico, che uno studio delle
percezioni e reazioni internazionali da esso suscitate avrebbe certo rivestito
grande interesse. Una tale prospettiva decentrata avrebbe finito per farci
comprendere qualcosa in più sia su quegli eventi che credevamo di
conoscere perfettamente, sia sul mondo che quegli eventi aveva osservato.
Per parlare in termini chimici, dalle reazioni saremmo cioè risaliti al
«reagente». Avremmo visto venire alla luce alcuni dei suoi caratteri, magari
solitamente meno evidenti ma che al momento di una crisi sarebbero emersi
con chiarezza – così come del resto tende ad accadere spesso nei momenti
di crisi, anche in sfere diverse come quella individuale o dei rapporti
familiari. Valori e ordini di priorità effettivi, posizioni reali, tenuta dei
legami, risorse o debolezze (di individui – o, nel nostro caso, di Stati,
leader, partiti, alleanze, popolazioni, mezzi di informazione, intellettuali,
ecc.) sarebbero emersi appunto in questo frangente. Uno shock come la crisi
di Cuba poteva costituire insomma una preziosa ‘cartina di tornasole’. Si è
dunque provato a ricostruire almeno alcune tra le principali tracce che essa
doveva, da qualche parte, aver lasciato impresse.
Nel corso della ricerca, iniziata nel 2006 e proseguita per sette anni, ci si
è presto resi conto che il modo migliore per comprendere e illustrare certi
aspetti sarebbe stato quello di allargare lo sguardo, andando al di là dello
studio di contesti singoli o regionali (che caratterizzavano invece il saggio
di Len Scott e l’antologia di studi curata da Maurice Vaisse) 10, in favore di
un raggio d’analisi invece più globale. L’ideale, in questo senso, sarebbe
stato uno studio abbastanza ampio da dar conto delle reazioni messe in
moto dalla CMC in tutte le principali aree del sistema internazionale. Il
lavoro è stato dunque condotto a lungo in tale direzione, perseguendo
parallelamente sentieri di ricerca relativi ai vari contesti geografico-culturali
e raccogliendo fonti per ciascuno di essi, come in parte risulta anche dalla
bibliografia in fondo al volume.
Tuttavia, in una fase successiva della ricerca si è operata invece una
parziale riconsiderazione della struttura del testo, che ha portato a
concentrarsi qui sulle reazioni registratesi in un numero minore di Paesi.
Tale riduzione del raggio d’analisi è parsa necessaria anche per poter
presentare col dovuto approfondimento alcuni risultati della ricerca che
diversamente sarebbero stati «schiacciati» da inevitabili esigenze di sintesi.
In altre parole, si è considerato scientificamente più opportuno limitarsi a
esporre qui le reazioni di un numero ridotto di contesti ma in modo più
approfondito, riservando il resto del materiale acquisito ad eventuali
progetti futuri.
Nella sua forma presente, perciò, il testo espone le percezioni della CMC
presso due contesti nazionali e tre categorie transnazionali. La scelta
relativa ai due contesti nazionali è caduta facilmente su Stati Uniti e Italia.
La rilevanza di un’analisi riguardante gli USA risultava evidente,
considerato il loro status di superpotenza mondiale, l’accessibilità della loro
documentazione archivistica (a differenza di quella sovietica e cubana,
ancora sostanzialmente preclusa agli studiosi) e il loro coinvolgimento
diretto nella crisi. Quanto alla scelta dell’Italia, ha contato invece (oltre,
naturalmente, alla nostra nazionalità) la presenza di vari punti ancora
passibili di approfondimenti e il suo coinvolgimento indiretto nella crisi.
Quest’ultimo tratto infatti la rende un buon esempio degli impatti
internazionali avuti dalla crisi anche in Paesi apparentemente lontani
dall’occhio del ciclone. Detto altrimenti, l’analisi congiunta del caso
statunitense e del caso italiano (cioè di uno dei tre Paesi protagonisti della
crisi e di uno di quelli invece teoricamente solo spettatori di una lontana
crisi internazionale) costituisce un primo significativo esempio degli impatti
globali della CMC.
In questo quadro, quindi, i capitoli su Stati Uniti e Italia possono essere
letti sia come analisi a sé stanti (ad uso, per esempio, di un americanista o di
uno studioso di storia italiana), sia come due «case studies» degli impatti
politici e socio-culturali avuti dalla CMC a livello internazionale.
Naturalmente ciò risulterà indicativo anche dell’interesse che potrebbe
rivestire una futura estensione di quest’approccio ad altre aree. Quanto poi
ai capitoli dedicati alle tre categorie transnazionali prese in esame, essi
hanno, nell’economia del presente lavoro, un’importanza non minore dei
due capitoli su Italia e USA: integrano il quadro, indagando le riflessioni
suscitate dalla CMC tra alcuni dei più influenti politologi, religiosi e
scienziati dell’epoca. Si tratta di tre particolari tipologie di osservatori, la
cui appartenenza ad un background comune è parsa prioritaria rispetto alle
loro nazionalità individuali (se ne troveranno infatti di francesi, russi,
statunitensi, italiani, britannici, ecc.). Le loro percezioni di quegli eventi
sono state perciò raggruppate ed analizzate insieme 11.
Così reimpostato, il lavoro costituisce quindi non una rinuncia ad
un’analisi globale, quanto piuttosto un primo, più misurato passo mosso in
quella direzione 12.
Metodologia, terminologia, oggetti dell’indagine

Oltre alla prospettiva d’osservazione adottata, di tipo nuovo sono anche,


in buona parte, le fonti che sono state utilizzate. La sezione bibliografica
elenca gli archivi visitati in Italia e all’estero 13, le monografie consultate e
le oltre cento testate giornalistiche d’epoca analizzate – molte delle quali
introvabili in Italia.
A tal proposito, è necessario spendere due parole sull’uso della stampa
dell’epoca come fonte. Per uno studio sull’opinione pubblica, la stampa è
uno strumento classico, seppure spesso trascurato. Ma, per motivi che
illustreremo meglio nella Premessa, l’analisi dei quotidiani di quei giorni
qui non è impiegata solamente come uno strumento, cioè come fonte
primaria finalizzata alla comprensione dell’oggetto (l’opinione pubblica),
bensì anche come fine in sé: come uno degli oggetti stessi dell’analisi. Ci è
parso interessante, infatti – seppur entro i limiti di spazio ed entro una
prospettiva storica, non di scienze della comunicazione – provare a capire
quale sia stata la reazione delle principali componenti della stampa
internazionale di fronte al «test» rappresentato da un evento planetario,
clamoroso ed improvviso, quale fu appunto la crisi di Cuba. Come la
stampa vi si rapportò, come la coprì, in che modo – e quanto accuratamente
– ne seppe o volle informare la gente; che ruolo giocarono le varie stampe
nazionali nell’indirizzare l’opinione pubblica, o invece nel limitarsi a
rifletterne le posizioni; e ancora, che volontà o capacità esse mostrarono nel
monitorare (o provare ad influenzare) l’operato dei rispettivi governi. A
qualcuno di questi interrogativi si potrà provare ad accennare qualche
risposta già nel corso di questo lavoro. Ad ogni modo la stessa
presentazione di questo caso di copertura mediatica costituirà, speriamo, un
utile viatico per eventuali studi ulteriori 14.
Fatta poi una precisazione in nota riguardo a termini che useremo
sovente quali opinione pubblica 15 e reazione/percezione 16, va sottolineato
che, tra gli oggetti della presente ricerca, un posto centrale fin dall’inizio è
stato occupato dalle reazioni degli intellettuali. Categoria eterogenea e
variamente definibile, essa ha indubbiamente acquisito nel Novecento una
nuova rilevanza 17, tanto che lo storico Tony Judt nel suo ultimo libro è
arrivato a definire il Novecento come «il secolo degli intellettuali» 18. Tale
categoria riveste qui particolare interesse, da un lato in quanto proprio i più
autorevoli uomini di cultura (di letteratura, scienza, arte, fede, politica, ecc.)
possono aver avuto una qualche influenza sull’opinione pubblica, essendo
fatti oggetto di attenzione ed ascolto; dall’altro, soprattutto, in quanto
dell’opinione pubblica possono aver svolto implicitamente il ruolo di
portavoce. Molti intellettuali, infatti, proprio grazie alla loro preparazione e
alla loro spiccata sensibilità umana, hanno spesso la capacità perfino
inconsapevole di «fiutare» e raccogliere elementi diffusi del sentire comune
e di riuscire ad esprimerli compiutamente. Altre volte invece essi hanno (o
dovrebbero avere) la capacità di sollevarsi al di sopra di questo sentire
comune, per approdare a una visione diversa degli eventi in corso, a una
percezione più matura e ragionata di quella del cosiddetto «uomo della
strada».
Anche nel caso della CMC, come vedremo, le percezioni espresse dagli
intellettuali non sempre coincisero con quelle dell’opinione pubblica
prevalente.

Più in generale, con il presente lavoro si è inteso tentare uno studio della
percezione immediata di un evento dato. Per questa ragione, relativamente
all’opinione pubblica ci si è concentrati sulle percezioni fatte registrare
all’epoca degli eventi, non sui ricordi che la gente comune ne espresse poi a
distanza di anni 19.
Ci sembra inoltre che questa prospettiva della percezione possa essere
interessante e forse ancora da sfruttare appieno, applicandola magari ad altri
eventi storici di caratteristiche similari: pochi, cruciali eventi, ben
selezionati in base alla loro importanza del tutto particolare (così da
mantenere reale significatività all’analisi) e in base al loro sorgere e
compiersi entro intervalli di tempo relativamente brevi (come è appunto il
caso della CMC e di pochi altri eventi del Novecento). Un siffatto studio
delle percezioni, naturalmente poggiando su precedenti studi riguardanti
l’evento in sé, finirà così sia per completare quel che già sapevamo di quei
fatti, sia per svelarci caratteristiche delle società che a quell’evento, in quel
momento, stavano assistendo o partecipando. Sarà insomma un po’ come
trovarsi in un teatro e, dopo aver osservato abbastanza a lungo cosa succede
sul palcoscenico, girarsi per rivolgere lo sguardo al volto degli spettatori
seduti in platea, che fino allora erano rimasti avvolti dal buio. O sarà un po’
come ricostruire l’andamento di una partita (di calcio, poniamo) non
solamente riguardando le registrazioni di quello che stava accadendo sul
campo di gioco, ma anche volgendo lo sguardo agli spettatori presenti sugli
spalti, fin lì considerati quasi privi di interesse. Interpretando le loro
reazioni ed emozioni del momento, finiremo per capire qualcosa sia
dell’andamento della partita sia della natura collettiva di quel pubblico (o
meglio, di quei pubblici: obiettivi o faziosi? pacifici o violenti? composti di
tifosi schierati o di appassionati neutrali? posti in condizione di vedere bene
o solo in modo lontano e distorto il campo di gioco? ecc.). Finiremo così
probabilmente con lo scoprire intanto che certe reazioni degli spettatori
ebbero talvolta una influenza non trascurabile e insospettata su quanto stava
avvenendo sul palcoscenico o sul campo (come del resto il teatro e lo stadio
ci confermano pienamente, dagli applausi ai mormorii, dai cori di supporto
ai fischi); e poi per scoprire qualcosa sui gusti, le aspettative e le
caratteristiche di quella tipologia di persone che in quel momento
ricoprivano il ruolo di audience. Fuor di metafora, lo stesso potrà osservarsi
nelle società umane 20.

Due ultime avvertenze di metodo:

a) al fine di ricostruire i vari contesti politici e culturali in cui si verificò la


crisi e in cui presero corpo le sue percezioni, toccheremo talvolta alcune
tematiche non direttamente riguardanti la crisi in senso stretto, bensì
l’era nucleare – epoca in cui la CMC è inserita, e di cui costituì per
molti aspetti la massima espressione. Infatti, come ha affermato un
autorevole studio sulla storia dell’era atomica, «le decisioni realmente
importanti riguardo la Bomba furono prese tutte nel periodo intorno alla
crisi dei missili di Cuba» 21. Il che implica da un lato che quest’evento
segnò uno spartiacque anche nella storia dell’era nucleare, tuttora aperta;
dall’altro però che qualche elemento di conoscenza di quelle realtà, di
quelle problematiche e mentalità allora così fortemente avvertite, sarà
necessario fornirlo;
b) nel presentare le reazioni alla crisi, si è scelto di dare il dovuto risalto
alla voce diretta dei documenti. A tal fine, specie relativamente alle
reazioni più elaborate – come quelle di politologi e letterati – si è
preferito non riassumerne le argomentazioni con parole nostre 22, ma
lasciare la parola agli autori, citandone estratti, per poi commentarli. Ciò
per la scelta di intaccare il meno possibile l’accuratezza delle loro
argomentazioni e la freschezza delle loro percezioni, che passarono
anche dalla scelta dei termini 23.
Proprio in quest’ottica di rispetto della citazione, là dove alcune
precisazioni si rendevano necessarie alla comprensione, si è intervenuti
con brevi incisi esplicativi indicati tra parentesi quadre (e con la sigla
NdA per gli incisi più lunghi).
Struttura e obiettivi del testo

Il titolo scelto viene direttamente da Kruscev. «Sei giorni che


sconvolsero il mondo» è infatti il modo in cui proprio il leader sovietico
descrisse la crisi, appena essa si era conclusa, parlandone privatamente al
Cremlino col presidente cecoslovacco Antonìn Novotný, in un colloquio il
cui verbale è emerso solo alla fine del 2012 24. La sua definizione riprendeva
il celebre reportage di John Reed sulla Rivoluzione d’ottobre, I dieci giorni
che sconvolsero il mondo. La diversità numerica rispetto ai Tredici giorni di
Robert Kennedy deriva dal fatto che, mentre per la Casa Bianca, come
vedremo, la crisi era cominciata già il 16 ottobre con la scoperta delle basi,
per Mosca – come pure per il resto del mondo, delle cui percezioni qui
cominciamo ad occuparci – essa iniziò solo il 22 ottobre, al momento in cui
divenne pubblica.

Nella Premessa proporremo una chiave interpretativa nuova della CMC,


partendo dalle intuizioni di Fernand Braudel e Marshall McLuhan: due
classici del pensiero novecentesco, due pensatori lontani nello spazio e nella
disciplina, le cui teorie ci sono però sembrate contenere entrambe elementi
utili per poter leggere quell’evento in un’ottica diversa.
La Parte prima, relativamente più narrativa della seconda, è dedicata alla
ricostruzione degli eventi della crisi e del contesto storico in cui questa si
sviluppò. Essa svolge tra l’altro la funzione di fornire al lettore il quadro di
riferimento indispensabile alla comprensione del resto del lavoro. Inoltre, in
Italia essa va anche a coprire un vuoto bibliografico, dal momento che ad
oggi non è disponibile nella nostra lingua alcun saggio storico che
ripercorra in dettaglio lo svolgersi di quegli eventi. In considerazione di ciò,
dedicare spazio alla ricostruzione di tali giornate non è parso ridondante.
La Parte prima si apre con un prologo che introduce il lettore
direttamente al momento in cui la crisi fu rivelata all’opinione pubblica. Il
successivo capitolo (Verso il climax) fa un passo indietro per
contestualizzare storicamente il periodo in cui la CMC maturò, fornendo
una sintesi di quella fase della guerra fredda (1956-1962). Segue la
ricostruzione della crisi (Il nodo della guerra), che viene ripercorsa giorno
per giorno, cercando di dar conto del ritmo serrato in cui si svolsero gli
accadimenti. La sezione si chiude con un capitolo di considerazioni
teoriche, volte a mettere in luce determinati aspetti e lezioni emerse dalla
crisi. Varie di queste considerazioni, come indicato dalle note, sintetizzano
per il lettore conclusioni progressivamente messe a punto dalla storiografia
internazionale, mentre altre costituiranno indicazioni nostre.
La Parte seconda, più analitica e più innovativa per approccio e
contenuti, ricostruisce le percezioni e reazioni messe in moto dagli eventi
della crisi, in vari contesti e su vari livelli, tra cui quello dell’opinione
pubblica. Per questo il breve capitolo d’apertura della Parte seconda parte
sarà dedicato appunto a introdurre il senso di un’analisi di questa sfuggente
categoria.
I capitoli dedicati agli impatti della crisi nei contesti nazionali di Stati
Uniti e Italia saranno divisi in quattro categorie:

– reazioni politico-diplomatiche;
– reazioni della stampa;
– reazioni dell’opinione pubblica;
– reazioni tra gli intellettuali.

A tali capitoli se ne affiancano altri tre dedicati, come sopra esposto, a


ricostruire le percezioni di tre categorie transnazionali: influenti politologi,
religiosi e scienziati.
Completa il lavoro – insieme alle Conclusioni e alla Bibliografia, di cui
s’è già detto – un apparato illustrativo, comprendente le riproduzioni delle
più interessanti «prime pagine» e vignette pubblicate in quei giorni dai
principali quotidiani italiani e statunitensi, così da fornire degli esempi
anche visivi della copertura mediatica della crisi e delle sue percezioni in
tempo reale.
Sono chiari, dunque, gli obiettivi che ci siamo posti: ripercorrere gli
eventi della CMC – episodio curiosamente ancora poco noto al pubblico
italiano – e poi cominciare ad indagare la vasta dimensione delle sue
percezioni internazionali, degli impatti che essa suscitò in termini di
attenzione e di ripercussioni su vari livelli e in diversi contesti,
concordemente col suo carattere globale. Particolare attenzione verrà
prestata alla dimensione socio-culturale dell’evento, fin qui quasi
completamente trascurata, cercando di dimostrarne la ricchezza e rilevanza.
Attualità del tema

Considerare la CMC come un episodio del passato, di importanza


confinata alla storia della guerra fredda, sarebbe un grave errore. Del resto è
sufficiente aprire i giornali di questi mesi per trovarne conferma. Mentre
Cuba si sta preparando a gestire la delicata fase dell’evoluzione
postcastrista dopo un ininterrotto cinquantennio di regime che ha avuto
proprio nella CMC il suo punto di svolta, vari sono i focolai di tensione
internazionale connessi alle armi nucleari. Basti pensare all’Iran o alla
Corea del Nord. Entrambi i casi, tra l’altro, sono stati paragonati alla CMC,
rispettivamente dal noto studioso Graham Allison e dallo stesso Fidel
Castro 25. Per quanto eccessivi, questi paragoni ricordano la persistenza di
certi rischi e la potenziale funzione di guida di quell’episodio. Ulteriore
richiamo all’attualità della CMC è poi nel tema del disarmo nucleare, che
Obama ha rimesso al centro dell’agenda politica internazionale, affermando
a più riprese la necessità di arrivare a «un mondo senza armi nucleari» 26. Si
può quindi concludere con Allison che, a mezzo secolo di distanza, le
lezioni della crisi di Cuba per il mondo di oggi non sono mai state così
grandi.
Premessa
Tra Braudel e McLuhan: una
nuova chiave interpretativa per la
crisi dei missili di Cuba
La crisi di Cuba fu certamente una delle tappe
decisive del XX secolo. Nell’immaginario
collettivo, il dispiegamento dei missili a Cuba
resterà […] il solo confronto in cui fu in gioco la
sorte del pianeta nella sua globalità 1.

Nel 1949, nel suo monumentale La Méditerranée et le monde


méditerranéen à l’époque de Philippe II, una delle opere più importanti ed
innovative della storiografia del Novecento, lo storico francese Fernand
Braudel individuava ed applicava, com’è noto, tre differenti scansioni
temporali, tre tipi di durata storica, tre diversi livelli di velocità cronologica
secondo i quali per lui era possibile studiare, comprendere e leggere la
Storia.
Il più immediato era il tempo individuale 2, quello più breve, quello dal
ritmo più rapido e nervoso: è il livello événementiel (cioè, con parola non
esattamente traducibile, degli événement, degli accadimenti). È il livello su
cui avvengono le grande battaglie, su cui si alternano glorie e miserie
personali dei grandi individui e potenti della Terra, su cui regimi e governi,
fallimenti e imprese si succedono; quella materia insomma che in genere è
principale oggetto della storia politica tradizionale e che a Braudel
ricordava tanto uno spettacolo che aveva visto in gioventù nella notte
brasiliana di Bahia: «un fuoco d’artificio di lucciole fosforescenti; le loro
pallide luci esplodevano, si spegnevano, brillavano di nuovo, senza
squarciare la notte con vero chiarore. Così gli avvenimenti: al di là del loro
bagliore, l’oscurità [della storia] resta vittoriosa» 3. Quel bagliore intenso
ma effimero a Braudel non bastava. Altre volte definiva gli événement come
semplici «onde» che agitano solo la superficie di un profondo mare, o
ancora come «esplosione, novità rumorosa» che «riempie la coscienza dei
contemporanei con il suo fumo ingannevole, ma non riesce a durare» 4.
Ad un livello intermedio stava invece il tempo sociale, quello delle
società e dei loro modi di vita, delle civiltà e delle loro congiunture 5, ossia
dei loro cicli e intercicli, delle loro fasi di crisi o espansione (soprattutto, ma
non esclusivamente, economico-sociali). Questa «storia sociale» è per
Braudel «una storia lentamente ritmata» 6, che procede con incedere di
alcuni decenni, o al più per cinquantenni.
Ad un livello ancora più profondo stava invece il tempo geografico, il
tempo della lunga, lunghissima durata; «una storia quasi immobile, quella
dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente che lo circonda»; una storia
«quasi al di fuori del tempo», «che scorre e si trasforma lentamente». È
questo il livello delle strutture. La struttura (parola spesso utilizzata in vari
contesti e discipline con diverse sfumature ed accezioni) in Braudel indica
la permanenza, la continuità:

una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a
lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili
per un’infinità di generazioni: esse ingombrano la storia, ne
impacciano, e quindi ne determinano, il corso. Altre si sgretolano
più facilmente; ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli
ostacoli. […] Si pensi alle difficoltà di spezzare certi quadri
geografici, certe realtà biologiche, certi limiti della produttività,
ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali
sono delle prigioni di lunga durata. […] L’uomo è prigioniero per
secoli di climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, […] Si veda
il posto della transumanza nella vita montana, la persistenza di una
certa vita marinara, radicata in questo o quel punto privilegiato del
litorale […] 7.

Come si evince anche dagli esempi riportati in quest’ultimo passo,


Braudel, da storico modernista qual era, aveva in mente anzitutto realtà e
quadri d’analisi appartenenti ad epoche, appunto, moderne. Diversi e più
frenetici appaiono invece i quadri, i mutamenti e gli andamenti dell’età
contemporanea, «quando, come oggi accade, il corso storico diventa sempre
più rapido e complicato, e ‘il presente diviene passato in modo più celere
che in qualsiasi epoca precedente’» 8. Quell’età insomma per cui anche
Hobsbawm nel 1993 poteva scrivere che «gli ultimi trenta o quarant’anni
sono stati l’epoca più rivoluzionaria della storia documentata» poiché «il
mondo, cioè la vita degli uomini e delle donne che vivono sulla terra, non si
è mai trasformato, in un tempo così breve, in modo tanto profondo,
drammatico e straordinario» 9.
Stando così le cose, allora, leggendo Braudel ci si è domandati
(Aliberti): «la lunga durata trova nella storia contemporanea la stessa
feconda applicazione che può avere per i periodi precedenti?» 10. E ancora,
la stessa voce, altrove: «È ammissibile, insomma, una storiografia sull’età
contemporanea basata sullo studio delle ‘temporalità del profondo’, del
non-événementiel, oppure le rapide trasformazioni del mondo
contemporaneo, configurandosi come vere e proprie fratture della continuità
del processo storico, privilegiano l’événement come unica forma possibile
di conoscenza storica?» 11. Detto altrimenti: lo schema di Braudel è o no
concretamente applicabile anche allo studio di periodi e fenomeni dell’età
contemporanea, nonostante in essa i mutamenti siano divenuti così
frequenti e repentini? La questione rimane, ci sembra, tuttora aperta.
E a noi pare che un’applicazione proficua del modello braudeliano anche
nel veloce incedere dell’età contemporanea sia effettivamente possibile, ed
anche concretamente individuabile in almeno un particolare caso. Si tratta
appunto del nuovo quadro che si rivela, con clamorosa chiarezza, in
occasione della crisi dei missili di Cuba.
Proviamo a spiegarci meglio.
L’événement nella nostra fattispecie è costituito appunto dalla crisi dei
missili di Cuba. Breve (appena tredici giorni) 12, frutto di decisioni
individuali, clamoroso ma anche effimero, fuggente: un evento che risponde
pienamente alle caratteristiche della categoria indicate da Braudel.
La congiuntura è qui individuabile nel cinquantennale confronto (a
livello politico, economico, militare, sociale, ideologico, culturale) tra le
due superpotenze USA e URSS che siamo soliti chiamare guerra fredda. La
sua durata (1945-1991) risponde a quella grosso modo suggerita da Braudel
per i cicli delle congiunture. Né forse c’è neanche bisogno di ricordare qui
quanto centrale sia stato, in tale confronto e nei suoi esiti, l’aspetto della
competizione tra quei due opposti sistemi economico-sociali (capitalismo vs
economia pianificata), il che assicura anche la rispondenza all’accezione
più propriamente economicosociale del concetto che Braudel dava di
congiuntura.
Infine la struttura, che emerge sì durante la congiuntura della guerra
fredda e che l’événement crisi di Cuba per un attimo porta perfino
clamorosamente all’attenzione del mondo, ma che – ed è qui che si vede il
suo carattere di struttura – permane stabile anche dopo la fine della guerra
fredda (infatti oggi è più viva che mai): si tratta della sopravvenuta
unificazione dei destini degli abitanti del pianeta di fronte alla guerra
termonucleare; della conseguente unificazione del teatro di guerra, ormai
divenuto mondiale in un senso nuovo, diremmo globale, unitario; del
carattere transnazionale e transcontinentale che avrebbe avuto e avrebbe
anche oggi la distruzione apportata da uno scambio (voluto o accidentale,
poco importa) di bombe H. Una catastrofe che non lascerebbe troppe
possibilità di scampo, principalmente a causa del fenomeno del fallout
radioattivo, consistente nelle mortifere ricadute di scorie tossiche disperse
nell’atmosfera dall’esplosione della Bomba e poi inesorabilmente
trasportate anche molto lontano da vento e correnti.

Qualora questo scenario appaia esagerato, basterà qui ricordare come


esso fosse stato delineato con chiarezza già dagli stessi Kruscev e
Eisenhower in occasione del primo vertice tra i leader delle due
superpotenze: «Noi ci prendiamo la vostra polvere, voi vi prendete la
nostra, il vento soffia, e nessuno si salva» 13. Sette anni dopo, cioè pochi
mesi prima della CMC, lo stesso Kennedy constatava che l’epoca in corso
era «un’età in cui la razza umana può annientare se stessa» 14. E ancora (per
citare due frasi relative al nostro événement) si ricordi come Kruscev, la
sera in cui la crisi si risolse, ammise ai suoi colleghi del Presidium che «il
mondo era attaccato a un filo» 15; e come il Segretario Generale delle
Nazioni Unite, a crisi ancora in corso, ammonì: «L’esistenza stessa
dell’umanità è in gioco» 16.
Qui non si tratta più, dunque, semplicemente della constatazione – pur
vera ed importante – di una crescente interdipendenza, per cui (come per
esempio ha osservato, tra gli altri, Barraclough) «nulla che accada in una
parte del mondo è ormai senza incidenza sulle altre: la storia del Novecento
è storia mondiale nel senso più pieno del termine» 17. Intuizioni simili del
resto si trovano già in Braudel stesso 18. Si tratta invece di una più
complessa ed inquietante constatazione: quella della situazione di
condivisione ormai planetaria dei rischi di olocausto atomico.
Questa nuova caratteristica strutturale è legata all’invenzione, al
successivo perfezionamento, potenziamento e accumulo, specialmente negli
anni Cinquanta e Sessanta, di ordigni termonucleari sempre più avanzati e
micidiali, sempre più capaci di lunga gittata (finanche intercontinentale), e
infine in grado – se lanciati in grandi quantità – di distruggere le stesse
condizioni di abitabilità necessarie alla vita sul pianeta, per diverso tempo
(per via degli impatti anche metereologici del loro abnorme potenziale
distruttivo) 19. Come candidamente ricordò poi Kruscev proprio a riguardo
dei missili di Cuba, le bombe di Hiroshima al confronto di quelle ormai in
possesso suo (e di Kennedy) altro non erano che innocui «giocattoli» 20.
Questa inaudita realtà dunque annullava – e annulla tuttora – il carattere
meramente regionale che una volta potevano avere le dispute anche militari
tra due Stati, ove essi (o i loro alleati coinvolti) siano dotati di armamenti
nucleari. Ce lo dimostra chiaramente, come vedremo, proprio la crisi dei
missili di Cuba, con il nesso che inscindibilmente la legava a filo doppio
alla lontana Berlino, di là dell’oceano; con i suoi rischi di rappresaglie
incombenti sull’Europa; con l’ansia che essa scatenò (benché naturalmente
in misura variabile) tra i popoli di tutto il pianeta. Anche se si partiva da
Cuba, insomma, lo scacchiere su cui si giocava, il teatro di guerra in cui si
agiva, era enormemente più ampio. Analizzando i processi decisionali delle
due leadership e le reazioni di alcuni segmenti dell’opinione pubblica
internazionale vedremo che la crisi dei missili di Cuba non fu neppure per
un momento un episodio di carattere regionale, ma sempre un accadimento
di scala planetaria. A nessuno – né tra gli agenti né tra gli osservatori –
poteva sfuggire che quella che stava per scatenarsi per via delle basi cubane
sarebbe istantaneamente divenuta la terza (e forse ultima) guerra mondiale.
Il teatro di guerra su cui si stava giocando era, agli occhi di tutti, unitario,
planetario.
Tale unificazione dei destini in caso di conflitto termonucleare, tale
globalizzazione del teatro di guerra ove quest’ultima coinvolga Paesi in
possesso di armamenti nucleari (o loro alleati disposti ad usarli), ci appare
ascrivibile tra le strutture nella misura in cui essa permane intatta anche
oggi che la congiuntura della guerra fredda che la vide sorgere si è
conclusa. Ed essa è, diremmo, una struttura aperta, nel senso che ad oggi
non se ne scorge il mutamento o la fine, non essendo all’orizzonte, per ora,
una reale capacità di giungere al controllo delle testate nucleari da parte di
organismi sovranazionali, né di ottenerne la distruzione. Gli ordigni atomici
che furono concepiti all’epoca sono tuttora presenti, modernizzati e pronti
al lancio in basi, bombardieri e sommergibili sparsi in vari punti del pianeta.
E anzi, oggi – dopo aver assicurato per decenni che la guerra fredda
rimanesse tale attraverso il paradossale concetto dell’«equilibrio del
terrore» 21 – quegli stessi ordigni costituiscono una realtà forse persino più
pericolosa di allora (sebbene meno acutamente «percepita» dall’opinione
pubblica e dai governi), in quanto nel frattempo la proliferazione nucleare
ne ha assicurato il possesso anche ad altri Stati 22, col conseguente
moltiplicarsi delle possibilità che leader fanatici od organizzazioni
terroristiche non statali possano prima o poi entrarne in possesso e decidere
di usarle 23. Senza contare il rischio che la catastrofe avvenga per banali
incidenti – probabilità che ovviamente aumenta insieme col numero di armi
sparse nel pianeta.
A rendere classificabile come struttura braudeliana questa
globalizzazione del teatro di guerra in caso di crisi o conflitto
termonucleare contribuisce poi anche il fatto che essa non sia un fattore
solo militare (e politico e culturale), ma anche un fattore geografico:
profondamente legato, cioè, al territorio, allo spazio, all’ambiente che ospita
la vita e l’agire degli uomini nella storia – dunque proprio nel senso in cui
Braudel intendeva il concetto di struttura 24.
Il suo carattere di permanenza, poi (rispetto all’avvicendarsi di eventi,
leader, regimi, sistemi politici, ecc.), ci sembra confermare la sua
appartenenza alla sfera delle realtà di lunga durata, delle permanenze che
resistono calme e apparentemente immobili in profondità, mentre sulla
superficie le onde (gli événement) continuano ad agitarsi a seconda dei
venti, mosse da cicli sottostanti di alte o basse maree (le congiunture).

Come si vede, dunque, anche l’età contemporanea sembra aver assistito


al verificarsi di almeno un grande mutamento di struttura: un cambiamento
di rapporti tra l’uomo e il suo ambiente. Esso fu introdotto da una (duplice)
scoperta scientifica (la fissione e fusione del nucleo dell’atomo) e dalla sua
applicazione a fini militari. Da ciò derivarono poi mutamenti anche in
termini di mentalità.
Quel che stupisce, mentre osserviamo come il modello concettuale di
Braudel si dimostri vitale e capace di farci cogliere anche aspetti della
veloce età contemporanea, è come in questo caso esso abbia ricompreso
anche un singolo événement in grado di rivelare in modo clamoroso
l’affacciarsi del sopraggiunto mutamento avvenuto nel profondo regno delle
strutture. Nella settimana della crisi di Cuba, infatti, il mondo percepì
davvero, sperimentandola nella propria angoscia collettiva, questa nuova
realtà strutturale dell’unitarietà dei propri destini in caso di guerra
termonucleare: questo sentirsi ciascuno, personalmente e collettivamente, a
rischio, indipendentemente dalla zona del pianeta in cui ci si trovasse.
Benché con gradi di consapevolezza anche notevolmente diversi, uomini e
donne tra i più diversi per luoghi, cultura e condizioni di vita, scoprirono in
quei giorni un senso di vulnerabilità comune di fronte agli eventi in corso.
Era chiaro che i rischi che si stavano correndo non restavano limitati entro
confini o tradizionali barriere morfologiche, né tenevano conto di tutte
quelle divisioni (ideologiche, economiche, religiose, ecc.) che tanto
nettamente sembravano separare gli uomini.
Conclusosi poi l’événement, ripresisi i popoli dallo spavento collettivo
come fa colui che si risveglia da un incubo, la coscienza collettiva
sostanzialmente si dimenticò dei pericoli esistenti, dei rischi scampati per
un pelo, della nuova realtà transnazionale che quell’evento aveva per un
attimo chiaramente esplicitato: allora il dibattito pubblico sulla corsa agli
armamenti si affievolì e quello sui rifugi antiatomici sparì del tutto;
l’interesse dei media e dell’opinione pubblica si spostò verso altri temi 25.
La successiva fase (o dovremmo dire congiuntura?) di relativa distensione
internazionale che seguì la crisi di Cuba, tranquillizzando la superficie delle
acque, agevolò l’archiviazione del problema, la rimozione della percezione
della nuova struttura che quell’événement aveva fatto balenare, portandola
per un istante sino alla superficie delle acque, ma che ora tornava ad abitare
le sue abituali profondità – immota e silenziosa, ma non per questo meno
possente e reale 26.
Avendo così identificato, per grandi linee, una struttura dietro
l’événement, ci si aspetterebbe che per comprendere il senso del secondo e
ritrovare tracce della prima, a tutto ci si affidi tranne che alla stampa
dell’epoca, che proprio Braudel indirettamente identificava come la fonte
evenemenziale per eccellenza, laddove definiva il tempo degli événement
come «il tempo del cronista, del giornalista» 27. Non dice infatti egli:
«diffidiamo di questa storia ancora scottante, quale i contemporanei l’hanno
sentita, descritta, vissuta»? 28 Non aggiunge che «superare l’avvenimento
significava superare il tempo breve che lo contiene, quello della cronaca o
del giornalismo»? 29 Qui però noi useremo anche quella fonte, anzitutto in
quanto crediamo che essa fosse spesso tutt’altro che inabile a cogliere i
significati profondi che si celavano dietro l’immediato; poi perché
riteniamo che essa possa essere preziosa nel restituirci le vere impressioni
con cui la gente visse in diretta quegli eventi, e non la considerazione che se
ne fece in seguito, osservandoli a bocce ferme, con la tranquillità e il
«senno di poi». Lo storico, si potrebbe dire, osserva il quadro da lontano,
quand’è già finito e incorniciato; la stampa dell’epoca invece, se ben
analizzata, ci aiuta a vederlo come lo vedeva la gente mentre ancora lo
stavano dipingendo.
Anche altre considerazioni spingono qui a usare questo strumento. Non
solo, infatti, i giornalisti «sono talvolta i Giovanni Battista che hanno aperto
la strada ai professionisti della storiografia» (nel senso che «offrono agli
storici spunti che verranno poi da essi ripresi e sviluppati, non sempre
ricordandone le origini») 30; non solo il giornalista è colui che «per primo
riduce gli avvenimenti a storia» e che «accreditando di essi una prima
versione suscita reazioni pubbliche e private che ne condizionano il
corso» 31; il fatto è che, come messo in luce da Pierre Nora 32, proprio
l’informazione è caratteristica ormai assolutamente essenziale di ogni
événement contemporaneo. E, aggiunge Edgar Morin, «è proprio
l’avvenimento-informazione a consentire di capire la natura della struttura
(…)» 33. Il che significa che da come un avvenimento, presentato sotto
forma d’informazione, viene (o meno) recepito, riusciremo a capire
qualcosa in più anche sulla struttura che esso sottende.
A questo punto, allora, può essere utile chiamare in causa il grande
studioso dei mezzi d’informazione: Marshall McLuhan.
Il messaggio non formulato di un assemblaggio di
notizie da ogni angolo del globo è che il mondo
oggi è un’unica città.
Ogni guerra è una guerra civile 34.

Quel che abbiamo appena cercato di mettere in luce sul piano militare e
geografico, partendo dallo schema di Braudel, McLuhan lo mette in luce
invece partendo dal piano dell’informazione. Le due prospettive si
confermano a vicenda.
Ciò che è unificazione militare dei destini in caso di guerra
termonucleare diviene in McLuhan unificazione diremmo cognitiva e
sociologica, anche in tempo di pace, attraverso i media. La comunicazione
intercontinentale, l’istantaneo trasmettersi delle notizie da una parte all’altra
del globo (rivoluzione compiutasi, egli ci spiega, attraverso alcune tappe
storiche progressive: prima la stampa, poi – ai suoi tempi – la radio e la
tv 35, e ora potremmo aggiungere Internet, a conferma del valore anche
profetico delle sue analisi), è già un qualcosa di estremamente potente ed
unificatore, che cambia radicalmente la situazione mondiale, nonché la
percezione che avevamo di noi stessi e degli altri, il nostro modo di agire e
di pensare.
Il fatto che le notizie arrivino e siano condivise in un attimo a così grandi
distanze in un certo senso annulla tempo e spazio. Si tratta, continua
McLuhan, di una sorta di estensione dell’essere umano, ed è dunque
finanche più importante del contenuto stesso delle singole notizie trasmesse
attraverso quel mezzo. In questo senso va dunque intesa la sua celebre
affermazione che «il mezzo è il messaggio».
Un’autentica rivoluzione insomma è ormai avvenuta. E McLuhan ne
illustra avvento, portata e conseguenze. Ascoltiamolo: «È sorprendente
vedere come Marx sia riuscito a ignorare i media della comunicazione come
il fattore fondamentale nel processo di mutamento sociale. Perché i mezzi
di produzione [cioè quello che secondo Marx era il vero fattore
determinante], specialmente dopo Gutenberg, non sono che note a pie’ di
pagina o appendici della stampa in sé» 36.
«La mera veste tipografica della pagina di giornale fu più rivoluzionaria
nelle sue conseguenze intellettuali ed emozionali di qualsiasi cosa che possa
essere detta riguardo qualsiasi parte del globo» 37. Di conseguenza (e quanto
suonano attuali queste sue frasi ai tempi di Internet), «l’uomo nell’era
elettronica non ha alcun possibile ambiente se non il globo e nessuna
possibile occupazione se non la raccolta di informazioni».
McLuhan interpreta le tecnologie prodotte dall’uomo come estensioni o
viceversa autoamputazioni del suo stesso essere. Esse estendono la portata
del corpo umano: si pensi al megafono, il quale estende il potere delle
nostre corde vocali, al binocolo che estende la nostra vista, alla radio che
estende la capacità delle nostre orecchie, e così via. Quanto poi al computer,
scrive McLuhan, esso è «con ogni probabilità la più straordinaria veste
tecnologica mai messa a punto dall’uomo, in quanto è estensione del nostro
sistema nervoso centrale» 38. «Nelle ere della meccanica avevamo esteso i
nostri corpi nello spazio. Oggi […] abbiamo esteso il nostro stesso sistema
nervoso centrale in un abbraccio globale [a global embrace] che, per quanto
concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo che lo spazio» 39.
«Global» è vocabolo frequente nella terminologia dello studioso
canadese, il quale, in due saggi usciti proprio tra il 1962 e il 1964 40 – cioè a
pochi mesi dalla crisi di Cuba, con tutte le connesse suggestioni di rischi
atomici che l’autore, vivendo a Toronto, non poteva non subire – sviluppava
il concetto, oggi divenuto espressione comune, di «villaggio globale». Quel
che egli intedeva dirci con questo splendido ossimoro è come, soprattutto
tramite l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e l’avvento dei satelliti, il
mondo sia ormai divenuto piccolo e interconnesso, ed abbia assunto di
conseguenza i tratti tipici di un vecchio villaggio, sebbene di dimensioni
planetarie. «La famiglia umana esiste ormai sotto le condizioni di un
villaggio globale. Viviamo in un unico costretto spazio risonante di tamburi
tribali» 41. È «un mondo di informazione simultanea, vale a dire un mondo
di risonanza, in cui tutti i dati influenzano altri dati» 42. Non a caso, nel 1962
le notizie della crisi di Cuba giungevano fino agli angoli del mondo abitato:
i media stavano annullando le distanze comunicative proprio come le armi
termonucleari stavano annullando quelle militari in termini di impatti di una
guerra. La crisi nucleare in corso rivelava dunque la sua natura pienamente
globale e suscitava attenzione mediatica di raggio analogo, come abbiamo
verificato consultando quotidiani di ogni continente, isole Pacifiche incluse
(si veda la Bibliografia), trovandoli tutti intenti a descrivere la crisi in
corso 43.

Tra i punti di passaggio che hanno sancito questo epocale mutamento


verso la nuova realtà del «villaggio globale» c’è, per McLuhan, un evento
di appena pochi anni prima: la messa in orbita del satellite artificiale
Sputnik. Uno dei principali significati di quell’impresa sovietica fu infatti di
aprire la strada alla possibilità di trasmettere informazioni in tempo reale a
distanza planetaria, anche indipendentemente dagli ostacoli della curvatura
terrestre. «Forse – scrive McLuhan – la più vasta rivoluzione concepibile
nell’informazione avvenne il 17 ottobre 1957, quando lo Sputnik creò un
nuovo ambiente per il pianeta. Per la prima volta il mondo naturale era
completamente racchiuso in un contenitore fatto dall’uomo» 44. Tutto ciò
naturalmente non poteva restare privo di conseguenze. «Nel momento dello
Sputnik, il pianeta divenne un teatro globale nel quale non ci sono spettatori
ma solo attori. Sull’Astronave Terra non ci sono passeggeri; tutti siamo
membri dell’equipaggio» 45. «Questi fatti – aggiunge McLuhan – non si
presentano come ideali, ma come immediate realtà» 46, chiarendo come non
si tratti di sue elucubrazioni teoriche o futuribili previsioni, ma di situazioni
già constatabili.
Non più spettatori ma solo attori, dunque. Tutti partecipi attivamente e,
volenti o nolenti, tutti coinvolti dagli eventi che accadono all’«Astronave
Terra». Ma come si traduce questa nuova condizione umana quando
incontra una realtà antica e apparentemente sempiterna come la guerra?
Ebbene, anche la guerra diverrà anzitutto una guerra di immagini. Dice
McLuhan: «La copertura [mediatica] è la guerra. Se non ci fosse copertura
[…] non ci sarebbe guerra. Sì, gli uomini delle notizie e dei media intorno
al mondo sono i veri combattenti, non più i soldati» 47. E nel caso della
guerra atomica? «La bomba atomica trasformerà l’attività della guerra nella
manipolazione di immagini» 48.
La guerra, dunque, nell’era della bomba H e del villaggio globale tende a
diventare in primo luogo mediatica 49. Se è così, allora, diventa
particolarmente importante anche per gli storici analizzare la copertura
mediatica delle guerre – o, nel nostro caso, della crisi che sfiorò la più
terribile delle guerre. Nel contesto di una crisi internazionale, infatti, le
notizie diventano un’arma. «Generation of news by the government
becomes one weapon», come confessò candidamente proprio a proposito
della CMC un portavoce del Pentagono, scatenando infatti un acceso
dibattito sul ruolo dell’informazione e sui suoi rapporti col governo in simili
contesti di crisi 50.
Proviamo infine a sviluppare un altro degli spunti di McLuhan. Se, come
mostrato, per lui i grandi cambiamenti tecnologici apportano mutamenti
profondi anche all’uomo e al suo essere, quali furono quelli apportatigli
dall’arma atomica? È ormai acclarato 51 che l’esistenza dell’atomica abbia
generato notevoli cambiamenti di mentalità, non solo sotto il profilo
politico-militare (le nuove teorie e strategie fondate sulla deterrenza ne sono
un esempio), ma anche sotto forma di un’ansietà recondita insinuatasi
nell’animo dei popoli 52. Uno degli effetti collaterali dell’arma atomica fu di
rendere più evidente all’uomo la sua sopravvenuta vicinanza e
interdipendenza, il suo abitare, appunto, un unico villaggio globale. Col
che, quelli che McLuhan chiamava i «passeggeri divenuti membri
dell’equipaggio» dell’«Astronave Terra» o gli «spettatori divenuti attori»
del «villaggio globale» si ricongiungono al concetto di globalizzazione del
teatro di guerra termonucleare da noi poc’anzi teorizzato partendo dallo
schema di Braudel. Il teatro di guerra, così come il villaggio che abitiamo,
in certe circostanze si rivela ormai inesorabilmente unitario, globale. La
bomba H lo ha reso chiaro dal punto di vista geografico-militare (e dunque
politico), McLuhan ce lo conferma attraverso l’analisi dei media (e della
loro influenza sull’uomo).
Introdotta questa chiave interpretativa, passiamo a riscontrare tali
concetti, addentrandoci in quella ricchissima galassia di eventi e percezioni
che fu la crisi dei missili di Cuba.
Parte prima

EVENTI
1
Prologo

«If they want this job, fuck’em, they can have it! It’s no great joy to
me!» 1 – «Se vogliono il mio posto, beh, andassero a fanculo, possono anche
prenderselo! Non è che mi dia tante soddisfazioni!»
Il Presidente era furioso 2. Aveva appena finito di discutere con i
principali leader del Congresso, al piano di sotto della Casa Bianca, per
metterli al corrente della pericolosissima situazione creatasi, delle rischiose
contromisure che aveva deciso di prendere e che tra pochi minuti anche il
popolo americano e il mondo intero avrebbero appreso da lui. Quelli del
Congresso non l’avevano presa affatto bene: anzi, le critiche più aspre gli
erano arrivate proprio dagli esponenti del suo partito. Ora quindi c’era solo
da sperare che col mondo andasse un po’ meglio.
Non è difficile immaginare quali pensieri dovessero affollargli la testa in
quei momenti, mentre, riprendendosi dall’ira, lasciava l’ala privata della
Casa Bianca e percorreva in fretta i corridoi interni che conducevano al
luogo dal quale, tra pochi minuti, avrebbe dovuto parlare alla nazione. La
prossima mezz’ora sarebbe stata particolarmente importante. Non poteva
più sbagliare, tantomeno riguardo a Cuba. Adesso, parlando in tv, avrebbe
dovuto mostrarsi fermo, determinato, cupo. A Mosca stavolta dovevano
proprio capire che faceva sul serio. Ma d’altra parte non poteva neanche
scatenare il panico, quindi doveva mostrarsi anche tranquillo, sicuro, in
controllo. Non poteva far trapelare più di tanto i suoi stessi dubbi sul fatto
che il corso d’azione prescelto potesse rivelarsi quello sbagliato, con
conseguenze inimmaginabili, forse fatali. Per quanto rischiosa o inefficace
quella mossa potesse sembrare (agli altri o perfino a se stesso) 3, il guaio era
che tutte le alternative erano anche peggio…
Qualcuno del suo seguito aprì davanti a lui la porta dello Studio Ovale.
Entrò. Lo trovò molto diverso rispetto all’ultima volta che era uscito da
lì, appena un’ora prima. Tutto il mobilio della stanza era stato rimosso. Al
posto dei mobili c’erano ingombranti telecamere, nastri adesivi, teli, una
sfilza di cavi elettrici e una pletora di cameramen e fotografi che si
muovevano indaffarati per la stanza, come in uno studio televisivo. John
Fitzgerald Kennedy, il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti
d’America, avanzò e andò a sedersi dietro la sua scrivania. Alle sue spalle,
davanti alle finestre, avevano sistemato uno sfondo scuro, per assicurarsi
che lo spettatore concentrasse l’attenzione su una cosa soltanto: il suo volto.
Che di fronte al teleschermo ci fosse Frank Sinatra o Joe l’idraulico 4, un
businessman o un intellettuale, un wasp 5 del New England o un
afroamericano del Mississippi, un esule cubano o finanche Fidel Castro o
Nikita Kruscev in persona, quella sera avrebbero dovuto ascoltarlo tutti con
estrema attenzione: le novità che aveva, presto, li avrebbero riguardati
molto da vicino.
Dall’altra parte del teleschermo, l’intera nazione era in allerta. Per
quanto si fosse riusciti quasi miracolosamente a tenere il segreto per quasi
una settimana, ormai le indiscrezioni avevano cominciato a trapelare. Una
grave crisi era nell’aria. Probabilmente si trattava di Cuba: evidenti
spostamenti di truppe ed armamenti verso la Florida sembravano
confermarlo. Il «raffreddore» che nei giorni scorsi aveva costretto il
Presidente ad abbandonare il suo viaggio elettorale a Chicago per tornare
improvvisamente a Washington cominciava ora ad acquistare più senso.
Quella mattina Pierre Salinger, addetto stampa della Casa Bianca, aveva
laconicamente annunciato ai reporter di aver chiesto e ottenuto dai
principali network televisivi mezz’ora di spazio per trasmettere un discorso
del Presidente «su questioni della massima urgenza per la nazione» 6. Le
edizioni pomeridiane dei giornali lo avevano subito stampato a quattro
colonne: «Highest National Urgency; JFK Talks to Nation Tonight» 7.
L’audience stimata era di circa cento milioni di americani 8. La
televisione era un mezzo relativamente nuovo, ma già parecchio diffuso.
Troppo giovane per aver potuto raccontare la seconda guerra mondiale, era
però ormai abbastanza adulta da essersi infilata nella grande maggioranza
delle case americane 9. Chi non la possedeva, comunque, quella sera era
andato ad affollarsi davanti al teleschermo di qualche bar, o almeno aveva
acceso la radio.
Giusto un’ora prima, intanto, mentre l’attesa e la tensione salivano
freneticamente in tutto il Paese, a Washington qualcuno aveva avuto il
privilegio di un’esclusiva anteprima. Si trattava dell’ambasciatore sovietico.
Anatoly Dobrynin era stato convocato d’urgenza al Dipartimento di Stato 10,
dove il segretario americano Dean Rusk, in pochi minuti di nervoso e
freddo colloquio, gli aveva consegnato una busta contenente il testo
dell’imminente discorso di Kennedy, più una breve lettera
d’accompagnamento, personalmente indirizzata da Kennedy al primo
segretario dell’Unione Sovietica, Nikita Kruscev. Dobrynin era pregato di
trasmetterla immediatamente a Mosca.
Rusk, lui per primo tremendamente scosso dagli eventi e dal peso delle
responsabilità decisionali degli ultimi giorni, adesso poteva vedere l’effetto
che quelle notizie facevano sul volto del suo interlocutore: «Lo vidi
invecchiare di dieci anni di fronte ai miei occhi», ricordò poi 11. Ed era
comprensibile, visto che, per poter negare più plausibilmente, Dobrynin
stesso era stato tenuto all’oscuro di importanti sviluppi dal suo medesimo
governo, e si trovava dunque completamente ‘al buio’. Lasciando Rusk e
uscendo, visibilmente impallidito, dai cancelli del Dipartimento di Stato,
egli naturalmente aveva trovato ad aspettarlo, prima ancora della limousine
nera dell’ambasciata sovietica, una frotta di cronisti americani assetati di
notizie. «È una crisi??» gli aveva urlato uno di loro nella ressa. «Tu cosa ne
dici?» aveva replicato lui, sventolandogli davanti per un attimo la busta
gialla e scomparendo in tutta fretta dentro l’auto 12.
Appena poche centinaia di metri più in là, al numero 1600 di
Pennsylvania Avenue, il Presidente era ormai pronto. Sulla sua scrivania,
coperta da un panno nero, era rimasto poggiato solo un piccolo leggìo, con
sopra i fogli del discorso che tra poco avrebbe dovuto leggere. Lo aveva
preparato accuratamente con il suo speechwriter e fidato consigliere, Ted
Sorensen, che negli ultimi tre giorni, partendo da una prima bozza, l’aveva
corretto, ribattuto e limato con lui un’infinità di volte, lavorandoci anche di
notte mentre «l’ora P» si avvicinava 13. Sotto la sua scrivania, invece, si
trovava un piccolo microfono nascosto. Il Presidente lo sapeva bene: era
stato proprio lui a chiedere che venisse installato, giusto qualche settimana
prima. Così, quando riteneva che una sua conversazione potesse essere una
di quelle «da ricordare», con noncuranza faceva scivolare la mano dentro
un piccolo vano portapenne incavato nella scrivania e con un colpetto del
dito azionava l’interruttore che vi era nascosto 14. A quel punto, qualche
metro più sotto, i nastri magnetici sistemati nel basement della Casa Bianca
cominciavano a girare, registrando tutto quanto avveniva al piano di sopra.
Quando un nastro finiva, automaticamente un altro entrava in funzione. A
conoscere l’esistenza di questo dispositivo segreto erano soltanto la sua
segretaria personale Evelyn Lincoln (la cui fedeltà a Kennedy era
leggendaria) e i due uomini del servizio segreto che erano stati incaricati di
installarlo e mantenerlo in funzione. Nessuno, dunque, né tra i suoi
interlocutori né tra i suoi più stretti collaboratori, era a conoscenza di poter
essere quotidianamente registrato quando entrava nello Studio Ovale a
parlare con il Presidente (o quando partecipava con lui ad una riunione
governativa nell’adiacente Cabinet Office, dove pure erano stati nascosti
microfoni e dispositivi analoghi). Soltanto Robert, suo fratello, ne era stato
informato a quattr’occhi 15. Ma la cosa di sicuro non aveva modificato il suo
comportamento, dal momento che entrambi i fratelli continuavano
tranquillamente, di quando in quando, a fare affermazioni forti e
potenzialmente dannose per la loro carriera politica, anche a microfoni
aperti 16. Non si sa con precisione perché Kennedy avesse fatto installare
quel sistema, ma si presume 17 che i motivi non potessero essere che due: o
per tirarli fuori all’occorrenza e provare così qualche specifico particolare,
in difesa di se stesso o contro qualche avversario politico; oppure, molto più
probabilmente, per aiutare la sua memoria quando, finiti i due mandati che
aveva in programma di trascorrere alla Casa Bianca, avrebbe cominciato a
stendere le memorie della sua presidenza. Proprio come aveva in mente di
fare, proprio come gli dettava la sua passione per la storia; proprio come
aveva fatto prima di lui il suo modello di statista: Sir Winston Churchill.
Le cose, com’è noto, andarono poi diversamente.
Ad ogni modo, quando nel settembre di quell’anno Kennedy aveva fatto
installare quei registratori (il cui contenuto, per la prassi vigente all’epoca,
sarebbe rimasto di sua esclusiva proprietà privata), egli probabilmente non
immaginava che di lì a breve essi avrebbero dato luogo ad una delle più
preziose fonti storiche mai apparse. L’esistenza di quei nastri – rimasta del
tutto ignota fino agli anni Settanta e le cui difficili operazioni di trascrizione
richiesero poi ulteriori anni – si sarebbe infatti rivelata di un’importanza
unica, dando agli studiosi l’opportunità di seguire da vicino (e dunque
ricostruire e comprendere) la genesi e lo sviluppo di una crisi internazionale
senza precedenti, attraverso l’ascolto dei dibattiti segreti della più potente
leadership coinvolta. In pratica Kennedy, consapevolmente o meno, aveva
regalato agli storici qualcosa che essi non avevano mai avuto, ma avevano
sempre desiderato: un buco della serratura affacciato sulla stanza dei
bottoni 18. Una vera miniera di materiale rivelatore, ampio e preziosissimo.
Magari difficile da decodificare (per via della bassa qualità di registrazione
dell’epoca, per i rumori, le molte voci che si sovrappongono, le persone non
identificate, le frasi lasciate a metà, la mancanza del linguaggio non
verbale, e così via); ma anche, per chi ama la storia, un materiale
straordinariamente emozionante. Con il suo personale buco nella serratura,
insomma, egli non aveva solo garantito alla comunità degli studiosi futuri
un impareggiabile strumento di analisi e la conseguente opportunità di
trarne giudizi e lezioni per le leadership future. Aveva anche, senza
immaginarlo, realizzato il sogno proibito di qualsiasi storico.

Lontano anni luce da questi problemi sentimental-metodologici, il


Presidente adesso era raccolto in silenzio. Si era spostato per qualche
momento nel Cabinet Office, da solo, per rileggere un’ultima volta il testo
del suo discorso 19. Cercava di concentrarsi e rilassarsi. Appena due giorni
prima, aveva telefonato a sua moglie Jacqueline per chiederle di tornare
subito in città dalla vicina residenza campestre di Glen Ora, in Virginia,
dove era appena arrivata per passare, come al solito, il weekend con i
bambini. Lei, intuendo dalla richiesta inusuale e dal tono di voce del marito
che qualcosa non andava, aveva svegliato i bambini ed era tornata. Verso le
sei di quel pomeriggio, passeggiando con lei nel roseto della Casa Bianca,
Kennedy, su consiglio del suo staff, le aveva parlato della possibilità che –
se le cose si fossero messe davvero male – lei prendesse subito un elicottero
con i bambini e si facesse scortare a Camp David o a Mount Weather, nel
rifugio antiatomico segreto scavato all’interno delle montagne della
Virginia per proteggere i membri del governo americano in caso di guerra
atomica. Ma Jackie aveva risposto pregandolo di non farle prendere alcun
elicottero: avrebbe preferito rimanere con lui, sul prato della Casa Bianca,
fino alla fine 20. Per quanto confortante, quella loro conversazione era un
segno della follia della situazione in cui egli si trovava. Forse però la guerra
era ancora evitabile. Adesso doveva tornare di là e tentare di spiegarlo al
mondo.
La sua innata capacità di parlare alla gente, di comunicare con l’opinione
pubblica in maniera convincente, di usare abilmente tutti i media a proprio
vantaggio politico, era ormai acclarata. Ne aveva già fatto le spese, in
campagna elettorale, il suo avversario repubblicano Richard Nixon, che
aveva visto un numero decisivo di consensi spostarsi dall’altra parte proprio
dopo i loro confronti televisivi 21. Appena eletto, poi, egli aveva dato inizio
alla prassi di tenere conferenze stampa più frequenti, invitando spesso i
giornalisti alla Casa Bianca e dimostrando di non avere alcun problema nel
gestirne le domande, anzi usando queste occasioni per costruirsi un
consenso politico e rafforzare la propria immagine di leader. La sua forza
mediatica, insomma, era fuori discussione, ma il compito che gli stava
davanti adesso non era facile neppure per un politico del suo carisma. Le
parole che stava per dire avrebbero sicuramente segnato una svolta decisiva,
nel bene o nel male, per il suo popolo e non solo. Nel giro di poche ore ne
avrebbe scoperto le dirette conseguenze e avrebbe capito se erano state una
scelta discreta o un errore catastrofico. Adesso comunque non gli restava
che pronunciarle. Così lasciò il Cabinet Office e rientrò nello Studio Ovale,
dove già tutti lo attendevano. Nella stanza gli orologi segnavano le 18.59 di
lunedì 22 ottobre, 1962. Sedutosi alla scrivania, il Presidente guardò fisso in
camera, attese dall’operatore il segnale di messa in onda e cominciò:

«Good evening, my fellow citizens…»


2
Verso il climax.
Cenni sulla guerra fredda 1956-
1962
La crisi dei missili di Cuba del 1962 fu un
culmine di questo processo. […] Quello che fu più
terrificante riguardo alla crisi di Cuba, perciò, è
che in essa non c’era nulla di innaturale 1.
Norman Cousins

La sera del 22 ottobre 1962 le tensioni della guerra fredda stavano


raggiungendo un nuovo apice. Il confronto internazionale tra le due
superpotenze non aveva mai toccato livelli tanto alti. Quel momento però
non era che il picco di una fase di tensioni crescenti, una serie di sfide che si
erano andate sviluppando negli anni precedenti in vari luoghi del mondo.
Sarebbe impossibile capire la CMC se la prendessimo isolatamente, senza
inserirla all’interno del periodo storico in cui essa si verificò e che la
produsse. Per questo cercheremo ora di fornire, quanto più accuratamente e
sinteticamente possibile, i principali riferimenti su quella fase (1956-1962):
una manciata di anni che trascorsero in un susseguirsi praticamente
ininterrotto di grandi eventi, crisi e svolte cruciali. Erano gli anni che in
seguito sarebbero stati ricordati come i più decisivi e pericolosi della guerra
fredda.

Se in quell’autunno 1962 il presidente degli Stati Uniti era John F.


Kennedy, nei palazzi del Cremlino invece la posizione di massimo potere
era occupata da diversi anni da Nikita S. Kruscev. Classe 1894, ucraino,
nato povero da padre contadino, Kruscev in gioventù aveva lavorato per
diversi anni come minatore. Praticamente privo di istruzione (aveva
completato solo i primi quattro anni 2, tanto che fino alla fine la sua scrittura
non sarà del tutto esente da errori di ortografia), era però dotato di
un’intelligenza sopraffina, e di grande energia. Fervido credente
nell’inevitabilità storica della vittoria mondiale del socialismo, aveva
cominciato a fare politica locale e, giunto poi a Mosca nel 1929, era entrato
nella cerchia dei collaboratori di Stalin. Dopo aver sovrinteso per lui alla
costruzione della grande metropolitana di Mosca, era stato inviato in
Ucraina come capo locale del Partito, e in questa veste aveva condiviso con
lo stalinismo pesanti responsabilità di arresti ed esecuzioni di massa ai
danni della popolazione locale. Responsabilità che poco prima di morire
egli confiderà al commediografo Mikhail Shatrov essere il suo più grande
rimorso: «Le mie braccia sono immerse nel sangue fino ai gomiti. Questa è
la cosa più terribile che giace nel mio animo» 3. Durante la seconda guerra
mondiale aveva poi ricoperto l’importante ruolo di commissario politico a
Stalingrado, fungendo da collegamento col Cremlino nei mesi dell’assedio
tedesco alla città. Infine, dopo la morte di Stalin (1953), era
progressivamente riuscito a sgominare politicamente tutta l’agguerrita
concorrenza per la successione, fino a concentrare in sé tutte le leve del
potere (in ultimo ricoprendo entrambe le massime cariche: quella di
segretario del Partito e quella di presidente del Consiglio dei ministri).
Giunto al potere, Kruscev si sarebbe mostrato capace di gesti di
coraggiosa innovazione così come di sanguinose repressioni «vecchio
stile». Grandi aperture e grandi chiusure si alternavano nelle sue linee
decisionali. Personaggio intriso sia di bene sia di male, era in grado di
valutare l’aspetto morale delle situazioni, ma anche, all’occorrenza, di
dimenticarsene per seguire quel che gli consigliavano istinto o necessità di
Realpolitik. Capace di analisi politiche lucidissime, talvolta compiva invece
errori di valutazione marchiani, a causa di pregiudizi ideologici o del suo
personalissimo wishful thinking. Ora aggressivo ora mansueto, a seconda
delle occasioni sapeva trattare qualsiasi persona (avversario o collega, capo
di stato o artista) con cortesia e villaneria parimenti uniche. Amante dei
gesti plateali e delle uscite a effetto, usava un linguaggio ora raffinato e
metaforico, ora estremamente rozzo e concreto: sempre però di grande
efficacia. Uomo di calde passioni e fredda razionalità, era capace di reazioni
d’impeto e di calcolate furberie, di mosse audaci e della più chiara
prudenza. Disposto a giocare d’azzardo anche pesantemente, ma abile a
capire quando e come ritirarsi dal gioco se la mano stava diventando troppo
rischiosa. Non a caso due dei suoi più stretti collaboratori, richiesti di
scegliere un aggettivo per definirlo, optarono entrambi per lo stesso
termine: azartnyi, cioè «spericolato», «testa calda» 4.
Kruscev restò al potere per meno di un decennio, ma in una fase di
svolte cruciali. Fu spesso considerato come un pericoloso dittatore in
Occidente e come un morbido appeaser del capitalismo all’interno del
proprio campo. Poco prima di morire egli avrebbe confidato al grande poeta
sovietico Evgenij Evtusenko (col quale pure aveva avuto rapporti
altalenanti tra elogi e insulti) la sua personale verità: «Io sono un figlio di
due epoche. Un uomo dentro di me capiva qualcosa e l’altro urlava
qualcosa di completamente diverso» 5.
Il monumento che oggi lo ricorda, sopra la tomba dove è sepolto, ha ben
rappresentato questo suo dualismo incastonandone il volto tra due grossi
blocchi di cemento, uno bianco ed uno nero. Nel bene e nel male, in una
manciata d’anni egli seppe imprimere un’impronta nitidissima sulla storia
del Novecento. Figura emblematica delle contraddizioni del sistema
comunista, Nikita Sergeevič Kruscev, con tutte le sue riforme e le sue
restaurazioni, le sue conquiste ed i suoi fallimenti, i suoi slanci e i suoi
ripiegamenti – anzi probabilmente proprio in forza di tutte queste sue
contraddizioni – risulta una figura storica di straordinario fascino. Un
personaggio, per carattere, contrasti e levatura, vagamente shakespeariano.

È a Kruscev, com’è noto, che la storia deve la prima clamorosa denuncia


dei crimini di Iosif Stalin. Dicendo ciò che nei palazzi di Mosca tutti
sapevano, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di ammettere, egli
aveva deciso di «squarciare il velo del tempio» e dichiarare Stalin come il
sanguinario dittatore che era stato, invece che come il benefattore della
patria e dell’umanità che fino ad allora era stato considerato, in URSS e nel
movimento comunista mondiale. Un gesto ai limiti dell’incoscienza, che
egli compì in un discorso pronunciato nel febbraio 1956 al XX Congresso
del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica). In quello che
teoricamente doveva rimanere un «lavaggio dei panni sporchi» a porte
chiuse, ma che inevitabilmente filtrerà presto anche alla stampa occidentale,
Kruscev denunciava Stalin come colpevole di uccisioni di singoli avversari
e di interi gruppi di popolazioni (le famigerate «purghe»), compiute per
soddisfare le sue paranoie di complotti o le proprie teorie ideologiche.
Stalin, affermò Kruscev, era responsabile di aver instaurato un vergognoso
«culto della personalità» (la propria) e di aver seguito linee politiche che
tradivano il marxismo-leninismo autentico. Era meglio che questa
autocritica la facessero da sé, prima che fossero altri a costringerli a farla –
spiegò ai colleghi che, tremanti e increduli, lo ascoltavano pronunciare per
la prima volta tutte quelle inconfessabili realtà 6. La mossa aveva anche un
tornaconto personale, giacché distruggere un passato ingombrante era anche
un modo di rafforzare il proprio astro nascente e di colpire certi suoi
concorrenti; senza contare che sostanzialmente glissava sulla fetta di
inevitabili complicità gravanti anche sul suo stesso passato. Ad ogni modo
si trattò di una coraggiosa e sincera sferzata, capace di imprimere una svolta
epocale e altamente positiva all’Unione Sovietica ed all’intero movimento
comunista mondiale. Fu un grande merito di Kruscev. Cominciò così la
destalinizzazione, un processo che in URSS avrebbe portato, per sua diretta
volontà, alla liberazione di centinaia di migliaia 7 di sovietici che erano stati
imprigionati e mandati in Siberia da Stalin come dissidenti o «nemici del
popolo». Figlio della destalinizzazione krusceviana sarà anche il cosiddetto
«disgelo», cioè un clima di relativamente maggiore apertura e libertà di
espressione. Per questo talvolta Kruscev viene considerato come una sorta
di Gorbacev ante litteram 8.
Tuttavia, più di tanto il regime non poteva cambiare, data la sua essenza
costitutiva; e dunque a fasi di apertura si alternarono alcuni relativi
dietrofront. Lo stesso avvenne all’estero, dove la notizia del «Rapporto
segreto» inevitabilmente era risuonata come uno shock senza precedenti,
risvegliando forze da tempo sopite. Così in Ungheria, dove le speranze
suscitate da quel clima di disgelo portarono, nell’autunno dello stesso anno,
ad un tentativo di rivoluzione nazionale, che arrivò fino al progetto di uscire
dal Patto di Varsavia (l’alleanza politicomilitare che riuniva i Paesi
comunisti est-europei sotto l’egida di Mosca) 9. A ciò seguì la decisione di
Kruscev – dal suo punto di vista, in un certo senso politicamente ineludibile
– di ristabilire l’ordine mandando i carri armati a Budapest a stroncare nel
sangue la richiesta di libertà e a fissare un esempio per eventuali tentativi di
emulazione tra i restanti membri del Patto. Per le coscienze di molti
militanti comunisti occidentali fu uno shock. Mosca si comportava dunque
come una potenza autoritaria dell’ancien régime, non come la forza di
progresso e di liberazione che diceva di essere. Alcuni militanti comunisti
affrontarono la realtà e stracciarono la propria tessera di partito. Molti altri
preferirono credere alla versione ufficiale che quello ungherese fosse stato
solo un vile tentativo di una cricca controrivoluzionaria. Gli Stati Uniti,
considerandola una vicenda interna alla sfera di influenza sovietica, si
limitarono a sollevare proteste all’ONU. Anche perché, esattamente negli
stessi giorni, un altro importante avvenimento stava occupando tutta
l’attenzione dell’Occidente: la crisi di Suez 10.
Qui Gran Bretagna e Francia stavano iniziando un intervento armato
congiunto contro l’Egitto, il cui popolare capo di stato, Nasser, aveva
appena deciso – per protestare in merito ad alcuni importanti finanziamenti
che gli erano stati promessi e poi ritirati dagli americani – di nazionalizzare
la compagnia che gestiva il transito nel locale canale di Suez. Nasser si
impadroniva così a sorpresa di un passaggio commerciale dal quale Francia
e Gran Bretagna ricavavano ingenti capitali. Ma mentre esse, non proprio
repentinamente, preparavano l’intervento, USA e URSS si affrettarono a
condannarlo rovesciando sul piatto tutto il loro peso politico (sotto forma di
minacce rispettivamente economiche e militari). L’intervento venne
annullato e la vicenda si risolse in un trionfo per Nasser e in uno smacco
imbarazzante per Parigi e Londra. Era la prova definitiva che le due antiche
potenze mondiali non erano più tali. Lo scettro era ormai passato a due
nuovi giganti extraeuropei: erano loro adesso a poter fare il bello e cattivo
tempo sullo scenario internazionale. Sebbene il veto più pesante fosse stato
probabilmente quello di Washington, più evidente era stato quello di Mosca,
che aveva ventilato esplicitamente la possibilità di mandare qualcuno dei
suoi missili nucleari su Gran Bretagna e Francia, se queste si fossero
permesse di toccare il giovane stato egiziano. Naturalmente era una
minaccia tutt’altro che reale, ma l’efficacia politica che riscosse avrebbe
incoraggiato Kruscev a replicare in futuro l’utilizzo di quei «peculiari»
metodi diplomatici.
In politica estera, infatti, la strategia di Kruscev era molto dinamica.
Anzitutto egli era convinto fautore della «coesistenza pacifica» o
«coesistenza competitiva»: una linea politica da lui lanciata 11 che
consisteva nel ripudiare la precedente dottrina dell’inevitabilità di una
guerra finale tra capitalismo e comunismo, sostenendo invece che la
competizione storica tra i due sistemi si sarebbe decisa in base al tenore di
vita che entrambi sarebbero riusciti a garantire alle rispettive popolazioni.
In quest’ottica non solo non serviva la guerra, ma anzi ad entrambi era
necessaria la pace per poter lavorare al perfezionamento delle proprie
economie. Per ora, riconosceva Kruscev, il capitalismo era ancora avanti al
socialismo, ma la storia marciava inevitabilmente in una direzione ben
precisa e presto le cose sarebbero cambiate. Dal 1917 in poi, enormi
progressi erano già stati compiuti in URSS sotto il socialismo (e questo in
effetti era vero, seppure ad un costo umano terribilmente alto), e nel giro di
pochi anni («entro il 1970!», arrivò perfino ad azzardare una volta) l’URSS
avrebbe superato gli USA nella produzione dell’acciaio, nei livelli di
produzione economica e poi anche nella capacità di garantire benessere.
Ancora un piccolo sforzo, predisse egli fiducioso e sorridente nel corso
della sua storica prima visita in America, e i capitalisti avrebbero visto i
rivali socialisti sfrecciargli davanti, salutarli da lontano con la mano e
gridare loro: «Do svidaniya, capitalisti!». L’effetto mediatico fu
clamoroso 12. Anche il suo personaggio umano – espansivo e a tratti perfino
simpatico – era l’antitesi del glaciale maresciallo Stalin.
Sempre in questo senso «escatologico» Kruscev aveva rivolto ad un
americano la famosa frase «Noi vi seppelliremo!», che naturalmente molti
in America avevano pensato bene di scambiare per una esplicita minaccia
militare. Ma Kruscev non era pazzo. Sapeva bene cosa avrebbe significato
una guerra con le nuove armi termonucleari, così come sapeva di essere
nettamente indietro nella cosiddetta «corsa agli armamenti». Solo che fuori
dal Cremlino pochi lo immaginavano, ed egli era ben deciso ad alimentare
quanto più a lungo possibile l’equivoco. E per far questo, avrebbe dovuto
mantenere sempre lui l’offensiva diplomatica. Come ha ben sintetizzato
Gaddis, «proprio perché il potenziale sovietico era inferiore a quello degli
Stati Uniti, era essenziale non apparire intimiditi dagli Stati Uniti: essere
indietro comportava essere bellicosi» 13. Così Kruscev reiterava le sue
vanterie missilistiche: i nostri razzi – amava ripetere, sapendo a tiro
orecchie occidentali – sono ormai così precisi che potremmo «colpire una
mosca nello spazio», in ogni parte del mondo. L’Unione Sovietica, disse
un’altra volta parlando a New York all’ONU, sfornava continuamente nuovi
missili, «come salsicce da una macchina automatica, un razzo dopo
l’altro!» 14. A rendere possibile questa strategia basata sul bluff giocava il
fatto che gli impianti militari fossero ovviamente inaccessibili a qualsiasi
osservatore straniero, il che rendeva difficile per le due superpotenze
procurarsi dati sicuri sulla reale consistenza dell’arsenale nemico,
specialmente quando questo poteva essere disperso su un territorio
sconfinato e poco accessibile come quello sovietico. Fu per questo che
progressivamente entrarono in gioco romanzeschi agenti di spionaggio e
rischiose missioni di intrusione compiute dagli aerei americani (gli U-2:
agili velivoli di ricognizione capaci di volare anche ad altissima quota ed
equipaggiati con macchine fotografiche o con rilevatori di radioattività
dell’aria). Ma per il momento l’equivoco continuava.

Inoltre, sul finire degli anni Cinquanta, alcuni elementi oggettivi


avevano diffuso nel mondo l’impressione che fossero gli Stati Uniti, tra le
due, la superpotenza che arrancava dietro l’altra. Clamoroso in questo senso
fu, il 4 ottobre 1957, il lancio dello Sputnik 15. Si trattava del primo satellite
artificiale mai realizzato dall’uomo, ed era stato mandato in orbita
dall’Unione Sovietica. La sorpresa mondiale fu enorme. Un mese dopo,
mentre un analogo tentativo statunitense falliva miseramente (e il «Daily
Herald» titolava ironico: Oh, What a Flopnik!) 16, l’URSS replicava
mandandone in orbita un secondo, più grande, con a bordo una cagnetta,
chiamata Laika. Cominciava l’era spaziale, un nuovo settore della
competizione tra le due superpotenze, che tra l’altro era legato (soprattutto
nell’immaginario collettivo) alla competizione militare. Infatti lanciare un
razzo nello spazio richiedeva una capacità tecnologica analoga a quella
necessaria per lanciare un missile intercontinentale su un bersaglio terrestre.
Essere avanti nella tecnologia spaziale faceva dunque presupporre di essere
avanti anche in fatto di tecnologia bellica. Come se non bastasse, l’Unione
Sovietica arrivava prima (seppur di pochi mesi) anche alla realizzazione del
primo missile atomico intercontinentale (ICBM). Al di là del primato,
questo fatto rafforzava potentemente la definitiva constatazione di una
nuova realtà: mentre nessuna guerra moderna si era ancora mai combattuta
sul territorio americano, ora esso era divenuto bersaglio raggiungibile dai
razzi sovietici, perfino se lanciati direttamente dall’URSS. Si faceva strada
nella società statunitense la consapevolezza che il «santuario» americano
era ormai violabile. Per ipotesi, diveniva possibile anche l’eventualità di un
improvviso first strike sovietico: una qualsiasi città americana, da un
momento all’altro, poteva diventare una nuova Pearl Harbor termonucleare.
Certo, una massive retaliation (rappresaglia massiccia) 17 sarebbe
immediatamente seguita, e questa certezza fungeva da potentissimo
deterrente per Mosca. Ma era vero anche il contrario. Si trattava appunto
della funzione di reciproca «deterrenza» svolta dalle armi nucleari. Sulla
base di questa comune convinzione, esplosivi sempre più costosi e micidiali
venivano progettati, testati e accumulati dalle due parti, con la speranza (e
la quasi certezza) che non sarebbero mai stati utilizzati. Tutto in base
all’idea che il solo fatto della loro esistenza avrebbe prevenuto i nemici dal
lanciare i propri 18. Così, per paradosso, le armi più micidiali mai concepite
dall’uomo servivano ora ad evitare la guerra. La reciproca ostilità doveva
esprimersi in altre forme: politiche, economiche, culturali, ma non
direttamente militari. La nuova dottrina politica, la brinkmanship,
prevedeva che ci si potesse/dovesse spingere fin sull’orlo (brink) della
guerra, ma mai superarlo. Tutti infatti sapevano che, se per un qualsiasi
motivo la guerra tra i due Stati fosse davvero scoppiata, sarebbe stata letale.
Questa nuova realtà cominciò a manifestare le sue forti conseguenze su
diversi piani (strategico, politico, culturale, sociale, etico). Aumentavano
dibattiti e paure, poiché l’arma estrema sollevava problemi estremi 19. Era
una situazione paradossale, vagamente folle. Ed infatti il gergo strategico
americano di lì a poco avrebbe trovato anche una buona sigla per definirla:
MAD. L’acronimo stava per Mutual Assured Destruction («distruzione
reciprocamente assicurata»), la parola pronunciata per intero era appunto, in
inglese, l’aggettivo «folle».
Intanto gli eventi internazionali continuavano a scorrere in un senso che
pareva confermare l’idea che il comunismo fosse in fase di generale
avanzata, forse inarrestabile. Sul piano economico, per quanto oggi possa
sembrare incredibile, negli anni Cinquanta il tasso di crescita delle
economie pianificate era risultato più alto di quelle capitaliste 20. A livello
politico, poi, quelli erano gli anni della «decolonizzazione», il processo
consistente nel definitivo raggiungimento dell’indipendenza nazionale da
parte di moltissimi Paesi che fino allora erano rimasti sotto il giogo
coloniale delle ex potenze europee (e dunque fin lì appartenenti di fatto al
campo occidentale). Era un periodo in cui le mappe geografiche di Africa e
Asia cambiavano letteralmente da un mese all’altro. Nel solo 1960
comparvero in Africa ben diciassette nuovi Stati. Così nuovi soggetti
politici entravano a far parte del sistema internazionale, trovando anche un
importante spazio di espressione grazie all’ONU. Inoltre non sempre i
processi di indipendenza venivano gestiti con saggezza dalle potenze
uscenti e dalle forze politiche entranti, il che portava non di rado a
sanguinose lotte di liberazione. In questa situazione le due superpotenze
trovavano un nuovo terreno di intervento e di competizione. Fornire armi o
assistenza economica all’una o all’altra parte emergente poteva significare
riuscire ad attirare il nuovo Stato sotto la propria influenza politica, o
quantomeno evitare che finisse sotto quella dell’avversario. La guerra
fredda si allargò a nuovi continenti. La paura del cosiddetto «effetto
domino» (se uno Stato cade sotto il comunismo finirà per tirarsi dietro
anche il resto di quella regione) cominciò a dettare le sue pericolose
logiche.

Un caso clamoroso in questo senso si ebbe a Cuba. Qui, dopo la lunga e


corrotta dittatura filoamericana presieduta dal generale Fulgencio Batista,
una rivoluzione nazionalista aveva portato al potere un gruppo di ribelli
guidati dal trentaduenne Fidel Castro. Cubano di nascita, costui proveniva
da una famiglia agiata e, dopo aver studiato prima dai gesuiti e poi
all’Università de L’Avana, era divenuto avvocato. Fin dalla giovinezza
aveva manifestato una generica passione politica, di orientamenti ancora
confusi. Le sue figure di riferimento erano grandi patrioti sudamericani del
passato anticoloniale, come Simon Bolivar e José Marti. Sulla loro scia, egli
si era deciso a divenire l’artefice della caduta di un regime che in effetti
ormai era gradito solo a latifondisti, affaristi nordamericani e proprietari di
casinò gestiti dalla mafia. Il primo tentativo di rivolta (l’assedio alla
caserma Moncada, del 26 luglio 1953) si risolse in un fallimento: Fidel e i
suoi furono immediatamente arrestati e processati. Il giovane avvocato usò
però la propria arringa difensiva come occasione per denunciare il governo
ed esporre il suo programma in cerca di supporto; fu la prima delle sue
celebrate orazioni, una filippica tanto lunga quanto efficace che si concluse
infine con una frase poi divenuta leggendaria: «Condannatemi, non importa.
La storia mi assolverà». Dei quindici anni comminatigli egli ne scontò
soltanto uno e mezzo; poi un’amnistia gli permise di rifugiarsi in Messico,
dove ricominciò a pianificare la ribellione. Lì fondò il «Movimento del 26
Luglio» ed incontrò un giovane medico argentino, comunista ardente, di
nome Ernesto Guevara, che nel giro di una notte Castro convinse ad unirsi
al gruppo. A Cuba Batista forse sottovalutò la minaccia dei ribelli, o forse si
rese conto di essere troppo privo di consenso per resistere. Fatto sta che
poco dopo, Castro e i suoi barbudos (così chiamati perché portavano tutti
una folta barba) sbarcarono sull’isola e infine il 1° gennaio 1959, mentre
Batista fuggiva precipitosamente all’estero, facevano il loro trionfale
ingresso a L’Avana, in diretta televisiva e accolti dall’esultanza generale
della folla. Per i cubani parve una liberazione, l’inizio di qualcosa di
radicalmente nuovo 21. Il cambiamento fu accolto con speranze enormi
anche nel resto dell’America Latina, e perfino in diversi settori degli Stati
Uniti. Come ha scritto lo storico Ennio Di Nolfo, «Castro presentava un
modello riformistico, nuovo e radicato nel popolo, con il quale, entro certe
condizioni, negli Stati Uniti si pensava di poter collaborare» 22. Il nuovo
governo fu subito riconosciuto dalla Casa Bianca, anche se covando già
qualche perplessità. Su invito di un’associazione di giornalisti americani
Castro si recò a Washington e ad Harvard, incontrò il vicepresidente Nixon
(il Presidente aveva fatto in modo di non vederlo), tenne applauditi discorsi
e assicurò più volte: «Siamo contro tutti i tipi di dittatori […]. Per questo
siamo contro il comunismo» 23. Tornato in patria, andò in tv e ribadì il
concetto: la nuova Cuba sarebbe stata diversa sia dal capitalismo («che
uccide per fame»), sia dal comunismo (che sopprime libertà «tanto care
all’uomo»). Una rivoluzione umanista: né a destra né a sinistra, piuttosto
«un passo avanti». Il suo colore non sarebbe stato il rosso, ma – come le
uniformi dell’esercito ribelle – il verde oliva 24.
Ma le cose stavano per cambiare. Reciproche diffidenze e mosse ostili da
entrambi i lati fecero degenerare in fretta i rapporti tra Washington e
L’Avana. L’immediata riforma agraria (con relative nazionalizzazioni ai
danni delle imprese straniere e ridistribuzione della terra ai contadini
cubani) era legittima, ma andava a ledere forti interessi americani. I 521 ex
ufficiali di Batista fatti fucilare all’indomani della rivoluzione dopo processi
sommari gettavano le prime ombre sulla democraticità del nuovo corso 25.
L’antiamericanismo di Castro, che traeva origine nel supporto lungamente
offerto da Washington all’odiato regime batistiano, si faceva sempre più
viscerale. Gli USA rispondevano con pressioni economiche di vario tipo,
cominciando a temere seriamente che la nuova Cuba divenisse una calamita
per tutti gli altri Stati dell’America Centrale e Latina, e che questi
cominciassero a replicarne il comportamento.
Parte del problema, inoltre, aveva cause remote. Sin dai tempi della
guerra ispano-americana del 1898, con la quale avevano sostituito al
dominio coloniale spagnolo una loro forte influenza sull’isola, gli USA
avevano sempre considerato Cuba come qualcosa di simile a una colonia 26.
Quell’isola esotica era un po’ come il loro giardino di casa: fruttuoso,
lussureggiante, del tutto innocuo. La predominanza politico-economica che
vi esercitavano da decenni, pur senza mirare ad annetterla, la rendeva
un’appendice al loro territorio 27. Ora l’arrivo al potere di Castro stava
modificando radicalmente questa situazione.
Poi, il 3 marzo 1960, una nave francese carica di armi appena giunta nel
porto de L’Avana esplose improvvisamente, in circostanze misteriose,
causando almeno 75 morti. La nave si chiamava La Coubre. Il giorno dopo,
ai funerali delle vittime, Castro fece un discorso memorabile e molto cupo,
in cui puntò solennemente il dito contro gli Stati Uniti: «Abbiamo ragione
di credere che questo sia stato un tentativo premeditato di privarci della
possibilità di avere armi […]. Non ci avrete né per guerra né per fame […].
Cuba non si farà intimidire […]. Patria o Muerte!» 28. Era lo strappo
definitivo. Già il giorno dopo, Fidel incontrava segretamente l’agente locale
del KGB (Aleksandr Alekseev), spiegandogli di aspettarsi ormai «misure
estreme» da parte degli americani, e per la prima volta chiedeva
esplicitamente a Mosca armi in caso di aggressione americana. Kruscev
fiutò l’opportunità e gli mandò a dire che poteva contare su tutta la simpatia
di Mosca per la sua causa. Intanto, sempre una dozzina di giorni dopo La
Coubre e sempre segretamente, il presidente americano Dwight Eisenhower
approvava un piano della CIA per reclutare un gruppo di esuli anticastristi
che rimpiazzassero il governo di Castro con uno «più devoto agli interessi
reali del popolo cubano e più accettabile agli Stati Uniti in una modalità tale
da evitare ogni apparenza di intervento statunitense» 29. Dando il via ai
preparativi del piano, Eisenhower raccomandò ai suoi: «tutti devono essere
pronti a giurare di non averne sentito parlare» 30.

A dover decidere se metterlo in atto, però, sarebbe stato un altro


Presidente. Prima che l’operazione fosse pronta, infatti, gli Stati Uniti
avrebbero dovuto designare il successore di «Ike» (com’era affettuosamente
soprannominato Eisenhower), scegliendolo tra il suo vicepresidente Richard
Nixon e il giovane senatore democratico John Fitzgerald Kennedy.
Quest’ultimo, di origini irlandesi, era figlio di un miliardario di Boston il
quale, negli anni Trenta, era stato anche l’ambasciatore americano a Londra.
Secondogenito di nove figli, nonostante una salute cagionevole JFK si era
arruolato come volontario in Marina, guadagnandosi anche una medaglia al
valore durante la seconda guerra mondiale. In questo conflitto era invece
rimasto ucciso suo fratello maggiore, Joseph Jr., che pareva destinato a una
brillante carriera politica. Alla sua morte, dunque, il testimone in famiglia
era passato a JFK, il quale, candidatosi con successo al Senato tra i
democratici nel 1952 e rieletto nel 1956, aveva poi deciso di candidarsi alle
elezioni presidenziali del 1960. Nonostante il suo cattolicesimo (in un Paese
a maggioranza protestante) e la sua giovane età, ma forte degli appoggi
politici ed economici della famiglia, egli era riuscito a conquistarsi
l’investitura del Partito. A quel punto, per sopperire alla propria minore
esperienza rispetto al candidato repubblicano Nixon, aveva condotto
un’abile campagna elettorale, nella quale – come in quei giorni si appuntò
nel proprio diario lo storico Arthur Schlesinger, che era anche consigliere
nel suo staff politico – JFK aveva «saggiamente deciso di concentrarsi su un
singolo tema e martellare quel tema finché tutti in America lo capissero:
[…] il suo senso del declino del nostro potere ed influenza nazionale e la
sua determinazione ad arrestare ed invertire questo corso» 31. L’America,
ripeteva Kennedy, era rimasta indietro. Nella corsa agli armamenti, per
esempio, si era creato un pericolosissimo missile gap rispetto all’arsenale
sovietico. A Mosca Kruscev, sentendo il proprio bluff elevato a oggetto
principale della campagna elettorale avversaria, dovette ridere di gusto. Era
giunta l’ora, diceva JFK, che l’America riprendesse l’iniziativa nella guerra
fredda. Gli americani avevano davanti a sé «una nuova frontiera» da
conquistare. La sua proposta poteva «riassumersi in una parola sola:
‘primi’. E non intendo ‘primi ma’. Non intendo ‘primi quando’. Non
intendo ‘primi se’. Intendo ‘primi, punto’» 32.
Kennedy vinse. Ed anch’egli, un po’ come Castro per i cubani, parve
incarnare l’inizio di una pagina nuova. Nella sua gioventù, nel suo eloquio
elegante e nel suo intelligente riformismo, l’intero Occidente intravide
nuove possibilità. Il suo discorso di inaugurazione (20 gennaio 1961) fu una
sorta di «chiamata alle armi» politica e morale 33, indirizzata a tutto il
«mondo libero», come amava autodefinirsi l’Occidente per distinguersi dal
blocco comunista:

Che ogni nazione, che essa ci auguri del bene o del male, sappia che
noi siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo, sostenere qualsiasi
fardello, affrontare qualsiasi prova, appoggiare qualsiasi amico,
opporci a qualsiasi nemico. […] Alle Repubbliche sorelle a sud dei
nostri confini, offriamo una speciale promessa: […] una nuova
alleanza per il progresso 34 […]. E che ogni altra potenza sappia che
questo emisfero intende rimanere padrone di casa propria […].
Infine a quelle nazioni che si volessero fare nostre avversarie,
offriamo […] la ricerca della pace prima che gli oscuri poteri della
distruzione scatenati dalla scienza inghiottano tutta l’umanità in una
voluta o accidentale autodistruzione […]. Possiamo noi non
negoziare mai per paura; ma non aver mai paura di negoziare. […]
Pertanto, miei concittadini, non chiedetevi cosa il vostro Paese può
fare per voi; ma cosa voi potete fare per il vostro Paese.

La guerra fredda aveva trovato un nuovo leader.

Una delle prime decisioni importanti che questi si trovò a prendere una
volta entrato alla Casa Bianca riguardava il piano preparato sotto
Eisenhower per sbarazzarsi di Castro. Kennedy ne richiese una versione
ridotta, che comportasse ancora meno visibilità; poi diede il suo «via
libera». Fu un disastro senza precedenti. Lo sbarco degli esuli presso la
locale Baia dei Porci (in spagnolo, Bahia de Cochinos o Playa Giron) venne
respinto facilmente, e ben 1180 dei 1297 soldati che erano sbarcati furono
fatti prigionieri dall’esercito di Castro 35. Kennedy non volle acconsentire ad
un aperto coinvolgimento della marina e dell’aeronautica americana,
riducendo così ulteriormente le già basse probabilità di successo
dell’operazione. In appena tre giorni (17-19 aprile 1961), la disfatta era
compiuta. L’invasione non era neppure andata vicino al successo, ma in
compenso il mondo intero aveva capito perfettamente che dietro quegli
esuli non poteva esserci che Washington. L’idea stessa di poter invadere un
Paese senza che si intuisse chi lo aveva fatto era già abbastanza assurda 36.
In più essa era stata eseguita in modo talmente inefficiente da rasentare il
grottesco. Basti pensare che alcuni bombardieri vennero abbattuti dalla
contraerea nemica perché erano giunti sul luogo dell’attacco con un’ora di
anticipo rispetto ai jet provenienti dal Nicaragua, che avrebbero dovuto
assicurare loro la copertura. Il motivo? Un malinteso sui fusi orari 37.
Il «Financial Times» descrisse «l’inettitudine a stento credibile
dell’operazione» 38. Il «Guardian» stigmatizzò quei metodi, definendoli
«esattamente le stesse manovre usate da Hitler in Austria e da Stalin in
Cecoslovacchia» 39. Schlesinger, giunto in Europa, dovette riaprire il suo
diario: «Sono arrivato oggi a Bologna […]. È evidente che l’affare cubano
ci ha fatto un danno immenso […]. Non sembriamo soltanto degli
imperialisti; sembriamo degli imperialisti imbranati, il che è peggio» 40. Poi
stese un rapporto per il governo: «Le prime reazioni [europee] a Cuba sono
state naturalmente di acuto shock e disillusione […]. Kennedy era
considerato l’ultima grande speranza dell’Occidente contro il comunismo e
per la pace […]. Ora in un colpo solo tutto sembrava spazzato via» 41.
Anche in America Latina il prestigio degli Stati Uniti precipitava e
l’antiamericanismo trovava nuovi e potenti argomenti. Ma le conseguenze
non erano pesanti solo in termini d’immagine. A Cuba Castro raccoglieva
un trionfo propagandistico di proporzioni insperate. La sua già grande
popolarità tra i cubani ne usciva ulteriormente rafforzata, mentre egli
coglieva l’occasione dell’emergenza nazionale per dare un definitivo «giro
di vite» autoritario alla situazione interna. Nei soli tre giorni dello sbarco
americano si calcola siano state arrestate forse fino a centomila persone 42.
Così, tra quelli messi in prigione e i tanti che erano stati lasciati fuggire
all’estero, dopo quell’aprile a Cuba praticamente non c’erano più oppositori
in circolazione. Questo significava per Washington la fine di ogni speranza
di rivolte interne. Come se non bastasse, pochi giorni dopo la Baia dei Porci
un trionfante Castro annunciava per la prima volta che Cuba era divenuta
ufficialmente uno Stato socialista. Non ci sarebbero state più elezioni,
spiegò alla gente tra gli applausi, perché la rivoluzione era espressione
diretta della volontà popolare e dunque a Cuba le elezioni si tenevano ogni
giorno 43. Lui stesso, secondo quanto dichiarò qualche tempo dopo, era stato
un apprendista marxista fin da quando era studente, anche se finora non
aveva dato a vederlo, e tale sarebbe rimasto fino alla morte 44. La transizione
era ultimata. Un po’ come l’assassinio di Matteotti per il fascismo, la Baia
dei Porci per il castrismo aveva accelerato, anziché compromettere, la
definitiva instaurazione di un regime nascente.
A Washington, Kennedy era sconvolto. Furioso verso la CIA e i militari,
che a suo dire lo avevano mal consigliato; ma anche verso se stesso. «Come
posso essere stato così stupido da lasciarli fare?», confidò a Sorensen 45.
Aveva preteso di sbarazzarsi di Castro senza doverne affrontare le
conseguenze politiche; il risultato era stato l’esatto opposto: affrontare tutte
le conseguenze politiche senza sbarazzarsi di nessuno. Oltre
all’approvazione data a un piano impresentabile sotto ogni punto di vista,
egli era risultato ondivago anche nel modo di gestirla, non seguendo una
linea chiara; ciò ora lo avrebbe reso particolarmente esposto alle accuse di
irresolutezza nelle prossime crisi 46. E non solo tra i suoi rivali politici
interni: cosa poteva averne dedotto, per esempio, uno come Kruscev? 47
Presto avrebbe potuto verificarlo di persona: un mese e mezzo dopo era
infatti in programma a Vienna un summit bilaterale, cui il capo del Cremlino
aveva accettato di partecipare proprio dopo la Baia dei Porci. I due uomini,
fatta eccezione per un brevissimo scambio di battute in America nel 1959,
non si erano ancora mai incontrati. Ora giungevano all’appuntamento in
condizioni assai diverse. Kennedy veniva da una disfatta, mentre Kruscev
aveva appena raccolto un nuovo strepitoso successo internazionale
mandando in orbita il primo uomo nello spazio: Yuri Gagarin. La situazione
era quella giusta per fare pressione sul giovane avversario: decise che
sarebbe andato all’attacco.

La mattina di sabato 4 giugno 1961 Kennedy atterrò a Vienna e trovò


all’aeroporto innumerevoli cartelli di incitamento («Jack fagli vedere chi
sei!», «Strappa la cortina di ferro» 48). Giunto al summit con le migliori
intenzioni di trovare accordi, egli si trovò di fronte un individuo
estremamente aggressivo, sul piano dei contenuti come dei toni. «Castro
non è comunista, ma voi siete sulla buona strada per farcelo diventare» 49 fu
una delle prime frasi che si sentì dire da Kruscev. Kennedy riconobbe
esplicitamente che la Baia dei Porci era stato un errore, ma
quell’ammissione non bastò ad ammorbidire il suo interlocutore. «La mia
ambizione», provò a spiegarsi l’americano, «è garantire la pace. Se
falliremo in questo sforzo, entrambi i nostri Paesi perderanno […]. I nostri
due Paesi possiedono armi moderne […]. Se dovessero commettere errori di
calcolo…» Ma Kruscev andò su tutte le furie: «Errori di calcolo! La sola
cosa che sento ripetere dai suoi collaboratori, dai giornalisti e dai suoi amici
in Europa e dovunque è questa maledetta frase, ‘errore di calcolo’».
L’America si aspettava forse che i sovietici «sedessero come uno scolaretto
con le mani sul banco» mentre Washington dominava il mondo? «Noi non
commettiamo errori. Non faremo la guerra per sbaglio. Dovreste prendere
quell’espressione, metterla in frigo e non usarla mai più!» 50. Kennedy era
stupito: a suo avviso quello era un punto importante per entrambi. Poiché
assumeva che nessuno dei due Stati desiderasse davvero la guerra, il suo
maggior timore era che ad essa si potesse giungere se uno dei due
inavvertitamente avesse compiuto un passo che l’altro non avrebbe potuto
accettare senza replicare con la forza. Ci teneva quindi che a Kruscev fosse
ben chiaro ciò per cui gli USA avrebbero anche combattuto. La sua
preoccupazione su questo punto era fondata: come oggi retrospettivamente
ci appare più chiaro, la guerra fredda era in effetti una sorta di danza, uno
strano e precario ballo condotto da due giganti che si giravano intorno con
aria ostile, ma secondo passi molto ben calcolati. Se il mappamondo era la
loro pista da ballo, c’erano punti in cui entrambi sapevano di poter mettere i
piedi, altri che sapevano di poter sfiorare ed altri dove invece non dovevano
andare a finire, pena rischiare di finire entrambi a gambe all’aria. Fuor di
metafora, c’erano zone aperte alla competizione e zone di minor interesse,
aree «calde» e aree meno pericolose, e infine le due rispettive «sfere
d’influenza», nelle quali all’altra parte non sarebbe stato consentito di
intervenire a modificare lo status quo. La difficoltà naturalmente stava nel
fatto che tutto ciò non era scritto, né poteva esserlo, ma andava definito
caso per caso e doveva restare sostanzialmente implicito. E agli occhi di
Washington, se la sfera sovietica comprendeva, come si era visto,
l’Ungheria, quella americana certo poteva comprendere Cuba.
C’era poi un posto particolarissimo, unico, dove queste due sfere
d’influenza strategica arrivavano letteralmente a toccarsi: Berlino. Qui gli
interessi strategici erano entrambi in gioco. Dopo la fine della seconda
guerra mondiale, i quattro originari settori della città occupati dalle nazioni
vincitrici (settore sovietico, francese, britannico, statunitense) si erano
parzialmente accorpati rimanendo divisi in due sole zone di giurisdizione:
Berlino Est sotto controllo sovietico, Berlino Ovest sotto controllo
occidentale. La città dunque rispecchiava fedelmente la nuova situazione
politica internazionale. Quello emerso dal secondo dopoguerra era un
mondo fortemente bipolare, diviso tra due enormi blocchi contrapposti;
all’interno di questo assetto mondiale, il continente più importante
(l’Europa) era anch’esso diviso a metà tra due blocchi di Stati; all’interno di
quel continente, anche il Paese più importante era diviso in due (Germania
Ovest e Germania Est); e all’interno di quella nazione, perfino l’ex capitale
era divisa in due tra i blocchi. Il mondo intero era una sorta di matrioska
bifronte, e Berlino stava dentro, proprio al centro.
Ciò naturalmente conferiva alla città un’evidente importanza simbolica.
Avanzare o cedere su quel punto significava di fatto avanzare o cedere
anche su tutto il resto. Per questo la difesa di Berlino era sempre stata un
punto d’orgoglio dell’Occidente, sin da quando, nel 1948-1949, Stalin
aveva cercato di prendersela con la forza, chiudendo gli accessi via terra ai
settori occidentali e aspettando che questi, in mancanza di rifornimenti, si
arrendessero per fame. Ma la sua manovra era stata vanificata da un
sorprendente «ponte aereo», grazie al quale gli americani erano riusciti a
consegnare per via aerea i rifornimenti necessari alla città. Dopo una decina
di mesi Stalin aveva finito per revocare il blocco. Nel 1958 ci aveva
riprovato Kruscev, facendo pressioni su Eisenhower con un ultimatum che
poi aveva abilmente lasciato cadere. Il problema per la NATO era che
Berlino non si trovava sulla linea di confine tra i due Stati, bensì nel cuore
del territorio della Germania Orientale. Ciò comportava una netta inferiorità
militare rispetto alle forze locali del Patto di Varsavia. Così, in caso di un
attacco a Berlino Ovest, la NATO non avrebbe potuto fare molto altro che
passare all’uso delle armi nucleari. Tuttavia c’era anche un rovescio della
medaglia, perché quella posizione geografica così particolare faceva di
Berlino Ovest un’enclave occidentale all’interno del mondo comunista. Il
maggior benessere che essa emanava, anche solo a giudicare dalle vetrine
dei negozi, costituiva una testimonianza evidente del miglior tenore di vita
reso possibile dal sistema capitalista rispetto all’altro sistema. Inoltre la
possibilità di varcare la «cortina di ferro» semplicemente attraversando una
strada di città stava dando luogo in quegli anni ad un flusso sempre
maggiore di tedeschi dell’Est che tranquillamente passavano a Berlino
Ovest, o per trasferirsi definitivamente all’Occidente, o semplicemente per
andarvi a lavorare dalla mattina alla sera, magari perché lì si vedevano
offrire salari più alti. Così, mentre molti berlinesi dell’Est (le stime dicono
circa cento-duecentomila all’anno, molti dei quali qualificati
professionisti) 51 andavano a lavorare all’Ovest arricchendo il capitalismo, i
berlinesi occidentali potevano andare a fare acquisti per le strade di Berlino
Est approfittando dei prezzi bassi offerti dal socialismo 52. Per l’intera
Germania Est quella situazione era diventata economicamente insostenibile.
Era un’emorragia umana che andava arrestata al più presto. Il primo
ministro, Walter Ulbricht, temeva il definitivo collasso e non faceva che
insistere con Kruscev perché trovasse una soluzione per quest’emergenza
nazionale 53. Kruscev sapeva quindi che sarebbe stato quello il punto su cui
fare pressione il secondo giorno del summit.
«Sono trascorsi», cominciò, «sedici anni dalla seconda guerra mondiale.
L’URSS ha perduto in quella guerra venti milioni di persone, e molte delle
sue aree sono state devastate. Ora la Germania, il Paese che scatenò quella
guerra, ha riacquistato le sue forze militari e ha assunto una posizione
dominante nella NATO». Questo, disse, minacciava una terza guerra
mondiale. «Non c’è ragione perché, sedici anni dopo il conflitto, non ci sia
ancora un trattato di pace» 54. Perciò Kruscev proponeva di raggiungere
insieme un qualche accordo ad interim su Berlino, per esempio facendone
una «città libera». Ma se gli USA non avessero accettato quella proposta,
allora l’URSS avrebbe «firmato unilateralmente un trattato di pace» con la
DDR (Germania Est) e di conseguenza «tutti i diritti d’accesso a Berlino
scadranno perché cesserà di esistere lo stato di guerra». Kennedy cercò di
replicare: «Se venissimo estromessi da quell’area, e accettassimo la perdita
dei nostri diritti, nessuno avrebbe più fiducia negli impegni e nelle
promesse degli Stati Uniti […]. L’Europa occidentale è vitale per la nostra
sicurezza nazionale, e noi l’abbiamo sostenuta in due guerre. Se dovessimo
abbandonare Berlino Ovest, si sentirebbe abbandonata anche l’Europa […].
Noi siamo a Berlino, e ci siamo da quindici anni. E intendiamo restarci».
Ma la rabbia di Kruscev non smise di montare: Berlino era «il luogo più
pericoloso del mondo. L’URSS vuole compiere un’operazione sul punto
dolente per eliminare questa spina, questa piaga». Le intenzioni degli Stati
Uniti non portavano «a nulla di buono». Perciò, se nel giro di «sei mesi»
non avessero accettato di firmarlo insieme, «nessuna forza al mondo
impedirà all’URSS di firmare un trattato di pace!».
Il vertice era ormai alla fine e Kruscev lo stava chiudendo con un vero
ultimatum. Poi batté la mano aperta sul tavolo e disse fissando Kennedy:
«Io voglio la pace. Ma se lei vuole la guerra, è un suo problema». Un
silenzio glaciale scese nella sala. Kennedy replicò: «È lei, non io, a voler
imporre un cambiamento con la forza». Kruscev ribadì un’ultima volta che
la sua posizione era «ferma e irrevocabile». JFK concluse: «Se questo è
vero, sarà un inverno molto freddo».
I due si alzarono e si lasciarono nella freddezza più totale.
Tornato a Mosca, Kruscev sintetizzò così al Presidium l’impressione che
aveva avuto del suo nuovo avversario: «Troppo intelligente e troppo
debole» 55. Kennedy, dal canto suo, «era sconvolto» (parole del suo
segretario di Stato, Dean Rusk) 56. Sulla via del ritorno, doveva fermarsi in
visita a Londra. Il premier britannico, Harold Macmillan, lo trovò
«completamente sopraffatto dalla spietatezza e barbarie del Presidente
russo». Pensò che Kennedy doveva aver trovato per la prima volta qualcuno
«che era indifferente al suo fascino. […] Mi ha ricordato in un certo senso
Lord Halifax o Neville Chamberlain che cercavano di tenere una
conversazione con Herr Hitler». A Washington, il vicepresidente Lyndon
Johnson disse ad alcuni intimi: Kruscev «ha spaventato quel povero ragazzo
a morte». Kennedy stesso, parlando con un giornalista del «New York
Times» a bordo dell’Air Force One, aveva definito l’incontro appena
conclusosi «la cosa più dura della mia vita». Poi si era domandato perché
mai Kruscev lo avesse trattato in quel modo: «L’ha fatto, secondo me, a
causa della Baia dei Porci. Ha pensato forse che un uomo tanto giovane e
inesperto da cacciarsi in un simile pasticcio poteva venire facilmente messo
nel sacco. […] E forse anche più importante, pensa che io non abbia fegato.
Fino a che non gli toglieremo dalla testa queste idee, con lui non
approderemo a nulla. Perciò dobbiamo agire» 57.
Una nuova fase della crisi di Berlino era cominciata.

La Casa Bianca ci mise un po’ a elaborare una linea di risposta. Poi il 25


luglio il Presidente andò in TV e fece un discorso in cui spiegava
«francamente» agli americani cos’era in gioco per Berlino Ovest. Ribadì
pubblicamente e con solennità i concetti già esposti a Kruscev a Vienna,
accompagnandoli con l’annuncio di preparativi militari. Berlino Ovest era
«diventata, come mai prima d’ora, il banco di prova della volontà e del
coraggio dell’Occidente». Non si poteva cedere. Perciò aveva richiesto al
Congresso nuovi e ingenti finanziamenti per spese militari e deciso di
«raddoppiare o triplicare» i reclutamenti nei prossimi mesi. Altro punto da
affrontare era la «protezione civile» (civil defense), per approntare in USA
un numero maggiore di rifugi antiatomici e riempirli di viveri nel caso «le
bombe comincino a cadere». Così «le famiglie che non saranno colpite da
un’esplosione nucleare potranno salvarsi». Ma doveva essere chiaro che «se
la guerra comincerà, sarà cominciata a Mosca, non a Berlino. Perché la
scelta tra pace o guerra è in larga parte loro, non nostra. […] Per
riassumere: noi cerchiamo la pace, ma non ci arrenderemo». Ciò che egli
chiedeva agli americani e a se stesso era «calma determinazione e nervi
saldi». Poiché li attendevano «giorni seri» per i quali non c’erano
«soluzioni facili e veloci», egli finì chiedendo alla gente di inviargli i loro
suggerimenti, «e soprattutto le vostre preghiere» 58.
Qualche giorno dopo negli ambienti politici di Washington si cominciò a
menzionare la possibilità che la Germania Est decidesse, per arrestare il
continuo flusso di fuga dei propri cittadini, di chiudere i propri confini a
Berlino. Un importante uomo politico americano (il senatore democratico J.
William Fulbright), parlando in tv, arrivò a chiedersi esplicitamente perché
mai non lo facessero, visto che a suo avviso ne avevano tutto il diritto 59.
Dalla Casa Bianca non giunse alcuna precisazione o smentita 60. Intanto
Ulbricht si recava in visita al Cremlino e finalmente otteneva ufficialmente
il sospirato permesso: «Grazie, compagno Kruscev!». «Ma non un
millimetro più in là!» fu la risposta 61. Così, alla mezzanotte di domenica 13
agosto 1961, nel silenzio distratto di una notte d’estate, operai protetti da
guardie armate della DDR si recarono sulla linea di demarcazione di
Berlino e cominciarono a piazzare in terra paletti di cemento, collegandoli
con del filo spinato. Intorno ai bordi della città, divisioni corazzate
sovietiche attendevano schierate, pronte a intervenire nel caso si fosse avuta
una reazione armata da Berlino Ovest o una rivolta all’interno dell’Est. Il
lavoro venne ultimato prima che la gente avesse il tempo di reagire. Come
racconta Beschloss, «appena si sparse la notizia dell’erezione delle barriere,
migliaia di berlinesi dell’Est si precipitarono alle stazioni della
metropolitana e della ferrovia, ma scoprirono che era troppo tardi. Alcuni
gridarono, altri piansero, alcuni furono arrestati. I berlinesi dell’Ovest
agitavano i pugni all’indirizzo delle guardie della Germania Orientale che
neppure li guardavano» 62. Stava nascendo il simbolo per eccellenza della
guerra fredda. Il «paradiso» comunista doveva sbarrare le porte a chi voleva
uscirne. Tre giorni dopo, mentre il filo spinato veniva sostituito da mattoni e
diventava un vero e proprio muro, trecentomila berlinesi dell’Ovest
scendevano in piazza a protestare. Sui loro cartelli si leggeva: «Traditi
dall’Occidente», «Dove sono le potenze che ci proteggono?», «L’Occidente
ha concluso una nuova Monaco» 63. L’allusione era alla conferenza di
Monaco del 1938, quella in cui pur di non fare la guerra si era accettato di
consegnare la Cecoslovacchia ad Hitler. Le reazioni della Casa Bianca in
effetti erano state blande, per non dire nulle: il Presidente non pronunciò
una sola parola in pubblico su ciò che stava accadendo. Si limitò a mandare
a Berlino Ovest il Vicepresidente a pronunciare per suo conto qualche vuota
frase d’incoraggiamento. Come poi ricorderà il suo assistente personale
O’Donnell, Kennedy «in realtà vedeva il Muro come la svolta che avrebbe
potuto portare alla fine della crisi per Berlino» 64. Lui stesso aveva confidato
questa speranza ai suoi collaboratori: «Perché mai Kruscev farebbe erigere
un muro se davvero avesse intenzione di impadronirsi di Berlino Ovest?
Non ci sarebbe bisogno di un muro se volesse occupare l’intera città. È il
suo modo di risolvere il problema. Non è una soluzione molto bella, ma un
muro è dannatamente meglio di una guerra» 65. Nella frase c’era un gioco di
assonanze («a wall is a-hell-of-a-lot better than a war»); e c’era una
constatazione dal sapore forse un po’ cinico, ma sostanzialmente esatta:
Kruscev aveva ottenuto dall’Occidente l’acquiescenza alla propria
decisione di «mettere una pezza» a modo suo sulla falla più urgente; quanto
al resto, sapeva bene che sarebbe stato molto difficile ottenere concessioni
ulteriori senza rischiare davvero la guerra. Almeno per il momento.
A Berlino Ovest, come ricordò il sindaco Willy Brandt, la sensazione fu
che «l’Unione Sovietica aveva sfidato e umiliato la maggior potenza del
mondo»; «il sipario si era alzato e il palcoscenico era vuoto» 66. Anche
secondo il presidente francese Charles De Gaulle, se si fosse reagito con
prontezza la mattina stessa sarebbe stato probabilmente possibile bloccare
la costruzione del muro 67. In ogni caso, al di là delle difficili valutazioni
sulla maggiore o minore opportunità della condotta prudente di Kennedy,
un fatto è certo: Kruscev poté constatare che, messa di fronte ad un rapido e
silenzioso fait accompli, Washington non aveva reagito. Lo avrebbe tenuto
a mente.

L’autunno del 1961 ad ogni modo non passò tranquillo. Kennedy nominò
suo rappresentante personale a Berlino il generale Lucius Clay, ovvero colui
che aveva sovrinteso al «ponte aereo» nel blocco del 1948. Kruscev rispose
per le rime, richiamando in servizio per l’occasione il fidato maresciallo
Konev, proprio colui che nel 1945 era entrato nella Berlino nazista alla testa
dei carri armati sovietici. Erano nomine di chiaro significato politico,
indicanti reciproca fermezza 68. Poi, nel giro degli ultimi dieci giorni di
ottobre, successero tre fatti importanti. Il 21, mentre a Mosca era in corso il
XXII Congresso del PCUS (una solenne riunione del movimento comunista
mondiale alla presenza di 4800 delegati internazionali), il governo
americano, basandosi anche su informazioni segrete fatte filtrare da una
spia sovietica 69, dichiarò apertamente e con dovizia di dettagli – tramite un
discorso tenuto dal vicesegretario alla Difesa Roswell Gilpatric – che
l’arsenale nucleare statunitense era enormemente superiore a quello
sovietico. «Il fatto è che questa nazione [gli USA] ha una forza di
rappresaglia nucleare di tale potenza che ogni mossa nemica che la portasse
in gioco sarebbe un atto di autodistruzione» 70. La cortina di ferro non era
poi «tanto impenetrabile da costringerci a prendere per oro colato le
vanterie del Cremlino circa la sua forza» 71. «Perciò», concludeva Gilpatric,
«siamo fiduciosi che i sovietici non oseranno provocare un conflitto
nucleare». Così facendo, Kennedy di fatto scopriva di colpo anni di vanterie
e bluff missilistici del suo avversario. La reazione di Mosca arrivò
immediatamente, per bocca del ministro della Difesa Malinovsky: le cifre
citate erano tutte errate; inoltre «cosa si può dire di quest’ultima minaccia,
di questo discorso meschino? Una sola cosa: la minaccia non ci fa
paura!» 72. La mossa di JFK mirava a evitare ulteriori intimidazioni su
Berlino e a rassicurare gli alleati della NATO riguardo alle continue
spacconate nucleari che sentivano da Kruscev 73; ma certo era anch’essa
assai provocatoria, sia per i contenuti sia per i toni e il momento scelto (nel
pieno del Congresso del PCUS suonava come un’umiliazione studiata).
Alcuni storici addebitano infatti a JFK quel discorso provocatorio come uno
dei fattori che indirettamente portarono alla CMC 74.
Appena qualche giorno dopo (il 30), i sovietici fecero esplodere nel
Circolo Polare Artico, come pura dimostrazione di potenza, la bomba
«Tsar». La sua carica esplosiva, tra i 50 e i 57 megatoni, era quasi
cinquemila volte maggiore di quella che aveva distrutto Hiroshima. A
tutt’oggi è l’ordigno più potente mai realizzato dall’uomo. Naturalmente si
trattava anche qui di una mossa politica (per via delle sue enormi
dimensioni, quella bomba non era concretamente impiegabile come arma
nemmeno volendolo fare).
Infine, il 27 ottobre si arrivò a rischiare il confronto armato per le strade
di Berlino. Presso uno dei principali punti di frontiera tra i due settori della
città, il cosiddetto Checkpoint Charlie, una banalissima disputa doganale
sorta qualche sera prima riguardo al passaporto di un diplomatico
americano che stava andando a teatro nel settore Est bastò a portare i carri
armati sovietici e statunitensi schierati minacciosamente gli uni in faccia
agli altri, a cannoni spianati, separati da neanche cento metri e da un esile
posto di blocco. Non era mai successo, dall’inizio della guerra fredda. I tank
americani avevano anche delle pale tipo bulldozer montate ostentatamente
sul davanti, e non c’era dubbio su quale fosse il muro da abbattere al quale
esse erano destinate. A quel punto poteva accadere qualsiasi cosa: come ha
ricordato il comandante della fila di carri statunitensi 75, «sarebbe bastato
che un soldato innervosito si fosse messo a sparare» o che «un carrista
avesse premuto accidentalmente l’acceleratore» e la guerra fredda avrebbe
smesso di essere tale. Kruscev ricorda nelle sue memorie che «i carri armati
e le truppe di entrambe le parti trascorsero la notte allineati gli uni di fronte
agli altri lungo il confine. Era ottobre avanzato e faceva freddo. Certamente
sarà stato temprante per gli operatori dei nostri carri sedere tutta la notte in
fredde scatole di metallo» 76. In realtà c’era ben poco da scherzare. Come
ritirarsi da quella rischiosa prova di nervi? Il mattino seguente Kennedy
mandò suo fratello Robert da un emissario segreto del Cremlino a
Washington (Georgi Bolshakov, ufficiale dell’intelligence militare sovietica
e agente del KGB) e fece arrivare voce a Kruscev che se egli avesse fatto
indietreggiare i suoi carri armati di qualche metro, quelli americani
avrebbero immediatamente fatto altrettanto. Inoltre egli in cambio avrebbe
mostrato una certa flessibilità su Berlino. Kruscev intelligentemente
acconsentì, e così avvenne; i rispettivi tank indietreggiarono e si spostarono
ai lati della strada, ad uno ad uno. La situazione si risolse per il meglio e
dopo quell’episodio fu chiaro che il muro era un fatto accettato. Le
settimane passarono e la crisi andò scemando. La fine dell’anno arrivò
senza guerra. Kennedy tuttavia considerava il 1961 come un pessimo anno:
quando un giornalista gli accennò che stava pensando di scrivere un libro
sul primo anno della sua presidenza, il Presidente si stupì: «E chi potrebbe
aver voglia di leggere un libro che parla di disastri?» 77.

Uno dei modi più efficaci per risollevare il magro bilancio, si diceva
Kennedy, sarebbe stato riuscire finalmente a liberarsi di Castro. Anche se la
Baia dei Porci era fallita, pensava, non poteva rassegnarsi all’inazione e alla
presenza indefinita di Fidel al potere; non era possibile provare a
rovesciarlo in qualche altro modo? Nacque così la famigerata «Operazione
Mangusta». La CIA la conduceva; la supervisione politica e l’ardore alla
causa erano fornite da suo fratello Robert. Nominato dal Presidente
Attorney General (carica non esattamente traducibile, che nell’ordinamento
statunitense corrisponde alla direzione del Dipartimento di Giustizia del
governo), Robert Francis Kennedy (di qui in poi indicato anche come RFK)
era il più giovane e più emotivo dei due Kennedy. Quello che John
affrontava razionalmente, Robert lo sentiva emotivamente. Ciò valeva in
positivo e in negativo: dalla lotta contro la povertà o per i diritti civili degli
afroamericani, fino all’anticomunismo viscerale e all’ossessione per Castro.
Così fu lui il generale in prima linea di questa «guerra segreta» dei fratelli
Kennedy contro Castro. «La mia idea», aveva spiegato alla CIA, «è di
fomentare le cose sull’isola con spionaggio, sabotaggio, disordine generale,
condotti ed eseguiti dai cubani stessi, con ogni gruppo ad eccezione dei
batistiani e dei comunisti» 78. A questo scopo, praticamente ogni mezzo era
lecito. Benché non tutti i piani esaminati siano poi stati effettivamente
attuati (la maggior parte anzi rimaneva lettera morta), la lettura dei
documenti segreti relativi all’Operazione Mangusta risulta impietosa nei
confronti della reputazione della CIA e dei fratelli Kennedy. Lo stesso
Schlesinger, certo non sospetto di pregiudizi antikennediani, scriverà poi
che Operation Mongoose fu «la più lampante follia di Robert Kennedy» 79.
Qualche esempio ne darà un’idea: in una riunione tenuta nel suo ufficio
il 19 gennaio 1962, RFK spiega al gruppo incaricato che «una soluzione al
problema cubano oggi detiene ‘la priorità massima nel governo USA – tutto
il resto è secondario. Nessun tempo, denaro, sforzo o capitale umano deve
essere risparmiato’. […] Ieri», prosegue poi il sommario del meeting, «il
Presidente ha indicato al Procuratore Generale che ‘il capitolo finale non è
ancora stato scritto’ – deve essere fatto e sarà fatto» 80. Dal canto loro, i
Capi militari (Joint Chiefs of Staff: JCS) in marzo stilano liste di pretesti che
giustificherebbero un’invasione americana. Tra questi: «far esplodere una
nave statunitense nella Baia di Guantanamo e incolpare Cuba; […]
affondare navi vicino all’entrata del porto [e] condurre funerali per vittime
fasulle; […] sviluppare una campagna di terrore cubano comunista nell’area
di Miami, altre città della Florida e perfino Washington; […] combinare un
incidente che dimostrerà convincentemente che un aeroplano cubano ha
attaccato e abbattuto un aeroplano civile noleggiato […]» 81. Altre proposte
allo studio erano più colorite, come quella di un virus per far cadere la
barba a Castro così da diminuire il suo carisma tra la gente; o la
distribuzione tramite lancio aereo sopra la campagna cubana di foto false in
cui egli apparisse obeso e immerso nel lusso mentre si abbuffava del
miglior cibo cubano in compagnia di due belle ragazze, accompagnate dalla
scritta in spagnolo: «La mia razione è differente» 82. Tanto per non farsi
mancare nulla, qualcuno alla CIA progetta anche dei piani di diretto
assassinio del lìder màximo, perfino servendosi di noti mafiosi (tra i metodi
proposti, sigari velenosi portati in dono a Castro o conchiglie tossiche
sistemate sul fondo della baia dove egli era solito fare immersioni). Tutto
questo però ad insaputa, pare, dei Kennedy (che del resto non sarebbero in
ogni caso mai stati così sprovveduti da mettere simili ordini per iscritto) 83.
Ad ogni modo, al di là dei «memo» e dei piani top-secret passanti di
scrivania in scrivania, le cose non vanno molto avanti, soprattutto per i gusti
di RFK. Sicché il 4 ottobre egli si lamenta col gruppo che «la più alta
autorità [tradotto: mio fratello] è preoccupata riguardo al progresso del
programma Mangusta e sente che dovrebbe essere data maggior priorità ai
tentativi di montare operazioni di sabotaggio» 84. Il capo della CIA McCone
replica, come risulta sempre dalle minute dell’incontro, esponendogli
francamente la sua «impressione che gli alti livelli del governo [tradotto: il
Presidente] vogliano andare avanti con le attività ma tuttavia conservare un
livello di rumore basso. Egli [McCone] non crede che ciò sarà possibile.
Ogni sabotaggio verrebbe attribuito agli Stati Uniti […] Ha sollecitato che
gli ufficiali responsabili [tradotto: sempre il Presidente] fossero preparati ad
accettare un livello di rumore più alto se volevano andare avanti con le
operazioni». Era un po’ lo stesso discorso della Baia dei Porci: se vuoi che
riesca, non può non far chiasso. Al che «in parziale replica, il Procuratore
Generale […] si è chiesto se stessimo andando sulla strada giusta o se non
occorresse azione più diretta [more direct action]. Egli ha sollecitato che
piani alternativi e immaginativi venissero sviluppati per raggiungere
l’obiettivo complessivo».
Piani alternativi e immaginativi. Come potevano essere interpretate
parole come queste? In un simile clima esse non potevano forse significare
che, se per caso Castro fosse stato misteriosamente trovato morto qualche
giorno dopo, i due Kennedy non avrebbero versato troppe lacrime?
Qualcuno alla CIA poteva comprensibilmente dedurne questo; e difatti,
come poi è risultato, lo stava facendo. Come spiega bene l’autorevole
saggio di Freedman, la CIA già «sotto gli anni di Eisenhower si era abituata
all’idea che i loro padroni politici potevano apprezzare i risultati di azioni
estreme fintanto che non venivano direttamente implicati loro. Non c’è
prova che Kennedy abbia ordinato l’assassinio di Castro (o di nessun altro).
Tutto ciò che si può dire è che l’ossessione per Castro, e il costante
incitamento alla CIA di Robert, crearono un clima in cui gli ufficiali della
CIA avrebbero potuto venir perdonati per il ritenere che le più alte autorità
non sarebbero state infelici del decesso del leader cubano» 85.
Fiumi di inchiostro sono stati versati su questo tema. In questa sede, ad
ogni modo, l’Operazione Mangusta è rilevante in quanto i servizi segreti
cubani e sovietici (a differenza della gente comune, che non ne seppe nulla
fino a metà anni Settanta) erano perfettamente a conoscenza dell’esistenza
di questo tipo di manovre 86. Come ha ben sintetizzato Dobbs,
«l’Operazione Mangusta era la peggior combinazione possibile di politica
estera: aggressiva, rumorosa, inefficace. […] In Mangusta c’era abbastanza
sostanza per allarmare Castro e i suoi protettori sovietici verso l’adozione di
contromisure, ma non abbastanza da minacciare la sua presa sul potere».
Così, quell’operazione, insieme ad altri elementi 87 e a quell’atmosfera da
imminente «resa dei conti», portò L’Avana e Mosca all’ovvia aspettativa
che un secondo tentativo di invasione di Cuba sarebbe giunto, e anche in
tempi brevi. In realtà non era così: Kennedy, a differenza di molti altri nel
governo e nel Paese, non aveva alcuna intenzione di invadere Cuba in
mancanza di una seria e oggettiva provocazione. Ma tutto faceva pensare il
contrario. Lo stesso McNamara (allora segretario alla Difesa) ammetterà
decenni dopo: «se fossi stato un dirigente cubano, credo che mi sarei
aspettato un’invasione americana» 88.
Questa legittima preoccupazione portò Kruscev alla ricerca di una
soluzione drastica.

Eravamo sicurissimi – spiega lui stesso nelle sue memorie 89 – che la


Baia dei Porci era soltanto l’inizio e che gli americani non
avrebbero lasciato in pace Cuba. […] Un tentativo andato male
suscita il desiderio di farlo bene una seconda volta [e stavolta
l’azione] sarebbe stata organizzata con forze più ampie e una
miglior preparazione. […] Qualcosa doveva esser fatto per
proteggere Cuba. Ma cosa? Durante una visita ufficiale in Bulgaria,
per esempio, un pensiero mi martellava la mente: cosa accadrà se
perdiamo Cuba? Sapevo che sarebbe stato un gravissimo colpo per
il marxismo-leninismo. […] Come ci avrebbe guardato la gente? I
Paesi dell’America Latina ci avrebbero respinto affermando che con
tutta la sua potenza l’Unione Sovietica non era stata in grado di fare
altro se non rilasciare vuote dichiarazioni di protesta e sollevare la
questione alle Nazioni Unite. […] Dovevamo stabilire un tangibile
ed effettivo veto […]. Fu durante la mia visita in Bulgaria che ebbi
l’idea di installare missili con testate nucleari a Cuba senza
permettere che gli Stati Uniti lo scoprissero finché non fosse stato
troppo tardi per fare qualcosa.

A quel punto, coi missili già operativi,


senz’altro ci avrebbero pensato due volte prima di liquidare le
nostre installazioni con mezzi militari […]. Potevano distruggerle,
ma non tutte. Anche se ne fossero rimaste intatte solo un quarto o
un decimo, esse potevano ancora essere usate per colpire New York
e non ne sarebbe rimasto molto. […] Mi sembrò che ciò li avrebbe
frenati da un’azione militare contro Cuba […].
Oltre che proteggere Cuba i nostri missili avrebbero equiparato ciò
che in Occidente piace chiamare ‘la bilancia del potere’. Gli
americani avevano circondato il nostro Paese con basi militari e ci
minacciavano costantemente con armi nucleari. Ora avrebbero
imparato che cosa significa avere dei missili puntati contro. Non
facevamo nient’altro che somministrare loro la stessa medicina. Ed
era tempo che l’America sapesse che effetto fa avere la propria terra
e il proprio popolo minacciato […] Tornato a Mosca, continuavo a
pensare a questa possibilità. Infine ci riunimmo e dissi che avevo
delle idee da proporre per la faccenda di Cuba […]. La decisione fu
approvata all’unanimità.

Era il 24 maggio 1962 90: partiva l’«Operazione Anadyr».

Già il nome in codice esprimeva l’ingrediente essenziale dell’impresa,


ovvero la totale segretezza. Anadyr infatti era un fiume della Siberia (presso
il quale si trovava una base missilistica sovietica in grado di raggiungere gli
USA: ma dal Pacifico!) 91. Ciò avrebbe sviato i sospetti di eventuali spie
dell’Occidente. Così come il fatto che i soldati e i tecnici addetti al difficile
trasporto dell’ingente arsenale sovietico verso i Caraibi venissero
equipaggiati con vestiti civili invernali e sci, invece che con uniformi
militari estive (il che provocherà poi qualche perplessità e rimostranza tra le
truppe ignare) 92. Nessuno, a parte pochissimi uomini al vertice
dell’operazione, sapeva cosa trasportassero le navi su cui erano stati
imbarcati; né tantomeno la destinazione. Perfino i capitani che dovevano
impartire la rotta avevano ricevuto gli ordini di navigazione in tre buste
separate, ciascuna indicante solo un tratto del percorso e da aprirsi solo
dopo aver raggiunto il punto indicato nella busta precedente.
Ma tutta questa segretezza sarebbe bastata? Ci furono almeno due o tre
voci importanti che misero in guardia Kruscev su questo punto. Il primo fu
Anastas Mikoyan, il suo stimato vicepremier, che lo avvertì che quasi
certamente l’intelligence americana avrebbe scoperto le basi prima che
l’installazione dei missili potesse essere completata 93. Tuttavia il ministro
della Difesa Malinovsky ed altri si dissero in disaccordo, e Kruscev preferì
dar fede alla seconda previsione. Poi, a fine agosto, ci provarono due leader
cubani in missione in terra sovietica: Emilio Aragones e Che Guevara.
Castro infatti aveva sì accettato l’idea di ospitare i missili (anche se, a
quanto pare, più per senso di solidarietà socialista che per difendere
l’isola) 94, però si stava chiedendo perché mai bisognasse procedere così
segretamente. Non era una violazione del diritto internazionale, dunque
perché stuzzicare la Casa Bianca con un inganno rischiando di suscitarne la
reazione violenta? Castro e il Che avevano visto giusto 95, ma Kruscev non
volle ascoltare questi consigli. «Non dovete preoccuparvi», rispose ai due
delegati cubani, «non ci sarà una gran reazione dagli Stati Uniti. E se c’è
problema, manderemo la flotta del Baltico». Sentendo questa risposta,
ricorda Aragones, «io e il Che ci guardammo con le sopracciglia aggrottate.
Ma sapete, eravamo molto deferenti verso il giudizio dei sovietici perché
dopo tutto avevano molta esperienza con gli americani e più informazioni di
noi» 96.
A Washington, intanto, l’estate stava terminando ma il clima, almeno
quello politico, si andava progressivamente riscaldando. Si avvicinavano le
importanti elezioni di midterm per il rinnovo del Congresso (in programma
il 6 novembre) e Cuba, come da copione, era diventata il piatto forte dei
comizi elettorali di ogni buon candidato repubblicano. Un sondaggio del
«Washington Post» certificò a metà ottobre che proprio quella era la
questione prioritaria della campagna elettorale 97. L’Amministrazione su
questo punto si trovava chiaramente sulla difensiva. Non solo per via della
Baia dei Porci e della permanenza di Castro al potere, ma anche per le voci
che sempre più insistentemente riportavano un progressivo benché generico
rafforzamento militare sovietico sull’isola. Più il tempo passava e più
queste notizie (affidabili o meno) si moltiplicavano. Tra la fine dell’estate e
l’inizio dell’autunno i giornali parlavano sempre più di «Soviet military
buildup in Cuba» 98. Il Presidente non aveva intenzione di fare niente in
merito? La sua pazienza (nei casi più gentili: altrimenti «mancanza di
fegato») proprio non aveva limiti?
Fidel Castro e Nikita Kruscev, nel 1960.

Kennedy, che come detto non aveva intenzione di imbarcarsi in


un’invasione, cercava di smorzare i toni allarmistici. Il buildup, assicurò,
era limitato ad armamenti difensivi: mezzi convenzionali, non in grado di
raggiungere il territorio degli Stati Uniti. Sebbene McCone, il capo della
CIA, in agosto avesse fatto presente in privato al governo il suo
presentimento che i sovietici potessero star pensando di installare basi
nucleari a Cuba, l’ipotesi era parsa a tutti troppo azzardata per essere vera. I
russi non avevano mai portato le loro armi nucleari fuori dal territorio
dell’URSS 99: ora non sarebbero certo stati così imprudenti da portarle
proprio a Cuba, fornendo alla Casa Bianca la scusa perfetta per invadere e
farla finita con Castro! Del resto anche le fotografie scattate dagli U-2 che
sorvolavano l’isola per ora non evidenziavano nulla se non al massimo dei
SAM, cioè missili di contraerea. E poi Kruscev da settimane non faceva che
rassicurare, tramite tutti i canali pubblici e privati, che, per non creare
problemi all’amministrazione Kennedy, non avrebbe fatto nulla che potesse
surriscaldare l’atmosfera fintanto che era in corso la campagna elettorale.
Inoltre i suoi portavoce continuavano a ribadire che naturalmente le armi
fornite a Cuba erano solo di tipo difensivo. Anche a detta di tutta la stampa
internazionale, la prossima crisi si attendeva non prima di metà novembre, e
avrebbe riguardato ancora Berlino, non Cuba. La Casa Bianca aveva buone
ragioni per crederci, e lo fece. Kennedy e i suoi erano così convinti delle
assicurazioni ricevute dai sovietici che emisero due comunicati per
scoraggiare speculazioni politiche interne: nel primo (4 settembre) si
ribadiva che il buildup cubano era solo difensivo – benché naturalmente se
non fosse più stato così «sorgerebbero i più gravi problemi» 100; il secondo
(13 settembre) statuiva esplicitamente che «se in qualsiasi momento il
buildup comunista a Cuba dovesse mettere in pericolo o interferire con la
nostra sicurezza in un qualsiasi modo […] o divenire una base militare
offensiva di capacità significativa per l’Unione Sovietica, allora questo
Paese farà qualsiasi cosa debba essere fatta per proteggere la sua sicurezza e
quella dei suoi alleati» 101. Tracciando una linea dove era sicuro che i
sovietici non avrebbero mai pensato di spingersi, Kennedy stava vincolando
se stesso all’azione in quell’eventualità. Solo che nel frattempo quella era
già diventata ben più di un’eventualità…

A Mosca, Kruscev stava cominciando a diventare un po’ nervoso. Un


giorno di fine settembre, dopo aver letto un report sul dispiegamento in
corso, si girò verso il suo consigliere Oleg Troyanovsky e disse: «Presto si
scatenerà l’inferno». Questi, preoccupatissimo, rispose: «Io spero che la
barca non si capovolga, Nikita Sergeevi ». Ma Kruscev tagliò corto: «Ora è
troppo tardi per cambiare qualsiasi cosa» 102. Troyanovsky dovette
rassegnarsi, anche se vedeva bene che una nera tempesta si stava
addensando all’orizzonte e il suo boss ci si stava ficcando giusto nel mezzo:
«Avevo la sensazione di un uomo in una macchina che aveva perso il
controllo, guadagnava velocità, e si precipitava Dio sa dove…» 103.
La gittata dei missili nucleari a Cuba in una mappa della CIA. I due cerchi si riferiscono
rispettivamente ai missili a raggio medio e intermedio.
3
«Il nodo della guerra».
I giorni della crisi dei missili di
Cuba
La catastrofe nucleare era appesa a un filo… e
non stavamo contando i giorni o le ore, ma i
minuti 1.
Anatoly Gribkov
(generale sovietico di stanza a Cuba)
16 ottobre 1962, martedì

Kennedy si trovava ancora nella sua camera da letto, al piano superiore


della Casa Bianca 2. Mancavano pochi minuti alle nove di mattina. Stava
finendo di fare colazione e nel frattempo come di consueto dava
un’occhiata alle prime pagine dei principali quotidiani. Il «New York
Times» quella mattina titolava a grandi caratteri: «Eisenhower definisce il
Presidente debole sulla politica estera». L’occhiello riportava anche
l’aggettivo usato da «Ike» per definire i risultati di Kennedy: dreary,
desolanti. Ultimamente attacchi di questo tipo gli giungevano di continuo,
anche perché si era nel pieno della campagna elettorale per le elezioni di
midterm. Questa critica però – venendo da colui che era stato suo
predecessore alla Casa Bianca per otto anni, oltre che da un uomo che
godeva ancora di grande prestigio tra gli americani – aveva un peso
maggiore. Bussarono alla porta. Il consigliere per la sicurezza nazionale,
McGeorge Bundy, aveva un’informazione urgente da comunicargli.
Analizzando attentamente le ultime foto scattate nelle missioni di due giorni
prima dagli U-2 sorvolanti Cuba, gli esperti della CIA erano arrivati alla
conclusione che i sovietici stessero installando sull’isola missili nucleari,
perfettamente in grado di colpire gli Stati Uniti. Le nuove immagini non
lasciavano dubbi. «Non può farmi questo!» pare sia stata la prima reazione
di Kennedy 3. Il soggetto implicito della frase, naturalmente, era Kruscev.
Quei missili, pensò immediatamente, in un modo o nell’altro dovevano
sparire 4. Disse subito a Bundy di convocare una riunione nella Cabinet
Room per quella stessa mattina e gli fornì i nominativi dei collaboratori che
avrebbe voluto vi partecipassero. Erano circa una quindicina di nomi. A
parte qualche aggiunta o defezione successiva, sarebbe stato quello il
gruppo che avrebbe dovuto affrontare con lui tutta l’emergenza appena
sorta e i suoi imprevedibili sviluppi. L’informale organo decisionale appena
creato sarebbe stato poi ribattezzato Executive Committee of the National
Security Council, o più brevemente ExComm. Subito dopo Kennedy
telefonò al fratello e gli disse di raggiungerlo alla Casa Bianca perché
avevano «un grosso guaio». Giunto alla Casa Bianca, Robert osservò le
prime foto delle installazioni, chinandosi sulle immagini con la lente di
ingrandimento. Quelle che ad occhi profani sembravano solo macchie scure
in mezzo alla campagna (il Presidente stesso dirà poi di vederci solo dei
semplici «campi di football») 5, in realtà erano – assicuravano gli analisti –
installazioni, capannoni di deposito e rampe di lancio per veri e propri
missili nucleari. Alcuni di quei missili sarebbero stati pronti al lancio entro
pochi giorni 6. «Oh merda! Merda! Merda! Quei figli di puttana russi!»
disse, col suo tipico impeto, RFK 7. Anche suo fratello era tutt’altro che
allegro: il comportamento di Kruscev, si lamentava, era «quello di un
gangster immorale, non di uno statista, non di una persona con senso di
responsabilità» 8. Avevano creduto alle sue assicurazioni ed ora scoprivano
di essere stati raggirati. Se i russi arrivavano a comportarsi così a Cuba,
cosa aspettarsi su Berlino? Quali intimidazioni gli preparavano per la crisi
attesa tra appena un mese, a novembre? Bisognava agire.
Kennedy prese subito due decisioni fondamentali. Anzitutto definì a se
stesso l’obiettivo: ottenere la rimozione di quei missili. In un modo o
nell’altro, ma questo punto sarebbe stato inderogabile. Tuttavia,
intelligentemente, era un obiettivo che non si estendeva al rovesciamento di
Castro (ancorché egli sapesse bene che per quello non gli si sarebbe
probabilmente mai più presentato un pretesto migliore) 9. In secondo luogo
decise che, finché non si fosse approntata una linea di reazione, la presenza
dei missili avrebbe dovuto rimanere segreta. Il che comportava la necessità
di mantenere nascosti i dibattiti. Perciò ciascun membro del governo, a
cominciare da lui, avrebbe dovuto tener fede agli impegni prefissati per i
prossimi giorni, come se nulla fosse. Troppe cancellazioni di apparizioni
pubbliche avrebbero insospettito i giornalisti; così come troppe riunioni
collettive, soprattutto di sera, quando la luce accesa era visibile
esternamente ai reporter dalle finestre della Casa Bianca. Così diverse
riunioni in quei giorni e in quelle notti si tennero in stanze inconsuete della
Casa Bianca, o anche fuori da essa. In un’occasione, per esempio, alcuni
membri del governo, per non essere visti, si spostarono dal Dipartimento
del Tesoro alla Casa Bianca attraverso un tunnel sotterraneo 10. In un altro
caso, dovendo spostarsi tutti insieme e non volendo dare troppo nell’occhio
con una carovana di auto governative, una decina di consiglieri si stiparono
tutti nella limousine di Robert Kennedy, alcuni sedendosi sulle ginocchia di
altri. Qualcuno di loro scherzò: «Sarebbe un bel guaio se questa macchina
avesse un incidente!» 11.
Ad ogni modo, ciò che rileva è che Kennedy non decise d’istinto, ma
diede a se stesso e ai suoi consiglieri alcuni giorni per considerare insieme
la situazione sotto vari aspetti. Cosa che, come vedremo, si rivelerà
fondamentale.

Una delle foto scattate dagli aerei U-2 mostra i lavori in corso a San Cristobal, una delle basi
cubane con rampe di lancio per missili a medio raggio.

La prima riunione cominciò con gli esperti che mostravano ai membri


dell’ExComm le foto degli U-2, cosicché essi potessero farsi le prime
impressioni. L’atmosfera, ricorderà poi Bob Kennedy, era di «turbata
incredulità [shocked incredulity]. Nessuno si aspettava o aveva previsto che
i russi avrebbero installato dei missili balistici terra-terra a Cuba 12 […]
Quella mattina di martedì 16 ottobre […] ci rendemmo conto che quelle
assicurazioni erano state tutte menzogne, una gigantesca trama di menzogne
[…] Perciò ci sentivamo indignati e increduli. Eravamo stati ingannati da
Kruscev ma avevamo anche ingannato noi stessi» 13.
Poi si iniziarono a considerare le possibili mosse di reazione. La prima
che emerse fu un attacco aereo contro le basi. Esso poteva essere limitato
(cioè diretto solo sulle installazioni missilistiche in costruzione) o generale
(anche contro le postazioni di contraerea, gli aeroporti, ecc.). «Faremo
certamente il numero uno», disse il Presidente, riferendosi appunto
all’attacco limitato. «Toglieremo di mezzo questi missili» 14. Era una
soluzione molto interessante perché teoricamente avrebbe distrutto
l’oggetto dell’inganno e della minaccia prima che esso divenisse operativo,
pronto al lancio, e senza troppo spargimento di sangue. Come sosterrà
qualche ora dopo Bundy, «la punizione è adeguata al crimine, in termini
politici. Stiamo facendo solo ciò che abbiamo ripetutamente e
pubblicamente avvertito che avremmo dovuto fare. Uh, non stiamo
generalizzando l’attacco» 15. Pareva quasi un colpo di bacchetta magica, un
rapido fait accompli che avrebbe ristabilito lo status quo senza dare il
tempo alla crisi di allargarsi.
Ma tutto ciò era valido solo in teoria: infatti, anzitutto i militari
informarono JFK che non avrebbero mai potuto avere la certezza di
distruggere tutti i missili (col conseguente rischio che qualcuno di quelli
rimasti, appena operativo, venisse lanciato in rappresaglia). L’opzione
militarmente efficace dunque era semmai l’attacco generalizzato, che però
aveva il difetto di durare non meno di cinque giorni 16, comportare
parecchio spargimento di sangue (anche sovietico) e sfociare quasi
certamente in un’invasione, giacché dopo un bombardamento così esteso
anche la situazione politica a Cuba avrebbe preso fuoco 17. In secondo
luogo, e altrettanto importante, un attacco aereo a sorpresa, anche se
limitato, sarebbe stato visto come una nuova Pearl Harbor. Quello cioè che i
giapponesi avevano fatto agli americani nel 1941 attaccando
improvvisamente la loro base nel Pacifico senza dichiarazione di guerra, e
che era passato alla storia come un esempio clamoroso di infamia politico-
militare, non era dissimile da ciò che ora la Casa Bianca stava pensando di
fare a Cuba. Ascoltando quelle discussioni Robert Kennedy avvertì
istintivamente questo rischio e passò in silenzio un bigliettino a Sorensen (il
consigliere di JFK, seduto alla sua destra). Sorensen lo aprì. C’era scritto:
«Adesso so come si sentiva Tojo mentre preparava Pearl Harbor» 18.
Per il momento tuttavia questo aspetto non fu discusso esplicitamente.
Un punto che emerse subito fu invece la netta predisposizione di JFK verso
una scelta che farà poi molto discutere, e cioè quella di decidere senza
consultare nessuno dei Paesi alleati. Ciò sia per non compromettere la
segretezza («avvertire loro, mi sembra, è avvertire tutti», spiegò
all’ExComm, come ci testimoniano i nastri) 19, sia per evitare la loro
probabile contrarietà («obietteranno e basta. Bisogna solo decidere di farlo.
E però magari comunicarglielo, la sera prima») 20.

Poi, come da agenda, il Presidente presenziò al pranzo ufficiale in onore


del principe di Libia. Tra i convitati c’era anche Adlai Stevenson.
Esponente storico del Partito democratico americano (era stato candidato
alla presidenza nel 1952 e nel 1956, uscendo entrambe le volte sconfitto da
Eisenhower), Stevenson era un uomo ancora molto popolare e rispettato per
il suo idealismo politico. Kennedy era riuscito a strappargli l’investitura del
partito per le elezioni del 1960 e, dopo la sua ascesa alla presidenza,
contrariamente a tutte le attese non lo aveva nominato Segretario di Stato,
ma solo Ambasciatore alle Nazioni Unite. Adesso però lo prese da parte a
fine pranzo e, accompagnatolo in un’altra stanza, gli mostrò le foto delle
basi. Gli accennò che una delle reazioni allo studio era un rapido attacco
aereo mirato contro le basi. Stevenson si disse subito contrario: «Non
procediamo a un attacco aereo finché non abbiamo esplorato le possibilità
di una soluzione pacifica» 21.
Nel frattempo, verso le 14.30 22, Robert Kennedy aveva riconvocato nel
suo ufficio il gruppo dell’Operazione Mangusta. L’inizio dovette somigliare
molto a una solenne lavata di capo: «Il Procuratore Generale», riportano le
minute dell’incontro, stilate da uno dei partecipanti 23, «ha aperto la riunione
esprimendo la ‘generale insoddisfazione del Presidente’ per l’Operazione
Mangusta. Ha sottolineato che l’Operazione era in corso da un anno, che i
risultati erano scoraggianti, non c’erano stati atti di sabotaggio e anche
quell’unico che era stato tentato era fallito due volte». Pur di smuovere la
situazione, annunciava, d’ora in poi egli avrebbe tenuto personalmente una
riunione dell’Operazione Mangusta ogni mattina nel suo ufficio alle 9.30.
Ciò chiaramente aveva lo scopo di far sentire al gruppo che ora la Casa
Bianca gli teneva costantemente il fiato sul collo. Poi espresse approvazione
per la nuova lista presentatagli, che conteneva qualche nuova idea per atti di
sabotaggio da compiere per cercare di far collassare la già malandata
economia cubana (e con ciò, sperabilmente, veder crollare prima o poi
anche Castro). La lista comprendeva: «Demolizione di un ponte ferroviario
nella provincia di Pinar del Rìo; attacco a colpi di granate all’ambasciata
della Cina Comunista a L’Avana; minare gli accessi ai principali porti
cubani; incendiare una nave cisterna di petrolio fuori de L’Avana o a
Matanzas; attacchi incendiari contro raffinerie petrolifere a L’Avana e
Santiago». Infine RFK concluse la riunione con «un appello [a plea] per
nuove cose che potessero esser fatte contro Cuba» e, di passaggio, accennò
«al cambiamento di atmosfera [avvenuto] nel governo statunitense durante
le ultime 24 ore» 24. Qualche ora dopo la lista fu velocemente esaminata e
approvata anche dall’ExComm 25.

Poco dopo, verso le 16.30 26, il Presidente doveva presenziare ad una


conferenza al Dipartimento di Stato con circa cinquecento editori di stampa
e tv. La sua persona era lì, come se nulla fosse, ma la sua mente sembrava
essere altrove. Probabilmente cercava di assorbire la novità, abituarsi
all’idea che una crisi storica era appena sorta e che sarebbe toccato a lui
provare a gestirla. Per quanto potesse circondarsi di consiglieri brillanti,
sapeva che la responsabilità finale per ciò che sarebbe successo nei prossimi
giorni sarebbe ricaduta solo su di lui. Una cosa era parlare di politica estera
nei bar o nei salotti di Washington, strappare applausi al Congresso o sulla
stampa affermando bellicosamente che bisognava «tener testa ai russi»; ben
altra cosa era prendere le decisioni, sapendo di avere di fronte rischi
immensi e nessuna linea d’azione soddisfacente. Forse avvertì la grande
solitudine inevitabilmente connessa al suo ruolo, mentre saliva sul podio
per pronunciare il proprio intervento. Fatto sta che parlando a
quell’assemblea affermò tra le altre cose che la questione fondamentale di
quegli anni consisteva nell’assicurare «la sopravvivenza del nostro Paese
[…] senza l’inizio della terza e forse ultima guerra mondiale». Poi si tirò
fuori un foglietto di tasca ed enigmaticamente recitò un passo da una poesia
di un famoso torero 27, che evidentemente gli pareva esprimere bene la sua
attuale condizione:

Bullfight critics ranked in row Gli esperti di corride schierati


Crowd the enormous plaza in fila affollano l’enorme
full But only one is there who plaza [de toros] ma c’è lì
knows And he is the one who soltanto uno che sa ed è
fights the bull. quello che combatte il toro.

Subito dopo rientrò alla Casa Bianca, dove stava per cominciare il
secondo meeting dell’ExComm. Sarebbe stata una riunione tra le più
significative di tutta la crisi. È una fortuna che ne possediamo le
registrazioni, perché nelle discussioni di quella prima sera non solo vennero
affrontate le opzioni allo studio, ma emersero per la prima volta diversi dei
principali aspetti della CMC, e quei nastri ci consentono di capire il modo
in cui essi via via si presentarono alla mente dei membri del governo
statunitense. Trascrizioni complete e commentate delle riunioni di quei
giorni sono state pubblicate in vari volumi. Qui ci limitiamo a riportarne
qualche stralcio, nella speranza che ciò faciliti la comprensione degli eventi
dei giorni successivi, fornendo un’idea del modo in cui si sviluppò il
processo decisionale alla Casa Bianca, tra forti pressioni, incertezza sul
futuro, confronti argomentativi tra consiglieri 28 e molteplici fattori da
considerare.
Verso l’inizio della riunione, il segretario di Stato Dean Rusk mette in
guardia sulle possibili ripercussioni internazionali di un attacco aereo: «Se
colpiamo quei missili, ci aspetteremmo, credo, la massima reazione
comunista in America Latina. […] Nel caso di circa sei di quei governi […]
uno o l’altro di essi potrebbero facilmente essere rovesciati. Penso al
Venezuela per esempio, o Guatemala, Bolivia, Cile, forse perfino il
Messico». Dunque, dice Rusk, quei governi forse vanno avvisati prima,
affinché prendano misure di sicurezza precauzionali. «L’altro problema è la
NATO. Riteniamo che i sovietici quasi certamente intraprenderanno
qualche tipo di azione da qualche parte [come rappresaglia]. Per noi
intraprendere un’azione simile senza lasciare che i nostri alleati sappiano di
un problema che li potrebbe assoggettare a un pericolo molto grande, è una
decisione molto impegnativa da prendere. E potremmo ritrovarci isolati, e
l’alleanza [NATO] che si sbriciola […]» 29.
Pochi minuti dopo interviene Robert McNamara (segretario alla Difesa:
da qui abbreviato in McN), cercando con grande lucidità di sistematizzare
le varie opzioni fin lì menzionate e introducendo un’alternativa.
Signor Presidente, posso delineare tre linee d’azione […]? La prima
è quella che chiamerei la linea d’azione politica, nella quale
seguiremmo alcune possibilità […] rivolgendoci a Castro,
rivolgendoci a Kruscev, discutendo coi nostri alleati. Un approccio
politicamente aperto e scoperto al problema, cercando di risolverlo.
Mi sembra presumibile che ciò non conduca a nessun risultato
soddisfacente, e praticamente blocca [ogni] successiva azione
militare. […] Una seconda linea d’azione che non abbiamo discusso
ma sta a metà tra la linea militare […] e la linea politica,
comporterebbe una dichiarazione di aperta sorveglianza: un
comunicato che imporremmo immediatamente un blocco contro
armi offensive in arrivo a Cuba nel futuro, e un’indicazione che […]
saremmo pronti ad attaccare immediatamente l’Unione Sovietica
nel caso che Cuba facesse qualsiasi mossa offensiva contro questo
Paese. […]
[Questa linea] ha alcuni difetti fondamentali. Ma la terza linea
d’azione è una qualsiasi tra le varianti di azione militare contro
Cuba, a cominciare da un attacco sui [soli] missili. Ma anche un
attacco così limitato è un attacco aereo molto esteso. Non sono venti
o cinquanta o cento sortite [di bombardamento], ma probabilmente
parecchie centinaia […] Mi sembra pressoché certo che ciascuna di
queste forme di azione militare diretta condurrebbe ad una risposta
militare sovietica di qualche tipo, in qualche posto del mondo. Può
ben valerne il prezzo, forse dovremmo pagarlo. Ma credo che
dovremmo riconoscere questa possibilità 30.

Anche JFK non vede molta utilità nella prima opzione (contattare
politicamente Castro o Kruscev): «Mandare una nota a Kruscev? Mi sembra
che il mio comunicato stampa [si veda il capitolo precedente, NdA] fosse
così chiaro riguardo alle circostanze in cui non avremmo fatto nulla e quelle
nelle quali lo avremmo fatto». Bundy: «Di certo è per questo che lui è stato
molto, molto esplicito con noi su quanto ciò [ossia un attacco a Cuba] sia
pericoloso, nella sua dichiarazione TASS dell’11 settembre e negli altri
messaggi» 31. JFK: «È vero. Ma è lui che ha iniziato il pericolo, davvero,
no? È lui che sta giocando a fare Dio, non noi» 32.
L’ExComm in riunione alla Casa Bianca durante la CMC. Sul lato destro si riconoscono i due
Kennedy (Robert in primo piano, il Presidente all’altezza della bandiera) e, sul lato opposto, il
segretario alla Difesa Robert McNamara.

Poco dopo Bundy introduce un altro aspetto da considerare. Il fatto che


adesso i sovietici abbiano dei missili nucleari che, sebbene a medio raggio
(cioè non intercontinentali), da Cuba sono ora in grado di raggiungere gli
Stati Uniti, «quanto gravemente cambia l’equilibrio strategico?». McN:
«L’ho appunto chiesto ai Capi [militari] questo pomeriggio. Loro dicono:
sostanzialmente. La mia opinione personale è: per nulla». Bundy è
d’accordo («non così tanto»). Poco dopo, Edwin Martin, l’esperto
dell’America Latina, aggiunge: «Beh, è il fattore psicologico di averli
incassati». JFK, interessato, gli chiede cosa intenda. «Beh, è il fattore
psicologico che ci siamo seduti in disparte e gliel’abbiamo lasciato fare. Ciò
è più importante della minaccia diretta». JFK concorda: «Il mese scorso
avevo detto che non l’avremmo [consentito]. Il mese scorso avrei dovuto
dire che non ci interessa, ma quando abbiamo detto che non l’avremmo
[consentito] e poi loro vanno avanti e lo fanno e noi non facciamo niente,
allora io penso che i nostri rischi aumentano, sì. Che differenza fa? Ne
hanno già abbastanza [di missili in URSS] da farci esplodere comunque.
Credo sia piuttosto una questione di […] dopo tutto, questa è una lotta
politica altrettanto che militare» 33.
Insomma, è necessario tener fede alla promessa fatta di reagire. E farlo
tenendo pure presente che – come poco dopo dirà bruscamente il
funzionario del Dipartimento di Stato George Ball – «per quanto riguarda il
popolo americano, ‘azione’ significa ‘azione militare’, punto e basta» 34.
Così si ricomincia a parlare di attacco aereo e di intervento, con Robert
Kennedy che addirittura propone di risolvere definitivamente la faccenda
con un’invasione 35. Pochi minuti dopo suggerisce perfino di trovare un
pretesto per venire «coinvolti nella cosa, attraverso la baia di Guantanamo o
qualcosa così. O se c’è qualche nave che […] sapete, affondare un’altra
volta la Maine» 36. Un’idea che pareva presa direttamente dai piani
dell’Operazione Mangusta. Il gruppo la lascia cadere 37.
Si prosegue finché McNamara cerca di spostare l’attenzione sulle
conseguenze delle azioni menzionate: «Non credo che abbiamo considerato
in modo soddisfacente le conseguenze di nessuna di queste azioni. […] Io
non so bene in che tipo di mondo viviamo dopo che abbiamo attaccato
Cuba e l’abbiamo iniziata 38. Noi facciamo, diciamo, cento sortite [di
bombardamento]. […] Abbiamo ventiquattro bersagli […] E ne
mancheremmo [comunque] qualcuno. Ora, dopo aver lanciato cinquanta o
cento sortite, in che genere di mondo viviamo? Come ci fermiamo a quel
punto? Io non conosco la risposta a questo. […] Dovremmo lavorare sulle
[stime delle prevedibili] conseguenze […]». George Ball lo interrompe per
aggiungere che tali conseguenze potrebbero presentarsi «in ogni posto del
mondo». McN: «In ogni posto del mondo, George, è esatto, sono d’accordo
con te» 39. I rischi di allargamento del conflitto, insomma, sono immediati e
globali. Tanto che in quello stesso dibattito verranno poi menzionati tra i
possibili bersagli di rappresaglia sovietica vari Paesi, tra cui persino Iran e
Corea, e McNamara suggerirà di diramare una world-wide alert: un’allerta
mondiale 40.
Adesso che la discussione è entrata nel vivo dei suoi aspetti politici, JFK
comincia a chiedere lumi sul perché i sovietici abbiano deciso di
confrontarli con una situazione tanto esplosiva: «Se non aumenta di molto
la loro capacità strategica, perché allora loro…? Dopotutto, Kruscev ha
dimostrato un senso di prudenza riguardo a Berlino». Ball prova a
rispondergli: «Diverse possibilità, signor Presidente. Una è che lui ci ha
fatto sapere che verrà all’ONU [a New York] a novembre. Potrebbe star
procedendo sull’assunto che […] quando arriva, questa è una cosa che può
fare, uno stratagemma. Che ecco qui Cuba armata contro gli Stati Uniti. O
magari usarla per mercanteggiare qualcosa su Berlino, dicendo che
disarmerà Cuba se noi abbandoniamo alcuni dei nostri interessi a Berlino
[…]» JFK poco dopo insiste: «Ma qual è il vantaggio? È come se noi
improvvisamente cominciassimo a mettere un consistente numero di missili
a medio raggio in Turchia. Ebbene, ciò sarebbe dannatamente pericoloso,
direi». Bundy deve ricordargli la realtà: «Beh, signor Presidente, noi
l’abbiamo fatto». JFK: «Sì, ma quello era cinque anni fa» 41.
Qui il riferimento era al fatto che sotto Eisenhower gli USA avevano
deciso di dispiegare dei missili nucleari in Turchia e in Italia. Erano i
cosiddetti Jupiter (rispettivamente quindici e trenta missili IRBM) 42, che
andavano ad affiancarsi ai sessanta Thor dislocati in Gran Bretagna. Tali
Jupiter, la cui dislocazione effettiva era avvenuta solo da pochi mesi 43, nel
frattempo erano già diventati relativamente obsoleti dal punto di vista
militare e sostanzialmente inutili nelle strategie americane 44. Essi potevano
però pur sempre colpire duramente il territorio dell’Unione Sovietica, ed in
particolare quelli turchi si trovavano proprio ai confini con l’URSS. Stava
insomma emergendo istintivamente, per bocca dello stesso JFK, un
inevitabile parallelismo con le basi appena installate a Cuba. E gli Jupiter
turchi seccavano molto Kruscev, tanto che egli era solito, quando riceveva
ospiti nella sua dacia di villeggiatura affacciata sul Mar Nero, dar loro un
binocolo e chiedergli cosa vedessero guardando all’orizzonte. «Nulla di
particolare» rispondevano ovviamente quelli, perplessi. «Io – replicava
invariabilmente il capo del Cremlino – vedo missili americani, puntati dritti
contro la mia dacia!» 45.

Seguendo il suo consueto approccio razionale ai problemi, Kennedy


cominciava a cercare di mettersi nei panni dell’avversario. Ma non riusciva
a trovare motivazioni adeguate per un rischio simile. «Non riesco a capire il
loro punto di vista, se sono consapevoli di ciò che ho detto alle conferenze
stampa [del 4 e 13 settembre: si veda il capitolo precedente]. Non credo ci
sia alcun esempio dei sovietici impegnati in una sfida tanto diretta, davvero,
dai tempi del blocco di Berlino» 46 (del 1948). Poco dopo insiste: «Beh, per
me è un dannato mistero. Non ne so abbastanza dell’Unione Sovietica ma
se qualcuno può dirmi un’altra volta dal blocco di Berlino in cui i Russi [ci]
abbiano dato una provocazione così chiara, io non so quando sia, perché
sono stati tremendamente prudenti, davvero. Forse il nostro errore è stato
non dir nulla prima dell’estate» 47 (cioè di non aver emesso espliciti
avvertimenti contro l’installazione di basi nucleari a Cuba, se non a
settembre, quando ormai tutto era già in corso).
Pochi minuti dopo JFK lascia la Cabinet Room, mentre altri continuano
la riunione. McNamara torna allora sull’alternativa che aveva proposto
all’inizio. «Sarò molto franco con voi. Non credo che qui abbiamo un
problema militare». Il problema, sostiene, è piuttosto l’annuncio fatto «che
se Cuba avesse posseduto una capacità di eseguire azioni offensive contro
gli USA, gli USA avrebbero agito». Due voci subito concordano («È
esatto»; «È esatto, quello non si può aggirare»).

Ora, il problema è questo. È un problema politico interno.


L’annuncio. Noi non abbiamo detto che saremmo entrati o meno [a
Cuba] e li avremmo uccisi. Abbiamo detto che avremmo agito.
Bene, e come agiamo? Ebbene, noi vogliamo agire in modo da
prevenire il loro uso. […] innanzitutto eseguiamo un’aperta
vigilanza [con gli U-2] così sappiamo quel che stanno facendo. In
ogni momento. Ventiquattr’ore al giorno, da adesso a sempre, per
così dire, indefinitamente. Che altro facciamo? Preveniamo che
giungano ulteriori armi. In altre parole, blocchiamo le armi
offensive. […] Ispezioniamo ogni nave […] E poi un ultimatum
[…] Una dichiarazione al mondo, e in particolare a Kruscev, che
abbiamo trovato queste armi offensive, stiamo mantenendo una
sorveglianza costante su esse, [e] se mai c’è una qualsiasi
indicazione che stiano per essere lanciate contro questo Paese,
risponderemo non solo contro Cuba, ma direttamente contro
l’Unione Sovietica con un attacco nucleare completo. Ora,
quest’alternativa [sorveglianza + blocco + avvertimento pubblico,
NdA] non sembra una molto accettabile. Ma aspettate finché non
avrete lavorato sulle altre… 48.

La conclusione strappa qualche risata ai presenti. In realtà era la più


lucida delle constatazioni possibili. I giorni successivi lo avrebbero
dimostrato.
17 ottobre 1962, mercoledì

Se la prima giornata di dibattiti aveva visto emergere nell’ExComm un


chiaro consenso (comprendente anche il Presidente) per l’opzione
dell’attacco aereo, la seconda giornata fu quella che vide sorgere le prime
crepe in questa convinzione. Si ripresentò gradualmente il dilemma
derivante dal fatto che un attacco limitato non era sufficiente per togliere di
mezzo tutti i missili, mentre quello generalizzato era troppo
compromettente. Esso avrebbe implicato per l’Unione Sovietica
un’esigenza di rappresaglia, e avrebbe finito per far degenerare la situazione
politica interna a Cuba rendendo necessaria un’invasione, con tutti i rischi
che ciò avrebbe comportato. Poi c’era il discorso di Pearl Harbor 49. Mentre
Kennedy adempiva ai suoi doveri pubblici recandosi in Connecticut per
sostenere le candidature democratiche in vista delle imminenti elezioni del
Congresso, i suoi consiglieri continuavano a riunirsi valutando questi ed
altri aspetti.
Intanto l’ex presidente Eisenhower fu privatamente avvertito della crisi
appena sorta. Egli fece sapere al suo successore che lo avrebbe appoggiato
su qualsiasi ferma azione militare avesse scelto di intraprendere 50.
Successivamente, in perfetto spirito bipartisan, dichiarò alla stampa –
dando dunque un ordine di scuderia ai candidati repubblicani – che la
campagna elettorale poteva criticare l’amministrazione Kennedy ma la sua
«immediata gestione della politica estera non era un argomento
legittimo» 51.
Adlai Stevenson, dal canto suo, reiterò il suo consiglio con un’apposita
lettera al Presidente, in cui gli confessava di nutrire «parecchi dubbi sulla
linea d’azione proposta» e gli consigliava piuttosto di mandare emissari
privati a Castro e Kruscev, stando attento a mantenere «il mondo con noi.
Iniziare o rischiare di iniziare una guerra nucleare è destinato ad essere
nella migliore delle ipotesi divisivo, e i giudizi della storia raramente
coincidono con gli umori del momento. […] Sebbene la motivazione della
nostra azione possa essere chiara per noi, non sarà chiara a molti altri».
Capiva il suo dilemma, la sua necessità di agire prima che i missili
divenissero operativi, la sua preoccupazione per la sicurezza nazionale, ma
«i mezzi adottati hanno conseguenze così incalcolabili che io sento che lei
dovrebbe chiarire che l’esistenza di basi di missili nucleari in qualsiasi
posto è negoziabile prima che iniziamo qualsiasi cosa». Affinché non
sfuggisse, la parola negotiable era stata sottolineata due volte. «Dovrebbe
esser chiaro – concludeva Stevenson – […] che sono loro che hanno
sconvolto il precario equilibrio nel mondo in arrogante disprezzo dei suoi
avvertimenti». Come dire: vedi di non farci passare dalla parte del torto. La
formula da seguire dunque era: «ricatto ed intimidazione mai, negoziazione
e buon senso sempre» 52.
Di tutt’altro avviso era Dean Acheson. Questi aveva ricoperto il ruolo di
segretario di Stato sotto il presidente Truman, nei primi anni della guerra
fredda. Ciò faceva di lui un personaggio esperto e di grande influenza.
Giunto alla Casa Bianca, espresse il suo parere all’ExComm il 17; il giorno
dopo parlò con JFK. Questi due incontri non furono registrati, ma ne
abbiamo altre testimonianze 53. Intervenendo all’ExComm, Acheson
sollecitò vigorosamente un immediato attacco aereo contro i missili.
Qualcuno gli domandò come avrebbero reagito i sovietici. L’ex segretario
di Stato non si scompose: «Conosco molto bene l’Unione Sovietica.
Abbatteranno i nostri missili in Turchia». Ma a quel punto, soggiunse un
altro, cosa dovrebbero fare gli USA e la NATO? «Rispondere abbattendo
una base missilistica all’interno dell’Unione Sovietica». E a questo come
reagirebbero i sovietici? «Beh… A quel punto speriamo che le menti più
moderate prevarranno e si fermeranno a negoziare». Come ricorda
Sorensen, «un vero senso di gelo» scese nella sala. Quell’attimo di silenzio
collettivo rivelava che tutti i presenti erano profondamente turbati dallo
scenario appena delineatosi di fronte a loro. Il fatto che i sovietici, incassata
la distruzione militare di propri missili e soldati a Cuba e perfino all’interno
del proprio stesso territorio, fossero disposti a fermare l’escalation per
negoziare era un’eventualità quantomeno dubbia, e nessuno dei presenti
voleva trovarsi a doverne verificare la fondatezza. Il parere di Acheson
aveva forse finito per sortire l’effetto contrario a quello che egli si
proponeva. Il giorno dopo, parlando col Presidente, si lamentò che egli
continuasse a cercare consiglio in organi dispersivi come l’ExComm,
«capaci solo di sprecar tempo» 54, invece di decidere in prima persona, come
faceva ai suoi tempi il presidente Truman. Quando JFK sollevò il problema
dell’analogia con Pearl Harbor, Acheson rispose che quel modo di parlare
era «sciocco», «indegno di lui», e che stava ripetendo le frasi fatte di suo
fratello 55. L’unica cosa che i sovietici capivano, diceva, era la forza. E la
determinazione ad usarla.
18 ottobre 1962, giovedì

Tra la notte del 17 e la mattina del 18, diversi consiglieri avevano scritto
e fatto giungere sulla scrivania del presidente dei «memo» per esporgli
ciascuno il proprio punto di vista. Intanto la CIA comunicava che nuovi voli
di ricognizione dimostravano che a Cuba erano in costruzione non solo
rampe per missili a medio raggio (i cosiddetti R-12, o SS-4 secondo la
classificazione NATO), ma anche rampe per missili a raggio intermedio (R-
14, o SS-5 secondo la classificazione NATO). Ciò significava che
praticamente tutto il territorio continentale degli USA ora era
potenzialmente a tiro 56.
Fu con questa inquietante novità che l’ExComm iniziò la nuova
riunione. George Ball tornò sui rischi di un attacco aereo a sorpresa:
«Uccideremo diverse centinaia di cittadini sovietici» (i soldati russi di
stanza a Cuba). E a quel punto «che tipo di risposta Kruscev si troverà
aperta? Mi sembra che dovrà proprio essere una risposta forte, e dovremmo
aspettarcela. […] Siamo disposti a pagare […]? Credo che il prezzo sarà
alto […] Il minimo assoluto che potrà essere sarà rimuovere i missili da
Italia e Turchia. [Ma] dubito che potremo risolverla così». Infatti una voce
in sala subito interrompe per offrire una stima più realistica: «Beh, io penso
che si prenderanno Berlino». JFK ne era altrettanto sicuro. Ball prosegue:
«Signor Presidente, credo sia facile, stando seduti qui, sottovalutare il senso
di paura che lei si ritroverà tra i Paesi alleati, forse perfino in America
Latina, se agiamo senza avvertimento, senza dare a Kruscev una qualche
via d’uscita per quanto illusoria […] È come Pearl Harbor. È il tipo di
condotta che uno si può aspettare dall’Unione Sovietica, non che uno si
aspetta dagli Stati Uniti». Ma JFK non è convinto che ciò faccia una gran
differenza pratica, perché «il punto è che lui si prenderà Berlino comunque.
Si prenderà Berlino in ogni caso» 57 (sia che l’attacco arrivi previo
ultimatum, sia che arrivi senza). L’intervento appassionato di Ball ha però
definitivamente convinto un proselito, e non uno di poco peso: Bob
Kennedy. «Credo che George Ball abbia dannatamente ragione […]
Assumendo che uno sopravviva a tutto questo, il fatto che noi non… che
genere di Paese siamo? […] Abbiamo fatto questo contro Cuba. Abbiamo
lottato per quindici anni con la Russia per prevenire un primo attacco contro
di noi […] Ora, nell’interesse del tempo, siamo noi a infliggerlo a un Paese
piccolo. Credo sia un maledetto fardello da portarsi addosso». Ball corre
subito in suo appoggio con un’immagine biblica: «questo fatto di portarsi ‘il
marchio di Caino’ sulla fronte» 58.
Tuttavia il Presidente è ancora propenso ad un attacco aereo. Per una
volta, i ruoli sono ribaltati: ora sembra Robert il fratello moderato.

Nel frattempo, proprio in quei giorni il Pentagono aveva in corso una


emblematica, massiccia esercitazione militare. Oltre quaranta navi da
guerra americane e quattromila marine erano stati precettati – ben prima
della scoperta dei missili – per effettuare uno sbarco sull’isola portoricana
di Vieques, simulando la conquista dell’isola e la deposizione di un
immaginario dittatore locale. La reale identità del personaggio era già
abbastanza intuibile, ma per averne conferma bastava leggere al contrario il
nome in codice dell’esercitazione: Operation ORTSAC 59.

Non era da meno Robert Kennedy, che quella mattina si riunì


nuovamente con i responsabili dell’Operazione Mangusta e, stando ai
verbali dell’incontro, continuò come nulla fosse a porre «grande enfasi sulle
operazioni di sabotaggio e chiese che gli si fornisse una lista di operazioni
che la CIA pianificava di condurre» contro Cuba 60. Una di queste fu
effettivamente condotta in quegli stessi giorni della crisi, con la sua
approvazione. L’operazione – già tentata e fallita tre volte nei mesi
precedenti – mirava al sabotaggio di una miniera di rame cubana, a
Matahambre, nella provincia occidentale di Pinar del Río. La CIA ne aveva
mappe precise giacché essa era appartenuta a una compagnia statunitense,
prima che Castro la confiscasse e nazionalizzasse. Il piano prevedeva che
due anticastristi cubani (Pedro Vera e Miguel Orozco, ex soldati di Batista)
venissero scortati dalla CIA alle coste cubane, percorressero a piedi il
tragitto sino alla miniera e posizionassero tre bombe sul binario di trasporto
merci che collegava l’interno della miniera col vicino porto di Santa Lucia.
I due esuli, ricevute le ultime istruzioni in Florida il 15 ottobre (dunque
subito prima della scoperta dei missili), sbarcarono sul suolo cubano nella
notte tra il 19 e il 20 ottobre. Giunti a Matahambre dopo cinque notti di
silenzioso cammino tra le paludi di mangrovie tropicali, innescarono
nottetempo le bombe e cominciarono a tornare verso la costa. Il mattino
successivo (25 ottobre), alla ripresa dei lavori le bombe avrebbero dovuto
esplodere e mandare tutto all’aria (col presumibile «effetto collaterale» di
intrappolare sottoterra i minatori al lavoro, forse uccidendoli). Se non che
un supervisore al porto si accorse della presenza di un oggetto insolito sul
binario e gli esplosivi vennero scoperti. I due sabotatori, ignari del
fallimento, continuarono a tornare a piedi verso il luogo dell’appuntamento
con la barca di recupero della CIA. Nel frattempo però, come vedremo, a
Washington il 26 ottobre una riunione dell’Operazione Mangusta era andata
terribilmente storta e Robert Kennedy aveva furiosamente ordinato di
sospendere ogni operazione d’inflitrazione. I due sabotatori, con cui la CIA
aveva momentaneamente perso i contatti, vennero definiti
«presumibilmente dispersi» e abbandonati al loro destino. Essi, dopo aver
cercato a lungo di rimettersi in contatto radio con la CIA e aver provato
invano a riprendere il mare da soli, ai primi di novembre dovettero infine
chiedere aiuto a un contadino locale (anche perché uno dei due nel
frattempo stava avendo un attacco di appendicite) e furono arrestati dalla
milizia 61. Riconosciuti colpevoli del sabotaggio della miniera, passarono
nelle prigioni cubane i successivi diciassette anni. Poi furono rimandati
negli USA 62.
Questa storia getta luce su un altro dei livelli su cui si stava combattendo
la guerra fredda, parallelamente alle schermaglie diplomatiche, alle minacce
nucleari, al confronto economico e ideologico. L’approvazione da parte di
Robert Kennedy di missioni simili, per di più ribadita all’inizio di una crisi
nuclea-re, è evidentemente una macchia nerissima sulla sua reputazione,
oltre che su quella del governo americano. D’altro canto però non si può
dire che egli avesse l’animo del terrorista. Era lo stesso uomo che in quei
mesi stava impegnandosi appassionatamente per garantire i diritti civili agli
afroamericani, che stava combattendo la mafia con vigore sconosciuto a
qualsiasi suo predecessore, e che proprio in quelle stesse ore ondeggiava tra
bellicosi propositi d’invasione e opposizione non meno vigorosa all’idea di
effettuare un attacco aereo a sorpresa contro Cuba per non commettere «una
Pearl Harbor alla rovescia». Come spiegare, dunque, queste sue
contraddizioni? È forse ipotizzabile che quando approvava simili operazioni
di infiltrazione e sabotaggio egli non visualizzasse con chiarezza la loro
reale portata? Sembra suggerirlo, per esempio, la risposta del tutto
disinvolta che egli diede anni dopo a chi lo interrogava su cosa
prevedessero in concreto quei progetti: «Beh, solo andare e far saltare una
miniera… un ponte. […] Non fu di grande aiuto». 63 Sembra quasi che egli
non si rendesse ancora ben conto della gravità (politica oltre che morale)
dell’Operazione Mangusta. Di certo egli risentiva del clima che si respirava
nei corridoi governativi di Washington dopo lo smacco della Baia dei Porci:
un clima acceso di vendetta personale, che lui per primo aveva contribuito a
creare, e dal quale forse era a sua volta contagiato. Come ammetterà,
decenni dopo, il suo collega ed amico McNamara: «eravamo isterici
riguardo a Castro» 64.

Sempre in quel pomeriggio del 18 ottobre, suo fratello John doveva


ricevere alla Casa Bianca, come previsto da tempo, il ministro degli Esteri
sovietico, Andrei Gromyko. Un incontro che non era possibile rimandare
senza destare sospetti. Gromyko fu dunque ricevuto nello Studio Ovale e,
nelle oltre due ore del colloquio, ribadì, come da copione, che le armi
fornite a Cuba erano puramente difensive; che gli USA dovevano smetterla
di minacciare quella povera isola; che in novembre Kruscev sarebbe venuto
negli Stati Uniti e avrebbe avuto piacere di incontrare JFK per un summit 65;
e che, sempre a novembre, l’URSS sarebbe stata costretta a riaprire la
questione di Berlino per porre termine alla presenza occidentale in quella
città. La loro permanenza militare in quella zona era, disse, come «un dente
marcio che va cavato». Kennedy ascoltò, resistette alla «enorme tentazione»
(come la definirà subito dopo) di mostrargli le prove fotografiche dei missili
che teneva riposte nel cassetto della scrivania e si limitò a rileggergli ad alta
voce il testo dei suoi due avvertimenti pubblici emessi a settembre riguardo
alle conseguenze di un eventuale buildup offensivo a Cuba. Seduto accanto
a lui, Rusk intanto scrutava il volto di Gromyko in cerca di un qualche
segno di reazione; ma questi, ricorda il segretario di Stato, «manteneva una
faccia da poker e non rispose nulla» (sebbene «il suo interprete scattò dalla
sedia come avesse preso una scossa, il che suggeriva che aveva colto il
senso delle parole di Kennedy») 66. Appena Gromyko ebbe lasciato la
stanza, il Presidente si sfogò che questi gli aveva raccontato «più spudorate
menzogne di quante io non ne abbia mai sentite in un tempo così breve» 67.
Gromyko, che era pienamente al corrente della presenza dei missili, stese
per Mosca un rapporto molto rassicurante sull’avvenuto incontro. La
situazione, riferì a Kruscev, era «del tutto soddisfacente». «Un’avventura
militare americana contro Cuba è quasi al di là del credibile» 68.

Proprio mentre JFK parlava con Gromyko, l’ExComm continuava a


riunirsi senza di lui. E la soluzione dell’attacco aereo continuava a perdere
terreno. Al povero Sorensen, speechwriter di fiducia del Presidente, era
stato richiesto di preparare una lettera con cui JFK potesse annunciare a
Kruscev l’imminenza di un attacco aereo contro i suoi missili a Cuba. Una
via di mezzo tra una nota informativa e un ultimatum. Per giunta,
praticamente ciascun consigliere presente gli aveva chiesto di inserire nel
discorso una frase o un concetto diverso. Sorensen ci provò 69, poi rientrò
nella sala dell’ExComm e disse che un discorso così assurdo e
contraddittorio era semplicemente impossibile da scrivere. Poiché non era
la «penna» di Sorensen ad essere in discussione, quest’impossibilità doveva
pur significare qualcosa, e ciò ebbe un certo ruolo nell’orientare le opinioni
del gruppo 70. Quella notte si tenne un’ennesima riunione, stavolta anche
con il Presidente, in una sala lontana da occhi indiscreti dei reporter (e
senza dispositivi di registrazione nascosti). Appena fu finita, a mezzanotte
passata, il Presidente tornò da solo nello Studio Ovale, accese il registratore
e, a beneficio dei nastri, riassunse le novità appena emerse: «Nel corso della
giornata le opinioni si sono chiaramente spostate dai vantaggi di un first
strike […] verso un blocco» 71.
19 ottobre 1962, venerdì

La mattina del 19 si tenne un incontro particolarmente significativo. Il


Presidente aveva convocato i capi di Stato Maggiore (JCS, Joint Chiefs of
Staff) per ascoltare anche il loro punto di vista. Nutriva stima per le loro
competenze, ma anche diffidenza per la mentalità bellicosa di molti di loro.
Nel 1961 essi gli avevano mostrato il cosiddetto SIOP, un piano integrato di
attacchi nucleari su scala internazionale preparato nel caso che scoppiasse
una guerra atomica. L’enormità delle distruzioni apportate al mondo e il
modo del tutto distaccato con cui essi ne parlavano lo aveva lasciato
profondamente scosso. Alla fine, sconsolato, aveva detto a Rusk: «E noi ci
definiamo ‘la razza umana’…» 72.
Tra i capi di Stato Maggiore c’era in particolare un uomo di cui JFK
diffidava: il generale Curtis LeMay. Questi era praticamente l’incarnazione
dello stereotipo del militare senza scrupoli. Durante la seconda guerra
mondiale era stato l’artefice del terrificante bombardamento di Tokyo
(quello che, secondo i rapporti dell’epoca, aveva fatto «più vittime di
qualsiasi altra azione militare nella storia del mondo», cosa che LeMay
amava ricordare con una certa fierezza) 73. Poi aveva sovrinteso a Hiroshima
e Nagasaki. Ora era a capo di tutte le forze aeree americane 74, ruolo che
poneva ai suoi ordini (naturalmente previa autorizzazione presidenziale)
una quantità enorme di ordigni nucleari, molti dei quali costantemente in
volo. Kennedy non lo sopportava: una volta, dopo aver ascoltato uno dei
suoi brutali briefing sul modo più efficace per riportare i nemici degli USA
«all’età della pietra», aveva emesso ai suoi una sorta di ordine verbale:
«Non voglio più quell’uomo vicino a me un’altra volta» 75. Perfino il
linguaggio e il volto di LeMay, con l’immancabile sigaro in bocca,
riflettevano il suo brusco modo di ragionare. Una volta, interrogato su quale
fosse la miglior politica da seguire riguardo a Cuba, aveva risposto in modo
telegrafico: «Fry it» (friggetela) 76. Ora, con la scoperta delle basi segrete,
pensava proprio che fosse arrivata l’occasione per sguinzagliare almeno
qualcuno dei suoi bombardieri. Gli Stati Uniti, diceva in quei giorni ai
colleghi, tenevano finalmente in pugno «l’orso russo». «Ora che l’abbiamo
preso in trappola, strappiamogli la gamba, su fino ai testicoli. Anzi,
ripensandoci, strappiamogli pure i testicoli» 77. Vedendo però che le
discussioni continuavano e le decisioni non arrivavano, già la sera prima si
era chiesto: «Veramente non faremo nient’altro che parlare?» 78. Ora lui e i
suoi colleghi entravano nella Cabinet Room per conferire col Presidente.
L’incontro è molto interessante, anche perché Kennedy espose qui
esaurientemente il modo in cui egli vedeva il problema, soprattutto nel suo
stretto legame con Berlino.

Anzitutto […] – cominciò 79 – dobbiamo pensare al perché i russi


abbiano fatto questo. Ebbene, in realtà è una mossa abbastanza
pericolosa ma abbastanza utile per loro. [Infatti se] noi non
facciamo niente, loro hanno là una base di missili, con tutta la
pressione che ciò infligge sugli Stati Uniti e il danno al nostro
prestigio. Se [viceversa] noi attacchiamo i missili cubani o Cuba, in
qualsiasi modo, questo gli dà una chiara indicazione per andarsi a
prendere Berlino, come poterono fare in Ungheria durante la guerra
inglese in Egitto

(cioè la crisi di Suez del 1956: si veda il capitolo precedente). In tal caso,

noi saremmo visti come ‘gli americani dal grilletto facile’ che hanno
perso Berlino. Non avremmo alcun supporto dai nostri alleati. […]
Dopo tutto, Cuba è a cinque o seimila miglia da loro. Non gli frega
un bel niente di Cuba. Ma gli frega di Berlino e della loro propria
sicurezza. Così direbbero che abbiamo messo in pericolo i loro
interessi e sicurezza. […] Perciò […] è una posizione molto
soddisfacente per loro [i russi] […] se si assume che ciò che è
fondamentale per loro, davvero, è Berlino, e non ve n’è alcun
dubbio. In ogni colloquio con i russi, anche ieri sera [con Gromyko]
abbiamo parlato di Cuba per un po’, ma Berlino, è su quello che
Kruscev si è impegnato personalmente […] Se andiamo e li
togliamo di mezzo [i missili] con un rapido attacco aereo, […] non
può che esserci una rappresaglia dall’Unione Sovietica, […] [col
rischio] che loro semplicemente entrino e si prendano Berlino di
forza. Il che mi lascia con una sola alternativa, che è lanciare le armi
nucleari, che è una dannata alternativa. […] Dall’altro lato, se
cominciamo col blocco che stiamo discutendo ci sono probabilità
che loro inizino un blocco [parallelo su Berlino] e dicano che siamo
noi ad aver cominciato. E ci sarà qualche dubbio sull’atteggiamento
degli Europei. Dunque non credo che abbiamo alcuna alternativa
soddisfacente. […] Il nostro problema non è meramente Cuba, ma
anche Berlino. […] È questo ciò che ha reso questa faccenda un
dilemma per tre giorni. Altrimenti la nostra risposta sarebbe stata
abbastanza facile. D’altro canto, dobbiamo fare qualcosa. Perché se
non facciamo nulla, avremo il problema di Berlino comunque.
Questo è stato chiarito ieri sera [da Gromyko]. Avremo questo
coltello ficcato dritto nelle nostre viscere tra circa due mesi. E allora
dobbiamo fare qualcosa. Ora, la vera domanda è cosa?

Il generale Maxwell Taylor (uno dei pochi tra i militari di cui JFK si
fidasse) risponde: «Signor Presidente, noi riconosciamo tutte queste cose.
Ma credo che saremo tutti d’accordo nel dire che davvero la nostra forza a
Berlino, la nostra forza ovunque nel mondo, è la credibilità della nostra
risposta date certe condizioni. E se non rispondiamo qui a Cuba, riteniamo
che la credibilità sia sacrificata». JFK concorda: il punto infatti è come
rispondere. È qui che interviene LeMay:

Io sottolineerei, un po’ vigorosamente forse, che non abbiamo


alcuna scelta se non un’azione militare diretta. Se facciamo questo
blocco che è stato proposto, un’azione politica, la prima cosa che
succederà è che i suoi missili [quelli che lei vuole distruggere, a
Cuba] spariranno nei boschi […] Allora non possiamo trovarli,
qualsiasi cosa facciamo […] Per quanto riguarda il problema di
Berlino, io non condivido la sua visione […] Se non facciamo nulla
contro Cuba, loro premeranno su Berlino, e premeranno proprio
duro, perché ci hanno beccato in fuga.
[…] Se [invece] intraprendiamo un’azione militare diretta contro
Cuba… non credo che loro faranno alcuna replica se noi gli diciamo
che la situazione di Berlino è proprio com’è sempre stata: se fanno
una [sola] mossa, noi combatteremo. […] Quindi non vedo
alcun’altra soluzione. Questo blocco e azione politica li vedo
condurre alla guerra […] Condurrà dritto alla guerra. È sbagliato
quasi quanto l’appeasement a Monaco.

Qui i nastri registrano un momento di silenzio. LeMay non stava solo


contraddicendo duramente il suo Presidente, ma gli aveva praticamente dato
del codardo di fronte a tutti i vertici dello Stato Maggiore, sbattendogli in
faccia quella che per la sua generazione era l’immagine della codardia
politica per antonomasia 80. L’immagine, per giunta, aveva anche una
connotazione personale, perché il padre di JFK (ex ambasciatore americano
a Londra), come i presenti sapevano bene, negli anni Trenta era stato
effettivamente a favore dell’appeasement (cosa che infatti aveva messo a
rischio anche l’ascesa politica di JFK). Kennedy però, con notevole
autocontrollo, non risponde nulla alla provocazione. Intervengono allora gli
altri Capi militari a confermare la convinzione che più si fosse rinviato uno
scontro e peggio sarebbe stato (per esempio l’ammiraglio Anderson, della
Marina, avverte che «il blocco non avrà effetti sull’equipaggiamento che è
già a Cuba, e fornirà ai russi il tempo per assemblare tutti questi missili […]
Sono d’accordo con il generale Le-May che si avrà un’escalation»). Poi
parla di nuovo LeMay: quelle basi sono «una minaccia ricattatoria, non solo
contro di noi ma anche contro altri Paesi sudamericani». E anche
politicamente, dopo tutti gli espliciti avvertimenti che gli USA avevano
emesso, «un blocco e dei colloqui politici verrebbero considerati da molti
dei nostri [Stati] amici e dai neutrali come una risposta parecchio debole
[«pretty weak»] a questo. E sono certo che anche un sacco di nostri
concittadini sentirebbero lo stesso. In altre parole, lei è in un gran brutto
guaio, signor Presidente». Kennedy non è nemmeno sicuro di aver sentito
bene: «Cosa ha detto?» – «Lei è in un gran brutto guaio». JFK ride amaro:
«Beh, lei c’è dentro con me. Personalmente» 81.
Il generale Curtis LeMay, comandante delle forze aeree americane.

