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Il pozzo e l’ago
Intorno al mestiere di scrivere
Premessa
La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di
Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando «Al lupo, al lupo»: è nata il
giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò «Al lupo, al lupo» senza avere nessun lupo
alle calcagna. È del tutto incidentale che il poverino, per aver mentito troppo spesso, alla
fine sia stato divorato da un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo
della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante:
quell’intermediario, quel prima, è l’arte letteraria 6.
Tutti sono alle prese con compiti ardui. Tutti i mestieri sono ardui. Si dà il caso che il
mio fosse anche un compito impossibile, o almeno cosí lo percepivo io. Mattina dopo
mattina, per cinquant’anni, mi sono trovato davanti alla pagina successiva indifeso e
impreparato. Scrivere per me è stata una lotta per la sopravvivenza. A salvarmi la vita è
stata l’ostinazione, non il talento. Ho avuto la fortuna di non essere interessato alla
felicità e di non provare alcuna compassione per me stesso. Tuttavia, perché mi sia
dovuto imbarcare in una tale impresa non so proprio dirlo 22.
Ma ben altri sono, ancora, i motivi per cui si scrive: uno importante
riguarda il desiderio di vivere una vita “allontanante”, di lasciarsi alle spalle
un mondo tetro, ed evadere in un mondo o piú vasto, piú vario e piú ricco o
piú intimo. L’“allontanamento” può salvare dal sentirsi schiacciati dal
presente e dalle incombenze uggiose del vivere. Lo scrittore è attratto dallo
“spazio” a disposizione, dalla pagina non solo perché può depositarvi i
castelli della propria fantasia e delle proprie invenzioni, ma soprattutto le
proprie inquietudini, deporvi confessioni che a voce non saprebbe
formulare compiutamente. Uno dei piú grandi nostri poeti del Novecento,
Vittorio Sereni, testimonia come lo scrivere non ebbe per lui altro
significato se non rispondere a un «bisogno vitale» (per «fare i conti in
questo modo con alcuni oggetti e figure in cui ci imbattiamo, in alcune
vicende che attraversiamo o che ci attraversano» 33. E ciò sin dagli anni
giovanili: «Non sentivamo su di noi nessuna cupola metafisica, nessun
cielo, nessun assoluto, non sentivamo la letteratura come un valore, in altri
termini; la sentivamo piuttosto come una energia o una tensione, in un
rapporto particolare con la nostra esistenza» 34. E in una lettera del ’61:
«Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia “verità” da trasmettere.
Ho dei conti da saldare con l’esperienza») 35; rispondere, dicevo, a un
bisogno psicologico («ci sono determinati fatti, magari non tanti, che non
danno quiete finché non trovano […] la loro sistemazione») 36.
La sfida per arrivare a esprimere (in parte) ciò che si vorrebbe dire, deve
come sempre fare i conti con la lingua. Il che per l’autentico scrittore in
definitiva risulta un esercizio di libertà dalle forme consunte. Egli ha a
disposizione le parole che sono state tanto adoperate. Ad esse deve
restituire la loro energia. Scritte e ripetute nel tempo, hanno «contratto tanti
matrimoni famosi» 37, perciò risulta difficile usarle senza che s’intrufoli
questo o quell’aggettivo, sostantivo, avverbio indesiderato. Le parole hanno
contratto talmente tante abitudini nelle bocche e nelle pagine degli uomini,
al punto che ci vuole un deciso coraggio, un ardire (come lo chiamava
Leopardi) che aiuti a scansare il prevedibile. Occorre ad ogni istante il
coraggio e la prontezza di raschiare la muffa di dosso alle parole per evitare
il grigiore, la sciatta routine, l’appiattimento, la banalità e la neutralità
espressiva. Le parole sono un mezzo completamente in mano allo scrittore:
parole vecchie da reinventare, parole nuove da forgiare, incastri e
congiunzioni di segmenti narrativi o ritmici, montaggi e sequenze inattese.
Sembrerebbe il miglior mestiere del mondo («lo scrittore sente
profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa
capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di
vivere») 38. Invece è conflitto, tormento, continua incertezza,
insoddisfazione. Allo scrittore suona spesso fastidioso e intollerabile lo stile
«approssimato, casuale, sbadato» di certi passaggi suoi: di qui un dedicare
penosamente ore e giornate a correggere ogni frase tante volte quanto è
necessario per arrivare a «eliminare le ragioni d’insoddisfazione» 39.
Ma alla maggior parte degli scrittori credo importi soprattutto parlare per
sé. Ciò è stato avversato da chi pensava che l’arte doveva soltanto vivere
per e attraverso gli altri, essere un atto di comunicazione e non un esame di
coscienza, non una sorta di occupazione metafisica e ispirazione, come se
fosse una preghiera, un’invocazione soggettiva e solitaria… 43. Ci voleva un
“impegno” sul reale, si doveva agire su di esso. In verità una larga parte
degli scrittori ha ed ha avuto un atteggiamento opposto. Ha cercato
quell’allontanamento “salvifico”, cui prima accennavo, un riparo dalla vita,
una difesa, la creazione di una propria zona d’ombra (o di luce) personale.
Ci si “allontana” andando là dove altri non ci sono, in un territorio tutto
proprio, lungo una “via del rifugio”, che del resto vale anche per il lettore,
la cui esperienza egli sente limitata alla propria esistenza di uomo sulla terra
e quindi ama da essa evadere. Nella vita, notava Tabucchi, «si può avere un
grande amore, è già una fortuna, due grandi amori è un privilegio che tocca
a pochi, ma l’esperienza umana è estremamente limitata»; tramite la
letteratura invece, fonte di conoscenza, «tu entri, attraverso varie porte, in
questo sentimento complesso che non potresti mai esperire in forma diretta,
perché è chiaro che non possiamo essere simultaneamente, nella nostra
breve vita, Anna Karenina e, poniamo, Tristano e Isotta o Emma Bovary o
Giulietta e Romeo» 44. Proust diceva anche che «ogni lettore, quando legge,
è lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo
scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il
libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte
del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità» 45.