Qualche minuto dopo, Kennedy si congeda e lascia la stanza. Rimasti


soli e ignari dei registratori lasciati accesi (forse non per negligenza?) dal
Presidente, i militari si complimentano con LeMay: «Gli hai sfilato il
tappeto proprio da sotto i piedi, dannazione […] Sono d’accordo con te al
cento per cento […] Qualcuno deve impedir loro di fare la dannata faccenda
un pezzettino per volta. Vai là a cazzeggiare con i missili, e sei fottuto.
Fottuto, fottuto, fottuto» 82. I nastri continuano registrando ulteriori sequele
di imprecazioni sconnesse, esprimenti grosso modo il concetto che un
attacco aereo deve necessariamente essere massiccio per risolvere il
problema una volta per tutte. Kennedy, dal canto suo, dopo l’incontro è
furioso e stupefatto dalla sicumera dei suoi interlocutori, incurante dei rischi
di escalation. «Questi pezzi grossi dei militari», si sfoga subito con un
assistente, «hanno un unico grande vantaggio dalla loro: se gli diamo
ascolto e facciamo quel che vogliono, nessuno di noi dopo sarà vivo per
dirgli che si sbagliavano!» 83.
Subito dopo, alle 10.35 di mattina, il Presidente sale sull’elicottero che lo
aspetta sul prato della Casa Bianca e si reca all’aeroporto da cui l’Air Force
One lo porterà in Ohio ed Illinois, dove, come da agenda, deve tenere alcuni
comizi elettorali. In serata, giunto a Chicago, troverà davanti all’hotel un
poster che, pur ignaro della crisi, pareva dettato da LeMay o Acheson.
Parafrasando Profili del coraggio (il titolo del fortunato libro che JFK
aveva pubblicato negli anni Cinquanta in onore di alcuni senatori americani
del passato distintisi per quella virtù), il cartello gli chiedeva
sarcasticamente di dimostrare «Meno profilo – più coraggio» 84.
20 ottobre 1962, sabato

Il 20 fu il giorno delle decisioni. In mattinata Bob Kennedy telefonò al


fratello e gli chiese di tornare a Washington per tirare le somme. Così
l’addetto stampa della Casa Bianca, Pierre Salinger, annunciò che il
Presidente aveva contratto un raffreddore e il medico gli aveva consigliato
di tornare a Washington per riguardarsi. Salinger naturalmente l’aveva detta
ma non l’aveva bevuta, e sul volo di ritorno gli chiese cosa stesse
succedendo davvero. JFK si limitò a rispondergli: «Non appena tornato a
Washington scoprirai di che si tratta. E quando succederà, tieniti le palle» 85.
Giunto alla Casa Bianca, JFK si trovò davanti un gruppo di consiglieri
ancora diviso in due tra i fautori dell’airstrike (capitanati da Bundy e dal
generale Taylor) e i sostenitori del blocco (guidati da McNamara, Rusk e
RFK). La decisione a quel punto spettava a lui 86. Iniziò dicendo: «Dovreste
tutti sperare che il vostro piano non sia quello che verrà accettato», così da
non dover assistere alle spiacevolissime conseguenze che ciascuna scelta
presto manifesterà. Quella notazione ironica rivelava tutta la sua
consapevolezza dei rischi della situazione. Dopo avere ascoltato ancora le
rispettive argomentazioni dei consiglieri per circa due ore e mezza, egli si
orientò per il blocco, in quanto era l’unica «linea d’azione compatibile con i
nostri principi» 87, e in quanto con un attacco «avremmo avuto tutte le
difficoltà di Pearl Harbor e non avremmo [neanche] finito il lavoro» 88.
Probabilmente giocò un ruolo anche la spiacevole notizia che la CIA gli
aveva fatto trovare sulla scrivania al suo ritorno: alcuni primi missili, nel
frattempo, erano divenuti pronti al lancio 89.
Di quella importante riunione non abbiamo nastri (essendosi tenuta
anch’essa in una stanza al piano superiore della Casa Bianca per tenerla
segreta), ma la tensione e l’intensità che dovette avere traspaiono perfino
dalle minute riassuntive 90. Nell’incontro, Rusk osservò tra le altre cose che
invece di utilizzare il termine blockade (che era quello appropriato, ma
faceva subito pensare ad un atto di guerra e a Berlino), si sarebbe potuto
usare il quasi inedito termine quarantine. Cuba veniva «messa in
quarantena», come un malato pericoloso. Sempre meglio che bombardata o
invasa, pareva voler dire quel vocabolo 91. Sempre in quella riunione Adlai
Stevenson, appositamente tornato da New York, prese la parola per chiedere
che l’annuncio del blocco fosse accompagnato da un’offerta di ritirare le
basi statunitensi da Turchia, Italia e Guantanamo. La sua proposta fu
sommersa da critiche, anche assai aspre. JFK rispose che, nel momento in
cui i russi lo avessero domandato, effettivamente gli USA si sarebbero
dovuti dichiarare disponibili a ritirare i missili da Italia e Turchia, ma non si
poteva offrirlo già in partenza 92. Quanto a Guantanamo (la base navale che
essi mantenevano in affitto da parecchi decenni sulla costa sud di Cuba, e
che Castro naturalmente non sopportava), replicò che andarsene da lì
sarebbe sembrato al mondo una ritirata concessa in preda allo spavento.
Stevenson incassò il rifiuto e quella sera confidò a un assistente del
Presidente (O’Donnell): «So che molti di quegli individui mi
considereranno probabilmente un vigliacco per tutto il resto della mia vita
per ciò che ho detto oggi; ma forse c’è bisogno della presenza di un
vigliacco quando si parla di guerra nucleare» 93. In realtà il suo era stato un
intervento assai coraggioso 94, proprio perché prevedibilmente impopolare,
ed anche autenticamente patriottico, in quanto motivato dalla volontà di
ridurre i rischi di una rappresaglia sovietica ai danni della sicurezza
nazionale (oltre che internazionale). Né fu un intervento inutile, perché a
JFK non poté che giovare, nei giorni successivi della crisi e da un punto di
vista sia psicologico sia politico, il fatto di avere nel gruppo anche qualcuno
«più a sinistra», per così dire, rispetto alle proprie posizioni.
Al termine della riunione il Presidente chiamò Sorensen e suo fratello
Robert nel Truman Balcony, per scambiare due parole all’aperto 95. Come il
resto del gruppo, egli era tutt’altro che ottimista. «Siamo molto, molto
vicini alla guerra», ammise. Poi, voltandosi verso Sorensen, ruppe
improvvisamente la tensione: «Spero che tu capisca che nel rifugio atomico
della Casa Bianca non c’è abbastanza spazio per tutti!».
21 ottobre 1962, domenica

L’ambasciatore britannico a Washington, Sir David Ormsby-Gore, era un


amico fidato del Presidente. Come ricorderà poi RFK, «era quasi parte del
governo». Fu lui la prima persona non americana a essere messa al corrente
delle decisioni della Casa Bianca (decisioni cui JFK diede l’ok definitivo
appunto quella mattina). Fu proprio il Presidente ad informarlo, ricevendolo
all’ora di pranzo e confidandosi apertamente con lui sui rischi incorsi. Gli
chiese la sua opinione tra le alternative allo studio e Ormsby-Gore optò
anch’egli per il blocco 96. I due si accordarono per avvisare privatamente
anche il premier britannico.
Finora la presenza dei missili a Cuba non era ancora trapelata alla
stampa, ma la copertura stava inevitabilmente per cedere. Per quanto quello
fosse stato, nelle parole dello stesso Kennedy, «il segreto tenuto meglio
nella storia del nostro governo» 97, qualche reporter aveva ormai messo
insieme sufficienti indizi per poter affermare che una grave crisi era
imminente e che essa riguardava nuove armi offensive a Cuba. Ma era
essenziale che la crisi venisse aperta dalla Casa Bianca, non da Mosca o da
una rivelazione giornalistica. Così la sera di quella domenica il Presidente
telefonò al «Washington Post» (molto probabilmente all’editore Philip
Graham, che era anche suo amico) e a due importanti reporter del «New
York Times» (James Reston e Max Frankel) di cui pure sapeva che avevano
ricostruito la situazione 98. Chiese loro di non svelare la presenza di missili
prima che fosse lui ad annunciarla. Il rischio, spiegò loro, era che il
Cremlino potesse approfittare della notizia per prevenire il suo discorso con
una dichiarazione o un’azione improvvisa. Messi di fronte ad una tale
responsabilità, in un momento che era chiaramente storico, entrambi gli
interlocutori decisero di accontentare il Presidente, e il segreto resse. Una
cosa del genere non sarebbe probabilmente mai più successa in futuro, ma
quella volta accadde. Del resto anche allora, secondo Bundy, «nessuno, se
non il Presidente in persona, avrebbe potuto fermare il Post e il Times,
quella domenica» 99.
Il resto del giorno era trascorso nell’attenta revisione del testo del
discorso che egli avrebbe dovuto pronunciare la sera seguente.
22 ottobre 1962, lunedì

La giornata ruotante attorno al discorso televisivo di Kennedy, quello


con cui la crisi sarebbe stata ufficialmente annunciata al mondo, si aprì e si
chiuse con due importanti telefonate.
Alle 10.40 di mattina il Presidente chiamò il suo predecessore
Eisenhower per un consulto. Questi nel frattempo era stato informato della
scelta del blocco e aveva fatto sapere di ritenere un attacco aereo a sorpresa
la soluzione militarmente migliore, ma di capire che da un punto di vista
più generale gli USA dovevano procedere gradualmente, e di essere perciò
disposto ad appoggiare anche un blocco. Nella telefonata Eisenhower ribadì
a JFK il suo appoggio 100, espresse comprensione per il fatto che quella
scelta fosse motivata dalla necessità di «preoccuparsi dell’opinione
mondiale» 101, ma non nascose la sua previsione che per togliere di mezzo i
missili sarebbe stata necessaria un’azione militare e che JFK avrebbe
dovuto essere pronto a compierla anche unilateralmente 102. Poi, su precisa
domanda di Kennedy, si disse convinto che i russi non avrebbero lanciato i
loro missili 103 e affermò che, pertanto, egli sarebbe stato disposto ad
assumersi il rischio di invadere Cuba anche coi missili già operativi («Beh,
cosa [altro] può fare? Se questo fatto è così serio, qui nel nostro fianco […]
lei deve [pur] usare qualcosa») 104.
Da questa breve ma importante telefonata emergono altri due punti
essenziali. Il primo è la differenza di vedute esistente tra i due riguardo al
legame tra Cuba e Berlino: strettissimo per Kennedy, nullo per
Eisenhower 105. Il secondo è il pessimismo di JFK sul prosieguo degli
eventi. Come risulta non solo da questa telefonata, ma anche dalla riunione
che presiederà poi nel primo pomeriggio 106, egli si aspetta una reazione
vigorosa. Si dice convinto che subito dopo il suo discorso Kruscev emetterà
una solenne minaccia di lanciare una guerra nucleare se Cuba verrà
attaccata (come del resto già aveva fatto a Suez in difesa dell’Egitto); che,
inoltre, egli non accetterà di ritirare i missili e sospendere i lavori; e che
intanto qualche U-2 in fase di sorvolo venga abbattuto dalla contraerea,
rendendo impossibile anche la sorveglianza e forzandogli così la mano a un
attacco 107. Tutto ciò sempre che Kruscev non ne approfitti subito per
bloccare Berlino, eventualità che pure a JFK sembra tutt’altro che
improbabile. Erano queste – appena mitigate dall’individuazione di un
possibile spazio negoziale sui missili in Turchia e Italia – le nere prospettive
con cui egli si accingeva ad aprire la crisi.
Intanto il vicepresidente Lyndon Johnson, che nelle deliberazioni di quei
giorni aveva tenuto un ruolo molto marginale, informato della scelta
lamentò che col blocco gli USA stavano «telegrafando il nostro cazzotto» e
«chiudendo la stalla dopo che il cavallo era scappato». Solo con riluttanza e
dopo aver saputo che anche Eisenhower lo aveva accettato, Johnson si disse
disposto ad appoggiarlo 108.
Nel frattempo vennero avvisati i governi di Francia e Germania Ovest,
tramite un emissario speciale recatosi con le foto delle basi da De Gaulle e
Adenauer, ottenendo da loro una reazione di appoggio, nonostante la
mancata consultazione.
Alle 17 Kennedy informò della situazione venti tra i principali leader del
Congresso, appositamente richiamati d’urgenza a Washington da ogni parte
del Paese. L’incontro non andò bene: molti leader giudicarono il blocco una
risposta gravemente interlocutoria e proprio perciò rischiosa. Di questo
avviso, per esempio, erano due senatori democratici tra i più influenti: J.
William Fulbright e Richard Russell. «Signor Presidente», protestò Russell,
«mi sembra che qui ci troviamo ad un bivio: o siamo una potenza di serie
A, o non lo siamo» 109. Non invadere subito, temporeggiare, era dannoso,
perché i russi ne avrebbero approfittato. «Il momento arriverà, signor
Presidente, in cui dovremo fare questo passo […] per la guerra nucleare. Io
non so se Kruscev lancerà una guerra nucleare per Cuba o meno. Non credo
lo faccia. Ma credo che più temporeggiamo e più certamente lui si
convincerà che abbiamo paura di […] lottare per davvero» 110. Kennedy
provò a ribattere che un’invasione immediata sarebbe stata non solo
materialmente impossibile (la mobilitazione delle truppe non era ancora
ultimata), ma anche troppo pericolosa, vista la possibilità che quei missili
venissero lanciati contro gli USA in rappresaglia: il che, disse, «è un
dannato rischio» da correre 111. Inoltre «qualsiasi cosa noi facciamo a Cuba,
gli dà la chance di fare lo stesso a Berlino» 112. «Se l’Unione Sovietica
dovesse prendersi Berlino domattina, cosa che potrebbe fare nel giro di due
ore, il nostro piano di guerra a quel punto è stato [cioè ha sempre previsto]
di lanciargli contro le armi atomiche. Questi sono i problemi a cui
dobbiamo pensare». Ma Russell incalzò: «Mi scusi ancora, ma lei vede un
solo momento nel futuro in cui Berlino non farà da ostaggio a ciò? […] Se
ci appoggiamo su questo, allora tanto vale riportare a casa le nostre armate
dall’Europa, risparmiare 15 o 25 miliardi di dollari e difendere solo questo
continente. Dovremo prendere un rischio, da qualche parte, in qualche
momento, se vogliamo mantenere il nostro status di grande potenza
mondiale» 113.
Questo non era solo il sentire di Russell o pochi altri, ma esattamente
quello della grande maggioranza dell’opinione pubblica americana. Ed era
in questo contesto che Kennedy si trovava ad agire. Egli ribadì ai
rappresentanti del Congresso che il blocco era solo il primo passo e
un’invasione poteva sempre seguire a breve. Poi ripeté che la persona nella
condizione migliore era «quella la cui linea d’azione non viene adottata […]
perché qualsiasi cosa facciamo è strapiena di rischi». Infine dovette
prendere atto del dissenso persistente e se ne andò con stizza appena
repressa: «Sarà meglio che vada e faccia questo discorso» 114.

Il presidente Kennedy nello Studio Ovale subito prima del suo discorso televisivo del 22 ottobre
1962.
FASE PUBBLICA

Buona sera, cari concittadini.


Questo governo, come promesso, ha mantenuto la più stretta
sorveglianza sul rafforzamento miliare sovietico sull’isola di Cuba.
Nella scorsa settimana prove inoppugnabili hanno stabilito il fatto
che una serie di siti di missili offensivi è ora in corso di
preparazione su quell’isola imprigionata. Lo scopo di queste basi
non può essere altro che creare una capacità di colpo nucleare
contro l’Emisfero Occidentale.

Si noti qui il riferimento immediato di Kennedy all’Emisfero


Occidentale nel suo insieme: un termine che nel suo discorso comparirà ben
diciotto volte 115, sia perché in effetti la gittata potenziale dei missili
comprendeva anche l’America Centrale e parte dell’America Latina, sia per
invitare la solidarietà di tali Stati.

[…] Questa rapida trasformazione di Cuba in un’importante base


strategica, mediante l’installazione di queste grandi, a lunga gittata e
chiaramente offensive armi di improvvisa distruzione di massa,
costituisce un’esplicita minaccia alla pace e alla sicurezza di tutte le
Americhe, in flagrante e deliberata sfida al trattato di Rio del
1947 116, alle tradizioni di questa nazione ed emisfero, alla Carta
delle Nazioni Unite, e ai miei stessi avvertimenti pubblici ai
sovietici del 4 e 13 settembre. Quest’azione contraddice anche le
ripetute assicurazioni dei portavoce sovietici, fornite sia in pubblico
sia in privato, che il rafforzamento militare a Cuba avrebbe
mantenuto il suo originario carattere difensivo.

JFK citava poi un paio di dichiarazioni in tal senso, compresa


l’assicurazione datagli da Gromyko appena quattro giorni prima. Dopo ogni
virgolettato il Presidente chiosava, cupo:

Quest’affermazione era falsa. […]. Anche quest’affermazione era


falsa. […]
Non viviamo più in un mondo in cui solo l’effettivo uso delle armi
rappresenta una minaccia alla sicurezza di una nazione tale da
costituire massimo pericolo. Le armi nucleari sono così distruttive e
i missili balistici così veloci che qualsiasi sostanziale aumento della
possibilità di usarli o improvviso cambiamento nella loro
dislocazione può ben essere considerato una sicura minaccia alla
pace. Le nostre armi non sono mai state trasferite al territorio di
alcuna nazione sotto la protezione della segretezza e dell’inganno
[…] Ma questo […] è un mutamento deliberatamente provocatorio e
ingiustificato dello status quo che non può essere accettato da
questo Paese se si vuole che il nostro coraggio e i nostri impegni in
futuro vengano ancora tenuti in conto dai nostri amici e nemici. Gli
anni Trenta ci hanno insegnato una chiara lezione: un
comportamento aggressivo, se lasciato crescere incontrollato e
incontrastato, alla fine conduce alla guerra

(tornava qui il tema dell’appeasement, sul quale oltretutto JFK aveva


scritto anche la sua tesi di laurea ad Harvard) 117.

La nostra è stata una politica di pazienza e moderazione […]. Ma


adesso è richiesta ulteriore azione, ed essa è già in corso, e queste
azioni possono essere solo il principio. Noi non rischieremo
prematuramente o senza necessità i costi di una guerra nucleare
mondiale, nella quale persino i frutti della vittoria sarebbero cenere
nella nostra bocca – ma neanche indietreggeremo da quel rischio in
qualsiasi momento dovessimo affrontarlo.
Agendo perciò in difesa della nostra sicurezza e di quella dell’intero
Emisfero Occidentale […] ho ordinato che siano prese le seguenti
misure iniziali.
Primo: per arrestare questo rafforzamento offensivo, una rigida
quarantena sta venendo approntata […]. Tutte le navi di ogni tipo
dirette a Cuba da qualsiasi nazione o porto, se trovate con carichi di
armi offensive, verranno rimandate indietro. Questa quarantena, se
necessario, sarà estesa ad altri tipi di carichi e vettori […].
Secondo: ho ordinato la continuazione e intensificazione della
stretta sorveglianza su Cuba. […] Se questi preparativi militari
offensivi dovessero continuare […] azioni ulteriori saranno
giustificate. Ho ordinato alle Forze Armate di prepararsi per ogni
eventualità […].
Terzo: sarà politica di questa nazione considerare qualsiasi missile
nucleare lanciato da Cuba contro qualsiasi nazione di questo
emisfero come un attacco da parte dell’Unione Sovietica agli Stati
Uniti, richiedente una completa risposta di rappresaglia sull’Unione
Sovietica [questo punto venne pronunciato con particolare lentezza
e gravità, NdA].
Quarto: come necessaria precauzione ho rafforzato la nostra base di
Guantanamo, evacuato i familiari del nostro personale locale […].
Quinto: Stiamo chiedendo stasera una riunione immediata
dell’Organo di Consultazione in conformità all’OAS
[Organizzazione degli Stati Americani] […].
Sesto: in base alla Carta delle Nazioni Unite, stiamo chiedendo
stasera che venga convocata una riunione d’emergenza del
Consiglio di Sicurezza. […] La nostra risoluzione chiederà il pronto
smantellamento di tutte le armi offensive da Cuba, sotto la
supervisione di osservatori dell’ONU, prima che la quarantena
possa essere rimossa.

Dopo le minacce, ecco un segnale d’apertura:

Settimo e ultimo: io faccio appello al premier Kruscev perché arresti


ed elimini questa clandestina, avventata e provocatoria minaccia
alla pace mondiale e stabilizzi le relazioni tra le nostre due nazioni.
[…] Egli ha ora un’opportunità di far indietreggiare il mondo
dall’abisso della distruzione […] Questa nazione è pronta a
presentare le proprie accuse […] e le proprie proposte per un mondo
pacifico, in ogni momento e forum, all’OAS, all’ONU o in qualsiasi
altro meeting che possa essere utile […].

Qui, almeno in piccola parte, si intravede il tono più aperto a negoziati


che nei giorni precedenti aveva consigliato Stevenson.
In passato abbiamo […] proposto la limitazione di tutte le armi e
basi militari. […] Siamo pronti a discutere nuove proposte per la
rimozione di tensioni da ambo i lati, inclusa la possibilità di una
Cuba genuinamente indipendente, libera di determinare il suo
destino. Non abbiamo alcun desiderio di guerra contro l’Unione
Sovietica. […] Ma è difficile stabilire e anche discutere questi
problemi in un’atmosfera di intimidazione. […]

Ogni mossa ostile ovunque nel mondo contro la sicurezza e la


libertà di popoli coi quali ci siamo impegnati – incluso in particolare
il coraggioso popolo di Berlino Ovest – sarà affrontata con qualsiasi
azione sia necessaria. Infine, vorrei dire qualche parola al popolo
imprigionato di Cuba, a cui questo discorso sta venendo
direttamente trasmesso da speciali impianti radio. Vi parlo come un
amico […] Ho visto […] con profondo dolore come la vostra
rivoluzione nazionale sia stata tradita e sia caduta sotto la
dominazione straniera. I vostri leader ora non sono più leader
cubani ispirati da ideali cubani. Sono fantocci ed agenti di una
congiura internazionale che ha rivolto Cuba contro i suoi amici e
vicini delle Americhe. […] Queste armi non sono nel vostro
interesse. Non contribuiscono affatto alla vostra pace e benessere.
Possono solo comprometterlo. Ma questo Paese non ha alcun
desiderio di causarvi sofferenze o imporvi un qualsiasi sistema
[economico-sociale]. […] Diverse volte in passato il popolo cubano
si è sollevato per cacciare i tiranni che avevano distrutto la sua
libertà. E non ho dubbio che la maggior parte dei cubani oggi
attende con ansia il giorno in cui sarà veramente libera: […] allora
Cuba sarà accolta di nuovo […] nelle organizzazioni di questo
emisfero

(cioè l’OAS, da cui essa era stata recentemente espulsa) 118. Il finale del
discorso era rivolto all’opinione pubblica nazionale:

Miei cari concittadini, che nessuno dubiti che questo sforzo che
abbiamo intrapreso è difficile e pericoloso. Nessuno può prevedere
con precisione in quale direzione esso si evolverà e quali costi o
vittime implicherà. Parecchi mesi di sacrifici e autodisciplina ci
attendono […] Ma il pericolo più grande sarebbe non far nulla. […]
Il prezzo della libertà è sempre alto, ma gli americani l’hanno
sempre pagato. C’è un solo sentiero che non sceglieremo mai, ed è
quello della resa e della sottomissione. Nostro obiettivo non è la
vittoria della potenza, ma la rivendicazione del diritto 119 – non la
pace a spese della libertà, ma pace e libertà, qui in questo emisfero
e, speriamo, in tutto il mondo. A Dio piacendo, questo obiettivo
verrà raggiunto. Grazie e buonanotte 120.

La telecamera si spense. Erano le 19.17, ora di Washington. Adesso il


mondo intero sapeva di essere sull’orlo della terza guerra mondiale.

Quella notte Kennedy mandò a Kruscev anche un messaggio privato, che


accompagnava il testo del discorso. Vi si ribadiva la sua determinazione a
ottenere lo smantellamento, si faceva notare che i passi appena annunciati
erano «il minimo necessario per rimuovere la minaccia», ma ciò non
doveva dar luogo, da parte sovietica, ad alcun misjudgment 121 (non usò il
termine miscalculation, memore della reazione che esso aveva suscitato a
Vienna).
Subito dopo aver pronunciato il discorso, Kennedy telefonò al premier
britannico Macmillan, nella prima di una serie di conversazioni quotidiane
che dureranno tutta la crisi e che fungeranno per JFK da confronto e
conforto delle proprie posizioni. Nella lettera che gli aveva spedito quel
pomeriggio dopo essere stato informato della crisi in arrivo, Macmillan
aveva espresso anch’egli il timore che Kruscev cercasse di mercanteggiare
Cuba con Berlino; aveva poi avvertito che un blocco in tempo di pace
sarebbe stato giudicato indifendibile dal punto di vista legale (seppure,
diceva, in un’era nuova come quella nucleare non fosse il caso di perdersi
in ricerche di precedenti giuridici) e infine aveva messo in guardia sul fatto
che «molti di noi in Europa hanno vissuto così a lungo in stretta vicinanza
alle armi nucleari nemiche delle specie più devastanti, che ci siamo abituati
alla cosa. Perciò l’opinione [pubblica] europea avrà bisogno di
attenzione» 122.
La prima reazione di Macmillan era stata dunque sostanzialmente di
appoggio – cosa affatto scontata, visto e considerato che i rischi di
rappresaglia avrebbero riguardato in primis l’Europa ed essa non era stata
neppure consultata da Washington, ma solo informata a scelte fatte. In cuor
suo però Macmillan era più critico di ciò che aveva scritto, e nella
telefonata questo venne fuori. Espresse a Kennedy il suo timore che col
blocco egli si stesse cacciando in una posizione strascicata («dragging-on
position»): insomma uno stallo. Almeno, se avesse invaso subito, sarebbe
stata un’azione compiuta, ma così rischiava di commettere proprio lo stesso
errore fatale che i britannici avevano fatto a Suez. JFK si trovò dunque a
ripetere al telefono a Macmillan le stesse giustificazioni date poche ore
prima ai rappresentanti del Congresso («Quel che stiamo facendo», gli
disse, «è iniziare questa escalation in un modo che diminuisca le chance di
una presa di Berlino o di terza guerra mondiale») 123. I due si accordarono di
risentirsi non appena fosse giunta una reazione sovietica.
All’una di notte, dopo l’ennesima riunione, il segretario di Stato Dean
Rusk poté finalmente lasciare l’ufficio. «Ci vediamo domattina», lo salutò il
suo assistente. Rusk, con un groppo in gola, gli diede una risposta che dice
tutto: «Lo spero» 124.

A Mosca, intanto, avvertito per telefono dell’imminenza di un


importante discorso di Kennedy alla televisione, Kruscev aveva intuito
subito di cosa si trattasse: «Probabilmente hanno scoperto i nostri
missili» 125. Convocò immediatamente una riunione d’emergenza del
Presidium e si precipitò al Cremlino. Tracce di quelle riunioni stanno
finalmente cominciando a venir fuori dagli archivi sovietici. Non ci sono
nastri come per la Casa Bianca, ma attraverso le minute si comincia a poter
ricostruire il processo decisionale di Mosca in maggior dettaglio 126. Quando
il Presidium si riunì erano le 22 e mancavano ancora quattro ore al discorso
di JFK. Kruscev temeva che l’annuncio fosse quello di un’invasione. «Il
fatto», cominciò a giustificarsi (di fronte ai colleghi, e forse anche a se
stesso), «è che noi non avevamo intenzione di scatenare una guerra.
Volevamo solo intimidirli, tenerli a freno riguardo a Cuba». Gli americani
avevano circondato l’Unione Sovietica di basi e ciò li aveva tenuti a freno;
perché dunque loro non potevano fare altrettanto? 127 «La tragedia»,
continuava a meditare a voce alta di fronte ai colleghi, «è che loro possono
attaccarci, e noi risponderemo. Questo può finire in una grande guerra».
È difficile immaginare una situazione di maggior stress per un leader di
quella che Kruscev dovette vivere quella notte, nell’attesa del discorso del
proprio avversario. Non solo il suo stratagemma era appena stato scoperto,
ma una catena di eventi spaventosa e forse inarrestabile stava per mettersi
in moto, ed egli sapeva di non potersi dire del tutto innocente. Attendendo il
discorso, il Presidium si arrovellava sulle possibili opzioni di risposta.
Annunciare immediatamente via radio la conclusione del trattato militare
con Cuba e passare così tutte le armi ai cubani? Autorizzare le proprie
truppe sull’isola a respingere un eventuale sbarco con le armi nucleari
tattiche? Kruscev pensò seriamente a questa seconda possibilità. I missili a
corto raggio LUNA e i missili crociera FKR (entrambi equipaggiabili con
testate nucleari) erano stati mandati sull’isola a questo preciso scopo.
Dunque perché non usarli? Non erano nel novero dei missili balistici che
potevano raggiungere gli Stati Uniti, ma sul campo di battaglia sarebbero
stati micidiali nel respingere un contingente di invasione. Gli americani, per
giunta, erano solo confusamente e parzialmente a conoscenza della loro
presenza sull’isola (essa verrà fuori in dettaglio solo decenni dopo) 128.
Kruscev arrivò a dettare un’autorizzazione all’uso di quelle armi. Poi
cambiò idea e fece spedire invece l’ordine di difendersi, in caso d’attacco,
con tutte le armi tranne quelle a testate nucleari (balistiche o tattiche che
fossero). Era un primo, segreto, segno di moderazione. Poi finalmente,
all’una e un quarto di notte, dall’ambasciata americana a Mosca portarono il
testo del discorso di JFK. Kruscev lo lesse. Era meno peggio del previsto.
«Questa non è una guerra contro Cuba, ma una qualche specie di
ultimatum». «Abbiamo salvato Cuba» annunciò ai colleghi. Ripresosi dallo
spavento, dettò rapidamente una serie di istruzioni che poi sarebbero state
esaminate ed attuate il mattino dopo, e sciolse la riunione. Chiese però ai
suoi colleghi di non tornare a casa per non farsi vedere da eventuali
corrispondenti esteri o agenti dell’intelligence straniera appostati fuori 129.
Lui per primo passò il resto della notte su un divano del suo ufficio, sul
quale si coricò vestito. «Ero pronto a notizie allarmanti che arrivassero in
qualsiasi momento e volevo essere pronto a porvi rimedio
immediatamente» 130.
23 ottobre 1962, martedì

Per una coincidenza significativa, dall’altra parte del mondo qualcuno


aveva passato la notte nello stesso identico modo: dormendo sul divano del
proprio ufficio. Si trattava di George Ball. Quando al mattino il suo capo,
Dean Rusk, arrivò al Dipartimento di Stato e lo trovò ancora lì, lo svegliò
con queste parole: «Abbiamo ottenuto una notevole vittoria: tu ed io siamo
ancora vivi» 131.
Quello fu un po’ lo stato d’animo della giornata a Washington.
Ventiquattr’ore di attesa, di passi preparatori prima dell’entrata in vigore
della quarantena, prevista per la mattina successiva. Era la quiete prima
della tempesta? «Ci sentivamo abbastanza leggeri», ricorderà poi RFK.
«Avevamo fatto il primo passo, non era andato poi tanto male ed eravamo
ancora vivi» 132. La giornata portò alla Casa Bianca diverse buone notizie.
Tanto per cominciare, a Berlino Ovest tutto taceva: il temuto controblocco
per ora non c’era stato. I principali alleati europei, i cui leader avevano
ricevuto solo un briefing poche ore prima del discorso, avevano offerto tutti
il loro appoggio all’azione americana, pur non essendo stati minimamente
consultati 133. In Africa Occidentale, intanto, la diplomazia USA si stava
attivando per ottenere il divieto all’uso di scali locali da parte di aerei
sovietici per far rifornimento di carburante nella loro rotta verso le
Americhe. Ciò significava vanificare la possibilità che i russi aggirassero il
blocco navale portando armi a Cuba con un ponte aereo, simile a quello
americano su Berlino del 1948. Le prime risposte positive dai governi
africani filtrarono già in giornata 134. In Asia, il Giappone – unico Paese ad
aver subìto l’uso militare della bomba – definì la mossa americana
incresciosa ma obbligata: un male necessario 135. Ulteriore sostegno arrivava
dall’Oceania (Australia e Nuova Zelanda). Critici invece alcuni degli Stati
neutrali (come la neonata Algeria) e naturalmente i Paesi comunisti (Patto
di Varsavia, Cina Popolare, Nord Vietnam, Corea del Nord) 136. In America
Latina, poi, la quarantena – atto che per avere un briciolo di copertura
legale aveva almeno bisogno di essere attuato sotto il benestare dell’OAS –
ricevette approvazione unanime: venti voti favorevoli, nessun contrario 137.
Un risultato di proporzioni perfino insperate («Terrific! Terrific!»,
commentarono infatti diverse voci dell’ExComm quando Rusk entrò
portando la notizia) 138. Il Presidente firmò sotto l’occhio delle telecamere
l’atto ufficiale di proclamazione della quarantena.
Intanto era arrivata la reazione sovietica, nella forma di un lungo
comunicato stampa e di una lettera privata di Kruscev. Entrambi erano
ovviamente molto critici ma, come notò il latore (l’ambasciatore americano
a Mosca, Foy Kohler), «evitano minacce specifiche e sono relativamente
moderate nel tono» 139. Il comunicato pubblico avvertiva che gli USA
stavano «sconsideratamente giocando col fuoco»; poi minacciava «un
potentissimo colpo di rappresaglia» in caso gli aggressori scatenassero un
conflitto, annunciando che le forze armate dell’URSS e del Patto di
Varsavia avevano ricevuto l’ordine di innalzare il loro stato d’allerta per il
combattimento e i riservisti erano stati richiamati 140. La lettera privata
diceva: «Signor Presidente, […] devo dire francamente che le misure
delineate nella sua dichiarazione rappresentano una seria minaccia alla pace
e sicurezza dei popoli. Gli Stati Uniti hanno apertamente preso la via della
grossolana violazione della Carta delle Nazioni Unite, […] delle norme
internazionali di libertà di navigazione in alto mare, la via di azioni
aggressive sia verso Cuba che l’Unione Sovietica». Di fronte a quella «nuda
interferenza negli affari interni» altrui, «si comprende da sé che noi non
possiamo riconoscere il diritto degli Stati Uniti di stabilire il controllo su
armamenti essenziali alla Repubblica di Cuba per rafforzare la sua capacità
difensiva. Confermiamo che gli armamenti ora a Cuba, a prescindere dalla
classificazione cui appartengono, sono destinati esclusivamente a scopi
difensivi. […] Spero che il governo degli USA mostrerà prudenza e
rinuncerà ad azioni da lei perseguite che potrebbero portare a conseguenze
catastrofiche per la pace in tutto il mondo» 141.
JFK gli rispose subito: «Credo riconoscerà che i passi che hanno iniziato
l’attuale catena di eventi furono l’azione del suo governo […] Discuteremo
questo problema nel Consiglio di Sicurezza [dell’ONU]. Nel frattempo,
quel che mi preoccupa è che entrambi mostriamo prudenza e non facciamo
nulla per permettere agli eventi di rendere la situazione più difficile da
controllare di quanto già non lo sia. Spero che lei darà immediatamente le
necessarie istruzioni alle sue navi di osservare i termini della quarantena
[…]» 142. Kennedy infatti sapeva bene che il giorno della verità sarebbe stato
il prossimo. La sua forte inquietudine emerse nello scambio di battute
privato tra i due fratelli Kennedy, rimasti soli nella Cabinet Room al
termine della riunione di quella sera 143. Fortunatamente i registratori erano
inavvertitamente rimasti accesi.

JFK: «Sembra che si metta davvero male, no? Ma d’altro canto non
c’era alcun’altra scelta. Se arrivano a comportarsi così male su
questo, nella nostra parte del mondo, Gesù Cristo, che altro cavolo
combineranno alla prossima [what are they gonna fuck up next]?
[…]»
RFK: «Beh, non c’era alcuna scelta. Voglio dire, saresti stato messo
sotto impeachment».
JFK: «Beh, è quello che penso. Sarei stato messo sotto
impeachment» 144. […]
RFK (cercando di rincuorare il fratello, evidentemente
preoccupato): «Non potevi fare niente di meno. Il fatto è che hai
tutti i Paesi sudamericani e centroamericani che hanno votato
all’unanimità [la risoluzione OAS], quando per due anni ci hanno
preso a calci nel sedere, […] e poi hai la reazione dagli altri alleati,
sai, come [l’ambasciatore britannico] David Ormsby-Gore e tutti gli
altri, che stanno dicendo che dovevi farlo. […] Voglio dire, se [la
guerra] deve venire, sarà venuta per qualcosa che non avresti potuto
evitare» 145.

Proprio al termine di questo scambio, JFK chiese al fratello di andare a


fare due chiacchiere con l’ambasciatore sovietico, Dobrynin. Robert
Kennedy si recò subito all’ambasciata, poche centinaia di metri più in là,
inaugurando così un canale di comunicazione segreto che andrà avanti per
tutta la crisi. Manifestò all’ambasciatore tutto il disappunto del fratello per
il subdolo inganno tesogli. Si rendevano conto di come si erano comportati?
Non è difficile immaginare con quale foga e amarezza RFK abbia espresso
il concetto. Dobrynin, che per poter negare più plausibilmente era stato
tenuto totalmente all’oscuro della presenza dei missili dal proprio stesso
governo ed ora stava cominciando a realizzarlo, pensò che «egli aveva
ragione, e io non avevo molto da poter controbattere se non che non avevo
vere informazioni dal mio governo. Fu per me una conversazione tesa e
imbarazzante» 146. RFK annotò nel verbale dell’incontro che «Dobrynin
sembrava estremamente preoccupato» 147. Alla fine della sfuriata, proprio
mentre era sul punto di andarsene, Bob chiese se per caso egli avesse idea
di quali istruzioni avessero ricevuto le navi russe per il mattino dopo.
Quello rispose che per quanto ne sapeva restavano valide le solite
istruzioni, di non sottostare a qualsivoglia pretesa di ispezioni illegali in
acque internazionali. «Non so come finirà», replicò allora RFK: «Noi
abbiamo intenzione di fermare le vostre navi» 148. «Ma sarebbe un atto di
guerra», protestò Dobrynin. Bob, semplicemente, «scosse la testa e se ne
andò» 149.

«Compagni, questa sera andiamo al teatro Bolshoi!» Kruscev decise che


i vertici del Presidium avrebbero trascorso così la serata del 23 ottobre.
Poteva sembrare un gesto frivolo, un modo per disinteressarsi della
gravissima crisi in corso. In realtà esso aveva un preciso significato politico.
Lo spiegò ai colleghi: «Gli occhi della nostra gente, così come quelli
stranieri, noteranno il fatto, e forse ciò li calmerà. Diranno a se stessi: ‘Se
Kruscev e gli altri leader sono in grado di recarsi a teatro in tempi simili,
allora almeno per questa notte possiamo dormire tranquilli’». Kruscev
ammetterà poi che «stavamo cercando di mascherare la nostra ansia, che era
intensa» 150. Anche lo spettacolo non era scelto a caso: il Boris Godunov,
un’opera russa messa in scena da una compagnia americana che era a
Mosca in tournée. La presenza di Kruscev e Breznev plaudenti e sorridenti
dal palco del teatro non sfuggì alla stampa. Poi il capo del Cremlino volle
andare in camerino per complimentarsi con il basso, l’americano Jerome
Hines. I due, come riferirà Hines al suo ritorno in patria, si intrattennero per
circa una mezz’ora e brindarono insieme alla pace e all’amicizia sovietico-
americana 151.
A Cuba intanto Fidel Castro aveva reagito tempestivamente. Già venti
minuti prima del discorso di JFK aveva ordinato la mobilitazione generale
(alarma de combate). Richiamando anche i riservisti, poteva arrivare a
contare su un esercito di ben 270-300.000 uomini. L’intera isola era stata
divisa in tre zone difensive: mentre Fidel restava a L’Avana, suo fratello
Raul si sarebbe occupato della regione est di Cuba, il capo dell’esercito
Almeida della parte centrale, Che Guevara della zona ovest 152. Poi il lìder
màximo era entrato nella redazione di «Revolucion» per dettare 153 la prima
pagina del giorno dopo: «[…] La nazione si è svegliata sul piede di guerra,
pronta a respingere ogni attacco. Ogni arma è al suo posto, e accanto a
ciascun’arma, gli eroici difensori della Rivoluzione e della Patria. E accanto
ai combattenti, i dirigenti rivoluzionari del Governo intero, disposti a
morire insieme al popolo. In lungo e in largo nell’isola risuona come un
tuono, sollevato da milioni di voci, il grido storico e glorioso, oggi con più
fervore e ragione che mai: ¡PATRIA O MUERTE! ¡VENCEREMOS!» 154.
Il giorno dopo Castro aveva letto con soddisfazione il comunicato
stampa di Mosca e la lettera speditagli da Kruscev, esprimente la sua
«chiara e ferma determinazione a lottare». «Bene», disse ai suoi compagni,
«sembra una guerra. Non riesco a concepire alcuna ritirata. […] Le cose
sono chiare. Vogliamo fare il nostro lavoro» 155. E il suo lavoro quella sera
fu di andare in tv per pronunciare un discorso alla nazione, in risposta a
quello fatto ventiquattr’ore prima da Kennedy 156. Seduto a un tavolo,
bandierone cubano sullo sfondo e consueta uniforme militare verde oliva
indosso, Castro parlò ininterrottamente per circa un’ora e mezza (cioè poco,
per i suoi standard). Fu un discorso assai significativo, sebbene finora abbia
ricevuto attenzione assai scarsa dagli storici della crisi. Esso ci dice molto
non solo sulla rinomata capacità oratoria di Castro, ma anche sulla
prospettiva cubana degli eventi. Ne riportiamo qui appena qualche estratto.
Castro cominciò con un riassunto delle varie aggressioni compiute in quegli
anni dagli yankee ai danni di Cuba, per poi arrivare al recente blocco
navale, che – diceva – non era che «un culmine di una [tale] politica» 157.
Espresse poi un rifiuto categorico di ogni ipotesi di ispezione straniera per
risolvere la crisi o verificare la presenza di armi, anche da parte dell’ONU
(«Cuba non è il Congo»; «entro le nostre frontiere siamo noi quelli che
governano e quelli che fanno le ispezioni», perciò chi ci volesse provare
«dovrà venire in tenuta da guerra»). Ciò si legava a quello che era il
concetto fondamentale per Cuba, ovvero la difesa della sovranità. Questo è
un punto a cui i cubani tenevano tantissimo, e perciò Castro aveva sempre
cura di sottolinearlo. Per esempio, con la figura retorica della reiterazione:
«Noi non siamo sovrani per concessione degli yankee, ma per nostro
proprio diritto. Noi non siamo sovrani a parole ma nei fatti, e in accordo
alla nostra tradizione di stato sovrano, per toglierci la nostra sovranità
dovranno spazzarci via dalla faccia della terra!».
Fidel Castro tiene il suo discorso ai cubani.

Quanto ai missili, Castro non solo non negava, ma praticamente


ammetteva (seppur in forma indiretta e generica) la presenza di armi
nucleari. Egli, si ricordi, avrebbe voluto fin dall’inizio che il dispiegamento
avvenisse pubblicamente (non essendo illegale), e benché Kruscev non lo
avesse ascoltato, continuava a sentire di non avere nulla da nascondere.
Così, premesso che la divisione tra armi difensive ed offensive era a suo
dire un’invenzione degli imperialisti, ammise che

è innegabile che Cuba si stia armando. Ha il diritto di armarsi e


difendersi. La domanda importante è questa: perché Cuba si è
armata? […] Noi ci siamo armati contro i nostri stessi voleri e
desideri, perché fummo costretti. […] Cosa sarebbe successo se non
avessimo rafforzato le nostre difese quando una divisione armata e
addestrata dagli Stati Uniti invase il nostro paese a Playa Giron? 158
[…] Stiamo correndo rischi che non abbiamo altra scelta che correre
[…] Coloro che scatenano una guerra termonucleare saranno
sterminati: credo non ci siano ambiguità di alcun tipo.
In effetti non ce n’erano 159. L’ambiguità semmai stava nel fatto che egli
non rivelava che tali armi erano saldamente in mano ai sovietici (oltre che
introdotte di nascosto). Tutto il discorso di Castro, cioè, era abilmente
impostato sul duello tra il gigante aggressivo nordamericano e la piccola
Cuba minacciata. Non che fosse falso, ma il principale punto della crisi non
era quello, come Castro doveva sapere. La crisi era in realtà un duello
geopolitico tra USA e URSS, nel quale Cuba era poco più che il campo di
battaglia. La quarantena era rivolta contro Kruscev, non contro Cuba. Non a
caso in tutto il lungo discorso di Castro l’URSS praticamente non veniva
mai menzionata, se non in un veloce passaggio finale, solo per dire che la
reazione sovietica al discorso di JFK era stata «una vera lezione
all’imperialismo: ferma, calma, piena di argomenti».
La reazione di Fidel a quel discorso invece fu improntata allo scherno.
Castro cioè si servì delle parole del suo stesso avversario per leggerle,
smontarle, perfino ridicolizzarle. Qualche esempio:

Egli [JFK] parla della Carta dell’ONU. Nel preciso momento in cui
iniziano a violarla, invocano la Carta dell’ONU contro di noi! Noi
non abbiamo minimamente violato alcun articolo della Carta. […]
Egli dice: ‘I miei stessi pubblici avvertimenti ai sovietici il 4 e 13
settembre’. Che c’interessa a noi degli avvertimenti personali del
señor Kennedy? […]
Forse la cosa più insolente dell’intera dichiarazione del señor
Kennedy sono i paragrafi indirizzati al popolo di Cuba, che leggo
perché si possa vedere fin dove arriva il cinismo e la svergognatezza
di quest’uomo. Egli dice: ‘Vi parlo come un amico’ […]. [Ci]
chiama ‘il popolo prigioniero’. Avrebbe potuto dire: ‘il popolo
prigioniero e armato’. […] [Dice anche:] ‘Ora i vostri leader non
sono più leader cubani ispirati da ideali cubani’ – Devono essere
marziani! [risate].

Poi, dopo averlo paragonato a Hitler 160, concludeva l’esegesi del suo
discorso:

Infine, questo gentiluomo […] siccome è così buono, così santo,


alla fine, dopo aver scritto tutte queste fellonìe […] chiede perfino a
Dio di benedire tutte queste malefatte che intende commettere e sta
commettendo! […] questo non è il discorso di uno statista ma di un
pirata. […] Sarebbe come se noi mandassimo le nostre navi a dire:
‘No, gli USA non possono mandare certe armi al Guatemala o al
Venezuela’. […] Noi non disarmeremo né oggi né mai, fintanto che
la politica di aggressione e ostilità da parte degli Stati Uniti persiste
contro di noi.

Lesse infine un passo pure dall’atto di proclamazione della quarantena


USA:

«Il Dipartimento della Difesa stabilirà le aree delimitate o proibite


mostrando la via ai convogli diretti a Cuba». Essi possiedono il
mare già! Morgan è il padrone dei mari! [sospiro] Non dico Drake,
perché Drake era una persona di un certo credito… 161 [risate]
[…] Così domani avremo le piccole navi americane. Le abbiamo
sempre avute intorno, in realtà, ma ora forse si faranno vedere più
chiaramente […] e ispezioneranno i convogli. […] È un atto di
guerra in tempo di pace. Signori, questo è puro yankee-ismo! 162

Oltre all’abile retorica e ad un’oggettiva parte di ragione, nelle sue


parole (come del resto in quelle degli altri due leader) c’era anche qualche
distorsione e semplificazione nel modo di presentare la situazione.
Interessante, per esempio, il fatto che nella sua lunga esegesi del discorso di
Kennedy Castro saltasse a piè pari proprio la lettura dei punti 3 e 7 del
discorso, ossia quelli in cui si specificava che la rappresaglia nucleare
sarebbe ricaduta sull’URSS (non su Cuba) e in cui si faceva appello a
Kruscev (non a Castro) per disarmare quei missili. Del resto, come ogni
parola nel discorso di Kennedy era calibrata, scritta e frutto di accurate
revisioni, così ogni parola nel discorso di Castro era improvvisata sul
momento e frutto di passione: con tutte le conseguenze positive e negative
del caso. Di sicuro fu un discorso efficace: non appena il lìder màximo ebbe
finito di parlare (alzandosi e andando via bruscamente dopo l’immancabile
«¡Patria o muerte! ¡Venceremos!»), le strade fin lì deserte de L’Avana si
riempirono di cubani, che, sfidando la pioggia battente e facendosi luce con
torce e candele, spontaneamente iniziarono a sfilare cantando
orgogliosamente l’inno nazionale. Ai fianchi, notò un ex diplomatico
americano che assistette alla scena, essi portavano semplici machete e
coltelli per carne 163.

«..Signori, questo è puro yankee-ismo..»


Il quotidiano del partito comunista cubano («Hoy», Oct. 25, 1962, p. 3) raffigurava Kennedy come
un pirata nazista, riprendendo alla lettera parole, metafore e paragoni storici del discorso di Castro
del 23 ottobre.
24 ottobre 1962, mercoledì

Quella mattina, già prima dell’entrata in vigore della quarantena,


avvennero almeno due fatti importanti da segnalare. Negli Stati Uniti le
forze armate del SAC (Strategic Air Command) innalzarono il proprio stato
di allerta militare sino ad un livello che non era mai stato raggiunto prima,
fin dall’inizio della guerra fredda. Lo stato d’allerta, denominato
«DEFCON» (Defense Condition), contava cinque livelli progressivi:
DEFCON-5 era quello usuale, per il tempo di pace; DEFCON-1 significava
guerra in corso. Dopo il discorso di JFK, lunedì sera, si era già passati dal 5
al 3. Ora, mentre il blocco entrava in vigore, si decise di passare anche a
DEFCON-2. Un solo passo dalla guerra aperta. Forze americane sparse in
tutto il mondo ricevettero l’ordine di tenersi pronte a colpire gli obiettivi
sovietici prefissati. Per giunta, il generale Thomas Power (uno che quanto a
bellicosità poteva vedersela con LeMay) aveva scelto di trasmettere la
direttiva «in chiaro», cioè su frequenze radio non crittate: forse affinché
l’intelligence sovietica potesse intercettarla senza problemi, e trarne le
dovute conclusioni 164.
A Mosca nel frattempo Kruscev aveva saputo che c’era in città un
importante uomo d’affari americano (William Knox, presidente della
Westinghouse Electric Int.), e lo aveva mandato a chiamare 165. Ricevutolo
al Cremlino, parlò con lui per oltre tre ore. Naturalmente immaginava che
ciò che diceva a Knox sarebbe presto giunto alla stampa o alla Casa Bianca.
Così cominciò a spiegargli la situazione, alternando minacce e
rassicurazioni. «Come posso trattare con un uomo che è più giovane di mio
figlio?» 166 si lamentò, reiterando la sua antica diffidenza per l’inesperienza
di JFK. Ad ogni modo egli si diceva disponibile a vederlo per un vertice che
risolvesse la crisi. Potevano incontrarsi dove preferisse Kennedy: in
America, a Mosca o anche in mezzo al mare. «Io non sono interessato alla
distruzione del mondo» 167. «Ma se gli USA insistono ad una guerra, ci
incontreremo tutti all’inferno» 168. Avvertì poi che se Kennedy voleva
proprio sapere che tipo di armi c’erano a Cuba sarebbe bastato che provasse
ad invaderla, e avrebbe visto Guantanamo sparire già il primo giorno (in
effetti il piano prevedeva proprio questo) 169. Se poi gli USA avessero
toccato le navi sovietiche, i sottomarini che le scortavano avrebbero
affondato le navi da guerra americane. Quanto ai missili, diceva, essi erano
solo difensivi, perché tale era il loro intento. Per esempio, «se io le punto
una pistola contro, così, per aggredirla, la pistola è un’arma offensiva. Ma
se il mio scopo è di impedire a lei di spararmi, è difensiva, no?». E poi gli
USA non definivano forse difensivi i propri missili in Turchia, nonostante
la loro lunga gittata? 170 Rassicurò inoltre che quelle armi sarebbero rimaste
sotto stretto controllo di Mosca (perché i cubani erano «un popolo
volubile»). Infine raccontò una delle sue storielle: c’era un uomo che,
caduto in rovina, si trovava ormai costretto a vivere insieme alla sua capra.
La puzza dell’animale non gli piaceva, ma aveva finito per abituarsi.
Ebbene, l’Unione Sovietica aveva avuto le sue capre: i missili in Turchia,
Grecia 171, Italia ed altri paesi della NATO. E ci si era abituata. Ora anche gli
americani avevano la loro capra a Cuba: «Non ne siete felici e non vi piace,
ma imparerete a conviverci».
Alle 10 di mattina, ora di Washington, la quarantena entrava in funzione.
Era il momento della verità. Se le navi sovietiche avessero rifiutato di
fermarsi, come aveva preannunciato Kruscev, si sarebbe verificato il primo
scontro armato diretto tra le due superpotenze dall’inizio della guerra
fredda. L’escalation a quel punto sarebbe divenuta forse inarrestabile. I
ricordi di Dobrynin 172 e di Robert Kennedy mostrano chiaramente come la
tensione raggiunse allora, da ambo i lati, un nuovo culmine.

Mi sedetti al tavolo di fronte al Presidente – ricorderà RFK in un


passo memorabile – 173. Era questo il momento per il quale ci
eravamo preparati ma che speravamo non venisse mai. Il pericolo e
l’ansia che tutti sentivamo gravavano come una nube su noi e
soprattutto sul Presidente. […] Il mondo era forse sull’orlo di
un’immane strage? Era colpa nostra? Avevamo commesso un
errore? C’era qualche altra cosa che avremmo dovuto fare? O non
fare? Sollevò le mani al viso coprendosi la bocca. Apriva e
stringeva il pugno. Il suo viso era teso, gli occhi dolenti, quasi grigi.
Ci guardammo l’un l’altro attraverso il tavolo. Per pochi attimi
fuggenti, fu quasi come se nessun altro fosse lì con noi, e come se
lui non fosse più il Presidente. Senza sapere perché, pensai a quando
era stato malato e sul punto di morire, a quando aveva perso suo
figlio, a quando avevamo saputo che il nostro fratello maggiore era
caduto, ai momenti di angoscia e di dolore. Le voci continuavano a
ronzare intorno, ma mi sembrava di non sentire più nulla; finché
udii il Presidente che diceva: ‘C’è qualcosa che possiamo fare pur di
evitare di avere un primo scontro con un sottomarino russo? Una
qualsiasi altra cosa?’. ‘No’, disse McNamara, ‘il pericolo per le
nostre navi è troppo grande. Non abbiamo alternative. […] È quel
che dobbiamo aspettarci’ […].
Sentii che ci trovavamo sull’orlo del precipizio senza alcuna via
d’uscita […]. Il Presidente aveva dato il via al corso degli eventi,
ma ormai non poteva più controllarli. Doveva aspettare, dovevamo
aspettare. Nella sala del consiglio lentamente i minuti passavano.
Che potevamo dire adesso, che potevamo fare? Poi alle 10.25 un
usciere portò un biglietto a John McCone. ‘Signor Presidente’, disse
questi, ‘abbiamo un rapporto preliminare che sembra indicare che
alcune navi russe si sono fermate’.

Fu a questo punto che il segretario di Stato Dean Rusk sussurrò al vicino


Bundy 174 la frase più famosa della crisi: «We’re eyeball to eyeball, and I
think the other fellow just blinked» («Siamo occhi negli occhi. E credo che
l’altro tipo abbia appena sbattuto le ciglia»). Per una reazione emotiva
analoga a quella appena descritta da Robert Kennedy, anche a Rusk in quel
momento era istintivamente tornato in mente un episodio della propria
infanzia. Un gioco che i ragazzini come lui usavano fare in Georgia, e che
consisteva nel piazzarsi vicinissimi uno di fronte all’altro e fissarsi dritti
nelle pupille degli occhi. Chi dei due non reggeva lo sguardo dell’altro e
sbatteva le ciglia per primo, aveva perso.
Poteva una crisi nucleare ridursi a questo? Naturalmente no. Neppure
Rusk lo pensava davvero 175.
Intanto arrivò la conferma: quelle navi stavano «certamente tornando
indietro». Kennedy rimase in silenzio per circa sei secondi. Poi disse: «Mi
sembra che vogliamo dare alle navi una chance di girarsi». Se Mosca aveva
dato l’ordine di fare dietrofront, loro dovevano agevolarli a farlo. Ordinò di
contattare subito la portaerei Essex, che era sulla linea, e «dir loro di
aspettare un’ora» 176.
«Poi tornammo a occuparci dei dettagli», ricorda RFK. «I presenti
continuavano a parlare; ma ognuno di loro adesso sembrava un’altra
persona. Per un momento il mondo si era fermato, e ora ricominciava a
girare» 177.
La crisi tuttavia era ben lungi dall’essere finita. Se Mosca aveva deciso,
in quel primo momento, di evitare uno scontro diretto, ciò poteva essere
dovuto a vari motivi, senza che la cosa implicasse una resa. Una ragione,
per esempio, poteva essere evitare che, in seguito a un’ispezione o cattura
di una loro nave, i segreti della loro tecnologia militare finissero in mano
americana 178. Un’altra poteva essere guadagnar tempo, così da completare
le installazioni a Cuba mentre continuavano le trattative. Non a caso
sull’isola i lavori stavano proseguendo con evidente rinnovata foga, senza
sosta, giorno e notte. Inoltre, non tutte le navi sovietiche si erano fermate o
girate, ma solo alcune: guarda caso, quelle sospette di portare materiale
bellico (riconoscibili dalle maggiori dimensioni dello scafo). Viceversa la
Bucarest, una nave cisterna sovietica trasportante petrolio, stava
proseguendo. Cosa fare allora? Dopo molte incertezze e dibattiti, Kennedy
decise di lasciarla passare 179. Essa giunse così a Cuba, dove fu accolta con
grande entusiasmo dalla popolazione cubana 180. JFK in quel modo stava
dando un segnale di moderazione, in risposta a quella appena mostratagli da
Kruscev. «Non bisogna spingerlo a un’azione precipitosa», spiegò.
«Occorre dargli il tempo di meditare. Non voglio spingerlo in un angolo da
cui non possa più scappare» 181. Proprio recentemente egli aveva letto un
libro di storia, I cannoni di agosto 182, che sosteneva la tesi che la prima
guerra mondiale fosse scoppiata per banali incomprensioni ed errori di
calcolo compiuti dai generali di alcune nazioni europee. La superficialità di
pochi uomini aveva messo in moto una spirale di eventi che si era poi
rivelata disastrosamente inarrestabile. Egli aveva chiesto a tutti i suoi
consiglieri di leggere quel libro. Ne aveva perfino fatto spedire copie a tutte
le basi americane sparse nel mondo, affinché potesse leggerlo «ogni
ufficiale nell’Esercito» 183. Ora, come confidò al fratello, egli capiva di
trovarsi in una situazione del tutto analoga a quella dei «cannoni di agosto».
E non poteva permettere che una cosa simile succedesse in epoca nucleare.
«Non voleva», ricorda RFK, «che qualcuno in futuro potesse scrivere un
libro sui ‘missili d’ottobre’» 184.
Arrivò la sera. Kruscev mandò un altro segnale. Forse stupito dal fatto
che Knox, contrariamente alla sua esplicita autorizzazione 185, non aveva
rivelato nulla della loro conversazione alla stampa, egli decise di usare un
altro canale. Lo trovò nel novantenne filosofo e matematico britannico
Bertrand Russell, uomo di grande prestigio internazionale, stretto amico del
defunto Albert Einstein e come lui instancabile attivista per il disarmo
nucleare. Appena appreso del blocco, Russell aveva reagito con foga,
inviando telegrammi a Kennedy e Kruscev per implorarli di salvare il
mondo dall’imminente distruzione atomica. Ora, sorprendentemente,
scopriva che Kruscev gli aveva risposto, passando il testo della risposta
anche all’agenzia stampa TASS.

Caro signor Russell, ho ricevuto il suo telegramma e le esprimo la


mia sincera gratitudine per l’opera da lei svolta. […] Comprendo la
sua preoccupazione e la sua ansietà. Tengo ad assicurarle che il
governo sovietico non prenderà alcuna decisione avventata, non si
lascerà provocare dalle ingiustificabili misure degli Stati Uniti. […]
Faremo tutto quanto è in nostro potere per evitare la guerra.
Sappiamo bene che se questa guerra dovesse scoppiare,
diventerebbe fin dal primo momento una guerra termonucleare e
mondiale. Ciò per noi è assolutamente ovvio, ma evidentemente non
lo è per il governo degli Stati Uniti che ha causato la crisi. Si dice
che il governo americano si sia imbarcato in questa avventura non
soltanto per odio verso il popolo cubano e il suo governo, ma anche
per ragioni elettorali, per sfruttare a beneficio di un partito il
sentimento patriottico. Ma questa è una pazzia […].

Poi chiedeva indirettamente ai governi e all’opinione pubblica degli altri


Paesi del mondo di attivarsi per fare pressione: «sono necessari gli sforzi
non soltanto dell’Unione Sovietica […] ma anche di quelli di tutti gli Stati,
di tutti i popoli, di tutti i settori della società. È evidente che se avviene una
catastrofe, sarà fatale per tutta l’umanità e non risparmierà nessuno, né a
destra né a sinistra, né coloro che sostengono la causa della pace né coloro
che vorrebbero rimanere in disparte». «Se il governo americano effettuerà il
programma di azioni da pirata da esso minacciato, saremo costretti a
difenderci […]. Si sa che se uno cerca di intenerire un bandito dandogli
prima il portafogli e poi la giacca, il bandito per questo non verrà a più miti
consigli, ma al contrario si farà sempre più insolente. Bisogna perciò
affrontarlo […]». Era, si noti, il medesimo tema dell’appeasement invocato
da Kennedy in senso contrario («gli anni Trenta ci hanno insegnato una
chiara lezione…»). Alla fine arrivava anche la proposta esplicita: «Il
dilemma guerra o pace è così vitale che dovremmo considerare la
possibilità di un incontro al vertice per discutere tutti i problemi […]. [Ma]
Se gli americani compiono un’aggressione, l’incontro diventerà impossibile
e inutile» 186. Quell’offerta di summit, posta all’avversario tramite un
anziano filosofo, il giorno dopo era sulla prima pagina dei quotidiani di
tutto il mondo.

Verso le 19 Kennedy telefonò al premier britannico Macmillan.


Informatolo degli eventi della giornata, gli pose un interrogativo della
massima importanza: i russi, gli disse, «stanno continuando a costruire
questi razzi e allora noi dovremo valutare se abbiamo intenzione di invadere
Cuba, prendendo i nostri rischi, o se aspettiamo e usiamo Cuba come una
sorta di ostaggio nel problema di Berlino. Allora in qualsiasi momento lui
fa un’azione contro Berlino, noi facciamo un’azione contro Cuba. Questa è
la scelta che abbiamo. Qual è la sua opinione?» 187.
Macmillan rispose che aveva bisogno di pensarci un po’ su. Certo era un
punto «molto importante, perché suppongo che il mondo senta che noi
prima o poi dovremo avere qualche genere di discussione con loro [cioè
accettare un summit coi russi]. Ma non vogliamo farlo in un modo tale che
lui abbia tutte queste carte nelle sue mani.» JFK: «Lui ha nelle sue mani
Cuba, ma non ha Berlino. Se si prende Berlino, noi ci prendiamo Cuba.»
Quanto a un summit, JFK almeno per il momento era scettico: «Non so
bene cosa discuteremmo al meeting, perché lui tornerà [alla carica] con la
sua solita vecchia posizione su Berlino, probabilmente offrendo di
smantellare i missili se noi neutralizziamo Berlino» – offerta che egli, come
Macmillan, comprensibilmente voleva evitare di dover accettare.
Dopo la telefonata, il premier britannico evidentemente realizzò che quel
dialogo era stato vagamente paradossale, perché annotò nel suo diario che
esso gli ricordava in tutto e per tutto, eccetto la tragica serietà
dell’argomento, Beyond the Fringe: uno show satirico che faceva le
imitazioni dei politici 188.
Quella notte ci fu un ulteriore, duro scambio di lettere segrete tra
Kruscev e JFK. Il capo del Cremlino protestava vigorosamente: «Lei,
signor Presidente, non sta dichiarando delle quarantene, ma avanzando un
ultimatum. […] Consideri cosa sta dicendo! E vorrebbe convincermi ad
accettare ciò! Lei non sta più facendo appello alla ragione, ma desidera
intimidirci. […] Chi le ha chiesto di fare ciò? Con che diritto lo ha fatto?
[…] Non dubito che se qualcuno avesse tentato di dettare condizioni di
questo tipo a voi, gli Stati Uniti, voi avreste rigettato questo tentativo. E
anche noi diciamo: No. […] Naturalmente noi non saremo semplicemente
spettatori delle azioni piratesche delle navi americane. Saremo costretti a
prendere misure […] Per questo, noi abbiamo tutto ciò che è necessario.
Rispettosamente suo, N. Kruscev» 189. JFK gli rispose immediatamente: «Mi
rammarico moltissimo che lei ancora non sembri capire cos’è che ci ha
mosso in questa vicenda. La sequenza degli eventi è molto chiara». E
ripercorreva le false assicurazioni ricevute, i suoi avvertimenti, la scoperta
dell’inganno, le misure che aveva dovuto prendere. «Le chiedo di
riconoscere chiaramente, signor Premier, che non sono io che ho lanciato la
prima sfida in questo caso […]» 190.
Come si vede, entrambe le parti erano pienamente convinte di essere
dalla parte della ragione, e che l’altra fosse in torto. Si era ad uno stallo. Se
entrambi restavano ancora per un po’ fedeli al proprio punto,
inevitabilmente avrebbero cominciato a parlare le armi.
25 ottobre 1962, giovedì

Il giovedì, col senno di poi, fu a ben vedere una giornata di svolta 191.
Non accadde nulla di definitivo, ma diversi fatti nel loro insieme
contribuirono silenziosamente a mettere in moto il meccanismo della
soluzione.
All’alba era giunto il messaggio di Macmillan sul quesito postogli da
Kennedy la sera prima. «Ho pensato alla ‘domanda da 64.000 dollari’ che
lei mi ha posto al telefono. Dopo parecchia riflessione, io credo che gli
eventi siano andati troppo in là. Sebbene delle circostanze possano sorgere
in cui una tale azione [invadere Cuba] sarebbe giusta e necessaria, credo
che ora ci troviamo tutti in una fase nella quale lei deve cercare di ottenere i
suoi obiettivi con altri mezzi» 192.
Il «Washington Post» quella mattina usciva in edicola con un articolo del
più autorevole columnist d’America: Walter Lippmann. Nel suo pezzo,
rifuggendo facili retoriche pseudopatriottiche e cercando invece soluzioni
pragmatiche, Lippmann metteva in guardia dal «tragico errore», a suo
avviso già commesso dagli USA nelle due guerre mondiali, consistente
nell’aver «sospeso la diplomazia» al momento di inizio delle prime ostilità.
In quest’ottica, egli scriveva, «un accordo salva-faccia» poteva invece
ancora essere negoziato a proposito delle basi USA in Turchia. La Turchia,
non Berlino, era nel mondo «l’unico posto davvero comparabile con Cuba».
Un doppio ritiro dalle rispettive basi strategiche ai confini avversari (Cuba e
Turchia, appunto) poteva dunque «essere fattibile» e rappresentare «una via
d’uscita dalla tirannia degli automatici e incontrollabili eventi» 193.
Intanto a Roma un altro personaggio centrale nella storia di quegli anni
aveva deciso di scendere in campo nella crisi: Giovanni XXIII. Il capo della
Chiesa cattolica era stato discretamente sollecitato a intervenire da
Andover, Massachusetts, dove era in corso una conferenza di dialogo
intercultural-politico tra selezionati accademici e giornalisti sovietici e
statunitensi, alcuni dei quali non privi di contatti con le leadership 194. Il
Papa aveva così deciso di usare la propria posizione di autorità morale
sovranazionale per dare voce a un anelito universale: quello per la
salvaguardia della pace. Così a mezzogiorno in punto egli lesse
personalmente alla Radio Vaticana – che trasmetteva su scala mondiale – un
messaggio accuratamente calibrato.

Ecco – disse il Pontefice parlando in francese, la lingua della


diplomazia – che delle nuvole minacciose vengono ad incupire di
nuovo l’orizzonte internazionale e seminare il timore in milioni di
famiglie. La Chiesa non ha nulla tanto a cuore come la pace e la
fratellanza tra gli uomini, e lavora senza posa per stabilirle. A tal
proposito Noi ricordiamo i gravi obblighi di coloro che portano la
responsabilità del potere. E aggiungiamo: ‘Con la mano sulla
coscienza, che essi ascoltino il grido angosciato che, da tutti i punti
della Terra, dai bambini innocenti agli anziani, dagli individui alle
comunità, sale verso il Cielo: Pace! Pace!’ Noi oggi rinnoviamo
questa solenne invocazione. Supplichiamo tutti i Governanti di non
restare sordi a questo grido dell’umanità. Che essi facciano tutto ciò
che è in loro per salvare la pace. Essi eviteranno così al mondo gli
orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere quali sarebbero le
terribili conseguenze. Che essi continuino a trattare, perché
quest’attitudine leale ed aperta ha grande valore di testimonianza
per la coscienza di ciascuno e davanti alla storia. Promuovere,
favorire, accettare dei colloqui [pourparlers], ad ogni livello e in
ogni momento, è una regola di saggezza e di prudenza che attira le
benedizioni del Cielo e della Terra. Che tutti i Nostri figli [cioè i
cattolici], che tutti coloro che sono marcati dal sigillo del battesimo
e nutriti dalla speranza cristiana [cioè i cristiani non cattolici], che
tutti coloro infine che sono uniti a Noi dalla fede in Dio [cioè i
credenti di altre religioni], aggiungano la loro preghiera alla Nostra
per ottenere dal Cielo il dono della pace: d’una pace che non sarà
vera e durevole se non sarà basata sulla giustizia e sull’equità. E che
a tutti gli artigiani di questa pace, a tutti coloro che con cuore
sincero lavorano al vero bene degli uomini [ovvero, tra le righe:
anche a coloro che si dicono non religiosi], giunga la grande
benedizione che Noi gli accordiamo con amore a nome di Colui che
volle essere chiamato il ‘Principe della pace!’ 195.
Era un appello sapientemente calibrato: al contempo accorato e discreto.
Non sarebbe rimasto inascoltato 196.
Tra coloro che ne furono colpiti vi fu anche il presidente del Consiglio
italiano, Amintore Fanfani, il quale, come mostreremo nel capitolo
sull’Italia, sulla scia dell’appello papale si mosse dietro le quinte per
agevolare una soluzione negoziale della crisi, anche attraverso l’uso di un
intermediario inusuale.
Frattanto nella stessa direzione si erano mosse le Nazioni Unite. La sera
prima il birmano U Thant, segretario generale dell’ONU, aveva inviato a
Kennedy e Kruscev una proposta pubblica che chiedeva, ai fini di facilitare
i negoziati, la sospensione per due o tre settimane sia della quarantena
americana sia dell’invio di materiale bellico sovietico a Cuba 197. Kruscev
l’aveva subito accettata pubblicamente, mentre Kennedy aveva risposto
evasivamente, temendo che appena venuto meno lo sbarramento le navi
sovietiche ne approfittassero per raggiungere Cuba, e che in ogni caso nel
frattempo i lavori presso le basi potessero terminare indisturbati. Così il 25
JFK rispose pubblicamente a U Thant: «Apprezzo profondamente lo spirito
che l’ha spinta al suo messaggio […] [Ma] Come abbiamo chiarito nel
Consiglio di Sicurezza, la minaccia esistente è stata creata dall’introduzione
segreta di armi offensive a Cuba, e la risposta risiede nella rimozione di tali
armi […]» 198. Un messaggio ben più utile – aveva pensato JFK, temendo
uno scontro navale ancora imminente – sarebbe stato un appello in cui U
Thant chiedesse a Kruscev di tenere le sue navi lontane dalla linea della
quarantena, fornendogli così una copertura pubblica per una decisione che,
altrimenti, forse egli non avrebbe potuto prendere per ragioni di prestigio
nazionale. Gli USA in cambio avrebbero evitato scontri con le navi
sovietiche ed intrapreso negoziati preliminari all’ONU. L’idea di JFK (che
denotava capacità di empatia con le esigenze politiche dell’avversario) fu
comunicata subito a New York a Stevenson 199, che la propose a U Thant,
svegliandolo nel cuore della notte 200. Così il giorno dopo (il 25) il
Segretario Generale inviò a Kruscev e Kennedy un appello appunto su
queste linee. In tali termini, la proposta poteva essere accettata da ambo le
parti (pur rimarcando, sempre specularmente, che la concessione sarebbe
stata solo temporanea) 201.
Nel frattempo, quello stesso pomeriggio, una sorta di ‘duello
diplomatico’ aveva avuto luogo nella sala del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU tra l’ambasciatore statunitense Adlai Stevenson e l’ambasciatore
sovietico Valerian Zorin, riguardo all’effettiva presenza di missili a Cuba.
Zorin parlò di «falsità», di «prove false» prodotte «dall’agenzia
d’intelligence degli Stati Uniti». Stevenson attese il suo turno e, mentre i
delegati delle altre nazioni lo ascoltavano nella traduzione simultanea degli
auricolari, replicò: «Signor Zorin, devo dirle che io non ho il suo talento per
l’offuscamento, la distorsione, la confondente doppiezza di linguaggio – e
devo ammettere che sono lieto di non averlo. Ma […] lasci che le dica una
cosa, signor ambasciatore: noi abbiamo le prove. Le abbiamo, e sono chiare
e incontrovertibili. E lasci che le dica un’altra cosa: quelle armi devono
essere portate via da Cuba. […] Voi, l’Unione Sovietica, avete creato questo
nuovo pericolo – non gli Stati Uniti. […] L’altro giorno lei non ha negato
l’esistenza di queste armi: ascoltammo invece che erano improvvisamente
diventate difensive. Ma oggi, sempre se la ho ben compresa, lei afferma che
esse non esistono. […] Bene, signore, lasci che le faccia una domanda
semplice: nega lei, ambasciator Zorin, che l’URSS abbia piazzato e stia
piazzando basi e missili a raggio medio e intermedio a Cuba? Sì o no? Non
aspetti la traduzione. Sì o no?».
La delegazione USA mostra al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e all’opinione pubblica
internazionale, le foto dei missili a Cuba. Seduti al tavolo, si riconoscono sia l’ambasciatore USA
Adlai Stevenson (sulla destra, di fianco e col braccio sinistro sul tavolo) sia l’ambasciatore URSS
Valerian Zorin (terzo da sinistra, intento a guardare le sue carte).

Quest’ultima frase suscitò un divertito mormorio, che ruppe la tensione


fortemente palpabile nella sala. Zorin prese tempo: «Non mi trovo in un
tribunale americano, e perciò non desidero rispondere a una domanda
postami alla maniera di un pubblico ministero. Lei riceverà la sua risposta
al momento opportuno […]». Ma Stevenson lo incalzò subito: «Lei ora si
trova nel tribunale dell’opinione pubblica mondiale, e può rispondere sì o
no. […]». Zorin: «Continui la sua dichiarazione, prego. Avrà la sua risposta
al momento opportuno, non si preoccupi». Stevenson: «Sono pronto ad
aspettare la mia risposta fino a che non gelerà l’inferno, se questa è la sua
decisione. E sono pronto anche a presentare le prove in questa sala».
(L’espressione «until Hell freezes over», ripresa il giorno dopo dalla stampa,
passerà subito alla storia.) Zorin – che in quel momento ricopriva anche il
ruolo di presidente di turno del Consiglio di Sicurezza – diede allora la
parola al rappresentante del Cile, il quale però, significativamente, replicò
reggendo il gioco a Stevenson: «Signor Presidente [Zorin], non mi
aspettavo l’episodio appena accaduto, ma dato che c’è stato, preferirei
parlare dopo che lei ha risposto. […] Sono lieto di cederle lo spazio a tal
fine». Ma intervenne di nuovo Stevenson: «Io non avevo finito la mia
dichiarazione. […] Renderò subito disponibile una parte delle prove. Se mi
attendete un momento, monteremo un cavalletto qui nel retro della sala, da
dove spero sarà visibile a tutti». E così facendo, mostrò teatralmente le foto
scattate dagli U-2 su Cuba, spiegando dettagliatamente ai presenti a quali
installazioni militari russe corrispondevano quelle macchie scure. Fu un
colpo clamoroso. Poiché il dibattito era trasmesso in diretta televisiva, esso
convinse non solo i diplomatici delle nazioni presenti in sala, ma anche una
fetta dell’opinione pubblica internazionale che stavolta gli Stati Uniti
stavano agendo sulla base di prove autentiche. Zorin, per conto suo, si
rifiutò di guardare le foto, giacché «colui che ha mentito una volta [cioè
Stevenson sulla Baia dei Porci] non sarà creduto una seconda volta» 202. Ma
apparve chiaro a tutti che la diplomazia di Stevenson aveva messo in luce
l’ambiguità della condotta sovietica (Zorin, probabilmente lasciato senza
nuove istruzioni dal suo governo, continuava a negare fatti che lo stesso
Kruscev ormai evitava di smentire). Tra i molti spettatori che seguivano
l’intervento di Stevenson alla tv c’era anche il presidente Kennedy, che
commentò coi suoi: «Terrific!» (favoloso) 203. Così quella seduta, forse la
più famosa dell’intera storia delle Nazioni Unite, aggiunse un altro tassello
non privo d’influenza sul prosieguo degli eventi 204.

In serata poi arrivò a Washington un memorandum di Arthur Schlesinger


che portava all’attenzione del governo il parere di uno dei più navigati
consiglieri della Casa Bianca: Averell Harriman. Questi, diplomatico di
lungo corso ed anche ex ambasciatore in URSS, non essendo stato
consultato aveva deciso di telefonare lui stesso a Schlesinger e, «parlando
in tono insolitamente concitato», lo aveva avvertito che «Kruscev stava
cercando disperatamente di farci capire che era disposto a collaborare alla
ricerca di una soluzione pacifica» 205. A riprova di ciò, diceva Harriman,
c’erano segnali inconfondibili: la proposta di un summit fatta tramite
Bertrand Russell, la decisione di non sfidare la quarantena, la sua
apparizione «ovviamente premeditata a un concerto americano a Mosca».
Tutto ciò, assicurava il diplomatico, era tipico di Kruscev: aveva lanciato lo
stesso tipo di segnali nel 1960, ma Eisenhower non li aveva saputi cogliere.
Ora loro non dovevano ripetere quell’errore. «In vista dei segnali di
Kruscev», concludeva il memorandum, «il peggior errore che potremmo
mai fare è diventare più rigidi e andare verso un’escalation. Kruscev ci sta
implorando di aiutarlo a trovare una via d’uscita» 206. Il mattino dopo aver
ricevuto questa comunicazione, JFK volle sentire Harriman anche per
telefono 207.

Lo sviluppo più importante della giornata avvenne però nel segreto del
Cremlino. Come le minute delle riunioni emerse solo di recente dagli
archivi sovietici stanno cominciando a documentare, Kruscev aveva appena
preso una decisione e ora la presentava al Presidium per ottenerne
l’approvazione. In qualche modo – disse quella mattina ai suoi colleghi
riuniti – al momento opportuno sarebbe stato necessario accettare di ritirare
i missili nucleari (almeno quelli balistici) da Cuba. Alcune cose erano già
state ottenute: la rivoluzione cubana era stata portata al centro
dell’attenzione mondiale. Gli americani si erano «senza dubbio» presi un
bello spavento. «Siamo riusciti in alcune cose e non in altre» aggiunse,
misteriosamente 208. «L’iniziativa è nelle nostre mani; non c’è bisogno di
aver paura», disse, come a rassicurare se stesso e i presenti; «abbiamo
iniziato noi, e poi ci siamo spaventati». Ora la strategia che egli proponeva
era di «guardarsi intorno» con calma e, individuato il momento opportuno,
offrire di ritirare quei missili in cambio di una garanzia americana che Cuba
non sarebbe stata invasa: «non è male» 209. Poi, come ad anticipare
prevedibili critiche, soggiunse: «questa non è codardia». «È una mossa
prudente». Semplice buon senso, insomma: il motivo del contendere non
valeva una guerra. «Il futuro non dipende da Cuba ma dal nostro Paese».
Inoltre, «in questo modo rafforzeremo Cuba e la salveremo per due o tre
anni». A quel punto – e qui riaffiorava il suo inguaribile ottimismo
rivoluzionario – «nel giro di pochi anni diventerà perfino più duro [per gli
USA] averci a che fare». La strategia di Kruscev parve a tutti convincente:
il Presidium approvò, all’unanimità.
26 ottobre 1962, venerdì

Negli Stati Uniti, però, la situazione si surriscaldava. Dovendo prima o


poi mostrare che la quarantena non era una finta, ma una misura
effettivamente in vigore, quella mattina venne fermata e ispezionata la
prima nave. Essa era stata accuratamente selezionata dallo stesso JFK: si
trattava di un piroscafo panamense, registrato in Libano e trasportante
carico sovietico, salpato dal porto di Riga. Era chiaro che, ispezionandola,
non si sarebbero corsi molti rischi di trovare a bordo armi offensive. Inoltre,
non trattandosi di una nave di proprietà sovietica, abbordandola non si
sarebbe fatto un affronto diretto a Mosca 210. La Marucla (questo il nome
della nave) venne dunque fatta seguire nella notte da due cacciatorpedinieri
americani, uno dei quali per pura coincidenza portava il nome del defunto
fratello del Presidente: Joseph P. Kennedy. Così, poco dopo l’alba, la
Kennedy avvertì con bandiere la Marucla di prepararsi all’ispezione. Alle
7.50 un comitato di controllo venne accolto a bordo, dove poté verificare
che il materiale sovietico trasportato era del tutto irrilevante. Dopo un caffè
gentilmente offerto dall’equipaggio greco, la Marucla poté ripartire verso
Cuba 211.

La Marucla viene ispezionata dal cacciatorpediniere americano Joseph P. Kennedy, Jr. (dietro).
«Ma in cuor suo», ricorda RFK proprio a proposito di quel mattino, «il
Presidente non era ottimista […] Man mano che le ore passavano la
situazione diventava sempre più grave. Aumentò la sensazione che non
sarebbe andata liscia e che un confronto armato diretto fra le due grandi
potenze nucleari fosse inevitabile. Tutti, ‘falchi’ e ‘colombe’, avvertivano
che l’uso combinato della forza, sia pure limitata, e della diplomazia non
aveva avuto successo». La quarantena certo aveva evitato che ulteriori armi
giungessero a Cuba, ma quanto a quelle che già si trovavano sull’isola, essa
non poteva nulla. Che fare, dunque? L’ExComm ne discuteva
nervosamente. JFK ammise: «non li porteremo via [i missili] con la
quarantena. […] O li mercanteggiamo, o dovremo entrare e portarli via da
noi» 212. Insomma, a questo punto rimanevano solo due strade: negoziati o
invasione. E al momento egli pareva propendere di nuovo per una soluzione
militare 213. Ci sono tracce che la pressione crescente non fosse avvertita
solo dai due Kennedy: anche a Londra Macmillan quel giorno scriveva così,
con cupa sintesi, nel suo diario: «due lunghe conversazioni telefoniche col
Presidente. La situazione è molto oscura e pericolosa. È una prova di
volontà» 214.
Intanto proseguiva la mobilitazione militare, sia per essere pronti
all’eventuale invasione, sia come mezzo di pressione indiretta su Kruscev
(che naturalmente veniva costantemente informato di quei movimenti dalla
propria intelligence). Come ha ricordato Rusk, «la Florida era sul punto di
affondare nel mare sotto il peso della potenza militare che [vi] avevamo
assemblato» 215.
Alle 14.30, nella War Room del Pentagono, Robert Kennedy riuniva di
nuovo i responsabili dell’Operazione Mangusta. Tornando sulle sue
precedenti direttive, ordinava adesso la momentanea sospensione dei più
rischiosi atti di sabotaggio in programma (litigando tra l’altro furiosamente
con il capo della task force, che ci rimise il posto) 216.
Nel frattempo al governo continuavano a giungere report sulla
prosecuzione dei lavori di installazione presso le basi cubane. Qualcuno alla
Casa Bianca arrivava a chiedersi se «qualche generale o membro del
Politburo avrebbe messo una pistola alla testa di Kruscev e detto: ‘Signor
Premier, lanci questi missili o le facciamo saltare la testa!’» 217.
A Mosca fortunatamente Kruscev non aveva pistole puntate contro, ma
piuttosto report allarmanti, benché sostanzialmente inesatti. Uno dei
principali tra questi (e ciò illustra quanto enorme fosse la sproporzione tra
qualità delle informazioni e rischi in ballo) era basato su una semplice
conversazione tra due giornalisti origliata al bancone di un club di
Washington da un barman di origini lituane 218. Messi insieme, quei
frammenti di informazioni fecero temere a Kruscev che un’invasione
americana fosse imminente. In ogni caso egli capiva che non avrebbe
potuto rispettare indefinitamente una quarantena che, non a torto,
considerava «piratesca»: e così, presto l’escalation sarebbe iniziata. Si rese
conto che il «momento opportuno» che aspettava per presentare la sua
offerta era già urgentemente arrivato 219. Così chiamò uno stenografo e
cominciò a dettare una lettera privata per Kennedy. Appena fu pronta, senza
neppure passare al Ministero degli Esteri per il sigillo, fu recapitata
all’ambasciata americana a Mosca. Scritta in inchiostro viola, essa portava
varie cancellature e correzioni, apposte a mano dalla stessa calligrafia della
firma 220. All’ambasciata il testo fu subito diviso per brevità in quattro
sezioni, tradotto in inglese, codificato, decodificato e trasmesso a
Washington via telescrivente. L’operazione, in circostanze in cui ogni ora
pesava quintali e poteva portare a svolte fatali, richiese la bellezza di oltre
undici ore 221. «Caro Signor Presidente», cominciarono finalmente a battere
verso sera le telescriventi del Dipartimento di Stato, sotto gli occhi ansiosi
di Robert Kennedy, Rusk ed altri,

[…] credo che a quanto pare una continuazione di uno scambio


d’opinioni a questa distanza, anche sotto forma di lettere segrete,
non aggiungerebbe nulla a ciò che ogni parte ha già detto all’altra.
[…] Vedo, Signor Presidente, che lei non è privo di un senso di
ansietà per il destino del mondo […]. Non dobbiamo soccombere a
veleni e meschine passioni, indipendentemente da quali elezioni
siano o meno imminenti in questo o quel Paese. Queste sono tutte
cose transeunti, ma se davvero una guerra dovesse scoppiare, non
sarebbe in nostro potere fermarla, perché tale è la logica della
guerra. Io ho partecipato a due guerre e so che la guerra termina
dopo aver travolto città e villaggi, seminando ovunque morte e
distruzione. […]
Lei è un uomo militare e spero mi capirà. […] Lei si sbaglia se
crede che uno qualsiasi dei nostri mezzi a Cuba sia offensivo. Ad
ogni modo, non litighiamo ora. A quanto pare non sarò in grado di
convincerla di questo. […] Ma Signor Presidente, lei crede
veramente, che Cuba, […] che anche noi insieme a Cuba, possiamo
attaccarvi dal territorio di Cuba? Davvero può pensare questo?
Com’è possibile? Noi non riusciamo a capirlo. […] Potete guardarci
con disprezzo, ma in ogni caso, potete star tranquilli su questo
punto, che siamo sani di mente e capiamo perfettamente bene che se
noi vi attacchiamo, voi risponderete alla stessa maniera. […] Solo
dei pazzi o suicidi, che vogliano morire e distruggere il mondo
intero prima di morire, potrebbero far ciò. […] Noi vogliamo
qualcosa di ben diverso: competere col vostro Paese su una base
pacifica. Litighiamo con voi; abbiamo differenze su questioni
ideologiche. Ma la nostra visione del mondo consiste in questo, che
le questioni ideologiche, come i problemi economici, debbano
essere risolte non tramite mezzi militari, ma sulla base di
competizione pacifica.
[…] Ora lei ha proclamato misure piratesche, che venivano
impiegate nel Medioevo, quando le navi procedenti in acque
internazionali venivano attaccate […] Le nostre navi a quanto pare
entreranno presto nella zona che la sua Marina sta pattugliando. […]
Io le assicuro che su quelle navi dirette a Cuba non ci sono
assolutamente armi. Le armi che erano necessarie alla difesa di
Cuba sono già là.

Era la prima ammissione esplicita della loro presenza.

[…] Non so se lei riesca a capirmi e credermi. […] In che direzione


stanno andando ora gli eventi? Se lei blocca le navi, ciò sarebbe
pirateria, come lei stesso sa. […] Non si può dare a queste azioni
alcun’altra interpretazione, perché non si può legalizzare l’illegalità.
[…] Lei ha chiesto cosa ha provocato la consegna di armi a Cuba?
[…] Le dirò francamente, Signor Presidente, cosa l’ha provocato.
Eravamo molto rattristati dal fatto – gliene parlai a Vienna – che
c’era stato uno sbarco, che un attacco a Cuba era stato commesso, in
cui molti cubani erano morti. Lei stesso mi disse che era stato un
errore […] Apprezzo questa franchezza.

L’«aiuto economico e militare» che Mosca dava a Cuba era dunque

solo per ragioni di umanitarismo. Un tempo, anche il nostro popolo


ebbe una rivoluzione, quando la Russia era ancora un Paese
arretrato. Fummo attaccati […] da molti Paesi. Gli USA
parteciparono a quell’avventura. […] [Quindi] noi sappiamo come
sia difficile compiere una rivoluzione. […] Simpatizziamo
sinceramente con Cuba. […] Non è un segreto per nessuno che la
minaccia di attacco armato, aggressione, è stata, e continua ad
essere, costantemente sospesa sopra Cuba. È solo questo che ci ha
spinto a rispondere alla richiesta del governo cubano di fornire aiuto
per il rafforzamento della capacità difensiva di questo Paese 222. Se
venissero fornite assicurazioni […] che gli USA non
parteciperebbero a un attacco a Cuba e frenerebbero altri dal fare
azioni del genere, se lei richiamasse la sua flotta, questo
cambierebbe immediatamente tutto. […] Anche la questione delle
armi sparirebbe, perché se non c’è minaccia, allora le armi sono un
fardello per ogni popolo.

Era la prima, pur vaga, manifestazione di disponibilità alla rimozione!


Poi la lettera saliva ancora di livello:

Le armi portano solo disastri. Quando le si accumula, ciò danneggia


l’economia, e se le si utilizza, esse distruggono il popolo da ambo le
parti. […] Se le genti non mostrano saggezza, in ultima analisi esse
arriveranno a uno scontro, come talpe cieche, e allora comincerà il
reciproco sterminio.

Reiterati i termini della proposta, giungeva poi l’accorato, e giustamente


celebre, appello finale:

[…] Se lei non ha perso il suo autocontrollo e immagina


ragionevolmente a cosa ciò possa portare, Signor Presidente, allora
noi e voi ora non dovremmo tirare le estremità di una corda nella
quale voi avete stretto il nodo della guerra, perché tanto più
entrambi tiriamo, tanto più quel nodo diventerà stretto. E può venire
un momento in cui quel nodo sarà così stretto che perfino colui che
l’ha fatto non avrà la forza di scioglierlo, e allora sarà necessario
tagliarlo. E che cosa ciò significherebbe, non sta a me spiegarglielo,
perché lei stesso capisce perfettamente di quali terribili forze
dispongano i nostri Paesi. […] 223

La lettera suscitò reazioni divergenti. Llewellyn Thompson, fino a pochi


mesi prima ambasciatore a Mosca e dunque massimo esperto su Kruscev,
assicurò che essa doveva esser stata dettata da Nikita in persona, forse senza
neppure il consenso del Presidium. Egli doveva trovarsi «sotto una
considerevole tensione» 224. Ball immaginava «il premier tozzo, cupamente
infelice, di fronte a un muro bianco e a un dubbio futuro» che dettava quel
suo «cri de coeur». Avvertiva «l’angoscia di Kruscev in ogni capoverso» 225.
Anche il segretario di Stato Rusk era d’accordo. Acheson invece trovò il
testo «confuso e quasi piagnucoloso»: Kruscev doveva essere «ubriaco o
spaventato». Poi dirà che invece di essere «troppo smaniosi di liquidare la
faccenda, finché avevamo in pugno Kruscev avremmo dovuto dargli un giro
di vite ogni giorno» 226. Il generale Taylor vi vide un tentativo di causare
uno stallo. Il generale LeMay, tipicamente, definì la lettera «un mucchio di
stronzate»: Kruscev doveva pensare che «siamo un branco di merdosi idioti,
se ci beviamo questo sciroppo» 227. Robert Kennedy ricorda che, tornando a
casa quella sera, si sentiva «lievemente ottimista», perché «la lettera,
nonostante la sua retorica, conteneva forse il principio di un
accomodamento, di un accordo. Questa sensazione era rafforzata dal fatto
che John Scali, un giornalista molto abile ed esperto della compagnia
radiotelevisiva ABC, era stato avvicinato da un importante funzionario
dell’ambasciata sovietica che gli aveva comunicato una proposta» 228 del
tutto analoga: rimozione dei missili contro garanzia di non invasione. Il
romanzesco incontro segreto era avvenuto in un ristorante di Washington, a
pochi passi dalla Casa Bianca 229. Ascoltati i termini proposti dal
funzionario d’ambasciata nonché uomo segreto del KGB Aleksander
Feliksov (alias, agente Fomin), Scali era subito corso alla Casa Bianca per
riferire e sapere che risposta dare al presunto mediatore segreto di Mosca.
Ascoltato con attenzione e autorizzato a manifestare un interessamento,
Scali così fece, rincontrandosi con Feliksov la sera stessa. Oggi appare
chiaro 230 che il sovietico stesse agendo di sua iniziativa, senza alcun
mandato di Kruscev; ma la Casa Bianca, allora, non poteva saperlo. E
l’offerta era proprio la stessa della lettera.
Quella sera Kruscev portò di nuovo i colleghi ad un concerto: stavolta, di
musica cubana 231. JFK, dal canto suo, diede ordine di analizzare nottetempo
ogni riga della missiva appena ricevuta per cercarvi eventuali «trappole»
nascoste 232. Poi il mattino successivo avrebbe avuto modo di discutere con
l’ExComm e redigere una risposta. Naturalmente positiva 233.
27 ottobre 1962, sabato

Ma proprio mentre cominciava a profilarsi lo spiraglio di una soluzione,


le cose peggiorarono di nuovo, drasticamente. Quella giornata («di gran
lunga la peggiore» della crisi, ricorda Sorensen) 234 non per nulla sarebbe
passata alla storia come Black Saturday.

Non era nemmeno sorto il sole quando le cose cominciarono ad andare


male. A L’Avana già dal giorno prima si era diffusa la chiara convinzione
dell’inevitabilità ed imminenza di un attacco americano. Ormai, calcolava
Castro, «le possibilità che non avvenga sono cinque su cento» 235. Così nel
pieno della notte il lìder màximo si era recato all’ambasciata sovietica, dove
aveva passato circa tre ore nel rifugio sotterraneo dell’edificio a preparare
una lettera segreta d’incoraggiamento per Kruscev. Continuava a
riformulare il testo: dettava, rileggeva, si diceva insoddisfatto, e
ricominciava. Alla decima versione, verso le 5 del mattino, finalmente la
lettera partì per Mosca.

Caro compagno Kruscev, analizzando la situazione e le


informazioni che sono in nostro possesso, ritengo che
un’aggressione sia quasi inevitabile – nelle prossime 24-72 ore. Ci
sono due possibili varianti: [un attacco aereo contro determinati
obiettivi oppure,] meno probabile eppure possibile, [un’invasione
diretta]. Può star certo che resisteremo con determinazione e
risolutezza, in ogni caso. Il morale del popolo cubano è
estremamente alto e l’aggressore sarà affrontato eroicamente. Ora
vorrei esprimere la mia opinione personale. Se viene effettuata la
seconda variante […] il pericolo che questa politica aggressiva pone
per l’umanità è così grande che dopo quest’evento l’Unione
Sovietica non deve permettere in alcuna circostanza la creazione di
condizioni che permetterebbero agli imperialisti di effettuare un
primo attacco atomico contro di essa. Dico ciò perché credo che
l’aggressività degli imperialisti sia estremamente pericolosa. Se essi
procedono a un attacco a Cuba – un atto barbarico, illegale e
immorale – allora sarebbe il momento di eliminare un tale pericolo
per sempre, attraverso un atto di chiara legittima difesa. Per quanto
dura e terribile sarebbe questa soluzione, non ce n’è alcun’altra. […]
Fraternamente, Fidel Castro 236.

Ritenendo l’escalation nucleare solo questione di tempo 237, ed


evidentemente ormai in preda a un totale fanatismo ideologico, Castro stava
segretamente esortando Kruscev a lanciare lui per primo, in caso
d’invasione, un attacco missilistico atomico contro gli USA, iniziando così
una guerra termonucleare mondiale. L’intento della lettera era, per sua
stessa ammissione, di allertare Kruscev a tenersi pronto allo scoppio delle
ostilità 238, e di rincuorarlo, di «incoraggiarlo». Ma l’effetto che essa fece a
Mosca (quando vi giunse, molte ore dopo) 239 fu l’esatto opposto:
spaventarlo ulteriormente. «Quando questo messaggio ci fu letto a voce
alta», ricorderà il Premier nelle sue memorie, «sedemmo lì in silenzio,
guardandoci l’un l’altro a lungo. Divenne chiaro a quel punto che Fidel non
aveva assolutamente capito le nostre intenzioni. Egli assumeva (e quando
poi ne riparlai con lui me lo confermò) che noi avessimo installato i missili
lì, non nell’interesse di Cuba, ma perseguendo scopi militari nel nostro
interesse, dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista […] ma tutto
ciò che noi volevamo era impedire la possibilità di un’invasione di Cuba
[…]» 240. «Eravamo completamente sbigottiti» 241. Il folle messaggio di
Castro sarebbe rimasto ignoto al mondo fino al 1990 242.

Robert Kennedy quella mattina si recò alla Casa Bianca «con un cattivo
presentimento» 243. L’FBI gli aveva appena passato un’informativa sul fatto
che «certi funzionari sovietici a New York, a quanto sembrava, stavano
preparandosi a distruggere tutti i documenti più delicati» – una misura che
tipicamente si prende, per evitare che essi cadano in mano nemica, quando
ci si aspetta una guerra ormai imminente. «Recandomi alla Casa Bianca mi
chiedevo: se i russi erano ansiosi di trovare un rimedio alla crisi, perché i
loro funzionari si comportavano in questo modo? La lettera di Kruscev
indicava veramente che una soluzione era possibile?» Cominciò la riunione
dell’ExComm. Dopo pochissimi minuti, come risulta dai nastri, qualcuno
consegnò al Presidente un’agenzia stampa appena battuta. Egli la lesse al
gruppo: «Il premier Kruscev ha detto al presidente Kennedy in un
messaggio odierno che egli ritirerebbe le armi offensive da Cuba se gli Stati
Uniti ritirassero i loro razzi dalla Turchia». Varie voci intervennero stupite:
«No, non ha detto così»; «No, no». JFK fu il primo a intuire cosa stava
accadendo: «Può star mandando un’altra lettera» 244.
«In caso che questa sia una dichiarazione esatta, a che punto siamo con
le nostre conversazioni coi Turchi a proposito della rimozione di queste
[basi]?» La risposta non fu quella che egli sperava: «Hare [l’ambasciatore
USA in Turchia] dice che ciò è assolutamente innominabile [it’s absolutely
anathema] ed è una questione di prestigio e di politica». Ball: «abbiamo
anche un report da Roma sugli italiani che indica che ciò [ottenere il ritiro
dei missili italiani] sarebbe relativamente facile. La Turchia crea un
problema maggiore. […] È un problema complicato perché questi [missili]
furono introdotti per decisione della NATO» (cioè dell’alleanza nel suo
insieme: e dunque anche la rimozione andava decisa insieme). Bundy:
«Beh, io risponderei dicendo: ‘Preferirei trattare sulle sue interessanti
proposte della sera scorsa’». Ma JFK non era convinto: «[…] Ci troveremo
in una posizione insostenibile su questo punto se diventa questa la sua
offerta. Anzitutto, abbiamo provato lo scorso anno a ritirare i missili da lì
perché non sono militarmente utili. In secondo luogo, a qualsiasi persona
alle Nazioni Unite o qualsiasi altro uomo razionale sembrerà uno scambio
molto onesto» 245. Ma Bundy insisteva per ignorarlo: altrimenti «[…]
sarebbe chiaro che stavamo cercando di svendere i nostri alleati per i nostri
interessi. Questa sarebbe la prospettiva in tutta la NATO. Ora, è irrazionale,
è pazzesco, ma è un fatto terribilmente potente». Anche RFK e molti altri
erano su una linea simile. McNamara poi era confuso e irritato: «Come
possiamo negoziare con qualcuno che cambia la sua proposta perfino prima
che abbiamo la possibilità di rispondere e annuncia pubblicamente l’offerta
[nuova] prima che la riceviamo noi?» 246. JFK: «Non prendiamoci in giro.
Hanno una proposta molto buona, che è il motivo per cui l’hanno fatta
pubblicamente». Bundy lo informò che intanto, «mentre lei era fuori della
stanza», c’è un punto su cui l’ExComm si era trovato d’accordo: «che il
messaggio di ieri notte era di Kruscev, e questo, quello pubblico, è dei suoi
uomini della linea dura [hard-nosed people] che lo stanno scavalcando. […]
Non gli è piaciuto ciò che le ha detto ieri sera. Né sarebbe piaciuto a me, se
io fossi un sovietico della linea dura» 247. Ecco che i principali elementi del
problema stavano emergendo. E l’ExComm cominciava a capirci sempre
meno. Cosa diamine stava succedendo a Mosca? Un altro doppio gioco per
ingannarli? Un golpe interno al Cremlino? Kruscev era ancora in controllo?
Perché intanto che offrivano di smantellare le basi, continuavano i lavori a
Cuba? E cosa avrebbero detto i turchi vedendosi improvvisamente ritirare i
loro missili – cui, pur senza motivo, tenevano tanto – per un accordo
concluso sopra le loro teste tra il loro potente alleato e il temibile nemico ai
propri confini?
Oggi sappiamo che l’annoso «mistero della seconda lettera» celava non
un qualche ricatto della «linea dura» del Cremlino, ma semplicemente un
momento di maggior calma dello stesso Kruscev e la lettura dell’articolo di
Walter Lippmann. Il Premier ne aveva ricevuto una traduzione dalla sua
intelligence proprio in quelle ore; sapeva dell’autorevolezza e delle fonti
molto qualificate di quel giornalista, che stimava e conosceva anche
personalmente: lo interpretò come un possibile ballon d’essai negoziale,
forse inviatogli proprio per conto della Casa Bianca 248. A torto o a ragione?
Generalmente si è ritenuto che Lippmann avesse scritto il pezzo in completa
autonomia. Tuttavia, a ben vedere, c’è qualche traccia 249 che il 24, cioè il
giorno prima che l’articolo uscisse, Lippmann abbia pranzato al
Dipartimento di Stato con George Ball (membro dell’ExComm) e gli abbia
menzionato di stare per pubblicare un pezzo su quelle linee, senza
incontrare obiezioni. Né la Casa Bianca quando l’articolo uscì si era
preoccupata di emettere smentite ufficiali 250. Fatto sta che quella mattina un
nuovamente baldanzoso Kruscev aveva detto al Presidium: «Possono
attaccarci ora? Non credo che si avventureranno a far ciò». Qualcosa
doveva pur significare se non l’avevano fatto finora. Forse «volevano
presentarci come i colpevoli e poi invadere» ma la rigorosa condotta
sovietica non gliel’aveva permesso. Allora perché non provare ad alzare la
posta? «Se ottenessimo anche la liquidazione delle basi in Turchia, noi
vinceremmo» 251. Il Presidium aveva approvato. Così una nuova lettera era
stata redatta, e trasmessa stavolta (anche per far prima) direttamente dalle
frequenze di Radio Mosca. Il tono, pur cortese, ora era più controllato e
formale:

Caro Signor Presidente, è con gran soddisfazione che ho analizzato


la sua risposta al Signor U Thant sull’adozione di misure per evitare
contatti tra le nostre navi.[…] Capisco la sua preoccupazione per la
sicurezza degli Stati Uniti. […] Voi siete preoccupati per Cuba. Dite
che vi preoccupa perché giace a una distanza di novanta miglia di
mare dalle spiagge degli Stati Uniti. Tuttavia, la Turchia giace
accanto a noi. Le nostre sentinelle marciano su e giù e si guardano
reciprocamente. Credete di avere il diritto di esigere sicurezza per il
vostro Paese e la rimozione di tali armi che qualificate come
offensive mentre non riconoscete lo stesso diritto per noi? Avete
posizionato razzi devastanti […] in Turchia. Come, allora, il
riconoscimento delle nostre uguali capacità militari può conciliarsi
con relazioni così ineguali tra i nostri grandi Stati? Ciò non si
concilia affatto. […] Perciò faccio questa proposta: noi accettiamo
di rimuovere queste armi da Cuba che lei vede come armi offensive
[…] gli Usa, per parte loro, rimuoveranno le loro analoghe armi
dalla Turchia. Noi faremo una solenne promessa al Consiglio di
Sicurezza [ONU] di rispettare l’integrità di frontiera e sovranità
della Turchia […] e freneremo anche coloro che pensassero di
lanciare un’aggressione contro la Turchia dal territorio sovietico o
da altri stati confinanti con la Turchia. […] Gli USA faranno lo
stessa dichiarazione riguardo a Cuba 252.

Tra le considerazioni dietro questa nuova offerta poteva esserci anche la


convinzione che se gli americani avessero effettuato un attacco adesso, di
fronte a una pubblica offerta di accordo, sarebbero stati «svergognati di
fronte al mondo intero come nemici della pace che non esitano a replicare i
peggiori esempi di barbarie hitleriana» 253. Questo almeno fu ciò che
Kruscev mandò a dire a Castro per spiegargli la sua mossa. Non può
escludersi dunque che uno degli scopi fosse anche rendere politicamente
più difficile l’inizio delle ostilità (oltre che ottenere qualcosa in più).
Tuttavia Kruscev probabilmente non immaginava lo sconcerto che simili
contraddittorie proposte a distanza così ravvicinata avrebbero creato tra i
decision-maker di Washington, ignari di tutti questi suoi ragionamenti.

Intanto, verso mezzogiorno, Kennedy aveva lasciato l’ExComm per


tenere un briefing ai governatori dei vari Stati USA, durante il quale si era
sentito dire dal californiano Edmund Brown (ancora una volta uno del suo
stesso partito): «Signor Presidente, molta gente si chiede perché lei cambiò
idea riguardo alla Baia dei Porci e abortì l’attacco. Cambierà idea di
nuovo?» 254.
Poco dopo a JFK giungeva anche un «memo» da parte dei Capi militari.
Era una raccomandazione formale a procedere al seguente piano: massiccio
attacco aereo su Cuba già domani (domenica 28) o al massimo lunedì 29,
seguito dall’invasione nei giorni successivi. «Ritardi nell’intraprendere
ulteriori azioni militari dirette», avvisavano i militari, «vanno a beneficio
dell’Unione Sovietica. […] Cuba sarà più dura da battere. Le vittime
americane saranno moltiplicate» 255. Con quella nota, ricorda RFK, «essi
facevano rilevare al Presidente che avevano sempre considerato il blocco
una misura davvero troppo debole e che le azioni armate erano le sole che
l’Unione Sovietica capisse. Non erano affatto sorpresi che non si fosse
ottenuto nulla con l’uso limitato della forza, perché era proprio ciò che essi
avevano previsto» 256.

In quegli stessi minuti, McNamara si trovava al Pentagono. LeMay gli


passò un foglio appena giunto. Era un’altra pessima notizia: «Un U-2 si è
perso intorno all’Alaska». Il problema era che, come si appurò a breve,
quell’U-2 non si era solo perso, ma inavvertitamente era finito proprio
sopra il territorio dell’URSS! E ciò nel giorno in assoluto meno indicato per
finirci da quando i due Stati avevano allacciato relazioni diplomatiche.
McNamara naturalmente corse al telefono ad avvisare il Presidente. La
missione originaria di quell’U-2 prevedeva di decollare dall’Alaska,
sorvolare il Polo Nord per prelevarvi dei campioni d’aria e tornare alla base,
dove poi gli esperti avrebbero cercato nell’eventuale radioattività di
quell’aria la prova che i sovietici avessero compiuto test nucleari nelle
vicinanze. Nel solo mese di ottobre da quella base erano già partite
quarantadue missioni analoghe (di cui sei avevano reperito tracce di
radioattività). Ma stavolta il pilota (il maggiore Charles Maultsby) aveva
compiuto un errore di angolo nell’infilare la rotta di ritorno dal Polo Nord e
seguendola era finito senza accorgersene sopra la penisola Chukot,
dall’altra parte dello stretto di Bering. L’errore era stato causato dal fatto
che, trovandosi al Polo Nord, la bussola non poteva funzionare a dovere,
costringendo il pilota a individuare la rotta seguendo solo la posizione delle
stelle, proprio come i naviganti di un tempo; se non che il locale fenomeno
dell’aurora boreale aveva mutato l’aspetto del cielo, rendendo anche le
stelle riferimenti poco affidabili, in quella notte del 27 ottobre 1962 257. Sei
aerei intercettori sovietici, inquadrato l’intruso nei radar, si erano
immediatamente alzati in volo con l’ovvio intento di cacciarlo o
abbatterlo 258. Alcuni di questi MIG russi, per interessante coincidenza,
erano decollati proprio dalla base di Anadyr, cioè la località scelta mesi
prima come nome di copertura per l’intera operazione cubana. Intanto il
pilota dell’U-2 si era finalmente accorto di dove fosse finito, intercettando
per caso, mentre cercava freneticamente una frequenza radio su cui chiedere
aiuto, una stazione di musica folk russa. Così aveva subito virato, ed era
infine riuscito a riparare sano e salvo in Alaska, aiutato da due F-102 (dotati
di armi nucleari, dato che si era in stato di allerta DEFCON-2), che nel
frattempo si erano alzati in volo dall’America per scortarlo a casa prima che
venisse abbattuto. Un episodio simile avrebbe causato un serio incidente
diplomatico anche in tempo di pace; ma nell’esatto momento in cui le due
superpotenze si trovavano più vicine alla guerra nucleare di quanto lo
fossero mai state, poteva sembrare ben più che un incidente o una
provocazione politica. «Le implicazioni», come l’analista della Casa Bianca
Roger Hilsman realizzò subito nell’apprendere la notizia e correre anch’egli
a comunicarla al Presidente, «erano tanto ovvie quanto orrende: i sovietici
avrebbero potuto benissimo vedere questo sorvolo dell’U-2 come una
ricognizione di intelligence dell’ultimo minuto in preparazione di una
guerra nucleare» 259. Hilsman si aspettava che il Presidente andasse su tutte
le furie, ma la sua reazione fu molto controllata. Si limitò a dire, con
nervoso sarcasmo: «C’è sempre qualche figlio di puttana che non capisce
l’ordine!» 260.

L’ExComm si riunì di nuovo alle 16. Sarebbe stata la riunione più


intensa di tutta la crisi. Come scriverà poi Robert Kennedy, «le ore passate
nella sala del consiglio in quel sabato pomeriggio d’ottobre non potranno
mai essere cancellate dalla nostra memoria. Allora come non mai
comprendemmo il significato e la responsabilità che comportava il potere
degli Stati Uniti e del loro Presidente, e valutammo l’impegno della nostra
coscienza verso innumerevoli persone di ogni parte del mondo che non
avevano mai neppure sentito parlare del nostro Paese né degli uomini seduti
in quella stanza per decidere del loro destino, della loro vita o della loro
morte» 261.
Si decise in fretta di non rivelare alla stampa l’incidente del sorvolo
dell’URSS, per evitare che ciò si prestasse a speculazioni avversarie come
dimostrazione di una condotta offensiva americana 262. Poi le discussioni si
concentrarono sul problema principale: che risposta dare alla nuova offerta
di Kruscev? Su questo punto, come già si era iniziato a vedere nella
riunione mattutina, il Presidente si trovava in netto disaccordo con
l’ExComm. Bundy lo mise subito in chiaro, con lealtà ma anche franchezza:
«Se alla nostra gente della NATO e a tutta la gente che è legata a noi da
un’alleanza ‘suona’ come se noi volessimo fare questo scambio [coi russi],
siamo davvero nei guai [we are in real trouble]. Credo che se questa è la
[sua] decisione, ci uniremo tutti nel farla, ma ritengo dovremmo dirle che
questa è la valutazione universale, di chiunque nel governo sia connesso
con questi problemi dell’alleanza [NATO]». Anche gli ambasciatori USA in
Turchia e alla NATO – insiste Bundy – ci «dicono tutti la stessa frase: che
se sembra che mercanteggiamo la difesa della Turchia per una minaccia a
Cuba, dovremo proprio fronteggiare un declino radicale» nella NATO. JFK:
«Sì, Mac, ma io devo dire pure che lì la situazione si sta muovendo veloce.
E se non l’accettiamo [l’offerta] […] e poi dobbiamo intraprendere
un’azione militare contro Cuba, allora pure fronteggeremo un declino» 263.
Ma anche il «kruscevologo» Thompson era sulla linea di Bundy: «Per una o
due ragioni, loro hanno cambiato idea». O perché avevano dedotto «di poter
ottenere di più» 264 o perché «Kruscev può essere stato scavalcato
[overruled]. In entrambi i casi, dobbiamo cambiare questa cosa, il che
significa che dobbiamo prendere una linea dura» 265. JFK allora chiese che
fosse convocata già l’indomani mattina una riunione del Consiglio NATO,
cosicché l’Alleanza venisse informata della situazione e fosse anch’essa
responsabile delle conseguenze di un rifiuto dell’offerta sulla Turchia.
«Altrimenti è troppo facile dire: ‘Beh, non accettiamola’» 266. Poi espresse
vigorosamente e a più riprese i suoi forti timori: «Sto solo pensando a cosa
dovremo fare tra un giorno o poco più, ossia cinquecento sortite [di
bombardamento su Cuba] in sette giorni e forse un’invasione, tutto perché
non volevamo togliere i missili dalla Turchia. E sappiamo tutti quanto
velocemente sparisca il coraggio di tutti quando il sangue comincia a
scorrere. E questo è quello che succederà alla NATO. Quando iniziamo
queste cose e loro prendono Berlino, tutti diranno: ‘Beh, era una gran buona
proposta’. Non prendiamoci in giro. […] Oggi sembra fantastico rifiutarla,
ma non lo sembrerà più dopo che facciamo qualcosa». E ancora, pochi
minuti dopo: «Faremo proprio meglio a togliere quei missili da Turchia e
Cuba perché credo che [altrimenti] il modo di levarli da Turchia e Cuba sarà
molto, molto difficile, e molto sanguinoso, in un luogo o nell’altro». «Ciò
che vorrei è ottenere che i turchi e la NATO sentano egualmente che questa
è la mossa più saggia» 267. A quel punto Thompson, Sorensen e RFK (e non
il solo RFK con autonomo lampo di genio, come per decenni si è
creduto) 268 propongono una sorta di stratagemma: rispondere a Kruscev
accettando la sua prima offerta (rimozione missili contro promessa di non
invasione) e ignorando invece la seconda (sulla Turchia) 269. JFK non crede
che a Kruscev basti: ora che ha fatto un’offerta pubblica non può più
indietreggiare. Thompson: «Non sono d’accordo, signor Presidente. […] La
cosa importante per Kruscev, mi sembra, è di poter dire: ‘Ho salvato Cuba.
Ho fermato un’invasione’». RFK effettivamente supporta l’idea di
Thompson: «È certamente concepibile che si possa riportarlo a quello».
Kennedy resta scettico, ma alla fine accetta di tentare: «Va bene, mandiamo
questa» 270. Si comincia dunque a redigere una calibrata lettera di risposta.
McNamara intanto suggerisce di ottenere anche il supporto dell’Italia a
togliere i propri missili, perché «questo metterà un po’ di ulteriore pressione
sulla Turchia» ad acconsentire. Appena due settimane prima, dice McN,
l’allora ministro della Difesa italiano Giulio Andreotti gli aveva spiegato
che «gli italiani sarebbero felici di sbarazzarsene [dei missili], se noi li
vogliamo togliere» 271. JFK, dopo aver chiesto «Who’s Andreotti?», si dice
subito favorevole, se la cosa può servire. Intanto il generale Taylor aveva
ribadito anche oralmente la raccomandazione dei Capi militari per un
attacco aereo «non più tardi di lunedì mattina», seguito da un’invasione
sette giorni dopo. Ma RFK aveva tagliato corto, ironico: «Beh, questa sì che
è una sorpresa!» 272.
Il clima però torna subito terribilmente teso quando McNamara annuncia
al gruppo una nuova pessima notizia appena giunta: «L’U-2 è stato
abbattuto».
Si trattava di un aereo di ricognizione americano che quella mattina
aveva sorvolato Cuba, pilotato dal maggiore Rudolf Anderson, per
proseguire a documentare con fotografie la continuazione dei lavori alle
basi. Erano già diverse ore che non se ne avevano più notizie, e si era
intuito che non sarebbe più tornato. Ora però arrivava anche la conferma
che non si fosse trattato di un semplice incidente. «Il corpo del pilota è
dentro l’aereo. […] Il rottame è a terra e il pilota è morto». JFK: «Questa è
un’escalation da parte loro, non è così?». «Sì, precisamente», confermò
McNamara. Nitze diede voce all’inquietante, inevitabile constatazione:
«Hanno sparato il primo colpo» 273.
JFK aveva ora anche un ulteriore problema da affrontare: «Come
possiamo mandare là domani un uomo su un U-2 se non togliamo di mezzo
tutte le postazioni SAM [di contraerea]?» 274. «Dovremmo fare una
rappresaglia contro una postazione SAM», affermò il generale Taylor.
Anche Thompson 275 e McNamara si dissero d’accordo. McN: «È un cambio
di linea. Ora, ‘perché’ [c’è] un cambio di linea, non lo sappiamo» 276.
Oggi si sa che la decisione di fare fuoco era stata presa al quartier
generale sovietico da due generali locali, senza autorizzazione né dal loro
superiore (generale Issa Pliyev) né tantomeno dal Cremlino 277. Ma
all’epoca Washington non poteva saperlo. Oltre a questo, il problema era
che se a Cuba cominciavano a sparare sugli U-2 americani, anche
mantenere la sorveglianza diveniva impossibile, spingendo definitivamente
verso una soluzione militare dell’intera faccenda. Dillon fece presente a
JFK un’altra conseguenza di quanto appena successo: «Credo che lei avrà
una grande pressione anche internamente, negli Stati Uniti, ad agire in
fretta, coi nostri aerei che vengono ripetutamente abbattuti mentre noi
stiamo seduti qui intorno». Ma JFK mantenne ancora una volta la calma e
rispose: «È per questo che credo faremo meglio ad avere un incontro con la
NATO domani». Dillon gli chiese cosa c’entrasse questo con l’U-2. JFK:
«Per spiegar loro dove siamo» 278: cioè a che pericoloso punto si è arrivati.
Nei giorni precedenti era già stato espressamente deciso che in una
eventualità di questo tipo si sarebbe compiuta un’immediata rappresaglia
contro la postazione di contraerea che aveva abbattuto l’U-2 279. Ma date le
circostanze, ora JFK pareva propenso a lasciar cadere o almeno a
posticipare quell’azione. Come confidò al fratello, proprio a proposito di
questa scelta: «Non è il primo passo che mi preoccupa, ma la possibilità che
tanto noi quanto loro si vada avanti e si arrivi a fare il quarto passo, il
quinto; e il sesto non lo faremo perché non ci sarà rimasto nessuno per
poterlo fare» 280.
Non altrettanto cauto era il suo vicepresidente, Lyndon Johnson, che –
mentre JFK era temporaneamente fuori stanza – fece presente all’ExComm
il rischio che accettare ora l’accordo sulla Turchia potesse incoraggiare
Kruscev a chiedere dell’altro: «Il fatto è che loro [i russi] abbattono un
aeroplano e loro [gli americani] rinunciano alla Turchia. Poi loro [i russi] ne
abbattono un altro, e loro [gli americani] rinunciano a Berlino. Sapete,
come un cane impazzito: assaggia un po’ di sangue e allora…» 281. Secondo
i ricordi di Sorensen, inoltre, per sostenere quale avrebbe dovuto essere la
reazione degli USA, Johnson aggiunse: «Io so solo che quando uno
camminava in una strada del Texas e un serpente a sonagli si alzava pronto
ad attaccare, c’era una sola cosa da fare: prendere un lungo bastone e
mozzargli la testa». «Il suo senso chiaro in modo inquietante», ricorda
Sorensen, «fu raggelante» 282.
George Ball ricordò invece al gruppo come finora essi avessero sempre
sperato di potersela cavare con un accordo sulla Turchia, mentre adesso che
ciò si concretizzava, «non lo vogliamo. E stiamo parlando di un corso
d’azione [alternativo] che comporta enormi perdite e un grande, grande
rischio di escalation». Perciò, piuttosto, «io direi [a Kruscev]: certo,
accetteremo la sua offerta […]». Bundy: «E cosa ne resta della NATO?».
Ball: «Non credo che la NATO vada in frantumi. [E] se la NATO non è
niente di meglio di così, allora non ci è poi così utile» 283.
Infine il Presidente, nel frattempo tornato in stanza, ribadì per l’ennesima
volta: «Non possiamo invadere Cuba, con tutta la fatica e il sangue che ci
sarà, quando avremmo potuto rimuoverli [i missili sovietici] facendo un
accordo sugli stessi missili in Turchia. Se ciò è parte del verbale, non vedo
come potremmo avere una bella guerra» 284.
Terminò così, dopo poco meno di quattro ore, una riunione
dell’ExComm tanto cruciale quanto estenuante. Per JFK era stata ciò che gli
americani chiamano «his finest hour»: il suo momento migliore. Si era
dimostrato meno impulsivo e più lungimirante dei suoi consiglieri ed aveva
tenuto testa quasi da solo all’ExComm in un momento esplosivo. I nastri
dimostrano chiaramente che egli restò calmo, pragmatico e moderato nel
gestire quella situazione. I suoi colleghi e la storiografia 285 oggi gli
riconoscono ampiamente questo merito.
Intanto, nella stanza accanto, Sorensen e RFK avevano finito di redigere
la lettera per Kruscev. Essa, come deciso, esprimeva la disponibilità
americana a un accordo sulle linee della prima lettera di Kruscev,
aggiungendo appena en passant che «l’effetto di un tale accordo sul
rilassamento delle tensioni mondiali ci permetterebbe di lavorare verso un
accordo più generale sugli ‘altri armamenti’, come proposto nella sua
seconda lettera, resa pubblica» 286. Subito dopo, in una breve riunione ancor
più ristretta tenutasi nello Studio Ovale 287, fu segretamente deciso che
mentre il testo sarebbe stato rilasciato alla stampa Robert Kennedy si
sarebbe occupato di consegnarlo personalmente all’ambasciatore Dobrynin,
avendo così l’occasione di trasmettergli oralmente anche un paio di
importanti «postille» al messaggio, che non era opportuno mettere per
iscritto. Anzitutto, Mosca doveva capire che il tempo stava definitivamente
scadendo. L’abbattimento dell’U-2 era stata una svolta gravissima e ora un
accordo doveva essere raggiunto al più presto, nel giro di ventiquattr’ore,
altrimenti un’azione militare sarebbe divenuta inevitabile. Se essi non
rimuovevano quei missili, ci avrebbero pensato gli USA. Non era un
ultimatum, si specificava, ma una semplice constatazione della situazione.
C’erano diverse persone nel governo americano che incitavano alla guerra,
e non si sarebbe potuti tenerle a freno ancora a lungo 288. In secondo luogo,
però, quanto alla Turchia, sebbene la faccenda riguardasse l’intera NATO e
perciò non potesse esserci alcun esplicito quid pro quo, il Presidente
desiderava assicurare privatamente a Kruscev che egli era deciso a
rimuovere quei missili non appena la crisi fosse passata. La cosa avrebbe
richiesto quattro o cinque mesi, ma si sarebbe senz’altro ottenuta. L’unica
condizione era che tale assicurazione restasse segreta. Se i sovietici
avessero cercato di renderla pubblica, la Casa Bianca l’avrebbe smentita e
avrebbe annullato tutto. Così deciso, RFK andò e riportò queste due
importanti «postille» a Dobrynin nel loro colloquio, avvenuto nell’ufficio
del Procuratore Generale alle 19.45 di quella sera 289. L’ambasciatore
sovietico avvisò RFK: «Non sono ottimista. Il Politburo è troppo implicato
per retrocedere adesso» 290. Subito dopo riportò a Mosca quanto
comunicatogli, aggiungendo nel suo cablo che RFK non aveva fatto altro
che ripetere che «il tempo è essenziale» e che egli appariva «molto
sconvolto. In ogni caso non l’ho mai visto prima in un simile stato» 291.
Questo canale segreto di comunicazione, tenuto aperto da Robert Kennedy
lungo tutta la crisi, fu – ben più che la presunta ideazione del «Trollope
ploy» – il contributo più importante che egli diede alla gestione della CMC.

Ma quella lunghissima giornata non era ancora finita. LeMay intanto


aveva appreso che un U-2 disarmato era stato abbattuto a Cuba dal fuoco
nemico ma che la Casa Bianca ribadiva esplicitamente di non lanciare
rappresaglie fino a nuovo ordine del Presidente. «Se l’è fatta sotto di
nuovo», sbraitò (riferendosi ovviamente a JFK) 292.
Poi l’ExComm si riunì di nuovo dopo cena, per continuare ad analizzare
quella situazione sempre più intricata. La logica della guerra stava
acquisendo il suo corso, gli eventi si muovevano sempre più velocemente,
pericolosi incidenti cominciavano ad accadere e gli spazi per un
compromesso negoziale si restringevano letteralmente di ora in ora. Tra i
membri del governo americano era palpabile un forte pessimismo. Quando
infine terminò anche la riunione serale, Robert Kennedy confidò a
McNamara: «Credo che stiamo facendo l’unica cosa che possiamo». Questi
rispose: «L’unica cosa, Bobby, è che prima che li attacchiamo, dobbiamo
essere dannatamente sicuri che loro capiscano che sta arrivando. […] E poi
avremo bisogno di tener pronte due cose: un governo per Cuba, perché
dopo che entriamo con 500 sortite aeree ce ne servirà uno; e poi qualche
piano su come rispondere all’Unione Sovietica in Europa, perché là – sicuro
come l’inferno – loro faranno qualcosa».
Dopo qualche secondo, Robert Kennedy ammise a mezza voce: «Mi
piacerebbe riprendere Cuba. Sarebbe bello». Una voce ruppe la tensione:
«Suppongo che faremo Bobby sindaco de L’Avana…» 293. Risate, fine dei
nastri.

Uscendo dalla Casa Bianca, come ricorderà egli stesso decenni dopo,
Mc-Namara aveva visto il cielo. E, accorgendosi che era una bella serata
autunnale, si era domandato istintivamente se sarebbe «vissuto abbastanza
da vedere un altro sabato sera» 294.
Il Presidente, dal canto suo, era tornato nella sua camera per un momento
di relax. C’erano l’amico Dave Powers e Mimi Alford, una stagista
diciannovenne che Kennedy faceva spesso convocare alla Casa Bianca nei
weekend in cui Jacqueline era assente. Quella sera però, secondo il recente
racconto della Alford, non ci fu spazio per il sesso. «Si capiva che era
distratto. Aveva un’espressione grave». «Dopo aver lasciato la stanza per
rispondere a un’altra telefonata urgente, ritornò scuotendo il capo e disse:
‘Preferisco che i miei figli siano rossi piuttosto che morti’». Era una battuta
che capovolgeva lo slogan dell’oltranzismo anticomunista, «better dead
than red». Date le circostanze, è verosimile che egli l’abbia detta. «Fu
l’unica nota leggera della serata», ricorda la Alford, aggiungendo che poi il
Presidente tornò di sotto a lavorare (mentre lei, aspettatolo inutilmente in
camera tutta la sera, finì per addormentarsi) 295.
Risultano difatti partite dopo mezzanotte due lettere identiche indirizzate
da JFK al cancelliere tedesco Adenauer e al presidente francese De Gaulle.
Lo scopo dei messaggi era di avvertirli che la crisi si stava mettendo male:
«La situazione sta chiaramente aumentando di tensione e se non si
riceveranno risposte soddisfacenti dall’altro lato in quarantott’ore, è
probabile che la situazione entrerà in una fase progressivamente
militare» 296. Infine, forse troppo stressato per dormire, cercò di rilassarsi un
po’ facendosi proiettare in piena notte, nella sala proiezioni della Casa
Bianca, il film Vacanze romane 297.
Nella notte arrivò un altro messaggio di Macmillan a JFK, contenente
una frase che mostrava come anche da Londra egli riuscisse bene a cogliere
l’evolversi della situazione: «La prova di volontà sta ora raggiungendo un
climax» 298.

Ma il Black Saturday aveva conosciuto un ulteriore episodio di


gravissimo rischio, per giunta all’insaputa di tutti e destinato a rimanere
completamente ignoto fino al 2002. Nel tardo pomeriggio di quel sabato,
proprio mentre a Washington l’ExComm era in riunione e McNamara
assicurava ai colleghi che i sottomarini mandati in zona dai sovietici «per
quanto ne sappiamo non hanno missili [nucleari]» 299, nel mar dei Caraibi
invece si arrivò letteralmente a un soffio dallo scontro atomico tra un
sottomarino sovietico e una portaerei americana. Il B-59 russo, uno dei
quattro sommergibili che erano stati spediti nell’Atlantico da Kruscev per
scortare e proteggere le preziose navi sovietiche, era ormai stato individuato
dalla Marina americana, nonostante avesse avuto ovvia cura di nascondersi
sott’acqua, ed ora la portaerei Randolph voleva farlo emergere in superficie
perché si identificasse. Il segnale per trasmettere questa richiesta consisteva,
come comunicato nei giorni scorsi dalla Casa Bianca, in «cariche di
profondità», ovvero colpi di segnalazione sparati dalle navi verso il fondo
del mare, passanti a lato dei sottomarini. Peccato però che il segnale scelto
da Washington non fosse mai stato comunicato ai capitani dei sottomarini e
che per giunta il B-59 non riuscisse a contattare Mosca per istruzioni da
oltre ventiquattr’ore, né gli altri tre sottomarini in zona 300. Ciò significava
che, per quanto ne sapeva l’equipaggio a bordo, la guerra poteva anche
essere già iniziata a loro insaputa. Erano del tutto privi di contatto col
mondo esterno. E, come ha raccontato per la prima volta nel 2002 Vadim
Orlov (l’unico ancora in vita tra i principali testimoni a bordo del
sottomarino) 301, ora essi erano anche «circondati» da quattordici mezzi
americani in superficie e bersagliati da continui colpi esplodenti «proprio
accanto allo scafo. Ci si sentiva come seduti in una botte di metallo che
qualcuno stesse costantemente colpendo con un martello». Non ne capivano
il motivo. Il panico a bordo si fece insopportabile. Oltretutto da circa
quattro ore «la temperatura nei compartimenti era di 45-50 °C, fino a 60 °C
nel compartimento motori». L’aria «era insopportabilmente viziata. I livelli
di CO2 [anidride carbonica] nell’aria raggiunsero un livello […] critico»,
tanto che «uno degli ufficiali svenne e cadde giù. Poi seguì un altro, poi un
terzo. Stavano cadendo come tessere del domino». Dopo quattro ore in
queste condizioni, «gli americani ci colpirono con qualcosa di più forte
[…]. Pensammo: ‘Ecco qui, è la fine’. Dopo quest’attacco, il totalmente
esausto Savitsky [il capitano del sottomarino] […] divenne furioso. Chiamò
l’ufficiale che era incaricato del siluro nucleare e gli ordinò di prepararlo
per il combattimento 302. ‘Forse la guerra è già iniziata lassù mentre noi
stiamo qui sotto a fare capriole’, urlò […] cercando di giustificare il suo
ordine. ‘Ora li distruggeremo! Periremo anche noi, ma li affonderemo tutti!
Non disonoreremo la nostra Marina!’».
Vasily Arkhipov, comandante della flottiglia di sottomarini sovietici.

Il destroyer americano sul pelo dell’acqua non immaginava che quel


sottomarino fosse equipaggiato con un siluro armato con testata nucleare.
Né tantomeno che un capitano esasperato, a bordo, stesse ordinando di
lanciarglielo contro. Era la classica situazione in cui, nell’impossibilità di
contattare il governo centrale (Mosca), la decisione di sparare o meno il
primo colpo nucleare spettava a chi sul momento teneva il dito sul pulsante.
E a quanto risulta, nella sala di controllo del B-59 Valentin Savitsky
propose di lanciare quel siluro da una dozzina di kilotoni 303 in risposta a
quelli che a bordo credevano essere colpi americani sparati a scopo ostile.
Anche l’ufficiale politico a bordo, Ivan Maslennikov, fu d’accordo con lui.
A quel punto serviva solo un altro sì, quello del comandante della flottiglia,
Vasily Arkhipov. Ma questi si disse contrario e in qualche modo li indusse a
rinunciare al lancio 304. Dopo il veto di Arkhipov, Savitsky si calmò ed
accettò di emergere di fronte alle navi nemiche, ingoiando ciò che per un
sottomarino era una grave umiliazione, pur di evitare di sparare contro una
portaerei americana. Per questo, quattro decenni dopo, nel presentare questo
resoconto rivelatore, lo storico Thomas Blanton sintetizzò dicendo che «un
tizio chiamato Arkhipov salvò il mondo» 305. Un’esagerazione? Difficile
dirlo. Fatto sta che il resoconto di Orlov è risultato verosimile 306. Certo è
che se il siluro fosse stato lanciato, la portaerei sarebbe stata completamente
distrutta, e a quel punto – con l’opinione pubblica americana colma di
indignazione – la rappresaglia sarebbe stata inevitabile, e con essa
probabilmente anche la definitiva escalation nucleare. In ogni caso, stava
diventando un vero vizio quello di arrivare a un soffio dal conflitto armato,
se si ricorda che esattamente quello stesso giorno di un anno prima (il 27
ottobre 1961) i carri armati sovietici e americani erano giunti a fronteggiarsi
minacciosamente per le strade di Berlino, gli uni contro gli altri, separati
solo dal fragile Checkpoint Charlie. Forse era davvero ora di smetterla di
giocare col fuoco.
28 ottobre 1962, domenica

Intorno alle 10 di mattina, mentre a Washington era ancora notte fonda,


Kruscev riuniva di nuovo il suo Presidium, stavolta nella dacia governativa
di Novo-Ogaryevo, nella campagna alle porte di Mosca. Due notizie a dir
poco allarmanti (la bellicosa lettera di Castro e l’abbattimento non
autorizzato di un U-2 americano) lo avevano convinto che era giunto il
momento di accettare pubblicamente di rimuovere i missili. Aspettare
ancora stava diventando troppo rischioso, gli eventi rischiavano di
sfuggirgli definitivamente di mano. Anche a distanza di anni nelle sue
memorie egli ricorderà la preoccupazione che a quel punto JFK non fosse
disposto a «mandar giù l’umiliazione» 307 dell’aereo abbattuto. Così ora
espose ai colleghi la sua decisione 308 e lo fece ricollegandosi, da buon
marxista, all’operato del grande padre della patria socialista, Vladimir
Lenin. «Ci fu un tempo», disse, «in cui avanzammo, come nell’Ottobre del
1917. Ma nel marzo del 1918 dovemmo ritirarci, avendo firmato coi
tedeschi il trattato di Brest-Litovsk [l’armistizio con cui l’URSS, fresca di
rivoluzione, aveva accettato di cedere grandi porzioni di propri territori pur
di uscire dalla prima guerra mondiale, NdA]. I nostri interessi dettavano tale
decisione: dovevamo salvare il potere sovietico. Ora ci troviamo faccia a
faccia col pericolo della guerra e della catastrofe nucleare, col possibile
risultato di distruggere la razza umana. Allo scopo di salvare il mondo,
dobbiamo ritirarci» 309.
Pochi minuti dopo, nel pieno della riunione, uno dei presenti, il
consigliere Oleg Troyanovsky, fu chiamato al telefono. Il Ministero degli
Esteri aveva appena ricevuto un cablo di Dobrynin da Washington.
Troyanovsky prese nota dei punti salienti e tornato in stanza li comunicò
agli altri. Nelle concitate parole dette all’ambasciatore da Robert Kennedy,
Kruscev trovava ora la chiara conferma dell’urgenza di un accordo, nonché
un inaspettato «premio» alla sua decisione di ritirarsi, consistente nella
segreta assicurazione che anche i missili turchi sarebbero stati rimossi. Il
Presidium, ricorda Troyanovsky, «raggiunse abbastanza rapidamente
l’accordo» 310. Poi giunse un’ulteriore notizia, stavolta dall’intelligence, e
cioè che per le 17 di quello stesso pomeriggio (corrispondenti alle 9, ora di
Washington) era previsto un nuovo discorso televisivo di Kennedy. Che
cosa poteva annunciare, in quei giorni drammatici e ad un’ora così inusuale
(di domenica mattina), il Presidente statunitense? Con ogni probabilità
l’inizio dell’attacco a Cuba! Non c’era più un minuto da perdere,
letteralmente: la lettera doveva assolutamente arrivare alla Casa Bianca
prima di quell’ora. Kruscev dettò in fretta il testo. Nel frattempo
l’ambasciata americana a Mosca venne avvisata che un messaggio era in
arrivo in un’ora e mezza, massimo due. Appena la lettera fu pronta e
tradotta, un funzionario si precipitò a Radio Mosca perché essa venisse
immediatamente trasmessa 311. A tutti gli incroci della città gli agenti fecero
strada alla sua macchina, per aiutarlo a superare il traffico 312. Raggiunti
finalmente gli uffici della radio, per una circostanza che ha davvero del
romanzesco, l’ascensore dell’edificio restò bloccato con il funzionario
dentro, e questi dovette passare la busta dalla grata della cabina perché la
notizia potesse arrivare a destinazione prima che il suo latore venisse tirato
fuori di lì 313. Lo speaker della radio chiese di poterla leggerla una volta a
mente prima di andare in onda. Gli fu negato: non c’era tempo 314. Cominciò
subito a leggere il nuovo comunicato.

A Washington era una mattina di sole. Naturalmente non c’era nessun


nuovo discorso televisivo presidenziale in programma: quello in palinsesto
che aveva indotto in errore l’intelligence sovietica e messo ulteriormente
fretta al Presidium non era altro che una replica del discorso del 22.
Pochi minuti dopo le 9, le radio annunciarono un bollettino speciale da
Mosca: un nuovo messaggio di Kruscev annunciava la decisione di
smantellare i missili. Non solo i cittadini americani, ma anche gli stessi
consiglieri del Presidente lo appresero così. Sorensen, per esempio, si era
appena svegliato e aveva acceso la radio che in quei giorni d’emergenza
aveva tenuto sempre accanto al letto. Quando fu trasmessa la notizia,
ricorda, «non riuscivo quasi a credere alle mie orecchie» 315. Il capo della
CIA John McCone userà le medesime parole 316. Un altro partecipante
all’ExComm, Don Wilson, che nelle ultime due sere si era letteralmente
chiesto se la sera dopo sarebbe tornato a casa, ora improvvisamente aveva
«voglia di ridere, strillare o ballare» 317. Bundy, dal canto suo, stava facendo
colazione nella mensa della Casa Bianca quando un assistente si avvicinò al
suo tavolo portandogli il testo del bollettino. Lo lesse e telefonò
immediatamente al piano di sopra. Il Presidente si stava vestendo per
andare a messa. «Fu contento», ci dice semplicemente Bundy 318. Poi fu
Sorensen a telefonare a Bundy, per sapere se era vero ciò che aveva appena
sentito dalla radio. «Sì, è vero», gli rispose Bundy, e aggiunse: «la nostra
riunione dell’ExComm è stata posticipata dalle 10 alle 11.30 perché il
Presidente e Jackie possano andare in chiesa. Ed egli suggerisce a tutti di
fare altrettanto» 319.
Tornato dalla chiesa di St. Stephen, Kennedy entrò nella Cabinet Room e
l’intero ExComm lo accolse con un applauso. A Sorensen parve «fosse alto
tre metri». Di certo era sollevato: al suo assistente aveva appena confidato:
«Mi sento un uomo nuovo adesso. Ti rendi conto che avevamo un attacco
aereo pronto per martedì? Grazie a Dio è tutto finito» 320.
Nel frattempo era giunto il testo completo della lettera di Kruscev:

Stimato Signor Presidente, ho ricevuto il suo messaggio del 27


ottobre. Capisco molto bene la sua ansietà e quella del popolo
statunitense per il fatto che le armi che lei descrive come ‘offensive’
sono, in effetti, armi sinistre. Sia io che lei sappiamo che razza di
armi siano. Allo scopo di completare con più velocità la
liquidazione del conflitto pericoloso alla causa della pace, di dare
fiducia a tutti i popoli che anelano alla pace e di tranquillizzare il
popolo americano, che, ne sono certo, vuole la pace quanto il
popolo dell’Unione Sovietica, il governo sovietico […] ha emesso
un nuovo ordine per lo smantellamento delle armi che lei descrive
come ‘offensive’ e il loro imballaggio e ritorno all’Unione
Sovietica.

Poi si ripeteva «una volta di più» che lo scopo di quel dispiegamento era
stato solo difensivo, perché il popolo cubano era «stato sotto il costante
pericolo di un’invasione» e «noi non potevamo essere indifferenti a ciò».

Io valuto con rispetto e fiducia la sua dichiarazione nel suo


messaggio del 27 ottobre 1962, che nessun attacco verrà fatto a
Cuba […] – perciò i motivi che ci hanno spinto a dare questo tipo di
aiuto a Cuba cessano. […] Io desidero anche continuare uno
scambio di opinioni sul […] disarmo generale e altre questioni
concernenti la diminuzione della tensione internazionale. Signor
Presidente, mi fido della sua dichiarazione.

Infine faceva notare l’episodio del giorno prima,

quando un vostro aereo di ricognizione si è intromesso nel territorio


dell’Unione Sovietica […]. Uno si chiede, Signor Presidente, come
dovremmo considerare ciò? Cos’è? Una provocazione? Il vostro
aereo viola la nostra frontiera, e in momenti così ansiosi come quelli
che stiamo vivendo ora quando ogni cosa è stata posta in stato di
allerta per il combattimento. Un aereo americano che si intrude può
facilmente esser preso per un bombardiere con armi nucleari, e ciò
può spingerci a un passo fatale – tanto più visto che il Governo
degli Stati Uniti e il Pentagono da lungo tempo dichiarano che
bombardieri atomici sono costantemente in servizio nel vostro
Paese 321.

Kennedy non restò a guardare. Prima emise un breve comunicato per


salutare quella di Kruscev come la «decisione di uno statista» 322. Poi gli
scrisse: «Caro Signor Premier, […] Credo che lei ed io […] fossimo
consapevoli che gli sviluppi stavano raggiungendo un punto in cui gli eventi
sarebbero potuti divenire ingestibili [unmanageable]. Dunque io do il
benvenuto a questo messaggio e lo considero un importante contributo alla
pace». Anche l’ONU meritava un elogio: «Gli illustri sforzi del segretario
generale U Thant hanno grandemente facilitato entrambi i nostri compiti».
Quanto all’incidente dell’U-2, «ho appreso che […] tornando verso sud il
pilota ha compiuto un serio errore di navigazione che lo ha portato sopra il
territorio sovietico. […] Mi rammarico di quest’incidente e vedrò che
vengano prese tutte le precauzioni per prevenire che si ripeta». Infine
un’apertura sul futuro: «Concordo con lei che dobbiamo dedicare urgente
attenzione ai problemi del disarmo, nel mondo intero come nelle aree
critiche. Forse ora, mentre facciamo un passo indietro dal pericolo, insieme
noi possiamo fare veri progressi in questo ambito vitale» 323.

E Castro? Come poteva aver reagito a una simile notizia? Appena il


giorno prima aveva esultato di gioia per l’abbattimento dell’U-2 americano
da parte dei suoi compagni sovietici 324; ora doveva assistere a uno sviluppo
ben diverso. Kruscev, temendo una sua reazione rabbiosa che vanificasse la
soluzione, gli aveva subito scritto una lettera in cui gli annunciava che la
questione stava per «essere risolta in tuo favore» (perché Kennedy «offre
assicurazioni» contro l’invasione ed egli gli aveva appena risposto, come
certo Fidel stava apprendendo dalla radio). «Per questo motivo vorrei
raccomandarti ora […] di non farti trascinare dai sentimenti e mostrare
fermezza. […] Ora che un accordo è in vista, il Pentagono è in cerca di
pretesti per frustrare un tale accordo. […] Perciò ti consiglio in via
amichevole di mostrare pazienza, fermezza e ancor più fermezza» 325. Il che
tradotto significava: non sparare sugli U-2 e non remare contro l’accordo.
In effetti, Castro non l’aveva presa bene. Quella mattina gli avevano
telefonato a casa dal giornale, «Revolucion», per sapere come voleva che
fosse presentata la notizia appena giunta da Radio Mosca. «Quale notizia?»,
chiese. Gliela lessero. La rabbia di Fidel esplose: «Figlio di puttana!
Bastardo! Stronzo! Senza coglioni! Maricon!» 326. Il destinatario di tutti
questi appellativi, naturalmente, era il compagno Kruscev. Franqui ricorda
che in quell’occasione Fidel riuscì a «battere il suo record personale di
imprecazioni» 327. Poi prese a calci un muro e ruppe uno specchio. Non solo
gli toglievano i missili lasciandolo in balia di una mera assicurazione
verbale del nemico, sulla cui parola Castro non nutriva la minima fiducia,
ma lo avevano fatto «senza nemmeno disturbarsi ad informarci». Si recò
immediatamente al quartier militare sovietico e, avuta conferma della
notizia, se ne andò subito, contenendo a stento il suo sdegno.
Poi tuttavia riuscì in qualche modo a dominare politicamente la sua
rabbia. Capì che, nonostante tutto, non poteva rompere ora anche con
Mosca. Tutte le lamentele del caso sarebbero state espresse in privato. A
mezzogiorno emise una dichiarazione: i cosiddetti «cinque punti» di Cuba.
Vi si esprimeva la posizione che le garanzie di Kennedy contro
un’«aggressione» all’isola (in realtà JFK abilmente si era limitato a parlare
di «invasione») sarebbero state vane se non avessero compreso anche i
seguenti punti: 1) cessazione del blocco economico; 2) cessazione di tutte le
attività sovversive (lanci di esplosivi, sbarchi di armi, infiltrazioni di spie e
sabotatori, ecc.) ricollegabili agli Stati Uniti; 3) cessazione degli attacchi
pirateschi effettuati partendo da USA e Porto Rico; 4) cessazione delle
violazioni dello spazio aereo e delle acque territoriali cubane; 5) ritiro dalla
base di Guantanamo 328.
La rapidità con cui queste richieste vennero presentate – appena tre ore
dopo la risposta di Kruscev – farebbe supporre che Castro le avesse già in
mente, forse tenendole in serbo per un eventuale summit negoziale 329. Ora
invece egli doveva emetterle con la bruciante constatazione di essere stato
scavalcato e la consapevolezza che non sarebbero state neppure prese in
considerazione. Esse avevano tutt’al più il valore di dichiarazioni di
principio; servivano a dare a Cuba e a se stesso una qualche voce pubblica,
mentre il mondo intero stava apprendendo di un accordo conclusosi
altrove 330.
Sempre quel giorno, poi, inviò a Kruscev una lettera molto trattenuta,
che dev’essergli costato non poco scrivere, in cui almeno per il momento
non c’era il minimo accenno polemico. Si avvisava però che «noi siamo
contrari in principio a un’ispezione del nostro territorio» 331. Ciò per chiarire
che ora, nella fase di attuazione dell’accordo, Kruscev non contasse sul
fatto che Cuba avrebbe accettato anche l’umiliazione di stranieri (magari
perfino americani) che entrassero nell’isola per verificare lo
smantellamento dei suoi missili.
L’umiliazione, difatti, sarebbe ricaduta, nelle settimane successive,
sull’URSS. Data l’opposizione inflessibile di Castro, la verifica
dell’effettivo smantellamento dei missili fu possibile solo in alto mare.
Così, in seguito a un tacito accordo, le navi sovietiche che li riportavano in
patria dovettero sistemarli sul ponte e scoprirli pubblicamente in presenza
di navi e aerei americani, affinché questi potessero fotografarli e contarli.
Fu, nelle parole dello stesso generale russo Gribkov, «una terribile
umiliazione». I cubani lo definirono sarcasticamente lo «striptease
sovietico» 332.
La sensazione d’esser stati scavalcati, infatti, era diffusa anche tra la
popolazione locale. Per le strade de L’Avana in quei giorni la gente gridava:
«Nikita, mariquita! Lo que se da, no se quita!» (Nikita, frocetto! Quel che
si dà, non lo si riprende!) 333.
La nave sovietica Divnogorsk, fotografata da un aereo USA il 6 novembre mentre riporta in URSS
quattro missili, due dei quali visibili sul lato del ponte qui ripreso (frecce nostre).

Profondamente amareggiato verso il Cremlino era anche Guevara,


convinto che la ritirata di Mosca avesse danneggiato tutto il movimento
socialista internazionale: la causa a cui egli era pronto a sacrificare non solo
se stesso, ma il mondo intero. Il Che, infatti, riteneva (in modo per molti
versi analogo, allora, a Castro e a Mao) che con l’imperialismo non
bisognasse mai scendere a compromessi, anche a costo di scatenare una
guerra termonucleare. In quelle settimane egli affermò a più riprese che se i
missili fossero stati sotto il loro controllo, li avrebbero «installati in ogni
centimetro di Cuba e se necessario lanciati senza alcun ripensamento nel
cuore dell’aggressore: New York» 334. Anche in un articolo che scrisse in
quelle stesse settimane (pubblicato postumo) egli ribadiva testualmente:
«dobbiamo proseguire sulla via della liberazione, anche se questa dovesse
costare milioni di vittime atomiche» 335. Armi termonucleari e movente
ideologico: il mix più pericoloso. Anche per questo Kruscev, fiutata l’aria di
esaltazione che tirava sull’isola, aveva deciso di rimuovere i missili senza
consultare Castro.
A Miami, intanto, la nutrita e battagliera comunità di esuli cubani
anticastristi, che da giorni pregustava l’imminente invasione che avrebbe
rovesciato il regime permettendo loro il ritorno in patria (e, per alcuni, al
potere), accolse la notizia con enorme delusione. A Key West, subito dopo
il discorso di Kennedy del 22, un esule cubano aveva confidato il suo
ottimismo: «Mi aspetto di essere a L’Avana per Natale» 336. Durante quella
settimana, molti cubani di New York avevano addirittura chiuso casa e
lasciato il lavoro per precipitarsi a Miami in attesa degli agognati
sviluppi 337. Il 26 lo stesso Dipartimento di Stato USA aveva invitato il
Cuban Revolutionary Council ad approntarsi, definendo i nomi dei
partecipanti al futuro governo provvisorio 338. Ancora il giorno 27, come
abbiamo appurato dalla stampa locale, Miro Cardona (presidente del
Council e dunque leader in pectore della Cuba postcastrista) in un
messaggio indirizzato da Miami agli altri esuli cubani aveva parlato di «ora
di grandezza» e li aveva invocati all’unità, giacché «siamo sulla soglia di
grandi eventi» 339. Ora invece arrivava quella doccia fredda. Una garanzia di
non invasione, dicevano, era «un’altra Baia dei Porci… Ormai siamo nelle
stesse condizioni degli ungheresi» 340, cioè abbandonati al comunismo
dall’indifferenza degli Stati Uniti.
Un paese latinoamericano che invece non poteva certo dirsi abbandonato
al comunismo, anzi costituiva per Washington proprio il modello alternativo
da imitare, era il Venezuela guidato da Romulo Betancourt, che non solo
aveva appoggiato il blocco a Cuba, ma il 27 ottobre aveva ordinato la piena
mobilitazione delle proprie forze militari 341. Quella stessa notte tra il 27 e il
28, nel vasto giacimento petrolifero presso il lago Maracaibo, quattro
bombe avevano fatto esplodere le centrali elettriche della più grande
impresa petrolifera del Paese, la Creole Corporation, di proprietà
statunitense. Un atto di cui il governo di Caracas aveva subito arrestato i
colpevoli, tre «comunisti venezuelani» 342 (uno dei quali morto nel
sabotaggio), filocastristi se non direttamente imbeccati da Radio Havana 343.
Del resto la stessa stampa cubana, controllata da Castro, presentava
orgogliosamente la notizia del sabotaggio venezuelano in prima pagina,
definendolo «la prima risposta dell’Esercito di Liberazione alla
mobilitazione militare ordinata dal regime di Romulo Betancourt»
nell’ambito della crisi in corso 344. Qualche settimana dopo, Castro stesso ne
fece l’elogio in un discorso 345. Anche alcuni documenti appena emersi da
oltrecortina sembrano confermare il collegamento diretto con la leadership
cubana, Guevara in testa 346. Quest’atto di sabotaggio antiamericano – il più
clamoroso ma non certo l’unico compiuto nei giorni della crisi 347 – a nostro
avviso è da inquadrare nello stesso contesto di strisciante e sterile «guerra
sporca» in cui si inserivano quelli approvati nei mesi e giorni precedenti
dalla CIA ai danni delle miniere di Matahambre (si veda sopra). Simili
sabotaggi, fomentati in varia misura dai governi e fatti eseguire tramite
terzi, talvolta parevano avere un sapore quasi più vendicativo che
strategico. Era un altro dei livelli a cui, da ambo le parti, si stava
combattendo la guerra fredda in quel continente: un livello certo più
marginale, oltre che assai meno presentabile, ma utile a comprendere il
clima di forte contrapposizione che aveva determinato la CMC.

A Londra, intanto, in quelle stesse ore, il primo ministro Harold


Macmillan – che aveva attraversato una settimana di tensioni frenetiche e
non chiudeva occhio da due notti – ricevette la notizia della rimozione dei
missili via telescrivente e immediatamente si lasciò cadere sulla sedia,
esausto. Uno dei presenti lo udì commentare che la sensazione era
paragonabile a quella che si prova dopo la fine di un ricevimento di
matrimonio, «quando non c’è niente da fare se non bere lo champagne e
andare a dormire» 348.
Nel frattempo quella mattina a Washington Robert Kennedy si era
incontrato nuovamente con l’ambasciatore sovietico, che aveva chiesto di
vederlo in tutta fretta per riferirgli formalmente la decisione del Cremlino.
«Finalmente potrò vedere i miei figli», aveva risposto Robert, visibilmente
sollevato. «Uff, mi ero quasi dimenticato la strada di casa…», aggiunse. E
in quel momento, per la prima volta dall’inizio della crisi, l’ambasciatore
sovietico lo vide sorridere 349.
Tornato alla Casa Bianca, RFK riferì dell’incontro al fratello e poi lo
ascoltò mentre telefonava agli ex presidenti Hoover, Truman ed Eisenhower
per aggiornarli sugli ultimi sviluppi. O meglio, per «disinformarli
deliberatamente» 350, visto che anche a loro Kennedy negò esplicitamente di
aver promesso, o anche solo fatto balenare, il ritiro dei missili dalla Turchia
(«non potevamo entrare in quell’accordo», «no», rispose all’esplicita
domanda di un istintivamente sospettoso Eisenhower) 351.
Quando poi, dopo un lungo colloquio, Robert fece per andarsene dallo
Studio Ovale, il fratello gli disse: «Questa è la sera in cui dovrei andare a
teatro». Era un’allusione ad Abraham Lincoln, il presidente che era stato
assassinato a teatro proprio poco dopo aver ottenuto il suo più grande
successo (la resa dei Sudisti nella guerra civile). Robert colse l’allusione, e
rispose: «Se ci vai tu, voglio venire anch’io» 352. Con quella battuta – come
poi spiegherà lui stesso in una nota privata – intendeva dire che non poteva
immaginare di veder diventare presidente al suo posto Lyndon Johnson, di
cui proprio in quei giorni di crisi aveva potuto sperimentare «l’incapacità
[…] di offrire un qualsiasi contributo di alcun tipo durante tutte le
conversazioni» 353. Tra Johnson e Robert Kennedy non era mai corso buon
sangue. Meno ancora ne sarebbe corso in seguito.
Quel pomeriggio il Presidente non aveva mancato di prestare attenzione
ai media. Accesa la tv, aveva notato il trionfalismo con cui i commentatori
della CBS stavano già cominciando a definire l’esito della crisi «una
vittoria americana». Così si girò verso l’addetto stampa: «Digli di
smetterla». Salinger prese il telefono e si fece passare in una pausa
pubblicitaria proprio uno dei giornalisti in onda: «David, ti parlo
dall’Ufficio Ovale. Il Presidente è proprio accanto a me. […] Per favore
[…] non la presentate come una nostra vittoria. […] C’è il rischio che
Kruscev sia così umiliato e irato che cambi idea. Badate a come parlate, non
incasinateci la cosa». Ma durò poco, perché già quella sera la stessa CBS
gongolava nuovamente sull’«umiliante sconfitta sovietica» 354.
Ad ogni modo, non tutti vedevano l’esito in termini così positivi: i Capi
militari scrissero un «memo» al Presidente per metterlo in guardia da questi
«sforzi per rimandare un’azione militare diretta degli Stati Uniti mentre si
prepara il terreno per il ricatto diplomatico» 355. «Siamo stati giocati!», si
lamentò l’ammiraglio Anderson 356; «la promessa di non invasione lascia
Castro libero di creare guai in America Latina» 357. Curtis LeMay, furioso,
riuscì a definirla «la più grande sconfitta della nostra storia» 358.
«Dovremmo invadere oggi!» affermò battendo i pugni sul tavolo.
Ascoltandolo, ricorda McNamara, Kennedy era così «scioccato» che non
riusciva a fare altro che «balbettare» in risposta 359. «Il primo consiglio che
darò al mio successore», confidò il Presidente uscito da quell’incontro, «è
di sorvegliare i generali», e di non pensare «che siccome sono militari le
loro opinioni su questioni militari valgano altro che un bel nulla» 360.
Del resto anche Kruscev, a Mosca, aveva vissuto episodi simili. Come
qualche mese dopo confiderà egli stesso all’americano Norman Cousins,
«quando chiesi ai consiglieri militari se potevano assicurarmi che tenere
duro non avrebbe portato alla morte di cinquecento milioni di esseri umani,
loro mi guardarono come se fossi fuori di senno, o peggio, un traditore. […]
Così mi dissi: ‘all’inferno questi maniaci! Se posso ottenere che gli Stati
Uniti mi assicurino che non cercheranno di rovesciare il governo cubano,
rimuoverò i missili’» 361.
L’ultima parola, insomma, stavolta era spettata al buon senso, tanto a
Washington quanto a Mosca. Lo aveva ben sintetizzato, già quella mattina,
un consigliere che pure era stato tra i sostenitori di una linea dura, coniando
due termini destinati a passare immediatamente alla storia. Rivolgendosi ai
suoi colleghi dell’ExComm riuniti nella Cabinet Room, McGeorge Bundy
ammise: «Tutti sappiamo chi erano i falchi e chi erano le colombe. Oggi è il
giorno delle colombe» 362.
4
Capire la crisi.
Considerazioni sugli eventi
1. La crisi era dunque finita. I primi venti giorni di novembre sarebbero
serviti ad attuare l’accordo, a verificarne il rispetto, a mercanteggiare sui
dettagli, a cercare di calmare Castro 1. Ma il pericolo vero era passato: la
guerra era stata scongiurata. Si poteva cominciare a tirare le somme. Chi
aveva vinto quella clamorosa prova di forza? Oggi risulta chiaro che, a
giudicare dal conteggio delle concessioni contenute nell’accordo,
sostanzialmente la bilancia non pendeva da nessuna delle due parti. Certo,
Kennedy si era fissato il non facile obiettivo della rimozione dei missili
avversari e l’aveva raggiunto in pieno. Gli obiettivi originari di Kruscev
erano molto meno chiari e meno definiti in ordine di priorità, ma sta di fatto
che almeno un paio li aveva raggiunti (la garanzia di non invasione per
Cuba e la rimozione dei missili dalla Turchia 2). Immaginiamo per esempio,
come proposto recentemente dagli storici Johnson e Tierney, che «in
quell’alba dell’era spaziale un astronauta fosse andato in orbita nell’estate
del 1962 e fosse ritornato per Natale senza saper nulla della crisi dei missili
di Cuba. Da un lato, non c’erano missili a Cuba quando era partito, non ce
n’erano quando era tornato. Tuttavia […] ora gli Stati Uniti avevano fatto
una promessa pubblica di non invadere. Se poi l’astronauta avesse appreso
anche dell’accordo sulla rimozione dei missili dalla Turchia, questo avrebbe
aumentato la sua sorpresa. Suggerirgli che in sua assenza i sovietici erano
stati sconfitti sarebbe potuto sembrare sconcertante» 3. Tuttavia la catena di
eventi che avevano portato a quella situazione finale era passata per
un’aperta prova di forza, seguita da una pubblica ritirata di uno dei due
contendenti. Inoltre l’accordo sui missili turchi era rimasto del tutto ignoto
al mondo. Il conteggio dei singoli punti dell’accordo non poteva dunque
bastare come metro di giudizio politico del risultato, perché ciò che contava
erano anche le apparenze, e queste pendevano tutte dalla parte di
Washington. I due contendenti lo sapevano bene: difatti, al di là di ogni
dichiarazione pubblica, varie testimonianze mostrano che in privato a
Washington si rallegrarono, mentre al Cremlino si mangiarono le mani 4.
Nella Parte seconda del libro avremo modo di incontrare alcune prime
tracce delle percezione relativa a questo punto presso l’opinione pubblica
internazionale e potremo così tornare a tirare le somme in merito nelle
Conclusioni.

2. La CMC fu un evento così cruciale che, nonostante la sua estrema


brevità, non poteva che avere conseguenze notevoli, su vari piani e anche di
lungo periodo. Alcune tra le più importanti riguardarono il sistema
internazionale dei successivi decenni. «La prima cosa da notare […] –
scriverà, un quarto di secolo dopo, l’americano Bundy – è che nulla di
simile è mai più successo» 5. E ciò non è stato un caso. Quella crisi, ricorda
il sovietico Dobrynin, «ci insegnò una lezione fondamentale su cosa doveva
essere fatto per prevenire la guerra nucleare. Per quasi trent’anni quelle
divennero le regole e i limiti del gioco nucleare, e dell’importante, volubile
e pericolosa relazione tra Mosca e Washington» 6. Conclusioni analoghe
raggiunsero il politologo americano Thomas Schelling («La crisi dei missili
di Cuba fu la cosa migliore successaci dalla seconda guerra mondiale. Ci
aiutò ad evitare ulteriori scontri coi sovietici […]») e Sergo Mikoyan, figlio
del vicepremier sovietico («Se non ci fosse stata nessuna crisi dei missili di
Cuba, forse avremmo dovuto organizzarla») 7. Gaddis conferma:
«Effettivamente la competizione sovietico-americana a partire dal 1962
assunse una certa stabilità, anche una certa prevedibilità. Nessuna delle due
parti avrebbe più dato inizio a sfide dirette alla sfera d’influenza
dell’altra» 8. Sostanzialmente, cioè, dopo un’improvvisa interruzione della
musica e qualche secondo di atterrito spavento, quella che nel capitolo
Verso il climax avevamo definito la «danza» della guerra fredda 9, riprese,
apparentemente uguale a prima; ora però i due «ballerini» sarebbero stati
ancora più attenti di prima nell’evitare di pestarsi i piedi.

3. La CMC fu risolta per mezzo della paura. La paura, condivisa, della


perdita di controllo sugli eventi e delle impensabili conseguenze di una
escalation. I vertici delle due opposte superpotenze, proprio in quanto
concretamente al corrente della gravità della situazione e del reale pericolo
che tutto sfuggisse di mano, da un certo momento in poi sembrarono
provare la medesima paura che stavano provando i popoli dei loro Stati.
Sentirono la stessa «puzza di bruciato nell’aria» (per usare appunto
l’espressione di Kruscev), la stessa angoscia e lo stesso desiderio impellente
di risolvere la crisi che in tante parti del pianeta stava avvertendo la gente
comune, e che stava portando alcuni di loro a scendere in strada a
manifestare per la pace. Forse avvertirono ciò in maniera perfino più
intensa. Fu insomma un desiderio istintivo di vedere al più presto
allontanarsi la nera nube di guerra che stava sovrastando il mondo ciò che
guidò le due superpotenze verso una rapida soluzione. Se a Mosca in quei
giorni, come ha poi vividamente ricordato Kuznetsov, «Kruscev se la fece
nei pantaloni» 10, anche a Washington il timore era tutt’altro che
impalpabile. Decenni dopo, Bundy lo descriverà così: «Non era la paura del
soldato semplice, timoroso di essere ucciso quando arriva il suo turno di
sbarcare sulla spiaggia o raggiungere una cima. Era piuttosto la paura del
funzionario di comando che, avendo ordinato ai suoi uomini di caricare,
improvvisamente sente di aver dato l’ordine sbagliato» 11. Concorda lo
storico James Blight: la «paura nella crisi dei missili produsse
l’apprendimento necessario per fuggirla illesi dalla guerra. […] Verso la
fine della crisi possiamo assistere col senno di poi al rapido e praticamente
totale riavvicinamento tra la paura dei leader delle più potenti nazioni della
Terra e la paura dei cittadini di queste nazioni – tra quelli che nella
settimana del 22-28 ottobre apparvero costantemente in televisione e quelli
i cui occhi erano fissi sulle immagini in bianco e nero dei telegiornali.
Entrambi i gruppi, conducenti e condotti [leaders and led], giunsero a
vedere la crisi evolversi in qualcosa come una tragedia greca dell’era
nucleare, la marcia inesorabile del fato verso l’involontario oblio». Fu a
quel punto che «i principali policy-maker […] afferrarono il controllo della
perversa situazione e ne invertirono la traiettoria» 12. Non c’è nulla di
retorico o di esagerato in queste frasi, come conferma anche un altro
protagonista centrale degli eventi, Robert McNamara: «C’era troppa
dannata paura nella crisi dei missili… Non c’è dubbio che la crisi fu risolta
per via della paura delle conseguenze negative di spingerla ancora oltre.
Leggete Kruscev: era spaventato. Leggete il libro di Bobby: anche il
Presidente era spaventato. E l’intera dannata faccenda cominciò perché i
sovietici erano spaventati… Lo vedete, dall’inizio alla fine, la paura
regnò» 13.

4. La CMC fu risolta anche per mezzo della saggezza dei due singoli
individui che in quel frangente si trovavano al potere. Il ruolo decisivo
svolto da Kruscev e Kennedy è evidente. Pur avendo avuto responsabilità
gravi nel provocare la crisi, entrambi lavorarono poi con impegno e abilità
alla sua risoluzione pacifica una volta che essa era scoppiata. Che la loro
moderazione personale si sia rivelata così decisiva mostra l’importanza che
in taluni frangenti possono assumere nella storia anche figure individuali,
pure in un’era tecnologica e apparentemente impersonale come quella
nucleare. In un’epoca simile, però, ciò può diventare anche fonte di rischi
eccessivi. Secondo gli storici russi Zubok e Pleshakov, «molti ancora non
riescono ad afferrare il fatto che le vite di milioni di americani, sovietici, e
di fatto di tutti i popoli, erano legate a un singolo filo, controllato da due
uomini mortali, John F. Kennedy e Nikita Kruscev» 14. Lo stesso JFK in
quei giorni fu sentito dire alla Casa Bianca: «è folle [it’s insane] che due
uomini, seduti su lati opposti del mondo, debbano essere in condizioni di
decidere di mettere fine alla civiltà» 15. Entrambi i leader furono inoltre
aiutati dalla particolare solidità della loro posizione di comando: il
Presidente USA infatti, oltre che massima autorità politica è – secondo la
Costituzione – anche il comandante in capo delle Forze Armate; quanto a
Kruscev, in quella fase egli non doveva preoccuparsi di nemmeno un
oppositore interno in grado di contraddirlo seriamente, soprattutto in
politica estera 16. Ciò però è circostanza rara. Se la loro leadership fosse
stata più esposta o in bilico, se il comando fosse stato più condiviso,
entrambi avrebbero conosciuto maggiori difficoltà, e in particolare Kruscev
non avrebbe probabilmente potuto permettersi una tale clamorosa ritirata.
Istintive ed inquietanti sorgono le ipotesi di counterfactual history: Robert
Kennedy, per esempio, scrive che malgrado i membri dell’ExComm fossero
tutti «tra le persone più capaci del Paese, […] se uno qualsiasi della metà di
essi fosse stato presidente, molto probabilmente il mondo sarebbe
precipitato in una guerra catastrofica» 17. E secondo sia Schlesinger sia
Sorensen, così sarebbe finita se il presidente fosse stato Nixon 18. Sono
ipotesi non irrealistiche. Perciò, se da un lato, come ha concluso
Schlesinger, «Kennedy e Kruscev meritano la gratitudine dell’umanità» 19,
dall’altro, come avverte Norman Cousins, non si può «assumere che uomini
come loro sorgeranno in azione automaticamente in un momento di
massimo rischio. La ragione domanda che strumenti adeguati siano
approntati» 20.
Infine una certa gratitudine, per i motivi che abbiamo visto, spetta in
qualche misura anche a un oscuro ufficiale sovietico, morto nel totale
anonimato, di nome Vasily Arkhipov.

5. La CMC fu risolta infine anche per mezzo della fortuna. Non la


«sfacciata fortuna del dilettante» nel senso denigratorio inteso da Dean
Acheson (riguardo ai felici esiti delle scelte errate di JFK) 21, ma piuttosto la
fortuna che in una situazione così incandescente, così carica di tensioni, di
armi pronte all’uso e dita sui grilletti, non si sia verificata nessuna scintilla
tale da innescare un’escalation inarrestabile (anche se, come visto, ci si
andò vicino in più d’una circostanza). Tra i sovietici lo ha sostenuto per
esempio Nikolai Leonov (ex dirigente del dipartimento cubano del KGB),
chiudendo così una recente conferenza di studi sulla CMC: «È quasi come
se qualche intervento divino sia giunto ad aiutarci a salvarci; ma a questa
condizione: non dobbiamo mai più andarci così vicino. La prossima volta
non saremo così fortunati» 22. Tra gli americani, invece, è forse McNamara
colui che lo ha sostenuto con più vigore: ora con spiegazioni elaborate, ora
con espressioni colloquiali («We lucked out», cioè all’incirca «l’abbiamo
scampata di fortuna»), ora perfino con gesti (avvicinando pollice e indice e
dicendo: «We were this close», ci andammo vicino tanto così). Nel
documentario-intervista The Fog of War (premiato con un Oscar nel 2003),
egli ha ribadito: «Voglio dire una cosa molto importante: alla fine abbiamo
avuto fortuna. È stata la fortuna ad impedire la guerra nucleare. […]
Uomini razionali» come Kennedy e Kruscev e Castro «si sono trovati a
tanto così dalla distruzione totale delle proprie popolazioni. E questo
pericolo esiste ancora oggi» 23. Sono parole importanti, se si tengono in
conto la competenza diretta di chi le pronuncia ed il fatto che a ottantasette
anni egli non avrebbe avuto interesse, se non ne fosse stato davvero
convinto, a sostenere il ruolo avuto dal mero caso in una crisi che era
passata invece per un trionfo di «calibrata gestione» da parte del governo di
cui era stato membro di spicco.
Anche la storiografia, del resto, concorda sul punto 24. Così, nonostante la
presenza di due leader capaci e in totale controllo decisionale, nonostante la
loro sopravvenuta «presa di coscienza» emotiva e il conseguente sforzo per
ritirarsi e consentire all’altro di fare altrettanto, la CMC arrivò comunque
molto vicino all’escalation, perfino più di quanto si seppe all’epoca. Per
riuscire a tirarsi fuori da quella situazione non sarebbe cioè bastata più
nemmeno la volontà dei due leader, se non si fosse aggiunta un po’ di
semplice buona sorte. Un fattore, anche quest’ultimo, che sarebbe tuttavia
imprudente dare sempre per scontato. Lo statista ha il compito di attivarsi
per anticipare, nei limiti del possibile, i possibili rovesci della fortuna,
costruendo adeguati «argini», come insegnava già, in un’era infinitamente
meno pericolosa di quella nucleare, Niccolò Machiavelli.

6. La CMC sembra mostrare la scarsa importanza, all’atto pratico, della


tanto agognata e costosa superiorità in fatto di armamenti nucleari. Da un
punto di vista militare, infatti, nella CMC contò di più la superiorità di armi
convenzionali (terrestri e navali) che gli americani potevano riversare nel
teatro caraibico. E soprattutto fu la Mutual Assured Destruction (MAD) 25 a
dettare regola. Infatti, una volta stabilito che entrambe le superpotenze
avevano abbastanza armamenti da potersi distruggere vicendevolmente,
contava poco poterlo fare anche trenta o quaranta volte invece che due o tre
volte soltanto. Indipendentemente da quello inflitto, il danno ricevuto
sarebbe stato comunque intollerabile. Questa consapevolezza fu ben
presente ai membri chiave della Casa Bianca (e tanto più a quelli del
Cremlino, che sapevano anche di essere indietro). Il punto tuttavia non è
ancora del tutto pacifico. Per il membro dell’ExComm Paul Nitze, per
esempio, «il fattore decisivo fu la nostra indubbia e indiscutibile superiorità
nucleare» 26. Anche Kuznetsov e il Cremlino sembrarono trarre questa
lezione dalla crisi, lanciando una decennale rincorsa alla parità strategica.
Tuttavia i membri chiave dell’amministrazione Kennedy hanno confermato
vigorosamente la prima tesi. Scrive per esempio Bundy: «Credo che il
risultato del confronto sarebbe stato lo stesso con la parità strategica di quel
che fu con la superiorità americana» 27. In un articolo del 1982, lui e i suoi
colleghi Rusk, Ball, McNamara e Gilpatric spiegarono: «A nostro avviso la
superiorità nucleare americana non fu un fattore importante […] Nessuno di
noi ha mai ricontrollato l’equilibrio nucleare per [trovarvi] conforto in
quelle dure settimane. La crisi dei missili di Cuba illustra non l’importanza
ma l’insignificanza della superiorità nucleare di fronte a sopravviventi forze
di rappresaglia termonucleari. Mostra inoltre il ruolo cruciale di una forza
convenzionale rapidamente disponibile» 28. Infine McNamara: «Nonostante
un vantaggio di 17 a 1 in nostro favore, il presidente Kennedy ed io fummo
distolti [deterred] dal solo considerare un attacco nucleare sull’URSS dalla
consapevolezza che […] decine delle loro armi sarebbero sopravvissute per
essere lanciate contro gli Stati Uniti. Esse avrebbero ucciso milioni di
americani. Nessun leader politico responsabile esporrebbe la sua nazione a
una tale catastrofe» 29.

7. Le comunicazioni nella CMC non furono all’altezza della situazione,


né come velocità né come attendibilità, e quest’aspetto provocò seri rischi.
Kennedy stesso si dirà poi pubblicamente insoddisfatto di quest’aspetto 30.
Un esempio è dato dalla lettera di Kruscev del 26, che come visto impiegò
oltre undici ore 31 per raggiungere la Casa Bianca, col risultato che non si
fece in tempo a rispondere per accettarla prima che ne arrivasse una
seconda che in parte la smentiva. I mezzi di comunicazione tra i governi e
le proprie stesse ambasciate estere, poi, erano quasi grotteschi, come
decenni dopo ammetterà (precisando che lo stesso era valso per il lato
americano) l’ambasciatore sovietico Dobrynin: «Oggigiorno si fa fatica ad
immaginare quanto primitive fossero le nostre comunicazioni di ambasciata
con Mosca nei terribili giorni della crisi cubana, quando ogni ora, non solo
ogni giorno, contava tanto. Quando io volevo mandare un cablo urgente a
Mosca riguardo a una mia importante conversazione con Robert Kennedy,
esso veniva codificato interamente in colonne di numeri (inizialmente
veniva fatto a mano e solo in seguito a macchina). Poi chiamavamo la
Western Union. L’agenzia di telegrammi mandava un messaggero a ritirare
il cablo. Di solito era lo stesso ragazzo nero, che arrivava all’ambasciata in
bicicletta. Dopo che se ne pedalava via col mio urgente cablo, noi
all’ambasciata potevamo solo pregare che lo portasse all’ufficio della
Western Union senza ritardi e non si fermasse a chiacchierare per la strada
con qualche ragazza!» 32. Oggi, ha poi aggiunto, «sembra tutto molto
suggestivo, ma all’epoca non era affatto uno scherzo. Era un’esperienza
snervante […]» 33. Fu anche per questo che Kruscev nella fase finale della
crisi cominciò a trasmettere le sue lettere direttamente tramite Radio Mosca.
Oltre che lente, le informazioni erano anche lacunose e inattendibili (per
contenuto e fonti): per esempio, come visto, ad affrettare ulteriormente i
tempi della decisione del Cremlino il 28 ottobre fu una (errata) previsione
politica che era stata dedotta da un palinsesto televisivo (!) americano 34. Il
fatto che in quell’occasione una notizia inaccurata abbia spinto a favore
della soluzione, mettendo a Kruscev una salutare fretta, non implica che le
cose non possano giocare anche alla direzione opposta.
Una delle molte conseguenze internazionali della CMC, non a caso, sarà
l’installazione, nel 1963, della cosiddetta hot line, la linea telefonica diretta
tra la Casa Bianca e il Cremlino per le comunicazioni d’emergenza 35.
Al tempo stesso, però, va detto che proprio il fatto che all’epoca la
rivoluzione delle comunicazioni fosse ancora a metà portò con sé un
importante risvolto positivo: garantì a Kennedy del tempo prezioso. Quando
la Casa Bianca ottenne le prove delle basi sovietiche, il pubblico (oltre che
l’avversario) ne era ancora all’oscuro. Ciò diede al governo alcuni
fondamentali giorni di tempo per valutare la situazione e scegliere una
forma di reazione. Assai difficilmente oggi, nell’era dei satelliti e di
Internet, un presidente potrebbe godere di un simile lusso 36. E le decisioni
prese d’impulso, si sa, non sempre sono le migliori. Kennedy stesso, lo
abbiamo visto, il primo giorno intendeva reagire alla scoperta delle basi con
un attacco aereo…

8. Malgrado fosse sorta a proposito di specifiche installazioni di armi ed


implicasse rischi del loro uso, la CMC ebbe un carattere essenzialmente
politico, più che militare.
Essenzialmente politici erano infatti, come vedremo tra breve, i motivi
per cui Kruscev stava installando quelle armi, e politici erano i motivi per
cui gli americani non volevano permetterlo. Anche su questo aspetto i nastri
dell’ExComm si rivelano preziosi nel mostrarci come ciò sia apparso chiaro
fin dall’inizio, alla Casa Bianca: «Sarò molto franco con voi», afferma già il
primo giorno dei dibattiti il Segretario alla Difesa, «non credo che qui ci sia
un problema militare» 37. Seguono subito due o tre «that’s right» di
approvazione dagli altri consiglieri. In realtà, infatti, «ciò che davvero
contava a Washington e a Mosca non era l’equilibrio militare, sul quale
c’erano pochi disaccordi, ma il significato politico di quell’equilibrio» 38.
Per Rusk, «se avessimo permesso il dispiegamento di missili sovietici ad
appena novanta miglia dalle nostre coste, la credibilità americana sarebbe
stata distrutta, e ci sarebbe stato un impatto psicologico devastante sul
popolo americano, l’Emisfero Occidentale e la NATO» 39. Non si trattava
dunque di evitare un pareggio numerico in termini di testate atomiche,
quanto di preservare la propria credibilità internazionale; e, dall’altro lato,
non si trattava di lanciare missili contro gli USA, ma di creare l’impressione
internazionale di essere pronti a farlo. Solo una puerile questione
d’immagine, dunque? Non esattamente. Piuttosto, diremmo, una questione
di percezioni internazionali. La mossa di Kruscev, si è detto, era «un
arrischiato tentativo sovietico di cambiare il modo in cui il mondo
percepiva l’equilibrio di potere» 40. Kennedy stesso, a crisi finita, lo avrebbe
ben spiegato agli americani parlando in tv: «La cosa avrebbe mutato
politicamente l’equilibrio delle forze. O, per lo meno, ne avrebbe avuto
l’apparenza, e le apparenze contribuiscono a formare la realtà» 41.

9. Un altro fattore che contribuisce a spiegare il comportamento prudente


tenuto dai due leader una volta che la crisi esplose è che entrambi avevano
vissuto in prima persona la concreta realtà della guerra. Si trattava per
entrambi del secondo conflitto mondiale. Kennedy vi aveva perduto il
fratello maggiore e l’aveva combattuta egli stesso, in Marina,
guadagnandosi tra l’altro una medaglia al valore per i soccorsi prestati
quando i giapponesi affondarono la sua nave nel Pacifico. Kruscev vi aveva
perso il figlio primogenito, e l’aveva vissuta egli stesso ricoprendo il posto
di commissario politico sul fronte di Stalingrado, potendo così osservare
quotidianamente gli orrori di quell’assedio. Entrambi dunque erano nelle
condizioni di immaginare cosa avrebbe significato un nuovo conflitto, tanto
più se nucleare. È dunque più che probabile che quell’esperienza li abbia
aiutati a capire come l’obiettivo prioritario fosse accordarsi in fretta, prima
che si cominciassero a sparare i primi colpi. A tal proposito, si ricordi il
passo della lettera segreta spedita da Kruscev a Kennedy il 26 ottobre: «Se
la guerra dovesse veramente scoppiare, allora non sarebbe in nostro potere
di fermarla, perché tale è la logica della guerra. Io ho partecipato a due
guerre e so che la guerra termina dopo aver travolto città e villaggi,
seminando ovunque morte e distruzione. […] Lei è un uomo militare e
spero mi capirà» 42.
10. Come mai allora Kennedy, pur volendo evitare una guerra, non cercò
di risolvere il problema stabilendo un contatto diretto con Kruscev? Come
mai, oltre a non voler cercare prima un qualche canale diplomatico per
presentare privatamente al suo avversario le prove di cui era in possesso,
Kennedy ritenne inopportuna sino al termine della crisi l’idea di accettare
quel summit propostogli pubblicamente da Kruscev per risolvere lo scontro
in corso? 43 È vero che la duplicità appena mostrata dal premier sovietico
non rendeva molto adatto il clima, ma a nostro avviso ci fu anche un altro
aspetto che giocò un ruolo importante, e che forse non è stato ancora ben
sottolineato. Si trattò di un fattore psicologico prima ancora che politico: il
ricordo di Vienna.
L’aggressione verbale, oltre che politica, che Kennedy aveva subito da
Kruscev nel loro unico incontro ufficiale, l’anno prima, in un momento di
non particolare emergenza, non può non essergli tornata in mente in quei
giorni, scoraggiandolo dall’idea di ritrovarsi nuovamente ad un vertice del
genere, ma in circostanze infinitamente più delicate, per di più di fronte ad
un Kruscev che stavolta avrebbe avuto anche maggiori carte in mano. E se
il sovietico avesse nuovamente assunto un tono aggressivo con lui? A quel
punto Kennedy non avrebbe potuto permettersi di alzarsi e abbandonare il
vertice (perché ciò avrebbe significato dover eliminare i missili per via
militare, portando a quel punto a sicura escalation). Avrebbe dunque
rischiato seriamente di dover accettare di scendere a compromessi alle
condizioni psicologiche e politiche stabilite dal suo avversario.
Quando, il 24 pomeriggio, in un briefing alla Casa Bianca con i membri
del Congresso, il senatore repubblicano Everett Dirksen lo interrogò
sull’eventualità di un summit, Kennedy rispose secco: «Credo sarebbe
inutile» 44. Egli infatti era convinto – come confidò al telefono a
Macmillan 45 – che Kruscev ad un summit avrebbe chiesto, in cambio del
ritiro delle basi di Cuba, almeno la neutralizzazione di Berlino. Cosa che gli
USA e la NATO non potevano concedere. D’altro canto è anche vero che
dopo i chiari segni di cautela mostrati da Mosca il 23 e 24, si poteva sperare
che Kruscev venendo ad un summit proposto da lui stesso (tramite Russell),
non avrebbe più assunto un tono aggressivo come a Vienna. Ma il rischio a
JFK dev’essere parso comunque troppo alto, dati il personaggio, le
circostanze e il fresco precedente austriaco 46. Ciò mette in luce le
pericolose conseguenze della diplomazia aggressiva krusceviana. Se egli
fosse stato meno intimidatorio nel giugno del 1961, forse anche la scoperta
dei suoi missili segreti l’anno dopo non sarebbe dovuta passare per una
simile prova di forza pubblica, con le navi al posto delle parole come mezzo
di comunicazione tra due leader.

11. Perché Kruscev aveva messo i missili a Cuba? Ecco uno degli
interrogativi centrali della CMC, su cui la storiografia non ha mai smesso di
interrogarsi. Quali motivazioni avevano spinto Kruscev a una mossa tanto
rischiosa e destabilizzante? Dopo tutto l’URSS non aveva mai posto missili
nucleari fuori dai suoi confini nazionali, figuriamoci introdurli proprio sotto
il naso degli americani, per di più di nascosto. Non si rischiava così di
fornire agli avversari il perfetto pretesto per invadere l’odiata Cuba? Una
mossa simile sembrava tanto azzardata che il governo americano (con la
sola eccezione del capo della CIA, John McCone) era sicuro che i sovietici
non l’avrebbero compiuta. Se lo fecero, dunque, dovettero almeno avere
degli ottimi motivi. Ma quali? In mancanza di un documento degli archivi
sovietici che delinei precisamente i moventi dell’operazione o il piano da
attuare a dispiegamento ultimato, la riflessione storiografica su questo
punto ha dovuto necessariamente basarsi su deduzioni, sulle memorie di
Kruscev e su altre fonti indirette. La rosa dei motivi possibili comprende:

a) piazzare un deterrente all’invasione per non perdere un alleato prezioso


come Cuba;
b) diminuire (in modo rapido e poco costoso 47) lo svantaggio strategico
rispetto agli USA in fatto di armamenti nucleari (il cosiddetto balance of
power) 48 e farlo anche apparire meno evidente agli occhi del mondo;
c) usare quelle basi come merce di scambio per ottenere qualcosa su
Berlino (vero centro di gravità della politica estera sovietica dell’epoca,
e città per la quale una prova di forza era prevista proprio a novembre);
d) pareggiare la situazione politica di basi nucleari a ridosso dei confini
avversari, introducendo un corrispettivo russo a quelli piazzati dagli
americani in Turchia (oltre che in Italia e Gran Bretagna);
e) dare una prova di coraggio, da parte di Kruscev, alla sua «linea dura»
interna ed esterna (al Cremlino e a Pechino);
f) dare ai Paesi di nuova indipendenza, dell’America Latina e del Terzo
Mondo una dimostrazione della potenza sovietica e della capacità di
Mosca di difenderli coraggiosamente dagli assalti degli «imperialisti».

Come si vede, i potenziali motivi di vantaggio non mancavano. Ma quali


di essi precisamente avevano portato alla scelta? Molto se ne è scritto. Nelle
sue memorie (oltre che già privatamente in un colloquio al termine della
crisi), Kruscev ribadisce ripetutamente e con convinzione la motivazione a)
(difendere Cuba dall’invasione) come assolutamente prioritaria, facendo poi
un breve accenno anche alle motivazioni b) e d) 49. Altre testimonianze di
suoi collaboratori sembrano confermare che la difesa di Cuba fosse
l’aspetto cruciale dell’operazione 50. D’altro canto, però, egli poteva non
avere interesse a svelare nelle sue memorie eventuali secondi fini
dell’operazione, dal momento che essi, oltre a essere meno ‘nobili’, non
erano poi stati raggiunti.
Alla Casa Bianca la valutazione dei suoi moventi era stata molto diversa.
Nei lunghi e accurati dibattiti seguiti alla scoperta delle basi, stupisce
vedere come la motivazione a) non appaia praticamente mai, non venendo
dunque presa seriamente in considerazione come fattore in gioco 51 (se non,
marginalmente, verso la fine 52). Se essa fosse stata considerata, tra l’altro,
ciò avrebbe probabilmente tranquillizzato un po’ gli animi, visto che la
Casa Bianca non aveva comunque reale intenzione di invadere se non vi
fossero stati missili. Questa evidente lacuna di comprensione della strategia
dell’avversario fa il paio con l’erronea convinzione di Kruscev di poter
compiere un tale dispiegamento senza incorrere in una forte reazione
americana. Le due parti non si capivano abbastanza.
Nella valutazione della Casa Bianca – e di Kennedy in particolare – la
motivazione a) era poco più che una copertura propagandistica, mentre
quella principale era piuttosto la c) – Berlino –, con la b) – equilibrio degli
armamenti – come scopo secondario. In particolare l’ex ambasciatore a
Mosca Thompson, che era colui che di recente aveva avuto i maggiori
contatti diretti con Kruscev, aveva sottolineato a più riprese il movente di
Berlino 53. Di analogo avviso, fin dall’inizio, era il Segretario di Stato 54. Lo
stesso Kennedy, come visto, era il primo a temere che Cuba non fosse altro
che una trappola, un diversivo per costringerlo a reagire e legittimare così
l’avversario a rispondere prendendosi con la forza la città tedesca. C’è
anche un episodio che esemplifica questo punto: dopo il compromesso del
28 ottobre, i cronisti furono ammessi nella Cabinet Room al termine di una
riunione dell’ExComm; uno di loro notò che sul tavolo era rimasto un
foglio di bloc-notes. La calligrafia era quella di JFK. Lo lesse. C’era scritta
soltanto una parola, sottolineata e ripetuta cinque volte: «Berlin» 55.

E oggi? Quali sono le indicazioni della storiografia sulle motivazioni


della mossa di Kruscev? Il movente di Berlino è parso a tratti un po’
accantonato – a torto, secondo l’autorevole parere di May-Zelikow e di
Soutou 56 – mentre ha mantenuto credito l’ipotesi della difesa di Cuba,
alimentata dalla soluzione della crisi, dalle memorie di Kruscev e dalle
rivelazioni sull’Operazione Mangusta (della quale il Cremlino aveva notizie
tramite l’intelligence). Alcuni documenti sovietici recentemente emersi
sembrerebbero ora confermare il movente di Berlino 57.
A nostro avviso, quei missili erano stati portati a Cuba per rimanervi.
Essi dovevano rimanere lì per costituire un «faro», un costante simbolo
della protettiva potenza comunista verso tutti i Paesi emergenti che avessero
scelto di porsi sotto la sua egida, nonché come perpetuo, temibile
«reminder» per gli americani dello status di uguaglianza in base al quale la
potenza sovietica desiderava essere considerata. Ciò naturalmente avrebbe
poi aiutato anche a «negoziare» su Berlino, ma risulta difficile credere che
quelle basi fossero state portate lì per poter essere mercanteggiate e
smantellate dopo appena poche settimane in cambio di concessioni ottenute
altrove, seppure su Berlino. Un simile scambio condotto a spese di un
alleato giovane e internazionalmente popolare come Cuba avrebbe infatti
alienato a Mosca ogni simpatia da parte dei Paesi emergenti. In altri termini
Mosca avrebbe compiuto un atto di diplomazia da «ancien régime» così
palesemente contrario alla sua ideologia progressista da divenire
politicamente svantaggioso. Si dirà che un baratto simile (basi cubane in
cambio di basi turche) fu poi effettivamente richiesto, ma ciò fu frutto d’una
decisione d’emergenza, una sorta di «piano B» escogitato in fretta e furia
essendo stati scoperti a metà dell’opera, giusto per non ritirarsi a mani
vuote. Né sembra verosimile che Kruscev fosse machiavellicamente
predisposto a far cadere la preziosa Cuba e i propri missili più sofisticati
(con i relativi segreti militari) in mano americana stimolando un’invasione,
solo in cambio di un qualche implicito «via libera politico» ad un’azione
comunque rischiosissima come quella di procedere davvero a prendersi
Berlino con la forza.
Più plausibile sembra invece che la presenza di basi a Cuba, pur senza
costituire merce di scambio, avrebbe rafforzato la generale posizione
negoziale sovietica, a proposito di Berlino in primis, ma anche di qualsiasi
altra controversia futura.
Nel proporre il piano al suo ministro della Difesa Malinovsky, Kruscev
aveva usato una frase che dice molto dello spirito che la animava: «E se
tirassimo un porcospino nei pantaloni dello Zio Sam?» 58. Ai suoi occhi
aveva cioè il sapore di una sfida generica 59. L’idea di base era proteggere la
preziosa Cuba e somministrare agli americani un po’ della loro «stessa
medicina» 60. Tutto il resto poi sarebbe venuto di conseguenza.
L’Operazione Anadyr era un istintivo rendere agli americani pan per
focaccia, con una mossa silenziosa, repentina e inattaccabile sotto il profilo
legale, per poi annunciarla e andarne a raccoglierne i numerosi vantaggi
politici, sperando riguardassero vari livelli. Così, in novembre, ultimato il
dispiegamento e trascorse le elezioni americane, egli come previsto sarebbe
andato a NewYork per parlare all’ONU (probabilmente riaprendo in quella
sede il problema di Berlino) e avrebbe poi proseguito per L’Avana 61. Lì,
tenendo Castro al suo fianco, avrebbe firmato un trattato militare e
trionfalmente annunciato al mondo la presenza di temibili basi russe a
difesa della piccola Cuba; a quel punto, suscitata una sorpresa
internazionale, non avrebbe dovuto far altro che sedersi e aspettare di
vedere che effetto faceva. Forse non era fuori dai suoi obiettivi anche la
possibilità di far divenire ufficialmente Cuba l’araldo del socialismo per
tutta l’inquieta America Latina, la «testa di ponte» politica da cui iniziare
tentativi di penetrazione politica in un continente fin lì del tutto fuori
dall’area d’azione di Mosca, ma in cui l’antiamericanismo era un
sentimento fortemente crescente. Si ricordi infine che Kruscev veniva da
diversi rovesci politici (in patria e all’estero) ed aveva un pressante bisogno
di raccogliere un successo pubblico, di mettere a segno un colpo che facesse
scalpore. Cuba gliene offriva un’opportunità troppo invitante per non esser
colta. Ci pensò un po’ e poi evidentemente decise di rischiare. A quel punto
convinse se stesso, ben prima e ben più dei suoi consiglieri, che l’avversario
o non avrebbe scoperto nulla o non avrebbe reagito. Fu un esempio
clamoroso di wishful thinking.
Naturalmente finché non verrà fuori dagli archivi sovietici, ed è assai
dubbio che esista, un documento rivelatore sui precisi obiettivi
dell’Operazione Anadyr, tutte le ipotesi resteranno aperte. Ma sembra
sempre più probabile che essa fosse un tentativo di cogliere vantaggi
molteplici con una sola ardita mossa. Detto altrimenti, la storiografia tende
viepiù a sostenere la tesi che potremmo chiamare della «pluralità di
obiettivi», divergendo tutt’al più su quale di essi si trovasse in cima alla
lista. Richter ha scritto che l’iniziativa di Kruscev «non dovrebbe essere
attribuita a nessun singolo scopo politico; più probabilmente, egli intendeva
la mossa come un colpo audace che avrebbe alleviato le pressioni da
diverse direzioni» 62. Taubman l’ha definita «the Cuban cure-all»: la
panacea cubana 63. Schlesinger aveva sostenuto lo stesso concetto 64. May e
Zelikow hanno aggiunto: «Kruscev agiva più per istinto che per calcolo. Se
Berlino o l’equilibrio strategico o la preoccupazione per Cuba fosse
preponderante nella sua mente all’epoca, probabilmente non avrebbe saputo
dirlo nemmeno lui stesso» 65. Già all’epoca dei fatti, del resto,
l’ambasciatore britannico a Mosca, Frank Roberts, aveva ben colto
quest’aspetto telegrafando a Londra quanto segue: «Ricordando la ben nota
propensione di Kruscev per stabilire dei corsi d’azione senza prevedere
correttamente dove lo possano portare, affiancata dal suo indubbio talento
per ottenere il meglio dalla situazione che ne risulta, non posso fare a meno
di avvertire che l’obiettivo di installare i missili a Cuba era generale
piuttosto che preciso, cioè rafforzare la posizione di potere sovietico nel
mondo à toutes fins utiles» 66. Dieci giorni dopo l’ambasciatore ribadiva il
concetto a Londra: «Lo scopo essenziale, secondo il mio giudizio, era
aumentare straordinariamente la forza militare dell’Unione Sovietica
rispetto a quella degli Stati Uniti e così facendo migliorare il potere di
contrattazione dell’Unione Sovietica. Non credo che questo obiettivo fosse
riferito primariamente a una particolare questione (cioè Berlino) in un
particolare momento (questo mese), ma che fosse inteso ad applicarsi a tutte
le questioni e nell’immediato futuro» 67.
Lo stesso Kruscev, infine, giustificando ai suoi colleghi del Presidium la
decisione di ritirare i missili, aveva rivolto loro una frase sibillina:
«Abbiamo avuto successo in alcune cose e non in altre» 68. Ecco, tra queste
varie «cose», è probabile che la difesa di Cuba potesse effettivamente
costituire l’obiettivo più immediato (si ricordi che agli occhi di Mosca
un’invasione era ormai solo questione di poco tempo). Certo però non era
l’unico.

12. Potremmo definire Berlino il «convitato di pietra» della crisi di


Cuba. Fortemente presente, come si è visto, in tutto il processo decisionale
della Casa Bianca, la città simbolo della guerra fredda era anche il luogo
presso il quale ci si attendeva la reazione sovietica. Un documento reperito
negli archivi del governo britannico contribuisce a gettare luce sul modo in
cui la Casa Bianca aveva programmato di reagire a tale eventualità, che
riteneva quasi inevitabile. Si tratta di un rapporto inviato a Londra
dall’ambasciatore britannico David Ormsby-Gore, dopo esser stato ricevuto
da Dean Rusk insieme all’ambasciatore francese (Hervé Alphand) e a
quello tedesco (Wilhelm Grewe). Il pomeriggio del 24 ottobre, il Segretario
di Stato fa chiamare i rappresentanti dei tre maggiori alleati NATO per
aggiornarli sugli sviluppi della situazione. In via del tutto riservata (tanto da
chiedere loro di non portarsi dietro alcun accompagnatore), spiega come
alla Casa Bianca abbiano «pochi dubbi» sul fatto che Kruscev avesse
«programmato di venire negli Stati Uniti nella seconda metà di novembre»
e, «messo Kennedy di fronte» alla novità dei missili, avrebbe «richiesto
grandi concessioni su Berlino». La mossa americana ora doveva aver
alterato i suoi piani. Eppure, riporta l’ambasciatore, «tutti abbiamo
riconosciuto che dovevamo essere preparati a qualche rappresaglia su
Berlino Ovest. Ove ci fosse prova che una seria crisi si stesse addensando
là, gli americani ritenevano che si sarebbe dovuto costituire a Washington
un gruppo consultivo di alto livello, su base quadripartita», in grado di
«riunirsi in sessione quasi permanente» 69. La scelta di disporre un simile
organo quadripartito con i tre più importanti alleati NATO (la cui selezione,
tra l’altro, può rivelarsi istruttiva per l’Italia, come spieghiamo in nota 70),
seppur accuratamente mitigata dall’aggettivo «consultivo», va vista
evidentemente come un tentativo della Casa Bianca di coinvolgere gli
europei almeno negli sviluppi locali della crisi, dopo averla aperta in modo
unilaterale 71.
Ad ogni modo, i temuti sviluppi non si verificarono. Kruscev rifiutò di
allargare la crisi al teatro europeo, nonostante godesse in quella zona di una
netta superiorità militare. Quando uno dei suoi consiglieri al Cremlino (il
viceministro degli Esteri Vasily Kuznetsov) gli propose di reagire con un
controblocco a Berlino, egli si infuriò e rispose che poteva fare a meno di
consigli simili: «Stiamo appena iniziando a tirarci fuori da un’avventura e
tu suggerisci che ci infiliamo in un’altra?» 72.

13. Nella CMC giocò un ruolo anche il fattore geografico. Avendo


iniziato il nostro saggio con un richiamo a Braudel, sarebbe ancor più grave
se dimenticassimo poi la sua lezione non mettendo sufficientemente in luce
il quadro geografico regionale in cui tale crisi globale trovò il suo epicentro,
e con ciò anche l’influenza concreta che esso giocò 73. Per Braudel infatti la
geografia era da considerarsi anch’essa una struttura, in quanto ambiente
permanente al cui interno tutti gli eventi umani da sempre si svolgono,
venendone fortemente benché silenziosamente condizionati. Non fa
eccezione la crisi di Cuba, su cui influì molto la specifica collocazione
geografica dell’isola oggetto del contendere. Vediamo perché.
Cuba è un’isola che sorge nel mezzo del golfo del Messico e dista
appena novanta miglia dalle propaggini meridionali della Florida (le isole
Key West). Questa inesorabile vicinanza al gigante nordamericano ha,
com’è noto, segnato in maniera decisiva tutta la sua storia, dal punto di
vista politico, militare, culturale ed economico. La CMC non fece
eccezione. Infatti:

– proprio perché Cuba era geograficamente così vicina agli USA Kruscev
volle piazzarvi i suoi missili, nell’esplicito desiderio di far provare agli
americani cosa significasse vivere con missili nucleari puntati a ridosso
dei propri confini (così come l’URSS viveva a ridosso delle basi
turche);
– proprio perché Cuba era così vicina agli Stati Uniti quelle basi nemiche
vennero «sentite» – emotivamente, ben prima che militarmente – come
assolutamente intollerabili, come una sorta di anatema, dal governo e
dall’opinione pubblica americana 74. Del resto il fattore della prossimità
geografica era tutt’altro che ininfluente anche dal lato sovietico 75;
– proprio perché Cuba era così vicina agli USA, e dunque nel cuore della
sfera di influenza statunitense, l’inquilino della Casa Bianca (Kennedy
come chiunque altro fosse stato al suo posto) fu in qualche modo quasi
costretto a reagire vigorosamente, sebbene ne temesse i rischi;
– fu proprio perché Cuba era così vicina agli USA e così lontana da
Mosca che, per Kruscev, l’eventualità di accettare che vi iniziassero
ostilità militari (forzando quel blocco che egli pure definiva illegale e
piratesco, o anche solo consentendo che avesse inizio l’imminente
invasione per poi provare a respingerla o poter replicare altrove) non
rappresentò mai un’opzione accettabile. Il leader sovietico infatti era
perfettamente cosciente della lontananza dalla madrepatria di quella
preziosa ma fragile «testa di ponte», della conseguente difficoltà di
portarvi rinforzi militari, della minore esperienza dei suoi
nell’ingaggiare combattimento in quei contesti climatici e territoriali.
Nell’Emisfero Occidentale la supremazia militare convenzionale del
nemico (sia come Marina sia come forze di terra) era netta: quello
scenario era per Mosca tatticamente infelice almeno quanto quello di
Berlino lo era per la NATO. Fu dunque anche questo fattore militar-
geografico (insieme naturalmente al maggior timore di un’escalation
nucleare) che lo indusse a cercare in tutta fretta un accordo con
l’avversario, quasi a tutti i costi, prima che nei Caraibi, in un modo o
nell’altro, si cominciassero a sparare i primi colpi;
– fu proprio perché Cuba si trovava nel cuore dell’Emisfero Occidentale,
cioè di una zona che fino ad allora era rimasta relativamente esente da
basi straniere e dagli aspetti militari della guerra fredda, che la mossa di
Kruscev rappresentava un’alterazione dello status quo temeraria e
destabilizzante; e fu appunto per questo che suscitò una reazione di
rigetto continentale – da parte dell’OAS – di compattezza perfino
imprevista;
– fu proprio perché Cuba era così vicina agli USA che i principali alleati
europei di Washington, diversamente da quanto avrebbero fatto per
un’analoga decisione americana su Berlino, considerarono la mancata
consultazione come uno sgarbo tutto sommato tollerabile. Agli occhi
degli europei, infatti (e De Gaulle in privato lo disse anche
esplicitamente), Cuba era considerabile come un problema interno degli
americani: un qualcosa che, essendo avvenuto nel cortile di casa loro,
gli dava in qualche modo diritto ad una maggiore autonomia
decisionale, per quanto i rischi di rappresaglia nucleare coinvolgessero
poi anche l’Europa. Oltretutto Cuba si trovava geograficamente fuori
dalla zona di applicazione del trattato militare NATO;
– fu infine per la sua vicinanza geografica all’America e per la sua
caratteristica forma oblunga, «a salsiccia», particolarmente esposta agli
sbarchi, che Cuba sarebbe stata difficilmente difendibile nell’eventualità
di una nuova invasione americana. Questa considerazione contribuì non
poco alla decisione di Kruscev di piazzarvi un deterrente nucleare, come
egli ricorda nelle sue memorie 76. Se non voleva assistere impotente alla
perdita di Cuba, Kruscev sapeva che non c’era alternativa, in termini di
qualità o quantità di armamenti convenzionali che potesse inviarvi, che
sarebbe stata sufficiente a respingere l’attacco o a far da deterrente per
prevenirne l’inizio. Date la posizione geografica e la morfologia
indifendibile di Cuba, la sola mossa militare efficace che Mosca potesse
fare per non perdere Cuba era appunto quella di installarvi un deterrente
di tipo nucleare;
– altro aspetto geograficamente interessante, seppure per motivi diversi, è
il fatto che quella che giunse ad un soffio dal diventare la terza guerra
mondiale stesse per scatenarsi nei Caraibi. Ovvero, a differenza delle
prime due, in un luogo extraeuropeo. Ciò a conferma della dimensione
mondiale assunta dalla guerra fredda, nonché dell’avvenuta perdita di
importanza, sullo scacchiere mondiale, del vecchio continente:
quell’Europa che fino a pochi decenni prima era dominatrice del mondo,
arbitro dei propri destini e teatro di tutti i conflitti più importanti;
– infine, a proposito dell’importanza del fattore spazio e delle ricadute che
esso talvolta può avere anche sul piano delle psicologie collettive, si
veda come nella CMC entrino pesantemente in gioco anche alcuni di
quei modi collettivi di intendere la dimensione spaziale che
l’economista François Perroux ha individuato come «complessi
patologici» (complesso di accerchiamento, complesso della piccola
nazione, complesso del popolo senza spazio, e così via). Perroux si
riferiva alle nazioni europee, ma alcuni di questi suoi concetti ci
sembrano essere concretamente all’opera anche nel caso della CMC.
Proprio sulle linee suggerite da Perroux, infatti, gli Stati Uniti ritennero
il regime castrista un nemico intollerabile in quanto si trovava nel
proprio cortile, ed emotivamente lo sentivano come minaccioso ben al
di là della sua portata reale (già da prima dell’installazione dei missili).
Come ha ammesso perfino Wayne Smith, per molti anni funzionario del
Dipartimento di Stato USA relativamente agli affari cubani, «Cuba ha
sulle amministrazioni statunitensi lo stesso effetto che la luna piena
aveva sui lupi mannari: semplicemente perdono la loro razionalità alla
menzione di Castro o Cuba» 77.
Constatazioni speculari valgono per quest’ultima nazione, che assunse
progressivamente una mentalità da «cittadella assediata» (per usare
appunto un’espressione di Perroux) 78, sentendosi fin troppo a rischio di
una seconda invasione da parte del potente vicino e gettandosi
sostanzialmente per questo nelle braccia di Mosca. E cosa sono dunque
tutti questi, se non ulteriori esempi di strutture, qui intese come quadri
mentali collettivi derivanti dallo spazio ambientale? 79 È dunque
evidente qui come il fattore geografico (naturalmente in concomitanza
con altri fattori economici e politici) abbia contribuito a dare luogo a
quadri mentali (in buona parte distorti) di psicologia nazionale, e come
questi ultimi a loro volta abbiano «plasmato» linee politiche e decisioni
dei vertici, che portarono poi a pericolose catene di événement.

14. Se è vero, come mostrato, che Cuba nella CMC costituì poco più che
un campo di battaglia per un più ampio braccio di ferro in corso tra le due
superpotenze mondiali, dal punto di vista cubano però la crisi è
inquadrabile anche e soprattutto al di fuori della guerra fredda, cioè nel
contesto delle relazioni col potente vicino statunitense. Nella storia
dell’isola, infatti, la CMC si inserisce come uno dei vari episodi del lungo
scontro con gli USA. Non a caso i cubani la chiamano «la crisis de
octubre», quasi a distinguerla da altri momenti di tensione con gli USA
capitati in altri mesi dell’anno (l’affondamento della Coubre, Playa Giron,
infiltrazioni e sanzioni varie). Quello che identificava la crisi nella
prospettiva dei cubani non erano tanto i missili nucleari (sulla cui presenza
governo e media nazionali in quei giorni non ponevano l’accento, pur senza
negare), bensì la minaccia di un’invasione statunitense, in una sorta di resa
dei conti finale. Gli USA infatti, come si è detto, già prima della guerra
fredda tendevano a considerare l’isola come una loro naturale propaggine,
bisognosa della loro paternalistica tutela e naturalmente appartenente alla
loro sfera d’influenza. In questo senso, la rivoluzione castrista – che era
nazionalista e antiamericana ben prima di divenire socialista – costituiva
una sfida clamorosa alla storia delle relazioni (asimmetriche) tra i due
Paesi. Anche oggi che la guerra fredda è finita, difatti, una certa ostilità e
paternalismo statunitense verso Cuba permane, seppur in modo meno
virulento, nonostante non ci sia più il timore di un’avanzata sovietica
nell’emisfero occidentale. Sarà interessante verificare se e come tali
sentimenti si evolveranno nella Cuba postcastrista. Al di là degli assetti
politici, però, è ipotizzabile che rimanga comunque un fondo di diffidenza
reciproca. Ad ogni modo, rebus sic stantibus, l’attuale stato delle relazioni
tra i due Paesi offre un altro esempio di una permanenza geopolitica nel
senso delle strutture braudeliane, sopravvissuta ad événement come la CMC
e a congiunture apparentemente interminabili come la guerra fredda 80.

15. Si è accennato qui al diverso nome usato a Cuba per riferirsi alla
CMC (crisis de octubre). L’evento era cioè identificato per il momento in
cui avveniva, non per la peculiarità della sua natura: l’accento era sulla
ricorrenza di momenti di crisi con gli USA, come in una serie di aggressioni
(quella di aprile, quella di ottobre…). Viceversa il nome statunitense,
«Cuban missile crisis», metteva l’accento su quello che lì era sentito come
l’oggetto caratterizzante, la minaccia: i missili nucleari. In Russia, infine, la
crisi è nota sotto un nome ancora diverso: «Kapu6ckuŭ kpu3uc», ovvero la
crisi dei Caraibi. L’accento qui è sull’area geografica, e implicitamente,
sulla sua estrema lontananza dalla Russia (geografica ma anche di interessi
strategici, come vedremo illustrato anche dal politologo Raymond Aron). Il
riferimento russo ai Caraibi, inoltre, comprendeva, oltre all’isola di Cuba,
anche i mari limitrofi, perché è appunto lì che si verificò l’azione militare,
per navi e sommergibili sovietici braccati da quelli nemici 81. Come si vede,
dunque, i tre nomi diversi usati per identificare lo stesso evento
rispecchiano le diverse percezioni nazionali dei medesimi accadimenti.

16. L’invasione di Cuba, che nelle fasi finali della crisi pareva ormai solo
questione di ore, si sarebbe presto rivelata un errore di proporzioni tragiche.
Ciò per due principali ordini di motivi. Il primo è che essa avrebbe
chiaramente aumentato esponenzialmente i rischi di rappresaglie a Berlino
o in Turchia, come pure le possibilità che semplici incidenti portassero
all’escalation definitiva 82. Il secondo è che anche nell’ipotesi (molto
dubbia) che il tutto fosse rimasto limitato a Cuba, l’invasione si sarebbe
probabilmente tramutata in una sorta di Vietnam ante litteram.
Difatti, lungi dall’essere una campagna risolvibile con poche perdite o
pochi giorni, come molti sembravano immaginare, essa sarebbe presto
divenuta una guerra – o più precisamente una guerriglia – tanto logorante
quanto sanguinosa.
Ciò per varie ragioni. Intanto, come gli USA avrebbero presto
sperimentato appunto in Vietnam, un popolo che conosce bene il territorio
su cui si combatte e che lotta motivato a difendere la propria terra, diventa
terribilmente duro da sconfiggere. Quello cubano, poi – forte di un esercito
di quasi trecentomila unità, preparatosi all’assalto ormai da mesi, condotto
da guerriglieri del carisma, fanatismo ed esperienza di Castro e Guevara, e
animato da un nazionalismo innato oltre che abilmente fomentato dal
regime – difficilmente si sarebbe arreso prima di aver esaurito tutte le sue
possibilità di resistenza. Poi c’erano i sovietici, i quali avevano anch’essi
forti motivazioni, come risulta dal dettagliato resoconto della CMC stilato
recentemente dal generale sovietico Anatoly Gribkov, in quei giorni di
stanza a Cuba:

Al quartier generale sovietico – egli scrive – fummo d’accordo che


l’atteso assalto aereo e la successiva invasione alla fine avrebbero
sopraffatto le nostre difese. Tuttavia, decidemmo anche che la
sconfitta iniziale non avrebbe esaurito la nostra resistenza. I
sopravvissuti si sarebbero ritirati nell’interno dell’isola a combattere
fino alla fine come guerriglieri a fianco dei nostri compagni cubani.
Questa decisione non era solo una spacconata da vigilia della
battaglia. Nei fatti pratici, non avevamo alcuna via di lasciare Cuba,
nessun sentiero di ritirata. Ma il nostro piano di ‘resistenza fino
all’ultimo fossato’ incarnava anche lo spirito delle nostre truppe e la
profonda dedizione che tutti eravamo giunti a sentire nei confronti
della Rivoluzione cubana. Fidel Castro non aveva ispirato solo i
suoi compatrioti. Anche noi sovietici eravamo imbevuti dai suoi
ideali e determinazione. Vedevamo la sua causa come la nostra e la
difesa di Cuba come un sacro dovere 83.
Oltre che motivato, il contingente sovietico era anche estremamente ben
armato: anzitutto, laddove alla CIA risultava la presenza a Cuba di circa
diecimila soldati russi, ce n’erano in realtà quarantatremila 84. Inoltre questi
erano equipaggiati molto meglio di quanto risultasse a Washington. Al di là
dei missili balistici, infatti, essi disponevano di artiglieria nucleare (i
cosiddetti «LUNA»: missili a corto raggio armati di testate atomiche, i cui
effetti su un campo di battaglia sarebbero risultati devastanti) 85, e di ottanta
missili da crociera con testata nucleare (i cosidetti «FKR»), ciascuno dei
quali era dotato di una carica esplosiva pari a quella che aveva raso al suolo
Hiroshima. La presenza sull’isola di questi FKR, che costituiva l’elemento
chiave dei piani sovietici di difesa dell’isola, a quanto pare era del tutto
ignota agli americani 86. Non appena l’invasione fosse cominciata, il primo
di questi ottanta FKR avrebbe immediatamente distrutto Guantanamo.
Questa mossa pareva così imminente che, come si è appreso solo nel 2008,
era persino già stato effettuato l’avvicinamento dei missili al bersaglio (tale
riposizionamento avvenne nella notte tra il 26 e il 27, sotto il riparo delle
tenebre). Insomma, come ha ben sintetizzato Dobbs, «l’arsenale nucleare
sovietico a Cuba eccedeva di molto i peggiori incubi di chiunque a
Washington» 87. McNamara, nell’apprendere alcuni di questi particolari solo
trent’anni dopo, restò allibito: «Mi fa orrore pensare cosa sarebbe successo
nell’eventualità di un’invasione di Cuba» 88.
È vero che l’autorizzazione all’uso dei LUNA e degli FKR con testate
nucleari teoricamente sarebbe dovuta venire da Mosca, ma le
comunicazioni erano precarie, ed in circostanze di emergenza il comando
locale avrebbe potuto trovarsi a decidere da solo. Inoltre, di fronte alla
situazione di crescenti perdite sovietiche sarebbe stato assai difficile per il
Cremlino continuare a negare indefinitamente ai propri generali sul campo
l’autorizzazione a difendersi usando le armi più efficaci che erano state
fornite loro. Pressioni anche peggiori avrebbe conosciuto Washington,
perché una volta iniziata l’invasione sarebbe stato politicamente impossibile
per qualsiasi presidente americano accettare di ritirarsi senza aver «finito il
lavoro» (come si usa dire nel gergo militare), lasciando i missili al loro
posto o Castro ancora in sella, e raccogliendo così una seconda bruciante
umiliazione dopo la Baia dei Porci. È presumibile quindi che la cosa,
sempre se non fosse finita in un collettivo rogo atomico nel giro di pochi
giorni 89, sarebbe potuta andare avanti anche per anni, scontrandosi contro
perduranti sacche di resistenza nei monti dell’isola, prima che dal campo
emergesse un risultato definitivo. In questo senso intendiamo dire che Cuba
poteva diventare un Vietnam ante litteram.
Saggiamente allora, pur senza essere a conoscenza di molti di questi
elementi, il generale Taylor (non a caso uno dei pochi tra i capi militari di
cui Kennedy si fidasse) all’inizio della crisi aveva messo in guardia
l’ExComm sul fatto che evitare l’invasione era un’opzione che «dovremmo
considerare molto da vicino prima di infilare il piede in quel profondo
fango di Cuba» 90. Analogo consiglio aveva dato poi il capo della CIA John
McCone 91. Visto e considerato tutto ciò, appare decisamente corretto
l’atteggiamento con cui, nella riunione del 27 pomeriggio, Kennedy
insistette contro buona parte dell’ExComm per accettare, almeno in segreto,
di ritirare i missili dalla Turchia ed accordarsi con Kruscev, piuttosto che
rischiare di dover passare all’azione due giorni dopo. Quando insisteva coi
suoi consiglieri dicendo loro «non vedo come potremmo avere una bella
guerra», probabilmente non immaginava nemmeno lui fino a che punto
stesse usando un eufemismo.
Parte seconda

PERCEZIONI E REAZIONI
1
Dagli eventi alle reazioni
L’avvenimento testimonia […] meno per ciò che è
che per le reazioni che scatena.
Pierre Nora 1

Questi dunque furono gli eventi. Quali le percezioni?


Quali i modi in cui il mondo visse e recepì dei fatti così importanti e
inediti? Quali le reazioni – da quelle diplomatiche a quelle giornalistiche,
da quelle culturali di artisti e pensatori sino a quelle della gente comune?
Quali i sentimenti suscitati dagli stessi eventi in contesti diversi? Quali gli
atteggiamenti prevalenti nelle opinioni pubbliche di Paesi lontani?
Domande a cui è difficile, per non dire impossibile, dare risposte del
tutto esaustive. Gli storici americani Johnson e Tierney hanno recentemente
scritto che «le percezioni sono una delle aree più difficili delle scienze
sociali su cui dibattere in modo convincente. Come possiamo sapere cosa
pensano davvero altre persone? I contenuti della mente degli osservatori
sono problematici da definire, identificare, descrivere e misurare» 2.
Tuttavia, questo non deve spingere a rinunciare in partenza. Per quanto
lacunoso, un tentativo di coglierne qualcosa o di tracciarne un quadro
complessivo potrà comunque fornire elementi utili alla comprensione
storica di quell’evento e delle società che ne furono testimoni e partecipi.
L’opinione pubblica è poi una forza potente, il cui emergere è stata una
delle grandi novità che hanno caratterizzato il XX secolo 3: si tratta perciò
d’un fattore di comprensione storica che non può più essere trascurato. Nel
secolo scorso, mutamenti quali la progressiva alfabetizzazione, un più alto
tasso di istruzione, l’aumentata diffusione della stampa, l’arrivo di nuovi e
potenti media (radio, cinema, televisione) hanno possentemente contribuito
ad accrescere l’importanza di questo pervasivo e sfuggente attore a cui si è
soliti riferirsi come opinione pubblica. A ciò si aggiunga poi ciò che Sergio
Romano ha definito «l’irruzione della cultura nella politica estera» 4; e,
relativamente all’Europa, anche la diminuzione del ruolo della politica
estera verificatasi a partire dal secondo dopoguerra – diminuzione a cui, ha
scritto lo storico Philippe Levillain, «s’oppone [invece] il regno massiccio
dell’opinione pubblica» 5. Così, in Europa e fuori, l’opinione pubblica è
ormai una possente realtà. Come ha scritto Ennio Di Nolfo, «gli uomini
politici dei sistemi democratici e, non meno di loro, quelli che reggono i
sistemi autoritari, non sono più soli nella formazione del processo
decisionale. Essi sono guardati, consigliati, controllati, approvati, ammirati,
idolatrati, criticati, odiati da masse che non accettano più di sentirsi
l’oggetto passivo delle decisioni politiche». Si è assistito al «sorgere di
un’età nella quale gli individui divengono soggetti che chiedono di contare,
anche quando si dà loro soltanto l’illusione di contare» 6.
Di conseguenza, «quell’impalpabile realtà della vita contemporanea che
si chiama opinione pubblica» 7 ha finito per modificare anche il sistema
delle relazioni internazionali. «L’azione di politica internazionale non è più
il segreto delle cancellerie e nemmeno ‘diplomazia aperta’ […] Essa è
divenuta un flusso di informazioni proiettate sulla massa della popolazione
da mezzi di comunicazione sempre più pervasivi. Dalla stampa al cinema,
alla radio, alla televisione, questi mezzi hanno consentito alla gente comune
di assistere sempre più da vicino alle azioni politiche e, in particolare, a
quelle di politica internazionale, ricevendone impressioni e manifestando
reazioni delle quali i governi (anche i più repressivi) non possono non tener
conto». Di qui pure la crescita dei fenomeni di propaganda. Così, «questo
animus, spesso manipolato a caso, spesso intenzionalmente usato da chi
controlla i mezzi di comunicazione di massa, non democratizza la
formazione della politica ma condiziona le azioni dei governi alle reazioni,
vere o attese, del pubblico» 8. Naturalmente parlare di opinione pubblica
comporta parlare anche della politica (che in sede decisionale e diplomatica
ne fa, o dovrebbe farne, le veci e costituirne la guida), dei media (che in
parte influenzano e in parte rispecchiano la percezione della prima) e degli
intellettuali (che, come detto, dell’opinione pubblica possono essere talvolta
dei portavoce, talvolta invece dei controcanti o delle voci fuori dal coro,
testimoni di modi diversi di vedere gli eventi). Sono ambiti che si
influenzano a vicenda ed è perciò difficile comprenderli se li si studia in
modo slegato.
Andiamo dunque a vedere quali furono, di fronte alla crisi dei missili di
Cuba, alcune di queste reazioni. Come preannunciato nell’Introduzione, lo
faremo concentrandoci in questo primo momento su due diversi contesti
nazionali e tre differenti categorie tematiche. I contesti statali che si è scelto
di analizzare qui sono Stati Uniti e Italia. Una scelta che, come detto, è stata
motivata nel primo caso dalla evidente importanza della reazione
statunitense in quanto nazione più direttamente coinvolta nella crisi, oltre
che prima superpotenza mondiale e società in prima linea nella guerra
fredda e nelle tematiche nucleari; nel secondo caso invece dalla sua
posizione di Paese coinvolto indirettamente nella crisi, oltre che dalla
particolare ricchezza di reazioni ivi registratesi, di zone ancora da
approfondire e di materiali inediti reperiti a riguardo. Vedremo che sia per
gli USA che per l’Italia, le reazioni alla CMC consentiranno di individuare
tratti salienti della loro identità nazionale.
Quanto infine alle tre categorie tematiche transnazionali, si è scelto di
concentrarsi sulla reazione alla CMC manifestata rispettivamente da
politologi, religiosi e scienziati. L’esplorazione, in un solo studio, di
contesti tanto vasti ed eterogenei ha portato con sé non solo una maggiore
mole di lavoro, ma anche ineludibili esigenze di sintesi espositiva; d’altro
canto confidiamo che ciò abbia contribuito a fornire uno sguardo d’insieme,
restituendo al lettore un’idea più ampia di quelli che furono i profondi
impatti della CMC presso contesti e «mondi» culturali anche molto distanti
tra loro.
CRONOLOGIA ESSENZIALE

Per comodità di lettura della Parte seconda, ricapitoliamo qui i principali


sviluppi della settimana della CMC noti allora all’opinione pubblica
internazionale.

22 ottobre Discorso di Kennedy


23 ottobre Messaggio del governo sovietico in risposta
all’annuncio del blocco
24 ottobre Entra in vigore il blocco; Kruscev risponde a
Bertrand Russell
25 ottobre Stevenson mostra all’ONU le foto delle basi;
appello del Papa
26 ottobre Ispezione pro forma del piroscafo Marucla
27 ottobre Kruscev propone un ritiro congiunto di basi Cuba-
Turchia
28 ottobre Kruscev annuncia che ritirerà i missili da Cuba in
cambio della garanzia di non invasione dell’isola
2
Stati Uniti d’America

«Probabilmente la notte più silenziosa dopo Pearl Harbor». Così la


mattina del 23 ottobre 1962 il report della televisione americana NBC
descriveva la sera precedente, quella in cui il presidente Kennedy aveva
annunciato in tv alla nazione l’inizio della crisi. A Manhattan, aggiungeva il
notiziario, quella notte il distretto dei teatri era rimasto «praticamente
deserto» 1. Evidentemente dopo aver ascoltato quel cupo discorso ben pochi
newyorchesi avevano avuto voglia di uscire ed andarsi a divertire. Sull’altra
costa del Paese, la stessa assorta pensosità era scesa su un gruppo di
passanti casualmente assembratisi su un marciapiede di Los Angeles per
ascoltare in diretta le parole del Presidente, approfittando dei televisori
esposti in vetrina da un negozio di elettrodomestici. È un cronista del «Los
Angeles Times» a raccontarci la scena:

[…] Appena è apparso il Presidente, il gestore del Southern


California Music Co., con i 10 schermi della sua vetrina tutti
sintonizzati sullo stesso canale, ha alzato il volume dell’altoparlante
esterno […]. La mezza dozzina [di passanti che erano già lì davanti
per caso, NdA] magicamente salì a 25, 30, poi 50, poi fino a 75.
Non parlavano. Ascoltavano. Non applaudivano. Non facevano
smorfie. Stavano per lo più a braccia conserte o con le mani in
tasca. Era come se ciascuno stesse lì da solo, ignaro della folla
intorno. I bus di pendolari che tornavano a casa rombavano accanto
e la folla all’unisono si protendeva in avanti, per non perdere una
sola parola del Presidente. Dentro il negozio, i commessi e i clienti
restavano ugualmente attaccati ad altri schermi tv […] Un uomo
annuiva con la testa in approvazione delle parole del Presidente. Ma
la maggioranza restava in silenzio. Vestivano completi da ufficio e
cravatte. Vestivano tessuti da operai. C’erano anglosassoni,
messicani, negri, orientali, fianco a fianco. […] Il solito trambusto
delle 4 di pomeriggio sulla strada accanto diminuì bruscamente di
volume mentre il Presidente parlava. Le sue parole echeggiavano
dalle radio delle macchine accese a volume alto. Due scolaretti
scendevano per la strada, saltellando e azzuffandosi sulla via di
casa. […] Poi i ragazzi videro la folla e sentirono la voce del
Presidente e si avvicinarono rispettosamente, contagiati dal
comportamento cupo della folla. Quando il Presidente concluse,
l’uomo che aveva annuito per tutto il tempo, gridò: ‘Bravo,
Presidente!’ Forse metà della folla applaudì, ma solo per un istante.
Altri non sciolsero le braccia, non si tolsero le mani dalle tasche. La
folla evaporò mentre l’immagine del Presidente sfumava. Quando
suonò The Star Spangled Banner [l’inno nazionale], una donna
sottile, brizzolata, restò con gli occhi chiusi, le mani giunte insieme.
Probabilmente era una preghiera. Altri due uomini che si erano
trattenuti la osservarono, e poi se ne andarono imbarazzati 2.
Un gruppo di americani guarda in diretta il discorso del Presidente in uno dei tanti televisori esposti
in un negozio di elettrodomestici in California.

Quest’atmosfera di attonito, pensoso silenzio rivelava in qualche modo il


carattere di novità dell’esperienza che si stava presentando alla società
statunitense. Come poi ricorderà l’agente in loco del KGB Georgi
Bolshakov, nei giorni della CMC «l’America per la prima volta sentì il
respiro della guerra alle proprie porte. La guerra bussò alla porta di ogni
americano. Fu anche un punto di svolta psicologico nella mentalità
americana» 3. In quei giorni l’ambasciatore Dobrynin telegrafava a Mosca
che «per le strade di Washington si osserva visibilmente meno gente» 4. «La
Pravda» descriveva ai lettori russi «l’ansia dei felici americani» e i loro
«visi di pietra» mentre ascoltavano il discorso del loro Presidente 5.
«Nell’intera nazione», notava il «Newsweek», «gli americani erano appesi
alle loro radio e televisori, e si affollavano addosso alle tv dei negozi. Radio
a transistor apparvero per le strade, sui treni, perfino nei cinema. Ovunque
c’era una paura feroce che questa volta potesse proprio essere quella [della
fine]» 6. Secondo Douglas Dillon, uno dei membri dell’ExComm, «la crisi
fu unica nel senso che fu la prima volta che ci fu una vera, imminente
minaccia potenziale all’integrità fisica e al benessere dei cittadini
americani» 7. In effetti era proprio ciò che Kruscev voleva ottenere, nel
portare i suoi missili a Cuba: come dirà nelle sue memorie, anche gli
americani «ora avrebbero imparato che cosa significa avere dei missili
puntati contro», e si sarebbero visti «somministrare la loro stessa
medicina», poiché «era tempo che l’America sapesse che effetto fa avere la
propria terra e il proprio popolo minacciato» 8. Subito dopo che la crisi ebbe
imboccato la via della soluzione, Kruscev espresse un concetto simile anche
a Kennedy, scrivendogli così nella sua lettera segreta del 30 ottobre: «In
questa crisi, come dice il nostro detto, non esiste male senza bene. Un male
ha portato un po’ di bene: il bene è che ora la gente ha avvertito più
tangibilmente il respiro delle brucianti fiamme della guerra termonucleare
ed ha una più chiara consapevolezza della minaccia pendente sopra di loro
se la corsa agli armamenti non viene arrestata. E io direi che quanto è
appena successo farà bene specialmente al popolo americano» 9.
Ma era vero? Quanto appena successo fece davvero bene alla coscienza
politica del popolo americano? Non sotto tutti gli aspetti.
La politica

La percezione trionfalistica dell’esito della crisi e le sue conseguenze

Già all’indomani dell’accordo, mentre al Pentagono cominciavano a


mangiarsi le mani per l’«occasione d’oro» sprecata 10, il presidente Kennedy
la mattina del 29 ottobre convocò Arthur Schlesinger per esprimergli il suo
punto di vista sugli eventi appena trascorsi. Sarà poi lo stesso storico a
ricordarlo:

Mi fece notare che la crisi dei missili di Cuba aveva tre


caratteristiche: primo, era avvenuta in una zona dove noi godevamo
di una netta superiorità negli armamenti convenzionali; secondo, la
sicurezza nazionale dell’Unione Sovietica non era direttamente
minacciata; terzo, i russi difendevano una causa che non avrebbero
potuto sostenere in modo plausibile dinanzi all’opinione pubblica
mondiale. […] ‘Penso che in queste controversie prevalga sempre la
legge dell’equità’, proseguì. ‘Quando una delle parti è palesemente
in torto, alla fine deve cedere. […] Erano in torto e lo sapevano.
Perciò, quando hanno visto che noi tenevamo duro, hanno dovuto
ritirarsi. Questo però non vuol dire affatto che si ritirerebbero anche
se fossero convinti di aver ragione e se nella questione fossero in
gioco interessi di vitale importanza per loro’.

Insomma, ciò che JFK confidò a Schlesinger era il suo timore «che la
gente traesse da questa esperienza la conclusione che trattando coi russi ci
sarebbe bastato tenere duro per farli crollare» 11.
In effetti era esattamente quel che stava succedendo. «Ho detto in cento
discorsi», dichiarò per esempio il senatore repubblicano Capehart (che alla
vigilia della crisi era stato uno dei critici più feroci della linea attendista di
JFK), «che se fossimo stati risoluti (firm) e avessimo bloccato e intrapreso
azioni militari contro Cuba, Kruscev si sarebbe messo la coda tra le gambe
e sarebbe scappato, e questo è ciò che sta facendo». Firmness: risolutezza,
fermezza. Ritroviamo il medesimo vocabolo (per limitarci qui ai soli
commenti riportati da questo stesso articolo) anche nelle dichiarazioni del
senatore Keating e dei deputati Pelly e Tollefson. A Key West un soldato
gridò: «Il vecchio Kruscev se l’è svignata da noi» 12. L’autorevole
giornalista Walter Trohan scrisse: «Per la prima volta in vent’anni, gli
americani possono tenere le loro teste alte perché il presidente degli Stati
Uniti ha affrontato il premier della Russia e lo ha fatto indietreggiare» 13.
Joseph Alsop, altro autorevole columnist, intitolava il suo pezzo
semplicemente Victory! 14. Per George Kennan, l’ideatore della politica del
containment all’inizio della guerra fredda, la gestione della crisi da parte di
Kennedy era stata «magistrale» 15. Dello stesso avviso l’ex vicepresidente di
Franklin Roosevelt, Henry A. Wallace 16. Secondo il futuro presidente
Richard Nixon, l’esito della crisi «dimostra nuovamente che quando tu
affronti gli aggressori comunisti, loro indietreggiano» 17. Così anche l’ex-
Presidente Harry Truman: «Sapevo molto bene che se avessimo affrontato
Kruscev frontalmente, questo è ciò che lui avrebbe fatto» 18. Un generale del
Pentagono ricorda che in quei giorni «per tutta la città potevi incontrare
ogni quantità di persone che togliendosi il cappello ti dicevano quanto tutti
noi fossimo bravi – che avevamo davvero scoperto come si faceva, che
quello era crisis management della miglior specie» 19. Un’ondata di
trionfalismo stava insomma attraversando la nazione. Di fronte alla
minaccia reale dell’uso della forza americana, dicevano in molti, il nemico
aveva clamorosamente capitolato. La vittoria era stata totale. «Newsweek»
quella settimana titolò il pezzo sulla crisi Showdown – Backdown (Prova di
forza – Ritirata). Accanto a quel titolo c’era una grande foto di Kruscev, di
spalle, che camminava a capo chino e con le mani dietro la schiena. Vicino,
alcune frasi della sua lettera annunciante lo smantellamento, riprodotte in
grande come certificato della ritirata, e, nell’articolo, l’accenno
all’«accettazione totale delle condizioni del presidente Kennedy» 20.
Analogamente, il resoconto della crisi su «Time Magazine» (Showdown)
seguiva la stessa sequenza logica: dopo aver presentato la quarantena come
una mossa che «avrebbe dato al Premier tempo e nutrimento per
riflessioni», illustrava come «Kruscev improvvisamente propose il suo
cinico baratto» sulle basi turche – che però «Kennedy rigettò bruscamente»,
mentre al tempo stesso «accresceva la velocità del rafforzamento militare
degli USA» e sottolineava «il bisogno di azione urgente». Col che l’ultimo
paragrafo dell’articolo (intitolato Surrender, cioè resa), poteva
inevitabilmente concludere: «il giorno dopo […] Kruscev disse che si stava
arrendendo» 21.
In realtà, lo abbiamo visto, le cose non erano andate proprio in quei
termini. Solo che all’epoca nessuno lo sapeva. L’autocompiacimento,
almeno in parte comprensibile, dopo una gravissima crisi risoltasi
positivamente per il proprio Paese, stava cioè venendo rafforzato
dall’ignoranza di una parte dei termini del compromesso realmente
concluso. «Negammo in ogni luogo che ci fosse stato alcun accordo»,
almeno nel senso stretto del termine, ammetterà decenni dopo Bundy (uno
degli unici nove americani ad essere a conoscenza dell’assicurazione fornita
sul ritiro degli Jupiter in Turchia). Ma, prosegue, «una segretezza di questo
tipo ha i suoi costi. Tenendo per noi l’assicurazione sugli Jupiter
ingannammo i nostri colleghi, i nostri compatrioti, i nostri successori, i
nostri alleati. Consentimmo a tutti loro di credere che nulla di ricettivo era
stato offerto in risposta al secondo messaggio di Kruscev». Bundy, pur
confermando che «rimane unanime giudizio dei sopravvissuti partecipanti
alla strutturazione di quell’assicurazione segreta che sia l’assicurazione
stessa sia la segretezza con cui la circondammo fossero giustificate»,
ammette però che «così incoraggiammo la conclusione che era stato
sufficiente tener duro [to stand firm] quel sabato» 22.
Era così 23. E se «un trionfo autentico può generare una malsana
tracotanza, il pericolo è ancor più grande quando la vittoria è più
immaginata che reale» 24. L’equivoco infatti non sarebbe rimasto senza
conseguenze: lo storico Lebow scrive che «l’uso riuscito della diplomazia
coercitiva da parte di Kennedy condusse ineluttabilmente all’intervento
americano in Vietnam» 25. Una conseguenza tutt’altro che di poco conto.
Dello stesso avviso, già negli anni Settanta, lo storico James Nathan 26.
Né sono solo gli storici a sostenere una simile relazione tra i due eventi.
Bill Moyers, addetto stampa del presidente Johnson, dichiarò poi che nella
cerchia di quel governo, ai tempi del Vietnam «c’era una fiducia» latente,
«un residuo forse del confronto sui missili a Cuba, che quando davvero il
gioco fosse arrivato al sodo, l’altro popolo sarebbe crollato». Anche il
successore di McNamara alla Difesa, Clark Clifford, ricorderà poi che erano
«profondamente influenzati dalle lezioni della crisi dei missili di Cuba» e
che «il loro successo nel gestire una prova di forza nucleare con Mosca
aveva creato la sensazione che nessuna nazione così arretrata e piccola
come il Vietnam del Nord potesse resistere alla potenza degli Stati Uniti».
Lo stesso McNamara ha poi ammesso tale influenza 27.
Oltre a produrre questo vago senso di semionnipotenza, la percezione
distorta dell’esito della crisi di Cuba finì per ritorcersi contro il successore
di Kennedy, caricandolo di una forte pressione politica e psicologica a non
essere da meno di lui in termini di fermezza. Una pressione che i sostenitori
della linea dura non mancarono di sfruttare. L’influente e battagliero
columnist Joseph Alsop, per esempio, dalle colonne del «Washington Post»
agitò esplicitamente quel paragone, esortando Johnson a non «eludere la
sfida» postagli dal Vietnam, così come Kennedy non l’aveva elusa nella
CMC (senza rilevare la netta differenza tra i due scenari, né poter sapere
che Kennedy nella CMC era stato più flessibile di quanto avesse fatto
trapelare). Lyndon Johnson, insicuro di temperamento e perennemente
tormentato dal paragone con Camelot, ne fu oltraggiato 28.
Nel frattempo, inoltre, la crisi di Cuba era divenuta anche materia di
analisi per i teorici del crisis management, che costruivano a tavolino
modelli di comportamento politico, secondo i quali mixando forza e
diplomazia in modo ben calibrato si sarebbe sempre finito per ottenere lo
stesso felice risultato. Sfortunatamente però, come ha scritto Dobbs, «i
leader nordvietnamiti erano poco a conoscenza della ‘teoria dei giochi’
come insegnata ad Harvard e promossa dalla RAND Corporation.
Mancarono di comportarsi in modo ‘logico’ e ignorarono i segnali da
Washington. Invece di ritirarsi, risposero agli Stati Uniti escalation per
escalation» 29.

È presumibile che JFK, se fosse vissuto, non avrebbe commesso un tale


errore, sia perché conosceva i termini completi dell’accordo che aveva
offerto, sia perché la chiacchierata con Schlesinger mostra che egli aveva
compreso la lezione della CMC e la non automatica replicabilità di quel
successo 30. Anche suo fratello scriverà (seppur solo nel 1968 31) che «la
lezione finale che dobbiamo trarre dalla crisi dei missili di Cuba è la
seguente: è indispensabile sapersi mettere nei panni dell’avversario» 32. Del
resto lo stesso JFK, come mostrato nella Parte prima, alla fine della CMC
aveva subito disposto che non si calcasse troppo la mano sull’apparente
ritirata di Kruscev, col rischio di fomentarne desideri di rivincita. A tal fine
aveva immediatamente impostato il tono, definendo «statesmanlike» (degna
d’uno statista) la decisione presa dal suo avversario. Né in seguito egli si
vantò mai in pubblico dei risultati o della gestione della crisi. Tuttavia,
davvero egli fece sempre tutto il possibile per scoraggiare queste letture
superficiali degli eventi nell’opinione pubblica? Così non pare, almeno
relativamente ad un altro episodio emblematico della percezione politica
della CMC negli Stati Uniti: il «caso Stevenson».
Il «caso Stevenson»

«Adlai voleva una Monaco», rivelò il «Saturday Evening Post» l’8


dicembre 1962 nel riportare le dichiarazioni di un anonimo funzionario
della Casa Bianca a proposito di presunte posizioni arrendevoli assunte da
Adlai Stevenson durante la fase segreta della crisi 33. Egli – spiegava
l’articolo – era stato il solo a dissentire col corso d’azione scelto da tutti gli
altri e aveva proposto di offrire ai russi, in cambio della neutralizzazione di
Cuba, la rimozione dei missili turchi, italiani e inglesi e l’evacuazione di
Guantanamo 34. Non era così, anche se, come abbiamo visto, sabato 20
Stevenson aveva effettivamente consigliato di fare anche delle precise
proposte di negoziato ai russi. Ma non aveva avversato la quarantena, e
scrivere che «voleva una Monaco» era una chiara esagerazione, con
evidente intento offensivo. Si è già illustrato quale significato
quell’analogia storica rivestisse per quella generazione politica.
Praticamente era come additarlo, nel pieno dell’esaltazione nazionale, come
la pecora nera traditrice e codarda. Scoppiò infatti un vero «caso». La parte
dell’articolo riguardante Stevenson era marginale rispetto a tutto il resto, ma
non si parlò che di quella. L’accusa venne subito ripresa (il «New York
Daily News» per esempio titolò Disastroso pacifismo di Adlai per Cuba) 35.
Stevenson si sentì umiliato, tanto che considerò seriamente di rassegnare le
dimissioni. Aveva operato con grande efficacia all’ONU durante la crisi,
come riconosciutogli privatamente perfino da JFK, ed ora veniva messo alla
berlina in quel modo. «A quanto pare», commentò amaro in quei giorni,
«viviamo in un’era in cui chiunque è per la guerra è un eroe, e chiunque è
per la pace è un buono a nulla» 36.
«A giudicare dall’angolo, direi che è venuta dall’alto»… Un medico spiega a Stevenson la
provenienza della pugnalata ricevuta. MAULDIN sul «Chicago Sun Times», ripubblicato su «Time
Magazine» 14-12-1962, p. 20.

Ma chi poteva aver voluto quelle accuse? Tra lui e il Presidente c’era da
tempo una latente inimicizia 37. Gli autori dell’articolo (Stewart Alsop e
Charles Bartlett) erano due reporter quotati e ‘ben inseriti’, e il secondo era
anche un amico personale del Presidente (era stato lui a presentargli Jackie).
Contattato per lettera da Bartlett riguardo alla preparazione dell’articolo,
JFK aveva dato ai due reporter accesso a documenti e a persone da
intervistare alla Casa Bianca. Inoltre, a quanto risultò solo in seguito, egli
aveva poi riletto personalmente l’articolo prima che andasse in stampa,
proponendo solo pochi cambiamenti e senza obiettare nulla sulle frasi su
Stevenson, anzi ribadendo di volerle dentro 38. L’impaginazione poi aveva
anche peggiorato le cose. Stevenson provò a difendersi apparendo in una
trasmissione della NBC: «Mi sembra un articolo notevole sotto un aspetto:
per quanto mi riguarda, è errato letteralmente in ogni dettaglio» 39. Kennedy
allora prima mandò a dire a Stevenson, tramite Schlesinger, «che io non ho
mai parlato della crisi di Cuba né con Charlie né con altri giornalisti, e che
quest’articolo non esprime il mio punto di vista». Poi dovette scrivergli
anche un messaggio pubblico per rinnovargli la fiducia, perché Stevenson
era ormai sul punto di dimettersi 40. Ma di fatto Kennedy «evitò di ripudiare
l’articolo, suppur dando un tiepido supporto all’ambasciatore» 41. La
calunnia, che arrivasse direttamente dal Presidente o da qualcuno vicino a
lui 42, lasciò qualche cicatrice su Stevenson. Ball dirà poi che «dopo la crisi
dei missili di Cuba, Adlai si limitava al lavoro di routine» all’ONU,
consapevole che non avrebbe più avuto voce in capitolo sulla politica estera
del governo 43.
Interessante in merito anche il tagliente commento pubblicato sul «New
Yorker» dall’influente columnist e scrittore Richard H. Rovere (in nota) 44.
Il caso Stevenson qui è rilevante in quanto rappresenta un esempio di
percezione distorta della CMC indotta dall’alto nell’opinione pubblica. Il
Presidente fu cioè sostanzialmente lieto che un suo alto collaboratore
venisse visto dagli americani come un appeaser per aver consigliato un
approccio negoziale verso i sovietici, quando lui stesso aveva concluso con
loro un accordo, in segreto. Evidentemente, come ha scritto Freedman, «gli
istinti di JFK durante la crisi erano stati da colomba, ma egli non voleva
un’immagine pubblica troppo da colomba» 45. Secondo George, il caso
Stevenson fu una «chiara prova di manipolazione della stampa per
raggiungere un obiettivo politico», un uso della stampa come «arma politica
[…] per pugnalare un avversario alle spalle» 46. White lo definisce un atto
«cinico, vendicativo e cattivo» 47. Certo così facendo JFK coltivò abilmente
un’immagine di sé da «cold war warrior» e dirottò su altri le critiche della
destra; ma contribuì a diffondere nell’opinione pubblica americana proprio
quella percezione della crisi idolatrante lo stand firm che a Schlesinger
aveva detto di temere.
La reazione di J. Edgar Hoover …

Figura centrale della politica americana di quei decenni di guerra fredda


era J. Edgar Hoover, creatore dell’FBI e suo direttore ininterrottamente per
un cinquantennio e sotto otto presidenti diversi. Nel tempo, egli era
divenuto, secondo la definizione di Schlesinger, «sacrosanto e
intoccabile» 48. Personaggio tanto potente quanto controverso, tanto
popolare in vita (come devoto garante della sicurezza nazionale) quanto
criticato dopo la morte (per l’uso spregiudicato dell’apparato investigativo
da lui formato), Hoover però a quanto pare ebbe nella CMC solo un ruolo
da spettatore. I fratelli Kennedy, infatti, che di lui diffidavano
crescentemente (anche perché temevano potesse rivelare qualcuno dei loro
compromettenti segreti) 49, cercavano di tenerselo buono ma anche a debita
distanza (oltre al fatto che naturalmente l’elaborazione della politica estera
non era di competenza dell’FBI). Così, della presenza dei missili a Cuba
Hoover apprese solo al momento del discorso televisivo del Presidente,
come il resto degli americani 50. Il giorno seguente scrisse una lettera a
Kennedy, da noi reperita negli archivi presidenziali, in cui gli diceva di
essere «grandemente rincuorato dalla sua decisione e azione nella
situazione cubana» e gli assicurava la piena collaborazione dell’FBI
«durante il periodo critico che ci aspetta». Kennedy gli rispose già il giorno
seguente, con un breve ringraziamento, e poi con un ulteriore messaggio
pieno di complimenti il 31 ottobre 51. Anche durante la CMC, insomma, le
due parti continuarono da consumati attori a recitare il copione che li voleva
legati da una stima reciproca. La realtà era completamente diversa 52.
Pur avendo appoggiato la linea di Kennedy nella CMC, comunque,
Hoover (stando a quanto scrive Hack, uno dei suoi biografi) non si sentì
sollevato dal buon esito della crisi, ritenendo che non ci fosse alcuna
vittoria da celebrare contro il sempre pericoloso comunismo 53. Ad ogni
buon conto, la crisi gli aveva fornito l’occasione propizia per disseminare in
quei giorni di emergenza nazionale delle nuove «soffiate» alla stampa che
rinfocolassero i sospetti di filocomunismo sull’entourage dell’altro suo
nemico giurato: Martin Luther King 54. Sebbene non ci siano prove che
Hoover non avrebbe fatto altrettanto anche a prescindere dalla CMC,
l’atmosfera di emergenza nazionale di quei giorni non poté che dargliene
l’occasione migliore – e Hoover non se la lasciò scappare 55.
… e quella di Wall Street

Uno dei barometri della situazione è dato, specie in USA, dalle reazioni
finanziarie. Come reagirono i mercati americani a un simile shock? Essi, a
cominciare naturalmente da quello di New York, risentirono, com’era
inevitabile, del discorso di Kennedy e del conseguente rischio di guerra con
l’URSS, registrando un iniziale brusco ribasso, seguito da un «rimbalzo»
nei giorni successivi. Tuttavia nel complesso non diedero luogo né a ondate
di panico finanziario né a significativi impatti di lungo termine sugli assetti
o le politiche economiche una volta finita la crisi.
L’ambasciatore russo a Washington riportò in un suo cablo a Mosca
l’iniziale instabilità dei mercati: «La preoccupazione riguardo alla
possibilità di una grande guerra è avvertita anche nei circoli affaristici, ed è
riflessa negli acuti alti e bassi delle azioni sul mercato di titoli di New
York» 56. Altri ragguagli in merito li offre il «New York Times», che il 28
ottobre nel riassumere la settimana finanziaria appena conclusasi, scrisse
che a Wall Street «il mercato ha giocato al gatto e topo con le notizie che si
susseguivano». «I broker lunedì mattina sono stati accolti da pile di ordini
di vendita in attesa sulle loro scrivanie. […] Ma quando la settimana è
finita, le ondate shock di acquisti e vendite si erano appiattite e il mercato
ha chiuso vicino a dov’era una settimana prima. […] Quando Wall Street ha
deciso che un olocausto nucleare non era immediatamente in vista, gli
scambi sono tornati ad un passo più normale per il resto della settimana.
[…] Giustificato o meno, il sospiro arrivò quando le telescriventi
riportarono che il premier Kruscev aveva detto al filosofo britannico
Bertrand Russell che l’Unione Sovietica non avrebbe compiuto decisioni
‘avventate’ […]» 57.
In conclusione, dunque, sebbene ci sia stato «per brevi periodi qualcosa
di vicino al panico, mentre Wall Street tentava l’impossibile: adattarsi ad
Armageddon», nel complesso la diagnosi era che «il mercato azionario ha
reagito come uno yo-yo alle strazianti tensioni della crisi di Cuba», ma al
termine di esse, «la comunità finanziaria […] era molto cambiata. Aveva
superato una prova del fuoco. […] Era il primo test simile e il suo valore è
stato nel ‘lasciar uscire il vapore’» 58. Effettivamente, date la natura dei
rischi e la totale assenza di precedenti di una situazione simile, le
ripercussioni avrrebbero potuto essere assai maggiori e sfociare nel panico.
Dalle elezioni di midterm alla firma del Limited Test Ban Treaty

Come risulta dai nastri, l’ExComm nei suoi dibattiti aveva (giustamente)
riservato un’attenzione assai marginale alle possibili ricadute della crisi dal
punto di vista strettamente elettorale 59. Tuttavia l’esito positivo di quella
prova di forza non poté che aiutare il partito del Presidente nelle elezioni
per il rinnovo del Congresso, in programma appena pochi giorni dopo. Il 6
novembre infatti si recarono alle urne poco meno di cinquantaquattro
milioni di americani, ovvero quasi sei milioni in più rispetto alla tornata
precedente (1958): fu in assoluto l’affluenza più alta mai fatta registrare in
USA da un’elezione non presidenziale. I risultati per i democratici furono
relativamente buoni, considerato che le elezioni di midterm
tradizionalmente finivano sempre per penalizzare il partito al momento al
governo. I democratici guadagnarono quattro seggi al Senato e ne persero
solo due alla Camera. I pareri sono però discordi su fino a che punto tali
risultati vadano attribuiti alla CMC 60.
Quel che è certo è che JFK, oltre ad aver numericamente «limitato i
danni» al Congresso, ora soprattutto aveva una statura personale molto
diversa agli occhi del popolo americano. I dubbi sulla sua inesperienza
erano caduti. Aveva dimostrato di saper tener testa a Kruscev, provato sul
campo di possedere coraggio e sangue freddo, raccolto un successo
internazionale evidentissimo. Ora i suoi critici avrebbero avuto meno
argomenti e l’opinione pubblica sarebbe stata forse più disposta a seguirlo
anche su temi più delicati 61. In breve, egli aveva ora maggiori margini
d’azione politica. E, va detto, cercò di metterli a frutto. Insieme a Kruscev e
Macmillan, impresse una nuova spinta ai negoziati per provare ad arrivare a
un trattato internazionale di messa al bando degli esperimenti atomici, fino
a raggiungerne infine l’agognata conclusione. Il Limited Test Ban Treaty
(LTBT), firmato a Mosca il 5 agosto 1963, rappresentò così, anche al di là
dei suoi specifici contenuti 62, un primo segno concreto della nuova
distensione internazionale. Appena pochi mesi dopo aver sfiorato la più
distruttiva delle guerre della storia, le due superpotenze nucleari si sedevano
al tavolo e firmavano insieme la prima misura mai presa per il controllo
delle armi nucleari 63. Un accordo che era chiaramente figlio della CMC.
Oltre a questo, e proprio per preparare il terreno alla firma e alla successiva
ratifica congressuale del trattato, Kennedy chiese esplicitamente
all’opinione pubblica americana di riconsiderare certe mentalità e dogmi
della guerra fredda. Tale nuovo corso troverà il suo culmine nel famoso
«discorso all’American University», dal nome dell’ateneo della capitale in
cui fu pronunciato, il 10 giugno 1963. In quello che viene considerato il suo
discorso più bello 64, JFK, oltre ad annunciare due passi concreti (l’inizio di
nuovi negoziati a Mosca in vista di quel trattato e una ripresa unilaterale
della moratoria sui test atomici USA) decise di parlare di un tema «su cui
troppo spesso abbonda l’ignoranza», benché sia «il tema più importante al
mondo: la pace».

Che tipo di pace intendo, e che tipo di pace cerchiamo? Non una
‘Pax Americana’ imposta al mondo dalle armi di guerra americane.
[…] Parlo di una pace autentica […] La guerra totale non ha alcun
senso in un’era in cui […] una singola arma nucleare contiene quasi
dieci volte la carica esplosiva detonata da tutte le forze aeree alleate
nella seconda guerra mondiale. Essa non ha alcun senso in un’era in
cui i veleni mortali prodotti da uno scambio nucleare verrebbero
trasportati da vento e acqua e suolo e semi fino ai più remoti angoli
del globo e a generazioni ancora neppure nate. […] Parlo perciò
della pace come del fine razionale e necessario degli uomini
razionali. Mi rendo conto che […] non è teatrale come il
perseguimento della guerra, […] Ma non abbiamo compito più
urgente.
Alcuni dicono che è inutile parlare di pace mondiale […] finché i
leader dell’Unione Sovietica non adottano un atteggiamento più
illuminato. […] Credo che possiamo aiutarli a farlo. Ma credo anche
che dobbiamo riesaminare il nostro stesso atteggiamento, come
individui e come nazione. […] Primo: riesaminiamo il nostro
atteggiamento verso la pace stessa. Troppi di noi pensano sia
impossibile […] Ma questa è una convinzione pericolosa e
disfattista. Porta alla conclusione che la guerra è inevitabile, che
l’umanità è condannata […] I nostri problemi sono prodotti
dall’uomo – perciò possono essere risolti dall’uomo. E l’uomo è
tanto grande quanto desidera. […] La pace è un processo, una via di
risolvere i problemi. E la storia ci insegna che le inimicizie tra le
nazioni, così come tra gli individui, non durano per sempre. Per
quanto fisse le nostre preferenze o avversioni possano sembrare, la
marea del tempo e degli eventi spesso porterà cambiamenti
sorprendenti.

Letto oggi, quest’accenno può suonare profetico della fine della guerra
fredda, che allora sembrava dover continuare in eterno.

[…] Secondo: riesaminiamo il nostro atteggiamento verso l’Unione


Sovietica. […] Come americani, noi troviamo il comunismo
profondamente ripugnante in quanto una negazione della libertà e
dignità personale. Ma possiamo comunque plaudire al popolo russo
per i suoi molti traguardi – nella scienza e nello spazio, nella
crescita economica e industriale, nella cultura e negli atti di
coraggio. […] Nessuna nazione nella storia delle battaglie ha mai
sofferto più di ciò che l’Unione Sovietica ha sofferto nel corso della
seconda guerra mondiale. Almeno venti milioni persero le loro vite.
[…]
Se oggi la guerra totale dovesse mai scoppiare di nuovo – non
importa come – […] tutto ciò che abbiamo costruito, tutto ciò per
cui abbiamo lavorato, sarebbe distrutto nelle prime 24 ore. […]
Entrambi siamo chiusi in un pericoloso circolo vizioso, nel quale il
sospetto da un lato genera sospetto nell’altro, e nuove armi
producono contro-armi […].
Perciò […] se non possiamo porre termine alle nostre differenze,
almeno possiamo cercare di rendere il mondo sicuro per la diversità.
Perché, in ultima analisi, il nostro più basilare legame comune è che
abitiamo tutti questo piccolo pianeta. Tutti respiriamo la stessa aria.
Tutti abbiamo a cuore il futuro dei nostri bambini. E siamo tutti
mortali 65.

Non è immediato oggi capire quanto queste parole fossero, per l’epoca in
cui furono pronunciate, audaci, quasi rivoluzionarie. Fu una vera sferzata.
Kruscev lo definì pubblicamente «il più bel discorso di un presidente dopo
Roosevelt» 66. Il testo venne pubblicato dalla stampa di Mosca (cosa
naturalmente tutt’altro che usuale) e molti cittadini sovietici lo ritagliarono
per conservarlo 67. Era una svolta verso il periodo della distensione. Ma cosa
era cambiato? Secondo Fursenko e Naftali, «la crisi dei missili di Cuba
permetteva una nuova retorica. ‘È ben possibile’, ricorderà poi Bundy, ‘che
egli fosse convinto degli elementi chiave del suo discorso all’American
University prima del 1963, ma non sentiva di poterli dire
pubblicamente’» 68. Dello stesso avviso anche lo storico Beschloss: «in
questo discorso non c’era una sola frase su cui egli avrebbe dissentito in
privato anche nel 1960. Il cambiamento non era avvenuto in Kennedy, bensì
in quello che egli considerava il suo ambiente politico» 69. L’origine del
discorso dell’American University e di quel nuovo clima risiedeva insomma
chiaramente nella CMC. Non solo per un diverso atteggiamento tra gli
americani, quanto soprattutto per una consapevolezza nuova nella
leadership, cosciente che quei rischi enormi avrebbero potuto ripresentarsi
se la situazione non fosse stata riportata in fretta su canali di maggior buon
senso da ambo le parti. Come poi ricorderà nelle sue memorie Rusk, «la
crisi dei missili di Cuba fece realizzare a tutti noi nell’amministrazione
Kennedy che uno scambio nucleare sarebbe stato una calamità indicibile.
Eravamo stati sull’abisso, avevamo scrutato oltre il bordo ed eravamo
estremamente sconvolti da ciò che avevamo visto» 70.
L’opinione pubblica

Il supporto degli americani alla Casa Bianca

«Do something». Si può riassumere così il responso chiaramente


emergente dai vari sondaggi effettuati nelle settimane prima della crisi
presso l’opinione pubblica americana riguardo a Cuba. Ancora ignari delle
dimensioni nucleari che stava assumendo il rafforzamento sovietico
dell’isola, gli americani manifestavano già, sul punto, una viva e crescente
preoccupazione. E chiedevano al governo di decidersi a prendere
provvedimenti. Scontenti della linea attendista del Presidente (precisamente
al 62 per cento) 71, essi chiedevano (nella misura del 71 per cento degli
esprimenti opinioni sul quesito) 72 che venisse intrapresa una qualche azione
contro Cuba. Tra le ipotesi concrete, molti menzionavano «bombardare»,
«invadere», «ridurli alla fame». Questa «azione» tuttavia era meglio che
non arrivasse a portare alla guerra. Infatti al preciso quesito se fossero
d’accordo con l’idea di «inviare nostre forze armate a Cuba per aiutare a
rovesciare il regime di Castro» (sostanzialmente un’invasione), solo il 23
per cento si diceva favorevole 73. Ciò forse perché il 51 per cento era
convinto che tale opzione avrebbe probabilmente condotto alla «guerra
aperta» con l’URSS 74. Non a caso la tipologia di azione più gettonata (dal
26 per cento) tra tutte quelle menzionate risultò essere: «Do something,
short of actual war» (fare qualcosa, ma meno di una vera guerra) 75.
Questo il clima, già prima che i missili venissero scoperti. Tanto che il
«Wall Street Journal» scriverà poi che la gente stessa di fatto contribuì a
plasmare la decisione cubana di JFK («attraverso il loro dibattito politico e
la loro chiara indicazione che un’azione forte sarebbe stata largamente
appoggiata») 76.
Non sorprende allora che subito dopo il discorso di JFK del 22 ottobre la
reazione dell’opinione pubblica sia stata di compatto supporto, e
paradossalmente perfino di sollievo, come per un passo a lungo atteso e
finalmente compiuto. Emblematico in tal senso il titolo dell’articolo in
prima pagina sul «Boston Globe» del 23, riportante le reazioni registrate a
caldo tra la gente del posto subito dopo il discorso: «About Time» (Era
ora) 77. Un titolo che sarebbe potuto apparire anche sul quotidiano di
qualsiasi altra città americana. Uno speciale sondaggio Gallup effettuato su
scala nazionale a poche ore dal discorso di JFK mostra che, tra coloro che
l’avevano ascoltato, l’84 per cento lo approvava, il 12 per cento rifiutava di
esprimersi, e solo il 4 per cento lo disapprovava 78. Una compattezza
impressionante, se si considerano la gravità e i rischi della decisione
annunciata. Al tempo stesso, infatti, circa il 20 per cento degli americani era
convinto che la quarantena avrebbe condotto alla terza guerra mondiale 79.
Anche un sondaggio meno scientifico e su scala locale (effettuato a San
Francisco dal quotidiano cittadino) confermava del resto tali proporzioni di
sostegno 80. Le critiche, semmai, erano sul fatto che egli avesse agito troppo
tardi. Qui torna in mente un passo di Bundy, esprimente bene un aspetto che
ci pare costituire una buona ipotesi di spiegazione: si trattava, egli ricorda,
di «un sentimento viscerale»: «in modi che gli americani non si disturbano
a spiegare a se stessi, la prospettiva di testate termonucleari sovietiche su
un’isola della porta accanto era semplicemente insopportabile. […] Lo
stesso Castro non era una minaccia intollerabile alla nostra sicurezza», ma i
missili sì. All’epoca per il governo semplicemente «non era possibile […]
affermare che missili termonucleari sovietici a Cuba fossero accettabili» 81.
E difatti la stampa di quei giorni documenta chiaramente come le azioni di
JFK venissero «largamente acclamate» 82. Nel presentare le reazioni raccolte
in varie città, il «Los Angeles Times» spiegava che «i sentimenti della
maggioranza schiacciante» della gente venivano espressi in «commenti
come: ‘Sono fuori di me per lo spavento, ma andava fatto’». In particolare
due precise frasi «venivano ripetute da quasi un intervistato ogni cinque»,
ovvero: «da qualche parte dovevamo tracciare una linea» e «siamo stati
presi in giro abbastanza a lungo». Tra i molti che le avevano usate, «vari
contadini del Wisconsin, lavoratori di fabbrica e negozianti in Indiana, un
tassista nero a Chicago, un venditore a Cleveland». L’articolo sottolineava
poi il pessimismo delle loro aspettative, con risposte come «qualche sparo è
destinato ad esserci», e «sta arrivando una guerra tipo Corea» fornite
continuamente, da tre intervistati ogni cinque. «Solo una minoranza degli
intervistati crede che ‘Kruscev si ritirerà’».
Nella capitale, riportava il «Washington Post», «la gente sembrava
guardare alla crisi come inevitabile». Un barista locale aveva «suonato
come il diapason per un coro travolgente quando ha detto: ‘Era ora che
facessimo qualcosa. Doveva accadere, ed è parecchio in ritardo’. […] Non
una sola voce tra le oltre cinquanta intervistate ieri era contraria» alla
posizione del Presidente. Tra loro, due soldati che avevano appena
terminato la leva si dichiaravano pronti a tornare subito in servizio 83.
Nella città dei Kennedy, la musica era la stessa. «La decisione del
presidente Kennedy […] ha avuto l’approvazione completa dei bostoniani
intervistati», riferiva il «Boston Globe», registrando anche il seguente
emblematico scambio di battute tra due giovani locali: «‘Preferirei essere
morto che rosso’ [I’d rather be dead than red – slogan tipico di quegli anni,
dove ‘rosso’ stava per ‘comunista’, NdA] ha detto un risoluto studente della
Boston University. ‘Non sono d’accordo’, ha interrotto un secondo. ‘Io
preferirei essere rosso che morto, per la semplice ragione che preferisco
rimanere vivo’. Poi ha aggiunto, quasi a scusarsi, ‘Naturalmente voglio sia
chiaro che io appoggio completamente la politica del Presidente’» 84. Il
sindaco di Boston invitava i suoi concittadini «amanti della libertà» a
esporre la propria bandiera americana, «ogni giorno finché la presente crisi
non sia passata» 85.
Nel Sud della California una stazione di reclutamento registrò un
incremento del 100 per cento delle domande di arruolamento 86. Altre
lampanti conferme dell’appoggio al blocco emergono dal «Dallas Morning
News» 87. Quanto all’area urbana più vicina all’occhio del ciclone, quella di
Miami, qui l’entusiasmo della gente per il discorso di Kennedy era
ugualmente forte 88. Né il supporto si limitava all’America delle grandi città.
Nel Midwest, per esempio, un sondaggio realizzato in Minnesota registrava
un appoggio alla quarantena addirittura da parte del 97 per cento degli
intervistati locali 89. Anche in una cittadina rurale dell’Indiana (Frankfort),
la gente mostrava analogo sollievo per un’azione a lungo attesa, pur
ammettendo che «potrebbe significare la guerra» 90. Spostandosi verso il
West del Paese, «dal Kansas all’Idaho, dallo Utah all’Arizona», l’inviato
del «Washington Post» registrava tra la gente «espressioni estremamente
bellicose», molte delle quali palesemente proinvasione («Spacchiamogli la
testa a Castro», «Dovremmo mandar giù i marine domani»). Il senatore
dell’Arizona Barry Goldwater, che era anche il più influente esponente
repubblicano a livello nazionale, appariva quasi moderato in confronto ai
suoi elettori, definendo polemicamente l’azione di Kennedy «benvenuta ma
tardiva» 91. Ecco poi i significativi ritratti emergenti da due tradizionali culle
dell’isolazionismo quali Idaho e Kansas. Il primo viene descritto
dall’inviato del «Los Angeles Times» come uno Stato «sempre
essenzialmente conservatore», che ebbe già un «ruolo chiave nell’affondare
il sogno di Woodrow Wilson di inserire gli Stati Uniti nella Società delle
Nazioni» e che ancora nel 1962 veniva descritto come «‘isolato’, ‘fuori dal
sentiero battuto’». Comprensibile, data la sua posizione geografica, nel
lontano Nord-Ovest, al confine col Canada.

Eppure – prosegue l’articolo – sembrerebbe che in quest’era di


comunicazioni istantanee, una crisi mondiale non sia più lontana del
più vicino apparecchio televisivo [si ripensi qui alle teorie di
McLuhan esposte nella Premessa, NdA], e ben poche persone in
Idaho sono fuori dal raggio della televisione. Perfino i mandriani di
pecore basche dell’Idaho, che negli anni passati potevano andare
avanti per settimane senza vedere un altro essere umano, si portano
televisori funzionanti a batteria quando escono a condurre le greggi.
‘Credo ci sia qui tanto interesse negli affari internazionali quanto in
ogni altra parte del Paese’ ha affermato un reporter di un piccolo
quotidiano dell’Idaho […]. ‘Non era così prima di Pearl Harbor, ma
la seconda guerra mondiale e la televisione hanno cambiato tutto
questo’. L’ordine di quarantena del presidente Kennedy e il suo
avvertimento ai sovietici hanno colpito una corda estremamente
rispondente. Di fatto praticamente l’unica critica che si sente è che il
Presidente avrebbe dovuto fare la stessa cosa un sacco di tempo fa.
[…] Stranamente, quest’area sembra avere un orgoglio civico quasi
perverso nel considerare se stessa come un primo bersaglio. E
potrebbe ben esserlo 92.

Non diversi gli umori raccolti subito dopo l’annuncio dello


smantellamento nel bel mezzo del Midwest. «Stando qui nel cuore della
nazione», scriveva dal Kansas il cronista del «Christian Science Monitor»,
«con gli aceri che ingialliscono incandescenti nella luce del mattino, nessun
posto degli Stati Uniti sembra più distante dal premier sovietico Nikita S.
Kruscev e dalla sua manovra cubana. Ma qui a Lawrence, sul fiume Kansas,
la gente era silenziosamente preoccupata. […] L’opinione condivisa sembra
essere: ‘Eravamo parecchio scocciati. Siamo pronti a colpirli adesso, se
dobbiamo’. […] Questo cosiddetto paese isolazionista è pronto a qualsiasi
cosa accada, ora o in seguito. […] Lo stato d’animo qui è di occuparsi
abbastanza placidamente dei propri lavori agricoli o di commercio,
sentendo che l’uomo che hanno eletto all’incarico a Washington ‘sa cosa è
meglio’» 93.
Un’altra categoria di documenti che illustra bene il favore riscosso dalla
mossa del Presidente sono i telegrammi e messaggi inviati in quei giorni
alla Casa Bianca. Tra le decine e decine di migliaia che arrivarono 94, la
media fu di 1 contrario ogni 22 in favore 95. Ne presentiamo qui appena
qualcuno, tra quelli che abbiamo reperito nell’archivio presidenziale di
Boston. «Suo avvertimento stasera quanto mai tempestivo […] Si è reso
inconfondibilmente chiaro e il mondo libero è pronto ad appoggiarla. Come
un serpente l’URSS si ritirerà perché la pistola è puntata alla sua testa. Se il
colpo va sparato, meglio ora che quando non saremo più in posizione di
rispondere [to retaliate]. La prego venga a Brooklyn a spiegare la sua
posizione. Abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia [a shot in the
arm] dal nostro leader e comandante in capo». Un ammiraglio in pensione
da Tampa scrisse: «Come veterano di entrambe le guerre mondiali, sto
tenendo la testa più alta grazie al discorso del Presidente di ieri. Sono
ancora pronto per [tornare in] servizio se richiesto» 96. Qualcun altro
addirittura sfociava nel totale fanatismo a sfondo religioso 97. C’era tuttavia
anche chi invitava alla prudenza: «Data possibilità guerra nucleare, non
metta in pericolo i nostri impegni [derivanti dai] trattati. Porti il problema
Cuba all’ONU». Un professore di storia dall’Università di Santa Barbara
consigliava: «Per prevenire la guerra nucleare, sia esplicito. Chiarisca che
benché non approviamo il regime di Castro, non lo rovesceremo. La nostra
inalterabile domanda è solo la rimozione dei missili. Ciò non è chiaro dal
discorso del Presidente» 98. Oltre ai telegrammi, giunsero poi miriadi di
cartoline e semplici messaggi manoscritti, in cui anche lo stile appare più
colloquiale: «Congratulazioni […] Andiamo avanti tutta e risolviamo il
problema di Cuba una volta per tutte. Lei ha il potere – Lo usi! All’inferno
l’opinione mondiale! Preoccupiamoci degli USA. L’opinione mondiale non
ha fermato India, Cina Comunista, Russia, Gran Bretagna, Francia. Badano
solo a se stessi. Prendiamoci cura dello Zio Sam, una volta tanto». Un altro
diceva: «Congratulazioni!!! Per la prima volta da quando Teddy Roosevelt
lasciò la presidenza nessun presidente ha mai imitato così da vicino il suo
coraggio e schiettezza in un’emergenza 99. Chiami il loro bluff, Jack!!! Non
vogliamo un’altra Pearl Harbor!!» O ancora: «Caro Presidente, per favore
prometta al suo e nostro popolo americano: NO APPEASEMENT!» (tornava
qui il ricorrente riferimento agli anni Trenta). Un altro cittadino inviava un
ritaglio di giornale con la faccia di Kruscev, sulla cui fronte aveva aggiunto
a penna: «Serpente umano verso gli USA». Un altro informava JFK che
nell’azienda dove lavorava «il 99 per cento di noi sono con lei al 100 per
cento. Non indietreggi di un pollice da quei viscidi doppiogiochisti asiatici
topi rossi. Preferirei essere morto che rosso [I’d rather be dead than red –
di nuovo questa frase tipica di quegli anni, NdA]. INVADA CUBA. Liberi
quella gente ingannata. Cuba è troppo vicina agli USA per essere dominata
dai rossi. Questa è la sua occasione di liberare Cuba. Prestigio per gli USA
in tutto il mondo. Siamo l’unico Paese rimasto, chi [altro] può resistere e
vincere?». Una donna, in termini più urbani, esprimeva concetti analoghi
(«Non porga di nuovo l’altra guancia. Non indietreggi. Mandi via i
‘commie’ da Cuba. Non dimentichi che i ‘commie’ mentono, barano, e non
mantengono mai la parola. Le nostre preghiere sono con lei»). Un’altra
donna infine parve racchiudere esattamente il pensiero della maggioranza,
scrivendo in bella calligrafia: «Caro Signor Presidente, era ora! [it’s about
time! – proprio come il titolo del «Globe»] Tutta l’America è dietro di lei!
ORA sì che sono fiera d’essere americana! Cordialmente…» 100.
Un sostenitore dell’invasione a Washington.
Vignetta a sinistra: un consigliere mostra a JFK il massiccio «supporto di Congresso e alleati» alle
sue decisioni, aggiungendo: «E dovrebbe vedere la fila di supporto che c’è fuori!» (indicando il
popolo americano in coda). Vignetta a destra: l’aquila degli USA intima «Mollalo!» al topolino
castrista che tiene un missile tra le zampe. («The New York Times», Oct. 28, 1962, p. E4, 178.)
Far fronte alla paura

Naturalmente non proprio tutti erano così sicuri e battaglieri. Delle


proteste che pure si verificarono parleremo in seguito. Ad ogni modo paura
e tensione accompagnavano un po’ tutti, scettici e avanguardisti. Prendendo
diverse forme. In varie città per esempio si registrarono ondate di panic
buying: frenetiche corse agli acquisti di beni essenziali indotte dal timore
che essi potessero diventare indisponibili da un momento all’altro a causa
dell’inizio delle ostilità. Così in quei giorni casalinghe preoccupate
assalirono i supermercati per fare grandi scorte di cibi in scatola, acqua,
latte, farina e altri generi di prima necessità. I fenomeni di panic buying si
verificarono però in maniera casuale ed entro limiti sostanzialmente
comprensibili, date le circostanze. Si ebbero per esempio in città quali
Dallas, Los Angeles, Miami, Forth Worth (dove il direttore della Protezione
Civile spiegò ai concittadini: «L’idea è di sopravvivere, non di
ingrassare») 101; ma a quanto pare non si riscontrarono in modo rilevante in
molte altre città come San Francisco, Boston o Chicago. Nella stessa Los
Angeles certi supermercati registravano un volume di attività di normale
routine, «mentre negozi appena poco distanti riportavano acquisti dal 50 al
400 per cento sopra la norma. ‘È fantastico… Mai visto nulla di simile’
esclamava un gestore di supermarket» nel quartiere di North Hollywood 102.
«Sono matti» commentava un suo collega nello stesso quartiere. «Una
signora sta usando quattro carrelli della spesa in una volta sola. Un’altra ha
comprato dodici pacchi di detergenti. Cos’ha intenzione di fare, il bucato
dopo la Bomba?» 103 Anche le vendite di armi (fucili, carabine, pistole,
proiettili) riscontrarono un improvviso boom in varie località 104. A Dallas,
per esempio, uno dei tanti esercenti sovraccarichi di clienti lo spiegò così al
reporter: «La gente è consapevole riguardo alla sopravvivenza [nucleare].
Vogliono pistole per proteggersi la casa» 105. A New Orleans un negozio finì
di colpo tutte le scorte di radio a transistor.
A Washington, del resto, perfino alcune mogli dei più alti ufficiali di
governo fecero preparativi simili, su discreto consiglio dei loro ben
informati mariti 106. In certi casi gli stessi funzionari governativi si recarono
a far scorte: l’assistente personale di Robert Kennedy, per esempio, in quei
giorni entrò in un negozio di escursionismo per comprare una tenda e degli
zaini, in vista di un’eventuale fuga in campagna dei suoi familiari all’ultimo
minuto. Alla cassa fu riconosciuto da un collega, parimenti impegnato, il
quale riuscì a dirgli soltanto: «Andiamo in campeggio, non è vero?» 107. Una
scena che per i due dovette essere surreale.
In taluni casi la gente cominciò a prendere anche precauzioni insolite:
prescrizioni di ricette mediche senza necessità, cambi di pneumatici ancora
in perfette condizioni, boom di partenze di stranieri registrato all’aeroporto
di San Francisco per voli intercontinentali, chiara diminuzione dei depositi
monetari fatta registrare in quella precisa settimana dalle banche di New
York, e così via 108. Tutto ciò però non sfociò nel panico generalizzato,
restando anzi entro dimensioni tutto sommato contenute e più che
comprensibili considerate le circostanze di forte e improvviso stress.

Un altro settore che in quei giorni conobbe un piccolo boom fu quello


delle funzioni religiose. La frequenza a luoghi di culto registrò in quella
settimana un aumento oscillante a livello nazionale, secondo una stima, tra
il 10 e il 20 per cento 109. Parecchie chiese restarono aperte notte e giorno
per venire incontro alle improvvise esigenze di raccoglimento o pentimento
degli americani 110. Contemporaneamente, i grandi e piccoli raduni religiosi
tenuti dai vari predicatori – fenomeno tipicamente americano 111 –
aggiornavano i loro sermoni alla luce dei drammatici eventi in corso.
Questo aspetto riaffiora dalle inserzioni pubblicitarie annuncianti tali
incontri nelle pagine interne dei quotidiani di quei giorni. Accanto a temi
tradizionali quali «Sei onesto?», «Nuova vita attraverso la fede» e simili,
ecco ora comparire anche sermoni intitolati: «Dio risparmierà l’America?»
o «Sul precipizio – Il mondo al bivio». E ancora: «C’è un’alternativa
all’annientamento?»; «Se sei turbato dalla crisi di Cuba, preoccupato del
disastro atomico […] L’attuale crisi mondiale e la profezia della Bibbia […]
ingresso libero»; o «La crisi mondiale chiama all’azione! […] Una
stimolante e minuziosa risposta al nemico. […] Dio certamente ci parla sul
problema attuale» 112.
Dal canto loro, i rappresentanti del clero delle varie chiese e
congregazioni religiose locali, spesso intervistati dalla stampa, invitavano a
intensificare l’impegno devozionale tramite veglie e speciali giornate di
preghiera, aventi come oggetto la pace, la capacità di «discernimento» del
Presidente, «il nostro Paese», ma anche preghiere per il resto del mondo e
«perfino per i nostri nemici» 113. Sebbene il generale consenso per la
posizione presa da Kennedy si estendesse in larga misura anche al clero 114,
qualcuno di loro, raramente, si spingeva finanche a mettere in questione le
politiche perseguite in passato dal Paese verso Cuba («non possiamo dire
che essa abbia del tutto torto e noi del tutto ragione. […] Abbiamo la
coscienza sporca riguardo a Cuba. L’abbiamo sfruttata per un lungo
periodo», disse ai fedeli il vescovo della Chiesa metodista di
Washington) 115. Emerge comunque una certa varietà di posizioni del clero,
talvolta anche tra esponenti della medesima confessione 116, nel contesto di
una sensibilità lievemente maggiore della restante popolazione riguardo ai
rischi incorsi nella crisi. La Chiesa presbiteriana, per esempio, proclamò per
quella domenica una giornata di preghiera e pentimento, e – pur «pregando
come leali cittadini per la nostra Nazione e la nostra stessa sicurezza» –
invitò a ricordarsi anche che «c’è una lealtà che deve trascendere il nostro
patriottismo, una lealtà alla razza umana che si estende a tutta l’umanità,
amico o nemico» 117. Il presidente della Chiesa episcopale, Arthur
Lichtenberger, si disse contrario a un’invasione unilaterale di Cuba e a
favore piuttosto di una soluzione negoziale, anche accettando di rimuovere
le basi turche 118. «Dobbiamo negoziare», affermò pure il ministro
unitariano rev. Harrington nel suo sermone domenicale a New York 119.
Telegrammi e appelli a risolvere la crisi tramite l’ONU giunsero anche dai
quaccheri, tradizionalmente pacifisti 120. I vescovi cattolici americani invece
inviarono da Roma, dove si trovavano per il Concilio Vaticano II, un invito
ai cattolici americani a pregare per il presidente, il governo e la
preservazione della pace «nella libertà e nella giustizia» 121. Infine, nelle
sinagoghe e nei templi di New York i rabbini chiesero al Paese di unirsi
compattamente dietro il Presidente, ma al tempo stesso innalzarono
preghiere per il successo delle mediazioni di U Thant, affermando nei
sermoni che «se l’umanità vuole sopravvivere, dev’esserci un governo
mondiale» e che «solo le Nazioni Unite possono esercitare un qualche
controllo sulle armi nucleari» 122. Un’osservazione che non ha perso
d’attualità.

Si calcola che gli americani che durante la settimana della CMC


lasciarono le proprie città per spostarsi in aree rurali (teoricamente meno a
rischio di divenire bersagli nucleari) furono forse fino a dieci milioni 123. Un
sondaggio rivelò che in quei giorni un americano su tre aveva discusso coi
familiari cosa fare in caso di guerra, mentre uno su venti aveva considerato
di lasciare la propria casa 124. Tra questi, anche la famiglia del futuro
romanziere Tom Clancy, come poi ricorderà egli stesso 125. Né mancò
qualcuno che salì sul primo volo in partenza per l’Australia, nella speranza
di essere al riparo almeno lì 126. Chi invece restava, spesso ebbe voglia di
risentire parenti o amici (non sorprendentemente, il numero di chiamate
interurbane effettuate da Washington risultò in quei giorni in netto
aumento) 127. Moltissimi altri presero freneticamente a chiamare le autorità
locali chiedendo informazioni e rassicurazioni: come a Charlotte, North
Carolina, dove il direttore della Protezione Civile implorò i cittadini di non
intasare le linee ogni volta che sentivano strani rumori 128. Please don’t call
Times for Cuba information, titolava anche un trafiletto sul «New York
Times» del 25, spiegando di aver ricevuto in redazione ben quindicimila
chiamate solo nelle ultime nove ore 129. In Wisconsin furono gli stessi
ufficiali della Protezione Civile a contattare le stazioni radio e tv per spiegar
loro quali informazioni avrebbero dovuto fornire agli ascoltatori in caso
scoppiasse la guerra atomica 130. Molti altri però – la maggior parte, si
direbbe – si limitarono a continuare la loro vita di tutti i giorni 131. O perché
non credevano che si sarebbe arrivati davvero a una guerra nucleare, o per
semplice mancanza di alternative efficaci. «Suppongo che dovrei essere
preoccupata», affermò per esempio una signora di Washington, «ma sono
sicura che se ci bombardano non c’è una sola cosa che io possa farci, quindi
sto solo andando avanti come se tutto fosse normale» 132. Anche ignorare la
crisi del resto era un modo di reagire ad essa: significava impedire ad eventi
che si sapevano al di sopra del proprio controllo di intromettersi nella
propria vita prima del tempo 133.
Cercando rifugio. Misure pubbliche e private di Civil Defense

Qualcosa da fare in realtà teoricamente ci sarebbe stata. Solo che al


momento della verità risultò definitivamente chiaro quanto si trattasse di
un’opzione di fatto impraticabile. Si trattava delle varie misure di
Protezione Civile (Civil Defense), di cui nei mesi precedenti s’era fatto un
gran parlare. Esse ruotavano principalmente intorno all’idea di rifugi
antiatomici (pubblici o privati), i quali – ove presenti e ben equipaggiati di
scorte alimentari – presumibilmente avrebbero potuto forse riparare dagli
effetti del fallout radioattivo coloro che non fossero stati direttamente
coinvolti in un attacco atomico. Già negli anni Cinquanta erano state
condotte esercitazioni collettive e simulazioni annuali di attacchi atomici (le
cosiddette Operation Alert), attuate per verificare il grado di efficacia delle
precauzioni prospettate per un’emergenza del genere. Il pubblico era però
rimasto molto freddo a riguardo 134. La campagna per la Civil Defense e la
costruzione di rifugi era poi stata lanciata con più enfasi da JFK nel
discorso del 25 luglio 1961 (quello che, come visto, annunciava la crisi di
Berlino). Promettendo agli americani che il governo avrebbe preso sul
punto misure per proteggerli, egli consigliava, intervenendo anche con una
sua lettera su «Life», di attivarsi nel frattempo seguendo i consigli
presentati dalla rivista: a cominciare dalla costruzione di rifugi antiatomici
privati 135. Così qualcuno pagò per la costruzione di un rifugio nel giardino
di casa, qualcun altro cercò di trasformare in rifugio la propria cantina. Ma
per la grande maggioranza la cosa si rivelò troppo costosa economicamente
e troppo delicata dal punto di vista psicologico. Nonché etico, dato che
cominciarono a manifestarsi pubbliche riflessioni sulla legittimità di sparare
al proprio vicino di casa per proteggere il proprio rifugio ove questi
all’ultimo momento tentasse di intromettervisi in cerca di salvezza 136.
L’inquietante dibattito che si aprì su questo punto portò JFK a spostare
l’enfasi dai rifugi privati a quelli pubblici 137. Si sarebbe cioè trattato di
approntare sufficienti spazi collettivi, dovutamente segnalati e forniti di
scorte alimentari, in cui gli americani avrebbero potuto correre appena fosse
suonata la sirena d’allarme annunciante l’arrivo dell’attacco. Nei mesi
precedenti alla CMC, insomma, una delle domande principali che la società
americana si stava ponendo era: «to dig or not to dig?» (scavare o non
scavare?). E risultò che molti stavano optando per la seconda opzione 138.
L’idea di prepararsi una specie di «fossa» preventiva nel giardino di casa
portava la grande maggioranza delle famiglie ad accantonare mentalmente
il problema. La volontà delle persone di prendere seriamente in
considerazione simili scenari apocalittici e prepararsi a sopravvivere in essi
era comprensibilmente bassa. Né molto più efficienti si stavano rivelando le
misure del governo, il quale si era posto un compito semplicemente troppo
grande.
Un’altra forma di protezione suggerita dalle autorità il cui carattere di
palliativo era ancor più evidente era il cosiddetto Duck and Cover. Si
trattava di un filmato educativo realizzato nel 1951 che illustrava ai giovani
americani dell’epoca la procedura da seguire in caso di attacco atomico
(con o senza warning, cioè improvviso) 139. Un documento visivo che ci
dice molto sulla società americana di allora. Con zelo e paternalismo, la
rassicurante voce narrante spiegava: «Sappiamo che la bomba atomica è
molto pericolosa e può essere usata contro di noi. Speriamo che non arrivi
mai, ma in ogni caso dobbiamo essere pronti». Il flash dell’esplosione,
proseguiva lo speaker, potrebbe raggiungerci in ogni giorno dell’anno, ad
ogni ora del giorno e della notte, ed in qualsiasi luogo ci troviamo. La cosa
da fare allora è sempre la stessa: duck and cover, accucciarsi e coprirsi.
Queste due parole d’ordine venivano ripetute per tutti i nove minuti del
filmato dallo speaker, dalle immagini, da un coretto di voci particolarmente
allegro e infine dalla tartaruga Bert: la mascotte protagonista, che si
riparava dall’esplosione nascondendo la testa sotto il proprio guscio. Ai
piccoli americani veniva così spiegato che i rifugi pubblici, ove presenti,
erano segnalati da cartelli stradali con una grande «S» (per «shelter»). Si
susseguivano poi immagini delle esercitazioni scolastiche: una pratica
allora assai frequente in tutti gli istituti del Paese, che vedeva gli insegnanti
interrompere di colpo le lezioni e far «accucciare e coprire» gli studenti,
sotto il banco o lungo i corridoi. Né quei bambini ogni volta sapevano se si
trattasse solo di un’altra esercitazione o di un’emergenza autentica. Altre
immagini del filmato mostravano ragazzi che di colpo mollavano per strada
la loro bicicletta o lasciavano cadere la loro mazza da baseball, famiglie che
rovesciavano le loro tovaglie da picnic, per poi gettarsi tutti a terra, in attesa
che il vento atomico passasse oltre. Chi fa questo, diceva il filmato con un
filo di implicito imbarazzo, sarà «much safer», molto più sicuro.

Bert the Turtle era la star del filmato informativo realizzato dalla Civil Defense.

Lo scopo del filmato era certo comprensibile, dovendo avvertire una


popolazione dispersa su territori vasti di tener presente quell’eventualità e
tenersi pronti a reagire; ma chiaramente esso, oltre a diffondere
inevitabilmente un senso di inquietudine e di pericolo costante, non poteva
confessare ai suoi giovani spettatori quanto inefficace sarebbe stata la
protezione consigliata. Di fronte a bombe atomiche o peggio ancora
termonucleari, infatti, ci si poteva «accucciare e coprire» quanto si voleva,
ma ben difficilmente qualcosa di meno di un vero rifugio antiatomico
avrebbe salvato la vita alla gente che si fosse trovata nella zona limitrofa
all’esplosione 140. Senza contare l’effetto del fallout radioattivo, cui il
filmato non accennava. Ad ogni modo Bert the Turtle è un personaggio
ancora vividamente ricordato dall’intera generazione che fu giovane in
quegli anni.

Fu questo il contesto storico e psicologico in cui arrivò la CMC. E fu


allora che la Civil Defense dimostrò la sua inevitabile inconsistenza.
Riunioni con i responsabili della Protezione Civile furono tenute in quei
giorni alla Casa Bianca e alla presenza di Kennedy in almeno tre occasioni:
il 20, il 23 e il 27 ottobre. JFK dunque non mancò di prestare attenzione al
problema; ma non poté che scoprire che il programma era, nelle parole della
studiosa Rose, «molto indietro rispetto alla tabella». «La crisi dei missili di
Cuba rivelò quasi immediatamente quanti pochi progressi erano stati fatti
nello spazio di un anno […] Ad essere onesti, era un lavoro enorme quello
di identificare ed analizzare lo spazio per rifugi nell’intero Paese. […] C’era
anche il problema di rifornire e segnalare gli spazi di rifugio. I rifornimenti
erano iniziati solo tre settimane prima della crisi di Cuba» 141. Cosicché
l’inadeguatezza di un programma che si proponeva uno scopo titanico
(cercare di proteggere efficacemente un’intera popolazione da un attacco
termonucleare) emerse presto. Il 23 al Presidente fu spiegato che i rifugi
esistenti avrebbero potuto ospitare solo sessanta milioni di persone – meno
di un terzo della popolazione – e che per giunta la maggioranza di tali spazi
non era neppure ancora segnalata e rifornita a sufficienza 142. Gli abitanti di
Miami (una delle città più vicine all’occhio del ciclone) scoprirono di non
avere in città alcun rifugio ufficiale designato. A Dallas ce n’era uno solo, e
non ancora rifornito. Anche nella capitale gli spazi erano virtualmente
inesistenti 143. Nessun rifugio adeguatamente rifornito esisteva poi in città
del calibro di Chicago, Buffalo, New York, Salt Lake City, Sacramento,
Phoenix e molte altre. Nell’intero Stato dell’Indiana c’era un solo rifugio
segnalato 144. Tutto ciò benché nei giorni della crisi stessero venendo
accelerati gli sforzi 145, considerate le opzioni (JFK per esempio manifestò
interesse per l’eventualità di evacuare alcune città, mossa che però era già
stata rifiutata in quanto impraticabile e a rischio di scatenare il panico
generale) 146, e approvati cambi di rotta (si accettò che gli standard minimi
richiesti per ogni rifugio venissero abbassati da un fattore protettivo di 100
a 40, così da poterne individuare un numero maggiore, seppur a scapito
della loro efficacia) 147. Quanto ai rifugi privati, stavolta le ditte che li
costruivano rimasero scettiche. Scoraggiate dal clamoroso fiasco registrato
nei mesi precedenti («Abbiamo circa cento rifugi [invenduti] che stiamo
pensando di demolire», confessò il portavoce di una delle poche società
rimaste in quel business), esse decisero di «non riprendere la produzione
nonostante il problema con Cuba» 148. Intanto però il pericolo era reale, e la
gente, pur non riuscendo ad accettare l’idea di farsi costruire un rifugio, si
chiedeva cosa fare. Diversi giornali pubblicarono liste dei rifugi pubblici
esistenti nei paraggi, nonché consigli pratici forniti dagli uffici locali della
Protezione Civile. Come questa «lista di articoli che possono rivelarsi utili
se il disastro dovesse colpirci: 1) torcia e batterie extra; 2) radio portatile a
batterie e batterie di scorta; 3) dei kit di pronto soccorso; 4) provviste
d’acqua o altro liquido (sette galloni a persona per due settimane […] ); 5)
scorte di cibi per due settimane, piatti di carta e tovaglioli; […]» 149. Alle
liste per le scorte si affiancavano dei «Consigli da rifugio da fallout» 150, con
alcune raccomandazioni (qui riportate in nota) che rasentavano il
grottesco 151.
Ma quanti effettivamente presero delle precauzioni di questo tipo?
Secondo uno studio, oltre il 40 per cento degli americani adulti 152.
Malgrado tali palliativi, però, la situazione restò di sostanziale
impreparazione di fronte ad un eventualità così inedita ed enorme. Del resto
sarebbe stato sorprendente il contrario. Come ha scritto George, «i piani
americani di Protezione Civile dell’epoca potrebbero essere paragonati
all’installazione di un sottile lucchetto a catena per proteggere la nazione da
un mostro multimegatonico chiamato guerra nucleare» 153. Difatti dopo aver
assistito alla riunione tenutasi il 23 alla Casa Bianca sul tema, il capo della
CIA John McCone appuntò nelle sue note: «Ho tratto la conclusione che
non molto possa esser fatto o sarà fatto; che qualsiasi cosa venisse fatta
comporterebbe una gran quantità di pubblicità e di allarme pubblico» 154.
Alla conferenza stampa di quella sera al Pentagono, quando McNamara
menzionò misure di Protezione Civile, ci furono risate tra i giornalisti 155. Il
più schietto di tutti fu forse il capo della Civil Defense di Chicago, il quale
alla domanda su cosa fare in caso di attacco nucleare rispose
semplicemente: «Take cover and pray»: copritevi e pregate 156.
Oklahoma City, Due bambine osservano lo scavo di un rifugio antiatomico durante la CMC.

Qualche mese dopo la crisi, il politico californiano Chet Holifield


(membro del Congresso tra i democratici) scrisse a JFK che la CMC aveva
«portato vividamente all’attenzione il fatto che gli Stati Uniti non hanno
una Protezione Civile efficace» 157. Questa spiacevole ma evidente
constatazione, unita alla sopraggiunta distensione internazionale, portò in
fretta all’abbandono delle iniziative governative di Civil Defense e ad un
crollo verticale dell’interesse pubblico verso tali tematiche (fin lì all’ordine
del giorno, benché mai abbracciate con entusiasmo dalla popolazione) 158.
Da quel momento in poi, esse divennero in fretta un ricordo della storia,
anche un po’ grottesco. Forse perché proprio la CMC aveva rivelato quelle
politiche di protezione come insensate 159, o perché il pubblico americano in
seguito alla crisi manifestò «non un aumentato interesse per le armi nucleari
ma [al contrario] uno stordimento sul tema» 160. O forse perché, secondo
l’efficace immagine di Weart, «quando la crisi finì la maggioranza della
gente spostò altrove la propria attenzione tanto rapidamente quanto un
bambino che solleva una pietra, vede qualcosa di ripugnante sotto, e rimette
la pietra al posto» 161.
I bambini, i giovani e le donne di fronte alla crisi

Tra le categorie che avvertirono maggiormente le tensioni di quei giorni


ci furono senza dubbio i bambini, gli adolescenti, i giovani. Coloro cioè che
avevano ancora tutta la vita davanti, e la vedevano prematuramente in
pericolo. Quella era del resto un’epoca in cui il 60 per cento dei bambini
americani raccontava di avere incubi notturni riguardanti la guerra
nucleare 162. Così quando scoppiò la CMC «in particolare i giovani
divennero profondamente allarmati» 163. Vari episodi emergono a illustrarlo.
Come questa testimonianza tipica: «Quella sera dopo il discorso del
Presidente i miei genitori spostarono il mio letto nella loro camera da letto e
mi dissero che volevano che dormissi con loro quella notte. Quando chiesi
perché, mio padre mi disse: ‘Perché questa può essere l’ultima notte che
passeremo vivi insieme’» 164.
Un altro ricorda: «Quando avevo circa dieci anni (intorno al tempo della
mania per i rifugi da fallout e della crisi dei missili di Cuba), mi ricordo di
essere andato a fare dello shopping natalizio con mia madre, che
naturalmente mi chiese cosa volessi quell’anno. Non ricordo cosa dissi, ma
ricordo cosa pensai: ‘Che differenza fa? Tanto non vivremo mica fino a
Natale’. Strani pensieri per uno che ha dieci anni […] In ogni caso, lungo
tutta la mia infanzia periodicamente io credetti che non sarei mai arrivato a
crescere» 165.
Nei giorni della CMC anche le ore passate a scuola risentirono
fortemente dell’atmosfera della crisi. Cosa sarebbe successo se la Bomba
fosse arrivata in quelle ore? I bambini sarebbero stati rimandati a casa (a
piedi o tramite bus), ammesso che avessero il tempo di arrivarci. In una
scuola elementare della contea di Los Angeles la mattina del 30 ottobre
(dunque a missili ancora tutti a Cuba) la sirena d’allarme della scuola che
veniva provata tutti i giorni alle 9.30 squillò invece improvvisamente alle
8.40. Una telefonata di controllo confermò che la sirena stava funzionando
correttamente. Segnalava «allarme giallo», cioè attacco nucleare probabile
entro un’ora. Il preside immediatamente ordinò di iniziare l’evacuazione.
Mentre essa era già in corso, dieci minuti dopo, l’ente di controllo
finalmente si rese conto che c’era stato un malfunzionamento e i bambini,
molti dei quali erano già scoppiati in lacrime, furono recuperati e riportati
nell’edificio 166.
Al di là di questi episodi estremi, la tensione di quelle mattine fu
palpabile un po’ in tutti gli istituti del Paese. Un’insegnante provò a
sdrammatizzare scherzando coi suoi piccoli allievi: «Se i russi attaccano
durante il mio test di Storia, allora mi arrabbio davvero!» 167. Il professore
universitario Richard Neustadt (che era anche un consigliere di JFK) scrisse
un «memo» alla Casa Bianca per far presente quanto stava osservando tra i
suoi studenti alla Columbia University di New York: «Qui la reazione degli
studenti al discorso del Presidente di lunedì scorso è stata qualitativamente
differente da qualsiasi cosa a cui io abbia mai assistito prima in momenti di
crisi estere da quando iniziai a insegnare qui nove anni fa; questa volta
questi ragazzi erano letteralmente impauriti per le loro vite ed erano
stupefatti, in qualche modo, che le loro vite potessero venir messe a rischio
da un’iniziativa americana. In breve, ciò che essi hanno ascoltato e detto
infinite volte riguardo ai rischi della nostra era improvvisamente gli si è
presentato davanti; per la prima volta, a quanto pare, la consapevolezza del
mondo reale si è trasferita dalle loro teste al loro stomaco» 168.
Non sorprende allora che anche la stampa abbia presto cominciato ad
occuparsi del problema. What can parents tell their children in crisis?
titolava un articolo in prima pagina sul «Boston Globe» del 25. Nella crisi
meglio le risposte sincere, dicono gli esperti, pareva rispondergli il titolo di
un analogo pezzo pubblicato sul «New York Times» in edicola lo stesso
giorno. Entrambi gli articoli interpellavano sul punto vari psicologi ed
esperti. I bambini, scrive il «New York Times», in famiglia chiedevano: «Ci
sarà una guerra? Cosa succederà? È vero che saremo tutti fatti esplodere e
uccisi? Se succede mentre sono a scuola, dove sarete voi?». Di fronte a
queste domande, «i genitori non rassicurano i propri figli ignorando la crisi
o sorvolando, o dicendo che tutto andrà bene. […] È più rassicurante per un
bimbo ricevere una risposta sincera. ‘Non credo che proprio alcun genitore
possa dire: No, non ci sarà una guerra’, ha affermato il […] professore di
psicologia» 169. «Dite ai bambini di fare i compiti e dimenticarsene» era
invece il diverso consiglio di uno degli esperti interpellati dal «Boston
Globe». Un altro suggeriva ancora: «A quelli molto piccoli non bisogna dir
nulla. Gli adolescenti [invece] andrebbero trattati da adulti. Discutete con
loro la situazione onestamente e concretamente. […] Cercate di cancellare
impegni sociali. […] Sedetevi coi bambini se essi sentono di dover vedere
la televisione o ascoltare annunci allarmanti». Un altro, al contrario,
consigliava di «spegnere la televisione», perché essa «è oggi una lunga
parata di ciò che può succedere, preannunciando ansietà» 170. Intervenne poi
anche il più ascoltato di tutti gli esperti del ramo: il dottor Spock. «‘Don’t
panic!’ è stato il consiglio del dottor Benjamin Spock, autorità riconosciuta
a livello mondiale sui bambini e la loro cura. Egli ha invitato i genitori a
imparare a gestire le loro stesse ansie su Cuba e la Bomba prima di cercare
di alleviare le paure dei propri figli. ‘I bambini sentono le ansie dei loro
genitori’, ha spiegato il dottore. ‘Né li si può ingannare. Se tu sei
preoccupato, loro se ne accorgeranno’». E allora che fare? Votare per
l’uomo che si ritiene più opportuno e «lavorare più duramente per la pace».
(Spock era infatti un attivista antinucleare). Per il resto, «‘la cosa da fare è
accettare questa situazione filosoficamente e con equanimità. I soldati non
piangono prima di andare in battaglia. […] E ricordatevi – ha avvertito –
Potete rassicurare i vostri bambini attraverso i vostri comportamenti sempre
assai di più di quanto possiate farlo con le parole’» 171.
«Papà, quest’anno potremmo avere una zucca sorridente?»
I bambini americani sono così spaventati dalle notizie dei quotidiani che cambiano idea anche
sull’imminente festa di Halloween. («San Francisco Chronicle», Oct. 26, 1962, p. 32.)

Analogamente, un altro esperto consigliava: «Andate avanti a lavorare


come sempre [business as usual], con l’implicazione che le cose si
risolveranno bene, in un modo o nell’altro». Viceversa un altro suggeriva:
«non potete cavarvela dicendo: ‘Questi terribili cubani’, ‘Questi tremendi
russi’. Credo dobbiate tracciare un quadro di libertà e diritto contro
schiavitù e torto, e sottolineare che nessuno sforzo è troppo grande per
proteggere il nostro modo di vita» 172.

In quest’ultimo commento riaffiorava, appena in nuce, una concezione


più generale che spesso finiva per vedere la guerra fredda in termini del
tutto manichei. «Per molti americani», ha ben espresso George, «il
complesso campo degli affari esteri diveniva un semplice gioco di moralità
che metteva a confronto il bene contro il male. In una nazione che si
vantava della propria religiosità, il comunismo non era solo un opposto
sistema economico e politico; era Satana in una nuova forma, e come il
serpente nel giardino dell’Eden, poteva invadere la nostra nazione
benedetta, sedurre i deboli e distruggere il nostro modo di vita» 173.
Ritroviamo questa stessa mentalità – di cui non occorre neppure
sottolineare i potenziali elementi di pericolo – anche nel commento
rilasciato da Howard K. Smith, commentatore ‘storico’ della tv americana.
Intervenendo in quei giorni sui canali della ABC, Smith affermò a proposito
del parallelo tra i missili sovietici a Cuba e quelli americani in Turchia che
«mettere i due sullo stesso piano è come dire che un poliziotto e un
gangster sono uguali perché entrambi portano pistole» 174. Cioè a dire: i
nostri sono sempre missili buoni, quelli degli altri sempre cattivi, per
definizione.
Il medesimo argomento veniva ripreso e sostenuto pochi giorni dopo
anche da «Time Magazine», che – lamentando come certe superficiali
equivalenze avessero trovato seguito non solo tra i comunisti ma anche tra
«africani neutralisti, sudamericani castristi e pacifisti statunitensi» –
ribadiva che «c’è un’enorme differenza morale tra gli obiettivi russi e
statunitensi […] le basi russe erano intese ad ulteriore conquista e
dominazione, mentre le basi statunitensi furono erette per preservare la
libertà. La differenza avrebbe dovuto esser chiara a tutti» 175.

Un’altra categoria che pare aver avuto una percezione maggiormente


acuta dei rischi della CMC sembra essere stata quella femminile. Le donne
– in particolari le madri – parvero particolarmente preoccupate dalla
possibilità che si arrivasse a un conflitto, e in certi casi anche si attivarono
per esprimere tali timori e perplessità. In epoca non ancora sospetta di
«attivismo di genere», circa ottocento donne, la maggioranza delle quali
casalinghe, scesero per le strade di New York sotto l’egida del gruppo
Women Strike for Peace (Donne in sciopero per la pace) esponendo cartelli
quali «Presidente Kennedy stia attento», «Lasci gestire la crisi di Cuba
all’ONU», «Pace o perire» 176. Inizialmente diviso sulla linea da adottare in
seguito al discorso di Kennedy, il Women Strike for Peace aveva poi deciso
di emettere dichiarazioni di condanna sia della quarantena sia della
provocazione di Kruscev 177, e – congiuntamente al SANE e alla SPU (vedi
oltre, p. 183) – aveva inviato un messaggio a Castro per invitarlo a
sospendere l’installazione di armi 178. Analogamente, anche la più antica
associazione Women’s International League for Peace and Freedom «si
oppose all’intervento USA a Cuba» 179 e poi il 28 ottobre rilasciò questa
dichiarazione: «Se c’è una cosa che emerge con più chiarezza dalla crisi
della settimana scorsa […] è l’assoluta necessità dei negoziati invece della
violenza. Che il mondo non sia stato distrutto dall’acuta prova di forza tra
gli USA e l’URSS dimostra una volta di più il ruolo essenziale che giocano
l’ONU e il suo zelante segretariato nella lotta per la sopravvivenza» 180.

New York. Un gruppetto di donne del Women Strike for Peace chiede a Kennedy prudenza e ricorso
all’ONU.

Queste opinioni pro-pace naturalmente non si limitavano alle


associazioni. «Sono una giovane madre con due bambini e non voglio veder
tutto ciò finire», si lamentò per esempio in quei giorni una ventisettenne
casalinga di Los Angeles, pur aggiungendo che «però non vorrei vivere
sotto il comunismo. Se la Russia vuole la guerra possiamo anche
combatterla subito e farla finita». Nella stessa città, riportava un cronista,
«la moglie di un barbiere stava guardando il report tv della sessione
dell’ONU. Quando le ho chiesto di Cuba lei è andata verso la cappa e ha
preso una fotografia. ‘Questo è mio figlio’ ha spiegato. ‘Aveva solo
trentadue anni quando fu ucciso nell’ultima guerra’. Ha guardato per un
attimo la foto ed è scoppiata in lacrime, esclamando: ‘Ho già avuto
abbastanza guerra’» 181.
Come la paura, così anche il sollievo delle donne americane pare esser
stato particolarmente grande quando giunse l’annuncio che Kruscev
avrebbe rimosso i missili. «Tutta la settimana sono stata tremendamente
preoccupata riguardo a Cuba», ammise a Washington una donna che il
cronista, quella domenica mattina, aveva notato in Pennsylvania Avenue
con gli occhi visibilmente lucidi: «Credo di star piangendo per la gioia» 182.
Gli afroamericani

Un altro segmento importante della società statunitense erano gli


afroamericani. La loro reazione alla crisi costituisce un caso emblematico,
utile a comprendere quella della società statunitense nel suo complesso, che
riflettè perfettamente 183.
Dal punto di vista numerico, tale componente contava all’epoca circa
diciannove milioni di persone, equivalenti al 10,5 per cento della
popolazione nazionale 184. In quegli anni, poi, si era proprio nel pieno della
lacerante lotta per i civil rights (diritti civili). Com’è noto, infatti, il regime
di segregazione ancora vigente in molte parti del Paese e le perduranti
discriminazioni ai danni della popolazione afroamericana avevano
suscitato, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, una nuova fase nel
movimento per il riconoscimento dei loro diritti civili. La situazione degli
afroamericani, specie negli Stati del Sud del Paese, era fatta di vessazioni
tanto umilianti quanto quotidiane 185.
In un simile contesto, dunque, come reagirono agli eventi della CMC gli
appartenenti alle comunità afroamericane? Come percepirono l’esperienza
concreta che la propria vita stesse venendo messa a rischio dalle decisioni
di un governo che dopo tutto non comprendeva che bianchi? Date la
profondità dello scontro in corso nel Paese e la perdurante frequenza dei
casi di discriminazioni subiti, non era scontato che il supporto al governo
giungesse anche da quella parte.
Non a caso proprio durante la CMC un attivista afroamericano in esilio
trasmise da Cuba un appello radio verso il Sud degli USA affinché i soldati
afroamericani in servizio nell’esercito si ribellassero ai propri ufficiali.
Servendosi delle frequenze di Radio Free Dixie (messegli a disposizione
direttamente dal regime di Castro), il 26 ottobre Robert F. Williams si
rivolse a tutti i suoi «fratelli oppressi nordamericani» e li invitò a sparare:
«Finché siete armati, ricordatevi che questa è la vostra sola opportunità per
essere liberi». E proseguì: «Questa è la vostra unica opportunità per fermare
il fatto che la vostra gente venga trattata peggio dei cani. Noi ci occuperemo
del fronte, Joe, ma dalla schiena lui non saprà mai cosa l’ha colpito.
Intendi?» 186.
Questi messaggi però non fecero presa. Le fonti esaminate infatti
indicano chiaramente che le comunità afroamericane espressero un
supporto verso le azioni del Presidente almeno altrettanto compatto di
quello registratosi nel resto della società americana. Dalla cosiddetta black
press (la stampa espressione delle varie comunità afroamericane locali, che
ebbe una notevole influenza nel plasmare la coscienza e autocoscienza del
problema dei civil rights e sostenere quelle rivendicazioni) affiorano in tal
senso testimonianze di grande interesse. Anzitutto il settimanale
d’informazione afroamericano «Jet» invitava esplicitamente i suoi lettori a
non dar credito a certa propaganda castrista: «Fratello, non puoi farti
ingannare adesso. Questo è il tuo Paese, e devi restare calmo, tranquillo e
padrone di te» 187.
Sulla stessa frequenza l’editoriale del «Baltimore Afro-American»:
«Quando è in gioco la libertà, ogni figlio di mamma tra noi deve radunarsi
intorno [rally around] al Presidente e alla bandiera» 188. Analogamente,
l’editoriale pubblicato il 27 ottobre dalla testata della comunità di Harlem, il
«New York Amsterdam News», si intitolava ancora Rally around
(Raduniamoci): «Come il Presidente ha detto tanto giustamente, ‘il pericolo
più grande sarebbe non far nulla’. Noi sentiamo che il Presidente abbia
agito saggiamente e coraggiosamente e nei migliori interessi del Paese
stabilendo una quarantena intorno a Cuba. […] Questo è il nostro Paese.
Dobbiamo accettare la responsabilità e dare supporto al cento per cento al
Presidente e al nostro Paese. […] Nulla è più importante della sicurezza del
nostro Paese, delle nostre famiglie, delle nostre case. Facciamo tutti il
nostro dovere!» 189.
Nella prima pagina di quello stesso numero, un altro articolo dava
notizia del sostegno raccolto per le strade di quel quartiere afroamericano.
«I cittadini di Harlem, mostrando una grave consapevolezza dell’attuale
crisi mondiale […], hanno espresso uno spassionato sostegno al Presidente.
Un commento tipico è venuto dal […] manager dell’Hotel Theresa, dove il
barbuto dittatore di Cuba soggiornò due anni fa» (nella famosa visita del
settembre 1960, quella in cui Castro alloggiò volutamente ad Harlem per
mettere in imbarazzo gli USA e incontrò per la prima volta Kruscev, e fu
scattata la celebre foto del loro abbraccio). Il nuovo gestore dell’Hotel
Theresa, scopriamo, era però di ben altro avviso rispetto al suo
predecessore: «Io avrei chiuso l’hotel piuttosto che farlo stare qui. Non
accetterei [neanche] mille dollari all’ora, soprattutto per ciò che sta facendo
a questo Paese».
Poche righe dopo, l’articolo riportava poi: «Il reverendo Martin Luther
King, a New York per una cena di tributo, ha invocato preghiere speciali per
il Presidente. ‘In questi giorni critici abbiamo bisogno di un’ampia
comprensione e una fede nel futuro affinché il sogno della pace possa
divenire una perdurante realtà’» 190. Evidentemente l’immagine del «sogno»
era già nel cuore del pastore georgiano. E a quanto pare neanche King volle
negare un pur cauto supporto al pericoloso corso intrapreso da JFK. Il che
appare ancor più significativo se si considera che l’anno prima egli aveva
espresso invece una chiara condanna per la Baia dei Porci 191. Una condanna
che King non sentì invece di dover ripetere per la condotta di Kennedy nella
CMC. Interrogato ancora a proposito della crisi, egli rispose
semplicemente: «Sono convinto che gli Stati Uniti debbano intraprendere
un’offensiva morale oltre che militare» 192. Una dichiarazione laconica, ben
diversa dalla condanna a chiare lettere che egli esprimerà in seguito sulla
guerra del Vietnam 193.
Passati poi un paio di mesi dalla risoluzione della crisi, King ne parlò più
estesamente dalle colonne della rubrica che egli teneva bisettimanalmente
sul «New York Amsterdam News».

Ciascuno di noi – scrisse il 5 gennaio 1963 sul quotidiano di Harlem


– sa perfettamente che nel 1962 siamo andati orribilmente vicini al
precipizio della guerra nucleare. C’è tuttavia il grave pericolo che il
nostro ‘successo’ [si noti qui l’uso della virgolette, volte a suggerire
qualche dubbio sull’appropriatezza di un termine molto ricorrente in
quelle settimane, NdA] nel gestire la crisi cubana possa essere usato
male. Non dobbiamo permettere che il delicato equilibrio che è stato
raggiunto negli affari di politica estera venga distrutto dalla nostra
arroganza. […] giacché il quasi-disastro è stato evitato, l’America in
umiltà afferri prontamente l’opportunità […] è il momento per noi
di cercare concretamente un comune accordo sui test nucleari e sul
disarmo. Questa può essere la migliore possibilità che abbiamo mai
avuto di rendere i nostri obiettivi ONU una realtà 194.
Si tratta evidentemente di parole molto rilevanti e molto lucide, tanto più
se si considera che andavano in controtendenza rispetto alle prevalenti
lezioni trionfalistiche tratte dalla crisi.
Il ministro battista che era stato mentore del giovane King, Benjamin
Mays, intervenne con un editoriale intitolato, emblematicamente, I support
the President: «Mentre sosteniamo il Presidente Kennedy nella crisi di
Cuba, speriamo che il Presidente raccolga ogni opportunità di negoziare
[…]. I popoli della terra non si meritano una guerra nucleare» 195.
Ma se invece una tale guerra fosse davvero scoppiata, la segregazione si
sarebbe estesa finanche ai tentativi di sopravvivenza durante un
bombardamento atomico? Il quesito, per quanto surreale, non è del tutto
peregrino, se il direttore della Protezione Civile di New Orleans in quei
giorni dovette esplicitamente rassicurare che «non esistono rifugi
antibomba separati per i neri» 196.
Ulteriori conferme del supporto afroamericano emergono poi da un
sondaggio del «Pittsburgh Courier», da cui risultava anche in quella città
della Pennsylvania «un solido appoggio per la forte posizione di JFK sul
problema di Cuba» 197, nonché dalle dichiarazioni di due leader del
movimento dei diritti civili: Lester Granger e Philip Randolph. Sebbene
dall’articolo di Granger emergesse una flebile speranza, più che una chiara
convinzione, che Kennedy stesse agendo per il meglio, i suoi dubbi erano in
qualche modo mitigati da patriottismo e preghiera 198. Randolph, dal canto
suo, era ben convinto delle ragioni del Presidente, tanto da mandargli subito
un telegramma a nome del Negro American Labor Council: «Voglio
encomiarla, acclamarla e renderle omaggio per la grande statura di statista
che ha mostrato nel suo discorso televisivo di ieri sera, illuminante,
tempestivo e franco. Esso darà cuore, fiducia e determinazione a tutti gli
americani per porsi fermamente dietro di lei e la sua leadership in quest’ora
di crisi» 199.
Il supporto, inoltre, era assolutamente bipartisan. Una delle più grande
icone sportive afroamericane, il campione di baseball Jackie Robison –
primo giocatore nero ad essere ammesso nella Major League e divenuto poi
attivista per i diritti civili e commentatore politico – sebbene avesse
sostenuto Nixon, invece di Kennedy, nelle elezioni del 1960, ora scrisse un
editoriale dal titolo emblematico: Tutti i veri americani sostengono JFK
nella crisi. Il discorso del Presidente vi era definito «magnifico ed
entusiasmante» 200.
Se analoghe furono le paure, e analoghe le precauzioni prese, tale fu pure
l’orgoglio provato dagli afroamericani una volta risolta la crisi. È questo il
sentimento che sottende per esempio l’articolo pubblicato (con tanto di
richiamo in copertina) da «Ebony». Sotto il titolo Io ho spiato la Cuba di
Castro, il popolare magazine afroamericano raccontava con fierezza il ruolo
svolto nella crisi dal pilota di colore Thomas Hennagan, che aveva «aiutato
a svelare la congiura dei missili» procurando alla CIA le foto delle basi in
costruzione a Cuba attraverso le sue pericolose missioni di sorvolo condotte
in territorio nemico. Il coraggio del pilota afroamericano sarebbe stato
ricompensato in seguito col conferimento della Distinta croce di volo, la
seconda più alta decorazione militare statunitense 201.

Naturalmente, però, c’era anche qui qualche voce di dissenso. Quanto


alle manifestazioni di protesta, basti dire che la più imponente in assoluto
fra quelle organizzate negli USA in quella settimana si doveva a un
pacifista afroamericano: Bayard Rustin. A ciò si aggiunge quella, molto più
piccola, organizzata il giorno prima da trecento afroamericani di Harlem e
conclusasi davanti al palazzo dell’ONU. Collegando anticolonialismo e
antisegregazionismo, gli esponenti di questo neonato Harlem Anti-Colonial
Committee sostennero che Cuba stesse subendo un’aggressione di tipo
neocoloniale, in nome degli «interessi affaristici degli USA», decisi a
riguadagnare profitti e a restaurarvi pratiche segregazioniste 202.
Un’altra importante voce di dissenso venne da James Baldwin, uno dei
più acclamati intellettuali afroamericani di tutto il Novecento. Dopo aver
interrotto a metà un suo seminario letterario del 22 ottobre per via delle
notizie appena annunciate da Kennedy 203, la sera del 25 ottobre lo scrittore
parlò («molto deliberatamente», secondo la cronaca) all’MIT di Boston, di
fronte a una sala strapiena di settecento persone, prevalentemente bianche.
«Se la situazione a Cuba rimane statica o si fa più intensa», affermò
Baldwin, «ci saranno diffuse proteste tra i Neri in questo Paese».
L’atteggiamento degli USA verso Cuba, a suo avviso, era troppo
paternalistico. «Dobbiamo imparare che qui non è più un problema di
missionari che portano torce ai nativi. Dobbiamo imparare che questa è una
questione di vita o di morte per il mondo così come lo conosciamo».
«Possiamo tradire all’infinito queste rivoluzioni, oppure […] renderci conto
che un contadino cubano non può capire la parola democrazia come noi» 204.
Critiche che si sentono risuonare ancora oggi, queste, riferite ad altri Paesi
non democratici; di sicuro, erano parole non facili da pronunciare, in quei
giorni di compatta adunata nazionale. Né l’esito positivo della crisi cambiò
le valutazioni dello scrittore. Parlando di nuovo l’8 novembre nei locali di
una vicina chiesa, Baldwin tornò a dire: «Supponiamo che invadessimo
Cuba e vincessimo. Non posssiamo continuare a far così per sempre. La
cosa che mi fa star male su Cuba è l’assunto che le armi possano farci
qualcosa. Niente può esser fatto riguardo a Cuba. L’abbiamo persa ben
prima della rivoluzione. L’Occidente ha creato più Cuba di quante ne possa
gestire» 205.
Le ragioni del dissenso degli afroamericani a volte differivano. La
posizione di Baldwin, per esempio, era originata da una prospettiva
internazionalista e socioculturale molto diversa da quella del giornalista
conservatore George Schuyler, che riduceva il tutto a una mera manovra
elettorale architettata da Kennedy 206.
Dissenso ci fu anche tra gli afroamericani di impostazione radicale. Il
suo esponente più celebre, Malcolm X, tre anni dopo la crisi, in un’intervista
radiofonica cui partecipò appena tre giorni prima di essere ucciso, fece un
interessante accenno alla crisi di Cuba, usandola come esempio per il tema
dei diritti civili. All’intervistatore che gli chiedeva se avesse intenzione di
adottare «reazioni estreme» all’ingiustizia delle discriminazioni razziali,
Malcolm X rispose: «Beh, signore, quando la Russia mise dei missili a
Cuba l’unica cosa che portò la Russia a togliere i suoi missili da Cuba fu
quando l’America puntò i propri verso la Russia». «Sta suggerendo la
rivoluzione?», lo incalzò quello. «No, sto dicendo questo: che […] l’uomo
bianco non porge l’altra guancia quando viene oppresso. […] Ma al tempo
stesso chiede all’uomo nero di far questo» 207.
Come si vede, non solo esistevano legami e influenze reciproche tra la
politica estera statunitense e il problema razziale 208, ma le differenze di
approccio e metodi di lotta adottati dai due più influenti leader del
movimento dei diritti civili – Martin Luther King e Malcolm X – affiorano
chiaramente anche nel modo diverso in cui i due osservarono un evento
esterno come la CMC. King spingeva per un’«offensiva morale», mentre
l’altro assumeva una posizione più militante, esattamente come riguardo al
problema razziale.

In ogni caso, appoggiare il Presidente nella crisi in corso non implicava


l’abbandono delle proprie battaglie e rivendicazioni. Del resto, la black
history del Novecento offre vari esempi della tendenza degli afroamericani
ad unire lotta interna per i loro diritti civili e adesione patriottica in politica
estera 209. In altre parole, all’epoca della CMC essi erano abituati ad
affrontare momenti di emergenze internazionali combattendo una guerra su
due fronti. Così, ai sindaci di Miami, Dallas, Chicago e New York che gli
chiedevano di accantonare le rivendicazioni per via della crisi in corso, Roy
Wilkins, segretario esecutivo dell’importante ente NAACP (National
Association for the Advancement of Colored People), oppose un secco
rifiuto: «Non vediamo alcun motivo per cui in quest’emergenza non
dovremmo andare avanti a tutto vapore [con le nostre battaglie]» 210. Del
resto era vero anche il contrario: cioè che la crisi non aveva fermato gli
episodi di segregazione contro cui lottare. Negli stessi giorni della crisi, per
esempio, a Oxford, Mississippi, i white supremacist avevano continuato a
protestare a gran voce contro la recente ammissione dello studente nero
James Meredith all’University of Mississippi (soprannominata «Ole Miss»),
fin lì riservata ai soli bianchi. Per consentire allo studente di entrare
nell’ateneo senza essere linciato, i due Kennedy erano stati costretti a
inviare una scorta di oltre diecimila truppe federali. Così, tre settimane
dopo, durante la crisi nucleare i segregazionisti continuarono ad urlare
«Kennedy is a coon keeper» (Kennedy è un guardiano di negracci), mentre
nella capitale altri segregazionisti sfilavano sotto la Casa Bianca mostrando
cartelli sarcastici contro JFK come: «You stoop to Cuba, but not ‘Ole
Miss’» (Ti sottometti su Cuba, ma non sulla ‘Ole Miss’) 211.
Inoltre, in quegli stessi giorni si verificò pure un nuovo episodio di
segregazione, emblematico anche perché direttamente legato alla CMC. La
notizia, che emerge da un quotidiano della black press, arriva da Tampa,
città della Florida che in quei giorni era nel pieno della mobilitazione e dei
preparativi militari per l’invasione di Cuba. «Proteste della NAACP
locale», informa l’articolo, «hanno posto termine ad un’operazione segreta
da parte degli ufficiali dell’Air Force per segregare il personale bianco e
nero dell’Air Force portato a Tampa durante la crisi di Cuba. […] le truppe
erano state separate e i neri erano stati assegnati ad un hotel per neri. Il
reverendo A. Leon Lowry, presidente della conferenza statale NAACP della
Florida, ha telegrafato agli ufficiali dell’Air Force lamentando la mancanza.
[…] Il comandante […] del campo ha negato ogni discriminazione […] ma
interviste con personale nero hanno confutato questa dichiarazione […]». Il
ritrovamento, nei locali di quella base militare, di mappe dei vari hotel della
zona «divise in categorie ‘bianche’ e ‘colored’» aveva fornito un ulteriore
indizio della volontà di certi comandi di tenere le truppe separate a seconda
del colore della pelle. Così, su insistenza della NAACP, un colonnello
aveva infine «seguito la situazione e gli hotel di Tampa hanno finalmente
accettato di ospitare le truppe senza discriminazione» 212.
Di fronte alla tenace persistenza di episodi come questi, non sorprende
allora che vari leader del movimento per i civil rights abbiano rilasciato
dichiarazioni riguardanti entrambi i piani: internazionale e domestico.
Come Daisy Bates, attivista dell’Arkansas già molto nota per aver avuto un
ruolo di primo piano nella crisi di Little Rock del 1957 213, che durante la
CMC dichiarò che «i neri erano orgogliosi» della ferma posizione assunta
da JFK. Tuttavia, aggiunse la Bates, «la democrazia viene sfidata oggi
anche dall’interno dell’America» e gli USA «dovranno fare qualcosa
riguardo alla guerra domestica che sta andando avanti all’interno dei nostri
stessi confini [quella per i diritti civili] prima di poter far progressi di un
certo significato nella guerra fredda» 214. Dichiarazioni del tutto analoghe
erano giunte pure da altri influenti attivisti dei diritti civili, come Dorothy
Height, Philip Randolph, James Framer e Medgar Evers 215.
Del resto lo stesso Robert Kennedy, intervenendo a un’assemblea a New
York il 28 ottobre, cioè la sera stessa dell’annuncio dello smantellamento
dei missili, era tornato sul tema dei diritti civili ricollegandolo appunto alla
CMC. Le due battaglie, esterna e interna, andavano di pari passo: «Non
vinceremo questa lotta solo affrontando il nemico», dichiarò agli astanti.
«Ciò che facciamo a casa è in ultima analisi altrettanto importante. Perciò
dobbiamo accelerare i nostri sforzi per bandire i pregiudizi religiosi, le
discriminazioni razziali ed ogni intolleranza che nega a qualsiasi americano
i diritti garantitigli dalla Dichiarazione d’Indipendenza e dalla Costituzione.
È tutto qui il senso di questa crisi» 216.
Manifestazioni di protesta e reazioni nelle università

Se nel complesso, durante la crisi, «il pubblico non cedette al panico,


non fu sopraffatto dall’ansia nucleare e rimase psicologicamente intatto» 217,
dopo di essa si registrarono invece un forte sollievo e un netto aumento di
consensi per il Presidente. Beschloss ha scritto che «la sua vera vittoria
Kennedy la ottenne nei confronti dell’opinione pubblica americana» 218, e i
dati lo confermano: per quel che contano i sondaggi, il suo grado di
popolarità, che era in continuo calo dal marzo 1962 (79 per cento) sino alla
vigilia della crisi (61 per cento), subito dopo essa risalì di colpo (74 per
cento) 219.
Ma la crisi aveva lasciato tracce ben più importanti di momentanei sbalzi
d’opinione politica. Alcune si sarebbero manifestate anche negli anni a
venire. È sempre rischioso ipotizzare nessi causa-effetto troppo precisi e ci
pare un po’ eccessiva l’enfasi con cui Alice George sostiene che gli
americani «emersero dalla crisi come criminali condannati che ricevono una
grazia dopo essere stati legati alla sedia elettrica: sospirano di sollievo, ma
non possono scrollarsi il quasi-ricordo della morte improvvisa». Senz’altro,
però, la CMC può essere considerata come un importante punto di
passaggio del processo in cui «la nazione si lasciò alle spalle il giubilante
americanismo dell’immediato dopoguerra»; un momento in cui si
intravidero «crepe nascenti nella facciata di prosperosa stabilità della
nazione». E quel «senso di sicurezza perso» in quella settimana «può aver
contribuito alla crescente instabilità che avrebbe scosso le fondamenta della
nazione prima della fine del decennio» 220.
Un esempio emblematico in tal senso è dato dall’attivismo manifestato
nei giorni della CMC dai neonati movimenti per la pace: una realtà che si
vedrà poi potentemente all’opera in occasione della guerra del Vietnam.
Vediamo dunque alcune tracce di questi episodi.

«La domenica mattina (28 ottobre)», ricorda il segretario generale


dell’ONU, U Thant, «dopo che l’ambasciatore Stevenson lasciò il mio
ufficio, io guardai dalla mia finestra al trentottesimo piano [e vidi] una
massiccia manifestazione per la pace di circa diecimila persone, radunatesi
di fronte alle Nazioni Unite. Fino a quel momento, era forse la più ampia
manifestazione mai tenutasi davanti all’Organizzazione Mondiale» (la
polizia di New York confermerà il primato) 221. «Potevo vedere centinaia di
cartelli e striscioni» che dicevano: «‘Ci opponiamo a tutte le basi e a tutti i
blocchi’, ‘Negoziati – non guerra’, e così via» 222.
In quella che era stata, almeno relativamente agli USA, la
manifestazione numericamente più ampia dell’intera settimana della
crisi 223, circa venti diverse organizzazioni avevano partecipato, uomini,
donne e bambini avevano marciato e vari speaker avevano tenuto discorsi.
Ad organizzarla, nel giro di appena pochi giorni, era stato Bayard Rustin 224,
l’importante attivista afroamericano per i civil rights che l’anno successivo
organizzerà anche la grande marcia su Washington conclusasi col celebre
discorso «I have a dream» di Martin Luther King. Tra i movimenti aderenti
alla manifestazione di New York c’era anche il preminente Committee for a
Sane Nuclear Policy, meglio noto come SANE, già attivo contro i test
nucleari ed espressosi allo scoppiare della CMC con un telegramma a U
Thant ed un’inserzione sul «New York Times» 225, nonché prendendo
posizione contro un’eventuale invasione dell’isola. La soluzione della crisi
proposta dal SANE prevedeva piuttosto un disarmo congiunto delle basi da
Cuba e Turchia, con l’ONU a farsi formale garante della sicurezza di ambo
i Paesi 226. Tornando alla manifestazione, tra gli oratori c’erano anche due
religiosi: il noto pacifista cristiano Abraham J. Muste e il reverendo
Michael Scott (attivista anglicano, amico di Bertrand Russell, definito oggi
«il Gandhi britannico») 227. Durante il raduno, informa il «New York
Times», alcuni anticastristi, «molti dei quali cubani, hanno fatto diversi
tentativi di sciogliere il meeting. Ma violenza e seri disordini sono stati
prevenuti dalla polizia». Gli oratori poi hanno «espresso soddisfazione» alla
notizia, appena arrivata, della decisione di Kruscev di smantellare i
missili 228.
Neanche ventiquattr’ore prima, altre persone avevano sfilato sotto un
altro edificio importante. Stavolta è Sorensen a ricordare: «Mentre lavoravo
sulla bozza [della lettera di risposta a Kruscev] potevo sentire dalla Casa
Bianca una folla divisa di contestatori che continuavano a gridare nel
Lafayette Park, di là di Pennsylvania Avenue: un gruppo di amanti della
pace che portava cartelli che avvertivano il Presidente di non precipitare la
guerra finale dell’umanità, gli altri [invece] patrioti arrabbiati che
spronavano il Presidente a condurre le forze militari dell’alleanza
occidentale contro quest’imminente minaccia comunista» 229. L’unica cosa
su cui i due opposti gruppi di dimostranti erano d’accordo, apprendiamo dal
cronista del «New York Times» che si fermò ad intervistarli separatamente,
era che lo scambio di basi tra Cuba e Turchia appena offerto via radio da
Kruscev «era la miglior soluzione tra quelle che essi potessero
immaginare». Tanto che i successivi bollettini che Kennedy la stesse
rifiutando avevano lasciato entrambi i gruppi confusi 230.
Interessante anche il ritratto del variopinto campionario di quei circa
1000-1500 dimostranti (alcuni dei quali appositamente giunti nella capitale
fin dall’Ohio, dal New Jersey e dall’Indiana) radunatisi in quella cruciale
giornata del Novecento sotto le finestre del proprio governo.

La manifestazione era stata convocata inizialmente dalla Student


Peace Union, un’organizzazione pacifista. Una controdimostrazione
è stata allora organizzata dai Giovani Americani per la Libertà, un
gruppo con tendenze di destra. Accanto, un gruppo di studenti e
rifugiati cubani […] Infine, cinque giovani marcianti in vestito color
uniforme, con svastiche sulle bande al braccio indicanti la loro
appartenenza al Partito nazista americano […]. Sotto direzione della
polizia, essi hanno diviso il loro limitato spazio col reverendo
Sidney Lansing, pastore della Chiesa Assemblea dei Crociati […].
Splendente nelle sue vesti rosso e oro con un teschio argentato sul
cappello sormontato da una stella ad otto punte, il signor Lansing
portava una targa proclamante il presidente Kennedy un traditore.
La polizia l’ha spinto fuori dalla fila finché non ha prodotto un
cartello meno provocatorio 231.

Tra i vari gruppi presenti, proseguiva il «New York Times», «la Student
Peace Union aveva di gran lunga il più ampio numero di manifestanti. […]
Predominavano i giovani, ma c’era una consistente manciata di donne di
mezza età ed anziane, indossanti tesserini di appartenenza al Women Strike
for Peace». Alcuni dei loro cartelli chiedevano: «Disarmo sotto il diritto
mondiale», «Non dobbiamo invadere Cuba», «Fermate questa follia», «La
pace è l’unico rifugio». Un opuscolo della Student Peace Union definiva la
reazione USA «sconsiderata» e proclamava: «Non siamo qui per
giustificare i missili sovietici e le minacce di guerra, ma […] l’unica
risposta risiede in un atteggiamento di conciliazione e onesta
contrattazione». Di ben diverso avviso i cartelli dei Giovani Americani per
la Libertà: «‘L’appeasement è per i codardi’ […] ‘Invadete!’», e i loro
opuscoli: «Le persone che chiedono pace, che vogliono che teniamo giù le
mani, sono la quinta colonna comunista. Sono dei traditori del nostro Paese
e dovrebbero esser trattati come tali» 232. Piccoli incidenti si ebbero quando
alcuni dei cubani anticastristi tirarono uova e pomodori sul gruppo pro-
pace, schizzando anche alcuni poliziotti, che poi li arrestarono.
Fatti come quest’ultimo del resto si erano verificati un po’ per tutta la
settimana in vari luoghi del Paese. «Negli ultimi tre giorni», scrive il
«Boston Globe», «qualsiasi cosa dal raggelante silenzio alle uova e ai pugni
ha accolto i picchetti e i discorsi di alcuni gruppi ‘anti-guerra’ o ‘[pro]
pace’» 233. In una nota università dello stato di New York un oratore
pacifista aveva chiesto provocatoriamente al suo uditorio: «Siete pronti per
la guerra nucleare?», attendendosi evidentemente un no. Ma la folla,
fomentata da locali gruppi di minutemen, replicò gridando: «YES!» 234.
Quali furono gli slogan tipici dei contromanifestanti di destra?
«All’inferno Fidel» (the hell with Fidel), «Abbasso le tre C: Cuba, Castro,
Comunismo» 235, «We back Jack!» (noi appoggiamo Jack, gioco di parole
col soprannome familiare di JFK), o ancora, «180 milioni di americani non
possono sbagliarsi», «Cuba per i cubani, la Russia per i comunisti» 236. Ma
soprattutto sonore bordate di fischi: quelle regolarmente indirizzate dalla
maggioranza degli ascoltatori verso gli speaker che chiedevano di
riconsiderare le politiche statunitensi verso un approccio negoziale. Episodi
simili si registrarono per esempio all’Università di Minneapolis (Minnesota:
qui anche con lanci di uova), all’Università di Bloomington (Indiana: qui ci
furono anche degli scontri), all’UCLA 237 e a Berkeley 238 (California).
Tuttavia quest’ostilità non scoraggiò le sparute minoranze dall’esprimere il
loro dissenso. Tra coloro che salirono su un palco a parlare ci fu anche, a
San Francisco, l’attore di Hollywood Sterling Hayden 239: ovvero, guarda
caso, il futuro interprete del generale Ripper nel dissacrante Dottor
Stranamore di Stanley Kubrick. Ad Harvard il «Crimson», il noto
quotidiano dell’Università – per cui lo stesso Kennedy, da studente, aveva
scritto – ora lo criticò per aver «scartato freneticamente» la via della
diplomazia 240. Insomma, benché palesemente minoritaria nell’opinione
pubblica, «in tutta la nazione ci fu una raffica di manifestazioni nei
campus» 241. Un segnale, questo, che un settimanale di impronta liberale
come «The Nation» non mancherà di notare con soddisfazione:

La performance dell’embrionale movimento per la pace durante la


crisi di Cuba è stata tanto buona quanto ci si potesse aspettare. Era
la prima volta che esso si trovava davvero sotto tiro. […] la crisi
stessa si è infiammata improvvisamente e c’è stato poco tempo per
reagire. [Inoltre] era più difficile andare per le strade e manifestare
per la pace quando Kruscev aveva piazzato razzi sul suolo cubano
che non quando era solo questione di test nucleari […] visto che era
perfettamente chiaro che la maggioranza della gente si andava
radunando ciecamente attorno al Presidente e chiunque consigliasse
moderazione rischiava di essere stigmatizzato come un pacifista, o
finanche un traditore. Eppure ci sono state alcune migliaia che
hanno fatto proprio questo, compresi considerevoli contingenti nelle
università […]. Tutta la storia mostra che ciò che inizia come una
minoranza spesso diviene una maggioranza. E la ragione non sta
necessariamente dalla parte dei numeri più grandi […]. La
coscienza deve parlare al potere. […] Il movimento per la pace è
tagliato per questo lavoro. Per la salvezza di tutti noi, possiamo
[solo] sperare che cresca 242.

Di fatto fu ciò che avvenne. I primi rilevanti episodi americani di


contestazione politica giovanile legata a un evento, verificatisi appunto
durante la CMC, presagirono infatti le loro successive grandi proteste
contro la guerra del Vietnam 243.
La crisi vista dai campus. Tre esperienze

Emblematica in tal senso la testimonianza di Todd Gitlin, allora studente


ad Harvard e membro del locale gruppo universitario per la pace Tocsin, poi
presidente dell’importante organizzazione Students for a Democratic
Society (SDS), nonché organizzatore nel 1965 della prima manifestazione
di protesta su scala nazionale contro la guerra del Vietnam e infine autore,
decenni dopo, di un importante libro di analisi retrospettiva, anche
autocritica e autoironica, sugli anni Sessanta ed i movimenti ruotanti
intorno alla New Left 244. Henriksen ha riassunto l’esperienza di Gitlin
durante la CMC dicendo che questa crisi «di fatto agì come un incentivo
alla continuazione della rivolta culturale», in quanto «fece apparire le
politiche radicali necessarie, perfino possibili» 245. Alla base di tale
spostamento (di Gitlin, ma non solo suo) verso il radicalismo ci sarebbe
stato cioè uno scetticismo crescente verso l’uso troppo disinvolto del potere
da parte del governo – disposto perfino ad esporre le loro giovani vite al
rischio di catastrofe atomica. Ciò che a noi sembra emergere dalle pagine di
Gitlin è anzitutto la presa di coscienza dell’impotenza dei propri sforzi: «I
miei amici nel gruppo erano, come me, dolorosamente consapevoli del
nostro quasi completo isolamento dal resto del Paese e della nostra
mancanza di possibilità di influenzare il corso degli eventi. Stuart Hughes
[il candidato locale al Senato che godeva delle simpatie del Tocsin, NdA]
raccolse nientemeno che l’1,5 per cento dei voti senatoriali del
Massachusetts. Bene che andasse, eravamo irrilevanti; in alcuni posti, la
gente come noi era stata assaltata come traditrice» 246.
Ad ogni modo, al di là delle conclusioni che egli (ed altri) trassero da
quell’esperienza, c’è tutto un mondo – quello dell’attivismo studentesco
americano degli anni Sessanta, qui ancora marginale ma destinato a
crescente ribalta – che riaffiora dai suoi ricordi di quei giorni.

Per sei giorni il tempo fu deformato, la vita di tutti i giorni


improvvisamente rimpicciolì e s’illuminò come per il bagliore di
un’esplosione che non aveva ancora avuto luogo.
Questa descrizione ci pare una delle più efficaci e puntuali tra le tante
che tentarono di esprimere il particolare mood di quei giorni. Ritroveremo
echi della stessa sensazione tra i versi di Dylan (Cuban missile crisis) e
nelle meditazioni di Mailer sullo stordimento dei newyorchesi.

Finché non fu trasmessa la notizia che Kruscev si stava ritirando, il


Paese realizzò lo sgomento e la ferocia e il pre-panico a fuoco lento
sempre implicito nell’era termonucleare. Nei college del New
England, alcuni studenti si ammucchiarono nelle loro auto e
partirono per il Canada fino a ulteriori notizie.
Nello scantinato della Quincy House, il nucleo del Tocsin guardò
alla televisione il discorso di Kennedy, e poi si lanciò in un meeting
– e che altro sennò? [autoironia sulla mania studentesca di far
riunioni su tutto, NdA] Per la prima volta, eravamo seriamente
divisi 247. […] Il telefono portò la notizia: l’isteria nazionale rendeva
la protesta sia necessaria sia pericolosa. […] Dovevamo manifestare
se volevamo che le libertà civili [compresa, cioè, quella al dissenso]
fossero preservate. Nell’Università dell’Indiana una manciata di
picchettanti antigovernativi furono interrotti, inseguiti da una folla
di duemila studenti e infine costretti a rifugiarsi in una biblioteca. A
Cornell, due professori furono buttati giù dalla tribuna con pietre e
ammassi di fango. All’Università del Minnesota, alcuni professori
furono bersagliati da uova ed arance. […] Nelle città principali non
ci fu praticamente alcun dissenso. Ad Atlanta, per esempio, il totale
complessivo dei manifestanti […] fu di trenta; una di loro, Alice
Lynd, venne licenziata per questo dal suo lavoro di aiutante di
bambini. Cosa doveva fare il Tocsin? Dibattemmo se copromuovere
un raduno […] a Boston sabato – assumendo che dovessimo vivere
fino a sabato – e un membro del Tocsin mi passò un biglietto
intitolato: ‘Manifestare è sbagliato!’ […] La nostra principale
reazione invece fu un raduno il mercoledì sera. Come speaker, [il
candidato al Senato] Stuart Hughes fu una scelta ovvia. Un amico
tirò fuori [anche] il nome di Barrington Moore Jr., che aveva un
incarico di ricerca [ad Harvard], […] e veniva considerato una sorta
di eminenza grigia dei marxisti.
Moore diverrà poi un importante sociologo politico: molti dei suoi saggi
sono stati tradotti in italiano.

[…] Dall’altro lato della strada del nostro raduno, Martin Luther
King stava parlando quella sera in una sala più grande. (Mandammo
da lui un emissario, chiedendogli di unire i due raduni e parlare ad
entrambi, ma egli rifiutò) 248. Ognuno dei due raduni aveva attratto
una folla di un migliaio o più come da capienza ed una ancor
maggiore stipata in sovrannumero. Fuori dalla nostra sala, diverse
dozzine di emigrati anticastristi che erano arrivati in ritardo
battevano a porte e finestre. In un angolo, destrorsi dei Giovani
Americani per la Libertà sollevavano ombrelli neri, sottintendendo
che noi eravamo gli equivalenti, con mentalità da Monaco, di
Neville Chamberlain 249 e fischiarono sporadicamente per tutta la
serata. […]

(Era, si noti, la stessa tripartizione vista sotto la Casa Bianca: studenti


pacifisti, destrorsi, esuli anticastristi). Poi, ecco la sopresa:

Il misterioso Barrington Moore Jr., […] con calma, stette in piedi


sul podio e in frasi semplici smantellò la mia politica. […] ‘La
reazione standard pacifista – disse – che sottolinea gli orrori della
guerra, con un appello alle Nazioni Unite […] è completamente
inadeguata. […] Non porta alla luce le radici della situazione. Non
fa che contribuire alla generale mistificazione’. Io ero sbalordito.
Avevamo passato due notti cercando di mettere insieme delle
proposte precise da distribuire nel Boston Common [il parco della
città], come se esse contassero, ed ora ecco qui Moore che ci diceva:
‘il tentativo di fare proposte pratiche, […] moderate e realistiche, è
la cosa più irrealistica che si possa fare a questo punto. […] Nel
governo, ne sanno molto di più di voi sui fatti. […] Le alternative
costruttive lasciatele a Bundy. […] Egli ha un interesse a
sopravvivere che è probabilmente forte almeno quanto il nostro.
[…] Gli Stati Uniti sono un bastione della reazione. […] In altre
parole se c’è una protesta, per aver senso, deve prender la forma di
critica distruttiva di un sistema distruttivo’ 250.
Serviva una rivoluzione, insomma. Sia negli USA sia in URSS.

Moore era nel bel mezzo della sua omelia quando Stuart Hughes,
fresco di un altro discorso, arrivò sul palco – e suscitò una standing
ovation. […] Fui commosso dalla stretta di mano; […] [Ma] La
bomba ideologica di Moore continuò ad esplodere per giorni.
Quando finì il raduno, io e i miei amici tornammo in camera mia e
stemmo alzati per ore dibattendo le implicazioni del suo discorso.
Se Moore aveva ragione, cosa contavano il Tocsin e la sua politica?
Avevamo messo via i nostri romantici attaccamenti al socialismo,
all’anarchismo, alla resistenza, e puntato tutto sulla chimera della
praticabilità. Ora, al momento che il gioco si faceva duro, le potenze
a Washington – e Mosca – non potevano fregarsene di meno di cosa
pensasse un bel mucchio di loquaci studenti di college. Le grandi
potenze potevano trascinare il mondo sull’orlo dell’annientamento
ogni dannata volta che più lo gradissero. Quella notte, per me, il
Tocsin svanì in fumo.

È un punto di svolta verso il radicalismo. «Venerdì mi recai in auto a una


manifestazione di Washington con […] [due membri] della SDS e un altro
tocsiniano, tutti quanti pronti a morir felici di morte prematura. ([…]
Comprammo una bottiglia di vino e trascorremmo ore a raccontarci l’un
l’altro in modo autoesagerato le storie delle nostre vite, finché, distratti, non
rimanemmo senza benzina proprio a sud di Baltimora)». Giunti infine in
qualche modo nella capitale, Gitlin e i suoi compari mandarono un
telegramma a Fidel Castro invitandolo a smantellare i missili. Fu in quei
giorni che, ricorda Gitlin, «sentii il mio centro di gravità spostarsi verso
l’SDS» 251. Rimasto conquistato proprio durante la CMC da quel nuovo
organismo studentesco destinato ad assumere un ruolo di primo piano negli
anni del Vietnam 252, Gitlin di lì a pochi mesi ne diverrà il presidente.

Se dunque Gitlin della mobilitazione studentesca di quei giorni ricorda


anzitutto l’impotenza rispetto all’opinione pubblica dominante,
l’individualismo ne fu invece il tratto saliente secondo l’afroamericana
Angela Davis. La futura attivista di fama internazionale, poi molto vicina al
movimento delle Black Panthers, era allora una diciottenne matricola alla
Brandeis University, un ateneo situato sempre nei dintorni di Boston. «Il
lato impressionante della reazione studentesca alla crisi», scriverà anni
dopo nella sua autobiografia, «fu il suo spiccato carattere egoistico». Tra
studenti che «si aggiravano per i viali silenziosi e storditi, o gridavano il
loro terrore che il mondo stesse per incenerirsi», tra ragazzi che saltavano in
macchina per fuggire in Canada o coppiette che si appartavano in solitarie
fughe d’amore preapocalittiche, nessuno pareva preoccuparsi dei tremendi
pericoli corsi «dal popolo di Cuba», né da altri «milioni di innocenti» in
caso di escalation atomica: «Tutti pensavano soltanto a sé, a salvare la
pelle». Si avverte qui il temperamento politicamente esigente di una
giovane studentessa di filosofia, già convintamente comunista, che resta
delusa dall’individualismo delle reazioni dei suoi coetanei americani, meno
inclini di lei a sguardi d’insieme sui problemi internazionali. Fu infatti
soprattutto con gli studenti stranieri (sudvietnamiti, filippini, indiani) che
ella trovò affinità in quei pochi giorni di «comizi, teach-in e
manifestazioni» 253.
La Davis restò colpita, inoltre, dai discorsi «vigorosi» (così li definisce)
pronunciati sulla crisi cubana sia dallo scrittore James Baldwin (si veda
sopra) sia dal filosofo Herbert Marcuse, futuro vate degli studenti del
Sessantotto. Fu appunto in quell’occasione che ebbe modo di ascoltare per
la prima volta il filosofo tedesco naturalizzato americano, del quale diverrà
poi assistente universitaria. «Il succo del loro messaggio era di non cedere
alla paura e alla disperazione ma di premere sul governo perché ritirasse la
minaccia» 254. Tra qualche pagina ritroveremo un monito contro paura e
apatia anche nelle riflessioni di Norman Mailer, che le additerà come una
colpa ai suoi concittadini newyorchesi. Ma né Mailer, né Baldwin, Marcuse
e la Davis rappresentavano l’americano medio.

L’esperienza della campagna elettorale a sostegno di Stuart Hughes


durante la crisi cubana fu gravida di sviluppi anche per un altro personaggio
destinato ad assumere un ruolo di primo piano negli anni seguenti: Abbie
Hoffman. Attivista della New Left, oppositore della guerra in Vietnam,
fondatore dello Youth International Party (da cui i famosi yippie), Hoffman
diverrà l’icona per eccellenza della controcultura americana e della
ribellione giovanile, «la quintessenza dello spirito degli anni Sessanta» 255.
Come Todd Gitlin, nell’autunno del 1962 il ventiseienne Abbie Hoffman sta
facendo campagna «porta a porta» in Massachusetts per Stuart Hughes, il
docente di storia di Harvard candidato al Senato come indipendente,
sostenitore del disarmo nucleare. Ma l’arrivo della crisi cubana annulla ogni
residua chance di impensierire il già strafavorito candidato Ted Kennedy,
fratello minore del Presidente. Come ricorda Hoffman nella sua
autobiografia, la campagna procedeva bene; «poi ci cadde il soffitto sulla
terra. Anzi il cielo. […] La popolazione si radunò nei bar per guardare in tv
Adlai Stevenson che mostrava le foto […] La gente svuotava i conti
correnti […] gli scienziati più insospettabili sparavano fesserie tipo: ‘se
esplode una bomba atomica, schermatevi gli occhi’. Molti americani erano
convinti che la fine fosse vicina» 256. A quel punto, Hughes «attaccò la
politica del ‘rischio calcolato’ di Kennedy […][e] il giorno dopo la
dichiarazione, la stampa infilò i guantoni. […] Il ‘professore pensieroso e
profondo’ diventò ‘il fantoccio dei russi ad Harvard’ e così la campagna
colò a picco 257. Nonostante tutto», conclude però Hoffman, «alcuni dei
migliori attivisti politici degli anni Sessanta si sono fatti le ossa durante
quella campagna elettorale» 258. Anche il suo biografo infatti sottolinea
l’importanza della CMC in quegli ambienti giovanili, in quanto «imbevette
la generazione degli anni Sessanta di una mentalità apocalittica, di un senso
dell’assurdità della politica e di un sospetto verso i politici». In altre parole,
«la crisi dei missili incoraggiò una generazione a prendere rischi e fare la
storia prima che fosse troppo tardi» 259.
La stampa

«Negli Stati Uniti», è stato scritto, a differenza che altrove «la stampa ha
un peso eccezionale e determinante sui grandi orientamenti dell’opinione
pubblica» 260. Per questo un’analisi della copertura della CMC da parte della
stampa americana può risultare particolarmente significativa e meritevole di
spazio, più ancora che quella di altri Paesi. Quale dunque la performance
che essa seppe fornire e quali i suoi rapporti col potere di fronte a un test
della portata della CMC? «La relazione stampa-potere presidenziale
[avutasi in quell’occasione] è spesso citata come un evidente esempio di
dominio presidenziale della stampa a causa della copertura stampa durante
la settimana di crisi iniziata il 22 ottobre. Ma la questione dei missili
sovietici a Cuba era iniziata due mesi prima, a fine agosto e inizio
settembre. E molta di questa copertura iniziale era dannosa per
Kennedy» 261. Lo abbiamo visto (capitolo Verso il climax). Per citare qui un
solo altro esempio, ecco cosa scriveva la diffusa rivista «Life» in un
editoriale di fine settembre, quando ancora non c’erano prove di basi
nucleari: «Il rafforzamento di armi di Kruscev a Cuba è un’insolente sfida
all’Emisfero Occidentale che per ora non ha portato ad alcuna risposta
adeguata dal presidente degli Stati Uniti. La Casa Bianca sembra
avviluppata in ciò che pare indecisione. […] Il Presidente deve agire, e lo
sollecitiamo ad invocare la dottrina Monroe» (la dichiarazione fatta nel
1823 dal presidente omonimo, in base a cui gli USA annunciavano che non
avrebbero reclamato voce in capitolo nelle vicende europee, ma parimenti
non avrebbero tollerato nuove intrusioni coloniali da parte di potenze
esterne nell’Emisfero Occidentale). «Cosa è successo alla dottrina Monroe?
[…] Essendo essa unilaterale, la dottrina ha sempre significato quel che gli
USA intendono che significhi, compreso che tipo di ‘colonizzazione’
intende vietare. Ma per significare qualcosa agli occhi di Kruscev, essa ha
bisogno di una definizione fresca. […] Kennedy deve al mondo questa
chiarificazione» 262. In realtà JFK, al di là di ogni dichiarazione pubblica,
non teneva quella dottrina in alcun conto, evidentemente considerandola
superata – non a caso essa non verrà menzionata neppure una volta nel suo
discorso del 22 263.
Ma ecco che appena la crisi scoppia, si assiste a un cambiamento, un
subitaneo riavvicinamento tra i due soggetti in questione. Stampa e governo
si riaccostano. Anzi, addirittura in quei giorni «l’amministrazione cercò di
usare la stampa come uno strumento di politica nazionale. Ad essa fu
richiesto di mantenere il segreto finché Kennedy potesse annunciare
drammaticamente la sua politica, e di lì in poi da essa ci si aspettò che
abbracciasse l’interpretazione governativa della faccenda. Con assai poche
eccezioni, reporter, direttori e columnist accettarono questa strategia. In
mancanza di spiegazioni alternative […] la stampa permise a Kennedy,
McNamara e altri funzionari di disseminare le loro opinioni senza repliche,
e perciò contribuì durante la crisi dei missili a una significativa espansione
del potere presidenziale» 264. Secondo un altro studio, «messi di fronte alla
prospettiva di guerra imminente, politici e giornalisti si radunarono intorno
a Kennedy come bambini spaventati, offrendo un supporto quasi
incondizionato» 265. Anche «Crimson», il quotidiano di Harvard, denunciò
l’assenza di critiche formulate dalla stampa, per cui Kennedy era «divenuto,
almeno per una settimana, il nostro leader infallibile» 266. Questi passi citati
colgono tutti una parte della realtà, ma a nostro avviso va sottolineato come
quel riavvicinamento sia stato spontaneo più ancora che indotto dal
governo. Dall’analisi della stampa nazionale, infatti, ciò che vediamo
emergere è un sentimento di istintivo radunarsi intorno al proprio leader in
un momento di grave pericolo per la nazione. Un patriottismo che appare
affiancato, ma non frenato, dalla compresenza di forti timori per i rischi
della situazione.
Si veda per esempio l’editoriale del «New York Times» del 23 ottobre.
La scoperta delle basi nucleari a Cuba, afferma il quotidiano, «altera
drasticamente la situazione». Dunque ora «drastica azione era richiesta. […]
Non è un’azione così drastica come molti americani vorrebbero prendere;
ma […] lodiamo il Presidente per la sua moderazione nel non andare oltre
un blocco parziale […]. Questo è in se stesso un passo considerevole, della
massima gravità; e il pubblico americano non dovrebbe essere illuso a
pensare che ciò non possa avere le più serie conseguenze. Tuttavia, […] alla
luce delle nuove circostanze scoperte il Presidente non avrebbe potuto fare
molto meno di ciò che ora ha fatto» 267.
Nei giorni successivi, gli editoriali del «New York Times» sostengono
apertamente la necessità, da ambo i lati, di negoziare e ricorrere alla
diplomazia per evitare «conseguenze letteralmente incalcolabili». «La
violenza non è la via per sistemare questa o altre dispute. […] Come questo
giornale ha reiterato più e più volte, la negoziazione è la via. […] Come ha
detto l’ambasciatore Stevenson: ‘Questo è un tempo per la diplomazia’.
Non è un tempo per il reciproco annientamento» 268.
Quanto al «Washington Post», i suoi editoriali non firmati di quei giorni
contengono posizioni così fedelmente affini all’evoluzione della linea
governativa che il Presidente non avrebbe avuto difficoltà a metterci la
propria firma. L’editoriale del 24 ottobre usa toni duri verso il Cremlino
(ammonendo tra l’altro l’URSS a mostrare nei Caraibi la stessa cautela
usata dagli USA in Ungheria nel 1956, quando non vi fu replica militare
all’intervento sovietico nella propria zona d’influenza); poi fa intravedere
delle possibili concessioni ai russi: prima generiche (25), poi esplicitamente
menzionanti le basi turche (28), sempre sostenendo le ragioni e il merito
delle posizioni assunte dal Presidente 269.
Un senso di consapevolezza del ruolo dell’America e delle sue
accresciute responsabilità di fronte al mondo è ciò che emerge invece
dall’autorevole «Christian Science Monitor». In questa crisi, si legge
nell’editoriale del 24 ottobre,

il modo in cui gli americani si comporteranno farà molto per


determinare la qualità della loro leadership. […] Essi saranno
giudicati […] da individui in tutto il globo. […] Cosa significavano
la faccia severa e i toni freddi di voce del presidente Kennedy? Era
il volto di una nazione che è determinata od ostinata, solida o
arrabbiata, virtuosa o che presume di esserlo? […] Sta usando la
forza militare per servire una politica onorevole o è invischiato nelle
trappole del militarismo? Ad alcuni americani sembrerà offensivo
perfino porre queste domande. […] Ma il mondo sta osservando con
il cuore in bocca, sperando e temendo, e le sue ansie necessitano
[…] risposte oneste. […] Un popolo allevato nell’isolamento,
temprato da due guerre mondiali, ha accettato il peso di una
leadership che non aveva cercato, e al meglio delle sue abilità vi sta
tenendo fede. Un popolo che è conscio della colpa di non aver
controllato Hitler sta tenendo testa al suo successore nel mestiere
dell’aggressione. […] [Eppure,] nessuna nazione è perfetta. Poche
motivazioni umane sono univoche. […] più che mai nella storia è
urgente proteggere la pace. Per il popolo degli Stati Uniti questo è
sia un test di forza che di carattere 270.

Da questo stralcio, oltre ad un responsabile appello all’autoanalisi e alla


protezione della pace, emerge l’immagine dell’URSS come successore della
Germania nazista: un concetto che ritroveremo pure tra le riflessioni del
teologo Niebuhr; un parallelo che, fondato o meno che fosse, costituiva
chiaramente una molla molto potente nel modo in cui gli americani
concepivano il loro ruolo nella guerra fredda. Di qui anche i frequenti
riferimenti, che abbiamo già incontrato più volte, ai rischi di una nuova
Monaco, di un nuovo appeasement.

Venendo a due voci storiche dei media statunitensi, il noto anchorman


televisivo Walter Cronkite sulla CBS cercò in quei giorni di aggiornare la
gente sugli sviluppi della crisi ora per ora, ma senza soffermarsi su scenari
di guerra nucleare che avrebbero rischiato di scatenare il panico 271.
Quanto invece a Walter Lippmann, si è già detto nella Parte prima
dell’importante ruolo che egli ebbe sugli eventi stessi della CMC. Il più
autorevole dei columnist americani – definito da uno studio addirittura
«l’unico giornalista importante che sollevò questioni sull’azione del
Presidente» durante la crisi 272 – si attirò con quell’articolo del 25 ottobre
non pochi rimproveri, da membri del governo come da parte dell’opinione
pubblica. Ricevette in quei giorni cumuli di lettere da parte di lettori irati
che gli rimproveravano aspramente la proposta diplomatica avanzata
riguardante i missili in Turchia, sostenendo perfino che la sua condotta nella
CMC era una riprova della necessità di porre dei freni alla libertà di stampa.
Egli stesso confiderà a Dobrynin di essere stato sottoposto a una sorta di
lavata di capo per aver fatto quella proposta 273. Ad essa replicarono
implicitamente, il 26 e il 28, due editoriali di James Reston sul «New York
Times», probabilmente su invito del governo 274. Anche l’ExComm, nella
riunione del 27 ottobre, parlò ripetutamente dell’editoriale di Lippmann,
domandandosi se ci fosse anche quello dietro la nuova lettera di Kruscev
(come in effetti era: si veda la Parte prima). Kennedy ne fu infuriato 275. Poi
però concluse appunto il compromesso proposto da Lippmann, seppure in
segreto 276. A crisi appena alleviatasi, comunque, Lippmann scriverà un altro
articolo in cui riconoscerà serenamente i meriti di JFK:

Quando ho sentito il presidente Kennedy lunedì 22, temevo che


ancora una volta fossimo sulla linea di una resa incondizionata e
avremmo sperperato una accessibile vittoria ingaggiandoci in una
crociata per liberarci di Castro. Quest’ansia, sono lieto di dire, era
infondata. Perché, come ho appreso poi, Kennedy ha fatto ciò che
Wilson, Roosevelt e Truman non avevano fatto. Ha tenuto aperto un
canale di comunicazione diplomatica col suo avversario e non si è
allineato con quelli che, in questa crisi di guerra come in tutte le
altre crisi di guerra di questo secolo, volevano non una soluzione
ma una crociata. Il mondo rimarrà colpito dalla risolutezza di
Kennedy. Rimarrà colpito anche dalla sua saggezza. Come in tutte
le buone soluzioni, nessuna parte è perdente ed entrambe sono
vincitrici 277.

Dopo l’annuncio dello smantellamento, come visto, la forte tensione del


Paese si sciolse in un trionfalismo, che naturalmente si trova riflesso anche
nella stampa nazionale. «Lo Zio Sam dà gli ordini nella guerra fredda»,
titolava il 29 la prima pagina del quotidiano di Dallas 278. Un altro esempio è
dato dal settimanale «Life»: critico dell’attendismo prima, orgoglioso e
battagliero durante, compiaciuto e borioso dopo – così potremmo
sintetizzare le sue posizioni sulla CMC 279. Su posizioni più equilibrate
invece il «New York Times» (il cui editoriale del 29 era significativamente
intitolato Un trionfo della ragione) 280 e il «Washington Post» (Un nuovo
raggio di sole), che riconosceva nell’accordo raggiunto dai due leader «la
più significativa cesura nella guerra fredda dal suo inizio», intravedendo
l’alba di «una nuova era per l’umanità» 281. Il giorno dopo ammoniva però
che «ci saranno altre crisi dopo Cuba» e «presto o tardi, il tremendo
dramma dei ‘cannoni di agosto’ si ripeterà», per cui «gli uomini di buona
volontà ovunque devono cercare un’alternativa alla guerra e alla minaccia
di guerra come strumento di politica» 282. Complessivamente, comunque,
l’euforia era evidente e palpabile. Il columnist Richard Rovere scrisse che
JFK aveva «vinto ciò che è forse il più grande trionfo diplomatico personale
di ogni presidente nella nostra storia» 283.
Al trionfalismo però subentrerà presto nella stampa un atteggiamento più
disincantato verso il potere presidenziale. Anche in questo la CMC si
rivelerà un passaggio importante. Già durante la crisi infatti aveva causato
evidenti malumori nella stampa il fatto che nessun reporter fosse stato
ammesso a bordo delle navi della Marina che andavano a effettuare il
blocco 284; così come la lista governativa distribuita ai media il 24 ottobre
elencante dodici categorie di informazioni (militari e di intelligence) la cui
diffusione era definita «contraria all’interesse pubblico». Di fatto, seppure
per fondate ragioni, la Casa Bianca stava chiedendo ai media limitazioni e
autocensure degne di uno stato di guerra, in una crisi che guerra ancora non
era. «Censura informale» la definì infatti Dobrynin nel suo rapporto a
Mosca 285. Poi, all’indomani della risoluzione della crisi, scoppiò una
polemica per l’esplicita rivendicazione, da parte di un membro del
Pentagono (Arthur Sylvester: vedi Premessa), della diffusione di notizie
come «un’arma» [one weapon] nelle mani del governo, durante simili crisi
internazionali 286. Il «Washington Post» ammonì che una simile politica
aveva «conseguenze […] molto serie» 287. E così sarà, perché
progressivamente direttori, columnist e reporter cominciarono ad
approcciarsi al governo con meno istintiva reverenza e maggiore
scetticismo. Come ha scritto Alice George, «in seguito alla crisi,
l’amministrazione Kennedy ebbe di fronte una stampa più scettica, e i suoi
successori sentiranno l’assalto di attacchi da parte di reporter che
consideravano la Casa Bianca ben capace di seguire la premessa di
Sylvester e mentire» 288. Se nel 1961 la stampa americana aveva cooperato
col governo rinunciando a rivelare in dettaglio l’imminenza dello sbarco
alla Baia dei Porci (con successivo rimpianto dello stesso Kennedy, a
disastro avvenuto 289) e l’anno dopo la concessione era stata ripetuta per la
CMC (si veda la Parte prima) 290, ecco che a distanza di un decennio dalla
crisi, Max Frankel – il reporter del «New York Times» che aveva
acconsentito alla richiesta telefonica del Presidente – confiderà che da
allora «nessun accordo simile fu mai più concluso, benché vari funzionari
[del governo] abbiano fatto approcci. L’ingrediente essenziale era la fiducia
[trust], e quella andò smarrita da qualche parte tra Dallas e il Tonchino» 291.
In altre parole, quella sera il «New York Times» (come pure il «Washington
Post») aveva acconsentito a Kennedy non solo per le particolarissime
circostanze della crisi, ma anche perché egli godeva della loro fiducia
personale. La sua cruenta uccisione a Dallas e poi l’inizio dell’escalation
vietnamita da parte della nuova amministrazione tramite un casus belli
rivelatosi poi in buona parte fittizio come l’attacco al golfo del Tonchino (2-
4 agosto 1964) distrussero le basi di quel rapporto di fiducia e lealtà,
sostituendolo con un crescente sospetto verso la segretezza della Casa
Bianca. Tale mutamento diventerà evidente nel momento in cui la stampa
americana si troverà a dover trattare episodi chiaramente criticabili come
appunto l’escalation della guerra del Vietnam e lo scandalo del Watergate.
Nel farlo, non userà guanti 292.

«Questo fa di voi un’arma da guerra fredda», dice il governo ai media, facendogli indossare il suo
cappuccio del controllo delle notizie 293.

Seppure di influenza più marginale sull’opinione pubblica, possono


essere considerati parte della stampa statunitense anche i principali
quotidiani universitari. Giova dunque menzionare qui che il giornale della
rinomata università di Stanford in quei giorni spronò ad Invadere Cuba 294,
mentre quello di Harvard reputò eccessivo anche il blocco, criticando
Kennedy per aver preso una via «non diplomatica» 295. «Crimson» (questo il
nome del quotidiano di Harvard) concludeva però preannunciando che il
giorno dopo sarebbe comparso «un altro editoriale, rappresentantivo di
un’opinione minoritaria del ‘Crimson’, a sostegno del blocco», intitolato
D’altro canto 296. Alla fine della crisi, poi, un terzo editoriale non firmato
tirò le somme sugli eventi 297. La copertura della crisi da parte del
«Crimson» costituì così un buon esempio di dialettica democratica – uno
che evidentemente sarebbe stato vano cercare su qualsiasi corrispettivo
giornale sovietico o cubano.

Infine, un caso a parte rispetto al panorama fin qui tracciato è costituito


dal «San Francisco Chronicle», quotidiano che adottò una posizione del
tutto peculiare tra le principali testate americane. Fin dal 24 ottobre mise
apertamente in questione le decisioni annunciate da JFK, con un editoriale
il cui testo poi sarà anche ripubblicato come inserzione sul «Washington
Post» per iniziativa di alcune personalità della cultura californiana, che,
riconoscendosi nelle posizioni espresse in quell’articolo, intesero così
segnalarlo all’attenzione del governo (tra i nomi dei firmatari, intellettuali
anche importanti, quali il filosofo ed educatore Mortimer J. Adler, il
popolare columnist Herb Caen, lo scrittore Eugene Burdick – coautore del
romanzo sulla guerra atomica Fail-Safe –, lo psichiatra Kenneth Mark
Colby e il filosofo Alexander Meiklejohn) 298. «La nostra intelligence su
Cuba», affermava quell’editoriale, «è stata disperatamente errata in passate
occasioni [riferimento alla Baia dei Porci]; stavolta sarà meglio che essa sia
ciò che si è detto che è, perché bloccare navi sovietiche è prontamente
riconoscibile come [equivalente a] lavorare con la dinamite. C’è una diffusa
espressione della convinzione che il Presidente dovesse fare ciò che ha fatto
quando lo ha fatto. Ma si può anche dire che è tutt’altro che chiaro che ogni
concepibile passo precedente fosse stato intrapreso». C’è da rallegrarsi del
fatto «che essendo questa una democrazia le gravi mosse possono essere
dibattute e volentieri saranno dibattute in vari forum come l’ONU e l’OAS.
Tuttavia, finché il dibattito non sia stato udito, noi ci troviamo impreparati a
dare appoggio incondizionato ai passi che sono stati intrapresi» 299.
Il 26 poi il «Chronicle», metteva in guardia dall’atmosfera di panico che
a suo dire stava venendo diffusa nel Paese dai media e da alcuni esponenti
politici, con il fondo Star lontani dal pulsante del panico 300. Dopo
l’annuncio dello smantellamento, infine, un nuovo editoriale commentava il
«provvidenziale sviluppo», riconoscendo con onestà i meriti di
moderazione del successivo operato del governo, e individuando già a caldo
i sopraillustrati rischi insiti in un’interpretazione distorta degli esiti della
crisi 301.
La voce di riflessivo dissenso del «Chronicle» inoltre si fece sentire in
quei fatidici giorni anche attraverso l’ironia, nella rubrica del popolare
columnist Arthur Hoppe 302. In quell’ora di compatta adunata nazionale,
l’uso di un simile tono per esprimere dubbi su un tema così grave e delicato
poteva suonare azzardato, perfino inopportuno; in realtà nel contesto del
restante panorama giornalistico nazionale la sua autoironia risulta una
salutare boccata d’aria fresca 303. Vale la pena leggerne almeno qualche
estratto.

La forza del nostro sistema bipartitico, come sapete, è che attraverso


il Grande Dibattito Nazionale arriviamo al corso d’azione più
saggio. E sono lieto di vedere che il blocco di Cuba del signor
Kennedy ha messo in moto un Grande Dibattito Nazionale: i
repubblicani dicono che loro sono più pro-Kennedy di quanto lo
siano i democratici 304. […] In California, il signor Nixon dice di
schierarsi solidamente dietro il Presidente. Anche se, afferma, era
sua l’idea di bloccare Cuba che Kennedy gli ha soffiato. Ma niente
rancori.

In questa singolare gara, proseguiva Hoppe, il primato spetta però al


repubblicano Bob Wilson:

Dodici ore prima che il signor Kennedy facesse il suo storico


discorso sulla Grande Crisi Misteriosa – quando ancora nessuno
sapeva cosa stava per dire a proposito di quale crisi – il signor
Wilson ha rilasciato una dichiarazione a Washington. Tutti i
candidati repubblicani in ogni luogo, ha detto, sono solidamente
schierati dietro ‘qualunque mossa il Presidente abbia deciso di fare’.
Su qualunque crisi il Presidente avesse in mente. Questo super
colpo, come potete vedere, segna un balzo da gigante verso il
Grande Dibattito Nazionale. […] Dopo tutto, posso prevedere crisi
di qui fino al 1984 – se dovessimo vivere tanto a lungo. Tipo:
‘Dovremmo far esplodere l’umanità?’ o ‘Il dissenso è un
tradimento?’ Promettiamo dunque ora di schierarci solidamente
dietro il Presidente. Su qualsiasi mossa egli possa fare. In qualsiasi
crisi egli possa sollevare. Qualunque Kennedy egli possa essere. In
un sol colpo, possiamo spazzar via tutti i difetti e grattacapi della
democrazia. Tipo dover pensare a questioni complesse. O sentire
quel seccante dovere di resistere e gridare contro la maggioranza. I
nostri pensieri saranno al sicuro, le nostre decisioni inattaccabili.
[…] 305.

Un altro pezzo di Hoppe, nelle edicole il 26 mattina, aveva un incipit


emblematico:

Siamo ancora qui? Bene.


La ragione per cui ne sono lieto è che ora possiamo procedere a
chiarire un leggero quantitativo di confusione […]. Una manciata di
pensatori confusi ancora non riescono a vedere la differenza tra quei
missili russi a Cuba puntati al cuore dell’America e i nostri missili
in Turchia puntati al cuore della Russia. Ed essi suggerirebbero
perfino uno scambio. Il Pentagono ha fatto del suo meglio per
chiarire il punto. ‘C’è una differenza molto, molto basilare’ ha
annunciato un portavoce ufficiale del Pentagono in un briefing
ufficiale […] Noi abbiamo missili buoni. Loro hanno missili cattivi.
E noi dovremmo scambiare il buono col cattivo? Assurdo.
Ma per chiarire quest’importante distinzione una volta per tutte,
sono orgoglioso di presentare un’intervista esclusiva con l’analista
militare di US News and World Retort 306 […] – ‘Caporale
Caterpillar 307, può spiegarci la differenza tecnologica […]? […] –
Precisamente. […] Test nei nostri terreni di collaudo hanno
definitivamente dimostrato che i missili buoni sono quelli che
volano via lontano da te. Mentre i missili cattivi sono quelli che
volano verso di te’ 308.
Nel suo pezzo del 31 ottobre, infine, Hoppe prendeva di mira l’atmosfera
trionfalistica seguita all’annuncio della rimozione dei missili. Con probabile
riferimento al columnist Joe Alsop, che aveva definito la CMC «a
remarkable victory» (una vittoria notevole) 309, Hoppe terminava
invariabilmente tutti i capoversi del proprio articolo con una frase molto
simile, quasi a sforzarsi rassegnatamente di aderire a quella sorta di nuovo
mantra collettivo: We have won a famous victory.

Abbiamo vinto una vittoria memorabile. Siamo stati sull’orlo della


guerra e ne siamo ritornati trionfanti con le spoglie. Il nostro corso
d’azione era forse immorale; le nostre tattiche forse illegali; le
nostre giustificazioni forse illogiche. Ma il nostro potere era
innegabilmente inattaccabile. Abbiamo vinto una vittoria
memorabile.
Domenica pomeriggio […] siamo andati al parco, io e la mia
famiglia. Io andai per rendere grazie. Veramente, per rendere grazie.
Era stata una settimana lunga, grigia, piena di paura. E avevamo
vinto una vittoria memorabile.
Siamo andati ad una radura dove eravamo andati già in passato. […]
Abbiamo gridato e abbiamo riso e ci siamo rotolati nell’erba come
già in passato. Ma mai l’erba era sembrata così dolce, il sole così
caldo, né i pianti dei bambini così gioiosi. Perché avevamo vinto
una vittoria memorabile.
[…] quanto in fretta, ho pensato, la vittoria cancella la paura. Com’è
difficile nella vittoria ricordarsi com’era la paura. Quanto effimera è
la paura. Quanto autogiustificatoria è la vittoria. E noi avevamo
vinto una vittoria memorabile.
[…] E così, nella prossima crisi che verrà, le deboli voci della
moralità saranno ancor più deboli. E le forti grida del potere saranno
ancor più forti. Ma non serve a nulla dirlo: abbiamo vinto una
vittoria memorabile 310.
Kennedy ordina blocco di Cuba mentre i comunisti costruiscono basi atomiche sull’isola. («The
Washington Post», Oct. 23, 1962, p. 1.)

Flotta USA comincia blocco di Cuba. («Los Angeles Times», Oct. 23, 1962, p. 1.)
Rapporto dal blocco: le navi comuniste girano. Khrushchev risponde – tono mite; Thant chiede
tregua di due settimane. («San Francisco Chronicle», Oct. 25, 1962, p. 1.)

Kennedy dice ‘No’ all’accordo di K. ‘Missili a Cuba in cambio di razzi in Turchia’ inaccettabile.
(«Boston Globe», Oct. 27, 1962, Evening, p. 1.)
(K naturalmente stava per: Kruscev). La lettura congiunta di questo titolo e dei due successivi rende
evidente come le notizie disponibili ai media e dunque al pubblico americano sulle fasi finali della
crisi possano aver incoraggiato deduzioni non suffragate dai termini reali dell’accordo conclusosi.
I missili se ne vanno! Kruscev decreta rimozione e smantellamento delle basi a Cuba. («Los Angeles
Times», Oct. 29, 1962, p. 1.)
I rossi indietreggiano su Cuba. («The Kansas City Times», Oct. 29, 1962, p.
1.)
Gli intellettuali

Diverse reazioni di uomini di cultura americani verranno presentate nei


successivi capitoli, in quanto ascrivibili a particolari categorie
transnazionali. Qui intanto ne illustriamo alcune. A cominciare da quelle
dei circa quattrocentocinquanta esponenti del mondo accademico
statunitense che pubblicarono un’inserzione a pagamento sul «New York
Times» del 25 ottobre: un appello a Kennedy e Kruscev invocante
«un’immediata riconsiderazione dell’attuale esplosiva situazione» e un loro
urgente incontro al vertice «per prevenire il minaccioso olocausto» 311.
Passando ai singoli, cominciamo da Robert Frost, legato al presidente
Kennedy da una reciproca stima. Frost era il celebrato poeta americano che
nella grande cerimonia di insediamento di JFK, il 20 gennaio 1961, aveva
recitato dei versi sul rapporto tra poesia e potere. Poi, nel settembre del
1962, invitato in Russia, era stato (col segretario agli Interni Stewart Udall)
tra gli ultimi americani a far visita a Kruscev prima della CMC. Il leader
sovietico si era intrattenuto a lungo con lui e lo aveva trattato con la
massima gentilezza, tanto che Frost ne era ritornato con un’eccellente
impressione. Ma anche con un’uscita assai infelice rilasciata alla stampa: gli
americani, gli avrebbe detto Kruscev, erano ormai «troppo liberali per
lottare». Una frase che, riportata dai giornali, mise in ovvio imbarazzo JFK,
e gliene alienò improvvisamente tutte le simpatie 312. Frost non fu nemmeno
convocato alla Casa Bianca per riferire sui contenuti del suo importante
colloquio.
Appena poche settimane dopo, scoppiò la CMC. L’ottantottenne Frost, in
quei giorni nella capitale per il primo Festival Nazionale di Poesia, parlando
dal podio della Library of Congress cercò vanamente di riparare alla propria
gaffe, smentendo il senso attribuito a quella frase e precisando l’equivoco:
quella di Kruscev «era una facezia, tutto qui; non era una frase di sfida,
nulla era provocatorio; voglio che questo sia chiarito, qualsiasi cosa
succeda» 313. Quel «qualsiasi cosa succeda» risulta più chiaro se si considera
il momento in cui fu pronunciato: la sera del 23 ottobre 1962. Mancava
appena una manciata di ore alla temutissima entrata in vigore del blocco.
In quello stesso intervento, difatti, Frost recitò alcune sue poesie che gli
parevano particolarmente appropriate alle circostanze. Cominciò con
ottobre, un componimento in cui decenni prima aveva descritto le foglie
autunnali sul punto di cadere, con versi che però parevano cogliere
perfettamente anche il senso di fragilità e di fremente attesa per quanto
poteva succedere l’indomani:

O silenzioso mattino mite d’Ottobre,


le tue foglie sono maturate all’autunno;
il vento di domani, se sarà selvaggio,
le disperderà tutte quante.
I corvi sopra la foresta gridano;
domani possono disporsi e andare.
O silenzioso mattino mite d’Ottobre,
comincia lentamente le ore di questa giornata,
fa che il giorno sembri a noi meno breve. […] 314.

Ne lesse poi un’altra, Our doom to bloom (Il nostro destino di fiorire),
che si apriva con una significativa citazione del poeta americano Robinson
Jeffers: Shine, perishing Republic (Splendi, Repubblica morente). Frost la
introdusse dicendo: «È una poesia emozionante. È una poesia disperata. Ed
egli [Jeffers] ci parla di noi; egli dice: ‘Splendi, Repubblica morente’».
Una volta lettala, riallacciandosi al verso finale della poesia (che
recitava: «a meno che non preferisca avvizzire che svanire»), chiese ai circa
seicento ascoltatori presenti: «E noi, come Stati Uniti, avvizziremo piuttosto
che svanire? No, noi piuttosto svaniremo – affronteremo tutto» 315.
Un’affermazione volitiva, che si comprende meglio se si considera che –
come ha osservato uno dei suoi studiosi – Frost «riteneva che una delle
conseguenze pratiche dell’indecisione del liberalismo politico è che
incoraggia i convinti rivoluzionari imbevuti di ideologia totalitaria a credere
che le nazioni ispirate da un credo liberale non opporranno resistenza alla
loro aggressione» 316. Un concetto molto simile, guarda caso, a quello che
Frost aveva attribuito a Kruscev (il rischio cioè che gli USA fossero
diventati «troppo liberali per lottare» e che rimanessero fermi per un secolo
intero a dirsi: «da un lato…, ma dall’altro lato…») 317. «Frost in politica
ammirava la decisione e il coraggio, e preferiva vedere un uomo assumere
la posizione sbagliata piuttosto che rimanere paralizzato
nell’indecisione» . In questo senso appare dunque da intendersi la
318

posizione quasi di sfida di fronte agli eventi che egli assunse nel suo
intervento alla Library of Congress. Un atteggiamento che colpì molto, in
negativo, un altro importante poeta presente in sala, W.D. Snodgrass. Come
questi ricorderà decenni dopo, in un momento in cui «tutti ci aspettavamo di
essere fatti esplodere in pezzi di lì a qualche ora», Frost parlava «riferendosi
alla crisi in corso con una chiara aria di trionfo». Era a dir poco
«euforizzato dall’aria di scontro e […] vedeva la crisi come una
confutazione dei suoi critici liberali, una prova che la diretta asserzione e/o
minaccia di guerra nucleare ERA il modo giusto di gestire i conflitti
internazionali. Ma alcune delle osservazioni che fece suggerivano anche
che egli era lieto di non morire da solo – e che, per giunta, noi saremmo
morti non avendo la piena carriera che aveva avuto lui. A un certo punto
improvvisò: ‘Beh, non volevate semplicemente svanire, no? Perché allora
non andarsene in una fiammata di gloria?’ Veramente una presa in giro
crudele» 319.
Sempre in quei giorni, però, Udall notò anche che «Frost era stranamente
ottimista sull’esito» della crisi: «ammirava la reciproca moderazione dei
due leader, ed era sicuro che Kennedy e Kruscev l’avrebbero ‘risolta
pacificamente’» 320.
Un altro dei suoi biografi conferma che «Frost fu debitamente
impressionato dalla risolutezza del Presidente» nella crisi 321, tanto che
quando la crisi fu definitivamente chiusa, a fine novembre, Frost scrisse a
Udall per chiedergli di riferire a Kennedy, da parte sua, le seguenti parole:
«great going» (ben fatto). A suo avviso, infatti, tutto ciò che la situazione
richiedeva era decisione da parte americana. Parte del merito per la
risoluzione della crisi doveva però andare, secondo l’anziano poeta, anche a
Kruscev 322.
Appena poche settimane dopo, le sue condizioni di salute si
aggravarono, e di lì a poco, senza che JFK gli si fosse riavvicinato, Frost
morì 323.
Del tutto diverso il mondo letterario cui apparteneva Allen Ginsberg.
Voce tra le più celebri della controcultura americana, vita da poète maudit,
scritti provocatori, Ginsberg fu tra i massimi esponenti della Beat
Generation. All’epoca della CMC, lo scrittore si trovava in India (dove
peraltro era contemporaneamente in atto un’altra grave crisi militare, al
confine con la Cina). Nel suo peregrinare però egli teneva degli appunti, poi
pubblicati come Indian Journals, i diari indiani. Ecco cosa egli si appuntò il
24 ottobre, in una nota intitolata Rivolta delle macchine. «I sistemi di armi
impongono atteggiamenti, bollettini radio-tv comportano stili di linguaggio
e dichiarazioni, l’economia comporta abitudini di vita, ecc. – Ho ritagliato
oggi le dichiarazioni di Kennedy e della TASS [agenzia stampa sovietica]
sul blocco della crisi di Cuba e l’impersonale chiacchiericcio del
‘giornalese’ diplomatico suonava come metallici-meccanici-mediocri
computer di idee smerciabili provenienti da Nessunposto, come
un’astronave stazione telepatica librantesi sopra la terra, invisibile,
equipaggiata da fantascientifici attendenti di alluminio-diamante,
telecomando alla [maniera del] ‘trust di insetti giganti da un’altra galassia’
di Burroughs» 324. (William S. Burroughs era lo scrittore amico di Ginsberg
che aveva usato quest’espressione a proposito di un personaggio di un suo
libro) 325. Ciò che risalta da questo passo, pur di non immediata
interpretazione, è la prospettiva distaccata ed estetica con cui egli guardò ad
un fatto politico pur così concreto come la CMC. A ciò può aver contribuito
anche la sua momentanea lontananza geografica, ma probabilmente
anzitutto la sua visuale estetica prima che politica. Così nelle notizie della
CMC riportate dai media egli scorge non tanto i contenuti ma la forma:
l’aspetto linguistico, il modo di parlare computerizzato, proprio quasi di
esseri robotici, senza più nulla d’umano. Un’interpretazione visionaria, la
sua, senz’altro assai diversa da molte di quelle che incontreremo in seguito
da parte di altri intellettuali, statunitensi e di altri Paesi 326.

Altro poeta americano tra i più rinomati dell’epoca, anch’egli con una
vita da maudit, era Robert Lowell, fondatore della cosiddetta «poesia
confessionale». Già obiettore di coscienza durante la seconda guerra
mondiale 327, nel 1961 Lowell aveva saputo racchiudere in tre versi la
logorante tensione atomica dei mesi della crisi di Berlino 328. Nel 1962, con
uno scritto su «Partisan Review» aveva preso una netta posizione a favore
del disarmo e contro il «nazionalismo da crociata» 329. Le settimane della
CMC Lowell le passò invece in un ospedale psichiatrico di Hartford, nel
Connecticut, in quanto soggetto a ricorrenti disturbi mentali 330. Ne uscì ad
inizio novembre, apparentemente ristabilito, e alla vigilia di Natale scrisse
una lettera alla sua amica poetessa statunitense Elizabeth Bishop, residente
in Brasile, nella quale le raccontava le proprie percezioni della crisi. «Qui
[in USA] l’atmosfera è molto diversa dall’America Latina e molto diversa,
credo, anche dall’anno scorso. Noi tutti eravamo o molto eccitati o
spaventati a morte da Cuba, e poi sollevati. Ora improvvisamente non c’è
nessuna critica, e credo che nessun governo da quando io son vivo sia mai
stato meno odiato. Eppure sembra esserci un grande malessere nella nostra
cultura e una sorta di contentezza stordita riguardo al nostro posto nel
mondo. La scorsa notte mi sentivo come se avessimo rinunciato ad avere
convinzioni chiare [strong feelings] riguardo a noi stessi e avessimo lasciato
la cosa ai sudamericani» 331. In una lettera di un mese dopo, poi, egli
definiva il successo di Kennedy nella CMC «il più grande colpo di fortuna
di un giocatore d’azzardo» e, pur essendo ben lieto, da buon liberale, del
momento di quiete che la guerra fredda stava attraversando, confessava di
«avvertire stranamente che noi [USA] avessimo poco a che vedere con
ciò» 332. Detto altrimenti, nell’esito della CMC Lowell aveva visto più
fortuna che meriti, e nel successivo periodo di distensione, un
compiacimento nazionale stordito e privo di basi reali.