Allontanamento vs. impegno, come ho appena osservato: antico
dilemma. Ci sono scrittori in cui la spinta piú forte «è quella di esprimere
inattualità e lontananza» 46, per un senso di sfiducia, di inutilità
dell’impegno. Quando si prova disgusto, rabbia, impotenza di fronte a una
situazione, allora ci si perde d’animo e si finisce per dedicarsi alla
costruzione di mondi immaginari. Lo scrittore è spinto a scrivere dal
dissidio con la vita reale, con il mondo quale esso è 47. Al contrario, ci sono
scrittori o momenti della loro vita in cui prevale l’intenzione di agire sulla
realtà, in cui prevale la centralità del “collettivo” rispetto al “personale”.
Non sembra loro sufficiente scrivere soltanto per il piacere, il gusto, la
passione di esprimersi. Si scrive invece per cambiare il mondo 48. E
sull’immergersi nel corso della Storia, sulla funzione sociale dello scrittore
ecc., sono stati versati fiumi di inchiostro. La critica marxista teorizzò
largamente la necessità di tale impegno. Secondo questa prospettiva, in una
collettività che si criticava e giudicava incessantemente ma per trasformarsi
e progredire, la letteratura doveva diventare una condizione e un aspetto
decisivo per la riflessione e l’azione. «Lo scrittore “impegnato” sa che la
parola è azione: sa che svelare è cambiare»; pur preservando la sua libertà,
deve avere «una determinata funzione sociale»; «se mi si offre questo
mondo con le sue ingiustizie, non è perché io le contempli con freddezza,
ma perché le animi della mia indignazione» 49. Furono gli anni Cinquanta
del secolo scorso a segnare l’epoca dell’intenso dibattito sulla letteratura
intesa come azione politica per cambiare la società di un Occidente
dominato da un liberalismo che pareva «spontaneità informe, vitalità
amorale, egoismo casual, mero processo di bisogni che prescinde da ogni
criterio etico» 50, mentre a contare davvero dovevano essere i processi
generali del mondo e della società, non già il personale e soggettivo. Gli
stessi personaggi di un romanzo dovevano rappresentare un impegno
sociale, la loro azione suggerire un messaggio politico e sociologico.
Sennonché, pur tra molti conflitti, incertezze e crisi, lo scrittore autentico ne
sofferse. La sua libertà non poteva che giostrare fra la semplice
testimonianza o l’acuto distacco. Natalia Ginzburg, in una conversazione a
piú voci sul romanzo, finí col sostenere che il «disimpegno […] era
assolutamente necessario, indispensabile per un romanziere», perché egli
«non doveva porsi il dovere di cercare di portare dei miglioramenti alla
società, ma invece semplicemente scrivere meglio possibile i suoi romanzi
[…] Io penso che i romanzieri raccontano la società, la vita come è, e la
amano come è« 51. L’”impegno” a tutti i costi non è il compito precipuo, il
cammino obbligato dello scrittore, della scrittura e della letteratura. La
letteratura è qualcosa di diverso. Nulla osta che l’attività dello scrivere
conduca al distacco piú che alla cooperazione con il presente. La letteratura
difatti ha a piú riprese rappresentato un atto di ostilità nei confronti della
Storia: o meglio, un tentativo di evasione dalla condizione storica, quando
ha per esempio raffigurato un mondo utopico, alternativo, un mondo alla
rovescia, una liberazione dal malessere della società e della civiltà. Ha
finito spesso con lo sfociare nello scontro con i potenti e la società coeva.
Del resto, quando mai la vita dei pensatori e scrittori è stata priva di
pericoli? 52. Socrate dovette bere la cicuta, Protagora vide i suoi libri
bruciare ad Atene, Democrito, secondo la leggenda, si cavò gli occhi come
Edipo per poter pensare, Platone rischiò di essere assassinato, Aristotele si
rifugiò nella Calcide accusato di empietà, Pietro Abelardo patí la
castrazione per le sue lettere d’amore a Eloisa (ancora nel 1930 un tribunale
degli Stati Uniti vietò la circolazione di quelle lettere), Giordano Bruno fu
arso vivo per la libertà del suo pensiero filosofico-religioso, Galileo
processato e condannato dal Sant’Uffizio per le sue concezioni
astronomiche. Secoli prima la condanna aveva raggiunto Cecco d’Ascoli,
tutte le copie che si riuscirono a scovare dell’Acerba furono bruciate e
l’autore nel settembre del 1327 arso vivo a Firenze, tra Porta a Pinti e Porta
alla Croce. Pregiudizi e repressioni censorie hanno in Italia segnato l’età
controriformistica: addirittura alcune scuole di grammatica furono
considerate scuole di eresia, tant’è vero che i libri di Erasmo, l’autore degli
Adagia e dei Colloquia, sono bruciati a Milano insieme a quelli di Lutero,
nel gennaio 1543 53.
Lo scrivere, come anche il leggere, è stato insidia per i potenti, in quanto
affermazione di libertà di pensiero. I proprietari di schiavi temevano che i
neri scoprissero, nei libri, idee rivoluzionarie che avrebbero minacciato il
loro potere, i proprietari di piantagioni impiccavano gli schiavi colpevoli di
aver tentato di insegnare agli altri a leggere, i proprietari delle haciendas
messicane accoglievano i primi maestri a coltellate, rispedendoli nella
capitale dopo averli sfregiati in viso 54, nel 1981 in Cile venne proibito il
Don Chisciotte perché conteneva un’apologia della libertà individuale e un
attacco contro il potere costituito (nelle colonie d’America l’Inquisizione
spagnola ha sempre diffidato delle opere di finzione, proibendole per secoli
perché potevano tradursi in atteggiamenti di ribellione nei confronti delle
istituzioni e delle consuetudini) 55, in Afganistan il mullah Omar, capo
dell’Emirato afgano dal 1996 al 2001, ha ordinato il rogo per i
cinquantamila libri della biblioteca del centro culturale Hakim-Nasser-
Khosrow di Pol-i Khomri. Come una grande metafora del pericolo insito
nella letteratura, nel Libro nero di Orhan Pamuk si racconta di un principe
che, dopo aver trascorso anni e anni a leggere, viene a un certo punto colto
dal terrore di non essere piú padrone di se stesso («un sovrano, che
determina il corso di milioni di vite, ha il diritto di lasciar vagare nella
propria mente frasi altrui?»), e allora passa anni a bruciare tutti i libri che ha
amato e che lo hanno influenzato, quasi gli impedissero di essere se stesso.
Tutte le dittature – fascismo comunismo nazismo integralismi islamici,
dispotismi latinoamericani – hanno odiato la letteratura, e l’hanno
controllata perlomeno con la censura. Tornando a rovinosi accadimenti
recenti, ricordiamo il bombardamento (1993) dei serbi bosniaci della
biblioteca di Sarajevo. O il saccheggio del 13 aprile 2003 della biblioteca di
Bagdad, i roghi che distruggono i libri e l’Archivio nazionale dell’Iraq:
vanno perduti dieci milioni di documenti storici ottomani, gli interi archivi
reali. L’identità culturale dell’Iraq è cancellata. Ci ricorda Fernando Bàez
che non si aveva memoria di un simile saccheggio dai tempi dei mongoli,
da quando nel 1258 i cavalieri di un discendente di Gengis Khan erano
entrati a Bagdad e avevano gettato i libri nel Tigri, al punto che il fiume
diventò nero per l’inchiostro che si andava sciogliendo nell’acqua. Tragiche
erano state le perdite dei libri in conseguenza della caduta di Costantinopoli
del 1453 per mano dei turchi, innumerevoli manoscritti andarono distrutti.
Nel secolo successivo, nelle Americhe, il primo vescovo di Città del
Messico, Juan de Zumárraga, nominato dalla regina Isabella «protettore
degli indios», nel 1527 fa bruciare migliaia di manoscritti indigeni perché
contrari alla nuova fede 56. Cinque secoli dopo, la storia («magistra | di
niente») si ripete: in Iraq, a Mosul, quando nel giugno del 2015 l’Isis
conquista la città, migliaia di volumi di biblioteche pubbliche e private sono
bruciati perché «incitano all’infedeltà e invocano la disobbedienza a Dio»,
il proprietario della piú antica libreria della città è arrestato perché
«vendeva libri cristiani», gli jihadisti saccheggiano la biblioteca
universitaria e danno fuoco ai libri, nella piazza del campus, di fronte agli
studenti. E chi ha avuto la ventura di vedere prima della polverizzazione
d’ogni cosa quel che era la Siria, Aleppo, o Damasco («goccia di miele che
sembra scorrere nella vallata, capitale di uno splendore naturale
incomparabile, veramente regina di un mondo che poco ha perduto
dell’antica maestà del tempo dei grandi califfi») 57, è invaso da una rabbia
infinita per la brutalità insensata dell’uomo distruttore, è colto dalla
«tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute»,
come scrive Primo Levi in Lilít. Ma la storia è sempre cresciuta su
carneficine, morti, roghi e rovine. Nulla di nuovo sotto il sole: «Shih Huang
Ti, l’imperatore cinese incerto se distruggere o costruire, si divise
equamente fra le due contrastanti passioni edificando la grande muraglia e
bruciando tutti i libri» 58. Borges diceva che il vero mestiere dei monarchi è
stato costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. Per ordine del califfo
Omar gli arabi nel 642 distruggono col fuoco la grande biblioteca di
Alessandria, che si dice possedesse mezzo milione di rotoli (Manguel ci
ricorda il suo professore di latino che soleva dire: «Dobbiamo rallegrarci di
non sapere che cosa fossero i grandi libri che andarono distrutti ad
Alessandria, perché se lo sapessimo, non ci sarebbe consolazione
possibile») 59. Anche sulle nostre piazze sono avvenuti roghi di libri:
manoscritti del Decameron bruciati dai savonaroliani, l’Hermaphroditus del
Panormita nel 1431 bruciato a Bologna, Ferrara e Milano, e per conflitti tra
Siena e Firenze il Vocabolario cateriniano del Gigli mandato al rogo. Ma
bruciare libri è eterno veleno. In anni non lontani, durante il nazismo,
furono dati alle fiamme i libri ritenuti immorali o «non germanici»:
tragicamente celebri i Bücherverbrennungen del 1933. Nel 1914 i tedeschi
avevano già bruciato la biblioteca di Lovanio. «Chi uccide un uomo uccide
una creatura ragionevole, chi distrugge un buon libro uccide la ragione
stessa», annotava il narratore britannico James Hilton.
Sulla follia distruttiva però la volontà di preservare, di amare
strenuamente la parola, ha nel corso dei tempi sempre vinto. L’amore per i
testi piú venerati, per libri e manoscritti, ha costituito il fondamento della
grandezza della cultura dell’Occidente. Penso a Boccaccio che ricopia
almeno quattro volte la Vita nuova e tre volte il venerato testo della
Commedia. Penso alla grande amicizia tra Boccaccio e Petrarca,
testimoniata, anzi impressa nei manoscritti: ne è rimasta traccia visibile su
alcuni codici, compresa un’Odissea in greco con traduzione interlineare
latina, «in cui si trovano tracce di lettura sia dell’uno sia dell’altro», e penso
agli eleganti disegni di Boccaccio tracciati nei manoscritti appartenuti a
Petrarca ed eseguiti da Boccaccio nei periodi in cui era ospite dell’amico 60:
tracce perenni di amicizia, fede comune nelle lettere affidata a testi venerati.
Petrarca scriveva a Giovanni Anchiseo (Familiari III 18) della sua
insaziabile brama di libri:
Biblioteche, luoghi del silenzio, dello studio, che conservano tutto quello
che l’uomo ha pensato ed elaborato nei secoli. Nelle biblioteche vagano le
ombre del passato, come quelle mirabilmente descritte da Maria Corti in
Ombre dal fondo, il Fondo Manoscritti di Pavia che nella descrizione di
Maria cessa di essere archivio, deposito di oggetti morti, ma è un vivo
universo in miniatura, il mondo delle varianti e del desiderio, uno «specchio
del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a
compimento», cimitero delle cose scartate, perdute, cancellate,
irrecuperabili, embrioni, possibilità, creature abortite, abbandonate ai
margini del niente, fluttuanti tra il possibile e l’improbabile, testi pervasi da
una sottesa, struggente malinconia per ciò che sarebbe potuto essere e non è
stato, vitalità dei desideri e dei pentimenti, grovigli dell’incompiuto.
Manoscritti di prove e di varianti che posano silenziosi accanto ai libri nella
loro versione definitiva.
La biblioteca come il luogo del silenzio. La parola di un manoscritto, di
un libro a stampa, è silenziosa. Ma rovescia le montagne con la sua potenza.