Il rinomato storico, scrittore e attivista Howard Zinn (autore tra l’altro


della celebre Storia del popolo americano), dopo aver combattuto nella
seconda guerra mondiale come pilota di bombardiere aveva sviluppato una
forte contrarietà etica alla guerra (successivamente sarà tra i primi
intellettuali americani a chiedere il ritiro dal Vietnam). All’epoca della
CMC Zinn era professore di storia ad Atlanta e, come ricorda brevemente
nelle sue memorie, scese per le strade della città a manifestare «per chiedere
una soluzione pacifica» della crisi, insieme a moglie e figlia quindicenne 333.
Analoga quanto alla rivendicazione, sebbene più dettagliata – e, per sua
stessa ammissione, «strana» – fu la reazione alla CMC di Robert Jay Lifton,
autorevole psichiatra statunitense, docente a Yale, studioso degli effetti
della guerra sulla psiche umana, nonché tra i fondatori della psicostoria (la
disciplina che indaga le cause psicologiche degli eventi storici). Come
racconta nelle sue memorie, Lifton aveva appena partecipato in Giappone a
una commemorazione del bombardamento atomico di Hiroshima (dove tra
l’altro un rappresentante dei familiari delle vittime lo aveva implorato: «La
prego, faccia conoscere queste cose in America»). Di ritorno in USA, vi era
arrivato proprio «nel mezzo della crisi», cioè nel momento in cui fu
massimo il rischio che le armi nucleari tornassero a essere usate. «Mi
incontrai coi miei nuovi colleghi a Yale, che erano allarmati tanto quanto
me, e mandammo un telegramma al presidente Kennedy, sollecitandolo alla
moderazione e a evitare uno scontro nucleare».
Lifton si sofferma poi a descrivere la propria reazione a livello
psicologico, che qui riassumiamo in nota 334.

E veniamo a Stanley Kubrick, il grande regista americano, in quei mesi


al lavoro su un film che sarebbe poi diventato la rappresentazione artistica
più nota, nell’immaginario collettivo internazionale, di quella fase della
guerra fredda e dei rischi dell’era nucleare. Il film cui ci riferiamo è
naturalmente Il dottor Stranamore: ovvero come imparai a non
preoccuparmi e ad amare la bomba. Fiumi d’inchiostro sono stati versati
per analizzare quel film e metterne in luce i molteplici livelli di lettura e i
sottili riferimenti filosofici, politici, sessuali, linguistici. Dovendo in questa
sede limitarci all’essenziale, cercheremo di mettere in luce come e perché
esso possa essere considerato anche una forma di reazione alla CMC.
Il film esce nei cinema americani nel gennaio del 1964, ma è pronto già
a fine 1963 (la ‘prima’ era fissata per il 22 novembre, ma fu rimandata in
seguito alla notizia dell’attentato di Dallas, commesso proprio quel giorno,
che rendeva ovviamente inopportuno presentare al pubblico americano un
film del genere in quel momento). Le riprese erano state effettuate a Londra
nei primi mesi del 1963 335, ma la preparazione dell’opera durava da
parecchio tempo. Kubrick si era preparato scrupolosamente, leggendo circa
cinquanta 336 saggi su tematiche nucleari (a cominciare da Red Alert,
romanzo da cui il film prendeva lo spunto, fino a riviste specializzate come
il «Bulletin of Atomic Scientists» 337 e agli studi del politologo Herman
Kahn, di cui parleremo tra breve). Da tutte queste letture egli aveva ricavato
l’idea di girare un film sulla possibilità che un errore portasse
involontariamente alla catastrofe nucleare. Del resto il medesimo
argomento (una guerra nucleare scoppiata per errore) veniva affrontato in
quei mesi, non a caso, anche da Fail-Safe, romanzo di grande successo
(poco dopo trasposto anch’esso in film) 338 pubblicato a puntate sul
«Saturday Evening Post» proprio nelle stesse settimane della CMC 339.
Letteratura, cinema, serie tv e fumetti erano difatti tutte forme espressive
che in quegli anni stavano producendo numerose opere basate sui rischi
dell’era atomica, prospettando ipotesi più o meno fantascientifiche che
rispecchiavano le inquietudini latenti nella società dell’epoca. Così per
esempio anche On the beach, romanzo e poi film (rispettivamente del 1957
e 1959) che raccontava la sorte dei pochi uomini scampati ad una catastrofe
atomica grazie alla lontananza dell’Australia, dove però essi attendevano
l’arrivo inesorabile del fallout radioattivo, progressivamente portato dal
vento fin nei Mari del Sud. Un’opera che aveva destato serie
preoccupazioni e attive contromisure nell’amministrazione Eisenhower, in
quanto considerata foriera di panico e pericolosa fonte di incoraggiamento
per i movimenti che premevano per bandire le armi nucleari 340. Altro
romanzo dell’epoca sul tema era Seven Days in May, uscito nel 1962
(proprio nella settimana della crisi esso risultava al secondo posto tra i libri
più venduti in tutti gli USA 341). Ipotizzava che un golpe militare sottraesse
il potere al presidente degli Stati Uniti, per evitare che egli firmasse un
accordo di disarmo atomico coi sovietici. Uno scenario, questo,
nient’affatto distante dai timori reali avvertiti da Kruscev alla fine della
CMC in merito alla posizione di JFK, se si ricorda quale fu la sua
percezione delle parole confidate da Robert Kennedy all’ambasciatore
Dobrynin nel loro colloquio segreto del 27 ottobre 342. Lo stesso Kennedy
all’epoca della CMC aveva letto, e apprezzato, sia Fail-Safe sia Seven Days
in May 343. A proposito di quest’ultimo, aveva commentato: «È possibile.
Potrebbe succedere in questo Paese, ma le condizioni dovrebbero essere
proprio quelle giuste. […] Ma non succederà sotto il mio mandato».
Giudicandolo però un salutare avvertimento al pubblico americano,
incoraggiò il regista Frankenheimer a trarne un film (a differenza del
Pentagono, che invece guarda caso era contrario) 344.
Fu questo il contesto in cui, in quei mesi, Stanley Kubrick iniziò a
progettare il suo nuovo film.

Cominciai a lavorare alla sceneggiatura con tutte le intenzioni di


fare del film una trattazione seria del problema di una guerra
nucleare accidentale. Ma appena incominciavo ad immaginare in
che modo sarebbero realmente accadute le cose, mi venivano in
mente idee che ero costretto a scartare in quanto troppo ridicole.
Continuavo a dire a me stesso: ‘Non posso fare questo. La gente
riderà’. Ma dopo circa un mese cominciai a rendermi conto che tutte
le cose che stavo gettando via erano quelle che erano le più
veritiere. Dopotutto cosa vi potrebbe essere di più assurdo dell’idea
stessa di due superpotenze disposte a spazzare via ogni forma di vita
umana a causa di un incidente, alimentato da divergenze politiche
che tra un centinaio di anni sembreranno alla gente tanto prive di
senso quanto a noi oggi le dispute teologiche medioevali?
Così mi venne in mente che stavo affrontando il progetto nel modo
sbagliato. L’unica maniera di raccontare la storia era in forma di
black comedy o, meglio, di nightmare comedy [commedia-incubo],
dove le cose per cui uno ride di più sono proprio il cuore degli
atteggiamenti paradossali che rendono possibile una guerra
nucleare 345.

Fu l’intuizione decisiva, quella che diede a Kubrick la chiave più


efficace per esprimere e far percepire alla gente l’assurdità della situazione.
Affrontare tematiche così delicate, dibattute e tremendamente serie con un
taglio di humor nero fu il modo più lampante di gridare all’opinione
pubblica che il re era nudo: che la pretesa di poter fare agevolmente
brinkmanship o crisis management era pericolosamente illusoria, perché
l’uomo è più capace di inventare i congegni che di controllarne l’uso, e i
nuovi ordigni termonucleari comportavano un rischio troppo alto per
affidarli agli istinti irrazionali nascosti nel profondo dell’uomo, o più
banalmente alla sua innata fallibilità e difficoltà di comunicare coi suoi
simili. Queste riflessioni «alte», espresse tramite esilarante ironia, elevarono
il Dottor Stranamore al di sopra di tutti gli altri, pur pregevoli, film di
genere cui abbiamo fatto cenno, rendendolo col passare del tempo una sorta
di icona di quel momento storico e delle tematiche nucleari. All’uscita nelle
sale il film riscosse grandi incassi e scatenò pareri molto discordanti: un
giornale di New York, per esempio, individuando un pericolo
propagandistico nell’autocritica mossa da Kubrick alla politica USA, titolò:
Nemmeno Mosca avrebbe danneggiato così l’America 346. Lusinghieri
furono invece «Newsweek» 347 e l’autorevole intellettuale Lewis Mumford
(che definì il film «la prima interruzione della trance catatonica da guerra
fredda che da molto tempo tiene il nostro Paese in una ferrea morsa») 348.
La trama del film, detta in estrema sintesi, ipotizzava che un generale in
preda a paranoie anticomuniste 349 diramasse, di sua volontà, ai bombardieri
americani i codici d’ordine segreti per un attacco nucleare preventivo
sull’URSS, e nonostante gli immediati tentativi del Presidente di annullare
l’attacco una delle bombe finisse per venir sganciata, provocando
l’automatico e inesorabile innesco di un nuovo micidiale dispositivo
sovietico di rappresaglia nucleare, chiamato «Doomsday machine», cioè
macchina del giorno del Giudizio 350.
Al film la produzione dovette anteporre un’esplicita avvertenza
rassicurante: «È ufficialmente riconosciuto dalla US Air Force che le
misure di sicurezza da loro poste in atto non consentirebbero lo sviluppo
degli eventi mostrati in questo film. È inoltre importante ricordare che
nessuno dei personaggi descritti in questo film si riferisce a persone
realmente esistite» 351.
In realtà, la galleria dei personaggi del film rifletteva figure realmente
operanti nel mondo politico dell’epoca, tracciandone implicite ma
indovinate caricature: dal benintenzionato ma impotente presidente
americano Muffley (direttamente ispirato ad Adlai Stevenson), ai generali
Turgidson e Jack D. Ripper (perfette parodie del militare bellicoso, alla
LeMay o Powers); dall’irascibile premier sovietico Kissov (Kruscev,
evidentemente), fino allo scienziato che dava il titolo al film, Doctor
Strangelove, che era ispirato sostanzialmente ad un misto di Wernher von
Braun (di cui prendeva il passato nazista e l’accento tedesco), dottor
Edward Teller (scienziato con cui condivideva, oltre al titolo, anche un
difetto motorio) 352, ed Herman Kahn (con cui aveva in comune la
corporation d’appartenenza 353 e l’idea della «Doomsday machine») 354. A
posteriori, quando giunse alla ribalta politica, anche Henry Kissinger fu
spesso identificato col dottor Stranamore, per via del suo forte accento
tedesco 355. Avremo modo di rincontrare tutte queste quattro figure nei
prossimi capitoli, presentando le loro riflessioni a proposito della crisi di
Cuba.
Ma oltre a richiamare personaggi reali e a rispecchiare il clima generale
di quegli anni di guerra fredda, il film a ben vedere conteneva anche alcuni
sottili richiami alla stessa crisi di Cuba. Ne abbiamo individuato qualcuno,
fin qui inosservato. Per esempio, il farneticante messaggio telefonico con
cui il paranoico generale Ripper avvisa il comando strategico
dell’Aeronautica di aver appena lanciato un attacco nucleare contro i
sovietici, si chiudeva con la frase: «God willing, we will prevail in peace
and freedom from fear […]» 356. Parole che riecheggiano da vicino proprio
la frase conclusiva del discorso con cui il 22 ottobre JFK aveva annunciato
al mondo il blocco di Cuba («Our goal is […] not peace at the expense of
freedom, but both peace and freedom. […] God willing, that goal will be
achieved»). Naturalmente non si poteva trattare di una coincidenza.
Qualche minuto dopo, un’altra scena mostra l’ambasciatore russo De
Sadesky, convocato nella segretissima War Room del Pentagono nel bel
mezzo della crisi. Entrandovi, egli ordina che gli siano portati dei sigari
Avana. Un ufficiale americano allora gli si avvicina e gli consiglia di
provare piuttosto degli ottimi sigari giamaicani. Il sovietico rifiuta stizzito:
«No grazie, io non appoggio il lavoro dei fantocci dell’imperialismo». E
l’americano, di rimando: «Uh, solo fantocci del comunismo, eh?» 357.
Evidente la strizzata d’occhio anticastrista, così come pure la simbologia
sigari = missili 358.
Terzo richiamo individuato: la scena in cui l’ambasciatore russo, dato
l’avanzare inarrestabile della crisi, deve svelare ai vertici USA la presenza e
l’imminente entrata in funzione del loro ultimo ritrovato di deterrenza, la
micidiale «Doomsday machine». Il dottor Stranamore, perfettamente a
conoscenza del concetto teorico, gli domanda però perché mai essi non li
abbiano avvisati della presenza di tale deterrente (affinché esso cominciasse
appunto a esercitare la sua funzione di deterrenza sugli americani). Risposta
dell’ambasciatore russo: «Avrebbe dovuto essere annunciato al Congresso
del Partito lunedì. Come sapete, il Premier [Kissov] ama le sorprese!» 359 –
velata allusione alla mossa di Kruscev di piazzare di nascosto il suo
deterrente all’invasione di Cuba per poi annunciarne ‘a sorpresa’ la
presenza nel corso del suo tour americano in novembre.
Senza contare che Il dottor Stranamore conteneva pure inconsapevoli
(ma inquietanti) somiglianze con quanto realmente verificatosi durante la
CMC. Basti pensare al discorso che, nel film, il generale Turgidson fa al
suo Presidente per convincerlo che le possibilità di evitare uno scontro
ormai «si stanno velocemente riducendo a un ordine di probabilità molto
basso», e perciò a questo punto, piuttosto che aspettare l’inevitabile attacco
russo, conviene «lanciare immediatamente un attacco coordinato e
completo», così da «coglierli coi pantaloni abbassati» e raccogliere tutti i
vantaggi di un first strike. Non è forse questo proprio lo stesso
ragionamento in base a cui Castro, convinto dell’imminenza di un attacco
americano (a suo avviso ormai inevitabile salvo un misero 5 per cento di
probabilità!), la notte tra il 26 e il 27 ottobre scrisse a Kruscev per invitarlo
a sferrare lui per primo, in caso di invasione dell’isola, un risolutivo attacco
nucleare contro gli USA?
Ce ne sarebbe già abbastanza per provare l’esistenza di solidi legami tra
il film e l’evento CMC. Ma c’è dell’altro. Alexander Walker, critico
cinematografico e amico personale del regista, ha recentemente ricordato
che all’epoca «egli [Kubrick] era stato molto turbato dalla crisi dei missili
di Cuba. Non solo dalla prospettiva dell’annientamento nucleare – voglio
dire, non semplicemente –, ma anche dal modo fatalistico in cui la gente
l’aveva accettata, [accettando] che questo probabilmente era il modo in cui
il mondo sarebbe finito: in una enorme esplosione nucleare» 360. Ricordando
le fasi di lavorazione di quel film, il suo scenografo Ken Adams ha rivelato
inoltre un particolare sulla personale reazione di Kubrick di fronte a quegli
eventi: «Era il periodo della crisi dei missili di Cuba. Eravamo tutti
estremamente preoccupati circa la possibilità di una guerra nucleare.
Stanley ci disse che avremmo fatto meglio a prendere tutti i nostri soldi
dalle banche [per recuperare i risparmi personali: evidentemente egli
temeva che la situazione potesse precipitare da un momento all’altro, NdA].
Aveva studiato i grafici sulle ricadute di materiale radioattivo e pensava che
il posto più sicuro dove andare in caso di guerra nucleare fosse Cork, nella
Repubblica Irlandese. Come fosse arrivato a questa conclusione non l’ho
mai scoperto» 361.
Infine lo stesso Kubrick, in una successiva intervista riguardo al film,
fece un esplicito richiamo alla CMC: «È improbabile ma non impossibile»,
dichiarò, «che un giorno avremo un presidente psicopatico, un presidente
che soffre di esaurimento nervoso o un presidente alcolizzato che, da
ubriaco, scatena la guerra. […] Meno improbabile ma ancora più
terrificante è la possibilità che uno psicopatico riesca a farsi strada fino ai
gradi più bassi del personale della Casa Bianca. Potete immaginare cosa
sarebbe potuto succedere all’apice della crisi dei missili di Cuba se qualche
cameriere squilibrato avesse versato dell’LSD nel caffè di Kennedy – o,
dall’altra parte della barricata, nella vodka di Kruscev? Queste ipotesi fanno
rabbrividire» 362.
Insomma in fondo era proprio vero quel che lo storico John Lewis
Gaddis avrebbe poi scritto con un filo di ironia: «Non fu un caso che Il
dottor Stranamore arrivò sugli schermi nel 1964: la commedia da cui
Stanley Kubrick trasse il suo film era stata in scena per un bel po’ di
tempo» 363.

Su corde espressive non lontane da quelle di Kubrick si espresse la


reazione alla CMC di Kurt Vonnegut, il grande romanziere americano,
autore di Mattatoio n. 5, celebre romanzo antimilitarista ispirato dal
bombardamento di Dresda, di cui egli era stato testimone. Vonnegut, noto
per il suo sarcasmo brillante e surreale, pubblicò nel 1963 (cioè pochi mesi
dopo la crisi) un romanzo di fantasatira, Cat’s cradle (tradotto in italiano col
titolo di Ghiaccio Nove). Esso può essere considerato una – pur non
esplicita – forma di reazione agli eventi cubani ed al clima di cui essi
costituirono il culmine. Non a caso nel racconto si ritrovano rifugi
antiatomici, spie sovietiche, dittatori caraibici, e così via. La trama: un
ricercatore, scrivendo un libro su Hiroshima, viene a conoscenza (e narra al
lettore) delle vicende del dottor Felix Hoenikker, scienziato, già padre della
bomba atomica. Il ritrovato più particolare di Hoenikker è però il «Ghiaccio
Nove», una sostanza da lui inventata per caso, la notte stessa della sua
morte, giocando con ghiaccio ed acqua. Essa è capace di congelare per
sempre i liquidi in cui viene immersa e tutti i corpi che vi entrino in
contatto. Alla sua morte, la sostanza viene ereditata dai suoi tre figli, i quali
non essendo all’altezza della situazione ne fanno un uso irresponsabile,
cedendola in cambio di guadagni personali di vario genere, fino a che un
dittatore caraibico, ottenutala, non la usa per suicidarsi e, cadendo poi il suo
cadavere accidentalmente nel mare, finisce per provocare il congelamento
d’ogni forma d’acqua sulla terra, e con ciò la distruzione della vita
sull’intero pianeta.
Il romanzo si apre con la frase: «Nulla è vero, in questo libro» 364.
Una reazione molto divertente ma tutt’altro che ottimista, questa di
Vonnegut, che per vari aspetti risulta accostabile a quella di Kubrick.
Entrambi, infatti, trovandosi di fronte a una realtà disposta a flirtare con
l’apocalisse, scelgono, per far riflettere, le armi sottili e corrosive dell’ironia
e del paradosso. Entrambi immaginano che una sofisticata tecnologia
finisca per portare all’involontaria distruzione del mondo. Entrambi
pongono al centro una figura di scienziato inconsapevole delle implicazioni
delle proprie conoscenze. Sono scenari che chiaramente risentivano di quel
clima storico e dei rischi concretamente palesatisi durante la CMC – evento
di fronte a cui lo stesso Vonnegut in quei giorni aveva confessato a sua
figlia di non avere «la minima idea» 365.

Chi invece aveva un’idea molto precisa sugli eventi in corso, tanto da
esprimerla pubblicamente sul «Washington Post», era il matematico James
R. Newman. Autore di una popolare storia della matematica in quattro
volumi, Newman era anche un saggista e proprio nel 1962 aveva pubblicato
The rule of folly (Il regno della follia), un pamphlet che si autodefiniva «un
potente e irato attacco contro le politiche nucleari e di civil defense che
stanno portando gli Stati Uniti verso l’autodistruzione» 366. Date queste
premesse, non sorprende che la sua reazione alla CMC sia stata di forte
dissenso. Nel suo lungo articolo sul «Post», infatti, Newman cominciava
schernendo (come già Hoppe sul «San Francisco Chronicle») i tentativi
«assurdi» della Casa Bianca di distinguere tra i propri missili in Europa e
quelli sovietici a Cuba definendo difensivi gli uni e offensivi gli altri («un
argomento che mi tratta come fossi un idiota»); poi criticava duramente sia
la provocazione sovietica sia la reazione americana, parlando di «psicosi
suicida di massa» diffusasi in USA e ricordando una dichiarazione di
Lyndon Johnson che alla vigilia della crisi aveva definito un eventuale
blocco navale «un atto di guerra». Infine concludeva in modo solenne: «Io
imploro gli uomini a ricordarsi della loro umanità e agire in base ad essa
prima che non rimanga altro che ceneri» 367. Al di là delle opinioni espresse,
il fatto che un intellettuale americano di vedute minoritarie rispetto
all’opinione pubblica nazionale potesse esprimere critiche così dure sul
prorio Paese e pubblicarle in quei giorni con largo spazio sul «Washington
Post» marca la differenza rispetto alla totale impossibilità di critica
consentita dal sistema sovietico.

Strano ma vero, ci fu anche qualcuno per cui la CMC fu foriera di buone


notizie. È il caso del grande scrittore americano John Steinbeck (l’autore del
celebre romanzo Furore, ambientato negli anni della Depressione
americana). La mattina del 25 ottobre 1962, cioè proprio nel pieno della
CMC, sua moglie Elaine stava preparando le uova per la colazione, mentre
Steinbeck si era appena svegliato. «Stavo cuocendo la colazione e John
stava guardando la televisione. Di solito lui non la guardava, ma si era
durante la crisi dei missili di Cuba, e noi eravamo incollati ai televisori
come chiunque altro nel Paese» 368. Così – prosegue un’altra biografia dello
scrittore – «John, vestito in pigiama e vestaglia andò al televisore […] per
accendere il notiziario. John voleva vedere, come borbottò ad Elaine, ‘se il
mondo stava ancora girando’. Le prime parole che vennero
dall’apparecchio furono: ‘John Steinbeck è stato insignito del Premio Nobel
per la letteratura’» 369.
Ascoltando una notizia tanto bella quanto inattesa (Steinbeck non sapeva
neppure di essere tra i papabili), la moglie ricorda che «ci alzammo e
iniziammo a ballare intorno alla casa, e improvvisamente il telefono iniziò a
squillare» 370.
Col premio naturalmente arrivarono anche le attenzioni dei media. Una
conferenza stampa si tenne il pomeriggio stesso. Steinbeck si meravigliò,
come racconta in una lettera privata 371, che vi fossero presenti ben
settantacinque persone tra giornalisti e cameramen, nonostante quel giorno
stessero succedendo eventi ben più importanti. Nella conferenza
(particolare, questo, che risulta dalle nostre indagini sulle fonti a stampa)
uno dei giornalisti gli pose l’immancabile domanda sugli eventi in corso.
«‘Qualche commento sulla situazione di Cuba?’ – ‘Ho ascoltato parecchi
discorsi. Tutti sembrano aver ragione’. ‘Potrebbe spiegarsi meglio?’ –
‘Credo che noi abbiamo ragione’» 372. E aggiunse: «Io sono lungi dall’essere
un’autorità in questo campo, ma non credo alla guerra» 373.
Finita la crisi, però, Steinbeck pensò di utilizzare la grande visibilità
internazionale offertagli dal riconoscimento per lanciare un messaggio di
riflessione sul significato di quanto recentemente accaduto. Così, nel suo
discorso di accettazione del Premio Nobel (che scrisse e riscrisse oltre venti
volte 374 e fece rileggere anche all’illustre amico Adlai Stevenson 375),
Steinbeck fece un cenno, non esplicito ma estremamente chiaro 376, agli
eventi della CMC e alla portata dei rischi corsi e passibili di ripresentarsi.
«È usanza», cominciò Steinbeck parlando dal podio di Stoccolma il 10
dicembre, cioè appena poche settimane dopo la fine della crisi,

che chi riceve questo premio offra commenti personali o dotti sulla
natura e la direzione della letteratura. Tuttavia in questo particolare
momento credo sarebbe bene considerare gli alti doveri e
responsabilità di coloro che fanno letteratura. […] L’umanità è
passata attraverso un grigio e desolato tempo di confusione. […]
L’attuale paura universale è stata il risultato di un’ondata in avanti
nella nostra conoscenza […] Ho letto la vita di Alfred Nobel
[inventore della dinamite, prima di fondare l’omonimo premio].
[…] Egli perfezionò il rilascio di forze esplosive, capaci di bene
creativo o di male distruttivo, ma mancanti di scelta, non governate
da coscienza o giudizio. Nobel vide alcuni dei crudeli e sanguinosi
abusi delle sue invenzioni. […] Credo che egli si sia sforzato di
inventare un controllo, una valvola di sicurezza. Credo l’abbia
trovata alla fine solo nella mente e nello spirito umano. Ciò per me
è indicato chiaramente nelle categorie di questi premi. […] Meno di
cinquant’anni dopo la sua morte, le porte della natura vennero
aperte e ci fu offerto il tremendo fardello della scelta. […] Timorosi
e impreparati, abbiamo assunto signoria sulla vita e la morte del
mondo intero […] Avendo acquisito poteri divini, dobbiamo
ricercare in noi stessi la responsabilità e la saggezza che un tempo
pregavamo potesse avere qualche divinità. L’uomo stesso è divenuto
il nostro più grande azzardo e la nostra sola speranza […] 377.

Nessuno nell’uditorio, ascoltando queste parole, poteva mancare di


cogliere il chiaro riferimento ai fatti appena accaduti e alle condivise paure
che li avevano accompagnati.

Infine, particolarmente significativa appare la reazione di uno dei più


grandi scrittori americani del dopoguerra: Norman Mailer. Egli tornò a più
riprese sulla Baia dei Porci e sulla CMC, in vari dei suoi libri. Qui abbiamo
scelto di concentrarci sulle impressioni da lui fissate più a ridosso di quegli
eventi, cioè quelle raccolte nella sua antologia del 1963 Presidential papers.
Come suggerisce il titolo, si trattava di una raccolta di scritti appositamente
concepita da Mailer per essere sottoposta alla personale lettura del
presidente Kennedy. Trovandosi spesso in disaccordo con le sue linee
politiche, Mailer ammetterà però, nell’introduzione scritta dopo l’uccisione
del Presidente, che era stata proprio «la misura del suo spirito» a creare
«l’atmosfera in cui si poté tentare l’avventura di questo libro», nel senso
che la sua presidenza «fu un tempo in cui gli scrittori poterono parlare da un
capo all’altro del paese in intimo dialogo con il proprio leader». Insomma,
confessa Mailer, «la misura della propria irriverenza era la misura del
proprio insospettato affetto. Lo si è scoperto il giorno in cui fu ucciso» 378.
Con questo però Mailer non si rimangia nulla di quanto scritto, critiche
incluse.
Per presentare le riflessioni suggeritegli dalla CMC è necessario
accennare alle sue posizioni su alcuni dei temi ad essa collegati. Mailer è
contrario ai rifugi antiatomici 379. Resta manifestamente immobile durante le
esercitazioni pubbliche antiatomiche organizzate dalla Civil Defense, per
«contribuire a illustrare» che «è materialmente impossibile salvare la
popolazione di New York in caso di attacco atomico». («Le esercitazioni,
con le finte incursioni aeree, illudono la popolazione, facendole credere di
essere al sicuro. […] il fatto che si chiamino a raccolta gli spiriti dei
newyorkesi per farli manovrare in massa a ranghi serrati, al suono della
sirena dell’antiaerea […] trasforma gli individui in un branco di porci
vigliacchi») 380. Nutre, come molti altri, iniziali speranze in Castro, pur non
escludendone rischi di involuzione («Un uomo come Danton comincia da
grand’uomo e poi peggiora. Castro può finir male, ma quella sarà una
tragedia. Nessuno potrà mai venirmi a raccontare che quando ha cominciato
non era un grand’uomo») 381. È critico però verso i gruppi pacifisti tipo
SANE, che giudica «totalitaristi», come pure l’FBI e la rivista «Time»
(«Non mi fido di loro. […] C’è un ‘Geist’, uno spirito totalitario, che
assume varie forme, ha molte manifestazioni. La gente del tuo partito ha le
stesse probabilità di essere totalitaria della gente del partito avverso») 382.
Come si vede, Mailer era uomo di giudizi severi, trancianti. A tratti ricorda
Pasolini, nelle sue analisi cultural-politiche, nelle sue «tirate» a così ampio
raggio, nel suo tono moralizzatore, nella sua frequente attenzione per il
tema del sesso, nell’argomentare pungente ed aggressivo, perfino nella
terminologia usata («totalitarismo» è un vocabolo che ricorre spesso anche
nello scrittore friulano).
E proprio costoro, i totalitaristi di entrambi i blocchi, erano per Mailer i
veri beneficiari (e dunque i veri mandanti) della Baia dei Porci, un evento
del quale egli individua bene lo stretto legame con la CMC dell’anno dopo:

[…] Venne la Baia dei Porci. Non c’è bisogno di soffermarsi sulla
rabbia, l’indignazione, il senso di tradimento, ecc. ecc. che si provò.
[…] Kennedy aveva indubbiamente commesso uno dei più grandi
errori del secolo. Possiamo soltanto rallegrarci per il fatto che non
riparò all’errore spedendo sull’isola forze sufficienti per schiacciare
Castro. Cuba sarebbe ancora sotto le nostre forze d’occupazione;
tutti i giorni si troverebbero sulle colline corpi di soldati e marine
americani uccisi nelle imboscate tese dai guerriglieri. Tutta
l’America Centrale e l’America Latina graviterebbero
silenziosamente e costantemente verso i comunisti. Così si diede a
Kruscev la possibilità di commettere un errore non meno marchiano
di quello di Kennedy; quando i missili atomici furono spediti a
Cuba, Kruscev restituì all’America i cinquant’anni di vantaggio
politico che gli aveva dato Kennedy. Se ne potrebbe forse ricavare il
principio politico in base al quale un grosso errore turba
sufficientemente l’equilibrio politico per provocarne un altro.

Dal che si evince il giudizio politico di Mailer sulla CMC: Kruscev


aveva torto nel difendere Castro a suon di missili. Ma anche con gli USA,
come si vede, lo scrittore americano non è tenero. «La Baia dei Porci
rimane un mistero. È lecito dubitare che si giunga mai a scoprire come fu
approvata una decisione simile, o quale fu in realtà la vera forza dietro
l’invasione. Ma esiste uno strumento per risolvere i misteri politici. È la
formula di Lenin: Cui prodest? A chi giova? Chi si avvantaggia di una certa
azione?». Secondo Mailer, un simile fallimento faceva comodo all’FBI.
Erano infatti costoro, questi agenti segreti, che si sarebbero trovati
di fronte a un atroce dilemma se la minaccia comunista fosse
completamente sparita dall’America. Perché allora cosa avrebbero
fatto? Se non vi fossero stati comunisti, la logica della sua virilità
avrebbe costretto l’FBI ad affrontare il secondo grande pericolo
della vita americana: la mafia. E come avrebbero fatto, […] senza
sventrare da cima a fondo i partiti repubblicano e democratico? […]
No, era di gran lunga più sicuro che Cuba diventasse comunista.
Sarebbe stato un bene per l’FBI, e sarebbe stato un bene per i
comunisti cinesi che volevano aumentare la pressione alle spalle di
Kruscev. Cui prodest? […] la Baia dei Porci, e i missili susseguenti,
giovarono a tutti i totalitari del mondo 383.

Per Mailer, Baia dei Porci e CMC sono dunque «ombelicalmente


collegate». E se la prima è per Kennedy «la sua unica grande sconfitta», la
seconda è «la sua unica grande vittoria» 384. Mailer scruta JFK ma sembra
non sapersi decidere sul suo conto. Lo conosce personalmente nel 1960 385,
ne appoggia l’elezione con un influente articolo 386, salvo poi sentirsi in
colpa per averlo fatto 387. Nutre per lui mixed feelings, come direbbero gli
americani. Né nasconde questa sua incertezza nel giudicarlo, anche riguardo
al suo operato nella CMC: «Certo, signor Presidente», gli scrive, in una
‘seconda lettera aperta’ del dicembre 1962 388, «non si sa nemmeno se Le fa
piacere che l’America sia entro certi limiti totalitaria, o se, come noi, lotta
anche Lei, scoraggiato e sgomento, col Leviatano dei nostri mezzi di
comunicazione, dei nostri irreggimentati mezzi di comunicazione. Sì, è
difficile saperlo. La sua personalità ha molte sfumature, fin troppe.
Insomma, Lei sarà l’uomo che ci salverà o che ci farà saltare in aria tutti?».
Naturalmente, precisa subito Mailer, a questa domanda nemmeno JFK può
rispondere, perché «l’ultimo intento del Suo cuore è impenetrabile persino a
Lei». Ma di fatto è un dilemma che si è appena posto concretamente.

Durante quella storica settimana nell’autunno del 1962, quando


America e Russia si trovarono in rotta di collisione, ed era possibile
che da un momento all’altro venisse la morte di tutti coloro che
avevamo conosciuto, tentai di saggiare la resistenza dei Suoi nervi,
e giunsi alla conclusione che i Suoi nervi erano molto saldi o che
Lei ne era del tutto privo, il che è un altro paio di maniche. Se la
Russia è stata ‘il cattivo’ di questi anni e noi i relativi eroi, se […] la
nostra mira segreta è stata se possibile di evitare la guerra, allora la
Sua è stata una nobile azione, il Suo coraggio è stato degno dei
grandi generali della storia. Ma se […] nel profondo del suo cuore
non c’è paura ma una gran gioia tranquilla al pensiero della guerra
atomica, allora […] Lei era come un giocatore di poker con una
scala reale, una pistola in pugno, soldi a non finire per alzare ogni
piatto e una sfilza d’insulti accuratamente graduati, intesi a
rovesciare il tavolo e dare inizio alla sparatoria.
La risposta non si sa, ma la sensazione è di disagio […]

Inoltre, prosegue Mailer, JFK dopo tutto aveva pur sempre l’evacuazione
garantita in un rifugio della Virginia. Esigenza politicamente comprensibile,
eppure «nessuno di noi può esser certo che la nostra protezione dalla morte
non ci lascerà segretamente indifferenti all’estinzione di un milione di altri
individui». E qui allora Mailer lancia una surreale provocazione.

Perciò le chiedo questo: perché non ci manda un ostaggio? Perché


non ci lascia Jacqueline Kennedy? Nell’attimo in cui si scatena
un’invasione, e Lei quale comandante in capo scende nel Suo
profondo rifugio, […] lasci atterrare l’elicottero di Sua moglie
sull’Hotel Carlyle [di New York], e noi sapremo che probabilmente
Lei è pronto a soffrire come soffriamo noi. […] o sappia che non
potremo mai fidarci completamente di Lei, perché nel profondo del
Suo essere può esistere una voce psichica folle e gioiosa che non
vede l’ora di dare l’ordine di premere un bottone. Rispettosamente
Suo, Norman Mailer.

Ancor più interessante è la sua descrizione della città di New York in


quei giorni.

Vi fu quella settimana verso la fine d’ottobre – scrive Mailer sulle


pagine di «Esquire» nell’aprile 1963 – quando il mondo rimase in
bilico come una carta da gioco, e quelli di noi che vivevano a New
York si chiesero se la minaccia di guerra fosse una specie di sogno
eccezionale che sarebbe stato coronato da un lieto fine (come in
effetti avvenne) o se i fatti di quella giornata sarebbero passati, di
rilancio in rilancio, dalle navi in rotta di collisione alle invasioni di
Cuba, dalle minacce di rappresaglia nucleare alla loro attuazione, il
Götterdammerung 389 di New York. O […] eravamo forse ora gli
eroi di un film di Chaplin, era nostra la casa sul ciglio del burrone,
aprendo la porta saremmo precipitati nell’abisso? 390 Vi fu terrore,
quella settimana. Si guardavano i palazzi davanti ai quali si passava
e ci si chiedeva se li avremmo rivisti. Per una settimana tutti a New
York furono come pazienti affetti da un morbo incurabile: sarebbero
morti l’indomani o potevano sperare in un altro anno di vita?
A New York trascorremmo quella settimana pensando a poche cose.
[…] restammo con le mani in mano. Quasi tutti guardavano la
televisione. Pochissimi uscivano la sera. I bar erano semivuoti.
Pacati i discorsi. Non si ebbe l’impressione che quella settimana
s’incontrassero grandi amanti, né per la prima né per l’ultima volta.
Un senso di apatia invase la città. Un’ora sorda e piuttosto vuota che
durò una settimana. Se tutto fosse saltato in aria, se tutto
ammontava a così poco, […] ebbene, non potevamo lamentarci. Era
il nostro destino. Era quello che ci meritavamo. Non marciammo
per le strade, né minacciammo il cielo con i pugni. Attendemmo
nella nostra tana come ubriachi in guardina, misurando a lunghi
passi il pavimento della nostra esistenza, di comparire davanti al
tribunale la mattina dopo […]. Di fronte all’eternità eravamo come
detenuti in attesa dell’alba. Non c’era confusione per le strade, né la
forza di ribellarsi all’eternità. Sapevamo di essere colpevoli 391.

Un ritratto memorabile del senso di collettiva precarietà di quei fatidici


giorni. Dopodiché Mailer passa a spiegare in cosa consisteva a suo avviso
questa comune «colpevolezza». Le sue riflessioni si fanno qui più
filosofiche.

Da molto tempo ci siamo sbarazzati della libertà. Ce ne siamo


sbarazzati in tutte le rivoluzioni che non abbiamo fatto, tutti gli atti
di coraggio che abbiamo trovato il modo di evitare. […] Quella
logica nascondeva il terrore. Perché se c’era un Dio, con tutta
probabilità c’era anche un Demonio. Se il Dio […] esigeva il nostro
coraggio, che cosa avrebbe interessato l’altro [il Demonio] più della
nostra codardia?» […] Ecco perché non ci precipitammo nelle
strade urlando che era innaturale che l’umanità basasse la sua ultima
speranza sul segreto carattere di due uomini, che era innaturale
augurarsi che Kennedy e Kruscev presi insieme fossero più buoni
che cattivi. Quale ignobile, supplice speranza per la civiltà basare la
sua sicurezza su due uomini, due uomini soltanto. Che fine aveva
fatto il sogno del benessere mondiale difeso dal talento mondiale,
dall’ingegno mondiale?
Restammo là, apatici, perché quasi tutti noi, […] presi dalla paura ci
eravamo allontanati da noi stessi. […] Avevamo avuto paura della
morte, come non l’aveva avuta nessuna generazione nella storia
dell’umanità. […] Perciò vedemmo avvicinarsi la fine con apatia.
Perché se era Dio che avevamo tradito e la visione con cui Egli ci
aveva creati […] allora come ci sarebbe stato più facile saltare in
aria e ripiombare nell’eternità, confusi nel carnaio di dieci milioni di
altri esseri umani, come sarebbe stato meglio, sì, se il mondo fosse
esploso con noi, e la morte venisse distrutta completamente come la
vita. Sì, chissà quanti tra milioni di abitanti di New York recitarono
segretamente una preghiera: che chiunque credessimo Dio,
esplodesse con noi, e il Giudizio venisse a mancare 392.

In sostanza quel che sembra voler dire Mailer è che dagli uomini Dio
esigeva buon senso e coraggio, e il Demonio paura, e gli uomini avevano
ceduto alla paura; per questo in quei giorni essi restarono apatici, non
protestarono di fronte all’assurdità della situazione, sperando anzi
inconsciamente che una morte atomica collettiva evitasse loro il giorno del
Giudizio in cui rispondere di tale tradimento a Dio. Che le si giudichi
riflessioni profonde o, al contrario, astrusi intellettualismi di uno scrittore
vanitoso, quel che qui rileva è che i giorni della CMC suscitarono anche
riflessioni metafisiche di questa natura.

***
Chiudiamo con la musica. Come poteva l’arte dei suoni trovar posto
durante la più pericolosa e febbrile crisi nucleare? Una prima risposta
emerge dal «Washington Post»: «La musica ha trovato il modo di insinuare
il suo fascino risollevante tra alcuni dei più tesi momenti di diplomazia
internazionale della settimana scorsa» 393. La sera stessa del discorso
televisivo di Kennedy, infatti, diplomatici di tutto il mondo appena usciti
dal cupo briefing informativo al Dipartimento di Stato si erano spostati
nell’adiacente auditorium dell’edificio, per ascoltare suonare Isaac Stern. Il
celebre violinista russo naturalizzato americano, incontrando poco prima
dietro le quinte il critico musicale del «Post», lo aveva salutato così: «Che
notte, per la musica» 394. Salito poi sul palco, si era rivolto al pubblico di
diplomatici: «La musica è l’unica cosa che ha resistito lungo i secoli. E
forse questo è il momento per la musica» 395. Poi aveva attaccato a suonare
Bach, producendo quella che il critico del «Post» definì «musica del più
esaltato e glorioso ordine», con un «suono davvero radioso» 396. La sera
seguente, Ted Sorensen e alcuni colleghi della Casa Bianca erano seduti nel
box presidenziale della Constitution Hall ad ascoltare il Concerto n. 3 di
Rachmaninoff (anch’egli russo). Il pomeriggio del 24, poi, mentre il blocco
era appena entrato in vigore, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, prima di
riunirsi a discuterne, aveva dovuto attendere la fine del concerto celebrativo
dell’«UN Day» (l’anniversario della nascita delle Nazioni Unite), tenuto nel
Palazzo di Vetro dalla Leningrad Philarmonic Orchestra 397. Appena quattro
miglia più in là, nel quartiere afroamericano di Harlem, quella stessa sera il
soulman James Brown si esibiva nello storico Apollo Theatre e, investendo
tutti i suoi risparmi, registrava il proprio concerto. Da quei nastri sarebbe
nato Live at the Apollo, uno dei primi album registrati dal vivo, oggi
considerato tra i dischi più importanti nella storia della musica
americana 398. Sempre quel mercoledì sera, a Washington il cartellone
dell’Howard Theatre annunciava: «jazz con Miles Davis» 399. La paura di
una guerra nucleare, insomma, a quanto pare non aveva scoraggiato gli
artisti di alcun Paese o genere musicale dal fare il loro mestiere. A tutto ciò
va aggiunto che a Mosca, come si è visto, Kruscev aveva usato la propria
presenza al teatro dell’opera Bolshoi e il suo brindisi dietro le quinte col
tenore americano Jerome Hines per far filtrare all’estero un primo segnale
di distensione.
Ma al di là di queste intrusioni della musica ai margini della crisi,
significative reazioni ad essa arrivarono dal mondo della musica popolare
americana. Alcuni noti songwriter infatti misero in musica i propri stati
d’animo di fronte a quegli eventi. Come Phil Ochs, importante protest
singer degli anni Sessanta, autore di canzoni basate sui fatti d’attualità che
egli leggeva sulla stampa. Così questo sarcastico ed appassionato singing
journalist (come egli amava definirsi), tanto ammirato anche dall’amico-
rivale Bob Dylan, in occasione della CMC compose un pezzo molto
significativo, chiamato Talking Cuban Crisis.

Giusto poco fa ho incollato gli orecchi alla radio


L’annunciatore diceva che avremmo dovuto stare attenti
Incombeva una crisi – un’ondata dall’aria
che strisciava al suolo, che nuotava sul mare
che puntava su me

Beh, io non sapevo se ero pro o contro,


quello berciava e urlava parlando velocissimo
diceva, ‘Beh, ecco che arriva il Presidente
ma prima, consigli per gli acquisti da Pepsodent
per denti più bianchi, per un alito più fresco
mentre stai affrontando la morte nucleare’

E il Presidente John cominciò a parlare


e capii subito che non sarebbe stato debole
beh, disse di aver visto delle basi di missili
e dei terribili sorrisi sulle facce dei cubani
– foto ravvicinate! –
Stavano spingendo troppo avanti la riforma agraria
dando la terra all’Unione Sovietica

Beh, disse, non dobbiamo aver paura,


stiamo mettendo in atto un piccolo blocco
[…]
Dalla Turchia alla Grecia, da Formosa alla Spagna,
[…] daremo ai russi una lezione
per aver tentato di sconvolgere l’equilibrio di potenza

Ora la maggior parte degli americani


sostenevano il Presidente e le sue menti militari,
ma io, io me ne stavo dietro 400 al bancone di un bar
sognando una macchina da fuga tipo astronave
diretta a Marte
o qualsiasi altro pianeta che ha dei bar
come il Gerde’s Folk City 401

Sì, sembrava che l’affermazione del Presidente


fosse forte e chiara
ma alcuni repubblicani stavano impazzendo
e sono ancora così
Dicevano che il nostro piano era troppo blando
‘bambino non punito fa bambino viziato’
affoghiamo Cuba nel mare
e ridiamole la democrazia
sott’acqua

Beh, l’ultimatum fu fissato per le dieci


per essere una guerra fredda, stava diventando rovente
beh, i russi ci han provato e gli è andata male
Quei missili se ne tornano a casa
Il signor Kruscev ha detto ‘Meglio rossi che morti!’ 402

Come si vede, il testo è costruito sapientemente sulle corde dell’ironia,


dalla quale traspare una puntuale consapevolezza dell’assurdità della
situazione. Invece di condividere la diffusa opinione di convinto sostegno al
Presidente, Ochs sogna di poter lasciare il pianeta. Sul finale infine esprime
una critica all’oltranzismo di certi repubblicani, pronti, pur di riportare la
democrazia a Cuba, ad affogarla nell’oceano.
Più controverso il legame tra la CMC e la celeberrima A hard rain is a-
gonna fall, una delle prime composizioni di Bob Dylan, a tutt’oggi
considerata una delle vette più alte del suo repertorio. Se, come pare 403,
questo pezzo venne presentato in pubblico per la prima volta alla Carnegie
Hall il 22 settembre 1962, cioè un mese prima dell’annuncio del blocco,
naturalmente esso non potrebbe considerarsi una reazione a quegli eventi.
Tuttavia altri, tra cui lo stesso Dylan, sembrano suggerire una data di
composizione posteriore. Ad ogni modo, se non di quei giorni di crisi piena,
senza dubbio il testo risentì della generale atmosfera di tensione latente
delle settimane che alla CMC condussero: si parlava già di possibili missili
a Cuba, in un clima costantemente imbevuto del timore di un olocausto
atomico, della possibilità sempre sottesa che una qualche «fine» nucleare
fosse destinata ad arrivare. Allora la «dura pioggia che sta per cadere» cui
fa ripetutamente riferimento il testo non poteva essere quella del fallout
radioattivo? Non era forse una pioggia (tossica) quella che avrebbe seguito
l’esplosione della bomba H, estendendone gli effetti per centinaia di
chilometri? Questo il riferimento più immediato che tradizionalmente è
stato attribuito al celebre testo dylaniano. Una lettura che però lo stesso
autore smentirà, almeno in questo senso di analogia diretta. A hard rain is
a-gonna fall è piuttosto riferita in generale a una possibile fine del mondo
(non necessariamente per via atomica, seppur suggestionato, il testo, da
giorni di pericolo atomico). Si tratta in ogni caso di versi che, come spesso
accade alle opere migliori, si prestano a letture e livelli di significati
molteplici. Chiari, per esempio, sono i richiami veterotestamentari (usuali
in tutta la produzione di Dylan). Eccone un estratto.

Oh, dove sei stato, figlio mio dagli occhi azzurri?


[…] Sono stato davanti a una dozzina di oceani morti,
Mi sono addentrato per diecimila miglia in una tomba,
E una dura, una dura, una dura, una dura, una dura pioggia cadrà.

[…] Ho udito il rombo d’un tuono che ruggiva un allarme,


Il boato d’un’ondata che avrebbe sommerso il mondo intero,
Ho udito cento tamburini con le mani in fiamme,
Ho udito cento che sussurravano e nessuno che ascoltava,
Ho udito una persona morire di fame, e molti che ridevano,
Ho udito il canto di un poeta che moriva nei bassifondi,
Ho udito il rumore di un clown che piangeva nel vicolo,
E una dura, una dura, una dura, una dura, una dura pioggia cadrà.

[…] Ho incontrato un bambino accanto a un cavallino morto […]


Ho incontrato una ragazza col corpo che bruciava […]
[…] Me ne tornerò indietro prima che cominci a piovere,
Andrò nel profondo della più buia foresta […]
Dove nero è il colore, dove zero è il numero […]
Poi starò sull’oceano finché non comincerò a affondare,
Ma conoscerò la mia canzone ben prima di cominciare a cantare,
E una dura, una dura, una dura, una dura, una dura pioggia cadrà 404.

Impossibile identificare con precisione cosa ci fosse, anche


inconsapevolmente, nella mente e nel cuore dell’allora appena ventunenne
Dylan, mentre scriveva questi versi potenti e visionari. Certo un forte
motivo di suggestione, oltre che un evidente talento letterario. Allen
Ginsberg ricorda che la prima volta che sentì questo pezzo, nel 1963,
pianse, perché sentì che «la torcia era stata passata» di mano 405. Un suo
biografo ha scritto che con quel pezzo «Bob fu l’artista che aveva catturato
lo Zeitgeist» di quei giorni di crisi cubana 406. Sul punto, Dylan (come del
resto egli ha sempre amato fare) ha rilasciato in seguito dichiarazioni varie,
almeno in apparenza contraddittorie. Nelle note originali dell’album che
conteneva il brano, per esempio, si legge che esso «fu scritto durante la crisi
dei missili di Cuba» e Dylan stesso lo descrive come «una canzone di tipo
disperato. Ogni verso in essa è in realtà l’inizio di un’intera canzone. Ma
quando la scrissi, credevo che non avrei avuto abbastanza tempo da vivere
per scrivere tutte queste canzoni, così infilai tutto ciò che potevo in
questa» 407. Versione da lui esplicitamente confermata anche in un’intervista
radiofonica del 1963, seppur smentendo pochi minuti dopo l’analogia «hard
rain = fallout rain» («no, non è una pioggia atomica. È solo una pioggia
dura. Intendo una qualche specie di fine che deve accadere») 408. Due anni
dopo tornò a dire: «La scrissi al tempo della crisi di Cuba. Mi trovavo a
New York, in Bleecker Street. Giravamo là intorno, di notte. La gente stava
seduta chiedendosi se era la fine, e così facevo anch’io. Sarebbe mai
arrivata l’una del giorno dopo? Era una canzone di disperazione. Cosa
potevamo fare? Potevamo controllare le persone che erano sul punto di
spazzarci via? Le parole vennero fuori in fretta, molto in fretta. Era una
canzone di terrore. Verso dopo verso dopo verso, cercando di catturare la
sensazione del nulla» 409.
Anche gli storici Schwartz, Dobbs e Blight hanno considerato questo
brano come direttamente ispirato dalla CMC, arrivando perfino (Blight) a
situarne la composizione precisamente nella notte del 26 ottobre,
nell’appartamento seminterrato del cantante folk Dave Van Ronk, appunto
nel Greenwich Village di New York 410. È anche possibile, del resto, che
quella eseguita a settembre fosse una prima versione, sulla quale egli
sarebbe poi tornato a lavorare a crisi pienamente in corso. In ogni caso – a
ulteriore conferma dell’attenzione del giovane Dylan per quei timori di
guerra atomica e «minaccia rossa» così fortemente diffusi nella società
americana dell’epoca – ritroviamo questi stessi temi, nel medesimo album,
pure in un’altra canzone (Talkin’ World War III Blues) e in due outtake (Let
me die in my footsteps e Talkin’ John Birch Paranoid Blues) 411.
Più esplicitamente legato alla CMC, sebbene poeticamente meno
significativo, è invece il frammento registrato in studio da Dylan nel marzo
1963 (nel corso delle cosiddette Broadside Sessions) intitolato appunto
Cuban Missile Crisis. Si tratta di una registrazione non ufficiale (motivo per
cui non risulta inserita nella sua discografia ufficiale, pur essendo
autentica), in cui Dylan cantò, su un folk tradizionale, alcuni suoi versi
riguardanti la crisi cubana. Li riportiamo in nota, perché essi fotografano
bene la paura, del giovane di Dylan come di molti altri, che «il mondo
sarebbe finito» 412.

Analogamente, infine, chiara espressione del clima della CMC (anche se


non necessariamente riferiti ad essa) possono considerarsi alcuni brani di
Tom Lehrer, cantautore umoristico di grande talento (oltre che professore di
matematica a Harvard e all’MIT). Definito oggi da alcuni critici forse «il
più influente autore di musica satirica del secolo passato» 413, Tom Lehrer
aveva cominciato vendendo in prima persona le sue canzoni, per i viali
intorno ad Harvard. Scrisse poi brani per il primo show di satira politica
della televisione americana 414, tra cui anche Who’s Next? e So Long, Mom
(A song for World War III). Mentre la prima canzone ironizzava sui rischi
della proliferazione nucleare, partendo dalla notizia del test atomico cinese
(1964), la seconda prendeva di mira un certo militarismo americano,
inscenando il saluto di un orgoglioso pilota che, recandosi col suo aereo a
sganciare l’atomica sui «commie», raccomandava alla mamma di non
attenderlo di ritorno quella sera (almeno finché la guerra non sarà finita:
cioè tra un’ora e mezza!), ma di seguire intanto le sue gesta alla tv – e qui
riecheggia chiaramente la già menzionata profezia di McLuhan sulla terza
guerra mondiale come mediatica «guerriglia televisiva».

Ciao Mamma,
Io esco a sganciare la bomba
quindi non mi aspettare.
Ma mentre soffochi
laggiù nel tuo rifugio
puoi vedermi nella tua tv.

Mentre attacchiamo frontalmente


guarda ‘Brinkally and Huntally’ 415
[…] così non dovrai perderti un minuto
del lancinante olocausto. Yeah!

L’interpretazione vocale ironica di Lehrer e l’allegro accompagnamento


pianistico da cabaret creavano uno spassoso contrasto con l’argomento
macabro del testo.

***

Il piccolo Johnny Jones era un pilota degli Stati Uniti


e non era mica un timido fiorellino
Era così orgoglioso quando fu dichiarata la terza guerra mondiale
Non era spaventato! Nossignore!
Ed ecco ciò che disse mentre andava ad Armaggeddon:
[…]
‘Ricordati mammina,
Esco a prendere un comunista
[…] Ti cercherò quando la guerra è finita,
tra circa un’ora e mezza!’ 416
Conclusioni

1. Se si dovesse riassumere in due parole la reazione della società e della


politica statunitense alla crisi, si potrebbe dire che essa fu una reazione
scossa ma compatta. La percezione della crisi e dei suoi rischi, infatti,
appare essere stata più forte negli Stati Uniti che in qualsiasi altra nazione
del mondo (fatta eccezione per Cuba, dove per tutta la settimana si attese
letteralmente da un momento all’altro l’inizio dell’invasione). In altre
parole, gli americani furono quelli che più di tutti avvertirono sulla propria
pelle la paura di un possibile conflitto atomico. Eppure, essi accettarono
questo rischio. Il vasto supporto popolare ricevuto da Kennedy non fu un
assenso ignaro dei rischi. Al contrario, l’immagine che emerge è quella di
un popolo consapevolmente pronto a rischiare una guerra nucleare, pur di
ottenere la rimozione di quei missili – seppur trattenendo il respiro e
continuando a sperare nella pace.
Si tratta di un paradosso, ed è difficile stabilire se esso sia più
ammirevole 417 o più pericoloso. Vari fattori possono però contribuire a
spiegarlo. Anzitutto, bisogna tenere a mente che il popolo americano, a
ragione o a torto, si sentiva realmente provocato e minacciato. E già nel
1888 lo studioso James Bryce ci aveva spiegato che «gli Stati Uniti, più che
ogni altro Paese, sono governati dall’opinione pubblica, cioè dal sentimento
generale della massa della nazione» 418. In parte si potrebbe parlare poi di
rispondenza del governo non solo all’opinione pubblica, ma
all’antropologia politica della nazione. Nell’energica reazione della Casa
Bianca alla scoperta del dispiegamento segreto dei missili (una reazione
non priva di condizionamenti emotivi, sebbene temperati poi dalla
razionalità, attraverso cinque giorni di intensi dibattiti segreti) affiora infatti
il vigoroso e decisionista spirito americano, che la Casa Bianca appunto
cerca di rispecchiare e mettere in atto, ben sapendo quanto forti sarebbero
stati i sentimenti dell’opinione pubblica di fronte alla scoperta di una tale
provocazione nemica lasciata senza una risposta ferma. A tal proposito, si è
visto nella Parte prima come il 16 ottobre, durante una riunione
dell’ExComm che stava esaminando le possibili reazioni, George Ball
avesse affermato: «Beh, per quel che riguarda il popolo americano, ‘azione’
significa ‘azione militare’, punto e basta» 419.
Anche U Thant ricorda nelle sue memorie come subito dopo aver
assistito in tv all’inaspettato e cupo discorso di Kennedy gli tornò in mente
un concetto che lui stesso aveva espresso agli americani cinque anni prima:
«La vitalità del popolo americano», aveva detto loro, «si riflette nello
straordinario passo della vostra vita quotidiana, nella veemenza delle vostre
reazioni e dei vostri sentimenti e nella fantastica crescita delle vostre
imprese economiche. Questa vitalità, questo vigore e questa esuberanza del
vostro carattere nazionale sono stati in passato sia una dote sia uno
svantaggio». Ma ora, proseguiva U Thant, di fronte all’annuncio di JFK
«mi chiedevo se il vigore e la vitalità del Presidente – e la veemenza della
sua reazione – fossero rassicuranti o terrificanti» 420.
Anche l’inglese «Daily Mirror» (allora il quotidiano di più ampia
circolazione al mondo) sottolineò che il blocco deciso da Kennedy «è un
esempio della audace e decisa leadership del tipo che la nazione americana
applaude» 421.
Un secondo fattore esplicativo è rintracciabile nel cosiddetto effetto
«rally ‘round the flag» (lett.: radunarsi intorno alla bandiera), che consiste
nell’istintivo riavvicinamento dell’opinione pubblica statunitense intorno al
Presidente in carica nel momento dell’inizio di una crisi o conflitto
internazionale 422. L’emergenza porta cioè in primo piano i sentimenti di
attaccamento patriottico al Presidente, come un’ondata che tende a
sommergere le differenze di partiti, opinioni o i precedenti motivi di
contrasti. (Un esempio tra i più recenti ed eclatanti di questo fenomeno si è
avuto nelle settimane dopo gli attacchi dell’Undici settembre – forse l’unico
evento storico, insieme all’assassinio di Dallas, paragonabile alla CMC in
termini di shock sulla società americana.) Nel caso della CMC, oltre
all’aumento del tasso di popolarità di Kennedy (che però, come abbiamo
visto, era stato riscontrato a novembre e dunque poteva essere dovuto anche
all’esito della crisi), il fenomeno affiora dall’appoggio raccolto
nell’opinione pubblica fin dalla sera stessa del discorso presidenziale, come
da varie testimonianze qui presentate. Tra esse, particolarmente
emblematico appare il sostegno che abbiamo visto provenire dagli
afroamericani, in ragione dei loro notevoli motivi di recriminazione (anche
verso un governo fin lì eccessivamente prudente nel difenderli) 423. Non è un
caso, tra l’altro, che in più d’un articolo della black press di quei giorni si
sia ritrovata proprio l’espressione «rally around».
Due indicazioni utili a sintetizzare le reazioni statunitensi alla crisi si
trovano poi nei rapporti inviati a Londra dall’ambasciatore britannico a
Washington, David Ormsby-Gore. Il 23 ottobre, nel pieno della crisi, egli
scrive: «la schiacciante impressione che ho è che americani di ogni
convinzione considerino l’azione del Presidente come l’assoluto minimo
richiesto per affrontare ciò che tutti vedono come una deliberata sfida russa
per mettere alla prova la volontà e risolutezza degli Stati Uniti» 424. È
un’impressione corretta, come confermato da molte delle altre fonti qui
presentate. Così come corretto appare il timore che egli riporta il 29,
all’indomani della soluzione della crisi. «Influenti settori dell’opinione
pubblica, stimolati dal Partito repubblicano, interpreteranno la ritirata di
Kruscev come giustificazione per le politiche di linea dura che avevano
sostenuto da diverso tempo […]. Come sapete qui c’è una tendenza a
grossolane semplificazioni dei problemi [gross oversemplification of
issues], e non saranno poche le persone che consiglieranno al Presidente
che Kruscev, avendo indietreggiato una volta su Cuba, farà lo stesso di
fronte a una rinnovata minaccia militare» 425. Era la constatazione del rischio
che dalla crisi venisse tratta la distorta lezione dello stand firm, eletto a
ricetta magica per il successo da seguire in ogni controversia internazionale
– un abbaglio di cui abbiamo sottolineato le ripercussioni anche sul
conflitto vietnamita.
L’esito della CMC, però, portò la Casa Bianca (come pure il Cremlino)
anche a una più energica ricerca della distensione internazionale e di forme
di controllo degli armamenti nucleari: un impegno concretatosi, come visto,
nell’ardito discorso di Kennedy all’American University e nella
conclusione dello storico Trattato di messa al bando parziale dei test
nucleari.

2. Quanto poi alla stampa, si è visto qui come, dopo le critiche del
periodo precedente la crisi, vi sia stato un immediato riavvicinamento al
governo allo scoppio della stessa, manifestatosi perfino nell’accettazione
della richiesta presidenziale di mantenere il silenzio nell’imminenza della
crisi. Si può quindi condividere l’affermazione fatta dallo studioso William
LeoGrande che la stampa (e i media televisivi) «agirono come partner
consenziente nella strategia dell’amministrazione» 426. Durante il corso della
crisi, poi, la stampa rispecchiò in pieno il sostegno dell’opinione pubblica al
governo. E al termine di essa, a larghi tratti anche il trionfalismo. Tuttavia
da talune voci della stampa nazionale (si pensi all’editoriale del «Christian
Science Monitor», oltre che ai commenti di Lippmann e del «San Francisco
Chronicle») è emersa pure l’immagine di un Paese che si interroga sulla
propria posizione di leadership, sulle responsabilità e i rischi di eccessi
connessi al ruolo mondiale recentemente acquisito 427. Dopo la crisi, infine,
il dibattito accesosi sulla gestione strategica della diffusione di notizie da
parte governativa mostrò la comparsa delle prime crepe nel rapporto fin lì
confidenziale tra la stampa e la Casa Bianca, destinato negli anni seguenti
ad incrinarsi definitivamente.

3. Tali reazioni vanno contestualizzate storicamente. La CMC segue la


guerra di Corea e precede quella del Vietnam. Confrontandola con questi
due eventi, si può osservare che dal punto di vista mediatico, l’assenza di tv
e di reporter sulle navi che effettuarono il blocco avvicina la CMC più alla
guerra di Corea (dove la televisione era di fatto assente) che non alla guerra
del Vietnam (che viceversa diverrà nota come la prima guerra televisiva e
vedrà erodersi il sostegno popolare alla sua continuazione proprio tramite i
teleschermi delle case americane).
Relativamente alla presenza di movimenti pacifisti abbastanza corposi da
influenzare il processo decisionale, pare di poter dire invece che la CMC si
collochi a metà tra il conflitto di Corea – in cui di fatto quei gruppi non
rappresentavano ancora un fattore di rilievo – e la guerra del Vietnam, in
cui invece essi notoriamente giocarono un ruolo di primo piano. In
occasione della CMC la voce pacifista si cominciò già a far sentire, seppur
timidamente, ma i numeri non furono ancora quelli che si vedranno in
seguito – né lo fu l’assertività delle proteste, anche per i diversi e più
complessi contenuti della CMC 428. Inoltre, la generale fiducia degli
americani nella propria nazione e nei nobili motivi del suo agire sulla scena
internazionale non erano ancora stati radicalmente scossi dal Vietnam 429.

4. Le reazioni degli intellettuali statunitensi da un lato denotano una


pluralità di vedute relativamente maggiore rispetto alla compattezza
granitica riscontrata nell’opinione pubblica nazionale. Dall’altro lato
appaiono prettamente individuali, cioè un po’ slegate, tra loro e dal Paese.
In sostanza, ciascuno fece le sue riflessioni e tendenzialmente se le tenne
per sé. Le eccezioni rappresentate dalle poche reazioni collettive (pubbliche
o meno che fossero, come l’inserzione pubblicata sul «New York Times» o
il telegramma privato spedito a JFK da Lifton e i suoi colleghi di Yale)
confermano la regola, essendo venute fuori da un ambiente particolarmente
comunitario come l’accademia. Un maggior coordinamento lo troveremo
invece in Italia, favorito in parte da affinità ideologiche e dalla presenza di
un partito (il PCI) a far da collante e canalizzatore di istanze.
Le reazioni personali degli intellettuali americani qui presentate non
divennero neppure note al pubblico in quei giorni (salvo un paio di
eccezioni) 430 e risultarono perciò ininfluenti sugli eventi, come potenziale
stimolo presso i decision-maker e l’opinione pubblica. Una maggiore
influenza sul tema gli intellettuali statunitensi la espressero invece sul lungo
termine, quando ebbero il tempo di elaborare le loro riflessioni in un
prodotto intellettuale compiuto, che facesse riflettere i loro compatrioti su
una generale situazione politica più che su un preciso episodio in corso. Ci
si riferisce qui al Doctor Strangelove di Kubrick, ma anche a Cat’s cradle di
Vonnegut, al discorso di Steinbeck al Nobel, o all’articolo di Martin Luther
King del gennaio 1963.
Naturalmente non mancarono eccezioni anche rilevanti 431, ma nel
complesso durante la CMC queste riflessioni rimasero incerte e private,
senza neppure tentare di avere un qualche impatto sull’opinione pubblica o
sulle leadership. Come mai? La prima risposta è che semplicemente mancò
il tempo di formarle ed esprimerle (si ricordi che la fase pubblica della crisi
durò appena qualche giorno, dal lunedì sera alla domenica mattina). Ma
forse c’è di più.
L’impressione complessiva è che gli intellettuali statunitensi,
esattamente come il resto dell’opinione pubblica, fossero scossi
dall’enormità degli eventi (ad eccezione di Robert Frost, che invece ne
parve galvanizzato – ma l’eccitazione non era che l’altra faccia della
medaglia, come abbiamo visto che notò bene un altro poeta, Robert
Lowell). In altre parole, molti letterati USA sembrarono non «sentirsela» di
intervenire pubblicamente in quel frangente. Il carattere inaudito degli
eventi in corso consigliava di attendere sviluppi, incrociando le dita come
tutti gli altri americani, piuttosto che lanciarsi in prese di posizione
pubbliche che avrebbero potuto venir clamorosamente smentite dai fatti
appena qualche ora dopo. Ne sono un emblema Vonnegut che, come si è
visto, persino alle domande della figlioletta risponde «I don’t have a clue»
(salvo poi scrivere Cat’s cradle l’anno successivo), o Steinbeck, che sul
momento si meraviglia della presenza di tanti giornalisti alla sua conferenza
stampa con tutte le cose più importanti che stavano succedendo, e ai
reporter che gli chiedono una sua opinione sulla crisi dà risposte
telegrafiche, aggiungendo «sono lungi dall’essere un’autorità in questo
campo» (salvo poi far riferimento alla crisi nel suo discorso di accettazione
del Nobel in dicembre). Questa generale ritrosia a esprimersi 432 durante la
crisi, che potrebbe esser vista come una manchevolezza, un silenzio quasi
colpevole degli opinion-maker in un momento centrale della vita nazionale,
può invece essere valutabile anche come una forma di modestia, civica e
intellettuale, per cui gli uomini di cultura non si presunsero più illuminati
degli altri cittadini americani, prendendo atto di non avere abbastanza
elementi di giudizio nel caso specifico, senza ergersi a cassandre né
emettere moniti alla prudenza o gridi di battaglia. Vedremo invece che gli
intellettuali italiani, cittadini di un Paese meno direttamente coinvolto nella
crisi, sentirono nettamente più forte la responsabilità di partecipare al
dibattito pubblico, esponendosi sia personalmente sia congiuntamente.
Cosa se ne deduce? Non si tratta di decidere quale dei due gruppi di
«chierici» abbia «tradito» il proprio Paese, secondo un’espressione abusata,
ma semplicemente di riflettere sul fatto che tali diversi atteggiamenti
assunti in occasione della CMC abbiano rispecchiato i caratteri delle due
nazioni, anche nel ruolo diverso rivestito dalla figura di intellettuale. Anche
in questo, dunque, la CMC e le reazioni ad essa ci hanno consentito di
risalire dalla reazione ai caratteri del reagente, come una perfetta cartina di
tornasole.
«Eppure ce l’avevo qui nelle mie mani…» si domanda Kruscev, mentre JFK gli ruba l’iniziativa,
rappresentata da un pallone da football. («Los Angeles Times», Oct. 28, 1962, Section G.)
«Ora basta!» afferma JFK afferrando l’ultimo di una serie di coltelli col quale un Kruscev brutale
lanciatore di coltelli lo continuava a minacciare. («The New York Times», Oct. 29, 1962, p. E3, 177 –
originariamente in «Suddeutsche Zeitung».)
JFK sceglie di percorrere «L’altra strada», cioè quella impervia segnata dal cartello «guerra, se
necessario», rispetto a quella in discesa della «pace ad ogni costo» di Chamberlain, che negli anni
Trenta portò alla seconda guerra mondiale. («Los Angeles Times», Oct. 28, 1962, Section G.)
Lo Zio Sam si rialza «dal letto malato» della timidezza della sua politica estera. («The New York
Times», Oct. 28, 1962, p. E11, 185.)
La CMC come il «Mezzogiorno di Fuoco» della guerra fredda. «Posa il cinturone della pistola!»,
dice lo sceriffo JFK a Kruscev che cerca di entrare armato nell’hotel di Castro. («Christian Science
Monitor», Oct. 23, 1962, p. 4.)
«Entra nel mio salotto…», invoglia il subdolo ragno Kruscev, promettendo negoziati che secondo il
«Dallas Morning News» nascondono dietro di loro negativi compromessi. («Dallas Morning News»,
Oct. 26, 1962, p. 12.)
«Ho cambiato idea, litighiamo sulla panchina», propone Kruscev a JFK trovandosi sull’orlo del
precipizio cubano. («Christian Science Monitor», Oct. 29, 1962, p. 12.)
«Bella domanda», la didascalia di commento a un Castro che, dopo aver minacciato gli USA di farli
picchiare dal suo «fratellone», si volta e non lo trova più («Uh … Dov’è andato?»). («Dallas
Morning News», 30, Section 4, p. 4.)
3
«Thinking about the unthinkable».
Politologi

Thinking about the unthinkable, pensare all’impensabile: questo il titolo


di un fortunato saggio pubblicato proprio nel 1962 dal teorico di strategia
militare Herman Kahn. Una delle punte di diamante dell’influente think
tank californiano «RAND Corporation», Kahn si proponeva coi suoi studi
di elaborare conoscenze, concettualizzazioni e strategie in merito alle nuove
realtà politico-militari presentate dall’era nucleare. Considerare piani e
strategie in vista dell’eventualità di una guerra termonucleare era un
pensiero così spaventoso da venir comunemente evitato, aborrito per un
misto di ribrezzo morale ed istinto di sopravvivenza. Ma ciò, argomentava
Kahn, non era un approccio produttivo: volenti o nolenti, la realtà
richiedeva di fare i conti con quelle nuove eventualità, e dunque era meglio
averle concettualizzate abbastanza da saperle gestire ove si presentassero.
Anche l’impensabile insomma andava necessariamente pensato. Secondo
Kahn, «contrariamente a una credenza diffusa», non era vero che dopo una
guerra nucleare «i superstiti invidierebbero i morti» 1. Al contrario, «ove
siano state prese adeguate preparazioni, sarebbe possibile per noi o i
sovietici far fronte a tutti gli effetti di una guerra termonucleare, nel senso
di salvare la maggioranza della gente e ripristinare qualcosa di vicino allo
standard di vita anteguerra in un tempo relativamente breve» 2. Una guerra
nucleare combattuta alla luce di conoscenze strategiche avrebbe se non altro
aumentato il numero di sopravvissuti rispetto ad una combattuta senza
alcuna strategia. E lo stesso sarebbe valso per i tempi di recupero
dell’economia nazionale 3. C’erano pur sempre delle notevoli differenze –
spiegava Kahn con tanto di precise tabelle numeriche progressive – tra una
guerra nucleare comportante due piuttosto che quaranta o centosessanta
milioni di morti. Si sarebbero avute «tragiche, eppure distinguibili,
condizioni di dopoguerra» (Tragic but distinguishable postwar states) 4.
Anche la guerra nucleare quindi era una realtà che bisognava imparare a
conoscere, programmare e (ove necessario) prepararsi a superare. «Una
mancanza di competenza in questo settore, più che in qualsiasi altro,
potrebbe avere conseguenze disastrose, e non soltanto per noi» 5. I suoi
critici ribattevano però che tali elaborazioni teoriche rischiavano di rendere
di fatto concretamente ancora più probabile lo scoppio di una guerra
nucleare. Soprattutto quando esse cominciavano a sostenere che anche le
guerre nucleari potessero esser vincibili (winnable nuclear war). Elaborare
a tavolino scenari simili non rischiava prima o poi di indurre qualcuno a
tradurli in realtà? Considerare come legittimi oggetti di studio corsi
d’azione così abominevoli non rischiava di renderli infine politicamente (se
non moralmente) accettabili?
Kahn e i suoi, ad ogni modo, andarono avanti con i loro studi. Nel 1960
egli aveva pubblicato On thermonuclear war (Sulla guerra termonucleare:
con chiaro riferimento al classico della strategia militare ottocentesca, il
Sulla guerra del prussiano Karl von Clausewitz). Nel 1962 uscì poi
Thinking about the unthinkable, saggio in cui – analizzando a fondo i
concetti e gli strumenti della deterrenza – si teorizzava perfino (seppur con
intenti teorici e di paradosso esplicativo, non come concreta proposta
politica) la cosiddetta «Doomsday machine», proprio la stessa prospettata
nel film Il dottor Stranamore. Letteralmente «macchina del giorno del
Giudizio», la Doomsday machine era un congegno ipotizzato come
composto da numerose bombe H collegate ad un computer e programmato
per innescarsi automaticamente – e senza possibilità di disinnesco – al
primo segnale di imminente attacco nucleare nemico diretto verso il proprio
territorio 6. Era un’idea mostruosa, ma in fondo null’altro che il concetto di
deterrenza portato alle estreme conseguenze: se chi attacca sa che così
facendo innescherà automaticamente un dispositivo che distruggerà l’intero
pianeta (sé compreso) e non potrà essere disinnescato in alcun modo
neppure da chi lo aveva realizzato, ebbene egli finirà col non attaccare. Un
congegno folle, ma che di colpo avrebbe reso superflua la sempre più
costosa corsa agli armamenti (condotta per ottenere o mantenere una parità
o relativa superiorità rispetto all’arsenale nemico) e avrebbe abolito la
necessità di una scelta umana nel momento di «premere il bottone» della
rappresaglia. Un solo segnale di attacco imminente (non importa quanto
potente o massiccio, non importa se voluto o solo accidentale), e il
congegno sarebbe scattato, distruggendo tutte le condizioni di vita
sull’intero pianeta.

Herman Kahn.

Ora, all’interno di un simile contesto teorico, cosa poteva pensare


Herman Kahn assistendo alla CMC? Dal punto di vista personale, pare che
in quei giorni egli si portasse perennemente dietro una radio a transistor,
evidentemente assetato di notizie 7. Quanto alle sue riflessioni sugli eventi,
ne troviamo tracce nel suo corposo saggio successivo, uscito nel 1965: On
escalation. Altro vocabolo e concetto centrale di quegli anni, l’escalation
era la sequenza crescente di passi e contropassi politico-militari da adottare
in caso di conflitto o crisi con l’avversario. Alla sommità di questa scala
stava naturalmente l’aperto conflitto con uso di armi termonucleari; ma
erano i passi iniziali e intermedi che, se ben calibrati, potevano forse
sperare di indurre l’altra parte a non salire fino alla cima, garantendo a se
stessi e all’avversario delle possibilità di fermata. Un concreto esempio di
strategia basata sul concetto di escalation graduale era la cosiddetta
«risposta flessibile», elaborata dall’amministrazione Kennedy in
sostituzione della precedente strategia dell’amministrazione Eisenhower,
detta della «rappresaglia massiccia» 8, che viceversa era fondata proprio
sull’effetto deterrente di una risposta non graduata. McNamara e JFK
ritenevano invece che fosse meglio avere a disposizione una maggior
gamma di reazioni progressive, commisurate all’azione avversaria (ed era a
questo che alludeva Norman Mailer quando, come visto poc’anzi,
paragonava JFK nella CMC a «un giocatore di poker con una scala reale,
una pistola in pugno, soldi a non finire per alzare ogni piatto e una sfilza
d’insulti accuratamente graduati, intesi a rovesciare il tavolo e dare inizio
alla sparatoria») 9.
Questo è appunto ciò che Kahn presenta nel suo On escalation: una
sequenza di passi, «uno schema generalizzato (o astratto) di escalation».
Preceduto da un periodo di pre-escalation e seguito da uno di post-
escalation, lo schema di Kahn comprende 44 gradi, suddivisi in sette gruppi
(«manovre di subcrisi; crisi tradizionali; crisi intense; crisi eccezionali;
attacchi centrali dimostrativi; guerre centrali militari; guerre centrali contro
le popolazioni civili»). Questi gruppi sono separati da sei «limiti», superati i
quali l’escalation cambia carattere assumendo quello del gruppo
successivo. Il tutto è paragonabile, spiega Kahn, a «un ascensore che si
ferma a vari piani» di «un grande magazzino a sette piani», in ciascuno dei
quali USA e URSS «possono scegliere fra un numero variabile di oggetti
della stessa categoria» 10. Definito lo schema, Kahn procede poi a
descriverne in dettaglio i 44 gradi. E, strada facendo, si difende dalle
critiche: «Si dice che se le nazioni tentano di risolvere le proprie
controversie per mezzo dell’escalation, possono ad un tratto accorgersi di
averlo fatto una volta di troppo e può scoppiare la guerra. Questo non ci
sembra tanto un difetto del nostro schema, quanto un difetto di un processo
che fa parte del mondo reale. […] Certamente, qualsiasi modello di questo
tipo di mondo, in cui vi è una grande disponibilità di armi di distruzione di
massa, presenterà instabilità, che non saranno però tanto un errore del
modello, quanto del mondo in se stesso» 11.
In questo contesto allora la CMC diventa per Kahn una semplice
fattispecie che si va ad infilare nella sua tabella. Per la precisione, al grado
12 del gruppo 3 («crisi intense»). Kahn presenta la CMC in modo
freddamente scientifico: come un caso di scuola. Non ne esprime l’aspetto
angoscioso, i rischi enormi, la possibilità che essa sfuggisse di mano e
portasse alla catastrofe. Non parla di ciò che in quegli stessi giorni JFK
definiva «the final failure» (il fallimento definitivo), cioè l’inizio di uno
scambio nucleare. Ciò deriva forse anche dal fatto che alcuni dei rischi corsi
(come l’episodio di Arkhipov) divennero noti solo in seguito. Ad ogni
modo, sempre coerentemente col suo rigoroso incedere scientifico, Kahn
non esprime le sue personali opinioni su quella che è stata la gestione
concreta della CMC da una parte o dall’altra. Anche per esporla, in quanto
«recente esempio di crisi tradizionale» 12 egli si serve difatti di virgolettati
(quelli tratti dai discorsi di JFK e di Kruscev e da un articolo del «New
York Times»). Tuttavia, qui e là il giudizio di Kahn traspare, ed appare
positivo riguardo all’operato di JFK. A un certo punto della sua analisi per
esempio egli nota come «la parte più importante del suo discorso» del 22
ottobre sia stata l’avvertimento esplicito emesso riguardo a Berlino («Ogni
mossa ostile, ovunque nel mondo, contro la sicurezza e la libertà dei popoli
coi quali noi abbiamo impegni, compreso in particolare il coraggioso
popolo di Berlino Ovest, sarà da noi fronteggiata con le azioni che si
renderanno necessarie»). Infatti, spiega Kahn, «una tattica del tutto comune,
ma sbagliata, sarebbe stata quella di non toccare l’argomento per evitare di
attirare l’attenzione dei sovietici sulla questione. È importantissimo invece
mostrarsi disposti a far fronte a simili ‘contro-escalation’, anche se per caso
non lo si è» 13. Inoltre, sottolinea in un altro punto del suo saggio, «durante
la crisi, gli Stati Uniti permisero ai russi la migliore ritirata. Noi
diminuimmo l’intensità del confronto quanto più possibile nei limiti
espressi dalla crisi». Quanto a Kruscev, «egli trasse in effetti grandi
insegnamenti dalla crisi caraibica». «Comunque, è bene far notare che la
buona disposizione americana ad affrontare il confronto nei Caraibi e la
conseguente (ma piuttosto esplicita) buona disposizione a usare la forza ad
un grado minimo condussero la crisi dei Caraibi ad un lieto fine. L’attuale
distensione si basa perciò, almeno in parte, sul fatto che Kennedy è stato
disposto a raggiungere il grado 12 del nostro schema (grande guerra [o
azione] convenzionale). Questa disposizione a raggiungere il grado 12 può
avere notevolmente diminuito la probabilità di una futura escalation a gradi
molto superiori» 14. Per Kahn, insomma, l’essere stati disposti in quel caso a
correre un rischio limitato può averne risparmiati altri, futuri, probabilmente
assai peggiori.

Più critico il parere di Irving Kristol, l’influente intellettuale politico del


dopoguerra statunitense, molto noto in seguito come il padre della corrente
del «neoconservatorismo». A proposito della CMC egli si espresse con due
lunghi articoli sul bisettimanale «The New Leader», uno risalente a metà
ottobre 1962 (dunque proprio alla vigilia della scoperta dei missili), l’altro
dell’aprile successivo. Nel primo, eufemisticamente intitolato The case for
intervention in Cuba, egli argomentava la necessità di invadere per risolvere
il problema cubano una volta per tutte 15.
Nel secondo, nonostante l’esito della CMC, troviamo Kristol ancora
insoddisfatto verso la politica cubana dell’amministrazione Kennedy.

In un modo difficile da comprendere, una grande vittoria americana


[…] è stata trasformata in una piccola sconfitta. […] tra la sorpresa
di tutti, i russi misero lì i missili, li tolsero su nostra insistenza ed
ora hanno l’intera isola di Cuba come base militare. Non voglio
certo dire che i russi l’avessero programmata così. Loro hanno
effettivamente subito una sconfitta a Cuba […] d’altro canto essi
non avrebbero mai potuto aspettarsi, l’estate scorsa, di essere
radicati in trincea a Cuba così potentemente come lo sono oggi. […]
La vera spiegazione del fiasco cubano è che il governo non ha mai
escogitato alcuna politica per Cuba. […] Al tempo della crisi dei
missili di Cuba, il governo aveva la scelta tra cogliere l’occasione
per fare qualcosa riguardo a Cuba ora e subito, o fare qualcosa
riguardo alle nostre relazioni con la Russia per l’indefinito e
imprevedibile futuro. Ha scelto il secondo corso. Invece di un
pubblico ultimatum a Cuba – che avrebbe potuto richiedere almeno
il ripudio della sua alleanza militare con l’Unione Sovietica – il
presidente Kennedy ha scritto lettere private a Kruscev. Lo ha fatto
non per debolezza, ma per sofisticatezza. Stava guardando ‘sulla
lunga distanza’. Comunque era una distanza troppo lunga, perché è
andata oltre l’obiettivo […] 16.
Alle argomentazioni di Kristol si potrebbe facilmente replicare che «un
pubblico ultimatum a Cuba», come da lui suggerito, sarebbe stato
politicamente indifendibile agli occhi del mondo e dunque
controproducente (come già la Baia dei Porci), oltre che destinato a
incontrare un sicuro rifiuto, con la conseguenza di dover a quel punto
intraprendere un’invasione; inoltre, sarebbe stato rivolto al soggetto
sbagliato, giacché era Kruscev a poter decidere la sorte di quei missili, non
Castro.
Interessante, per quanto naturalmente discutibile, anche l’analisi di
Zbigniew Brzezinski, importante politologo polacco naturalizzato
statunitense. Democratico della linea dura, consigliere di Kennedy nel
1960, professore alla Columbia University all’epoca della crisi, in seguito
funzionario di primo piano dell’amministrazione Carter (ne sarà consigliere
per la sicurezza nazionale: l’equivalente di ciò che Bundy era per JFK),
Brzezinski espresse la sua opinione sulla CMC con un lungo articolo scritto
a crisi ancora in corso, uscito pochi giorni dopo su «New Republic». In
qualità di esperto del mondo sovietico, egli cercò di contestualizzare la
mossa sovietica nella strategia di Mosca. Così facendo, ne sottolineò il forte
legame con Berlino, come avrebbe fatto JFK, ed espose la necessità di
tenere una linea molto dura.

L’Unione Sovietica non è una potenza da status quo. È una potenza


rivoluzionaria. Precisamente per questo essa è stata disposta a
correre considerevoli rischi per espellerci da Berlino, e a tal
riguardo il caso di Cuba diventa sia rilevante sia cruciale. […] I
sovietici speravano di strappare importanti concessioni a Berlino in
cambio di qualche accordo su Cuba. […] La nostra iniziativa, per
quanto tardiva, ha perciò sconvolto i calcoli sovietici e le loro
tabelle di marcia […] Ma il problema è lungi dall’essere risolto.
[…] Poiché noi siamo la potenza da status quo, non possiamo
permetterci una parità strategica e dobbiamo sempre ricercare la
superiorità […] Perciò non dobbiamo permettere che il dibattito alle
Nazioni Unite si risolva in un ‘compromesso’ comportante la
liquidazione di qualcuna delle nostre basi a meno che non sia certo
che esse non hanno più alcun valore militare. […] Il nostro compito
è indicare che le nostre priorità sono: primo, Berlino, e secondo,
evitare una guerra, proprio come a Cuba abbiamo appena indicato
che le nostre priorità sono: primo, la sicurezza americana, e
secondo, evitare una guerra. Rendendo chiare queste priorità,
potremmo ottenerle entrambe. Altrimenti potremmo avere una
guerra per errore di calcolo [miscalculation]. […] Siamo nel mezzo
di una prova di forza e il suo esito sarà decisivo […] 17.

Brzezinski, inoltre, in quegli stessi giorni si attivò per provare a


influenzare le mosse del governo nella crisi in corso: insieme ai colleghi
sovietologi Leo Labedz e Richard Pipes «inviò un messaggio a uno ‘dei
potenti’ di Washington chiedendo [che non ci fosse] nessuna ritirata
riguardo al blocco di Cuba» 18. Questa raccomandazione andava
chiaramente nella stessa linea di fermezza da lui tracciata nell’articolo per
«New Republic». Il destinatario del messaggio, Arthur Schlesinger, lo
riportò poi al Presidente, citando anche il passaggio in cui Brzezinski
suggeriva senza giri di parole a Kennedy di passare all’azione: «Ogni
ulteriore ritardo nel bombardare i siti dei missili manca di sfruttare
l’incertezza sovietica» 19.
Tali bellicosi consigli però non vennero accolti, e la crisi si risolse.
Essa tuttavia aveva comunque ottenuto un risultato molto importante,
secondo Brzezinski. In un documento governativo di cinque anni dopo, da
lui scritto quand’era membro del Planning Council del Dipartimento di
Stato sotto l’amministrazione Johnson, Brzezinski affermava infatti: «Gli
Stati Uniti sono oggi l’unica vera potenza militare globale al mondo». È
stata proprio la CMC, egli spiegava nel documento, a dimostrare
chiaramente la supremazia degli Stati Uniti e i limiti della potenza
sovietica: «I leader sovietici furono costretti, a causa della risposta energica
degli Stati Uniti, alla conclusione che il loro potere apocalittico [inteso qui
come deterrente nucleare] era insufficiente a rendere l’Unione Sovietica una
potenza globale. Messa di fronte a una prova di forza, l’Unione Sovietica
non osò rispondere neppure in un’area di sua supremazia regionale –
Berlino» 20.

E veniamo ad Alam Ulam, connazionale di Brzezinski e suo collega ad


Harvard. Noto storico e sovietologo, Ulam era stato anch’egli
personalmente toccato dalle paure di quei giorni, come racconterà egli
stesso.

I ricordi delle mie ansietà riguardo alla crisi dei missili di Cuba
sono mischiati in modo incongruo con le reminiscenze dei miei
sforzi di imparare il biliardo. […] Diversi tra noi si erano
appropriati di uno scantinato nella Lowell House [storico edificio
all’interno dell’Università di Harvard] e lo avevano trasformato nel
nostro privato covo d’azzardo. Poker di notte, biliardo di giorno. E
così, durante quegli snervanti giorni d’ottobre, e specie dopo il
discorso di Kennedy rivelante la presenza di missili a raggio medio
e intermedio nel regno di Castro, io cercavo di allontanare dalla mia
mente i neri pensieri giocando un gioco che richiede di concentrarsi
al punto da divenire dimentico – almeno per il momento – della
possibilità che il mondo possa finire il giorno dopo. Ma non si può
giocare a biliardo tutto il giorno. […] Beh, grazie a Dio la crisi
passò […] Ci fu un generale sollievo (esemplificato da una coppia
che conoscevo che aveva già fatto le valigie ed era pronta a volare
in Nuova Zelanda, ma poi si calmò e diede un’altra chance alla
coesistenza) 21.

Sintetizzate poi efficacemente anche le principali conseguenze della


crisi 22, Ulam propone un’interessante teoria sui motivi che potevano aver
spinto Kruscev a correre un rischio come l’installazione segreta di missili
nucleari a poche miglia dalla Florida. Valutando infatti insufficienti come
spiegazione i soli moventi della protezione di Cuba e di un rafforzamento
della posizione sovietica riguardo a Berlino («L’ampiezza dei rischi incorsi
indica chiaramente che molto, molto di più doveva essere in palio») 23, egli
ipotizza che il progetto di Kruscev fosse ancora più ampio: una volta
rivelata clamorosamente all’ONU la presenza dei missili nel suo viaggio a
New York di fine novembre, Kruscev ne avrebbe infatti proposto subito il
ritiro, ma nell’ambito di un accordo generale dei problemi del disarmo
mondiale. Un accordo che avrebbe previsto la creazione di due zone «atom-
free», rispettivamente nell’Europa Centrale e nel Pacifico. Ciò avrebbe
comportato l’impegno della NATO a non fornire di armi nucleari la
Germania Ovest (prospettiva che era il vero spauracchio di Mosca), nonché
il ritiro delle basi americane da Formosa (la Cina nazionalista, alleata USA
e nemica giurata della Cina di Mao). In cambio, però, la Cina comunista
avrebbe rinunciato al suo inquietante progetto di dotarsi di un’atomica
nazionale (prospettiva che del resto Mosca temeva quasi quanto
Washington); e i missili sovietici sarebbero immediatamente spariti da
Cuba. Secondo Ulam, a quel punto «l’amarezza degli americani per essere
stati ingannati sarebbe stata alleviata dalla notizia che l’acquisizione cinese
di armi atomiche cinesi poteva essere indefinitamente procrastinata. Il
rancore dei cinesi si sarebbe potuto superare dimostrando che non era
tramite segreta collusione con gli Stati Uniti bensì tramite una coraggiosa
politica aggressiva che la Russia stava esigendo questo accordo» 24.
È un’ipotesi senz’altro originale e suggestiva, ma a nostro avviso troppo
articolata per risultare realistica. Una revisione dell’intero scacchiere
mondiale alle condizioni dettate da Kruscev sarebbe stata pubblicamente
inaccettabile da qualsiasi presidente americano, a prescindere da quanto
essa fosse ingegnosamente bilanciata o reciprocamente vantaggiosa; i
rispettivi alleati poi sarebbero immediatamente insorti da ambo le parti
rendendola impossibile; e specialmente ipotizzare che Mao – già in rotta di
collisione con Mosca – accettasse di sottoscrivere una simile rinuncia
nazionale calatagli così dall’alto dal Cremlino sarebbe apparso uno scenario
davvero troppo ottimista anche per le tendenze al wishful thinking strategico
di Kruscev.

Gli eventi della CMC furono seguiti con particolare attenzione dal
grande filosofo politico francese Raymond Aron. Personaggio centrale
(insieme all’amiconemico Sartre) del dibattito intellettuale francese del
Novecento, Aron, che era amico personale di esponenti statunitensi quali
Bundy e Kissinger, espresse le proprie riflessioni sulla CMC in vari tempi e
sedi: nell’aggiornamento del suo corposo saggio politologico Pace e guerra
tra le nazioni 25, poi a distanza di un decennio, ma soprattutto a caldo, nei
numerosi ed elaborati articoli di commento pubblicati in quelle stesse
settimane sulla prima pagina del quotidiano «Le Figaro». Ecco alcuni passi
tratti da quegli editoriali.
Già il mattino del 24 ottobre Aron è pronto a presentare ai lettori francesi
esaurientemente quelli che sono a suo avviso i termini della crisi. La
decisione di JFK, scrive, «apre la crisi più grave che il mondo abbia
conosciuto da quando i due Grandi dispongono entrambi di un apparato
termonucleare». Poi afferma senza girarci intorno che «un blocco, benché
parziale, senza dichiarazione di guerra, non è previsto dal diritto
internazionale». Cioè è illegale. Allora «quale giustificazione propone il
presidente Kennedy per il suo atto? La giustificazione che è stata
tradizionalmente quella delle grandi potenze: l’installazione d’una base
militare offensiva a portata delle coste americane è una provocazione di
natura [tale] da modificare il rapporto delle forze e dunque mettere la pace
in pericolo». L’URSS non tollera forse che la sua piccola vicina, la
Finlandia, abbia un diverso regime, multipartitico, ma solo a condizione che
essa mantenga una sorta di neutralità politica? Si trattava insomma di
«finlandizzare» Cuba. Dunque «la posta di questa partita di poker all’ombra
dell’Apocalisse è ormai chiara. […] Kennedy ha rilevato la sfida e […] ha
chiesto a Kruscev di sacrificare non il regime fidelista ma le installazioni
militari dell’isola. Che prezzo esigerà Kruscev per questa concessione?».
Secondo Aron «bisogna attendersi una crisi prolungata» e confusa, tra
dibattiti ONU, discorsi dei leader e misure militari, «fino a un esito,
speriamo, pacifico».
Inoltre, egli prevede, ora «si risolleverà inevitabilmente la vecchia
querelle relativa alle consultazioni distinte dall’informazione. Poiché gli
alleati degli Stati Uniti possono essere colpiti dalle reazioni sovietiche, essi
non avrebbero dovuto essere consultati in anticipo? Rivendicazione difficile
tanto da rifiutare quanto da soddisfare. Nell’era termonucleare, la
diplomazia-strategia si confonde con l’arte di creare dei fait accompli.
Bisognava che Mosca fosse incapace di prevenire la decisione americana
[…] Una volta apertasi la crisi, il dovere dei paesi della NATO è chiaro: è
mantenendo la loro solidarietà che essi hanno la miglior possibilità di
ridurre i pericoli» 26.
Pochi giorno dopo, scrivendo a crisi ancora aperta, egli allargava lo
sguardo ai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo:

Un gran numero di Stati del Terzo Mondo, tra i quali stati africani di
solito favorevoli all’Occidente, hanno adottato un atteggiamento
ostile riguardo alle decisioni del presidente Kennedy. [in realtà Aron
esagera: l’atteggiamento del Terzo Mondo non era stato così critico,
NdA] […] Uno Stato sovrano non deve forse essere libero di
scegliere il proprio regime, i propri alleati, le proprie armi? […]
Questa reazione è comprensibile e tutte le ochette della stampa
mondiale hanno moltiplicato le variazioni su questo tema. Ma i
giornalisti e gli uomini politici, almeno quelli che sono capaci di
riflettere, riconosceranno domani la vera posta della crisi attuale: la
libertà che giustamente rivendicano gli Stati del Terzo Mondo di
scegliere il loro regime interno non è compatibile con la pace che a
condizione che tali Stati restino fuori della rivalità militare tra i due
Grandi e non cerchino di modificare le modalità dell’equilibrio
termonucleare.

Esempi di Stati che hanno già dovuto imparare a non sorpassare questi
limiti sono l’Ungheria, la Finlandia, l’Austria, la Norvegia. Così,
specularmente, «non è impossibile persuadere il governo americano che i
cubani hanno il diritto di preferire un certo socialismo, anche di ispirazione
sovietica (benché non si possa convincere Kruscev dei diritti del popolo
ungherese). Ma non è né possibile né desiderabile persuadere il signor
Kennedy o il popolo americano che devono adattarsi a delle rampe di
missili di lancio sovietiche al largo delle coste della Florida. Nessuna
grande potenza ha spinto il rispetto del diritto internazionale fino
all’accettazione passiva d’un pericolo percepito, a torto o a ragione, come
mortale».
«Kennedy, che aveva dichiarato poche settimane fa che non avrebbe
tollerato armi offensive a Cuba, era costretto ad agire, non foss’altro che per
convincere il signor Kruscev a non giudicarlo sulla base del fiasco
dell’invasione tentata e abbandonata nel 1961. L’equilibrio del terrore non
dipende solo dalle armi di cui dispongono i due Grandi, dipende dall’idea
che i due ‘K’ si fanno l’uno dell’altro. Se uno disprezza l’altro e lo crede
incapace di tenere una prova di forza, la catastrofe per malinteso diviene
possibile» 27.

Finita la crisi, Aron procede a tirare le somme. «Il presidente Kennedy


ha preteso e ottenuto, sotto la minaccia dell’uso della forza, lo
smantellamento […]». C’è stata, sì, una promessa di non invasione in
cambio (Aron non può sapere dell’assicurazione segreta sulle basi turche),
che «permette di salvare la faccia di tutti […] ma resta incontestabile che
Kruscev ha preso la decisione di una ritirata tattica il giorno [stesso] in cui è
stato convinto che le forze americane stavano per attaccare l’isola». Come
spiegarlo? Anzitutto, «Cuba non rappresentava né per la Russia eterna né
per l’Unione Sovietica una posta di prim’ordine. […] Cuba importava agli
Stati Uniti più che all’Unione Sovietica. L’intero popolo americano era
sollevato d’indignazione. Il popolo russo [invece] comprendeva
probabilmente male la necessità di una base militare nei Caraibi. […]
Nessuna dichiarazione ufficiale poteva compensare questa ineguaglianza».
Qui cioè Aron lascia intendere l’importanza dell’opinione pubblica come
fattore che condiziona, se non addirittura stabilisce, l’importanza reale di un
obiettivo di politica internazionale per il proprio Paese, e di conseguenza
anche quanto si possa arrivare a tirare la corda per ottenerlo. E ciò perfino
in un regime non democratico come quello sovietico, e a prescindere da
quanto roboanti possano essere state le dichiarazioni dei rispettivi leader.
Inoltre, prosegue Aron, la situazione militare lì era sfavorevole ai russi.
Così, «i dirigenti del Cremlino», «presi completamente alla sprovvista […]
non avevano altra uscita che la liquidazione di un’avventura».

Raymond Aron.
«La crisi cubana aprirà un periodo di relativa distensione o al contrario il
signor Kruscev cercherà altrove una rivincita spettacolare? La prima ipotesi
mi sembra più probabile della seconda. Il signor Kruscev ha appena
mostrato che egli resta un buon discepolo di Lenin, il quale raccomandava
di rifiutare le provocazioni e di non lasciarsi imporre il luogo e il momento
della battaglia». Aron aveva visto giusto, sia nel pronosticare l’inizio di una
fase distensiva da parte sovietica, sia nel richiamo a Lenin: come abbiamo
mostrato nella Parte prima, infatti, proprio al padre dell’URSS Kruscev si
era richiamato il 28 ottobre per spiegare al Presidium la necessità di
ritirarsi. Il leader sovietico, prosegue Aron, «ha compreso il pericolo
dell’ebbrezza del successo e dell’eccessivo disprezzo dell’avversario».
Ribadendo poi che Kennedy era stato costretto ad agire e che almeno in
parte «l’equilibrio del terrore […] dipende dall’idea che i due ‘K’ si fanno
l’uno dell’altro», Aron concludeva che «in tal senso, l’operazione
americana, poco compatibile col diritto internazionale e maledetta dai
pacifisti, contribuisce efficacemente alla pace» 28.
Come si vede, due sono i principali tratti caratterizzanti l’analisi di Aron:
lucidità e realismo. Gli stessi che ritroviamo anche nel successivo articolo,
significativamente intitolato Realtà e finzioni del diritto internazionale.
«Questa quarantena era legale?» torna a chiedersi Aron. «La verità è che il
mondo nel quale viviamo differisce fondamentalmente da quello che
progettavano i redattori della Carta [dell’ONU], e che il diritto
internazionale effettivo non ha che dei rapporti lontani col diritto
internazionale teorico. […] L’equilibrio militare tra i due blocchi, che la
Carta non prevedeva […], è ormai ammesso, tanto a Mosca quanto a
Washington, come un dato permanente». Di nuovo, i casi di Austria,
Norvegia e Finlandia son lì a mostrare «questo privilegio, tradizionale e
cinico, delle grandi potenze di imporre dei limiti all’azione dei piccoli», ed
è lì che risiede «l’effettivo fondamento dell’azione americana. Questo
diritto o pseudodiritto è sicuramente anteriore alla Carta, avrebbe dovuto
essere eliminato dalla Carta se essa fosse stata applicata, ma ‘essendo le
cose quel che sono’, il problema dell’equilibrio deve, nell’interesse della
pace, avere la meglio sul rispetto delle formule». Insomma, in quello che
Aron definisce «diritto internazionale reale», gli USA hanno chiarito che
c’è «una distinzione radicale tra il diritto al socialismo e il diritto alle armi
termonucleari» 29.
È interessante infine notare, con l’ausilio del saggio di George-Henri
Soutou, come le ripetute riflessioni sulla CMC portino Aron ad una
progressiva evoluzione delle sue vedute, in un senso crescentemente affine
all’amministrazione Kennedy 30. E sì che prima della crisi egli aveva avuto
modo di criticarlo, sia privatamente 31 sia pubblicamente, con una «lettera
aperta al presidente Kennedy» pubblicata su «Le Figaro» a proposito della
crisi di Berlino (lettera riguardo alla quale l’amico Kissinger gli aveva poi
scritto, divertito: «Mi è piaciuta molto la tua lettera aperta a Kennedy di
settembre, anche se conosco alcune persone che l’hanno apprezzata un
pochino meno, compreso il destinatario») 32. Poi però la CMC arriva e
conferma le convinzioni di Aron sulla natura del sistema internazionale. Il
suo esito inoltre spalanca forti (e positive) conseguenze politiche anche di
lungo termine. Così a fine novembre Aron, rivisto Kissinger, torna a
scrivere su «Le Figaro»: «uno dei miei amici americani, consigliere
intermittente dell’amministrazione [si tratta appunto di Kissinger, NdA], mi
diceva pochi giorni fa: ‘Che fortuna ha avuto il Presidente che il signor
Kruscev abbia commesso un tale svarione!’. Al che io risposi, citando i più
illustri capi di guerra, che la strategia diventerebbe un’arte impossibile se
non si potesse contare sugli errori dell’avversario. E aggiunsi che, malgrado
tutto, il signor Kennedy aveva avuto qualche merito nell’agire poiché la
maggior parte della stampa britannica fu violentemente ostile alla
‘quarantena’ […]» 33.
Quando poi, all’inizio del 1963 si attua discretamente il ritiro dei missili
NATO dalla Turchia e dall’Italia, Aron (sempre su «Le Figaro») smentisce
nettamente i sospetti diffusi tra gli europei che ciò sia frutto di un qualche
«accordo clandestino» concluso tra Washington e Mosca. Lo stesso fa
privatamente, in una lettera a Bundy 34. Ma sul punto, come è ormai noto, le
voci di corridoio erano assai più vicine al vero dell’illustre politologo
francese.

E veniamo ad Henry Kissinger. Personaggio tanto influente quanto


controverso, il politico e politologo statunitense di origine tedesca sarà
segretario di Stato sia di Nixon sia di Ford, divenendo il deus ex machina
della politica estera degli Stati Uniti lungo tutto il decennio tra la fine degli
anni Sessanta e la fine dei Settanta. All’epoca della CMC egli insegnava a
Harvard e il suo nome aveva già cominciato a circolare negli ambienti
governativi, seppur per il momento senza troppa fortuna (nel 1961 aveva
lavorato come consigliere part-time per Bundy, ma senza convincere, e in
ottobre il suo incarico non era stato rinnovato) 35. Nel novembre del 1962,
finita la CMC, egli affidò a un lungo articolo su «The Reporter» le proprie
Reflections on Cuba.

Il 22 ottobre il presidente Kennedy ha colto coraggiosamente


un’opportunità data a pochi statisti: cambiare il corso degli eventi
con un’unica drammatica mossa. La sua azione ha ottenuto ben più
che l’obiettivo immediato di smantellare le basi di missili sovietici a
Cuba. Ha fatto esplodere il mito che in ogni situazione i sovietici
fossero preparati a correre rischi maggiori di noi. Questo mito era
stato la base del ricatto atomico sovietico. […] Il colpo del
Presidente ha dimostrato che una grande potenza guida non tanto
con le sue parole quanto con le sue azioni, che le iniziative creano il
proprio stesso consenso.
È chiaro che noi ci siamo avvantaggiati abilmente di una grave
miscalculation sovietica. Ma […] cosa ha tentato i sovietici in
un’avventura così avventata, così temeraria […]? Parte della
risposta sta in un difetto comune a molte dittature: i sovietici hanno
cominciato a prendere troppo sul serio la loro stessa propaganda.
[…] [Così] hanno trascurato la differenza tra appoggiare la
guerriglia nel Sud-Est Asiatico e stabilire una base di missili
nell’Emisfero Occidentale. […] Il principale beneficio che i
sovietici avrebbero ottenuto da queste basi sarebbe stato politico,
non militare. Dei missili a Cuba sarebbero stati una prova
schiacciante dell’inesorabile avanzata della potenza sovietica e
dell’impotenza degli USA. […] un’altra prova di forza critica su
Berlino non sarebbe stata rimandata a lungo. Forse Kruscev contava
su un disvelamento drammatico […] per forzarci ad una soluzione
diplomatica alle sue condizioni su Berlino, disarmo e altri temi.

Inoltre, prosegue Kissinger, la recente condotta americana su Suez,


Libano, Laos, Baia dei Porci e muro di Berlino «può aver condotto i leader
sovietici alla convinzione che data una formula salva-faccia, gli Stati Uniti
avrebbero scelto la ritirata piuttosto che uno scontro frontale». Nondimeno,
da parte loro si è trattato di «una colossale cantonata». «I russi hanno
chiaramente malgiudicato il carattere del Presidente e lo stato d’animo del
Paese. […] Nessun presidente avrebbe potuto evitare di agire di fronte ad
una tale sfida, e il pubblico non avrebbe tollerato l’acquiescenza». Ma
evidentemente nelle dittature «ai massimi leader vien detto solo ciò che essi
vogliono sentirsi dire». A differenza che nelle zone teatro dei loro passati
successi, prosegue Kissinger, a Cuba i sovietici avevano a disposizione una
sola minaccia, quella della guerra nucleare, ed essa era resa non credibile
dalla «superiorità nucleare» americana 36. «La credibilità del nostro
deterrente era più grande della loro. Di conseguenza, contrariamente alla
loro solita prassi, i leader sovietici non hanno assunto una postura di
belligeranza. Messaggi conciliatori si succedevano l’un l’altro. La richiesta
di smantellamento delle nostre basi turche era stata a malapena rifiutata
prima che Kruscev suonasse la ritirata a Cuba. Aveva tratto la corretta
conclusione che la cosa migliore che potesse fare era ridurre le perdite».
Anche Kissinger, come si vede, risente un po’ di clima e informazioni
parziali nel giudicare l’esito della CMC. Poi mostra lucidamente le
prospettive apertesi per gli USA dopo di essa. Così, nel paragrafo
provocatoriamente intitolato Si torna alla routine?, egli si chiede:

Dove andiamo da qui? Abbiamo un’opportunità unica. Le esitazioni


degli anni passati possono essere volte in qualità […] I dubbi
espressi, specialmente in Europa, sulla nostra capacità di leadership
sono stati notevolmente ridotti. […] La strabordante fiducia in se
stessi dei sovietici, […] deve aver sofferto un duro colpo. […] Su
una tale base, negoziati sono altamente desiderabili. [In sintesi,] la
gestione presidenziale della crisi cubana ci ha dato un’altra chance
di rivendicare la leadership dell’Occidente 37.

Nella sua biografia di Kissinger, lo studioso Walter Isaacson sottolinea,


di questo importante articolo, la convinzione tipicamente kissingeriana «che
l’influenza di una nazione dipende dalla percezione che il mondo ha della
sua potenza e della sua volontà di utilizzarla» 38. È la stessa linea di
pensiero, nota Isaacson, che Kissinger userà poi anche nei dibattiti sul
Vietnam. Da parte nostra non sarà superfluo rilevare come il concetto di
«percezione», rilevato qui anche da Isaacson, ritorni spesso e volentieri,
insieme al concetto gemello di «apparenza», nelle analisi di politologi e
decision-maker dell’epoca (a cominciare proprio da Kennedy, come visto).
Ciò a riprova del fatto che le percezioni internazionali di certi eventi –
aspetto a cui questo studio ha scelto di cominciare a volgere l’attenzione –
avevano una rilevanza tutt’altro che marginale, e in certi casi perfino
paragonabile agli eventi stessi.

Nato in Germania nel 1904 ed emigrato negli USA negli anni del
nazismo, Hans J. Morgenthau è considerato uno dei massimi teorici delle
relazioni internazionali del Novecento. Il suo saggio Politics among
nations, del 1948, lo ha reso un pilastro fondamentale della cosiddetta
scuola «realista» della teoria delle relazioni internazionali. Un approccio,
questo, che si ritrova anche nel suo modo di osservare il problema cubano e
la crisi dei missili.
Scrivendo nel marzo del 1962 sul «New York Times Magazine», egli si
chiedeva: L’opinione pubblica mondiale è un mito? E la risposta che dava
era affermativa. «Gli Stati Uniti sono stati, in tutta la loro storia,
particolarmente preoccupati dell’opinione pubblica, a casa e all’estero.
Tocqueville chiamava l’opinione pubblica ‘l’autorità predominante’ in
America e la fede in essa ‘una specie di religione’». Da allora le cose non
sono molto cambiate: «quando l’anno scorso [alla Baia dei Porci] gli Stati
Uniti hanno rifiutato di impiegare truppe americane all’invasione di Cuba –
un’azione che, diciamo cinquant’anni fa, sarebbe stata presa quasi come
una procedura ordinaria – ciò fu motivato in buona misura dalla paura
dell’opinione pubblica mondiale» 39. Convinzione, questa, che troviamo
Morgenthau ribadire pure in una lettera privata di pochi giorni dopo 40.
Prosegue allora l’articolo: «Cos’è questa cosa chiamata ‘opinione pubblica
mondiale’, che nessuno ha mai visto o toccato, che non ha né ambasciatori
né armate, ma ha un modo di prevalere a volte sopra entrambe?». La realtà
dell’umanità, «lungi dal fornire prove dell’esistenza di un’opinione
pubblica mondiale, dimostra piuttosto la sua impossibilità […]». Perfino
considerando un tratto condiviso universalmente come «l’avversione alla
guerra», infatti, «l’opinione pubblica mondiale si divide nelle sue
componenti nazionali, quando il punto non è più la guerra in sé, in astratto,
ma una guerra particolare […] Ciò a cui possiamo riferirci quindi è solo un
numero di opinioni pubbliche nazionali […]». Perciò, conclude il politologo
tedesco naturalizzato americano, «invece di soddisfare una ‘opinione
pubblica mondiale’ che come tale non ha realtà, potrebbe essere un inizio di
saggezza occuparsi delle varie opinioni pubbliche nazionali» 41. A
cominciare naturalmente da quella statunitense, era il suggerimento
implicito nell’articolo di Morgenthau.
Si arriva poi all’autunno, e alla vigilia della scoperta dei missili
Morgenthau ribadisce queste sue critiche all’esitazione mostrata nella Baia
dei Porci 42 e conclude invocando anch’egli una qualche forma di azione.

[…] un blocco, un’invasione, o una combinazione di passi


intermedi. Ma un qualche tipo di azione dev’essere. Se ci rifiutiamo
del tutto di intraprendere una qualsiasi azione perché prendiamo
seriamente la minaccia russa di guerra nucleare, come abbiamo fatto
nel 1956 durante la rivoluzione ungherese e la crisi del canale di
Suez, noi accelereremo e non preverremo l’arrivo di una guerra
nucleare. Perché […] cedendo a una minaccia così poco plausibile
creiamo e rafforziamo nella mente del governo sovietico l’illusione
che noi non resisteremo, a prescindere da cosa sia in gioco. […]
Perciò una giudiziosa e convincente dimostrazione di superiore
potenza […] può essere il più efficace argomento non solo a favore
degli interessi di una nazione, ma anche a difesa della pace 43.

Inviti formulati in modo così convincente mostrano come la pressione ad


agire contro Cuba per Kennedy non arrivasse solo da frange bellicose e
massimaliste dell’opinione pubblica ma anche da politologi tra i più
autorevoli a livello internazionale.
Nel riportare queste posizioni risolute di Morgenthau, inoltre, non sarà
inutile ricordare come qualche anno dopo egli prenderà clamorosamente
posizione contro la guerra del Vietnam 44, a riprova che questa sua richiesta
di fermezza non derivava affatto da preconcetti oltranzisti buoni per tutte le
stagioni.
Ad ogni modo, una volta scoppiata la CMC, egli torna a scrivere su
quanto sta accadendo.
Cuba si sta trasformando in una base militare sovietica. Questa
trasformazione sta andando avanti da mesi. […] Infatti la
distinzione tra armi ‘difensive’ e ‘offensive’ […] è irrilevante. Cuba
era intesa fin dall’inizio come una base offensiva, non diretta contro
l’integrità fisica degli Stati Uniti ma contro la loro influenza politica
in America Latina. […] finora immune da interferenze esterne. […]
Colpisce pure il prestigio degli Stati Uniti come grande potenza.
[…] Ciò a cui dobbiamo mirare [quindi] non è solo l’intercettazione
di armi ‘offensive’ destinate a Cuba, ma l’eliminazione di Cuba
come base militare sovietica. […] [Possibilmente, usando] le
Nazioni Unite come strumento di conciliazione e come un
meccanismo salva-faccia. […] Questa potrebbe benissimo rivelarsi
una visione troppo ottimista di come la faccenda di Cuba sarà
risolta. Se è così – conclude Morgenthau – l’alternativa è davvero
tetra. Perché ci sono soltanto due vie tramite cui le nazioni possono
proteggere i loro interessi vitali: negoziati o guerra 45.

L’esito della crisi e il generale sentimento di vittoria nazionale che vi


segue non scuotono Morgenthau da queste posizioni. Egli resta scettico
sulla natura di un ‘successo’ che lascia intatta Cuba come base sovietica
nelle Americhe, a prescindere dalle categorie di armi di cui sia dotata.
Morgenthau esprime queste valutazioni in varie occasioni, anche a distanza
di tempo. Parlando ad una conferenza a Parigi il seguente 18 gennaio, per
esempio, Morgenthau ridimensiona il successo di Cuba «perché Castro è
rimasto in piedi» 46. Lo ribadisce poi nel maggio del 1964 47. E nel 1968,
sostenendo la penuria di risultati concreti ottenuti da Kennedy nella sua
presidenza, afferma ancor più chiaramente che «egli ha ottenuto un
successo tattico e sofferto una sconfitta strategica nella crisi dei missili di
Cuba» 48. Naturalmente parlare di sconfitta statunitense a proposito degli
esiti della CMC era tutt’altro che affermare un luogo comune, specie per
l’epoca. La sua posizione critica può ricordare quella di Irving Kristol,
illustrata poc’anzi.
Al tempo stesso però Morgenthau riconosce a Kennedy «un acuto e
aperto intelletto, un’inusuale voracità, energia ed irrequietezza intellettuale,
un’apertura ad idee nuove, una disponibilità agli esperimenti», ed individua
proprio nella metodologia di decision-making da questi usata durante la
CMC un esempio assai positivo di tali qualità (pur ribadendo la sua
valutazione critica sul merito di quelle decisioni prese) 49. Infine, altrove
Morgenthau riconosceva pure che il proprio ruolo di intellettuale gli
consentiva una libertà di vedute ben diversa da quella del decision-maker:
«Io ho potuto criticare l’amministrazione Kennedy per la sua gestione della
crisi dei missili di Cuba in quanto non avevo alcuna decisione da prendere,
e sapevo che ciò che stavo dicendo non poteva avere alcuna diretta
influenza sul corso degli eventi. […] [Dunque], sebbene l’intellettuale
debba effettivamente affermare la verità verso il potere, egli deve anche
essere tollerante verso l’inabilità del potere» di tenervi fede 50.

Se Morgenthau in quegli anni insegnava all’Università di Chicago, a


New York viveva invece un’altra grande teorica politica del Novecento,
un’altra figura di intellettuale come Morgenthau nata in Germania, e come
lui costretta per via delle proprie origini ebree a cercare riparo negli USA
dal nazismo: Hannah Arendt.
Alla Arendt si devono dei capisaldi del pensiero politico del Novecento
quali L’origine del totalitarismo, La condizione umana, La banalità del
male, Sulla rivoluzione. Quali dunque le riflessioni della pensatrice tedesca
di fronte ad un evento come la crisi dei missili? Le sue reazioni sul punto ci
arrivano da almeno tre fonti. Le sue carte private (conservate negli archivi
della Library of Congress), un passo di un suo articolo del 1963 e il recente
ricordo di un suo illustre ex allievo. Quest’ultimo, Richard Sennett – allora
diciannovenne, oggi sociologo di fama internazionale – ha scelto di
cominciare il suo nuovo saggio proprio raccontando il fortuito incontro
avuto all’epoca con la sua illustre docente.

Appena dopo la crisi dei missili di Cuba, i giorni del 1962 in cui il
mondo fu sull’orlo della guerra atomica, m’imbattei per strada nella
mia insegnante Hannah Arendt. La crisi dei missili l’aveva scossa,
come chiunque altro, ma aveva anche confermato le sue più
profonde convinzioni. Nella Condizione umana, lei aveva sostenuto
pochi anni prima che il costruttore, o qualsiasi fabbricante di oggetti
materiali, non è padrone della sua stessa casa; la politica, restando al
di sopra del lavoro fisico, deve fornire la guida. Lei era giunta a
questa convinzione dal tempo in cui il progetto Los Alamos aveva
creato le prime bombe atomiche nel 1945. Ora, durante la crisi dei
missili, anche gli americani troppo giovani per la seconda guerra
mondiale avevano avvertito la vera paura. Faceva un freddo gelido
sulla strada di New York, ma la Arendt ne era dimentica [del gelo].
Voleva che io traessi la lezione giusta: le persone che fabbricano le
cose di solito non comprendono ciò che stanno facendo 51.

Hannah Arendt.

Necessità di una guida della politica ad accompagnare i progressi della


scienza: questo, a quanto pare, l’insegnamento che ella volle trasmettere al
suo allievo partendo dalla CMC.

L’autunno successivo, poi, scrivendo un articolo commemorativo su


Kennedy all’indomani della sua uccisione, la Arendt ne tracciava un
bilancio fortemente positivo, comprendente pure un veloce riferimento alla
CMC. «La cosa più notevole del modo in cui si comportò nella crisi cubana
e nel conflitto per i diritti civili fu che non giunse agli estremi: non perse
mai di vista la mentalità dei suoi avversari e, finché la loro posizione non
era estrema, quindi non pericolosa per quelli che riteneva gli interessi del
Paese, non cercò mai di eliminarli, anche quando la vittoria sarebbe stata
facile». La CMC insomma era considerabile come uno degli esempi della
«sua abilità nel capire la mentalità dei suoi avversari» 52.
Una reazione più personale della Arendt, infine, riemerge da una lettera
privata che ella indirizzò in quei giorni proprio a Hans Morgenthau. I due
illustri colleghi mantenevano all’epoca un contatto epistolare, nell’attesa
che anche lei ottenesse un incarico all’Università di Chicago e vi si potesse
trasferire (come difatti poi avverrà). Così il 30 ottobre 1962 la Arendt
scrisse a Morgenthau: «[…] Mi sei mancato moltissimo durante questi
giorni di ‘crisi’. Confesso che non sono riuscita ad arrivare ad essere mai
nemmeno nervosa. Ero così strasicura che nulla sarebbe successo, ma tu che
ne pensi? Fino a qui tutto bene -- perfino molto bene -- ma certo questa non
è la fine della vicenda 53. Vorrei tanto che ne potessimo parlare» 54.

***
Conclusioni

Le reazioni qui presentate evidenziano come molti politologi abbiano


avuto la tendenza ad osservare la CMC sostanzialmente come un esempio
da utilizzare per confermare le proprie teorie di strategia politica o
confutare quelle altrui. In considerazione dei rischi che la crisi comportò,
questo distacco può apparire eccessivo, per quanto in parte interpretabile
come «deformazione professionale». Specie se comparato con quello di
altre categorie di cui parleremo tra breve, lo sguardo di molti politologi
risulta cioè tutto concentrato su valutazioni del rapporto costi/benefici
politici delle scelte dell’amministrazione Kennedy, perdendo di vista i
pericoli di escalation corsi e il fatto che la famosa deterrenza nucleare
fondata sull’equilibrio del terrore avesse appena mostrato un’inattesa falla,
causata da una semplice reciproca miscalculation dei rischi che l’altra parte
sarebbe stata disposta a correre. Che poi i due leader in questione abbiano
avuto anche sufficiente potere e saggezza da porre rimedio alla situazione
creatasi prima che essa degenerasse definitivamente non elimina il fatto che
la miscalculation si fosse effettivamente verificata e avesse rischiato di
causare un’escalation nucleare che nessuno stava cercando. Diversamente
dagli analisti politici, le due persone che in assoluto avevano più elementi a
disposizione, Kennedy e Kruscev, uscirono entrambi profondamente turbati,
a livello sia politico sia personale, dagli eventi di quei giorni. Kennedy
durante la crisi confidò all’amico e ambasciatore britannico Ormsby-Gore
«con grande serietà che l’esistenza di armi nucleari rendeva impossibile un
mondo sicuro e razionale». E aggiunse: «in qualche maniera dobbiamo
trovare un modo di liberarci delle armi nucleari». A fine crisi poi espresse
privatamente la speranza che i suoi alleati più oltranzisti, cioè «i tedeschi e i
francesi non dimenticassero troppo in fretta le paure terribili che dovevano
aver afferrato ogni uomo razionale durante la scorsa cruciale settimana» 55.
Specularmente, Kruscev non si vergognò di confessare a un americano, il
giornalista Norman Cousins: «I cinesi dicono che io ero spaventato.
Certamente ero spaventato. Avrei dovuto essere pazzo per non essere
spaventato. Ero terrorizzato da cosa sarebbe potuto succedere al mio Paese
– o al suo Paese, o a tutti gli altri Paesi che sarebbero stati devastati dalla
guerra nucleare. Se essere terrorizzato ha significato che io abbia aiutato ad
evitare una simile follia, allora sono contento di essere stato spaventato.
Uno dei problemi principali del mondo, oggi, è che non abbastanza gente è
sufficientemente spaventata dal pericolo di una guerra nucleare» 56.
Fu appunto in seguito a quest’acquisita consapevolezza che nei mesi
successivi i due leader compirono reciproci passi di distensione, fin lì del
tutto inediti, tra cui la firma del primo trattato per un controllo delle armi
nucleari.
Si può quindi concordare con lo storico Bruce Kuklick che, riferendosi
in particolare agli strateghi nucleari del think tank RAND, obietta che «le
loro elucubrazioni non afferravano la realtà psicologica del dramma»
rappresentato dalla CMC 57. Il giudizio appare estendibile anche a politologi
al di fuori del RAND.
Durante la crisi, come mostrato, Raymond Aron aveva parlato su «Le
Figaro» della «posta di questa partita di poker all’ombra dell’Apocalisse».
Un’immagine appropriata, quella del poker (occorsa, come visto, anche a
Norman Mailer). Quello che manca, però, nelle analisi politologiche di
Aron e colleghi, è la constatazione di quanto, a detta proprio dei due
giocatori di poker Kennedy e Kruscev, nessuna posta in palio potesse valere
i rischi corsi nel giocare anche solo una breve mano all’ombra
dell’Apocalisse.
Va comunque aggiunto che alcune delle analisi politologiche qui
riassunte seppero effettivamente cogliere bene vari fattori contingenti che
avevano condizionato il processo decisionale delle due leadership nella
crisi. D’altro canto, non è difficile rilevare in tali analisi anche errori di
valutazione, alcuni dei quali notevoli.
Ciò appare concretamente più rilevante se si considera quanto la voce di
questi esperti di politica internazionale potesse arrivare ad essere ascoltata,
non tanto nell’opinione pubblica quanto dentro le stesse stanze del potere.
Ne offre un esempio l’articolo di Kissinger discusso poc’anzi. Abbiamo
infatti ritrovato quell’articolo anche tra le carte del governo britannico,
archiviato con la seguente spiegazione: «Mr. Kissinger è uno degli strateghi
di punta della Nuova Frontiera, le cui idee possono ben trovare pronta
accoglienza nel governo» 58. In realtà, come detto, in quei mesi Kissinger
non godeva più di tanta credibilità nell’amministrazione Kennedy 59, ma al
di là della fattispecie una simile dicitura testimonia l’influenza
raggiungibile da certi intellettuali sulle scelte del massimo potere mondiale.
Del resto di lì a pochi anni Kissinger diverrà segretario di Stato, passando
formalmente da politologo a decision-maker. Analogamente, Brzezinski
diverrà consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter. In
questo senso quindi risulta confermata l’importanza di studiare le reazioni
alla CMC da parte dei politologi più ascoltati dell’epoca, per comprendere
meglio il clima politico in cui essa scaturì, oltre che per l’influenza che essa
ebbe sul pensiero di alcuni futuri decision-maker 60.
Quanto, infine, alle valutazioni di questi commentatori riguardo alla
condotta dei due leader, si può concludere che la ritirata di Kruscev venne
considerata da molti di questi pensatori come impostagli inevitabilmente
dalle circostanze 61, invece che come una decisione politica affatto scontata
e anzi per molti insperata fino al suo annuncio. Quanto alla condotta di
Kennedy, solo una minoranza di questi politologi ne tracciò un bilancio
qualificabile come negativo (Kristol, Morgenthau), mentre la maggioranza,
pur con varie sfumature, considerò che Kennedy aveva superato il test.
Vedremo che un tale endorsement risulterà più problematico presso altre
categorie di osservatori.
4
Testimoni dell’apocalisse? Religiosi

I più grandi eventi di politica internazionale suscitano spesso


l’attenzione di uomini di fede, esponenti o capi delle varie confessioni
religiose. E ciò ancor più a partire dal secondo dopoguerra, quando, come
ha scritto lo storico francese René Remond, «si è affermato il carattere
internazionale delle Chiese», cosicché esse «sono oggi più che ieri i
testimoni della solidarietà internazionale e dell’unità del genere umano».
Un loro studio inoltre è significativo nel nostro caso anche in quanto esse
hanno un’influenza sugli osservatori, dal momento che «contribuiscono alla
formazione dell’opinione» pubblica 1. In particolare nella guerra fredda, poi,
il ruolo della religione è stato notevole, come di recente la storiografia sta
finalmente cominciando a mettere a fuoco 2. E la crisi dei missili di Cuba,
implicando rischi inediti di escalation verso una guerra nucleare mondiale,
con scenari possibili implicanti perfino la distruzione dell’umanità, non
poteva che suscitare in tali ambiti reazioni specialmente interessate, sotto il
profilo etico-morale prima che politico.
Tra tali reazioni abbiamo trovato in primo piano, com’era prevedibile,
soprattutto reazioni provenienti dal mondo cristiano, essendo questa la
religione più diffusa in tutto l’Occidente oltre che nei tre Paesi più
direttamente coinvolti nella crisi (la ortodossa URSS, i protestanti USA, la
cattolica Cuba) 3.
Diverse di queste reazioni le abbiamo già illustrate nel capitolo relativo
alla società statunitense, in particolare riguardo ad alcune comunità
protestanti ma anche ebraiche locali. Qui sono presentate altre voci, alcune
delle quali ancora statunitensi, che si espressero in merito a quegli
avvenimenti 4.
Alessio I, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, nonché primate della
Chiesa ortodossa russa, si espresse chiaramente in merito alla CMC. La
natura ideologicamente atea ed antidemocratica del regime in cui egli
doveva operare rendeva naturalmente impossibile il libero esercizio delle
sue funzioni di capo spirituale ed è evidente che egli si trovasse a dover
soddisfare talune esigenze di ossequio rispetto alle politiche del Cremlino 5.
Già Stalin durante la seconda guerra mondiale aveva usato la Chiesa russa
per rinsaldare lo spirito nazionale; non è inverosimile che Kruscev volesse
fare altrettanto cercando di evitare che scoppiasse la terza. Ad ogni modo,
per necessità o per convinzione che sia stato, il 26 ottobre 1962 Alessio I
inviò un telegramma al segretario dell’ONU U Thant, il cui testo fu
prontamente ripreso dall’agenzia stampa sovietica, la TASS (e poi dalla
stampa internazionale). «A nome della Chiesa ortodossa russa», scriveva
Alessio I, «io vi prego di intraprendere tutte le misure indispensabili
affinché l’Organizzazione delle Nazioni Unite adempia al suo sacro dovere:
salvaguardare la pace internazionale, che è attualmente minacciata dalle
azioni, estremamente pericolose per la causa della pace, del governo degli
Stati Uniti d’America contro la sovranità della Repubblica Cubana» 6. La
formulazione del messaggio collimava, forse non casualmente, con le
posizioni del Cremlino: forte preoccupazione per la salvaguardia della pace,
seguita però da una condanna degli USA, additati come unici responsabili
della crisi, per via di azioni che si specificavano esser rivolte verso Cuba,
non verso l’URSS (mentre come sappiamo era piuttosto vero il contrario,
benché Mosca avesse interesse a dipingere diversamente la vicenda).
Contestualmente, telegrammi analoghi venivano spediti all’ONU e ad
altri capi di stato e organizzazioni religiose internazionali da un
collaboratore del Patriarca: il giovane vescovo Nikodim 7. Uomo di profonda
devozione e in seguito molto stimato anche all’estero, Nikodim dopo la
morte risulterà essere stato anche un agente del KGB (nome in codice:
ADAMANT) 8.
Sulle medesime linee era anche un messaggio inviato al capo del
governo italiano (e, con ogni probabilità, a molti altri capi di governo) dallo
stesso Alessio I assieme ai capi delle principali Chiese russe: il patriarca
cattolico degli armeni, quello della Georgia, l’arcivescovo della Chiesa
luterana lettone, estone, il presidente dell’Unione battisti cristiani
evangelici. Il telegramma, datato sempre 26 ottobre 1962 e oggi conservato
all’Archivio Centrale di Stato, conteneva il seguente appello: «in quest’ora
di ansia, quando sopra umanità pende minaccia della guerra mondiale come
risultato delle azioni USA contro Cuba molto pericolose per la pace, noi ci
appelliamo ai capi di tutti i governi, ai capi mondiali di tutte le Chiese
cristiane e Unioni, ai cristiani del mondo, perché facciano il possibile per
prevenire catastrofi militari. I cristiani non possono e non hanno diritto
trascurare misure imprudenti del governo degli USA», che – «siamo
costretti a dire a tutto il mondo» – «rappresentano una patente violazione
dell’insegnamento cristiano, il più grande peccato davanti a Dio. Invitiamo
tutti i cristiani del mondo ad elevare immediatamente protesta contro azioni
aggressive del governo USA. Soltanto biasimo generale delle azioni
provocatorie del presidente USA potrà proteggere il mondo contro il
pericolo di guerra mondiale termonucleare». L’invito riguardava «in
particolar modo i cristiani degli USA». L’appello si concludeva con un
invito a pregare «il Sovrano del mondo per il mantenimento pace sulla
Terra. Possa Egli levare Sua mano destra sopra umanità che affronta il
terribile pericolo. Fate che gli acri nemici della pace vengano a miglior
consiglio e fate che l’accordo fraterno di tutte le nazioni del Mondo si
consolidi» 9.
Il medesimo telegramma era stato inviato anche all’arcivescovo di
Canterbury, capo della Chiesa d’Inghilterra. Questi poi lo aveva inoltrato
per conoscenza al governo britannico, dove era stato archiviato con
l’aggiunta a penna del seguente commento: «Un messaggio identico è stato
mandato al Primo Ministro [Macmillan]. Alessio è un energico lavoratore
per la ‘pace’ [si notino le virgolette], e l’ispirazione è ovvia. Il messaggio è
stato giudicato troppo prepotente e smodato per consentire una risposta» 10.
Al Foreign Office insomma erano ben consapevoli dell’origine politica di
certi accorati appelli di Alessio I e, non gradendone i toni, non ritennero di
doverlo incoraggiare dandogli una risposta ufficiale.
Come appello strumentale lo aveva interpretato anche l’ambasciata
inglese a Mosca, che nel riportarne a Londra il testo (pubblicato, il 26, pure
sul quotidiano sovietico «Izvestiya») avvertiva: «il messaggio offre un
esempio della maniera in cui le Chiese in Unione Sovietica possano essere
chiamate con breve preavviso a sostenere un particolare obiettivo di politica
estera sovietica, in questo caso attribuire la colpa della crisi di Cuba a
Washington» 11.
Infine è pure ipotizzabile, in via complementare, che l’idea del
messaggio del patriarca Alessio I sia stata suggerita a Mosca anche
dall’appello pronunciato il giorno precedente da papa Giovanni – appello
che era stato bene accetto al Cremlino, come mostra anche il fatto che fosse
stato riportato sulla «Pravda», fatto evidentemente del tutto inusuale per
dichiarazioni vaticane 12. È possibile cioè che Kruscev, bisognoso di
legittimazione politico-morale per effettuare una difficile ritirata pubblica
(oltre che in cerca di influenza sull’opinione pubblica internazionale), possa
aver pensato di far redigere ad Alessio I una sorta di ‘versione sovietica’
dell’appello vaticano.
L’appello del Papa, tuttavia, pur andando in una direzione non diversa
relativamente alla richiesta di salvaguardia della pace, proveniva da un
pulpito la cui autonomia era più credibile; inoltre era redatto in toni molto
più misurati. Anche per questo ebbe maggiore impatto internazionale.

Alessio I, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, primate della Chiesa ortodossa russa.

Una dura critica rispetto al blocco deciso dagli Stati Uniti fu espressa
anche dal leader della Chiesa cattolica apostolica brasiliana (Igreja
Catòlica Apostòlica Brasileira: ICAB), una chiesa locale separatasi da
Roma nel 1945 e contraddistinta da un maggior radicalismo. Da Rio, il suo
primate, monsignor José Aires da Cruz, dichiarò, come riportato dalla
stampa cubana, che il blocco americano era «un atto di grossolana
violenza» 13.

Contrarietà al blocco venne espressa anche dal World Council of


Churches, l’organismo ecumenico internazionale fondato nel 1948 e
raggruppante molte delle numerose Chiese cristiane su scala mondiale. La
sera del 23 ottobre, infatti, il WCC emanò dalla sua sede di Ginevra un
breve comunicato in cui esprimeva «grave preoccupazione e rammarico»
per le decisioni di Washington 14. Questa presa di posizione pubblica,
riportata anche dalla stampa USA, non mancò di suscitare l’immediata,
risentita attenzione della diplomazia statunitense, nella persona del suo
rappresentante locale: «Ho telefonato al segretario generale del WCC,
Vissert Hooft», riferisce da Ginevra il diplomatico Tubby nel suo cablo
inviato a Washington, oggi conservato negli archivi del governo americano;
«gli ho detto che ero sorpreso che non fosse stata fatta menzione
dell’installazione russa di basi missilistiche. […] Ha detto che la decisione
di rilasciare un comunicato è stata fatta attraverso contatti telefonici coi
dirigenti [del WCC] in tutto il mondo. Ha detto che l’azione è basata su un
‘motivo di legge’ riguardo alle azioni militari unilaterali. Ha detto che
riteneva il comunicato mite, che avrebbe potuto menzionare [anche] le basi
USA in Turchia. ‘Se domani i russi fanno qualcosa a Berlino, parleremo
chiaramente contro’, ha detto. Io ho fatto notare che i russi avevano già
intrapreso azioni presentando una grave minaccia a pace e sicurezza.
[…]» 15. Come si vede, malgrado gli sforzi del diplomatico statunitense, il
WCC rimase sulle proprie posizioni 16. A crisi finita, la controversia ebbe
una piccola appendice su «Time Magazine» 17.
La dichiarazione del WCC fu subito formalmente ripudiata dalla Chiesa
luterana americana (ALC) 18, mentre al contrario da Mosca il vescovo
Nikodim scrisse al Segretario del WCC per approvare la condanna espressa
ed incoraggiarlo a continuare «in questa direzione» fino alla fine della
crisi 19.
Sono tutti esempi delle interazioni all’opera tra religione e politica
internazionale, che ci danno l’idea di quanto la guerra fredda, tanto più nel
suo momento di massima tensione, comportasse da ambo i blocchi una
mobilitazione anche culturale.

Più sfumate invece le dichiarazioni inviate al governo di Londra da tre


diversi raggruppamenti ecclesiastici britannici. Il British Council of
Churches, raggruppamento ecumenico delle Chiese cristiane della nazione,
associato tra l’altro con l’internazionale World Council of Churches (di cui
sopra), si distinse da quest’ultimo per il fatto di non voler riferire il biasimo
alle azioni di una parte specifica. In una risoluzione del 25 ottobre
approvata a Coventry, il Council esprimeva infatti genericamente «la sua
grave preoccupazione per la minaccia alla pace sollevata dall’attuale crisi
cubana», indicava l’unica soluzione nei «negoziati» tra le parti, da
intraprendere «col minor indugio possibile» e incoraggiava «il popolo
cristiano a continuare a pregare per il prevalere della moderazione e
dell’arte di governo sull’orgoglio, la ferocia e la paura» 20.
Il 27, il Free Church Council of Wales, raggruppamento ecumenico
analogo al summenzionato ma relativo al Galles, spedì al governo una
calibrata dichiarazione: «esprimiamo la nostra più profonda ansia per la
situazione internazionale. […] Ci appelliamo al Primo Ministro e al
governo perché esercitino la loro massima influenza in nome della pace.
[…] Riteniamo che l’accumulo di armi che è andato avanti per anni
conduca inevitabilmente alla guerra e che questa follia debba cessare.
Esortiamo ovunque i cristiani a pregare Dio che possano regnare buona
volontà e saggezza» 21. L’accento era posto dunque sulle cause remote della
crisi, più che su quelle immediate.
Il 1° novembre infine la Chiesa metodista espresse in una risoluzione
sulla crisi cubana il proprio «senso di gratitudine» per l’alleviamento
«dell’immediata minaccia» di guerra, e la convinzione che la CMC avesse
«sottolineato la necessità di perseguire con la massima urgenza […] un
concordato ed efficace programma di disarmo generale e completo» 22.
Tuttavia il pastore metodista che sarà poi definito «probabilmente il più
influente leader metodista del XX secolo», Donald Soper, lamentò che in
occasione della CMC le Chiese cristiane avevano tristemente brillato per
assenza. Noto per le sue convinzioni socialiste e pacifiste oltre che per la
sua oratoria, Soper era «uno dei più famosi uomini di chiesa in Gran
Bretagna» 23. All’indomani della risoluzione della CMC egli scrisse un
articolo sulla rivista di orientamento socialista «Tribune», sostenendo che
«la chiesa viene fuori dalla crisi cubana abbastanza male». Infatti, «il Papa
ha fatto un appello per la pace, ma» senza aver detto «niente di più di quel
che potrebbe esser detto da un qualsiasi buon uomo in un momento simile –
e notevolmente di meno di ciò che è stato detto da un noto pagano quale
Bertrand Russell». Quanto poi alle Chiese protestanti, «qual è il verso
significato di Chiese protestanti e nonconformiste se in giorni simili non si
sentono ufficialmente in grado di dire proprio alcunché? [evidentemente
Soper non sapeva dei messaggi sopraesposti; in ogni caso li avrebbe ritenuti
decisamente troppo vaghi, NdA] […] Che il silenzio su questa crisi debba
esser stato rotto da Bertrand Russell ha già persuaso alcuni che la voce
autentica che fu udita per la prima volta in Galilea si è ormai allontanata
dalla cristianità organizzata» 24. Il giudizio di Soper appare non privo di
fondamento ma anche troppo severo, non considerando tra l’altro che lo
scopo di un appello diplomatico come quello papale in quel frangente non
era di assumere posizioni di merito che avrebbero semplicemente portato a
considerarlo schierato con l’una o l’altra parte, quanto quello di agevolare
la via urgente e difficile di un accordo, contribuendo a fornire alle due
leadership margini di manovra politici per fermarsi a negoziare con
l’avversario senza essere tacciate di resa, in patria e presso l’opinione
pubblica internazionale. In tal senso, il suo messaggio fornì alla pace un
appiglio prezioso, più di quel che avrebbe fornito un’eloquente condanna.
Come poche settimane dopo lo stesso Kruscev confiderà all’americano
Norman Cousins, «l’appello del Papa fu un vero raggio di luce. Gliene fui
molto grato» 25.
Per chiudere con le voci britanniche, a ben vedere anche il capo della
Chiesa d’Inghilterra – l’arcivescovo di Canterbury, reverendissimo Michael
Ramsey – rilasciò un breve commento sulla CMC, seppure incidentalmente
e solo il 29 ottobre, a situazione ormai alleviatasi. Interrogato sulla crisi
durante una conferenza stampa tenuta in South Carolina a margine di un
incontro coi vescovi episcopali americani, Ramsey rispose di ritenere
«assolutamente urgente» il disarmo generale tramite accordi reciproci,
aggiungendo di condividere in tal senso l’idea espressa due giorni prima dal
presidente della Chiesa episcopale (si veda il capitolo Stati Uniti
d’America) di una rimozione parallela delle basi nucleari da Cuba e
Turchia 26.

***

Veniamo dunque agli Stati Uniti, di cui abbiamo già illustrato varie
reazioni attinenti alla sfera religiosa nella parte dedicata a quel contesto
nazionale. Si tenga presente che nella società statunitense la religione ha
sempre avuto una presenza particolarmente forte 27 e ha giocato un ruolo
notevole come fattore identitario e politico specie nei primi anni della
guerra fredda, nei quali la fiera opposizione al comunismo ateo portava
l’America a riconoscere la sua diversità appunto nella propria religiosità,
vivendo la guerra fredda come una sorta di crociata, come mostrato dalla
recente storiografia culturale 28. Per queste ragioni, vari studi hanno cercato
anche di mettere a fuoco le complesse e variabili relazioni d’influenza tra
appartenenze religiose e linee di politica estera, sia presso l’opinione
pubblica sia nelle leadership 29.
Nei mesi precedenti la CMC, inoltre, tra i teologi americani si stava
sviluppando un dibattito sui gravi dilemmi etici posti dalle nuove armi
termonucleari e dalle politiche ruotanti intorno ad esse 30. E per una
interessante coincidenza, proprio negli ultimi giorni della crisi veniva
presentato al pubblico il risultato di uno studio sul rapporto tra Chiesa e
guerra nucleare, elaborato nell’arco di un anno da un comitato di
ventiquattro esponenti episcopali, sia preti sia laici. Secondo le conclusioni
di tale studio, «la Chiesa deve proclamare la condanna categorica della
guerra aperta, totale [eufemismo per: guerra nucleare]. Nelle condizioni
moderne, una simile guerra non può servire alcun fine morale e neppure
utile». Tuttavia, si aggiungeva a margine della presentazione del rapporto il
29 ottobre, da un lato gli USA dovevano necessariamente mantenere un
forte arsenale nucleare come deterrente finché il disarmo generale non fosse
divenuto fattibile; dall’altro, una guerra limitata poteva invece avere il
completo appoggio della Chiesa episcopale, purché fosse combattuta con
«obiettivi quanto più chiaramente definiti. Dobbiamo avere la disciplina e
l’autocontrollo di dire specificamente quali sono i nostri obiettivi e attenerci
a quelli quando sono stati ottenuti. Dobbiamo fare proprio come abbiamo
fatto a Cuba: andarci, lottare per vincere, e poi fermarci» 31. Un
lasciapassare così formulato, si potrebbe osservare, era abbastanza ampio da
legittimare non solo l’operato della Casa Bianca nella CMC ma di fatto
qualsiasi guerra non nucleare (presente o futura), compresa naturalmente
un’invasione di Cuba per togliere di mezzo i missili. Sfuggiva,
evidentemente, anche a molti ecclesiastici tra i più preparati, che dopo una
simile invasione i rischi di definitiva escalation nucleare (anche
involontaria) sarebbero saliti alle stelle, dimostrando illusoria la pretesa di
potersi fermare a piacimento, «attenendosi» ad obiettivi prefissati a
tavolino. Come in quei giorni Kruscev aveva scritto segretamente a
Kennedy, «se davvero una guerra dovesse scoppiare, non sarebbe in nostro
potere fermarla. Perché tale è la logica della guerra» 32.
A presentare alla stampa questo rapporto e ad aggiungervi oralmente
quei distinguo (che non a caso ebbero subito il sopravvento sui restanti
contenuti del rapporto, venendo scelti come titolo sul «New York Times»),
era stato il reverendo William G. Pollard. Particolare rilevante, Pollard era
sia un pastore episcopale sia un fisico nucleare. Già prima di prendere i voti
infatti egli aveva partecipato al Manhattan Project che aveva realizzato la
prima atomica e al momento della CMC era direttore esecutivo di un
importante Istituto di studi nucleari (a Oak Ridge, Tennessee). Il suo profilo
perciò era a metà tra le due categorie di scienziato e religioso, tanto che egli
dedicò vari libri al complesso rapporto tra le due forme di conoscenza e
comunità, uno dei quali intitolato appunto Fisico e cristiano.
Ad ogni modo, a conferma di una certa diversità di vedute esistente
anche all’interno delle medesime confessioni, si ricorderà dal capitolo Stati
Uniti d’America che due giorni prima il Presidente della Chiesa episcopale,
reverendo Arthur Lichenberger, si era invece detto contrario a un’invasione
unilaterale di Cuba, aggiungendo che, nella crisi in corso, «i cristiani
dovrebbero evitare parole sconsiderate e azioni precipitose» e che «l’amara
lezione della crisi attuale è che gli Stati nazionali non possono più
permettersi di giocar d’azzardo col futuro della civiltà umana» 33.

Un altro raggruppamento religioso statunitense (di scala nazionale, a


dispetto del nome statuale) era la Chiesa luterana – Sinodo del Missouri. Il
suo presidente in quei giorni invitò i membri a mostrare «lealtà a Dio e alla
loro nazione», moltiplicando gli sforzi «per preservare la pace e opporsi alla
corrente del comunismo ateo». Risulta evidente da queste parole la
sovrapposizione di piani (Dio e nazione) e l’interpretazione, cui
accennavamo poc’anzi, della guerra fredda come una lotta tra religione e
ateismo 34.

Personalità celebre e influente della vita religiosa statunitense


dell’ultimo cinquantennio è Billy Graham, predicatore evangelico di grande
popolarità, impegnatosi per decenni in «tour di predicazione» in patria e
all’estero, da lui definiti «crociate», nel corso dei quali egli propagandava la
fede cristiana in affollatissime omelie. Costantemente piazzato ai primi
posti nei sondaggi sugli uomini più ammirati negli USA, definito da
«Time» «il papa dell’America protestante» e da Bush Sr. «il pastore
dell’America» 35, Graham è stato figura assai vicina a pressoché tutti i
presidenti USA da Truman in poi, venendo da loro consultato spesso e
volentieri in incontri privati. Fece eccezione proprio JFK, sia in quanto
cattolico sia per l’amicizia che legava il predicatore ai suoi rivali politici
Nixon e Eisenhower.
Quando scoppiò la CMC, Graham si trovava in America Latina per la
fase conclusiva di una delle sue «crociate» di predicazione. E da lì, durante
la crisi, come scrisse Arthur Schlesinger, «a Buenos Aires, Billy Graham,
parlando a diecimila persone, predicò sulla ‘Fine del mondo’» 36. Ciò del
resto si ricollega a quanto stava succedendo anche negli Stati Uniti nei
raduni religiosi di quei giorni, come si è illustrato nel capitolo Stati Uniti
d’America. Alla breve notazione di Schlesinger si aggiunge ora il racconto
dello stesso Graham, che nella sua recente autobiografia ricorda l’incontro
che egli ebbe in quei giorni col segretario di Stato, Dean Rusk. «Durante
l’apice della crisi dei missili di Cuba», ricorda Graham, «il segretario di
Stato Dean Rusk accettò un impegno a parlare da un gruppo presbiteriano a
Montreat [la cittadina del North Carolina dove Graham viveva e dove,
evidentemente, egli era appena rientrato dal Sud America, se la memoria
non lo inganna sulle circostanze dell’incontro]. Andai a sentirlo. Uno dei
suoi aiutanti chiamò e disse che egli avrebbe gradito visitare casa nostra,
così lo invitammo. Durante l’ora circa in cui prendemmo del caffè insieme,
egli si dovette assentare per chiamare Washington due o tre volte. A un
certo punto, mi aggiornò brevemente sul teso confronto con Cuba e
l’Unione Sovietica. ‘Billy, cosa credi dovremmo fare?’, chiese. ‘Credo
faremo meglio a tener duro (I think we’d better stand firm)’. ‘Lo credo
anch’io’, concordò lui» 37.
Graham insomma non si distaccava dalla grande maggioranza
dell’opinione pubblica nazionale, aderendo anch’egli alla ricorrente ricetta
dello «stand firm» 38.

Di tutt’altre vedute era Abraham Johannes Muste, ministro presbiteriano


e figura storica del pacifismo americano («Time» lo definiva allora «il
pacifista n. 1 della nazione») 39. Già settantasettenne all’epoca della CMC
(anche se il suo attivismo doveva conoscere ancora un ulteriore, dinamico
capitolo durante la guerra del Vietnam), Muste durante la CMC firmò una
petizione per la salvaguardia della pace (da garantirsi non con il blocco, ma
con la neutralizzazione militare di Cuba, messa sotto protezione
dell’ONU) 40 e, come già accennato nel capitolo Stati Uniti d’America,
partecipò anche alla manifestazione del 28 ottobre sotto il palazzo
dell’ONU.
Passata la crisi, poi, Muste affidò le proprie riflessioni alle colonne del
«Christian Century» (la più importante rivista del protestantesimo
americano, per la quale scrisse anche il suo amico Martin Luther King). In
un lungo articolo del maggio 1963, Muste sosteneva che la CMC aveva
sconfessato la diffusa teoria, accettata anche da molti uomini di chiesa,
secondo la quale le armi nucleari avevano soltanto scopi di deterrenza. Ora
(come riassumeva il sommario dell’articolo) «gli uomini di chiesa devono
riconoscere il fatto che nella crisi cubana il nostro governo ha riconosciuto
la sua disponibilità ad usare armi nucleari». Ciò esigeva per Muste un
inderogabile, profondo riesame politico e morale della situazione. Ecco un
estratto delle sue argomentazioni.

[…] All’apice della crisi un bel po’ di gente – tra cui alcuni che
prima non avevano mai dato molta attenzione alla situazione
internazionale – dovettero affrontare il fatto che le armi
termonucleari sono ‘per davvero’, che esse potrebbero, e a quanto
pare stavano per, essere usate, e che la situazione stava diventando,
per dirla col Presidente stesso, ‘ingestibile’ [unmanageable].
Abbiamo avuto l’esperienza di stare sull’orlo della guerra nucleare,
sebbene senza cadere o venir spinti dentro l’abisso. E per un periodo
lo stato d’animo prevalente non fu: ‘Ciò che è successo all’apice
della crisi non deve mai più succedere; una volta è stata
abbastanza’, ma piuttosto: ‘Se possiamo arrivare all’orlo una volta e
non sorpassarlo, potremmo farlo una seconda, una terza, o chissà
quante altre volte’. Non pochi americani erano perfino dell’opinione
che avessimo trovato una formula per tenere la situazione sotto
controllo – una formula combinante durezza, astuzia e fortuna.
Ciò che viene perso di vista in questo atteggiamento è la natura
della decisione che ha caratterizzato la crisi al suo apice. Il
Presidente si è incaricato, per conto del governo e del popolo, di
rischiare la guerra nucleare […]

(il riferimento è in particolare all’esplicita dichiarazione di ‘piena


rappresaglia sull’Unione Sovietica’ inserita da JFK nel suo discorso).

Non minimizzo il carattere provocatorio dell’azione del premier


Kruscev. Sono anche consapevole che il Presidente agì come fece
perché sentì che non c’era alcun altro corso d’azione pratico e
onorevole. […] Resta il fatto che la decisione di rischiare la guerra
nucleare è stata presa. […] Politicamente e moralmente questa
decisione è stata presa, benché nella crisi cubana ci sia stata
risparmiata la sua esecuzione reale. Deplorevolmente, questo
sviluppo non sta, per quanto ne so, venendo discusso da enti
ecclesiastici e leader religiosi.

Ci sono diversi pensatori cristiani – prosegue Muste – che hanno


sostenuto che dal punto di vista morale «possedere un arsenale di armi
nucleari come deterrente non è lo stesso che impegnarsi ad usarle». Ebbene,
costoro ora si trovano ad affrontare «una nuova situazione», perché «nella
crisi di Cuba noi ci siamo [effettivamente] impegnati […] ad una politica
contemplante l’uso di armi nucleari. E a meno che questa politica non
venga ripudiata da tutti quelli che disconoscono l’uso di tali armi, un’altra
ritirata delle forze cristiane avrà avuto luogo» 41.
Muste metteva poi in guardia dallo scollamento, tanto totale quanto dato
per scontato, tra morale e realtà politica. «Quest’ultimo sviluppo nella
nostra politica estera solleva di nuovo la vecchia questione della relazione
tra amore e potere […]». Nella scelta dicotomica che si crea tra il
perseguimento del primo o del secondo corso, accade – lamenta Muste –
che molte persone, compresi molti uomini di chiesa, considerino il secondo
corso «il male minore», per via dell’«irrilevanza politica» dell’altro, benché
appaia chiaro che il secondo sia non solo moralmente malvagio ma anche
conducente al suicidio. «Io non suggerisco neppure per un momento che
quest’applicazione di standard e motivazioni morali o cristiane alla lotta di
potere, alla corsa agli armamenti e alla situazione contemporanea sia facile.
Ma quando uno guarda ai problemi effettivamente sinistri che il mondo
affronta e al modo in cui i decision-maker cercano di trattarli, e poi esamina
il mondo dei profeti ebrei, il Vangelo cristiano, i valori e standard professati
dall’Occidente, si viene colpiti dallo spaventoso fatto che i due mondi sono
totalmente disparati [tra loro]. Se non in termini puramente verbali, […]
non si fa nessun tentativo per metterli in relazione». Si pensi per esempio,
spiega Muste, al concetto teologico, proprio della tradizione giudaico-
cristiana, della «creaturalità» dell’uomo, da cui consegue il suo incarico di
conoscere ed esplorare, ma anche rispettare, il mondo, in tutte le sue risorse
e potenzialità, in una concezione della Storia come «dialogo tra l’uomo e
Dio, non solo tra uomo e uomo». Ebbene, «nel cosiddetto mondo ‘reale’
della politica, questi concetti biblici oggi non solo non sono operativi, ma
difficilmente se ne conosce l’esistenza. Questo mondo ‘reale’ è un mondo
che, perfino dopo la crisi cubana, gli uomini credono di avere sotto
controllo. È un mondo in cui l’enormità morale della decisione cubana ha
potuto essere colmata dalla convinzione che noi fossimo abbastanza duri,
abbastanza astuti e abbastanza fortunati da non cadere o venir spinti
nell’abisso».
A ciò seguiva un accenno che ci pare una conclusione appropriata di
questo estratto del suo lungo intervento, e che riecheggia quello di Albert
Einstein nel suo celebre appello del 1946 sul «New York Times» («La
potenza liberata dell’atomo ha cambiato tutto tranne il nostro modo di
pensare e così ci trasciniamo verso una catastrofe senza paragoni»). Così
scrive Muste, diciassette anni dopo: «Per di più è un mondo nel quale,
benché i fisici presentino possibilità infinite, gli uomini pensano di poter
operare solo sulla base di vecchi metodi e secondo schemi abituali. Non
sentono alcun bisogno di rinnovamento, né comunque ne sperano alcuno.
Per loro non c’è ancora alcuna possibilità non scorta o irrealizzata, ma solo
‘il politicamente possibile’. In termini scritturali essi stanno mangiando e
bevendo, si stanno sposando e dando in sposa, fino a che viene il diluvio» 42.

La mattina del 28 ottobre, proprio mentre dalle radio cominciava a venir


trasmessa la notizia della nuova lettera di Kruscev annunciante la rimozione
dei missili da Cuba, nella Washington National Cathedral (un luogo
rilevante nella storia USA 43) veniva data pubblica lettura di una
dichiarazione in merito alla CMC, preparata la sera prima da un ristretto
gruppo di importanti teologi protestanti americani 44. A leggerla fu il
reverendo Francis Sayre, che sarà decano della National Cathedral per quasi
un trentennio, divenendo noto per le sue coraggiose prese di posizione
politiche contro maccartismo, segregazione dei neri e poi contro la guerra
del Vietnam. In quei giorni di crisi egli aveva già riempito d’acqua i
sotterranei della cattedrale, per poter «fornire acqua potabile in caso
d’emergenza» 45. Ora proclamò che «di certo dobbiamo tutti pregare che
egli [il presidente Kennedy] si trattenga da ogni contemplata invasione,
almeno fino a che ogni via di negoziazione non sia stata pazientemente e
completamente esplorata». Poi a fine sermone procedette a leggere la
dichiarazione scritta, di cui era uno dei firmatari. Un testo che, pur
mostrando di apprezzare la condotta relativamente moderata fin lì seguita
da JFK, al tempo stesso chiedeva con fervore che ancor più se ne
esercitasse nelle fasi successive della crisi, ora che essa pareva andare verso
un’escalation 46.

In questo storico momento di crisi, noi ricordiamo al nostro popolo


la nostra particolare eredità come una nazione sotto Dio [one nation
under God è appunto l’autodefinizione degli Stati Uniti, contenuta e
recitata nel Pledge of Allegiance 47]. Come difensori della libertà
dobbiamo esercitare il potere con un profondo senso di
responsabilità morale.

Da queste parole emerge in modo quanto mai lampante il forte senso di


missione con cui l’America vedeva il proprio ruolo nella guerra fredda.
Dobbiamo agire con risolutezza e coraggio, ma non dobbiamo agire
impulsivamente o sconsideratamente. Noi lodiamo l’azione del
presidente Kennedy come misurata, coraggiosa e necessaria stanti le
circostanze implicate. Mentre le pressioni montano da fuori e dentro
la nazione, noi non dobbiamo vacillare nella nostra determinazione
di difendere la libertà, ma non dobbiamo mai agire così da frustrare
quegli stessi ideali che cerchiamo di difendere. […] Siamo
responsabili davanti a Dio e all’uomo nell’aver cura che ogni
possibile strada per la risoluzione di questo dilemma venga
appropriatamente esplorata. Non dovremmo intraprendere alcun
nuovo passo militare finché non sia assolutamente chiaro che non
possiamo ottenere i nostri obiettivi attraverso la negoziazione.
Intraprendere un’azione militare prematura, anche se coronata da
successo, sarebbe una diretta violazione delle nostre tradizioni
morali. Ancor più spaventosa da contemplare è la possibilità che
una tale azione possa condurre alla conflagrazione atomica che
distruggerebbe di fatto l’umanità 48.

Seguivano i nomi dei sette firmatari 49, tra cui, ultimo, compariva anche il
tedesco naturalizzato americano Paul Tillich, settantaseienne professore di
teologia ad Harvard, oggi considerato uno dei più grandi teologi di tutto il
Novecento.
Accanto a Tillich, tra gli scelti firmatari di questa importante
dichiarazione compariva anche un altro nome fondamentale della teologia
novecentesca: Reinhold Niebuhr. Definito da Schlesinger «il più influente
teologo americano del XX secolo» 50, molto letto e ammirato da Martin
Luther King, e recentemente citato anche da Obama come «uno dei miei
filosofi preferiti» 51, Niebuhr esercitò sul pensiero politico novecentesco
un’influenza profonda. «Nessun uomo», diceva di lui Schlesinger, «ha
avuto tanta influenza, come predicatore, su questa generazione e nessun
predicatore ha mai influito tanto sul mondo laico». «Con lui», aggiunse
l’illustre collega Emil Brunner, «la teologia fece irruzione nel mondo: non
era più tenuta in quarantena e letterati, filosofi, storici e persino uomini
politici cominciarono a prestarle attenzione» 52. Occupatosi molto del
concetto di «guerra giusta», Niebuhr relativamente ai rapporti tra morale
religiosa e teoria politica viene considerato il massimo rappresentante della
scuola di pensiero detta del «realismo cristiano» 53. Vigorosamente
interventista durante la seconda guerra mondiale, il «realista» Niebuhr
condannerà però con durezza la successiva guerra del Vietnam 54. Come,
allora, si espresse egli in merito alla CMC? Non solo firmando l’importante
dichiarazione pubblica appena illustrata, ma anche con un articolo di taglio
prettamente politico, pubblicato poche settimane dopo sulla rivista «New
Leader».

Stiamo vivendo sul ciglio di un terribile abisso, e la crisi cubana ha


rappresentato la prima volta in cui siamo stati costretti a scrutare
nelle sue profondità. Ciò in genere produce senso di vertigine; e ci
furono molti selvaggi 55 che ebbero vertigini fino al punto d’isteria.
Fortunatamente, il Presidente ha affrontato la crisi con quella
combinazione di fermezza e moderazione che è il criterio
dell’autentica statura politica in ogni era, ma particolarmente in
un’era nucleare. […]
In ogni caso la crisi ci ha certamente fatto capire che non c’è modo
di lottare con un avversario difficile sul ciglio dell’abisso senza
rischiare di caderci dentro. È tuttavia certamente significativo che,
quando affrontati con fermezza e moderazione, i russi abbiano
indietreggiato 56. […] Dalla febbre e furore della crisi cubana, il
Presidente è emerso come un leader forte e giudizioso. […] Ciò che
dobbiamo imparare dalla crisi cubana, quindi, è che la fermezza,
temperata dalla moderazione, è l’unica via per navigare sani e salvi
attraverso i perigliosi tumulti di un’era nucleare.

Niebuhr passava poi a valutare l’esito della CMC. Se l’accordo


definitivo resta questo, «ci saremo impegnati a non usare la forza per
rimuovere Castro. Ciò può essere una perdita strategica. Ma le nostre
politiche hanno già conquistato il supporto unanime delle nazioni
latinoamericane, e hanno ridotto il prestigio di Castro in Sud America a
proporzioni insignificanti. Dovremmo essere soddisfatti di questi guadagni
e lasciare che la storia faccia il suo corso».
La conclusione del pezzo di Niebuhr era, di fatto, un monito alla
nazione, che – letto oggi, dopo eventi come il Vietnam e il crollo del
comunismo – appare particolarmente lucido:
Se veniamo tentati dal successo a giocare il ruolo dell’onnipotenza,
e se pensiamo che un limitato successo contro un avversario
difficile ci dia ragione di sperare in un completo trionfo in
quest’anno o decennio, periremo per la nostra sventatezza. La posta
in gioco nell’era nucleare è molto grande. Ciò che è richiesto è sia la
difesa di una civiltà sia l’elusione di una catastrofe. […] Svariate
crisi […] possono essere necessarie per convincere entrambe le parti
che anche una coesistenza molto poco pacifica è preferibile
all’annientamento reciproco. Gli Stati Uniti possono dover esser
soggetti a molte lezioni prima che imparino che lo slogan ‘No
substitute for victory’ [Nessun surrogato della vittoria] è pericoloso.
Esso deriva dalla limitata esperienza di una nazione che non ha mai
conosciuto sconfitta ma che sta anche, per la prima volta,
presiedendo al destino di un mondo non comunista […] Dobbiamo
perciò essere preparati a vivere per un lungo tempo con la minaccia
comunista, sperando che il tempo e le realtà gradualmente spoglino
il comunismo del suo virulento fanatismo 57. Una tale pazienza non è
una virtù facile per una nazione giovane e forte, nuova ai tormentosi
processi della politica globale. Ma dobbiamo acquisire questa
virtù 58.

Argomentazioni e moniti molto simili si ritrovano in un’altra


dichiarazione emessa al termine di un «incontro d’emergenza di quasi
cinquanta leader nazionali di chiese e sinagoghe», tenutosi a Washington
sempre il 28 ottobre, appena dopo l’annuncio della rimozione dei missili.
Questi capi religiosi cristiani ed ebrei, sia ordinati sia laici, presieduti dal
teologo John C. Bennett 59, si rivolgevano ai loro concittadini «mossi da
profonda gratitudine per la sospensione della pena capitale [reprieve] che ci
è stata garantita».
«Il mondo è stato temporaneamente risparmiato dalla guerra. […] Come
dovremmo usare questa dilazione? Sfrutteremo la nostra forza, procedendo
a calpestare tutte le forze del mondo che non ci piacciono, o useremo
quest’occasione come una suprema opportunità per cercare […] la sicurezza
e la pace internazionale? […] La tradizione giudiaco-cristiana mette in
guardia un popolo dall’orgoglio nella propria forza e sostiene un popolo che
possiede volontà di pace e riconciliazione». «Al coraggio in tempo di crisi
dovrebbe corrispondere il coraggio in tempo di opportunità». Il che,
applicato alla CMC, significava che da un lato Kennedy andava «lodato per
l’uso che ha fatto di strumenti internazionali» quali ONU e OAS, e per aver
mantenuto una «lodevole moderazione e ragionevolezza [pur] sotto una
grande provocazione e pressione popolare». Dall’altro lato, che la condotta
accomodante dell’URSS poteva esser dovuta a «molti fattori possibili» ma
«non c’è assicurazione che […] verrà seguita in crisi future». Perciò, questi
religiosi ebreo-cristiani chiedevano che non si avesse paura di affrontare
«un riesame di ogni cruciale problema internazionale» (Cuba, Berlino,
disarmo, ecc.) attraverso le Nazioni Unite, definito «strumento
provvidenziale» 60. In questa definizione si coglie tra l’altro una
caratteristica ricorrente nelle reazioni internazionali all’esito della CMC: la
gratitudine per l’ONU – organismo che al momento della verità, e
nonostante le iniziative unilaterali che erano state alla base della crisi, era
riuscito a fornire un canale di dialogo e un punto di riferimento utile a tutte
le parti per guadagnare tempo prezioso e cercare soluzioni negoziali.

***

Passiamo infine al mondo cattolico. I principali vescovi americani, come


si è illustrato nel capitolo dedicato alle reazioni USA, durante la crisi
inviarono da Roma, dove si trovavano per lo svolgimento del Concilio
Vaticano II, un invito ai cattolici americani a pregare per il presidente, il
governo e il mantenimento della pace nella libertà e giustizia. Per questa
«splendida dichiarazione», come venne definita, un assistente di Kennedy
spenderà poi privatamente qualche parola di ringraziamento 61. Assai meno,
non sorprendentemente, l’aveva apprezzata «l’Unità», che titolò
polemicamente I vescovi americani benedicono Kennedy 62.
Tra quei firmatari vi era anche l’influente cardinale Richard Cushing,
arcivescovo di Boston e amico personale di Kennedy, del quale aveva
officiato il matrimonio e battezzato i figli. Forse anche per questo si sentì di
esporsi con forza in suo favore, anche dichiarando al «Boston Globe»: «Lo
conosco come uomo e come presidente. Non è certo uno sciocco. Agisce
lentamente ma molto efficacemente. Il mio consiglio per il popolo
americano è di sostenerlo». Quanto alla crisi in corso, egli, come molti altri
americani, riteneva che su Cuba si sarebbe dovuto agire ben prima, ma che
ora finalmente si stava andando nella direzione giusta. «Ogni volta che
abbiamo tenuto testa a Kruscev, lui è indietreggiato», assicurò. E aggiunse
sibillino: «Gli Stati Uniti non sono mai stati meglio preparati, meglio
equipaggiati e meglio armati di quanto siano oggi. Ne so più di quanto
possa rivelare» 63. Con tutta evidenza opinioni e toni appaiono quelli di un
cittadino americano, prima che di un cardinale.
Un altro esempio in tal senso è dato dalla dichiarazione del vescovo di
Miami, Coleman F. Carroll. Di posizioni conservatrici (nonché a stretto
contatto, nella sua diocesi, col continuo flusso di esuli politici dalla Cuba
castrista), monsignor Carroll rilasciò da Roma una dichiarazione di fermo
supporto a Kennedy. «L’azione del Presidente», affermò il vescovo, come
riportato dal «Miami News», «era necessaria, saggia e rappresentativa delle
opinioni del popolo americano. Martedì, prima di entrare nella Camera del
Concilio Ecumenico per la sessione mattutina, abbiamo udito la grave
notizia che gli Stati Uniti hanno ordinato una quarantena di materiale
militare diretto a Cuba. Per quanto sia inquietante e increscioso che si sia
dovuto prendere una simile decisione, possiamo solo lodare l’ordine del
Presidente. La mera presenza della Russia comunista alle soglie degli Stati
Uniti è stata intollerabile per gli americani che capiscono la minaccia
estremamente pericolosa che una simile penetrazione pone al nostro Paese e
anzi all’intero emisfero» 64.
Da un altro documento americano emerge poi quali fossero i sentimenti
diffusi tra gli altri vescovi riuniti a Roma dalle varie parti del mondo. Il
vescovo ausiliario di Washington infatti all’inizio di novembre scrive ad
uno dei consiglieri di Kennedy per informarlo che a Roma la posizione
presa dal Presidente «è stata universalmente apprezzata. I vescovi americani
erano molto forti nel loro supporto, e tutti i vescovi che ho incontrato dalle
altre parti del mondo, inclusi tutti quelli dell’America Latina, l’hanno
appoggiata molto caldamente. Naturalmente il supporto si sarebbe esteso ad
appoggiare le conseguenze di una posizione forte, la guerra se necessario».
Si tratta di una testimonianza tanto chiara quanto preziosa. Il fatto che i
vescovi delle varie aree del mondo fossero pronti, se necessario, ad assistere
a un conflitto USA-URSS, la dice lunga su quanto la guerra fredda non si
fermasse fuori dai palazzi episcopali.
Dal medesimo documento apprendiamo poi un ulteriore importante
aspetto: la posizione personale del segretario di Stato della Santa Sede.
Proseuge infatti il vescovo ausiliario di Washington: «Stavo parlando col
cardinal Cicognani, segretario di Stato, nelle sue stanze private e lui ha
menzionato l’affare cubano, lodando il Presidente per essere fermo e non
spaccone [for being firm and not blustering]. Naturalmente questa è solo
un’opinione espressa privatamente e sarebbe molto scorretto citarla o
usarla, ma ho creduto potesse essere incoraggiante per il Presidente il solo
fatto di saperlo. Naturalmente non abbiamo parlato delle conseguenze della
guerra» 65. Come si vede, anche nel cardinal Cicognani (profondo
conoscitore degli Stati Uniti, essendovi stato per venticinque anni come
delegato apostolico) le valutazioni politiche parevano prevalere sulle
preoccupazioni per i rischi di una guerra nucleare.
Al di là di alcuni casi come questi, comunque, al Concilio la percezione
della gravità della situazione pare essere stata un po’attutita, come distratta
da altri problemi 66. I vescovi cubani rilasciarono un secco «no comment» a
smentire le precedenti voci giornalistiche di una loro dichiarazione sulla
crisi in corso 67. Non risulta che della CMC abbia parlato l’arcivescovo di
Milano, cardinal Giovanni Battista Montini, che di lì a pochi mesi diventerà
Papa: le ricerche condotte nell’archivio diocesano milanese non hanno
infatti messo in luce alcuna sua riflessione sulla crisi, se non un breve cenno
in un’omelia di qualche mese dopo 68. Il cardinale francese Yves Congar
fece menzione della crisi nel suo diario, il 24 ottobre, riassumendo tutto in
due righe e un’invocazione divina: «Situazione di grave pericolo attorno a
Cuba. La guerra atomica POTREBBE scoppiare da un giorno all’altro. Da
pacem [Dona pace]» 69. Il cardinale polacco Stefan Wyszynski osservò come
certi ambasciatori del Patto di Varsavia fossero abbastanza preoccupati da
preparare le valigie per essere pronti a lasciare Roma in caso di guerra 70.
Una certa inquietudine per gli eventi trapela infine dalle parole
dell’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Lercaro. Questi era solito
far affiggere quotidianamente sui muri della residenza episcopale bolognese
dei «foglietti di meditazione», ad uso dei ragazzi poveri della città a cui in
quel luogo venivano garantiti alloggio ed istruzione. Così in quei giorni
Lercaro mandò ai suoi ragazzi bolognesi questi due foglietti: «Da Roma, 24
ottobre 1962: Carissimi figlioli, […] qui si lavora parecchio; ora si è
aggiunto in tutti un senso di timore per gli avvenimenti internazionali; ed è
cosa ovvia, tanto più che tutti si è lontani dal proprio posto ed alcuni
[vescovi] sono lontanissimi […] Abbiamo fiducia che il Signore, guardando
alla Sua Chiesa riunita in Concilio, guiderà le cose in modo che si
ristabilisca e si saldi nel mondo la tranquillità […]». E l’indomani, 25
ottobre: «Carissimi tutti, […] viviamo ancora con qualche trepidazione per
gli avvenimenti di questi giorni: pregate il Signore che la serenità ritorni,
anzi si schiarisca sempre più il Cielo: si arresta ogni slancio, quando manca
la serenità […]» 71.
Nell’insieme, però, da quel che è possibile vedere dalle fonti attualmente
disponibili, ciò che sembra mancare – tra dotte disquisizioni sulle riforme
liturgiche, valutazioni politiche sulla crisi e appena qualche isolata traccia
di generico timore – è una consapevolezza chiara dei pericoli insiti nella
crisi in corso; una riflessione sul dilemma etico posto da quegli eventi; una
qualche traccia di turbamento per gli sbocchi delle politiche di
brinkmanship e di corsa agli armamenti da tempo adottate. Un’espressione,
insomma, di quello che pochi mesi dopo l’enciclica giovannea definirà
«l’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni
immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla
famiglia umana» 72.
Quasi a controbilanciare questo silenzio, per certi versi assordante, il 25
ottobre ci fu, come illustrato nella Parte prima, l’intervento personale del
Papa 73, che col suo appello riuscì a esprimere una più chiara
consapevolezza dei pericoli della crisi e a fornire un contribuito diplomatico
non trascurabile alla sua risoluzione. Senza contare che alcuni mesi dopo,
proprio in quanto incoraggiato dalla notevole eco internazionale ottenuta
dal suo appello cubano 74, Giovanni XXIII tornerà sul tema in modo più
organico, con l’enciclica Pacem in terris, nella quale com’è noto definirà
tra l’altro «alienum a ratione» – cioè irrazionale, folle – il ricorso alla
guerra nell’era atomica 75.
Tra le numerose conseguenze della crisi di Cuba ci fu dunque anche
quella di ispirare una delle encicliche più acclamate della storia della
Chiesa.
Sempre relativamente al mondo cattolico, infine, particolarmente
interessante e meritevole di spazio è la reazione alla CMC di Thomas
Merton, il più influente autore cattolico americano del Novecento. Il suo
pensiero (che tra l’altro ebbe un ascendente anche sul pacifismo USA 76)
completa il nostro quadro, mostrando un’altra faccia delle reazioni dei
cattolici statunitensi.
«Certo stando le cose come stanno, Kennedy difficilmente aveva alcuna
alternativa. La mia obiezione è al fatto che le cose stiano come stanno» 77.
Quest’estratto da una sua lettera del 29 ottobre 1962 riassume bene la
posizione – in merito alla CMC e a ciò che essa rappresentava – di Thomas
Merton, monaco trappista e scrittore di fama internazionale. Ben poche
voci, nel mondo cattolico, godevano d’un’influenza internazionale
paragonabile alla sua 78. Con La montagna dalle sette balze (1948),
diventato subito un pluritradotto classico della letteratura spirituale, egli
aveva raccontato il proprio cammino di conversione al cattolicesimo,
passato per una giovinezza turbolenta e approdato poi alla scelta dell’ascesi
e dell’allontanamento dal mondo. Così, dopo anni trascorsi in varie nazioni
d’Europa (continente in cui era nato), nel 1941 si era ritirato in un tranquillo
monastero trappista del Kentucky, USA. Non per questo però aveva smesso
di interessarsi a quanto succedeva «fuori». I suoi diari privati, al contrario,
continuavano a fermare su carta riflessioni lucide riguardanti problemi
anche politici. In particolare in quei primi anni Sessanta, egli stava
scrivendo molto per mettere in guardia dai pericoli insiti in una mentalità da
guerra fredda che, col suo diffuso manicheismo, a suo avviso rischiava
sempre più di sfociare in una guerra nucleare. Ma i suoi scritti su argomenti
così attuali e concreti, così poco usuali per un monaco, avevano finito per
suscitare le perplessità dei suoi superiori, che nell’aprile del 1962 gli
ordinarono di smettere di pubblicare alcunché sul tema della pace 79. A ciò,
Merton – convinto fosse invece suo dovere morale continuare a
testimoniare contro quei venti di guerra – rispose aggirando parzialmente il
divieto, cioè usando pseudonimi e, soprattutto, continuando ad esprimere le
proprie argomentazioni in lettere indirizzate a conoscenti concordi con le
sue preoccupazioni. Raccolte poi quelle lettere in un ciclostilato, le spedì ai
destinatari con l’invito a farle circolare: il tutto dunque senza contravvenire
formalmente al divieto di «pubblicare» alcunché sul tema. È da quella
raccolta semiclandestina, che Merton intitolò appunto Cold War letters,
oltre che da altre raccolte di suoi scritti pubblicate in seguito o postume, che
oggi possiamo risalire alle sue riflessioni sulla CMC e sul generale clima
storico che l’aveva prodotta.
Proprio il clima precedente la CMC, particolarmente avvertibile stando
negli USA, era al centro delle sue riflessioni critiche.

Gli Stati Uniti – egli scrive nella sua prefazione alle Cold War
letters – nella guerra fredda sono in grave pericolo di cessare
d’essere ciò che rivendicano di essere: la casa della libertà. […]
Questo Paese è divenuto francamente uno Stato bellicista [warfare
state] […] C’è stata soprattutto una tendenza all’isolamento sotto
uno spesso strato di disinformazione e distorsione, cosicché
l’opinione maggioritaria negli Stati Uniti è adesso una visione
altamente semplicistica e mitica del mondo diviso in due campi:
quello dell’oscurità (i nostri nemici) e quello della luce (noi stessi).
[…] Tutto ciò che il nemico fa è diabolico e tutto ciò che noi
facciamo è angelico. Le sue bombe H vengono dall’inferno e le
nostre sono strumenti di giustizia divina [Torna qui la denuncia del
manicheismo di cui abbiamo parlato nel capitolo sugli USA: si veda
pp. 174, 197, NdA]. Ne consegue che noi abbiamo una missione
d’origine divina di distruggere questo mostro infernale ed ogni
passo che compiamo per farlo è innocente e perfino santo.

Relativamente poco poteva fare, in questo contesto, anche l’inquilino


della Casa Bianca. «È vero, il presidente Kennedy è un leader avveduto e a
volte avventuroso. Egli è in buona fede ed ha i più alti motivi, e si trova,
senza dubbio, in una posizione a volte così impossibile da essere assurda.
[…] Sfortunatamente, sembra esserci una generale aria di pazzia. […] Non
mancano moralisti, teologi cattolici, che riescono a sostenere che esiste un
obbligo morale di minacciare la Russia di distruzione nucleare! Secondo il
sottoscritto, tali opinioni sono non soltanto vergognose, scandalose e non
cristiane, ma anche palesemente idiote. Hanno molto meno senso dei
misurati borbottii degli esperti di teologia che, al tempo di Galileo, non
volevano che la terra girasse intorno al sole» 80.
Critiche dolenti, che troviamo ribadite in una sua lettera del marzo 1962:
«Mi sembra che la posizione della Chiesa, almeno in questo Paese, sia
divenuta totalmente indurita e inasprita, cosicché malgrado tutte le cose che
sono state dette dai papi in favore della pace e del disarmo, ora loro son tutti
convinti che non c’è nulla che faccia al caso se non la politica ‘realista’
basata sul testare, accumulare [armi nucleari], ecc. E ciò conduce
inevitabilmente alla guerra calda. Non vedo come una tale guerra possa
essere evitata ancora a lungo nella condizione in cui siamo tutti ora,
nonostante le buone e oneste intenzioni di qualcuno come il presidente
Kennedy. Cosa può farci?» 81. E ancora, altrove: «Stiamo vivendo in una
condizione in cui abbiamo paura di vedere la totale immoralità ed assurdità
della guerra totale. Una delle ragioni per questa incapacità è il fatto che
l’intera nazione si sta ingrassando sui profitti delle industrie di guerra e
sulla produzione di armi fantasticamente costose e complesse che diventano
obsolete quasi prima di essere prodotte. [qui sembra di risentire il monito di
Eisenhower contro il «complesso militare-industriale», NdA] […] Un tale
stato di cose è pura follia […] in presenza di una così fantasticamente
assurda e suicida ingiustizia la coscienza cristiana non può rimanere
silente» 82.
E Merton difatti parlava. Come in un articolo pubblicato nell’aprile 1962
sul «Catholic Worker», che si concludeva così: «Solo un clima di buon
senso e prudenza cristiana può evitare la guerra. Ma se i cristiani stessi
diventano ossessionati da pregiudizio ed odio, un’atmosfera pacifica sarà
impossibile da mantenere. […] In breve, abbiamo davanti una scelta tra
fidarci di Cristo e della Sua Legge, o fidarci di bombe e missili. Da che
parte stiamo andando?» 83.
Thomas Merton.

Esponendosi così nettamente, non sorprende che di lì a poche settimane


Merton si sia visto presentare un formale divieto di scrivere ancora su tali
tematiche. Come egli raccontò a un amico in una lettera privata, «sembra
che i più Alti Superiori abbiano improvvisamente deciso che il mio scrivere
sulla pace ‘falsifica il messaggio monastico’. Riesci a immaginarlo? […]
Offensivo, in una parola, per le orecchie pie, che naturalmente sono
anzitutto orecchie monastiche. Lasciamo che le nostre orecchie non
vengano contaminate da alcuna notizia di ciò che sta avvenendo. Saltiamo
per aria tra la polvere radioattiva immaginando ancora beatamente che sia il
XII secolo e che san Bernardo stia vagando su e giù per le strade e i sentieri
della vecchia Francia predicando la crociata ai trovatori e ad alcuni allegri
goliardi, ma non troppo allegri, falsificherebbe un messaggio. I monaci
devono predicare agli uccelli, per gli uccelli e solo per gli uccelli» 84. Come
si vede, l’ironia non faceva difetto a Merton. Come in quest’altro estratto
dai suoi diari dell’epoca: «Una bomba H, dicono, costa solo
duecentocinquantamila dollari a fabbricarla. Si è mai visto un affare più
conveniente? Vi domando: chi può darvi più distruzione per i vostri dollari?
Saremo in grado di resistere quando riceveremo tutto quello che abbiamo
pagato?» 85.

Interessante poi notare come, con precisione inconsapevole, via via che
le pagine del diario di Merton si avvicinano al momento in cui scoppierà la
CMC, esse fissino su carta impressioni di un clima sempre più
surriscaldato. «27 febbraio 1962. Da un punto di vista umano e razionale
c’è ogni probabilità di una guerra disastrosa entro i prossimi tre o cinque
anni. Benché sia quasi incredibile immaginare questo Paese venir ridotto
alla desolazione, è ciò che molto probabilmente accadrà. Senza ragioni
serie, senza che la gente ‘lo voglia’, e senza che essi siano in grado di
prevenirlo» 86. Arriva l’estate e Merton annota: «Finora (agosto 1962) ci
sono stati 106 esperimenti nucleari dall’inizio della loro ripresa (un anno
quasi). […] Totale degli esperimenti effettuati fin dall’inizio: USA 229,
URSS 86, Inghilterra 22, Francia 5. Totale generale: 342 esperimenti
nucleari, di cui 282 nell’atmosfera. Andiamo bene, ragazzi!» 87.
Qualche settimana dopo, alla vigilia della CMC:

(Autunno 1962). Per quanto tempo ancora crescerà la minaccia di


guerra senza che scoppi la guerra? Mi pare che ci siamo vicini: più
dell’anno scorso, ad ogni modo. La situazione sembra più oscura e
sinistra di allora. […]
Ora mi arriva una lettera da una francese che mi è del tutto
sconosciuta, evidentemente un’accesa cattolica della corrente
intégriste. Mi chiede con molta serietà che i monaci dell’abbazia
[…] preghino affinché l’America scateni finalmente una crociata
nucleare contro la Russia trascinando nella guerra tutte le paurose,
pusillanimi nazioni del mondo occidentale. Tutto questo, beninteso,
nel nome della religione, di Cristo, dell’eroismo cristiano, eccetera
eccetera. E parla seriamente. ‘Non possiamo sopportare questa
situazione più a lungo’, dice. Mi stupisce che Dio la sopporti 88.

Appena pochi giorni dopo, ecco che puntuale arriva la crisi. Nei suoi
diari, pubblicati postumi, si ritrovano annotati dapprima altri segnali di
tensione mentre la CMC già andava montando segretamente nell’ExComm;
poi alcune frammentarie impressioni iniziali sugli eventi in corso, per quel
poco che le notizie gli giungevano in monastero; quindi, a crisi risolta e con
più informazioni, una parziale riconsiderazione delle sue impressioni
iniziali.

11 ottobre 1962. […] La moralità è davvero irrilevante a coloro che


propongono la strategia. È una strategia da guerra fredda. Dove può
condurre? […]
16 ottobre 1962. […] tempo teso. […] Giovanni XXIII […] è un
grande papa. Ha detto che la gente del mondo vuole la pace. […]
Ma in America qual è la situazione? Il Presidente, certamente, vuole
la pace. E [anche] la maggioranza della gente. […] Eppure ci sono
molti americani che vogliono la guerra. […] Credono di essere
sempre e da ogni lato minacciati dai comunisti. […] E vogliono
annientare la Russia. Tra loro ci sono cattolici – e non pochi preti.
Forse la maggioranza dei cattolici di questo Paese. Queste persone,
con la loro belligeranza e paura, sono in grado di precipitare il
mondo intero in una guerra disastrosa. […]
24 ottobre 1962. Notte fresca e luminosa. Tutte le stelle! E un
sottilissimo spicchio di luna. Dopo l’ufficio notturno [di preghiera],
sulla soglia del noviziato, frate Basil mi ha sussurrato qualcosa
riguardo a un discorso di Kennedy […] – ci sono basi di missili a
Cuba. C’è un blocco navale. Se un qualsiasi missile arriva da Cuba,
gli Stati Uniti bombarderanno la Russia. E così via. […] direi che la
follia è inevitabile. […] Quest’evento sicuramente servirà a
paralizzare ulteriormente la riflessione sulle armi nucleari al
Concilio. Su questo, all’ordine del giorno non c’è nulla, ancora.

In quest’ultimo avverbio (enfatizzato in corsivo nell’originale) si avverte


tutta la delusione per la reticenza della Chiesa ad affrontare certe tematiche,
particolarmente care invece a Merton ed altri esponenti cattolici dell’epoca
quali don Primo Mazzolari, padre Balducci, don Milani.

27 ottobre 1962. La vita è una serie di scossoni presto dimenticati.


Nel monastero è già come se non ci fosse mai stato alcun problema
per Cuba. Tutto è dimenticato. Mi è capitato di andare a Louisville
giovedì. […] Ho avuto un buon quadro della situazione. Sì. C’è un
blocco. Ma a quanto pare hanno già lasciato passare una petroliera
con ispezione solo pro forma [la Marucla]. […] La mossa sembra
essere ragionevole nel contesto della politica di potenza. Dopo tutto,
se Cuba è piena di missili, una guerra nucleare è sempre più
probabile. Se un blocco è più sicuro… 30 ottobre 1962. La completa
capitolazione di Kruscev su Cuba, e la sua promessa di smantellare
le basi di missili, un ripudio pratico di Castro (?) – tutto ciò è stata
una sorpresa e un gran sollievo per tutti.

Questa notazione diaristica è preziosa perché testimonia il carattere


sorprendente avuto dal dietrofront di Kruscev, che dì li a breve, con le
razionalizzazioni politologiche influenzate dal senno di poi, finirà per
apparire invece un esito scontato fin dall’inizio.

L’ho saputo domenica sera da frate Giovanni della Croce. […]


Questo Paese è stato davvero molto eccitato ed è quasi in uno stato
di mobilitazione dal discorso di Kennedy. […]
6 novembre 1962. Sto solo cominciando appena a realizzare che
grave shock è stata la crisi di Cuba per il mondo intero, e quanto
davvero vicino sia andato alla guerra nucleare. […] Che shock
dev’essere stato per il popolo della Russia!! […] Essi sapevano di
essere distrutti in partenza, se una guerra cominciava 89. Ma c’è
qualcosa per noi di cui esser lieti? Ho paura che il Paese
nell’insieme sia lieto. È una ‘vittoria di guerra fredda’ (quasi calda).
Sfortunatamente ciò incoraggerà gli estremisti ad andare oltre. Ora
noi sappiamo com’è essere soggetti di ‘appeasement’. È molto
pericoloso. Infatti ciò può portare il Paese ad una politica più
avventurosa ed aggressiva […] 90.

Non sfuggirà al lettore la forte rispondenza di queste riflessioni rispetto a


quanto illustrato nel capitolo Stati Uniti d’America riguardo alle percezioni
distorte dell’esito della CMC e alle sue conseguenze sulla gestione della
guerra del Vietnam.

17 dicembre 1962. […] Generalmente la sensazione è che la


‘posizione forte’ [assunta] su Cuba abbia pagato molto bene. […]
Ma nessuno riflette che tutto questo è stato acquisito ad un prezzo:
Realpolitik. Poiché la nostra causa era ‘giusta’, abbiamo gettato
legge e giustizia fuori dalla finestra, e tutti ci hanno applauditi per
questo, perfino Kruscev! Come se tutti stessero aspettando che noi
finalmente divenissimo ‘pratici’ 91. Che cosa prova questo?
Soprattutto che il deterrente non deterre. […]

Infine, due sue riflessioni più distaccate sulla CMC emergono da lettere
indirizzate, nella successiva primavera, a due illustri destinatari.
La prima è quella per Ethel Kennedy, la moglie di Robert Kennedy.
Merton le spiega, con la consueta ironia: «Ho scritto un libro sulla pace che
i Superiori hanno deciso che dovrei seppellire circa dieci piedi sotto terra,
da qualche parte dietro il monastero, eppure io non penso sia così malvagio.
[…] gliene mando una copia, solo per archivio, o chissà, magari il
Presidente potrebbe metter da parte cinque minuti per guardarlo 92. […]
Nell’affare di Cuba ci è mancato poco, ma date le circostanze credo che
JFK l’abbia gestita molto bene. Dico nelle circostanze perché solo uno
sguardo a breve termine alla cosa rende molto felici. Era una crisi e
qualcosa doveva essere fatto e c’era solo una scelta di vari mali. Lui ha
scelto il male minore, e ha funzionato. L’intera faccenda continua ad essere
disgustosa» 93. Lo stesso Kennedy, uscito dalla crisi come un uomo politico
sensibilmente diverso da quello che v’era entrato, non avrebbe avuto
difficoltà a concordare su questa dichiarazione.
La seconda lettera in questione, infine, è una risposta al rinomato
filosofo cattolico francese Jacques Maritain, che pochi giorni prima gli
aveva scritto sottoponendogli alcune proprie riflessioni sul dilemma posto
all’etica cristiana dalle politiche di deterrenza nucleare: Maritain gli
spiegava di non sentirsela di condannare tali politiche, «fin tanto che non si
avrà un governo mondiale (o almeno di un serio patto che assicuri che
nessuno ne fabbricherà più)», di «queste armi diaboliche» 94. Merton gli
risponde concedendo che in effetti al momento la detenzione di armi
nucleari è «inevitabile», ma il problema è più ampio:

Resta il fatto che Kennedy, lo scorso ottobre, con la sua grave


decisione, ha mostrato che questo Paese era definitivamente
intenzionato a dar corso ad una seria ed incombente minaccia di
guerra nucleare, quale strumento al servizio della politica di
potenza. Senza dubbio lei sa che ogni cosa era realmente
predisposta per un massiccio attacco nucleare alla Russia. […] Ora,
se un Paese ed un governante ‘cristiano’ non scherzano affatto su
tale proposito, quando si tratta essenzialmente di salvare la faccia, di
manovre politiche e del mantenimento del prestigio, ciò significa
che il possesso di armi e […] l’intera gigantesca struttura di
un’economia di guerra artificiale e dispendiosa, sono tutti centrati
sulla possibilità che una questione meramente simbolica possa
generare un’esplosione mondiale. E tutto questo viene apertamente
accettato come giusto. Non solo, l’opposizione viene addirittura
considerata come non cristiana e come un ripudio della Croce!