Il libro non fa spettacolo, non fa rumore, stabilisce un rapporto singolare
con il lettore, un tipo di colloquio sommesso che non ha analogie con
nessun altro. Una sorta di complicità. Con il libro il lettore ha un colloquio
riservato. Eppure i libri hanno prepotentemente rotto la crosta del rapporto
personale e si sono riversati sul mondo. Molti hanno rovesciato ogni punto
di vista precedente, cambiato il futuro: la Bibbia, il Corano, i Vangeli, il
Principe di Machiavelli, il Sidereus nuncius di Galileo, i Principia
mathematica di Newton, l’Origine della specie di Darwin, le pagine sulla
teoria della relatività di Einstein o sui buchi neri di Hawking. Saggi, prose o
poesie, hanno attraversato i tempi e ogni ostacolo. La letteratura piú
osteggiata, e tante pagine di filosofi e di scienziati, hanno finito col vincere,
sempre. Galileo e l’evidenza dell’esperimento hanno vinto. Campanella e la
forza dello scrivere pure: c’è un episodio della sua vita raccontato da
Francesco Giancotti, curatore delle poesie di Campanella 62, che mi ha
sempre colpito: l’odissea di un pacchetto di scritti che viaggiano nella notte
seguendo i contorni del torrione del Castellano, del Castel Nuovo di Napoli,
per raggiungere la mano che si protende fuori dall’apertura che dà aria a
una cella: contenevano soltanto parole, poesie di uno sfortunato prigioniero,
Campanella, che porgeva versi ai compagni «calandoli con uno filacciolo
dalla finestra del torrione». Erano soltanto parole composte «contro il
bestial sonno» dei tempi, scritte dal recluso durante i trent’anni di carcere
scontati fingendosi pazzo per sfuggire alla pena capitale. Succede che nel
1613 una scelta di quelle poesie è consegnata a un visitatore, il letterato
tedesco Tobia Adami. Grazie a quell’incontro una parte del canzoniere sarà
salvo, uscirà in Germania una Scelta d’alcune poesie filosofiche, 1622, sotto
il nome di Settimontano Squilla. Una copia non rilegata rientra poi nel
carcere da cui era fuggita. Campanella la piega in quattro per meglio
nasconderla e corregge di sua mano gli errori di stampa (quest’esemplare è
conservato nella biblioteca napoletana dei Padri Girolamini) 63.
Enorme è la forza dei libri. Soprattutto quando hanno rappresentato un
atto di ostilità nei confronti del potere, o della Storia, del mondo cosí
com’è. Anche i piú raffinati stilisti si sono profondamente impegnati, aperti
ai problemi della società. Penso a Gadda, che non è affatto l’edonista
compiaciuto e decorativo, ironico e risentito, ma colui che con Eros e
Priapo per esempio fa coincidere la scrittura caotica con l’esecrazione del
fascismo e della grottesca figura di Mussolini, scrittore che capta con la sua
prosa «la complessità sociologica del reale, dalla borghesia milanese
dell’Adalgisa al sottoproletariato romano del Pasticciaccio» 64,
assecondando l’«irosa indagine degli aspetti abnormi, assurdi, crudeli» 65
della società che lo circonda, l’orrore del mondo. Anche la poesia ha saputo
a tratti diventare comportamento, forma di resistenza, coscienza etica in un
determinato momento storico. Tra i poeti del Novecento, pensiamo
all’impegno e alla testimonianza di Pablo Neruda, o di Blas de Otero (una
delle voci rilevanti della poesia spagnola degli anni Cinquanta, esule a
Parigi durante il franchismo: si leggano almeno Pido la paz y la palabra,
1955, En castellano, 1959, Que trata de España, 1964), per i quali il testo
letterario diventa, in forma di canto, impegno morale, opposizione ai tiranni
e alla barbarie. Siamo in anni di speranze nel futuro, quando lo scrittore
componeva addolorato, indignato ma fiducioso, i propri versi con in mente i
presupposti culturali e morali per la costruzione di una nuova società. Tra
gli italiani, penso al desiderio (inappagato) di una dimensione etica della
propria poesia in Giovanni Giudici, al desiderio di raggiungere una «grazia
di sillabe» capace di comunicare a una collettività («Ma perché non una
grazia di sillabe | inseguire che voli sulle labbra di tutti | rida ai cuori col
canto li innamori») che è insieme un’aspirazione al “grande stile” e al
sublime («da sempre amato») che lo distanzi dalla sua «lingua triste» 66. Ma
penso in particolare a Franco Fortini e al suo furore etico-politico, a quel
suo voler lanciare ponti tra le forze sociali e le forze poetiche 67. Penso a
Elio Vittorini e alla sua militanza politica totalmente coinvolta
nell’elaborazione della propria scrittura letteraria. Anche Pavese (tra i meno
“impegnati”) in un noto articolo del 1945 apparso su «l’Unità» 68 sente a un
certo punto che il suo mestiere non può appartarsi ma deve assumersi una
responsabilità artistica e insieme politica:
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere […] Le parole sono tenere cose, intrattabili
e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo
in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava
per servirsene. […] Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia senso
e speranza.
I doppioni li voglio tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio
anche i triploni, e i quadruploni […] Non esistono il troppo né il vano, per una lingua.
Può darsi che mania dell’ordine astringa taluni a potare la pianta di tutte le rame
capricciose della liberalità e del lusso. Dichiaro, per altro, di non appartenere ad alcuna
confraternita potativa. La mia penna è al servizio della mia anima, e non è fante o
domestica alla signora Cesira e al signor Zebedia, che vogliono suggerire dal loro
breviario «la lingua dell’uso», del loro uso di pittaunghie o di fabbricanti di bretelle. Le
genti le dimandano, con ogni ragione delle buone e intelligibili scritture: legittima cosa,
che il fratello attenda dal fratello una parola fraterna. Ma questa prepotenza del voler
canonizzare l’uso-Cesira scopre di troppo il desiderio, e quasi l’intento, della Cesira
medesima: il desiderio d’aver tutti inginocchiati al livello della sua zucca 3.
Dopo la maturazione […] viene l’ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge
che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso: o almeno,
ripeto, cosí capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un
lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo
scritto è piú agile: si avvicina a quello che, piú o meno consapevolmente, è il mio
traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro 9.
uno scrittore non toscano che, essendosi messo a comporre un lavoro mezzo storico e
mezzo fantastico, e col fermo proposito di comporlo, se gli riuscisse, in una lingua viva
e vera, gli s’affacciavano alla mente, senza cercarle, espressioni proprie, calzanti, fatte
apposta per i suoi concetti, ma erano del suo vernacolo, o d’una lingua straniera 19.
tra le locuzioni che mi venivano suggerite, mi toccavano il core […] quelle che si
trovavano conformi alle milanesi, credute generalmente e anche da me, per poca
cognizione dell’Uso fiorentino, pretti nostri idiotismi. Già nella prima composizione
avevo messe a profitto tutte quelle che conoscevo e che mi venivano in taglio; e, mentre
alle vernacole, o credute tali anche da me, dicevo: addietro; a quell’altre avevo fatta una
lietissima accoglienza, e servendomi d’una di esse, cioè, e milanese e fiorentina e,
credo, napoletana, e forse d’altri idiomi d’Italia, avevo detto: Viva la vostra faccia! E
ciò, non solo per un mio piccolo e privato motivo, che era quello di rendere un po’ piú
simile al vero il linguaggio de’ personaggi della cantafavola, ma anche, e molto piú,
perché tali maniere di dire erano manifestazioni di quella, tanto poco osservata, e tanto
preziosa parte d’unità di linguaggio, che già possediamo 25.
Quando l’uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il
dialetto di cui egli s’è servito nelle occasioni piú attive della vita, per l’espressione piú
immediata e spontanea dei suoi sentimenti, gli si affaccia da tutte le parti,
s’impadronisce delle sue idee, gli cola dalla penna e se egli non ha fatto uno studio
particolare della lingua, farà il fondo del suo scritto.
Difatti, lavorando sugli Sposi promessi, aveva cominciato a eliminare dal
testo i residui lombardismi privi di certificazione toscana, e li mantiene
quando ne conosce l’equivalente toscano.
E qui le ragioni linguistiche e le ragioni prettamente letterarie, stilistiche
si fondono. Non valgono da sole le ragioni stilistiche. Già diceva Contini
che non possiamo sostenere che il Fermo e Lucia sia un semplice cartone
del testo finale, che sul piano del valore e della resa espressiva, sia inferiore
ai Promessi sposi. Si tratta, soltanto, di due opere diverse. Manzoni insegue
nelle correzioni non “il meglio” del suo stile, ma una soluzione linguistica
“soddisfacente”, nel senso che gli pare rispondente a un nuovo punto di
vista. Lascia un “suo” stile per raggiungerne un altro. Ora gli interessa
l’italiano generale. I passaggi, le varianti del testo, non perseguono un
“valore” superiore al primo. Fermo e Lucia ha una sua specificità e una sua
ragion d’essere, non è un «precedente imperfetto» dei Promessi sposi 34. Se
Manzoni nel corso dell’elaborazione abbassa il tono e lo generalizza, lo fa
perché sta passando da sistema a sistema, non da uno peggiore a un altro
migliore. Abbiamo a fronte due strutture stilistiche diverse, dove assistiamo
a un passaggio da una forma piú letteraria, piú solenne, o piú espressiva a
una piú neutra, media. È l’opzione che permette a Manzoni di andare verso
un’«umiliazione» (l’espressione è ancora di Contini), verso una inedita
popolarità. Celebre il caso di lui soggetto nei Promessi sposi che corregge
un precedente egli; pensiamo alla ricerca dell’anacoluto, del tipo «Non
sapete che i soldati è il loro mestiere…» cap. XXIX , «un religioso che, senza
farvi torto, val piú un pelo della sua barba che tutta la vostra» cap. XVII ;
oppure ai pleonasmi messi in bocca a personaggi del popolo, o a Renzo, o a
don Abbondio, «è a me che mi fanno trottare» cap. XXIII , «volete rovinarvi
voi e rovinarmi me» cap. XXXIII . Opta per il colloquiale, per il registro
medio. Corregge un alza uno strido della Ventisettana con caccia un urlo
della Quarantana 35, allogarsi [nel suo angolo] > rimettersi [nel suo
cantuccio], lucignolo > stoppino, entrambe > tutte e due, d’ambo le parti >
di tutte e due le parti ecc. Lascia cadere gli elementi piú astratti, quelli che
indicano piuttosto una «pura nozione» (Contini) che un atto: tacere > star
zitto, ridersi > impiparsi; opta per ciò che ha un di piú di colore: con un
accento di rancore compresso > con una voce suo malgrado stizzosa.
Correggerà còltrice (che era del suo lessico poetico: «Sulla deserta còltrice |
accanto a lui posò») in materassa (ma in poesia quell’Iddio che atterra e
suscita, non poteva «posarsi su una materassa!», commentava Contini).
Eliminerà parallelamente il colorito regionale, i lombardismi: da baciocco o
martorello passa a sempliciotto, da brache a calzoni, da brancare ad
acchiappare, da capponaia a stia, da inzigare ad aizzare, da ferraio a
fabbro. Quando Renzo si precipita da don Abbondio dapprima lo fa «con la
lieta pressa di un uomo di vent’anni che debbe…»: poi l’autore corregge in
«con una lieta furia». Non si tratta insomma di un acquisto di toscanismo.
A Manzoni interessa di meno investire «toscanamente» il suo discorso; lo
investe piuttosto con «uno spostamento di tono» 36, per arrivare a un
linguaggio meno colorito, piú neutro, probabile. Si passa da un sistema ad
un altro sistema. La scoperta del fiorentinismo non è, in fondo, la mera
ricerca di una lingua “viva”. A Manzoni interessa indicare soluzioni piú
generali, «fuori dello stile individuale».