Quello che Merton denuncia all’attenzione del filosofo cattolico francese


è un totale rovesciamento etico. E il primo modo per uscirne, per una
nazione che in quel contesto nucleare voglia essere cristiana, è «assumerci
con franchezza i rischi insiti nel compiere seri passi in direzione del
disarmo negoziale». Il che comporta «fidarsi del nemico» 95 (si ricordi che
proprio in quelle settimane gli USA stavano negoziando coi sovietici il
trattato di messa al bando dei test nucleari, il cui effettivo rispetto non era
facile verificare). Merton infatti, come conferma un altro suo scritto, non
pretendeva dagli USA un improvviso disarmo unilaterale totale («è naïf e
farebbe più male che bene […] potrebbe precipitare una guerra»), bensì
«iniziative unilaterali per passi graduali verso il disarmo» 96.
Pare evidente come questi dilemmi etico-politici non siano confinati
all’anno 1963 o alla guerra fredda ma possano riproporsi, mutatis mutandis,
in altre situazioni geopolitiche dell’era nucleare.
Conclusioni

Queste dunque, in sintesi, le reazioni alla CMC da parte di


organizzazioni e personalità religiose di varie nazioni. Per trarne delle
conclusioni pur cercando di evitare eccessive generalizzazioni che
risulterebbero più pericolose che utili, qui ci limitiamo a sottolineare che:

a) in questa categoria transnazionale, come già accennato a proposito dei


religiosi presentati nel capitolo sugli Stati Uniti d’America, si evidenzia
una notevole varietà di posizioni, anche all’interno delle medesime
confessioni;
b) ciò appare ricollegabile naturalmente ai diversi orientamenti individuali,
ma anche ai diversi contesti nazionali entro cui questi soggetti si
trovavano a operare, e dal cui clima politico-culturale essi non potevano
rimanere del tutto avulsi;
c) la credibilità e autorevolezza delle reazioni pubbliche di tali soggetti
religiosi risultava direttamente proporzionale all’autonomia rispetto al
potere politico che veniva riconosciuta ai ‘pulpiti’ di provenienza (si
pensi al patriarca di Mosca);
d) molte dichiarazioni evitarono di prendere posizione sul merito della
CMC, distribuendo cioè torti e ragioni o suggerendo specifiche vie di
accordo, presumibilmente per mancanza di sufficienti elementi di
conoscenza oltre che per timore di venire strumentalizzati. Generalmente
si preferì mettere l’accento piuttosto sulla salvaguardia della pace e sulla
necessità di agire con urgenza per il disarmo generale, considerando
correttamente l’episodio cubano come una naturale conseguenza
dell’accumulo di tensioni e di armamenti che proseguiva da anni;
e) nel suo complesso, la pur eterogenea categoria religiosa risulta aver
avuto una sensibilità – riguardo alla dimensione etica dell’evento e ai
rischi di escalation nucleare – lievemente maggiore rispetto all’opinione
pubblica «laica», seppure in misura minore di quanto ci si sarebbe potuto
attendere date la gravità delle circostanze (come infatti lamentarono già
allora il metodista Donald Soper in Gran Bretagna e il cattolico Thomas
Merton negli USA);
f) tale relativo silenzio era probabilmente frutto anche del timore latente
nelle varie confessioni che il sollevare perplessità sui rischi della crisi in
corso finisse per favorire indirettamente la posizione sovietica, la quale
evidentemente non era la parte più popolare tra gli uomini di fede, dato il
suo materialismo dichiaramente e concretamente antireligioso.

Nel novero delle reazioni religiose va considerato però anche il


radiomessaggio di Giovanni XXIII, che al contrario trovò il modo di
superare tali ostacoli e reticenze; e che, anche in considerazione della vasta
risonanza internazionale che ottenne, è fin troppo ovvio definire il più
importante tra i vari pronunciamenti religiosi emessi in occasione della crisi
dei missili di Cuba.
5
Italia

Bruxelles, 22 ottobre 1962. Il ministro degli Esteri italiano, Attilio


Piccioni, democristiano, assieme al sottosegretario Carlo Russo ed altri
funzionari della Farnesina, giunge nella capitale europea per riunioni di
consultazione in merito all’adesione del Regno Unito alla CEE. Ma la
stanca routine burocratica europea viene interrotta da ben più gravi
accadimenti. Il capo della delegazione, Roberto Ducci, ricorda così quelle
ore trascorse all’ambasciata locale.

Mentre argomenti più volte delibati venivano palleggiati attorno al


tavolo della grande sala da pranzo – l’interesse e l’attenzione erano
scarsi – Casardi [l’ambasciatore italiano] entrò nella stanza e
sussurrò qualcosa all’orecchio del ministro. Il presidente del
Consiglio, Amintore Fanfani, era al telefono da Roma, e desiderava
parlare con l’onorevole Piccioni. Mormorando sottovoce col suo
accento romanesco: ‘E questo che vvò?’, Piccioni si alzò senza
entusiasmo e seguì l’ambasciatore nel suo studio. Sapemmo poi che
Fanfani era fuori della grazia di Dio: […] sfogò per prima cosa la
propria irritazione sul suo ministro degli Esteri che si era portato
tutti dietro di sé a Bruxelles. Gli annunciò che poco prima aveva
ricevuto l’ambasciatore degli Stati Uniti Freddie Reinhardt, a sua
richiesta, che aveva incarico di consegnargli un messaggio di
Kennedy.

Espostogli velocemente al telefono il contenuto della lettera, «Fanfani


incaricò Piccioni di cercare anche lui di mettersi in contatto con le autorità
dei Paesi europei per sapere in che modo volevano reagire». Fatta qualche
telefonata in tal senso, cenato e

preso il caffè, Piccioni disse che avrebbe giocato volentieri qualche


mano di bridge, che era il suo gioco favorito. […] Verso le undici
vennero a chiamarlo: Fanfani desiderava parlargli al telefono. ‘Sa
Iddio che vorrà’ […] Raccolti attorno a lui, udivamo le sue risposte
al presidente del Consiglio che era sempre a Palazzo Chigi […]
Fanfani aveva parlato con una mezza dozzina d’ambasciatori
stranieri a Roma, e con quattro o cinque dei nostri all’estero. Era
riuscito perfino a mettersi in contatto con qualcuno alla Casa
Bianca, […] voleva inviare subito qualcuno a Washington per
raccomandare, per esortare, per motivare…
‘No, io non posso, ho le riunioni’ [rispose Piccioni]. Fanfani
insisteva, disse che altrimenti avrebbe inviato Russo accompagnato
da Fornari che era il direttore politico. ‘Se proprio lo credi
necessario… Allora, domani…’. Il no del presidente del Consiglio
fu così energico che uscì dal microfono e raggiunse le nostre
orecchie; no, subito o col primissimo aereo per prendere il
Panamerican all’una del pomeriggio. Non tornammo al tavolo da
gioco. Cominciarono le ricerche di un aereo per Roma, mentre
Russo e Fornari sbuffavano. Ve ne era uno […] in partenza alle sei
del mattino. Piccioni […] glielo comunicò allargando le braccia,
quasi a significare che quanto a lui lo riteneva del tutto inutile.
Frattanto qualcuno aveva scovato un apparecchio radio di grande
potenza, del quale venne assicurato che ci avrebbe fatto ascoltare il
discorso di Kennedy in diretta. Ci raccogliemmo tutti attorno a quel
miracolo della tecnologia, che ci avrebbe rivelato quale sarebbe
stato il nostro destino. […] Tutti tendemmo l’orecchio, anche
Piccioni che non sapeva l’inglese: non avremmo ascoltato l’oracolo
ma addirittura uno degli Dei armati della folgore che può incenerire
il mondo. La voce di Kennedy […] giungeva miagolante e spezzata
[…]. Non capivamo gran che […]; e questa incapacità ci precipitò
nello scoramento per la prima volta da quando avevamo realizzato
la gravità della crisi. Qualcosa di immane avveniva, ma al di fuori di
noi e in nome di una logica che potevamo riconoscere corretta ma
dalla quale ci sentivamo esclusi. Capivamo, anche senza
condividerla, l’agitazione di Fanfani: era più fortunato lui, al quale
la possibilità di agire in qualche modo dava l’impressione di essere
in, all’interno della storia (che invece si faceva in tutt’altri luoghi), o
Piccioni, che accettava con equanimità di essere out? […] ‘Andiamo
a letto’, disse Attilio Piccioni, ‘la parola ormai spetta a Mosca’.

Spedito Russo negli USA 1 e presenziata poi la riunione del 23, Piccioni
si concesse lo svago di una visita pomeridiana al campo di battaglia di
Waterloo 2; dopodiché tornò a Roma la mattina del 24. Ducci venne a sapere
del ritorno in Italia dall’usciere del ministro, che, mentre ne preparava i
bagagli, glielo annunciò così, «con un accento trasteverino più greve del
solito» che ne svelava l’irritazione: «‘Ma come? […] non ne sa niente? Ci
hanno fatto sape’ che dobbiamo torna’ a Roma. Ma, dico io, non ce
potevano lassa’ qua? Che ci andiamo a fare a Roma, a salvare il mondo?
Ma quando se renderanno conto che c’abbiamo così poco da di’?’» 3.
L’usciere del ministro però, col suo simpatico disincanto trasteverino,
quella volta si sbagliava. Il ruolo dell’Italia nella CMC non sarebbe stato
poi così inutile.
La politica

I missili italiani nella CMC

Come illustrato nella Parte prima del volume, alla Casa Bianca nella fase
segreta della crisi vennero esaminate varie linee d’azione e le probabili
reazioni sovietiche a ciascuna di esse. In tali discussioni, emerge
chiaramente nell’ExComm fin dal primo giorno come tra gli obiettivi più a
rischio di rappresaglia ci sia proprio l’Italia. I missili NATO posizionati sul
suo territorio – precisamente trenta Jupiter a raggio intermedio, sparsi in
dieci basi tra gli altipiani pugliesi e lucani delle Murge, in posizione tanto
visibile quanto vulnerabile 4 – la rendono, insieme ai quindici Jupiter turchi,
tra i bersagli militarmente e politicamente più adatti per una dura reazione
sovietica. I documenti preparatori americani per il piano d’attacco aereo
sulle basi cubane menzionano infatti esplicitamente, tra le reazioni
sovietiche attese, minacce e possibili attacchi contro «l’Italia, la Turchia o
Berlino» 5.
Gli Jupiter erano stati offerti dagli USA agli alleati europei nella
riunione del Consiglio NATO del dicembre 1957. Nei mesi successivi
l’Italia di Fanfani li aveva accettati per un misto di deferenza verso la
richiesta di Washington e di desiderio di ottenere maggior prestigio tra i
paesi dell’Alleanza acquisendo uno status nucleare. Al presidente
Eisenhower Fanfani aveva chiesto però che l’operazione venisse presentata
«quasi come un episodio di routine di natura militare», nel chiaro intento di
attirare meno attenzione possibile 6. Tanto che la questione era stata poi
regolata con uno scambio di note diplomatiche, anziché con un apposito
accordo o trattato, al fine di non dover ottenere approvazioni o ratifiche dal
Parlamento 7. Difatti, quando la questione era stata discussa in aula (in
seguito a interpellanze o a fughe di notizie sui negoziati in corso), non
erano mancate – da parte di parlamentari PCI e PSI – denunce della poca
trasparenza governativa sull’argomento, oltre a moniti sui rischi di attacchi
che quei missili avrebbero comportato in caso di conflitto. In una di queste
interrogazioni parlamentari, il ministro della Difesa e futuro presidente
della Repubblica Antonio Segni aveva difeso la scelta governativa di
accogliere i missili minimizzandola come un semplice ammodernamento
dell’arsenale, in funzione deterrente, e, pur precisando di non poterne
divulgarne dislocazione e numero («del resto limitato»), aveva rassicurato
che non c’era da temere che i missili attirassero rappresaglie (anche per la
loro «scarsa vulnerabilità») 8. In realtà i rischi non erano affatto assenti,
come dimostrano le summenzionate previsioni stilate da Washington
durante la CMC, oltre ai ricordi dell’ambasciatore USA a Roma 9 nonché le
esplicite, seppur strumentali, minacce di rappresaglia rivolte da Kruscev
proprio in faccia a Segni nel 1961 10.
Oltre che come bersaglio militare, nella CMC le basi italiane appaiono
subito importanti anche come possibile oggetto di contropartita per ottenere
la rimozione delle basi da Cuba. E in tal senso l’ExComm appare subito
disposto a pagare un prezzo del genere 11. Lo stesso Kennedy, come visto, il
20 ottobre assicura a Stevenson che benché non sia il caso di offrirlo fin
dall’inizio, al momento opportuno e su richiesta sovietica gli USA
avrebbero dovuto dirsi d’accordo a rimuovere le proprie basi da Turchia e
Italia. Il 22 poi lo stesso JFK ordina di prendere precauzioni speciali per
scongiurare lanci non autorizzati di quei missili, «anche nel caso di un
attacco nucleare […] contro queste installazioni da parte dell’Unione
Sovietica come risposta ad azioni che noi possiamo intraprendere
altrove» 12. A tal proposito va aggiunto che secondo la recente testimonianza
del generale Genta, comandante della 36 a Aerobrigata che controllava i
missili, nei giorni della CMC le basi italiane passano dallo stato di allarme
livello 3 (Stand by) al livello 2 (Ready to fire). L’ordine, proveniente dal
comando NATO, non sposta nulla in termini operativi, giacché i missili
erano sempre pronti al lancio in quindici minuti, ma può leggersi come un
segnale politico di fermezza rivolto dalla NATO all’intelligence sovietica 13.
Nel frattempo, gli ambasciatori USA in Italia e Turchia cominciano a
sondare discretamente quali sarebbero le reazioni dei rispettivi Stati ad
un’eventuale richiesta di rimozione dei loro missili. Le due risposte,
secondo il riassunto che ne fa Bundy all’ExComm, contrastano «come la
notte e il giorno» 14. Da Roma infatti l’ambasciatore ha scritto nel suo
telegramma che «probabilmente si potrebbe fare», purché l’operazione
venga «maneggiata con cura» (cioè condotta consultando il governo
italiano, presentata come un contributo italiano alla distensione, e così
via) 15; inoltre sempre nella riunione del 27 McNamara fa presente
all’ExComm che lo stesso ministro della Difesa Andreotti gli ha detto
appena poche settimane prima che «gli italiani sarebbero felici di
sbarazzarsene, se noi li vogliamo togliere» 16. Viceversa da Ankara
l’ambasciatore ha avvisato che la cosa presenterebbe seri problemi, in
quanto i turchi tengono molto ai missili e il ritiro verrebbe visto come un
mercanteggiamento a spese della loro sicurezza; il telegramma da Ankara
aggiunge però che, ove fosse proprio necessario, una parallela rimozione
dall’Italia «avrebbe reso più facile l’approccio col governo» turco 17. Difatti,
come visto, il 27 pomeriggio McNamara suggerisce all’ExComm proprio
questa mossa (togliere i missili italiani per far pressione su una rimozione
analoga di quelli turchi), e il Presidente si dice subito favorevole all’idea 18.
Così, per quanto la lettera di Kruscev (e l’assicurazione segreta fornita
quella sera da Bob Kennedy a Dobrynin) si limiti alle basi in Turchia, anche
i missili italiani di fatto entrano indirettamente nel pacchetto di misure che
diventa necessario prendere per risolvere la crisi di Cuba 19. Questa dunque
la prima conseguenza della CMC sull’Italia. Grazie a questo doppio ritiro,
come ha scritto lo storico Freedman, «ogni diretta relazione con la Turchia
venne oscurata dalle mosse parallele con l’Italia» 20. Naturalmente un tale
diretto legame con la CMC verrà poi negato dalla Casa Bianca in ogni sede
– perfino privatamente allo stesso Fanfani 21 – e l’operazione verrà
presentata al pubblico come un semplice ammodernamento dell’arsenale
nucleare NATO (cosa che era pur vera, giacché i sostitutivi Polaris, essendo
sistemati su sommergibili di stanza nelle acque del Mediterraneo,
garantivano, rispetto agli Jupiter, minore vulnerabilità). Ma di fatto, come
riporta Kissinger nel corso di un suo viaggio a Roma all’inizio del 1963,
«‘quasi tutti’» gli esponenti italiani con cui egli aveva parlato «sospettavano
che il ritiro potesse essere conseguenza di un accordo degli USA coi russi».
Il presidente della Repubblica Antonio Segni arrivò a lamentarsi
esplicitamente con Kissinger «che la decisione USA sul ritiro era stata presa
a quanto pare durante la crisi cubana e l’Italia era stata informata solo tre
mesi dopo» 22. In ogni modo, entro il 1° aprile 1963, come previsto, il ritiro
degli Jupiter dalla Puglia era stato ultimato. Tappe principali
dell’operazione erano state: un colloquio tra i due ministri della Difesa
(McNamara e Andreotti) al Consiglio Atlantico a Parigi il 13 dicembre
1962 23; una lettera tra i due che metteva per iscritto la richiesta, in data 5
gennaio 1963 24; il viaggio di Fanfani a Washington, dieci giorni dopo, in
cui il Primo Ministro italiano discute ed accetta le modalità della rimozione.
Fanfani però viene a sapere dell’intenzione americana solo dopo la seconda
di queste tappe, come egli non manca di annotare, furente, nei suoi diari
privati (9 gennaio 1963): «Andreotti ha comunicato a me e a Piccioni
insieme di aver saputo a metà dicembre a Parigi da McNamara che gli USA
desiderano ritirare le basi missilistiche dalla Turchia e dall’Italia. Alcuni
giorni fa di ciò McNamara ha anche scritto ad Andreotti determinando la
data del ritiro il 1° aprile. […] Piccioni ed io ci riserviamo di riflettere per la
novità tenutaci nascosta per oltre venti giorni dal M. della Difesa» 25.

Il silenzio di Andreotti verso Fanfani si comprenderà meglio


ricostruendo una vicenda che corse parallela a questa, seppure sia tuttora
meno nota. Al ritiro dei missili per iniziativa americana infatti si
affiancherebbe, senza contraddirla, un’altra pista, secondo cui l’Italia stessa
durante i giorni della crisi avrebbe offerto agli USA lo smantellamento delle
proprie basi nucleari NATO per facilitare il raggiungimento di un accordo e
scongiurare un’escalation che appariva sempre più imminente.
Un esemplare di Jupiter del tipo installato nelle Murge.

Di tale offerta italiana vi sono diverse testimonianze; non se n’è però


trovata alcuna traccia documentale, né negli archivi americani né in quelli
italiani, aperti ancora solo parzialmente. Allo stato attuale quindi non vi
sono elementi sufficienti né ad escluderla né a confermarla con certezza.
Tuttavia la tempistica assai stretta che illustreremo e la segretezza
consigliata dall’estrema delicatezza dell’argomento possono contribuire a
spiegare la penuria di documentazione sul punto. Ma andiamo con ordine.
Ettore Bernabei era in quegli anni direttore generale della RAI-TV, in
quella che fu l’epoca d’oro della RAI democristiana. Era un fedelissimo di
Fanfani, che lo considerava un po’ il suo «uomo di fiducia». Nel giugno del
1962, per esempio, gli aveva già affidato un riservatissimo colloquio con
l’ambasciatore sovietico Kozyrev 26. Nelle proprie memorie – pubblicate nel
1999, appunto col titolo L’uomo di fiducia – Bernabei racconterà un
episodio che lo aveva visto protagonista riguardo alla CMC. Si tratta di un
resoconto che va utilizzato facendo la tara degli errori di memoria e delle
imprecisioni anche notevoli che contiene su vari punti 27. Tuttavia ciò non
implica doverlo considerare completamente inattendibile quanto alla
sostanza (anche perché, come vedremo, su vari aspetti trova conferma in
altre fonti). Ne riportiamo qualche stralcio, poiché costituisce una buona
base di partenza per spiegare quanto potrebbe essere successo:

Imprevedibilmente mi fecero intervenire nella crisi di Cuba. […] Fu


un caso, mi trovavo in America per altre ragioni. […] Io stavo a
Washington per partecipare alla prima riunione dei dirigenti
responsabili di televisioni. […] Al terzo giorno, stavo ancora in
albergo, ed ecco che m’arriva una telefonata di Fanfani da Palazzo
Chigi: ‘Quanto si trattiene?’ ‘Mah! Direi di partire domani, la
riunione per cui s’era venuti non si fa e mi pare non si faccia più’

[a che riunione alludesse con Fanfani, Bernabei nel libro non lo dice, ma
noi lo vedremo tra breve].

‘Lei non si mova di costì e si tenga in contatto con Hombert


Bianchi’, fa lui. [Bianchi era il capoufficio stampa di Fanfani,
NdA]. […] Nel frattempo ci fu il famoso discorso di Kennedy in tv,
quello che sembrava il preannuncio di una terza guerra mondiale. I
russi con spavalderia replicarono. […] Bianchi il giorno dopo mi
chiamò e mi disse: ‘Guarda, c’è un tentativo di evitare l’irreparabile.
Lo conducono il governo italiano e la Santa Sede’ […]. Ci fu un
appello del Papa per la pace. Poi Fanfani, facendo riferimento a
questo appello, propose la via della Puglia agli ambasciatori
sovietico e americano. Fu a questo punto che Fanfani mi chiese di
tenermi pronto. […] Bianchi mi disse: ‘Ti devi trasferire all’albergo
Four Seasons e rimanere in attesa che venga a trovarti un
diplomatico del Dipartimento di Stato’. […] Un sabato mattina il
diplomatico americano mi disse: ‘Lei deve venire con me alla Casa
Bianca perché il consigliere per la sicurezza [sic!] Arthur
Schlesinger ha bisogno di parlare con lei’. Detto fatto, mi scortò alla
Casa Bianca, dove entrai attraverso una porta di servizio, e mi fece
accomodare in una stanza, avvertendomi: ‘Di là c’è lo studio dov’è
riunito il Consiglio di Sicurezza con il presidente Kennedy’. A un
certo punto da una porta entrò Schlesinger. Io avevo letto la sua
storia dell’America e pensavo che fosse un vecchietto con l’aria da
professore. Invece era un omettino piccolo, gioviale, con una
camicia giallo canarino. Lui vide che ero sorpreso e si mise a ridere:
‘L’ha colpita la mia camicia’, disse, ‘ma sa, siccome non si riesce a
fare il weekend, ci consoliamo venendo in ufficio con gli abiti del
sabato e della domenica’. Ridemmo, poi venne subito al tema
[…] 28.

E qui occorre fare un passo indietro. In quei giorni di crisi, infatti,


l’ambasciatore americano all’ONU, Adlai Stevenson, aveva fatto capire
privatamente all’italiano Carlo Russo «che le basi missilistiche italiane
potevano divenire parte dell’intesa» in base a cui risolvere la crisi (come
emerge sia dai diari privati di Fanfani, sia da quanto successivamente
confidò il presidente della Repubblica Antonio Segni ad Henry
Kissinger) 29. Fanfani naturalmente aveva tutto l’interesse ad evitare una
guerra (se non altro per le ragioni di speciale vulnerabilità militare
dell’Italia illustrate poc’anzi), e così si sarebbe attivato tramite canali privati
per presentare un’offerta di rimozione. Essa sarebbe stata avanzata da
Fanfani probabilmente proprio tramite Carlo Russo, sottosegretario agli
Esteri, che lo stesso presidente del Consiglio, come visto, allo scoppio della
crisi aveva immediatamente inviato a New York con la precisa consegna di
attivarsi per incoraggiare soluzioni diplomatiche 30.
La risposta (altrettanto riservata) a tale offerta sarebbe stata comunicata,
a voce, appunto da Schlesinger a Bernabei il 27 mattina.
Schlesinger, si ricorderà, aveva passato i giorni precedenti appunto a
New York all’ONU assistendo Stevenson. Il suo incontro con Bernabei è
senza dubbio avvenuto, come emerge anche da vari documenti americani,
tra cui una dettagliata relazione sulla conversazione redatta da Schlesinger
per il presidente Kennedy 31. Le coordinate temporali dell’incontro
collimano precisamente con quelle fornite da Bernabei 32; solo che dal
«memo» di Schlesinger, oggi conservato negli archivi presidenziali di
Boston, risulta che i due abbiano parlato di tutt’altro. E cioè della
opportunità politica di allacciare discretamente contatti informali (non
esistendo relazioni diplomatiche ufficiali) tra Stati Uniti e Santa Sede.
Difatti, anche in considerazione del «nuovo corso» giovanneo intrapreso
dalla Chiesa cattolica – allora in pieno rinnovamento conciliare – appariva
quanto mai urgente alla Santa Sede colmare questo stridente silenzio tra
Washington ed Oltretevere. In tal senso aveva inciso anche la forte
delusione vaticana per il fatto che, appena un paio di settimane prima,
nessun osservatore USA era stato mandato a presenziare all’apertura del
Concilio Vaticano II (mentre – come aveva fatto presente monsignor Igino
Cardinale all’ambasciatore USA a Roma – se solo il Vaticano lasciasse
vagamente intendere che una rappresentanza sovietica sarebbe gradita,
Kruscev in persona salirebbe sul primo aereo per Roma!) 33. Era in questo
quadro, dunque, e prima dello scoppio della crisi, che a Bernabei era stato
chiesto – per conto di Fanfani e del Vaticano – di recarsi negli USA con un
pretesto credibile (nella fattispecie, quella riunione internazionale di
dirigenti televisivi) e lì incontrarsi con Schlesinger, per esporgli la
situazione e proporre che venissero allacciati contatti informali con la Santa
Sede. Magari poteva essere proprio Schlesinger a recarsi a Roma con la
copertura pubblica di una qualche conferenza storiografica e poi incontrare
il Papa 34. Così il 27 mattina Bernabei espone, Schlesinger ascolta,
simpatizza con la sostanza della questione e promette di riferirne al
Presidente non appena la crisi sarà passata. Difatti il 2 novembre prepara un
dettagliato «memo» per JFK sulla conversazione, che definisce «piuttosto
sconcertante» (somewhat baffling conversation) 35, e qualche giorno dopo
risponde a Bernabei, nel frattempo tornato in Italia, che presto
all’ambasciata USA di Roma sarà nominato un nuovo vice-capo missione
(Francis Williamson) ed esso avrà tra i suoi incarichi anche quello di
seguire le iniziative vaticane 36. Tuttavia, a confermare che quel mattino alla
Casa Bianca i due parlarono non solo di Vaticano ma anche di missili
Jupiter, oltre alla testimonianza di Bernabei provvede proprio Giulio
Andreotti, il quale così scrive in un suo libro, pubblicato già un decennio
prima delle memorie di Bernabei: «[…] Quando incontrai McNamara gli
chiesi cosa fosse accaduto in quelle tre settimane a cavallo dell’anno [1962-
1963, a proposito della richiesta di ritiro dei missili, NdA]: capii che era
imbarazzato perché portò il discorso sul piano tecnico. Appresi però che un
autorevole membro del governo italiano aveva inviato a Washington un suo
fiduciario per avvertire che la presenza dei missili a Gioia del Colle non era
più sostenibile. Mi pregò di dimenticarlo e io… dimenticai soltanto il nome
di questo libero battitore» 37.
Andreotti, da noi interpellato per iscritto se il «libero battitore»
rispondesse al nome di Bernabei, si è trincerato dietro un laconico
«chiederlo a Bernabei» 38. Così abbiamo fatto, e quest’ultimo ci ha
confermato personalmente, come del resto era ormai chiaro, d’essere lui 39.
Andreotti avrà anche cercato di dimenticare il nome del «libero
battitore»; però non solo tenne a lungo per sé il contenuto del colloquio di
dicembre con McNamara (evidentemente piccato per essere stato a sua
volta tenuto all’oscuro da Fanfani in ottobre) 40, ma a quanto pare (così
almeno valutarono i servizi segreti americani) fece anche trapelare
un’indiscrezione al settimanale scandalistico di destra «Lo specchio», che
rivelò la notizia della volontà statunitense di ritirare i missili italiani proprio
alla vigilia della partenza per Washington di Fanfani, con ovvio imbarazzo
di quest’ultimo, che vi si recava appunto per discuterne discretamente 41.
In realtà la collocazione cronologica che ora proporremo riguardo al
momento di formulazione dell’offerta italiana sembrerebbe indicare che
Fanfani agì da solo (senza cioè consultare il suo ministro della Difesa) forse
anche per la particolare ristrettezza dei tempi a sua disposizione. Leggendo
infatti i suoi diari privati troviamo annotato, alla pagina del 26 ottobre:
«Russo telegrafa di aver visto Stevenson. [Stevenson] Lo ha ringraziato di
quanto ho detto in Parlamento e poi gli ha chiesto che ne penseremmo di
uno scambio tra ritiro missili da Cuba e ritiro di missili da basi europee,
specie se superati. Russo ha detto che sarebbe preferibile utilizzare lo
smantellamento delle basi europee nel quadro della conclusione delle
trattative sul disarmo» 42. Tale scambio di vedute è confermato dal
telegramma (appena desecretato) che Russo inviò a Roma su quel
colloquio, avvenuto la sera precedente 43. Si trattava di una risposta
interlocutoria, per non dire negativa, che sostanzialmente rimandava la
questione, e che Russo aveva probabilmente fornito attenendosi alle
consuete istruzioni ricevute dal governo italiano per momenti di ordinaria
amministrazione 44. Ma a quel punto a Fanfani dovette sembrare ci fosse ben
poco da rimandare, visto che già in mattinata, dopo aver ricevuto quel
cablo, telefona a Russo per un «lungo colloquio» 45 e poi si fa risentire in
serata, sempre telefonicamente. Nei suoi diari, infatti, egli aggiunge, sempre
il 26: «A sera giunge notizia di irrigidimento USA. Faccio telefonare in
America ed alle 24.30 apprendo che l’irrigidimento è del mattino; ma ora si
è un po’ ridotto».
«Faccio telefonare in America». A nostro avviso è in questa telefonata
serale, se non già in quella mattutina, che egli – timoroso per queste notizie
di ulteriore irrigidimento statunitense – decide di provare ad evitare
l’irreparabile facendo proporre a Russo qualcosa di più rispondente ai
discreti sondaggi di Stevenson, e cioè un preciso consenso all’ipotesi di
ritiro degli Jupiter italiani. A sostegno di quest’ipotesi di collocazione
cronologica citiamo vari elementi: il fatto che proprio il mattino dopo
Bernabei, pur nel bel mezzo della crisi, viene convocato alla Casa Bianca e,
stando ai suoi ricordi, fornito di risposta anche su quell’offerta; il fatto che
intanto Russo a New York in quelle stesse ore va due volte a parlare con U
Thant (la seconda su precisa richiesta di Fanfani) e che Fanfani accenna nei
diari di aver discusso proprio l’eventualità di quella contropartita con
l’ambasciatore a Londra Quaroni 46; inoltre il fatto che – a detta sia di
Bernabei sia di Andreotti – l’iniziativa di Fanfani sia da considerare un suo
modo di rispondere all’appello del Papa per le trattative, che è del 25
ottobre 47 (si consideri che Fanfani in quei giorni era in stretto contatto col
Vaticano, tramite mons. Angelo Dell’Acqua, che aveva incontrato proprio il
25 mattino) 48.
È ipotizzabile dunque che all’arrivo di quella telefonata, Russo abbia
subito riferito l’offerta italiana a Stevenson o Schlesinger, che erano
entrambi all’ONU quel 26 pomeriggio (si ricordi che, contando il fuso,
quando a Roma è sera, a New York è ancora primo pomeriggio).
Schlesinger la mattina dopo torna a Washington, come da programma, e
subito riceve Bernabei (incontro che dalla sua agenda, oggi conservata negli
archivi di Boston, risulta in programma già per il 24 pomeriggio: se non che
poi JFK lo aveva mandato a New York ad assistere Stevenson,
costringendolo a tracciare una riga rossa su tutti gli impegni di quei
giorni) 49. Si aggiunga che Bernabei ci ha precisato (diversamente da quanto
sembrano suggerire le sue memorie) che fu proprio il venerdì pomeriggio
(26) che provvidero ad avvisarlo che l’incontro alla Casa Bianca ci sarebbe
stato 50. Così, dopo averlo ascoltato sul tema dei rapporti Vaticano-USA,
Schlesinger con l’occasione potrebbe benissimo aver comunicato
discretamente all’uomo di fiducia di Fanfani anche una risposta sull’offerta
italiana di ritiro dei missili giunta il giorno prima (magari avendola
concordata appena pochi minuti prima – a voce – col Presidente stesso, che
si trovava in riunione proprio nella stanza accanto) 51. «Lei può dire al suo
governo che quella proposta è stata definitivamente approvata», furono le
parole di Schlesinger a conclusione del colloquio, stando ai ricordi di
Bernabei 52. Una risposta positiva, dunque, ma generica, che
sostanzialmente incassava la buona volontà e disponibilità politica italiana
ad effettuare il ritiro, riservandosi poi di procedere ad attuarla o meno, ove e
nelle modalità in cui la cosa si rendesse necessaria.
Poi, una volta risoltasi – meno di ventiquattr’ore dopo – la crisi,
improvvisamente e nei termini di estrema segretezza che abbiamo illustrato
(rifiuto pubblico e accettazione privata della richiesta sovietica sulla
Turchia, come comunicato segretamente da Bob Kennedy a Dobrynin), per
la Casa Bianca diveniva superfluo e anche pericoloso ripescare quell’offerta
formulata segretamente dall’Italia durante la prova di forza. Poteva dare
l’idea che gli USA avessero concluso coi sovietici un baratto (doppio, per
giunta) o magari creare future rivendicazioni di crediti politici da parte
dell’Italia. Meglio richiedere, trattare ed annunciare il ritiro italiano negli
stessi termini di quello turco, ossia come semplice ammodernamento
dell’arsenale NATO, sapendo già che impedimenti seri non sarebbero sorti,
e lasciando che la riservata offerta italiana cadesse in fretta nel
dimenticatoio. Fanfani però non la dimenticò, e difatti a decenni di distanza
egli rivendicò pubblicamente il ruolo giocato, in almeno due occasioni 53.
Un cenno sibillino a discrete mosse italiane nella crisi, del resto, lo fece già
il 30 ottobre il ministro degli Esteri Piccioni nel suo discorso alla Camera 54.
L’assenza di menzioni della mossa nei diari di Fanfani è poi aspetto non
difficile da spiegare 55, come pure il possibile movente politico 56. Tuttavia,
come detto, data la mancanza di conferme emerse dai documenti oggi
disponibili, questa vicenda non si può dare per certa. Così Nuti, pur
riconoscendo che «la storia ha una certa aura di plausibilità», ritiene che la
si debba considerare «apocrifa» («a meno che non venga trovata qualche
nuova prova»), vedendovi un tentativo di Bernabei di amplificare il ruolo
giocato da Fanfani e da se stesso nel risolvere la crisi 57. Una componente
psicologica che pare verosimile, questa, anche dato il temperamento dei
due, emergente da altri passi delle rispettive memorie o diari. D’altro canto,
però, va pure tenuto presente che a sostenere l’esistenza di tale iniziativa
italiana non è stato il solo Bernabei, ma Fanfani e lo stesso Andreotti, e già
dieci anni prima di lui. Tre voci diverse, dunque, e non tutte in gran rapporti
reciproci. Inoltre la nostra ipotesi di collocazione cronologica della
formulazione di quell’offerta spiegherebbe perché ad oggi non ne sia
emersa traccia nei documenti: semplicemente, troppo poco tempo intercorse
prima che gli eventi stessi la rendessero superata, oltre al fatto che la
delicatezza del tema possa aver suggerito di parlarne a voce anziché per
iscritto. L’uso del telefono, in questo senso, sarebbe esplicativo.
Quale peso concreto attribuire, dunque, a questa (presunta) iniziativa
fanfaniana? Per la Casa Bianca, essa poté contribuire a confermare la
facilità di ottenere il ritiro italiano e dunque la possibilità di usare questo
come leva per ottenere anche quello turco (facilitando conseguentemente la
consapevolezza di poter assicurare privatamente la cosa ai russi già quella
stessa sera, nel colloquio RFKDobrynin). Per l’Italia rappresenterebbe
invece una conferma del dinamismo della politica estera di Fanfani,
configurandosi come una mossa positiva, in quanto volta a efficace tutela
sia della pace internazionale sia della sicurezza italiana 58.

Primavera 1963: uno dei trenta Jupiter smantellati viene trasportato all’aeroporto di Gioia del
Colle.
Riflessi sulla politica interna. Da Nenni a Craxi, il PSI osservato speciale

La CMC ebbe riflessi importanti anche sul piano della politica interna.
Per comprenderlo bisogna considerare il particolare momento di passaggio
che stava attraversando l’Italia nel 1962. Nel pieno del suo «miracolo
economico», che ne stava profondamente mutando realtà, strutture e
mentalità, la Repubblica stava cercando di ridisegnare anche i suoi equilibri
politici. La Democrazia cristiana era sempre saldamente al potere ma, ormai
esauritasi la stagione del «centrismo», cercava di estendere il suo appoggio
parlamentare includendovi anche il Partito socialista, guidato dal suo leader
storico Pietro Nenni. Questa svolta, definita «apertura a sinistra», aveva
com’è noto il doppio scopo di attuare una politica più riformista e di isolare
il Partito comunista, antico alleato dei socialisti, ancora elettoralmente
molto forte. Si trattava però di un’operazione politica tutt’altro che
semplice, apertamente avversata da molti e guardata con sospetto da molti
altri, tanto in Italia quanto all’estero. Tuttavia il progetto stava ormai
maturando, e il governo in carica al momento della CMC contava già
sull’astensione dei parlamentari socialisti (anche se non ancora sul loro voto
favorevole), in quel che si chiamava «appoggio esterno». Il governo
presieduto dal democristiano Fanfani si reggeva quindi sulla maggioranza
formata, oltre che dalla DC, dai partiti Liberale e Repubblicano a destra, e
da quello Social-democratico a sinistra. Come esaustivamente ricostruito
dal saggio di Nuti Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Washington
osservava da tempo con estrema attenzione l’evoluzione di quelle
dinamiche italiane. Contrari sotto Eisenhower, con l’amministrazione
Kennedy e via via che i tempi apparivano più maturi gli USA iniziarono a
guardare al possibile esperimento italiano del centro-sinistra con maggior
simpatia. Sussistevano però in merito fortissime resistenze e una pluralità di
vedute. Tra i favorevoli si contavano molti esponenti della Casa Bianca, tra
cui Schlesinger, Komer, Bundy e lo stesso presidente Kennedy; assai più
sospettosi erano gli ambienti del Dipartimento di Stato e dell’ambasciata
USA a Roma. Così tra il 1961 e il 1963 i due contrapposti atteggiamenti
americani verso il nascente esperimento italiano combatterono
politicamente quella che Schlesinger ricorderà poi come «una battaglia
senza fine», «una lotta lunga ed esasperante», in cui «ci si sentiva soffocare
come in un romanzo di Kafka» 59. Nonostante l’atteggiamento favorevole
espresso dal presidente Kennedy, infatti, molti esponenti del governo
americano continuavano a chiedersi se i socialisti italiani avessero davvero
rotto i ponti con i comunisti e con l’antiamericanismo. Il punto che destava
maggiore perplessità era proprio la loro linea in politica estera: l’ingresso
dei socialisti nel governo non sarebbe stato il preludio a un allontanamento
dell’Italia dalle posizioni di Washington, se non proprio a una deriva
neutralista equivalente ad un’uscita de facto dalla NATO? L’Italia era un
pezzo assai importante dello scacchiere europeo su cui e per cui si giocava
la guerra fredda: non si rischiava così di comprometterne la solidità
atlantica? Nenni e i suoi si sarebbero mostrati davvero affidabili al
«momento della verità»?
In questo senso la CMC giunse come una vera prova del nove.

La situazione alla vigilia della CMC è ben riassunta da un memorandum


– recentemente declassificato – che Schlesinger aveva preparato per il
collega Bundy ad appena cinque giorni dalla crisi (19 ottobre 1962).

Come ricorderai, la Casa Bianca (settore Komer-Schlesinger) è stata


impegnata per circa cinquant’anni [la cifra scelta appare
ironicamente spropositata, NdA] in uno sforzo per persuadere il
Dipartimento di Stato che un’attiva assistenza al gruppo di Nenni
nel Partito socialista italiano promuoverebbe gli interessi degli Stati
Uniti e della democrazia occidentale. Durante questo periodo,
praticamente ogni prova, credo, ha confermato la nostra opinione
che i socialisti di Nenni si sono irrevocabilmente separati dai
comunisti e sono determinati a portare il PSI nell’ottica
democratica. […] Durante questo periodo, tuttavia, [il Dipartimento
di] Stato si è opposto a ogni passo della via alle proposte per
affrettare l’integrazione del PSI nel campo democratico. […] Lo
scorso agosto Pieraccini, direttore dell’«Avanti!» e membro vicino a
Nenni, ha steso di fronte a me a nome di Nenni una richiesta
formale per assistenza coperta [covert assistance] al PSI. Ha anche
discusso la possibilità di una visita di Nenni negli Stati Uniti.
L’importante richiesta viene comunicata da Schlesinger a un funzionario
del Dipartimento di Stato (William Tyler) e all’ambasciatore a Roma
(Frederick Reinhardt). Questi, però, ritenendo «ancora sconsigliabile l’aiuto
al PSI», non degna Pieraccini neppure di una risposta, pur avendo promesso
a Schlesinger di fornirne una. «Da allora», prosegue Schlesinger, «ho
ricevuto numerosi messaggi di crescenti lamentele e sconcerto da
Pieraccini». Praticamente l’offerta di assistenza stava venendo lasciata
cadere. Schlesinger allora torna a caldeggiarla.

Sono al corrente del fatto che il presidente Segni ha detto al


segretario di Stato che non dovremmo coltivare il PSI. Tuttavia […]
io considero ancora sia nostro interesse aiutare il PSI […] [anche
perché] il successo dell’esperimento italiano ha un significato più
largo. Se una coalizione DC-Socialista può funzionare in Italia, può
molto probabilmente fornire un modello importante per la Francia
dopo De Gaulle, la Germania dopo Adenauer e la Spagna dopo
Franco. Se l’esperimento italiano fallisce, la più promettente
formula di stabilità politica nell’Europa Occidentale sarà screditata
– forse senza rimedio.
Devo aggiungere che la CIA dall’avvento di Ray Cline ha cambiato
atteggiamento e sarebbe probabilmente d’accordo, in presenza di
dovute condizioni, con un programma d’aiuto al PSI.
Sia io sia Komer pensiamo di essere arrivati fin dove potevamo col
[Dipartimento di] Stato e che Reinhardt continuerà a ostacolare
indefinitamente i nostri lanci. Ci chiediamo se non sia il momento
che voi spingiate su questo problema nello Special Group – forse
perfino che il Presidente mandi una nuova istruzione allo Special
Group. Possiamo parlarne all’inizio della prossima settimana? 60.

Come si vede, Schlesinger cominciava a non poterne più dei tentativi di


alcuni settori del governo americano di ostacolare una linea politica che già
da tempo aveva ricevuto l’approvazione del Presidente. Ma la settimana
successiva Bundy avrebbe avuto ben altro a cui pensare, e il centro-sinistra
italiano tutto da dimostrare.
Apertasi la crisi, il 23 il PSI si espresse in Parlamento ribadendo –
tramite l’on. Francesco De Martino – il suo appoggio al governo, mettendo
l’accento «più sulla ricerca delle soluzioni che sul giudizio delle
responsabilità». Pur non potendo «omettere […] di esprimere la nostra
solidarietà, come socialisti, con la rivoluzione cubana», né «i numerosi
errori della politica nordamericana che indussero questa giovane
rivoluzione […] a ricercare gli appoggi dove poteva trovarli, cioè verso il
mondo sovietico», né rimarcare infine l’illegalità giuridica del blocco, De
Martino concludeva «augurando che il governo, al quale noi abbiamo dato e
confermiamo il nostro consenso, voglia esprimere […] quelle possibili
iniziative che mirino a porre termine alla attuale grave tensione
internazionale» 61. Fanfani lo giudicò in cuor suo un discorso moderato 62.
Nenni, «l’osservato speciale», rilasciò una dichiarazione abbastanza cauta,
in cui, pur notando che «è assurdo parlare di Cuba come di una minaccia
per la pace […] tale da giustificare le misure annunciate dagli Stati Uniti»,
chiedeva un vertice Kruscev-Kennedy e l’intervento dell’Assemblea
dell’ONU, nell’unico interesse dei popoli e del governo italiano, cioè quello
della pace 63.
Il fatto è che, come spiega bene un’analisi stilata poi dall’ambasciata
americana, la reazione del PSI doveva confrontarsi anche col problema
interno di «prevenire una possibile aperta frattura nel partito tra i favorevoli
al centro-sinistra autonomisti e la minoritaria ma molto chiassosa ala
sinistra, i procomunisti carristi». (Autonomisti e carristi erano gli appellativi
tradizionalmente indicanti le due fazioni interne al PSI: i primi fautori
appunto di una maggiore autonomia rispetto al PCI, i secondi propensi a
giustificare anche i «carri» armati sovietici, come in Ungheria). «Se il PSI
appare essere troppo vicino alla DC e seguire una linea troppo moderata
negli affari internazionali – spiegava a Washington il documento di Via
Veneto – rischia di perdere una pesante proporzione dei voti dei lavoratori a
[beneficio dei] carristi o perfino dei comunisti» 64. Tuttavia al di là delle
equilibriste e calibrate posizioni pubbliche, i socialisti mostrarono la loro
affidabilità e fedeltà al governo attraverso due mosse discrete ma concrete.
La prima: una telefonata di Nenni a Fanfani all’inizio della crisi, in cui
Nenni lo assicurò privatamente che il PSI non gli avrebbe creato problemi,
qualsiasi posizione il governo avesse ritenuto opportuno prendere 65. La
seconda: la mancata partecipazione dei socialisti (salvo eccezioni, come
quella del senatore e scrittore Emilio Lussu) alle manifestazioni organizzate
in quei giorni dai comunisti, isolandone così la mobilitazione. Un punto che
gli americani non mancheranno di rilevare 66.
Certo, la detta pluralità di vedute diffusa a Washington sul punto si
riconfermò anche a proposito della condotta italiana nella CMC, e così ci fu
chi vide il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto. Un documento
governativo, per esempio, il 27 ottobre suggeriva di far presente al nostro
ambasciatore a Washington che «il supporto italiano per gli Stati Uniti nella
crisi cubana è stato uno dei più deboli dei nostri alleati. […] Il presente
sviluppo sfortunatamente conferma una delle principali preoccupazioni che
abbiamo qui riguardo all’apertura a sinistra: che il neutralismo del PSI
avrebbe i suoi effetti sulla posizione del governo italiano in politica
estera» 67. Un’altra analisi lamentava che «in qualsiasi futura crisi mondiale,
l’Italia probabilmente esibirà una solidarietà con noi meno aperta che in
passato, fin tanto che il governo italiano è dipendente da un’alleanza col
PSI» e sebbene altre considerazioni possano rendere ciò un sacrificio
«tollerabile, […] il costo immediato per noi […] dovrebbe essere
riconosciuto come apprezzabile dato che in circostanze meno favorevoli la
posizione italiana di supporto relativamente ‘morbido’ su Cuba avrebbe
potuto incoraggiare un errore di calcolo del Cremlino sulla determinazione
dell’Occidente» 68. Leggendo queste ultime frasi Schlesinger si trovò così in
disaccordo da citarle in un suo proprio «memo» come esempio di
persistente e pregiudiziale rifiuto del centro-sinistra italiano 69.

Quanto a Nenni – che aveva trascorso l’intera settimana della CMC in


clinica per «riposo assoluto» (proprio il 22 gli avevano scoperto due
vertebre fratturate) – il 29 ne esce ed annota nei suoi diari: «[…] intanto
abbiamo vissuto una settimana di passione per la crisi americano-sovietica
su Cuba, [al termine della quale] abbiamo tutti tirato un respiro di sollievo.
Ma è apparso chiaro come in tutto questo Cuba non sia che una pedina in
una lotta fra le grandi potenze» 70. Poi il 4 novembre firma un editoriale
sull’«Avanti!» in cui afferma: nella scorsa settimana «ci venne
rimproverata, sia dalla destra sia dai comunisti – e anche da alcuni
compagni – la prudenza iniziale del nostro atteggiamento. Io invidio la
sicurezza con cui per taluni tutto è sempre risolvibile in un atto aprioristico
di fede, salvo poi andare a sbattere il capo contro una realtà misconosciuta e
sottaciuta, come è avvenuto nel corso della recente crisi». D’altro canto –
prosegue – l’opinione pubblica va messa in guardia dalle «funeste illusioni
e farneticazioni sui miracoli della forza, fiorite come d’incanto dopo la
soluzione della crisi. Non scherziamo! Il blocco decretato il 22 ottobre dagli
Stati Uniti ha portato il mondo sull’orlo della catastrofe»: il loro ricorso
all’ONU, fortunato, lo sarebbe stato ben più se fosse stato compiuto «senza
atti preventivi di guerra i quali potevano provocare l’irreparabile da un
minuto all’altro. [Parimenti,] si loda Kruscev per la sua prudenza, ed è lode
giusta e universale, che sarebbe maggiore se l’Unione Sovietica avesse
evitato l’installazione di basi missilistiche a Cuba. Sembra un giudizio
salomonico ed è invece il giudizio della ragione […]». Adesso, concludeva,
era quantomai urgente concludere tra USA e URSS un accordo generale 71.
Posizioni abbastanza misurate, queste; eppure, così barcamenandosi,
Nenni finì a quanto pare per scontentare entrambi i lati. A Washington
infatti Lister analizza quest’editoriale con un apposito documento,
chiedendosi se sia «soddisfacente dal nostro punto di vista» e rispondendo
«ovviamente no» (neppure «tenendo in considerazione tutte le pressioni,
difficoltà, ecc. che Nenni deve affrontare»). Da Mosca, la «Pravda»
(ovvero: il Cremlino) il 13 novembre pubblica l’articolo Dove va la
leadership di destra dei socialisti italiani?, in cui si condanna «la politica di
Nenni», che «negli anni recenti è consistita in una serie di concessioni
all’anticomunismo e che […] ha perciò inflitto un serio danno alla classe
lavoratrice italiana e alla sua unità d’azione. […] Nella sfera della politica
estera, Nenni sta cercando di sostituire lo slogan del partito socialista sulla
necessità della neutralità dell’Italia, cioè ritiro dalla NATO e liquidazione
delle basi militari americane, con discorsi su una certa ‘equidistanza dai
blocchi’ […]». Ma così facendo, continua la «Pravda», «Nenni segue in
realtà una linea in favore della NATO. […] Nei mesi recenti Nenni ha
apertamente appoggiato l’appartenenza italiana al blocco atlantico. Non è
perciò sorprendente che, attenendosi a questa posizione, Nenni non abbia
avuto nulla da dire a condanna dei recenti passi aggressivi americani verso
Cuba, che minacciavano di porre il mondo sull’orlo d’una catastrofe
termonucleare» 72.
Né meglio andava sul piano interno: critiche alla posizione presa dal PSI
arrivarono da sinistra, da destra, e perfino dall’interno del partito. La
minoranza «carrista» infatti avvertiva crescente disagio nell’allinearsi a
posizioni troppo atlantiche per i loro gusti (ne vedremo tra breve un
esempio in Lelio Basso). In questo contesto, potrebbe non essere una
coincidenza il fatto – emergente da un’informativa riservata della DC – che
il 29 ottobre vari membri dell’ala sinistra del PSI abbiano trascorso l’intera
giornata nella celebre «villa Togliatti» alle Frattocchie, insieme a influenti
membri del PCI, in una riunione presieduta dallo stesso Togliatti. Tra i
socialisti furono avvistati gli on. Luzzatto e Libertini, che difatti circa un
anno dopo si staccheranno dal PSI per fondare il PSIUP, contrario al centro-
sinistra e più vicino al PCI 73. Difficile immaginare che in quella riunione
non sia stato oggetto di discussione critica l’atteggiamento tenuto da Nenni
durante la CMC appena risoltasi.

In ogni caso, però, si trattava ormai di una minoranza. Infatti il PSI,


come emerso dal primo dei memorandum di Schlesinger qui citati, era
ormai arrivato al punto di chiedere spontaneamente assistenza politica
coperta alla Casa Bianca. E l’interesse americano a fornirgliela risultò
evidente anche in occasione della CMC, in almeno due episodi significativi.
Il primo è la richiesta dell’ambasciata USA che foto comprovanti
l’esistenza di missili russi a Cuba vengano immediatamente recapitate a
Nenni, per allontanare i dubbi suoi e del suo partito sull’autenticità dei
motivi alla base delle decisioni americane 74. E, come ci risulta da un altro
documento, le foto in qualche modo arrivarono, seppur da tutt’altra fonte
(un professore dell’UCLA e consulente del Dipartimento della Difesa, di
nome Robert G. Neumann, amico di Nenni, che corrispondendo con lui
aveva colto il forte senso di isolamento da lui avvertito in tal senso e
l’opportunità politica di fargli avere quelle foto) 75.
Il secondo episodio, che lascia quasi l’idea di una sorta di educazione
politica all’opera da parte di Washington verso gli ancora acerbi «scolari»
socialisti, sono i colloqui intrapresi in quelle settimane dal funzionario del
Dipartimento di Stato George Lister con un giovane membro del partito,
allora appena ventottenne ma destinato a un importante futuro: Bettino
Craxi.
Lister lo cita, in un documento indirizzato a Schlesinger, come esempio
«per mostrare che i socialisti sono malleabili», «suscettibili a pressione», e
che «hanno bisogno di sentire la nostra presenza amichevole su base
permanente», giacché altrimenti le quotidiane pressioni del PCI e la
competizione con loro «tendono a rallentare senza motivo o perfino
arrestare del tutto il loro progresso verso le posizioni che noi vogliamo che
essi prendano». Lister ed altri esponenti di Washington sembrano cioè
esercitare in quella fase verso il PSI un ruolo tra l’affettuoso e l’interessato,
un’assistenza politica a metà tra l’aiuto sincero dato per semplice
coincidenza di interessi, la pressione politica e uno svezzarli quasi
paternalistico all’arte del governo democratico. Di certo molti socialisti
sembrano gradire queste attenzioni. È il caso di Craxi,

un autonomista vicino a Bensi all’estrema destra del PSI,


recentemente arrivato qui [in visita in USA]. […] Abbiamo speso
un bel po’ di tempo insieme – scrive Lister – e ho colto l’occasione
per criticare la posizione autonomista in politica estera,
specialmente su Cuba. Ho sottolineato che il neutralismo non era
buono abbastanza. […] Craxi ha risolutamente difeso la linea
ufficiale degli autonomisti, su Cuba e in generale. Tuttavia, il giorno
dopo mi ha detto di aver appena parlato al telefono con i socialisti di
Milano e di aver colto l’occasione per criticare la posizione del PSI
su Cuba. Pochi minuti più tardi Craxi mi ha suggerito che forse
poteva essere possibile arrivare a un ‘accordo’ tra noi e i socialisti,
in cui questi seguirebbero una politica di solidarietà con l’Occidente
e noi cercheremmo di portare un governo democratico in Spagna.
Questa proposta naturalmente era completamente non ufficiale e
improvvisata. Poiché Craxi manifestava grande interesse per la
questione cubana, ho organizzato affinché parlasse col funzionario
incaricato degli affari cubani per oltre un’ora, e ho anche posto io
alcune delle domande che sapevo aveva in mente ma sarebbe stato
restio a sollevare lui, come il fatto se la politica americana su Cuba
fosse stata influenzata o meno dalle grandi compagnie americane
con interessi laggiù. […] Sebbene Craxi ovviamente considerasse di
saperne parecchio sul problema cubano (molti socialisti
ingenuamente credono che siccome sono ‘marxisti’ hanno uno
speciale intuito e comprensione per gli affari mondiali), egli non
aveva neppure realizzato che Castro si era proclamato marxista-
leninista. Dopo che [l’incontro] fu finito Craxi era piuttosto
riflessivo e mi ha fatto notare di aver imparato molto. Ha
spontaneamente affermato che avrebbe visto Nenni al suo ritorno in
Italia e gli avrebbe detto alcune delle cose che aveva imparato e
fornito un po’ del materiale scritto che aveva ricevuto 76.

Non stupirà allora scoprire, in una lettera di poche settimane dopo, che
Craxi – tornato in Italia – abbia scritto a Lister che «i miei amici milanesi,
che avevano indugiato in un romantico filocastrismo, hanno riconsiderato
parecchie posizioni dopo notevole discussione e riflessione» 77.
Analogamente, lo stesso Nenni in una lettera privata del 30 ottobre
ammette che «nella questione di Cuba non siamo stati capaci di individuare
fin dal primo momento che le basi sovietiche erano una violazione
dell’indipendenza cubana e fornivano un pretesto alla eccitata opinione
pubblica americana per soffocare la rivoluzione in ciò che ha di
autenticamente cubano e socialista. E anche ci è caduta tra capo e collo la
decisione di Chruscev di smantellare le basi missilistiche delle quali fino al
giorno prima si era contestata l’esistenza» 78. Analoga autocritica egli
effettuò a metà novembre in un colloquio telefonico con l’ambasciata
americana 79.
«Cominciava così», conclude infatti l’analisi di Nuti, «un processo di
approfondimento e di lenta revisione della politica estera professata dal
partito», destinato poi ad acuirsi ulteriormente nel 1963 80. Tale esibita
disponibilità socialista al riesame delle proprie posizioni, unita alla
disponibilità italiana a ritirare i propri missili (senz’altro utile e gradita alla
Casa Bianca già per come esposta nel telegramma di Reinhardt, anche
prescindendo dalla sopraesposta riservata offerta fanfaniana di ritiro),
fecero pendere la bilancia delle valutazioni USA sulla perfomance del
centro-sinistra durante la CMC in senso positivo, «più di quanto
affermassero le valutazioni ufficiali del Dipartimento di Stato» 81. Test
superato, dunque, tanto che Nuti definisce la CMC «una prova decisiva per
testare la solidità del governo di centrosinistra in Italia», e Di Nolfo parla a
tal proposito addirittura di «slancio definitivo». Lo stesso esito della crisi,
poi, al di là della reazione italiana, apriva una nuovo clima di distensione
internazionale, che incoraggiava aperture 82. La crisi di Cuba ebbe dunque
conseguenze di grande importanza per gli assetti interni dell’Italia,
marcando ed affrettando un importante momento di svolta della sua storia
repubblicana.
Fanfani, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, la DC

Ma come aveva reagito Fanfani allo scoppio della crisi? Egli ne era stato
avvisato con appena poche ore d’anticipo. La sera del 22 ottobre – «alle
20.45», come egli precisa nei suoi diari – l’ambasciatore Reinhardt gli
consegna il testo dell’imminente discorso di JFK con una breve lettera
d’accompagnamento del Presidente stesso.
Già questa circostanza è significativa. Tutti gli alleati di Washington
erano stati solo informati, non consultati, sulle decisioni prese da Kennedy.
Tuttavia, il britannico Macmillan l’aveva saputo già il 21 ottobre, per
primo, e De Gaulle e Adenauer l’avevano saputo nel corso della giornata
del 22, tramite delegazioni speciali inviate a Parigi e Bonn con le foto
comprovanti l’esistenza di missili a Cuba. L’Italia invece fu informata solo
in serata e semplicemente tramite l’ambasciatore. Altri Paesi furono
informati ancora più tardi 83. Ciò (come già l’assenza dell’Italia dal gruppo
consultivo quadripartito d’emergenza 84) fornisce una indiretta quanto
limpida conferma della gerarchia de facto esistente 85 tra gli alleati degli
Stati Uniti.
Fanfani, naturalmente sorpreso e turbato dalle novità comunicategli, si
riserva di rispondere l’indomani e, notata la preoccupazione del latore della
lettera, gli chiede «se non stanno per far scattare una trappola che avrà
possibili gravi ripercussioni a Berlino ed altrove» 86. Si attiva poi per un
immediato giro di telefonate. Il giorno dopo riceve una lettera del premier
britannico Macmillan, «evidentemente critico per le decisioni di Kennedy e
chiedente intesa», alla quale risponde «subito raccomandando azione pro-
pace» 87.
Quella sera espone poi alle Camere la posizione pubblica del governo
italiano sulla crisi, leggendo una dichiarazione accuratamente calibrata:

[…] Nessuno può disconoscere (e certamente non lo disconosce


l’Italia) che il concentrarsi di armi offensive a Cuba accende assai
vive preoccupazioni per il mantenimento della pace non solo nel
mar dei Caraibi e nell’Emisfero Occidentale, ma anche in ogni altra
parte del mondo. […] Proprio nel momento in cui più intensi si
svolgono i dialoghi per il disarmo e per la tregua nucleare, appaiono
contraddittori gli atti rivolti a creare basi ove non esistono, ad
accrescere preoccupazioni ove già ne esistevano abbastanza, ad
aggravare il già troppo incerto equilibrio. […] L’Italia giudica
positivo il fatto che, nel momento in cui grave è risuonato l’allarme,
il governo degli Stati Uniti abbia chiesto all’ONU di decidere un
intervento che, sotto il controllo internazionale, accerti ed elimini le
cause dell’allarme stesso. Questa richiesta apre una strada che può
risolvere in senso pacifico una crisi altrimenti carica di
imprevedibili, gravissime conseguenze. E per questo itinerario, […]
non può naturalmente mancare alla nazione americana alleata la
solidarietà dell’Italia. […] Il governo italiano non si limita ad
esprimere voti, ma ancora una volta si sta già adoperando […] nella
forma più opportuna, tenacemente e fino in fondo. Lo ha fatto il
Presidente del Consiglio con i contatti e gli scritti delle ultime 24
ore, lo ha fatto il ministro degli esteri […] a Bruxelles, lo farà
presso l’ONU il sottosegretario onorevole Russo. […] Quest’opera
è ardua e per riuscire ha bisogno della cooperazione di tutti. […]
Perciò il governo confida che […] tutti tengano un comportamento
responsabile 88.

Era un supporto agli USA solo «timido e indiretto» 89. Come noterà poi
un’analisi del Dipartimento di Stato americano, tra le due affermazioni di
Fanfani che gli USA avevano fatto ricorso all’ONU e che l’Italia non
poteva mancare di mostrarsi solidale con l’alleato, «un implicito ‘quindi’ fu
subito evidente a tutti gli osservatori. […] L’enfasi era sul ricorso all’ONU,
col supporto italiano seguente come per conseguenza» di esso 90. Questa
predilezione italiana per l’ONU, si noti, era tutt’altro che condivisa in
Europa, se si considera lo scetticismo e finanche il disprezzo per le Nazioni
Unite emergente invece dalle reazioni (private) di De Gaulle e Adenauer 91.
La dichiarazione parlamentare di Fanfani suscita subito varie reazioni.
Al Senato, il socialista Lussu commenta che affermare che Cuba minaccia
gli USA sarebbe «come dire che Pantelleria minaccia l’Italia». (Ma a
Pantelleria non ci son missili!, gli ribatte subito un DC). Il comunista
Terracini critica Fanfani, il quale lo interrompe dicendo: «Senatore
Terracini, io spero che lei mi rilegga attentamente dopo, al di fuori del
dibattito parlamentare». Come a dire: guardi che la mia posizione, a
leggerla tra le righe, è meno filoamericana di come le appare 92. Poi parla il
missino Ferretti, che chiede a Fanfani fedeltà atlantica e osserva come sui
muri romani quella notte siano già comparse delle scritte intimanti a tenere
«Giù le mani da Cuba» – ma qualcun altro, sempre prima dell’alba, vi abbia
poi preposto un soggetto a suo avviso più indicato: «URSS» 93. A
Montecitorio, dove Fanfani riferisce poco dopo, interviene per primo il
comunista Ingrao, che – prevedibilmente insoddisfatto dalla dichiarazione
appena letta da Fanfani – gli chiede: «voi approvate o no il blocco
americano contro Cuba? Di fronte a questa violazione patente […] è
necessaria una posizione chiara del nostro governo, senza ambiguità. […]
Dovete dirci qual è la vostra posizione sulle basi che sono nel nostro Paese.
[…] Cuba è un simbolo e al suo popolo mandiamo da qui l’espressione
della solidarietà e l’appoggio di tutti i lavoratori italiani». (E a questo punto
il verbale registra: «i deputati dell’estrema sinistra si levano in piedi e
applaudono a lungo – vivaci proteste a destra – scambio di apostrofi fra i
deputati dell’estrema sinistra e della destra – agitazione – ripetuti richiami
del Presidente») 94. I giornali aggiungono che a quell’applauso comunista e
alle grida di «Viva Cuba» si erano aggiunti vari deputati socialisti (mentre
altri di loro, tra cui De Martino, Greppi e il futuro presidente della
Repubblica Sandro Pertini, erano restati seduti senza applaudire) 95,
provocando grida da destra: «Li vedi i socialisti da che parte sono! I tuoi
alleati!»; «Venduti alla Russia!», e così via 96. Addirittura un paio di deputati
da destra e da sinistra fanno «l’atto di gettarsi contro l’altra parte», frenati
subito dal «solito robusto schieramento dei commessi» 97. Ristabilita
faticosamente la calma, parlano poi il missino Roberti (insoddisfatto dal
«difetto di chiarezza» di Fanfani) e, come già visto, il socialista De Martino
– interrotto, nel momento in cui definisce illegale il blocco, da un nuovo
grido a destra: «Ecco la maggioranza! Ecco il doppio giuoco!».
Repubblicani e liberali approvano la dichiarazione governativa 98.
«Stupefatti» i monarchici, cui «la dichiarazione governativa […] è apparsa
piuttosto l’esposizione del capo di un governo neutralista che non quella
[…] di un governo solidamente legato a patti d’onore e ad alleanze». Un
altro missino lo giudica «atteggiamento equivoco e quasi neutralistico» e,
dopo aver espresso «piena soddisfazione per l’azione militare degli Stati
Uniti» («da troppi mesi gli anticomunisti di tutto il mondo attendevano
dagli Stati Uniti d’America un’azione energica»), fa sapere che «una azione
comunista quale quella minacciata nelle piazze, qualora non trovasse un
deciso contrasto da parte delle autorità di pubblica sicurezza, dovrebbe
essere controbattuta dalla difesa spontanea e civile dei cittadini italiani»,
giacché «il popolo italiano non può tollerare […] la canaglia rossa
impazzare per le strade» 99.
Questo il clima. Il giorno dopo «l’Unità» definirà quello di Fanfani un
«discorso da satellite» 100. Nei suoi diari questi annota però una buona
accoglienza riservata in generale al suo discorso dalla stampa italiana, dal
segretario della DC Moro e dall’ambasciatore francese, nonché le critiche
mossegli dall’agenzia russa TASS e dall’ambasciatore Kozyrev a conferma
che i sovietici lo avevano «interpretato pro-USA» 101. L’ambasciatore
americano infine riporta a Washington il giudizio dei suoi colleghi alla
NATO, secondo i quali «la linea piuttosto equivoca di Fanfani è all’incirca
il meglio che potessimo sperare alla luce delle pressioni interne cui è
soggetto» 102.

Il 24 mattino Fanfani finalmente consegna, privatamente, la sua lettera di


risposta a Kennedy, in cui non gli nasconde le sue forti perplessità:

Signor Presidente, […] l’Italia comprende e sente quali vive


preoccupazioni per il mantenimento della pace […] susciti il
concentrarsi di armi nucleari offensive nell’isola di Cuba. Però
mancherei ad ogni elementare dovere di amicizia se non dicessi […]
che le misure da Lei decise possono fare correre a tutti gravissimi
pericoli.

E qui, si noti, la prima stesura della lettera prevedeva anche un «sono


cariche di impensabili ripercussioni», che proprio il presidente della
Repubblica Segni intervenne a cancellare a penna, giudicandolo
evidentemente troppo critico 103.

Perciò – continua Fanfani – sono stati apprezzati: il ricorso degli


USA all’ONU, che noi appoggeremo; il suo appello diretto al primo
ministro Kruscev; la sua calorosa riconferma di essere disposto a
qualsiasi esame in qualsiasi sede di tutti gli altri gravi problemi che
oggi turbano il malfermo equilibrio su cui poggia l’instabile pace
del mondo.

Evidente qui l’implicazione che quanto non incluso in queste voci, a


cominciare dal blocco, sia stato assai meno apprezzato.

Come ella da tempo ben sa, signor Presidente, fermamente credo


che […] utilizzando in primo luogo la sede dell’ONU e giungendo
ad una discussione esauriente ed anche diretta tra Lei ed il signor
Kruscev, è possibile, con un costruttivo esame globale di tutti i
problemi oggi aperti, far passare il mondo dall’attuale gravissima
tensione all’inizio di una nuova fase di tranquillità. Ormai il mondo
è a tal punto che il procedere per successivi esami o parziali
componimenti di singole questioni serve a poco. Occorre giungere
con coraggio e determinazione ad un esame globale di tutti i
problemi esistenti. […] Siamo giunti ai giorni in cui – come Ella
disse eloquentemente – si decide se il mondo deve andare distrutto
od iniziare un’era di millenaria pace. Chi come Lei – signor
Presidente – ha intuito felicemente il senso critico di questa nostra
età, deve adoperarsi per far compiere la svolta decisiva al corso
degli avvenimenti. Epperciò s’impongono ora: estrema prudenza
nell’esercizio delle misure per Cuba, che Ella ha creduto di
prendere; valorizzazione a fondo della sede dell’ONU per uscire il
più rapidamente possibile dal grave momento […]; pronto
passaggio ad un costruttivo esame globale. […] Che Iddio ed il
consiglio di sinceri amici della Sua persona e del Suo Paese
L’assistano, signor Presidente, in questo momento decisivo per tutti.
Tra gli amici che Le sono vicini, auspicando il Suo pieno successo
nelle opere di pace e di difesa della libertà, si conferma
cordialmente il Suo devotissimo Amintore Fanfani 104.

Un sommario di questa riservata lettera, Fanfani volle fornirlo, per


conoscenza, anche a Londra e perfino a Mosca (tramite i rispettivi
ambasciatori): un gesto confidenziale che entrambi i governi non
mancarono di apprezzare 105, tanto più Mosca, che dell’Italia non era alleato.
Gennaio 1963. Fanfani alla Casa Bianca con Kennedy. In quell’occasione i due definiscono anche il
ritiro degli Jupiter dall’Italia.

Valutando la reazione di Fanfani (inclusa questa sua disponibilità a farla


conoscere a Mosca e Londra), ci si domanda se il supporto parziale e
indiretto dato agli USA non provenisse anzitutto da sue convinzioni
personali, prima che dalla necessità politica di non alienarsi i socialisti nella
fase nascente del centro-sinistra come invece dedussero all’epoca gli
analisti americani e inglesi 106. Documenti, condotta e temperamento di
Fanfani inducono cioè a pensare che le perplessità verso l’azione americana
fossero anzitutto sue. Non vi è traccia, nei suoi diari e nelle sue carte, di
posizioni esposte controvoglia, di accenni a necessità politiche,
recriminazioni contro i socialisti, o simili.
Nei giorni successivi Fanfani effettuò poi le mosse riservate di cui s’è
già detto: forse offrendo segretamente la rimozione degli Jupiter, di sicuro
esortando ripetutamente (e molto più di altri governi europei) a perseguire
una soluzione diplomatica in seno alle Nazioni Unite 107.
Complessivamente, perciò, è nel dinamismo diplomatico per la
salvaguardia della pace, non disgiunto da discrezione e da una certa
indipendenza di giudizio nel far presente le proprie perplessità anche in un
momento critico al potente alleato, che ci sembra vadano rintracciati i
meriti dell’azione fanfaniana nella crisi di Cuba.
Non così la pensava il presidente della Repubblica Antonio Segni, che
anzi – come rivela un rapporto della CIA di recente declassificazione – alla
fine del 1962 confidò ad una fonte dell’intelligence americana quel che
davvero pensava di Fanfani. Il suo è un vero e proprio sfogo.

Segni – riporta la fonte CIA – ha detto di deplorare la crescente


assenza dell’Italia dalla scena internazionale mentre si verificavano
eventi di grande importanza. Mentre Francia, Germania Ovest, Gran
Bretagna e Stati Uniti hanno leader forti, l’Italia è guidata da un
uomo, Amintore Fanfani, la cui mancanza di coraggio e il cui
atteggiamento ambiguo la sta allontanando dai suoi alleati verso un
irrealistico e pericoloso neutralismo del genere patrocinato
dall’amico utopista di Fanfani, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
Un esempio tipico dell’inaffidabilità di Fanfani fu la sua
dichiarazione all’apice della crisi cubana in cui egli ha detto
meramente che l’Italia appoggiava la posizione che il problema
dovesse essere rimesso alle Nazioni Unite. Sebbene in termini di
legge Fanfani fosse libero di rilasciare una tale dichiarazione senza
verificarla prima col presidente della Repubblica, cortesia e senso
comune richiedevano certamente che egli si consultasse con Segni.
Che Fanfani non l’abbia fatto mostrava che egli sapeva bene che
Segni non avrebbe approvato una dichiarazione così debole in un
momento così cruciale 108.

Critico risultava pure il rapporto d’analisi interna della DC, compilato


per la segreteria del partito, sui «riflessi della crisi cubana sulla situazione
politica interna» 109.
Ma soprattutto tali malumori interni risultano confermati dal documento
di analisi stilato da parte statunitense, da cui apprendiamo che la «cautela»
di Fanfani nel reagire alla crisi aveva causato «una semirivolta nel partito
DC», costringendo «la leadership a tenere una riunione del Consiglio
nazionale prima di quando era previsto» e mettendo a dura prova «le abilità
di Moro come mediatore […] per calmare la sollevazione» degli esponenti
di centro e destra del partito, dovuta tra le altre cose alla «natura insipida
dell’atteggiamento del governo sulla crisi cubana» 110. A ciò si aggiunga poi
che un altro documento americano rivela che nei primi giorni della crisi il
democristiano Giuseppe Bettiol (esponente dell’ala destra della DC) aveva
confidato all’ambasciata USA che «al primo segno che il supporto
dell’Italia verso gli USA vacilli a causa del neutralismo del PSI, lui ed altri
conservatori della DC (Scelba, Gonella, Pella), si muoverebbero per silurare
il governo [would move to torpedo government]» 111. L’eventualità di una
crisi di governo causata dalla CMC, infatti, era stata ventilata in quei giorni
perfino in ambienti diplomatici 112. Alla luce di simili malumori, intenti e
manovre frondiste, non può sorprendere che in un documento inviato a
Washington da Via Veneto qualche settimana dopo, Fanfani venga definito
con un certo stupore «quest’uomo che ha così tanti nemici perfino nel suo
stesso partito» 113. Né che, di lì a pochi mesi (giugno 1963), il successivo
governo DC venga affidato ad altri.
Il PCI, Togliatti, i sindacati

A Botteghe Oscure il bilancio della settimana della CMC non era più
allegro. Le mobilitazioni di piazza erano state al di sotto delle attese (o
«d’avanguardia», secondo l’eufemismo usato nel rapporto interno del
PCI 114): e ciò non solo per la partecipazione ristretta e perché la sperata
unità d’azione internazionalista coi socialisti non si era attuata neanche in
piazza, ma perché gli stessi vertici del partito, colti di sorpresa e confusi sul
da farsi, avevano finito per tenere un atteggiamento indeciso. Ciò era
dovuto anche alla condotta poco chiara di Mosca, come lamentarono gli
stessi Togliatti, Alicata, Cossutta e Berlinguer in una «lunghissima e
intensissima» 115 riunione di direzione del partito, tenutasi il 31 ottobre. Si
era registrata inoltre una netta spaccatura interna, tra chi lodava l’URSS per
aver salvato la pace mondiale e chi invece avrebbe preferito portare avanti
la prova di forza per non dar l’impressione di debolezza e di abbandonare la
rivoluzione cubana. Togliatti le definì «due posizioni contrastanti e
paralizzanti». Pur essendo preoccupato per il «malcontento dei dirigenti
cubani» (cioè di Castro), raccomandò ai suoi di «evitare le discussioni nel
partito su questo o quell’episodio», e chiese di verificare «concretamente le
zone di passività che vi sono state nel partito» per la mancata mobilitazione,
inferiore a quella avutasi l’anno prima per la Baia dei Porci 116.
Anche l’ambasciata americana non mancò di notarlo. «Un aspetto che
colpisce della reazione italiana al problema cubano», riportarono da Via
Veneto il 26 ottobre, «è che ancora oggi […] non c’è stata alcuna – ripeto
alcuna – notevole manifestazione comunista, né a Roma né da nessuna
parte in Italia. […] Questa relativa tranquillità comunista sta suscitando
crescenti commenti nei circoli non comunisti» 117. In realtà qualche
manifestazione poi ci fu; ma complessivamente assai minori che in altri
Paesi e di quanto la gravità delle circostanze potesse suggerire. La
mutevolezza della situazione, la mancanza di riferimenti chiari sulle
intenzioni di Kruscev, il timore di risultare politicamente isolati (e infine
forse anche la prevedibile accusa di ipocrisia, per il fatto di marciare contro
l’azione militare USA ma non contro quella – contemporaneamente in
corso – della Cina maoista contro l’India), furono i principali elementi che
spiegano ciò che il Dipartimento di Stato USA chiamò «la riluttanza dei
comunisti a tradurre i loro attacchi isterici sulla stampa contro sia gli USA
sia il governo Fanfani in manifestazioni estese» 118.
Lo stesso Togliatti, al di là di quanto scrisse su «Rinascita» in sostegno
dell’URSS 119, era in realtà assai perplesso sulle mosse di Mosca. Il
retroscena emerge (più ancora che dalla riunione del 31 ottobre 120) dalle
cronache di Luciano Barca, allora membro della segreteria nazionale del
partito. Questi, dopo aver annotato il 24 ottobre: «viviamo giorni
drammatici nei quali la pace appare veramente in pericolo», il 29 scrive sul
suo taccuino:

L’URSS è uscita indebolita, non solo sul piano dei rapporti tra Stati,
dalla forzatura compiuta col tentativo di installare missili a Cuba e
dal dietrofront imposto dal rischio reale di una guerra nucleare.
Togliatti appoggia ufficialmente l’URSS e ‘l’atto di saggezza’
compiuto in extremis con l’inversione di rotta delle navi che
trasportavano i missili, ma in segreteria è duramente critico verso
l’avventurismo di certi comportamenti. Il suo giudizio su Kruscev
diviene ancora più severo. Paragona l’avventurismo dell’operazione
militare a quella del rapporto segreto [quello della clamorosa
denuncia di Stalin, nel 1956] non fondato su una seria analisi e
privo di proposte correttive adeguate agli errori ed orrori
denunciati 121.

Sono giudizi duri, particolarmente rilevanti se si tiene conto della grande


caratura di Togliatti all’interno del movimento comunista internazionale.
Tali opinioni tuttavia restano esclusivamente nelle stanze più interne di
Botteghe Oscure, ed anzi Togliatti in quelle settimane si schiererà
nettamente dalla parte di Mosca, nel duro conflitto ideologico che la sta
opponendo alla Cina – e che si inasprisce in modo definitivo proprio a
causa della CMC. I dirigenti maoisti infatti accusano senza mezzi termini
Kruscev di aver «capitolato» di fronte alle minacce degli imperialisti
americani, concludendo una nuova vergognosa «Monaco» alle spese di
Cuba (come si vede, quest’analogia storica era cara ai fautori della linea
dura di entrambi i blocchi) 122. Togliatti confuta con forza queste accuse
oltranziste nel suo intervento al X Congresso del PCI. «È merito», egli
afferma tra gli applausi, «e non colpa, dei dirigenti sovietici, non aver
perduto il sangue freddo. […] Come si fa a stabilire una analogia tra la
politica sovietica nella crisi dei Caraibi e la capitolazione davanti a Hitler
alla conferenza di Monaco? A Monaco venne distrutta l’indipendenza di un
popolo, la Cecoslovacchia. Nella crisi dei Caraibi l’indipendenza di Cuba è
stata difesa e garantita» 123. La sua difesa dell’agire del Cremlino raccoglie
applausi dai delegati dei partiti comunisti di tutto il mondo, lì presenti – ad
eccezione di quelli cinesi, che rimangono ostentatamente seduti e silenti 124.

Manifestanti per Cuba, immortalati dal settimanale del PCI. («Vie Nuove», 1° novembre 1962.)

A proposito del PCI resta da dire che la mobilitazione fallì in particolare


presso la classe operaia, mentre trovò più seguito, come vedremo, fra
studenti e intellettuali 125.
Quanto infine ai sindacati, essi adottarono posizioni differenti tra loro e
restarono nel complesso abbastanza defilati. Solo la CGIL (d’area
socialista-comunista) si espresse chiaramente contro il blocco americano e
fu promotrice di varie delle manifestazioni di quei giorni 126. La CISL
(d’area cattolica) appoggiò fedelmente la posizione del governo Fanfani e la
UIL (d’area social-democratica) si limitò ad appoggiare gli USA dalle
colonne del proprio settimanale 127.
Una delle scritte comparse sui muri italiani allo scoppio della crisi (qui, un muro del quartiere
romano Tiburtino III). («l’Unità», 23 ottobre 1962, p. 3 128.)
La reazione italiana vista da Londra e dal Cremlino

Dopo aver presentato le valutazioni degli Stati Uniti in merito al


comportamento del governo italiano durante la CMC, è utile completare il
quadro illustrando anche, sia pur in sintesi, le valutazioni tratte dalle altre
due potenze atomiche dell’epoca: quella britannica e quella sovietica.
Fin dall’inizio della crisi, Fanfani cercò di rimanere in stretto contatto
con Londra, assai più che con tutti gli altri alleati europei 129. Le relazioni
italobritanniche stavano attraversando allora un momento di particolare
vicinanza 130, tanto più in vista della condivisa diffidenza per l’informale
asse europeo franco-tedesco 131. La stessa riservata offerta italiana agli USA
di ritiro degli Jupiter può apparire per certi versi parallela a quella avanzata
telefonicamente da Macmillan a Kennedy sempre la sera del 26 riguardo ai
suoi Thor 132, sia nell’oggetto sia nella volontà di mediare che ne ne era alla
base, sebbene risulti molto difficile pensare che le due proposte fossero
state concordate, dato il loro carattere di segretezza.
Pur in questo quadro di vicinanza, però, Macmillan nei suoi diari definì
la reazione italiana alla crisi «windy» (ampollosa, verbosamente vuota) 133, e
l’ambasciatore britannico a Roma giudicò con severità la prova di
affidabilità fornita dal centro-sinistra italiano. «La crisi di Cuba ha portato
alla ribalta le differenze esistenti in politica estera» tra PSI e partiti di
governo. L’influenza dei socialisti «ha condotto fin qui ad una certa
moderazione nelle parole, sebbene non nelle azioni» del governo italiano 134.
Tuttavia, «la crisi di Cuba si è conclusa così in fretta […] che a stento ha
fornito un vero test» 135. «Nell’eventualità di una crisi più prolungata in
un’area più vicina a casa, per esempio Berlino, il governo potrebbe trovare
difficoltà ad adottare una linea dura senza rinunciare all’appoggio
socialista» 136, il che secondo l’ambasciatore (John Ward) condurrebbe a una
«crisi di governo» e alla formazione di un «governo di centro-destra» 137. Un
rischio che effettivamente si era quasi presentato, come mostra la nuova
documentazione americana qui esposta, tra i malumori dei più alti vertici
istituzionali e i propositi di «silurare il governo».
La valutazione risultò più positiva a Mosca (il che naturalmente, ove
fosse stato noto, sarebbe andato a ulteriore discapito politico di Fanfani!).
Al di là infatti delle dichiarazioni critiche di prammatica, sottolineate da
Fanfani nei suoi diari, documenti sia italiani 138 sia sovietici recentemente
emersi mostrano che, di fatto, al Cremlino la posizione tenuta dall’Italia
nella CMC fu giudicata «leale […] e attenta alle ragioni di Mosca». Essa
risultò ai sovietici conforme alla linea fanfaniana che era stata loro esposta
da Giorgio La Pira: improntata cioè (citiamo qui direttamente il documento
russo) a un «attivo neutralismo che non prevedeva il distacco
dall’Occidente, affidava piuttosto alla Penisola il ruolo di ponte tra i due
mondi». Il Ministero degli Esteri sovietico concludeva perciò che in caso di
future crisi internazionali si sarebbe dovuto tenere in maggior conto l’Italia.
Lo stesso Kruscev in novembre confidò all’ambasciatore italiano a Mosca
di «comprendere la situazione in cui si trovava Roma e di considerare
sensato l’atteggiamento assunto durante la crisi caraibica» (così lo riassume
Salacone, lo studioso italiano che ha avuto accesso a tali documenti). Pochi
giorni prima, del resto, perfino un esponente del PCI, Rodolfo Mechini,
aveva fatto notare privatamente all’ambasciata sovietica che nella crisi «il
governo italiano si era comportato con discrezione, sebbene avesse
appoggiato gli americani». Infine, l’11 dicembre anche l’influente membro
del Presidium sovietico Frol Kozlov, in un incontro avuto con Fanfani, lo
ringraziò per il comportamento tenuto dall’Italia durante la crisi 139.
Quest’importante colloquio riaffiora anche dai diari del leader aretino.
Kozlov, annota Fanfani, «mi dice d’esser stato a Pompei, e gli scavi lo
hanno molto impressionato, facendogli immaginare cosa sarebbe divenuto il
mondo se il 28 ottobre fosse scoppiata la guerra nucleare per Cuba.
Riconosce che solo la saggezza di Kruscev e di Kennedy hanno evitato
l’abisso, due volte molto vicino». Un’ennesima conferma di quanto la paura
sia stata palpabile anche al Cremlino. I due discutono poi delle basi italiane:
«Mi dice che nel documento a Kennedy per Cuba c’era in un primo tempo
anche la richiesta di ritirare le basi missilistiche dall’Italia. Poi, discutendo
nel governo sovietico, prevalse l’idea di avere riguardo all’Italia nel ricordo
della mia visita [in URSS dell’agosto 1961]». L’argomentazione, per quanto
possa aver lusingato Fanfani, appare poco verosimile. Se veramente al
Cremlino in quelle ore si discusse delle basi italiane (giacché Kozlov, da
abile politico, potrebbe anche averlo menzionato solo per sondare
l’interlocutore sull’argomento), è difficile credere che poi si rinunciò a
chiederne il ritiro per ragioni di riguardo verso Fanfani. «Replico che ero
sicuro in quei giorni che non avrebbero tirato in ballo le basi italiane, per
riservarsene la discussione in un eventuale trattato tra NATO e Patto di
Varsavia. Dice che è un buon argomento» 140. Si spinge più in là il resoconto
sovietico di queste stesse battute: il documento russo sul colloquio annota
infatti che Fanfani «indusse Mosca a sperare che le basi americane in Italia
sarebbero state liquidate al più presto» 141. Il che andrebbe a conferma
dell’esistenza della mossa fanfaniana sopra ricostruita, ricollegandosi
all’approvazione americana al ritiro delle basi incassata da Bernabei alla
Casa Bianca, che avrebbe messo Fanfani nella posizione di poter far
trapelare a Kozlov indiscrezioni in merito, già alcuni giorni prima che
McNamara ne parlasse per la prima volta ad Andreotti a Parigi.
Due peculiarità della reazione politica italiana

Come il lettore avrà già avuto modo di capire da alcuni dei documenti
sopra presentati, emerge come caratteristica peculiare della reazione italiana
alla CMC una tendenza, del resto storicamente tipica, alla litigiosità, alla
riduzione di una gravissima crisi internazionale a mera occasione di
polemica interna. Da ambo le parti, cioè, spesso la si vide come
un’occasione d’oro per dar sfogo alle proprie rivalità partitiche. Che in ciò
si celasse anche una maniera inconsapevole dell’italiano di reagire, di
allontanare quelle ansie di guerra nucleare? Una sorta di «litiga che ti
passa»? Sarebbe una spiegazione perfino consolante. Resta il fatto che dalla
stampa e dai dibattiti parlamentari emerge chiaramente un largo uso
dell’evento storico in corso come semplice opportunità polemica per
rafforzare i propri ranghi o indebolire quelli dell’avversario, trovare
conferma alle tesi della propria bandiera o mettere in ridicolo quelle delle
bandiere altrui. Anche in quest’occasione, insomma, l’Italia pare
confermare il suo carattere di Paese storicamente litigioso e intrinsecamente
diviso. Difatti nell’analizzare le reazioni di altre nazioni (per esempio la
Gran Bretagna) abbiamo riscontrato anche lì nette diversità di opinioni,
avvertendovi però una maggiore coesione ed unità di fondo. E in ogni caso
tali divisioni sono parse riguardare più il succo del problema: l’occhio cioè
appare in quei casi davvero rivolto a Cuba, e non a «Cuba-nella-misura-in-
cui» essa può servire a continuare a segnare punti nelle proprie beghe di
partito o di corrente di partito. Va detto tuttavia che tale litigiosità (che
naturalmente come ogni generalizzazione presentò varie eccezioni) era
allora aggravata anche dalla generale spaccatura ideologica della guerra
fredda, nonché dalla presenza in Italia del Partito comunista più forte e
vitale dell’intera Europa occidentale. Tre fattori, dunque: uno che diremmo
storicamente cronico, se non antropologico; due, invece, più contingenti.
C’è poi un altro aspetto sul quale può essere interessante riflettere. In
quei giorni le manifestazioni per la pace furono promosse in area PCI
(seppure spesso sotto l’egida del sindacato di riferimento – la CGIL – o di
sigle affini come il Comitato di solidarietà per Cuba): molto altro, di fatto,
non vi fu. Ciò sembra confermare come l’espressione di istanze di pace,
diffuse tra la gente ben oltre i confini di un singolo partito, operasse in
quella fase storica quasi in una sorta di monopolio propagandistico
comunista, sicché i cittadini che non volessero scendere in piazza sotto
l’egida del PCI o affiliati non avevano di fatto alternative per manifestare la
propria volontà politica di pace. Giusto la Chiesa giovannea in quegli anni
cominciava a riappropriarsi di un tema universale che per molto tempo era
stato lasciato ad appannaggio d’una singola ideologia politica. Eppure
ancora nel 1962 simili istanze spesso non avevano altro spazio
d’espressione che l’ombrello, grande ma non per tutti adeguato, del
movimento comunista. Tale confusione – che rischiava di divenire
identificazione univoca – tra il tema universale della pace e una singola
ideologia politica derivava certo, di nuovo, anche dalla generale forte
bipolarità del confronto ideologico internazionale allora in corso; ed era poi
ben sfruttata ed alimentata dalla propaganda comunista (che – non solo in
Italia – era naturalmente ben contenta di poter raccogliere tra le proprie file
anche istanze di diversa provenienza: non a caso il PCI, per favorire
l’intercettazione di tali segmenti di opinione pubblica, presentò le
manifestazioni di quei giorni come mobilitazioni «per la pace» o «per la
libertà di Cuba», e non per il socialismo o, meno che mai, per l’URSS) 142.
Eppure tale situazione di confusione, per quanto non solo italiana, in talune
altre nazioni appariva minore: già meglio, per esempio, sembrava andare in
Gran Bretagna, dove esisteva il CND (Campaign for Nuclear
Disarmament), che, per quanto lo si potesse considerare tendente a sinistra,
era piuttosto una lobby: altra cosa, cioè, rispetto ad un partito politico.
Il Black Saturday italiano

Quello che negli Stati Uniti passerà alla storia come Black Saturday fu
per l’Italia un giorno particolarmente nero. Due uccisioni funestarono infatti
la giornata di sabato 27 ottobre: quella di Enrico Mattei e quella di
Giovanni Ardizzone. Un influente imprenditore e un semplice studente di
medicina; uno a bordo del suo aereo privato, l’altro per le strade d’un
corteo. Due lutti assai diversi ma contemporanei, che, seppur per motivi
differenti, scossero entrambi profondamente il Paese, smorzando il generale
sollievo per la soluzione della crisi, giunta appena poche ore dopo.
Quanto a Mattei, allora presidente dell’ENI e grande artefice della
politica petrolifera italiana, egli morì, com’è noto, a bordo del suo aereo,
precipitato intorno alle 19 sulla campagna pavese in circostanze misteriose
(solo recentemente la giustizia, grazie a nuovi elementi, ha potuto
confermare definitivamente i sospetti di abbattimento doloso, pur restando
ignoti gli esecutori) 143. Per completezza va qui ricordato che, accanto alle
note ipotesi di coinvolgimenti mafiosi e/o americani nella vicenda, lo
storico Nico Perrone ha ipotizzato anche possibili legami con la stessa
CMC, nel senso che il rischio concreto e imminente di guerra potrebbe aver
reso più urgente – o più presentabile, internamente, come necessaria –
l’eliminazione di un soggetto già ritenuto pericoloso per gli equilibri
internazionali dell’Italia 144. Si tratta però solo di un’ipotesi, che oltretutto
nella fattispecie appare un po’ eccessiva.
E veniamo ad Ardizzone, la cui morte diede ulteriore motivo
d’espressione a quella litigiosità che poc’anzi individuavamo come uno dei
tratti caratterizzanti la reazione italiana. Quella sera, nel corso di un corteo
svoltosi a Milano sulla crisi cubana – corteo sostanzialmente pacifico,
benché «non autorizzato», come poi preciserà la stampa conservatrice, nel
senso che esso s’era formato spontaneamente al termine di un comizio
organizzato dalla Camera del Lavoro e dalla CGIL presenziato da alcune
migliaia di persone 145 – un giovane di ventuno anni, manifestante tra gli
altri intorno a piazza del Duomo, restava ucciso, investito a quanto parve da
una camionetta della polizia che compiva veloci «caroselli» per disperdere
la folla. Vari testimoni oculari, tra i manifestanti e tra gli stessi deputati,
confermarono tale dinamica, come risulta dalla stampa dei giorni
successivi 146. Anche altri, tra i manifestanti come tra gli agenti 147, erano
rimasti feriti negli scontri, ma il ragazzo si spegneva in ospedale la sera
stessa. Si chiamava Giovanni Ardizzone. La notizia si diffuse in fretta
scatenando una fortissima ondata di commozione e indignazione. Un
massiccio e sentito sciopero generale si tenne a Milano il successivo lunedì
29. Nelle locali università vennero sospesi lezioni ed esami. Veglie e sit-in
proseguirono per giorni interi nel punto in cui Ardizzone era caduto,
testimoniando il clima, che paradossalmente si faceva più acceso e più cupo
proprio nel momento in cui invece sul piano internazionale la crisi andava
risolvendosi e gli animi rasserenandosi. Oggetto del contendere ora non era
più Cuba o la pace, quanto l’eterno problema d’un uso corretto e misurato
della forza per mantenere l’ordine pubblico. «Assassinato della polizia
borbonica», si leggeva su uno dei cartelli affissi nel luogo in cui il giovane
era stato investito 148. Ma è piuttosto chi crea questo continuo clima di
ribellione che porta la responsabilità morale di quanto successo,
rispondevano alla Camera dai banchi della DC 149. «I fatti di Milano non
sono un incidente. Essi sono soltanto l’ultimo anello di una catena di
eccidi» ribatteva «l’Unità», parlando di «bravacci in divisa a disposizione
dei donrodrighi scelbiani e tambroniani che ancora si annidano nelle
questure italiane» 150. Di «soliti coccodrilli di estrema sinistra» parlò invece
alla Camera il missino Almirante, suscitando subito violenti alterchi in
aula 151. «Finisca una volta per sempre la violenza poliziesca», titolava
l’«Avanti!», definendolo un «problema di civiltà» 152. «La morte di
Ardizzone», replicava «Il Tempo», «non è da imputarsi alla polizia, che ha
fatto a Milano […] il minimo necessario per la tutela dell’ordine, [bensì
alle] falsità [e] menzogne che hanno sollevato o tentato di sollevare le folle
in queste ultime terribili giornate. […] Menzogne e falsità smascherate
proprio ieri non da noi né dagli americani, ma dal loro stesso oracolo […]
Nikita Kruscev in persona» 153. Intanto a Milano proteste contro gli abusi
della polizia venivano firmate da centodieci docenti locali (tra cui Carlo Bo,
Ludovico Geymonat, Cesare Musatti, Remo Cantoni, Mario Dal Pra), i
quali si dicevano «sgomenti e offesi per l’arbitraria violenza che ha reciso la
vita di un nostro condiscepolo». Attraverso il Circolo Turati di Milano
firmavano anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli e il giornalista Eugenio
Scalfari, protestando per «la inutile brutalità della polizia, che ha causato
un’altra vittima in Italia», e invitando Fanfani a prendere provvedimenti
contro «metodi […] indegni di un Paese civile quale l’Italia aspira ad
essere» 154. L’episodio, si tenga presente, va inquadrato nel contesto caldo di
quegli anni, quando erano ancora freschi nella memoria del Paese i cinque
morti avutisi a Reggio Emilia negli scontri con la polizia per i fatti del
luglio 1960 sotto il governo Tambroni 155.
La notizia della morte di Ardizzone finì anche sulla stampa cubana, dove
il quotidiano del partito, «Hoy», gli dedicò subito un’elegia, tra il patriottico
e il propagandistico 156. Un locale istituto di medicina verrà poi intitolato a
suo nome; come pure, nel suo paese natale (Castano Primo), una delle
piazze principali. Intanto però, mentre il ministro dell’Interno Taviani
faceva partire un’inchiesta, la tragedia veniva ulteriormente invelenita dalle
immancabili polemiche politiche legate al fatto che, come spesso avviene,
le spoglie di un martire fanno gola a tanti. Così l’appartenenza politica del
giovane divenne un piccolo caso, quantomeno sui giornali, quando venne
fuori che egli, benché le circostanze dell’uccisione ne facessero supporre
l’appartenenza alla sinistra, risultava invece essersi iscritto nel 1958
nientemeno che all’MSI 157. L’«Unità» dapprima accennò, con abile
vaghezza, che egli «aveva compiuto in questi anni una progressiva
evoluzione nel suo orientamento politico. Partito da posizioni assai distanti
dalle nostre, egli era venuto man mano accostandosi agli ideali della classe
operaia e del socialismo fino ad assumere una posizione di aperta adesione
alla lotta dei lavoratori» 158. Poi aggiunse che non era affatto vero che egli
non avesse posizioni politiche ma anzi, essendo iscritto alla FGCI
(Federazione Giovanile Comunisti Italiani), era «un altro comunista caduto
al suo posto di lotta» 159. Togliatti stesso lo definì poi al congresso del
partito «un giovane compagno [che] ha pagato con la vita la sua devozione
alla causa democratica» 160. Sulla stampa conservatrice, invece, era
naturalmente l’appartenenza alla prima delle due fazioni qui citate ad essere
messa in rilievo, sempre allo scopo di segnare punti contro l’avversario
politico, che a loro dire si sarebbe dimenticato di controllare le reali
convinzioni di colui del quale si appropriava. Ma al di là di quale fosse la
sua ultima posizione politica o il suo numero di tessera più recente,
Ardizzone era, soprattutto e prima di tutto, uno studente universitario di
medicina: cioè a dire, un ragazzo, che aveva perso la vita manifestando per
la pace. Difatti i familiari chiesero espressamente di sottrarre almeno il
momento delle esequie ad ogni polemica e strumentalizzazione partitica,
«per essere lasciati al loro dolore, che è senza bandiere, senza violenze e
senza odio» 161. In realtà qualche mazzo di fiori a firma politica comparve
immancabile anche alla cerimonia (cui erano accorse per omaggiarlo oltre
cinquemila persone) 162; ma forse, a distanza di decenni e di tante
polemiche, l’episodio appare meglio riassunto proprio dal manifesto che la
sua famiglia aveva fatto affiggere il giorno dei funerali per le vie del
paesino di Castano Primo: «Il suo olocausto sia invito alla pace ed alla
fratellanza umana» 163.

A proposito delle manifestazioni milanesi di quei giorni, tuttavia, data la


forte valenza che esse assumono per il contesto storico italiano che stiamo
qui ricostruendo, vanno menzionati almeno altri due testi che da esse
trassero origine e appaiono particolarmente sintomatici di quel clima
storico. Il primo (che riportiamo in nota) è la Ballata per l’Ardizzone,
composta in dialetto milanese dal cantautore Ivan Della Mea, uno dei più
noti esponenti della canzone politica degli anni Sessanta 164.
Il secondo documento è il resoconto che di quegli eventi fece, sulla
rivista «Il contemporaneo», Rossana Rossanda, figura e firma storica del
comunismo italiano come militante e scrittrice. Nel raccontare – in un
italiano ricercato, vivace e imbevuto di terminologia marxista – quel che
vide nella piovosa Milano di quei giorni autunnali, Rossanda fissa su carta
eventi concitati cercando non solo di trarne segnali incoraggianti per la sua
parte, ma di crearne un’epica. Letto oggi, il pezzo appare interessante
soprattutto in quanto restituisce tutto un clima, un ritratto a tinte forti di
certe mentalità e contrapposizioni sociali e ideologiche così caratterizzanti
quegli anni. Resoconto apertamente di parte ed ideologico, questo suo
L’ottobre milanese merita una citazione particolarmente estesa, perché
rappresenta una testimonianza straordinariamente vivida di cosa abbia
significato la guerra fredda in Italia.

[…] scoppia la crisi di Cuba. Come un pezzo di cristallo, questa


sfaccetta tutti i dati del discorso politico che veniva maturando. [Il
22, non appena si apprende di un imminente discorso di Kennedy], i
comunisti sono mobilitati la stessa sera; tutte le Segreterie si
riuniscono a mezzanotte; dopo due ore la città è piena di scritte e
dopo sei ore centocinquantamila volantini sono davanti alle
fabbriche. La sera […] già sono partiti i telegrammi di protesta; più
facili nelle prime ore. Un corteo di ragazzi e intellettuali va al
Consolato americano, barricato da uno schieramento di camionette
[…]. Ma il Consolato è periferico e a Milano per tradizione la
politica si fa in piazza. Eccoli verso il Duomo. Qui finiscono quelle
che nei mesi precedenti parevano essere ancora, da parte del
governo, le regole del giuoco. La polizia si scaraventa sul corteo e
lo disperde; questo si riforma, viene aggredito di nuovo. Le strade
del centro restano cosparse di cartelli rotti. Qualche giovane
previdente ha portato il gesso e scrive sui fanali, sulle auto, per
terra, scritte che non si possono rompere e che i netturbini di
sentimenti democratici risparmieranno il giorno dopo. È il martedì
23 ottobre. Mercoledì i movimenti giovanili, uniti, tornano in
piazza. Le jeep della polizia aspettano a raggiera davanti al Duomo;
partono a tutta velocità sul corteo; la questura ha fatto venire da
Padova il ‘secondo celere’, noto in casa propria come ‘quello dei
picchiatori’. Piazza del Duomo diventa una gincana […] C’è nella
lotta un momento tutto giovanile, una punta d’ironia più forte della
stupidità della reazione. ‘Ancora i pirati nel mar dei Caraibi?’
chiedono i cartelli. […] Quella sera ne arrestano ottantasette. I
poliziotti scendono dalle camionette e pestano i ragazzi; alcuni
giovanissimi, esili come avviene nel passaggio dall’infanzia
all’adolescenza. […] Non sono più manifestazioni; è guerra della
polizia contro un’avanguardia inerme. […] Inerme, anche, perché
abbastanza sola.

Affiora qui la delusione per la scarsa consistenza delle manifestazioni di


quei giorni.

Qui sta l’altra faccia dell’ottobre milanese. Fra alcuni intellettuali, al


primo moto di solidarietà con Cuba, segue – forse anche per
l’atteggiamento equidistante della stampa socialista – un dubbio.
Quel che era semplice nella scelta contro Franco, già meno semplice
nella solidarietà per l’Algeria contro la Francia colonialista, si
complica. ‘Tutta la simpatia per Cuba e per la sua causa – ci scrive
uno di loro – ma io non mi sento, con dati così incerti e non
direttamente controllabili, intrecciati per di più a interessi ben più
complicati tra dare e avere (Berlino, eccetera) di denunciare o anche
solo di parlare esplicitamente di aggressione contro Cuba’.

Sostanzialmente quell’intellettuale 165 sospettava che nella faccenda


potesse celarsi una manovra politica del Cremlino.

Colui che ci scrive è un uomo limpido; ma […] la scelta è difficile.


Sono giorni di inquietudine. […] crescono gli interrogativi, nelle
interminabili riunioni tra intellettuali e giovani, interlocutore
l’Unione Sovietica, che sembra essersi presa sulle spalle la
responsabilità del mondo. Se la tattica di Krusciov non riuscirà a
condizionare Kennedy, se i marine sbarcano, l’URSS avrà torto a
far la guerra per Cuba, l’URSS avrà torto ad abbandonare Cuba per
la pace.

Eccole qui, le «due posizioni contrastanti e paralizzanti», lamentate da


Togliatti nella riunione di partito (si veda sopra).

Sono giornate di maturazione delle coscienze, come avviene nelle


svolte brusche della storia. Cuba è il nodo, venuto al pettine, della
politica di coesistenza come momento strategico della rivoluzione
socialista mondiale.

In quest’ultimo accenno affiora già un’interpretazione storica


dell’evento, che poi la storiografia confermerà: la CMC fu effettivamente
nodo e punto di non ritorno rispetto alla scelta di impostare la guerra fredda
sulla coesistenza pacifica piuttosto che sull’inevitabilità dello scontro finale
tra le due ideologie, come invece voleva la linea maoista e guevarista. E
coglie nel segno anche la notazione sulla valenza di quei giorni come
momento di «maturazione delle coscienze», se si ricorda quanto visto anche
negli USA nelle esperienze dei giovani attivisti Gitlin, Hoffmann e Davis.
Così discutendo, prosegue la Rossanda, si forma
la complessa avanguardia della settimana di Cuba. Non più,
inizialmente, di un’avanguardia […]. Questo è il secondo motivo di
riflessione. I manifestini dei Partiti e del Sindacato non sono caduti
nell’indifferenza, ma in uno stato d’animo oscuro, ansioso, di
tensione. [Solo] Qualche fermata al lavoro e qualche ordine del
giorno. Cuba è così lontana? Che cosa l’ha fatta lontana dal
proletariato italiano? […] Perché […] una inquietudine così sorda, e
lenta all’espressione politica diretta?
Essa sfocia a cinque giorni dall’inizio della crisi e al suo culmine.
La Camera del Lavoro indice una manifestazione per sabato 27.
Ancora diluvia; operai, studenti, intellettuali, vengono. […] Quando
si chiude la manifestazione confederale, cui la polizia ha negato
piazza del Duomo, un migliaio di persone o più, sotto la pioggia, va
verso la piazza. È sabato, già buio, Milano piena di gente e lucenti
le vetrine del miracolo; è un corteo pacifico […] La polizia lo
spezza subito […] Dal sagrato del Duomo le camionette saltano sui
manifestanti: […] ognuno si scansa come può, nei portoni, fra le
vetrine. Il corteo si riforma. Un gruppetto raggiunge via Mengoni, e
qui – non più difesi dai portici – i marciapiedi sono invasi dalle
camionette. […] Giovanni Ardizzone rincorso dalla camionetta
contro il muro, sullo spigolo del Credito Italiano, investito,
schiacciato dal fianco al petto, fracassato il fegato, incollato con le
ossa e il sangue alla jeep che lo trascina per qualche metro e, ripresa
la corsa, si volta e gli passerebbe ancora sopra se qualcuno non lo
trascinasse disperatamente via. Non si conoscono le facce di questi
poliziotti, insaccati nei cappotti e nei ‘gipponi’, l’elmo calato fin sul
naso; e tuttavia, nei minuti seguenti, qualche cosa succede. Non tutti
hanno visto, […] ma la notizia corre, e la collera. Pochi minuti
dopo, come nel 1952, le camionette battono la ritirata; la zampata
popolare le ha sfiorate, non più, nonostante che il Corriere della
Sera e la Questura abbiano l’aria di sperare che anche fra le ‘forze
dell’ordine’ in quel momento ci sia scappato il morto. Non altro. E
un gran silenzio; le strade vuotate, lentamente il ritorno all’angolo
di via Mengoni, imbrattato di sangue. Gli ospedali negheranno, fino
alle dieci, di avere accolto un ferito grave; alle nove Ardizzone è già
morto.
[…] La polizia è sparita. […] e per molti giorni […] si terrà al largo.
[…] Lunedì, lo sciopero generale tocca mezzo milione di lavoratori;
i tram fermi, la città chiusa e furente. Sabato, domenica, lunedì,
martedì, mercoledì, giovedì si addensa la gente attorno a via
Mengoni, i fiori e i cartelli; e le bandiere. […] Un operaio anarchico
è stato il primo a issare sulla griglia del Credito Italiano la bandiera
rossa e nera dell’anarchia; ha portato un registro, ed ha firmato:
‘mezzanotte, siamo qui’. Le firme seguono. Per cinque notti, sotto
gli scrosci dell’acqua, restano di guardia gruppi di ragazzi illividiti;
crocchi di fascisti cominciano a ronzare in giro. […] Fra la gente
che si avvicina e domanda e poi non sa staccarsi, ancora Vittorini,
Treccani, Rago, Fortini, Geymonat, Arnaudi, Martini, Spinella,
l’Università, gli intellettuali, gli artisti. Operai e studenti tengono
l’ordine […]; i comunisti e i giovani socialisti sono in mezzo,
organizzano e discutono. Ma di chi sono le altre facce, immobili per
ore? È cambiata la composizione sociale dell’avanguardia;
compatta, espressa da tutti gli strati sociali, fatta soprattutto di
giovani. Noi che da vent’anni conosciamo Milano nei suoi momenti
di tensione, questa volta abbiamo veduto altra gente; e non con noi,
ma fra noi, gente con la quale bisogna ancora cominciare un
discorso politico. […] L’egemonia non è data ma si conquista, e mai
la situazione ci è parsa così aperta […]
Così Milano ha avuto il solo morto della crisi di Cuba 166. […] la
polizia si è incaricata di restituire chiarezza e di annodare
drammaticamente i fili complessi della lotta tra i due sistemi a
livello mondiale al più elementare scontro di classi in Italia. Si è
incaricata, più di tante teorie, di farci capire che la pace è diventata
una parola d’ordine rivoluzionaria. Forse un nuovo
internazionalismo rinasce da qui, dai discorsi […] [fatti] in questi
giorni. […] 167

In queste pagine, alla cronaca dettagliata degli eventi si affianca uno


sforzo di riconduzione a un quadro teorico-ideologico. Celebrato l’attivismo
delle sparute «avanguardie» giovanili, se ne spiega l’esiguità numerica con
uno stato d’animo di inquietudine perplessa, più che di granitiche certezze
su torti e ragioni della crisi in corso: un mood che porta il proletariato ad
attendere gli sviluppi, più che a scendere in piazza. Il finale poi lascia alla
propria parte un segnale d’apertura al futuro, per aver visto attorno al luogo
della veglia di Ardizzone facce nuove con cui poter cominciare un dialogo.
E, immancabilmente, riconduce il tutto alla politica italiana, con una
semplicistica equazione di matrice leninista tra guerra fredda e conflitto di
classe interno (URSS e PCI come paladini del progresso; USA e polizia
italiana come braccio violento della reazione), appropriandosi nuovamente
del tema della pace come una loro parola d’ordine. Se quest’interpretazione
ideologica oggi può apparire datata, meglio ci pare resistere l’aspetto
letterario, cioè la volontà implicita di fare di quell’Ottobre milanese un
grande affresco epico: mosso, e a tinte forti, quasi alla maniera di quel che
poi farà in pittura Guttuso, coi suoi Funerali di Togliatti.
L’offensiva diplomatica di Giorgio La Pira

E veniamo a colui che il presidente Segni, abbiamo visto, definiva


«l’amico utopista di Fanfani»: ovvero il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
Professore di diritto romano, già membro della Costituente, questi era
inquadrabile grossomodo nell’ala sinistra della DC, anche se,
significativamente, del partito non aveva mai voluto diventare membro: «La
mia unica tessera è il battesimo», diceva 168. La Pira infatti era prima di tutto
un fervente cristiano, tanto che ancora oggi è ricordato dai fiorentini come
«il sindaco santo». Laico consacrato (aveva fatto voto di castità e povertà),
egli aveva una fede genuina che ne improntava fortemente non solo la vita,
ma l’azione politica. La cosa, naturalmente, dava adito anche a critiche ed
ironie, soprattutto per un certo tasso di ingenuità con cui egli soleva
guardare gli affari del mondo. Osservava gli avvenimenti quotidiani di
politica internazionale con la Bibbia nel cuore, e ve li incastonava
interpretandoli a suo gradimento. Della storia aveva una visione profetica,
all’interno della quale anche la sua Firenze doveva avere ruolo attivo. Così,
nel suo adoprarsi per raddrizzare le storture del mondo, La Pira non aveva
alcuna remora a scrivere, incontrare, invitare, premiare, rimproverare capi
di Stato delle più lontane nazioni e ideologie: a cominciare da Kruscev, col
quale intrattenne colloqui e corrispondenze personali, ottenendone
imprevedibilmente un rispetto sincero proprio per la schiettezza disarmante
con cui gli si rivolgeva.
Per Kennedy nutriva poi qualcosa di simile a una venerazione (non si
contano gli inviti che recapitò a lui e a Schlesinger a venire in visita a
Firenze) 169. Quanto al Papa (cui pure La Pira amava scrivere spesso,
«filialmente»), perfino questi aveva difficoltà a seguirlo nei suoi voli
pindarici a metà tra politica e profezia biblica. Tanto che nelle agende
personali di Giovanni XXIII abbiamo trovato (accanto ad attestati di stima)
anche frasi come questa: «[…] Notevole infine la esibizione di La Pira,
circa il nuovo compito di Firenze a proposito del Concilio. Che disgrazia!
Così buono e retto: ma così poeta, e fuori dalla realtà…» 170.
Considerata questa sua tendenza all’attivismo internazionale, che il suo
amico sacerdote Ernesto Balducci definirà poi «diplomazia profetica» 171,
non è troppo sorprendente che al momento in cui scoppiò la CMC, La Pira
abbia subito preso penna e calamaio e cercato di darsi da fare. Stupisce però
l’intensità della sua azione: quasi una sorta di «offensiva diplomatica».
Il 24 ottobre La Pira si rivolge all’ONU, indirizzando il seguente
telegramma al segretario U Thant, agli ambasciatori ONU di URSS e USA
(Zorin e Stevenson) e alla delegazione egiziana (membro temporaneo del
Consiglio di Sicurezza):

Popolo fiorentino che habet ieri sera ripreso speranza ascoltando


teatro comunale armonie celebre pianista russo Sviatoslav Richter
est certo che responsabile saggezza ONU di cui oggi ricorre
anniversario fondazione farà superare grave crisi facendo così
spuntare sul mondo non tramonto apocalittico della terra et della
storia ma aurora felice nuova giornata storica di fioritura dei popoli
stop Questo est augurio che popolo di Firenze et specialmente suoi
lavoratori rappresentati dalla commissione interna officine Galileo
associandosi messaggio di pace di Giovanni XXIII e del Concilio
formulano dal fondo del cuore in questa ora pesante del mondo 172.

In questo portare all’attenzione di U Thant, nei giorni più gravi ed


occupati della sua carriera, le armonie di un concerto pianistico e il nome
d’una specifica azienda fiorentina si ritrovano tutti i pregi e limiti
dell’istintività lapiriana 173.

L’indomani (il 25) si rivolge poi direttamente a Kennedy e Kruscev, cui


pone un invito: «In questo momento così pesante di crisi Firenze eleva il
suo vessillo di immensa speranza stop Possa la pace fiorire per sempre su
tutta la terra stop Palazzo Vecchio sarebbe felice di vedere insieme riunite
nel Salone dei Cinquecento le massime guide politiche dell’Oriente e
dell’Occidente stop Un messaggio comune di pace inviato da Firenze al
mondo in questo tempo conciliare di speranza sarebbe davvero come
l’aurora di un nuovo giorno nella storia del mondo stop».
Quest’autocandidatura di Firenze a ospitare un vertice (vertice che Kruscev,
si ricorderà, aveva evocato pubblicamente poche ore prima tramite Russell)
viene ribadita lo stesso giorno in un telegramma analogo a Stevenson
(«Rifiorisce la speranza stop Grazie per quanto ella fa per la pace del
mondo stop Firenze invita le massime guide politiche dell’Occidente e
Oriente a riunirsi in Palazzo Vecchio per inviare al mondo lo annunzio della
pace et della amicizia fra tutti i popoli della terra») 174. Firenze come luogo
di incontro tra «i due K» e l’Italia come «ponte» di mediazione tra Oriente e
Occidente era un’ipotesi che del resto La Pira, d’accordo con Fanfani,
aveva ventilato già in estate, in due riservati colloqui fiorentini con
l’ambasciatore sovietico 175. Ora la propone più esplicitamente, come
«carta» da giocarsi in piena emergenza.
Il giorno dopo, venerdì 26, quando appare chiaro che Kruscev non sta
mandando navi a sfidare il blocco americano, partono nuovi messaggi. Uno
proprio per Kruscev: «Grazie stop L’ora è venuta per aprire definitivamente
ai popoli di tutta la terra come ha detto Giovanni XXIII la porta della pace
et della civiltà stop Firenze prega ed opera senza sosta per questa
avventura». A JFK un telegramma simile («Grazie stop Questa est ora
provvidenziale per aprire finalmente ai popoli di tutta la terra come ha detto
Giovanni XXIII la porta della pace et per far diventare realtà storica quanto
voi diceste nel vostro primo grande messaggio al popolo americano ed al
mondo»). Ringraziamenti anche per U Thant («il popolo fiorentino le dice
grazie et accompagna pregando et sperando sua grande opera
pacificatrice»); messaggi d’incoraggiamento a Zorin («Popolo fiorentino
vede con letizia rifiorire la speranza et la pace») e alla delegazione cubana
all’ONU («Firenze vede con gioia rifiorire la speranza et la pace stop Tutte
le armi siano distrutte et trasformate in aratri et in astronavi per la pace la
elevazione et il progresso dei popoli di tutta la Terra»). Poi naturalmente
scrive al Papa per ringraziarlo del suo solenne appello, in nome del «popolo
di Firenze quasi in rappresentanza popoli di tutte le città et di tutte le
nazioni della terra», aggiungendo che «i popoli confidano in voi et
intuiscono che la pace del mondo porta la autenticazione il nome ed il
sigillo di Giovanni XXIII» 176.
Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira.

Risoltasi poi improvvisamente la crisi, il lunedì La Pira torna a scrivere


per congratularsi. Anzitutto col Papa, cui telegrafa: «Ieri festività di Cristo
Re et quarto anniversario vostra elezione arcobaleno della pace est spuntato
quasi miracolosamente sullo orizzonte tanto tempestoso et abbuiato delle
nazioni stop Osiamo credere che si tratti di un dono di grazia et di amore
che il Signore ha fatto al mondo per festeggiare la Sua regalità et la
ricorrenza della vostra elezione stop» 177. Altri messaggi partono lo stesso
giorno per U Thant, Zorin, Stevenson, delegazione cubana ed egiziana, e
naturalmente per Kruscev e Kennedy. A quest’ultimo addirittura due 178. A
Kruscev: «Grazie stop Con la soluzione pacifica gravissima crisi Cuba può
dirsi che est davvero cominciata la storia di domani stop Una storia
millenaria durante la quale fiorirà su tutta la Terra la benedizione di Dio et
tutti i popoli saranno costituiti in una grande pace et in una grande fraterna
civiltà stop» 179. Si noti l’agio con cui La Pira parla esplicitamente di Dio a
un ateo dichiarato, capo di un’ideologia materialista.
Passano un paio di settimane, e La Pira spedisce al Papa una lunga
lettera in cui espone le proprie riflessioni sui recenti eventi. Abbiamo
trovato la missiva anche tra le carte di Fanfani, il che indica che di alcuni di
quei contatti egli veniva tenuto al corrente:

Beatissimo Padre, […] Perché vi scrivo? Ecco: è passato un mese


(più di un mese) dalla apertura del Concilio: durante questo mese
sono avvenuti fatti di dimensioni davvero immense e ‘paurose’ per
la storia del mondo: durante questo mese la Chiesa è diventata ogni
giorno più ‘la città sul monte’ che tutti i popoli della terra (senza
esclusione alcuna) guardano con fiducia, con amore, con rispetto:
[…]
Basta pensare alla crisi recente di Cuba […] Io sono stato in questi
ultimi tempi [ad inizio novembre] […] in Algeria ed in Israele: ho
visto uomini responsabili di ogni livello (da Ben Bella a Ben
Gurion): ho parlato con tanti: la nota comune? La speranza comune?
Il Concilio, la Chiesa! […] Sogniamo, ci illudiamo? Siamo utopisti?
Ma, Beatissimo Padre, è la realtà che, malgrado tutto, dice queste
cose. […] Quando si è fuori d’Italia queste cose si vedono meglio!
[…] 180.

Accenti simili sono presenti nella lettera di Capodanno 1963:


«Beatissimo Padre […] guardate i fatti di quest’anno! Quali, e quanto ricchi
di speranza! 1) Il Concilio […] 2) ‘Cuba’: il crinale apocalittico raggiunto:
di qua la distruzione della Terra: di là l’edificazione della Pace: la scelta è
avvenuta: non distruggere la Terra, ma edificarla! […] col sigillo di Pietro
(di Giovanni XXIII)» 181.
Ma perché La Pira si attivava tanto? E perché nei suoi telegrammi
parlava così spesso di «popolo fiorentino»? Per convinzioni personali,
certo, ma anche per i molti inviti ad agire che riceveva dalle stesse
componenti della città, le cui tracce si trovano conservate, non a caso,
insieme a quei telegrammi. Alcuni di questi messaggi possono quasi far
sorridere per la loro formulazione, ma rispecchiano un’inquietudine reale
presente tra la gente di Firenze davanti ai paurosi eventi di quei giorni: «I
dipendenti della valigeria ‘Leone’ si sono riuniti in assemblea generale per
esaminare l’attuale situazione mondiale ed hanno unanimemente
riconosciuto che il blocco navale operato dall’America contro l’isola di
Cuba è un atto inconsiderato che può portare conseguenze disastrose per
tutto il mondo. Noi lavoratori […] sappiamo bene che un eventuale scontro
[…] coinvolgerebbe anche la nostra nazione a causa della esistenza di
‘rampe missilistiche’ del nostro territorio […] evitare l’irreparabile […] per
questo ci appelliamo alla vostra personalità […]». O ancora: «Gruppo
Facchini mercato ortofrutticolo Novoli fa voti affinché la S.V. nome
lavoratori fiorentini prenda concrete iniziative difesa pace et tranquillità
mondiali». «Le donne dell’Isolotto, vivamente allarmate dagli eventi […]
chiedono alle autorità competenti di farsi interpreti davanti agli organi di
governo del loro stato d’animo […] rivendicano il diritto alla vita per sé e
per i loro figli […]». «I giovani dei rioni di Monticelli, Legnaia, Isolotto, S.
Frediano, riunitisi stasera in una assemblea […] si rivolgono al Sindaco e al
Presidente della Provincia per richiedere, in nome della città, un loro
urgente e immediato intervento verso il governo italiano e l’ONU per
frenare la corsa alla guerra atomica e salvare la pace nel mondo». Anche i
tranvieri di Firenze, con un «ordine del giorno» dell’ATAF, chiamavano
all’azione esplicitamente il loro sindaco La Pira 182.
Va detto infine che egli ricevette alcune risposte dalle personalità
contattate. Adlai Stevenson, U Thant, il consolato USA a Firenze (per conto
del presidente Kennedy) e il card. Cicognani (per conto del Papa) gli
inviarono tutti qualche breve riga di ringraziamento per il supporto
espresso 183.
Come, dunque, valutare dal punto di vista storico questa sorta di
massiccia offensiva diplomatica via telegrafo? Come compiuta in buona
fede? Senza alcun dubbio. Come politicamente velleitaria e sostanzialmente
ininfluente? Molto probabile. Il suo valore allora (né forse intendeva essere
troppo di più) è piuttosto quello di una testimonianza, politico-morale, in
favore della pace.
A questo va però aggiunto – e non è cosa di poco conto – che, come ci
ha spiegato Bernabei, «La Pira era l’ispiratore generale e profetico delle
iniziative diplomatiche fanfaniane, che egli poi traduceva in pratica
politica» 184. La concretezza politica che mancava a La Pira era cioè fornita
da Fanfani. I due amici inoltre d’abitudine «s’incontravano personalmente
ogni settimana e si telefonavano quasi ogni mattina» 185. Appare dunque
improbabile che dietro le riservate iniziative fanfaniane di quei giorni
(sopra ricostruite) non ci sia stato, accanto all’influenza dell’appello papale,
anche un qualche stimolo telefonico-spirituale del suo zelante amico
fiorentino.
La stampa

La rappresentazione della crisi dei missili di Cuba che emerge dalla


stampa italiana fu fortemente bipolare. Non di rado quasi manichea, con
tutte le conseguenze negative che naturalmente ciò comporta in termini di
semplificazione e distorsione della realtà. In parte tale bipolarità era
inevitabilmente legata alla polarizzazione ideologica della stessa guerra
fredda in atto a livello internazionale ed esercitante ovvi riflessi sul piano
interno; tuttavia forse – anche in ragione di quanto è emerso dall’analisi
della reazione della stampa di altri Paesi (qui non esposti) – non era
impossibile sperare che tale bipolarità risultasse meno marcata.
Analizzando i principali quotidiani italiani delle varie tendenze risulta
infatti come, a seconda della colorazione politica della testata, i medesimi
fatti siano stati presentati in modo assai diverso, negli editoriali di
commento e negli stessi titoli. Leggendo determinate testate, Cuba era
l’eroica piccola isola minacciata dal gigante imperialista con pretesti
inverosimili d’inesistenti missili; leggendone altre, invece, Cuba era lo
sgabello strategico 186 cinicamente scelto da Mosca unicamente per
minacciare di morte l’immacolata America paladina d’Occidente e
sconvolgere una volta di più il precario equilibrio della pace mondiale,
nell’insaziabile desiderio socialista d’espansione mondiale. È evidente che
la verità non poteva trovarsi in questi due estremi.
Qua e là ci furono tuttavia anche dei casi di migliore rappresentazione
delle vicende: articoli efficaci, analisi lucide, commenti un po’ più attenti
alla complessità della realtà.
Il giornalismo italiano è tradizionalmente meno attento alle vicende di
politica estera che non quello di altre nazioni (come sostenuto, per esempio,
da Sergio Romano in uno specifico saggio sul tema) 187. Tuttavia un evento
dell’importanza della crisi di Cuba non poté che riempire i giornali anche
italiani di quei giorni in maniera assai estensiva. Non è questa la sede per
una presentazione con ambizioni di esaustività delle reazioni della stampa a
quegli eventi, anche perché finiremmo per stilare una sorta di rassegna
stampa lunga e dispersiva. Ci limiteremo quindi a riportare qui qualche
esempio di particolare significatività tra i numerosi reperiti nelle principali
testate (quotidiane e periodiche) italiane di quei giorni.

Non si può che iniziare dal «Corriere della Sera», il più noto e autorevole
quotidiano italiano, la cui influenza sul Paese – come ha scritto lo storico
inglese Denis Mack Smith – «è stata spesso rilevantissima, se non altro
perché è letto da quasi tutta la ristretta classe politica. All’occasione, esso
ha contribuito a orientare l’azione dei governi» 188.
La posizione assunta dal «Corriere della Sera» riguardo alla crisi di Cuba
è affidata agli editoriali pubblicati in prima pagina in quei giorni da
Augusto Guerriero e ad altri due senza firma (attribuibili cioè direttamente
alla direzione). Soprattutto in questi ultimi, emerge una posizione schierata
molto nettamente dalla parte degli USA. Il coraggio della pace (titolo
dell’editoriale del 28) si riferisce infatti alla dote mostrata da Washington,
che, con svolta storica, ha «deciso di opporsi a qualsiasi iniziativa
sovietica» che insidi l’Occidente – cosa che non aveva più fatto dalla fine
della presidenza Truman. Opponendosi ai «nemici della pace» (quell’URSS
che «dovunque ha cospirato e cospira»), «l’America vuole restaurare il
diritto e la morale». Il blocco kennediano è dunque «un atto di legittima
difesa contro il colpo alla nuca meditato e organizzato dalla Russia» 189. Due
giorni dopo (il 30), a crisi attenuatasi, un altro editoriale non firmato
annunciava trionfalisticamente che «la prova di forza, alla quale Kennedy e
il popolo americano erano stati obbligati dalla tracotanza e dalla temerarietà
di Kruscev, è stata completamente vinta dall’America». La ritirata di
Kruscev era stata «saggia»; la mobilitazione delle forze cosiddette pacifiste,
«assurda», e «troncata bruscamente e goffamente dal cinismo di Kruscev.
Per il quale l’isterico Castro, il mite filosofo Russell, alcuni gruppi di
intellettuali, le masse popolari sono semplici carte figurate del suo giuoco».
Quanto poi al neutralismo (tra i due blocchi), che in Italia trova echi tra
socialisti e cattolici, esso non solo «non serve la causa della pace», ma
poiché «indebolisce il mondo democratico» è da considerarsi «colpevole».
Tanto per chiarire: «quando in Italia si fa del neutralismo ci si mette
praticamente dall’altra parte: dalla parte del comunismo» 190.
La maggior parte degli editoriali di quei giorni erano stati firmati da
Guerriero, noto anche con lo pseudonimo di Ricciardetto e definito «il
Lippmann italiano» (come il grande columnist americano, di cui abbiamo
già parlato) per l’autorevolezza e chiarezza dei suoi articoli di politica
estera. Di particolare importanza la prima presa di posizione (sua e del
giornale) sulla crisi appena scoppiata, contenuta nel suo editoriale del 24,
Decisione tardiva. Un pezzo che, forse anche per l’estrema ansia delle
prime ore, quelle subito prima dell’entrata in vigore del blocco, appare tra
le righe sorprendentemente critico verso la scelta kennediana – definita non
solo «tardiva» ma «gravissima, per il fatto che, così com’è stata concepita e
annunziata, non lascia a Mosca – e allo stesso governo americano – altra via
che o una umiliante ritirata o una prova di forza». Essa «difficilmente si
giustifica» dal punto di vista del diritto formale (tantomeno ricollegandosi
alla dottrina Monroe, che è «pretesa caduta da un pezzo»), ma solo
«secondo il diritto sostanziale», quello cioè «di difendersi da un pericolo
gravissimo e imminente» quali i missili. La notazione più importante
dell’articolo sta però nella frase d’attacco (semplicissima e categorica,
eppure affatto scontata, a scriverla in quei primi incerti e tesissimi
momenti): «Non scoppierà la guerra. Complicazioni di ogni sorta possono
sorgere; ma non scoppierà la guerra» 191.
Nei giorni successivi poi Guerriero coglie bene che «tutte e due le parti
hanno una gran voglia di trattare» (ma giudica eccessive le precondizioni
poste dagli USA per iniziare tali trattative) 192; riflette sui motivi
dell’iniziativa sovietica (non senza evidenziare alcuni errori di
percezione) 193; e infine commenta l’annuncio di Kruscev di smantellare le
basi, chiedendosi «Perché ha ceduto» e rispondendo che Kruscev aveva
capito che «questa volta l’America faceva terribilmente sul serio» (nello
specifico, bilancia degli armamenti ancora favorevole agli USA, difficile
posizione geografica e ferma brinkmanship di JFK erano stati a suo avviso i
tre fattori decisivi) 194. Un mese dopo infine Guerriero torna a tracciare il
bilancio di quell’«hora de verdad» in cui l’URSS – avendo commesso il
grave errore di «sfidare l’America in casa sua» e su una posta vitale – aveva
«subito una sconfitta senza precedenti nella storia della guerra fredda». Così
a Cuba, «in pochi giorni, il mondo è cambiato. […] L’America ha
acquistato coscienza della sua potenza e la Russia ha acquistato coscienza
dei limiti della sua. […] Non si è combattuto, ma è come se si fosse
combattuto: anzi, come se si fosse combattuta una grande guerra e la Russia
l’avesse perduta» 195.
Dall’altra parte della barricata stava «l’Unità», il quotidiano del PCI,
caso unico in Europa Occidentale di organo di partito largamente diffuso tra
la popolazione 196. Anche qui abbondano toni netti e semplificazioni nel
descrivere le situazioni. Cuba bloccata dalle armate degli Stati Uniti il
titolo a caratteri cubitali che campeggia sulla prima pagina del 23.
«L’imperialismo americano porta il mondo sull’orlo del conflitto – Si levi la
protesta in nome della libertà dei popoli!» completano occhiello e
catenaccio. L’editoriale (A fianco di Cuba!) parla di «misure militari […] di
gravità estrema», la cui «motivazione addotta è semplicemente inaudita».
Una «guerra preventiva […] alle intenzioni presunte». «C’è nel gesto di
Kennedy un puzzo di provocazione deliberata che è impossibile non
avvertire […] un puzzo di tentativo di rivincita che è impossibile negare.
[…] Nessuno crederà mai alla favola secondo cui Cuba minaccerebbe gli
Stati Uniti. Si allarga la convinzione, invece, che gli Stati Uniti siano
incapaci di affrontare i problemi posti dalla rivoluzione cubana con mezzi
politici e non militari». (Si aggiunge poi, del tutto erroneamente, che il
ministro Piccioni sapeva della mossa da settimane: «Perché l’opinione
pubblica italiana è stata tenuta all’oscuro?») 197. Il giorno dopo, sotto
l’enorme titolo Libertà per Cuba, proclama l’URSS, un editoriale a firma
della direzione del PCI chiama alla mobilitazione l’opinione pubblica:

Cittadini, lavoratori, donne e giovani d’Italia! Una minaccia brutale


è in atto contro la pace del mondo. […] Carico di tracotanza e di
violenza, l’imperialismo americano, per affermare la sua volontà di
potenza e di supremazia mondiale, ha spinto ancora una volta il
mondo su un sentiero che può sboccare nella catastrofe d’un
conflitto termonucleare. Le giustificazioni addotte dal governo
americano sono palesemente false e inaccettabili e tali sono state
giudicate dalle più larghe correnti dell’opinione pubblica
internazionale. […] Cittadini, lavoratori, donne e giovani d’Italia! Il
nostro Paese deve dissociare apertamente le proprie responsabilità
da quelle del governo americano. […] Più che mai urgente e
necessaria appare dunque la vigilanza, la mobilitazione, l’iniziativa
combattiva del popolo, l’unità di tutti i democratici, laici e cattolici,
di tutti gli antifascisti, di tutti gli uomini amanti della libertà e della
pace. Salga dal seno profondo della classe operaia e delle masse
popolari una spinta energica e appassionata all’unità e all’azione
[…]. Siano […] alla testa di questa spinta […] i giovani comunisti e
socialisti, che debbono saldare in quest’ora la loro unità […] 198

Nei giorni successivi si ribadisce con forza la falsità del «pretesto»


addotto («il fatto è, e su questo non si insisterà mai abbastanza, che
nessuno, e meno che mai il presidente Kennedy, ha dimostrato che esistano
in territorio cubano basi militari straniere – cosa che invece è data per oro
colato dalla nostra stampa, e purtroppo anche dai nostri governanti, […] e
perfino (seppure non esplicitamente) dal Segretario del Partito socialista»);
si rinnovano le condanne («Ciò che Washington vuole è strangolare Cuba
indipendente e socialista. […] L’Italia rischia di diventare complice, non
passiva ma attiva, del tentativo di strangolamento […] d’un popolo piccolo,
eroico»); si ricordano i rischi (l’Italia può essere «direttamente coinvolta»
in un conflitto mondiale, data la presenza di basi NATO sul suo suolo) 199. Si
criticano la faziosità e la minimizzazione della copertura televisiva e
radiofonica della RAI sugli eventi 200. Il 29 infine il titolo dell’«Unità»
annuncia: «Primo accordo per Cuba – garantita l’indipendenza, ritirate le
basi. L’iniziativa sovietica ha salvato la pace e posto le premesse del
negoziato», commentando che «La fermezza e la calma del popolo e dei
governanti sovietici […] sembra dunque che abbiano avuto ancora una
volta la meglio» 201.

Peggio dell’«Unità» fece «Il Paese» (poi divenuto «Paese Sera»),


quotidiano romano che un rapporto dell’ambasciata USA di quei giorni
definì non senza ragioni «criptocomunista» 202. Toni e accenti usati furono
simili a quelli dell’«Unità» nel descrivere «l’ora che ci vede precariamente
vivi» 203, ma ancora maggiore fu la sicumera nel denunciare l’inesistenza
delle basi nucleari cubane, strillata in prima pagina il 27 come una
definitiva conferma con tanto di prove, col grottesco risultato di vederla
smentire appena poche ore dopo dalle stesse mosse del Cremlino. Truccate
le foto dei missili – Nessuna base di armi ‘H’ esiste a Cuba, titolava infatti
la prima pagina del «Paese» di quel sabato. L’editoriale accanto, umilmente
intitolato La verità, spiegava che «le bugie di Kennedy hanno le gambe
corte», ribadendo che l’URSS non aveva alcun bisogno di installare missili
fuori dai suoi confini semplicemente perché, diversamente dagli USA,
disponeva di «ordigni potentissimi a lunga gittata in grado di colpire
qualsiasi punto sino a quattordicimila chilometri di distanza con
impressionante precisione. […] Queste cose ormai le sanno anche i
bambini» 204. A fianco, un altro articolo assicurava: «Che il governo degli
Stati Uniti abbia diffuso una serie di bugie è ormai un fatto scontato. […]
La situazione sfiora il ridicolo se si pensa che Kennedy e il suo governo
insistono ancora sulle fotografie truccate» 205. Ciò che sfiorò il ridicolo fu
piuttosto il fatto che – appena poche ore dopo aver consegnato alle rotative
e alle edicole «la verità» – i redattori e i lettori del «Paese» dovessero
ascoltarne via radio la solenne smentita contenuta nella lettera in cui
Kruscev proponeva lo scambio tra le basi nucleari turche e quelle cubane,
ammettendone dunque l’esistenza. Il mattino dopo, «Il Paese» presentò
pudicamente quell’offerta con un titolo che differenziava i termini (e la
grandezza dei caratteri): VIA LE BASI DALLA TURCHIA, ritiro delle armi
da Cuba 206, glissando poi abilmente su quanto scritto il giorno prima 207.

«La Discussione», 4 novembre 1962. Il settimanale democristiano ironizza sulla sfacciataggine di


Togliatti nel presentare sulla stampa di partito l’esito della CMC come una grande vittoria sovietica.
«Il Popolo», 28 ottobre 1962. Per il quotidiano della DC Castro è soltanto un fulcro di cui Kruscev
si serve per buttare a mare l’equilibrio internazionale.
«… e un moscerino spaventoso voleva fare di me un sol boccone, grande e grosso come sono…». Lo
Zio Sam statunitense vuol fare credere di esser minacciato dalla piccola Cuba, ma tutto il mondo lo
guarda incredulo. («Il Paese», 25 ottobre 1962.)

In questa situazione di forte bipolarità nella presentazione dei fatti, è


emblematico notare come le due parti si accusassero di distorsione a
vicenda. Da un lato, Togliatti in persona, sul settimanale del PCI
«Rinascita», denuncia che «per una settimana intiera, tutti gli organi di
stampa controllati dalle classi dirigenti del nostro Paese sono stati dedicati a
una campagna rumorosa e vergognosa contro l’Unione Sovietica per la
energica difesa che essa s’è assunta dell’indipendenza cubana» 208; dall’altro
lato, il quotidiano della DC «Il Popolo» il 25 pubblica l’editoriale
Semplicità sospetta, in cui definisce «troppo facili le motivazioni che
accompagnano l’indignazione comunista. […] Se leggiamo ‘l’Unità’ tutto è
semplice e chiaro: un enorme Paese quale gli Stati Uniti attacca un
piccolissimo Paese indifeso quale è Cuba, i missili piazzati dall’Unione
Sovietica sono soltanto strumenti destinati a proteggerla […]; la ragione di
tutto questo: l’odio americano verso un piccolo Paese che ha scrollato di
dosso la dominazione economica statunitense. […] Quanta poca verità si
racchiude in questo semplice quadro emotivo, destinato a commuovere le
masse italiane!» 209.
Con tutta evidenza, le forti distorsioni operate dalla stampa sui due lati
non erano che frutto e specchio della polarizzazione della politica italiana.

Il quotidiano della DC nelle prime pagine di quei giorni pose l’accento


sull’ONU, in ciò «riflettendo le vedute del governo», come sottolineò
l’ambasciatore britannico a Roma in un rapporto per Londra.
Nell’impaginazione delle prime pagine del «Popolo», l’ONU era infatti
presentato – concordemente all’impostazione fanfaniana – come «l’unica
possibile speranza di ridurre la presente tensione» 210.
Il quotidiano del PSI l’«Avanti!» condivise in quei giorni col partito di
cui era organo la necessità di reagire ai fatti in corso assumendo una non
facile posizione mezzana tra due tendenze opposte, presenti come visto sia
ai suoi lati sia nelle proprie stesse file. L’accento, in titoli ed editoriali, fu
dunque messo, più che su attribuzioni di responsabilità per lo scoppio della
crisi, sulla ricerca della pace come unico obiettivo prioritario e sull’ONU
come strumento più adatto a conseguirla. Battersi per la pace, Negoziare è
possibile – Non ci sono altre strade sono alcuni dei titoli da cui meglio
risalta tale indirizzo 211. Prevale la pace fu anche il titolo che il 30 annunciò
la fine della crisi, salutata nell’editoriale come il Trionfo della ragione 212.
Il quotidiano del PSDI ospitò invece un editoriale in cui il segretario del
partito, Giuseppe Saragat (di lì a un paio d’anni presidente della
Repubblica), pur facendo parte della maggioranza di governo condannò
inizialmente il blocco americano per il suo carattere illegale ed eccessivo 213.
Alla fine della crisi Saragat corresse il tiro, con due editoriali in cui
sottolineava «la inalterabile validità dell’alleanza atlantica» e aggiungeva
che «se il mondo in questi giorni ha tremato è perché l’Unione Sovietica ha
cercato di violare la legge suprema degli equilibri» 214. La sua iniziale
contrarietà però non mancò di essere rilevata sia dalla diplomazia
statunitense 215 sia nelle analisi interne della DC 216.
Degna di nota la posizione del quotidiano romano «Il Messaggero», che
il 23 giudica il discorso di Kennedy «fermo e risoluto, come la situazione
richiede […] energico nelle decisioni e pacifico nelle proposte» 217, il 24
definisce «chiara» la posizione assunta in merito dal governo italiano
(combinante fedeltà all’alleato con mobilitazione diplomatica e fiducia
nell’ONU) 218, il 29 saluta la Fine di un incubo (riconoscendo la «saggia
moderazione delle due parti» e «la nobile funzione delle Nazioni Unite,
grande organismo posto al servizio della pace», il cui «prestigio esce
rafforzato») 219 e infine il 30 trova notevolissime parole di elogio per
Kruscev, il quale «con stoicismo sovrumano non solo ha fatto dietrofront
[…] ma ha smentito se stesso», compiendo «un’abiura senza precedenti
dinanzi all’opinione pubblica mondiale: solo un comunista cresciuto
accanto alla vecchia guardia poteva arrivare a tanto spregiudicato
eroismo» 220.
Favorevole all’operato del governo italiano anche il settimanale
«L’Espresso», che, manifestata comprensione per le difficoltà postesi a
Fanfani e lodata la «calma esemplare» mostrata dai leader socialisti,
conclude: «La politica estera […] ha messo alla prova il governo di centro-
sinistra […]. La prova ha avuto un risultato confortante» 221.

Critici invece dell’emergente centro-sinistra e delle ambiguità che il


governo evidenziò nel reagire alla crisi cubana (a loro avviso a causa dei
negativi condizionamenti socialisti) risultano il romano «Il Tempo» e il
fiorentino «La Nazione». A ciò si accompagnava sul piano internazionale
un anticomunismo rigido, che affiora anche dalla formulazione dei loro
titoli di prima pagina di quei giorni. Particolarmente sospettosi verso Mosca
erano quelli del «Tempo»: così quando Kruscev rinuncia a sfidare il blocco
americano pur considerandolo illegale, sul quotidiano romano si titola Le
prime navi sovietiche cambiano rotta, forse per unirsi in un grosso
convoglio; quando pone l’offerta, che lo stesso JFK considerava
ragionevole, dello scambio con le basi turche, si titola Kruscev tenta di
ricattare gli Stati Uniti. Poi, naturalmente, Kruscev rinuncia al suo ricatto e
ritira le armi nucleari da Cuba 222. Analogamente sulla «Nazione»: Mosca
installa i suoi missili a Cuba, l’America risponde col blocco dell’isola (23);
Ritirata (editoriale del 29). Un editoriale della «Nazione» l’abbiamo poi
trovato anche tra le carte relative a Cuba dell’archivio Andreotti, ritagliato e
conservato dal senatore certo non per caso, ma presumibilmente per
condivisione della tesi espressavi. E cioè che il governo Fanfani nella crisi
aveva «finto» di battere le mani alla condotta di Kennedy, «cercando di dare
un suono che a destra sembrasse un applauso e a sinistra un fischio.
Mancanza di coraggio, ipocrisia, equivoco, ambiguità in ogni atto, in ogni
parola, in ogni pensiero; e un continuo miserando destreggiamento tra
istanze e impulsi contraddittori». Ma del resto non si poteva attendere
chiarezza «da un governo che ha un partito socialista e neutralista nella sua
maggioranza» 223.
Critiche del tutto analoghe a queste espressero su «Epoca» Ricciardetto
(pseudonimo del noto commentatore già visto all’opera come Augusto
Guerriero) 224, ed «Il Secolo d’Italia», quotidiano dell’MSI, che in un
editoriale di Giorgio Almirante parlò di «paraneutralismo della
maggioranza fanfaniana» 225. Almirante e «Il Secolo» infatti guardavano,
dichiaratamente, solo all’Italia, «unità di misura di tutti i nostri pensieri»,
«nel gran bailamme internazionale […] la sola cosa che c’interessa» 226. Lo
si notava già dal titolo decisamente «italocentrico» scelto per la prima
pagina del 24, nel giorno forse più teso della grave crisi internazionale:
Solidale tutto l’Occidente con gli USA, in imbarazzo il centro-sinistra in
Italia 227. (Titolo, questo, su cui l’indomani ironizzerà l’«Avanti!»,
nell’articolo Meglio la guerra che il centro-sinistra!) 228 Finita la crisi, «Il
Secolo» ne trasse poi la lezione dello stand firm, la stessa già vista negli
USA 229; aggiungendovi però, alla fine, un’applicazione di quel principio
anche all’Italia, in chiave anticentro-sinistra 230. Il che rappresenta non solo
un altro esempio della diffusa abitudine di ridurre anche i più grandi eventi
internazionali a strumento di politica interna, ma pure un esempio di
ricezione della CMC caratterizzata al tempo stesso da tratti internazionali
comuni e da colorazioni locali.
La lezione dello stand firm, ad ogni modo, non era affatto condivisa dal
governo italiano. Quest’ultimo, anzi, analogamente a quanto stava facendo
oltreoceano l’amministrazione Kennedy, si preoccupò di consigliare
privatamente ai media nazionali di non indulgere in spacconate sulla ritirata
di Mosca. Questo retroscena, che emerge da un rapporto dell’ambasciata
americana 231, costituisce una conferma dei tentativi – in certa misura anche
comprensibili – messi in atto dai vari governi per orientare la percezione
pubblica della crisi, attraverso indicazioni informali date ai responsabili dei
media di riferimento, lasciandoli poi evidentemente liberi di accoglierle o
rifiutarle 232.
Sulla crisi intervenne anche lo storico ed editorialista Luigi Salvatorelli,
sul torinese «La Stampa», quotidiano di riferimento della FIAT.
Nell’editoriale in prima pagina il 25 ottobre, intitolato La vera questione, lo
storico coglie subito la reale posta in gioco della crisi nell’intromissione di
un potere nucleare esterno nell’emisfero americano, più che
nell’indipendenza di Cuba – che pure egli non esclude poter essere
effettivamente in pericolo 233. Definisce «relativamente moderata» la prima
dichiarazione sovietica in risposta al discorso di Kennedy, notando che di
fatto «non impugna le affermazioni americane» sulla presenza di missili, e
poi ipotizza i termini di un possibile compromesso tra le parti 234.
L’editoriale di Salvatorelli si ritrova menzionato, per autorevolezza ed
influenza, anche nel rapporto di sintesi stilato a Washington sulle reazioni
alla crisi dei vari Paesi dell’Europa Occidentale 235.

Della crisi cubana scrisse infine anche Indro Montanelli. Considerato


oggi il più grande giornalista italiano del Novecento e divenuto una sorta di
icona del giornalismo stesso, Montanelli il 25 ottobre dedica la terza pagina,
che il «Corriere della Sera» gli metteva settimanalmente a disposizione per
presentare profili dei «Protagonisti», a tratteggiare il ritratto di Fidel Castro.
L’immagine che ne offre è tanto chiara quanto severa.

Forse l’aspetto più angoscioso dell’angosciosa crisi in cui l’umanità


si trova coinvolta è che a causarla sia bastato un Fidel Castro. Non è
la prima volta, d’accordo, che la Storia, per realizzare i suoi vasti
disegni, si serve di figure di mezza tacca. Ma da alcuni anni questo
scherzo si va ripetendo a un ritmo così serrato che Castro rischia sul
serio di assumere, agli occhi della gente, le stesse gigantesche
proporzioni degli avvenimenti cui fornisce il pretesto.
Guardiamoci da questa illusione ottica. Castro è un pistolero, e nulla
più. Nei suoi veementi interminabili discorsi galleggiano alla
rinfusa, senza connessioni logiche e sintattiche, idee raccattate di
qua e di là. Il suo livello intellettuale non supera quello dei più
modesti caudillos sudamericani: Peròn, in confronto a lui, era un
gigante. Anche se è vero che Castro interpreta tuttavia qualcosa di
profondo, il disagio, l’insoddisfazione, il ribellismo anarchico delle
masse di laggiù, lo fa senza rendersene conto, senza averne
coscienza, senza un programma, senza un traguardo. L’inquietudine
e il disordine per lui sono fine a se stessi, l’alibi di quella personale,
strenua vocazione al sovvertimento, su cui egli ha fondato il suo
regime.
Fin da ragazzo, il suo giocattolo preferito è stata la rivoltella.

E da qui Montanelli parte a riassumere le personali origini di Castro e le


vicende attraverso cui egli giunse a rovesciare Batista,

farabutto corruttore, ma non un sanguinario [il quale] […] commise


l’errore di non dare la caccia a quel pugno di desesperados, che
trovarono il loro alimento prima nella miseria e nella desolazione,
poi nella paura dei guajiros [contadini]. Quando vi si decise, era già
troppo tardi. […] Ora i suoi esaltatori adducono a propria
giustificazione che il Castro d’allora non sbandierava le idee di
oggi, era un sincero democratico, smanioso soltanto di ripristinare la
democrazia e la moralità. Può anche darsi, perché effettivamente
Castro è capace di dire qualunque cosa e il suo contrario. Ma
appunto su questo non ci si poteva sbagliare: ch’era capace di dire
qualunque cosa e il suo contrario. E bastava ascoltarlo, cosa
facilissima perché anche allora non faceva che parlare, parlare,
parlare. I suoi monologhi duravano ore, nottate intere, ed egli li
pronunciava con occhi lucidi di febbre, in uno stato di continua
esaltazione che aveva più del patologico che dell’ispirato. La
faciloneria con cui impostava e risolveva sulla carta i futuri
problemi dello Stato denunziava una desolante mancanza di serietà
e di serio impegno ideologico. Ci si poteva ingannare sulle sue
intenzioni ma non certo sulla superficialità e il confusionarismo che
ottenebrano il suo cervello. Era chiaro come il sole che tutto in lui
era scuro come la notte, salvo il proposito – l’unico cui sia rimasto
sempre fedele – di far baccano e di attirare l’attenzione della gente,
che in lui forse è un’ambizione ancora più forte di quella del potere.
Anche oggi siamo sicuri che in questo mondo angosciato, l’unico a
non esserlo è lui. Trovarsi al centro del dramma, vedere il proprio
nome allineato nelle testate dei giornali accanto a quelli di Kennedy
e Kruscev, è per questo spavaldo fanfarone un tripudio. […]
La stampa di destra lo qualifica come comunista, rendendogli un
onore del tutto immeritato. Castro non è nulla. Il suo regime è il
solito pasticcio sudamericano, frutto misto di giustizialismo e di
satrapismo, di riforme demagogiche annullate dall’inefficienza
dell’amministrazione, di corruzione spicciola, di prepotenze private,
di autoritarismo corretto dall’anarchia. Castro ha giocato la carta di
Mosca perché solo come aculeo russo conficcato nel fianco del
continente americano poteva diventare un personaggio importante,
un protagonista della storia contemporanea. E c’è riuscito grazie alla
geografia.

(Accenno quasi braudeliano, questo di Montanelli, che spiega con la


geografia la sproporzionata importanza mondiale assunta da Castro.)

Ma è proprio questo, ripeto, che ci sgomenta e che dovrebbe indurci


a qualche riflessione: il fatto che basti oggi un simile ‘pagliaccio’
come lo qualificava il suo stesso amico e maestro Bayo, per portare
il mondo sull’orlo della catastrofe. Molti dicono: ‘Non vogliamo
morire per Berlino’. D’accordo. Ma morire per Fidel Castro, poi…
236

L’articolo è tipicamente montanelliano per contenuti e stile. L’inizio e la


conclusione denotano che egli aveva colto senza sottovalutazioni la
pericolosità degli eventi in corso. La prosa, al solito, è magistrale. Quanto al
suo giudizio sulla figura di Castro, esso può apparire invece riduttivo,
specie oggi, in considerazione del lungo periodo che quegli ha poi trascorso
al potere. Nel bene e nel male, non pare possibile oggi risolvere la questione
del castrismo sostenendo semplicemente «Castro non è nulla».
Naturalmente nel 1962 Montanelli non disponeva della palla di vetro, né
stava scrivendo un trattato di storia cubana, mirando solo a mettere in luce
sarcasticamente quelli che, a suo modo di vedere, erano i limiti del
personaggio per il quale si stava rischiando una guerra nucleare.

Infine, un’importante osservazione generale sulla stampa italiana la si


ritrova in un documento dell’ambasciata britannica. «Finora», riporta Ward
a Londra a metà della crisi, «la nota chiave della maggior parte dei
commenti [sulla stampa italiana] è stata perplessità piuttosto che ansia. La
gravità della situazione non è ancora stata recepita appieno» 237. Era
un’impressione corretta – e la stampa italiana in questo rispecchiava bene
quello che sarà il punto successivo della nostra analisi: l’opinione pubblica.
L’opinione pubblica

La reazione dell’opinione pubblica in Italia fu sostanzialmente di entità


minore di quanto ci si potesse aspettare vista la gravità delle circostanze. Al
di là del tradizionale scarso interesse della maggioranza degli italiani per la
politica internazionale 238 o della carenza di sufficienti elementi informativi
per valutare gli eventi in corso, il sentimento di impotenza dato dalla
consapevolezza che le decisioni venissero prese in tutt’altri luoghi portò la
maggioranza degli italiani a continuare semplicemente la vita di tutti giorni,
sperando e attendendo, non senza ansia, che la bufera passasse in modo
indolore. Varie (per esempio a Roma in piazza Vittorio o a Milano in piazza
Santo Stefano), ma poco gremite, furono le manifestazioni di piazza avutesi
in quei pochi giorni. Come conferma anche un documento americano
recentemente declassificato, «l’ambasciata ha riportato che si sono avute
manifestazioni più violente a Londra e Parigi che in qualsiasi posto in
Italia!». Il punto esclamativo denotava il fatto che la sinistra italiana era
considerata fonte potenziale di maggiori problemi, tanto più ora col temuto
centro-sinistra in incubazione 239.
Da un altro documento, un rapporto preparato un mese dopo
dall’ambasciata USA a Roma (Italian reaction to the Cuban crisis),
emergono ulteriori conferme:

Gli italiani in generale, all’apice della crisi, hanno avvertito


profonda preoccupazione sulla possibilità di guerra nucleare ma non
hanno sviluppato panico o accaparramento [di generi alimentari].
Probabilmente una larga maggioranza ha approvato e trovato
soddisfazione nella politica USA e i suoi risultati via via che essi si
sviluppavano. I comunisti e procomunisti erano confusi e incapaci
di montare alcuna contropropaganda o manifestazione notevole.
[…] Quanto a quelli ‘nel mezzo’, neutralisti o indecisi, così come
parecchi nell’ala sinistra, un ulteriore fattore di sconcerto è stata la
simultanea invasione cinese dell’India del Nord. […] Comunisti e
procomunisti hanno perso il round […].
Il governo italiano ufficialmente ha adottato una visione della crisi
molto più cauta del pubblico italiano 240.

L’ambasciata nota cioè una divaricazione non lieve tra i sentimenti


dell’opinione pubblica e la posizione espressa dal governo. L’impressione
risente forse un po’ delle già accennate posizioni politiche prevalenti a Via
Veneto, giacché in realtà il desiderio di risoluzione pacifica animante la
posizione fanfaniana appariva, al di là del più o meno solido appoggio agli
USA, perfettamente in linea con le speranze degli italiani.

***

Quanto emerso a livello nazionale lo troviamo rispecchiato fedelmente


nella reazione registrata localmente a Milano, che riaffiora da un rapporto
stilato dal locale consolato USA. «La reazione iniziale» al discorso di JFK,
vi si legge, «ha preso forme attese: aperta ma isolata ostilità da gruppi d’ala
sinistra; atteggiamento silenzioso e vigile [quiet, watchful attitude] dalla
maggioranza dei cittadini che, in generale, comprendono e appoggiano la
posizione USA fintanto che possano essere evitate ostilità generali».
Un allegato al rapporto descrive poi la visita al consolato USA da parte
di una delegazione femminile: «Nel pomeriggio del 23 ottobre, intorno alle
15, un gruppo di trenta donne, generalmente di mezz’età o più anziane, ha
cominciato ad assemblarsi all’entrata. […] Sei o sette del gruppo portavano
cartelli con scritte come ‘Viva la pace’, ‘Abbasso le basi nucleari’, […] e
chiedevano la possibilità di parlare col console generale». Ricevutele, il
console le ascoltò mentre

sostenevano di non aver nessuna connessione politica e di non


essere state mandate da alcun giornale o entità. Rappresentavano
loro stesse in quanto casalinghe e lavoratrici che desideravano
enfatizzare il desiderio di pace. […] Diverse [donne] del gruppo di
dieci [che era stato ricevuto dal Console] tentavano di parlare
contemporaneamente. Non seguivano alcuna linea univoca se non la
reiterazione di un desiderio di pace. Quando il console generale
Crain ha chiesto se desiderassero ottenere pace al prezzo della
schiavitù, una delle donne ha affermato che lei era passata
attraverso anni di guerra eppure non sentiva di aver acquistato
libertà. Diverse [donne] hanno sottolineato le loro personali
sofferenze nelle guerre passate e il desiderio di evitare un nuovo
conflitto a qualsiasi prezzo 241.

Analoghi richiami accorati ai dolori delle guerre passate li avevamo


incontrati, come si ricorderà, anche tra le reazioni delle donne statunitensi.

***

Una percezione della CMC non solo attutita ma quasi del tutto
inconsapevole si ritrova poi nelle Murge, la zona delle basi nucleari NATO,
uno dei bersagli più probabili in caso di escalation della crisi. Qui, tra gli
altipiani poco abitati della Puglia interna e della Basilicata, una popolazione
tra le più povere d’Europa, composta di contadini e braccianti, viveva
accanto ai trenta bianchi missili progettati dall’ingegnere von Braun, in un
surreale accostamento tra tecnologia moderna e arretratezza plurisecolare.
Questa singolare convivenza durava già da un paio d’anni, ma la
popolazione era ben lontana dal poter realizzare il significato geopolitico e i
pericoli insiti in quella misteriosa presenza, complice anche la volontà
governativa di pubblicizzare il meno possibile la situazione 242. Anche
l’opposizione (il PCI) non batteva su questo tema, conscia che il
proletariato locale non l’avrebbe seguita, avendo le sue più pressanti
rivendicazioni nella sopravvivenza alimentare, prima che nucleare 243. Solo
recentemente un libro e un documentario hanno ricostruito questa storia,
andando tra l’altro a raccogliere i ricordi degli anziani abitanti della zona e
trovandoli spesso ignari di aver vissuto su uno dei fronti più esposti
dell’intera guerra fredda 244. I missili vennero poi ritirati proprio in seguito
all’esito della CMC, come illustrato; e sempre volutamente in sordina. Ma
durante i sei giorni di massimo rischio, anche quei pugliesi che seguivano
l’evolversi della crisi internazionale non poterono coglierne il nesso con le
basi italiane, poco chiaro e poco sottolineato dai media 245. Neppure nelle
cronache provinciali della «Gazzetta del Mezzogiorno» di quei giorni ne
abbiamo trovato traccia 246.
D’altro canto, pur in questo quadro di generale inconsapevolezza
pubblica, a livello politico si verificarono alcune iniziative. Il 28 ottobre una
manifestazione organizzata a Matera dalla locale FGCI radunò diecimila
persone, provenienti «con pulmann e con i mezzi più vari» da tutta la
Lucania, finendo così per risultare una delle più riuscite a livello
nazionale 247. Essa vide anche la partecipazione di delegati cubani e di due
voci autorevoli come lo studioso meridionalista Tommaso Fiore e il
professor Aldo Capitini 248. Il Gandhi italiano, come quest’ultimo verrà poi
ricordato in quanto profeta della nonviolenza italiana, aderì alla
manifestazione invitando però gli organizzatori ad aprirla «a tutte le persone
che aspirano al disarmo ed alla pace e a tutte le popolazioni
indipendentemente da ogni idea religiosa e politica» 249. Un tratto distintivo,
quest’ultimo, che ritroveremo tra breve tornando sulle reazioni di Capitini.

Fotogramma dal Cinegiornale della pace di Cesare Zavattini che mostra un contadino delle Murge al
lavoro nel suo campo, non lontano da uno dei missili Jupiter, visibile sullo sfondo (in alto a sinistra).
A crisi finita, poi, fiochi segnali di una qualche consapevolezza politica
della situazione si ritrovano nei consigli (e congressi di partito)
provinciali 250. Infine il 13 gennaio 1963 si tenne un’apartitica ‘marcia della
pace’, ad Altamura, la località ospitante due delle basi di cui si chiedeva la
rimozione (proprio nella settimana in cui Fanfani si recava alla Casa Bianca
per discuterne segretamente il ritiro). Presenziata da diverse migliaia di
persone 251, tra cui ancora l’intellettuale altamurano Tommaso Fiore, la
marcia ottenne una notevole risonanza e ricevette messaggi d’adesione da
Capitini e perfino da Bertrand Russell 252.

***

A livello nazionale, un altro dei sentimenti diffusamente riscontrabili in


quei giorni (per lo più tra la gente di sinistra, ovviamente) fu una
comunanza istintiva, una solidarietà genuinamente sentita verso Cuba, vista
come la piccola, coraggiosa isola minacciata, ritrovatasi improvvisamente
al centro d’una contesa globale contro un gigante. Tra i diversi documenti
da cui ciò emerge, appare emblematica la lettera scritta da una ragazza
italiana (presumibilmente non più che adolescente) al quotidiano «Il
Paese»:

Signor direttore, che brutte giornate. Io non leggo sempre i giornali,


ma ieri li ho letti tutti. Quando vedo quei grossi titoli che fanno
capolino dalle edicole, sento subito che c’è qualcosa che non va. E
questa volta c’era Cuba. Cuba naturalmente io non la conosco. Ma
ho avuto occasione di vederla in una carta geografica pubblicata su
un giornale, l’ho vista e ho pensato che somigliava a un fazzoletto
caduto nel mare dalla testa di una signora. Un piccolo fazzoletto e
tanto mare. Ora lì, su quella striscia di terra, la gente che vi abita,
uomini, donne, bambini devono difendere la loro libertà nelle
condizioni più difficili. […] Sanno che l’aggressione può venire da
ogni lato, in qualunque momento. […] Loro sanno che il mondo li
guarda e che la maggioranza è con loro. E nella maggioranza ci
sono anch’io, una qualunque italiana, simile a loro per la vicinanza
del mare e l’idea che ho della pace e del progresso. Questa mattina
mi sono svegliata e pensavo che cosa può fare una come me […] in
aiuto ai nostri amici cubani. Per questo ho scritto questa lettera: per
fare qualcosa. E gliela porto al giornale, con le mie mani. Stefania
Coppi, Roma 253.

Si ritrova qui quell’istintivo «senso di simpatia per lo sfavorito [the


underdog]» che lo storico David Ellwood ha osservato come caratteristica
tipica del pacifismo italiano anche in tempi più recenti 254.
Riflessioni sull’importanza del ruolo dell’opinione pubblica negli affari
internazionali emergono da un’altra lettera, scritta a crisi finita da un altro
lettore del «Paese».

Signor direttore, mai come in questo periodo gli uomini si sono


parlati, hanno parlato di politica, si sono detti, mentre ritenevano di
essere sull’orlo della guerra, tutto ciò che avevano nella mente e nel
cuore. E sono venuti fuori i pessimisti e gli ottimisti, coloro che
hanno una fede e coloro che fanno dello scetticismo una professione
della mente. C’è chi ha detto: ‘È inutile darsi da fare, è inutile
lottare, è inutile prendere posizione, è inutile morire, come il
giovane di Milano. I destini del mondo sono decisi da due uomini.
Noi non contiamo’. […] secondo me, ciò che ci dà la misura di
quanto certi ragionamenti siano sbagliati, è proprio la lettera di
Krusciov a Kennedy. […] Se l’ha scritta in quel modo, è perché
sapeva che in ogni Paese del mondo c’era qualcuno capace di lottare
per la pace. In un mondo fatto tutto di scettici, di pessimisti, di
gente che sta a guardare e che la domenica va solo alla partita di
calcio, le parole di Krusciov avrebbero potuto suonare come parole
di uno che ha ‘mollato’, di uno che agisce solo per difendere la
propria debolezza. […] Krusciov si sarebbe sentito solo. E, da solo,
non avrebbe potuto scrivere quella lettera, certo che il mondo lo
avrebbe compreso, approvato, osannato 255.

Al di là dei chiari orientamenti politici del lettore, il desiderio


dell’opinione pubblica internazionale di evitare una guerra fu in effetti un
fattore politico che Kruscev considerò e che senz’altro agevolò in maniera
non secondaria la sua decisione di ritirarsi.
Nella società italiana la percezione dei rischi della crisi fu di entità
sensibilmente minore che non in USA, come del resto era prevedibile. Lo
stesso sottosegretario agli Esteri Carlo Russo (che, come s’è visto, allo
scoppio della crisi era stato mandato a New York da Fanfani) lo ricorderà
nel decennale della crisi: «nella settimana dell’ottobre del 1962 – disse –
noi non abbiamo avuto in Italia la sensazione esatta della gravità della
situazione. Io che mi trovavo in quel momento al Palazzo di Vetro, capo
della delegazione italiana, ho avuto la sensazione che siamo stati
effettivamente sull’orlo della guerra mondiale» 256. A conferma di ciò, la
figlia di Russo ci ha raccontato che, al momento della partenza per New
York, sia il sottosegretario sia la sua famiglia erano tranquilli, tanto da
considerare come unica preoccupazione quella del lungo volo aereo.
Viceversa al ritorno, dopo aver visto coi propri occhi le file di newyorchesi
intenti a fare scorte ai supermercati in previsione d’un conflitto (panic
buying: si veda il capitolo Stati Uniti d’America) e dopo aver condiviso
l’intensità della percezione locale, Russo riabbracciò i suoi cari in Italia
dicendo: «Pensavo di non rivedervi più. Temevo che scoppiasse la
guerra» 257. Difficilmente egli avrebbe parlato in questi termini se fosse
rimasto a Roma a occuparsi della CMC. È una testimonianza che rende
bene il senso della differenza di intensità che si ebbe tra i due Stati nella
percezione dei rischi.

Altri elementi utili alla comprensione del quadro li fornisce infine un


articolo della «Stampa», dedicato appunto a descrivere la reazione
psicologica del popolo italiano di fronte alla crisi. «Nei giorni passati», vi si
legge, Cuba, da

‘isola del piacere’ […] era diventata ‘isola dei guai’, ed erano guai
che riguardavano tutto il mondo e che rapidamente si erano
proiettati in ogni campo. Essi non toccavano soltanto l’economia e
la politica […], ma anche la coscienza di ognuno. […]
L’allarmismo e perfino il pessimismo dei giorni scorsi erano
talmente plausibili che persino Giovanni XXIII aveva parlato per
convincere le parti avverse a non dare il via alla tremenda macchina
della distruzione. […] Gli intellettuali si sono giustamente messi in
stato d’allarme e le organizzazioni che in politica estera seguono
una certa linea, hanno organizzato comizi in difesa di Cuba. Ma di
là di questi aspetti d’una lotta che dura da anni, bisogna dire che
l’animo popolare non ha dato segni vistosi di drammaticità.
L’allarmismo e il pessimismo hanno toccato molto più da vicino
altri popoli che non il nostro. La nostra gente comune, quella che
lavora e traffica sodo dalla mattina alla sera, non ha fatto
dell’argomento ‘Cuba’ centro per lunghe o apocalittiche discussioni.
C’era stato maggior fermento all’inizio del conflitto in Corea o
all’epoca dei fatti d’Ungheria […]. In molti Paesi d’Europa erano
ricomparse le code davanti ai negozi, tetro presagio di tempi
difficili. [Non così in Italia, dove] il nostro animo popolare, pur
parteggiando per l’una o per l’altra parte contendente, […] sentiva
che nessuno dei due avrebbe ‘premuto il bottone’ per dare inizio al
reciproco sconquasso. La paura, l’allarmismo, il pessimismo,
potevano entrare per un attimo nei discorsi quotidiani, ma subito
l’istinto li cacciava lontani. Nel fondo del proprio animo il popolo
sentiva che ‘non era possibile’. […] Il cadere in un baratro, di cui
non era nemmeno possibile valutare l’estensione e la profondità per
una faccenda che tutti sapevano risolvibile con trattative e
discussioni, appariva un delitto e una pazzia. La nostra umanità e la
nostra buona fede non volevano immaginare una soluzione diversa
da quella pacifica 258.

Era sostanzialmente così. La paura, inoltre, fu più intensa nella fase


iniziale della crisi, andandosi ad attenuanare dopo i primi due o tre giorni
dal discorso di Kennedy, quando fu chiaro che i sovietici non stavano
cercando lo scontro e i titoli in prima pagina sui giornali italiani
cominciarono a riportare l’intenzione di «negoziare» delle due
superpotenze. A quel punto la deduzione della maggior parte dei lettori
italiani – comprensibile, seppur non necessariamente suffragata dai fatti,
dati i gravi rischi che invece caratterizzarono la CMC sino alla sua
conclusione – fu che la crisi fosse diventata una faccenda politica, per
quanto grossa, non più una di sopravvivenza. «Finiranno per mettersi
d’accordo»: fu questa, in sostanza, l’istintiva, rassicurante conclusione della
maggioranza degli italiani.
Gli intellettuali

Il quadro d’insieme, le iniziative collettive e le polemiche

Se la reazione dell’opinione pubblica fu relativamente attendista e


silenziosamente cauta, lo stesso non può dirsi per quella del mondo
intellettuale, che fu invece attiva e ben udibile. La comunità intellettuale
italiana in quegli anni era senz’altro molto attiva, oltre che molto attenta (e
legata) alla politica, probabilmente anche più che in altri Paesi europei.
Quando dunque giunse la crisi di Cuba, varie furono le reazioni che si
misero in moto.
Vero è che il tema dei rischi nucleari s’era fatto in quei mesi, già alla
vigilia della crisi, viepiù scottante ed avvertito anche in Italia. Ne danno
fede almeno due iniziative. La prima era stata lanciata da Cesare Zavattini,
lo scrittore cui si devono le sceneggiature di capolavori del cinema
mondiale quali Ladri di biciclette, Umberto D. e Sciuscià. Già in giugno
Zavattini aveva proposto (dalle pagine di «Rinascita») di realizzare un
Cinegiornale della pace 259. A poche settimane dalla crisi, egli trovava che
la pace fosse minacciata così pericolosamente dai venti di guerra atomica da
invitare pubblicamente tutti – professionisti o dilettanti – a raccogliere
contributi video su quel tema, per realizzare appunto un periodico
cinegiornale tematico, che contribuisse a sensibilizzare l’opinione pubblica
sull’importanza della pace. Il primo e unico numero verrà realizzato nel
1963 e conterrà echi della crisi cubana (consistenti in un ricordo di
Ardizzone e in un filmato sulla summenzionata marcia di Altamura per
chiedere la rimozione delle basi) 260.
L’altra iniziativa sintomatica del clima fu il «numero speciale» dedicato,
proprio a fine 1962, dalla rivista letteraria «Il Verri» al tema La condizione
atomica, giudicata ormai un tratto essenziale caratterizzante la condizione
umana. Presentando sul «Corriere della Sera» tale numero speciale
(contenente scritti di Russell, Kahn, Bobbio, Paci, Fromm, ecc.), lo scrittore
Umberto Eco sottolineava come fosse «sintomatico il fatto che una rivista,
nota per l’occuparsi prevalentemente di problemi artistici e letterari […],
non ritenga di venir meno alla sua linea di discorso dedicando centoventi
pagine alla condizione atomica». Ciò, spiega Eco, è perché «ogni tipo di
discorso letterario, anche quello più ‘tecnico’ e astratto […] deve oggi
muoversi sapendo di avere come sfondo la presenza della Bomba. Come
dice [l’ingegnere nucleare Giovanni Battista] Zorzoli nella sua
introduzione, ‘la cultura non può ignorare un elemento capace di minare i
presupposti stessi di una qualsiasi cultura’. Questo è il punto: la presenza
della bomba nucleare, oggi, non solo condiziona le nostre vite, ma gli stessi
valori culturali su cui si regge la nostra civiltà» 261. Precisato poi che
l’iniziativa aveva senso e «funzione di stimolo» proprio nel contesto
culturale italiano, che era ancora relativamente indietro nella riflessione su
tali tematiche, Zorzoli aggiungeva, in una sorta d’ultim’ora concettuale
aggiunta a un numero evidentemente già pronto, che «la recente crisi
cubana rappresenta una sorta d’esperimento controllato» in cui ritrovare
concretamente le varie tematiche trattate dai suddetti pensatori 262.
In questo contesto dunque non sorprende l’attivismo manifestato allo
scoppio della CMC da vari uomini di cultura italiani. Già nelle prime ore
dopo il discorso di Kennedy sgorgano numerose proteste, che «l’Unità»
raccoglie e pubblica solerte. Tra queste, quella del regista Luchino Visconti:
«La notizia di stamane è molto impressionante, mi ha costernato. Penso che
nessuno sia completamente pazzo da voler portare le cose oltre questa
dimostrazione. Quello di Kennedy mi sembra un gesto imprudente e molto
pericoloso. Conto sul buon senso di chi ha la responsabilità della sorte
dell’umanità: da una parte gli Stati Uniti, dall’altra i sovietici». Lo scrittore
Guido Piovene: «Il popolo italiano deve far sentire la sua voce, premere su
chi lo governa e fargli capire che l’Italia non è disposta ad entrare in
avventure come queste. Bisogna anche che i responsabili sentano che il
popolo italiano li riterrebbe colpevoli di qualunque sciagura in cui fosse
coinvolto contro la propria volontà». Lo scrittore e pittore Carlo Levi: «È
necessario che tutti gli uomini di tutti i popoli si muovano in difesa della
loro vita stessa. […] Quando fu consentito di costruire rampe di missili nei
nostri aranceti di Puglia, non dovemmo tuttavia subire blocchi da parte di
chi era esposto alla offesa di queste armi, che devono essere distrutte nel
nostro e in tutti i Paesi del mondo». Cesare Zavattini: «Sono sempre stato
solidale con Cuba ed ho sempre creduto nella profonda necessità della sua
rivoluzione. Ma la sconvolgente notizia del blocco americano rende questa
mia fede nella funzione di Cuba più drammatica, più reale, più totale. La
pace è un bene troppo sacro e troppo prezioso perché debba essere
compromesso e per di più sulla pelle di Cuba». Più dubbiosa la reazione
dello scrittore Elio Vittorini: «Le notizie sono allarmanti e preoccupanti.
[…] tuttavia non si può dare un giudizio moralistico. La questione di Cuba
[…] richiede di essere risolta su un piano di buona volontà internazionale,
con il concorso di tutte le parti» 263.
L’editore Giangiacomo Feltrinelli, dal canto suo, in quei giorni è tanto
sicuro di un escalation nucleare della crisi che, secondo quanto afferma uno
dei suoi biografi, «tra l’ilarità, lo stupore e l’incredulità dei suoi dipendenti»
progetta addirittura «di trasformare i suoi stabilimenti […] in sotterranei
antiatomici, in modo da poter essere pronto a stampare, all’indomani della
catastrofe, i libri indispensabili a rieducare i sopravvissuti» 264. Un
provvedimento concreto, seppur meno drastico, in quella settimana lo
prende anche lo scrittore ligure Guido Seborga, decidendo di devolvere
alcuni diritti d’autore all’associazione genovese per i rapporti culturali italo-
cubani 265; il musicista Luigi Nono e il pittore Emilio Vedova inviano, dal
canto loro, un telegramma congiunto di solidarietà all’assemblea cubana 266.
Luigi Nono rimarrà poi anche coinvolto in alcuni scontri con la polizia
durante una delle manifestazioni tenutesi in quei giorni a Venezia 267, cosa
che gli varrà qualche menzione di solidarietà al successivo Congresso del
PCI 268. Critici dell’azione USA anche il compositore Luciano Berio,
l’attore Gian Maria Volontè e il filosofo Mario Dal Pra («Come giustificare
un simile rischio, assunto con tanta sconsideratezza […] ? […] È questa la
‘nuova frontiera’ […]?») 269.
Il 25 poi si tiene a Roma una importante assemblea al Teatro Brancaccio.
Mentre Capitini, pur invitato, sceglie di non andare, tra coloro che
intervengono a presiederla vi sono gli scrittori Alberto Moravia e Pier Paolo
Pasolini, il pittore Renato Guttuso, il matematico Beniamino Segre. Presenti
anche vari politici (comunisti – Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao –, e qualche
socialista, come il senatore Emilio Lussu). Altri inviano la propria adesione:
tra loro, gli scrittori Italo Calvino, Guido Piovene, Elio Vittorini, i registi
Vittorio De Seta e Michelangelo Antonioni. Altri ancora mandano messaggi
che vengono letti ai presenti: il giurista e storico cattolico-liberale Arturo
Carlo Jemolo, il senatore Ferruccio Parri (entrambi provenienti dal Partito
d’azione, entrambi personalità autorevoli e molto stimate). «Il vero aiuto
che gli europei possono dare a Kennedy – diceva il messaggio di Jemolo – è
quello di disapprovare questo gesto, diretto in definitiva contro i valori
dell’Occidente, […] frutto della psicosi bellica da cui è dominato il popolo
americano». Parri definiva il blocco una misura di guerra preventiva,
condannabile perciò esattamente come quella di Suez, censurata all’epoca
dagli stessi Stati Uniti. Quando la libertà di un popolo è minacciata –
proseguiva il suo messaggio – anche se non si condivide il regime di questo
popolo bisogna essere dalla sua parte. Un messaggio, il suo, che ritroviamo
citato in quei giorni fin sulla stampa cubana 270. Durissimo, infine, lo
scrittore Carlo Levi, che invitava a mobilitarsi a tutti i livelli: «Mai
l’esistenza stessa del mondo è stata così in pericolo. […] Siamo di fronte a
un pericolo così immenso da apparire incredibile e […] che è invece
estremamente reale. […] Bisogna avere abbastanza paura da non aver paura
di pensare ed agire, di prendere nelle nostre mani il nostro destino».
Kennedy aveva un «tono isterico […] di un uomo che taglia i ponti dietro di
sé, e pare animato da volontà suicida». JFK viene definito «questa bambola
tecnologica», e la sua politica «nazismo atomico» 271.
Sulla scia dell’assemblea del Brancaccio, il mattino dopo una
delegazione di intellettuali italiani – accompagnata da un giovane dirigente
del PCI: Enrico Berlinguer – si reca a Montecitorio per esporre le proprie
preoccupazioni per la pace direttamente al ministro degli Esteri Attilio
Piccioni. La guidano Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi,
Renato Guttuso. «Abbiamo chiesto», dichiara Levi all’uscita da
Montecitorio, «che la posizione del governo italiano sia in questa occasione
la più chiara possibile, e diretta soprattutto ad un’attiva iniziativa di pace.
Devo dire che il Ministro degli Esteri ci ha accolto con cordialità e
comprensione» 272.
Per qualcuno, evidentemente, troppa. Puntuale infatti scoppia subito sui
giornali una violenta polemica. Comincia «Il Tempo», con un corsivo in
prima pagina l’indomani, intitolato Il tradimento dei chierici, che attacca
«quelli che firmano, che aderiscono, che protestano, da quindici anni», una
«quinta colonna sovietica» composta di «uomini di penna, di pennello e di
scalpello, [che] hanno servito la causa dell’Unione Sovietica, firmando».
Per costoro – che «protestano contro il moderato atto di forza compiuto
dagli Stati Uniti in risposta a un’aggressione o ad un disegno d’aggressione
dell’Unione Sovietica ma non protestano, e anzi ignorano, l’aggressione che
la Cina popolare ha scatenata contro l’India pacifica e inerme» – «bisogna
riconoscere che è azzeccato» ripescare il vecchio benché brutto termine
scelbiano di «culturame» 273. Apriti cielo. L’«Unità» reagisce l’indomani,
con un proprio corsivo in prima, intitolato Torna il ‘culturame’. Rilevando
ironicamente che la stampa ostile non s’era neppure presa la briga di
informare i propri lettori di cosa tale «culturame» avesse detto a Palazzo
Brancaccio né di contestarne la fondatezza, concludeva che «il ‘culturame’
pensa: ecco il delitto di cui si macchia presso i partigiani della follia
atomica» 274. «La Nazione», invece, più che con «gli strani missionari di
pace recatisi alla Farnesina […] che fanno il mestiere che hanno sempre
fatto di copertura intellettuale alla politica comunista», se la prende con chi
li ha ricevuti così bene: giacché «se al posto del valorosissimo giocatore di
bridge e di canasta che regge oggi i destini della politica estera italiana, ci
fosse stato un uomo come De Gasperi o Sforza, ben altra accoglienza
avrebbero trovato i delegati dell’intellettualismo comunista» 275. Da destra,
poi, si parla di «ragazzi di vita a Montecitorio» 276 (allusione ironica ad un
romanzo di Pasolini) o si rispolvera persino l’omicidio Montesi per
attaccare il ministro Piccioni sul piano personale (da una crisi nucleare
planetaria a un caso di cronaca nera nostrana e vecchio di dieci anni, il
passo italico è sorprendentemente breve) 277.
E se il prestigioso «Times» riporta ai londinesi la missione ministeriale
degli intellettuali italiani senza trovarvi motivo di scandalo 278, viceversa il
settimanale della DC, «La Discussione», stigmatizza il «pacifismo […]
ipocrita» che subisce «strani oblii» sulla contemporanea aggressione
maoista all’India; attacca – presentandoli sostanzialmente come
scansafatiche – Moravia, Pasolini, Levi, Guttuso («cioè un romanziere
specializzato in vicende erotiche, un narratore di storie di prostitute e di
sfruttatori, uno scrittore che fa il pittore e un pittore che fa l’attivista
comunista») e velatamente perfino lo stesso DC Piccioni, che li ha ricevuti
«per un eccesso di democrazia» 279. Sulle stesse pagine l’onorevole Scaglia
(DC) conia per la categoria la definizione di «intellettuali-squillo» 280.

Che in quei giorni il PCI stesse provando a mobilitare personalità anche


meno vicine alle proprie posizioni era vero. I verbali di partito, per esempio,
tra le mosse adottate allo scoppio della crisi registrano anche «iniziative
verso Capitini e La Pira» 281. Si tratta di due soggetti non comunisti ma
sensibili al tema della pace e dunque ritenuti permeabili a sollecitazioni in
un momento simile. Il tentativo di coinvolgerli, tuttavia, non trova esiti,
giacché La Pira, come visto, si muove individualmente per vie postali,
mentre Capitini aderisce alle iniziative di Matera e Altamura contro i missili
locali ma non va all’assemblea pro-Cuba del Brancaccio e (come vedremo
di nuovo tra qualche pagina) sta ben attento a rimarcare certe distanze.

«Il Tempo», 28 ottobre 1962. Il quotidiano conservatore ironizza sull’ambiguità di certi intellettuali
di partito, che firmano contro l’aggressione a Cuba ma tacciono sulla contemporanea aggressione
all’India della Cina comunista.

Nel frattempo, il 1° novembre «l’Unità» pubblica un editoriale a firma


della direzione del PCI in cui si ripropone la questione della rimozione delle
basi di missili NATO in Italia 282. E difatti pochi giorni dopo ecco apparire
puntuale in prima pagina un «nobile appello di pace della cultura italiana»,
che – memore del fatto che «mai come nei giorni recenti del blocco di Cuba
l’umanità si è trovata nel pericolo immediato della guerra atomica» – chiede
«al governo e all’opinione pubblica italiana» di promuovere il disarmo
internazionale ed allontanare «il tremendo pericolo derivante […]
dall’inutile presenza dei missili sul territorio nazionale» 283. Seguono i nomi
di alcuni primi firmatari, tra cui lo scultore Giacomo Manzù, lo scrittore
Mario Soldati, lo studioso di letteratura Carlo Bo, il professor Aldo
Capitini, il Nobel per la poesia Salvatore Quasimodo. L’appello – vuoi
sull’onda dello spavento collettivo suscitato dalla CMC, vuoi per la più
ampia condivisibilità dell’obiettivo, vuoi per i toni misurati in cui è
proposto – attira stavolta adesioni anche di personaggi che nella settimana
precedente non si erano esposti. Così nei giorni successivi, alle più
prevedibili adesioni di Moravia, Pasolini, Levi, Guttuso e molti altri tra gli
intellettuali già menzionati si aggiungono via via nomi meno consueti,
come quelli di Giulio Carlo Argan, Mino Maccari, Enzo Paci, Natalino
Sapegno, Giuseppe Dessì, Alberto Carocci, Franco Fortini, Pasquale Festa-
Campanile, Michelangelo Antonioni, Guido Aristarco, Carlo Lizzani, Luigi
Zampa, Elio Petri, Francesco Rosi, Eduardo De Filippo, Giuseppe
Ungaretti 284 (quest’ultimo, tra l’altro, era allora presidente della Comunità
Europea degli Scrittori – COMES – e in questa veste per evitare
strumentalizzazioni aveva scelto di non emettere dichiarazioni sulla CMC,
pur essendo stato stato sollecitato da più parti a farlo 285). Il 18 novembre, in
occasione della pubblicazione dell’appello svoltasi al Teatro Adriano di
Roma, fa giungere un messaggio dalla Gran Bretagna persino Bertrand
Russell (la sua «Dichiarazione ai colleghi italiani» affermava: «Il pericolo è
imminente. La crisi di Cuba ce lo ha dimostrato in modo drammatico. […]
Un’Italia neutrale, un’Italia senza la vergogna dei missili e delle alleanze
nucleari, può essere una forza positiva, un fattore guida di saggezza e di
pace anziché un semplice ingranaggio nella vasta macchinazione della
morte e della sofferenza. Tutti noi che siamo chiamati ad agire dobbiamo
chiederci: ‘Quando se non ora? e chi se non io stesso?’» 286).
L’ambasciata USA osserva il tutto e relaziona a Washington, in termini
minimizzanti. Un cablo inviato da Via Veneto al Dipartimento di Stato
spiega che i firmatari dell’appello sono tutti comunisti o loro compagni di
strada («communists or fellow-travellers») e che già in passato campagne
analoghe erano state tentate dal PCI, ma erano «crollate nella diffusa
indifferenza». Così anche questa, «con tutta probabilità», resterà confinata
ai «firma-appelli cronici, definiti in modo devastante dal vicesegretario
democristiano G.B. Scaglia […] intellettuali-squillo» 287.
All’epiteto, qualche settimana dopo, il pittore Renato Guttuso replicherà
direttamente dalla tribuna del Congresso PCI:

[…] gli intellettuali italiani sono in prima linea. In primissima linea


essi sono stati nel grave momento della crisi nel mar dei Caraibi. La
loro voce, la loro presenza si è fatta sentire […] ha destato
ammirazione e rispetto nel popolo italiano. […] Naturalmente c’è
sempre stata anche qualche voce discordante. […] È accaduto anche
che […] l’onorevole Scaglia abbia parlato, riferendosi a questi
uomini, di ‘intellettuali squillo’. Vorrei osservare che l’appellativo
di ‘squillo’ si addice a colui (o colei) che accorre, dietro compenso,
a ogni chiamata. Ebbene, a parte il compenso che consiste semmai
in vessazioni, ostracismi, censure, ecc., come mai quegli stessi
intellettuali non accorrono quando il telefono squilla dalla parte
degli onorevoli Scaglia? 288
Le riflessioni dei singoli

Questo dunque il quadro generale. In esso però le reazioni di alcuni


intellettuali richiedono una trattazione a parte. Come quella di Pier Paolo
Pasolini, il quale, oltre che nelle modalità appena esposte, si espresse sulla
CMC anche dalle pagine di «Vie Nuove», settimanale popolare d’area
comunista, sul quale lo scrittore e regista friulano teneva una rubrica di
colloqui coi lettori. È lui stesso a introdurre il proprio testo: «Cari amici,
spedisco alla redazione di ‘Vie Nuove’ una poesia, anziché le lettere solite.
È una poesia d’occasione, e come tale non si differenzia poi molto
dall’eventuale mia risposta a qualcuno che mi chiedesse l’opinione sui fatti
di Cuba. […] Consideratela un po’ come tradotta, in sogno, dal cubano…

La navigazione verso Cuba

In un mattino di quest’anno,
azzurrino nella profondità dei secoli,
il convoglio va verso Cuba.

In un mattino di quest’anno,
buio nelle viscere dei secoli,
un poeta dorme nel suo lettuccio.

Il convoglio va verso Cuba


Lungo le strade del sole e delle acque,
in un misterioso azzurro.

Il poeta è risvegliato dal buio:


Dove sono il sole e le acque,
dove vado io per l’Oceano?

Il convoglio va verso Cuba


Solo in mezzo all’oceano
nella malinconia dell’azzurro.
Il poeta si grida nel suo povero sonno:
‘Cosa devo dire al Comitato Centrale,
cosa devo fare per salvare il mondo?’

Nell’azzurro dei secoli e nel buio del mattino


misteriosamente sano nell’oceano
il convoglio va verso Cuba.

Il poeta lotta nel suo povero incubo


Contro la rabbia che lo invade:
‘Volete proprio crepare? – urla. – Crepate!’

‘E tu convoglio che vai verso Cuba,


giungi a destinazione, portando con te la morte,
a quegli idioti furenti che la vogliono!’

E il convoglio va verso Cuba


Senza arrestarsi, senza relazione col mondo,
come un branco di misteriosi delfini.

Solo nel suo lettuccio di umile dormiente,


il poeta ritorna sulle sue decisioni:
‘Ecco, io devo umiliarmi, essere sconfitto!’

‘E tu convoglio che vai verso Cuba,


arrestati e, di fronte al mondo che ti guarda,
patisci la vergogna dell’insuccesso.

Non solo tu non andare verso Cuba,


ma tutto ciò che a Cuba è orgoglio
e diritto di guerra sia rinnegato’.

In un mattino di quest’anno,
buio nelle viscere dei secoli,
sorride, in fondo al sonno di un poeta, Krusciov.
Solo l’uomo per cui l’oceano è un piccolo lago,
può comportarsi come un vecchio padre,
perché solo la Rivoluzione salva il Passato.

Godi, godi, vecchio uomo, il tuo unico capitale,


nella pace che ti consente infinite guerre
all’interno della materia e dello spirito!

Mille convogli vanno ora verso Cuba,


mentre, in fondo a un povero sonno,
sorride la visione dell’Oceano in pace.’ 289

Si tratta evidentemente di una poesia contro la guerra («e quegli idioti


furenti che la vogliono»), che contiene, quasi in filigrana, un delicato elogio
a Kruscev. Infatti la figura del poeta che si interroga inquieto sugli eventi in
corso sembrerebbe a prima vista essere un alter ego dello stesso Pasolini,
ma la domanda «cosa dirò al Comitato Centrale» (del PCUS) e l’ordine di
arrestare il convoglio portano ad identificarlo piuttosto con Kruscev. Il capo
del Cremlino viene dunque raffigurato addirittura come un poeta, «un
vecchio padre», che accetta d’ingoiare l’orgoglio (suo e di Cuba) e patire
«la vergogna dell’insuccesso» di fronte al mondo pur di salvare la pace. E
così facendo può finalmente sorridere, consapevole d’aver fatto la scelta più
saggia.
Anche Kennedy tuttavia riscuoteva l’ammirazione di Pasolini. Magari
non all’inizio (nel 1961 aveva scritto a un lettore: «Non ho mai capito che
genere di speranze nutrissero gli intellettuali americani sul nome di
Kennedy. Kennedy è un cattolico e quindi era naturale che il suo
anticomunismo fosse, diciamo, più ‘patologico’ dell’anticomunismo dei
suoi avversari non cattolici» 290); già nel 1963, però, scrivendo al poeta
russo Evtusenko per proporgli di recitare il ruolo di Cristo nel suo film Il
Vangelo secondo Matteo, gli spiega che le ragioni di quel film possono
sintetizzarsi nella frase che lo aprirà: «Questo film vuol contribuire, nella
modesta misura consentita a un film, all’opera di pace iniziata nel mondo da
Nikita Kruscev, papa Giovanni e John Kennedy» 291. Successivamente,
morto JFK, Pasolini arriverà perfino a scriverne: «Ah, cosa dire di John
Kennedy! È l’unica persona di potere, l’unico uomo politico di cui vorrei
essere stato intimo amico» 292.
Quanto a Castro, poi, Pasolini nel 1961 rispondeva a un lettore che gli
chiedeva un giudizio in merito, «sono per Castro», aggiungendo però che
«per poterle rispondere veramente a tono dovrei essere in grado di
scomporre la questione nei suoi termini attuali, concreti […]», motivo per
cui sperava di poter presto andare a Cuba a vedere davvero 293. In seguito
scriverà: «Sospendo ogni giudizio sul castrismo finché non avrò visto coi
miei occhi (o finché qualche persona attendibile non me lo abbia
testimoniato) che a Cuba ci sono dei campi obbligatori di lavoro e di
rieducazione» 294.