Non è sufficiente, né corretto dunque esaminare le sue varianti solo in
vista di una valore stilistico. Vanno collocate nella prospettiva di una storia
linguistica, nella prospettiva cioè di un’istituzione/soluzione
sociolinguistica. Difatti, della correzione dei Promessi sposi ad alcuni
studiosi è interessato di piú ciò che l’autore ha operato nell’uso e per l’uso
linguistico dei contemporanei e dei posteri. Penso ai lavori di Sabatini o di
Serianni, alle loro osservazioni sulle scelte del Manzoni non come
ornamento ma come strumento. Le novità manzoniane sono state messe in
rilievo dai due studiosi soprattutto se accettate dalla lingua media. È
importante difatti che Manzoni già avesse mutato la -a dell’imperfetto delle
prime edizioni dei Promessi sposi (1825, 1827) in -o (1840) 37, contribuendo
grandemente alla diffusione dell’imperfetto in -o. Sono tipi di ricerche
queste che hanno considerato le varianti come tensione tra individuale e
collettivo, e pronunciato di conseguenza giudizi non critici o di valore ma di
socialità. Sabatini, dicevo, e Serianni, hanno di Manzoni prosatore toccato
questioni di lingua piú che di stile. Hanno cioè visto le scelte manzoniane
come centro propulsore della dinamica linguistica, nel senso di un
precorrimento della norma, secondo una impostazione storico-linguistica
che privilegia la continuità e le istituzioni della lingua 38. In questa
prospettiva si collocano le scelte linguistiche nella rielaborazione delle
Osservazioni sulla morale cattolica, 1819. Manzoni inizia la revisione nel
‘50 e dopo lunghe interruzioni la conduce a termine nel ’55. Muta grafia,
punteggiatura, fonetica, morfosintassi e lessico: introduce in modo
massiccio l’elisione (una idea > un’idea ecc.), elimina la d eufonica di ad,
ed, elimina la i protestica, corregge, salvo qualche recupero, forme letterarie
o arcaiche (quistione > questione, nimico > nemico, arme > armi, plauso >
applauso, adunque > dunque, servigio > servizio, cangiare > cambiare,
sieno > siano, veggia > veda, non v’è > non c’è, vi ha > c’è). Si comporta
come s’era comportato correggendo i Promessi sposi: vedi come nella
Quarantana pigliare sia mantenuto una ventina di volte, ma sostituito in piú
di sessanta casi con prendere. Preferenze di questo tipo sono accentuate
nelle correzioni della Morale, dove a giungere si preferisce arrivare, dove
udire compare una sola volta, e domina sempre sentire. Insomma, si
scelgono le voci piú comuni a scapito delle forme piú culte (novella >
notizia, brama > desiderio, reggimento > governo, vestigi > tracce,
estimare > misurare, fallaci > false, entrambi > tutti e due, tosto > subito).
Da un «È indispensabile che i ministri siano provveduti di sussistenze» si
passa a «È necessario che i ministri abbiano di che vivere». L’intento è
quello di introdurre forme piú colloquiali (spazio > posto, sussistono > ci
possono essere, percosso > battuto, converta > cambi, termini > finisca,
lagnarsi > lamentarsi; e egli > lui, ella > essa, essi > loro ecc.) 39.
Un lascito linguistico imponente, quello di Manzoni sull’italiano a
venire. Un’impronta, su cui bisognerebbe ancora lavorare, che va oltre la
lingua, se ci si ferma sul lascito di immagini. A me viene in mente, tra gli
echi manzoniani evidenti, un attacco della Luna e i falò di Pavese come «La
collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un
pendío cosí insensibile che…» (cap. I della Luna che rimanda al I dei
Promessi sposi), ma anche quella correzione di Pavese nel manoscritto
«Sull’uscio era comparsa una donna…» (cap. V , c. 8) che corregge «era
comparsa una vecchia», perché qui incombe la figura della Cecilia
manzoniana con la bimba morta in braccio, quando compare sull’uscio.
[…]
fra gIneprI e mIrtIllI all’ombra
d’alberI carI e ghIandaIe, astorI e compagnI
InquIetIssimI. […]
(A Giovanna (che aspetta). Di nuovo sulle capre).
I poeti amano la propria poesia cosí come gli scultori amano la materia,
il marmo, le proprietà fisiche della pietra e la sua grana; cosí come i pittori
sono affascinati dal colore, dall’aspetto cromatico delle tempere. Anche il
poeta considera le parole come cose. Non c’è dubbio alcuno che le
preferenze di chi legge poesia vanno ai versi che ci comunicano immagini e
concetti potenti; o comunque ci interessano di uno scrittore i nuovi modi di
interpretare il mondo, le nuove prospettive, ma da secoli siamo ad un tempo
irretiti dai modi con cui una cosa viene detta. Amiamo non solo quello che
la poesia dice, ma come riesce a dirlo, quel modo con cui il poeta sceglie e
dispone le parole secondo un ritmo e le distribuisce secondo degli accenti,
le risillaba e dunque le reinventa, presentandocele irriconoscibili: anche le
piú semplici, come se fossero nuove. Ciò ha quasi sempre costituito, da
Petrarca in poi (per restare nell’ambito delle patrie lettere), l’incanto della
forma poetica. L’apice l’aveva raggiunto il sommo dei lirici, Leopardi, coi
suoi versi leggeri come soffi sonori («ViENE il vENTo rEcANDo il suON
dEll’OrA…»), le sue vocali “tenute” («ViEnE il vEntO rEcAndO il suOn
dEll’OrA | dAllA tOrrE dEl bOrgO»), con le magie ritmico-timbriche del
suo dolce legato di liquide e vocali protratte in larga modulazione
(«mirANDO il ciELO, ed AscOLTANDO il CANTO | dELLA RANA
RimotA ALLA CAMpAgnA») 4, con un alternato “rapporto” tra vocali
chiare e oscure, distribuite in figure molto controllate (la «costruzione
chiastica» ad esempio: «rArA trAlUce la nottUrnA lAmpA») 5. Contini
osservava come nell’Infinito leopardiano «il trionfo di à campeggia» 6, e
Orelli citava l’«ingorgo di /o/» 7 ai vv. 8-9 «E come il venTO | ODO
sTOrmir», distribuito tra quell’urto di t-d-t, e anche ai vv. 10-11 «a questa
VOce | VO cOmparandO: e mi sOVVien l’eternO». Ancora Orelli rievoca
l’esecuzione a Bellinzona dell’Infinito da parte di Ungaretti e l’applicazione
vocale con la quale il poeta pronunciava spazi, silenzi, silenzio 8. Ungaretti:
altro potente convocatore nel verso della matericità dei suoni (cito
rapidamente, per l’incidenza della sibilante /s/, trascinata su un fondo tenuto
di /a/, i vv. 5-10 di Pellegrinaggio, in Allegria: «ho StrASCicAto | lA miA
cArcASSA | uSAtA dAl fAngo | come unA SuolA | o come un Seme | di
SpinAlbA»). Sul suo testo si può esemplificare largamente, secondo due
direzioni, compresenti: la sensibilità materica, ponderale del suono e
insieme la palese ripresa del filo nobile della classicità e della sua
continuità. Penso ai ritornanti bilanciamenti del tipo dOve nOn muOve
fOglia piÚ la lUce, raggiunti dopo prove e prove (vedi le attente
bipartizioni, le O da un lato e le U dall’altro, cosí come in d’ItAcA vArco le
fUggenti mUra la distribuzione di A opposta ad U). Un «bilanciamento fra
gli estremi» che è di tradizione, da Petrarca a Leopardi («QuAntA piAgA
m’apristi in mEzzO al pEttO») 9.