Di diverso avviso, non sorprendentemente, Giovannino Guareschi, lo


scrittore autore di quell’immortale ritratto dell’Italia del dopoguerra che è la
saga di Don Camillo e Peppone. Un breve, sarcastico giudizio di Guareschi
sulla crisi di Cuba riaffiora da La rabbia: un film-documentario del 1963,
diviso in due parti uguali, in cui prima lo stesso Pasolini e poi Guareschi
giudicavano a modo loro, con immagini e commento fuori campo, i tratti
salienti del mondo moderno e i suoi maggiori problemi. Su sponde
diametralmente opposte (comunista il primo, anticomunista il secondo),
entrambi però dedicarono buona parte delle rispettive metà del film alla
politica internazionale. Ed ecco cosa disse Guareschi a proposito del nostro
tema: «[…] Fidel fa vivere a Cuba i giorni del terrore. [Intanto le immagini
mostrano una cruda fucilazione a Cuba]. L’America si accorge di aver
sbagliato anche qui. Ma adesso è troppo tardi per intervenire. Il popolo
sovietico infatti ha già ricevuto l’ordine di insorgere a difesa di Fidel e di
costringere Kruscev a inviare a Cuba missili sufficienti a trasformare l’isola
in una potente base sovietica. L’America stavolta fa sul serio. Kruscev cede,
e viene proclamato salvatore della pace. Alle volte», sostiene beffardamente
Guareschi 295 mentre scorrono le immagini delle navi sovietiche che a fine
crisi riportarono via i missili mostrandoli sul ponte all’aviazione USA, «ad
evitare una guerra basta niente: basta riportarsi a casa qualche cassa
d’imballaggio vuota […]» 296.
Sempre sul fronte conservatore troviamo poi colui che del
conservatorismo italiano moderno fu per molti aspetti la bandiera: Giuseppe
Prezzolini. L’ottantenne scrittore e giornalista fondatore della «Voce»,
appena tornato in Italia da un volontario esilio negli USA durato tre
decenni, espresse la sua visione della crisi di Cuba sul settimanale «Il
Borghese». Nella rubrica che vi teneva in forma di diario (Italia sott’occhio,
America col cannocchiale), Prezzolini così scrive: «23 ottobre. Siamo
arrivati alla ‘carte in tavola’. Kennedy ha dovuto decidersi, prima che sia
troppo tardi; e [prima] che Cuba servisse di arma di ricatto. Ha fatto tardi e
per vie sbagliate 297; ma ha fatto bene. Tutte le volte che gli Stati Uniti
hanno dimostrato di esser decisi […] la Russia non è passata dalle minacce
all’azione. Non può farlo» 298.
Poi, a crisi finita (seppur retrodatato): «24 ottobre. Ormai ci siamo
abituati a saper che la vita dipende dalla decisione di uno dei due
dominatori del mondo; e talvolta dal gesto o dalla disattenzione d’un
capitanuccio ubriaco. Siamo oramai abituati a sentirci ‘sull’orlo’. Il mondo
è diventato il cinematografo di suspense più vasto di tutta la storia. Non
c’era nulla di così vasto e rapido nemmen al tempo del De civitate Dei». In
quest’accezione al mondo come un vasto cinema tornano in evidenza il
carattere globale della crisi e i concetti da noi proposti nella Premessa. Si
intravedono inoltre riflessioni simili a quelle che, tra poche pagine,
troveremo sviluppate più estesamente da Nicola Chiaromonte. E simili
anche a quelle che, in Francia, il grande drammaturgo Jean Cocteau
annotava nel suo diario (da noi consultato grazie a un permesso speciale), al
giorno 23 ottobre 1962: «Forse bisognerà pagare il conto di tutto questo
disordine. […] Che un uomo spinga il bottone rosso e il dramma universale
si azioni. […] Il mondo mi è divenuto uno spettacolo e se il teatro brucia, io
brucerò con esso. Ma non sarò né incendiario né vittima» 299. Teatro o
cinema che lo si chiamasse, attori o spettatori che ci si sentisse, se ne
avvertiva chiaramente il carattere ormai unitario.
Ma torniamo a Prezzolini, che così prosegue il commento alla crisi:
«Sicché, in fondo, siamo riconoscenti a Krusciov che ci ha dato ancora una
volta questa sensazione di ‘fine’ prossima, inevitabile e senza residui» 300.
«Razionalmente ero sicuro che Krusciov non avrebbe spinto le cose fino al
punto di costringer gli Stati Uniti alla guerra. […] Ci congratuliamo con il
presidente Kennedy che ha avuto una grande vittoria» 301.
Un paio di settimane dopo, Prezzolini stende poi un «omaggio al popolo
americano».
Il loro comportamento durante la crisi cubana è stato di prim’ordine.
Tutti hanno fatto quello che dovevano, dal Presidente alle folle. E
persino i politicanti son stati degni di non essere chiamati con quel
nome. Davanti alla minaccia di una guerra senza pietà che avrebbe
colpito tutti, e forse meno i soldati dei civili, nessuno scappò. Tutti
continuarono, le signore a giocare a canasta, e gli uomini ad arrivar
all’ora fissata in ufficio o sul lavoro. Intorno al Presidente cento
persone almeno serbaron il segreto dall’avido orecchio dei
giornalisti. Non dissero nulla nemmeno alle loro mogli, tutte buone
americane, ma donne. Non ci fu ricerca di ville a cento miglia da
New York o da Chicago. […] I russi potevan far quel che volevano,
non importa, ognuno stava al suo posto. Anche tra quella morchia,
tra quella feccia, tra quel fondiglio molle degli intellettuali pacifisti
ci fu meno sfacciataggine nel chieder la ‘resa’ per salvar la vita.
[…] Il popolo americano considerò, insomma, il rischio di guerra
totale come il rischio di una elezione. Non se la dette troppo per
grave cosa. Che cosa si può chiedere di più ad un popolo?

Pur essendo ormai in Italia, ma forte dei tre decenni trascorsi a New
York, Prezzolini qui aveva colto bene l’atteggiamento assunto dalla
maggioranza degli americani di fronte alla crisi. Nel suo elogio c’è
probabilmente anche la riconoscenza per un Paese che lo aveva accolto e
valorizzato, e di cui egli era divenuto cittadino.
Prezzolini commenta poi, col consueto disincanto beffardo, anche le
reazioni europee alla crisi: «10 novembre. Il malumore di certi alleati degli
Stati Uniti per l’azione di blocco decisa contro Cuba […] si capisce
benissimo, [data] l’affermazione che gli Stati Uniti facevano, di fronte alle
Nazioni Unite ed agli Alleati, che quando si arrivava in certe regioni della
politica, le Nazioni Unite contavano come un materazzo del quale ci si può
servire in caso di caduta, e gli Alleati, come di un coro che deve ripeter il
motivo del tenore. Ma come mai ci son degli Alleati che non si rendon
conto che alla resa dei conti soltanto chi ha denaro in cassa conta?» 302.
Infine, lo scrittore perugino ritornò a paragonare la CMC col De Civitate
Dei di sant’Agostino, sviluppando riflessioni di filosofia della storia. «Non
so se qualcheduno dei miei lettori», scrisse Prezzolini sul «Resto del
Carlino», «si è domandato nei giorni recenti, come me: ‘Dunque duemila
anni circa sono passati invano, la parola di Cristo non ha servito a nulla,
un’altra gigantesca guerra stava per scoppiare e avrebbe inghiottito la
maggior parte di noi, cattivi e buoni, […]?’. Tutta la storia dell’umanità ha
fatto fallimento, compreso il verbo cristiano? Qualche cosa di simile
accadeva nel quarto secolo dopo Cristo, quando Alarico entrò a Roma e
distrusse la capitale del mondo d’allora. La notizia destò un’immensa
impressione». Ma Roma antica, prosegue Prezzolini, era caduta perché
peritura, inadeguata a soddisfare le più alte aspirazioni umane. Se non si
ammette il Vangelo, «non si può nemmeno ammettere che le lotte fra gli
uomini cesseranno, che gli sforzi per raggiungere la pace saranno premiati.
[…] Se la storia umana non è soprannaturale […] essa è soltanto storia
naturale» e la specie umana potrà «cedere il passo alle formiche ed agli
scarafaggi […] che continueranno a muovere le loro schiere senza sapere
che Giulio Cesare il quale contese il mondo ad Antonio, e Kruscev che lo
contende a Kennedy, sono mai esistiti» 303.
Sono riflessioni «alte», trascendenti, che da un lato richiamano, anche
negli accenni metafisici, quelle già incontrate in Norman Mailer; dall’altro
confermano ancora quanto esposto nella Premessa: il senso planetario,
unitario della minaccia termonucleare manifestatasi con evidenza nei giorni
della CMC.

Un cenno, più prettamente politico, alla crisi di Cuba lo riservò anche


Altiero Spinelli – uno dei grandi padri fondatori dell’integrazione europea,
della quale egli aveva gettato le basi già nel 1941 col noto «Manifesto di
Ventotene». All’interno di un articolo sulla politica di difesa europea
pubblicato sul «Mulino», Spinelli a un certo punto afferma che «per strano
che possa sembrare, un certo spirito cavalleresco di rispetto per l’avversario
e delle sue più profonde ragioni si va introducendo sempre più nella nuova
concezione della guerra». Tale «spirito cavalleresco», non inedito nella
storia dell’umanità e anzi «destinato […] a crescere con il passar degli
anni», porta «le grandi potenze, pur tenendo in riserva l’arma del suicidio
universale allo scopo di reciproca dissuasione da una guerra totale,» a
prendere in considerazione solo «guerre limitate per obiettivi limitati, dal
numero dei quali è esclusa la distruzione dell’avversario». Episodi come «il
blocco di Berlino del 1948-1949, la guerra di Corea del 1950-1953, […] e
possiamo ormai aggiungere il conflitto per Cuba di queste settimane, sono
stati tutti condotti in modo conforme a questo principio» 304. Difficile
dissentire sul fatto che una certa tendenza all’autolimitazione tra le due
superpotenze vi fosse, anche se a consigliarla era più la consapevolezza dei
rischi d’allargamento dei conflitti che non lo spirito cavalleresco.

Veniamo a Lelio Basso: antifascista sotto il regime, poi membro


dell’Assemblea Costituente, giurista di fama internazionale, teorico del
socialismo, lungamente senatore della Repubblica. Situato nell’ala sinistra
del PSI, all’epoca della crisi di Cuba egli si trovava in crescente contrasto
con le scelte filogovernative del suo partito; non a caso circa un anno dopo
sarà tra i fondatori dello scissionista PSIUP. E tale diversità di vedute
rispetto al gruppo nenniano affiora anche nella sua analisi della CMC,
pubblicata sulla sua rivista teorica «Problemi del socialismo».

[…] Quel che appare in una simile situazione particolarmente grave


– scrive Basso – è che, di fronte ad un atto di prepotenza
internazionale così aperto e conclamato, sulla cui illiceità giuridica e
morale non possono sussistere dubbi, non si siano fatte sentire voci
di protesta né nell’opinione pubblica americana né da parte dei
governi alleati, compreso il governo italiano di centro–sinistra. […]
[In USA] fra le voci che hanno udienza nel largo pubblico, solo
quella di Lippmann ha pronunciato in questa occasione parole
ragionevoli. Ma siamo completamente d’accordo con la redazione
di «Observer» nel ritenere irresponsabile l’opinione pubblica
americana e tale da poter spingere l’amministrazione, specialmente
alla vigilia di elezioni, ad atti di vera follia. Come è possibile che a
un tale popolo, il cui livello politico è poco più che primitivo, e a un
tale paese sia oggi riconosciuta la leadership del mondo
occidentale? […] E se ancora una volta non prevarrà la pessima
abitudine di archiviare immediatamente senza riflessione le vicende
politiche e di ripiombare in una colpevole tranquilla indifferenza
appena superata una crisi, forse anche questa vicenda cubana
potrebbe apportare qualche beneficio all’Occidente e anche
temperare lo zelo filoamericano di certi neofiti del PSI.
Il giudizio di Basso sugli Stati Uniti e la loro opinione pubblica è, come
si vede, assai severo. Tutto il contrario di quello di Prezzolini. «Le ultime
vicende cubane – aggiungeva – hanno mostrato l’assoluta inesistenza di una
corrente liberale […] negli USA» oltre che nel governo Kennedy. Ricordate
poi le ragioni dell’inconsistenza giuridica della «tanto invocata dottrina
Monroe» 305, Basso ammetteva che «l’imperialismo statunitense [è] uscito
vittorioso da una prova di prepotenza» ma si diceva fiducioso che «il tempo
disperderà facilmente il profitto che l’imperialismo può aver tratto
dall’operazione e aiuterà la formazione di una coscienza socialista fra i
popoli dell’America Latina». Quanto all’URSS, «vi è stato probabilmente
da parte dei sovietici un errore di sottovalutazione delle reazioni americane
[…] ma bisogna dar atto ai dirigenti sovietici che, se errore iniziale vi fu,
essi seppero tuttavia uscire dall’impasse, in cui si erano cacciati, con abilità
e disinvoltura e certo non si può dar loro torto per aver preferito la ritirata
alla guerra termonucleare». Anche perché «la lotta di classe si combatte con
armi diverse dai missili e […] l’arma più forte di cui la rivoluzione cubana
dispone è l’esempio che essa offre a tutti i popoli dell’America Latina e del
mondo. […] È a queste armi che va il nostro appassionato interesse» 306.

Altra voce di un certo rilievo nella cultura politica italiana dell’epoca era
Enzo Enriques Agnoletti. Anch’egli mandato al confino sotto il fascismo,
poi partigiano e azionista, era allora vicesindaco di Firenze (giunta La Pira)
e direttore della prestigiosa rivista «Il Ponte», fondata dal suo maestro Piero
Calamandrei. Alla CMC Enriques Agnoletti dedicò un articolo scritto a crisi
ancora non del tutto risolta e significativamente intitolato ONU sì, yankee
no, parafrasando lo slogan diffuso tra i comunisti («Cuba sì, yankee no»).

Cuba non porterà, ne siamo convinti, alla guerra atomica. Ma se noi


ci prospettiamo l’avvenire per i prossimi cento anni, e se in questo
avvenire dovranno seguitare a trovar posto crisi del genere, le
probabilità di evitare la guerra sembrano piuttosto scarse. […] A chi
diceva che le armi atomiche stabilendo l’equilibrio del terrore
avrebbero reso impossibile la guerra, Piero Calamandrei rispondeva
che […] se una parte conta sul ritegno dell’altra a muoversi, e
avanza di un passo, l’altra può fare lo stesso calcolo, e avanzare di
un altro passo, fino a che l’urto rischia, proprio per il terrore
dell’avversario e la speranza di precedere l’altra parte, di diventare
inevitabile. […] Esiste un rimedio a questa prospettiva? […] Il
rimedio è il monopolio degli armamenti atomici, che poi è il solo
modo per distruggerli.

Il che però implicherebbe naturalmente «modifiche profondissime» da


apportare all’ONU, «e anche al sistema interno degli stati detentori di
armamenti atomici. La via è dunque lunga, difficile e incerta. Ma l’unica
attenuante per sceglierla è che altra scelta non c’è» 307.

Eventi come quelli della crisi cubana difficilmente potevano lasciare


indifferente un uomo come don Lorenzo Milani, il sacerdote e scrittore
fiorentino che sul muro della sua scuola del paesino di Barbiana aveva fatto
scrivere il motto americano I care. Sebbene non vi siano state sue prese di
posizione riguardo alla crisi cubana (almeno non al di fuori di Barbiana) 308,
egli vi fece poi un interessante cenno nella sua «lettera ai giudici»,
preparata nel 1965 come autodifesa per il processo intentatogli per aver
difeso l’obiezione di coscienza (allora ancora reato). Il suo richiamo alla
CMC, che riportiamo in nota, aveva qui una funzione esemplificativa del
carattere di assoluta illiceità della «guerra futura», reso evidente dalle
parole scambiatesi tra Kennedy e Kruscev durante la crisi 309. Don Milani
portava cioè la CMC come esempio dell’assurdità del voler negare il diritto
individuale di rifiutarsi di prender parte personalmente a una guerra, perfino
nell’era in cui questa poteva arrivare ad essere termonucleare.

Questa tematica dell’obiezione di coscienza ci riporta ad Aldo Capitini,


che era stato colui che ne aveva suscitato l’interesse in don Milani (i due si
erano incontrati a Barbiana nel 1961 ed erano legati da reciproca stima) 310.
La sua reazione alla CMC, oltre che dalla sua adesione alla manifestazione
a Matera e alla successiva marcia di Altamura (si veda sopra), emerge
anche da una lettera privata, scritta a crisi ancora in corso (27 ottobre)
all’amico Goffredo Fofi.

Non sono andato al Brancaccio a Roma – egli spiega riferendosi alla


manifestazione del 25 ottobre – per quanto invitato da Carocci,
perché […] bisogna che io tenga a fare affermazioni di valore
onnilaterale, e lì si trattava di un comitato di solidarietà con Cuba. A
parte il fatto del regime interno di Cuba, e delle uccisioni che sono
avvenute in questi mesi anche senza processo di gente lì dentro […],
è chiaro che io sono contro l’imperialismo di Kennedy, e l’ho già
scritto più volte. D’altra parte non posso approvare che si mettano
basi missilistiche né li né in ogni altro punto.

Nessuna delle parti insomma è abbastanza innocente da meritarsi un


endorsment. Di conseguenza Capitini prepara piuttosto un comunicato a
nome del Centro per la Nonviolenza 311, in cui spiega che «l’Italia è a una
scelta: o militarizzarsi sempre più o staccarsi dalle alleanze militari»,
propendendo egli naturalmente per quest’ultima soluzione. A suo avviso
infatti non si è «che all’inizio di uno smascheramento degli imperi, cioè dei
tre imperi: americano, russo e cinese» (si ricordi che in quegli stessi giorni
la Cina aveva attaccato l’India alla frontiera). Non restava quindi che
«stabilire il distacco […] [delle popolazioni] da tutti i governi, nessuno
escluso».
Posizioni simili non potevano collimare con quelle – molto più schierate
– dei comunisti, dei quali oltretutto Capitini guidicava l’impegno per la
pace decisamente troppo episodico (portandone ad esempio negativo Carlo
Levi) 312.
Dalla reazione di Capitini alla CMC emerge insomma un personaggio
che ha una chiara visione strategica e tattica della propria battaglia, seppur
minoritaria, e sta bene attento a non farsi tirare per la giacchetta da forze
meno rigorose.

Giurista, storico, intellettuale autorevole era Arturo Carlo Jemolo, di cui


abbiamo già visto un estratto del messaggio d’adesione che inviò
all’assemblea del Brancaccio durante i giorni più critici della CMC. A
distanza di alcuni mesi (aprile 1963), egli torna sull’argomento con un
lungo articolo intitolato La testa sotto l’ala. «Dopo l’incidente di Cuba, il
pubblico italiano, direi quello europeo, mi sembra abbia adottato la tattica
della testa sotto l’ala. Nessuno osa dire che si è sfiorato il pericolo della
guerra mondiale, che sarebbe bastato che la Russia esigesse un
contraccambio per ritirare i missili, perché fossimo alla guerra. È possibile
che il capo del nostro Governo abbia avuto ore di agonia, temendo un
messaggio da Mosca che gli chiedesse di dichiarare entro due ore se l’Italia
restava neutrale o entrava in guerra. Ma si evita» con estrema accuratezza
«di chiedersi se l’Italia sarebbe stata obbligata ad entrare in una guerra
iniziatasi con l’invasione americana di Cuba, od avrebbe potuto restare
nella posizione della Svizzera o della Svezia […]». Secondo Jemolo al
contrario «occorre che i problemi di politica estera e di alleanza siano
presenti alla coscienza dei popoli, discussi ogni giorno; precisamente
l’opposto di quanto segue tra noi, in cui è dichiarato malpensante e
marchiato chiunque non si proclami atlantico, ma mai si parla degli
obblighi del nostro Paese, dei limiti di essi. […] Si accarezza questa
immagine dell’evento fatale; o la pace, o la guerra: un mare di fuoco che
passa su tutta la terra, e cui nessuno può sottrarsi […]». «Sull’episodio di
Cuba la stampa indipendente ha detto la verità e non tutta la verità. La
verità: che la Russia aveva cercato di turbare lo statu quo e di inserire
armamenti in un punto nevralgico. […] Cattivo servizio alla causa della
pace, […] sicuramente. Peraltro per dire tutta la verità occorreva aggiungere
che dal punto di vista giuridico gli Stati Uniti erano dalla parte del torto» 313.
Sostanzialmente per Jemolo entrambe le superpotenze avevano avuto nella
CMC la loro parte di torti, ma egli criticava che in Italia e in Europa si
continuasse a mettere «la testa sotto l’ala» della superpotenza alleata, in
un’accettazione aprioristica delle condotte decise oltreoceano. Il suo era un
invito a superare un’eccessiva sudditanza, psicologica oltre che politica,
verso gli USA, per operare una riflessione più matura su obblighi e limiti
dell’alleanza NATO, che avrebbe potuto portare a considerare meno
automatico l’accodarsi a ogni mossa degli USA («come di un coro che deve
ripeter il motivo del tenore», secondo l’immagine vista poc’anzi in
Prezzolini). La questione posta da Jemolo chiamava dunque in causa il
problema degli spazi di autonomia disponibili nel quadro delle alleanze
internazionali in un mondo bipolare. Un problema che è rimasto d’attualità
anche oggi che il mondo bipolare non è più 314.

Della CMC scrisse anche l’amico di Jemolo Giovanni Spadolini,


autorevole giornalista (sarà anche direttore del «Corriere della Sera»),
storico, politico (negli anni Ottanta sarà presidente del Consiglio: il primo
non democristiano, provenendo egli dal Partito repubblicano). Alla crisi
cubana egli dedicò un articolo su «Nuova Antologia», in linea con la sua
posizione solidamente atlantista. «Qualcuno ha paragonato l’intervento di
Kruscev a Cuba con la spedizione di Napoleone III in Messico, negli anni
culminanti del Secondo impero. Forse il parallelo può reggere per la
violazione […] della ‘dottrina Monroe’; ma è certo che nessuna analogia si
potrebbe ritrovare […] tra la patetica e nobile figura di Massimiliano –
mandato al massacro da una cieca “ragion di stato” – e l’inquieto dittatore
cubano in cui si rispecchiano e quasi si riassumono le insufficienze e le
contraddizioni secolari, indigene, della società latinoamericana. Castro.
L’avventura […] che ha portato il mondo alle soglie della guerra atomica, è
inconcepibile senza di lui». E da qui Spadolini ne ripercorre
dettagliatamente l’ascesa, la deriva dittatoriale («mai una rivoluzione sarà
tradita come quella di Cuba»), sino alla Baia dei Porci («disgraziato
tentativo degli esuli anticastristi, mandati allo sbaraglio […] dal
controspionaggio americano secondo un piano infantile e suicida che risale
all’amministrazione Eisenhower ma che Kennedy ebbe il torto di
approvare») e all’arrivo di missili nucleari sovietici. A quel punto

non è più soltanto la ‘dottrina Monroe’ che viene fatta a pezzi. È


l’‘equilibrio del terrore’, l’equilibrio su cui riposa la pace del
mondo, ad essere compromesso. […] La posizione di Washington è
delicata, anzi drammatica. L’America non può violare i principi
dell’‘autodeterminazione dei popoli’, anche sotto un tiranno,
semplicemente perché l’America non è la Russia.

Pur se inserita nel quadro del solido atlantismo di Spadolini,


un’affermazione così assoluta, evidentemente contraddetta dalla realtà
(basti pensare ai colpi di stato organizzati dagli USA già in Iran nel 1953 o
in Guatemala nel 1954 315), appare da attribuire a un certo manicheismo
naïf, tipico della guerra fredda, che, da ambo i lati, contagiava talvolta
persino gli intellettuali più raffinati.

Non l’ha fatto nell’aprile del 1961, abbandonando al loro destino i


valorosi esuli anticastristi profughi dalle prigioni di Cuba; non può
farlo oggi che pur la minaccia cubana si è tanto aggravata. […] Di
qui il ‘blocco navale’; di qui il ricorso all’ONU […]; di qui il
perentorio invito a Kruscev. […] Di qui la settimana di ansia e
tensione drammatica che ha disegnato sul mondo angosciato e
trepidante l’ombra della guerra, il terrore della strage atomica.
Grazie alla prova di fermezza di Kennedy e del popolo americano,
[…] senza sbarco, senza invasione, senza una sola vittima 316, ma
grazie a una prova di forza che si fondava sulla coscienza delle
proprie ragioni, la Casa Bianca ha conseguito tutti i fondamentali
obiettivi che si era proposta. […] Tutti: senza eccezione. […] [L’]
atteggiamento di Kruscev […] è stato tutto sommato un
atteggiamento responsabile 317.

Ci fu infine chi dalla crisi cubana trasse alcune riflessioni


particolarmente originali, di filosofia politica più che d’analisi politica in
senso stretto. Si tratta di Nicola Chiaromonte, voce indipendente nel mondo
intellettuale italiano, refrattario ai conformismi culturali d’ogni bandiera.
Sulla crisi cubana egli scrive – sulle pagine dell’autorevole rivista «Tempo
Presente», che dirige insieme a Silone 318 – un articolo denso e complesso.
Nei limiti del possibile, proveremo a riassumere e presentare qui queste sue
Riflessioni su una crisi.

M’è sempre rimasta in mente la battuta di Jean Giradoux dopo la


crisi di Monaco: ‘Ci avevano convocato per il Giudizio Universale,
e alla fine ci han fatto sapere che la cerimonia era rinviata’. […] Io,
per conto mio, avevo passato [al tempo] un mese nello stato di
coscienza più teso, più febbrile, più tormentosamente lucido che
avessi mai conosciuto. […] Ebbi allora per la prima volta l’idea che
i potenti di questo mondo, dopo un intervallo durato poco più di un
secolo, […] erano di nuovo assurti nella sfera del sacro, tornati ad
essere come Dei, malgrado l’apparenza borghese e dimessa cui li
avevan costretti le rivoluzioni. Come Dei, non solo giocavano con i
destini degli uomini, ma mettevano anche in scena dei falsi drammi,
al fine di sgomentarli e persuaderli della loro soggezione non
solamente materiale, ma anche morale e psicologica.
Da allora, molte altre crisi son state messe in scena e si son risolte,
con sollievo generale, nello happy ending che sembra la condizione
per rassicurare le masse e continuare a tenerle in timorosa
soggezione, mentre le catastrofi invece le scatenano. In tutte, c’era
l’elemento della finzione e del miraggio, dell’urto solo in parte
reale. […] Ma in tutte era anche inevitabile che, a un certo
momento, sembrassero reali […]. La crisi di Cuba apparve molto
più minacciosa delle altre; ma presentava anche degli elementi già a
prima vista irreali. Era impossibile che la terza guerra mondiale
scoppiasse a proposito di Fidel Castro. […] L’elemento di dubbio
[…] era singolarmente rafforzato dall’imminenza delle elezioni
americane, […] dalla strettoia personale in cui sembrava trovarsi
Kennedy, accusato dagli energumeni di non far nulla contro Castro e
l’invasione comunista nelle Americhe. Irreale, dunque; manovra
tattica, forse. Ma, fra una manovra e l’altra, poteva sempre scappar
di mano un’invasione di Cuba, e sarebbe stato un disastro in ogni
caso.

Considerando poi le ragioni che potevano renderla un’utile manovra


tattica anche per Mosca,

la crisi assumeva un significato razionale, […] tutto diverso dal suo


significato apparente e pubblico, […] Su questa strada, si finiva col
pensare che Kennedy e Kruscev fossero d’accordo fin sui particolari
di una gigantesca operazione pubblicitaria, il che naturalmente era
assurdo. Ma, d’altra parte, quando si lesse il testo della lettera con la
quale Kruscev dava soddisfazione a Kennedy in termini di mai vista
cortesia, anzi umiltà, fu difficile non dirsi: ‘Insomma, prefabbricata
o no, è stata una commedia’.

Ma commedia in che senso? Non grezzamente «un inganno nel senso


volterriano o marxista, bensì» qualcosa di legato al funzionamento stesso
della politica moderna. Detto altrimenti, queste crisi, queste finzioni, sono
sì un «miraggio» («tutto accade come se l’incalzare delle notizie […] come
ci viene raffigurato dai giornali, dalla radio, dalla televisione, fosse una
sorta di melodramma imbastito […] è impossibile non esser suggestionati
da questo show»); ma esse sono in realtà «una maniera tutto sommato
forzosa di tradurre gli arcana imperii a uso delle masse». «Gli uomini di
governo, si potrebbe dire, ci ingannano costretti da una necessità alla quale
soggiacciono essi per primi, ed è quella inerente alla macchina del potere di
cui essi sono per primi servi». Si pensi, spiega Chiaromonte, alla necessità
che tali governanti hanno di conformare le proprie decisioni
all’«oligarchia» e agli «interessi della classe dominante» che li ha eletti
emissari, nonché alle ideologie e a una sorta di «Volksgeist [spirito del
popolo] che i governanti sono costretti a rappresentare». Tutto ciò non li
rende affatto individui liberi e razionali. Ne consegue che essi divengono
slegati dalle masse e il loro agire diviene incomprensibile alla gente
comune. C’è

uno straniamento tra governanti e governati che le finzioni del


linguaggio ufficiale e le fabbricazioni dei mezzi di comunicazione
di massa non riescono a sanare. […] L’uomo di Stato oggi agisce
sempre costretto, obbedisce sempre a una necessità […] Nel
linguaggio della saggezza greca egli è sempre un empio, sempre in
una situazione tale da non poter agire che per hybris. Conseguenza
di ciò è che […] scompare dall’arte di governo moderna la ragione.
[…] Pretendere dunque di capirli, gli attuali signori del mondo, è
vana pretesa. Li si può solo guardare con orrore: separati dalla
comune umanità per la natura stessa del loro potere, strumenti di
una fatalità impenetrabile […] essi sono infatti esseri sacri.

Sono riflessioni assai interessanti, che riecheggiano quelle viste in


McLuhan e in Ginsberg. Tuttavia il determinismo di Chiaromonte può a
nostro avviso essere contraddetto (o quantomeno sensibilmente temperato)
proprio dal ruolo decisivo che, nonostante tutte queste pressioni, i due
singoli governanti Kennedy e Kruscev riuscirono effettivamente a svolgere
nella CMC, determinandone il positivo esito.
Chiaromonte gira poi lo sguardo agli spettatori. «Nella misura in cui
pretendiamo di capire eventi il cui meccanismo ci è completamente
sconosciuto […] abbiamo […] il sentimento che il nostro giudizio è
inadeguato». Tale consapevolezza «avrebbe dovuto impedire a noi
intellettuali di ragionare sulla politica da ‘realisti’ e da finti politici,
pretendendo […] di metterci dal punto di vista ‘operativo’ dei governanti» o
magari perfino sperare di poter agire e modificare la situazione. (È un po’ la
stessa riflessione rivolta da Barrington Moore agli studenti di Harvard – si
veda il capitolo Stati Uniti d’America: «le alternative costruttive lasciatele a
Bundy», lui ne sa più di noi.) Secondo Chiaromonte «in realtà, intellettuali
come siamo, siamo non più che individui nella folla degli individui, soggetti
confusi nella massa». «Nella misura in cui pretende di capire il meccanismo
dei fatti […] l’intellettuale s’illude, in maniera non diversa da quella delle
masse di gente che guardano la televisione, ascoltano la radio, leggono i
giornali e credono a tutto ciò che viene loro mostrato […]. Tranne che
l’intellettuale cerca, per così dire, di fabbricarsi un proprio film personale:
dunque più falso ancora di quelli forniti dai servizi ufficiali». Lo dimostra
«l’esperienza che, insieme a milioni di uomini, noi [intellettuali] abbiamo
avuto della ‘crisi’; esperienza di spettatori impotenti e di vittime designate
eventuali». La conclusione del ragionamento non è consolante.

Democrazia significava […] propriamente quel regime di


convivenza nel quale è dato al cittadino nutrire speranza
ragionevole di poter influire sul destino comune, di contare nella
collettività come una presenza attiva e non come una cifra. […]
questo aspetto essenziale della democrazia è oggi diventato
un’illusione e una mistificazione […]. La società non è più
antropomorfa, ossia non è più retta dalle norme del discorso e delle
credenze umane, ma da necessità organiche smisurate. Così non è
più antropomorfa la politica, e non è più antropomorfa –
umanamente comprensibile – la Storia, in quanto si rivela non
tessuta dalla libertà umana, ma determinata dalla umana inerzia.
Questo è il fatto orribile che ci tiene nel timore continuo delle
apocalissi: la rinascita del sacro dalle latebre della convivenza
umana e il suo misconoscimento da parte di uomini abbrutiti dal
razionalismo utilitario e dal feticismo della forza 319.
Conclusioni

1. Abbiamo scelto di concludere con Chiaromonte la trattazione delle


reazioni degli intellettuali italiani, così come avevamo concluso con Mailer
quella degli scrittori statunitensi, in quanto i due hanno in comune il fatto di
aver portato le loro riflessioni sulla CMC su un piano progressivamente
diverso e più alto, quasi di filosofia della storia.
Tracciando un bilancio conclusivo di queste reazioni è opportuno
riallacciarci a quanto concluso relativamente alle reazioni del mondo
culturale statunitense e rilevare che gli intellettuali italiani reagirono con
voce più forte, per numeri e presenza pubblica, che non negli USA, per i
motivi già accennati in più punti della trattazione. Laddove l’opinione
pubblica italiana aveva percepito in modo minore la gravità della
situazione, la reazione dei suoi intellettuali fu invece più viva. La presenza
– «in prima linea», come esplicitamente rivendicato dal pittore Guttuso
dalla tribuna del Congresso PCI – di molti intellettuali italiani fu ben
udibile durante la CMC 320, e diede luogo anche, come ricostruito, ad aspre
polemiche politico-giornalistiche, rispecchiando anche in questo quei
caratteri di divisione e litigiosità della società italiana che già avevamo
evidenziato nella reazione del mondo politico. Sarebbe però naturalmente
riduttivo ricondurre tante eterogenee reazioni alla mera polemica sul
«culturame», alla presenza di «intellettuali organici», votati più o meno
sinceramente al servizio del partito e dell’ideologia. Perfino queste
polemiche possono esser viste, volendo, come un segno di vitalità, seppur
litigiosa. La risposta del mondo intellettuale italiano fu dunque divisa ma
dinamica, così come lo era stata anche la sua risposta politica. La
delegazione di intellettuali romani (guidata da Moravia, Pasolini Levi e
Guttuso) che, accompagnata dall’esponente politico (Berlinguer), chiede e
ottiene di essere ricevuta dalle istituzioni (ministro Piccioni), sentendosi in
dovere di far presente ai potenti la propria preoccupazione, fa perfettamente
il paio con i telegrammi di incoraggiamento spediti da La Pira ai grandi
leader internazionali, o con le mosse di Fanfani che cerca di inserirsi tra i
due giganti atomici per scardinare lo stallo coi «suoi» Jupiter. L’Italia
culturale e politica, tutt’altro che indifferente alla crisi, volle far sentire la
propria voce, per coscienza o per illudersi di contar qualcosa sul grande
scacchiere della storia. Illusa o coraggiosa che la si giudichi, essa provò
comunque a dare un proprio contributo alla risoluzione pacifica della
crisi 321.

2. Dal punto di vista politico, una caratteristica distintiva della reazione


italiana rispetto ad altri Paesi europei fu l’enfasi posta sull’ONU come via
d’uscita.
Si può poi sottolineare una curiosa simmetria: mentre Fanfani dava un
supporto riluttante alle mosse statunitensi (che giudicava troppo rischiose),
Togliatti lodava pubblicamente l’URSS covando non meno dubbi su quelle
di Kruscev (che giudicava troppo avventuristiche). Entrambi i leader,
insomma, in quel frangente erano abbastanza scontenti della rispettiva
superpotenza, pur senza poterlo dire.
Quanto poi alle conseguenze della CMC sull’Italia, va menzionato
anzitutto il ritiro delle basi di missili Jupiter, rientrati anch’essi, di fatto,
nella promessa rimozione dei missili turchi (anche a prescindere dall’offerta
probabilmente fatta filtrare da Fanfani) 322; in secondo luogo, il sostanziale
superamento del primo vero «test» di affidabilità internazionale della nuova
formula del centro-sinistra, che contribuì a rassicurare chi – in patria e fuori
– ne temeva i rischi di spostamento internazionale dell’Italia, facilitandone
dunque la successiva realizzazione 323.

3. L’opinione pubblica italiana non si potrebbe definire disattenta, ma


certo neanche terrorizzata. Anche il rapporto del consolato USA, come si è
visto, la descriveva come «quiet, watchful». L’assenza di fenomeni di panic
buying, nonché quella di grosse manifestazioni di piazza, sono alcuni dei
vari elementi esposti in questo capitolo che stanno a dimostrarlo. Abbiamo
visto come ciò non sia stato dovuto solo alla tradizionale scarsa attenzione
degli italiani ai fatti di politica internazionale. La fiducia in un esito
negoziale fu un fattore di relativa tranquillizzazione. A tal proposito, oltre a
quanto già esposto, può valere la pena di aggiungere (qui in nota) anche i
pareri concordi di due parlamentari di sponde opposte: il comunista Mario
Alicata e il missino Pino Romualdi 324.
Al di là di quanto fosse effettivamente fondato lo scetticismo
dell’opinione pubblica italiana sui rischi di guerra, essa avvertì nel
raggiungimento di una soluzione pacifica il proprio desiderio prioritario, al
di sopra dei termini del compromesso tra le due superpotenze.
La percezione della crisi in Italia fu dunque assai più vivace tra gli
intellettuali, i giornali e la politica, che non tra la gente comune 325 – a
differenza degli Stati Uniti, dove invece la percezione della crisi risultò
molto acuta in tutti questi ambiti.

4. Altra caratteristica saliente della reazione italiana fu la sua divisività.


Si è visto in questo capitolo come la stampa italiana abbia raccontato gli
stessi eventi in modo notevolmente diverso e fortemente polarizzato a
seconda della rispettiva colorazione. Quanto alla politica, poi, vale la pena
di sottolineare come la crisi di Cuba abbia non solo evidenziato notevoli
inimicizie personali tra le istituzioni (Segni vs Fanfani, Fanfani vs
Andreotti), oltre alle contrapposizioni più prevedibili tra maggioranza e
opposizioni, ma addirittura abbia portato, come si è illustrato, a spaccature
interne in tutti e tre i maggiori partiti italiani: DC, PCI, PSI.
Quella a dividersi, del resto, è una tendenza storica dell’Italia, sin dai
tempi di guelfi e ghibellini, ampiamente teorizzata da molti studiosi 326.
Così, proprio come nella reazione statunitense alla CMC si era palesata la
tendenza storica alla compattezza nazionale (l’effetto «rally ’round the
flag»), qui invece si evidenzia quella opposta, alla divisione 327. In entrambi
i casi, come si vede, l’analisi delle reazioni alla crisi ha visto emergere i
caratteri più autentici delle società coinvolte. Quasi come se esse vi
avessero involontariamente lasciato impresse le rispettive impronte digitali.
Quotidiani italiani durante la CMC: modi diversi di dare le stesse notizie.
Qui, le prime pagine del 23 ottobre 1962 de «l’Unità», «La Stampa», «Corriere della Sera»
«Il Secolo d’Italia», 24 ottobre 1962. Titolo italocentrico per il quotidiano dell’MSI.

***

Durante la fase centrale della settimana della CMC, emerge da tutti i principali quotidiani il
carattere drammatico della crisi in corso.

«Corriere della Sera», 24 ottobre 1962.


«l’Unità», 25 ottobre 1962.

«Il Giorno», 25 ottobre 1962.

«L’Unità», 27 ottobre 1962.


Il 27 ottobre 1962 «Il Paese» sostiene l’inesistenza di basi sovietiche a Cuba.
Poche ore dopo saranno le stesse affermazioni di Kruscev a smentirlo.

***

27 ottobre 1962: Kruscev propone pubblicamente un ritiro congiunto di missili dalla Turchia e da
Cuba. Il giorno dopo «l’Unità» e «Il Tempo» riportano così la notizia.
Il 28 ottobre Kruscev comunica che rimuoverà i missili da Cuba e la crisi si risolve.
Ecco come lo raccontarono alcuni quotidiani italiani. Da destra a sinistra in senso politico, «Il
Tempo», il «Corriere della Sera», l’«Avanti!», «Il Paese», «l’Unità».
(N.B.: «Il Paese» e l’«Avanti!», che non uscivano il lunedì, diedero la notizia martedì 30 ottobre.)
6
Scienza e guerra atomica.
Scienziati

24 ottobre, 1962: Sto scrivendo su un aereo in volo da Los Angeles


a Washington e per quanto ne so quest’editoriale, in onore del
ventesimo anniversario del primo rilascio di energia nucleare
controllato dall’uomo, potrebbe non venir mai pubblicato. Questa
mattina, i governi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica stavano
muovendo inesorabilmente verso il conflitto armato nei Caraibi.
Missili ed aerei sono in posizione su ambo i lati, pronti a sganciare
le loro armi mortali sui propri obiettivi. Entro domani, se
l’inflessibilità persiste o se qualcuno nell’Unione Sovietica o a Cuba
o nel nostro stesso governo prende la decisione sbagliata, la grande
guerra nucleare aperta che abbiamo discusso e temuto per vent’anni,
può venir innescata. Mai prima d’ora nella storia popoli e nazioni
sono stati così vicini a morte e distruzione su una scala tanto vasta.
La mezzanotte è sopra di noi.

Attaccava così l’editoriale del prestigioso «Bulletin of Atomic


Scientists», massimo punto di riferimento in fatto di studi nucleari, nel suo
numero di fine 1962. A scriverlo era Harrison Brown, geofisico
californiano nonché dirigente della National Academy of Sciences.

Mentre guardo indietro agli eventi degli ultimi vent’anni –


proseguiva – mi sento frustrato e stanco, addolorato ed arrabbiato.
La mia rabbia è diretta in modo ampio. […] Guardando indietro uno
non può fare a meno di chiedersi quale sarebbe oggi la situazione se
le decisioni fossero state prese differentemente. Quale sarebbe la
nostra posizione attuale se noi non avessimo usato la bomba sin
dall’inizio? Quale sarebbe se non avessimo [fatto affidamento] […]
sulla stima che l’Unione Sovietica avrebbe avuto bisogno di
parecchi anni o finanche di decenni per sviluppare le sue proprie
armi nucleari? […] Quale sarebbe la nostra situazione se i russi non
avessero spinto il loro stesso sistema in modo così forte e spietato
dopo la guerra o se si fossero comportati in modo meno
intransigente durante gli anni passati? Quale sarebbe se noi
avessimo adottato un interesse più attivo e positivo verso i problemi
dello sviluppo economico cubano quindici o anche dieci anni fa? In
qualche modo, russi e americani hanno messo insieme decisioni che
nel complesso, dal punto di vista dell’umanità, sono state sbagliate.
Abbiamo permesso a noi stessi di divenire bloccati in un circolo
vizioso [to become locked in a vicious circle] da cui non ci sarà
alcuna liberazione automatica. Se vogliamo uscirne dobbiamo
pensare in termini politici che siano tanto ampi rispetto alle nostre
azioni politiche attuali quanto le bombe H sono ampie rispetto alle
bombe della seconda guerra mondiale 1.

La reazione del «Bulletin of Atomic Scientists» 2 è emblematica di quella


di certi ambienti scientifici, nel momento in cui una crisi senza precedenti
metteva gli uomini di scienza di fronte a una traumatica presa di coscienza
dei risvolti catastrofici che potevano assumere alcune delle loro scoperte.
Qualcuno tra loro aveva contribuito anche direttamente all’invenzione di
quelle armi che ora rischiavano di venire usate mettendo a repentaglio
millenni di civiltà.
Quali dunque le loro percezioni e reazioni di fronte a ciò che stava
succedendo?

Uno scienziato molto preoccupato dagli scenari internazionali era Leo


Szilard. Fisico ungherese di origini ebraiche, costretto negli anni del
nazismo a lasciare la Germania, trasferendosi prima a Londra e poi negli
USA (Paese di cui poi diverrà cittadino), Szilard – stretto amico e
collaboratore di personaggi del calibro di Einstein e Fermi – era stato colui
che aveva dato l’impulso iniziale al Manhattan Project, il progetto che
durante la seconda guerra mondiale aveva avuto l’incarico di costruire la
bomba atomica per gli USA prima che vi arrivassero i tedeschi. Szilard
inoltre era stato anche il primo scienziato a concepire la reazione a catena
(passo teorico che poi si rivelerà cruciale nel cammino verso l’atomica) 3.
Nel 1945, tuttavia, quando era ormai chiaro che la Germania non
rappresentava più un pericolo in tal senso, Szilard divenne contrario all’uso
militare della nuova arma contro il Giappone. Scrisse perfino una petizione
all’allora presidente Truman per invitarlo ad evitare il lancio, suggerendogli
di attuare semmai un’esplosione dimostrativa sotto gli occhi di osservatori
giapponesi, piuttosto che procedere a sganciarla direttamente su aree
abitate. Poi, dopo Hiroshima e col progressivo perfezionamento delle armi
termonucleari, Szilard continuò a spendersi per la causa del controllo degli
armamenti. Personalità dinamica ed eccentrica, già nel 1960 egli era
riuscito ad incontrarsi con Kruscev e parlargli del problema; nel 1961 aveva
scritto una petizione fortemente critica a JFK (in cui tra l’altro si criticava
anche la Baia dei Porci) 4 e nel 1962 aveva fondato un apposito comitato
politico, il Council for a Livable World (inizialmente chiamato Council for
Abolishing War). Sempre nel 1962 aveva ideato il cosiddetto Angels
Project, un suo piano per organizzare meeting informali tra funzionari
sovietici ed americani animati da spirito collaborativo (e perciò definiti
«angeli») intenzionati a spingere discretamente i rispettivi governi verso
l’adozione di progressive misure di disarmo. Fu in questo contesto di
appassionato attivismo personale che il 9 ottobre 1962 egli aveva scritto di
nuovo a Kruscev per avere un suo benestare al progetto. La lettera,
attualmente conservata tra le sue carte negli archivi di San Diego,
conteneva anche un passaggio che può suonare profetico: «Sembrerebbe
che qualcosa dovrebbe essere fatta in questo momento se si vuole che la
corsa agli armamenti sia arrestata prima che essa raggiunga un punto di non
ritorno». Suggeriva quindi a Kruscev di agire in fretta, subito dopo le
elezioni USA di inizio novembre: «Sarebbe comunque desiderabile tenere
la riunione il prima possibile, prima che il problema di Berlino raggiunga
uno stadio di crisi» 5. Szilard si sbagliava (come molti altri) sull’oggetto
della prossima crisi, ma non sulla sua imminenza. Difatti prima ancora che
il premier sovietico potesse rispondergli, scoppiò la CMC.
E fu allora che Szilard divenne, secondo la propria stessa definizione, «il
primo rifugiato della terza guerra mondiale» 6.
Lo scienziato infatti decise in quei giorni di attuare una drastica fuga
dagli USA, per mettersi in salvo prima che diventasse troppo tardi. «Mi
sono andato sempre più convincendo che questo Paese arriverà a soffrire» 7,
spiegherà poi lui stesso ad un amico. «Se rimanessi a Washington finché le
bombe non cominciano a cadere e perissi nei disordini che seguirebbero, sul
letto di morte mi considererei non un eroe, ma uno stupido» 8. Fu così che –
come dettagliatamente ricostruito dal suo biografo William Lanouette 9 –
egli decise di lasciare in fretta il Paese. Già poco prima del discorso di JFK
avvisò per telefono un suo collaboratore del Council: «Vieni qui subito,
Forbes. […] Kennedy sta per parlare di Cuba. Temo che reagirà
esageratamente [I fear he will overreact]». Ascoltò il discorso insieme a
Forbes e Marcus Raskin (uno degli analisti di Bundy sui problemi del
disarmo), dalla tv della stanza d’hotel a Washington dove risiedeva. «Un
blocco è un atto di guerra […] un atto di guerra», commentò subito,
pallidissimo in viso. La sera stessa una dozzina di giovani accorsero alla sua
camera d’hotel in Dupont Circle per chiedergli consiglio su cosa si potesse
fare. «Niente», fu la sua risposta. «È senza speranza». Poi, in una
chiacchierata tra il depresso e il divagante, confessò loro di non aver saputo
controllare l’arma che egli stesso aveva contribuito a creare, di temere che
essa ora distruggesse il mondo, e di sperare che fossero i giovani a rimettere
insieme i frantumi. Il mattino dopo fu visto entrare e uscire nervosamente
dall’albergo, fare continue telefonate – tra cui una al Papa (nella speranza
che questi potesse avere presa sul cattolico Kennedy), che però non arrivò
mai a destinazione. Ritirò poi i suoi soldi dalla banca e chiese alla moglie di
fare i bagagli (presumibilmente includendo anche la sua celebre «Big bomb
suitcase», la valigia contenente l’essenziale che egli teneva sempre a portata
di mano proprio in caso di una simile emergenza nucleare). «Dove
andiamo?», gli chiese sua moglie Trude. «Non m’interessa», rispose. Poi
decise: «Ginevra. Andiamo a Ginevra. Ti è sempre piaciuta Ginevra».
Dopodiché pranzò con Raskin, gli comunicò la sua decisione, lo sollecitò a
tenersi anche lui pronto a partire da un momento all’altro e gli offrì di
portare intanto in salvo con sé sua figlia, di appena tre anni (Raskin a
quanto pare declinò). Poche ore dopo volò dalla capitale a New York e da lì
verso Ginevra; a causa della nebbia, tuttavia, l’aereo fu costretto ad atterrare
a Roma («ora puoi vedere il Papa», gli disse allora la moglie, dando luogo
ad un suo nuovo, vano, tentativo telefonico). Finalmente la mattina del 27
Szilard giunse a Ginevra e si presentò direttamente al CERN (Centro
Europeo per la Ricerca Nucleare), tra la sorpresa del suo amico fisico Victor
Wisskopf. «Leo!», esclamò questi, alzando lo sguardo dalla scrivania, «che
ci fai qui?». «Sono il primo rifugiato dall’America, c’è una persecuzione
dei liberali, JFK è un malato, tra pochi giorni ci sarà una guerra nucleare»,
fu la risposta di Szilard.

Sistematosi a Ginevra (precisamente all’Hotel Bernina), il fisico


continuò ad attivarsi per il disarmo, come emerge chiaramente dalle sue
carte d’archivio risalenti a quelle settimane. Pochi giorni dopo l’annuncio
della rimozione dei missili cubani, il segretario alla Difesa americano
Robert McNamara, opportunamente interpellato per telefono, fece sapere a
Szilard di ritenere il suo Angels Project adesso perfino più opportuno e
possibile che non prima della CMC. Come gli riferisce un suo collaboratore
del Council, McNamara «si è raccomandato che tu proceda. […] Aveva
l’impressione che gli eventi cubani non avessero diminuito alcuna speranza
che possa essere investita su questa iniziativa. Ha suggerito specificamente
che l’opportunità potrebbe essere perfino leggermente migliorata. È stato
straordinariamente cortese nei riguardi tuoi e del tuo intento» 10. Dall’altro
lato, Kruscev aveva appena fatto sapere lo stesso, rispondendo
personalmente a Szilard con una lunga e cordialissima lettera privata, datata
4 novembre: «[…] La crisi internazionale a cui siamo appena
sopravvissuti», gli confessava il capo del Cremlino, «ricorda a tutti i popoli
di buona volontà in una forma molto acuta quanto attuale ed urgente sia la
questione di una soluzione ragionevole al problema del disarmo. Il disarmo
è necessario per escludere il pericolo di una guerra termonucleare
devastante e distruttiva, e durante questi giorni il mondo era praticamente
sull’orlo di una tale guerra». Venendo poi all’Angels Project, Kruscev
aggiungeva: «Mi piace questa proposta. […] Devono essere persone che
godono del rispetto e della fiducia dell’opinione pubblica nei loro Paesi.
[…] In tal caso le loro conclusioni potrebbero grandemente influenzare
l’opinione pubblica ed anche i funzionari e i governi dovrebbero dar loro
ascolto» 11. La lettera si concludeva con un invito personale a Szilard perché
si recasse a Mosca a tal fine. Ma mentre lo scienziato si preparava a dar
seguito a questi importanti contatti, giunse come una doccia fredda il parere
negativo di Bundy in merito al progetto 12, portando a uno slittamento del
viaggio che, nonostante i successivi tentativi di rimediare dello scienziato 13,
sarà di fatto il preludio all’abbandono definitivo del progetto 14. Alla base
delle perplessità vi erano dubbi sull’opportunità di affidare una missione
tanto delicata ad una personalità come Szilard 15. Si tenga pure presente che
la sua precipitosa fuga dagli USA non aveva certo giovato alla sua
immagine (secondo un suo conoscente, il sociologo Harold Orlans, «il suo
volo in Svizzera durante la crisi dei missili danneggiò la sua reputazione sia
come analista attendibile sia come leader della causa antinucleare» 16). Così
a metà dicembre Szilard rientrò a Washington, tra lo stallo dell’Angels
Project e la delusione suscitata nei collaboratori dalla sua precipitosa
partenza (Forbes ne era rimasto «disgustato»; un’altra dirigente del Council
si sentì «così delusa» da pensare alle dimissioni: «mi aveva predicato:
‘stiamo salvando il mondo’ e poi ci aveva abbandonato») 17.

Leo Szilard.
Ciò spiegherebbe anche il tono giustificatorio emergente da una «bozza
di memorandum sulla crisi dei missili di Cuba», che Szilard redasse nei
mesi successivi alla CMC, e che risulta interessante anche in quanto
esprime le sue considerazioni politiche riguardo a quegli eventi.
Considerazioni che, anche a crisi risolta, restavano contrarie alla rischiosa
condotta adottata da JFK: «In queste circostanze» in cui gli eventi andavano
troppo veloci

[…] sarebbe stato quasi impossibile per il Council dare un


contributo costruttivo alla risoluzione della crisi cubana rilasciando
dichiarazioni alla stampa. Certo, il Council avrebbe potuto alzare la
propria voce in protesta, ma il Council non è inteso ad agire tramite
proteste una volta che il danno è fatto. Durante la fase iniziale della
crisi cubana, non potei raggiungere a Washington nessuno di coloro
che erano coinvolti nelle decisioni ora per ora, e alla fine conclusi
che non c’era nulla che né il Council né del resto io personalmente
potessimo fare che potesse influenzare il corso degli eventi. […]
Quando scoprii [ciò] […], il 24 ottobre lasciai Washington per
Ginevra, un punto vantaggioso dal quale potevo valutare gli eventi
molto meglio di come avrei potuto fare se fossi rimasto a
Washington.

Quanto a Kennedy, proclamando il blocco «egli ha preso un rischio che


una nave russa oltrepassasse il blocco di Cuba e fosse affondata da una nave
da guerra americana. Ciò sarebbe stato naturalmente un atto di guerra e da lì
in poi si sarebbe potuta avere un’escalation passo per passo». Perciò,
«ritenni allora, e ritengo ora retrospettivamente, che», con la sua decisione,
JFK «abbia preso un rischio di circa 1 a 10 di coinvolgere gli Stati Uniti in
una grande guerra dall’esito incerto. Si è detto spesso che oggigiorno che
una guerra può facilmente salire al livello di un’aperta guerra atomica né
l’America né la Russia rischieranno la guerra. La crisi cubana ha mostrato
che questa tesi non è corretta» 18.
Quale che sia il giudizio su tali considerazioni o sulla sua reazione
personale di fronte ai pericoli della CMC, quella di Szilard resta una figura
emblematica di geniale scienziato spaventato dall’uso dell’arma che egli
stesso aveva contribuito a forgiare e poi appassionatamente impegnatosi per
scongiurarne l’uso.

Un altro scienziato che aveva partecipato al Manhattan Project e


successivamente si era speso per mettere in guardia su pericoli ed eccessi
della corsa agli armamenti nucleari era l’americano Ralph E. Lapp. Nel
dopoguerra egli scrisse numerosi libri a tal fine. Uno di questi, per
interessante coincidenza, uscì in libreria proprio lo stesso giorno in cui il
discorso di JFK annunciava al mondo la crisi di Cuba. Il libro si intitolava
Kill and overkill («uccidere e uccidere in eccesso») 19, con riferimento al
fatto che ormai gli USA avevano accumulato «abbastanza esplosivi nucleari
da sovra-uccidere [overkill] l’Unione Sovietica almeno venticinque volte».
L’assurdità della situazione era evidente. Oltretutto perché, sosteneva Lapp
nel presentare il volume alla stampa proprio alla vigilia della crisi, «gli Stati
Uniti non possono fermare il comunismo tramite armi nucleari senza
distruggere se stessi, né il comunismo può rovesciare il capitalismo con la
forza senza subire lo stesso destino». Di conseguenza, secondo Lapp
«l’infinita produzione di bombe da parte della Commissione per l’Energia
Atomica dovrebbe essere annullata una buona volta», destinando piuttosto i
relativi sforzi e denaro a campi come «scienza e utilizzo pacifico
dell’energia nucleare» 20. Il libro, che illustrava anche i vari casi in cui si era
andati vicino ad esplosioni nucleari puramente accidentali, riscosse
attenzione a livello internazionale (in Italia per esempio «l’Unità» del 22
ottobre gli dedicò addirittura il titolo d’apertura della prima pagina) 21.
Appena quattro giorni dopo, ormai nel mezzo della CMC, una pubblicità sul
«New York Times» poteva consigliarne la lettura «to understand the
present crisis» 22.
Dopo la CMC, Lapp fu tra gli scienziati che si batterono per il
raggiungimento del Limited Test Ban Treaty (il già citato Trattato di messa
al bando parziale dei test atomici), giudicandolo un primo passo non più
ulteriormente procrastinabile alla luce degli eventi verificatisi in ottobre 23.

Fisico italiano di origine ebraica, allievo e collaboratore di Fermi, come


questi emigrato negli USA a seguito delle leggi razziali del 1938 e poi
divenuto cittadino americano, Emilio Segrè era stato un altro membro del
Manhattan Project che aveva realizzato l’atomica. Nel 1959, poi, aveva
vinto il Premio Nobel. Nell’autunno del 1962 si trovava in Asia per un tour
di conferenze accademiche mentre scoppiò la CMC. Decenni dopo,
scrivendo la sua autobiografia, egli ricorderà di come ne apprese: «Dopo
parecchi giorni trascorsi in Cambogia senza leggere il giornale, arrivai a
Bangkok per tenere una conferenza. Un funzionario dell’ambasciata mi
venne a prendere e mi portò direttamente al luogo della lezione. Strada
facendo mi disse che le notizie su Cuba erano un po’ migliori. Io non
sapevo nulla della crisi cubana, allora in pieno sviluppo; in auto il
funzionario mi dette un po’ di notizie e io rimasi sbalordito [I was
flabbergasted]. Ricordo benissimo la strana sensazione di fare un discorso
di fisica come un automa, praticamente senza sapere quello che dicevo, con
la testa rivolta a quello che avevo sentito in auto, e la preoccupazione per i
figli lasciati a Lafayette [in California]» 24.
Il fisico che proprio con Segrè aveva condiviso il Premio Nobel 1959 per
la scoperta dell’antiprotone, Owen Chamberlain, era stato anch’egli colpito
dalla crisi in corso. Egli era uno degli otto premi Nobel (tre in fisica, tre in
medicina, due in chimica: tutti americani) che – insieme a nove esperti di
politica estera (tra cui James Wadsworth, l’ex ambasciatore all’ONU sotto
Eisenhower) – il 28 ottobre si erano riuniti a Washington, sotto gli auspici
del Peace Research Institute, per stilare una doppia proposta di soluzione
della crisi. Essa poteva consistere, a loro avviso, o in una «rimozione
congiunta» dei missili da Cuba, Italia e Turchia, oppure nel fare di Cuba
«un esperimento speciale nell’attuazione di un disarmo generale e
completo», attuando una demilitarizzazione dell’isola tanto da parte
sovietica, quanto da parte americana (Guantanamo) e dello stesso esercito
cubano, ponendo l’isola sotto esclusiva protezione dell’ONU. (Questa
seconda opzione di soluzione in realtà appare irrealistica: non era certo
quello né il luogo né il momento più appropriato per fare esperimenti così
complessi. Castro poi sarebbe stato il primo a rifiutarli con scherno.)
L’appello passò sotto silenzio, nonostante l’importanza dei firmatari, per via
del contemporaneo esito della CMC 25. Tuttavia esso conferma l’attivismo
degli scienziati, che, come si vede, furono una delle categorie che ebbe una
percezione tra le più forti dei rischi della crisi.
Una conferma arriva anche dal fisico britannico Joseph Rotblat, che in
un’intervista del 2002 ricordò: «Noi scienziati realizzammo, all’epoca,
quanto davvero pericolosa fosse la situazione. Non era noto alla gente
comune fino ad anni recenti» 26. Analoghi i ricordi di Elaine Kistiakowski,
vedova del chimico e consigliere scientifico del presidente Eisenhower, la
quale ci ha scritto così: «Inutile dire che eravamo tutti spaventati. E quelli
con più conoscenza erano di gran lunga i più spaventati di tutti» 27.
Superati i rischi, poi, molti scienziati passarono ben volentieri a
sottolineare il clima di distensione seguito alla risoluzione della crisi. Così,
nell’aprile 1963 la Federazione degli Scienziati Americani (FAS) notò che
«una nuova atmosfera sembra essere emersa, forse in conseguenza della
crisi cubana», in cui pareva più realistico riuscire a concludere accordi di
disarmo con l’URSS 28. La FAS sottolineò inoltre che la CMC era stata per
gli USA una vittoria dovuta alla superiorità non in armi nucleari, bensì
convenzionali 29, e che in ogni caso essa era stata «una vittoria molto
pericolosa», che perciò non poteva giustificare l’uso politico di minacce
nucleari in futuro 30.
All’inizio del 1964, anche lo scienziato americano Eugene Rabinowitch
– che personalmente era rimasto «inorridito» dalla crisi 31 – scrisse con
felice sintesi, sul «Bulletin of Atomic Scientists» da lui diretto, che «la
reazione generale, seppur largamente inespressa, della gente d’ogni luogo
all’esito della crisi cubana è stata che le grandi potenze avevano guardato
nel volto di Medusa della guerra nucleare ed erano indietreggiati di fronte
ad esso». Avendo accantonato, in seguito a quello spavento, le politiche di
brinkmanship, «le nazioni potevano tornare alle loro preoccupazioni interne
e a lotte meno apocalittiche» 32. Un’ulteriore conferma del relativo
ottimismo diffusosi anche nel mondo scientifico nel periodo successivo alla
CMC la vedremo tra breve fra le dichiarazioni di J.D. Bernal.

Altro membro del Manhattan Project era stato il chimico ucraino


naturalizzato americano George Kistiakowsky, già consigliere scientifico
dell’amministrazione Eisenhower. Durante la CMC egli a quanto pare
congedò in anticipo dalle lezioni i propri studenti di Harvard, per
permettere loro di tornare a casa, dicendo: «la guerra è vicina» 33.
Chi, tra i vari scienziati partecipanti al Manhattan Project, era stato
l’unico a scegliere di abbandonarlo per motivi etici, era il fisico polacco
naturalizzato britannico Joseph Rotblat. Avendo accettato di contribuire
all’atomica solo per garantire un deterrente adeguato di fronte alla
prospettiva di un’atomica nazista, una volta divenuto chiaro che il Terzo
Reich non sarebbe arrivato a realizzarla, Rotblat volle essere coerente e
abbandonò il gruppo, tornandosene in Gran Bretagna 34. Nel 1955 fu poi tra
i firmatari del celebre «Manifesto Einstein-Russell» contro le armi nucleari
e, sulla scia di tale manifesto, nel 1957 fu, sempre con Russell, tra i
fondatori del movimento Pugwash. Chiamato così dal nome del villaggio
canadese dove esso fu fondato, il movimento era «un’unione di scienziati
preoccupati delle relazioni tra scienza e società», secondo la definizione di
Rotblat 35. In altre parole, il Pugwash era un comitato internazionale dedito
ad organizzare discretamente conferenze tra eminenti scienziati di ambo i
blocchi, per consentire loro di discutere privatamente dei rapporti tra
scienza e affari internazionali e dei modi per influire sulle rispettive
leadership, in direzione della pace e del disarmo. Quando scoppiò la CMC,
il gruppo di Pugwash non tardò a muoversi. «All’inizio della crisi, il
segretario generale» Joseph Rotblat «trasmise un messaggio dagli scienziati
americani del Pugwash ai loro colleghi in Unione Sovietica, chiedendo loro
di esortare il governo sovietico a dirottare le navi in rotta dirette a Cuba per
evitare un incidente, e al tempo stesso impegnandosi a spronare il governo
degli Stati Uniti a non intraprendere alcun’azione precipitosa». Tra breve
vedremo quale sia lo scienziato attraverso cui, con ogni probabilità, questo
messaggio arrivò sino al Cremlino. Dopodiché, Rotblat – che «in quei
giorni fu in contatto telefonico quasi continuo» con gli scienziati di
Washington e Mosca – «convocò un meeting d’emergenza di influenti
scienziati» sovietici e americani, «per discutere i mezzi per risolvere la
crisi» 36. L’incontro era stato fissato per il 4 novembre in una località della
Gran Bretagna e tra coloro che erano stati contattati per partecipare vi
erano: gli americani Jerome Wiesner (consigliere scientifico del presidente
Kennedy) e Harrison Brown (qui già visto in apertura di capitolo); i
sovietici Alexander Topchiev ed Evgenii Fedorov; il britannico John D.
Cockroft (premio Nobel per la fisica) 37. Il necessario appoggio dei rispettivi
governi a quest’iniziativa fu ottenuto nel giro di pochi giorni. Nel
frattempo, però, la crisi si risolse e il meeting d’emergenza, divenuto
superfluo, non si tenne. Resta dunque «difficile da dire» 38, secondo le
parole dello stesso Rotblat, quale influenza concreta abbia avuto il Pugwash
nella CMC, ma di sicuro esso si era dimostrato un efficace canale di
comunicazione tra scienziati e leadership delle due superpotenze, attivabile
anche in tempi così ristretti e così delicati 39.
Alla base di questi tentativi di mediazione c’era spesso una forte
reazione emotiva. Lo si vede anche dal discorso che Joseph Rotblat
pronunciò a Oslo quando ritirò il Premio Nobel per la pace a nome del
Pugwash, nel 1995. Oltre tre decenni dopo, la memoria di quella settimana
era ancora viva in lui: «Il momento più terrificante della mia vita fu
l’ottobre 1962, durante la crisi dei missili di Cuba. Non sapevo tutti i fatti
[…] ma ciò che sapevo era abbastanza da farmi tremare. Le vite di milioni
di persone erano sul punto di finire bruscamente. Milioni di altre avrebbero
sofferto una morte d’agonia [uccise dal fallout]; il grosso della nostra civiltà
stava per essere distrutto. Dipendeva tutto dalla decisione di un uomo,
Nikita Kruscev: avrebbe ceduto o no all’ultimatum degli USA? Questa è la
realtà delle armi nucleari: possono scatenare una guerra mondiale. Una
guerra che, a differenza delle precedenti, distrugge tutta la civiltà» 40.

Queste importanti parole dell’ottantasettenne Rotblat ci sembrano


riecheggiare da vicino quelle usate dal suo amico matematico Bertrand
Russell, che così aveva descritto la CMC: «Mai, nel corso della mia lunga
vita, ho provato qualcosa di simile all’angoscia di quei giorni cruciali. […]
Vedevo nella mia mente tutto il mondo in fiamme fra qualche giorno, la
razza umana estinta e i pochi sopravvissuti ridotti in condizioni di estrema
miseria. Di ora in ora la fatale notizia era attesa» 41.
Tale emotività aiutava ad attivarsi e reagire, ma non sempre a farlo con
efficacia. Se il Pugwash di Rotblat si era mosso cercando accuratamente il
benestare dei governi, Russell invece non aveva lesinato parole dure nel
rivolgersi a JFK e Macmillan, ammettendo poi egli stesso che talvolta il suo
tono non aveva aiutato: «Mi rincresce di non aver usato termini più cortesi
nel telegramma che inviai al presidente Kennedy il 23 ottobre. Riconosco
che quell’andar diritto al segno rendeva poco probabile che esso smuovesse
granché 42. Ma non mi illudevo allora» di venir ascoltato dagli USA.
Kennedy, in effetti, non gradì affatto le paternali di Russell: prima gli
rispose pubblicamente informandolo che gli USA stavano discutendo il
problema all’ONU ma che «la Sua attenzione potrebbe ben dirigersi verso i
ladri piuttosto che verso coloro che li hanno scoperti». Poi, lamentandosi
privatamente di un suo ulteriore telegramma: «Mi ha chiesto se poteva far
qualcosa per me. Sì che può. Può andarsene a quel paese. L’ultima persona
al mondo con cui voglio parlare è quel figlio di puttana» 43. Non così la
pensava il segretario generale dell’ONU, U Thant, che il 28 ottobre passò
25 minuti al telefono con lui 44.

Bertrand Russell.

Proprio a Bertrand Russell si era rivolto in quei giorni il fisico tedesco


Max Born, premio Nobel nel 1954, già tra gli undici firmatari del Manifesto
Einsten-Russell. Allo scoppio della CMC, Born aveva ottant’anni e
risiedeva a Bad Pyrmont, piccola località termale della Germania Ovest.
Tuttavia per quel che poteva cercò di attivarsi. Il 23 ottobre aggiunse a
penna un post scriptum ad una sua lettera dattiloscritta di risposta a Russell
(evidentemente già sul punto di essere imbucata) nella quale si discuteva la
creazione di una nuova fondazione per la pace: «Ieri ho ascoltato via radio
la decisione di Kennedy di bloccare Cuba. Mi chiedo se tutti i nostri sforzi
non arrivino troppo tardi» 45. Un accenno turbato, quasi sconsolato, che
conferma come in quelle ore un’escalation della crisi potesse apparire
ormai quasi inesorabile.
Due giorni dopo, il 25, Born inviò a Russell anche un telegramma, in
cui, avendo evidentemente appreso delle sue prime iniziative 46, gli
comunicava di essere «desideroso di unirmi a lei nella più netta protesta
contro le folli azioni militaristiche di entrambe le parti riguardo a Cuba».
Russell rispose telegraficamente lo stesso giorno, rassicurandolo di essere
«ancora in contatto con Kruscev» 47. Il giorno dopo allora Born tornò a
scrivergli, dandogli atto di aver adottato la tattica più efficace e
informandolo: «Qui noi stiamo facendo quel che possiamo per opporci alla
mentalità da guerra» 48. Appena la crisi si risolse, Russell gli rispose con una
lunga lettera, in cui tra l’altro spiegava la scelta di mandare telegrammi
personali piuttosto che mettere insieme petizioni: «Il tempo e le circostanze
suggerivano che il corso [d’azione] che ho adottato potesse avere più
efficacia, in questo caso» 49.
Difficile dargli torto, considerato l’impatto (pubblico senz’altro, e in una
certa misura anche politico) che effettivamente riuscirono a raggiungere
alcuni dei molti telegrammi da lui inviati in quei giorni ai leader coinvolti
(Kruscev, Kennedy, Thant, Castro, Macmillan) 50. In particolare la prima
risposta che egli ricevette da Kruscev, il 24 ottobre (si veda la Parte prima),
di fatto marcò una svolta nella percezione pubblica dell’andamento della
crisi: fu allora che l’opinione pubblica internazionale capì che il Cremlino
in realtà non stava cercando uno scontro (come infatti abbiamo visto, nel
capitolo Stati Uniti d’America, che si rispecchiò subito anche negli
andamenti di Wall Street).

***

Molte delle reazioni di scienziati che stiamo incontrando vennero, come


si vede, da fisici. Ciò non sorprende, sia perché, tra le varie categorie di
scienziati, essi erano quelli più direttamente connessi alla realizzazione
delle armi nucleari, sia per la loro particolare posizione di influenza
pubblica (maggiore di quella di chimici o geologi, per esempio), dovuta al
fatto che dalla seconda guerra mondiale in poi le applicazioni militari delle
loro scoperte (radar, bombe atomiche e razzi) avevano portato il loro ramo
della scienza ad essere identificato col concetto stesso di sicurezza
nazionale 51. In particolare negli Stati Uniti, gli scienziati avevano assunto
un’influenza senza precedenti sul potere politico, relativamente alle
politiche nucleari (disarmo, deterrenza, nuove armi, test, ecc.) 52.

Tuttavia, i fisici non furono gli unici scienziati a reagire; né lo furono gli
scienziati occidentali. Anche in URSS, nonostante la percezione della crisi
lì fosse più attutita, diversi scienziati risultarono allarmati.
Ecco per esempio il ricordo di un grande astronauta sovietico, Alexei
Leonov, il primo uomo a «camminare» nello spazio. Quando la crisi
scoppiò, «pensai che avrei dovuto abbandonare il programma spaziale e
ritornare al servizio normale come pilota di combattimento. Sembrava
sicuro che il conflitto sarebbe finito male. Avevo incubi su un imminente
olocausto nucleare. Ma Kennedy fu più saggio dei suoi [pochi] anni. Riuscì
a disinnescare la situazione» 53.
Significativo della tensione che attraversò durante i giorni della crisi i
vertici del mondo scientifico e missilistico sovietico è pure l’episodio
recentemente rivelato dall’ingegnere spaziale Boris Chertok (che era il vice
del leader del programma spaziale sovietico, Sergei Korolev). Egli racconta
come i preparativi in corso alla base/cosmodromo di Baikonur (in
Kazakhstan, allora parte dell’URSS) in vista dell’imminente lancio del
razzo sovietico diretto a Marte vennero improvvisamente interrotti dalla
crisi cubana, il 27 ottobre, quando il razzo spaziale venne rimosso dalla
rampa di lancio per sostituirlo con uno dei missili nucleari intercontinentali
R-7, su ordine tassativo delle autorità militari 54. La sorpresa e i tentativi di
Chertok di convincere il responsabile della base, il colonnello Anatoliy S.
Kirillov, a provare ad obiettare ad un ordine così duro da accettare, si
scontrarono con la sua intransigenza. Chertok provò a far leva
sull’importanza di non interrompere la missione spaziale; poi passò alla
motivazione etica: «Anatoliy Semyonovich! Detto tra noi due. Tu hai il
coraggio di dare il comando ‘lancio!’ ben sapendo che ciò significherà la
morte non solo di centinaia di migliaia [di persone] per quella specifica
testata, ma forse l’inizio della fine per tutti quanti? Tu comandavi una
batteria al fronte, e quando gridavi ‘Fuoco!’ era tutt’un’altra cosa». Ma il
colonnello non si scompose. «Non c’è bisogno di tormentarmi. Io ora sono
un soldato; eseguo un ordine proprio come facevo al fronte. Un ufficiale
missilistico come me, non un Kirillov ma un qualche Jones o simile, sta al
periscopio in attesa di dare l’ordine di lancio contro Mosca o contro il
nostro campo d’azione. Perciò, ti consiglio di sbrigarti ad andare a casa».
Mandato via così dal colonnello, Chertok si riunì ai suoi colleghi della base
di Baikonur, i quali mangiavano cocomero e giocavano a carte, per riempire
il tempo in attesa di notizie sulla crisi. Avendo udito alla radio degli sforzi
diplomatici ancora in corso da parte dell’ONU, il gruppo fece un brindisi
«alla salute di U Thant», aggiungendo: «E voglia Dio che questo non sia il
nostro ultimo drink». Chertok, nel frattempo, usando una linea telefonica
riservata di cui però era riuscito a procurarsi i codici di accesso, riuscì a
mettersi brevemente in contatto col suo capo, Korolev, che da Mosca lo
rassicurò di essere al corrente di quanto stava succedendo alla base e gli
ordinò di «non fare niente di stupido». L’attesa riprese. Alcune ore dopo,
arrivò infine il messaggio di Kruscev che annunciava la risoluzione della
crisi. Fu proprio il colonnello Kirillov, che lo aveva mandato via dalla base,
a darne notizia a Chertok: fermando di colpo la macchina su cui stava
procedendo e saltandone fuori appena intravisto Chertok sulla porta di casa,
Kirillov si precipitò ad abbracciarlo, urlandogli: «Tutto a posto!». I razzi
sulla rampa di lancio potevano tornare ad essere quelli spaziali. I due si
fecero dare una bottiglia di cognac e andarono immediatamente a brindare
con gli altri 55.

Interessante, su un piano invece più politico che emotivo, anche


l’intervento del chimico Alexander Topchiev, vicepresidente
dell’Accademia Sovietica delle Scienze. Comunista fervente, assai ben
inserito tra i potenti di Mosca, ma molto rispettato anche tra gli scienziati
occidentali 56, Topchiev faceva parte del movimento Pugwash da anni.
Durante la crisi, stando a quanto riporta Bertrand Russell, Topchiev «agì
immediatamente e concretamente. […] Parlò immediatamente al Primo
Ministro sovietico e si adoperò con tutte le sue forze per scongiurare il
pericolo di un intervento militare dell’URSS» 57. Non si conoscono i dettagli
di questo colloquio tra il chimico e Kruscev, ma è presumibile che esso
possa aver avuto una qualche influenza nella sua decisione di non sfidare il
blocco USA con le navi. In ogni modo già il fatto stesso che vi sia stato un
tale colloquio in un frangente simile conferma i rapporti di reciproca
influenza allora esistenti tra scienziati e potere, nonché l’importanza che
può rivestire lo studio della dimensione culturale della CMC per
comprendere meglio non solo i suoi impatti ma gli eventi stessi della crisi.
In considerazione di quanto illustrato poc’anzi a proposito del Pugwash,
appare più che probabile che l’iniziativa di Topchiev verso Kruscev sia stata
sollecitata appunto dal summenzionato telegramma degli scienziati
americani indirizzato a quelli sovietici tramite Rotblat. Un documento
inglese, del resto, mostra che tra Rotblat e Topchiev ci fu un colloquio
telefonico anche il 29 ottobre 58.

Un rapporto dell’intelligence statunitense sulle attività di propaganda


sovietica mostra inoltre che Topchiev aveva avuto in quei giorni anche un
ruolo pubblico. L’Accademia Sovietica delle Scienze, infatti, di cui egli era
vicepresidente, aveva rilasciato una dichiarazione, diffusa il 26 ottobre
dall’agenzia stampa governativa TASS «in un bollettino trasmesso
probabilmente per consumo interno e per l’Europa». Gli ascoltatori
sovietici ed europei appresero così che l’Accademia aveva tenuto una
riunione «in protesta contro l’azione aggressiva degli imperialisti
americani». Il notiziario aggiungeva che il vicepresidente dell’Accademia –
Topchiev, appunto – aveva affermato che «il mondo intero si aspetta che gli
Stati Uniti seguano la voce della ragione» ed espresso la speranza che «gli
scienziati del mondo ascolteranno il richiamo della ragione» 59. Un appello
rivolto dunque ai colleghi della comunità scientifica occidentale, che, fatta
salva la buona fede di Topchiev, può considerarsi, almeno in parte, un
esempio tra tanti di uso – qui durante una crisi – di strumenti della
cosiddetta «guerra fredda culturale»: il conflitto di propaganda ideologica
combattuto dai due blocchi parallelamente a quello politico-militare.
Anche un altro membro dell’Accademia Sovietica delle Scienze, il
matematico Pavel Aleksandrov, intervenne durante la CMC. Lo riporta la
«Pravda». Egli parlò all’Università statale di Mosca (ove insegnava), a
nome dei trentaduemila studiosi di quell’ateneo, per alzare «una sdegnata
protesta contro i propositi criminali e le azioni aggressive degli imperialisti
americani, rivolti contro la libera e indipendente Cuba». In una riunione
tenutasi nell’ateneo il 25 ottobre ed aperta – significativamente – «dalle
brevi parole introduttive del segretario del Comitato di partito
dell’Università», Aleksandrov e gli altri presenti dichiararono il loro pieno
sostegno alla posizione presa dal governo sovietico e formularono un
appello rivolto agli studiosi di tutto il mondo «a sollevare la loro voce
contro gli aggressori» 60. Al di là del carattere retorico e propagandistico
dell’appello (che emerge anche dalla cifra iperbolica di trentaduemila
studiosi, evidentemente non tutti contattati individualmente per saggiarne
l’adesione), è interessante, nella nostra prospettiva, la formulazione
dell’appello: «Fisici! Voi, che vi addentrate nel profondo del nucleo
atomico e che meglio di altri siete in grado di immaginare le terribili
conseguenze di una guerra termonucleare, dovete esprimere il vostro
sdegnato ‘no’ ai maniaci atomici che cercano di giocare con i destini della
civiltà umana!» 61.
Nella stessa ottica di guerra fredda culturale sembra da inquadrarsi anche
la dichiarazione del World Peace Council (WPC), organizzazione
internazionale per la pace teoricamente non legata al Cremlino, ma di fatto
– come venne definitivamente alla luce in seguito – largamente finanziato e
penetrato dall’intelligence sovietica 62. A presiedere quest’organizzazione
era John Desmond Bernal, scienziato britannico (sue alcune importanti
scoperte sui raggi X), di personali convinzioni comuniste e ben accetto allo
stesso Kruscev. Il 23 ottobre Bernal inviò un messaggio al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, chiedendo la condanna del blocco appena annunciato
da Kennedy («gli ordini dati alla Marina USA di fermare e perquisire ogni
convoglio verso Cuba sono completamente illegali»), sottolineando che
l’URSS era da anni stata circondata di basi nucleari senza che ciò
producesse «l’isterica reazione militare che il governo USA sta ora
esibendo», predicendo poi un’invasione americana dell’isola 63 e
ammonendo che «in quest’ora lo scatenamento della guerra nucleare è più
imminente di quanto non lo sia mai stato». «È soltanto in un’atmosfera
libera da ogni tensione e da ogni esitazione che l’insieme della questione di
Cuba potrà essere affrontata dalle Nazioni Unite in modo da assicurare a
quel popolo il diritto di governarsi liberamente» 64. (Quest’ultimo accenno
può far pensare persino a un ballon d’essai sulla condizione sovietica per
risolvere la crisi, fatto filtrare in Occidente dal Cremlino tramite il WPC.
Naturalmente per un’eventuale conferma documentale si dovrà attendere
una maggiore apertura degli archivi sovietici.)
In quei giorni Bernal mandò inoltre messaggi di solidarietà a Cuba, come
risulta dalla stampa dell’isola 65. I suoi appelli furono ripresi dalla stampa
internazionale, soprattutto quella filocomunista. Appena terminata la crisi,
poi, lo scienziato ne tracciò un bilancio parlando alla riunione del comitato
del WCP: «Sono stati tutti così atterriti della guerra nucleare che dieci volte
più persone di prima [ora] sono consapevoli del suo pericolo, e le risorse
dei movimenti per la pace nel mondo che chiedono il disarmo saranno
aumentate». (Questa ottimistica notazione postcrisi è analoga a quelle
americane, viste poc’anzi, del FAS e di Rabinowitch.) Quanto alla CMC,
«in gioco c’era l’indipendenza nazionale di Cuba, difesa con successo non
solo dal popolo stesso di Cuba, ma dall’aiuto diplomatico e militare che essi
hanno ricevuto dall’Unione Sovietica» 66. Quest’ultima frase dimostrava che
Bernal non aveva capito, o non voleva capire, quale fosse stato il nucleo
vero della crisi. Come gli fece notare, in una lettera privata, il fisico
americano Philip Morrison (anch’egli coinvolto nel Manhattan Project e in
seguito divenuto un critico delle armi nucleari): «Sei sicuro che il WPC non
sia più a sinistra del Cremlino?». Morrison si riferiva ad un articolo scritto
da Bernal proprio sulla CMC; avendolo trovato «troppo tendenzioso», gli
scrisse per esprimere la speranza che il riavvicinamento tra le due
superpotenze potesse giovarsi di un World Peace Council «non
necessariamente più neutrale, ma almeno più obiettivo» 67. In effetti, come
conclude lo stesso biografo di Bernal, indubbiamente «egli nelle sue attività
col WPC fu uno strumento della politica estera sovietica, che lo capisse o
meno» 68. «Tuttavia, con tutte le sue ridicole posizioni, fraudolente petizioni
e roboanti riunioni, […] il WCP può aver avuto un’importante influenza
moderatrice in particolare su Kruscev» e «i suoi contatti con Kruscev
possono aver aiutato il leader sovietico a ritirarsi dall’abisso durante la crisi
dei missili di Cuba» 69.

E concludiamo con il più celebre degli scienziati sovietici: Andrei


Sakharov. Il padre della bomba H sovietica fu al contempo un coraggioso
critico del Cremlino e della corsa agli armamenti, tanto da venir insignito
nel 1975 del Premio Nobel per la pace e da divenire di fatto il prototipo
dello scienziato dissidente rispetto al potere. Di Sakharov abbiamo, in
merito alla crisi di Cuba, due giudizi retrospettivi. Il primo è quello
contenuto nelle sue memorie redatte decenni dopo. «La mancanza di
consiglieri saggi e ben intenzionati e la perdita di contatto con la realtà dello
stesso Kruscev, causata dall’impressione del potere assoluto, imposero il
loro dazio [sulle scelte politiche di Kruscev]. Eppure la crisi dei missili di
Cuba dimostrò la sua tempra – sebbene fosse stato lui a forzare inizialmente
la pericolosa prova di forza nel mondo» 70. Interpretazione della crisi che
appare molto lucida, sebbene non possiamo sapere se sia stata anche la
prima. Sappiamo però che Sakharov in quei mesi giocò un ruolo attivo tra i
promotori del lungamente agognato accordo tra le due superpotenze per
bandire i test nucleari, che poi prenderà la forma dell’LTBT (Trattato di
messa al bando parziale dei test nucleari) 71. Sappiamo inoltre che prima
della CMC, nel luglio 1961, egli aveva subìto una violentissima «tirata»
verbale di fronte ai suoi colleghi, da parte di Kruscev, per avergli fatto
presente la sua opinione di scienziato, contraria alla conduzione di nuovi
test nucleari 72. Poi il 25 settembre 1962, alla vigilia della CMC, Sakharov
aveva nuovamente tentato di dissuadere Kruscev dal portare avanti un
ulteriore test nucleare che egli riteneva inutile e dannoso per le radiazioni
tossiche che avrebbe prodotto. Invano, anche stavolta. Per Sakharov questo
fu un vero shock, come egli ricorda nelle sue memorie. «Un terribile
crimine stava per esser commesso e io non potevo far nulla per impedirlo.
Fui sopraffatto dalla mia impotenza. […] Poggiai la testa sulla scrivania e
piansi» 73. «Dopo ciò, mi sentii un altro uomo. […] Capii che non aveva
senso discutere» 74. In queste circostanze, non è difficile immaginare che il
mese seguente, allo scoppio della CMC, egli sia semplicemente rimasto in
silenzio, senza neppure provare a influenzare la leadership ma
semplicemente sperando in una soluzione pacifica. Si consideri tra l’altro
che in URSS la percezione della crisi fu assai minore, per dettagli e
intensità, anche per via delle poche notizie che venivano fatte filtrare al
pubblico, in particolare sulla presenza di missili a Cuba 75.
Andrei Sakharov.

Il secondo giudizio retrospettivo di Sakharov sulla CMC emerge invece


da un documento d’archivio. Il testo – dattiloscritto, con aggiunte
manoscritte – è un suo commento a un film sovietico, scritto alla fine degli
anni Ottanta, dopo la sua riabilitazione politica voluta da Gorbacev, che
aveva posto termine a sette anni di confino e isolamento totale. «Uno dei
principali episodi del film – annota Sakharov nel suo commento – è la crisi
dei Caraibi. Non viene detto che la crisi inizia con il posizionamento dei
nostri missili a Cuba», osserva lo scienziato russo, come a ribadire che non
è onesto sorvolare sul carattere provocatorio della mossa di Kruscev. «Sono
stati eventi particolarmente drammatici […] il mondo era sull’orlo di una
catastrofe nucleare. Guardare tutto questo crea una paura infinita. Le azioni
di Kennedy e Khrushchev dimostrano che loro erano dei distinti uomini
politici. Allora la catastrofe è stata evitata». Il giudizio di Sakharov appare
dunque positivo riguardo al modo in cui i due leader gestirono la crisi. Ma,
aggiunge lo scienziato, «la presenza al potere anche dei personaggi più
importanti non può essere una garanzia affidabile di pace, se non c’è la
trasparenza [glasnost], l’apertura della società, la democrazia». Qui è
evidente il senso di stimolo che avevano queste sue parole nel contesto dei
tentativi di democratizzazione che Gorbacev stava compiendo in quegli
anni. «Il film – conclude Sakharov – aumenta il senso della propria
responsabilità per il bene del mondo e questo valore è più importante della
valutazione positiva o negativa del film» 76. Più che il giudizio estetico,
insomma, a Sakharov interessava il messaggio che dal film si traeva rispetto
alla crisi. Anche da questo breve documento traspare la forte tensione
morale di Sakharov: quella che alla fine lo stesso Kruscev aveva dovuto
riconoscergli, definendolo nelle sue memorie «un cristallo di moralità tra i
nostri scienziati» 77.

***

I missili termonucleari Jupiter schierati in Turchia e in Italia – che come


visto ebbero un ruolo di primo piano nella CMC – erano stati messi a punto
da un ingegnere militare il cui nome era Wernher von Braun 78. Figura
rappresentativa dell’utilizzo nella guerra fredda di scienziati provenienti
dalla Germania nazista, von Braun era stato a lungo al servizio del Terzo
Reich, realizzando per Hitler i famosi nuovi razzi «V-2», poi lanciati su
Londra. Al momento della disfatta tedesca, von Braun, arresosi, era stato
trasferito negli USA ed impiegato al servizio dell’esercito statunitense. Nei
decenni della sua nuova carriera americana, egli avrà un ruolo importante
(oltre che nell’elaborazione dei razzi Jupiter) nell’esplorazione dello spazio,
realizzando per la NASA il razzo Saturn V, che porterà l’uomo sulla Luna.
Figura dal passato chiaramente controverso e discusso, ma scienziato di
primissimo livello, von Braun costituì tra l’altro, come detto, uno dei
modelli alla base del personaggio kubrickiano del dottor Stranamore 79.
Carattere denotato da grande attivismo, egli nutriva una grande
ammirazione per il presidente Kennedy. Al momento della CMC si trovava
ad Huntsville, in Alabama, dove lavorava presso il centro di ricerca della
NASA, presso cui Kennedy gli aveva reso visita appena poche settimane
prima della CMC. Le testimonianze giunteci della reazione di von Braun
alla crisi sono scarse, limitandosi al fatto che in una riunione tenutasi il 25
ottobre (dunque nel pieno della crisi) egli discusse le possibili misure di
Protezione Civile da adottare in caso di guerra e la necessità di non causare
il «panico in città». La prospettiva di una guerra, del resto, in quel periodo
non doveva apparirgli troppo irrealistica, visto che lui stesso si era fatto
costruire un rifugio antiatomico sotterraneo dietro la propria casa 80.
«Forse il più memorabile evento dell’amministrazione Kennedy fu la
crisi dei missili di Cuba». Così ricorda nel suo libro di memorie Edward
Teller, altro scienziato ungherese emigrato negli USA durante il nazismo,
poi partecipe del Manhattan Project, in seguito testimone contro
Oppenheimer nelle celebri audizioni del 1954, ma passato alla storia
soprattutto come «padre della bomba H» (o bomba all’idrogeno), la
micidiale evoluzione termonucleare dell’atomica. Come reagì dunque
l’ideatore di quell’ordigno allo scoppiare della crisi che più d’ogni altra
minacciava di portarne all’utilizzo? «Mi ricordo chiaramente quando ne
udii: mi trovavo sulla Queen Mary in viaggio verso la Francia. Come
praticamente chiunque altro, ero allarmato». Fine del racconto della sua
reazione. Evidentemente particolari ripensamenti non vi furono. Egli
espone piuttosto le proprie valutazioni politiche sull’esito della CMC:
«L’interpretazione dell’esito rimane un enigma per me. Ottenemmo la
rimozione dei missili da Cuba in parte attraverso l’annuncio di una forte
politica di prevenzione della consegna di missili tramite un embargo navale.
Ma la normalizzazione delle relazioni fu raggiunta al prezzo pesante di
promesse di tollerare un regime comunista a Cuba e di ritirare missili
statunitensi dalla Turchia e dall’Inghilterra [qui la memoria inganna Teller:
l’Inghilterra non era compresa negli accordi]. Benché io non possa
considerare il risultato una vittoria per gli Stati Uniti, viene [invece]
sostenuto, con grande enfasi, che i sovietici abbiano considerato l’epilogo
una sconfitta che essi sarebbero stati determinati a non far ripetere mai
più» 81. Insomma per Teller gli USA avevano concesso semmai qualcosa di
troppo.
L’anno successivo alla CMC vedrà lo scienziato impegnato in prima
linea nella campagna per scongiurare la firma e la ratifica del trattato sulla
messa al bando dei test nucleari 82.

Veniamo a Robert J. Oppenheimer, grande scienziato di cui è verosimile


immaginare che abbia nutrito ansietà e forse anche qualche perplessità in
merito alla CMC, ma che non risulta le abbia espresse: le biografie ed anche
le sue carte personali da noi consultate negli archivi di Washington sono
rimaste, sul punto, sorprendentemente silenti. Per provare a comprendere le
ragioni di tale silenzio, non sarà inutile ricordare che il fisico statunitense,
già direttore scientifico del Manhattan Project e perciò considerato il padre
della bomba atomica, in passato aveva dato voce alle proprie crescenti
perplessità sui pericoli della nuova era nucleare, finendo così al centro della
celebre controversia che negli anni del maccartismo portò infine al suo
clamoroso allontanamento dagli incarichi, alle udienze processuali e al
ritiro della sua licenza d’accesso ad informazioni riservate (1954). Da allora
in poi, pur continuando occasionalmente a spendersi in favore del controllo
degli armamenti con scritti e conferenze, egli non ebbe più la stessa
influenza pubblica e condusse una vita più riservata. È a questa subentrata
cautela politica che presumibilmente si deve anche il suo silenzio in merito
alla CMC. L’anno dopo la Casa Bianca gli conferirà il prestigioso «Premio
Enrico Fermi», in segno di pubblica riabilitazione.

Tutt’altro che silente restò invece il celebre chimico Linus Pauling.


Attivo già da anni sul fronte antinuclearista, lo scienziato aveva manifestato
contro le scelte kennediane nel 1962 già alla fine di aprile, quando insieme
a circa tremila persone aveva marciato di fronte alla Casa Bianca per
protestare contro la decisione di riprendere i test nucleari (dopo che
Kruscev per primo aveva improvvisamente infranto la moratoria
internazionale). La sera stessa della manifestazione di protesta, Pauling era
uno dei quarantanove scienziati premi Nobel invitati a cena alla Casa
Bianca. Né l’intellettuale né il leader al potere, però, ritennero necessario
disdire l’invito per via di quella manifestazione. Al ricevimento, anzi,
Kennedy salutò Pauling scherzosamente: «Mi pare di capire che lei è qui
intorno alla Casa Bianca già da un paio di giorni…» 83. Il chimico annuì. Il
Presidente soggiunse: «Spero che lei continuerà a esprimere le sue
opinioni» 84.
Pauling evidentemente lo prese in parola, perché quando, pochi mesi
dopo, scoppiò la CMC, la sua reazione al discorso di Kennedy fu tanto dura
quanto immediata. Era passata appena mezz’ora da che le telecamere si
erano spente sul viso di JFK, quando un telegramma di protesta del chimico
partiva dall’Oregon diretto verso la Casa Bianca 85.

La sua orrenda minaccia [your horrifying threat] di azione militare


su imbarcazioni in alto mare e possibile rappresaglia massiccia
tramite attacco nucleare ad ogni resistenza pone tutto il popolo
americano così come altrettanti popoli in altri Paesi in grave
pericolo di morte tramite guerra nucleare. Il suo atto di guerra in
quest’era in cui esistono armi che se usate in una grande guerra
possono significare la fine della civiltà e causerebbero di certo
tremendo danno al gruppo del plasma germinale dell’uomo e
all’intera razza umana può essere descritto solo come un atto della
più grande irresponsabilità. In quanto leali, responsabili ed
informati cittadini americani protestiamo vigorosamente contro
quest’atto, che marchia la nostra nazione come sconsideratamente
militarista, e la invitiamo con forza a ritirare i suoi belligeranti
ordini e minacce […] 86.

Linus Pauling.

Il testo, a firma di entrambi i coniugi Pauling, divenne pubblico, tanto


che, come ci risulta da un report governativo interno dell’USIA, il giorno
dopo fu menzionato, con ovvi intenti propagandistici, perfino dalla radio
governativa rumena 87. Anche un deputato comunista al Parlamento italiano
vi fece poi riferimento 88.
Un ulteriore telegramma Pauling lo spedì al segretario delle Nazioni
Unite, U Thant: «La invito con forza ad adoperarsi per prevenire la grande
immoralità ed illegalità di un’invasione armata di Cuba da parte dei
soverchiantemente potenti Stati Uniti». Thant lo ricorderà poi come un testo
«secco e possente» 89.
L’eco dei suoi telegrammi era naturalmente legato alla sua autorevolezza
internazionale: si tenga presente che Pauling, già premio Nobel per la
chimica nel 1954, pochi mesi dopo la CMC se ne sarebbe visto assegnare
un secondo, stavolta per la pace (in riconoscimento del suo attivismo nel
sensibilizzare sul fallout radioattivo dato dai continui test nucleari) 90. Nei
giorni seguenti egli continuò a seguire con ardore gli eventi della crisi: tra le
sue carte per esempio ritroviamo un ritaglio di un quotidiano del 26 ottobre,
contenente brevi profili dei tredici massimi consiglieri di JFK, accanto a cui
egli aveva appuntato a penna: «Gen. Taylor […] McCone! […] This is a
War Cabinet, not a Peace Cabinet», domandandosi poi perché a quella lista
mancassero invece i nomi di esperti nucleari quali Seaborg, Wiesner o
Foster 91.
A suo avviso, Kennedy «era costretto» ad agire non tanto dai sovietici,
quanto «dai militaristi, l’apparato militare-industriale» 92.
Anche dopo che la crisi si risolse pacificamente, mentre l’opinione
pubblica portava Kennedy in trionfo, Pauling continuava a ritenere erronea
la sua condotta. Non solo per i rischi corsi – il giorno dell’entrata in vigore
del blocco, commentò in seguito, «fu il giorno più pericoloso nella storia
del mondo» 93 – ma anche per le conseguenze politiche sull’immagine
internazionale degli Stati Uniti. Lo si evince dalle note che egli preparò per
un discorso da tenere a una conferenza il 1° novembre: «[…] alla maggior
parte della gente nel mondo adesso sembra che gli USA siano una nazione
irresponsabile e sconsideratamente militarista, disposta a rischiare le vite di
centinaia di milioni di persone. […] L’Unione Sovietica appare essere una
nazione amante della pace, che preferisce legge e giustizia sotto le Nazioni
Unite all’affidarsi alla potenza militare. Altri risultati: […] l’attenzione del
mondo è stata attirata sull’esistenza di basi di armi nucleari americane ai
confini sovietici e si è posta la questione della giustizia del consentire che vi
rimangano. […] Credo che gli USA siano stati grandemente danneggiati
dall’azione del Presidente, che ci ha causato il venir etichettati come
sconsideratamente militaristi che si affidano alla forza invece che a
negoziati, giustizia e moralità» 94. Sempre il 1° novembre, infine, il doppio
premio Nobel trovava il tempo di rispondere con una lunga e articolata
lettera privata ad un semplice studente liceale di Seattle che gli aveva scritto
per confutarne le dichiarazioni: «Caro Denny», gli rispose tra le altre cose
Pauling, «[…] l’azione che il Presidente avrebbe potuto prendere […]
sarebbe stata di appellarsi alle Nazioni Unite per far rimuovere i missili
sovietici da Cuba. […] Credo che questo ragionevole risultato si sarebbe
potuto ottenere tramite negoziati, senza bisogno di mettere in pericolo la
nostra nazione […] Nessuna disputa può giustificare la minaccia di guerra
nucleare» 95.
Conclusioni

Lo storico della scienza Michel Pinault ha osservato che nella guerra


fredda gli scienziati postisi senza indugi a servizio della corsa agli
armamenti e del «complesso militare-industriale» della loro nazione erano
ben più di quelli che si posero e posero il problema dei potenziali abusi
delle loro scoperte 96. Tuttavia, almeno relativamente al caso della CMC, la
categoria degli scienziati fu tra quelle che si sentirono più coinvolte dalla
crisi in corso. Il fatto di conoscere bene il funzionamento e soprattutto gli
effetti degli ordigni nucleari e termonucleari, avendo in taluni casi
contribuito perfino personalmente a concepirli, dava loro una più chiara
consapevolezza della gravità dei rischi che si stavano correndo.
Particolarmente significativi, in questo senso, appaiono qui i moniti espressi
a più riprese dal prestigioso «Bulletin of Atomic Scientists». Molti tra
coloro che avevano, per così dire, estratto il genio dalla lampada, ora
temevano che esso finisse fuori controllo e cercavano un qualche modo per
rimetterlo dentro.
C’era però, tra essi, una varietà di posizionamenti rispetto al potere
politico nazionale. Sintetizzando e semplificando, si potrebbe dire che
alcuni collaboravano con esso (von Braun), altri lo criticavano duramente
(Pauling); alcuni venivano strumentalizzati dal potere in cerca di
legittimazione scientifica (J.D. Bernal), altri cercavano di influenzarlo e
moderarne le politiche, in vari modi: ora attraverso i propri scritti
(Rabinowitch, Lapp) o organizzando conferenze internazionali col
benestare dei governi (Rotblat), ora cercando di stabilire contatti informali
con le leadership (Szilard) o affrontandole direttamente (Sakharov,
Topchiev). Altri ancora, infine, sceglievano di rimanere silenti almeno in
determinate fasi, dopo aver fatto sentire la propria voce in passato
(Oppenheimer e lo stesso Sakharov durante la CMC). Né mancarono
eccezioni, rappresentate da fisici che semplicemente non apparivano
particolarmente preoccupati da quella tipologia di rischi (Teller).
Trattandosi di iniziative individuali più che coordinate, le modalità
espressive delle loro reazioni rispecchiavano evidentemente anche i diversi
temperamenti personali. Nel complesso, comunque, la categoria degli
scienziati fu tra quelle che maggiormente fecero sentire la propria voce in
merito alla CMC, come del resto stava facendo già rispetto alle generali
problematiche nucleari di quegli anni, a cominciare dai pericoli causati dai
continui test atomici 97. Come già nel 1961 aveva notato un intellettuale di
cui abbiamo parlato in precedenza, il monaco trappista Thomas Merton,
«proprio gli scienziati atomici sono molto spesso quelli più preoccupati
dell’aspetto etico del problema, e sono tra i pochi che osano aprire la bocca
di tanto in tanto e dire qualcosa a riguardo. Ma chi diamine ascolta?» 98.
Conclusioni
Stavolta l’abbiamo scampata.
Un sospiro di sollievo quasi udibile si è levato dai
popoli del mondo 1.
«The Washington Post», 30 ottobre 1962

La crisi dei missili di Cuba è stata un evento cruciale del Novecento,


anche in quanto punto di svolta della guerra fredda e spartiacque dell’epoca
nucleare tuttora aperta. Tuttavia, essa è curiosamente ancora poco
conosciuta in Italia. Ciò per vari motivi, tra cui il fatto che i molti resoconti
storici di quell’episodio sono contenuti in libri mai tradotti in italiano 2. La
Parte prima di questo volume, perciò, oltre a fornire il quadro di riferimento
indispensabile alla comprensione della seconda, ha inteso anche coprire
questa vistosa lacuna.

Quanto poi alle reazioni registratesi nei contesti esposti nella Parte
seconda, si rimanda anzitutto alle conclusioni espresse in calce ai rispettivi
capitoli. Volendo tuttavia provare a sintetizzare ulteriormente quelle
conclusioni, si potrebbe dire che di fronte allo shock della CMC gli Stati
Uniti ebbero una reazione scossa ma compatta, l’Italia una divisa ma
dinamica; tra le categorie transnazionali di osservatori, i politologi parvero
inclini ad analizzarla come un caso di scuola, gli scienziati a preoccuparsi
più per i suoi rischi, mentre i religiosi oscillarono tra silenzi, preghiere e
appelli per la pace 3.
Inoltre, a livello più generale si può evidenziare (sempre in estrema
sintesi) che:

1. vi sono state influenze reciproche tra i principali ambiti di reazione


(politica, media, opinione pubblica, cultura). Basti pensare ai ripetuti
tentativi, qui illustrati, dei governi di influenzare i media durante la crisi,
promuovendo così una determinata percezione degli eventi nell’opinione
pubblica; ai condizionamenti subiti a loro volta dalle leadership
politiche per via delle istanze espresse dall’opinione pubblica;
all’importanza che arrivò ad avere un articolo della stampa USA (quello
di Lippmann) nel processo decisionale del leader avversario; o ancora,
ai tentativi di vari intellettuali di testimoniare o finanche influire sul
corso degli eventi (Russell, Rotblat, Lifton, Brzezinski, Guttuso, Tillich,
ecc.), e viceversa alle manovre messe in atto in quei giorni dalla politica
per coinvolgere gli intellettuali nelle proprie campagne (il PCI con
Capitini ed altri, il Cremlino con Russell e l’Accademia Sovietica delle
Scienze). La presenza di tutti questi intrecci mostra l’utilità di studiare
tali ambiti in modo integrato, anziché separato 4;
2. pur molto diverse tra loro per natura e intensità, le reazioni internazionali
alla CMC hanno avuto non di rado notevole rilevanza concreta,
includendo conseguenze politiche anche di lungo periodo su quei
contesti;
3. l’analisi di una vasta gamma di percezioni relative a un medesimo
evento aiuta a comprendere la complessità di certi accadimenti
internazionali e la loro suscettibilità ad essere considerati da punti di
vista ulteriori rispetto a quelli prevalenti nella propria nazione o gruppo
di riferimento. L’abitudine critica a considerare le controversie
internazionali da più prospettive è una delle prime condizioni per evitare
errori di giudizio e strategia. Si tratta di un concetto certo non nuovo, ma
che risulta ribadito dalla lettura congiunta di queste reazioni alla CMC,
alcune delle quali erano argomentate in modo particolarmente efficace
anche quando opposte nel merito;
4. tali reazioni hanno assunto chiare colorazioni locali, facendo emergere
caratteri tipici del «reagente» (per riprendere la metafora chimica usata
nell’Introduzione), ma anche vari elementi comuni, non senza
sorprendenti affinità tra soggetti anche molto diversi;
5. le reazioni alla CMC degli intellettuali hanno spesso rispecchiato
fortemente elementi tipici della loro personalità, richiamando toni e
tematiche centrali anche nel resto della loro opera (come evidenziato, ad
esempio, relativamente a Kissinger, Montanelli e Niebuhr);
6. durante i giorni della crisi di Cuba ha infuriato con intensità anche la
cosiddetta guerra fredda culturale;
7. secondo gli storici Soutou e Sirinelli 5, nel corso della guerra fredda, la
cultura, oltre ad essere ovviamente influenzata da quello scontro
bipolare, vi giocò a sua volta un ruolo. Esso fu doppio: ora elemento del
combattimento ideologico in corso, ora invece fattore di riavvicinamento
tra i blocchi (e, in questo senso, precursore della sua fine). Può dirsi lo
stesso per il caso della CMC, che della guerra fredda fu per molti versi
una sorta di ‘concentrato’? A nostro avviso, sì. Alla luce delle reazioni
qui ricostruite, risulta infatti che la cultura in quei giorni servì sia come
strumento di propaganda, cioè per sostenere le proprie posizioni contro
quelle dell’avversario (specie dal lato comunista: si pensi alle proteste
dell’Accademia Sovietica delle Scienze o del Patriarca di Mosca e del
WPC di Bernal), sia invece come possibile ‘ponte’ tra i due blocchi (si
pensi alle iniziative del Pugwash o della conferenza di Andover,
entrambe non prive del discreto benestare di Washington e Mosca). La
stessa risposta di Kruscev al matematico occidentale Bertrand Russell,
per esempio, serviva contemporaneamente entrambi gli scopi: sosteneva
la propria posizione e chiamava a raccolta «tutti i popoli» nel criticare
quella USA, ma al tempo stesso rassicurava sulle proprie intenzioni e
proponeva un urgente incontro al vertice. Infine in quei giorni la cultura
agì anche e soprattutto in un terzo modo (specie, ma non esclusivamente,
in Occidente, per via della maggior libertà di cui lì disponeva): come
luogo di riflessione critica sul proprio agire. Costituì cioè un momento di
autoesame pubblico o privato, e talvolta stimolo, freno o protesta verso
leadership e convinzioni prevalenti nella propria società (si pensi, tra i
vari esempi qui esposti, a Mailer, Chiaromonte, Brzezinski, Pauling,
Chertok, Merton o all’appello dei teologi USA);
8. la dimensione socio-culturale di quest’evento rivela una ricchezza fin
qui completamente inesplorata. Se ne ricava la previsione che la «social
history» e la «cultural history» saranno le prossime frontiere della
storiografia internazionale sulla CMC.

Nel complesso, la situazione senza precedenti determinata dal trovarsi


sull’orlo di una guerra nucleare globale ha costituito uno shock che ha
messo in moto una vasta gamma di riflessioni, di reazioni, di personaggi: un
patrimonio prezioso di «storie», che qui si è solo cominciato a ricostruire.
Lo si è fatto partendo da un Paese direttamente coinvolto negli eventi e uno
coinvolto indirettamente. Ma «questi sei giorni che sconvolsero il mondo»,
come ebbe subito a definirli Kruscev, hanno ancora molto da raccontarci
sotto questi aspetti. Sulla base delle ricerche condotte, riteniamo che tali
considerazioni ed elementi di interesse risulterebbero rafforzati in caso di
estensione di questa prospettiva ad altre aree internazionali. Già qui è stato
possibile presentare diversi contributi nuovi; ma ulteriori evidenze ed
approfondimenti non sono stati inclusi, in quanto relativi ad altre aree di
reazione o necessitanti di spazio a sé stante. Una prosecuzione di tale
cammino di ricerca potrebbe dunque integrare la prospettiva qui avviata.
Fin d’ora, però, ci preme anticipare qualcosa, al fine di ribadire il
carattere globale dell’evento, come teorizzato all’inizio. Di natura e di scala
eminentemente globale infatti furono non soltanto i pericoli insiti nella
CMC, ma pure l’attenzione, le reazioni e le ripercussioni che essa suscitò.
A sostegno di quest’affermazione, oltre a quanto già esposto forniamo
qui qualche altro esempio, in estrema sintesi 6.
– Tra le conseguenze internazionali della CMC vi furono: l’abbandono
delle politiche di brinkmanship da parte delle superpotenze; la fine della
ricorrente pressione sovietica su Berlino; la definitiva spaccatura politico-
ideologica tra Cina e URSS; la decisione sovietica di iniziare una rincorsa
alla parità strategica con gli USA, raggiunta negli anni Settanta (dislocando
nella corsa agli armamenti enormi risorse fin lì destinate a economia ed
esplorazione spaziale); la conclusione nel 1963 del Trattato di messa al
bando parziale dei test atomici (LTBT), primo accordo tra le due
superpotenze dall’inizio della guerra fredda e primo in assoluto sulle armi
nucleari; sempre nel 1963, la rimozione delle basi nucleari NATO da
Turchia e Italia e l’installazione della «hot line» tra il Cremlino e la Casa
Bianca per comunicazioni d’emergenza; la perdita di credibilità di Castro
come leader indipendente, specie in America Latina, controbilanciata però
dalla stabilizzazione sulla scena internazionale che, sul lungo termine, la
CMC finì per fornire al suo regime; il rafforzamento della credibilità di
Kennedy come leader dell’Occidente e l’indebolimento, viceversa, della
posizione interna di Kruscev, che due anni dopo sarà destituito da ogni
potere, anche per il suo controproducente avventurismo su Cuba.
– Tra le più rilevanti reazioni politiche alla crisi di cui abbiamo
documentazione vi furono quelle di personaggi dell’influenza
internazionale di Spaak, Monnet, De Gaulle, Adenauer, Tito, Allende,
Nkrumah, Guevara e Nasser.
– Tra gli intellettuali delle cui reazioni alla CMC abbiamo raccolto
documentazione vi sono il russo Evgenij Evtusenko, il cubano Nicolas
Guillen, lo spagnolo Pablo Picasso, il turco Nazim Hikmet, il cileno Pablo
Neruda, il tedesco Albert Schweitzer.
– Infine una più ampia analisi comparata delle reazioni di varie nazioni
potrà spiegare se e in che misura l’opinione pubblica internazionale nel suo
insieme abbia condizionato il corso della crisi.
Insomma, come si vede, a livello sia politico sia socio-culturale non
mancheranno campi di ricerca per estendere la nostra comprensione della
CMC come esperienza globale.

***

Prima di chiudere, resta infine da dire qualche parola sugli esiti della
CMC, ricollegandoci alle percezioni illustrate nella Parte seconda e ai
concetti teorizzati nella Premessa. Sul piano braudeliano delle strutture,
risulta ribadito come la CMC abbia costituito l’evento più importante
dell’era termonucleare, con la sua clamorosa epifania internazionale della
nuova struttura connessa all’avvento di quelle armi, che abbiamo teorizzato
e definito come ‘globalizzazione del teatro di guerra’. Sul piano braudeliano
delle congiunture, la CMC si rivelò a posteriori il punto di svolta centrale
della guerra fredda (non tanto in quanto avrebbe evidenziato limiti militari –
per altro in seguito largamente colmati – della superpotenza poi risultata
perdente alla fine di quella congiuntura, quanto perché essa ebbe
ripercussioni decisive sul suo prosieguo, quali la fine delle crisi
internazionali per Berlino, l’avvio della prima distensione tra le due
superpotenze e l’abbandono delle politiche di brinkmanship). Quanto al
piano dell’événement, infine, sarà il caso di tornare, come promesso, su una
delle considerazioni avanzate nel capitolo Capire la crisi, e cioè sul
problema, ivi affrontato, del chi avesse vinto la crisi. Alla luce delle
percezioni internazionali qui illustrate (e a quelle di altri Paesi a cui qui si è
potuto solo accennare), risulta confermato che presso l’opinione pubblica
internazionale l’esito dell’événement CMC fu percepito pressoché ovunque
come una vittoria per gli Stati Uniti 7.
I principali atteggiamenti che gli osservatori assunsero a riguardo, infatti,
sembrano essere riassumibili sotto le seguenti tre macrocategorie.
– L’opinione pubblica (e la relativa stampa) più conservatrice (quella,
per intenderci, che a sinistra definivano «reazionaria») si compiacque della
apparente ritirata sovietica, spesso con un cinismo di toni più adatto ad una
sfida tra gang di periferia che non ad una crisi internazionale tra
superpotenze atomiche.
– L’opinione pubblica moderata (e la relativa stampa, le cui più
autorevoli testate erano lette con attenzione dai cosiddetti «quadri dirigenti»
dei vari Paesi) attribuì decisamente la vittoria agli Stati Uniti,
complimentandosi per la fermezza e il coraggio mostrato da Kennedy di
fronte alla sfida che gli era stata tesa, ma senza omettere di riflettere sulle
ragioni di quanto era appena successo (compatibilmente con le informazioni
allora note), né di riconoscere la saggezza di Kruscev come componente
importante e meritoria.
– Ad attribuire la vittoria all’Unione Sovietica restò dunque la sola
stampa propriamente comunista, che, con ben più sicurezza di quanta non
nutrisse il suo stesso segmento di lettori ed opinione pubblica, sostenne che
Mosca non solo aveva salvato la pace mondiale ma aveva costretto
l’aggressore ad abbassare la testa e rinunciare ai suoi propositi imperialisti,
riportando dunque una vera vittoria.
Date queste proporzioni, la gran parte dell’opinione pubblica
internazionale ebbe dunque la netta impressione che la CMC si fosse risolta
in una chiara vittoria americana. Lo stesso ambasciatore sovietico Dobrynin
ammetterà nelle sue memorie che «Kennedy fu proclamato il grande
vincitore della crisi» e che «il mondo intero pensò che Kruscev aveva
perso» 8. Tuttavia a ben vedere e mettendo nel conto anche la rimozione dei
missili da Turchia e Italia, risulta oggi chiaro che di fatto la CMC era stata
«un pareggio, con guadagni e perdite da ambo i lati» 9. E non solo era stata
un pareggio in quanto ai contenuti concreti dell’accordo, ma anche nel
modo in cui lo si era raggiunto, nel senso che entrambi i leader si erano
vicendevolmente aiutati nel lasciare aperta all’avversario la via d’uscita;
entrambi avevano accettato di fare delle concessioni; ed entrambi avevano
provato una salutare, benedetta paura. Come è stato scritto, parafrasando la
famosa frase pronunciata il 24 alla Casa Bianca da Dean Rusk («…the other
fellow just blinked»), al momento della verità «both leaders blinked»
(hanno sbattuto le ciglia entrambi i leader) 10. Ciò che in seguito, agli occhi
del mondo, aveva fatto pendere la bilancia a favore degli USA era stata
piuttosto la percezione di quell’accordo. Cioè un aspetto indotto, più
apparente che reale. Ma nelle logiche particolari della guerra fredda, come
Kennedy aveva perfettamente compreso e spiegato agli americani, «le
apparenze contribuiscono a plasmare la realtà» 11.
C’era infine un terzo aspetto. Al di là cioè del risultato prettamente
«numerico» (pareggio) e di quello prettamente «politico» (vittoria netta
degli Stati Uniti), il risultato autentico della crisi era stato il trionfo della
pace sulla guerra, della diplomazia sugli eventi incontrollati e
sull’escalation militare che si stava mettendo in moto. Non si tratta di
volerne trarre morali edificanti, quanto semplicemente di constatare la
realtà storica, su un punto sul quale del resto concordano le percezioni di
buona parte dell’opinione pubblica internazionale di allora 12, le
testimonianze a posteriori dei protagonisti della crisi da ambo le parti e le
analisi della storiografia. L’obiettivo principale – evitare una guerra che
sarebbe stata catastrofica per tutti – era stato raggiunto, ed in quello
consisteva il vero successo. Kruscev lo definì un «trionfo del buon
senso» 13. Così anche l’americano Sorensen: «Il mondo fu il vincitore» 14.
Sul lungo termine, però, esiti così felici non possono certo darsi sempre
per scontati. E ciò per una ragione molto semplice e molto umana,
sintetizzata così, in una sorta di inquietante postulato, dall’ex Segretario alla
Difesa McNamara, nell’intervista-testamento in cui egli rifletteva sui molti
errori da lui commessi come capo del Pentagono. «La maggior lezione della
crisi dei missili di Cuba è questa: la combinazione indefinita di fallibilità
umana e armi nucleari distruggerà nazioni» 15.
Motivo per cui, fintanto che le armi termonucleari resteranno in
circolazione, la CMC rimarrà un monito.
Quasi un riassunto della CMC, pubblicato a crisi appena attenuatasi.
«Troviamo un lucchetto per questo coso», si dicono i due sudati leader mentre si sforzano insieme di
contenere il mostro della guerra nucleare.

L’autore è Herblock, diminutivo di Herbert Block, tre volte vincitore del Pulitzer.
(HERBLOCK, «The Washington Post», 1° novembre 1962, p. A24.)
Note

Introduzione
1
J. GADDIS, We now know. Rethinking Cold War History, Clarendon
Press, Oxford, 1997, p. 260. Gaddis del resto non è il solo ad aver espresso
questa constatazione. «Pochi eventi nella storia sono stati studiati e
analizzati come la crisi dei missili di Cuba» (M. DOBBS, One minute to
midnight. Kennedy, Khrushchev and Castro on the brink of nuclear war,
Knopf, New York, 2008, p. XIII); «Nessun episodio del secolo scorso è
stato così elaboratamente documentato, così spesso rivissuto in libri e film,
così tante volte francamente riesaminato in straordinarie riunioni di veterani
russi, americani e cubani» (M. FRANKEL, High Noon in the Cold War,
Random House, New York, 2004, p. 3). L’immagine più efficace resta però
quella di Bundy: «Forests have been felled»: «[Intere] foreste sono state
tagliate», egli scriveva già venticinque anni orsono, «per stampare le
riflessioni e conclusioni di partecipanti, osservatori e studiosi» della crisi di
Cuba. McG. BUNDY, Danger and survival, Vintage, New York, 1988, p. 391.
2
Lettera segreta di Kruscev a Kennedy del 30-10-1962 (testo integrale
in L. NUTI, I missili di ottobre. La storiografia americana e la crisi cubana
dell’ottobre 1962, LED, Milano, 1994, p. 357).
3
Per la traslitterazione di questo ed altri nomi russi (di cui varie sono le
versioni usate) utilizzeremo qui quella più vicina alla usuale pronuncia
italiana (Kruscev), lasciando però, ove esso faccia parte di titoli o
virgolettati citati in lingua, la traslitterazione originale (in genere l’inglese
Khrushchev).
TH. PATERSON , Fixation with Cuba: The Bay of Pigs, missile crisis and
4

the covert war against Fidel Castro, in IDEM (a cura di), Kennedy’s quest for
victory. American Foreign policy 1961-1963, Oxford University Press, New
York, 1989, pp. 123-155; TH. REEVES, A question of character. A life of John
F. Kennedy, Free Press, New York, 1991 (da non confondersi con
l’omonimo Richard Reeves, autore di un’altra biografia kennediana); S.
HERSH, The dark side of Camelot, Little, Brown & Co., New York, 1997.
5
Il termine «sintesi hegeliana» è di L. NUTI, I missili di ottobre…, cit.,
p. 45. Per una sintesi sulle tendenze storiografiche di fondo sulla guerra
fredda, cfr. J. HARPER, Guerra Fredda. Storia di un mondo in bilico, Il
Mulino, Bologna, 2013, pp. 105-112.
6
Tale corposa raccolta – The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012 – assembla documentazione diplomatica
proveniente dai più diversi archivi internazionali. Per questo, a detta dei
curatori del Cold War International History Project, essa apre una «terza
ondata» nella storiografia sulla CMC, più multinazionale e decentrata, dopo
quella legata alla sola documentazione statunitense e quella legata
all’emergere dei primi documenti sovietici. Il presente studio, realizzato
prima della comparsa di questa raccolta (anche se si è fatto in tempo ad
includerne alcuni contributi), assiste ora con particolare favore all’arrivo di
questa «terza ondata», avendo scelto un approccio multinazionale in linea
con essa.
7
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 261 (termini enfatizzati in corsivo
nell’originale).
8
Con l’interessante eccezione di A. GEORGE, Awaiting Armageddon.
How Americans faced the Cuban Missile Crisis, University of North
Carolina Press, Chapel Hill, 2002, cui faremo riferimento. La sua ottica è
comunque diversa, inserendosi tra gli studi su quel decennio della storia
USA. Prende cioè in esame la sola reazione statunitense e vi cerca un
«punto di partenza» per «capire gli anni Sessanta» (p. 6).
9
J.F. SIRINELLI, G.H. SOUTOU (dir.), Culture et guerre froide, PUPS, Paris,
2008, p. 7.
10
L’antologia francese M. VAISSE (dir.), L’Europe et la crise de Cuba,
Armand Colin, Paris, 1993, e il saggio britannico di L. SCOTT, Macmillan,
Kennedy and the Cuban missile crisis, Macmillan Press, London, 1999,
affrontavano rispettivamente le reazioni di alcuni Paesi dell’Europa
occidentale e quelle del Regno Unito. Inoltre, entrambi si concentravano
sugli aspetti politico-diplomatici e militari, non su quelli pubblici, mediatici
e socioculturali, qui invece centrali.
11
Come si vede, il termine transnazionale è qui usato in riferimento a
categorie di osservatori, più che a organizzazioni e reti di attivisti come
invece in M. EVANGELISTA, Transnational organisations and the Cold war, in
The Cambridge history of the Cold war, Cambridge University Press,
Cambridge, 2010, vol. 3, pp. 400-422. Tuttavia, come vedremo, vari
osservatori di cui parleremo coincidono con gli ‘attori transnazionali’ di cui
tratta Evangelista.
12
Naturalmente, per quanto questa riduzione dello spettro d’analisi
abbia consentito un maggior grado d’approfondimento dei contesti qui
esposti, non per questo ci si illude di averli presentati nella loro assoluta
completezza. Infatti il tema resta pur sempre vasto e l’eterogeneità dei
contesti analizzati potrebbe esporre comunque il presente studio a
prevedibili osservazioni, anche in contraddizione tra loro (per esempio
quella sulla lunghezza eccessiva del testo e quella sulla mancanza di
approfondimenti interpretativi ulteriori). In fase di revisione si è intervenuti
a smussare tali punti critici, riscontrando però che alcuni di essi erano
intrinseci all’approccio scelto: lo stesso nel quale ci pare risieda anche il
carattere innovativo del lavoro.
13
Relativamente al capitolo sull’Italia, resta attuale quanto notava nel
1998 A. VARSORI, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992,
Laterza, Roma, 1998, p. IX, ossia che l’accessibilità ancora incompleta
delle nostre fonti archivistiche fa sì che in diversi casi il materiale più
interessante sulla situazione italiana finisca per trovarsi in archivi esteri.
14
Al ruolo della televisione e della radio nel raccontare la crisi
accenneremo in più punti, senza però farne qui oggetto di indagine in
maniera analoga, anche per la carenza di documentazione (assente, per
esempio, dal catalogo RAI, da noi consultato). Si consideri inoltre che
all’epoca la stampa aveva una posizione centrale nell’approfondimento
degli eventi di politica internazionale.
15
L’opinione pubblica, come vedremo meglio all’inizio della seconda
parte, è un soggetto sfuggente alle definizioni, specie ove non limitato a
contesti nazionali. È però comunque utile richiamare al lettore le distinzioni
teoriche elaborate in merito dagli studiosi americani Gabriel Almond e
James Rosenau (rispettivamente nei saggi The American people and foreign
policy, Hartcourt, Brace, New York, 1950 e Public opinion and foreign
policy, Random House, New York, 1961). Essi la consideravano divisa in
due blocchi: «opinion-maker» e «opinion-holder» – ossia chi forma le
opinioni e chi le detiene – dividendo poi quest’ultima categoria in due
sottogruppi, relativamente alle questioni internazionali: «attentive public» e
«mass public» – ovvero coloro «che sono molto interessati e ben
informati», e il pubblico di massa, «totalmente disinteressato e disinformato
riguardo agli affari internazionali». Il secondo gruppo, come suggerisce il
nome, è sempre il più largo dei due, anche se con variazioni da Paese a
Paese. In ogni caso noi faremo qui riferimento all’opinione pubblica nel suo
senso più ampio, e – nelle parti che le riserveremo nei capitoli su USA e
Italia – la intenderemo principalmente come composta da «opinion-holder»
(la gente comune), vista la presenza di spazio espositivo a parte per l’analisi
di politici, giornalisti e intellettuali: soggetti considerabili come «opinion-
maker».
16
Tra i due termini c’è differenza, giacché la seconda può non
comportare la prima. La percezione, cioè, non implica necessariamente un
atto di reazione, potendosi risolvere anche in semplice inazione o totale
indifferenza di fronte all’evento; la percezione, inoltre, attiene più da vicino
alla sfera mediatica, mentre la seconda più ad una sfera politica. Ciò detto,
si tratta comunque di distinzioni semantiche che avranno importanza
relativa, nell’uso, talora interscambiabile, che faremo di questi due termini
nel corso del presente studio.
17
Parallelamente all’emergere di fattori connessi quali la diffusione
dell’alfabetizzazione, la democrazia di massa, l’opinione pubblica, i mass
media, ecc.
18
T. JUDT, Thinking the Twentieth century, Penguin Press, New York,
2012, p. 285.
19
La memoria, come gli studiosi di contemporaneistica sanno bene, può
rivelarsi metodologicamente un’arma a doppio taglio. Il passare del tempo
infatti altera i ricordi, talvolta anche notevolmente e inavvertitamente. A ciò
si aggiungono i rischi di distorsione dati dal famoso «senno di poi» (si
ricorda e si interpreta l’evento alla luce del suo esito). Un episodio come la
crisi di Cuba può essere particolarmente soggetto a tali rischi, per il suo
carattere traumatico e la sua breve durata.
20
Sono aspetti, questi, che recentemente stanno cominciando a ottenere
attenzione. Gli studiosi americani Johnson e Tierney, per esempio, hanno
scritto che «la letteratura sulla percezione e la percezione errata [perception
and misperception] è una parte crescentemente importante degli studi di
relazioni internazionali» (D. JOHNSON – D. TIERNEY, Essence of victory:
winning and losing international crises, in «Security Studies», vol. 13, n. 2,
2003-2004, pp. 350-381). I loro studi però si concentrano essenzialmente
sulla percezione degli esiti delle crisi; così come quelli di R. JERVIS,
Perception and misperception in international politics, Princeton University
Press, Princeton, NJ, 1976, riguardavano il ruolo delle percezioni nei
processi decisionali delle leadership. Il nostro approccio invece, come si
vede, riguarda in primo luogo (seppur non esclusivamente) le percezioni
pubbliche della crisi, ossia l’esperienza che la gente ne maturò durante essa.
21
G. DE GROOT, The Bomb. A life, Harvard University Press, Cambridge,
MA, 2005, p. IX.
22
Come invece aveva scelto di fare, per esempio, il pur ottimo saggio
del 1988 sulla storiografia sulla crisi, W. MEDLAND, The Cuban Missile
Crisis of 1962: needless or necessary?, Praeger, New York, 1988.
23
Per esempio, nel caso della citazione più lunga, quella dal resoconto
di Rossana Rossanda, nessuna parafrasi avrebbe potuto restituire al lettore il
pathos, la volontà ideologico-letteraria di ‘epicizzare’ quei frangenti come
la scrittura originale, e ciò è parso elemento da fornire per aiutare a
comprendere la percezione italiana della CMC e il suo carattere di
divisività.
24
Il verbale è riportato in The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWHIP Bulletin», Fall 2012, p. 402.
25
Allison nel 2012 ha definito il crescente attrito USA-Iran «una crisi
dei missili di Cuba al rallentatore» (G. ALLISON, The Cuban missile crisis at
50. Lessons for U.S. foreign policy today, in «Foreign Affairs», July-August
2012). Quanto alla Corea del Nord, le esplicite minacce nucleari rivolte (più
o meno credibilmente) agli USA dal nuovo leader Kim Jong-un, appena
trentenne, hanno spinto l’ottantaseienne Castro a interrompere un lungo
silenzio e scrivere un articolo in cui definiva la situazione «uno dei più
gravi rischi di guerra nucleare dalla crisi di ottobre del 1962». (F. CASTRO, El
deber de evitar una guerra en Corea, in «Granma», 5-4-2013).
26
Si veda per esempio il discorso di Obama a Praga (5-4-2009) o quello
al vertice di Seul (26-3-2012).

Premessa. Tra Braudel e McLuhan


1
J.-Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba, in «Cultures
& Conflits», n. 36, 2000, p. 80.
2
Si badi: individuale, cioè dell’individuo, non dell’uomo.
3
F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973, p. 40
4
Ivi, p. 60.
5
Ivi, p. 116.
6
Ivi, p. 31.
7
Ivi, p. 65.
8
C. PAVONE, Prima lezione di Storia Contemporanea, Laterza, Roma-
Bari, 2007, p. 6. Il virgolettato interno è di Schlesinger.
9
E.J. HOBSBAWM, De Historia, Rizzoli, Milano, 1997, p. 271 (che così
concludeva il ragionamento: «Non è facile che lo capiscano intuitivamente
generazioni ignare di come stessero le cose prima»).
10
G. ALIBERTI, Metodologia della storia nel ’900, Fratelli Conte Editori,
Napoli, 1975, p. 50.
11
G. ALIBERTI, Strutture sociali e classe dirigente nel Mezzogiorno
liberale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1979, p.16 (per la risposta
avanzata da Aliberti a tale interrogativo, cfr. ivi, p. 17 o Metodologia della
storia nel ’900, cit., p. 52).
12
Ci riferiamo qui naturalmente alla fase della crisi che
tradizionalmente viene presa in considerazione perché davvero acuta, quella
cioè che andò dal 16 al 28 ottobre 1962. L’appendice che essa ebbe sino al
successivo 20 novembre fu infatti assai meno significativa e pericolosa,
riguardando in sostanza solo l’esecuzione di alcuni punti dell’accordo sulla
base di un compromesso di massima già raggiunto dalle parti.
13
Citato in J. GADDIS, We now know…, cit., p. 229.
14
Citato in MCG. BUNDY, op. cit., p. 357.
15
Citato in R. LEBOW – J. STEIN, We all lost the Cold War, Princeton
University Press, Princeton, 1994, p. 140.
16
Intervento di U Thant al Consiglio di Sicurezza ONU il 24-10-1962
(riportato in S. WEART, Nuclear Fear, Harvard University Press, Cambridge,
MA, 1988, p. 258). Ulteriori conferme arrivano dagli storici: «Il confronto
militare acquistava anch’esso un carattere globale, rispetto al quale nessuna
potenza poteva considerarsi esente da rischi» (E. DI NOLFO, Storia delle
relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 1018);
«Se un conflitto armato fosse avvenuto nessun angolo della terra si sarebbe
salvato» (A. LEPRE, Guerra e pace nel XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2005,
p. 346). Il carattere globale dei rischi emerge anche dalle parole dei due
Ministri della Difesa di URSS e USA. Il primo, Rodion Malinovsky, negli
stessi giorni della crisi dichiarava trionfante al quotidiano dell’esercito
sovietico: «Abbiamo ora […] i razzi globali. I nostri razzi strategici hanno
spazzato via dalla strategia militare l’idea della invulnerabilità geografica»
(estratto da «RedStar», riportato su «The Washington Post», 26-10-1962, p.
A10). Il suo corrispettivo statunitense, Robert McNamara, decenni dopo si
dirà convinto che se fosse iniziata l’imminente invasione di Cuba, la crisi
sarebbe finita «nel disastro assoluto, […] per tutte le nazioni intorno al
globo che avrebbero sofferto del fallout dello scambio nucleare» (R.
MCNAMARA, The Conference on Disarmament should focus on steps toward
a ‘Nuclear free world’, in «Disarmament Diplomacy», n. 4, Ap. 1996). E
anche ove il fallout risparmi qualche remoto angolo del pianeta, è difficile
immaginare che tipo di vita sarebbe possibile condurre ai margini di un
mondo ormai semivuoto, ridotto a un’enorme landa improduttiva e
inabitabile. In uno scenario del genere, come dissero gli stessi Kruscev e
Kennedy «i superstiti invidierebbero i morti» (M. BESCHLOSS, Guerra fredda,
Kennedy e Kruscev: Cuba, la crisi dei missili, il Muro di Berlino,
Mondadori, Milano, 1991, p. 633).
17
G. BARRACLOUGH, Atlante della Storia 1945-1975, Laterza, Roma-Bari,
1977, p. 5.
18
Parlando e scrivendo nel campo di prigionia tedesco dove era
rinchiuso durante la seconda guerra mondiale, Braudel infatti aveva già
colto una generale tendenza verso una crescente unificazione (oggi la
diremmo globalizzazione) del mondo, che profeticamente indicava ai suoi
uditori (anch’essi reclusi) come gravida di futuri sviluppi, benché senza
riferirsi ad essa come struttura né, naturalmente, poterla collegare all’era
nucleare, ancora di là da venire (F. BRAUDEL, Storia, misura del mondo, Il
Mulino, Bologna, 1998, pp. 107-108).
19
Come progressivamente sottolineato da studi e simulazioni
scientifiche, quali: Long-term worldwide effects of multiple nuclearweapons
detonations, realizzato dal National Research Council nel 1974; R.P. TURCO
– O.B. TOON – T.P. ACKERMAN – J.B. POLLACK – C. SAGAN, Nuclear winter:
global consequences of multiple nuclear explosion, in «Science», 23-12-
1983; A. ROBOCK – L. OMAN – G. STENCHIKOV, Nuclear winter revisited with a
modern climate model and current nuclear arsenals: Still catastrophic
consequences, in «Journal of Geophysical Research», n. 112, 2007.
20
Kruscev lo afferma nelle sue memorie, riportate in L. NUTI, I missili
di ottobre…, cit., p. 400.
21
L’equilibrio del terrore consisteva nella capacità di entrambe le
superpotenze di infliggersi reciprocamente una quantità di distruzione così
intollerabile da rendere fuori questione l’idea di arrivare volutamente a un
diretto conflitto militare.
22
Gli stati dotati di armi nucleari ad oggi sono (almeno) nove, contro i
tre del 1962.
23
Nel 2010, al vertice di Washington sulla sicurezza nucleare, il
presidente statunitense Barack Obama ha infatti sottolineato come «due
decenni dopo la fine della guerra fredda siamo di fronte a una crudele ironia
della storia: il rischio di un confronto nucleare tra nazioni è diminuito, ma il
rischio di un attacco nucleare è aumentato» («Corriere della Sera», 13-4-
2010).
24
Sull’importanza del fattore geografico nella storia, si veda ora anche
l’ottimo saggio di R. KAPLAN, The revenge of geography, Random House,
New York, 2012.
25
Per una descrizione, corroborata anche da indicatori numerici, sul
crollo di interesse mondiale verso queste tematiche, si veda S. WEART, op.
cit., pp. 259-262.
26
Tale struttura del resto sarebbe, per così dire, riaffiorata vicino alla
superficie, seppur con intensità minore, in occasione del riaccendersi della
tensione tra le due superpotenze nella prima metà degli anni Ottanta.
27
F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, cit., pp. 61 e 108.
28
Ivi, p. 32.
29
Ivi, p. 108.
30
C. PAVONE, op. cit., p. 100.
31
S. ROMANO (a cura di), Giornalismo italiano e vita internazionale,
Jaca, Milano, 1989, p. 9.
32
P. NORA, Il ritorno dell’avvenimento, in J. LE GOFF – P. NORA (a cura
di), Fare Storia, Einaudi, Torino, 1981, pp. 139-158.
33
Citato ivi, p. 156.
34
M. MCLUHAN – D. CARSON, The book of probes, Gingko Press, Corte
Madera, CA, 2003, p. 211.
35
Per ulteriore conferma, cfr. J.N. JEANNENEY, L’echo du siècle, Hachette
Littératures, Paris, 2001, p. 496.
36
M. MCLUHAN, The book of probes, cit., p. 483.
37
M. MCLUHAN, The book of probes, cit., p. 524. Quest’importanza
storica avuta, secondo McLuhan, dalla stampa spiega tra l’altro perché in
questo lavoro riserveremo spazio all’analisi dei giornali, vettori di notizie
ma in un certo senso notizie essi stessi, ed essi stessi oggetto (non solo
strumenti) della nostra analisi.
38
M. MCLUHAN – Q. FIORE, Guerra e pace nel villaggio globale,
Apogeo, Milano, 1995, p. 35.
39
M. MCLUHAN, Understanding the media: the extensions of man,
McGraw Hill, New York, 1964, p. 3; trad. it. M. MCLUHAN, Gli strumenti del
comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967.
40
M. MCLUHAN, La galassia di Gutenberg (1962) e Understanding the
media…, cit. (1964).
41
Riportato in M. MCLUHAN, The book of probes, cit., p. 392.
42
M. MCLUHAN, McLuhan Unbound, vol. V (At the moment of Sputnik
the planet became a global theatre in which there are no spectators but only
actors), Gingko Press, Corte Madera, CA, 2005, p. 5. Proviamo a fare un
esempio concreto di questo aspetto. Il 22 novembre 1963, appena si
diffonde – tramite i media – la notizia dell’uccisione di Kennedy a Dallas,
15.000 persone scendono spontaneamente in piazza a Berlino Ovest (cfr.
J.N. JEANNENEY, L’echo du siecle, cit., p. 66), per esprimere lutto e sgomento
alla perdita del leader che essi considerano un difensore della loro città.
Come si vede, l’oceano era stato varcato istantaneamente dai media, e i
berlinesi avevano manifestato istintivamente un moto non molto dissimile,
se vogliamo, da quello che nei villaggi «tradizionali» un tempo portava i
compaesani a rendere omaggio ad una casa del villaggio che fosse stata
colpita da un lutto.
43
Si noti inoltre come due ambiti di conoscenza apparentemente lontani
come gli studi sul nucleare e quelli sui media rivelassero così dei forti punti
di convergenza. A paragonarli del resto era lo stesso McLuhan, che proprio
nel 1962 scriveva all’antropologo americano Edward Hall lamentando
come gli studi sui media fossero in grave ritardo rispetto a quelli sul
nucleare, in quanto ancora sottovalutati, pur essendo a suo avviso molto più
importanti dei primi: «gli studi sui media coinvolgono le vite umane molto
più profondamente di quanto gli studi nucleari abbiano mai fatto o possano
mai fare». Lettera McLuhan – Hall, 5-4-1962, gentilmente segnalataci dallo
studioso Andrew Chrystall. Edward T. Hall Collection, MS 196, Box 8,
Folder 27-29, University of Arizona.
44
M. MCLUHAN, McLuhan Unbound, vol. V, cit., p. 4.
45
Ivi, p. 6. E ancora, ribadito a p. 19.
46
Ivi, p. 6.
47
M. MCLUHAN, The book of probes, cit., p. 343 («gli uomini delle
notizie e dei media» in originale è: «newsmen and mediamen»).
48
M. MCLUHAN, The book of probes, cit., p. 360.
49
(Ciò, evidentemente, pur senza divenire del tutto avulsa dai risultati
sul campo, né perdere il suo carattere cruento e tragico per le persone
coinvolte.) McLuhan tornò a più riprese su questi concetti. In un saggio del
1972, per esempio, si spinse a ipotizzare che la terza guerra mondiale
sarebbe stata «una guerriglia televisiva senza distinzione tra partecipazione
militare e civile». M. MCLUHAN – B. NEVITT, Take today, the executive as
dropout, Hartcourt Brace Jovanovich, New York, 1972, p. 152.
50
Torneremo su quel dibattito nel capitolo sulle reazioni statunitensi.
51
Su questi aspetti si vedano per esempio: S. WEART, op. cit.; MCG.
BUNDY, op. cit.; A. WINKLER, Life under a cloud, Oxford University Press,
Oxford, 1993; M. HENRIKSEN, Dr. Strangelove’s America, University of
California Press, Berkeley, 1997; G. DE GROOT, op. cit.
52
E in tal senso, tra le due categorie di tecnologie proposte da
McLuhan, l’atomica ci sembrerebbe perciò ascrivibile non tanto alle
estensioni dell’uomo, quanto alle sue autoamputazioni.

Prologo
1
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 486.
2
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 41.
3
Uno dei suoi più alti consiglieri, Bundy, scriverà poi che ciò che più lo
colpì, favorevolmente, di quella decisione fu che il Presidente l’aveva presa
«contrariamente alla propria (stessa) opinione che essa difficilmente
avrebbe funzionato». MCG. BUNDY, op. cit., p. 457.
4
«Joe the plumber» (Joe l’idraulico) è la personificazione
comunemente usata in USA per descrivere l’americano medio (non troppo
dissimile dal nostro «signor Rossi» o dal nostro «uomo della strada»).
5
Acronimo di white anglo-saxon protestant che identifica i connotati
tipici degli esponenti della tradizionale classe dirigente USA.
6
T. SORENSEN, Kennedy, Mondadori, Milano, 1966, p. 937.
7
«New York Journal American», 22-10-62, p. 1.
8
R. DALLEK, An unfinished life, Little, Brown & Co., New York, 2003,
p. 558. (Anche M. DOBBS, op. cit., p. 50, parla di «oltre cento milioni»,
mentre 50 milioni era la stima fatta all’epoca dal «Los Angeles Times», 24-
10-62, e riportata da A. GEORGE nel suo Awaiting Armageddon, cit., p. 93,
che però si corregge raddoppiando la cifra nel suo più recente The Cuban
missile crisis. The Threshold of nuclear war, Routledge, New York, 2013, p.
67.)
9
Nell’88 per cento delle famiglie, secondo quanto precisa G. RUBIN, 40
ways to look at JFK, Ballantine Books, New York, 2005.
10
A. DOBRYNIN, In confidence, Times Books Random House, New York,
1995, p. 78.
11
D. RUSK, As I saw it, W.W. Norton & Co., New York, 1990, p. 235.
12
M. DOBBS, op. cit., p. 42.
13
Così era definita l’ora del discorso nel programma cronologico stilato
per coordinamento interno (T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 932).
14
Un altro interruttore era celato in un fermalibro accanto all’altra sedia
della stanza. S. STERN, The week that the world stood still, Stanford
University Press, Stanford, California, 2005, p. 6.
15
S. STERN, The Cuban missile crisis in American memory, Stanford
University Press, Stanford, 2012, pp. 11 e 35. Che Robert Kennedy ne fosse
a conoscenza si evince anche dal fatto che una delle primissime cose che
egli fece non appena apprese dell’attentato al fratello fu di far
immediatamente smantellare il dispositivo (E. THOMAS, Robert Kennedy,
Simon & Schuster, New York, 2000, p. 275).
16
E. MAY – PH. ZELIKOW, The Kennedy Tapes. Inside the White House
during the Cuban Missile Crisis, Belknap Press of Harvard University
Press, Cambridge, 1997, p. X.
17
È un’opinione ormai abbastanza pacifica tra gli storici. Cfr. per
esempio S. STERN, The week…, cit., p. 6.
18
Usando un’altra, bella, immagine, Stern la definisce invece «the
chance to be the fly on the wall»: l’opportunità di essere la mosca sul muro
(ivi, p. 5).
19
Lo riporta P. SALINGER, With Kennedy, Doubleday Co., Garden City,
NY, 1966, p. 265.
20
Lo ricorda la stessa Jacqueline, nelle testimonianze di storia orale
registrate nel 1964 con lo storico Schlesinger e rese pubbliche nel 2011. J.
KENNEDY, Jacqueline Kennedy. Historic conversations on life with John
Kennedy, Hyperion, New York, 2011, pp. 262-263. (Cfr. sul punto anche M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 481; S. STERN, The week…, cit., 74). In quei giorni,
un’analoga intenzione di rimanere comunque al proprio posto la espresse
pure Robert Kennedy (cfr. E. THOMAS, Robert Kennedy, cit., p.224) nonché il
Giudice della Corte Suprema Earl Warren, che restituì il pass per il bunker
quando fu informato che la moglie non avrebbe potuto seguirlo (A. GEORGE,
The Cuban missile crisis, cit., p. 93).
21
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 21.
Verso il climax. Cenni sulla guerra fredda 1956-1962
1
N. COUSINS, The improbable triumvirate, W.W. Norton & Co., New
York, 1972, pp. 151-152.
2
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, W.W. Norton &
Co., New York, 2006, p. 8.
3
W. TAUBMAN, Khruschev: The man and his era, W.W. Norton & Co.,
New York, 2003, p. 671.
4
L’episodio della scelta dell’aggettivo è in E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 669.
5
V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, Inside the Kremlin’s Cold War, Harvard
University Press, Cambridge, 1996, p. 175.
6
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, Sugar, Milano, 1970, pp. 370-373.
7
Questa stima numerica si trova in A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell of
a gamble, W.W. Norton & Co., New York, 1997, p. 186.
8
Si veda per esempio il titolo, oltre che il contenuto, del volume di F.
BURLATSKY, Khrushchev and the first Russian Spring, Macmillan Publishing
Company, New York, 1988.
9
Tra i recenti studi sul tema segnaliamo: C. BEKES – M. BYRNE – J.
RAINER (a cura di), The 1956 Hungarian Revolution: A history in documents,
Central European University Press, Budapest, 2003; CH. GATI, Failed
illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt,
Stanford University Press, Stanford, CA, 2006; V. SEBESTYEN, Twelve days:
the story of 1956 Hungarian Revolution, Weidenfeld & Nicolson, London,
2006; trad. it. Budapest 1956, Rizzoli, Milano, 2006; P. LENDVAI, One day
that shook the Communist world: the 1956 Hungarian uprising and its
legacy, Princeton University Press, Princeton, 2008.
10
Sull’episodio si vedano la raccolta di studi The Suez-Sinai crisis,
1956: retrospective and reappraisal, Frank Cass, London, 1990 e le
monografie di K. KYLE, Suez: Britain’s end of empire in the Middle East,
I.B. Tauris, London, 1991 e D. TAL, The 1956 War: collusion and rivalry in
the Middle East, Frank Cass, London, 2001.
11
Benché su originaria ispirazione del suo rivale Malenkov, poi da lui
deposto (J. GADDIS, We now know…, cit., p. 229).
12
Per un dettagliato e vivace resoconto del viaggio di Kruscev in
America, si veda ora P. CARLSON, K blows top, Public Affairs, New York,
2009.
13
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 237.
14
Riportato ivi, pp. 239 e 248.
15
Sull’argomento, cfr. anche P. DICKSON, Sputnik: The shock of the
century, Walker, New York, 2001; M. BRZEZINSKI, Red Moon rising: Sputnik
and the hidden rivalries that ignited the space age, Bloomsbury, London,
2007.
16
Copia della prima pagina del quotidiano esposta all’interno dello
Space and Air Museum, in Washington, DC.
17
Massive retaliation era appunto il modo in cui veniva definita la
strategia americana di quegli anni.
18
Eisenhower, per esempio, dichiarò nel 1956: «stiamo accumulando
questi armamenti perché non sappiamo cos’altro fare per provvedere alla
nostra sicurezza». R. RHODES, Arsenals of folly, Knopf, New York, 2007, p.
100.
19
R. CROCKATT, Cinquant’anni di Guerra Fredda, Salerno Editrice,
Roma, 1997, p. 198.
20
Ivi, p. 202; E.J. HOBSBAWM, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 2006, p.
287; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 77.
21
Cfr. per esempio E.J. HOBSBAWM, Il secolo breve, cit., p. 511: «La
maggior parte dei cubani visse sinceramente la vittoria dei ribelli come un
momento di liberazione e di promesse infinite incarnate nel giovane
comandante […]. Probabilmente nessun capo nel Secolo breve […] ebbe
ascoltatori più entusiasti e appassionati di questo omone barbuto, con la
mimetica sgualcita, che si presentava sempre in ritardo ai comizi e poi
parlava per ore, ininterrottamente […]. Per una volta la rivoluzione venne
sperimentata come una specie di luna di miele collettiva. Dove avrebbe
condotto? Da qualche parte doveva pur esserci un futuro migliore».
22
E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, cit., p.
1055.
23
A. FURSENKO, T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 9.
24
H. THOMAS, Storia di Cuba, Einaudi, Torino, 1973, p. 929.
25
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 8.
26
Come ben riassunto da Walter Cronkite, il decano del giornalismo
USA, «la consideravamo un po’ parte degli Stati Uniti […] era una piccola
colonia» (OHI realizzate dal NSA per la CNN Cold War Series.
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/episode-10/cronkite3.html).
Già nel 1899, il presidente USA McKinley aveva proclamato nel discorso
sullo stato dell’Unione che, alla fine della guerra in corso, Cuba avrebbe
dovuto «necessariamente essere legata a noi da legami di singolare intimità
e forza, affinché il suo perdurante benessere sia assicurato. Che tali legami
siano organici o convenzionali, i destini di Cuba sono in qualche legittima
forma e maniera irrevocabilmente legati ai nostri». (Cit. in L. PEREZ, Cuba
and the United States, University of Georgia Press, Athens, 2003, epigrafe.)
27
Per comprendere la misura di tale predominanza, si considerino
intanto i suoi paletti formali: il controllo sulla politica estera cubana
previsto dall’emendamento Platt (in vigore dal 1903 al 1934) e la
concessione di una base militare permanente sull’isola (Guantanamo). Ma
anche al di là di ciò, la posizione degli USA a Cuba è ben riassunta dalla
testimonianza resa al Senato nel 1960 da Earl T. Smith, ultimo ambasciatore
statunitense sull’isola prima della rivoluzione: «Fino all’arrivo di Castro»,
disse Smith, «gli USA erano così soverchiantemente influenti a Cuba che
l’ambasciatore americano era il secondo uomo più importante, a volte
persino più importante del presidente cubano». (Cit. in D. KELLNER, Ernesto
«Che» Guevara, Chelsea House Publishing, New York, 1988, p. 66.)
28
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp. 40-44; H. THOMAS,
Storia di Cuba, cit., pp. 968-969. A proposito di questo discorso il
pensatore francese Jean-Paul Sartre, che era presente, scrisse: «Scoprii
l’angoscia cubana, perché ad un tratto la condivisi».
29
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 44 (sono le parole esatte
del piano sottoposto ad Eisenhower).
30
Ivi.
31
A. SCHLESINGER Jr., Journals 1952-2000, The Penguin Press, New
York, 2007, p. 93.
32
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 16 (questa frase era stata da lui
pronunciata in merito al suo programma per la politica di difesa, ma
rispecchiava bene anche il resto del suo programma).
33
R. CROCKATT, Cinquant’anni di Guerra Fredda, cit., p. 189.
34
Quest’accenno si concreterà poi nell’Alleanza per il Progresso: un
programma di finanziamenti per lo sviluppo del Sud America (G. GARAVINI,
Dopo gli imperi, Le Monnier, Firenze, 2009, p. 33).
35
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1044.
36
Cosa di cui Schlesinger aveva avvertito il Presidente, in un «memo»
dell’11 febbraio 1961: «Per quanto ben mascherata una qualsiasi azione
[contro Cuba] possa essere, essa verrà ascritta agli Stati Uniti». Cit. in J.
BLIGHT – P. KORNBLUH (a cura di), Politics of illusion: The Bay of Pigs
invasion reexamined, Lynne Rienner Publishers, Boulder, 1998, p. 218.
37
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1043.
38
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 102.
39
Riportato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy and the Cuban missile
crisis, cit., p. 20.
40
A. SCHLESINGER Jr., Journals 1952-2000, cit., p. 120.
41
Riportato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., p. 22.
42
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1040.
43
H. THOMAS, Storia di Cuba, cit., p. 1045.
44
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 71.
45
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 136.
46
Cfr. L. FREEDMAN, Kennedy’s wars, Oxford University Press, New
York, 2000, p. 147.
47
Al di là delle prevedibili veementi proteste verbali, che egli sollevò in
due lettere personali a Kennedy inviate rispettivamente il 18 e 22 aprile
1961 (cfr. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 123).
48
Ivi, p. 196.
49
R. VAN DIJK (a cura di), Encyclopedia of the Cold War, Routledge,
London, 2008, p. 942; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 129.
50
R. VAN DIJK (a cura di), Encyclopedia of the Cold War, cit., p. 942; M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 201.
51
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 105; F. TAYLOR, The
Berlin Wall, Harper Perennial, New York, 2006, p. 119.
52
F. TAYLOR, The Berlin Wall, cit., p. 125; N. KRUSCEV, Kruscev ricorda,
cit., pp. 486-487.
53
Su questo aspetto si veda H. HARRISON, Driving the Soviets up the
wall, Princeton University Press, Princeton, 2003, pp. 139-224.
54
M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 218 e ss. (sul vertice di Vienna nel suo
complesso, cfr. pp. 196-238).
55
Ivi, p. 231.
56
Riportato ivi, p. 227.
57
Virgolettati riportati, ivi, pp. 228-229; M. DOBBS, op. cit., p. 7; F.
TAYLOR, The Berlin Wall, cit., p. 129. Studi come D. KAGAN, On the origins
of war and preservation of peace, Doubleday, New York, 1995, pp. 475-
476, mostrano che effettivamente l’idea che Kruscev si era fatto del suo
avversario era quella. Recenti documenti sovietici sembrano confermarlo:
per esempio, in una riunione del Presidium di alcuni mesi dopo (8-1-1962),
Kruscev disse ai suoi: «l’uomo in sé [Kennedy] ha molto poca autorità tra
coloro che decidono e dirigono la politica degli Stati Uniti». (Cit. in J.
HASLAM, Russia’s cold war, Yale University Press, New Haven, 2011, p.
188.)
58
JFK Berlin speech, July 25, 1961 (testo completo originale reperibile
sul sito della JFK Library); M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 262-265.
59
Ivi, pp. 267-8. Il punto è contestato: secondo altri, una tale mossa
sarebbe stata un’alterazione degli accordi di Potsdam (conclusi da USA,
URSS e UK nel 1945 proprio per definire insieme il problema di Berlino).
60
Neanche quando l’affermazione di Fulbright fu menzionata da un
giornalista a JFK nel corso di una sua conferenza stampa (ivi, p. 272).
61
Ivi, p. 270 (e H. HARRISON, op. cit., p. 195). Si precisa comunque che
da testimonianze più recenti rispetto al volume di Beschloss risulterebbe
che un primo generico assenso di Mosca alla chiusura dei confini fosse
stato fatto filtrare ai vertici della DDR già all’inizio di luglio (H. HARRISON,
op. cit., p. 186).
62
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 274.
63
Ivi, p. 278.
64
Ivi, p. 281.
65
Ivi, p. 282.
66
Ivi, p. 278.
67
A. PEYREFITTE, C’était De Gaulle, 2 voll., Fayard, Paris, 1994-1997
(**), p. 19. (Cfr. anche M. BESCHLOSS, op. cit., p. 285.)
68
Quanto alla nomina di Konev, per esempio, Kruscev stesso nelle sue
memorie la definirà «puramente amministrativa, tanto per dimostrare agli
occidentali che seguivamo la situazione altrettanto seriamente di loro» (N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 491).
69
Oleg Penkovski, colonnello dell’intelligence militare sovietica,
cominciò spontaneamente a collaborare con il servizio segreto britannico
MI6 e la CIA, nell’aprile 1961, rivelando i segreti militari cui aveva accesso
in patria. Fornì preziose informazioni sullo stato dell’arsenale sovietico,
invitando tra l’altro la Casa Bianca ad essere «risoluta» (firm), giacché
Kruscev non era «pronto per alcuna guerra». (Cfr. J. HASLAM, Russia’s cold
war, cit., p. 196.)
70
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 33.
71
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 256.
72
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 336.
73
In tal senso, cfr. per esempio MCG. BUNDY, op. cit., p. 419.
74
Di questo avviso, tra gli altri, M. BESCHLOSS, op. cit., p. 355.
75
Ivi, p. 337. Il nome del comandante era Thomas Tyree.
76
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 492.
77
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 354.
78
L. FREEDMAN, op. cit., p. 153.
79
A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy and his times, Houghton Mifflin
Co., Boston, 1978, p. 534.
80
Meeting with Attorney General of US Concerning Cuba, Jan. 19th
1962 (un breve estratto è riportato anche in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura
di), The Cuban Missile Crisis, 1962. A National Security Archive
Documents Reader, The New Press, New York, 1998, p. 362).
81
JCS Memo to DoD, Mar. 13th 1962, Justification for US Military
Intervention in Cuba (Enclosure A, pp. 8, 10). Si tratta del documento della
cosiddetta Operazione Northwoods. (Su questi piani dei militari, cfr. anche
M. DOBBS, One minute to midnight…, cit., p. 17.)
82
Operation Good Times era l’ironico nome dell’operazione (JCS Ideas
in support of Cuba Project, Feb. 2, 1962. L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura
di), op. cit., pp. 53-61).
83
Perfino lo stesso capo della CIA John McCone era probabilmente
all’insaputa di questi complotti di omicidio, poiché come cattolico
osservante egli si era detto contrario all’idea («potrei essere scomunicato»).
84
Memo of SGA Meeting, 4-10-1962 (declassificato: 2-7-1997).
85
L. FREEDMAN, op. cit., p. 150 (il carattere corsivo è mio).
86
A conferma di ciò, cfr. per esempio E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
673.
87
Per esempio, la conversazione tra il Presidente e il genero di Kruscev
tenutasi alla Casa Bianca il 12 marzo 1962, in cui JFK aveva fatto un
esplicito e stizzito paragone tra come i sovietici avevano risolto il loro
problema dell’Ungheria e come gli americani avrebbero potuto risolvere il
proprio problema di Cuba. Passaggio che impressionò molto (forse anche
troppo) il genero di Kruscev, che tornato in patria lo riportò, con un
apposito memorandum, al suo importante suocero (Adzhubei’s account of
his visit to Washington to the CC CPSU – 12 March, 1962: documento
sovietico declassificato nell’aprile 2002, tradotto e pubblicato dal National
Security Archive:
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/620312%20Adzhubei%27s%20
Account.pdf).
88
Conferenza rievocativa della CMC tenuta a Mosca nel 1989: frase
riportata in J. BLIGHT – J. LANG, The Fog of War. Lessons from the Life of
Robert S. McNamara, Rowman & Littlefield, Lanham, 2012, p. 41; J.
GADDIS, We now know…, cit., p. 262.
89
Nell’interesse di chiarezza e sintesi, cito su questo punto in modo
combinato, naturalmente senza minimamente alterarne il senso, le memorie
di Kruscev come trascritte nelle edizioni del 1970 (N. KRUSCEV, Kruscev
ricorda, cit., pp. 523-526) e del 2007 (N. KHRUSHCHEV, Memoirs, vol. 3,
Brown University, Providence, 2007, pp. 320-326).
90
Su quella riunione del Presidium, cfr. J. HASLAM, Russia’s cold war,
cit., p. 202.
91
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 191.
92
A. GRIBKOV – W. SMITH, Operation Anadyr, Edition Q, USA, 1994, p.
15; J. GADDIS, We now know…, cit., p. 267.
93
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit, p. 83.
94
Ivi, p. 75.
95
Anni dopo, infatti, due membri del governo USA (Bundy e Sorensen)
confermeranno che se il dispiegamento fosse stato fatto pubblicamente
sarebbe stato molto più difficile per JFK trovare supporto per una reazione
(ivi, p. 80; M. BESCHLOSS, op. cit., p. 453, nota).
96
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 77 (il trattato fu firmato il 27 agosto,
da Che Guevara. Cfr. J. HASLAM, Russia’s Cold war, cit., p. 203).
97
L. FREEDMAN, op. cit., p. 174.
98
Si vedano per esempio C.B. LUCE, Cuba: Let’s have the whole truth,
in «Life», Oct. 5, 1962, con richiamo in copertina, e i due duri articoli
comparsi in quelle settimane The ugly choice, in «Time Magazine», Sep.
14, 1962, e The durable doctrine, in «Time Magazine», Sep. 21, 1962.
99
R. KENNEDY, I tredici giorni della crisi di Cuba, Garzanti, Milano,
1969, p. 22.
100
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 206.
101
MCG. BUNDY, op. cit., p. 393.
102
Riportato in E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit., p. 681; R. LEBOW – J. STEIN,
op. cit., p. 84; W. TAUBMAN, op. cit., p. 557.
103
Riportato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 84.