Ma non si finirebbe di esemplificare e di distinguere. Torniamo a
L’infinito. Si veda come sull’onda del vento il sibilo di s invada l’intera
testura, dove spiccano le parole fornite di s iniziale: sempre, siepe, sedendo,
spazi, sovrumani | silenzi, si spaura, stormir, silenzio, sovvien, stagioni,
suon s’annega. Leopardi è immerso nel pieno della tradizione poetica
italiana, cui Petrarca aveva insegnato a costruire selve di versi intorno a
ritornanti «cespi fonosemantici» (Orelli). Ancora Orelli citava come
esempio la prima ottava del Furioso, tramata su arme, amori, Mori, mare,
morte, romano (e vedi XVII 58 mar, orma, torma, amor, morte) 10. Ariosto
era immerso in questi flussi di tradizione-modello, attentissimo alla
liquidità della testura (tralascio le numerosissime esemplificazioni). Ha
lavorato molto a rivedere in questo senso il suo poema, per piú di quattro
anni continuando a limarlo anche nelle fonie.
Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata,
possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo
della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima.
Dopo la fortuna degli “sciolti”, la rima, con Saba, e con gli “ermetici”, o
con Caproni, dopo che i “crepuscolari” ne avevano gravato l’abbondanza di
messaggi metaletterari, è riportata alla sua funzione originaria di
«chiarificazione» e «sostegno», grazie anche al suo recupero come
elemento di tradizione e di consuetudine 14. Caproni vedeva la rima come
elemento “portante”. «Con la critica, – me lo scriveva ribadendo un suo
principio ritornante in una lettera da Roma del 22 luglio 1985, – davvero
non posso dire d’essere stato molto fortunato». Le monografie a lui
dedicate, – egli lamentava, – erano «quasi tutte battenti i soliti consunti
tasti: “la canzonetta” (nessuno però ha pensato ai poeti delle origini, piú che
al Cavalcanti del Seme del piangere); la “musicalità” (assimilandomi in
questo a Saba), e non la “musica” (le mie rime portanti, sull’esempio
dantesco: vita (via) smarrita; selva (paura) dura oscura; nessuno si è
accorto, mentre tutti si son precipitati a sottolineare le “rime facili”
(cuore:amore) relative soltanto al Seme, da me considerato un intermezzo».
Anche nel Seme del piangere non ha mai delegato alla rima una funzione
esornativa, «per carezzare l’orecchio, ma una funzione portante», come in
architettura 15 «quella delle colonne che reggono l’arco». In molte occasioni
la rima lo aiutava a reinventare il significato, e a spiazzarlo, a far
«consonare e dissonare insieme due idee poetiche» 16. La potenza della rima
è del resto sempre stata evidenziata dai poeti grandi. In Montale, e già in
Rebora (per via dantesca), diventa un mezzo «per incontri imprevisti»,
s’inscrive nell’insieme di un linguaggio «dissonante, “petroso”, dal forte
impegno argomentativo» 17. In altri altrettanto grandi poeti la rima già era
diventata strumento di omogeneizzazione e di accordi del messaggio fonico
e semantico. Le lasse per esempio del Canto notturno di Leopardi
procedono univoche perché legate alla rima finale, che accomuna lo
svolgimento del tema del componimento: mortale-immortale-natale-frale-
male. Idem l’orientamento su vocale “cupa” in un capolavoro di Pascoli,
L’assiuolo.
La funzione della rima è variabilissima. Consuona o distacca, appiana o
evidenzia. Nel Dante della Commedia la rima si stagliava nella sua
individualità di rima difficile e inattesa. Al contrario di Petrarca. Nella
Commedia si assiste a una concentrazione semantica e alla “sorpresa” delle
parole rimate che esorbita dal codice comunicativo piú vulgato nella lirica
del Due e Trecento 18. Sono frequenti parole in rima di tipo basso e triviale,
o all’opposto parole dotte, latinismi. Petrarca invece, perseguendo una
sistematica attenuazione del rilievo della parola in rima rispetto alle altre,
escludeva dalla rima termini linguisticamente caratterizzati o
sentimentalmente intensi 19. L’evidenza della rima era tra l’altro
neutralizzata, sminuita regolarmente dall’assonanza che trama all’interno
l’endecasillabo 20. Il suono della rima è preparato, atteso, fagocitato dalla
materia fonica che la precede. Salvo qualche caso d’eccezione 21, non ci
sono in Petrarca parole-rima rare, inconsuete. Pochi anche gli esempi di
rima equivoca. Di solito Petrarca ama la rima che non richiami troppo su di
sé l’attenzione, che crei dunque squilibrio, contravvenendo al criterio
dell’aequitas. Non usa rime «aspre» (secondo definizione dantesca), cosí
come ha mostrato un «costante rifiuto di forme troppo tipicamente
connotate» 22; non c’è nessuna rima in cui il gruppo -zz- sia preceduto da
vocale diversa da e (in Dante invece ecco Pazzi:cagnazzi:guazzi,
Pazzo:guazzo, Cagnazzo:Draghignazzo:pazzo, sprazzo:spazzo:sollazzo,
guizzo:drizzo:adizzo, stizzo:guizzo:vizzo, strozza:pozza:ingozza,
strozza:mozza:sozza, mozze:sozze:bozze, sozzi:cozzi:mozzi,
mozzo:cozzo:gozzo, Tagliacozzo:mozzo:sozzo, cozzo:sozzo:mozzo,
aguzza:appuzza, aguzzo:Galluzzo:puzzo, rime tutte dell’Inferno, salvo tre
del Purgatorio e due del Paradiso). In Petrarca la parola in rima non ha
peso maggiore di altre, appunto per l’equilibrio della sua poesia e la
limitatezza del suo lessico. Le parole inusitate (neologismi, latinismi), di
marcatura semantica particolare, non sono esposte nella sede ritmica
privilegiata della rima. Risulta dal codice degli abbozzi l’eliminazione in
rima di parole sentite come troppo realistiche. Il levigato caratteristico
nasce anche dalle vocali «tenute» sia nel corso orizzontale del verso, sia
verticalmente nel senso della rima, con attenzione anche alle consonanti 23.