«Il nodo della guerra». I giorni della crisi dei missili di Cuba
1
T. SMITH The Cuban Missile Crisis and U.S. Public, in «Public Opinion
Quarterly», Summer 2003, p. 265.
2
M. DOBBS, op. cit., p. 5; M. BESCHLOSS, ivi, p. 8; MCG. BUNDY, op. cit.,
pp. 392 e 414; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 46.
3
«He can’t do this to me!». Probabilmente rispetto a questa versione
ufficiale ci fu anche qualche termine più colorito. In proposito infatti Bundy
(il latore della notizia) ricorderà poi con un filo di implicita ironia: «non
credo che quelle fossero proprio le parole giuste, ma non c’è niente di
sbagliato sulla musica». MCG. BUNDY, op. cit., p. 414.
4
M. BESCHLOSS, Guerra fredda…, cit., p. 8; MCG. BUNDY, op. cit., p. 392:
«Quando dissi al Presidente la brutta notizia […] la sua prima reazione, da
cui non si scosse più, fu che sarebbe servito qualcosa in più delle parole per
rispondere a questa sfida sovietica».
5
R. KENNEDY, op. cit., p. 18.
6
La determinazione dello stato di installazione e operatività dei missili
fotografati fu resa possible anche dalla documentazione sovietica che nei
mesi precedenti era stata fatta filtrare alla CIA dalla spia russa Oleg
Penkovski. Appena pochi giorni dopo (precisamente il 22 ottobre),
Penkovsky, che già da settimane veniva seguito dal KGB, fu scoperto,
arrestato, interrogato e successivamente giustiziato (M. DOBBS, op. cit., pp.
56-57). Su Penkovski cfr. anche R. GARTHOFF, A journey through the Cold
War, Brooking Institution Press, Washington, 2001, pp. 110-117 e J.
SCHECTER – P. DERIABIN, The spy who saved the world, Charles Scribner’s
Sons, New York, 1992.
7
S. STERN, The week…, cit., p. 22; M. DOBBS, op. cit., p. 9.
8
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 11.
9
La cosa gli fu anche fatta esplicitamente notare: cfr. T. SORENSEN,
Counselor. A life at the edge of history, Harper, New York, 2008, p. 289.
10
S. STERN, The week…, cit., p. 65.
11
T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 925; R. KENNEDY, op. cit., p. 33.
12
Qui RFK ‘dimentica’ che McCone in agosto aveva fatto presente al
governo la concretezza di una tale eventualità. Tuttavia si trattava pur
sempre della previsione di un individuo solo, senza prove e contro il parere
di tutti gli altri.
13
R. KENNEDY, op. cit., pp. 18 e 21.
14
S. STERN, The week…, cit., p. 44.
15
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 94.
16
Ivi, p. 85.
17
Per una conferma di queste difficoltà, cfr. anche R. KENNEDY, op. cit.,
p. 26.
18
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 440; L. FREEDMAN, op. cit., p. 178. Tojo era il
generale e primo ministro giapponese che approntò l’attacco a Pearl Harbor
(R. KENNEDY, op. cit., p. 24, erroneamente ricordava di aver passato il
biglietto al fratello invece che a Sorensen. Sul punto, cfr. L. FREEDMAN, op.
cit., p. 450 nota).
19
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 62.
20
Ivi, p. 66. Qui questa sua affermazione era riferita ai britannici ed alla
scelta in quel momento considerata, cioè l’airstrike, ma essa restò valida
anche quando vennero considerati gli altri alleati e le altre opzioni.
21
Ivi, p. 77; A. STEVENSON, The papers of Adlai E. Stevenson, Little,
Brown & Co., Toronto, Boston, 1979, vol. 8, p. 299.
22
Per l’orario, cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 14.
23
«Mongoose Meeting with Attorney General» (memo), Oct. 16, 1962,
riportato in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., pp. 62-63.
24
M. DOBBS, op. cit., p. 8.
25
Qui (come risulta da E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 102-103 e M.
DOBBS, op. cit, p. 17) è sorprendente notare come la questione (azioni di
sabotaggio compiute ai danni di un Paese straniero, per giunta appena
divenuto teatro di una gravissima crisi nucleare) sia considerata di
importanza marginale e tutto sommato scontata. Il tutto infatti si risolve nel
giro di pochissime battute e Bundy quasi si scusa per dover interrompere
«una riunione di questo tipo» per chiedere conferma a JFK della sua
approvazione riguardo a una generica «lista di opzioni di sabotaggio».
Bundy gliene menziona l’esistenza e subito conclude tagliando corto: «la
prendo come una sua approvazione del sabotaggio». L’unico punto della
lista che egli ritiene importante portare esplicitamente all’attenzione del
Presidente è quello riguardante l’operazione di minare le acque d’accesso ai
porti cubani. Bundy si domanda se ciò non sia troppo pericoloso, visto il
momento e comportando ciò il rischio di danneggiare anche navi di Paesi
alleati, poiché «le mine sono molto indiscriminate». JFK: «È questo ciò di
cui parlano? Minare?» Bundy: «Sì, è uno dei punti. La maggior parte
riguardano infiltrazioni di razziatori, e saranno semplicemente negabili
[come] attività cubane interne». Ma minare forse non è il caso. JFK
accoglie il consiglio: «Non credo che abbiamo bisogno di piazzare mine
proprio ora, no?» Bundy incassa e chiude: «Bene, allora mettiamo in azione
quelle interne a Cuba e non le altre».
26
M. DOBBS, op. cit., pp. 14-15.
27
Il torero era lo spagnolo Domingo Ortega. La poesia è stata spesso
attribuita al poeta inglese Robert Graves (cfr. M. BESCHLOSS, op. cit, p. 12), il
quale in realtà ne aveva solo effettuato una recente traduzione (come risulta
dal «New Yorker» del 3-11-1962, nell’articolo a firma di Richard H.
Rovere).
28
In particolare su quest’ultimo aspetto delle «conversational
dynamics» createsi nell’ExComm si concentra ora il saggio di D. GIBSON,
Talk at the brink, Princeton University Press, Princeton, 2012, che ne
sostiene l’importanza nell’orientare il processo decisionale della Casa
Bianca e dunque il corso della crisi. La pubblicazione di tale studio
conferma la nostra scelta di dar conto qui, seppur sinteticamente, di tali
dibattiti.
29
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 83-84.
30
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 86-87.
31
Nella nota d’agenzia stampa dell’11 settembre, il governo sovietico
aveva ribadito che le armi fornite a Cuba erano solo difensive e che un
attacco americano a Cuba non sarebbe rimasto impunito e anzi sarebbe stato
«l’inizio dello scatenamento della guerra» (TASS Statement, Sept. 11,
1962: reperibile online e sul «New York Times», Sept. 12, 1962, p. 16).
32
«He’s the one that’s playing at God, not us». La frase dai nastri non
risulta del tutto chiara, ma questa è la versione accreditata da tutte le
trascrizioni (Beschloss propone anche, ma solo come alternativa minore, la
possibilità che egli abbia detto, con accento bostoniano: «he’s the one that’s
playing HIS CARD, not us». M. BESCHLOSS, op. cit., p. 447).
33
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 89-92.
34
Ivi, p. 114. Quando Ball si esprime così, JFK ha già lasciato la
Cabinet Room da qualche minuto.
35
E. THOMAS, Robert Kennedy, cit., p. 213; S. STERN, The Cuban missile
crisis in American memory, cit., pp. 42-45; M. WHITE, Robert Kennedy and
the Cuban missile crisis: A reinterpretation, in «American diplomacy», 7-7-
2007. RFK il primo giorno era particolarmente furioso, anche perché le
false rassicurazioni di Kruscev sulle armi a Cuba erano state comunicate a
lui, tramite l’agente Bolshakov. Si sentiva perciò ingannato anche
personalmente.
36
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 100-101. Nel 1898, in seguito
all’affondamento della nave da guerra americana Maine (forse da parte
degli spagnoli) gli USA avevano finito per entrare in guerra contro la
Spagna per l’indipendenza di Cuba. Ora RFK pensava di poter organizzare
un incidente simile per poter essere legittimati ad intervenire di nuovo a
Cuba. Anni dopo, nel redigere il suo resoconto della crisi (Thirteen Days)
mentre correva per la Presidenza, pensò bene di tralasciare questi suoi
suggerimenti.
37
Robert Kennedy accarezzò davvero seriamente quest’idea in quelle
ore, visto che telefonò perfino a un anticastrista cubano veterano della Baia
dei Porci (Roberto San Romàn) con cui appunto «discusse la creazione di
una provocazione», incluso il danneggiamento di una nave russa in acque
cubane. La CIA, però, il giorno dopo (17 ottobre) decise più saggiamente di
mettere in attesa le più rischiose tra le operazioni di sabotaggio considerate,
«alla luce della mutata situazione riguardo a Cuba». E. THOMAS, Robert
Kennedy, cit., p. 234.
38
(«I don’t know quite what kind of a world we live in after we’ve struck
Cuba and we’ve started it».)
39
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 96-97.
40
Ivi, p. 116. Inoltre T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 910 aggiunge tra le
località elencate dall’ExComm come possibili bersagli anche il Pakistan e
la Scandinavia (oltre alle più ovvie Berlino, Turchia, Italia).
41
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 99-100.
42
L. NUTI, L’Italie et les missiles Jupiter, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p.
135.
43
La dislocazione era terminata tra il luglio 1960 e il giugno 1961 per le
basi missilistiche italiane (L. NUTI, ivi, p. 131) e a marzo 1962 per quelle
turche (P. NASH, The Other Missiles of October. Eisenhower, Kennedy and
the Jupiters, 1957-1963, University of North Carolina Press, Chapel Hill,
1997, p. 103; aprile secondo L. CHANG, P. KORNBLUH, a cura di, op. cit., p.
351).
44
Per una conferma tra tante su questa valutazione, cfr. G. BALL, The
past has another pattern, Norton & Co., New York, 1982, pp. 295 e 305 («I
Jupiter, una delle prime forme di missili a carburante liquido, erano
obsoleti; nessuno poteva neppure essere sicuro che fossero utilizzabili»).
45
M. DOBBS, op. cit., p. 37.
46
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 105.
47
Ivi, p. 107.
48
Ivi, pp. 112-123; S. STERN, The week…, cit., p. 52.
49
Sul ricorrere nella CMC dell’analogia con quest’evento, cfr. D.
TIERNEY, «Pearl Harbor in reverse». Moral analogies in the Cuban missile
crisis, in «Journal of Cold War Studies», 9, 3, 2007, pp. 49-77.
50
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 118.
51
«The New York Times», Oct 22, 1962, p. 1 (E. MAY – PH. ZELIKOW,
op. cit., p. 245).
52
Ivi, pp. 118-119; il testo completo della lettera è reperibile alla JFKL
(NSF, Cuba), oltre che online.
53
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 290 (che certifica anche che il
colloquio con l’ExComm avvenne il 17, come confermato anche in L.
CHANG – P. KORNBLUH, a cura di, op. cit., p. 360); M. DOBBS, One minute…,
cit., p. 250 (basato sull’intervista di storia orale sempre di Sorensen); J.
CHACE, Acheson, Simon & Schuster, New York, 1998, pp. 398-406. (Infine
secondo D. BRINKLEY, Dean Acheson, Yale University Press, New Haven,
1992, pp. 154-174 e in part. pp. 156-157, Acheson avrebbe partecipato
all’ExComm già dal 16 pomeriggio, ma le trascrizioni dei nastri e gli altri
volumi citati non supportano questa affermazione.)
54
BESCHLOSS, op. cit., p. 461.
55
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 361; M. BESCHLOSS, op.
cit., p. 461; S. STERN, The week…, cit., p. 64.
56
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 120-122. La sola zona fuori tiro di
quei missili sarebbe stata l’angolo nord-occidentale degli USA, sulla costa
del Pacifico e confinante col Canada. Si precisa che in realtà i soli missili
giunti a Cuba erano quelli a medio raggio, essendo quelli a raggio
intermedio ancora in navigazione (mentre le relative testate giunsero in
porto), benché a Washington non potessero assumerlo, avendone
individuato le specifiche infrastrutture preparatorie già in costruzione
sull’isola. A Washington dunque erano «preoccupati per entrambi i tipi» di
missili (N. POLMAR – J. GRESHAM, DefCon-2, Wiley, New Jersey, 2006, pp.
XXIII e 313-315).
57
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 143.
58
Ivi, p. 149.
59
M. DOBBS, op. cit., p. 17; L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit.,
pp. 358-359; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 237. Data l’aria di
crisi nel frattempo sopravvenuta, l’esercitazione fu usata come copertura
per muovere e preparare le truppe a un attacco. Kruscev era perfettamente a
conoscenza dell’Operazione ORTSAC: ne parla al leader ceco Antonìn
Novotný già il 30 ottobre. Cfr. The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 401.
60
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 20.
61
Sulla data precisa dell’arresto c’è discordanza: per Dobbs avvenne la
notte del 2 (One minute to midnight…, cit., p. 341), mentre J. ARBOLEYA, The
Cuban counterrevolution, Ohio University Press, Athens, 2000, p. 121 e
altre cronologie sulla crisi la collocano il 5 novembre.
62
Sull’episodio, cfr. L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 385;
J. ARBOLEYA, ivi, p. 121; D. DETZER, The brink. Cuban missile crisis, 1962,
Cromwell, New York, 1979, p. 94; e soprattutto M. DOBBS, op. cit., pp. 20,
24, 114-116, 118-119, 152, 213, 330-332, 341, la cui recente ricostruzione
si basa su varie fonti, tra cui il colloquio con Pedro Vera e i verbali del
processo cubano. A definire i due agenti «presumably lost» nella riunione
era stato il capo della task force William K. Harvey (si veda oltre).
63
A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 544.
64
Citato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 121.
65
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 77.
66
D. RUSK, op. cit., p. 233.
67
Riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 169; cfr. anche M.
BESCHLOSS, op. cit., pp. 462-463.
68
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 237. Su questo colloquio
di Gromyko, Kruscev commenterà poi in privato: «Stava mentendo.
Eccome! Ed era la cosa giusta da fare; aveva ordini dal Partito». The Global
Cuban missile crisis, in «CWIHP Bulletin», cit., Fall 2012, p. 402.
69
Qualche estratto è stato pubblicato da lui stesso nel suo recente T.
SORENSEN, Counselor…, cit., pp. 291-292.
70
Secondo Sorensen, ivi, p. 292, quello «può essere stato un punto di
svolta» in tal senso.
71
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 171.
72
S. STERN, The week…, cit., p. 66 (SIOP = Single Integrated Operation
Plan).
73
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 5 e 6.
74
Il suo incarico era denominato precisamente con la sigla CSAF (Chief
of Staff of the Air Force).
75
M. DOBBS, op. cit., p. 21.
76
M. DOBBS, op. cit., p. 97.
77
M. DOBBS, op. cit., p. 22.
78
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 234. La frase risale a
giovedì 18 (la sera prima dell’incontro con JFK).
79
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 173-188; S. STERN, The week…, cit.,
pp. 67-71.
80
Cfr. STERN, The week…, cit., p. 68. Sul significato di Monaco, si veda
anche il capitolo precedente.
81
M. DOBBS, op. cit., p. 22.
82
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 188.
83
M. DOBBS, op. cit., p. 23, S. STERN, The week…, cit., p. 71.
Quest’episodio s’inserisce nella lunga storia del dualismo esistente tra i
comandi civili e militari delle nazioni, costellata di recriminazioni dei
secondi per gli ordini ricevuti dai primi. La storia degli USA di quel
periodo ne offre almeno altri due esempi. Nel 1951, durante la guerra di
Corea, il presidente Truman arrivò a sollevare dall’incarico il celebre
comandante MacArthur, che stava ormai conducendo la guerra in contrasto
con le direttive ricevute da Washington (cfr. D. HALBERSTAM, The coldest
winter. America and the Korean war, Hyperion, New York, 2007, pp. 589-
619). Durante la guerra del Vietnam, poi, si diffuse l’idea che la sconfitta
sul campo fosse causata dal fatto che i militari USA dovevano «combattere
con un braccio legato dietro la schiena», per via di restrizioni politiche
imposte loro all’uso pieno della forza militare (cfr. R.D. JOHNSON, Congress
and the Cold war, Cambridge University Press, New York, 2005, p. 109; B.
FRANKLIN, Vietnam and other American fantasies, University of
Massachusetts Press, Amherst, 2000, p. 52).
84
R. REEVES, President Kennedy, Simon & Schuster, New York, 1991, p.
385.
85
S. STERN, The week…, cit., p. 72.
86
R. KENNEDY, op. cit., p. 36.
87
L. FREEDMAN, op. cit., p. 190.
88
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 238 (JFK usò questa
frase due giorni dopo, spiegando ancora la sua decisione all’ExComm).
89
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, pp. 234-235. Ciò aveva
l’inquietante conseguenza che un missile che fosse sfuggito ad un primo
attacco aereo avrebbe potuto essere lanciato in rappresaglia anche subito.
Inoltre l’indomani il generale Walter Sweeney confermerà a JFK (cfr. S.
STERN, The week…, cit., p. 74; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 206) che il
massimo che potevano garantirgli era di riuscire a distruggere il 90 per
cento dei missili noti. Si consideri che i militari ora erano particolarmente
attenti a non promettere percentuali di riuscita esagerate, in quanto questo
era l’errore che JFK aveva additato loro per la Baia dei Porci.
90
Come ben notato sia da S. STERN, Averting the final failure, Stanford
University Press, Stanford, 2003, p. 136, sia da E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 202 (i quali riportano anche il testo completo di tali minute: pp. 191-
202).
91
Minute della riunione del 20 ottobre del National Security Council,
riportate in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 201-202 e 209. (Si noti che
Beschloss, op. cit., p. 464 menziona il cambio di termine come avvenuto già
giovedì 18, mentre Freedman, op. cit., p. 188, sostiene che la dicitura sia
stata proposta da Acheson e accettata da JFK il 21.)
92
Cfr. anche L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 375.
93
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 474.
94
Anni dopo, morto Stevenson, lo riconoscerà anche R. KENNEDY, op.
cit., p. 38: «Benché dissentissi decisamente dalle sue proposte pensai che
Stevenson nel farle aveva dimostrato molto coraggio e, potrei aggiungere,
esse erano almeno tanto ragionevoli quanto altre esaminate in quel
periodo».
95
S. STERN, The week…, cit., p. 74; M. DOBBS, op. cit., p. 31.
96
A. FURSENKO – T NAFTALI, One hell…, cit., pp. 235-236; E. MAY – PH.
ZELIKOW, op. cit., p. 207.
97
T. SORENSEN, Kennedy, cit., p. 934.
98
Il nome di Graham come interlocutore del «Washington Post» a cui
JFK si rivolse è indicato come praticamente certo («it is a safe bet») da
BUNDY, op. cit., pp. 402-403. Ivi anche i nomi di Reston e Frankel. Per
Reston, cfr. pure M. BESCHLOSS, op. cit., p. 474.
99
BUNDY, op. cit., pp. 402-403; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 204; M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 474; McNamara aggiunge, nell’intervista contenuta
nel documentario di History Channel Cuban Missile Crisis Declassified
(part 1), che fu l’unica volta che una cosa simile accadde nei sette anni in
cui egli frequentò la Casa Bianca.
100
«Credo che lei stia facendo l’unica mossa che può fare»; «qualsiasi
cosa lei stia cercando di fare […] farò del mio meglio per appoggiarla»
(trascrizione completa della telefonata in The Presidential Recordings, John
F. Kennedy, vol. 3, Oct. 22, 1962, 10.40 AM, pp. 11-15, qui, p. 12. Ascolto
della conversazione: audio reperibile sul sito del Miller Center, Univesity of
Virginia:
http://millercenter.org/scripps/archive/presidentialrecordings/kennedy/1962/
10_1962).
101
Ivi, p. 11.
102
«Una volta cominciato questo primo passo con la forza, lei dovrà se
necessario rendere queste scelte decisioni unilaterali». Ivi, p. 13.
103
«Qualcosa potrebbe farglieli lanciare [i missili] a questa gente [i
sovietici]. Solo che non credo che questo lo farà». Ivi, p. 15.
104
Ivi, p. 15.
105
«Non sono molto d’accordo su questo ragionamento, signor
Presidente», replica infatti Eisenhower quando JFK gli nomina Berlino
come motivo che lo ha indotto a iniziare solo col blocco. «La mia idea è che
i dannati sovietici faranno qualsiasi cosa vogliano, quel che credono sia
utile per loro, e non credo che relazionino una situazione all’altra. […]
Potrei sbagliarmi in pieno, ma la mia convinzione è che non troverà un gran
legame tra i due [luoghi]». Ivi, pp. 14-15.
106
Riunione in cui dirà: «Kruscev non prenderà questo [nostro atto]
senza una risposta, qui o altrove» S. STERN, The week…, cit., p. 80.
107
The Presidential Recordings…, cit., vol. 3, Oct. 22, 1962, p. 13.
108
Ivi, p. 8 nota.
109
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 258.
110
Ivi, p. 259.
111
Ivi, p. 264 («One hell of a gamble»).
112
Ivi, p. 256.
113
Ivi, pp. 264-265.
114
Ivi, pp. 274-275.
115
Lo fa notare proprio il suo autore: T. SORENSEN, Counselor…, cit., p.
299.
116
Il trattato di Rio era un’alleanza difensiva che legava gli Stati
dell’Emisfero Occidentale riunitisi nell’OAS: Organizzazione degli Stati
Americani.
117
Il titolo della sua tesi era «Why England Slept»: Perché l’Inghilterra
dormì.
118
Alla conferenza di Punta del Este, gennaio 1962 (con 14 voti a
favore, tra cui naturalmente quello degli USA, 1 contrario, 6 astenuti).
119
Come spiega lo stesso autore del discorso (T. SORENSEN, Counselor…,
cit., p. 297), questa frase (“Our goal is not the victory of might, but the
vindication of right”) era parafrasata da un passo della dichiarazione di
guerra alla Germania pronunciata dal Presidente Wilson nel 1917.
120
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 276-281 (testo completo).
121
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 281-282.
122
Ivi, pp. 268-269.
123
Ivi, p. 285.
124
S. STERN, The week…, cit., p. 82.
125
Lo confidò al figlio, che in quel momento era a casa con lui (M.
DOBBS, op. cit., p. 32).
126
Per la ricostruzione della riunione di quella notte e le relative
citazioni mi sono servito di A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp.
240-243 e 247-248; A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit.,
pp. 467-476; M. DOBBS, op. cit., pp. 32-35 e 42-45.
127
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 469.
128
M. DOBBS (op. cit., pp. 124 e 145-146) sostiene che i LUNA vennero
poi individuati (briefing CIA all’ExComm del 26-10), ma non i missili
FKR. Fatto sta che, nel 1992, nella conferenza rievocativa sulla CMC
svoltasi a L’Avana, McNamara mostrò enorme stupore nell’apprendere i
particolari relativi ai LUNA (anche perché lui e JFK avevano deciso che le
truppe USA avrebbero invaso senza essere equipaggiate con analoghe
testate nucleari. A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 68). Ad ogni modo, si
può sintetizzare che il contingente sovietico e il relativo equipaggiamento
fossero noti a Washington solo in modo assai parziale.
129
M. DOBBS, op. cit., p. 45.
130
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., pp. 528-529.
131
G. BALL, op. cit., p. 299. Quella di Rusk a Ball non era solo una
boutade. Era una constatazione seria, che egli infatti rimarcò anche poco
dopo nella riunione dell’ExComm (cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
312).
132
R. KENNEDY, op. cit., p. 44.
133
De Gaulle non sollevò obiezioni e assicurò che a suo avviso non vi
sarebbe stata una guerra, ma anche in tal caso la Francia avrebbe agito con
gli USA (Paris to SoS, 22-10-1962, DNSA, CU00570). Il cancelliere
tedesco Adenauer addirittura consigliò a JFK di smetterla con la
Papierkrieg, «guerra di carta», e decidersi a invadere Cuba (Bonn to SoS,
24-10-1962, DNSA, CC01224 e The global Cuban missile Crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, pp. 624-625; H.P. SCHWARZ, Adenauer et la
crise de Cuba, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p. 86; Bonn to SoS, 28-10-1962,
DNSA, CU00844).
134
I Paesi che potevano fornire ai sovietici scali utili per quelle rotte
erano Guinea, Senegal, Ghana, Liberia, Marocco e Mali. I primi quattro
acconsentirono alla richiesta degli ambasciatori USA già entro il 24 ottobre;
il Marocco diede primi informali segnali positivi il 24 e li confermò il 27,
quando il Re e il Ministro degli Esteri tornarono nella capitale; il Mali
rimase in silenzio sul punto, ma facendo filtrare che da tempo non riceveva
più richieste di scalo dai sovietici (African reaction to the Cuban crisis,
DNSA, CC02528; Mennen Williams to SoS, 29-10-1962, African
Government attitudes and reactions to U.S. Request interdict Soviet bloc
flight sto Cuba via Africa, DNSA, CC01644; Dakar to SoS, 23-10-1962,
DNSA, CC01062; Rabat to DoS, 24-10-1962, n. 756, DNSA; PH.
MUEHLENBECK, Betting on the Africans. John F. Kennedy’s courting of African
Nationalist Leaders, Oxford University Press, New York, 2012, pp. 213-
222).
135
DoS memo, 23-10-1962, World Reaction to the President Speech on
Cuba, DNSA, CC00938; DoS memo, The Cuban Crisis: Asian Reactions
and US Policy, DNSA, CC01415; USIA report, 23-10-1962, Overseas
reactions, DNSA, CC01091; Tokyo to SoS, 27-10-1962, NARA, 611.37,
MI1855, R. 44.
136
DoS memo, 26-10-1962, Free world reactions to Cuban crisis,
DNSA, CU0777; DoS memo, The Cuban Crisis: Asian Reactions and US
Policy, DNSA, CC01415; Wellington Airgram, enclosure, 23-10-1962,
NARA 611.37, MI1855, R.43; FBIS report, 23-10-1962, DNSA, CC0906.
137
D. RUSK, op. cit., p. 236.
138
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 312.
139
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 379. Cfr. anche
l’analoga valutazione contenuta nel «CIA Daily Memo» del 24, che
definiva il comunicato sovietico «highly critical but uncommiting»,
altamente critico ma non impegnativo (documento reperito in DNSA,
CC01123).
140
Comunicato TASS riportato interamente sul «New York Times»,
Oct. 24, 1962, pp. 1 e 20. Si noti che nell’edizione più recente delle sue
memorie, Kruscev sostiene che si trattava solo di «una dichiarazione
dimostrativa fatta per la stampa, per cercare di influenzare le menti degli
aggressori americani. In pratica non prendemmo alcuna misura reale perché
non credevamo che una guerra sarebbe scoppiata». (N. KHRUSHCHEV,
Memoirs, cit., vol. 3, p. 338). Ciò parrebbe confermato dai ricordi
dell’analista Samuel Halpern: «C’è una cosa strana. Intorno al quinto giorno
[…] osservando le informazioni di intelligence provenienti da varie fonti,
una cosa era chiara dal lato russo: […] non potevamo vedere alcun segno di
mobilitazione sovietica […] Non c’era alcuna indicazione, almeno al mio
livello, che i sovietici stessero facendo nulla a parte far un gran rumore con
le loro discussioni e le loro dichiarazioni […] non vedevamo alcuno sforzo
da parte dei sovietici per prepararsi a combattere una guerra. E uno dei miei
amici mi disse: ‘Abbiamo già vinto?’ Io dissi: ‘Non esserne troppo sicuro,
non ho idea di cosa si preparino a fare’». (OHI realizzate dal NSA per la
CNN Cold War Series:
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/episode-10/halpern1.html).
141
Testo completo riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 321-
322.
142
Testo della lettera riportato in L. NUTI, I missili di ottobre…, cit.,
appendice documentaria, p. 333.
143
RFK nel suo resoconto la riportava per errore come avvenuta il
mattino dopo. Solo alcuni tra i molti studi successivi hanno riconosciuto
l’imprecisione (R. DALLEK, An unfinished life, cit., p. 560; E. MAY – PH.
ZELIKOW, op. cit., pp. 342-343; M. DOBBS, op. cit., p. 68; S. STERN, The
week…, cit. pp. 105-106).
144
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 342; R. KENNEDY, op. cit., p. 52; S.
STERN, ivi, p. 106; M. DOBBS, op. cit., p. 68. L’impeachment è la rarissima e
clamorosa procedura costituzionale che può mettere sotto accusa il
Presidente USA e costringerlo alle dimissioni. Avverrà, come noto, per
Nixon.
145
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 343 (edizione rivista, 2002); S.
STERN, Averting the final failure, cit., p. 204.
146
A. DOBRYNIN, op.cit., pp. 81-82.
147
Memo From Attorney General Kennedy to President Kennedy about
his meeting with Soviet Ambassador Dobrynin, Oct. 24, 1962 (Avalon
Project, Yale Law School online documents database, e in FRUS, vol. XI);
cfr. anche R. KENNEDY, op. cit., p. 50.
148
M. DOBBS, op. cit., p. 73.
149
A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 81-82. Tornato alla Casa Bianca intorno alle
22.15, Robert trovò suo fratello a colloquio con l’amico ambasciatore
britannico Ormsby-Gore. Su consiglio di questi, JFK telefonò a McNamara
chiedendogli di apportare una modifica dell’ultimo minuto alla quarantena:
spostare la linea d’intercettazione un po’ più indietro (da 800 a 500 miglia
dalle coste cubane), così da dare a Kruscev almeno qualche frazione di
tempo in più prima che le sue navi raggiungessero il temuto punto di
scontro (R. KENNEDY, op. cit., p. 51. Cfr. pure E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
pp. 345-346, che puntualizza che in realtà la quarantena non si svolgeva su
una linea così precisa, dovendo la Marina tener conto di varie circostanze in
loco).
150
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 528; M. DOBBS, op. cit., p. 84.
151
«Le Figaro», 26-10-1962 p. 4. L’uso della fonte a stampa dell’epoca,
che qui fa esplicito riferimento alle «venti ore dopo l’annuncio del blocco»
(ossia appunto il 23 sera), aiuta a chiarire la cronologia di quest’episodio
(che anche studi accurati come quelli di S. STERN, The week…, p. 121 e A.
FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 260 riferivano erroneamente come
avvenuto il 24). Da un altro quotidiano, il cileno «El Mercurio», affiora
anche il preciso racconto di Hines sul contenuto della conversazione: «‘Ha
fatto anche un discorso politico’, ha spiegato l’artista nordamericano,
‘anche se non ha menzionato la situazione cubana. Kruscev ha detto che
molti artisti temono la rivoluzione perché pensano che distruggerà la
cultura. Ha aggiunto che la cultura fiorisce in Unione Sovietica’. Hines ha
aggiunto che Kruscev, che indossava un vestito azzurro, era molto allegro».
«El Mercurio», 24-10-1962, p. 34.
152
M. DOBBS, op. cit., p. 48.
153
Ivi, p. 53.
154
«Revolucion», 23-10-1962, p. 1; «Hoy», 23-10-1962, p. 1 (testo
identico in entrambi i giornali, a conferma dell’origine governativa).
155
J. BLIGHT – B. ALYN – D. WELCH, Cuba on the brink, Pantheon Books,
New York, 1993, p. 318.
156
R. QUIRK, Fidel Castro, W.W. Norton & Co., New York, 1993, pp.
434-435; H. THOMAS, op. cit., pp. 1071-1072; R. GOTT, Storia di Cuba,
Mondadori, Milano, 2008, pp. 242-243; M. DOBBS, op. cit., pp. 73-75.
157
Testo integrale del discorso in «Revolucion», Oct. 24, 1962, pp. 2, 7,
8; una traduzione integrale in inglese è reperibile nel database online del
LANIC (Latin American Network Information Center: centro affiliato con
la University of Texas).
158
Playa Giron, come detto, era il nome cubano della località nota
anche come Baia dei Porci.
159
Nonostante ciò, il report interno della CIA («CIA Daily Memo», 24-
10-1962, reperito in DNSA, CC01123) riportava che il discorso di Castro
(definito «una performance relativamente mite e scialba») conteneva «una
maldestra smentita della presenza di armi offensive a Cuba». Il report
interno preparato lo stesso giorno dal FBIS (Foreign Broadcast Information
Service: reperito in DNSA, CC01167) parlava invece (a p. 11) di «punto
evitato» da Castro nel suo discorso.
160
Anche Hitler, ricordò Castro, nell’iniziare l’invasione della Polonia
«aveva rilasciato un comunicato che le sue truppe […] avevano iniziato a
rispondere al fuoco polacco», come fossero stati i polacchi ad iniziare le
ostilità.
161
Riferimento ironico ai due celebri pirati del passato, Henry Morgan e
Francis Drake.
162
E ancora: se gli USA ora chiamavano a raccolta altri Stati
(americani) contro un presunto pericolo cubano, evidentemente, celiava
Castro, significa che «lo squalo è spaventato e sta chiamando le altre
piccole sardine per cercare di divorare l’ex sardina, Cuba».
163
Cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 75.
164
Ivi, pp. 95-96; W. TAUBMAN, op. cit., p. 565, ecc. Altri studi, tuttavia,
suggeriscono invece che la trasmissione in chiaro delle variazioni di
DEFCON fosse all’epoca una procedura di routine (S.D. SAGAN, The limits
of safety, Princeton University Press, Princeton, 1993, pp. 68-69; L. SCOTT,
The Cuban Missile Crisis and the threat of nuclear war, Continuum,
London, 2007, p. 84).
165
I due si erano già incontrati una volta nel 1960 (cfr. M. BESCHLOSS, op.
cit., p. 501). Si veda anche il «memo» tratto dal rapporto fornito da Knox al
DoS al suo ritorno in America: Khrushchev’s conversation with W.E. Knox,
Oct. 26, 1962, in DNSA.
166
R. REEVES, op. cit., p. 402.
167
M. DOBBS, op. cit., p. 85; A. GEORGE, Awaiting Armageddon, cit., p.
53.
168
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 256.
169
Come ben ricostruito proprio di recente da M. DOBBS, op. cit., pp.
125-129, 178-189, 205-206, 236, 249.
170
M. BESCHLOSS, op. cit., pp. 501-502.
171
Può apparire sorprendente che Kruscev abbia menzionato anche la
Grecia a Knox, non essendovi lì missili nucleari in grado di raggiungere
l’URSS, eppure la menzione risulta dal memorandum governativo
dell’incontro (Khrushchev’s conversation with W.E. Knox, Oct. 26, 1962, in
DNSA).
172
A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 83-84.
173
R. KENNEDY, op. cit., pp. 52-55.
174
Per il riferimento a Bundy, cfr. R. REEVES, op. cit., p.403. Sul verbo
«sussurrare», cfr. S. STERN, The week…, cit., p.112. Nelle trascrizioni dei
nastri infatti la frase non compare, ma fu certo pronunciata, come
confermano anche i precisi riferimenti ad essa espressi nei dibattiti
ExComm del giorno dopo da Bundy e JFK (E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit.,
p.423 e 425; S. STERN, The week…, cit., p. 129).
175
Infatti si infuriò moltissimo quando scoprì che qualcuno aveva
spifferato alla stampa la sua frase istintiva (D. RUSK, op. cit., p. 237).
176
S. STERN, The week…, cit., p. 112.
177
Attraverso un accurato lavoro di ricostruzione, M. DOBBS (op. cit., pp.
88-91) ha recentemente mostrato come in realtà quella mattina le navi
sovietiche in questione si trovassero già ben lontane dalla linea della
quarantena, perché l’ordine da Mosca era giunto parecchie ore prima.
Tuttavia ci volle del tempo perché tale ordine divenisse visibile e giungesse
alla Casa Bianca. La novità sposta relativamente poco, almeno ai fini della
tensione avvertita all’epoca, che fu del tutto reale, sia tra i decision-maker
sia nell’opinione pubblica mondiale. Le informazioni disponibili erano
infatti quelle qui descritte. Esse erano tardive e inaccurate? Certo. Ma era
appunto questo uno dei fattori che rendevano la crisi così rischiosa.
178
L. FREEDMAN, op. cit., p. 197.
179
Pur continuando a seguirla e a discuterne le vicende anche il giorno
dopo, cioè il 25 (il sorpasso della linea della quarantena avvenne alle 7.15
di mattina del 25: cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 394).
180
Cfr. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 509 nota.
181
R. KENNEDY, op. cit., p. 59.
182
The guns of August, di Barbara Tuchman, vinse il Premio Pulitzer nel
1963.
183
Frase riportata anche in M. DOBBS, op. cit., p. 226.
184
R. KENNEDY, op. cit., pp. 48-49 e 97.
185
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 502 nota.
186
Il testo completo della lettera si trova in B. RUSSELL, La vittoria
disarmata, Longanesi, Milano, 1965 pp. 50-52.
187
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 384-389.
188
A. HORNE, Harold Macmillan, vol. II, Viking, New York, 1989, p.
371.
189
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 389-391.
190
Ivi, p. 421.
191
Dello stesso avviso, E. MAY – PH. ZELIKOW, ivi, p. 694.
192
Ivi, pp. 393-394. Il virgolettato a ‘domanda da 64.000 dollari’ è mio
(per indicare che si trattava di un’espressione metaforica: nei quiz inglesi la
domanda più difficile a cui rispondere aveva appunto quel montepremi).
193
W. LIPPMANN, Blockade Proclaimed, in «The Washington Post», Oct.
24, 1962, Section A.
194
Ci riserviamo di spiegare meglio quest’aspetto in un prossimo
studio. Cfr. intanto G. FOGARTY, La crisi dei missili a Cuba: un’iniziativa
papale per il mondo, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del Concilio Vaticano II,
vol. 2, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 114-125; N. COUSINS, The improbable
triumvirate, cit., pp. 10-19.
195
Il testo completo in francese (qui utilizzato) si trova nella raccolta
ufficiale degli atti del pontificato roncalliano: GIOVANNI XXIII, Discorsi,
messaggi, colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, Tipografia
poliglotta vaticana, 1963, pp. 614-615.
196
Per una prima sintetica conferma della sua eco, si veda intanto L.
MARTINI, L’enciclica Pacem in terris, in M. FRANZINELLI – R. BOTTONI (a cura
di), Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla Pacem in terris, Il
Mulino, Bologna, 2005, p. 619.
197
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 387-388. (Si precisa che U Thant
in quel momento era un segretario «facente funzioni», essendo stato scelto
per subentrare al ruolo lasciato scoperto dalla morte improvvisa del
precedente segretario, Dag Hammarskjold.)
198
Ivi, p. 419. JFK aggiungeva infine in spirito conciliatorio che
Stevenson era pronto a discutere con lui le proposte di negoziati e lo
assicurava del loro desiderio di raggiungere una soluzione pacifica.
199
Il tramite di questa comunicazione fu Ball (il quale nelle sue
memorie – op. cit., p. 301 – si attribuisce anche il merito di aver proposto
lui l’idea a JFK).
200
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 391-392; cfr. pure W. DORN – R.
PAUK, Unsung Mediator, in «Diplomatic History», Ap. 2009, pp. 270-274.
201
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 426 e 439. L’accettazione arrivò
nella notte tra il 25 e il 26 (ora di Washington).
202
Per le citazioni di questa seduta si sono utilizzati i verbali originali:
United Nations Security Council – Verbatim Record, Oct. 25, 1962, in
DNSA, CC01287; cfr. anche A. STEVENSON, op. cit., pp. 330-335.
203
R. REEVES, op.cit., p. 406.
204
«Il discorso di Stevenson assestò un colpo finale alla causa sovietica
davanti all’opinione pubblica mondiale». A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni di
John F. Kennedy alla Casa Bianca (tit. or. A thousand days), Rizzoli,
Milano, 1966, p. 813.
205
Ivi, pp. 809-810. La telefonata risaliva alla sera prima (il 24) rispetto
al cablo.
206
«to get tougher and to escalate» diceva il testo originale,
consultabile nel database di documenti online dell’Avalon Project di Yale:
USUN to DoS, Oct. 25, 1962, 8.40 PM. Letto alla Casa Bianca da Bundy
alle 11 PM.
207
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, cit., p. 810.
208
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 483-484
(cfr. anche, degli stessi autori, il precedente One hell…, cit., pp. 259-260,
cui però mancavano ancora minute resesi disponibili invece per il loro
volume del 2006).
209
M. DOBBS, op. cit., pp. 112-113.
210
R. KENNEDY, op. cit., p. 63.
211
M. DOBBS, op. cit., pp. 135-136.
212
S. STERN, The week…, cit., p. 140.
213
S. STERN, The week…, cit., p. 146.
214
H. MACMILLAN, At the end of the day, Harper & Row, New York,
1973, p. 209 («lunghe» era enfatizzato in corsivo nel diario).
215
D. RUSK, op. cit., p. 238.
216
In quella riunione RFK accusò infatti il capo della «Task force W»,
l’eccentrico William Harvey, di aver mandato sessanta infiltrati a Cuba in
un momento così delicato senza chiedere la sua autorizzazione (si trattava
di altri infiltrati rispetto ai due della miniera di Matahambre). «Ero furioso»,
ricorderà poi RFK. Harvey gli rispose per le rime, dando ai fratelli Kennedy
la colpa della crisi in corso. Robert Kennedy ordinò che quegli infiltrati
venissero immediatamente richiamati e poi, infuriato, uscì dalla stanza. «Da
allora», dirà anni dopo, «non l’ho più rivisto» (M. DOBBS, op. cit., p. 152; E.
THOMAS, op. cit., p. 235; A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 533).
217
D. RUSK, op. cit., p. 238.
218
In seguito al report del barman (Prokov), il giornalista in questione
(Warren Rogers, del «New York Herald Tribune») era poi stato meglio
«interrogato» in un pranzo informale da un funzionario dell’ambasciata
sovietica (Kornienko). Accortosi che il diplomatico stava cercando da lui
informazioni sulle intenzioni della Casa Bianca, Rogers volutamente
enfatizzò la serietà dei rischi e la determinazione di JFK ad agire. Il KGB e
Dobrynin riportarono immediatamente la cosa a Mosca e il report finì sulla
scrivania di Kruscev la mattina del 26. Ma quelle di Rogers non erano che
impressioni personali… (sull’episodio, cfr. A. FURSENKO – T. NAFTALI, One
hell…, cit, pp. 257-258 e 260-262; M. DOBBS, op. cit., pp. 117-118; e
l’intervista a Warren Rogers nel recente documentario di History Channel,
Cuban Missile Crisis Declassified, part 2).
219
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 486; E. MAY
– PH. ZELIKOW, op. cit., p. 685.
220
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 521.
221
M. DOBBS, op. cit., p. 164. Precisamente essa fu consegnata
all’ambasciata alle 16.42 ora di Mosca, corrispondenti alle 9.42 ora di
Washington. Qui si cominciò a riceverla alle 18, ma l’ultima sezione arrivò
solo dopo le 21.
222
Kruscev qui parla di richiesta del governo cubano; in realtà, come
visto nel capitolo precedente, quanto ai missili nucleari l’idea era stata sua.
223
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 485-491 (testo completo).
224
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 524.
225
G. BALL, op. cit., p. 304. Decenni dopo, anche MCG. BUNDY, op. cit.,
pp. 441-442, scriverà che quella lettera «merita un posto elevato negli
annali delle comunicazioni in tempo crisi […] Leggerla intera in
retrospettiva significa avere rinnovato rispetto per l’uomo che la scrisse».
R. MCNAMARA, Blundering into disaster. Surviving the first century of
nuclear age, Pantheon Books, New York, 1986, p. 10 lo definirà addirittura
«il più straordinario messaggio diplomatico che io abbia mai visto».
226
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 525.
227
S. STERN, The week…, cit., p. 147; M. DOBBS, op. cit., p. 165
(letteralmente LeMay aveva detto «a bunch of dumb shit»).
228
R. KENNEDY, op. cit., p. 71.
229
Precisamente si trattava dell’Occidental Restaurant (C. ANDREW – O.
GORDIEVSKY, KGB: The inside story of its foreign operations from Lenin to
Gorbachev, Hodder & Stoughton, London, 1990, p. 392).
230
Di tale avviso, tra gli altri, S. STERN, The week…, cit., p.143, e M.
DOBBS, op. cit., pp. 167, 290.
231
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 529. L’ultimo brano eseguito quella sera
dall’orchestra cubana «Bocucos» fu l’Inno del 26 Luglio, in onore
dell’omonimo movimento rivoluzionario di Castro. «The Washington
Post», Oct. 27, 1962, p. A8.
232
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 527.
233
A conferma di una tale disponibilità si consideri pure che in un
nuovo incontro segreto svoltosi quella sera tra RFK e Dobrynin era stata
esplorata in via preliminare, pare, anche la possibilità di un accordo
comprendente i missili turchi. M. BESCHLOSS, op. cit., p. 527; L. CHANG, P.
KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 386.
234
Tra gli altri, cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 183.
235
M. DOBBS, op. cit., p. 191.
236
Una traduzione inglese completa della lettera è riportata in J. BLIGHT
– B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 509-510.
237
Ricorderà in seguito Castro: «Partivamo dall’assunto che se c’era
un’invasione di Cuba, sarebbe scoppiata una guerra nucleare. Eravamo certi
di questo». «Ero convinto che un’invasione sarebbe divenuta una guerra
termonucleare» (J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 360 e 111).
238
J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., pp. 109 e 111 (e A.
FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 272). Castro temeva infatti che i
sovietici ripetessero l’errore compiuto nel 1941, quando avevano ignorato i
segnali di imminente attacco tedesco, soffrendo poi gravi perdite per essere
stati colti di sorpresa.
239
Secondo W. TAUBMAN (op. cit., p. 573) e M. DOBBS (op. cit., p. 295),
Kruscev sarebbe stato informato del messaggio all’una della notte
successiva (tra il 27 e il 28), quando era già tornato a casa. Anche secondo
il ricordo di Troyanovsky (in J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., p.
115) il messaggio arrivò a Mosca il 28 «very early in the morning» e fu
letto a Kruscev per telefono. Ciò non collima con le memorie di Kruscev,
che, come si vede dal passo qui citato, ne raccontano invece l’arrivo a
riunione in corso. Tuttavia può anche essere che Kruscev ricordasse male.
240
N. KHRUSHCHEV, Memoirs, cit., vol. 3, p. 341.
241
Così dirà Kruscev già il 30-10-1962, in un colloquio col leader
cecoslovacco Novotny (The global Cuban missile crisis at 50, in «CWHIP
Bulletin», Fall 2012, p. 401).
242
Per una spiegazione delle circostanze in cui esso fu reso noto, J.
BLIGHT – B. ALLYN, D. WELCH, op. cit., pp. 502-503.
243
R. KENNEDY, op. cit., p. 70.
244
M. DOBBS, op. cit., pp. 231-232; E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
494; S. STERN, The week…, cit., p. 148.
245
E. MAY, PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 496-498
246
S. STERN, The week…, cit., pp. 151-152.
247
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 512-513.
248
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 487-488 e
616. Il vicepremier Anastas Mikoyan disse poi ai cubani che era stato
appunto l’articolo dell’americano Lippmann l’ispirazione per la seconda
lettera di Kruscev (nota n. 81); M. WASNIEWSKI, Walter Lippmann, Strategic
internationalism, the Cold War and Vietnam, 1943-1967, PhD dissertation,
pp. 209-210.
249
R. STEEL, Walter Lippmann and the American Century, Transaction
Publishers, New Brunswick, NJ, 1999, p. 535 (e L. FREEDMAN, op. cit., pp.
207 e 457 nota).
250
L. FREEDMAN, op. cit., p. 207; M. BESCHLOSS, op. cit., p. 529. Ciò
sebbene privatamente Rusk possa (stando a quanto riferì a Mosca
l’ambasciatore russo Dobrynin, basandosi su «dati confidenziali») aver
criticato il pezzo di Lippmann e negato la disponibilità americana a
effettuare uno scambio di quel genere, in un meeting del 25 a cui egli aveva
convocato «i più importanti giornalisti americani», per ammonirli che
l’idea, diffusa da certa stampa, di un calo d’intensità della crisi, era
tutt’altro che reale. Dobrynin to Soviet Foreign Ministry, Oct. 25, 1962,
CWIHP Virtual Archive.
251
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., pp. 273-274.
252
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 505-508 (testo completo della
lettera).
253
M. DOBBS, op. cit., p. 201; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit.,
p. 276 (messaggio per Alekseev, da riferire a Castro).
254
S. STERN, The week…, cit., p. 156 (JFK aveva risposto stizzito: «se ho
scelto la quarantena, è perché mi sono chiesto se il nostro popolo è pronto
per la Bomba»); per l’orario (mezzogiorno), cfr. E. MAY – PH. ZELIKOW, op.
cit., p. 518.
255
Ivi, p. 519; M. DOBBS, op. cit., p. 266.
256
R. KENNEDY, op. cit., pp. 72-73.
257
S. SAGAN, op. cit., p. 136.
258
M. DOBBS, op. cit, p. 255. Sull’episodio si veda anche S. SAGAN, op.
cit., pp. 135-138.
259
Riportato in M. DOBBS, op. cit., p. 269.
260
Ivi, p. 270. Inoltre L. FREEDMAN, op. cit., p. 219, aggiunge che subito
dopo aver riportato quella notizia Hilsman «quasi collassò», e poiché non
aveva chiuso occhio da circa trenta ore, il Presidente stesso lo mandò a
dormire.
261
R. KENNEDY, op. cit., p. 75.
262
«Non ne vedo il vantaggio», concluse JFK, d’accordo con
McNamara ed altri (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 528).
263
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 528.
264
Deducendolo, ipotizza Thompson, dall’articolo di Lippmann e dalla
proposta di Bruno Kreisky, un politico austriaco che in quei giorni aveva
sollevato anch’egli il parallelismo tra le basi in Cuba e in Turchia. E. MAY –
PH. ZELIKOW, op. cit., p. 534 e 593.
265
Ivi, pp. 534-535; STERN, The week…, cit., p. 162.
266
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 539-540.
267
Ivi, pp. 548-550 (e altro intervento analogo a p. 545).
268
Basandosi sui resoconti della prima ora, come A. SCHLESINGER Jr., I
mille giorni…, cit., p. 817 («Robert Kennedy intervenne con un’idea di
semplicità e genialità disarmanti») e poi lo stesso R. KENNEDY, op. cit., p. 76
(«Io sostenni, e fui appoggiato da Sorensen ed altri […]»).
269
Questo stratagemma verrà poi denominato «Trollope ploy», dal nome
di Anthony Trollope, romanziere inglese dell’Ottocento che nei suoi
romanzi descriveva la scena in cui una ragazza in cerca di marito sceglieva
di interpretare una semplice stretta di mano come una proposta di
matrimonio (M. DOBBS, op. cit., p. 344).
270
S. STERN, The week…, cit., p. 169 e 171.
271
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
272
Ivi, p. 563.
273
S. STERN, The week…, cit., pp. 174-175.
274
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 571.
275
Ivi, p. 593.
276
S. STERN, The week…, cit., pp. 174-175.
277
A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., pp. 66-67; M DOBBS, op. cit., pp. 230-
31, 236-237, 393 nota; J. GADDIS, We now know…, cit. p. 276. In quel clima
di frenetica attesa di un attacco, quella mattina i soldati cubani, su ordine di
Castro, avevano cominciato a sparare sui voli USA, pur mancando il
bersaglio. Così, ricorda il generale Gribkov, «il generale Grechko, che
aveva il comando sovietico della difesa aerea di Cuba, prese ispirazione
dall’esempio cubano» e, inquadrato l’U-2 sul radar e vedendolo ormai sul
punto di lasciare l’isola, telefonò a Pliyev per avere l’autorizzazione, ma –
non trovandolo – decise di assumersi la responsabilità dell’ordine.
«L’opinione comune», spiega Gribkov, «era che il combattimento fosse
cominciato e che i precedenti freni alle forze sovietiche fossero stati
superati. Questi ufficiali non tanto trasgredirono ordini, ma reagirono in un
ragionato modo militare, secondo la loro comprensione di ciò che la
situazione richiedeva».
278
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 576.
279
S. STERN, The week…, cit., p. 189 (tale decisione, precisa Stern,
risaliva al 23 ottobre).
280
R. KENNEDY, op. cit., p. 74.
281
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 592.
282
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 304. Precisiamo tuttavia che in altri,
precedenti punti dei nastri di quella stessa riunione, il parere di Johnson
appare talvolta più cauto e favorevole a uno scambio, salvo poi ritornare ad
esprimere vigorosa opposizione ad esso appena pochi minuti dopo, perfino
direttamente a JFK (nel frattempo rientrato in stanza). Si veda S. STERN,
Averting the final failure, cit., pp. 353-354, 360 (suoi interventi di pro
scambio), e pp. 363, 367 (interventi contrari). Cercando di spiegare al
lettore una di queste oscillazioni che trascrive, Stern chiosa: «Appena pochi
momenti prima, Johnson era apparso appoggiare lo scambio, ma
chiaramente aveva ancora dei dubbi» (p. 363). Per questo inoltre appare non
sostenibile la visione solo «dovish» che di quegli interventi di Johnson offre
lo storico T. JUDT, L’età dell’oblio, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 320-321.
283
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 583.
284
Ivi, p. 602.
285
Sul punto si veda, per esempio, R. DALLEK, An unfinished life, cit., p.
574. Per un parere di diverso e minoritario avviso si veda invece TH.
PATERSON, Fixation with Cuba, in IDEM (a cura di), Kennedy’s quest for
victory…, cit., pp. 123-156, riportato in italiano da L. NUTI, I missili di
ottobre…, pp. 115-143.
286
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 604 (le virgolette interne erano già
nell’originale della lettera).
287
Alla presenza di pochissimi consiglieri: oltre al Presidente c’erano
RFK, McNamara, Rusk, Bundy, Sorensen, Thompson e forse anche Ball e
Gilpatric (cfr. MCG. BUNDY, op. cit., pp. 432-433, che nomina anche questi
ultimi due). L’incontro non fu registrato. Ne abbiamo queste notizie da
Bundy, che era presente. (Cfr. anche E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 605-
606.)
288
Quest’ultima affermazione venne probabilmente interpretata in modo
esagerato da Kruscev. Il cablo di Dobrynin a Mosca affermava infatti che
RFK gli disse che «a causa dell’aeroplano abbattuto ora c’è forte pressione
sul Presidente per dare ordine di rispondere al fuoco» nei prossimi sorvoli.
Poi «RFK ha menzionato quasi di passaggio che ci sono parecchie teste
irragionevoli tra i generali e non solo tra i generali, che scalciano per un
combattimento» (cablo di Dobrynin al Ministero degli Esteri Sovietico, Oct.
27, 1962, riportato anche in J. HERSHBERG, Anatomy of a controversy, in
«CWHIP Bulletin», Spring 1995; cfr. anche A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 86-
88). Ma Kruscev nelle sue memorie sostiene addirittura che RFK avesse
menzionato la possibilità che i militari potessero «rovesciare» JFK e
«prendere il potere». «L’esercito americano poteva finire fuori controllo»
(N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, p. 529). Non era così: le pressioni c’erano, e
forti, come visto, ma non tali da rovesciare il governo; né del resto pare
immaginabile che RFK possa aver parlato in quei termini del fratello.
Tuttavia è possibile che Kruscev fosse in buona fede nell’aver così
compreso l’accenno di RFK riportatogli da Dobrynin, anche per via dei
propri forti timori e pregiudizi sul potere delle lobby del Pentagono.
289
Sull’episodio, cfr. A. DOBRYNIN, op. cit., pp. 86-88; «memo» di RFK a
Rusk, declassificato nel 1991 e riportato in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
pp. 607-609.
290
R. REEVES, op. cit., p. 420.
291
Cablo di Dobrynin al Ministero degli Esteri Sovietico, Oct. 27, 1962
(cit. pure in Hershberg, op. cit.).
292
Letteralmente, «he chickened out again» (S. STERN, The week…, cit.,
p. 188). Tuttavia, come mostrano recenti minute delle riunioni tenute in
quei giorni dai JCS («Notes Taken from Transcripts of Joint Chiefs of Staff,
Oct. Nov. 1962», p. 23, reperibili al sito:
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/621000%20Notes%20Taken%2
0from%20Transcripts.pdf), anche LeMay a quel punto si disse contrario ad
abbattere in rappresaglia una sola postazione di contraerea, in quanto ciò li
avrebbe esposti a rischio di essere colpiti. LeMay avrebbe preferito poter
procedere direttamente con un attacco aereo massiccio, e da un punto di
vista strettamente militare aveva probabilmente ragione. Sul punto, cfr.
anche M. DOBBS, op. cit., p. 301.
293
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 628; The Presidential recordings…,
cit., vol. 3, p. 510 (trascrizioni e ascolto audio).
294
Il ricordo di McNamara (cfr. per esempio sua intervista a «Time»,
Feb. 11, 1991) è riportato, tra gli altri, da M. DOBBS, op. cit., p. 311. Si
aggiunga che McNamara per tutta la settimana della crisi aveva dormito al
Pentagono invece che a casa, come riportò il «New York Times», Oct. 29,
1962, p. 16.
295
M. ALFORD, Ho amato JFK, Rizzoli, Milano 2012, p. 110. Il recente
libro di rivelazioni della Alford non ha provocato particolari smentite tra gli
storici e appare sostanzialmente attendibile, per quanto evidentemente un
po’ sensazionalistico.
296
R. REEVES, op. cit., p. 423.
297
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 543.
298
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 629.
299
Ivi, p. 543.
300
M. DOBBS, op. cit., pp. 297-303, 317-318, 327-328, 399 nota.
Sull’episodio cfr. anche T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 305; W. BURR –
TH. BLANTON (a cura di), The Submarines of October, in National Security
Archive Electronic Briefing Book, n. 75, 2002 (articolo e allegati).
301
Savitsky e Arkhipov sono già morti. Il racconto di Orlov è comparso
nel libro, non ancora pubblicato in Occidente, che il russo Aleksandr
Mozgovoi ha dedicato interamente ai movimenti dei sottomarini sovietici
durante i giorni della CMC (La samba cubana del quartetto di Foxtrot,
Military Parade, Mosca, 2002: «Foxtrot» era la denominazione NATO del
modello dei quattro sottomarini sovietici, da cui il gioco di parole del
titolo). L’estratto del libro contenente il racconto di Orlov è stato però
tradotto in inglese a cura dei NSA, ed è qui usato come fonte. Recollections
of Vadim Orlov (USSR Submarine B-59). ‘We will sink them all, but we will
not disgrace our Navy’.
(http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB75/asw-II-16.pdf). Si
vedano infine anche due recenti documentari storici sull’episodio: il primo
è Vasilij Arkhipov, dell’italiano Giuseppe Saponara, contenente delle
videointerviste allo stesso Orlov, a Valentin Vagenin (ufficiale a bordo del
B-4, uno degli altri sottomarini sovietici in zona) e alla moglie di Arkhipov
(Olga Grigorievna Arkhipova), tutti confermanti questa versione degli
eventi; il secondo è The man who saved the world, documentario inglese del
2012, contenente interviste di analogo tenore a veterani russi e americani.
302
Questo preciso punto della testimonianza di Orlov (che cioè Savitsky
sia arrivato anche ad ordinare di armare il siluro) ha sollevato dubbi tra
alcuni degli ufficiali degli altri sottomarini. Tuttavia si consideri che Orlov,
allora venticinquenne, era testimone oculare, trovandosi con lui nella
camera di controllo (cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 303).
303
La cifra è 10 per Dobbs e 15 secondo l’articolo dei NSA. Si
consideri che l’atomica di Hiroshima ne misurava 14.
304
Secondo la testimonianza della moglie di Arkhipov, contenuta nel
succitato documentario di Saponara del 2005, Arkhipov addirittura avrebbe
fatto quanto segue: «Lo prese [Savitsky] per il collo per impedirgli di girare
la chiave sulla plancia di comando. Mio marito mi ha sempre detto che non
poteva rimanere a guardare senza reagire. In quel momento doveva fare
qualcosa. Il suo grado su quel sottomarino glielo permetteva».
305
K. SULLIVAN, 40 years after missile crisis, players swap stories in
Cuba, in «The Washington Post», Oct. 13, 2002.
306
Il resoconto per esempio combacia con le informazioni già note sulle
condizioni esistenti a bordo dei sottomarini, nonché coi documenti ufficiali
illustranti i movimenti del B-59 (cfr. M. DOBBS, op. cit., p. 399 nota).
307
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 531.
308
Secondo i ricordi del figlio, egli avrebbe usato queste parole:
«Rimuoveteli, il più presto possibile. Prima che succeda qualcosa di
terribile» (S. STERN, Averting the final failure, cit., p. 384).
309
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 323.
310
M. DOBBS, op. cit., pp. 321-325; A. FURSENKO – T. NAFTALI,
Khrushchev’s Cold War, cit., pp. 489-491.
311
M. DOBBS, op. cit., pp. 332-333; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…,
cit., p. 286.
312
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 446 nota; cfr. anche F. BURLATSKY, The
lessons of personal diplomacy, in «Problems of communism», Special
Edition, Spring 1992, p. 11.
313
S. KHRUSHCHEV, Nikita Khrushchev and the creation of a superpower,
p. XVI; History Channel, Cuban Missile Crisis Declassified, part 2
(intervista al figlio di Kruscev, Sergej).
314
W. TAUBMAN, op. cit., p. 576.
315
T. SORENSEN, Kennedy, cit., pp. 957-958; T. SORENSEN, Counselor…,
cit., p. 305.
316
«I could hardly believe my ears». M. DOBBS, op. cit., p. 334.
317
Don Wilson, OHI (in DNSA, CC0321), p. 30 (cfr. anche M. DOBBS,
op. cit., p. 334).
318
MCG. BUNDY, op. cit., p. 406.
319
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 305. Si precisa che, quanto al
particolare della presenza a messa della first lady, la memoria inganna
Sorensen: Jacqueline quel weekend era fuori città (non a caso alla Casa
Bianca c’era la Alford). Anche le foto scattate quella mattina al Presidente
mentre esce dalla chiesa di St. Stephen lo ritraggono infatti da solo.
320
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 547. L’assistente, nonché amico, cui JFK
aveva detto questa frase era Dave Powers.
321
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 630-635.
322
R. REEVES, op. cit., p. 424.
323
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., pp. 636-637 (la lettera fu resa
pubblica).
324
S. STERN, op. cit., p. 188 («Castro’s joy was indescribable»); M.
DOBBS, op. cit., p. 317.
325
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 249 (testo completo
della lettera).
326
M. DOBBS, op. cit., p. 335; H. THOMAS, op. cit., p. 1076; M. BESCHLOSS,
op. cit., p. 549 (maricon è l’equivalente spagnolo di «frocio»).
327
M. DOBBS, op. cit., p. 335; Carlos Franqui era il direttore di
«Revolucion». Successivamente, in seguito a crescenti dissidenze con il
governo, dovrà lasciare il giornale e la stessa Cuba.
328
Riportati in L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., pp. 251-252;
S. TUTINO, L’ottobre cubano, Einaudi, Torino, 1968, pp. 31-32.
329
La supposizione, che presentiamo a titolo del tutto ipotetico, è
nostra. Si consideri tuttavia in tal senso che Castro stesso dirà poi che se
all’epoca fosse stato ammesso ai negoziati per la crisi, egli avrebbe insistito
come minimo per il ritiro da Guantanamo e la fine del blocco economico
(ovvero i punti 1 e 5). J. BLIGHT – B. ALLYN – D. WELCH, op. cit., p. 359.
330
I «cinque punti» di Cuba erano diretti verso i sovietici non meno che
verso gli americani. Come spiegò bene il ministro degli Esteri Raul Roa,
parlando con l’ambasciatore jugoslavo: «Noi esistiamo. Loro devono
saperlo. Questo lato [i sovietici], così come l’altro lato [gli americani]».
(The global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012,
pp. 602 e 593.)
331
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 250 (testo completo
della lettera).
332
P. BOSCHESI, Storia della Guerra Fredda, Mondadori, Milano, 1977,
p. 174.
333
P. KALFON, Il Che, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 393.
334
Rapporto a Belgrado dell’ambasciatore jugoslavo a L’Avana, Boško
Vidakovič, sulla conversazione avuta con Guevara la sera dell’8-11-1962.
The global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p.
614. Cfr. anche J. CASTANEDA, Companero. Vita e morte di Ernesto Che
Guevara, Mondadori, Milano, 2007, p. 246.
335
Testo completo dell’articolo (uscito poi sulla rivista delle forze
armate cubane «Verde Olivo» il 9-10-1968) in E. GUEVARA, Leggere Che
Guevara. Scritti su politica e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 333-
344. Cfr. anche P. KALFON, op. cit., p. 391; J.L. ANDERSON, Che Guevara,
Groove Press, New York, 1997, p. 545.
336
«The Miami News», Oct. 23, 1962, p. 2.
337
A. de la CARRERA Cuba: what now?, «The New Leader», May 15,
1963, p. 5.
338
US tells refugees to set up new regime, «The Miami News», Oct. 28,
1962, p. 1. La notizia, confermata da Cardona, è ribadita il giorno dopo,
«The Miami News», Oct. 29, 1962, p. 1.
339
Cardona calls for unity, «The Miami News», Oct. 28, 1962, p. 2A.
340
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 549; «The New York Times», Oct. 29,
1962, p. 19; Exiles’ reaction: despair, frustration, «The Miami News», Oct.
29, 1962, p. 1.
341
CIA daily brief, 28-10-1962, p. IIIb.
RDP79T00975A006600490001-5 CREST, NARA.
342
Definizione del Ministro dell’Interno venezuelano, riportata in
«Revolucion», 30-10-1962, p. 1.
343
«Apparently acting on orders from Havana», dicevano i dispacci da
Caracas («The Miami News», Oct. 29, 1962, p. 1). A sostegno di un diretto
collegamento con l’appello di Radio Havana, pure il «Washington Post» (D.
KURZMAN, Latins fear Castro may spark new sabotage, Oct. 30, 1962, p. A5)
e il «New York Times» (Caracas guards oil after 4 Reds blasts, 29-10-
1962, pp. 1 e 19). Anche R. THOMPSON, The missiles of October, Simon &
Schuster, New York, 1992, p. 340, basandosi su un rapporto CIA, cita in
merito l’appello lanciato da Radio Havana alla distruzione di «ogni genere
di proprietà yankee». Infine si legga nel verbale dell’ExComm del 3
novembre: «il segretario Rusk si è riferito ai rapporti sul sabotaggio in
Venezuela a quanto pare istigati da un gruppo pro-Castro o da cubani. Il
Presidente ha detto che dovremmo essere il più duri possibile nell’affrontare
situazioni del genere». FRUS, vol. XI, Doc. 138: «Summary record of the
19th meeting of the Executive Committee».
344
«Revolucion», 29-10-1962, pp. 1 e 3. Si veda inoltre l’articolo: Por
cada cubano caìdo, morirà un yanqui en Venezuela, in «Hoy», 26-10-1962,
p. 6.
345
Discorso del 2-1-1963, citato in J.J. NATTIEZ, Castro, Sansoni
Accademia, Firenze, 1970, p. 171.
346
Di quei sabotaggi parlano il vicepremier sovietico Mikoyan e
Guevara il 16 novembre nell’ufficio ministeriale di quest’ultimo. Mikoyan
sconsiglia azioni simili, ma il Che ne difende l’utilità (trascrizione sovietica
del colloquio, riportata in The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 348). Analogo collegamento coi
guerriglieri venezuelani, in termini di guida strategica e assistenza fornita,
emerge dalle parole di Guevara all’ambasciatore jugoslavo nella loro
conversazione dell’8-11-1962. Rapporto di Vidakovič a Belgrado, in The
global Cuban missile crisis at 50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, pp.
612-613 (cfr. inoltre pp. 658, 775, 778).
347
A Caracas, per esempio, si verificarono altri attentati minori, di cui
dà notizia «Hoy», 26-10-1962, p. 8 (Audaces atentados dinamiteros en la
capital venezolana); altri vennero compiuti il 3 novembre nell’Est del
Venezuela (CIA Daily Brief, 5 Nov 1962, p. VI, CIA-
RDP79T00975A006700050001.2, CREST, NARA); a Santiago del Cile poi
fu scoperta una bomba artigianale per un attentato in una casa di «terroristi
pro-Castro» («The Washington Post», 30-10-1962, p. pro-Castro A10). È
interessante notare che la CIA si aspettava ancor più sabotaggi durante la
crisi, giacché in un rapporto ad uso interno si sottolineava che «I sostenitori
di Castro in tutta l’America Latina, con poche benché importanti eccezioni
(cioè, il sabotaggio di infrastrutture petrolifere in Venezuela), hanno
mancato di rispondere alla crisi delle basi missilistiche con effettivi atti di
sabotaggio o con massicce manifestazioni pubbliche» (Castro’s subversive
capabilities in Latin America, p. 8, CIA-RDP80B0167R001800020034-6,
CREST, NARA).
348
A. HORNE, op. cit., pp. 377-378.
349
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 89 («And, for the first time since the crisis
began, I saw him smile»).
350
Così dice S. STERN (The week, p. 197), pur in genere non avaro di
elogi per la gestione della crisi da parte di JFK.
351
S. STERN, The week…, p. 197; Presidential Recordings: John F.
Kennedy, vol. 3, pp. 519-521 (trascrizione della telefonata Kennedy-
Eisenhower, Oct. 28, 1962, 12.08 PM).
352
R. KENNEDY, op. cit., p. 83; E. THOMAS, op. cit., p. 231.
353
A. SCHLESINGER, Robert Kennedy, cit., p. 525 (che riporta la nota di
RFK, datata 15-11-1962).
354
R. REEVES, op. cit., p. 424; M. DOBBS, op. cit., p. 337.
355
«diplomatic blackmail»: E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 635 (JCS
to President Kennedy, – Oct. 28, 1962); L. FREEDMAN, op. cit., p. 219.
356
S. STERN, The week…, cit., p. 196.
357
Amm. Anderson (indicato con la sigla CNO) in «Notes Taken from
Transcripts of Joint Chiefs of Staff, Oct. Nov. 1962», p. 24 (NSA).
358
Cfr., tra gli altri, S. STERN, The week…, cit., pp. 196-197. Si consideri
pure che quella stessa mattina, appena prima che arrivasse la lettera, egli
aveva detto ai colleghi di voler «andare a vedere il Presidente», per
sostenere che l’attacco iniziasse al massimo entro l’indomani (A. FURSENKO –
T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 287). Ora capiva invece che sarebbe stato
tutto definitivamente annullato.
359
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 550; S. STERN, The week…, p. 196.
360
L. FREEDMAN, op. cit., p. 219; S. STERN, The week…, cit., p. 196.
361
Riportato in MCG. BUNDY, op. cit., p. 444.
362
Minute della riunione ExComm del 28 ottobre, riportate in L. CHANG
– P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 255; M. DOBBS, op. cit., p. 337. Sulle
frequenti e dirette contrapposizioni di Bundy rispetto alla linea più
negoziale del Presidente (specie nei dibattiti verso la fine della crisi), si
veda S. STERN, The Cuban crisis, cit., pp. 109-128.
Capire la crisi. Considerazioni sugli eventi
1
Su questi aspetti e sui difficili colloqui tra Castro, Guevara e il
vicepremier sovietico Mikoyan, si veda ora anche A. MIKOYAN – S.
SAVRANSKAYA (a cura di), The Soviet Cuban Missile Crisis: Castro, Mikoyan,
Kennedy, Khrushchev, and the Missiles of November, Stanford University
Press, CA. 2012.
2
Nelle sue memorie, Kruscev accenna anche alla rimozione dei missili
italiani, effettivamente poi ritirati, che però non figurano nelle sue richieste
a JFK. Il perché è ancora dubbio. L’ufficiale sovietico Georgi Kornienko ha
perfino ipotizzato che tale omissione dell’Italia dalla seconda lettera a JFK
(quella del 27) possa essere stata dovuta a un semplice errore tipografico (T.
DIEZ ACOSTA, October 1962, The Missile crisis as seen from Cuba,
Pathfinder, New York, 2002, p. 173 nota). Ciò pare improbabile; ad ogni
modo, Kruscev sapeva bene che una richiesta riguardante una parte del
sistema difensivo NATO avrebbe probabilmente rimesso in questione tutto
l’insieme (cfr. E. DI NOLFO, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in M.
VAISSE (dir.), op. cit., p. 114).
3
D. JOHNSON, D. TIERNEY, Failing to win. Perceptions of victory and
defeat in International Politics, Harvard University Press, Cambridge,
2006, p. 106.
4
Alcuni esempi. Kennedy confidò ai colleghi: «Gentlemen, we won»
(in altra occasione, sempre privatamente, pare abbia avuto meno aplomb:
«gli ho tagliato le palle»). A Mosca, invece, emblematica fu la prima
reazione del figlio di Kruscev (anche se negli anni egli avrebbe poi riveduto
la sua valutazione): sentendo alla radio della decisione del padre di
smantellare i missili, pensò: «Ecco qua. Ci siamo arresi». Gli suonò come
«una vergognosa ritirata» (cit. in M. DOBBS, op. cit., p. 333). Suo padre (che
stando al collega Pyotr Demichev la vide anch’egli in cuor suo come una
sconfitta) nelle sue memorie la definirà invece «un trionfo della politica
estera sovietica e un personale trionfo della mia carriera di statista» (N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 533). Tuttavia, quantomeno tra i suoi
colleghi, l’opinione era diversa: secondo gli storici Blight e Brenner infatti
«nel Cremlino, in definitiva, l’esito fu visto come una vittoria americana e
un’umiliazione sovietica» (citazioni tutte tratte, ove non diversamente
specificato, da D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., pp. 96 e 100).
5
MCG. BUNDY, op. cit., p. 517.
6
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 71.
7
Schelling è citato in G. DE GROOT, The Sixties Unplugged, Harvard
University Press, Cambridge, 2008, p. 78. Mikoyan (insieme alla stessa
frase di Schelling) è citato in J. NATHAN (a cura di), The Cuban Missile
Crisis revisited, St. Martin Press, New York, 1992, pp. 178-191 e riportato
in nota da J.-Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba, in
«Cultures et conflits», nota 36, 2000.
8
J. GADDIS, We now know…, cit., pp. 279-280.
9
Si veda sopra, p. 40.
10
Riportato in V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 266 («Khrushchev
shit in his pants»).
11
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 20.
12
J. BLIGHT, Fear and learning in a nuclear crisis (pp. 4-5 dell’edizione
dattiloscritta, in JFKL, Sorensen Papers, Box 107).
13
Riportato in J.Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba,
in «Cultures et conflits», n. 36, 2000, partie 6.
14
V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, Inside the Kremlin’s Cold War, cit., p. 259.
Considerazioni analoghe aveva fatto U THANT, View from the UN,
Doubleday Co., Garden City, NY, 1978, p. 157.
15
M. DOBBS, op. cit., p. 229.
16
Sulla posizione di Kruscev, cfr. pure l’intervista di storia orale
rilasciata da S. Mikoyan, figlio del vicepremier sovietico: «At the time he
did not have any opposition against him» (Mikoyan OHI, p. 7, in DNSA,
CC03323).
17
(M. DOBBS, op. cit., p. 351). Perché quella metà di loro voleva attuare
un attacco aereo invece del blocco.
18
Cfr. D. TALBOT, Brothers. The hidden story of the Kennedy years,
Simon & Schuster, London, 2007, p. 171; T. SORENSEN, Counselor…, cit., p.
296.
19
Intervento di Schlesinger alla conferenza del 20 ottobre 2002 alla
JKFPL («on the brink», p. 12 del transcript).
20
N. COUSINS, op. cit., p. 154.
21
«Plain dumb luck»: Acheson commentò così l’esito positivo ottenuto
da JFK nella CMC malgrado una gestione a suo dire errata (M. DOBBS, op.
cit., p. 353).
22
The Cuban Missile Crisis. revisited on the anniversary, in «Arms
control today», vol. 32, Nov. 2002
(www.armscontrol.org/act/2002_11/cubanmissile).
23
E. MORRIS, The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S.
McNamara, al minuto 15 del documentario (cap. «Lesson n. 2: Rationality
will not save us»); cfr. anche il libro tratto dal documentario J. BLIGHT – J.
LANG, The Fog of War…, cit., p. 59.
24
Ecco alcuni esempi. Frankel: «La fortuna giocò un ruolo nell’evitare
il disastro, nel prevenire che gli eventi sfuggissero fuori controllo» (M.
FRANKEL, op. cit., p. 5); Stern: «non senza un po’ di autentica fortuna» (S.
STERN, The week…, cit., p. 217); T. Blanton: «McNamara ha detto a L’Avana
che […] crede che evitammo la guerra nucleare in buona parte per fortuna.
[…] Non fu fortuna che Kennedy e Kruscev evitarono di spingere il bottone
perché entrambi erano impegnati a non farlo, ma certo fu fortuna che
nessun altro abbia spinto i molteplici bottoni che erano dispersi per tutta
Cuba e lungo la linea della quarantena» (The Cuban Missile Crisis: 40
years later – trascrizione della sessione di conversazione online organizzata
dal Washingtonpost.com).
25
Si veda il capitolo Verso il climax.
26
J.-Y. HAINE, Kennedy, Kroutchev et les missiles de Cuba, in «Cultures
et conflits», n. 36, 2000, parte 5, nota 30.
27
MCG. BUNDY, op. cit., p. 450, che così continua: «Le decisioni critiche
potrebbero essere state un pochino più dure da prendere, […] ma non credo
che […] le risposte sarebbero state differenti: […] In particolare un
controblocco su Berlino sarebbe stato comunque troppo rischioso».
28
D. RUSK – R. MCNAMARA – G. BALL – R. GILPATRIC – MCG. BUNDY, The
lessons of the Cuban Missile Crisis, in «Time», Sept. 27, 1982. Di avviso
analogo lo storico G.H. SOUTOU, La guerre de cinquante ans. Les relations
Est-Ouest 1943-1990, Fayard, Paris, 2001, p. 427.
29
Passo riportato in G. DE GROOT, The Bomb…, cit., p. 270.
30
Nella sua intervista televisiva del 17-12-1962: «penso che sarebbe
meglio che le comunicazioni fossero più rapide di quanto sono ora. Nella
faccenda di Cuba ci vollero alcune ore, e per conto mio ritengo che le
comunicazioni siano molto importanti».
31
Precisamente dalle 9.42 alle 21 (ora di Washington). M. DOBBS, op.
cit., p. 164.
32
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 96.
33
Riportato in R. LEBOW – J. STEIN, op. cit, p. 136.
34
Sulla vicenda si veda V. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 267.
35
L’idea era stata proposta a Kruscev dal fisico nucleare Leo Szilard già
nel 1960 (Cfr. G. SZILARD – B. BERNSTEIN – H. HAWKINS – G.A. GREB (a cura
di) Toward a livable world. Leo Szilard and the crusade for nuclear arms
control, MIT Press, Cambridge, 1987, pp. 284-285).
36
In tal senso, cfr., già nel 1993 (in era pre-web), M. BESCHLOSS,
Presidents, Television and foreign crises, p. 40.
37
S. STERN, The week…, cit., p. 52 (meeting ExComm del 16
pomeriggio; cfr. pure, nello stesso meeting, frasi analoghe di JFK, p. 48).
38
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 296.
39
Riportato ivi, p. 99.
40
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 691 (corsivo mio).
41
Kennedy, intervista televisiva del 17-12-1962 (riportato anche in
MCG. BUNDY, op. cit., p. 452).
42
Testo completo della lettera in E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 486.
43
Si ricordi, tra l’altro, che nel 1960 in campagna elettorale Kennedy
aveva affermato: «dovremmo negoziare coi russi al summit o dovunque
altro. […] È molto meglio incontrarsi al summit che non al precipizio
[brink]» (riportato in A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 418).
44
S. STERN, Averting the final failure, cit., p. 225. («Lo credo anch’io.
Assolutamente inutile», concordò subito Dirksen.)
45
Si veda il capitolo precedente (e A. HORNE, op. cit., p. 372).
46
In tal senso è significativo quanto il segretario di Stato Rusk scrive
nelle sue memorie: «Mi corrono ancora brividi sulla schiena quando penso
a cosa sarebbe potuto succedere se Kruscev e Kennedy si fossero incontrati
faccia a faccia durante la crisi dei missili di Cuba». D. RUSK, op. cit., p. 220.
47
Su questo particolare aspetto del punto b), si veda anche C. LINDEN,
Khrushchev and the Soviet leadership, Johns Hopkins University Press,
Baltimore, 1966, p. 152, che in un saggio del 1966 aveva ben messo in luce
come la politica di deterrenza di Kruscev – privilegiante l’uso politico
dell’armamento strategico rispetto a quello convenzionale, e già passata per
un massiccio taglio delle forze convenzionali sovietiche al fine di
reindirizzare fondi verso lo sviluppo economico del Paese – avrebbe trovato
piena conferma e coronamento nella mossa cubana, se essa avesse avuto
successo.
48
Infatti, portando dei missili a medio raggio (MRBM) abbastanza
vicini al nemico da poterne raggiungere il territorio, li si rendeva di fatto
equivalenti a dei missili intercontinentali (ICBM), categoria di cui l’URSS
aveva ancora pochissimi esemplari. Il tutto è stato riassunto con la formula
MRBM + CUBA = ICBM (cfr. J. GADDIS, We now know…, cit., p. 268).
49
Nel resoconto della crisi che fece privatamente al Cremlino al leader
cecoslovacco Novotný il 30-10-1962, Kruscev affermò: «I missili servivano
a proteggere Cuba da un attacco […] e perciò hanno servito il loro scopo
principale»; e ancora: «il nostro scopo principale era salvare Cuba» (The
global missile crisis at 50, in «CWHIP Bulletin», Fall 2012, pp. 401-402).
Nelle sue memorie, poi, egli aggiungerà anche le motivazioni b) e d):
«Oltre che proteggere Cuba, i nostri missili avrebbero equiparato ciò che in
Occidente piace chiamare la bilancia del potere. Gli americani avevano
circondato il nostro Paese con basi militari e ci minacciavano con armi
nucleari ed ora essi avrebbero imparato che cosa significa avere missili
puntati contro. Non facevamo altro che somministrare loro la stessa
medicina. Ed era tempo che l’America sapesse che effetto fa avere la
propria terra e il proprio popolo minacciato». N. KRUSCEV, Kruscev ricorda,
cit., p. 525.
50
Per esempio A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 168.
51
In tal senso, cfr. per esempio S. STERN, The week…, cit., p. 42.
52
Cioè quando Thompson finalmente la intravede, dicendo
all’ExComm il 27 pomeriggio: «La cosa importante per Kruscev, mi
sembra, è poter dire: ho salvato Cuba, ho fermato un’invasione» (E. MAY –
PH. ZELIKOW, op. cit., p. 554).
53
Riunioni ExComm del 22 pomeriggio (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit.,
p. 236). Un paio d’ore dopo, Thompson ribadisce (p. 254).
54
Ivi, p. 61. ExComm (16 mattina).
55
S. STERN, The week…, cit., p. 198.
56
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 668; G.H. SOUTOU, op. cit., pp. 402 e
421.
57
Nell’agosto 1961, il Presidium sovietico approvò una strategia del
KGB consistente nel «creare circostanze in varie aree del mondo che
aiutino a distogliere l’attenzione degli Stati Uniti e dei suoi alleati e li
vincoli durante la risoluzione del problema di un trattato di pace tedesco e
di Berlino Ovest». La mossa di Cuba può apparire un’implementazione di
questa strategia. Inoltre, i verbali della riunione del Presidium dell’8
gennaio 1962 mostrano che Kruscev avvisò i suoi colleghi: «Ora dobbiamo
prepararci per lo scontro finale su Berlino Ovest». J. HASLAM, op. cit., pp.
189 e 195.
58
A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p. 169; W. TAUBMAN, op. cit.,
p. 541.
59
Cfr. anche J. HARPER, op. cit., p. 160 («Pura e semplice rabbia e
sfida»).
60
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda., cit., p. 525.
61
E. MAY – PH. ZELIKOW, op.cit., p. 88; A. FURSENKO – T. NAFTALI, One
hell…, p. 182.
62
Riportato in W. ZUBOK – C. PLESHAKOV, op. cit., p. 259.
63
Questo, significativamente, il titolo da lui scelto per l’intero capitolo
sulla CMC (W. TAUBMAN, op. cit., pp. 529-578).
64
«Con un solo tiro del dado nucleare, Kruscev poteva raddrizzare lo
squilibrio strategico, umiliare gli americani, rassicurare i cubani, zittire gli
stalinisti e i generali, confondere i cinesi e acquisire un potente gettone di
contrattazione quando scegliesse di rigiocare Berlino. I rischi sembravano
di media entità; le ricompense, colossali». A. SCHLESINGER Jr., Robert
Kennedy…, cit., p. 504.
65
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 669.
66
Report citato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., p. 67.
67
Ivi, p. 68. Cfr. inoltre la stima stilata dopo la crisi dalla CIA:
«Motivazione principale […] fu la stringente necessità di un sensazionale
passo avanti che rafforzasse la posizione dell’URSS su un’intera gamma di
questioni» (Ivi, p. 66).
68
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, cit., p. 483.
69
Washington to FO, 25-10-1962, PREM 11/3690, MF R.37, UK
National Archives, Kew. (Corsivo nostro). Tale gruppo è definito
«Ambassadorial» nei documenti americani (Per esempio:
NSC/ExCom/BER-NATO, Record of Meeting No.1, 24-10-1962, 11 hours.
DNSA, CC01189).
70
Tra i motivi d’interesse di questo documento c’è il fatto che conferma
il ruolo di fatto secondario nella NATO di Italia e Turchia, escluse dal
ristretto novero degli Stati chiamati a consulto nel momento decisivo
d’emergenza nonostante la presenza di missili nucleari sul loro territorio.
Ciò mostra come, nelle gerarchie tra Stati, le diverse carature geopolitiche e
storiche di lunga durata (braudelianamente quasi strutturali, potremmo dire)
abbiano contato più della (congiunturale) presenza o meno di armi nucleari
sul proprio suolo. Il che dice dell’infondatezza della speranza di certe élite
italiane di poter salire di rango internazionale grazie all’accettazione di
missili e rischi connessi. Ritroveremo questi aspetti nel capitolo sull’Italia
(pp. 277 e 292).
71
Tale linea, del resto, si intravedeva già in un passo della lettera inviata
da Kennedy a Macmillan tre giorni prima. «Io ho ritenuto assolutamente
essenziale, nell’interesse di sicurezza e velocità, prendere la mia prima
decisione su mia propria responsabilità, ma da ora in poi mi aspetto che
possiamo e dovremmo tenerci nel più stretto contatto, e so che insieme ai
nostri altri amici affronteremo con risolutezza questa sfida. Capisco bene
che la principale intenzione di Kruscev possa essere di aumentare le sue
opportunità a Berlino e noi dovremmo essere pronti ad assumere un pieno
ruolo lì come nei Caraibi» (riportata in H. MACMILLAN, op. cit., p. 182).
72
W. TAUBMAN, op. cit., p. 538; D. WELCH, Intelligence and the Cuban
missile crisis, Frank Cass, London, 1998, p. 31.
73
Tale sguardo ai fattori regionali naturalmente non è in contraddizione
col precedente discorso sul «teatro di guerra globale»: i due aspetti anzi si
integrano.
74
Dello stesso avviso, per esempio, Walter Cronkite: «Credo che fu
proprio la vicinanza del nemico a creare il serio allarme» (OHI, CNN Cold
War Series, op. cit.).
75
Infatti, sebbene il territorio dell’URSS fosse a tiro (oltre che delle
forze USA) di 60 missili intermedi britannici, 30 italiani e 15 turchi, erano
soprattutto questi ultimi, a quanto pare, a dar noia a Kruscev – anche
emotivamente, come rivelano le sue frequenti lamentele espresse ai leader
stranieri in visita alla sua dacia sul mar Nero (si veda il capitolo
precedente). Tale fattore emotivo contribuisce, insieme ad altri motivi
politici, a spiegare perché egli pensò di dare agli americani «un po’ della
loro stessa medicina» posizionandogli missili egualmente vicini e perché
poi chiese a Kennedy di rimuovere proprio quelli turchi, anziché i più
numerosi italiani o britannici, in cambio dei propri a Cuba.
76
«La posizione geografica di Cuba l’ha sempre resa vulnerabile ai suoi
nemici. La costa cubana è solo poche miglia lontana da quella americana, e
si allunga come una salsiccia, forma questa che la rende facile agli attacchi
e difficile da difendere. Ci sono infinite opportunità per invasioni». N.
KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 523.
77
Citato in L. GELDOF, Cubans. Voices of change, St. Martin’s Press,
New York, 1991, p. XV.
78
F. PERROUX, L’economia del XX secolo, Etas Kompass, Milano, 1969,
p. 127.
79
Cioè intese qui non tanto nell’accezione braudeliana del termine,
come «permanenze», ma piuttosto nell’accezione del Perroux. Per
un’illustrazione più chiara del termine struttura nelle sue varie accezioni si
veda G. ALIBERTI, Metodologia della storia nel ’900, cit. (su Perroux, in part.
pp. 78-82).
80
Sulle relazioni USA-Cuba, si vedano L. PEREZ, op. cit. e soprattutto L.
SCHOULTZ, Little infernal Cuban Republic, University of North Carolina
Press, Chapel Hill, 2011, 2 (in particolare cap. 7: pp. 183-191, 209-210,
215, 226). Sul tema ora si aggiunge l’antologia di saggi S. CASTRO MARINO –
R. PRUESSEN (a cura di), Fifty Years of Revolution: Perspectives on Cuba, the
United States, and the World, University of Florida Press, Gainesville,
2012.
81
Sul punto, si veda quanto scritto sia dagli studiosi statunitensi J.
BLIGHT – PH. BRENNER, Sad and luminous days, Rowman & Littlefield,
Lanham, MD, 2002, pp. 7 e 247-248, sia dallo studioso cubano E.M.
DOMINGUEZ, ¿Crisis de los misiles o crisis de octubre?
(http://www.ritsumei.ac.jp/acd/cg/ir/college/bulletin/vol16-2/16-
2esteban.pdf).
82
Lo confermano sia le memorie di Kruscev («Gli americani sapevano
che se si fosse versato sangue russo a Cuba, sicuramente quello americano
sarebbe corso in Germania». N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 532) sia le
conclusioni di McNamara («Molto probabilmente, il risultato sarebbe stato
un’incontrollabile escalation». MCNAMARA, The Conference on
Disarmament should focus on steps to move forward a “Nuclear free
world”, in «Disarmament Diplomacy», n. 4, Apr. 1996).
83
A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 65 (cfr. anche J. GADDIS, We now
know…, cit., p. 275). (Gribkov aveva il ruolo di coordinatore logistico
presso il comando militare locale).
84
R. MCNAMARA, Blundering into disaster…, cit.
85
Per farsene un’idea, si consideri che la loro carica esplosiva misurava
2 kilotoni, cioè circa sette volte meno della bomba che rase al suolo
Hiroshima (A. LEPRE, op. cit., p. 353).
86
Sugli FKR e il loro movimento, cfr. M. DOBBS, op. cit., pp. 124-125,
178-181, 205-206, 351-352.
87
Ivi, p. 58.
88
Riportato in A. GRIBKOV – W. SMITH, op. cit., p. 66.
89
Come sembrava pensare lo stesso Kruscev, a quanto emerge ora
anche da un nuovo documento: se gli USA avessero attaccato Cuba, disse
Kruscev a colloquio col leader cecoslovacco Novotny il 30-10-1962, «ciò
avrebbe significato la guerra nucleare» (The global Cuban missile crisis at
50, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 401).
90
L. FREEDMAN, op. cit., p. 175.
91
Mostrando all’ExComm le nuove foto scattate dagli U-2 su Cuba, il
26 pomeriggio McCone aveva ammesso: «Invadere sarà un’impresa molto
più seria di quanto la maggioranza della gente realizzi. […] È roba molto
letale quella che hanno lì». S. STERN, The week…, cit., p. 145.

Dagli eventi alle reazioni


1
P. NORA, Il ritorno dell’avvenimento, in Fare Storia, cit., p. 152.
2
D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 92.
3
Sul punto, si veda anche E. DI NOLFO, Storia delle relazioni
internazionali 1918-1999, p. X: «Ora nessuno può negare che sotto la
politica si agitino le masse. […] E meno ancora, oggi, è possibile negare il
peso dell’opinione pubblica, giacché uno dei mutamenti più profondi
avvenuti durante il secolo è il passaggio della politica – e non solo quella
internazionale – dall’età delle élite non responsabili a quella delle élite
responsabili, o comunque costrette – nelle epoche o nei Paesi sotto dittatura
– a mantenere il consenso delle masse».
4
S. ROMANO, La politica culturale come politica estera, in Opinion
publique et politique extérieure, vol. III, Ecole Française de Rome, 1985, p.
295.
5
PH. LEVILLAIN, Opinion publique et politique extérieure de 1870 à 1981,
ivi, pp. 309-310.
6
E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, cit., p. X.
7
P. NORA, Il ritorno dell’avvenimento, in Fare Storia, cit., p. 148.
8
E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, cit., pp.
1157-1158.

Stati Uniti d’America


1
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. XV.
2
P. WEEKS, Street crowd here listens to President, in «Los Angeles
Times», 23-10-1962, pp. 1 e 17.
3
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 165.
4
Dobrynin to Soviet Foreign Ministry, 25-10-1962 (ivi, p. XVIII).
5
L’ansia dei felici americani, in «Pravda», 24-10-1962, p. 3. L’articolo
riportava brevi dichiarazioni di alcuni cittadini newyorchesi (Douglas
Leonard, John Smith, ecc.) raccolte subito dopo il discorso, naturalmente
privilegiando quelle dai toni critici e dando un’idea un po’ distorta della
reazione ad esso. Si ringrazia Anna Caruso per il cortese aiuto nella
traduzione dal russo.
6
«Newsweek», 5-11-1962, riportato in A. GEORGE, op. cit., p. 94.
7
Ivi, p. 26.
8
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, cit., p. 525.
9
Kruscev a JFK, lettera segreta del 30-10-1962 (ripubblicata
integralmente in inglese in L. NUTI, I missili di ottobre, cit., p. 356). Quello
stesso giorno Kruscev espresse lo stesso concetto anche a colloquio col
leader cecoslovacco Novotný: «Ora [gli americani] hanno sentito i venti di
guerra nella loro stessa casa» (The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 401).
10
Un esempio del rammarico diffuso tra i militari (oltre a quelli già
citati nella Parte prima), è contenuto nell’articolo pubblicato dal generale
Max S. Johnson su «U.S. News & World Report» del 12-11-1962 (e citato
in G. GEROSA (a cura di), I missili a Cuba, Mondadori, Milano, 1974, pp.
164-165).
11
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, cit., p. 820 (parole di Schlesinger).
12
Letteralmente «Old Khrushchev has chickened out on us»,
espressione difficilmente traducibile che fa riferimento al pericoloso
chicken game americano, consistente nel lanciare due macchine su una
strada una contro l’altra finché almeno uno dei due guidatori non si sposta
per evitare l’impatto: quello dei due che si sposta prima, perde. Da qui
l’espressione metaforica «to chicken out», per indicare reazioni indotte da
paura. L’avevamo già vista usare dal generale LeMay nel capitolo Il nodo
della guerra (i commenti del soldato a Key West e quelli dei senatori sono
riportati tutti nell’articolo World heaves sigh of relief, in «The Dallas
Morning News», 29-10-1962, p. 22).
13
W. Trohan sul «Chicago Tribune», riportato in D. JOHNSON – D.
TIERNEY, op. cit., p. 116.
14
«The Guardian», 5-11-1962 (che ripubblicava l’articolo di Alsop
preso dal «New York Herald Tribune»).
15
Kennan, che all’epoca era ambasciatore in Jugoslavia, non aveva
avuto anticipazioni della crisi e così al momento dell’annuncio di JFK si
trovava in vacanza a Milano. Tornò immediatamente a Belgrado in auto, ma
non prima di aver scritto alla figlia maggiore di prendersi cura del fratellino
nel caso che lui e la moglie venissero «trattenuti da qualche parte», com’era
già successo durante l’ultima guerra (cfr. J. GADDIS, George F. Kennan,
Penguin Press, New York, 2011, p. 566). Kennan insomma pare essere stato
seriamente preoccupato dei rischi di escalation della crisi.
16
In una lettera privata del 31 ottobre, Wallace, già fautore di un
riavvicinamento con l’URSS (e ormai ritiratosi nella tenuta agricola di
South Salem, NY), scrisse: «Credo che il Presidente abbia mostrato grande
moderazione, saggezza e coraggio». Henry A. Wallace Papers,
Correspondence, R. 53, University of Iowa, Special Collections Dept.,
Digital Library.
17
Officials pleased, cautious in «The Miami News», 29-10-1962, p. 6A.
Nixon tornerà poi sulla CMC in un articolo del novembre 1964, nel quale,
dopo aver lodato il corso inizialmente scelto da Kennedy come «il momento
migliore della sua presidenza», criticherà i suoi consiglieri per averlo poi
indotto nuovamente (come già alla Baia dei Porci) all’indecisione,
rinunciando a ispezionare Cuba e impegnandosi a non invaderla, finendo
così per «estrarre una sconfitta dalle fauci di una vittoria». La conclusione
del lungo articolo di Nixon era la solita: «it is time to stand firm […] in
Cuba, in Vietnam, and in any other area […]». R. NIXON, in «Reader’s
Digest», Nov. 1964, pp. 283-300.
18
World heaves sigh of relief, in «The Dallas Morning News», 29
ottobre 1962, p. 22. Analogamente Truman si era espresso quella mattina al
telefono con lo stesso JFK: «Lei è sulla strada giusta. Ora basta che gli stia
addosso. È questo il linguaggio che capiscono, proprio quello che lei gli ha
dato». Trascrizione completa della telefonata in The Presidential
Recordings, John F. Kennedy, vol. 3, October 28, 1962, pp. 521-523.
19
D. DETZER, op. cit., p. 257 (OHI, generale Andrew J. Goodpaster).
20
Showdown – Backdown, in «Newsweek», Nov. 5, 1962, p. 27 (cfr.
anche Khrushchev had backed down, a p. 31 dello stesso numero).
21
Showdown in «Time Magazine», Nov. 2, 1962.
22
MCG. BUNDY, op. cit., pp. 434-435.
23
Tale deduzione fu anche messa per iscritto in un’analisi governativa
stilata il 29 ottobre (dall’analista Raymond Garthoff), intitolata Rilevanza
della ritirata sovietica per le future politiche USA (cfr. L. CHANG – P.
KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 316). Essa concludeva che «se abbiamo
imparato qualcosa da quest’esperienza è che la debolezza, anche solo
l’apparente debolezza, invita l’aggressione sovietica. Al tempo stesso, la
fermezza in ultima analisi costringerà i sovietici a tirarsi indietro da
iniziative sconsiderate».
24
D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 17.
25
Lebow, riportato ivi. Su questi aspetti si veda anche J. NATHAN (a cura
di), The Cuban Missile Crisis revisited, cit., pp. 23-27.
26
J. NATHAN, The missile crisis: his finest hour now, in «World Politics»,
vol. 27, n. 2, Jan. 1975, pp. 256-281 (e qui in part. pp. 280-281). Per
un’ulteriore conferma di una chiara «connessione tra il successo a Cuba e il
fallimento in Indocina», si veda E.A. COHEN, Why we should stop studying
the Cuban Missile Crisis, in «National Interest», Winter, 1985-1986, pp. 3-
13.
27
Citazioni tratte rispettivamente da D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p.
17; M. DOBBS, op. cit., p. 347; J. HERSHBERG, The Cuban missile crisis, in The
Cambridge history of the Cold war, cit., vol. 2, p. 86.
28
S. STERN, The Cuban missile crisis in American memory, cit., p. 149;
E. ALTERMAN, When Presidents Lie: A History of Official Deception And Its
Consequences, The Viking Press, New York, 2004, pp. 145-151; R. DALLEK,
Flawed giant. Lyndon Johnson and his times, Oxford University Press, New
York, 1998, p. 244; J. ALSOP, Johnson’s Cuba II, in «Washington Post», 30-
12-1964.
29
M. DOBBS, op. cit., p. 347. Sul punto si veda poi perfino
l’avvertimento di uno di teorici stessi della RAND Corporation, del quale
torneremo a parlare: Herman KAHN, Filosofia della guerra atomica,
Edizioni del Borghese, Milano, 1966, pp. 347-348 (d’ora in poi citato col
titolo originale On escalation).
30
Ciò naturalmente non equivale affatto a dire che la sua politica sul
Vietnam sia stata esente da errori. Al contrario, fu proprio lui che cominciò
ad aumentare il contingente USA in Vietnam (da circa 1000 “consiglieri
militari” a 16.000: che però sono tutt’altra cosa rispetto ai 543.000 uomini
raggiunti nel 1969) e soprattutto appoggiò un coup militare locale che
rovesciò e uccise il dispotico presidente sudvietnamita Ngo Dinh Diem (2
novembre 1963), spingendo di fatto ancor più gli USA nel labirinto
vietnamita (cfr. J. PRADOS, JFK and the Diem coup, 2003 e The Diem coup
after 50 years, 2013, reperibili sul sito del NSA).
31
L’anno rileva perché nel 1968 il clima generale era ormai divenuto
contrario alla guerra in corso e RFK era candidato alla presidenza. Nel 1966
invece anch’egli aveva abusato di quell’analogia (cfr. E. ALTERMAN, op. cit.,
p. 151).
32
R. KENNEDY, op. cit., p. 94.
33
C. BARTLETT – S. ALSOP, In time of crisis, in «The Saturday Evening
Post», Dec. 8, 1962, pp. 16-20 (cit. anche in A. STEVENSON, op. cit., p. 348).
34
A. SCHLESINGER JR., I mille giorni…, cit., p. 826.
35
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 574.
36
Stevenson citato in «Time Magazine», Dec. 14, 1962, p. 22.
37
I due erano stati rivali per l’investitura del Partito come candidati alla
presidenza nel 1960. Il giovane leone aveva poi avuto la meglio sul
vecchio. Jacqueline, moglie di JFK, ammise una volta che «Jack non
sopporta di stare nella stessa stanza dov’è Stevenson» (ivi, p. 472). Dal
canto suo, Stevenson pochi giorni dopo l’uccisione di JFK confesserà a
Schlesinger: «le cose per me ora vanno dieci volte meglio che prima» (A.
SCHLESINGER Jr., Journals…, cit., pp. 208 e 211).
38
«I want it in» sarebbe stata la sua precisa frase (M. WHITE, Hamlet in
New York: Adlai Stevenson during first week of the Cuban Missile Crisis, in
«Illinois Historical Journal», vol. 86, n. 2, Summer 1993, p. 74). Cfr. anche
L. FREEDMAN, op. cit., p. 220. Inoltre A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…,
cit., pp. 321-322 aggiungono che la sola correzione rilevante richiesta da
JFK riguardò un’enfasi minore da dare al ruolo di Sorensen, per coprirlo da
possibili accuse dalla destra. Per Stevenson egli non usò analoghe premure.
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 574 aggiunge che la soffiata sarebbe stata fornita a
Bartlett dallo stesso JFK nel corso di un pranzo e che, in seguito, agli occhi
di Bartlett JFK sembrasse «non troppo dispiaciuto perché la cosa è saltata
fuori».
39
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., pp. 109-111.
40
A. STEVENSON, op. cit., pp. 349-350.
41
L. FREEDMAN, op. cit., p. 220.
42
Cfr. A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 111: «Se la fonte non
fu Kennedy, venne certo da qualcun altro nell’ExComm, forse per conto di
Kennedy». Mentre M. WHITE (Hamlet in New York, in «Illinois Historical
Journal», vol. 86, n. 2, Summer 1993, p. 73) afferma con certezza che la
fonte fu direttamente JFK (lo stesso Alsop, coautore del pezzo, lo avrebbe
rivelato al direttore del giornale), A. FURSENKO – T. NAFTALI (One hell…, cit.,
p. 321) attribuiscono piuttosto la soffiata a Michael Forrestall, assistente di
Bundy, confermando però che essa avvenne col benestare della Casa
Bianca, affinché le voci sullo scambio coi missili turchi fossero dirottate su
Stevenson. Già allora, d’altronde, «Time» aveva scritto: «quel che
probabilmente è successo è che qualcun altro degli uomini della Nuova
Frontiera [cioè uno dei membri rampanti dell’amministrazione Kennedy,
NdA], conoscendo la mancanza di profondo affetto del Presidente per
Adlai, s’è sentito libero di colpirlo». (The stranger on the squad, «Time
Magazine», Dec. 14, 1962, p. 22). E del resto non era forse questo stesso
tipo di dinamica che aveva originato i tentativi della CIA di uccidere
Castro?
43
Citato in A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 110.
44
«Due giornalisti di Washington […] hanno citato qualcuno secondo
cui […] Stevenson ‘voleva una Monaco’. […] Ma chi ha detto questo di
Adlai Stevenson? […] I due giornalisti, che il Post descrive in grandi
caratteri come ‘top reporters’, non ci danno il nome. […] L’uomo era lì,
nella Casa Bianca, quando Stevenson rese noto il suo terribile desiderio?
Citiamo i citanti: era ‘un funzionario non ammiratore che ha appreso della
sua proposta’. Che fosse un non ammiratore lo abbiam capito. […] Ma
evidentemente il ‘funzionario’ non era lì. Egli ha meramente ‘appreso’ […]
Stevenson dice di non aver mai fatto la ‘proposta’ attribuitagli dal Post. Ma
adesso ci sono diversi milioni di persone che potrebbero dire di ‘averne
appreso’. Noi non ammiriamo questo tipo di giornalismo». R. ROVERE, in
«The New Yorker», Dec. 15, 1962, p. 31.
45
L. FREEDMAN, op. cit., p. 220. ‘Da colomba’ (dovish) va inteso come
‘moderato’, sempre in contrapposizione a ‘falco’, secondo i due neonati
termini metaforici.
46
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., pp. 113 e 109.
47
M. WHITE, Hamlet in New York, in «Illinois Historical Journal», vol.
86, n. 2 Summer 1993, p. 74.
48
A. SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 250.
49
Sul punto, cfr. per esempio E. THOMAS, op. cit., pp. 159-161, 169, 194.
50
Cfr. R. HACK, Puppetmaster: the secret life of J Edgar Hoover, New
Millennium Press, Beverly Hills, 2004, p. 317.
51
Hoover to JFK, 23-10-1962; JFK to Hoover, 24-10-1962; JFK to
Hoover, 31-10-1962. POF, Special Correspondence, Hoover 1960-1962
folder, JFKL. Il messaggio di Kennedy del 31 ottobre faceva probabilmente
seguito a una ulteriore nota di congratulazioni inviatagli da Hoover per
l’esito della crisi, giacché esso cominciava dicendo: «grazie per la sua
generosa nota» e proseguiva esprimendo l’ammirazione che tutta la
famiglia Kennedy da sempre nutriva per lui e la sua organizzazione.
52
Tra i due c’era una reciproca diffidenza. Cfr. per esempio A.
SCHLESINGER Jr., Robert Kennedy…, cit., pp. 254-260.
53
R. HACK, op. cit., p. 318.
54
Sui sentimenti di Hoover per MLK, cfr. per esempio A. SCHLESINGER
Jr., Robert Kennedy…, cit., p. 260: «La voce all’FBI […] era che i due
uomini che J. Edgar Hoover odiava di più al mondo erano: Martin Luther
King, secondo, e Robert Kennedy, primo».
55
Ciò fu attuato tramite comunicati fatti filtrare a cinque quotidiani
locali, sostenenti l’esistenza di passati legami col Partito comunista USA di
Jack O’Dell, un funzionario dell’SCLC (l’organizzazione per i diritti civili
degli afroamericani diretta appunto da King). Sul punto, cfr. A. SCHLESINGER
Jr., ivi, p. 355; R. HACK, op. cit., p. 318; E. THOMAS, op. cit., p. 251; T.
BRANCH, Parting the waters, pp. 675 e 678-679. Branch in particolare
afferma, relativamente a questa operazione contro O’Dell e King, che «la
crisi dei missili fu uno stimolo e un’opportunità». «Hoover afferrò
abilmente la sua chance […] durante la settimana in cui l’intero paese si
stringeva nella paura di estinzione […]. La crisi dei missili ispirava e
giustificava misure d’emergenza come gli attacchi giornalistici verso
King».
56
Dobrynin to Soviet Foreign Ministry, Oct. 25, 1962. (CWIHP Virtual
Archive).
57
The week in finance e Cuba and stocks: market gyrates, in «The New
York Times», Oct. 28, 1962, Section 3, C1, C12. Kruscev rispose a Russell
il 24 ottobre.
58
Ivi.
59
Dello stesso avviso A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 125.
60
Ivi, pp. 133-134.
61
In tal senso cfr. anche A. FURSENKO – T. NAFTALI, One hell…, cit., p.
338.
62
Il trattato era detto «parziale» perché metteva al bando i test condotti
nell’atmosfera, non quelli condotti sottoterra, dei quali sarebbe stato
difficile, per le circostanze allora esistenti tra le controparti, verificare
l’effettiva cessazione.
63
L. WITTNER, Resisting the Bomb. The struggle against the bomb – A
history of the world nuclear disarmament movement, vol. II (1954-1970),
Stanford University Press, 2007, p. 423.
64
Cfr. per esempio M. BESCHLOSS, op. cit., p. 605.
65
Audio e trascrizione completa del testo del discorso reperibili nel
database del sito della JFKL.
66
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 607. Anche il laburista inglese Harold
Wilson, recandogli visita poco dopo, constatò che Kruscev era rimasto
estremamente impressionato dal fatto che JFK avesse detto in pubblico
quelle cose (ivi, p. 606).
67
Ivi. Su questo discorso di Kennedy e sul suo impegno per la pace nel
periodo post-CMC, si veda J. SACHS, To Move the World. JFK’s Quest for
Peace, Random House, New York, 2013, pp. 70-91.
68
A. FURSENKO – T. NAFTALI, Khrushchev’s Cold War, p. 523 (cui si deve
anche questa citazione di Bundy, rilasciata loro in una recente intervista).
69
M. BESCHLOSS, ivi, p. 606.
70
D. RUSK, op. cit., p. 246.
71
Mentre lo appoggiavano riguardo alla linea tenuta per Berlino. L.
FREEDMAN, op. cit., p. 174 (sondaggio di Lou Harris, comunicato al
Presidente all’inizio di ottobre).
72
Sondaggio Gallup effettuato il 18-9-1962 (cfr. M. KERN – P. LEVERING
– R. LEVERING, The Kennedy crises, University of North Carolina Press,
Chapel Hill, 1983, p. 100).
73
Col 61 per cento di contrari e il 15 per cento senza opinione. Cfr.
Tabella 13, p. 283 (T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and US public
opinion, in «Public Opinion Quarterly», vol. 67, Summer 2003). Il
sondaggio era stato effettuato a fine settembre. Tale dato rimarrà stazionario
anche dopo la CMC (febbraio 1963).
74
Cfr. tabella 16, ivi, p. 284 («likely to bring about an all out-war
between the United States and Russia»).
75
Cfr. Tabella 14A, ivi, p. 283. La seconda opzione (dopo «do
something short of actual war»), era «non so» (al 25 per cento), e subito
dietro le preferenze per l’astensione (riassunte sotto la formula «tenersene
fuori, giù le mani»: 22 per cento). Sul punto cfr. anche L. FREEDMAN, op. cit.,
p. 161.
76
«American Opinion Summary», DoS, Nov. 6, 1962. Riportato in
DNSA, CC02020.
77
About time – Reaction in Boston, in «Boston Globe», Oct. 23, 1962,
pp. 1 e 4.
78
T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and US public opinion, in «Public
Opinion Quarterly», vol. 67, Summer 2003, p. 271. Il sondaggio fu
effettuato in trenta aree diverse in tutto il Paese.
79
L. CHANG – P. KORNBLUH (a cura di), op. cit., p. 381.
80
Sidewalk poll of opinion on Cuba, in «San Francisco Chronicle», Oct.
29, 1962, p. 42. Il sondaggio fu realizzato in quella città durante la
settimana della crisi (non dopo la notizia dello smantellamento). Alla
domanda «Credi che il presidente Kennedy avesse ragione nello stabilire un
blocco di Cuba?», 126 rispondono «Sì» e solo 10 «No». Proporzioni
significative tanto più se si considera il realismo degli intervistati sui rischi
impliciti in quella decisione, che risulta dalle risposte alla domanda
successiva: «Credi che ciò possa portare alla guerra tra noi e russi?» I «Sì»
sono addirittura 75, i «No» 55. Infine, altri sondaggi realizzati sempre
quella sera dai quotidiani di Atlanta (Georgia), Kansas City (Kansas),
Baltimora (Maryland), Columbia (South Carolina) facevano analogamente
registrare una reazione favorevole al discorso di Kennedy. A. GEORGE, The
Cuban missile crisis, cit., p. 67.
81
MCG. BUNDY, op. cit, pp. 412-413.
82
Kennedy action on Cuba widely hailed, in «Los Angeles Times», Oct.
27, 1962, p. 12.
83
View of man-on street: Action on Cuba is long overdue, in
«Washington Post», Oct. 24, 1962, p. A6.
84
No crisis jitters, no rumors – Bostonians calmly wait for next move,
in «Boston Globe», Oct. 26, 1962, p. 23.
85
Collins urges display of flag daily in crisis, in «Boston Globe», Oct.
26, 1962, p. 36.
86
The nation rallies solidly behind President’s action, in «The New
York Times», Oct. 28, 1962 p. E4.
87
Blockade has support from Americans, in «The Dallas Morning
News», Oct. 24, 1962, p. 6. Il blocco «ha lo schiacciante supporto del
popolo americano». «90 miglia sono troppo vicine per girarsi dall’altra
parte con compiacenza. Dobbiamo prendere una posizione definita, e non
perdere la faccia agli occhi del mondo». «Forse», conclude l’articolo, «il
modo migliore di riassumere la reazione dell’America è dire che la
decisione di Kennedy ha calmato parecchie frustrazioni che erano andate
montando per mesi – la frustrazione di voler fare qualcosa riguardo a Cuba,
ma non voler andare in guerra».
88
Miamians say action ‘overdue’ – They like it, in «The Miami News»,
Oct. 23, 1962, p. 16A.
89
«American Opinion Summary», DoS, Nov. 6, 1962, reperibile in
DNSA, CC02020.
90
Kennedy’s firm stand stirs Conservative Indiana town, in «The
Washington Post», Oct. 24, 1962, p. C13.
91
Cuba action is welcomed in U.S. West, in «Washington Post», Oct.
24, 1962, p. A2.
92
Once secure Idaho now has jitters over Cuba – Pearl Harbor and
World War II eliminate bastion of isolationism that Borah knew, in «Los
Angeles Times», Oct. 25, 1962, p. 15.
93
Kansas isolationism melts in crisis, in «Christian Science Monitor»,
Oct. 30, 1962, p. 7. L’articolo proseguiva confermando anche qui un
tramonto dell’isolazionismo. L’agente della contea, sul posto da venticinque
anni, spiegava all’inviato «che questo non è più un paese isolazionista. […]
Ciò è cambiato. La gente si sta abituando alle crisi e alle tragedie globali.
[…] Dice che la gente non vede [più] la sede della contea come il proprio
mondo. La seconda guerra mondiale e ciò che è seguito, più la radio e la
televisione, portando le notizie mondiali, hanno davvero eliminato
l’isolazionismo».
94
48.000, secondo quanto annunciato dalla Casa Bianca il 25 ottobre, a
crisi ancora in corso («Le Figaro», Oct. 27-28, 1962, p. 8) e relativamente
ai soli telegrammi, senza cioè contare le lettere («Chicago Defender», Oct.
27, 1962, p. 2).
95
Questa la proporzione fornita dalla Casa Bianca (conferenza stampa
di Salinger del 25 ottobre: cfr. A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p.
XVIII). Più bassa ma sostanzialmente analoga quella riportata poi dal
biografo M. O’BRIEN, John F. Kennedy, St. Martin’s, New York, 2005, p.
666, ovvero 1 ogni 12.
96
JFKPL, White House Central Files, #6.5 (Overflow materials), Box
1413.
97
Questo, proveniente dal Vermont: «Caro Presidente, sono in gioco
Dio e i suoi figli per la salvezza di noi stessi, forgiati dagli insegnamenti
divini, i suoi scopi saranno realizzati più velocemente se noi spingiamo il
nostro bottone ora. Altrimenti, il suo lavoro diverrà un compito da un
milione di anni. Se ai pagani sulla Terra viene concesso dai suoi seguaci di
far pressione ed impiegare le loro forze pagane allo scopo di sterminare i
credenti nel Motore Immoto. Dio la benedica. Questo è il mio terzo
telegramma in sei mesi tutti senza risposta». JFKPL, White House Central
Files, #6.5 (Overflow materials), Box 1413.
98
JFKPL, White House Central Files, #6.5 (Overflow materials), Box
1413.
99
Theodore Roosevelt, prima di divenire presidente, era al
Dipartimento della Marina. Allo scoppio della guerra ispano-americana per
Cuba (1898), si dimise dall’incarico e si arruolò, comandando
personalmente un corpo di volontari (i «rough riders»). Tornò in patria
acclamato come un eroe.
100
Tutti questi messaggi si trovano in JFKPL, White House Central
Files, #6.5 (Overflow materials), Box 1523.
101
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 78. Riguardo a Dallas
(dove si registrarono vendite giornaliere stimabili in circa 200 bottiglie
d’acqua per negozio, contro le 25 vendute in un giorno normale), si vedano
Run on emergency supplies reported by Dallas stores, in «The Dallas
Morning News», Oct. 25, 1962, p. 9 e Dallas citizens continue rush to stock
food, water, in «The Dallas Morning News», Oct. 26, 1962 p. 9.
102
Wave of buying, in «Los Angeles Times», Oct. 25, 1962, p. 18.
103
Showdown, in «Time Magazine», Nov. 2, 1962.
104
Tra queste, St. Petersburg, Florida; Bakersfield, California;
Charlottesvile e Richmond, Virginia (A. GEORGE, Awaiting Armageddon…,
cit., pp. 79-80).
105
Crisis builds gun demand, in «The Dallas Morning News», Oct. 28,
1962, p. 15.
106
È il caso del membro dell’ExComm George Ball, come questi
ricorderà nelle sue memorie (The past has another pattern, pp. 304-305):
«Non potevo dire a [mia moglie] Ruth, né a chiunque altro, i dettagli di quel
che stava succedendo – anche se […] le avevo detto che doveva trasformare
la cantina in una piccola cella [anti]bomba, visto che io sarei stato portato
via ad un centro di comando segreto, se si fosse scatenato l’inferno. Non
volendo allarmare nessuno, lei aveva fatto dei preparativi esigui e quasi
patetici. Spostò in cantina un po’ di cibo in scatola, raccolse acqua in grandi
giare, fece una scorta di torce elettriche e nascose qualche libro da leggere
per lei e una Bibbia per il nostro cuoco nero, che era devotamente
religioso».
107
L’episodio è riportato in E. THOMAS, op. cit., p. 224 (l’assistente di
RFK era James Symington).
108
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., pp. 80 e XVIII.
109
Ivi, p. XVIII (dato del «Philadelphia Evening Bulletin»).
110
Ivi, p. 76; T. MAGA, The 1960s, Facts on File, New York, 2003, p. 78.
Cfr. anche: Churches urged to stay open, in «The Miami News», Oct. 24,
1962, p. 6A.
111
Su questi aspetti, seppure con attenzione particolare alla corrente di
predicatori ‘premillenaristi’, lo storico americano Paul Boyer ha scritto il
saggio When time shall be no more: Prophecy belief in modern American
culture, Harvard University Press, Cambridge, 1992, in cui dedica un intero
capitolo alle tematiche nucleari e nota (p. 123) che gli autori di profezie
sulla fine del mondo nei primi anni Sessanta «nutrivano e al contempo
sfruttavano la crescente tensione» della guerra fredda.
112
«The Washington Post», Oct. 27, 1962, p. C6; «Los Angeles Times»,
Oct. 27, 1962, pp. 17-18; «The New York Times», Oct. 26, 1962, p. 30 e
Oct. 27, 1962, p. 22.
113
Prayer sessions set up in crisis, in «Los Angeles Times», Oct. 27,
1962, pp. 17 e 19; «Boston Globe», Oct. 26, 1962, pp. 5 e 21.
114
Un incontro privato tra i cappellani di Washington tenutosi
all’indomani del discorso di Kennedy, per esempio, aveva evidenziato tra
loro un consenso ad esso. View of man-on street: Action on Cuba is long
overdue, in «Washington Post», Oct. 24, 1962, p. A6.
115
Cuban Crisis calls for repentance for past U.S. misdeeds, says
bishop, «Washington Post» e «The Times Herald», Oct. 24, 1962, ritaglio
conservato in JFKL, CIA FBIS (RG 263), Press clippings on Cuba, Reel 1,
2.
116
Sempre nell’ambito della Chiesa metodista, per esempio, a
differenza del summenzionato vescovo, il reverendo di Capitol Hill
sottolineava invece la necessità che i negoziati seguissero, non
precedessero, lo smantellamento delle basi. «Spero e prego che il Presidente
continuerà ad insistere». Prayer asked as Crisis abates, in «Washington
Post», Oct. 29, 1962, p. B2.
117
«Washington Post», Oct. 27, 1962, p. C7.
118
Chief Episcopal bishop backs Cuba-Turkey missile proposal, in «The
New York Times», 28 Oct. 1962, p. 32.
119
Harrington shifts topic to fit crisis, in «The New York Times», 29-
10-1962, p. 19. Il rev. Donald S. Harrington fu molto attivo per decenni
anche in politica, tra i liberali newyorchesi.
120
Più precisamente i telegrammi arrivarono dall’«American Friends
Service Committee» e da 35 membri dell’Università di Pennsylvania. Crisis
briefs, in «Boston Globe», Oct. 26, 1962, Evening edition, p. 5.
121
Tra i firmatari, i cardinali Spellman, Mac Intyre, Cushing. «Boston
Globe», Oct. 26, 1962, p. 21; «l’Unità», 27-10-1962, p. 3.
122
Rabbis ask unity behind Kennedy – Role of United Nations also
stressed in Cuba situation, in «The New York Times», Oct. 28, 1962, p. 88.
Questa posizione è del resto perfettamente in linea con l’internazionalismo
e le vedute liberal allora prevalenti nei gruppi ebrei USA (su cui si veda lo
studio statistico di A.O. HERO Jr., American Religious Groups View Foreign
Policy, Duke University Press, Durham, NC, 1973, pp. 80 e 201-204).
Minori erano invece le differenze rilevate in termini di politica estera tra
protestanti e cattolici USA (ivi, pp. 13, 47, 79), anche relativamente alla
possibilità di un intervento armato contro Cuba, appoggiato in quegli anni
da minoranze percentuali analoghe tra le due confessioni (ivi, pp. 103 e
314).
123
La stima (forse un po’ troppo alta per essere reale) è riportata, con
fonti, in A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 68.
124
S. WEART, op. cit, p. 264.
125
Prefazione di T. Clancy a N. POLMAR – J. GRESHAM, DefCon-2, cit., p.
IX.
126
L’episodio è raccontato da M. DOBBS, op. cit., p. 263.
127
Phone calls rise in Cuban crisis, in «Washington Post», Oct. 26,
1962 p. A8.
128
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 70.
129
«The New York Times», Oct. 25, 1962, p. 20.
130
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 72.
131
Ivi, p. 71; T. SMITH, The Cuban Missile Crisis, in «Public Opinion
Quarterly», vol. 67, Summer 2003, p. 272.
132
B. HENRY, Capital refuses to be panicked, in «Los Angeles Times»,
Oct. 26, 1962, Section B.
133
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 86.
134
K.D. ROSE, One Nation Underground, New York University Press,
New York, 2001, p. 27.
135
Ivi, p. 84.
136
Ivi, pp. 93-100.
137
Ivi, p. 98; cfr. anche A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 34.
138
K. ROSE, op. cit., p. 1 e 187.
139
Per la data, ivi, pp. 128-129.
140
A conferma di questo, si veda la battuta circolante in quegli anni
(riportata in S. WEART, op. cit., p. 240): se arriva un attacco, «get down on
the floor, put your head between your knees […] and kiss your ass
goodbye».
141
K. ROSE, op. cit., p. 194. Sempre tre settimane prima della CMC si
era conclusa l’Operazione Spade Fork, esercitazione delle misure da attuare
in caso di guerra nucleare per assicurare la continuità del governo. T. DAVIS,
Continuity of Government Measures for Civil Defense during the Cuban
Missile Crisis, in The Atomic Bomb and the American society. New
Perspectives, a cura di R.B. Mariner – K. Piehler, University of Tennessee
Press, Knoxville, 2009, pp. 153-184.
142
A. GEORGE, op. cit., p. 62.
143
K. ROSE, op. cit., pp. 198-200.
144
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 72.
145
Cfr. per esempio K. ROSE, op. cit., p. 199: «contrassegnando
freneticamente rifugi pubblici a Los Angeles al ritmo di sei al giorno».
146
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 62.
147
Ivi, p. 66. Questa misura era annunciata in un comunicato stampa
governativo del 27 ottobre. In esso tra l’altro si notava con soddisfazione
che «la reazione del popolo americano all’attuale tensione internazionale
mostra che come nazione siamo preparati ad affrontare […] le ricorrenti
minacce con cui conviviamo» (cfr. A. GEORGE, The Cuban missile crisis, p.
147).
148
Fallout shelters, in «Chicago Defender», Nov. 12, 1962, p. 12.
149
Should disaster strike, here’s what you’d need, in «The Dallas
Morning News», Oct. 25, 1962, p. 9.
150
Eccoli: «Se dopo un’esplosione nucleare pensate di avere fallout su
di voi, il portavoce della CD [Civil Defense] consiglia di rimuovere il vostro
indumento esterno fuori dal rifugio o dall’edificio usato come rifugio e
lasciarlo lì […] Una persona esposta [al fallout] non è essa stessa
radioattiva […] a meno che non abbia fallout sulla sua pelle o abito. Ciò
può venir rimosso lavando la pelle e abbandonando l’abito. Se non c’è
spazio di rifugio disponibile, il portavoce della CD dice che il posto
migliore per proteggersi sarebbe probabilmente: 1) nell’angolo della
cantina; 2) al centro della cantina (sacchi di sabbia a copertura delle finestre
aumenteranno la protezione); […]». CD men give shelter tips for fallout, in
«The Dallas Morning News», Oct. 25, 1962, p. 9.
151
Come quella di abbassare i finestrini se l’attacco nucleare fosse
giunto mentre si era in macchina (Here are steps you should take now, in
«The Miami News», Oct. 28, 1962, p. 9A) o la seguente, che sarebbe
senz’altro piaciuta a Stanley Kubrick: «Preparate una scorta di scodelle,
tazze e piatti di carta, perché potreste non essere in grado di lavare i piatti,
cosa che non dovrebbe avere cattivo effetto sul morale dei familiari più
giovani. Essi potrebbero anche gustare cibi che in genere scartano, in
un’atmosfera di pasto da picnic» (Be prepared – But don’t buy with panic,
in «The Miami News», Oct. 25, 1962, p. 2C).
152
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 83. Le precauzioni
considerate da quello studio, condotto dalla Civil Defense nove mesi dopo
la CMC, erano ampiamente intese, includendo anche l’aver parlato in
famiglia delle possibilità di evacuazione, l’aver contattato autorità locali di
Protezione Civile, l’aver considerato modi per adibire parti della propria
casa a rifugio, ecc. (si noti che T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and US
public opinion, in «Public Opinion Quarterly», vol. 67, Summer 2003, p.
272, cita invece un altro studio secondo cui solo il 4 per cento degli
americani si impegnò in una qualche attività legata alla sicurezza o
sopravvivenza).
153
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 20.
154
Citato ivi, p. 72.
155
D. DETZER, op. cit., p. 194; D. GARRISON, Bracing for Armageddon.
Why Civil Defense never worked, Oxford University Press, New York,
2006, p. 126.
156
K. ROSE, op. cit., p. 200.
157
Riportato ivi, p. 201. Da segnalare inoltre il commento di un uomo
d’affari californiano, che durante la crisi dichiarò a un cronista: «Trovo una
enorme quantità di gente che sta diventando fatalista […] Sono rassegnati al
fatto che, quando arriva [la bomba], i rifugi da fallout non serviranno a un
granché». «Los Angeles Times», Oct. 28, 1962, p. 9, Section A.
158
Cfr. S. WEART, op. cit., p. 262. (Per un’opinione parzialmente diversa,
si veda ora D. MONTEYNE, Fallout Shelter: Designing for Civil Defense in the
Cold War, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2011, pp. 41-42,
secondo cui anche negli anni successivi alla CMC i rifugi pubblici
continuarono ad essere approntati da parte del governo, al di là
dell’interesse del pubblico sul tema).
159
«meaningless»: questo l’aggettivo usato da George sia all’inizio sia
alla fine del suo libro sul tema. A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., pp.
1 e 167.
160
K. ROSE, op. cit., p. 212. Sulla perdita di interesse verso le armi
nucleari e i loro rischi negli anni dopo la CMC, si veda anche P. BOYER,
From activism to apathy: The American people and nuclear weapons,
1963-1980, in «The Journal of American History», vol. 70, n. 4, March
1984.
161
S. WEART, op. cit., p. 259.
162
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 139.
163
S. WEART, op. cit., p. 259.
164
T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and U.S. Public, in «Public
Opinion Quarterly», vol. 67, Summer 2003, pp. 271-272.
165
M. HENRIKSEN, op. cit., pp. 236-237.
166
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 154.
167
Ivi, p. 152: «If the Russians attack during my history test, I’m going
to be really upset».
168
The President’s next TV speech – Memorandum for Ted Sorenson
(sic!), Oct. 27, 1962, Sorensen Papers, Box 36, JFKL (i due termini erano
enfatizzati in corsivo nel documento di Neustadt).
169
Truthful answers best in crisis, experts say, in «The New York
Times», Oct. 25, 1962, p. 44.
170
What can parents tell their children in crisis? – Psychiatrists give
advice, in «Boston Globe», Oct. 25, 1962, pp. 1 e 10.
171
«Quanto agli effetti del fallout radioattivo su questa e le future
generazioni di bambini», proseguiva l’articolo, «il dottor Spock ha detto: ‘I
pericoli […] sono noti a noi tutti. Abbiamo forse una dozzina d’anni per
cambiare l’attuale corso mortale della storia’». ‘Don’t panic’ on Cuba
crisis, children feel your fears’ – Dr. Spock tells parents, in «Boston
Globe», Oct. 26, 1962, p. 36. Per una trattazione delle attività di Spock
nella sensibilizzazione su tali problemi, cfr. L. WITTNER, Resisting the
Bomb…, cit.
172
What can parents tell their children in crisis? – Psychiatrists give
advice, in «Boston Globe», Oct. 25, 1962, pp. 1 e 10.
173
Commento riportato in A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p.
4.
174
Ivi, pp. 103-104.
175
Their bases and ours, in «Time Magazine», Nov. 2, 1962.
176
Cfr. T. MAGA, op. cit., p. 102; fotografie della manifestazione; A.
GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 159.
177
A. SWERDLOW, Women Strike for Peace, University of Chicago Press,
Chicago, 1993, p. 90.
178
«nello spirito delle proposte di mediazione di U Thant», diceva il
messaggio. L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 258 (cfr. anche
l’appello del 22 ottobre riportato in «I.F. Stone Weekly», Oct. 29, 1962, p.
2).
179
H. ALONSO, Peace as a women’s issue, Syracuse University Press,
New York, 1993, p. 282.
180
La dichiarazione inoltre continuava a esprimere «profondo
rammarico» per il blocco e auspicava che i nuovi propositi di negoziare «il
disarmo non solo a Cuba, ma pure in Turchia e altrove» venissero tradotti in
realtà. «I.F. Stone Weekly», Nov. 5, 1962, p. 3.
181
Kennedy action on Cuba widely hailed, in «Los Angeles Times»,
Oct. 27, 1962, p. 12.
182
«I’ve been worried sick all week about Cuba. I guess I’m crying for
joy», in «The Dallas Morning News», Oct. 28, 1962, p. 22.
183
Per una trattazione più esaustiva di questo aspetto, rimandiamo al
nostro L. CAMPUS, Missiles have no colour. African Americans’ reactions to
the Cuban missile crisis, in «Cold War History», Feb. 2015 (già reperibile
sul loro sito). Qui ci limitiamo ad anticiparne alcuni tratti, necessari a
comprendere il generale quadro nazionale.
184
Cifre ricavate da We, The American Blacks, «U.S. Census Bureau»,
1993, p. 4 (www.census.gov/apsd/wepeople/we-1.pdf). Cfr. anche
www.infoplease.com/ipa/A0922246.html.
185
Basti dire che molte scuole ed università bandivano l’accesso agli
studenti neri e che toilette, ristoranti e sedili dei bus erano spesso
esplicitamente separati, per whites only e per colored.
186
M. DOBBS, op. cit., pp. 181-182; A. GEORGE, Awaiting Armageddon…,
cit., p. 104. (Sulla figura di Robert F. Williams, cfr. anche T. TYSON, Radio
Free Dixie: Robert F. Williams and the Roots of Black Power, University of
North Carolina Press, Chapel Hill, 2001.)
187
«Jet», Nov. 8, 1962, p. 12.
188
Castro and K went too far, in: «Baltimore Afro-American», Oct. 27,
1962, p. 4. Sulla stessa testata si veda anche President had to do it, Nov. 3,
1962, p. 1.
189
Rally around, in «New York Amsterdam News», Oct. 27, 1962, p.
12.
190
Harlemites backing President’s stand, in «New York Amsterdam
News», Oct. 27, 1962, p. 1.
191
Nel maggio 1961, infatti, rispondendo a un intervista, egli aveva
detto: «Credo che il nostro Paese abbia reso un disservizio non solo ai suoi
cittadini, ma all’intera umanità, nella gestione dell’affare cubano. C’è una
rivolta in tutto il mondo contro il colonialismo, la dittatura reazionaria e i
sistemi di sfruttamento. A meno che noi, come nazione, ci uniamo alla
rivoluzione e torniamo indietro allo spirito rivoluzionario che ha
caratterizzato la nascita della nostra nazione, temo che verremo relegati a
essere una potenza di seconda classe nel mondo, senza alcuna vera voce
morale per parlare alla coscienza dell’umanità». King inoltre aggiunse il
suo nome a una petizione che condannava il tentato sbarco. B.G. PLUMMER,
Castro in Harlem, in A. HUNTER (a cura di), Rethinking the Cold War,
Temple University Press, Philadelphia, 1998, p. 147.
192
«Jet», Nov. 8, 1962, p. 17.
193
Sul punto, cfr. A. FAIRCLOUGH, Martin Luther King, Jr. and the war in
Vietnam, in M. KRENN (a cura di), The African American voice in U.S.
foreign policy since the World War II, Garland Publishing, New York, 1998,
pp. 255-277.
194
M.L. KING, New year hopes, in «New York Amsterdam News», Jan.
5, 1963. Un altro monito ai trionfalismi eccessivi dell’opinione pubblica
venne da un’altra fonte afroamericana, il quotidiano «Chicago Defender»
(The voice of wisdom, Dec. 11, 1962, p. 12).
195
B. MAYS, My view: I support the President, in «Pittsburgh Courier»,
Nov. 10, 1962, p. 14.
196
Drop Jim Crow setup in New Orleans Civil Defense, in «Jet», Nov.
8, 1962, p. 10.
197
Courier survey shows population behind JFK’s stand, in «Pittsburgh
Courier», Oct. 27, 1962, p. 1.
198
«Un periodo della storia americana ha chiuso i battenti lunedì 22
ottobre e uno nuovo è cominciato in un’atmosfera di rabbia, confusione e
paura profondamente radicata. […] Questa era brinkmanship nella sua
forma più nuda – dare del bugiardo al capo del governo sovietico di fronte
all’attenzione del mondo […] Così, se la brinkmanship di Kennedy sia stata
accorta o sconsiderata resta da vedere; nel frattempo il Paese si raduna
dietro di lui, che lo vogliamo o no. Perché questo è il nostro Paese – l’unico
che mai avremo; egli è il nostro Presidente, che abbiamo o meno votato per
lui. Una cosa è certa – faremo meglio a indirizzare le nostre più profonde
preghiere perché gli venga conferita saggezza […] Perciò, preghiamo». (L.
GRANGER, Manhattan and beyond, in «New York Amsterdam News», Nov.
3, 1962, p. 3).
199
Philip Randolph Papers, M 4321, Reel 2. John F. Kennedy Institute,
Berlin.
200
All true American back JFK in crisis, in «Chicago Defender», Nov.
3, 1962, p. 8.
201
I spied on Castro’s Cuba, in «Ebony», Apr. 1963, pp. 1 e 115-123.
Cfr. analogamente il «Negro Digest», March 1965, p. 19.
202
«Washington Afro-American», Oct. 30, 1962, p. 8.
203
L’episodio è raccontato dall’afroamericana Angela Davis, che era
nell’uditorio: «Aveva appena cominciato a parlare che giunse come un
fulmine a ciel sereno la notizia che il mondo era sull’orlo dell’abisso della
terza guerra mondiale. […] James Baldwin annunciò che non poteva
continuare la conferenza senza contravvenire alla sua coscienza morale e
abdicare alle sue responsabilità politiche». Cfr. A. DAVIS, Autobiografia di
una rivoluzionaria, Garzanti, Milano, 1975, p. 128.
204
Baldwin connects race relations in U.S. to international affairs, in
«Crimson», Oct. 26, 1962.
205
Baldwin portrays urgency of Negro Problem in U.S., in «Crimson»,
Nov. 9, 1962. (Lo stesso sguardo internazionalista di Baldwin motivava
anche il dissenso della futura attivista afroamericana Angela Davis, di cui
parleremo tra poche pagine. A. DAVIS, Autobiografia di una rivoluzionaria,
pp. 128-129 e 216.)
206
G. SCHUYLER, The world today, in «Pittsburgh Courier», Nov. 24,
1962, p. 12.
207
MALCOLM X, Malcolm X speaks, Pathfinder, New York, 1969, p. 183.
208
Su questi legami si è sviluppata una recente storiografia, tra cui si
vedano M. DUDZIAK, Cold war civil rights: race and the image of American
democracy, Princeton University Press, Princeton, NJ, 2000; T.
BORSTELMANN, The Cold War and the Color Line: American Race Relations
in the Global Arena, Harvard University Press, Cambridge, 2001.
209
Basti pensare alla parola d’ordine adottata dagli afroamericani
durante la seconda guerra mondiale: Double V, cioè una doppia vittoria,
contro il nazifascismo all’estero e contro il razzismo in USA – oppure al
supporto dato dagli afroamericani anche nella guerra di Corea, nonostante
le persistenti discriminazioni razziali nelle truppe. Cfr. rispettivamente J.
ROSENBERG, How far the Promised land, Princeton University Press,
Princeton, 2006, p. 279 e S. CASEY, Selling the Korean War, Oxford
University Press, New York, 2008, p. 321.
210
Il sindaco di Chicago aveva ricordato che ai tempi di Theodore
Roosevelt le truppe nere e bianche avevano lottato insieme per
l’indipendenza di Cuba dalla Spagna. Il sindaco di Dallas aveva invitato la
popolazione nera a unirsi ai bianchi nel presentare «al mondo un fronte
unito». Istanze analoghe erano trapelate anche da funzionari della Casa
Bianca, preoccupati da possibili episodi fonte di imbarazzo internazionale
durante la crisi. «Jet», Nov. 8, 1962, p. 15.
211
«Jet», Oct. 25, 1962, pp. 12-13. In questo slogan la critica alle azioni
intraprese da JFK in favore dello studente afroamericano si mischiava
all’insoddisfazione per la poca fermezza mostrata invece, a loro avviso,
contro Cuba.
212
Halt segregation of troops called for Cuba, in «Chicago Defender»,
Nov. 3, 1962, p. 1.
213
La crisi di Little Rock era relativa all’ammissione di nove studenti
neri in un liceo locale fin lì riservato ai bianchi, nell’ambito delle nuove
leggi per la desegregazione delle scuole pubbliche. Fu uno degli episodi più
noti della lotta per i diritti civili.
214
Daisy Bates praises Kennedy’s Cuba stand e Daisy Bates finds race
proud of Kennedy’s firm stand on Cuba, in «Chicago Defender», Nov. 3,
1962, p. 1. La dichiarazione di supporto della Bates fu giudicata così
importante da costituire il titolo di apertura in prima pagina sulla testata
afroamericana.
215
The spotlight is diverted but rights fight goes on, in «Jet», Nov. 8
1962, pp. 14-17.
216
Robert Kennedy links Cuban and Rights crises, in «The New York
Times», Oct. 29, 1962, p. 10. Cfr. anche RFK links bias to Russia tension,
in «New York Amsterdam News», Nov. 3, 1962 e Robt. Kennedy links
Cuban crisis, Rights Crisis, in «Jet», Nov. 8, 1962, p. 4.
217
T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and U.S. Public, in «Public
Opinion Quarterly», Summer 2003 p. 274.
218
M. BESCHLOSS, op. cit., p. 573.
219
T. SMITH, The Cuban Missile Crisis and U.S. Public, in «Public
Opinion Quarterly», Summer 2003, pp. 269 e 280 (Tabella 10); A. GEORGE,
Awaiting Armageddon…, cit., p. 118.
220
Ivi, pp. 5 e 18.
221
Rally held here by 8,000 pacifists, in «The New York Times», Oct.
29, 1962, p. 20.
222
U THANT, op. cit., pp. 180-181.
223
Nonché, secondo L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 259, «la
più grande manifestazione pacifista all’aperto [mai tenutasi] in America
fino a quel momento».
224
J. D’EMILIO, Lost prophet: the life and times of Bayard Rustin, Simon
& Schuster, New York, 2003, p. 322.
225
Il telegramma del SANE invitava U Thant a recarsi personalmente a
Cuba così da «diminuire la possibilità di un’invasione o bombardamento
statunitense delle basi cubane» (Cfr. 1400 picket White House, each other,
in «Washington Post», Oct. 28, 1962, p. A8), mentre il comunicato
pubblicato a proprie spese sul «New York Times» era intitolato Sig.
Presidente: ci aiuti ad appoggiarla (Oct. 28, 1962, p. 59) e affermava:
«Vorremmo essere in grado di sostenerla con convinzione […]. Ma […] se
è così sbagliato per l’Unione Sovietica installare una base nucleare a Cuba,
così vicino alle nostre sponde, allora perché è giusto per il nostro Paese
avere (e aver avuto per molti anni) basi nucleari in Turchia, che è
direttamente al confine sovietico?».
226
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 248. Infine il SANE si
rivolse anche al Soviet Peace Committee, sempre dalle colonne del New
York Times, per chiedergli di esercitare pressioni analoghe sul rispettivo
governo («Oggi abbiamo chiesto al nostro governo […] di sospendere il suo
blocco di Cuba. Vi invitiamo a chiedere al vostro governo di […] fermare le
imbarcazioni»). «The New York Times», 25-10-1962. Reperibile in SANE
RSC http://roosevelt.nl/topics/presentatie_on_cuba_final.pdf
227
The British Gandhi, in «New Statesman», May 1, 2006.
228
Rally held here by 8,000 pacifists, in «The New York Times», Oct.
29, 1962, p. 20.
229
T. SORENSEN, Counselor…, cit., p. 5.
230
Pickets parade at White House, in «The New York Times», Oct. 28,
1962, pp. 1 e 32.
231
(Relativamente a costui, il quotidiano della capitale riferiva anche di
sue «scritte su Dio e lo spazio». 1400 picket White House, each other, in
«The Washington Post», Oct. 28, 1962, p. A8.)
232
Pickets parade at White House, in «The New York Times», Oct. 28,
1962, pp. 1 e 32.
233
Students back, berate blockade – Peace proponents egged, in
«Boston Globe», Oct. 25, 1962, p. 8.
234
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 161. L’università in
questione era la Cornell University, di Ithaca, NY. I minutemen erano un
gruppo della destra radicale che stava perfino raccogliendo beni in vista
della guerriglia da combattere in caso di un’invasione comunista degli
USA.
235
Students back, berate blockade – Peace proponents egged, in
«Boston Globe», Oct. 25, 1962, p. 8.
236
«San Francisco Chronicle», Oct. 28, 1962, p. 2 (foto).
237
Students back, berate blockade – Peace proponents egged, in
«Boston Globe», Oct. 25, 1962, p. 8.
238
The nation rallies solidly behind President’s action, in «The New
York Times», Oct. 28, 1962, p. E4.
239
San Francisco Chronicle», Oct. 28, 1962, p. 12 (foto e didascalia).
240
On Cuba, in «Crimson», Oct. 23, 1962.
241
Students boo groups hitting Cuba blockade, in «Los Angeles
Times», Oct. 25, 1962, p. 15.
242
Don’t keep your mouth shut!, in «The Nation», Nov. 10, 1962, pp.
298-299.
243
Dello stesso avviso A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., pp. 158
e 163.
244
T. GITLIN, The Sixties – Years of hope, days of rage, Bantam, New
York, 1987 (da cui sono tratti anche i seguenti passi).
245
M. HENRIKSEN, op. cit., pp. 238-239.
246
Dello stesso avviso la lettera inviata in quelle settimane a Gitlin da
Paul Potter, anch’egli poi divenuto presidente del SDS: «ci si sentiva parte
di una piccola ma molto giusta minoranza. Frustrazione enorme per la
nostra incapacità di convincere la gente» (T. GITLIN, op. cit., p. 102 nota).
247
Qui Gitlin si fermava a spiegare il motivo della divisione interna:
«Stando alla visione dominante nel Tocsin, che io condividevo, questa era
semplicemente il tipo di emergenza che la corsa agli armamenti era
destinata a produrre. I missili di Kruscev erano analoghi ai missili
americani in Turchia; erano una scorciatoia per raggiungere gli americani.
Poiché i missili non rappresentavano un chiaro pericolo alla vita e
all’incolumità americana (i russi avevano già gli ICBM, dopo tutto), il
blocco era indifendibile. [Invece] I marxisti […] dissero che il cuore del
problema era che Kruscev stava cercando di proteggere Cuba. Come
potevamo opporci al blocco di Kennedy, volevano sapere, senza al tempo
stesso sollevarci in difesa della Rivoluzione cubana, che ne era il vero
obiettivo?». Insomma, la divisione nel Tocsin verteva sostanzialmente
sull’interrogativo da noi riassunto nel punto 11 del capitolo Capire la crisi:
perché Kruscev aveva portato a Cuba quei missili? Per le motivazioni da
noi chiamate b) e d) (come riteneva Gitlin), o piuttosto per la motivazione
a) (come dicevano i marxisti)? Il problema che animerà per decenni il
dibattito storiografico si era posto con chiarezza agli studenti di Harvard sin
dalla sera stessa del discorso di JFK…
248
Il discorso di King non riguardava la crisi: era intitolato The future of
integration. Esso si tenne nei locali della Harvard Law School, come
emerge da un articolo su «Crimson», Oct. 25, 1962.
249
Chamberlain era il premier britannico colpevole, negli anni Trenta,
dell’appeasement verso Hitler. L’ombrello nero che spesso portava con sé
aveva finito per diventare il suo simbolo.
250
L’espressione «destructive criticism of a destructive system» viene
scelta da Gitlin anche come titolo dell’intero paragrafo del suo libro, a
conferma della sua rilevanza come momento di svolta.
251
T. GITLIN, op. cit., pp. 98-101.
252
«Students for a Democratic Society» si era espresso per la prima
volta pochi mesi prima, con la dichiarazione di intenti denominata Port
Huron Statement, dal nome della località del Michigan ove tale manifesto
era stato stilato (cfr. F. ROMERO, Storia della Guerra Fredda, Einaudi, Torino
2009, p. 172). Vi si proponeva un’«agenda per una generazione», la quale,
dicendosi consapevole di poter essere «l’ultima generazione che fa
l’esperimento della vita», si poneva ambiziosi obiettivi di rinnovamento, tra
cui il «disarmo universale controllato» al posto della deterrenza: giacché «la
simmetria di minaccia e controminaccia conduce non alla stabilità, ma sul
ciglio dell’inferno». Considerando che il manifesto era stato stilato nel
giugno 1962, quest’accenno può apparire profetico (testo completo:
http://coursesa.matrix.msu.edu/~hst306/documents/huron.html).
253
L’esperienza dei teach-in, pressappoco assimilabili a dibattiti
universitari aperti su temi d’attualità, tornerà con maggior fortuna negli anni
del Vietnam.
254
A. DAVIS, op. cit., pp. 128-129.
255
Questa la definizione di Hoffman data dal suo biografo (J. RASKIN,
For the hell of it, University of California Press, Berkeley, 1996, p. XVIII).
Non a caso Hoffman compare in due celebri film sull’America di quegli
anni: Nato il quattro luglio (dove recita se stesso) e Forrest Gump
(impersonato da un attore mentre tiene un discorso a un’enorme folla al
Washington Mall).
256
A. HOFFMAN, Ho deriso il potere, ShaKe, Milano, 2009, pp. 43-44. Lo
stesso Hoffman, del resto, in quei giorni con un amico «parlava della fine
del mondo». J. RASKIN, op. cit., p. 46.
257
Così anche secondo il noto giornalista I.F. STONE. «I.F. Stone
Weekly», Nov. 19, 1962, p. 3.
258
A. HOFFMAN, ivi, p. 44.
259
J. RASKIN, op. cit., pp. 45-46.
260
M. GILMOZZI, Il giornalismo fra cronaca e partecipazione, in S.
ROMANO (a cura di), Giornalismo italiano…, cit., p. 89.
261
M. KERN – P. LEVERING – R. LEVERING, op. cit., p. 114.
262
What should Doctrine Monroe mean? Blockade, in «Life», Sept. 21,
1962, p. 4.
263
Proprio in quelle settimane, inoltre, JFK aveva ribattuto così a un suo
collaboratore che la invocava: «La dottrina Monroe… Cosa diavolo è?» (M.
BESCHLOSS, op. cit., p. 453). Quanto a Kruscev, egli l’aveva già
pubblicamente definita un cadavere, che come tale andava solo sepolta
affinché non continuasse ad ammorbare l’aria.
264
M. KERN – P. LEVERING – R. LEVERING, op. cit., pp. 123-124.
265
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 1.
266
The President and the Press, in «Crimson», Oct. 30, 1962.
267
L’articolo concludeva dicendo che «Sarebbe il più tragico errore di
tutta la storia – tragico per tutta l’umanità – se i governanti dell’Unione
Sovietica nel loro testare malgiudicassero la determinazione americana a
tenere le capacità offensive russe fuori da quest’emisfero». Quarantine on
Cuba, in «The New York Times», Oct. 23, 1962, p. 36.
268
A Time for diplomacy, in «The New York Times», Oct. 26 1962, p.
10E.
269
Cfr. «Washington Post», The Soviet response, Oct. 24, 1962 p. A22;
Reasoned responses, Oct. 25, 1962, p. A24; Reply to U Thant, Oct. 26,
1962, p. A18; Looking beyond Cuba, Oct. 27, 1962, p. A12; Cuba in a
global setting, Oct. 28, 1962.
270
The American character, in «Christian Science Monitor», Oct. 24,
1962, p. 14.
271
Cronkite lo ha ricordato nel 2004: dovendo informare «il popolo
americano su quel che sembrava un imminente scambio nucleare, il cui
orrore era ben evidente […] non potevamo riportarlo nella sua reale
profondità. Se lo avessimo fatto, non so cosa sarebbe successo… Nessuno
diceva: e perciò bruceremo, o: le loro città saranno distrutte […]» (A.
GEORGE, The Cuban missile crisis, cit., p. 83).
272
M. KERN – P. LEVERING – R. LEVERING, op. cit., p. 129.
273
La generica e colloquiale espressione con cui Lippmann indicò ciò
all’ambasciatore sovietico è «caught it hot» (cfr. A. GEORGE, Awaiting
Armageddon…, cit., pp. 101-102; L. FREEDMAN, op. cit., p. 457 nota).
274
Cfr., in tal senso, M. KERN – P. LEVERING – R. LEVERING, op. cit., pp.
129-130; M. WASNIEWSKI, op. cit., p. 211.
275
«Merda!», pare abbia esclamato apprendendo di quell’editoriale (cfr.
R. REEVES, op. cit., p. 405). M. WASNIEWSKI, op. cit., p. 208 aggiunge il
ricordo del consigliere Walt Rostow, da lui intervistato, secondo cui il
Presidente si lamentò che il pezzo di Lippmann aveva «quasi mandato
all’aria la cosa».
276
Cfr. M. WASNIEWSKI, ivi, p. 630.
277
W. LIPPMANN, The Cuban agreement, in «Washington Post», Oct. 30,
1962, p. A13.
278
Uncle Sam calls shots in the Cold War, in «The Dallas Morning
News», Oct. 29, 1962, p. 1.
279
Dovendosi limitare ai titoli: Cuba: Let’s have the whole truth,
«Life», Oct. 5, 1962; A new resolve to save old freedoms, «Life», Nov. 2,
1962; The might we aimed at Cuba, «Life», Dec. 7, 1962.
280
A triumph of reason, in «The New York Times», Oct. 29, 1962, p.
28.
281
A new shaft of sunlight, in «Washington Post», Oct. 29, 1962, p.
A14.
282
The continuing crisis, in «Washington Post», Oct. 30, 1962, p. A12.
Sul significato del riferimento ai «cannoni di agosto» si veda capitolo Il
nodo della guerra, p. 90.
283
frase tratta da «The New Yorker» e riportata in «American Opinion
Summary», DoS, Nov. 21, 1962, DNSA, CC02352.
284
La ragione di tale scelta era, a quanto pare, di contenere i rischi di
escalation. «Se devo affondare una di quelle navi russe – avrebbe confidato
Kennedy – non voglio foto di russi che annegano sulle prime pagine dei
giornali di tutto il mondo. Renderà solo più difficile sistemare le cose» (cit.
in E. WEINTAL – CH. BARTLETT, Facing the brink, Hutchinson, London, 1967,
p. 68). È un’altra conferma delle influenze reciproche esistenti tra corso
degli eventi e loro percezioni pubbliche.
285
«Il governo USA ha introdotto inusuali misure di controllo sulla
stampa. In sostanza è stata introdotta in grande misura un’informale
censura». Dobrynin to Soviet Foreign Ministry, 25-10-1962, (CWIHP
Virtual Archive).
286
«Generation of news by government becomes one weapon in a
strained situation. The results, in my opinion, justify the means» fu la frase
del portavoce dell’assistente segretario alla Difesa Arthur Sylvester che
scatenò la polemica (sul punto, oltre a quanto già accennato nella Premessa,
si vedano P. SALINGER, With Kennedy, cit., pp. 286-302; A. GEORGE, Awaiting
Armageddon…, cit., pp. 106-109; D. COLEMAN, The fourteenth day, Norton
& Co., New York, 2012, pp. 55-77 e 150-163). A ciò si sommi l’infelice
notazione – che se fosse divenuta nota all’epoca avrebbe certo aumentato le
polemiche – di un assistente militare alla Casa Bianca (generale Chester
Clifton), che in un documento governativo del 22 ottobre chiese se ci fosse
«un piano per informare e fare il lavaggio del cervello alla stampa chiave
[brief and brainwash key press]» (M. DOBBS, op. cit., p. 380). Nel
complesso, comunque, come scrisse «Time Magazine» (Classic conflict:
The President and the Press, Dec. 14, 1962, p. 69), a scatenare quella
controversia non era stato tanto il fatto che il governo avesse cercato di
gestire il flusso di notizie (anche in passato i presidenti in qualche misura lo
avevano fatto), bensì che si rivendicasse esplicitamente il diritto a farlo: «un
errore tattico», questo, che, agli occhi dei media, già soggetti in quei giorni
a pesanti limitazioni, «fu come sfregare il sale su una ferita».
287
«Le dichiarazioni del governo avranno una minore credibilità in ogni
futura crisi e i cittadini si chiederanno se ciò che gli viene detto è la verità o
quel che il governo pensa [che] influenzerà favorevolmente gli eventi».
News as a weapon, «Washington Post», Nov. 1, 1962, p. A24.
288
A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 108. Inoltre «I reporter
non ritennero più che mettere in questione linee politiche potesse essere
equivalente a un tradimento» della patria (ivi, pp. 113-114). Anche Romano
ha scritto, a proposito di quegli anni, che «da allora la stampa americana è
divenuta più spregiudicata e ‘irresponsabile’». S. ROMANO (a cura di),
Giornalismo italiano…, cit., p. 29.
289
«Forse se aveste pubblicato di più riguardo all’operazione [Baia dei
Porci] ci avreste salvato da un errore colossale», confidò JFK al giornalista
del «New York Times» Taylor Catledge. Ribadì il concetto all’editore, Orvil
Dryfoos: «Vorrei che aveste pubblicato tutto su Cuba» (cit. in J.
RASENBERGER, The brilliant disaster, Scribner, New York, 2011, p. 384). Per
tre resoconti complessivi della vicenda (il secondo dei quali sostenente
addirittura l’inesistenza dell’intero episodio), si vedano: V. BERNSTEIN – J.
GORDON, The press and the Bay of pigs, in «The Columbia University
Forum» (Fall 1967); J. CAMPBELL, Getting it wrong, University of California
Press, Berkeley, 2010, pp. 68-85 e PH. SEIB, Headline Diplomacy: How
news coverage affects foreign policy, Greenwood Publishing, Westport, CT,
1996, pp. 70-78. La condivisibile conclusione di Seib è che mentre nel caso
della Baia dei Porci la concessione fatta dalla stampa al Presidente «era
stata un errore» che era andato a coprire l’«incompetenza governativa», nel
caso della CMC la scelta poteva considerarsi corretta e responsabile, date le
diverse circostanze e il rischio di guerra nucleare.
290
Anche in questo caso non mancò qualche critica retrospettiva. Il
giornalista di sinistra James Aronson sostiene che mantenendo il segreto di
fronte a un’azione illegale come il blocco, di fatto «la stampa […] rifiutò di
esercitare la propria responsabilità di frenare un governo sconsiderato». J.
ARONSON, The press and the cold war, Bobbs-Merrill Co., Indianapolis,
1970, pp. 170-179.
291
D. DETZER, op. cit., p. 162.
292
Nel 1977, anche il segretario di Stato Henry Kissinger affermerà che
«i giorni in cui statisti e giornalisti coesistevano in un’atmosfera di fiducia e
condividevano confidenze hanno lasciato spazio ad uno stato di quasi
perenne inchiesta […]» (PH. TAYLOR, Global communications, international
affairs and the media since 1945, Routledge, New York, 2007, p. 58).
293
D. HESSE sul «St. Louis Globe-Democrat», ripubblicata in «Time
Magazine», Dec. 14, 1962 p. 69
294
Cfr. D. DETZER, op. cit., p. 191.
295
On Cuba, in «Crimson», Oct. 23, 1962, senza firma e dunque
espressione del comitato di redazione. Si noti però che perfino in
quest’articolo critico verso il blocco, la presenza dei missili a Cuba veniva
definita a chiare lettere come «intollerabile». Il che conferma che anche ove
si dissentiva sui modi usati per ottenerne la rimozione, la possibilità di
convivere con quei missili restava comunque fuori questione. La
prospettiva di razzi sovietici vicino alla Florida era semplicemente
inaccettabile per gli americani, per quanto si potesse far notare loro che da
anni i russi convivevano con analoghe razzi NATO in Turchia, e altrettanto
facevano gli europei con quelli sovietici e gli stessi americani con gli ICBM
russi, in grado di colpirli direttamente da oltreoceano. Ma la percezione di
quella minaccia da Cuba non era un fatto puramente razionale.
296
P. KANN, On the other hand, in «Crimson», Oct. 24, 1962. In esso,
l’autore Peter Kann sosteneva che quella di JFK «era una decisione
terrificante e pericolosa, ma chiunque sia interessato alla sicurezza di questo
Paese e alla pace del mondo intero dovrebbe riconoscere che era una
decisione che andava presa».
297
End of a crisis, in «Crimson», Oct. 29, 1962 (senza firma). Data la
determinazione USA, scriveva il «Crimson», «la ritirata di Kruscev era
inevitabile» ma restava il fatto che «gli Stati Uniti si sono cacciati nella
crisi» coi loro passati errori verso Cuba. «In questa situazione un’azione
sollecita e unilaterale era richiesta […], ma l’ultima cosa che che ci serve è
congratularci dell’esito. […] Abbiamo superato una crisi senza guerra; delle
future Cuba potrebbero non finire così favorevolmente».
298
Inserzione ed elenco firmatari pubblicato sul «Washington Post»,
Nov. 1, 1962, p. A10.
299
The American commitment, in «San Francisco Chronicle», Oct. 24,
1962, p. 40.
300
Keep away from panic button, in «San Francisco Chronicle», Oct.
26, 1962, p. 32. «I bollettini vanno in onda con […] un così malrepresso
eccitamento e fatale gravità che un ascoltatore […] viene lasciato
farfugliante tra la confusione e l’allarme».
301
«C’è in certi quartieri una insensata e pericolosa disposizione a
proclamare totale vittoria per gli Stati Uniti e totale crollo per il prestigio
sovietico. Le stesse voci che stavano strillando più forte per l’invasione di
Cuba ‘ora e subito’ e per un salutare bombardamento dell’isola una buona
volta, sono ora giubilanti per le stipulazioni cubane di Kruscev come se
ammontassero a una resa incondizionata ed eterna […] È rassicurante […]
che la Washington ufficiale […] non mostri alcuna intenzione di
trasformare l’incidente cubano in una prova di prima evidenza del fatto che
la politica della durezza [the get tough policy] fornisca la sola ed unica via
per sistemare le differenze. Ha saggiamente concluso che qui c’era una
situazione speciale, unica nella lotta della guerra fredda a causa della
geografia […]. Nel ripudiare l’invasione di Cuba […] il Presidente ha
schierato gli Stati Uniti dalla parte delle nazioni amanti della pace (così
come, almeno per il momento, ha fatto il premier Kruscev)». The crisis and
its aftermath, in «San Francisco Chronicle», Oct. 30, 1962, p. 34.
302
Anch’egli tra i firmatari in calce all’editoriale del «Chronicle»
ripubblicato sul «Washington Post».
303
E, ancora una volta, la possibilità della sua libera pubblicazione
conferma le maggiori possibilità di autocritica consentite dal sistema
democratico.
304
Qui il testo proseguiva: «[…] I repubblicani dicono che il signor
Kennedy è quantomai saggio nel rischiare la guerra termonucleare. Eccetto
il fatto che avrebbe dovuto rischiarla prima. E l’unica obiezione che hanno i
democratici è che il signor Kennedy è arrischiato esattamente abbastanza.
Cosa che non è molto patriottica, in questo momento di crisi».
305
A. HOPPE, No more parties, we’ve got a crisis, in «San Francisco
Chronicle», Oct. 29, 1962, p. 43.
306
Gioco di parole con la rivista «US News and World Report»
(«Retort» significa invece rimbecco, risposta per le rime).
307
Nell’originale, «Caporal Pettibone»: Pettibone era una marca di
macchine edili tipo scavatrici…
308
A. HOPPE, A good missile is hard to come by, in «San Francisco
Chronicle», Oct. 26, 1962, p. 33.
309
L’editoriale di Alsop, che era syndicated, apparve tra l’altro sul «The
Miami News», Oct. 29, 1962, p. 8A e sul «Washington Observer», Nov. 1,
1962, p. 4. Kennedy appears to have won remarkable victory.
310
A. HOPPE, We have won a famous victory, in «San Francisco
Chronicle», Oct. 31, 1962, p. 37.
311
An appeal to President Kennedy and Premier Khrushchev, in «The
New York Times», Oct. 25, 1962, p. 43. Nell’elenco c’era anche Stuart
Hughes (di cui si è parlato sopra). Tra le petizioni di gruppo vi fu anche,
con minore visibilità, quella riportata sul «I.F. Stone Weekly» (29-10-1962,
p. 2) firmata da undici attivisti politici, pacifisti e giornalisti (tra cui A.J.
Muste, Seymour Melman, Norman Thomas, Carey McWilliams e lo stesso
Stone). Essa condannava le azioni di Kennedy e chiedeva la rimozione del
blocco e la neutralizzazione di Cuba sotto protezione dell’ONU.
312
Kruscev in realtà aveva fatto a Frost solo una battuta delle sue,
ricordando uno scambio tra i due scrittori russi Tolstoj e Gorky riguardo al
calo delle prestazioni sessuali che caratterizza la vecchiaia, e paragonandolo
alla vigoria politica delle nazioni più o meno giovani sulla scena mondiale.
Ma al suo ritorno in USA, rispondendo ai giornalisti che lo attendevano in
aeroporto, Frost per qualche motivo si era lasciato sfuggire che Kruscev gli
avesse detto che gli americani erano ormai «troppo liberali per lottare». Una
frase che il sovietico non aveva detto (almeno non in quei termini), ma
certo poteva suonare verosimile, e che chiaramente metteva politicamente
in imbarazzo e sotto ulteriore pressione JFK (S. UDALL, Robert Frost’s last
adventure, in «The New York Times», June 11, 1972; A. SCHLESINGER, A
thousand days, cit., p. 821 nota).
313
B. HALL, Fall of Frost, Viking Penguin, New York, 2008, pp. 288-
289. (Cfr. anche E.J. WILCOX – J. BARRON, Roads not taken, University of
Missouri Press, Columbia, MO, 2000, p. 55; The Cambridge companion to
Robert Frost, Cambridge University Press, 2001, p. 237.)
314
R. FROST, Collected poems, prose, and plays, Library of America,
New York, 1995, p. 35.
315
B. HALL, op. cit., pp. 283-287. (Si precisa che questo libro, pur
essendo una biografia romanzata, riporta questi virgolettati prendendoli
testualmente dai verbali ufficiali del National Poetry Festival, e dunque
costituisce, relativamente ad essi, una fonte affidabile.)
316
P. STANLIS, Robert Frost – The poet as philosopher, Wilmington,
Delaware, 2007, p. 264.
317
A conferma di questo nesso, anche lo studioso di Frost Frederick
Adams: «Quello che egli [Frost] riportò [ai cronisti all’aeroporto] era in
parte il proprio personale wishful thinking» (J. MEYERS, Robert Frost,
Houghton Mifflin Company, Boston, 1996, p. 340).
318
P. STANLIS, op. cit., p. 265.
319
J. MEYERS, op. cit., pp. 341-342.
320
S. UDALL, Robert Frost’s last adventure, in «The New York Times»,
June 11, 1972.
321
J. PARINI, Robert Frost. A life, Heinemann, London, 1998, p. 436.
322
S. UDALL, Robert Frost’s last adventure, in «The New York Times»,
June 11, 1972.
323
Ivi.
324
A. GINSBERG, Indian Journals, Grove Press, New York, 1996, p. 74.
325
W.S. BURROUGHS, Naked Lunch, Grove Press, New York, 2004 (prima
edizione 1959), p. 123.
326
Il biografo Bill Morgan aggiunge che Ginsberg, «come d’altronde il
resto del mondo, rimase col fiato sospeso» per la crisi. Poi al
raggiungimento del compromesso «vide subito nella tregua la fine della
guerra fredda». Lasciò immediatamente Calcutta e riprese il suo
pellegrinare per l’India. B. MORGAN, Io celebro me stesso, Il Saggiatore,
Milano, 2010, p. 355.
327
Per questo motivo, Lowell trascorse cinque mesi in prigione, nel
1943. Il suo pacifismo e le sue vedute politiche tuttavia non furono privi di
contraddizioni. S. AXELROD, Robert Lowell and the Cold war, in «The New
England Quarterly», vol. 72, 3 (Sep. 1999), pp. 339-361, qui p. 341.
327
«All autumn, the chafe and jar / of nuclear war; / we have talked our
extinction to death» – «Per tutto l’autunno, l’irritazione e la scossa / della
guerra nucleare; / abbiam parlato della nostra estinzione fino a [farla]
morire». L’ultimo, celebre verso gioca sull’espressione talk something to
death: dilazionare una cosa a forza di parlarne. Da Autumn 1961, in R.
LOWELL, For the Union Dead, Farrar, Straus & Giroux, New York, 1964, p.
11.
329
Partecipando, con altri intellettuali, al simposio di riflessioni sulla
guerra fredda organizzato prima della CMC dalla rivista liberale «Partisan
Review», Lowell aveva scritto: «Nessuna nazione dovrebbe possedere,
usare o far rappresaglie con le proprie bombe. Credo che dovremmo morire
piuttosto che lanciare le nostre bombe» («Partisan Review», Winter 1962, p.
47). Nel 1960 Lowell aveva votato per Kennedy. S AXELROD, Robert Lowell
and the Cold war, in «The New England Quarterly», pp. 348 nota e 352.
Cfr. inoltre I. HAMILTON, Robert Lowell: A biography, Vintage Books, New
York, 1983, p. 295; S. AXELROD, Private and public words of Lowell’s For
the Union Dead, in H. GARVIN – J. KIRKLAND (a cura di), «Twentieth Century
poetry, fiction, theory», Bucknell University Press, Lewisburg, 1977, p.
171.
330
P. MARIANI, Lost puritain. A life of Robert Lowell, W.W. Norton &
Co., New York, 1996, p. 310.
331
R. LOWELL – E. BISHOP, Words in air, Farrar, Straus & Giroux, New
York, 2008, pp. 429-431.
332
P. MARIANI, op. cit., p. 312.
333
H. ZINN, You can’t be neutral on a moving train, Beacon Press,
Boston, 2002, p. 30.
334
«Avendo appena lasciato Hiroshima», ricorda Lifton, «la mia mente
era piena di immagini di una città distrutta e di mostruose sofferenze
individuali. Eppure, il mio senso di imminente minaccia nucleare era in
qualche modo astratto». A distrarre parzialmente la sua attenzione dai rischi
nucleari era stata la malattia del suo amato cane e l’operazione cui esso
venne sottoposto proprio in quei giorni. Dopo la fine della crisi e la morte
del cane, riflettendo sulla propria reazione, Lifton dovette riconoscere che
era stato il secondo evento ad avere «l’impatto più grande. […] L’ansia
nucleare, ora ne sono convinto, fu almeno in parte trasferita alla morte del
cane, un evento molto doloroso ma gestibile». La sua reazione nasceva cioè
dalla «difficoltà che [la mente umana] ha nel mettersi in contatto con
l’infinito della distruzione nucleare». R.J. LIFTON, Witness to an extreme
century: a memoir, Simon & Schuster, New York, 2011, pp. 138-139. È un
concetto su cui Lifton tornerà: cfr. P. BOYER, From activism to apathy: the
American people and nuclear weapons, 1963-1980, in «Journal of
American History», March 1984, p. 828.
335
Precisamente tra il 28 gennaio e il 23 aprile 1963 (cfr. A. CASTLE, The
Stanley Kubrick archives, Taschen, Koln, 2008, p. 348).
336
Lo ricorda il produttore Harris, nel documentario sul film, Inside Dr.
Strangelove, minuto 3.
337
CH. MALAND, Dr. Strangelove (1964): Nightmare Comedy and the
Ideology of Liberal Consensus, in L. BOGLE (a cura di), The Cold War –
Vol.5. Cold War Culture and Society, Routledge, London, 2001, p. 218.
338
Romanzo: E. BURDICK – H. WHEELER, Fail-Safe, McGraw-Hill, New
York, 1962; film: S. LUMET, Fail-Safe, interpretato da Henry Fonda (USA,
1964).
339
(A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 38). Come detto a
proposito della stampa, uno dei due autori del romanzo Fail-Safe, Eugene
Burdick, durante la crisi si riconobbe nell’editoriale controcorrente del
«Chronicle».
340
A tale fine il governo preparò una linea guida interna su come
rassicurare la gente dal messaggio del film (cfr. A. GEORGE, Awaiting
Armageddon…, cit., pp. 37-38; K. ROSE, op. cit., p. 43) e si accordò su
«ulteriori misure per combatterne l’influenza» (L. WITTNER, Resisting the
Bomb…, cit., pp. 369-370).
341
Classifica riportata in «The Miami News», Oct. 28, 1962, p. 6B.
342
Si veda la Parte prima (cap. Il nodo della guerra, par. 27 ottobre
1962, sabato, nota a piè di pagina sul colloquio RFK-Dobrynin). E si noti
pure come un analogo reale timore fosse circolato specularmente tra alcuni
esponenti della Casa Bianca a proposito della posizione di Kruscev rispetto
ai suoi militari (si veda la Parte prima, Il nodo della guerra, par. 26 ottobre
1962, venerdì).
343
A GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 181 nota.
344
A. SCHLESINGER, Robert Kennedy and his times, Houghton Mifflin
Company, Boston, 1978, p. 450. Kennedy addirittura offrì di trasferirsi ad
Hyannis Port per un weekend qualora il regista avesse bisogno di girare
delle scene alla Casa Bianca.
345
S. KUBRICK, Interviews, University Press of Mississippi, Jackson,
2001, p. 97.
346
Riportato ivi, p. 202.
347
«È oltraggioso, certo. […] Stranamore però è fin troppo plausibile,
dall’inizio alla fine. […] Che Stanley Kubrick abbia avuto i nervi saldi per
dire una cosa del genere […] è davvero bello. Con la sua satira amara e
caustica, Kubrick si erge come un eloquente testimone». Direct Hit, in
«Newsweek», Feb. 3, 1964, riportato in
www.archiviokubrick.it/parole/interviste/1964directhit.html.
348
F.S. SAUNDERS, La Guerra Fredda culturale, Fazi, Roma, 2004, p. 320
(Mumford lo scrisse in una lettera al «New York Times», in cui aggiungeva
tra l’altro: «non è il film che è nauseante: quel che è nauseante è il nostro
presunto morale e democratico Paese, che ha consentito che tale politica
venisse formulata e implementata senza neppure la finzione di un pubblico
dibattito». S. WHITFIELD, The Culture of the Cold War, Johns Hopkins
University Press, Baltimore, 1996, p. 224).
349
Il nome di questo generale, Jack D. Ripper, in inglese suona come
Jack lo Squartatore. Evidente l’ironia antimilitarista insita nel chiamare un
generale guerrafondaio col nome di un serial killer.
350
Nel doppiaggio italiano il nome del dispositivo è tradotto come
«Ordigno di Fine di mondo» o «Macchina dell’Apocalisse».
351
Riportato in M. GUERRA, Il meccanismo indifferente. La concezione
della Storia nel cinema di Stanley Kubrick, Aracne, Roma, 2007, p. 205.
352
Cfr. P. GOODCHILD, Edward Teller, The real Dr. Strangelove, Harvard
University Press, Cambridge, 2004, p. XXI.
353
Kahn, come vedremo, lavorava per la RAND Corporation; il dottor
Stranamore, invece, per la BLAND Corporation.
354
CH. MALAND, Dr. Strangelove (1964): Nightmare Comedy and the
Ideology of Liberal Consensus, in L. BOGLE (a cura di), op. cit., pp. 225-226.
355
Secondo i ricordi dell’attore, Peter Sellers, «Strangelove non fu mai
modellato su Kissinger, questa è un’errata convinzione popolare. Lui è
sempre stato Wernher von Braun» (cit. in M. STARR, Peter Sellers. A Film
History, McFarland Co., Jefferson, NC, 1991, p. 100). Kubrick viceversa
mandò a dire a von Braun, tramite l’amico comune Arthur Clarke, che non
era stato lui il suo bersaglio (anche se Clarke poi non lo fece, perché restava
convinto del contrario: cfr. M.J. NEUFELD, Von Braun. Dreamer of space,
engineer of war, Knopf, New York, 2007, p. 406). Né è da escludere che il
modello preso a riferimento dall’attore potesse essere parzialmente diverso
da quello del regista. Propende per l’idea del ‘mix’ di varie figure reali
anche una recente biografia di Teller (I. HARGITTAI, Judging Edward Teller,
Prometheus Books, New York, 2010, p. 444).
356
S. KUBRICK, Dr. Strangelove – or How I learned to stop worrying and
love the Bomb, minuto 28.
357
Ivi, minuto 35.
358
Si consideri che tutto il film è pieno di richiami simbolici e visivi di
questo tipo.
359
Ivi, minuto 51.
360
Testimonianza contenuta nel documentario sul film Inside Dr.
Strangelove, minuto 4.
361
G. MACNAB, ‘Will it Dress?’, an interview with set designer Ken
Adams, in «Sight & Sound», September 1999, pp. 62-63 (riportato in
www.archiviokubrick.it/opere/film/ds/adam.html).
362
Cit. in S. KUBRICK, Interviews, cit., p. 69.
363
J. GADDIS, We now know…, cit., p. 258.
364
K. VONNEGUT, Ghiaccio Nove, Feltrinelli, Milano, 2003, epigrafe. La
frase pare interpretabile come una sorta di scarico di responsabilità, analogo
all’avvertenza anteposta poi al film di Kubrick; d’altro canto, essendo
messa in cima a un romanzo – il cui carattere fittizio per definizione
rendeva una simile precisazione superflua – essa potrebbe leggersi invece
come una notazione ironica.
365
Come ha raccontato, dopo la morte dello scrittore, la sua figlia
adottiva, Edie (Edith) Vonnegut, in una breve nota scritta in sua memoria:
«Quand’ero molto giovane, a circa dodici anni, andai nel suo studio a
chiedergli risposte su questo mondo. Egli mi disse che non ne sapeva più di
quanto ne sapessi io e che stava passando tutto ciò che passavo io, nel
medesimo momento. Mi pare fosse durante la crisi dei missili di Cuba ed io
ero spaventata. Mi disse che non ne aveva la minima idea [he said he didn’t
have a clue]». Nota di Edie Vonnegut riportata in
www.vonnegut.com/news.asp.
366
Così recitava la descrizione in copertina: J. NEWMAN, The rule of folly,
Simon & Schuster, New York, 1962 (prefazione di Erich Fromm).
367
J. NEWMAN, A dissent on American policy, «The Washington Post»,
Oct. 28 1962, p. E7. La frase di Johnson («Fermare una nave sovietica è un
atto di guerra») era stata pronunciata ad Albuquerque all’inizio di ottobre,
prima della scoperta dei missili.
368
J. PARINI, John Steinbeck. A biography, Heinemann, London, 1994, p.
533
369
J. BENSON, The True Adventures of John Steinbeck, Writer, The
Viking Press, New York, 1984, p. 914.
370
J. PARINI, John Steinbeck. A biography, cit., p. 533.
371
Lettera a Bo Beskow, Oct. 30, 1962, in E. STEINBECK – R. WALLSTEN (a
cura di), Steinbeck: A Life in Letters, Heinemann, London, 1976, p. 743 (si
ringrazia per la segnalazione il «Center for Steinbeck Studies»).
372
Steinbeck named winner of 1962 Nobel prize for Literature, in «The
New York Times», Oct. 26, 1962, p. 12.
373
«France Soir», Oct. 27, 1962, p. 5. Il giornale francese, oltre a
riportare quest’ulteriore suo breve commento, conferma il modo in cui egli
aveva appreso di aver vinto il Nobel («Guardando alla televisione gli
sviluppi della crisi cubana», è la risposta di Steinbeck alla domanda del
giornalista).
374
J. BENSON, The True Adventures of John Steinbeck, Writer, cit., p.
918.
375
Stevenson gli rispose per lettera con un’approvazione autoironica,
assicurandogli di aver tenuto a freno le sue manacce («silly hands») dal
correggere un discorso nel quale non c’era neppure una virgola da cambiare
(A. STEVENSON, op. cit., p. 348).
376
L’esistenza di tale nesso, da noi ipotizzata, ci è stata poi confermata
da due diversi centri di studio steinbeckiani (il «National Steinbeck Center»
di Salinas, California, e il «Center for Steinbeck Studies», San Jose
University, California).
377
Nobel Lectures, Literature 1901-1967: www.nobelprize.org.
378
N. MAILER, Rapporti al Presidente, Mondadori, Milano, 1964, pp. 7-
9.
379
Preparò anche una «poesia aperta al Presidente» per dissuaderlo
dalla sua «campagna a favore dei rifugi antiatomici che se avesse avuto
successo […] ci avrebbe trasformato in egiziani: un milione di singole
cripte sotterranee». Ivi, p. 166.
380
Ivi, p. 182.
381
Ivi, p. 191.
382
Ivi, p. 179.
383
Ivi, pp. 98-100.
384
Ivi, pp. 18-19.
385
M. GLENDAY, Norman Mailer, St. Martin’s Press, New York, 1995, p.
31.
386
Superman comes to the Supermarket, uscito sulla rivista «Esquire»
proprio nell’ottobre 1960. Mailer stesso lo definirà poi il suo brano di
maggior effetto pratico (N. MAILER, op. cit., p. 60).
387
Ivi, pp. 94-96 (cfr. anche M. DEARBORN, Mailer: A biography,
Houghton Mifflin Co., New York, 1999, pp. 150 e 153).
388
Ivi, pp. 162-166 (la lettera fu anche pubblicata sul newyorkese
«Village Voice» del 20 dicembre 1962).
389
Götterdammerung è il «Crepuscolo degli dei», l’ultima opera della
tetralogia di Wagner.
390
Qui il riferimento è al film di Chaplin La febbre dell’oro e alla
celebre sequenza in cui una casa resta sospesa in bilico sul bordo di un
precipizio.
391
N. MAILER, op. cit., pp. 222-225 (pubblicata originariamente nella
rivista «Esquire», aprile 1963).
392
N. MAILER, op. cit., pp. 223-225 (pubblicata originariamente nella
rivista «Esquire», aprile 1963).
393
Harmony invades Cuban crisis, in «The Washington Post», Oct. 29,
1962, p. A2.
394
Stern offers relief in time of crisis, in «The Washington Post», Oct.
24, 1962, p. C11.
395
This was a time for music, in «The Washington Post», Oct. 24, 1962,
p. C1.
396
Stern offers relief in time of crisis, in «The Washington Post», Oct.
24, 1962, p. C11. Precisamente Stern eseguì il Concerto in La minore di
Bach, il Concerto in Sol minore di Mozart e la Sonata per violino e
pianoforte di Franck.
397
This was a time for music, in «The Washington Post», Oct. 24, 1962,
p. C1. L’orchestra russa suonò all’ONU Tchaikovsky e Beethoven (D.
DETZER, op. cit., p. 204).
398
L’album è inserito al n. 24 nella lista dei «500 migliori album di tutti
i tempi» stilata dalla rivista specializzata «Rolling Stone» (2004). Alla
ricostruzione di quella serata, oltre ai passi delle memorie di J. BROWN, I feel
good. A Memoir of a Life of Soul, New American Library, New York, 2005,
pp. 25-26 e 42-44, è dedicato l’intero libro di D. WOLK, Live at the Apollo,
Continuum books, New York, 2004, che fa ripetuti cenni al mood indotto
nel pubblico dai concomitanti eventi della CMC.
399
Show times for Wednesday, in «The Washington Post», Oct. 24,
1962, p. C11.
400
Gioco di parole sul doppio significato del verbo stand behind
(«sostenere» e «stare dietro» fisicamente).
401
Il «Gerde’s Folk City – New York’s Center of Folk Music» era un
noto locale di musica folk di New York, dove si esibirono lo stesso Phil
Ochs e Bob Dylan
(www.prato.linux.it/~lmasetti/antiwarsongs/canzone.php?
lang=it&id=1810).
402
P. OCHS, Talking Cuban Crisis, in All the news that’s fit to sing,
Elektra, 1964.
403
C. HEYLIN, Bob Dylan: A life in stolen moments, Schirmer Books,
New York, 1996, p. 34; C. HEYLIN, Bob Dylan: Behind the Shades Revisited,
Harper Collins, New York, 2003, p. 94.
404
B. DYLAN, A hard rain is a-gonna fall, in The freewheelin’ Bob
Dylan, 1963.
405
Riportato da David Yaffe in The Cambridge Companion to Bob
Dylan, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, p. 18.
406
H. SOUNES, Down the Highway. The life of Bob Dylan, Grove Press,
New York, 2001, p. 122.
407
B. DYLAN, The freewheelin’ Bob Dylan, CD booklet, p. 5 (testo
raccolto dal columnist musicale Nat Hentoff).
408
Intervista a Terkel, riportata in C. HEYLIN, Bob Dylan: Behind the
Shades Revisited, cit., p. 102.
409
«trying to capture the feeling of nothingness» (citato in C. HEYLIN,
ivi, p. 94).
410
M. Dobbs, op. cit., p. 87; R. Schwartz, Cold War Chat transcript,
Feb. 7, 1999; J. BLIGHT, The shattered crystal ball: fear and learning in a
nuclear crisis, Rowman & Littlefield, Lanham, MD, 1990 (pp. 36-37 della
versione dattiloscritta); J. BLIGHT, On the brink, Oct. 20, 2002, JFKL
Conference transcript, pp. 15-16.
411
Per «outtake» si intendono i brani registrati ma poi eliminati dalla
sequenza definitiva di un dato album. Quanto ai tre pezzi qui citati, Talkin’
World War III Blues trattava l’argomento facilmente intuibile dal titolo; gli
altri due prendevano di mira rispettivamente la già illustrata tendenza
dell’epoca a costruirsi rifugi antiatomici privati sotto casa e la «John Birch
Society», un’associazione ultraconservatrice e anticomunista sino al
fanatismo.
412
«Venite a radunarvi intorno a me, gente / e racconterò una storia / Su
una notte di non tanto tempo fa che tutti voi ricordate bene / Ve la dirò
sinceramente, come amico, racconterò / tutto sulla spaventosa notte in cui
pensammo che il mondo sarebbe finito. / Camminavo giù per il marciapiede
senza far male a nessuno / La radio annunciò, suonava allarmante, / [che] le
navi russe stavano navigando avanti tutta lungo il mare / Tememmo tutti
che all’alba sarebbe stata la guerra mondiale n. 3 / Ero preoccupato per una
litigata che avevo avuto il giorno prima / […] / ma come appena un giorno
fa mi dava sui nervi / oggi la stessa cosa sembra così insignificante».
(Traduzione italiana anche in M. MURINO, Bob Dylan – Percorsi, Bastogi
Editrice Italiana, Foggia, 2006, p. 36; testo originale ed audio reperibili
online: http://dylanchords.info/00_misc/cuban_missile_crisis.htm). Questi
versi confermano tra l’altro che il picco massimo di paura, in termini di
percezione pubblica dei rischi negli USA, si ebbe nelle ore precedenti
l’entrata in vigore del blocco, cioè tra il 23 e il 24 ottobre.
413
J. BOULWARE, That was the wit that was, in «SFWeekly», Apr. 19,
2000.
414
That was the week that was – TW3, trasmesso sulla NBC a partire
dal gennaio 1964.
415
Gioco di assonanze con l’«Huntley and Brinkley Report», noto
telegiornale dell’epoca, sulla NBC.
416
T. LEHRER, So Long, Mom (A song for World War III), in That was the
year that was, Reprise/Warner Bros, 1965.
417
Ammirevole lo giudicò ad esempio lo scrittore italiano Giuseppe
Prezzolini, che, come vedremo, fu uno degli osservatori che colsero subito
questo atteggiamento degli americani.
418
J. BRYCE, The American Commonwealth, Cosimo Inc., New York,
2013, vol. 1, p. 308. Il concetto è ribadito con forza anche in vol. 2, pp. 247,
263, 280. Ritroveremo la speciale importanza dell’opinione pubblica negli
USA nel prossimo capitolo, tra le le riflessioni di Hans Morgenthau.
419
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 114.
420
U THANT, op. cit., p. 157.
421
«Daily Mirror», 25-10-1962, p. 2.
422
Tale effetto fu teorizzato dallo scienziato politico John Mueller,
nell’articolo Presidential popularity from Truman to Johnson, in «American
Political Science Review», 64, 1970, pp. 18-34 e poi nel suo libro War,
Presidents, and public opinion, John Wiley, New York, 1973.
423
Sull’iniziale riluttanza dell’amministrazione Kennedy a prendere di
petto il problema dei diritti civili, cfr. per esempio M. DUDZIAK, Cold War
civil rights…, cit., p. 155.
424
Washington to FO, 23-10-1962, PREM 11/3689, MF R.37, UK
National Archives, Kew.
425
Washington to FO, 29-10-1962, FO 371/162385, MF R.32, UK
National Archives, Kew.
426
William LeoGrande, citato in M.A. WATSON, Expanding vista:
American television in the Kennedy years, Oxford University Press, Oxford,
1990, p. 79. Valse, dunque, anche per la CMC ciò che lo storico Steven
Casey ha scritto riguardo alla guerra di Corea: «Durante i periodi di crisi, la
stampa tende ad essere particolarmente desiderosa di far da eco alla linea
del governo. Direttori e reporter concludono invariabilmente di essere in
una posizione debole per mettere in dubbio funzionari che hanno accesso
alle più recenti informazioni top-secret. Essi riconoscono pure che un pezzo
apertamente negativo può facilmente essere presentato come turbativo
dell’equilibrio [lett.: as rocking the boat], forse persino come slealtà – in un
momento di tremendo pericolo». (S. CASEY, op. cit., p. 12).
427
Rincontreremo questo tipo di riflessioni anche tra le reazioni dei
religiosi statunitensi (per esempio l’articolo di Niebuhr o le petizioni
congiunte dei leader protestanti).
428
A questo proposito, si potrebbe anche dire che per certi aspetti la
percezione nazionale della CMC rappresentò un preludio al Vietnam. Lo fu
infatti sia dal punto di vista del decision-making militare, avendone posto le
premesse in termini di mentalità politicostrategica; sia dal punto di vista
della reazione pubblica a quelle scelte, avendo fornito all’avanguardia della
contestazione studentesca una sorta di breve «giro di riscaldamento» e alla
stampa i primi motivi per guardare con maggior diffidenza al governo. La
percezione della CMC in tal senso fu quindi quasi una «prova tecnica» di
espressione del dissenso, collaudandone protagonisti (attivisti, giornalisti) e
modalità (teach-in, manifestazioni) che verranno poi alla ribalta negli anni
del conflitto vietnamita.
429
Lo storico americano Gary Gerstle ha definito «il clima ideologico
negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta […] il culmine della nazione
rooseveltiana, un tempo in cui la maggioranza degli americani credeva nella
virtù del Paese e considerava la propria nazione come una forza per la
libertà, in patria e all’estero. Tale fiducia nazionale era nata dall’esperienza
della seconda guerra mondiale […]» (G. GERSTLE, American Crucible. Race
and Nation in the Twentieth Century, Princeton University Press, Princeton,
2001, pp. 276-277). Questa fiducia naturalmente aiuta a comprendere anche
l’appoggio dato alla Casa Bianca dagli americani nel caso della CMC (che
stranamente il saggio di Gerstle tralascia, nella sua trattazione dell’America
novecentesca).
430
Per esempio quella di Newman vista poc’anzi e il laconico
commento sulla crisi contenuto nell’intervista a Steinbeck, che tra l’altro
era stato espressamente sollecitato dalle domande del cronista.
431
Tra cui alcune che incontreremo nei prossimi capitoli, come Linus
Pauling, Zbigniew Brzezinski, Paul Tillich e Reinhold Niebuhr: intellettuali
statunitensi che invece presero espressamente posizione sugli eventi, già a
crisi in corso.
432
Un atteggiamento simile degli intellettuali americani si ritrova del
resto anche tra le notazioni su un viaggio negli USA espresse dallo scrittore
Italo Calvino in un’intervista del 1960. Il passo, recentemente ripubblicato
in una raccolta di sue interviste, ci ha confortato nell’interpretazione che
avevamo fornito. «In America il livello culturale è alto; […] Questo
dovrebbe dare all’intellettuale americano una posizione di primo piano, ma
non è così. Il maccartismo ha creato, a suo tempo, un clima di sospetto e di
paura; […] la ferita non si è ancora remarginata. Ho avuto cioè
l’impressione che l’intellettuale americano, il quale prima si manifestava il
meno possibile per non essere accusato di essere un ‘agente di Mosca’, oggi
persiste nel suo silenzio perché si sente più o meno impotente. […] Così gli
intellettuali americani vivono in una situazione di relativa prosperità e
libertà di espressione che ha come contropartita l’isolamento, aspettando
tempi migliori». I. CALVINO, Sono nato in America… – Interviste 1951-1985,
Mondadori, Milano, 2012, pp. 55-56.

«Thinking about the unthinkable». Politologi


1
H. KAHN, On thermonuclear war, Transaction Publisher, Piscataway,
NJ, 2007, p. 21.
2
Ivi, p. 71.
3
Ivi, pp. 20-21.
4
Ivi, pp. 20 e 34 «Tragic but distinguishable postwar states» era
appunto il titolo della tabella formulata da Kahn (per numero di milioni di
morti e anni necessari al recupero economico). Si noti inoltre che nel già
menzionato film di Kubrick Il dottor Stranamore, il personaggio del
generale Turgidson utilizza, non certo per coincidenza, una frase pressoché
identica a questa. Nella scena in cui spiega al presidente americano gli
imminenti scenari di guerra, Turgidson lo invita a scegliere tra «due certo
spiacevoli ma tuttavia distinguibili condizioni di dopoguerra: una in cui lei
ha venti milioni di persone uccise, l’altra dove lei ha centocinquanta milioni
di persone uccise». Nel film, la frase ha un effetto comico.
5
H. KAHN, On escalation, p. 18.
6
Cfr. per esempio S. WEART, op. cit., p. 233.
7
S. WEART, op. cit., p. 259.
8
Cfr. anche il capitolo Verso il climax (Parte prima).
9
N. MAILER, Rapporti al Presidente, p. 164 (si veda il capitolo Stati
Uniti d’America).
10
H. KAHN, On escalation, cit., pp. 64-66.
11
Ivi, pp. 306-307.
12
Ivi, p. 101.
13
Ivi, p. 109.
14
H. KAHN, On escalation, cit., pp. 338-339 (cfr. anche p. 65 per il
termine «azione» come altro nome di quello stesso grado della sua tabella).
15
«In se stessa, Cuba non è, non è mai stata, né mai potrebbe essere una
‘minaccia’ agli Stati Uniti. […] È un problema politico ben più che militare.
[…] abbiamo noi una politica estera adeguata a una grande potenza
impegnata in una guerra fredda? […] Il fatto che questo regime sia una
tirannia senza scrupoli […] sarebbe di per sé una causa di preoccupazione.
[…] Non voglio suggerire che abbiamo una sacra missione di esportare la
democrazia americana a Cuba o altrove. Ma qualsiasi grande potenza ha
l’obbligo – o, se volete, è costretta dalla necessità – a far sì che […] i suoi
vicini più piccoli abbiano governi relativamente stabili che […] (per dirla
bruscamente) non causino più guai di quanto non siano intitolati a fare. Ma
[…] il fatto che la tirannia cubana è comunista e che sia sulla strada di
trasformare l’isola in un avamposto militare della potenza sovietica, dà al
caso un’urgenza che altrimenti non avrebbe avuto. Io non so perché i
sovietici siano a Cuba, ma suppongo che non sia per nulla di buono. […]
Potrebbero usare Cuba come un deposito d’armi e campo d’addestramento
per le forze di guerriglia nel nord del Brasile. Comunque l’ovvia e sensata
politica per noi sarebbe […] stroncare sul nascere questa possibilità. È
meglio intervenire a Cuba ora che in Brasile tra un anno. […] [Inoltre] il
prezzo dell’intervento aumenta quotidianamente: un anno fa ci sarebbe
costato mille vittime, oggi il Pentagono stima una cifra di venticinquemila,
l’anno prossimo potrebbe raddoppiarla. Terzo punto, più rimandiamo, più
consentiamo ai sovietici di venir coinvolti a Cuba, più grave sarà il rischio
che qualsiasi nostra azione scateni davvero una guerra mondiale. […] la tesi
per un pronto intervento sembrerebbe irrefutabile». I. KRISTOL, The case for
intervention in Cuba, in «The New Leader», Oct. 15, 1962, pp. 10-11.
16
I. KRISTOL, The politics of ‘stylish frustration’, in «The New Leader»,
Apr. 1, 1963, pp. 9-11.
17
Z. BRZEZINSKI, Cuba in Soviet strategy, «The New Republic», Nov. 3,
1962.
18
A ricordarlo in questi termini è lo storico Adam Ulam, all’epoca suo
collega ad Harvard. A. ULAM, Understanding the Cold War, Leopolis Press,
Virginia, 2000, p. 154.
19
D. DETZER, op. cit., p. 234.
20
Data questa posizione di supremazia palesatasi con la CMC,
concludeva allora l’analisi di Brzezinski, «quale dovrebbe essere il ruolo
degli Stati Uniti in questo periodo? Usare il nostro potere responsabilmente
e costruttivamente, cosicché quando la supremazia americana finirà, il
mondo sia stato lanciato su un costruttivo modello di sviluppo verso la
stabilità internazionale […] L’obiettivo ultimo dovrebbe essere la
formazione di un mondo di comunità cooperanti» (citazioni riportate in J.
NATHAN, The missile crisis. His finest hour now, in «World Politics», Jan.
1975, pp. 272-273).
21
A. ULAM, Understanding the Cold War, cit., pp. 153-154 e 158.
22
La crisi di Berlino, scrive Ulam, svanì improvvisamente, tra la
distrazione generale; l’URSS accettò anche di firmare con gli occidentali il
LTBT. «Kruscev ora sapeva che l’uomo con cui aveva a che fare alla Casa
Bianca era una persona di una certa tempra e non solo un giovanotto senza
esperienza che era giunto dov’era in quanto figlio di un milionario. […] La
guerra fredda non era finita, ma entrava in una fase nuova e meno
snervante» (A. ULAM, Understanding the Cold War, cit., p. 158).
23
A. ULAM, The rivals, The Viking Press, New York, 1971, p. 332 (cit.
in W. MEDLAND, op. cit., p. 133).
24
A. ULAM, The rivals, cit., p. 331, riportato in W. MEDLAND, op. cit., p.
133. Su questa teoria, esposta per la prima volta nel saggio del 1968 A.
ULAM, Expansion and coexistence: the history of Soviet foreign policy 1917-
1967, Praeger, New York, 1974, pp. 666-671, si veda anche il suo più
recente A. ULAM, Understanding the Cold War, cit., pp. 155-159.
25
Nella prefazione di aggiornamento aggiunta nel 1966 a tale volume,
originariamente uscito nel maggio del 1962, egli definirà la mossa cubana
di Kruscev «un’imprudenza», che lo mise di fronte alla scelta se usare le
armi atomiche, allargare la crisi altrove o arretrare (scelta di fronte a cui al
Cremlino «pare non abbiano esitato a lungo»), dandogli però anche atto di
aver «tratto ammaestramento dalla crisi e dall’insuccesso» (R. ARON, Pace e
guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970, prima edizione
italiana, p. 9).
26
R. ARON, L’échange de défis, «Le Figaro», 24-10-1962, prima e
ultima pagina.
27
R. ARON, Le tiers monde et l’équilibre de la terreur, «Le Figaro», 29-
10-1962, prima e ultima pagina.
28
R. ARON, La paix des deux ‘K’, «Le Figaro», 5-11-1962, prima e
ultima pagina.
29
«Contro il socialismo», concludeva la frase riepilogativa di Aron, «la
sovversione ma non l’invasione è legittima; contro le armi termonucleari, la
quarantena e, in estremo ricorso, la forza». R. ARON, Réalités et fictions du
droit international, «Le Figaro», 13-11-1962, prima e ultima pagina.
30
G.H. SOUTOU, Raymond Aron et la crise de Cuba, in M. VAISSE (dir.),
op. cit., pp. 210 e 203.
31
Dopo un colloquio privato con Aron del 23-10-1961, l’ambasciatore
italiano Malio Brosio annota nei suoi diari che Aron «condivide i miei
dubbi su Kennedy: egli finora ha sempre deciso un compromesso fra i vari
suggerimenti, che è la peggiore delle soluzioni». Nello stesso colloquio
Aron criticava anche Bundy, suo ex collega a Harvard (M. BROSIO, Diari di
Parigi, 1961-1964, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 89-90).
32
Lettera Kissinger-Aron del 9-1-1962, riportata da G.H. SOUTOU,
Raymond Aron et la crise de Cuba, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p. 192.
33
Ivi, p. 208.
34
Ivi, pp. 201-202.
35
W. ISAACSON, Kissinger, Simon & Schuster, New York, 2005, p. 113.
36
Secondo Kissinger, infatti, «la crisi non sarebbe potuta finire in modo
così rapido e decisivo se non per il fatto che gli USA possono vincere una
guerra nucleare se attaccano per primi e possono infliggere danni
intollerabili all’Unione Sovietica anche se sono vittima di un attacco a
sorpresa». Questa argomentazione è poco convincente per chi ritiene che,
come mostrato nel capitolo Capire la crisi, la relativa superiorità
dell’arsenale atomico USA abbia avuto nella CMC un ruolo in realtà assai
secondario rispetto al timore, prioritario e comune ad entrambe le parti, di
un’escalation nucleare, ritenuta in accettabilmente disastrosa da ambo le
leadership.
37
H. KISSINGER, Reflections on Cuba, «The Reporter», Nov. 22, 1962.
38
W. ISAACSON, op. cit., p. 115.
39
H. MORGENTHAU, Is world public opinion a myth?, «The New York
Times Magazine», Mar 25, 1962. In Hans J. Morgenthau Papers, Box 101,
Manuscript Division, LoC.
40
«Non credo ci sia il minimo dubbio che ci astenemmo dall’intervenire
più potentemente a Cuba a causa della paura dell’opinione pubblica
mondiale», egli scrive a un suo lettore, Carlton V. Martel, il 30-3-1962.
Hans J. Morgenthau Papers, Box 101, Man. Div., LoC.
41
«Noi», diceva ancora l’articolo, «abbiamo avuto la tendenza a
sovrastimare grandemente l’importanza dell’opinione pubblica, a casa e
all’estero. […] Ma l’opinione pubblica non è un’entità fissa che restringe la
politica estera entro barriere insormontabili. Al contrario, reagisce alla
leadership; è il prodotto della leadership di qualcuno […] [e] ha una
tendenza ad adattarsi a un’azione politica di successo».
42
«Le radici di quest’esitazione sono profondamente insite nell’animo
americano […] Ad un livello più superficiale quest’esitazione deriva da una
preoccupazione per l’opinione pubblica in altri Paesi, una preoccupazione
largamente infondata». H. MORGENTHAU, Cuba in the wake of isolation,
«Commentary», Nov. 1962, pp. 427-430. In Hans J. Morgenthau Papers,
Box 101, Man. Div., LoC. Torna qui l’aspetto messo in luce già
nell’Ottocento da James Bryce sulla speciale importanza dell’opinione
pubblica negli USA (si veda il capitolo precedente), ma con una
connotazione che in Morgenthau è più negativa.
43
Ivi. (N.B.: sebbene uscito sul numero di novembre del mensile, risulta
evidente come questo articolo sia stato scritto prima dell’inizio della crisi.)
44
Cfr. M. WILLIAMS (a cura di), Realism reconsidered. The legacy of
Hans Morgenthau in international relations, Oxford University Press,
Oxford, 2007, p. 179 ed E. RAFSHOON, A Realist’s Moral Opposition to War:
Hans J. Morgenthau and Vietnam, in «Peace & Change», vol. 26, n. 1 (Jan.
2001), pp. 55-77.
45
H. MORGENTHAU, Negotiations or war?, «The New Republic», Nov. 3,
1962, p. 9. Morgenthau Papers, Box 101, Man. Div., LoC.
46
M. BROSIO, op. cit., p. 302.
47
«Non può esser ripetuto mai abbastanza spesso, visto che c’è una così
radicata riluttanza a riconoscere questo fatto semplice e centrale, che
l’Unione Sovietica ha raggiunto quel che si prefisse di raggiungere
nell’estate del 1962 e che noi dichiarammo essere intollerabile: la
trasformazione di Cuba in una base politica e militare per la
comunistizzazione dell’America Latina sotto gli auspici dell’Unione
Sovietica. Il linguaggio ufficiale riguardo a ‘tecnici’ russi o missili
‘offensivi’ […] ha oscurato questo fatto, ma non ha inficiato la sua
esistenza». H. MORGENTHAU, Truth and power: essays of a decade 1960-
1970, Praeger Publisher, New York, 1970, p. 175.
48
Ivi, p. 183 (originariamente in Robert F. Kennedy, in «New York
Review of Books», Aug. 1, 1968).
49
La CMC «forniva una sensazionale opportunità per un’affascinante
interazione di menti – proporre, dibattere, criticare, pensare ad alta voce.
[…] Quel che è importante, in vista delle qualità intellettuali di quella
decisione, non è se essa fosse giusta o errata (io ritenni allora che fosse
errata, perché non andava abbastanza lontano, concentrandosi sulle tattiche
da usare contro Kruscev invece che sulla strategia contro Castro), bensì che
essa fu il distillato di uno sforzo intellettuale collettivo di ordine elevato,
con pochi paragoni nella storia». H. MORGENTHAU, Truth and power…, cit., p.
158.
50
Ivi, p. 17 (originariamente in: Truth and Power, «The New
Republic», Nov. 26, 1966).
51
R. SENNETT, The Craftsman, Yale University Press, New Haven, 2008,
p. 1.
52
Kennedy e dopo. Testimonianze di intellettuali americani, «Tempo
Presente», Dic. 1963, in part. pp. 3-4.
53
(Letteralmente: «so far so good – even very good – but this of course
is not the end of it»).
54
Hannah Arendt Papers, Box 14, Manuscript Division, LoC.
Virgolettando qui la parola ‘crisi’ la Arendt voleva probabilmente alludere
che la situazione fosse stata meno critica e d’emergenza di quanto
comunemente presentato. In tal caso si tratterebbe, da parte sua, di una
sottovalutazione degli effettivi rischi corsi. (Ciò peraltro sarebbe in parziale
contrasto coi ricordi del suo allievo, che come visto la descrive «scossa»).
Significativo però anche il fatto che, da questa lettera, ella sembri quasi
sentirsi in colpa («confesso che…») per questa sua mancanza di
preoccupazione.
55
Washington to FO, 23-10-1962, PREM 11/3689, MF R.37, UK
National Archives, Kew; Washington to FO, 29-10-1962, PREM 11/3691,
MF R.37, UK National Archives, Kew.
56
N. COUSINS, op. cit., p. 46.
57
B. KUKLICK, Blind Oracles – Intellectuals and war from Kennan to
Kissinger, Princeton University Press, Princeton, NJ, 2006, p. 119.
58
FO 371/162408. MF. R.35. UK National Archives, Kew.
59
Lo conferma anche un ulteriore documento britannico, preparato in
vista di un viaggio di Kissinger a Londra: «Benché egli non incontri favore
nell’attuale amministrazione, le sue opinioni esigono sempre rispetto». FO
371/173328. UK National Archives, Kew.
60
Inoltre le strategie adottate negli anni seguenti dalle due superpotenze
si basarono largamente sulle valutazioni e lezioni tratte dalla CMC, come
sostenuto da G.H. SOUTOU, op. cit., p. 419.
61
(In particolare facendo riferimento alle seguenti circostanze: la
fermezza kennediana, l’inferiorità sovietica in armamenti e l’errore iniziale
di provocare l’avversario su terreno a lui favorevole.)
Testimoni dell’apocalisse? Religiosi
1
I virgolettati sono di R. REMOND, Les Eglises, l’opinion publique et la
politique extérieure, in Opinion publique et politique extérieure, cit., vol.
III, pp. 278-279 (corsivo mio).
2
D. KIRBY (a cura di), Religion and the Cold war, Palgrave Macmillan,
New York, 2003; PH. MUEHLENBECK (a cura di), Religion and the Cold war: a
global perspective, Vanderbilt University Press, Nashville, 2012, pp. VII-
XXII. Il primo è un’antologia di saggi del 2003; il secondo, che ne è una
continuazione ed estensione ad altre aree geografiche e fedi interessate dalla
guerra fredda, è del 2012. Nessuno dei due però, tra i vari casi affrontati, si
è occupato della CMC. Anche sotto questo aspetto, perciò, muoviamo qui i
primi passi su un sentiero ancora mai battuto.
3
Ciò apre una possibile pista di ulteriore ricerca: sarebbe interessante
verificare se si siano levate voci anche da parte di esponenti di religioni non
cristiane, per poterle integrare a queste. Studiosi specialisti del mondo arabo
o indiano, per esempio, potrebbero assai meglio di noi riuscire a stabilire se
riflessioni su quanto stava accadendo in quei giorni siano state espresse in
seno a quelle confessioni, a livello locale o regionale, pur senza aver
raggiunto piena risonanza internazionale (giacché questa non è emersa dal
largo spettro di fonti internazionali dell’epoca da noi consultate, né da
precedenti studi sulla crisi).
4
Tra le voci di esponenti e leader religiosi ci fu naturalmente anche
quella di papa Giovanni XXIII, già menzionata nella Parte prima. Ne
accenneremo anche qui, riservandoci però, data la sua particolare rilevanza
e complessità, di fornirne altrove una trattazione più ampia.
5
Si consideri che proprio in quegli anni Kruscev stava conducendo una
campagna antireligiosa di rinnovata violenza; inoltre, fattore contingente,
Alessio I «non era mai stato noto per essere, di suo, una persona
particolarmente coraggiosa» (D. POSPIELOVSKI, The Russian Church under
Soviet regime 1917-1982, St. Vladimir Seminary Press, Crestwood, New
York, 1984, vol. 2, p. 335). C’era poi anche un fattore storico: la
«plurisecolare tradizione di spiritualità ortodossa che enfatizzava la
sottomissione sia a Dio sia a Cesare. Prima della Rivoluzione, l’obbedienza
agli zar era stata vista quasi come un obbligo religioso. La Chiesa ortodossa
aveva tradizionalmente svolto le funzioni di un Dipartimento di Stato oltre
che di una guida alla salvezza» (C. ANDREW – V. MITROKHIN, The sword and
the shield. The Mitrokhin archive and the secret history of the KGB, Basic
Books, New York, 1999, p. 490).
6
Testo del messaggio riportato in «L’Humanité», 27-10-1962, p. 4. Si
vedano anche i rapporti a uso interno del governo USA sui media sovietici
What the Soviet people are being told, Oct. 26, 1962, p. 2 (in DNSA,
CC01422) e Chronicle of Soviet propaganda on the Cuban crisis (JFKL,
NSF, Box 49), nonché W. SCOTT, The face of Moscow in the missile Crisis,
p. 33, in «Studies in Intelligence», vol. 10, Spring 1966.
7
W. FLETCHER, Religion and Soviet foreign policy, 1945-1970, Oxford
University Press, London, 1973, p. 102.
8
Nel 1962 Nikodim, appena trentatreenne, era già responsabile delle
relazioni estere del patriarcato di Mosca. Pochi mesi dopo sarà nominato
metropolita di Leningrado, carica di importanza seconda solo al patriarca
nella gerarchia ortodossa (C. ANDREW – V. MITROKHIN, op. cit., pp. 486-487 e
490).
9
ACS, Pres. Cons. Ministri (Fanfani), Uff. Cons. Diplomatico, Busta
35 (Cuba).
10
FO 371/166270. UK National Archives, Kew.
11
FO 371/162397, MF R.33. UK National Archives, Kew.
Recentemente anche lo storico italiano Neglie ha definito la chiesa
ortodossa russa dell’epoca «filosovietica», riportando inoltre il testo di una
direttiva sovietica del 1962 che testimonia appunto l’esistenza di un disegno
governativo per l’uso politico delle organizzazioni religiose dell’URSS. Nel
documento si legge tra l’altro: «A questo punto occorre favorire le attività
delle organizzazioni religiose dell’URSS all’estero nell’interesse del paese
sovietico, nell’interesse della lotta per il disarmo totale e per la pace». Tra le
varie misure da realizzare «nel corso del 1962», al fine di «smascherare la
politica ostile del Vaticano», c’era quella di «trasmettere un appello delle
organizzazioni religiose dell’URSS per i credenti cattolici, protestanti,
musulmani, buddisti degli altri paesi […] per il disarmo totale, per la pace»
(P. NEGLIE, op. cit., p. 70, 163).
12
Appello del Papa Giovanni XXIII, in «Pravda», 26-10-1962, p. 5.
13
«Revolucion», 25-10-1962, p. 3.
14
Il testo completo, a firma del rev. Fry di New York (presidente della
LCA, Lutheran Church in America), del rev. Payne (segretario generale
dell’Unione battista in Gran Bretagna e Irlanda) e del rev. Hooft (ginevrino,
segretario generale del WCC), recitava così: «Basandosi sulle dichiarazioni
fatte dalle assemblee del World Council of Churches, in varie occasioni i
comitati e dirigenti del WCC hanno espresso la loro preoccupazione e
rammarico quando i governi hanno intrapreso azioni militari unilaterali
contro altri governi. I funzionari del WCC considerano quindi loro dovere
esprimere grave preoccupazione e rammarico riguardo alle azioni che il
governo degli USA ha ritenuto necessario intraprendere riguardo a Cuba e
sperano ferventemente che ciascun governo coinvolto eserciterà il maggior
controllo possibile al fine di evitare un peggioramento delle tensioni
internazionali». Cfr. Officers of World Council urge restraint in crisis, in
«Boston Globe», Oct. 26, 1962, p. 24; Council regrets Cuban blockade, in
«The Washington Post», Oct. 27, 1962.
15
Geneva (Tubby) to SoS, Telegram n. 553, Oct. 24, 1962. NARA,
611.37, MI1855, Reel 43.
16
Né era la prima volta che si verificava una dinamica simile tra WCC
e Washginton (cfr. A. PRESTON, Sword of the spirit, shield of faith. Religion
in American war and diplomacy, Knopf, New York, 2012, pp. 483-484).
Inoltre è utile precisare che in seguito il WCC sarà soggetto anche ad
infiltrazioni sovietiche (cfr. A. DICKINSON, Domestic and foreign policy
considerations and the origins of post-war Soviet Chruch-State relations,
1941, 1946, in D. KIRBY (a cura di), op. cit., p. 23; C. ANDREW, KGB Foreign
Intelligence from Brezhnev to the Coup, in W. WARK (a cura di). Espionage:
past, present, future?, Routledge, New York, 1994, p. 52), ma solo a partire
dalla seconda metà degli anni Sessanta: la Chiesa ortodossa russa, infatti,
entra a farne parte solo a fine 1961 e nei primi anni si comporta in quel
consesso con particolare «prudenza e cautela» (W. FLETCHER, op. cit., pp.
117-139 e in part. pp. 121-122).
17
Il «Time» pubblicò un trafiletto critico sulla protesta del WCC
(Religion: The regrets of WCC, Nov. 2, 1962, p. 38). A quel punto uno dei
tre firmatari del comunicato, il rev. Fry, sentì il bisogno di contestualizzarlo,
quasi per giustificarlo, spiegando in una lettera alla rivista (Nov. 9, 1962, p.
17) che esso era stato emesso il 23 ottobre, prima che giungessero le
reazioni degli altri governi e di OAS ed ONU (più favorevoli agli USA).
Tale precisazione in realtà appariva goffa e spostava poco, come difatti un
lettore della rivista gli fece notare sul numero seguente (Nov. 16, 1962 p.
11), giacché la scelta di criticare un’azione militare non dovrebbe dipendere
da quanti altri Stati facciano altrettanto.
18
La American Lutheran Church (ALC) non va confusa – come
capitato a W. FLETCHER, op. cit., p. 130 – con la quasi omonima Lutheran
Church in America (LCA), presieduta da Fry (si veda nota sopra). La ALC
infatti era, «un po’ più piccola e considerevolmente più conservatrice»
(«Time Magazine», Nov. 6, 1962, p. 38). Trovandosi in quei giorni riunita a
Milwaukee, la ALC il 24 ottobre votò tale ripudio della dichiarazione del
WCC a maggioranza dei suoi 986 delegati, «dopo un vivace dibattito» e
nonostante il parere contrario del suo stesso presidente, rev. Schiotz.
L’esplicito ripudio della dichiarazione del WCC mostrava le diffidenze
verso quest’ultimo e il carattere conservatore della ALC, confermato in quei
giorni dagli stessi delegati e dalla stampa luterana. Due giorni prima, dopo
aver ascoltato insieme alla radio il discorso di Kennedy, i delegati della
ALC si erano raccolti in un momento di preghiera per i membri del
governo. Poi avevano inviato a Kennedy una dichiarazione di «compatto
supporto nella preghiera in quest’ora di crisi nazionale» («Possa il Dio della
pace sostenere la sua forza, garantirle saggezza e guidare i nostri passi nei
prossimi giorni cruciali, cosicché si possa trovare una soluzione onorevole e
pacifica della crisi») (D. RUNGE, The mood was conservative, in «The
Lutheran», Nov. 14, pp. 17-20; «Lutheran Standard», Nov. 6, 1962, p. 21;
The American Lutheran Church, Convention Minutes, p. 22). Si ringrazia
Joel Thoreson, archivista dell’ELCA (attuale raggruppamento erede della
ALC e della LCA) per i documenti e i chiarimenti forniti sul punto.
19
W. FLETCHER, op. cit., p. 130.
20
FO 371/162411, MF R.35, UK National Archives, Kew; Churches’
Council want Cuba talks, «The Times», 26-10-1962, p. 4; «The Guardian»,
26-10-1962.
21
FO 371/162411, MF R.35, UK National Archives, Kew.
22
FO 371/162411, MF R.35, UK National Archives, Kew.
23
Questa e la precedente definizione sono tratte da un lungo ritratto
pubblicato alla sua morte (C. MORRIS, Obituary: The Rev. Lord Soper, in
«The Independent», 23-12-1998). Durante la guerra contro il nazismo Soper
era stato escluso dalla BBC perché i suoi discorsi pacifisti alla radio
fiaccavano il morale della nazione; poi per decenni era stato un oratore
regolarmente presente sia in tv sia allo speaker’s corner di Hyde Park;
infine nel 1965 sarà nominato barone e fatto membro della Camera dei
Lord, che pure egli aveva apertamente osteggiato (cfr. anche Heckle and
Hyde: marathon mission reaches 95, in «BBC News», 31-1-1998,
http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/51006.stm).
24
Donald Soper, in «The Tribune», 9-11-1962.
25
N. COUSINS, op. cit., p. 45.
26
«The New York Times», 30-10-1962, p. 17. Inoltre, un breve
richiamo alla cautela su Cuba era arrivato due giorni prima dal suo
predecessore, Lord Fisher, arcivescovo di Canterbury dal 1945 al 1961.
Lord Fisher asks caution on Cuba, in «The New York Times», 28-10-1962,
p. 38. (Sulle controverse dichiarazioni di Lord Fisher sui temi internazionali
di quegli anni, come la crisi di Suez, si veda A. CHANDLER – D. HEIN,
Arcibishop Fisher, 1945-1961. Church, state and ecumenism, Ashgate,
London, 2012.)
27
Come risulta per esempio, relativamente al Novecento,
dall’appartenenza a gruppi religiosi, più estesa in USA che altrove. Cfr. C.
LIPPY, Religion, in S. WHITFIELD (a cura di), A companion to 20 th century
America, Wiley-Blackwell, Hoboken, NJ, 2004, pp. 413-430, e in part. p.
427.
28
Cfr. J. HERZOG, The Spiritual-Industrial complex: America’s religious
battle against Communism in the early Cold War, Oxford University Press,
New York, 2011; W. INBODEN, Religion and American foreign policy 1945-
1960: The soul of Containment, Cambridge University Press, Cambridge-
New York, 2008; J. GUNN, Spiritual weapons: The cold war and the forging
of an American national religion, Praeger, Westport, 2008; J. STEVENS, God-
fearing and free. A spiritual history of America’s cold war, Harvard
University Press, Cambridge, MA, 2010.
29
Cfr. per esempio L. RIBUFFO, Religion in the history of U.S. foreign
policy, pp. 1-29 in E. ABRAMS, The influence of faith: religious groups and
U.S. foreign policy, Rowman & Littlefield, Lanham, MD, 2001; A.
SCHLESINGER Jr., War and the American Presidency, W.W. Norton & Co.,
New York, 2004, pp. 143-166; R. HABERSKI Jr., God and war: American
civic religion since 1945, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ,
2012; lo studio statistico di A.O. HERO Jr., op. cit., che rileva uno «scarso
impatto diretto» delle Chiese cristiane USA sulle vedute di politica
internazionale dei loro fedeli (pp. 17, 206, 184); K. WALD – A. CALHOUN-
BROWN, Religion and politics in the United States, Rowman & Littlefield,
Lanham, MD, 2007. Anche quest’ultimo riconosce il carattere meno
polarizzante di quanto si creda della religione come fattore politico in USA,
specie oggi e riguardo alla politica estera (cfr. p. 201); relativamente al
periodo della guerra fredda individua invece dei binomi di corrispondenza
tra appartenenza confessionale e linee di politica estera più o meno
aggressivamente anticomunista (cfr. p. 199) che però la nostra analisi non
appare confermare nel caso della CMC. A questa letteratura si è aggiunto
ora l’importante saggio di A. PRESTON, op. cit., che ripercorre in un’unica
ricchissima opera il ruolo notevole, seppur non univoco, avuto dalla
religione nella formazione della politica estera americana, partendo dai
tempi dei Padri pellegrini sino ad oggi.
30
Ciò emerge chiaramente dai vari studi sul tema usciti in quei mesi:
PH. RAMSEY (a cura di), War and the Christian conscience, Duke University
Press, Durham, NC, 1961; D. KEYS (a cura di), God and the H-Bomb,
Random House, New York, 1961; W. STEIN (a cura di), Nuclear weapons: A
Catholic response, Sheed and Ward, New York, 1961; W.J. NAGLE (a cura
di), Morality and modern warfare. The state of the question, Helicon Press,
Baltimore, 1960; W. CLANCY (a cura di), The moral dilemma of nuclear
weapons, Council on Religion and International Affairs, New York, 1961;
J.C. BENNETT (a cura di), Nuclear weapons and the conflict of conscience, C.
Scriner’s Sons, New York, 1962. Tra gli autori e curatori di questi studi
antologici vi erano teologi che ritroveremo tra qualche pagina come
firmatari di petizioni sulla CMC, quali Tillich o Bennett.
31
Policy of limited wars backed in report to Episcopal bishops, in «The
New York Times», 30-10-1962, p. 17.
32
Kruscev-Kennedy, lettera privata del 26-10-1962. Si veda la Parte
prima.
33
Chief Episcopal bishop backs Cuba-Turkey missile proposal, in «The
New York Times», 28-10-1962, p. 32.
34
«The Lutheran», Nov. 7, 1962, p. 4. La Chiesa luterana – Sinodo del
Missouri contava contava all’epoca 2,6 milioni di membri battezzati e 6100
pastori. Era considerata di orientamento teologicamente ed
internazionalmente conservatore (cfr. A.O. HERO Jr., op. cit., pp. 18, 172,
176).
35
The Time 100 – Heroes and icons – Billy Graham, in «Time
Magazine», June 14, 1999.
36
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, cit., p. 807.
37
B. GRAHAM, Just as I am, Harper Collins, New York, 1997, p. 398.
38
Dagli anni Ottanta in poi, Graham accentuerà nei suoi sermoni gli
accenni a un impegno morale contro la corsa agli armamenti e per la pace
mondiale, dispiacendosi di non averne parlato abbastanza in passato. Cfr. P.
BOYER, When time shall be no more, cit., pp. 139-140.
39
La definizione di «Time» è riportata in «Christian Century», May 15,
1963, p. 634.
40
Tra i religiosi che firmarono questo documento c’erano anche Homer
Jack e Norman Thomas (si vedano il capitolo Stati Uniti d’America e «I.F.
Stone Weekly», Oct. 29, 1962, p. 2).
41
Né, incalza Muste, si può più sostenere che il fatto di non averle poi
usate abbia reso quelle armi un deterrente nel senso usuale: quando si tratta
ormai del fatto che «il nostro governo escogiti una concreta politica che
prevede specificamente l’uso di rappresaglia nucleare e che pianifica come
armi e uomini debbano essere disposti nel caso che il conflitto di potere
prenda un certo corso», la capacità atomica «diventa qualcosa di più di un
deterrente generico. A meno che non venga riconosciuta questa distinzione,
null’altro che lo scoppio della guerra nucleare stessa porterà certi uomini –
compresi certi uomini di chiesa – a lasciar cadere l’argomentazione che le
armi nucleari servono uno scopo di deterrente, che esse esistono [solo] per
assicurare che non verranno usate». Insomma, si «richiede un riesame alla
luce dello sviluppo politico che è diventato evidente nella crisi di Cuba».
42
A.J. MUSTE, Love and power in today’s setting, in «Christian
Century», 15-5-1963, pp. 634 e 639-643.
43
È infatti in quella cattedrale che nel 1968 Martin Luther King, quattro
giorni prima d’essere ucciso, definirà quella del Vietnam «una delle guerre
più ingiuste che siano mai state combattute nella storia del mondo». Ed è
ancora lì che Clinton nel 1998 e poi G.W. Bush nel 2001 terranno i loro
discorsi dopo gli attentati subiti da al Qaeda, annunciando al Paese le
rispettive linee di reazione (A. PRESTON, op. cit., pp. 524 e 604-605).
44
Sui particolari della lettura pubblica del testo, Prayer asked as crisis
abates, in «The Washington Post», 29-10-1962, p. B2.
45
W. BLANCHARD, American Civil Defense, 1945-1975, FEMA,
Washington, DC, 1980, p. 329.
46
Si ricordi che, come detto, il testo fu completato la sera di sabato 27,
quando la crisi era all’apice.
47
La qualifica di nazione «under God» fu aggiunta al Pledge of
Allegiance nel 1954, cioè in piena guerra fredda, per definire ciò che
distingueva gli USA dal comunismo ateo dei loro avversari. Cfr. R. ELLIS,
To the flag: The unlikely story of the Pledge of Allegiance, University Press
of Kansas, Lawrence, 2005, pp. XIII-XIV e 125-127; R. FRIED, The
Russians are coming! The Russians are coming!, Oxford University Press,
New York, 1988, p. 96.
48
Andover-Harvard Theological Library: Paul Tillich Archive at
Harvard, Box 522, file 21 (PTAH 522:021). Si ringraziano Frederick
Parrella (North America Paul Tillich Society, Santa Clara University) e Fran
O’Donnell (Harvard Divinity School) per la collaborazione nel reperimento
di questo importante documento.
49
Tra cui il reverendo Angus Dun (ex vescovo episcopale di
Washington) e John C. Bennett, Samuel Miller e Jerald C. Brauer (tre rettori
di seminario, rispettivamente a New York, Harvard e Chicago).
50
A. SCHLESINGER Jr., Forgetting Reinhold Niebuhr, in «The New York
Times», Sept. 18, 2005.
51
D. BROOKS, Obama, Gospel and Verse, in «The New York Times»,
Apr. 26, 2007.
52
M. RUBBOLI, Politica e religione negli USA: Reinhold Niebuhr e il suo
tempo (1892-1971), Franco Angeli, Milano, 1986, p. 260.
53
Tale linea di pensiero giustificava, in alcune condizioni, la guerra,
vedendola come una tragica necessità, data l’imperfezione della natura
umana e del sistema internazionale. Parimenti ammetteva la politica di
deterrenza nucleare (cfr. per esempio J. FARRELL, Thomas Merton and the
religion of the bomb, in «Religion and American culture. A journal of
interpretation», vol. 5, 1, Winter 1995, pp. 80-81).
54
Cfr. A. PRESTON, op. cit., pp. 525-526.
55
«wild men»: qui in senso metaforico (uomini duri, solitamente senza
scrupoli o timori).
56
Kruscev, proseguiva qui Niebuhr, «ha comunque provato che,
sebbene i comunisti siano avversari pericolosi e difficili, essi sono anche
calcolatori e astuti, e ben differenti dall’impetuosa pazzia di un Hitler. In
effetti, ogni stretta analogia tra nazismo e comunismo è davvero fuorviante.
Il fatto che entrambi siano dittature oscura una differenza importante tra
loro. Dei due, il comunismo è infinitamente più pericoloso».
Quest’impegnativa affermazione naturalmente veniva spiegata più in
dettaglio da Niebuhr nell’articolo, ma qui – come in molti altri dei
documenti presentati – abbiamo dovuto limitarci a citarne l’essenziale.
57
Il tema del tempo come alleato nella lotta contro il fanatismo
comunista è ricorrente nel pensiero di Niebuhr (cfr. M. BERKE, The disputed
legacy of Reinhold Niebuhr, in «First things», Nov. 1992).
58
R. NIEBUHR, The Cuban Crisis in retrospect, in «New Leader», Dec.
10, 1962, pp. 8-9. Il teologo americano tornò poi a scrivere della CMC
anche su «Christianity and Crisis» (CH. BROWN, Niebuhr and his age, Trinity
Press International, Philadelphia, 1992, pp. 218-219). Per un ulteriore, ma
meno significativo, breve accenno di Niebuhr alla CMC, si veda infine A
tentative assessment, in «New Leader», Dec. 9, 1963.
59
Bennett è stato «un teologo le cui opinioni su religione, politica e
politiche sociali hanno influenzato la mentalità americana per decenni»,
secondo la definizione del «New York Times» (John C Bennett, a
theologian of outspoken views, dies at 92, «The New York Times», 2-5-
1995). Nel 1962 egli era decano dell’Union Theological Seminary. Nella
settimana della CMC firmò ben tre petizioni: oltre a questa e a quella dei
teologi protestanti illustrata poc’anzi, infatti, Bennett era anche tra i
quattrocentocinquanta accademici dell’inserzione sul «New York Times»
(si veda il capitolo Stati Uniti d’America).
60
U.S. religious leaders beg government and people to use reprieve
wisely, in «I.F. Stone Weekly», Nov. 5, 1962, p. 2 (testo integrale del
messaggio). Tra i firmatari del messaggio vi erano anche il predicatore
luterano Paul Scherer e due importanti figure che abbiamo già incontrato: il
teologo Paul Tillich e il pediatra Benjamin Spock (che evidentemente era
stato incluso pur non essendo religioso in quanto molto attivo sui temi della
distensione). Cfr. «The Lutheran», Nov. 14, 1962, pp. 8-9.
61
Ralph Dungan a Father Nugent, Nov. 9, 1962, in JFKL, Dungan
Papers, Box 7. Va aggiunto che tali ringraziamenti privati di Dungan per
conto di JFK erano stati sollecitati via lettera dallo stesso Nugent, reverendo
del Missouri. JFK infatti difficilmente si sarebbe esposto, sapendo di essere
in una posizione delicata come primo presidente cattolico nella storia USA.
Nella campagna del 1960 erano circolati timori di potenziali ingerenze
vaticane sulle sue decisioni, ed egli stava perciò attento a mantenere sempre
una certa distanza pubblica dal Vaticano.
62
In un apposito riquadro, il quotidiano del PCI lamentò che quelle frasi
«non possono non essere interpretate come un appoggio a una delle due
parti in causa» (gli USA), contraddicendo così «la universalità della Chiesa
cattolica» e l’accorato invito alle trattative appena espresso dal Papa.
«l’Unità», 27-10-1962, p. 3.
63
Cardinal warned of Cuba in ’61, in «Boston Globe», 25-10-1962, pp.
1 e 10.
64
Bishop Carroll praises Kennedy stand on Cuba, in «Miami News»,
25-10-1962, p. 6A.
65
Hannan a Ralph Dungan, Nov. 9, 1962, in JFKL, Dungan Papers,
Box 7.
66
Di questo avviso per esempio A. MELLONI, L’altra Roma, Il Mulino,
Bologna, 2000, p. 132: «i padri e i periti del Vaticano II non hanno una
percezione esatta delle cose, quasi dimentichi che già nel 1870 il Concilio
era stato la prima vittima della guerra».
67
Preoccupate dichiarazioni dei vescovi cubani, in «La Giustizia», 24-
10-1962 e la successiva smentita, tramite comunicato dell’«Osservatore
Romano», riportata in «La Giustizia», 27-10-1962. Cfr. anche G. FOGARTY,
La crisi dei missili a Cuba: un’iniziativa papale per il mondo, in G.
ALBERIGO (dir.), Storia del Concilio Vaticano II, vol. 2, cit., p. 119.
68
Predicando il 28 febbraio 1963 in un santuario mariano vicino a
Bergamo, Montini disse: «siamo anche oggi in uno stato di pericolo. […]
Sembra che noi facciamo i profeti di sventura, quando […] richiamiamo
l’attenzione sopra le minacce, la precarietà e l’incombenza di certe rovine
che possono ancora colpire […] la nostra civiltà. […] Non aggiungo niente
a quello che dicono ogni mattina i giornali: conferenze ovunque per
scongiurare la guerra, per il disarmo, per la pace. Proporzioni simili di
possibilità di danno non ci sono mai state – come avvenimenti recenti
hanno dimostrato – e crescono […] La minaccia c’è. […]». G.B. MONTINI,
Discorsi e scritti milanesi, Istituto Paolo VI, Brescia, 1997, p. 5648.
69
Y. CONGAR, Diario del Concilio, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo, 2005, vol. I, p. 175. Il maiuscolo è nell’originale e, per quello che
ci pare ragionevole dedurre dal contesto della frase, sta a rafforzare
l’impressione dell’effettivo pericolo che essa scoppi.
70
A. MELLONI, op. cit., p. 132.
71
G. LERCARO, Vi ho chiamato figli: foglietti di meditazione, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 396. Alla luce di questa sua
relativamente maggiore consapevolezza, non stupisce che in seguito proprio
Lercaro, con l’aiuto di Dossetti, abbia preparato una bozza di intervento per
invitare il Concilio ad affrontare esplicitamente il problema della guerra nel
mondo contemporaneo, sebbene poi rinunciando a presentarlo. Cfr. G.
TURBANTI, Il tema della guerra al Concilio Vaticano II, in M. FRANZINELLI – R.
BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra, cit., pp. 601-603; su quest’episodio,
cfr. G. TURBANTI, Il tema della guerra al Concilio Vaticano II, in M.
FRANZINELLI, R. BOTTONI (a cura di), Chiesa e guerra, cit., pp. 601-603; D.
MENOZZI, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2008, p.
273.
72
GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, parte III, 67.
73
Su quest’appello, come detto, ci riserviamo di tornare in un prossimo
studio.
74
Per una conferma di tale legame, cfr. per esempio A. RICCARDI in A.
GIOVAGNOLI (a cura di), Pacem in terris, p. 26 o G. ZIZOLA, Giovanni XXIII:
La fede e la politica, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 291.
75
GIOVANNI XXIII, op. cit., parte III, 67.
76
J. FARRELL, Thomas Merton and the religion of the bomb, in «Religion
and American culture. A journal of interpretation», vol. 5, n. 1, Winter
1995, pp. 90. Un esempio è dato dall’influenza che Merton ebbe sui preti
cattolici Daniel e Philip Berrigan, due attivisti pacifisti insieme ai quali egli
fonderà poi una «coalizione interconfessionale contro la guerra in Vietnam»
(cfr. E.L. QUEEN II – S. PROTHERO – G. SHATTUCK JR. (a cura di), Encyclopedia
of American religious history, Infobase Publishing, New York, 2009, p.
189). A proposito dei fratelli Berrigan, inoltre, dato il ruolo che questi due
sacerdoti acquisiranno con le loro successive azioni di protesta radicale, è
interessante segnalarne la contrarietà già rispetto alla CMC. In un’intervista
Philip ricordò infatti che nella CMC Kennedy e Kruscev stavano
«decidendo se io sarei vissuto o morto, senza alcuna consultazione.
Nessuno fu interpellato. E io mi dicevo: questi tizi stanno giocando a fare
Dio con noi» (A. PRESTON, op. cit., p. 528). Si noti come la stessa
espressione – «giocare a fare Dio» – JFK l’avesse attribuita a Kruscev, il
giorno della scoperta dei missili a Cuba (si veda la Parte prima).
77
Thomas Merton a Etta Gullick, Oct. 29, 1962 (T. MERTON, Cold War
letters, Orbis Books, New York, 2006, pp. 189-190 e T. MERTON, The hidden
ground of love, Farrar, Straus & Giroux, New York, 1985, pp. 355-356).
78
T. MERTON, Passion for Peace, Crossroads Publishing Company, New
York, 1997, p. 2: «Nei circoli cattolici nessuno rivaleggiava con lui in
preminenza o influenza», scrive Shannon nell’introduzione del volume.
79
T. MERTON, Cold War letters, cit., pp. XIII, XX, XXI; T. MERTON,
Witness to freedom, Farrar, Straus & Giroux, New York, 1994, p. X; T.
MERTON, Peace in the post-Christian era (P.A. Burton, ed.), Orbis, NY,
2004, pp. VII-LV.
80
T. MERTON, Cold War letters, cit., pp. 4-6. Riguardo ai moralisti e
teologi cattolici cui Merton faceva riferimento, si veda D. MENOZZI, op. cit.,
p. 221-232.
81
T. MERTON, Cold War letters, cit., pp. 109-110 (T.M. a Gerald Landry,
Glen Garden, metà marzo 1962).
82
Ivi, p. 8.
83
T. MERTON, Passion for Peace, cit., pp. 63-64.
84
T. MERTON, Witness to freedom, cit., pp. 50-51 (T.M. a Justus George
Lawler, fine aprile o maggio 1962).
85
T. MERTON, Confessioni di un testimone colpevole, Garzanti, Milano,
1992, p. 216). O in quest’altro passo (ivi, pp. 44-45): «In refettorio si sta
leggendo un libro tendenzioso sul comunismo. Il comunismo è insidioso.
[…] Se lo odiamo veramente con tutta la forza del nostro essere, potremo
essere certi che siamo e rimarremo giusti, liberi, sinceri, onesti, aperti.
Oggi, quindi, dice il libro, l’odio contro il comunismo è il segno che
distingue il vero cristiano. […] Odiare Castro. Odiare Kruscev. Odiare Mao.
Tutto questo ci vien detto tra una frase e l’altra che parla di ‘amore
misericordioso di Dio’ e di ‘pulsazioni del Sacro Cuore’».
86
T. MERTON, The intimate Merton. His life from his journals, Harper
Collins, New York, 1999, p. 193.
87
T. MERTON, Confessioni di un testimone colpevole, cit., pp. 249-250.
88
Ivi, pp. 257-258.
89
Merton indica in corsivo la parola «popolo» per sottolineare che la
paura vera in URSS dovesse averla provata la gente più che la leadership.
In realtà era vero l’opposto: era stato Kruscev in primis ad avvertirne il
timore, conoscendo la gravità della situazione, mentre la popolazione
sovietica aveva avuto una percezione dei rischi di minore intensità, anche
per le poche notizie che riceveva.
90
T. MERTON, Turning toward the world: The journals of Thomas Merton
– Vol. 4 (1960-1963), Harper Collins, New York, 1996, pp. 256-264.
91
Ivi, pp. 276-277.
92
Non risulta che JFK lo abbia letto. Si sa però che suo fratello Robert
un paio di mesi prima si era informato se Merton potesse venire alla Casa
Bianca a tenere una conferenza religiosa (Merton ci pensò un po’ e poi
rinunciò). Il particolare è nei diari di T. MERTON (Turning toward the
world…, cit., p. 305; 21-3-1963) e in J. FARRELL, Thomas Merton and the
religion of the bomb, in «Religion and American culture. A journal of
interpretation», vol. 5, n. 1, Winter 1995, p. 90.
93
Th. Merton a Ethel Kennedy, 14-5-1963 (T. MERTON, The hidden
ground of love, cit., p. 359). Su Merton e la CMC cfr. pure il suo giudizio,
sostanzialmente analogo, citato in R. POWASKI, Thomas Merton on nuclear
weapons, Loyola University Press, Chicago, 1988, p. 25: «L’azione di
Kennedy fu estremamente rischiosa. Ha quasi precipitato una guerra
nucleare, e sarebbe potuta andare così. Ma al tempo stesso si può dire che
essa forse ha prevenuto la guerra nucleare (i militari americani avrebbero
potuto cominciare ad avere il grilletto eccessivamente facile, con un sacco
di basi missilistiche operative a Cuba)».
94
J. Maritain a Th. Merton, June 1, 1963 (Section A, Correspondence,
Maritain file, Thomas Merton Center, Bellarmine University). Si ringrazia
Mark C. Meade del Thomas Merton Center per il prezioso e cortese aiuto
nel reperire questa lettera inedita.
95
Th. Merton a J. Maritain, 11 giugno, 1963 (T. MERTON, Il coraggio
della verità, Piemme, Casale Monferrato, 1997, pp. 97-107).
96
T. MERTON, The non-violent alternative, Farrar, Straus & Giroux, New
York, 1980, p. 90 (corsivi originali).

Italia
1
Russo viene inviato all’ONU, a New York (non a Washington come
ricordava Ducci) e vi arriva il pomeriggio del 24 (tel. n. 368, 23-10-1962,
Archivio Storico-Diplomatico MAE, Telegrammi ordinari, 1962, vol. 71,
ONU. Italnation, Italninf, NY).
2
Il particolare della visita a Waterloo fu confidato, con intento
esplcitamente critico, dal segretario generale del Ministero, Attilio Cattani,
all’ambasciatore italiano a Parigi, Manlio Brosio, il quale lo annotò nei suoi
diari (M. BROSIO, op. cit., p. 255).
3
R. DUCCI, I capintesta, Rusconi, Milano, 1982, pp. 143-148.
4
Le località delle dieci basi erano: Gioia del Colle (la principale e la
prima a divenire operativa), Acquaviva delle Fonti, Altamura (due basi),
Gravina, Irisina, Laterza, Matera, Mottola, Spinazzola. I missili erano
sempre eretti e con le testate già montate, giacché dovevano essere
perennemente pronti al lancio in quindici minuti. Essi avevano una potenza
equivalente a cento volte l’atomica lanciata su Hiroshima (sulla presenza
delle testate in cima ai missili, cfr. L. NUTI, La sfida nucleare, Il Mulino,
Bologna, 2007, p. 203).
5
«Air strike Plan» (NSA) e altra documentazione riportata in L. NUTI,
Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 539.
6
Cfr. L. NUTI, La sfida nucleare. Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 173-
199; Rome to Secr. of State, Oct. 26, 1962. DNSA, CU00763; A. VARSORI,
op. cit., p. 136; E. MARTELLI, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera
italiana (1958-1963), Guerini e Associati, Milano, 2008, pp. 40-41.
7
Lo scambio di note è del 26 marzo 1959. Cfr. L. NUTI,
Dall’Operazione Deep Rock all’Operazione Pot-Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in Storia delle Relazioni
Internazionali, 1996-1997, n. 1, pp. 95-139 e n. 2, pp. 105-149; D. SORRENTI,
L’Italia nella Guerra fredda. La storia dei missili Jupiter 1957-1963,
Edizioni Associate, Roma, 2003, p. 18; DoS to Bundy, memo, Jupiters in
Italy and Turkey, DNSA, CC00822.
8
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta del 30-9-
1958, pp. 1863-1871 (sui dibattiti parlamentari in merito, cfr. anche D.
SORRENTI, op. cit., pp. 120-123 e 144-161).
9
Quei missili, ricorda Reinhardt nel 1966, «erano una forma di difesa a
dir poco difficile. Giacevano risplendenti sull’altopiano della Puglia, alla
vista di tutti, ed era abbastanza palese che la loro distruzione con un
improvviso attacco aereo nemico non sarebbe stata una cosa molto difficile
da ottenere». F. Reinhardt OHI, p. 9., DNSA, CC03232.
10
Nel corso della visita a Mosca di Fanfani e Segni (2-5 agosto 1961),
Kruscev aveva detto loro, con ovvi intenti politici di intimidazione e
divisione della NATO, che in caso di conflitto i missili italiani sarebbero
stati un bersaglio sicuro e facile, facendo dell’Italia una sorta di ostaggio
nelle mani di Mosca: «Se Washington scatena la guerra sarete voi a dover
morire» (citato in B. BAGNATO, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia
nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica 1958-1963, Olschki,
Firenze, 2003, p. 475).
11
Si ricordi per esempio la già vista frase di Ball nella riunione del 18
ottobre: «Credo che il prezzo sarà alto […] Il minimo assoluto che potrà
essere sarà rimuovere i missili da Italia e Turchia. [Ma] dubito che potremo
risolverla così» (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 143).
12
Citato in L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 540; cfr. pure S. STERN, The
Cuban missile crisis…, cit., p. 167.
13
Pur in attesa di una necessaria conferma da documenti NATO, la
testimonianza del generale Genta è suffragata dal maresciallo Antonio
Mariani, anch’egli di stanza alle basi in quei giorni, sia nel suo libro sia in
un colloquio avuto con noi sull’argomento (A. MARIANI, La 36 a Aerobrigata
Interdizione Strategica ‘Jupiter’. Il contributo italiano alla Guerra Fredda,
Roma, Stato Maggiore Aeronautica, Uffico Storico, 2013, pp. 28 e 299;
intervista con l’autore, 2013). Del resto risulta che anche gli analoghi
missili turchi in quei giorni furono posizionati in «un qualche stato di allerta
più alto del normale» (PH. NASH, op. cit., pp. 126 e 202).
14
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
15
Anche perché «la consapevolezza pubblica delle installazioni Jupiter
in Italia è, considerate tutte le circostanze, minima»: cioè gli italiani sanno a
malapena di averle. Rome to Secr. of State, Oct. 26, 1962, DNSA,
CU00763. Ciò costituisce un esempio delle interazioni tra gli aspetti
diplomatico-militari e quelli sociali della CMC.
16
E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564.
17
riportato in L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 543.
18
Si veda la Parte prima (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 564). Inoltre,
si noti che nel prosieguo della riunione, mentre McNamara parlava della
Turchia, il Presidente torna a soggiungere: «e l’Italia, tira dentro l’Italia
(Or… and Italy, throw in Italy)». S. STERN, Averting the final failure, cit., p.
351.
19
A tal proposito è interessante (perché significativo del legame
implicito esistente tra ritiro delle basi turche e ritiro delle basi italiane)
notare come, benché i due «memo» ufficiali stilati da RFK e Dobrynin per i
rispettivi governi sul contenuto del loro incontro segreto del 27 ottobre
menzionino solo la Turchia e non l’Italia, quest’ultima compaia però poi sia
nel resoconto di quell’incontro incluso nel successivo libro di R. KENNEDY
(op. cit., p. 82), sia nelle memorie di Kruscev (edizione 1974, p. 512;
edizione 2007, p. 350). Sul punto, cfr. anche J. HERSHBERG, Anatomy of a
controversy, in «CWHIP Bulletin», Spring 1995.
20
L. FREEDMAN, op. cit., p. 222 (cfr. anche L. NUTI, La sfida nucleare,
cit., p. 247).
21
Seppure solo relativamente al fatto di non averne esplicitamente
«trattato coi sovietici», a quanto risulta dalle note sui colloqui del 16
gennaio 1963 stilate da ambo le parti (Memo of Conversation, Jan. 16,
1963, in JFKL, NSF, Italy, Box 121; 16 gennaio 1963, Diari Fanfani,
ASSR). Sul fatto che Fanfani fosse consapevole dell’insincerità di queste
assicurazioni USA concorda anche E. MARTELLI, op. cit., p. 401.
22
Rome to DoS, Jan. 17, 1963, in DNSA, CC02859.
23
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 555.
24
McN to Andreotti, Jan. 5, 1963. «Dear Mr. Minister: You will recall
that, during our conversation in Paris on December 13, I expressed the
view that the Jupiter missiles should be replaced by more effective missiles
now available. […]» Ist. Sturzo, Fondo Andreotti, Scritti («Gli Usa visti da
vicino»), Busta 632.
25
9 gennaio 1963, Diari Fanfani, ASSR. Si precisa inoltre che sempre il
9 gennaio la comunicazione era stata esposta anche in via orale a Piccioni
dall’ambasciatore Reinhardt, come risulta dai diari dell’ambasciatore
italiano a Parigi (M. BROSIO, op. cit., p. 298).
26
P. NEGLIE, La stagione del disgelo, Cantagalli, Siena, 2009, pp. 166-
167.
27
La situazione non migliora (anzi!) nella sua versione più recente della
medesima storia, E. BERNABEI, L’Italia del ‘miracolo’ e del futuro,
Cantagalli, Siena, 2012, pp. 121-128. Per limitarsi agli esempi di errori più
macroscopici: Cousins non va né a Roma né a Mosca durante la CMC (è in
Massachusetts) e non parla direttamente né con JFK né con Kruscev; non è
affatto vero che i missili a Cuba fossero i primi a poter raggiungere gli USA
(i sovietici avevano già gli ICBM dal 1957), né che quelli italiani fossero
gli unici a poter raggiungere il territorio sovietico (c’erano anche quelli
turchi e i britannici); inoltre Robert Kennedy non fece nessun annuncio in
tv alla fine della crisi.
28
E. BERNABEI, L’uomo di fiducia, Mondadori, Milano, 1999, pp. 166-
169.
29
26 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR. Il virgolettato, relativo
appunto al colloquio Segni-Kissinger, è riportato in L. NUTI, Gli Stati
Uniti…, cit., p. 565.
30
L’ipotesi che l’offerta sia stata formulata invece dal ministro Piccioni
nell’incontro che questi ebbe il 25 pomeriggio a Roma con l’ambasciatore
USA Reinhardt, che pure abbiamo considerata, è apparsa poi da scartare
giacché il telegramma con cui quest’ultimo riferisce a Washington
dell’incontro (conservato in NARA, 611.65, Reel 93 e 611.37 Reel 44) non
fa minimamente menzione dell’argomento Jupiter. Inoltre l’incontro era
stato richiesto da parte americana, non italiana (cfr. «La Stampa», 26-10-
1962, p. 3).
31
Nov. 2, 1962, Memorandum for the President, Relations with the
Vatican, in JFKL, POF, Box 428.
32
Calendar for Saturday October 27 (indicante anche l’orario d’inizio
dell’incontro: 11.30 AM), in JFKL, Schlesinger Papers, Box 52.
33
Rome to DoS, Sep. 21, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box
12A (declassificato nel 2004).
34
Quest’ultima parte – l’uso di Schlesinger come mediatore – era
un’idea di Bernabei (non di Fanfani o del Papa), come egli stesso precisa a
George Lister, il funzionario americano che lo scortò alla Casa Bianca. Oct.
30, 1962, messaggio senza oggetto, in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box
12A.
35
Nov. 2, 1962 Memorandum for the President, Relations with the
Vatican, in JFKL, POF, Box 428.
36
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 585.
37
G. ANDREOTTI, Gli USA visti da vicino, Rizzoli, Milano, 1989, p. 55.
38
Intervista (scritta) ad Andreotti (Campus, 2009).
39
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009). Sulla prassi di Fanfani di
servirsi di intermediari informali, anche per una non totale fiducia nel
Ministero degli Esteri, cfr. A. VARSORI, op. cit., p. 133.
40
Benché, aggiungiamo per completezza, nel suo libro egli neghi che
McNamara a dicembre gliene avesse parlato in termini imminenti (G.
ANDREOTTI, op. cit., p. 55). Ma i diari di Fanfani, come mostrato,
testimoniano invece che Andreotti gli aveva menzionato quella richiesta di
ritiro come espressagli da McNamara già nel colloquio di dicembre.
41
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, pp. 560-561 (e L. NUTI, in M. VAISSE (dir.),
op. cit., pp. 154-155).
42
26 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
43
«Ho risposto», scrive Russo, «che problema meritava venire
approfondito sede NATO ma sembravami comunque preferibile mantenere
tale contropartita nel quadro negoziato disarmo e limitare negoziato Cuba a
situazione questo emisfero». Telegramma n. 712, 26-10-1962, 0.40 [ora di
NY; la ricezione a Roma è segnata alle 8.30 del mattino]. Archivio Storico-
Diplomatico, MAE, Telegrammi Segreti, 1962, ONU – New York, vol. II.
44
Del medesimo avviso, del resto, si era detto due giorni prima anche il
segretario generale del Ministero, Cattani, in un colloquio privato avuto il
24 ottobre con l’ambasciatore italiano a Parigi, come questi annotò nei suoi
diari: «Cattani ritiene che non si possa sollevare l’argomento [del ritiro
degli Jupiter] in Italia su basi bilaterali con gli americani. Bisognerà
attendere che si arrivi a una soluzione multilaterale». Cfr. M. BROSIO, op.
cit., p. 255.
45
Colloquio Fanfani-Russo, in «La Giustizia», 27-10-1962, p. 1.
46
27 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR: «Vedo Piccioni e gli dico di
telegrafare a Russo che torni a vedere U Thant incoraggiandolo e
sostenendolo nella sua opera conciliativa. […] Quaroni […] suggerirebbe
che in caso di necessità e se richiesto dagli USA si potrebbe anche
considerare […] lo smantellamento delle basi europee missilistiche USA».
47
Su questo particolare politico-cronologico, precisatoci personalmente
da Bernabei (Intervista 2009, Campus-Nuti) c’è un’indiretta conferma di
Andreotti in un suo articolo su papa Giovanni pubblicato nell’aprile 2002
sul suo mensile «Trenta Giorni». Nella crisi di Cuba, scrive Andreotti, «vi
fu […] un’iniziativa del nostro presidente del Consiglio Amintore Fanfani e
che io apprendo solo ora pur essendo in quel momento ministro della
Difesa». (Così dicendo Andreotti entra inavvertitamente in flagrante
contraddizione con sé stesso, visto che lo aveva rivelato già nel suo libro
del 1989, spiegando di averlo appreso da McNamara pochi mesi dopo la
crisi.) «Per corrispondere all’invito del Papa», continua Andreotti
riferendosi all’appello del 25, «–nelle ultime ventiquattro ore utili prima
dell’ultimatum di Washington – Fanfani incaricò Bernabei, che era negli
Stati Uniti per ragioni di lavoro RAI, di comunicare a Washington che
l’Italia era pronta a far ritirare i missili di Gioia del Colle […] In effetti lo
scambio tra i missili italo-turchi e quelli cubano-sovietici avvenne, ma non
so se l’idea di Fanfani fu alla base dell’intesa o si aggiunse». In realtà
Bernabei ricevette solo la risposta (non propose lui l’offerta, come ci ha
confermato lui stesso). La dichiarazione è comunque interessante perché,
come detto, mette anch’essa in relazione causale la diplomazia di Fanfani
con l’appello papale.
48
Scrive Fanfani nei suoi diari del 25, come primo fatto della giornata,
evidentemente mattutino (infatti la nota seguente è su un incontro delle ore
11): «Il Papa che è venuto a conoscenza della mia attività dei giorni scorsi
per la pace, mi ha fatto esprimere la sua soddisfazione». Ciò collima
precisamente con quanto ci aveva detto Bernabei, e cioè che «Fanfani parlò
con Dell’Acqua, già prima dell’appello; (…) probabilmente Dell’Acqua
andò a colazione a casa Fanfani, perché se Fanfani fosse andato in Vaticano
sarebbe stato notato» (Intervista a Bernabei. Campus-Nuti, 2009). Mons.
Angelo Dell’Acqua, membro della Segreteria di Stato, era uno strettissimo
collaboratore del Papa e proprio quella notte aveva steso con lui il testo
dell’appello poi pronunciato a mezzogiorno.
49
Schlesinger Papers, Box 52 JFKL (White House Daily Schedules).
50
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009).
51
Che JFK in quel momento fosse lì nel Cabinet Office risulta sia da
ciò che Schlesinger spiegò a Bernabei, sia dalle trascrizioni dei nastri. Si
tenga inoltre presente che in quella stessa riunione JFK aveva chiamato
Stevenson al telefono a New York, e i nastri (da cui risulta udibile solo il
lato di JFK) registrano lunghe pause in cui egli ascolta Stevenson. Alla fine
della conversazione JFK dice a Stevenson: «quel che dobbiamo fare è
convincerli ad accettare di fermare il lavoro [alle basi] mentre discutiamo di
tutte queste proposte, tutte queste offerte» (E. MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p.
321 dell’edizione 2002, corretta dagli autori rispetto alla loro precedente
trascrizione errata. Cfr. anche S. STERN, Averting the final failure, cit., p.
305). Il plurale della frase usata da JFK (all these proposals, all these
propositions) potrebbe riferirsi sia solo alle due lettere di Kruscev, sia anche
ad un’eventuale offerta italiana. Appena poche battute dopo la fine della
loro telefonata (durata «parecchi minuti»: S. STERN, The week…, cit., p.
155), i nastri si interrompono di colpo, e perciò la seconda parte della
riunione del 27 mattina non è registrata (presumibilmente a causa
dell’improvvisa fine del nastro, in un momento in cui nessun addetto alla
manutenzione era nel basement a rimpiazzarlo: questa l’ipotesi sia di E.
MAY – PH. ZELIKOW, op. cit., p. 516 sia di S. STERN, The week…, cit., p. 155).
Ciò significa che – sempre ammesso che la comunicazione di un’offerta
italiana non sia giunta da Stevenson durante quella telefonata – un
eventuale veloce ingresso di Schlesinger in stanza per chiamare il
Presidente a conferire a quattr’occhi con lui e concordare la risposta da dare
all’emissario italiano Bernabei (in attesa d’essere ricevuto nella stanza
accanto) potrebbe non risultare dai nastri anche per questo banale motivo.
52
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009); E. BERNABEI, L’uomo di
fiducia, cit., p. 169.
53
Nel 1983 Fanfani accennò qualcosa in proposito in un discorso
all’Università di Chicago (cfr. «Il Messaggero», 15-12-1987, p. 4). Poi nel
1987 – quando «Il Mondo» pubblicò alcuni brevi stralci dalle prime
trascrizioni declassificate dei nastri dell’ExComm, in cui (come abbiamo
mostrato anche qui) il 27 veniva nominato e brevemente discusso il ritiro
delle basi italiane – Fanfani, sentendosi forte a quel punto di una sorta di
conferma documentale divenuta pubblica, intervenne a rivendicare il suo
ruolo con un comunicato stampa, scritto di suo pugno, in cui precisava
quanto segue: «Queste rivelazioni confermano che aveva ragione Fanfani, e
non i giornalisti che tentarono di smentirlo, quando negli anni scorsi egli
ricordò che ad evitare lo scontro di Cuba nell’ottobre 1962 aveva
contribuito anche il governo da lui presieduto, annuendo alla richiesta USA
di procedere allo smantellamento dei missili Jupiter esistenti in Italia e
mettendo l’URSS in condizioni di recedere dallo scontro con gli USA»
(ASSR, Carte Fanfani, Sez. I, Serie I, Busta 71). Infine, non ci pare senza
significato l’inserimento di un suo foglio autografo tra le pagine dei suoi
diari del 1963 relative al ritiro degli Jupiter, foglio in cui egli scrive: «Basi
Jupiter – cfr. ottobre 62 crisi Cuba». Qualcosa di simile a un’indicazione
agli studiosi futuri a confrontare e mettere in relazione causale i due eventi
(ASSR, Diari Fanfani).
54
A conclusione del suo discorso per l’approvazione parlamentare del
bilancio del Ministero degli Esteri, Piccioni aveva rivendicato che anche
nella crisi appena alleviatasi il governo italiano «non ha cessato di
adoperarsi. […] I contatti, ripetuti e costanti, dell’onorevole Russo con il
signor U Thant hanno portato il nostro incoraggiamento all’azione di
conciliazione da questi svolta e ci hanno consentito di seguire da vicino
tutte le fasi della trattativa. Inoltre, non abbiamo mancato di far pervenire
alle parti più direttamente interessate la nostra parola per facilitare il
raggiungimento di una soluzione consensuale». Quest’ultima frase è quella
che evidentemente lascia intendere qualcosa di più (Atti parlamentari,
Verbali della Camera dei deputati, seduta del 30-10-1962, pp. 35346-
35347).
55
Il motivo per cui Fanfani nei suoi diari non specifica il contenuto
della telefonata negli USA del 26 sera e non menziona neppure quella della
mattina a Russo (e potrebbe ben avergli chiesto di usare analoga
riservatezza in merito, nei successivi telegrammi), potrebbe essere dovuto
alla consapevolezza della delicatezza di una mossa che oltretutto stava
attuando senza consultarsi né col presidente della Repubblica Segni (Capo
delle Forze Armate) né col ministro della Difesa Andreotti (il quale infatti,
come visto, si dirà poi piccato di esserlo venuto a sapere solo da
McNamara). Del resto non sarebbe questo l’unico punto sul quale i diari di
Fanfani restano volutamente silenti: basti pensare, in quegli stessi giorni,
alla totale mancanza di cenni sulla presenza di Bernabei a Washington e sul
suo incontro segreto con Schlesinger per parlare del Vaticano: un fatto
certo, e politicamente rilevante, di cui Fanfani era stato l’ispiratore, ma che
egli non annota. O ancora, si pensi al resoconto incompleto del proprio
colloquio con Eisenhower alla Casa Bianca il 30 luglio 1958: Fanfani ne
riporta tutta la parte relativa al Medio Oriente, ma ‘dimentica’ quella sui
missili Jupiter, che invece proprio in quel colloquio egli comunica di
accettare (ponendo la condizione che tutto avvenga in sordina: a cominciare
evidentemente dai suoi stessi diari…).
56
Se infatti nel 1958 accettare l’installazione dei missili aveva
significato per Fanfani accreditare a Washington il suo governo come
affidabilmente atlantico, offrire ora di ritirarli sarebbe rientrato non in una
mutata logica neutralista, ma nella medesima logica di ‘altro atlantismo’
(per usare la definizione di Martelli), configurandosi cioè come un tentativo
di aiutare gli USA ad uscire da una situazione pericolosa per tutti.
57
L. NUTI, Italy and the Cuban Missile crisis, in The global Cuban
missile crisis, in «CWIHP Bulletin», Fall 2012, p. 662.
58
Nell’ipotesi, invece, che tale iniziativa risulti infine più esagerata che
reale, la presunzione della sua esistenza da parte di Fanfani negli anni
Ottanta sarebbe indicativa di una volontà di attribuirsi il ruolo del
mediatore internazionale: un tratto del resto non raro tra i leader della storia
italiana (si veda sotto, nota 320).
59
A. SCHLESINGER Jr., I mille giorni…, pp. 872 e 874 (sull’atteggiamento
dell’amministrazione Kennedy, si vedano anche A. VARSORI, op. cit., pp.
143-144 e 148-149, e S. DI SCALA, Renewing Italian socialism, Oxford
University Press, New York 1988, pp. 123-132).
60
Assistance to the Italian Socialist Party, Oct. 19, 1962, in JFKL,
Schlesinger Papers, White House Files, Box 12 (Italy) e, in una versione più
completa (non sanitized), in JFKL, NSF, Italy, Box 121 declassificato nel
2005. Il termine «ogni» era sottolineato nell’originale.
61
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34924-34925.
62
A differenza di come giudicò quello di Lussu al Senato (23-10-1962,
Diari Fanfani, ASSR: «Agisco su PSI perché non si associ al PCI e prenda
una posizione moderata, come poi fa con De Martino alla Camera, ma non
con Lussu al Senato»).
63
Nenni: Chiediamo un incontro K-K e l’assemblea generale dell’ONU,
in «Avanti!», 24-10-1962, p. 1.
64
Rome to DoS, Italian reactions to the Cuban crisis, Nov. 28, 1962, in
JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
65
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 549 (Informal tour d’horizon with
Prime minister, Dec. 8, 1962).
66
Lo si ritrova infatti in vari documenti: Rome to DoS, Oct. 26, 1962
(in NARA, 611.37, Reel 27); Italy’s Center-Left government and the Cuban
crisis (in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A); Our major European
allies and the Cuban crisis (in DNSA, CC01937).
67
Meloy to Tyler, Your meeting with Ambassador Fenoaltea, Oct. 27,
1962, in NARA, 611.65, Reel 93.
68
Italy’s Center-Left government and the Cuban crisis, in JFKL,
Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
69
«Dato che», scrive Schlesinger dopo aver riportato quel brano, «la
posizione del PSI [sulla crisi], benché deplorevole, era prevedibile (e molto
simile a quella presa dal «Manchester Guardian» in Inghilterra), e poiché è
difficile concepire una situazione in cui il Cremlino possa basare la sua
stima della determinazione dell’Occidente sull’atteggiamento del governo
italiano, si deve concludere che questo ragionamento viene avanzato meno
sulla base dei suoi meriti che non come una nuova versione della vecchia
convinzione che il centro-sinistra è di per sé una cosa cattiva» (sottolineato
nell’originale). U.S: policy and the Center-Left in Italy, Dec. 10, 1962, in
JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A.
70
P. NENNI, Gli anni del centro sinistra. Diari 1957-1966, Sugarco,
Milano, 1982, pp. 247-248.
71
P. NENNI, E ora, negoziare un accordo generale, in «Avanti!», 4-11-
1962, p. 1.
72
Nenni’s November 4 Editorial, in JFKL, Schlesinger Papers, WH,
Box 12A. Questo «memo» (senza data e firma) conteneva il testo inglese
dell’editoriale di Nenni (in «Avanti!» 4-11-1962) e il commento ad esso,
nonché, in allegato, il bollettino della TASS riportante la traduzione inglese
dell’articolo della «Pravda», 13-11-1962. Tale critica della «Pravda» al PSI
era inoltre da rilevare perché, come notò un documento britannico
riguardante il medesimo articolo, la stampa sovietica in genere era solita
trattare i socialisti italiani «con più rispetto delle loro controparti in
Germania Ovest o Francia». Moscow to FO, FO 371/163716, UK National
Archives, Kew.
73
Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Scatola 152, Fasc. 23, Istituto
Sturzo.
74
Rome to DoS, Oct. 24, 1962 (n. 930), in NARA, 611.37, Reel 27.
75
Schaetzel to Tyler, U.S. Embassy and Nenni, Nov. 23, 1962, in
NARA, 611.37, CC0069, Reel 28.
76
Nenni’s November 4 Editorial, in JFKL, Schlesinger Papers, WH,
Box 12A, «memo» senza data e firma. Il viaggio di Craxi negli USA risale
probabilmente a novembre o dicembre.
77
Craxi to Lister, Jan. 11, 1963, in JFKL, Schlesinger Papers, White
House Files, Box 12A.
78
Nenni a Codignola, 30-10-1962, riportata in L. NUTI, Gli Stati
Uniti…, cit., p. 552.
79
Nenni spiegò loro che inizialmente si era avuta l’impressione che «gli
USA stessero usando le basi come un pretesto per invadere, specialmente in
vista del tentativo abortito dello scorso anno di sbarcare esuli cubani», e che
la «genuina paura tra la gente dello scoppio di una guerra nucleare» aveva
fatto il resto. Poi, benché egli avesse capito in fretta chi fosse il vero
aggressore (l’URSS), «nei primi giorni della crisi non era riuscito a
convincere i colleghi» ma ora «avrebbe fatto sì che l’originale errore di
valutazione […] venisse gradualmente corretto». Rome to DoS, Nenni’s
view on political situation, Nov. 19, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers,
White House Files, Box 12A.
80
L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 553.
81
Ivi.
82
L. NUTI, L’Italie et les missiles Jupiter, in M. VAISSE (dir.), op. cit., p.
156; E. DI NOLFO, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in M. VAISSE (dir.),
op. cit., p. 120; A. VARSORI, op. cit., p. 152.
83
Cfr. anche la lista cronologica di azioni ‘Action contemplated’, NSF,
Box 36, JFKL.
84
si veda il capitolo Capire la crisi e relativa nota n. 70.
85
Sul fatto che la gerarchia tra gli alleati europei della NATO si
prestasse a qualche ambiguità cfr. C. SANTORO, La politica estera di una
media potenza, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 198.
86
22 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
87
23 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR. Tra le carte di Fanfani vi sono
anche i testi delle lettere. Macmillan scrive a Fanfani: «[…] Ho ricevuto il
messaggio dal Presidente sul problema a Cuba […] Questa vicenda mi
sembra avere implicazioni gravissime. Le sarò grato se mi farà conoscere i
suoi pensieri. […] Ho ritenuto giusto assicurare al presidente Kennedy che
gli daremo pieno supporto nel Consiglio di Sicurezza ma al tempo stesso
indicare alcune delle ovvie ripercussioni che possono seguire sia nei Caraibi
sia forse in Europa. Dobbiamo certamente mantenerci nel più stretto
contatto […]». Fanfani risponde a Macmillan: «[…] Condivido le sue
preoccupazioni circa le implicazioni gravissime che questa faccenda può
avere. L’Italia non fa oggi parte del Consiglio di Sicurezza e per ora deve
limitarsi ad auspicare che in seno ad esso si trovi una soluzione pacifica.
Non dobbiamo perdere tempo per evitare pericolose ripercussioni […]».
Carte Fanfani, ASSR, Sez. I, Serie I, Sottoserie 4, Busta 14, Fasc. 1.
88
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34918-34919; DNSA, CC01039.
89
(L. NUTI, Gli Stati Uniti…, cit., p. 547). La definizione più comune
della posizione italiana che si ritrova nei documenti americani è «cauta»
(nel senso di: un po’ troppo, per i nostri gusti…).
90
Italy’s Center-Left Government and the Cuban Crisis, Nov. 30, 1962,
in JFKL, Schlesinger Papers, WH, Box 12A. Analoga impressione si ritrova
nell’analisi britannica del discorso. L’ambasciatore Ward riporta a Londra
che Fanfani «ha espresso solidarietà agli Stati Uniti nel suo ricorso alle
Nazioni Unite ma non nell’instaurazione del blocco». Differences existing
between the parties in the Italian Government coalition & the Socialist
Party on foreign policy, emphasized by the Cuban crisis, Rome to FO, 21-
11-1962. FO 371/163714, UK National Archives, Kew.
91
De Gaulle «ha parlato in modo offensivo dell’ONU», riferisce
l’ambasciatore USA Bohlen dopo averlo visto il 27 ottobre. Già nel
colloquio con Acheson del 22 il generale si era detto scettico sull’utilità del
ricorso al Consiglio di Sicurezza (Paris to SoS, 22-10-1962, DNSA,
CU00570; 27-10-1962, DNSA, CU008004). Quanto al leader tedesco, la
sua forte avversione per ciò che egli definiva «guerra di carta» emerge da
entrambi i suoi colloqui con l’ambasciatore USA Dowling (Bonn to SoS,
24-10-1962, DNSA, CC01224; 28-1-1962, DNSA, CU00844). Sul costante
sostegno all’ONU della politica estera italiana di quegli anni, si veda invece
A. VILLANI, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-
1968), Cedam, Padova, 2007, pp. 165-168 e 429-430.
92
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2; «La Stampa», 24-10-1962, p. 1; Atti
parlamentari, Verbali del Senato della Repubblica, Seduta pomeridiana del
23-10-1962, pp. 29346-2964.
93
Verbali del Senato della Repubblica, Seduta pomeridiana del 23-10-
1962, p. 29355.
94
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34917-34930.
95
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2.
96
Animato dibattito al Senato e alla Camera, in «Il Tempo», 24-10-
1962, p. 1.
97
«La Nazione», 24-10-1962, p. 2.
98
Pur notando Malagodi per i liberali che «ogni esitazione da parte
nostra, […] ogni ambiguità, sarebbe una grave minaccia contro la pace»,
anche se «sappiamo bene che la vita politica di questo governo dipende
dall’appoggio del partito socialista che su questi problemi la pensa assai
diversamente».
99
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, Seduta
pomeridiana del 23-10-1962, pp. 34928-34930 (gli ultimi due esponenti
citati erano il monarchico Alfredo Covelli e il missino Giulio Caradonna).
100
Discorso da satellite, in «l’Unità», 24-10-1962, p. 1.
101
24 ottobre 1962, Diari Fanfani, ASSR.
102
Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932. In DNSA, CU00721.
103
Il retroscena si evince dalla prima stesura del testo, conservata tra le
carte di Fanfani (Box 11, Fasc. 10.2, ASSR), su cui si legge chiaramente, in
rosso, nell’alto della pagina: «Testo sottoposto al Capo dello Stato e
corretto».
104
Fanfani to JFK, Oct. 23, 1962, in JFKL, POF, Box 119 (Italy).
105
Relativamente a Londra, il particolare del sommario e del suo
apprezzamento risulta dal cablo dell’ambasciatore Ward del 25 ottobre e
dalla relativa risposta inviatagli dal FO la stessa sera: PREM 11/3690, MF
R.37, UK National Archives, Kew. Relativamente a Mosca, esso risulta
invece da un documento sovietico recentemente reperito da A. SALACONE,
L’Unione Sovietica e l’Italia del centro-sinistra (1958-1968), Tesi di
dottorato, Università Roma Tre, XXI ciclo, p. 206.
106
Sugli analisti USA e UK, si veda sopra. Inoltre pure il settimanale
USA «Time Magazine», Nov. 2, 1962, p. 25, attribuì le difficoltà di Fanfani
alla presenza dei socialisti nella sua coalizione, definendolo il leader «più
addolorato» per la CMC tra quelli dell’Europa Occidentale.
107
In tal senso si vedano anche gli ulteriori incoraggiamenti di Russo a
U Thant e Stevenson nei colloqui rispettivamente del 26 e 27 sera
(Telegrammi nn. 714 e 722, Archivio Storico-Diplomatico, MAE,
Telegrammi Segreti, 1962, ONU – New York, vol. II).
108
Segni’s view on the Italian political situation, Dec. 31, 1962, CIA
Secret – Telegram Information report, in JFKL, NSF, Italy, Box 121. (Va
aggiunto che, stando ai diari di Fanfani, Segni si trovava a Sassari e
Fanfani, che gli telefona già il 22, il 23 gli consiglia di tornare a Roma in
giornata, cosa che accade appunto quella sera, la stessa in cui viene
pronunciata la dichiarazione incriminata. Ciò non toglie che i due potessero
concordarla anche per telefono, volendo.) Una conferma della forte distanza
tra Segni e Fanfani emerge inoltre da un rapporto dell’ambasciata inglese
stilato poche settimane dopo: Segni, vi si legge, «come idee è molto lontano
dal suo dinamico primo ministro, signor Fanfani, e non è un amante del
centro-sinistra e del suo alto sacerdote [Fanfani]; e questo incoraggia intrigo
politico e incertezza». Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual report for
1962, FO 371/169339, UK National Archives, Kew.
109
Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con l’Estero,
Scatola 159, Fasc. 15, Ist. Sturzo.
110
Italian reactions to the Cuban crisis, Nov. 28, 1962, in JFKL,
Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A (Italy).
111
Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932. In DNSA, CU00721.
112
L’ambasciatore italiano a Parigi, Brosio, annotò così nel suo diario
privato il contenuto del colloquio avuto il 24 ottobre: «Cattani [Segretario
Generale del MAE] non esclude una crisi governativa in Italia se la crisi
internazionale si aggraverà» (M. BROSIO, op. cit., p. 254).
113
Rome to DoS, Informal tour d’horizon with Prime Minister, Dec. 8,
1962, in JFKL.
114
Relazione di Alicata alla Direzione del PCI, 31-10-1962 (O.
PAPPAGALLO, Il PCI e la rivoluzione cubana, Carocci, Roma, 2009, p. 183).
115
Così la definisce Pappagallo, nel riportare i verbali di quella riunione
(ivi, pp. 181-191).
116
Togliatti rimarcò che «i limiti del movimento sono evidenti […] in
parecchie città non si è fatto nulla o quasi, al massimo qualche manifestino»
(ivi, p. 184).
117
Rome to DoS, Oct. 26, 1962, in NARA, 611.37, C0069, Reel 27.
118
Our major European allies and the Cuban crisis, Nov. 3, 1962, in
DNSA, CC01937. Cfr. anche il rapporto Italian reactions to the Cuban
crisis, Nov. 28, 1962, in JFKL, Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A,
che definisce il PCI «incapace di montare alcuna notevole manifestazione
pubblica sulla crisi cubana».
119
«L’Unione sovietica ha puntualmente adempiuto la funzione che le
spetta come grande potenza socialista. Ha difeso l’indipendenza di un
piccolo popolo, che l’imperialismo americano vorrebbe soggiogare; […] in
pari tempo si è mossa con estremo senso di realismo e di responsabilità, non
perdendo mai di vista che il più grave problema dei nostri giorni è di evitare
una guerra […]». P. TOGLIATTI, Potenza socialista, potenza di pace, in
«Rinascita», 3-11-1962, pp. 1 e 2.
120
Nei quali si trova a verbale la sua «impressione che non sappiamo
tutto» riguardo ai motivi dell’agire di Mosca (O. PAPPAGALLO, op. cit., p.
184).
121
L. BARCA, Cronache dall’interno del vertice del PCI, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2005, vol. 1, pp. 303-304 (cfr. pure C. SPAGNOLO, Sul
memoriale di Yalta, Carocci, Roma, 2007, p. 244).
122
Si ricorderà che contro Kennedy l’aveva usata, seppur in privato, il
generale LeMay, e che poi Kennedy stesso o qualcuno vicino a lui l’aveva
dirottata su Adlai Stevenson, tramite l’articolo di Alsop e Bartlett (si
vedano la Parte prima e il capitolo Stati Uniti d’America).
123
Intervento di Togliatti, «l’Unità», 3-12-1962, p. 4.
124
Ciò risulta sia dalla stampa (R. PISU, I cinesi attaccano Togliatti, in
«ABC», Dic. 1962, p. 14), sia dalla relazione del Ministero degli Interni sul
Congresso PCI, nella quale, rilevando il mancato applauso dei cinesi, si
aggiunge che «la circostanza ha destato molta sensazione ed i congressisti
hanno a bella posta insistito nell’applaudire, ma i cinesi sono rimasti
insensibili alla scoperta sollecitazione» (2-2-1962, p. 2: ACS, MI, Partiti
Politici, b. 41). Sullo scontro ideologico sino-sovietico riguardo alla CMC,
si vedano anche L. LUTHI, The Sino-Soviet split, Princeton University Press,
Princeton, 2008, pp. 224-228, 231, 252-254; O. PAPPAGALLO, op. cit., pp. 70-
71; S. PONS, La rivoluzione globale, Einaudi, Torino, 2012, p. 301.
125
Nota dell’ufficio di Segreteria sull’azione nei giorni della crisi
cubana. Istituto Gramsci, Fondo Palmiro Togliatti, Serie Botteghe Oscure,
PCI, UA 41 (b. 6, p. 8).
126
La CGIL oltretutto scelse come oratore per la manifestazione di
Roma il vicesegretario Fernando Santi, che era socialista, invece che un
esponente comunista – evidentemente per il desiderio del PCI di dare alla
manifestazione un carattere unitario e frontista più che partitico. Santi andò,
nonostante ci fossero stati dei tentativi del PSI di farlo rinunciare (Rome to
DoS, Italian Labor attitudes in the Cuban Crisis, Nov. 5, 1962, NARA,
611.37, Reel 45).
127
Italian Labor attitudes in the Cuban Crisis, in NARA, 611.37, Reel
45; Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932, in DNSA, CU00721.
128
Sempre a Roma, in quei giorni una scritta comparve anche sullo
spiazzo della scalinata di Trinità dei Monti. Si trattava di una sorta di lungo
monito in francese, scritto a vernice sui sanpietrini, che si concludeva con
un eloquente: «Sii cosciente se tutti gli altri non lo sono; ricordati di
Hiroshima». «l’Unità», 29-10-1962, edizione romana.
129
In tal senso si consideri che, oltre al summenzionato riassunto della
lettera da lui fatto conoscere a Londra, già all’inizio della crisi sera vi era
stato uno scambio di lettere informative tra Macmillan e Fanfani; inoltre il
23, mentre il sottosegretario Russo era ancora in volo per New York,
Londra fu informata che egli era «particolarmente ansioso di mettersi
immediatamente in contatto col segretario di Stato» britannico. FO
371/163718, UK National Archives, Kew.
130
Ciò risulta da ambo i lati: Piccioni subito dopo la risoluzione della
crisi affermò alla Camera che «l’amicizia italo-britannica non è forse mai
stata più intensa e salda di oggi» (Atti parlamentari, Verbali della Camera
dei deputati, seduta del 30-10-1962, p. 35344); l’ambasciatore inglese
qualche settimana dopo riportò a Londra che «le relazioni angoitaliane sono
state eccellenti lungo tutto l’anno» (Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual
report for 1962, FO 371/169339, UK National Archives, Kew).
131
Al di là delle diversità di linee in politica estera (più aperta verso
l’URSS quella di Fanfani, più antisovietica quella di Adenauer e De
Gaulle), l’Italia temeva l’asse francotedesco anche nel contesto europeo
(giacché in un’Europa a Sei priva dell’adesione britannica l’Italia avrebbe
rischiato di essere lasciata di fatto alla mercé di Parigi e Bonn, finendo per
contare quanto il Benelux): di qui il sostegno italiano all’ingresso britannico
nella CEE, duramente osteggiato invece da De Gaulle. Infine, sul piano
personale, come scrisse l’ambasciatore britannico, «Fanfani stesso non fa
segreto della sua antipatia e diffidenza per il generale De Gaulle» (Rome to
FO, 11-2-1963 Italy: Annual report for 1962, FO 371/169339, UK National
Archives, Kew).
132
Sull’offerta inglese, che proponeva di immobilizzare
temporaneamente i propri missili Thor in cambio di uno stop russo alla
costruzione di quelli cubani, così da facilitare la convocazione di un summit
d’emergenza, si veda L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…, cit., pp. 158-159. I
Thor verranno poi rimossi nell’agosto del 1963, ma in attuazione di una
decisione presa prima della CMC. (L. SCOTT – S. TWIGGE, The other other
missiles of October. The Thor IRBMs and the Cuban Missile Crisis, in
«Electronic Journal of International History», 3, 2000).
133
Va considerato però che quella nota diaristica di Macmillan non era
tenera con nessuno degli alleati europei. L. SCOTT, Macmillan, Kennedy…,
cit., p. 181.
134
(modificando cioè non la posizione internazionale dell’Italia, ma il
linguaggio in cui essa veniva espressa, evitando toni antisovietici e
sottolineando l’importanza dei negoziati.)
135
Rome to FO, 21-11-1962, Differences existing between the parties in
the Italian Government coalition & the Socialist Party on foreign policy,
emphasized by the Cuban crisis, FO 371/163714 UK National Archives,
Kew.
136
Rome to FO, 11-2-1963, Italy: Annual report for 1962, FO
371/169339, UK National Archives, Kew.
137
Rome to FO, 21-11-1962, Differences existing between the parties in
the Italian Government coalition & the Socialist Party on foreign policy,
emphasized by the Cuban crisis, FO 371/163714 UK National Archives,
Kew.
138
«Il governo sovietico è grato a quello italiano per l’azione distensiva
da esso svolta in questa circostanza e per i sentimenti di pace che lo
animano», disse il viceministro degli Esteri Arkadiy Sobolev al nostro
ambasciatore a Mosca. 31-10-1962, Telegramma n. 1316, Archivio Storico-
Diplomatico, MAE, Telegrammi Segreti, 1962, Russia.
139
Documenti sovietici, questi, reperiti e riassunti da A. SALACONE, op.
cit., pp. 206-208 (che ringraziamo per i chiarimenti forniti via mail. Anche
l’ultimo virgolettato relativo a Mechini è parte integrante del documento
sovietico).
140
ASSR, Diari Fanfani, 11-12-1962. Sulla visita di Fanfani e Segni a
Mosca (2-5 agosto 1961), si veda B. BAGNATO, op. cit., pp. 473-490.
141
A. SALACONE, op. cit., p. 208.
142
Cfr. per esempio «l’Unità», 25-10-1962, p. 3, «Il Paese », 26-10-
1962, p. 4. Si vedano anche molti degli slogan scritti sui cartelli comparsi in
quelle manifestazioni: «Salviamo la pace», «No alla guerra», «Disarmo»,
«Per la libertà di Cuba», «Siamo con Cuba e per la pace», «Al bando le
armi atomiche», ecc. Vedremo comunque tra breve un tentativo,
parzialmente riuscito, di sottrarre il tema della pace a colori partitici nella
reazione di Aldo Capitini e poi nella marcia di Altamura.
143
Cfr. per esempio Enrico Mattei, fu attentato, ma l’inchiesta va
archiviata, in «La Repubblica», 12-4-2005.
144
N. PERRONE, Obiettivo Mattei, Gamberetti Editrice, Roma, 1995, pp.
188, 201, 211-2.
145
Diecimila secondo «l’Unità», tremila secondo il «Corriere della
Sera». (Ucciso a Milano uno studente per la libertà di Cuba, «l’Unità», 28-
10-1962, pp. 1 e 2; Un giovane muore in ospedale dopo le manifestazioni
per Cuba, «Corriere della Sera», 28-10-1962, pagine della cronaca
milanese. Si noti tra l’altro la diversità dei due titoli e del risalto dato alla
notizia tramite la pagina di collocazione).
146
Cfr. per esempio «Avanti!», 28-10-1962, pp. 1 e 10; o «l’Unità», 30-
10-1962, p. 1, che riporta la testimonianza resa a Montecitorio al ministro
degli Interni dal deputato PCI Davide Lajolo («Ho visto io, con i miei
occhi, il giovane Ardizzone travolto da una camionetta della polizia»). Si
precisa però che, stando a quanto affermato in seguito dal noto militante di
sinistra Primo Moroni (in «Primo Maggio», n. 18, autunno-inverno 1982-
83, pp. 27-37, reperibile anche online), la magistratura concluse infine
(secondo Moroni a torto e nonostante la sua testimonianza oculare,
screditata dallo stesso PCI per non «esacerbare la situazione») che il
ragazzo era invece rimasto semplicemente schiacciato dalla folla. In seguito
a quest’ultimo episodio Moroni, deluso, decise di abbandonare la militanza
nel PCI.
147
Quanto agli agenti, cfr. «Il Tempo», 31-10-1962, p. 1 e «Avanti!»,
30-10-1962, p. 1.
148
«l’Unità», 29-10-1962, p. 1 (foto).
149
«Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 2.
150
«l’Unità», 30-10-1962, pp. 1 e 12 (Editoriale).
151
«Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 2; «Il Secolo d’Italia», 30-10-
1962, p. 8.
152
«Avanti!», 30-10-1962, p. 1.
153
«Il Tempo», 30-10-1962, p. 1.
154
Protesta e firmatari riportati in «l’Unità», 31 ottobre, p. 3.
155
Non a caso «l’Unità» (30-10-1962, p. 1) non aveva mancato di
rilevare come il battaglione della celere impiegato a Milano fosse il
medesimo battaglione padovano impiegato a Reggio Emilia nel luglio 1960
(cfr. anche il reportage da Padova di C. CEDERNA, Il bastone di stato, in
«L’Espresso», 16-12-1962, pp. 16-19).
156
«Hoy», 2-11-1962, p. 2. La poesia, a firma di Angel Augier (e seppur
con errore nel nome: Elegia a Vittorio Ardizzone invece che a Giovanni
Ardizzone), era accompagnata da un’introduzione in cui si spiegava ai
cubani del «giovane italiano ucciso a Milano dalla polizia durante una
manifestazione di appoggio alla nostra patria. La terra di Garibaldi e quella
di Marti si uniscono così […]». Eccone un estratto: «Tus 21 años, Vittorio
Ardizzone, / estudiante de quimica, / se disolvieron de repente / allì en
Milàn, cerca del Duomo. / Ibas junto a tu peublo, / y la luz del otoño se
llenaba de gritos: / ‘Manos fuera de Cuba’, / ‘Fuera, piratas yanquis’. /
Sabìas que acà, lejos de Italia, / pero de ti tan cerca / en tu amor a la
justicia, / un pequeño paìs erguiase heroico / ante un nuevo crimen ‘made
in USA’. / […] / Allì, cerca del Duomo, / en una flor de sangre / se
disolvieron de repente / tus generosos 21 años, / Vittorio Ardizzone, /
estudiante de quimica. / Justo una bala de carabinero, / quizà también
‘made in USA’ / cortò tu camino por tus calles. / Pero hasta aquì has
llegado, / querido camarada, / ya estàs en Cuba para siempre, / vivo en la
sangre de este pueblo, / Vittorio Ardizzone».
157
«Il Tempo», 31-10-1962 p. 1; Ecco la prova delle menzogne rosse, in
«Il Secolo d’Italia» 7-11-1962, p. 1.
158
La figura del ragazzo ucciso, in «l’Unità», 28-10-1962, p. 2.
159
«l’Unità», 29-10-1962, p. 2. Il punto era rinforzato da una lettera di
suoi amici (pubblicata sempre da «l’Unità») per chiedere al «Corriere della
Sera» di rettificare quanto scritto in merito.
160
«l’Unità», 3-12-1962, p. 4. Si vedano pure le definizioni
«compagno» e «giovane comunista» in «l’Unità», 31-10-1962, p. 3, e 1-11-
1962, p. 1, nonché il ritratto di Ardizzone tracciato dal segretario della
federazione milanese del PCI, Armando Cossutta, nella sua relazione del
22-11-1962 («Dicono che egli nel 1958, all’età di 16-17 anni, avesse la
tessera dell’MSI; può darsi, e d’altronde quella era anche la tessera del
padre. Ma come era ormai lontano per Ardizzone quel 1958! Venuto a
Milano, conosce un altro mondo: l’Università, […] gli operai […] la ‘vera’
realtà. Ed Ardizzone diviene comunista»). ACS, Min. Interni, Gabinetto,
Partiti Politici, Busta 12.
161
«Il Tempo», 31-10-1962, p. 1.
162
«Il Tempo», 31-10-1962, p. 1; «Corriere della Sera», 31-10-1962.
163
Testo del manifesto riportato sia da «Il Tempo», 31-10-1962, p. 1, sia
da «l’Unità», 31-10-1962, p. 3.
164
Il testo originale, reperibile online, cominciava così: «M’han dit che
incö la pulisia / a l’ha cupà un giuvin ne la via;/ sarà stà, m’han dit, vers i
sett ur / a un cumisi dei lauradur». Eccone un estratto tradotto: «M’hanno
detto che oggi la polizia / ha ammazzato un giovane per la via; / sarà stato,
m’han detto, verso le sette, / a un comizio di lavoratori. / Giovanni
Ardizzone, era il suo nome, / di mestiere studente universitario, / comunista,
amico dei proletari: / l’hanno ammazzato vicino al nostro Duomo. / E i
giornali di tutta la Terra / dicevano: Castro, Kennedy e Kruscev; / e lui
gridava: ‘Sì alla pace e no alla guerra’; / e con la pace in bocca è morto. / In
via Grossi i poliziotti coi manganelli, / venuti da Padova, specializzati in
dimostrazioni, / hanno attaccato, con le jeep, un carosello / e con le ruote
han schiacciato l’Ardizzone. / […] / I giornali dell’ultima edizione dicono
tutti: / ‘Un giovane studente, / oggi, durante una grande manifestazione, / è
morto per un fatale incidente, / è morto per un fatale incidente’».
165
La Rossanda, da noi interpellata su chi fosse quest’intellettuale, non
lo ricordava ed ha escluso i tre nomi ipotetici da noi prospettatile (email
all’autore, marzo 2014).
166
In realtà (fatta salva la presumibile buona fede della Rossanda) si
ebbero almeno altri cinque morti negli scontri boliviani di La Paz (come
riportato anche dall’«Avanti!», 28-10-1962, p. 2), oltre al pilota USA
abbattuto e ai sovietici morti in stiva durante i viaggi di trasporto segreto
dei missili.
167
R. ROSSANDA, L’ottobre milanese, in «Il Contemporaneo», Nov. 1962,
pp. 3-12.
168
Cfr. E. BALDUCCI, Giorgio La Pira, Giunti, Firenze, 2004, p. 21. Sulla
reazione alla CMC di La Pira, si veda anche L. CAMPUS, Missili e
democristiani. Giorgio La Pira, la DC e la crisi dei missili di Cuba, in
«Nuova Storia Contemporanea», n. 6, Nov.-Dic. 2012, pp. 55-68.
169
In una delle sue lettere alle monache claustrali, del 1965, definirà
Kennedy «la più alta guida politica che la Provvidenza ha dato ai popoli»
(G. LA PIRA, Lettere alle claustrali, Vita e Pensiero, Milano, 1978, p. 508).
170
GIOVANNI XXIII, Pater Amabilis. Agende del Pontefice 1958-1963,
Istituto per le Scienze religiose, Bologna, 2007, p. 389 (l’appunto è del 21
maggio 1962. La Pira gli aveva scritto per rilanciare l’idea di una sessione
fiorentina del Concilio, in ricordo del Concilio di Firenze del 1439). Si veda
anche (ivi, p. 328, 6-1-1962): «Continua la corrispondenza fastidiosa, a cui
non si può fare cattiva ciera, perché sotto sotto ci sono delle anime da
salvare e da aiutare. […] c’è ora il sindaco di Firenze, La Pira che torna col
suo riavvicinamento tra il sacro e profano […]».
171
E. BALDUCCI, Giorgio La Pira, cit., p. 104.
172
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
173
Difatti questo telegramma (uno dei pochissimi tra i suoi di quei
giorni a divenire relativamente pubblico) non manca di suscitare critiche.
«Io non credevo ai miei occhi», scrive ad «Epoca» un lettore fiorentino
dopo averlo letto, offrendo al settimanale l’occasione per rispondere
criticando la grafomania di La Pira («egli crede nella potenza del telegrafo,
e continuamente telegrafa a tutti […] è convinto che la volontà di pace non
sia credibile se non è ‘stesa’ su un modulo del Ministero delle Poste e
Telecomunicazioni. Gioca coi santi, col Papa, col Concilio, con le officine
Galileo, con Sviatoslav Richter come se fossero carte da scopone. Migliaia
di sindaci che non hanno telegrafato – secondo la logica lapiriana – sono
gente che sospira il momento di vedere la propria città ridotta a braciere da
una bomba atomica. Soltanto lui vuole la pace, dopo il concerto. Ed è
pronto, al caso, a farsi mediatore tra russi e americani», anche se
«regolarmente i contendenti ci rispondono, in perfetta concordia, di levarci
di torno»). La Pira telegrafa, in «Epoca», 4-11-1962.
174
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
175
Cfr. P. NEGLIE, op. cit., pp. 139, 146, 168-171.
176
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
177
A questo telegramma La Pira riceve subito risposta dal Papa, tramite
un suo alto collaboratore: «Augusto Pontefice ringrazia devoti auguri et
sentimenti S.V. mentre di cuore la benedice – Cardinal Cicognani». Carte
La Pira, Busta CLX, Fasc. 5.
178
Carte La Pira, Faldone USA, Fasc. JFK.
179
Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
180
Carte Fanfani, Sez. I, Serie I, Busta 133, Fasc. 1.7 (e anche in Carte
La Pira, Busta CLX, Fasc. 5).
181
Carte La Pira, Busta CLX, Fasc. 5. Precisiamo che in queste frasi La
Pira stava riportando al Papa, per condividerlo con lui, quanto La Pira
stesso aveva detto quel giorno ad alcuni religiosi suoi amici.
182
Messaggi conservati in Carte La Pira, filza 1, Fasc. 8, Ins. 1.
183
Stevenson-La Pira, 29-10-1962; Thant-La Pira, 2-11-1962; Cootes-
La Pira, 30-12-1962 (Carte La Pira, Filza 1, Fasc. 8, Ins. 1). Cicognani-La
Pira, 30-10-1962 (Carte La Pira, Busta CLX, Fasc. 5).
184
Intervista a Bernabei (Campus-Nuti, 2009).
185
E. BERNABEI, in G. LA PIRA – A. FANFANI, Caro Giorgio… Caro
Amintore…, Edizioni Polistampa, Firenze, 2003, p. 32.
186
Così il quotidiano della DC: Sgabello strategico, in «Il Popolo», 28-
10-62, p. 1.
187
S. ROMANO (a cura di), Giornalismo italiano…, cit., pp. 34 e 35.
188
D. MACK SMITH, Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il
Corriere della Sera, Rizzoli, Milano, 1978, p. 7.
189
Il coraggio della pace, in «Corriere della Sera», 28-10-1962, p. 1.
190
Neutralismo colpevole, «Corriere della Sera», 30-10-1962, p. 1.
191
A. GUERRIERO, Decisione tardiva, «Corriere della Sera», 24-10-1962,
p. 1.
192
A. GUERRIERO, Lento cammino verso un negoziato, in «Corriere della
Sera», 26-10-1962, p. 1.
193
A. GUERRIERO, Perché lo hanno fatto, in «Corriere della Sera», 27-10-
1962, p. 1.
194
A. GUERRIERO, Perché ha ceduto, in «Corriere della Sera», 29-10-
1962, p. 1.
195
A. GUERRIERO, Il mondo dopo Cuba, «Corriere della Sera», 28-11-
1962, p. 1.
196
Lo ricorda Giuseppe Boffa in S. ROMANO (a cura di), Giornalismo
italiano…, cit., p. 108.
197
A fianco di Cuba!, in «l’Unità», 23-10-1962, p. 1.
198
Il PCI agli italiani, in «l’Unità», 24-10-1962, p. 1.
199
M. ALICATA, Sull’orlo dell’abisso, in «l’Unità», 25-10-1962, p. 1.
200
«l’Unità», 24-10-1962, p. 7 (Reticenti su Cuba); 25-10-1962, p. 7
(Quattro minuti); 29-10-1962 (La verità distorta); 30-10-1962, p. 7 (E
Milano in sciopero?). Negli ultimi due di questi articoli si criticava che il
commentatore del telegiornale Gianni Granzotto avesse parlato di «ritirata»
di Kruscev e si sposava perciò una richiesta di sue dimissioni avanzata
dall’on. Lajolo (PCI). Più interessante nella nostra ottica appare però –
anche per contribuire a spiegare un certo carattere relativamente attutito
della percezione pubblica italiana – il pezzo precedente, Quattro minuti. Vi
si legge: «Pensavamo ieri sera guardando il ‘telegiornale’ a quali amare
considerazioni potrebbe fare un cronista del futuro se decidesse di
ricostruire, sugli archivi della tv italiana, le ore drammatiche che il mondo
sta vivendo dopo la criminale decisione americana […] ‘In quelle cupe
sere’ potrebbe scrivere quel cronista se, come tutti ci auguriamo, ne avesse
la possibilità, ‘in cui tutti tenevano il fiato sospeso e ogni uomo cosciente
cercava di dare il suo contributo per difendere la pace, il telegiornale
italiano dedicava quattro minuti alla situazione internazionale e altrettanti a
una mostra di antiquariato e alle novità nel campo degli accessori di moda
femminile…’. Insomma, com’è possibile che i dirigenti del telegiornale non
si rendano conto che non si può trattare la minaccia di guerra che pesa sul
mondo come un qualsiasi altro avvenimento, sia pure importante? Eppure è
così. […] Forse ci si illude di ‘sdrammatizzare’, in questo modo? Oppure si
tace perché ci si rende conto che troppi fatti dimostrano l’enormità delle
responsabilità americane?».
201
M. ALICATA, La trattativa, «l’Unità», 29-10-1962, p. 1. Recentemente
un giovane studioso francese nella sua tesi, poi pubblicata, ha posto a
confronto «l’Unità» col suo corrispettivo «L’Humanité», organo del Partito
Comunista Francese. Ne è emerso che tra i due vi fu in quei giorni una
sensibile differenza, sia quantitativa che qualitativa. Infatti su «l’Unità» non
solo il risalto dato alla crisi fu molto maggiore (in termini di articoli
dedicati), ma l’enfasi fu posta più su Cuba che non sull’URSS. E anche
quando si trattava di elogiare la condotta sovietica, mentre «L’Humanité»
riportava dirette citazioni della «Pravda», «l’Unità» lo faceva riportando
dichiarazioni dei dirigenti comunisti italiani. Ciò a ben vedere rispecchiava
il diverso orientamento politico e ideologico dei due partiti: strettamente a
ricasco della linea sovietica il PCF; più terzomondista e policentrista il PCI,
impegnato a individuare una «via italiana al socialismo» (N. BADALASSI,
Pour quelques missiles de plus. La crise de Cuba au miroir de la presse
communiste française et italienne, Sarrebruck, Editions universitaires
européennes, 2011).
202
Rome to DoS, n. 946, Oct. 29, 1962 (Joint Embassy-USIS message).
NARA, 611.37, C0069, R. 27.
203
Cenere, in «Il Paese», 24-10-1962, p. 1.
204
La verità, in «Il Paese», 27-10-1962, p. 1. «La strategia americana, al
contrario», continuava l’editoriale, «si fonda su uno sterminato arsenale
atomico per la maggior parte vulnerabile e affidato a mezzi vettori che non
hanno raggiunto ancora la potenza di quelli sovietici. Per questo motivo gli
Stati Uniti hanno bisogno di mantenere basi vicino al territorio dell’URSS».
Precisiamo che come fonte alla base della smentita delle foto americane dei
missili, «Il Paese» citava un giudizio del «Times» e una frase del
funzionario del governo americano George Ball del 19 ottobre (quando la
Casa Bianca ancora non faceva riferimento ai rivelamenti fotografici più
recenti, ma per ovvi motivi di segretezza connessi alla fase decisionale,
come il redattore del «Paese» era perfettamente in grado di immaginare).
205
Messinscena, in «Il Paese», 27-10-1962, pp. 1-2.
206
«Il Paese», 28-10-1962, p. 1.
207
C’è da dire che un analogo rifiuto delle prove fotografiche mostrate
dagli USA veniva espresso anche in sede politica. Quello stesso giorno alla
Camera ne smentì la veridicità l’on. Silvio Ambrosini del PCI (cfr. Atti
parlamentari, Verbali della Camera dei Ddeputati, Seduta del 27-10-1962, p.
35212). Lo stesso aveva fatto il mattino precedente l’on. Tullio Vecchietti
del PSI, definendo quelle foto «le solite armi propagandistiche» ed
escludendo che l’URSS potesse aver mandato armi offensive a Cuba
contraddicendo così i propri precedenti annunci sulla gittata dei propri
missili intercontinentali: giacché «qualora li avesse mandati, avrebbe con
ciò stesso riconosciuto di aver fatto il più grande, storico bluff che un Paese
possa fare» (cfr. Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati,
Seduta antimeridiana del 26-10-1962, p. 35146).
208
Potenza socialista, potenza di pace, in «Rinascita», 3-11-1962, p. 1.
Indicativo in tal senso anche il titolo scelto da «Rinascita» per presentare la
rassegna stampa degli altri giornali: Apologia dell’aggressione
(«Rinascita», 3-11-1962, p. 4).
209
Semplicità sospetta, in «Il Popolo», 25-10-1962, p. 1.
210
Italian press comment on Cuban situation, FO371/162379, MF R.31,
UK National Archives, Kew. A conferma dell’osservazione britannica, si
leggano i titoli d’apertura scelti dal «Popolo»: I missili russi a Cuba
minacciano la pace. Auspici di una soluzione in seno all’ONU (24-10-1962,
p. 1); In corso un’azione mediatrice dell’ONU mentre entra in vigore il
blocco di Cuba (25-10-1962, p. 1). Nei due giorni seguenti, lo stesso risalto
alle Nazioni Unite è assicurato dalle foto d’apertura in prima pagina,
raffiguranti Stevenson all’ONU e le foto delle basi mostrate al Consiglio di
Sicurezza dell’ONU.
211
Battersi per la pace, in «Avanti!» 24-10-1962, p. 1; Negoziare è
possibile, Non ci sono altre strade, in «Avanti!», 28-10-1962, p. 1.
212
Trionfo della ragione, in «Avanti!», 30-10-1962, p. 1. Lo stesso
titolo, A triumph of reason, era stato usato il giorno prima dall’editoriale del
«New York Times» (si veda il capitolo Stati Uniti d’America).
213
«Mettere le basi di missili a Cuba […] non è lavorare per la pace.
Detto questo, […] non è con atteggiamenti drastici come quello deciso dal
governo americano che la situazione può migliorare […] si tratta pur
sempre di un atto che viola la sovranità di un altro Paese». G. SARAGAT,
Cuba, in «La Giustizia», 24-10-1962, p. 1.
214
G. SARAGAT, Cuba e l’opinione europea, in «La Giustizia», 28-10-
1962, p. 1; G. SARAGAT, Nuove speranze, in «La Giustizia», 30-10-1962, p.
1.
215
L’ambasciatore Reinhardt riporta che «Saragat ha preso un deludente
atteggiamento legalistico», previo colloquio con Nenni e «principalmente
perché non voleva isolarsi dal PSI». Rome to DoS, Oct. 25, 1962, n. 932, in
DNSA, CU00721.
216
«Riflessi della crisi cubana sulla situazione politica interna», Fondo
DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con l’Estero, Scatola 159,
Fasc. 15, Ist. Sturzo.
217
Momento grave, in «Il Messaggero», 23-10-1962, p. 1.
218
Solidarietà italiana, in «Il Messaggero», 24-10-1962, p. 1.
219
Fine di un incubo, in «Il Messaggero», 29-10-1962, p. 1.
220
Alla svolta?, in «Il Messaggero», 30-10-1962, p. 1.
221
Il ricatto della politica estera, in «L’Espresso», 4-11-1962, p. 1.
222
«Il Tempo», 25-10-1962, p. 1; 28-10-1962, p. 1; 29-10-1962, p. 1.
223
«La Nazione», 2-11-1962, p. 1 (e ritaglio in: Archivio Andreotti,
Faldone Cuba).
224
Ricciardetto, Noi e Cuba, in «Epoca», 11-11-1962, pp. 17 e 19.
225
Pur dando atto a Fanfani che egli almeno formalmente «non è uscito
di un millimetro […] dai patti sottoscritti» con la NATO e che date le
circostanze «più di così non poteva fare. Ma questo è il dramma dell’Italia
del 1962: la maggioranza che ci governa». G. ALMIRANTE, Guardiamo
all’Italia, in «Il Secolo d’Italia», 25-10-1962, p. 1.
226
Ivi.
227
«Il Secolo d’Italia», 24-10-1962, p. 1.
228
«Avanti!», 25-10-1962, p. 1.
229
«È una lezione – quella di Cuba […] Da vent’anni il comunismo
avanza nel mondo avvalendosi della minaccia di chissà mai quali cataclismi
[…] E il mondo anticomunista, il mondo ‘civile’, si ritira un passo dietro
l’altro […] Ma nei Caraibi, laddove cioè l’Occidente […] ha voluto e
saputo affrontare la… minaccia [punti di sospensione presenti nel testo
originale, a segnalare perplessità sul termine], ecco che il comunismo si è
ritirato. E l’apocalissi, anziché protendersi sull’umanità ha finito per esserne
allontanata. Di poco o di molto, lo si vedrà nei prossimi mesi che ‘grazie’
alla fermezza dimostrata dall’Occidente nella questione cubana potrebbero
anche avvicinarci ad un qualche accordo sul disarmo, sino al 22 ottobre del
tutto inattendibile […]». Dai Caraibi una lezione, editoriale non firmato, in
«Il Secolo d’Italia», 30-10-1962, p. 1.
230
«È una lezione. […] chi avrà saputo comprenderla non subirà più il
ricatto dell’insurrezione armata e della guerra civile, e riderà in faccia a
qualsivoglia Nenni che ritorni a proporre l’inesistente alternativa: ‘o
l’apertura a sinistra o il caos della rivolta e della sedizione’» (ivi).
L’allusione qui era ai moniti di Nenni ed altri ad aprire il governo anche ai
socialisti per non ritrovarsi a dover cercare appoggi troppo pericolosamente
a destra, col rischio di riaccendere scontri di piazza, come avvenuto nel
1960 per il governo Tambroni (sostenuto appunto dai voti dell’MSI), cui
avevano fatto seguito i cruenti «fatti di Genova». Dopo quell’episodio e le
dimissioni di quel governo si era di fatto aperta la stagione preparatoria
dell’apertura a sinistra e l’MSI era finito in un isolamento politico da cui
qui cercava di uscire cercando argomentazioni anche nella CMC.
231
«Diversi funzionari del Ministero degli Esteri e altri preminenti
italiani ci hanno espresso calda soddisfazione per il successo degli Stati
Uniti ma sembra esserci considerevole consapevolezza che vanterie
[crowing] [da parte dell’]Occidente siano indesiderabili (il governo italiano
ha consigliato in tal senso la stampa italiana)». Rome to SoS, 31-10-1962,
n. 951, 611.37 Reel 27, C0069, NARA.
232
Difatti, lo stesso documento aggiunge subito che «almeno un
direttore [di giornale], tuttavia, ha detto privatamente che sarebbe sbagliato
[anche] andar troppo in là all’opposto – ossia che l’URSS era stata messa in
scacco e, se non altro per ragioni interne dell’Italia, la stampa dovrebbe
dirlo, cosa che in certa misura [i giornali] hanno fatto».
233
«Il mantenimento della pace nella presente circostanza dipende dalla
esatta comprensione, per parte di tutti, di che cosa è in questione tra USA e
URSS. sul terreno di Cuba. La questione è se gli Stati Uniti potevano
sopportare senza reagire che Cuba – o meglio: un qualsiasi punto
dell’emisfero americano – fosse trasformato in una base di guerra nucleare
sovietica. Tutti i discorsi sulla libertà di Cuba, sulla politica americana nei
riguardi di Cuba e via dicendo – quale che sia il loro contenuto intrinseco di
realtà – non debbono distogliere l’attenzione da questo punto
fondamentale». L. SALVATORELLI, La vera questione, in «La Stampa», 25-10-
1962, p. 1.
234
Il compromesso da lui ipotizzato prevedeva un’offerta USA di
garanzia dell’indipendenza cubana e ritiro da Guantanamo, in cambio del
ritiro dei missili e della rinuncia sovietica alla posizione «dominatrice»
assunta a Cuba.
235
Western European reactions to the Cuban situation, Oct. 28, 1962, p.
10. DNSA, CU00855. L’analista del DoS definisce Salvatorelli «noted
Italian historian and respected and influential editorialist».
236
I. MONTANELLI, I protagonisti – Castro, in «Corriere della Sera», 25-
10-1962, p. 3.
237
Rome to FO, 25-10-1962, FO 371/162379, MF R.31, UK National
Archives, Kew.
238
A. VARSORI, op. cit., pp. 250 e 252.
239
«Si compari ciò con, per esempio, la situazione nel luglio 1960»,
proseguiva infatti la fonte della CIA, per argomentare come le cose fossero
perfino migliorate rispetto a quando il PSI non aveva alcun legame col
governo. Il rapporto, declassificato nel 2002 e solo parzialmente (p. 4), si
trova in Schlesinger Papers, Box 12A, WH, JFKL.
240
JFKL, Schlesinger Papers, WH Files, Box 12A (Italy) (decl. 2000).
Si veda inoltre il telegramma spedito dall’ambasciata già il 23 pomeriggio:
«Eccetto per i comunisti e l’ala sinistra del PSI e suindicate riserve
autonomisti PSI, l’opinione italiana appare finora largamente favorevole
agli USA» (Rome to DoS, Embtel 919, in JFKL, ib.). E ancora, il 26 sera:
«Nonostante l’approccio cauto del governo italiano e dei partiti politici,
avvertiamo diffusa approvazione in Italia della determinazione USA ad
opporsi all’intrusione sovietica in un’area di vitale interesse americano. Essi
[gli italiani] rispettano una dimostrazione di forza su basi che possano
essere prontamente comprese» (Rome to DoS, n. 936, in DNSA, CU00763).
241
AmConsul Milan to DoS, Oct. 30, 1962, Milan reaction to United
States blockade of Cuba, + Enclosed 1 (NARA, 611.37, MI855, Reel 44).
Sui movimenti femminili italiani di quegli anni nel contesto della guerra
fredda, si veda ora W. POJMANN, Italian women and International Cold War
Politics, 1944-1968, Fordham University Press, New York, 2013, che
analizza i due principali raggruppamenti esistenti: la UDI (Unione Donne
Italiane), di area comunista, e la CIF (Centro Italiano Femminile), di area
cattolica. Nel nostro caso, però, come si capisce dal rapporto del consolato,
le donne non facevano riferimento a nessun gruppo o colorazione politica
particolare.
242
Lo conferma tra l’altro un rapporto del Dipartimento di Stato
americano stilato il 18-9-1961. Così scrive il funzionario USA Allen James
dopo aver visitato le basi di Gioia del Colle: «Non ha chiaramente senso
continuare a mantenere segreta l’esistenza degli Jupiter e il loro
dislocamento, ma il governo italiano sembra volere questo per motivi
politici. Quando il Ministero degli Esteri ha dato il permesso per visitare
Gioia […], hanno sottolineato che il permesso veniva dato a condizione che
non vi fosse pubblicità»
(http://www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/NC/nuchis.html, p. 3).
243
D. SORRENTI, op. cit., pp. 108 e 170.
244
D. SORRENTI, op. cit., p. 169; F. GALATEA, Murge, il fronte della Guerra
Fredda, 2012. Analogo sbigottimento hanno espresso non pochi tra i
telespettatori del documentario, trasmesso dalla Rai nel 2013 (cfr. commenti
al video: www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a40f6f3b-
c8d4-43e9-a248-e6f6d0c05302.html?refresh_ce). Dello stesso avviso ora
anche A. MARIANI, op. cit., p. 215: «i cittadini non ebbero il minimo sentore
della grave crisi e la classe politica italiana fece di tutto per non far
trapelare la possibilità che anche il nostro Paese potesse essere coinvolto
[…]».
245
Cfr. per esempio la testimonianza di Onofrio Petrara, poi senatore
del PCI, contenuta in F. GALATEA, op. cit., minuto 39. La stessa esistenza di
Cuba era semisconosciuta tra gli abitanti delle Murge.
246
Al massimo vi si apprende di un Ordine del Giorno «sugli
avvenimenti di Cuba» approvato all’unanimità dal Consiglio provinciale di
Bari (guidato dal DC Matteo Fantasia), che esprimeva «con tono accorato
l’ansia delle genti pugliesi», ma senza alcun riferimenti ai missili («La
Gazzetta del Mezzogiorno», 27-10-1962, p. 5; OdG conservato in Archivio
Storico-Diplomatico MAE, A.P. Vers., Crisi cubana, p. 219). Parimenti non
si parlava di missili nell’OdG su Cuba approvato in quei giorni dalla
Federazione Giovanile Socialista («La Gazzetta del Mezzogiorno», 26-10-
1962, p. 4). Ironicamente, i titoli dedicati in quei giorni a Gravina, una delle
località ospitanti i missili, riguardavano faccende minime come il
cedimento del manto stradale in via Garibaldi («La Gazzetta del
Mezzogiorno», 26-10-1962, p. 11). Solo in una lettera al giornale firmata da
un insegnante di Gravina si intravede un’implicita consapevolezza della
presenza di basi; il giornale gli replica che tutti vogliono la pace ma la via
per l’Italia non può essere nel neutralismo (30-10-1962, p. 5).
247
I partecipanti furono «oltre diecimila» secondo «l’Unità» e secondo
il già citato rapporto della segreteria PCI (Istituto Gramsci, Fondo Togliatti,
Carte Botteghe Oscure, PCI, UA 41); «oltre quindicimila» secondo i ricordi
dell’organizzatore, Domenico Notarangelo (F. GALATEA, op. cit., minuto 46).
Fu proprio durante la manifestazione che arrivò il radiomessaggio di
Kruscev sulla rimozione dei missili. La buona notizia venne data agli
astanti proprio dal palco del comizio (F. GALATEA, op. cit., parte
dell’intervista a Notarangelo non inclusa nel montaggio finale. Si ringrazia
il regista per averci fornito le sbobinature integrali).
248
Diecimila in piazza a Matera, in «l’Unità», 29-10-1962, p. 2.
Capitini aveva mandato un messaggio (trovandosi in quella settimana prima
a Milano e poi a Perugia), mentre Fiore parlò dal palco, come pure i
delegati cubani, che si trovavano in Puglia in quei giorni per il congresso
della FGCI a Bari.
249
«l’Unità», 24-10-1962, p. 2.
250
Uno fu l’Ordine del Giorno per la pace e rimozione delle basi che il
Consiglio provinciale di Matera riuscì ad approvare con i voti non solo dei
consiglieri del PCI, ma anche del PSI e della DC: un piccolo miracolo
d’unità, reso possibile presumibilmente dalla dimensione ristretta e
personale del Consiglio provinciale (PC, PSI, DC a Matera contro le basi
USA in Italia, «l’Unità», 1-11-1962, p. 3). Un altro minimo segno di
consapevolezza della dirigenza politica locale (non, quindi, dell’opinione
pubblica) si ritrova nelle carte dei congressi provinciali del PCI, tenutisi a
novembre, in cui tra le altre cose si notava che quei missili rischiavano di
diventare «potenziali calamite di altri missili» (nemici) e si proponeva di
intensificare le iniziative per chiederne la rimozione, conformemente alle
nuove tesi postcrisi del PCI nazionale. V. VETTA, Il PCI in Puglia all’epoca
del ‘poli di sviluppo’ (1962-1973), Argo, Lecce, 2012, p. 100.
251
«Alcune migliaia» secondo «La Gazzetta del Mezzogiorno», 14-1-
1963, p. 16; «ventimila» secondo «l’Unità», 14-1-1963. Dalla «Gazzetta»
emerge inoltre che, nonostante il divieto assoluto degli organizzatori di
portare alla marcia bandiere o slogan di singoli partiti, la segreteria
provinciale DC sconsigliò ai suoi di parteciparvi, per paura di
strumentalizzazioni da sinistra (13-1-1963, p. 5). Tale caveat conferma
indirettamente quanto dicevamo riguardo all’esistenza di un’identificazione
de facto tra tema della pace e PCI (anche se essa non fu mai totale, come
dimostrato pure nel caso specifico dal fatto che qualche esponente
democristiano locale disobbedì, partecipando alla marcia).
252
«l’Unità», 12-1-1963, p. 1; 13-1-1963, pp. 1 e 2; 14-1-1963, pp. 1 e
8; C. ZAVATTINI, Cinegiornale della pace, 1963. È questa marcia la misteriosa
manifestazione cui facevano spesso riferimento i ricordi della gente raccolti
da D. SORRENTI, op. cit., pp. 88 e 102, senza riuscire a identificarla.
253
«Il Paese», 25-10-1962 (rubrica «Il giornale dei lettori»).
254
D. ELLWOOD, Containing Modernity. Domesticating America in Italy,
in A. STHEPHAN (a cura di), The Americanization of Europe. Culture,
diplomacy and anti-Americanization after 1945, Berghahn Books, New
York, 2006, p. 271.
255
«Il Paese», 3-11-1962 (rubrica «Il giornale dei lettori»).
256
Da On. Russo affronta i problemi dell’ONU, Cinegiornale «Politica –
panoramica», senza data ma chiaramente del 1972, bobina a 35 mm,
Archivio famiglia Russo.
257
Maria Russo, intervista con l’autore (2013).
258
E. EMANUELLI, Nessuno nel nostro paese ha fatto incetta di viveri, in
«La Stampa», 30-10-1962, p. 3.
259
C. ZAVATTINI, La pace la pace la pace, in «Rinascita», 9-6-1962, p.
32.
260
C. ZAVATTINI, Cinegiornale della pace, cit.
261
U. ECO, L’atomica e la cultura, in «Corriere della Sera», ritaglio
senza data (risalente a fine 1962).
262
G.B. ZORZOLI, Un obiettivo per gli anni Sessanta, in La condizione
atomica, fascicolo speciale del «Verri», n. 6, 1962, pp. 4 e 22.
263
Solidarietà degli intellettuali con Cuba, in «l’Unità», 24-10-1962, p.
3.
264
A. GRANDI, Giangiacomo Feltrinelli, BCD, Milano, 2012, p. 288.
265
Seborga, inoltre, in una lettera a Togliatti di quel periodo, parla di
‘aggressione terribile e ridicola a Cuba’. Archivio Gramsci, Fondo Togliatti,
Carte Botteghe Oscure, Corrispondenza, UA 41, Busta 3, Palchetto 8
(lettera senza data).
266
«l’Unità», 25-10-1962, p. 3. Il testo: «In questa drammatica
situazione ci uniamo alla solidarietà degli uomini coscienti e operanti per la
repubblica cubana». Si veda inoltre la dichiarazione di Nono del giorno
seguente (in «l’Unità», 26-10-1962, p. 3), che si concludeva con: «Que viva
Castro!».
267
L’episodio risulta da un’interrogazione parlamentare del PCI, in cui
oltre a Nono era menzionato anche il pittore Emilio Vedova tra i
manifestanti «brutalmente percossi» dalla polizia (Atti parlamentari, Verbali
della Camera dei deputati, Seduta del 25-10-1962, p. 35116).
268
Precisamente, negli interventi di Guttuso e Pajetta (in quanto
«arrestato e malmenato», e «condannato per aver detto sì alla pace»).
Archivio Istituto Gramsci, APC, Serie X Congresso, Busta 0320, pp. 1849 e
1908. A conferma della presenza del tema nucleare nel quadro culturale
italiano dell’epoca, oltre che della personale attenzione di Nono al tema,
giova inoltre ricordare che proprio nella primavera del 1962 egli aveva
composto un opera dal titolo Sul ponte di Hiroshima.
269
Il virgolettato è di Dal Pra. «l’Unità», 25 e 26-10-1962, p. 3.
270
Cfr. «Hoy», 27-10-1962, p. 8.
271
Resoconto della manifestazione al Brancaccio e relativi interventi in:
«l’Unità», 26-10-1962, pp. 1 e 4; «Il Paese», 25-10-1962 (per l’adesione di
Antonioni), 26-10-1962, p. 4; «l’Unità» 28-10-1962, p. 1 (per la definizione
di «bambola tecnologica»). La definizione di «nazismo atomico» tradisce il
gusto di Levi per la frase a effetto più che per un serio impegno di denuncia
circostanziata: un aspetto, questo, che in quei giorni noterà in lui anche
Aldo Capitini (si veda sotto, nota 312).
272
«l’Unità», 27-10-1962 p. 3 (Rino Dal Sasso e Alberto Carocci erano
gli altri due membri della delegazione).
273
Il tradimento dei chierici, in «Il Tempo», 27-10-1962, p. 1.
274
Torna il ‘culturame’, in «l’Unità», 28-10-1962, p. 1.
275
Da Sforza a Piccioni, in «La Nazione», 29-10-1962, p. 1.
276
Ragazzi di vita a Montecitorio, in «Il Secolo d’Italia», 27-10-1962,
p. 1.
277
L’impresa va ascritta a Gianna Preda, la quale, in un articolo al
vetriolo sul «Borghese» contro Piccioni – reo d’aver dato udienza a quella
delegazione di intellettuali («ambasciatori di Togliatti, che piangono a
comando secondo gli ordini ricevuti») – richiamò appunto il celebre caso di
cronaca nera dai risvolti politici risalente alla prima metà degli anni
Cinquanta, per sostenere che se il Ministro degli Esteri di un governo
atlantico si permetteva di ricevere una delegazione di intellettuali critica
dell’operato USA, ciò era un atto di tale «servilismo» da far «sospettare che
qualcosa di strano, qualcosa di vero, dovesse esserci nelle molte accuse»
sollevate a suo tempo contro il figlio del Ministro (il quale era stato
coinvolto e poi scagionato dalle indagini sull’omicidio della Montesi). La
«coda di paglia» di Piccioni verso «gli scaltri marpioni che lei ha accolto
con tanta benevolenza», poteva cioè derivare – insinuava la Preda –
dall’effettiva «coscienza di queste colpe e il terrore che di nuovo, qualcuno
possa rinverdirle» (La ‘coda di paglia’ di Piccioni, in «Il Borghese», 1-11-
1962, pp. 328-329). Riassumendo: attacchi politici portati sul piano
personale, dietrologia, un pizzico di supposta omertà all’insegna del ‘tengo
famiglia’: un mix di litigiosità così tipicamente italiano da non potervi
rinunciare neppure nei giorni di una crisi nucleare planetaria.
278
Il corrispondente del «Times» definisce le opinioni di quegli
intellettuali «assai meno problematiche per il Governo» che non quelle
espresse in Parlamento da presunti sostenitori della maggioranza. Appeal to
Reason in World Affairs, «The Times», 27-10-1962, p. 7.
279
Passeggiate alla Farnesina, in «La Discussione», 4-11-1962, p. 24.
Si precisa che mentre secondo «La Discussione» e «La Nazione» l’incontro
si era tenuto alla Farnesina, per «l’Unità» e «Il Secolo» esso era avvenuto a
Montecitorio – il che pare più verosimile, considerando il fatto che Piccioni
quella mattina era alla Camera, come risulta agli Atti parlamentari. In ogni
caso il particolare sposta poco, trattandosi comunque di due sedi
istituzionali.
280
Cuba insegna, in «La Discussione», 2-11-1962, p. 2.
281
Citato in O. PAPPAGALLO, op. cit., p. 181.
282
L’editoriale diceva: «Il governo italiano, che ha solidarizzato con gli
Stati Uniti, […] dev’essere posto dinanzi alla responsabilità gravissima che
esso si è assunto mettendo il territorio nazionale a disposizione della basi
missilistiche della NATO. […] Il Partito socialista italiano non può, proprio
in questo momento, abbandonare la richiesta di liquidazione delle basi
missilistiche della NATO in Italia, che ha costituito un obiettivo costante
della politica estera di neutralità da esso perseguita» (Rafforzare ed
estendere l’azione per Cuba e per la pace!, in «l’Unità», 1-11-1962, p. 1).
Quanto all’origine di questa mobilitazione, data la tempistica collimante
con la promessa fatta da Kennedy a Kruscev di rimuovere le analoghe basi
turche, non ci sarebbe da stupirsi se prima o poi dagli archivi del Cremlino
dovesse venir fuori una direttiva indirizzata in quei giorni al PCI per
chiedere di mobilitarsi su questo tema, al fine di facilitare una doppia
rimozione turco-italiana (poi verificatasi).
283
«l’Unità», 6-11-1962, p. 1.
284
Lista parziale, stilata a partire dai vari elenchi di adesioni pubblicati
in «L’Unità», 6-11-1962, p. 1; 19-11-1962, p. 1; 2-12-1962; «Il Paese», 6-
11-1962; 8-11-1962, pp. 1 e 2; «Rinascita», 24-11-1962, p. 3.
285
La COMES era una rete radunante circa un migliaio di scrittori,
specie italiani, francesi e sovietici. Vicepresidente era Sartre. Dopo la CMC
il segretario Giancarlo Vigorelli propose d’inviare la tessera di membro
onorario della COMES a Bertrand Russell, in riconoscimento ai suoi sforzi
di mediazione nella crisi. N. RACINE, La COMES (1958-1969). Une
association d’écrivains dans la guerre froide, in J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU
(dir.), op. cit., pp. 281-300.
286
«l’Unità», 18-11-1962, p. 1. Perfino il quotidiano DC in questo caso
apprezza lo spirito distensivo di quegli intellettuali, pur dissentendo
sull’effettiva utilità per la pace della rimozione dei missili (A. NARDUCCI, Gli
tnellettuali e la pace, «Il Popolo», 18-11-1962, p. 3).
287
Italian communists revive anti-missile campaign, Rome to DoS, Nov.
10, 1962 (NARA, CC0069, Reel 28).
288
Intervento di Guttuso al Congresso PCI (Archivio Ist. Gramsci,
APC, Serie X Congresso, Busta 0320, pp. 1849-1850).
289
«Vie Nuove», 8-11-1962, p. 23.
290
Riportato in P.P. PASOLINI, I dialoghi, Editori Riuniti, Roma, 1992, p.
129.
291
P.P. PASOLINI, Lettere (1955-1975), Einaudi, Torino, 1988, p. 518.
292
P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, A. Mondadori,
Milano, 2006, p. 869 (da Quasi un testamento).
293
Riportato in P.P. PASOLINI, I dialoghi, cit., p. 86.
294
P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 858 (da
Quasi un testamento).
295
(servendosi della voce familiarmente sarcastica dello stesso
doppiatore di don Camillo.)
296
G. GUARESCHI, La rabbia, 1963, minuto 82.
297
In questo accenno si intravede il suo disappunto per il fallimento
della Baia dei Porci, annotato già all’epoca nel suo diario: «Arrabbiatissimo
per insuccesso operazione contro Cuba di Castro: imbecilli, fannulloni, e
ipocriti». G. PREZZOLINI, Diario, 1942-1968, Rusconi, Milano, 1980, p. 313.
298
Passando poi alle reazioni italiane: «Ora vorrei saper che cosa farà
Nenni. Sarebbe carino veder gli alleati dividersi quando si tratta di vita o di
morte e non c’è che l’onore da dividere, dopo essersi uniti per una divisione
delle spoglie». La frase sembra interpretabile come una speranza che il PSI
di Nenni, al momento della verità di un’eventuale escalation militare, si
schieri col PCI invece che con gli alleati DC, rompendo così
clamorosamente l’unione creata per spartirsi il potere. «Il Borghese», 1-11-
1962, p. 331.
299
Il termine «vittima» è sottolineato nell’originale, stando a rimarcare
che egli di quella fine non aveva paura. Cocteau aveva 73 anni; morirà
l’anno dopo. J. COCTEAU, Le Passé défini, 23-10-1962, Fond Cocteau,
Bibliothèque Historique de la Ville de Paris. Poiché la pubblicazione
progressiva del diario di Cocteau (Le passé défini), giunta attualmente al
sesto volume, non è ancora arrivata a coprire gli ultimi anni della sua vita,
la consultazione dei manoscritti è chiusa agli studiosi. Tuttavia, previe
nostre ripetute richieste e limitatamente al periodo della CMC, uno speciale
permesso di consultazione ci è stato accordato, dal presidente del Comitato
Jean Cocteau, Pierre Bergé, che ringraziamo.
300
La stessa notazione la si ritrova pure in una sua lettera all’amico
scrittore Ardengo Soffici: «Krushev ci ha voluto dar un’altra volta la
sensazione delle montagne russe». G. PREZZOLINI – A. SOFFICI, Carteggio, Vol.
II, 1920-1964, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 1982, p. 281 (lettera
dell’1-11-1962).
301
«Il Borghese», 8-11-1962, p. 364. Nel diario aggiunge: «28 ottobre
1962. Grandi meraviglie – e gioia – per la decisione di Kruscev di ritirare le
armi atomiche da Cuba. Ma la sua ritirata è oggetto di riflessione. Non sono
poi tanto temibili quei russi». G. PREZZOLINI, Diario…, cit., p. 344.
302
«Il Borghese», 22-11-1962, pp. 456-457.
303
G. PREZZOLINI, Una guerra scongiurata, «Il Resto del Carlino», 25-
11-1962 (anche su «La Nazione», Le due città, stesso giorno).
304
A. SPINELLI, L’Europa fra armamento atomico e armamento
convenzionale, in «Il Mulino», Nov.-Dic. 1962, pp. 1129-1135.
305
«È appena necessario avvertire che la tanto invocata dottrina di
Monroe non ha nessun valore internazionale, trattandosi di una
dichiarazione unilaterale del governo americano, che lo stesso governo
americano ha del resto da tempo ripudiato con i fatti: essa infatti affermava
il diritto degli americani di respingere qualunque ingerenza europea nel
nuovo continente ma parallelamente l’obbligo degli USA di disinteressarsi
delle vicende europee.»
306
L. BASSO, Appunti sulla crisi cubana, in «Problemi del socialismo»,
Nov. 1962, pp. 960-969.
307
Egli aggiungeva poi che, benché nel caso specifico USA e URSS
avessero entrambi la loro parte di torti, «purtroppo […] si cerca soltanto
l’umiliazione della parte avversa e il momentaneo successo della propria, ci
si rallegra se Mosca ha dovuto cedere, non si loda la sua sperata
moderazione». E. AGNOLETTI, ONU sì, yankee no, in «Il Ponte», Ott. 1962,
pp. 1265-1268.
308
Come confermatoci da Michele Gesualdi, presidente della
Fondazione don Lorenzo Milani, che ha aggiunto: «Poiché la scuola di
Barbiana tutti i giorni leggeva e commentava ad alta voce il giornale,
sicuramente si è parlato e discusso della crisi di Cuba, però tutto è rimasto
nell’ambito della sua scuola». Email all’autore, maggio 2008.
309
«È noto», scrive don Milani ai suoi giudici, «che l’unica ‘difesa’
possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa venti minuti
prima dell’ ‘aggressore’. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama
aggressione e non difesa. Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che
per sua ‘difesa’ spari venti minuti dopo. Cioè che sparino i suoi
sommergibili unici superstiti d’un Paese ormai cancellato dalla geografia.
Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa. Mi dispiace se il
discorso prende un tono di fantascienza, ma Kennedy e Krusciov (i due
artefici della distensione!) si sono lanciati l’un l’altro pubblicamente
minacce del genere. ‘Siamo pienamente conspevoli del fatto che questa
guerra se viene scatenata, diventerà sin dalla primissima ora una guerra
termonucleare e una guerra mondiale. Ciò per noi è perfettamente ovvio’
(lettera di Krusciov a B. Russell, 23-10-1962). [recte, 24-10, ma l’errore
nulla sposta, NdA] Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra
difensiva non esiste più. Allora non esiste più una ‘guerra giusta’ né per la
Chiesa né per la Costituzione. A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti
che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. (Per esempio Linus
Pauling, premio Nobel per la chimica e per la pace). E noi stiamo qui a
questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?». L.
MILANI, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, 1965, p. 62.
310
Cfr. C. FOPPA PEDRETTI, Spirito profetico ed educazione in Aldo
Capitini, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 96.
311
Capitini sceglie quest’organo – anziché la Consulta per la Pace, da
lui costituita e presieduta – perché più uniforme e dunque di posizioni più
definite. Viceversa l’eterogenea composizione della Consulta (cattolici,
protestanti, comunisti, socialisti, etc.) rendeva difficile assumere una
posizione condivisa sulla CMC, come egli stesso scrive a Fofi: «Come
Consulta è difficile pronunciarsi perché si scontenta o l’uno o l’altro, quindi
ognuno si regolerà come crede» (Su quest’organo cfr. La consulta per la
pace, Numero unico, Maggio 1962 e A. MARTELLINI, Fiori nei cannoni.
Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma,
2006, pp. 135-144).
312
Così scrive Capitini in un altro passo della lettera: «Carlo Levi che
viene fuori quando c’è la piazza in subbuglio, nel momento ‘poetico’,
mentre disdegna la nostra prosa quotidiana nella quale ci affatichiamo da
due anni non è un esempio buono. Le manifestazioni esplosive non contano
molto, e spesso conducono a errori, come lo fu l’interventismo
dannunziano. Io ho scritto allo stesso Carocci parlandogli del nostro lavoro,
della Consulta. […] i comunisti ci corrispondono molto fiaccamente; e poi
tutto ad un tratto vorrebbero fare manifestazioni decisive». A. CAPITINI,
Lettere agli amici 1947-1968, Linea d’Ombra, Milano, 1989, pp. 26-27. Sui
rapporti tra Capitini e la sinistra italiana, si veda anche A. D’ORSI,
Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino, 2001, pp. 127 e 136.
313
Infatti, argomentava Jemolo, «in mancanza di trattati non c’è alcun
diritto d’imporre ad un altro Paese di limitare i suoi armamenti, né di
sorvolare sul suo territorio con voli d’ispezione. Né […] il diritto
d’impedire che in tutto il continente americano s’instaurino governi
comunisti, anche se sinceramente voluti dal popolo, anche se pongano fine
ad anarchie od a regimi tra i peggiori che la storia registri. […] Non siamo
così ingenui da ignorare che la parità fra Stati è una finzione giuridica […]
Ma sappiamo altresì che molte volte l’enunciazione di certi principi legali è
stato l’avvio alla penetrazione in cerchie sempre più vaste della regola etica
che ne era alla base». Jemolo criticava poi la politica di corsa agli
armamenti («Non c’è frase dei retori che abbia recato maggiore male del si
vis pacem para bellum»), e i suoi risvolti culturali («un continuo
sfruttamento della psicosi di guerra ai fini di politica interna: dovunque ad
occidente e ad oriente il buon cittadino deve credere che quelli del blocco
opposto non sono dei pacifici, lo insidiano, da un giorno all’altro possono
assalirlo; questa mentalità della diffidenza metodica […] è la più funesta
[…])». A.C. JEMOLO, La testa sotto l’ala, in «Il Ponte», Apr. 1963, pp. 469-
478.
314
Basti pensare ai dibattiti avutisi in Italia nel 2003 in occasione della
guerra in Iraq, pur osteggiata dalla larga maggioranza degli italiani, o alla
crescente ostilità relativa al prolungarsi della guerra NATO in Afghanistan.
315
Su questi due colpi di stato, cfr. per esempio G. GARAVINI, Dopo gli
imperi, cit., pp. 19-20.
316
Qui anche Spadolini si sbaglia, come già specificato nella nota a
proposito della Rossanda.
317
G. SPADOLINI, La crisi di Cuba, in «Nuova Antologia», Nov. 1962, pp.
291-298.
318
Si precisa per completezza che, come messo in luce dal saggio di
F.S. SAUNDERS, La guerra fredda culturale, cit., la rivista «Tempo Presente»
faceva parte della rete internazionale di riviste collegate e sostenute dal
«Congress for Cultural Freedom», ente controllato dalla CIA e
dall’establishment statunitense, che lo usava per dare spazio e visibilità ad
esponenti ed argomenti di una cultura di segno non filocomunista. «Tempo
Presente», tuttavia, pur facendo parte di questo circuito culturale non aveva
mai subito condizionamenti di alcun tipo, tanto che Chiaromonte rimase
sorpreso e imbarazzato quando venne fuori questo retroscena, di cui era il
primo ad essere all’oscuro.
319
N. CHIAROMONTE, Riflessioni su una crisi, in «Tempo Presente», pp.
769-775.
320
Come registrava già il succitato rapporto della DC sulle reazioni alla
crisi: «Profonde ripercussioni sono state registrate negli ambienti culturali
[…] Su posizioni decisamente oltranziste, infine si sono posti numerosi
scrittori» marxisti. Riflessi della crisi cubana sulla situazione politica
interna, Fondo DC, Serie Segreteria Politica, 8, Corrispondenza con
l’Estero, Scatola 159, Fasc. 15, Ist. Sturzo.
321
Inoltre, se le iniziative delle delegazioni di Pasolini e soci
richiamano l’attivismo contemporaneamente adottato da Fanfani sul piano
diplomatico, quest’ultimo a sua volta potrebbe essere messo in relazione,
pur con le ovvie differenze, con le mediazioni di Mussolini del 1938 (alla
conferenza di Monaco) o quella di Berlusconi nel 2008 (al telefono con
Putin per il conflitto con la Georgia), entrambi poi proclamatisi salvatori
della pace internazionale. L’analogia evidentemente non è tesa a stabilire
improbabili equivalenze tra i tre leader e le rispettive iniziative, bensì a
sottolineare la ricorrenza storica di certe istanze (più o meno sincere) delle
leadership italiane a giocare il ruolo di mediatori internazionali. È ben
possibile che il nostro Paese si riveli alla fine troppo piccolo per poter
sostenere simili ambizioni, ma d’altro canto è anche vero che vi sono
ambizioni nazionali peggiori.
322
Tale doppia rimozione tra l’altro fu particolarmente significativa
perché rappresentò, come ha notato Nuti, un «simbolico spartiacque della
guerra fredda», tra la sua fase più acuta e quella relativamente più distesa
che seguì, anche se ciò divenne chiaro solo a posteriori (L. NUTI,
Dall’Operazione Deep Rock all’Operazione Pot-Pie: una storia
documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in Storia delle Relazioni
Internazionali, 1996-1997, n. 2, p. 143).
323
Tra le conseguenze minori vi fu poi anche il fatto che il PCI trasse
dall’esperienza, pur politicamente infelice, della CMC, l’occasione per
ribadire la propria linea strategica all’interno del movimento socialista
internazionale: la linea cioè di una ‘via italiana al socialismo’, che fosse
pacifica, non rivoluzionaria (Cfr. O. PAPPAGALLO, op. cit., pp. 16-17).
324
Se il dirigente del PCI, nella già vista riunione di direzione,
giustificò la pochezza numerica delle manifestazioni dicendo che «ciò è
dovuto al fatto che molta gente non credeva reale il pericolo di guerra» (O.
PAPPAGALLO, op. cit., p. 183), il missino Romualdi a crisi ancora in corso
affermò alla Camera dei deputati «che, fin dal momento in cui la crisi
scoppiò, si ebbe la netta impressione che la pubblica opinione fosse meno
allarmata di quanto non lo fossero i responsabili dei maggiori governi
impegnati. Forse l’opinione pubblica si rendeva conto che, nonostante i fatti
gravissimi che stavano accadendo, non vi erano le ragioni per un conflitto
reale. […] La pubblica opinione italiana ha forse avvertito che, più che allo
scontro, era facile che si volesse arrivare a un incontro» (Atti parlamentari,
Verbali della Camera dei deputati, seduta del 26-10-1962, p. 35183).
325
Come mostrato per esempio, a livello locale, dalla generale
inconsapevolezza dei pugliesi riguardo ai rischi legati ai vicini missili
NATO, a fronte del maggior dinamismo manifestato invece dalle locali
dirigenze politiche ed intellettuali (FGCI, Tommaso Fiore, ecc.).
326
Per citarne un paio tra i più recenti, L. DI NUCCI – E. GALLI DELLA
LOGGIA, Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia
dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2003; M. SALVADORI, Italia
divisa. La coscienza tormentata di una nazione, Donzelli, Roma, 2007.
327
Ciò non va inteso necessariamente come un giudizio di inferiorità,
giacché la capacità di dividersi dialetticamente, così come quella di
esprimere compattezza, possono avere i loro pregi.
Scienza e guerra atomica. Scienziati
1
H. BROWN, The twentieth year, «Bulletin of Atomic Scientists», Dec.
1962, pp. 2-3.
2
Una reazione che nella rivista naturalmente non era limitata al solo
Brown, come mostra il fatto che tale articolo fosse pubblicato come
editoriale della testata, e come conferma la reazione «inorridita» del
cofondatore e direttore del «Bulletin», lo scienziato Eugene Rabinowitch,
che vedremo tra breve.
3
Non a caso era appunto alla data della prima reazione a catena
controllata dall’uomo (2 dicembre 1942) che si riferiva l’anniversario cui
accennava sopra il «Bulletin of Atomic Scientists».
4
«Caro Signor Presidente, sono convinto che la prossima fase del
cosiddetto stallo atomico, che ora si sta rapidamente avvicinando, sarà
intrinsecamente instabile e potrebbe esploderci in faccia la prima volta che
entriamo in un conflitto con la Russia nel quale siano coinvolti
fondamentali interessi nazionali. Perciò, credo sia imperativo che
raggiungiamo un incontro delle intenzioni [a meeting of minds] coi russi
riguardo a come vivere con la bomba oppure come liberarsi della bomba.
Fin qui, non abbiamo fatto nessuna delle due cose». Lettera Szilard – JFK,
May 10, 1961. Leo Szilard Papers (Mandeville Special Collection Library,
UCSD), MSS 32, Box 11, Folder 5.
5
Lettera Szilard – Kruscev, Oct. 9, 1962. Szilard Papers, UCSD, MSS
32, Box 12, Folder 9.
6
Frase rivolta da Szilard a Weisskopf, riportata in T. POWERS,
Intelligence wars, New York Review Books, New York, 2002, p. 158.
7
M. BESS, Realism, Utopia and the mushroom cloud, The University of
Chicago Press, Chicago, 1993, p. 61.
8
W. LANOUETTE, Genius in the shadows. A biography of Leo Szilard, the
man behind the Bomb, The University of Chicago Press, Chicago, 1992, p.
461 (che qui riporta una lettera indirizzata nel 1963 da Szilard all’amico
René Spitz).
9
Ivi, pp. 456-464, da cui provengono anche i successivi virgolettati.
10
Lettera Livingston – Szilard. Nov. 9, 1962. Szilard Papers, UCSD,
MSS 32, Box 12, Folder 9.
11
Lettera Kruscev – Szilard, Nov. 4, 1962. Szilard Papers, UCSD, MSS
32, Box 11, Folder 7.
12
«Ho ricevuto una telefonata da Washington», scrive Szilard a
Kruscev, da Ginevra, «che indica che l’Angels Project è incorso lì in una
seria difficoltà. […] Uno dei funzionari governativi chiave […] è stato
contattato prematuramente da uno degli Angeli e ha reagito abbastanza
negativamente». Lettera Szilard – Kruscev, Nov. 25, 1962. Szilard Papers,
UCSD, MSS 32, Box 11, Folder 7.
13
Tra questi, la sua lettera a Bundy del 26-12-1962. Szilard Papers,
UCSD, MSS 32, Box 20, Folder 30.
14
Sull’Angels Project, si veda anche M. EVANGELISTA, Unarmed forces,
Cornell University Press, Ithaca, NY, 1999, pp. 40-44.
15
W. LANOUETTE, op. cit., pp. 459 e 464. In tal senso si veda anche la
secca replica di Bundy a un messaggio speditogli da Szilard: «Il suo
immaginoso messaggio del 14 novembre [conteneva] un suggerimento
caratteristicamente originale, ma dubito che per noi sarebbe utile condurre
le nostre relazioni col presidente Kruscev tramite lei» (L. WITTNER, Resisting
the Bomb…, cit., p. 373).
16
W. LANOUETTE, op. cit., pp. 447 e 461.
17
Ivi, p. 460.
18
G. SZILARD – H. HAWKINS – G.A. GREB – B. BERNSTEIN (a cura di),
Toward a livable world, cit., pp. 478-479.
19
«Overkill» in gergo militare indica un uso eccessivo e non necessario
della forza.
20
«Boston Globe», Oct. 21, 1962, p. 1 (Says U.S. bombs can ruin
Russia 25 times).
21
Il mondo per 12 volte sull’orlo della strage atomica, «l’Unità», 22
Ott. 1962, p. 1.
22
«The New York Times», Oct. 26, 1962, p. 27.
23
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 256. Tre anni dopo, infine,
Lapp scrisse un nuovo libro per mettere in guardia dai pericoli
dell’eccessiva influenza assunta dagli scienziati presso il potere politico,
specie negli USA. In esso tra l’altro Lapp concordava sul chiaro fatto che
«la prova di forza su Cuba aveva moderato la politica sovietica» (R. LAPP,
The new priesthood: the scientific elite and the uses of power, Harper &
Row, New York, 1965, p. 149).
24
E. SEGRÈ, A mind always in motion. The autobiography of Emilio
Segrè, University of California Press, Berkeley, 1993, p. 282.
25
Ecco i nomi degli otto premi Nobel: Owen Chamberlain (Fisica),
Peter J.W. Debye (Chimica), Donald A. Glaser (Fisica), Arthur Kornberg
(Medicina e Fisiologia), Fritz A. Lipmann (Medicina e Fisiologia),
Hermann J. Muller (Medicina e Fisiologia), Edward Mills Purcell (Fisica),
Harold C. Urey (Chimica). Nobel prize winners propose neutral Cuba and
non-military Guantanamo, in «I.F. Stone Weekly», Nov. 5, 1962, p. 4.
26
Videointervista a Joseph Rotblat, 2002 (realizzata dal Vega Science
Trust). Tape 8, minuto 13.
27
Elaine Kistiakowski, email all’autore, 21 agosto 2009.
28
FAS Newsletter, Apr. 1963, p. 1.
29
Su questo punto, riconosciuto anche da JFK nel suo colloquio privato
con Schlesinger subito dopo la crisi (si veda il capitolo Stati Uniti
d’America), si rilegga il punto 6 del capitolo Capire la crisi.
30
FAS Newsletter, Feb. 1963, pp. 1 e 6. Tali affermazioni erano
contenute in una dichiarazione ufficiale della Federazione, che premeva per
l’adozione esplicita di una «no first strike policy», consistente nel garantire
che gli USA non avrebbero mai usato per primi le armi nucleari, né
avrebbero minacciato di farlo.
31
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 256.
32
E. RABINOWITCH, New year’s thoughts, 1964, in «Bulletin of Atomic
Scientists», Jan. 1964, p. 2. Era così. Si è già accennato, per esempio, a
come l’interesse pubblico per i rifugi antiatomici e le tematiche nucleari in
genere sia crollato a picco proprio dopo la CMC.
33
(Lett. «War is at hand»). W. LANOUETTE, op. cit., p. 458. La vedova
Elaine Kistiakowski, da noi interpellata, non ha potuto smentire né
confermare quella frase del marito («Temo sarebbe un disservizio alla storia
cercare di ricordare […] ciò che qualcuno disse all’epoca». Email
all’autore: 20 giugno 2010). Una ricerca tra le carte di Kistiakowski
conservate ad Harvard non ha evidenziato sue menzioni della CMC.
34
J. ROTBLAT, Leaving the Bomb project, in «Bulletin of Atomic
Scientists», Aug. 1985, pp. 16-19.
35
J. ROTBLAT, Scientists in the quest for peace, MIT Press, Cambridge,
MA, 1972, p. XIII.
36
J. ROTBLAT, Scientists in the quest for peace, cit., p. 34. Inoltre,
secondo altre fonti (D. FAZZI, La pace calda, tesi di dottorato, Università di
Bologna, XXII ciclo, p. 166; E. SALMON, Against the bomb, in «Financial
Times», 12-2-1989), gli scienziati americani avrebbero fatto filtrare in quei
giorni anche una proposta di rimozione congiunta dei missili cubani e
turchi. Rotblat però non ne fa menzione nel suo resoconto.
37
FO371/163163, UK National Archives, Kew.
38
Videointervista a Joseph Rotblat, 2002 (realizzata dal Vega Science
Trust). Tape 8, minuto 13.
39
Anche Russell conferma che durante la crisi «Rotblat […] ebbe un
gran da fare a spedire cablogrammi agli scienziati degli USA e dell’URSS
aderenti al movimento per incitarli a usare la loro influenza presso i
rispettivi governi». B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 13 nota.
40
J. ROTBLAT – D. IKEDA, A quest for global peace, I.B. Tauris, New
York, 2006, p. 131.
41
B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 39.
42
(lett.: «cut much ice»). B. RUSSELL, Autobiografia, Longanesi, Milano
1970, vol. 3, p. 213.
43
Citato in L. SCOTT, Macmillan, Kennedy, …, cit., p. 89.
44
«Daily Mail», 29-10-1962, p. 2.
45
Lettera Born – Russell, 23-10-1962. Box RA2 350, Bertrand Russell
Research Centre, McMaster University. Si ringraziano Nancy Greenspan,
biografa di Born, e il dr. Andrew G. Bone, del Bertrand Russell Research
Centre, per il prezioso aiuto fornito nel reperimento delle lettere tra i due
scienziati.
46
Si consideri che – particolare fin qui trascurato dalla storiografia – i
primi telegrammi di Russell ai vari leader partirono alle 2 di mattina del 23
ottobre (ora britannica), cioè appena un’ora e mezza dopo la fine del
discorso di Kennedy. Ciò aiuta a comprenderne anche il tono concitato (BR
to NK, JFK, U Thant, H. Macmillan, H. Gaitskell, 23-10-1962. Box RA1
650, Bertrand Russell Research Centre).
47
Cablogrammi M. Born – BR e risposta, 25-10-1962. Box RA2 350,
Bertrand Russell Research Centre, McMaster University.
48
«Caro prof. Russell, abbiamo trovato sui giornali i suoi messaggi a
Kennedy e Kruscev, e oggi è apparsa una sua foto. Sono estremamente lieto
che lei abbia fatto questo. Un messaggio diretto da parte sua è di sicuro più
efficace di qualunque lettera congiunta da parte di un gruppo. Ha reso un
grande servizio al mondo, e io la ringrazio. […]». Born a Russell, 26-10-
1962. Box RA2 250, Bertrand Russell Research Centre.
49
Lettera Russell – Born del 30-10-1962. N. GRIFFIN (a cura di), The
Selected letters of Bertrand Russell, Routledge, New York, 2001, pp. 555-
556.
50
Per un resoconto più dettagliato dei vari telegrammi di Russell
durante la CMC occorrerebbe naturalmente più spazio. Potrà essere oggetto
di uno studio ad hoc.
51
Cfr. D. KEVLES, The physicists, Harvard University Press, Cambridge,
MA 1995, p. IX.
52
Tanto che proprio all’inizio del 1962 lo scienziato politico Robert
Giplin dedicava un intero libro ai rapporti tra scienziati e potere politico,
auspicandone una più chiara definizione, giacché «mai prima d’ora la
partecipazione di scienziati alla determinazione di politiche pubbliche è
stata così pervasiva e importante come oggi». R. GIPLIN, American scientists
and nuclear weapons policy, Princeton University Press, Princeton, NJ,
1962, p. 10.
53
D. SCOTT – A. LEONOV, Two sides of the moon, Simon & Schuster, New
York, 2004, p. 66.
54
Allora l’URSS utilizzava le stesse basi per i missili militari e per i
razzi di esplorazione spaziale.
55
B. CHERTOK, Rockets and people, NASA History Series, Washington
2009, vol. 3, pp. 96-102 (Per una versione simile del medesimo episodio,
cfr. J. HARTFORD, Korolev, John Wiley and Sons, New York, 1997, pp. 150-
151; J. DORAN – P. BIZONY, Starman, Bloomsbury Publishing, London, 2011,
p. 150).
56
L’americano Rabinowitch definisce Topchiev «membro di un certo
rango della gerarchia comunista», dotato di grande energia e devozione alla
causa del disarmo (A Topchiev, 1907-1962, in «Bulletin of Atomic
Scientists», March 1963, p. 8). Anche Rotblat lo ricorda come «un membro
molto importante del Partito comunista» (OHI British Library, 27di40,
minuto 29: http://sounds.bl.uk/Oral-history/Science/021M-
C0464X0017XX-2800V0) e come «un comunista ardente e un membro
della linea dura, ma con un cuore d’oro» (J. ROTBLAT, Scientists in the quest
for peace, cit., p. XVIII).
57
B. RUSSELL, La vittoria disarmata, cit., p. 13 nota. Con ogni
probabilità Russell ebbe da Rotblat tale notizia del colloquio.
58
In tale colloquio il chimico sovietico, pur essendosi precedentemente
dichiarato pronto a volare a Londra per il summit di emergenza del
Pugwash, avvisò Rotblat che ormai «non c’era più alcun bisogno
dell’incontro, perché […] la situazione si era raffreddata [the heat was off]».
29-10-1962, FO 371/163163, UK National Archives, Kew. Topchiev morì
due mesi dopo la CMC, il 27 dicembre.
59
«What Soviet People are being told through Soviet press and radio»,
Oct. 26, 1962. DNSA, CC01422.
60
Questo l’inizio dell’appello: «Noi approviamo caldamente la
dichiarazione del governo sovietico e ci rivolgiamo agli studiosi di tutti i
Paesi del mondo, indipendentemente dalle loro idee e convinzioni politiche,
ai rappresentanti di tutte le scienze ad intervenire in modo particolarmente
attivo a difesa del mondo». Prizyv k uc enym vsego mira («Appello agli
studiosi di tutto il mondo»), «Pravda», 26-10-1962, p. 3. Si ringrazia la
dott.ssa Sara Tavani per la traduzione dal russo.
61
L’appello, dopo aver nominato significativamente al primo posto
proprio i fisici, proseguiva chiamando a raccolta altre categorie di studiosi.
«Giuristi internazionalisti! Dite alle persone tutta la verità sulla completa
illegalità delle azioni piratesche del governo degli Stati Uniti, che
costituiscono una violazione senza precedenti delle norme del diritto
internazionale! Sociologi ed economisti! Intervenite in difesa dei diritti e
della libertà della Repubblica di Cuba – uno stato sovrano, membro
dell’ONU! Rappresentanti di tutti i settori della scienza la cui vocazione è
servire il progresso umano, gli alti principi dell’umanesimo! Aderite
attivamente alla lotta contro le forze aggressive che minacciano la pace
sulla terra». Prizyv k uc enym vsego mira («Appello agli studiosi di tutto il
mondo»), «Pravda», 26-10-1962, p. 3.
62
R. STAAR, Foreign Policies of the Soviet Union, Hoover Press,
Stanford, 1991, pp. 79, 81, 84. Il WPC, tra l’altro, era l’erede diretto
dell’organizzazione dei Partigiani della Pace che nel 1950 aveva diffuso la
celebre ‘petizione di Stoccolma’ contro le armi nucleari, apparentemente
neutrale ma di fatto frutto della propaganda sovietica. M. NOLAN, The
Transatlantic century. Europe and America, 1890-2010, Cambridge
University Press, 2012, p. 235; L. WITTNER, One world or none. The struggle
against the bomb – A history of the world nuclear disarmament movement,
vol. II, Stanford University Press, 1993, pp. 182-190.
63
A. BROWN, J.D. Bernal: the sage of science, Oxford University Press,
Oxford, 2005, p. 426.
64
«Il Paese», 26-10-1962 (Appello all’ONU di J.D. Bernal –
L’aggressione USA non dev’essere legalizzata). Cfr. anche «l’Unità», 25-
10-1962, p. 3 (Bernal: ‘L’ONU fermi l’azione degli USA’).
65
Il messaggio era indirizzato al «Movimento cubano per la difesa della
pace e la sovranità dei popoli». Mensaje de John Bernal en apoyo a los
cubanos, «Revolucion», 26-10-1962, p. 3.
66
A. BROWN, J.D. Bernal…, cit., p. 427.
67
Ivi, p. 427.
68
Ivi, p. 489.
69
Ivi, p. 433 e 489. L’ipotesi del biografo di Bernal naturalmente va
letta come riferita a un’influenza di tipo indiretto e generico, in assenza di
documenti relativi a un concreto coinvolgimento dello scienziato nei giorni
della crisi.
70
A. SAKHAROV, Memoirs, Knopf, New York, 1990, p. 211.
71
R. LOURIE, Sakharov: a biography, Brandels University Press,
Waltham, MA, 2002, p. 178.
72
Le parole rivoltegli in quell’occasione da Kruscev sono
esemplificative delle difficoltà che può caratterizzare i rapporti tra scienza e
potere politico. (Può essere utile leggerle in relazione con quelle, che
vedremo tra poche pagine, rivolte invece da Kennedy al proprio scienziato
critico, Linus Pauling.) Kruscev infatti rispose che Sakharov si era
«spostato al di fuori della scienza, nella politica. Sta ficcando il naso dove
non gli spetta […] Lasci la politica a noi – noi siamo gli specialisti. Voi fate
le vostre bombe e sperimentatele, e noi non interferiremo con voi. […] Ma
ricordatevi: dobbiamo condurre la nostra politica da una posizione di forza.
[…] I nostri avversari non capiscono altro linguaggio. […] Sarei uno
smidollato e non il Presidente del Consiglio dei ministri se ascoltassi gente
come Sakharov!» (citato in L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 340;
cfr J. BERGMAN, Meeting the demands of reason. The life and thought of
Andrei Sakharov, Cornell University Press, Ithaca, NY, 2011, pp. 95-97).
Alla fine della lunga scenata, nessuno dei colleghi si avvicinò a Sakharov
per esprimergli solidarietà.
73
L. WITTNER, Resisting the Bomb…, cit., p. 281.
74
F. LIZHI with R. RATMESAR, The Dissident Andrei Sakharov, «Time», 14
June 1999.
75
Per una prima conferma sulla minore percezione della crisi in terra
sovietica, cfr. A. GEORGE, Awaiting Armageddon…, cit., p. 65, e la
testimonianza del figlio di Kruscev, contenuta nella videointervista
realizzata per il Watson Institute for International Studies (cfr. inoltre, in
bibliografia, le testate sovietiche da noi consultate).
76
Andrei Sakharov Archives, bMS Russ 79 (6223), Houghton Library,
Harvard University. A margine del documento vi è l’indicazione
archivistica che esso fu redatto «dopo il 1987» e la notazione manoscritta
dello stesso Sakharov di non ricordare il titolo del film (aggiungendo però
che esso è stato recensito su «Moskovskie Novosti»). Si ringrazia Micah
Hoggatt per l’aiuto nella consultazione del documento.
77
N. KHRUSHCHEV, Khrushchev remembers. The last testament, Little
Brown & Co., Boston, 1974, p. 69.
78
M. PISZKIEWICZ, Von Braun, Praeger, Wesport, 1998, p. 101.
79
Dello stesso avviso anche il suo biografo D. NEUFELD, op. cit., p. 406.
80
Ivi, p. 382 (cfr. anche Piszkiewicz, op. cit., p. 148). La singolare
notizia del rifugio antiatomico era stata rivelata da un quotidiano locale,
l’«Huntsville Times», nonostante gli sforzi della NASA di evitarne la
pubblicazione, nell’intento di tenere von Braun lontano dai riflettori. (Cfr.
H. YOUNG – B. SILCOCK – P. DUNN, Journey to Tranquillity, Doubleday Co.,
Garden City, NY, 1970, p. 8). Tale intento è anche tra i fattori che
presumibilmente spiegano la scarsità di notizie trapelate in merito alla sua
reazione di fronte alla CMC, insieme naturalmente alla sua personale
ammirazione per Kennedy, che rende difficile pensare ad una sua
contrarietà rispetto alla linea scelta dal Presidente.
81
E. TELLER, Memoirs, Perseus Publishing, Cambridge, MA, 2001, p.
465.
82
Nonostante i suoi sforzi, mossi dalla convinzione di fondo che dei
sovietici non ci si potesse fidare, Teller non riuscì a impedire la conclusione
dell’accordo né la sua ratifica in patria, giacché l’amministrazione Kennedy
– presso la quale egli non godeva di gran credito – ribattè alle sue
affermazioni, come pure la maggioranza del Congresso e della comunità
scientifica (I. HARGITTAI, op. cit., pp. 332-336, 342, 366). Riuscì però a
diminuirne la portata effettiva tramite la sua influenza sul Pentagono e a
dare un’immagine divisa, e perciò politicamente meno influente, della
comunità scientifica (P. RUBINSON, Crucified on a Cross of Atoms: Scientists,
Politics and the Test Ban Treaty, in «Diplomatic History», Apr. 2011, pp.
314-316).
83
Cfr. K. OLMSTED, Linus Pauling: a case studies in counter-intelligence
run amok, in L. JOHNSON (a cura di), Handbook of Intelligence Studies,
Routledge, London, 2006, p. 274.
84
Cfr. L. PAULING, Linus Pauling on Peace, Rising Star Press, Los Altos,
CA, 1998, p. 134. È a questo tipo di apertura intellettuale che si riferiva
Norman Mailer quando, come abbiamo visto nel capitolo Stati Uniti
d’America, dopo Dallas confesserà di rimpiangere il clima creato da
Kennedy, che in quegli anni gli aveva reso naturale dialogare con lui anche
se in disaccordo con molte delle sue politiche.
85
L’ora che appare riportata in alto a destra del telegramma è infatti
«4.50 PM, 22 October 1962», il che, con l’aggiunta delle tre ore di fuso
separanti l’Oregon dalla capitale, dà appunto le 7.50 PM, cioè 33 minuti
dopo la fine del discorso.
86
Pauling to JFK. Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State
University Libraries, Manuscripts of Articles, Box 1962a3, Folder 3.2 (si
ringrazia per la particolare disponibilità Chris Petersen, Faculty Research
Assistant).
87
Overseas reaction to the Cuban situation, p. 17, USIA report (Oct.
24, 1962, 3.30 PM), in DNSA, CC01268.
88
L’on. Silvio Ambrosini (PCI) citò nel suo discorso Pauling,
«scienziato americano il quale, rivolgendosi a Kennedy, definisce
irresponsabile la sua azione e quindi anche quella del governo italiano».
Atti parlamentari, Verbali della Camera dei deputati, seduta del 27-10-1962,
p. 35213.
89
U THANT, op. cit., p. 169.
90
L’assegnazione del Nobel a Pauling, relativa all’anno 1962, fu
annunciata il 10 ottobre 1963, in coincidenza con l’entrata in vigore del
trattato LTBT, per cui egli si era battuto.
91
Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State University
Libraries, Manuscripts, Box 1962s, Folder 19 (disponibile anche in versione
digitalizzata). Glenn T. Seaborg, già premio Nobel per la chimica, era il
presidente dell’AEC, la Commissione per l’energia atomica; William
Chapman Foster era a capo dell’Agenzia statunitense per il Disarmo e il
Controllo degli armamenti; Jerome Wiesner era il consigliere scientifico del
presidente Kennedy.
92
Questo virgolettato di Pauling è riportato in L. JOHNSON (a cura di), op.
cit., p. 274. Qui il riferimento di Pauling era all’influenza politica del
«complesso militare-industriale», di cui già Eisenhower aveva denunciato i
pericoli, nel suo celebre ultimo discorso da Presidente, pronunciato al
momento di lasciare la Casa Bianca (17 gennaio 1961) e in seguito
denominato appunto Military-Industrial Complex Speech (Testo ufficiale in
Public Papers of the Presidents, Dwight D. Eisenhower, United States
Government Printing Office, Washington, DC, 1960, pp. 1035-1040).
93
L. PAULING, op. cit., p. 135.
94
Ava Helen and Linus Pauling Papers, Oregon State University
Libraries, Manuscripts, Box 1962s, Folder 19 (disponibile anche in versione
digitalizzata).
95
Pauling to Baker, Nov. 1, 1962. Ava Helen and Linus Pauling Papers,
Oregon State University Libraries, Correspondence, Box 40, Folder 1. Nel
1963, Pauling volle però render merito a Kennedy di aver raggiunto il
trattato internazionale sulla messa al bando parziale dei test atomici
(LTBT). Quest’accordo, gli scrisse, «sarà ricordato dalla storia come uno
dei più grandi eventi nella storia del mondo». Cfr. L. JOHNSON (a cura di), op.
cit., p. 274.
96
M. PINAULT, Expert set/ou engagés? Les scientifiques entre guerre et
paix de l’UNESCO à Pugwash, in J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU (dir.), op. cit.,
pp. 235-249.
97
Sulle proteste contro i test nucleari di quegli anni, cfr. L. WITTNER,
Resisting the Bomb…, cit. (Quanto poi ai rapporti tra comunità scientifica e
potere politico, oltre al già citato saggio di Giplin, si veda J. WANG,
American science in an age of anxiety. Scientists, anticommunism and the
Cold war, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1999, relativo ai
primi anni della guerra fredda.)
98
T. MERTON, New seeds of contemplation, Shambhala Publications,
Boston, 1961, pp. 123-124. Merton era in contatto in particolare con Leo
Szilard. Cfr. PH. THOMPSON, Between Science and Religion. The Engagement
of Catholic Intellectuals with Science and Technology in the Twentieth
Century, Lexington Books, Plymouth, 2009, pp. 122-123.

Conclusioni
1
The continuing crisis, «The Washington Post», 30-10-1962, p. A12
(editoriale non firmato).
2
Fa eccezione, oltre alla già ricordata antologia storiografica I missili di
ottobre…, il memoriale di R. KENNEDY, op. cit., che però offre un resoconto
degli eventi datato (1969), incompleto e ovviamente tutt’altro che
imparziale e disinteressato.
3
Naturalmente una sintesi così telegrafica rischia di banalizzare: la si
presenta solo per fornire delle coordinate orientative, non come un riassunto
esaustivo.
4
Sarebbe difficile infatti comprendere isolatamente, per esempio, la
reazione politica di un dato Paese senza far riferimento allo stato della sua
opinione pubblica, o cogliere appieno le reazioni di determinati ambienti
culturali senza contestualizzarli nella posizione politico-diplomatica assunta
dal Paese in cui quegli intellettuali e organizzazioni vivevano e operavano.
5
J.F. SIRINELLI – G.H. SOUTOU (dir.), op. cit., pp. 7-8 e 301-306.
6
In questa direzione muovono ora anche la summenzionata raccolta di
documenti internazionali (The global Cuban missile crisis at 50, in
«CWIHP Bulletin», Fall 2012) e due antologie di studi multinazionali sulla
CMC, entrambe comprendenti un nostro saggio: An International History of
the Cuban Missile Crisis. A 50-year retrospective (Routledge, 2014) e
Global Nuclear Vulnerability. 1962 as the Inaugural Crisis (a cura di B.
Pelopidas), in preparazione.
7
Dello stesso avviso D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 106.
8
A. DOBRYNIN, op. cit., p. 91 e sua intervista nel documentario CNN
Cold War – Cuba 1959-1962.
9
D. JOHNSON – D. TIERNEY, op. cit., p. 123.
10
R. LEBOW – J. STEIN, op. cit., p. 144.
11
Kennedy, intervista in tv del 17-12-1962. Dello stesso avviso ora
anche D. JOHNSON – D. TIERNEY, Essence of victory, in «Security Studies»,
vol. 13, n. 2, 2003-2004, pp. 375-376: «Nella crisi dei missili di Cuba […]
percezioni e mispercezioni furono l’essenza della vittoria». Esse,
attribuendo la vittoria agli USA, «produssero una sconfitta sovietica molto
reale, chiudendo il gap, a posteriori, tra percezione e realtà».
12
(in modo spesso anche concomitante, cioè senza contraddizioni,
rispetto alla percezione sull’esito politico favorevole agli USA di cui sopra.)
13
N. KRUSCEV, Kruscev ricorda, (edizione del 1970), p. 532.
Analogamente anche D. RUSK, op. cit., p. 235: «Io l’ho sempre vista come
un trionfo per la diplomazia sia americana sia sovietica».
14
Intervista a Sorensen, documentario di History Channel Cuban
Missile Crisis Declassified (part 2).
15
E. MORRIS, The Fog of War, cit., 15’ (cap. «Lesson No. 2: Rationality
will not save us»).
Fonti e bibliografia
Fonti primarie

1. Fonti d’archivio

Italia
Roma
Archivio Storico del Senato della Repubblica Italiana
Diari Amintore Fanfani
Carte personali Amintore Fanfani
Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri
Raccolta Telegrammi Ordinari – 1962
Telegrammi Segreti – 1962
DGAP (Direzione Generale per gli Affari Politici e la sicurezza) –
Ufficio I, Primo Versamento – 1962
Ambasciata Italiana a Washington
Archivio Centrale di Stato
Fondo Presidenza del Consiglio (Segreteria particolare Fanfani)
Ministero degli Interni (Gabinetto: Fascicoli Correnti, 1961-1963;
Fascicoli Permanenti, 1944-1966; Partiti Politici)
Istituto Sturzo
Carte Giulio Andreotti
Fondo DC (Serie: Segreteria Politica; Direzione Nazionale)
Istituto Gramsci
ACP – Archivio Partito Comunista (MF 0320 – X Congresso PCI)
Carte Enrico Berlinguer
Fondo Palmiro Togliatti
Archivio audiovisivo Teche RAI (notiziari dell’epoca, tv e radio)

Firenze
Fondazione La Pira – Carte Giorgio La Pira

Milano
Arcidiocesi di Milano – Archivio Storico Diocesano

Stati Uniti d’America


Boston, MA
John F. Kennedy Presidential Library
Theodore C. Sorensen Papers
Arthur M. Schlesinger Jr. Papers
Robert H. Estabrook Papers
Ralph A. Dungan Papers
Pierre Salinger Papers
Roger Hilsman Papers
JFK Papers
POF (President’s Office Files – #3)
NSF (National Security Files – #4)
WHF (White House Central Files – #6)
CIA – Foreign Broadcast Information Service Daily Reports (RG 263)
USIA (#272)
Oral History Project (Transcripts of interviews: Couve de Murville,
Senghor, Chang Kai Shek, Hurwitch, Campos, Harper, Reischauer,
Mahoney, Clay, Hillenbrand, Reinhardt, D. Wilson, Hilsman, Hare,
M.L. King)

Washington, DC
National Archives (College Park, MD)
RG 59 (DoS Central Files)
CC0069 (Cuba DoS Files – Reel 21-28)
Central Decimal File 611.37 (US-Cuba Relations – Microfilm:
M1855 – Reel 38-42 e 43-46, relativi ai giorni di della CMC)
Central Decimal File 611.65 e 611.65a (Us-Italy Relations, Us-
Vatican Relations – Microfilm: M1855 – Reel 93-95)
RG 84 (Foreign Service Post Files)
RG 273 (National Security Council)
RG 306 (US Information Agency)
CREST (CIA Records Search Tool) database

Library of Congress – Manuscript Division


Hannah Arendt Papers
Reinhold Niebuhr Papers
Robert J. Oppenheimer Papers
Hans J. Morgenthau Papers
Dmitrii Antonovich Volkogonov Collection

National Security Archive (NSA – George Washington University)


‘The Cuban Missile Crisis, 1962’ Collection (DNSA)
‘The Cuban Missile Crisis Revisited’ Collection (DNSA)

Los Angeles, CA
Charles E. Young Research Library, UCLA – Norman Cousins Papers

Cambridge, MA
Andover-Harvard Theological Library – Paul Tillich Papers
Houghton Library, Harvard University – Andrei Sakharov Archives

San Diego, CA
Mandeville Special Collection Department, UCSD – Leo Szilard Papers
Iowa City, IA
University of Iowa, Special Collections – Digital Library – Henry A
Wallace Papers
Corvallis, OR
Oregon State University Libraries – Linus Pauling Papers

Regno Unito
Londra
National Archives (Kew Gardens)
PRO (Public Record Office) Class: FO 371 (Foreign Office)
PRO (Public Record Office) Class: PREM 11 (Prime Minister’s Office:
Correspondence and papers)
PRO (Public Record Office) Class: CAB 128 – 129 (Cabinet Papers)

Canada
Hamilton, ON
Bertrand Russell Papers – Bertrand Russell Research Center, McMaster
University

Francia
Parigi
Bibliothèque Historique de la Ville de Paris (BHVP) – Fond Cocteau

Germania
Berlino
John F. Kennedy Institute, Freie Universitat – Microfilm Collections
Robert F. Williams Papers
Philip A. Randolph Papers
NAACP Papers
Bayard Rustin Papers
Paul Robeson Collection

2. Raccolte edite di documenti d’archivio


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Atti parlamentari – Camera dei deputati – Verbali sedute del 19-12-1957 e
del 15-1, 5-2 e 30-9-1958.
Atti parlamentari – Senato della Repubblica (e sue Commissioni) – Verbali
sedute del 23-1 e 12-3-1958.
Atti parlamentari – Camera dei deputati – Verbali sedute del 23-10-1962 e
gg. seguenti.
Atti parlamentari – Senato della Repubblica – Verbali sedute del 23-10-
1962 e gg. seguenti.

3. Fonti orali e interviste


Colloqui con 1:
Ettore Bernabei (Direttore generale RAI e uomo di fiducia di Fanfani)
Mons. Loris Capovilla (Segretario particolare di Giovanni XXIII)
Card. Achille Silvestrini (Segreteria di Stato Vaticana)
Guido Gusso (cameriere personale di Giovanni XXIII)
Maria Russo (figlia del Sottosegretario italiano agli Esteri inviato all’ONU
durante la CMC)
Mar.llo Antonio Mariani (Specialista del sistema di guida e controllo dei
missili, 36 a
ABIS, Base Jupiter, LP10 Matera)
John Gubbins (cittadino statunitense, residente a Key West, FL nei giorni
della CMC)

Intervista scritta:
Giulio Andreotti (ministro della Difesa italiano)

Fonti a stampa: quotidiani e periodici dell’epoca 2

USA
The New York Times
The International Herald Tribune
Boston Globe
Christian Science Monitor
The Washington Post
Los Angeles Times
The Dallas Morning News
San Francisco Chronicle
The Miami News
New York Amsterdam News
Chicago Defender
The Pittsburgh Courier
Baltimore Afro-American
The Washington Reporter / The Washington Observer
Crimson
Atlantic Monthly
The Nation
Saturday Review
Newsweek
New Republic
Christian Century
The Lutheran
Life
Time
New Leader
The New Yorker
Commentary
The Crisis
Jet
Ebony
The Florida Star
The Washington Afro-American
Negro Digest
I.F. Stone Weekly
Bulletin of the Atomic Scientists
Partisan Review
Foreign Affairs

URSS
Pravda
Current Digest of Soviet Press
(Izvestjia) – estratti
(Red Star) – estratti
Krokodil

Cuba
Revolucion
Hoy
Verde Olivo (25-11-1962, Anno III, n. 47)

Italia
Il Corriere della Sera
Il Corriere d’Informazione
L’Unità
Il Paese
Avanti!
La Nazione
Il Popolo
La Stampa
Il Tempo
Il Messaggero
Il Giorno
Il Secolo d’Italia
La Giustizia
La Gazzetta del Mezzogiorno
Rinascita
Vie Nuove
Il Mondo
La Discussione
La Domenica del Corriere
Il Ponte
Tempo Presente
Il Borghese
Vita e Pensiero
Problemi del socialismo
Nuovi Argomenti
Belfagor
L’Espresso
Panorama
Epoca
Concretezza
Mondo operaio
Storia e Politica
Nuova antologia
Il Contemporaneo
ABC
Questitalia
Il Paradosso
La Consulta italiana per la pace (numero unico; maggio 1962)
Il Mulino
Il Verri

Città del Vaticano


L’Osservatore Romano
La Civiltà Cattolica

UK (Regno Unito)
Daily Mirror
Daily Telegraph (+ Sunday Telegraph)
Daily Worker
Daily Mail
The (Manchester) Guardian
The Times (+ The Sunday Times)
Observer
The Economist
Encounter
New Statesman
New Scientist
Tribune

Francia
L’Aurore
Le Monde
Le Figaro
Le Populaire de Paris
Combat
France Soir
La Croix
Le Parisien libre
L’Humanité
Esprit
Les Temps Modernes
Le Figaro littéraire
L’Express
Paris Match

Germania Ovest
Der Kurier (Berlino Ovest)
Die Welt
Frankfurter Allgemeine
Süddeutsche Zeitung (25-10-1962)

Germania Est
Berliner Zeitung (Berlino Est)
Neue Deutschland

Ghana
Daily Graphic
Ghanian Times

Cile
El Mercurio
El Siglo
Giappone
Japan Times

Altri Paesi del mondo


Renmin Ribao (CHI – si veda la sezione Articoli)
Hongqi (CHI – si veda la sezione Articoli)
La Prensa (ARG)
Ny Dag (SWE)
Canadian Tribune (CAN)
The Globe and Mail (CAN)
Excelsior (MEX)
Egyptian Gazzette (EGY)
Sydney Morning Herald (AUS)
The Fiji Times (FIJ, allora UK)
O Cruzeiro (BRA)

Fonti secondarie

Volumi
Sulla metodologia della ricerca storica

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1983.
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Giulio Andreotti. L’uomo, il cattolico, lo statista, a cura di M. Barone ed E.
Di Nolfo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2010.
I missili a Cuba, a cura di G. Gerosa, Mondadori, Milano, 1974.
John F. Kennedy and Europe, Louisiana University Press, Baton Rouge,
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Kennedy’s quest for victory. American Foreign policy 1961-1963, a cura di
T. Paterson, Oxford University Press, New York, 1989.
L’Europe et la crise de Cuba, dir. da M. Vaisse, Armand Colin, Paris, 1993.
Living through the Cuban missile crisis, a cura di W.S. McConnell,
Greenhaven Press, Farmington Hills, 2005.
Nikita Khrushchev, a cura di W. Taubman, S. Khruschev e A. Gleason, Yale
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Pro e contro Kennedy, a cura di R. Margotta, Mondadori, Milano, 1971.
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settembre 1963), dir. da G. Alberigo, Il Mulino, Bologna, 1996 (cfr. G.
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M.H. WEINER, Picasso and the Cuban Missile Crisis, in «Apollo Magazine»,
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M.J. WHITE, Hamlet in New York: Adlai Stevenson during the first week of
the Cuban Missile Crisis, in «Illinois Historical Journal», vol. 86, n. 2,
Summer 1993.
IDEM, Robert Kennedy and the Cuban Missile Crisis: a Reinterpretation, in
«American Diplomacy», 7-7-2007.

Tesi di dottorato, di laurea e altri lavori inediti consultati

Walter Lippmann, strategic internationalism, the Cold War, and Vietnam,


1943-1967, Matthew Wasniewski (PhD dissertation, University of
Maryland, 2004. Dissertation directed by prof. Shu Guang Zhang).
La pace calda. La nascita del movimento antinucleare negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna, 1957-1963, Dario Fazzi (Tesi di dottorato – Università
di Bologna – XXII ciclo – Relatore: prof. Mario Del Pero).
L’Unione Sovietica e l’Italia del centro-sinistra (1958-1968), Alessandro
Salacone (Tesi di dottorato – Università Roma Tre – XXI ciclo – Tutor:
prof. Adriano Roccucci).
Il giornalismo cubano (1959-1962). Dall’avvento della rivoluzione alla
crisi dei missili, Giovanni Trotto (Tesi di laurea – Università di Padova –
Anno accademico 2002-2003 – Relatore: prof. Carlo Fumian).
La crisi missilistica di Cuba dell’ottobre 1962, Paola Paolocci (Tesi di
laurea – Università La Sapienza, Roma – Anno accademico 1983-1984 –
Relatore: prof. Pietro Pastorelli).
La reazione della stampa italiana alla crisi di Cuba, Livia Purarelli (Tesi di
laurea – Università Roma Tre – Anno accademico 2003-2004 –
Relatore: prof. Leopoldo Nuti).

***

Cuban Missile crisis: A historical perspective – Conference transcript


(JFKPL – Oct. 6, 2002).
On the brink: The Cuban Missile Crisis – Conference transcript (JFKPL –
Oct. 20, 2002).
13 days: an insider’s perspective – Conference transcript (JFKPL – Oct. 1,
2002).
The Cuban missile crisis: 40 years later – Online conversation with
Thomas Blanton (NSA), transcript (Washingtonpost.com – Oct. 16,
2002).
Fonti audiovisive

Cinegiornali

Noticiero ICAIC: Actualidades cubanas e internacionales – Cinegiornale


cubano dell’epoca (autunno 1962).
Cinegiornale della pace, Cesare Zavattini (Italia, 1963), visualizzabile al
sito:
http://aamod.archivioluce.com/archivioluce/jsp/schede/videoPlayer.jsp?
tipologia=qtPlayer&id=&physDoc=1331&db=partnerAAMOD&findIt=
false&low&section=aamod/.
On. Russo affronta i problemi dell’ONU, Cinegiornale ‘Politica –
panoramica’, senza data ma chiaramente del 1972. Bobina a 35 mm,
Archivio famiglia Russo.

Film

Dr. Strangelove – or How I learned to stop worrying and love the Bomb, S.
Kubrick, USA-UK, 1963 (film).
Inside ‘Dr. Strangelove – or How I learned to stop worrying and love the
Bomb’, Naylor, USA, 2000 (documentario sul film).
Fail-Safe, S. Lumet, USA, 1964.
La rabbia, P.P. Pasolini, G. Guareschi, Italia, 1963.
Seven days in May, J. Frankenheimer, USA, 1964.
Soy Cuba, M. Kalatozov, URSS – Cuba, 1964.
Soy Cuba – Il mammut siberiano, V. Ferraz, Brasile, 2004 (documentario
sulla realizzazione del film Soy Cuba).

Documentari

The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara, E.
Morris, USA, 2003.
Vasilij Arkhipov, G. Saponara (RaiEducational – La Storia siamo noi),
Italia, 2005.
The man who saved the world (Secret of the dead – Bedlam Productions),
UK, 2012.
Murge, il fronte della Guerra Fredda, F. Galatea (Italia, 2012),
visualizzabile al sito:
www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a40f6f3b-c8d4-
43e9-a248-e6f6d0c05302.html?refresh_ce
CNN Cold War – Cuba 1959-1962, CNN, 1998.
Cuban Missile Crisis Declassified (1, 2), History Channel, 2005.

Audio

The freewheelin’ Bob Dylan, B. Dylan, Sony – Columbia Records, 1963


All the news that’s fit to sing, Ph. Ochs, Elektra, 1964
That was the year that was, T. Lehrer, Repirse/Warner Bros, 1965

Sitografia essenziale (e database di documenti governativi)

http://millercenter.org/scripps/archive/presidentialrecordings/kennedy/1962/
10_1962 (Miller Center, University of Virginia. Database delle clip
audio delle sessioni quotidiane dell’ExComm e relative trascrizioni tratte
da The Presidential recordings.)
www.cubacrisis.net (sito a cura del Memorial de Caen)
www.italia-
cuba.it/associazione/mostre/crisi%20dei%20missili/nuova_pa.htm
(Mostra dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, esponente
materiale dell’Archivio del Lavoro di Milano)
http://avalon.law.yale.edu/subject_menus/msc_cubamenu.asp (275
documenti sulla CMC – a cura della Yale Law School)
http://dosfan.lib.uic.edu/usia/abtusia/commins.pdf (USIA: A
commemoration)
www.cubanmissilecrisis.org/ (buon sito introduttivo sulla CMC, realizzato
dall’Harvard University’s Belfer Center for Science and International
Affairs in collaborazione con i produttori del film Thirteen Days)
www.cnn.com/SPECIALS/cold.war/episodes/10 (CNN Cold War Series –
materiali interattivi)
www.mtholyoke.edu/acad/intrel/cuba.htm (Mount Hoyloke College –
database di documenti sulla CMC)
www.gwu.edu/~nsarchiv/coldwar/interviews/ (Oral history interviews
realizzate dal NSA per la CNN Cold War Series)
www2.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/docs.htm (documentazione a
cura del NSA)
http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/2317931.stm (Missile crisis: Your
memories)
www.adst.org (trascrizioni complete delle interviste realizzate per la
Foreign Affairs Oral History Collection – Association for Diplomatic
Studies and Training – Lauinger Library, Georgetown University,
Washington, DC – dalla homepage, scegliere Oral History – Frontline
Diplomacy)
www.gwu.edu/~nsarchiv/nsa/cuba_mis_cri/chron.htm (Cronologia
dettagliata della CMC – a cura del NSA)
www.youtube.com/watch?v=phpe0DsisbY&feature=related – Watson
Institute for International Studies – The Choices program
(videointervista a Sergeji Khrushchev)
http://roosevelt.nl/topics/presentatie_on_cuba_final.pdf CUBA: A bottom-
up perspective. Roosevelt Studies Center (documenti sul SANE e la
CMC)
www.vega.org.uk/video/programme/219 (videointerviste a Joseph Rotblat,
2002, 2005)
http://sounds.bl.uk/Oral-history/Science/021M-C0464X0017XX-2800V0
Interviste audio a Joseph Rotblat (British Library- Oral history of British
Science, 2000-2007)
http://cloudsovercuba.com/ Documentario interattivo, USA, 2012
www.wilsoncenter.org/index.cfm?
topic_id=1409&fuseaction=va2.browse&sort=Collection&item=Cuban
%20Missile%20Crisis (documenti sulla CMC – a cura del CWHIP –
Cold War International History Project)
Legenda abbreviazioni

ACS = Archivio Centrale di Stato (Roma)


ASSR = Archivio Storico del Senato della Repubblica Italiana (Roma)
CDF = Central Decimal Files (in: NARA)
CMC = Cuban Missile Crisis
DNSA = Digital National Security Archive
DoD = US Department of Defense
DoS = US Department of State
Emb = Embassy (Ambasciata)
FAOHC = Foreign Affairs Oral History Collection
FO = British Foreign Office
IRBM = Intermediate Range Ballistic Missiles
JCS = Joint Chiefs of Staff (Capi militari riuniti – USA)
JFK = John Fitzgerald Kennedy
JFKPL = John F. Kennedy Presidential Library (Boston, MA)
LoC = Library of Congress (Washington, DC)
MAE = Ministero degli Affari Esteri
MF = Microfilm
MRBM = Medium Range Ballistic Missiles
NAACP = National Association for the Advancement of Colored People
NARA = National Archives and Records Administration (Washington, DC
– College Park, MD)
NSA = National Security Archive
NSF = National Security Files (in: JFKPL)
OHI = Oral History Interviews (trascrizioni di interviste di Storia Orale)
POF = President’s Office Files (in: JFKPL)
R. = Reel (numero di bobina di microfilm)
RFK = Robert Francis Kennedy
RG = Record Group (in: NARA)
SGA = Special Group Augmented (Cuba project)
SoS = US Secretary of State
UCLA = Univeristy of California, Los Angeles
WHF = White House Central Files (in: JFKP)
Note
1
Tra parentesi la posizione ricoperta all’epoca della CMC.
2
Il corsivo indica i periodici, il carattere normale i quotidiani. Il lasso di tempo da me analizzato
per queste testate ha coperto generalmente il periodo tra il settembre 1962 e l’inizio del 1963
(variabilmente, a seconda dei casi, del tipo di periodicità della testata e dei rispettivi contenuti).
N.B.: La maggior parte di queste testate sono state reperite (e riprodotte per il successivo lavoro di
analisi) presso la Newspaper and Current Periodical Reading Room della Library of Congress
(Washington, DC).
English abstract

This work shows the Cuban Missile Crisis from a different perspective. The most dangerous
nuclear crisis has been widely and accurately studied, but its transnational nature, and its socio-
cultural dimension still remain largely unknown. This study aims to provide a contribution in this
direction.
Based on more than 7 years of research conducted in the archives of several countries (US, UK
and more), the book also makes extensive use of the international press of those days, complemented
by selected oral history interviews.
It argues that the public showdown between the US and the USSR constituted a global experience,
as the fear of a nuclear escalation ignited reflections, demonstrations and repercussions all over the
world, with different intensity and color). The global nature of the crisis is highlighted in the Preface
chapter, applying theories by Fernand Braudel and Marshall McLuhan. Part One provides a detailed
account of the crisis’ events. Part Two then turns to their perceptions, both on a political and socio-
cultural level, showing the interconnections between the two spheres. Such approach is applied here
to two national contexts (US, Italy) and three transnational categories of observers (political thinkers,
religious figures, scientists).
Indice dei nomi

N.B.: Non sono inclusi nell’elenco i nomi citati come autori di testi (in bibliografia e nelle note).
Sono invece presenti laddove inseriti nel discorso (es. non: MARTELLINI , Fiori nei cannoni, p. 1; ma
sì: «…come mostra Martellini …»).
N.B.: Non sono inclusi, per l’altissimo numero di occorrenze che avrebbe reso inutile un loro elenco,
John F. Kennedy, Nikita Kruscev e Fidel Castro.

A
Abrams, E., 456 n, 514 n
Acheson, D., 63, 64, 71, 101, 126, 401 n, 403 n, 419 n, 468 n, 506 n,
507 n
Adams, F., 442 n
Adams, K., 209, 445 n, 524 n
Adenauer, K., 74, 112, 287, 292, 293, 383, 405 n, 471 n
Adler, M., 195
Agostino (S.), 342
Aires da Cruz, J., 254
Alarico, 342
Aleksandrov, P. 371
Alekseev, A., 37, 412n
Alessio I, 251, 252, 253, 453 n
Alford, M., 112, 414 n, 415 n
Aliberti, G., 12, 390 n
Alicata, M., 298, 352, 469 n
Allende, S., 383
Allison, G., 10, 389 n
Almeida, J., 84
Almirante, G., 305, 322
Almond, G., 388
Alphand, H., 134
Alsop, J., 150, 151, 197, 424 n, 425 n, 441 n
Alsop, S., 153, 425 n, 426 n, 470 n
Ambrosini, S., 476 n, 491 n
Anderson, J.W. (ammiraglio), 70
Anderson, R.(maggiore), 109
Andreotti, G., 109, 278, 279, 282, 283, 284, 302, 322, 352, 462 n, 463
n, 464 n, 465 n
Andrew, C., 392 n
Antonio, M., 342
Antonioni, M., 334, 337, 480 n
Aragones, E., 50
Arboleya, J., 402 n
Ardizzone, G., 304, 305, 306, 309, 310, 332, 472 n, 473 n
Arendt, H., 246, 247, 248, 452 n
Argan, G.C., 337
Aristarco, G., 337
Arkhipov, V., 113, 114, 126, 234, 414 n, 415 n
Arkhipova, O.G., 414 n
Arnaudi, C., 309
Aron, R., 138, 238, 239, 240, 241, 242, 249, 450 n, 451 n
Aronson, J., 440 n
Augier, A., 472 n

B
Balducci, E., 270, 311
Baldwin, J., 179, 180, 188, 189, 435 n,
Ball, G., 60, 61, 64, 81, 101, 104, 105, 110, 127, 154, 222, 400 n, 405
n, 409 n, 413 n, 430 n, 462 n, 475 n
Barca, L., 298
Barraclough, G., 13
Bartlett, C., 153, 426 n, 470 n
Basso, L., 290, 343, 344
Bates, D., 181, 436 n
Batista, F., 35, 36, 65, 324
Battista, G. 332
Bayo, A., 325
Beethoven, L., 446 n
Ben Bella, A., 313
Bennett, J.C., 456 n, 457 n, 458 n
Bensi C., 291
Berio, L., 334
Berlinguer, E., 298, 334, 351
Berlusconi, S., 484 n
Bernabei, E., 279, 280, 281, 282, 283, 284, 302, 314, 463 n, 464 n, 465
n, 466 n, 474 n
Bernal, J.D., 366, 372, 373, 379, 382, 489 n
Berrigan, D., 459 n
Berrigan, P., 459 n
Beschloss, M., 44, 158, 182, 397 n, 400 n, 403 n, 426 n
Betancourt, R., 120
Bettiol, G., 297
Bianchi, H., 280
Bishop, E., 204
Blanton, T., 114, 419 n
Blight, J., 124, 220, 418 n
Block, H. (Herblock), 386
Bo, C., 305, 337
Bobbio, N., 332
Bohlen, C., 468 n
Bolivar, S., 35
Bolshakov, G., 46, 148, 400 n
Born, M., XIII, 368, 369, 488 n
Boyer, P., 430 n
Branch, T., 427 n
Brandt, W., 44
Braudel, F., XI, 8, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19, 135, 391 n
Brauer, J.C., 457 n
Braun, W.v., 207, 327, 374, 375, 379, 444 n, 490 n
Brenner, Ph., 418 n
Breznev, L., 83
Brosio, M., 451 n, 461 n, 469 n
Brown, E., 106
Brown, H., 359, 367, 485 n,
Brown, J., 217, 446 n
Brunner, E., 262
Bryce, J., 222, 451 n
Brzezinski, Z., 236, 237, 250, 381, 382, 448 n, 450 n
Bundy, M.G., 53, 56, 59, 60, 61, 71, 73, 104, 107, 108, 110, 116, 122,
124, 127, 151, 158, 159, 187, 236, 238, 242, 278, 286, 287, 350,
361, 363, 387 n, 393 n, 398 n, 399 n, 400 n, 404 n, 408 n, 409 n,
410 n, 413 n, 417 n, 426 n, 428 n, 451 n, 461 n, 486 n
Burdick, E., 195, 443 n
Burroughs, W.S., 203
Bush, G.H. (Sr), 258
Bush, G.W. (Jr), 457 n

C
Caen, H., 195
Calamandrei, P., 344
Calvino, I., 334, 448
Cantoni, R., 305
Capehart, H., 150
Capitini, A., 329, 334, 335, 337, 345, 346, 381, 471 n, 479 n, 480 n,
483 n, 484 n
Caradonna, G., 468 n
Cardinale, I., 281
Cardona, M., 120, 416 n
Carocci, A., 337, 345, 480 n, 483 n
Carroll, C.F., 264
Casardi, A., 275
Casey, S., 448 n
Castro, R., 84
Catledge, T., 440 n
Cattani, A., 461 n, 464 n, 469 n
Cesare, G., 342, 453 n
Chamberlain, N., 42, 187, 228, 437 n
Chamberlain, O., 365, 487 n
Chertok, B., 370, 382
Chiaromonte, N., 348, 349, 350, 351, 382, 484 n
Chrystall, A., 392 n
Churchill, W., 25
Cicognani, A. G., 314, 474 n
Clancy, T., 166
Clausewitz, K.v., 232
Clay, L., 44
Clifford, C., 151
Clifton, C., 439 n
Cockroft, J.D., 367
Cocteau, J., 341, 482 n
Colby, K.M., 195
Congar, Y., 265
Coppi, S., 330
Cossutta, A., 298, 473 n
Cousins, N., 14, 122, 126, 249, 256, 463 n
Covelli, A., 468 n
Craxi, B., 285, 290, 291, 467 n
Cronkite, W., 192, 395, 422 n, 438 n
Cushing, R., 264, 431 n

D
Dal Pra, M., 305, 334, 480 n
Danton, G.J., 212
Davis, A., 188, 189, 308, 435 n
Davis, M., 217
De Filippo, E., 337
De Gasperi, A., 335
De Gaulle, C., 44, 74, 112, 136, 287, 292, 293, 383, 405 n, 468 n, 471
De Martino, F., 287, 288, 294, 466 n
De Seta, V., 334
Dell’Acqua, A., 283, 464 n
Della Mea, I., 306
Demichev, P., 418
Dessì, G., 337
Di Nolfo, E., 36, 143, 292, 423 n
Diem, N.D., 425 n
Dillon, D., 109, 149
Dirksen, E., 130, 420 n
Dobbs, M., 48, 139, 152, 220, 393 n, 402 n, 408 n
Dobrynin, A., 24, 83, 89, 110, 115, 124, 148, 192, 193, 206, 278, 284,
385, 410 n, 411 n, 412 n, 413 n, 414 n, 444 n, 462 n
Dossetti, G., 459 n
Drake, F., 86, 407 n
Dryfoos, O., 440 n
Ducci, R., 275, 276
Dun, A., 457 n
Dungan, R., 458 n
Dylan, B., 186, 217, 219, 220, 221, 446 n, 447 n

E
Einstein, A., 260, 360, 366
Eisenhower, D., 13, 37, 38, 41, 48, 53, 56, 61, 62, 73, 74, 97, 121, 205,
233, 258, 268, 277, 286, 347, 365, 366, 395 n, 404 n, 466 n, 491 n
Enriques Agnoletti, E., 344
Evangelista, M., 388
Evtusenko, E., 30, 340, 383

F
Fanfani, A., XII, 94, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284,
286, 288, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 300, 301, 302, 305,
310, 312, 313, 314, 321, 322, 329, 330, 351, 352, 461 n, 462 n, 463
n, 464 n, 465 n, 466 n, 467 n, 468 n, 469 n, 470 n, 471 n, 476 n,
484 n
Fantasia, M., 478 n
Fedorov, E., 367
Feliksov, A. (agente Fomin), 102
Fermi, E., 360, 364, 376
Ferretti, L., 293
Festa Campanile, P., 337
Fiore, T., 329, 479 n, 485 n
Fisher, L., 455 n
Fofi, G., 345, 483 n
Ford, G., 242
Fornari, G., 275, 276
Forrestall, M., 426 n
Fortini, F., 309, 337
Foster, W.C., 378, 491n
Franck, C., 466 n
Franco, F., 287, 307
Frankel, M., 73, 194, 404 n, 419 n
Frankenheimer, J., 206
Franqui, C., 118, 415 n
Freedman, L., 48, 154, 278, 403 n, 412 n
Fromm, E., 332, 445 n
Frost, R., 201, 202, 203, 225, 442 n
Fry, F., 454 n, 455 n
Fulbright, J.W., 43, 74, 397 n
Fursenko, A., 2, 158, 426 n

G
Gaddis, J.L., 1, 3, 33, 124, 209, 387 n
Gagarin, Y., 40
Gandhi, M., 183, 329
Garibaldi, G., 472 n
Genta, O., 278, 462 n
George, A., 154, 170, 174, 182, 194, 393 n, 427 n, 433 n, 437 n
Gerstle, G., 448 n
Gesualdi, M., 483 n
Geymonat, L., 305, 309
Gilpatric, R., 45, 127, 413 n
Ginsberg, A., 203, 220, 350, 442 n
Giovanni XXIII, 93, 145, 253, 255, 256, 266, 270, 273, 280, 282, 283,
311, 312, 313, 314, 331, 361, 453 n, 458 n, 463 n, 464 n, 474 n
Giplin, R., 488 n, 491 n
Giradoux, J., 348
Gitlin, T., 185, 186, 188, 189, 308, 437 n
Glaser, D.A., 487 n
Godunov, B., 83
Goldwater, B., 160
Gonella, G., 297
Gorbacev, M., 31, 374,
Gorky, M., 442 n
Graham, B., 257, 258, 456 n
Graham, P., 73, 404 n
Granger, L., 178
Granzotto, G., 475 n
Graves, R., 400 n
Grechko, S., 413 n
Greenspan, N., 488 n
Grewe, W., 134
Gribkov, A., 53, 118, 139, 405 n, 412 n, 413 n, 422 n
Gromyko, A., 66, 67, 69, 76, 402 n
Guareschi, G., 340
Guerriero, A., 315, 316, 322
Guevara, E., 35, 50, 84, 119, 120, 138, 383, 395 n, 398 n, 416 n, 417 n,
418 n
Guillen, N., 383
Gurion, B., 313
Gutenberg, J., 17
Guttuso, R., 310, 334, 335, 337, 351, 381, 480 n, 482 n

H
Hack, R., 155
Halifax, L., 42
Hall, E., 392 n, 392 n
Halpern, S., 406 n
Hammarskjold, D., 409 n
Hare, R., 104
Harper, J.L., XIII, 387 n, 421 n
Harriman, A., 96, 97
Harrington, D.S., 165, 430 n
Harris, J. B., 433 n
Harris, L., 428 n
Harvey, W.K., 402 n, 410 n
Height, D., 181
Hennagan, T., 179
Henriksen, M., 185
Herblock (Herbert Block), 386
Hero, A.O., 431 n, 456 n
Hikmet, N., 384
Hilsman, R., 107, 412 n
Hines, J., 83, 217, 407 n
Hitler, A., 38, 43, 44, 192, 299, 374, 407 n, 437 n, 458 n
Hobsbawm, E., 12, 390 n, 395 n
Hoenikker, F., 209
Hoffman, A., 189, 438 n
Holifield, C., 171
Hooft, V., 254, 454 n
Hoover, J.E., 121, 154, 155, 427 n
Hoppe, A., 196, 197, 210
Hughes, S., 186, 187, 189, 441 n

I
Ingrao, P., 293, 334
Isaacson, W., 244

J
James, A., 478 n
Jeffers, R., 202
Jemolo, A.C., 334, 346, 347, 484 n
Johnson, D., 123, 143, 389 n, 418 n, 492 n
Johnson, L.B., 43, 74, 110, 121, 151, 210, 237, 413 n, 445 n
Johnson, M.S., 424 n
Judt, T., 6, 413 n

K
Kafka, F., 286
Kahn, H., 205, 207, 231, 232, 233, 234, 235, 332, 444 n, 449 n
Keating, K., 150
Kennan, G., 150, 424 n
Kennedy, J.P. Jr., 37, 98
Kennedy, Jacqueline, 26, 112, 116, 153, 214, 394 n, 415 n, 426 n
Kennedy, R. (RFK), 2, 8, 25, 46, 47, 48, 54, 55, 56, 57, 59, 60, 64, 65,
66, 71, 72, 81, 82, 83, 89, 90, 98, 99, 102, 103, 104, 106, 107, 108,
109, 110, 111, 112, 115, 121, 125, 128, 164, 181, 206, 271, 278,
284, 393 n, 394 n, 399 n, 400 n, 401 n, 406 n, 410 n, 411 n, 412 n,
413 n, 414 n, 417 n, 425 n, 427 n, 430 n, 444 n, 460 n, 462 n, 463 n
King, M.L., 177, 178, 180, 183, 187, 225, 258, 262, 427 n, 434 n, 437
n, 457 n
Kirillov, A.S., 370
Kissinger, H., 207, 238, 242, 243, 244, 250, 278, 281, 382, 440 n, 444
n, 451 n, 452 n, 463 n
Kistiakowski, E., 365, 487 n
Kistiakowski, G., 366
Knox, W.E., 88, 90, 408 n
Kohler, F., 82
Komer, R., 286, 287
Konev, I., 45, 397 n
Kornienko, G., 410 n, 418 n
Kozyrev, S., 280, 294
Kreisky, B., 412 n
Kristol, I., 235, 246, 250
Kubrick, S., 185, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 225, 432 n, 444 n, 445
n, 449
Kuklick, B., 249
Kuznetsov, V., 124, 127, 134

L
La Pira, G., 297, 301, 310, 311, 312, 313, 314, 335, 344, 351, 473 n,
474 n
Labedz, L., 236
Lajolo, D., 472 n, 475 n
Lansing, S., 184
Lapp, R.E., 364, 379, 486 n
Lawler, J.G., 460 n
Lebow, R., 151
Lehrer, T., 221
LeMay, C., 67, 68, 69, 70, 71, 88, 102, 106, 111, 121, 207, 410 n, 414
n, 424 n, 470 n
Lenin, V., 115, 213, 241
LeoGrande, W., 224, 448 n
Leonard, D., 423 n
Leonov, A., 369
Leonov, N., 126
Lercaro, G., 265, 459 n
Levi, C., 333, 334, 335, 337, 346, 351, 480 n, 483 n
Levillain, P., 143
Libertini, L., 290
Lichtenberger, A., 165, 257
Lifton, J., 204, 205, 225, 381, 443 n
Lincoln, A., 121
Lincoln, E., 25
Lippmann, W., XII, 93, 105, 192, 224, 316, 343, 381, 411 n, 412 n,
439 n
Lister, G., 289, 290, 291, 463 n, 467 n
Lizzani, C., 337
Lowell, R., 203, 204, 225, 442 n, 443 n
Lowry, L., 181
Lussu, E., 288, 293, 334, 466 n
Luzzatto, L.M., 290
Lynd, A., 186

M
Mac Intyre, J.F., 431 n
MacArthur, D., 403 n
Maccari, M., 337
Machiavelli, N., 126
Macmillan, H., 42, 79, 91, 92, 93, 98, 112, 120, 156, 253, 292, 301,
367, 369, 421 n, 467 n, 468 n, 470 n, 471 n, 488 n
Mailer, N., 186, 189, 212, 213, 214, 215, 216, 233, 249, 342, 351, 382,
446 n, 490 n
Malagodi, G., 468 n
Malcolm X, 180
Malenkov, G.M., 394 n
Malinovsky, R., 45, 50, 132, 390 n
Manzù, G., 337
Mao (Tze Tung), 119, 238, 460
Marcuse, H., 189
Mariani, A., 462 n, 478 n
Maritain, J., 272, 461 n
Martelli, E., 462 n, 466 n
Marti, J., 35, 472 n
Martin, E., 60
Marx, K., 17
Maslennikov, I., 114
Mattei, E., 304
Matteotti, G., 39
Maultsby, C., 106
May, E., 132, 133, 406 n, 409 n, 465 n
Mays, B., 178
Mazzolari, P., 270
McCone, J., 47, 51, 89, 116, 130, 170, 368, 398 n, 399 n, 423 n
McKinley, W., 395
McLuhan, M., XI, 17, 18, 392 n, 393 n
McNamara, R. (McN), 48, 58, 59, 60, 61, 66, 71, 89, 104, 106, 108,
109, 111, 112, 122, 125, 126, 127, 139, 151, 190, 233, 278, 279,
282, 302, 362, 385, 390 n, 404 n, 405 n, 406 n, 410 n, 412 n, 413 n,
414 n, 419 n, 422 n, 462 n, 463 n, 464 n, 465 n
McWilliams, C., 442 n
Mechini, R., 302, 471 n
Meiklejohn, A., 195
Melman, S., 442 n
Merton, T., 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 379, 382, 459 n,
460 n, 461 n, 491 n
Mikoyan, A., 49, 411 n, 417 n, 418 n
Mikoyan, S., 124, 419 n
Milani, L., 270, 345, 483 n
Miller, S., 457 n
Monnet, J., 383
Montanelli, I., 323, 324, 325, 382
Montesi, W., 335, 481 n
Montini, G.B., 265, 459 n
Moore Jr, B., 187, 188, 350
Moravia, A., 334, 335, 337, 351
Morgan, B., 442 n
Morgan, H., 86, 407 n
Morgenthau, H.J., 244, 245, 246, 248, 250, 447 n, 451 n, 452 n
Morin, E., 16
Moro, A., 294, 297
Moroni, P., 472 n
Morrison, P., 372
Moyers, B., 151
Mozart, W.A., 446 n
Mozgovoi, A., 414 n
Mueller, J., 448 n
Musatti, C., 305
Muste, A.J., 183, 258, 259, 260, 442 n, 457 n

N
Naftali, T., 2, 158, 407 n, 426 n
Napoleone III, 347
Nasser, G.A., 32, 383
Nenni, P., 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 467 n, 476 n, 477 n, 482
n
Neruda, P., 384
Neumann, R., 290
Neustadt, R., 172, 433 n
Newman, J.R., 210, 448 n
Niebuhr, R., 192, 262, 382, 448 n, 458 n
Nikodim, 252, 254, 453 n
Nitze, P., 109, 127
Nixon, R., 26, 36, 37, 150, 179, 196, 242, 258, 406 n, 424 n
Nkrumah, K., 383
Nobel, A., 211
Nono, L., 333, 334, 480 n
Notarangelo, D., 479 n
Novotny, A., 8, 402 n, 411 n, 420 n, 423 n, 424 n
Nuti, L., 3, 284, 286, 292, 387, 485 n

O
O’Donnell, K., 44, 72
Obama, B., 10, 262, 389 n, 391 n
Ochs, P., 217, 219, 446 n
Oppenheimer, R.J., 375, 376, 379
Orlans, H., 363
Orlov, V., 113, 114, 414 n, 415 n
Ormsby-Gore, D., 72, 73, 83, 134, 223, 249, 406 n
Orozco, M., 65
Ortega, D., 400 n

P
Paci, E., 332, 337
Pajetta, G., 334, 480 n
Pappagallo, O., 469 n
Parri, F., 334
Pasolini, P.P., 212, 334, 335, 337, 338, 339, 340, 351, 484 n
Paterson, T., 2
Pauling, L., 376, 377, 378, 379, 382, 448 n, 483 n, 489 n, 491 n
Payne, E.A., 454 n
Pella, G., 297
Pelly, Th., 150
Penkovski, O., 397 n, 399 n
Peròn, J.D., 323
Perrone, N., 304
Perroux, F., 137, 422 n
Pertini, S., 294
Petrara, O., 478 n
Petri, E., 337
Picasso, P., 384
Piccioni, A., 275, 276, 279, 284, 317, 334, 335, 351, 463 n, 464 n, 465
n, 470 n, 480 n, 481 n
Pieraccini, G., 286, 287
Pinault, M., 378
Piovene, G., 333, 334
Pipes, R., 236
Pleshakov, C., 125
Pliyev, I., 109, 413 n
Pollard, W.G., 257
Power, T., 88
Powers, D., 112, 207, 415 n
Preda, G., 480 n, 481 n
Prezzolini, G., 341, 342, 344, 347, 447 n, 482 n
Prokov, J., 410 n
Purcell, E.M., 487 n
Putin, V., 484 n

Q
Quaroni, P., 464 n
Quasimodo, S., 337

R
Rabinowitch, E., 366, 372, 379, 485 n, 488 n
Rachmaninoff, S., 217
Rago, R., 309
Ramsey, M., 256
Randolph, P., 112, 178, 181
Raskin, M., 361
Reed, J., 8
Reeves, R., 387
Reeves, T.C., 387
Reinhardt, F., 275, 287, 292, 461 n, 463 n, 476 n
Remond, R., 251
Reston, J., 73, 192, 404 n
Ricciardetto (vedi Guerriero, A.)
Richter, J.C., 133
Richter, S., 311, 474 n
Roa, R., 416 n
Roberti, G., 294
Roberts, F., 133
Robison, J., 179
Rogers, W., 410 n
Romano, S., 143, 315, 440 n
Romualdi, P., 485 n
Roosevelt, F., 150, 158, 193,
Roosevelt, T., 162, 429 n, 435 n
Rose, K.D., 169
Rosenau, J., 388 n
Rosi, F., 337
Rossanda, R., 306, 308, 389 n, 473 n, 484 n
Rostow, W., 439 n
Rotblat, J., 365, 366, 367, 371, 379, 381, 487 n, 488 n
Rovere, R.H., 154, 193, 400 n, 426 n
Rusk, D., 24, 42, 58, 66, 67, 71, 72, 79, 80, 81, 89, 90, 99, 101, 127,
129, 134, 158, 258, 385, 405 n, 411 n, 413 n, 414 n, 416 n, 420 n
Russell, B., XII, XIII, 90, 91, 96, 130, 145, 155, 183, 255, 311, 316,
332, 337, 366, 367, 368, 369, 371, 381, 382, 427 n, 481 n, 483 n,
487 n, 488 n
Russell, R., 74, 75
Russo, C., 275, 276, 281, 282, 283, 293, 330, 331, 461 n, 463 n, 464 n,
465 n, 469 n, 470 n, 480 n
Russo, M., 330, 480 n
Rustin, B., 179

S
Sakharov. A., 373, 374, 379, 489 n, 490 n
Salacone, A., 302, 469 n, 471 n
Salinger, P., 24, 71, 121, 429 n
Salvatorelli, L., 323, 477 n
San Roman, R., 401 n
Santi, F., 470 n
Sapegno, N., 337
Saponara, G., 414 n, 415 n
Saragat, G., 321, 476 n
Sartre, J.P., 238, 395 n, 481 n
Savitsky, V., 113, 114, 414 n, 415 n
Sayre, F., 260
Scaglia, G.B., 335, 337
Scalfari, E., 305
Scali, J., 102
Scelba M., 297
Schelling, T., 124, 418 n
Scherer, P., 458 n
Schiotz, F., 455 n
Schlesinger Jr, A., 1, 37, 38, 96, 125, 133, 149, 150, 152, 153, 154,
236, 258, 262, 280, 281, 282, 283, 286, 287, 289, 290, 311, 390 n,
394 n, 396 n, 412 n, 419 n, 424 n, 426 n, 463 n, 464 n, 465 n, 466
n, 487 n
Schuyler, G., 180
Schwartz, R., 220
Schweitzer, A., 384
Scott, L., 5, 388 n
Scott, M., 183
Seaborg, G.T., 378, 491n
Seborga, G., 333, 480 n
Segni, A., 277, 278, 281, 287, 295, 296, 297, 310, 352, 461 n, 463 n,
465 n, 469 n, 471 n
Segre, B., 334
Segrè, E., 364, 365
Sennett, R., 247
Shatrov, M., 30
Silone, I., 348
Sinatra, F., 23
Sirinelli, J.F., 4
Smith, D.M., 315
Smith, E.T., 395 n
Smith, H.K., 174
Smith, W., 137
Snodgrass, W.D., 202
Soffici, A., 482 n
Soldati, M., 337
Soper, D., 255, 273, 455 n
Sorensen, T., 1, 2, 25, 56, 63, 67, 72, 102, 108, 110, 115, 116, 125,
183, 217, 385, 398 n, 399 n, 401 n, 402 n, 404 n, 412 n, 413 n, 415
n, 426 n
Soutou, G.H., 4, 242, 382, 452 n
Spaak, P.H., 383
Spadolini, G., 347, 484 n
Spellman, F., 431 n
Spinella, M., 309
Spinelli, A., 343
Spock, B., 173, 433 n, 458 n
Stalin, J., 29, 30, 31, 33, 38, 41, 251, 299
Steinbeck, J., 210, 211, 225, 445 n, 448 n,
Stern, I., 216, 446 n
Stern, S., 394 n, 403 n, 407 n, 413 n, 417 n, 419 n, 465 n
Stevenson, A., 56, 63, 72, 78, 95, 96, 145, 152, 153, 154, 182, 189,
191, 207, 277, 281, 282, 283, 311, 313, 314, 403 n, 409 n, 426 n,
445 n, 464 n, 465 n, 469 n, 470 n, 474 n, 476 n
Stone, I.F., 438 n, 442 n
Sweeney, W., 403 n
Sylvester, A., 193, 194, 439 n
Symington, J., 430 n
Szilard, L., XIII, 360, 361, 362, 363, 364, 379, 419 n, 486 n, 491 n

T
Tambroni, F., 477 n
Taubman, W., 133, 411 n
Taviani, P.E., 305
Taylor, M., 69, 71, 102, 109, 140, 378
Tchaikovsky, P.I., 446 n
Teller, E., 207, 375, 379, 444 n, 490 n
Terkel, S., 447 n
Terracini, U., 293
Thant, U, 94, 105, 117, 166, 182, 183, 189, 223, 251, 283, 311, 312,
313, 314, 368, 369, 370, 377, 390 n, 409 n, 411 n, 436 n, 464 n,
465 n, 469 n, 474 n, 488 n
Thomas, N., 442 n, 456 n
Thompson, L., 101, 108, 131, 412 n, 413 n, 421 n
Thompson, R., 416 n
Thoreson, J., 455 n
Tierney, D., 123, 143, 389 n, 492 n
Tillich, P., 261, 381, 448 n, 456 n, 457 n, 458 n
Tito, J., 383
Tocqueville, A., 244
Togliatti, P., XIII, 290, 298, 299, 306, 308, 310, 318, 320, 351, 469 n,
470 n, 479 n, 480 n
Tojo, H., 56, 399 n
Tollefson, T., 150
Tolstoj, L., 442 n
Topchiev, A., 367, 370, 371, 379, 488 n, 489 n
Treccani, E., 309
Trohan, W., 150, 424 n
Trollope, A., 412 n
Troyanovsky, O., 51, 115, 411 n
Truman, H., 63, 64, 121, 150, 193, 258, 315, 360, 403 n, 424 n
Tubby, R., 254, 454 n
Tuchman, B., 408 n
Tyler, W., 287

U
Udall, S., 201, 202, 203
Ulam, A., 237, 238, 450 n
Ulbricht, W., 42, 43
Ungaretti, G., 337
Urey, H.C., 487 n

V
Vagenin, V., 414 n
Vaisse, M., 5, 388 n
Van Ronk, D., 220
Vecchietti, T., 476 n
Vedova, E., 333, 480 n
Vera, P., 65, 402 n
Vidakovic, B., 416 n, 417 n
Vigorelli, G., 481 n
Visconti, L., 333
Vittorini, E., 309, 333, 334
Volontè, G.M., 334
Vonnegut, K., 209, 210, 225, 445 n

W
Wadsworth, J., 365
Walker, A., 208
Wallace, H. A., 150, 424 n
Ward, J., 301, 325, 468 n, 469 n
Weart, S., 171
White, M., 154, 426 n
Wiesner, J., 367, 378, 491n
Wilkins, R., 180
Williams, R.F., 176, 434 n
Williamson, F., 282,
Wilson, B., 196
Wilson, D., 116, 415 n
Wilson, H., 427 n
Wilson, W., 161, 193, 404 n
Wisskopf, V., 362
Wyszynski, S., 265

Z
Zampa, L., 337
Zavattini, C., 328, 332, 333
Zelikow, Ph., 132, 133, 406 n, 409 n, 465 n
Zinn, H., 204
Zorin, V., 95, 96, 311, 312, 313
Zorzoli, G.B., 332, 333
Zubok, V., 125
Quaderni di storia
serie diretta da Fulvio Cammarano

Olindo De Napoli, La prova della razza. Cultura giuridica e razzismo in


Italia negli anni Trenta.
Marco Rovinello, Cittadini senza Nazione. Migranti francesi a Napoli
(1793-1860).
Giuliano Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro
Nord-Sud.
Gianluca Fiocco, Da Hiroshima all’11 settembre. Breve storia delle guerre
contemporanee.
Paolo Borruso, Il PCI e l’Africa indipendente. Apogeo e crisi di un’utopia
socialista (1956-1989).
Valentine Lomellini, L’appuntamento mancato. La sinistra italiana e il
Dissenso nei regimi comunisti (1968-1989).
Carlotta Latini, Cittadini e nemici. Giustizia militare e giustizia penale in
Italia tra Otto e Novecento.
Arrigo Pallotti, Mario Zamponi, L’Africa Sub-sahariana nella politica
inter-nazionale.
Silvio Labbate, Il governo dell’energia. L’Italia dal petrolio al nucleare
(1945-1975).
Mario Del Pero, Víctor Gavín, Fernando Guirao, Antonio Varsori,
Democrazie. L’Europa meridionale e la fine delle dittature.
Carlo Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca. La guerra fredda rivisitata.
Laura Schettini, Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra Otto e
Novecento.
Riccardo Brizzi, Michele Marchi, Storia politica della Francia
repubblicana (1871-2011).
Giulia Guazzaloca, Una e divisibile. La RAI e i partiti negli anni del mono-
polio pubblico (1954-1975).
Fernando Tavares Pimenta, Storia politica del Portogallo contemporaneo
(1800-2000).
Fulvio Cammarano, Michele Marchi, L’unificazione italiana nella stampa e
nell’opinione pubblica internazionali (1859-1861).
Silvia Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della controcultura
(1965-1969).
Barbara Spadaro, Una colonia italiana. Incontri, memorie e
rappresentazioni tra Italia e Libia.
Federico Mazzei, De Gasperi e lo «Stato forte». Legislazione antitotalitaria
e difesa della democrazia negli anni del centrismo (1950-1952).
Gaia Giuliani, Cristina Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità
razziale degli italiani.
Carlo M. Fiorentino, Angelo Sommaruga (1857-1941). Un editore milanese
tra modernità e scandali.
Lucrezia Cominelli, L’Italia sotto tutela. Stati Uniti, Europa e crisi italiana
degli anni Settanta.
Alessandro Cattunar, Il confine delle memorie. Storie di vita e narrazioni
pubbliche tra Italia e Jugoslavia (1922-1955).
Romano Pietrosanti, Imre Nagy, un ungherese comunista. Vita e martirio di
un leader dell’ottobre 1956.
Leonardo Campus, I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei
missili di Cuba e le sue percezioni internazionali.

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