Notevole elemento di riduzione fonica è la monoassonanza in cesura che fa
quasi da controrima, da controcanto interno (come in VII 1-3 «La gola e ‘l
sOmnO # et l’otïose piume | ànno del mOndO # ogni vertú sbandita, | ond’è
dal cOrsO # suo quasi smarrita»). Gli esempi sono innumerevoli, e del resto
noti.
Come scriveva Montale 24 «la poesia differisce dalla prosa perché essa
non rimanda ad altro che a sé medesima: non può essere spiegata che nel
proprio ambito». Rimanda alla sua “finzione”: un aspetto (che poi la
modernità ha esaltato) è costituito appunto dal suo statuto vocale e
musicale. Uno degli alleati principali della poesia è sempre stata la voce,
col suo colore e il suo peso, la sua concretezza, secondo il principio di
corporeità e di sensorialità che invero ha percorso tutte le arti. In tempi
moderni, specie lungo i percorsi della “poesia pura”, da Mallarmé a Valery,
il colore e il ritmo dell’esecuzione hanno rappresentato la parte piú
insondabile dello scrittore, la cadenza ha assunto su di sé «una magica
virtú», «un potere di seduzione», «una facoltà d’ipnosi», «un fluido»
operante anche al di fuori del senso che le parole possiedono 25.
Ciò varrebbe in fondo per ogni idioma parlato nella sua naturalezza,
quando le corde vocali si distendono in una catena intonata: per esempio il
“salmodiare” arabo (quella «costanza monotona» in cui s’insedia «il valore
d’Essenza», quel «vociare piano che torna, e torna a tornare», annotava
Ungaretti) 26, il recitare che attrae anche quando non si capiscono le parole.
La voce è, piú del corpo, «voler dire e volontà di esistere», scriveva Paul
Zumthor nel suo gran libro La presenza della voce. «Ma se tu prendi la mia
voce, – disse la piccola sirena, – che cosa mi rimane?» appuntava Andersen
nel racconto La sirenetta. La voce è l’«anima», aveva già scritto secoli
prima Aristotele nel De anima (II 8), là dove dice che la voce in senso
proprio (phoné), distinta dal piú generico suono, «è l’urto dell’aria inspirata
contro la cosiddetta trachea-arteria, prodotta dall’anima che vivifica queste
parti del corpo». La poesia non ha fatto che selezionare, esaltare e
concentrare la naturalità del parlato intonato. La voce ritmata nel verso è un
tentativo di trasformare il linguaggio naturale in una nuova entità, che tende
a ciò che non si può definire, che non si può conoscere pienamente, cioè
alla musica, all’indeterminatezza e insieme corposità dei suoi contenuti. Ma
nello stesso tempo la poesia condivide le parole con quelle che ciascuno di
noi già usa o comunque appartengono al suo linguaggio naturale, perché
sono per molta parte le parole della vita di ogni giorno (anche se non è «il
linguaggio che impieghiamo per compilare la lista per la lavanderia o per
parlare con qualcuno in metropolitana»). A differenza della musica, o della
pittura, lo scrittore non usa uno strumento separato dalla vita. Le parole non
sono un mezzo artificiale come la pasta colorata del pittore o le note
musicali. Lo scrittore usa le parole della sua lingua madre, impiega un
mezzo che quotidianamente pratica, la lingua. La letteratura «impiega
un’unità linguistica di scambio che ha in comune con la lingua quotidiana»:
Le mie parole
sono profonde
come le radici
terrene,
altre serene
come i firmamenti,
fervide come le vene
degli adolescenti,
ispide come i dumi,
confuse come i fumi
confusi,
nette come i cristalli
del monte,
tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come le narici
dei cavalli
a galoppo,
labili come i profumi
diffusi,
vergini come i calici
appena schiusi,
notturne come le rugiade
dei cieli,
funebri come gli asfodeli
dell’Ade,
pieghevoli come i salci
dello stagno,
tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno
[…],
o in Novilunio 100 sgg.:
Novilunio di settembre,
dolce come il viso
della creatura
terrestre che ha nome
Ermione, tiepido come
le sue chiome,
umido come il sorriso
della sua bocca
umida ancòra
della prima uva matura,
breve come la sua cintura
nel cielo verde
come la sua veste! 31.
Passò un minuto. E poi un altro. E la luna pareva guardare anche lei. Nel silenzio si
sentiva il rumore dell’acqua e una foglia morta cadere qua e là, e tutti quegli infiniti
rumori e che nessuno sa mai cosa siano e che sembrano venir su a poco a poco dal cuore
stesso della notte e dei monti 51.
e la “regressiva”
Una sera d’inverno del 1937 in una città italiana fredda e poco illuminata con molti
portici e chiese sbarrate un uomo alto con un cappotto lungo e un cappello peloso dalle
ali larghe che davano un che di sghimbescio alla sua ombra salí le scale di una casa
umida, si avvicinò al buio a una porta e suonò un campanello dal trillo incerto,
sottoponeva tutte le sue frasi alla prova della «gueulade» (lo schiamazzo o vocío). Se
ne andava a leggere ad alta voce quello che aveva scritto, in un viale alberato di tigli che
esiste ancora vicino alla sua casa di Croisset: la allée des gueulades. Lí leggeva a
perdifiato quel che aveva scritto e l’orecchio gli diceva se aveva colto nel segno o se
doveva continuare a cercare vocaboli e frasi fino a raggiungere la perfezione artistica 58.
Poi ricomparve il sole, le galline cantarono, i passeri sbatterono le ali nei cespugli
infradiciati; e rivoli d’acqua piovana scorrevano sulla sabbia trascinando i petali rosa
di un’acacia 59.
Quanto alla mia autobiografia, non puoi neanche immaginare quanto sarebbe noiosa.
La mia autobiografia consisterebbe quasi esclusivamente di capitoli in cui me ne sto
seduto da solo in una stanza a guardare la macchina per scrivere. La mia vita è cosí
priva di eventi che, in confronto, L’innominabile di Beckett sembrerebbe Dickens.
Il che non significa che non abbia attinto alle mie esperienze per nutrire la mia
immaginazione. Questo però non per rivelare me stesso, esibire me stesso o anche solo
esprimere me stesso, ma per inventare me stesso. I miei diversi me stesso. I miei mondi.
Applicare a libri come i miei l’etichetta di “autobiografici” o “confessionali” significa
non solo negare la loro natura congetturale ma anche, se cosí posso dire, sminuire la
perizia con cui sono riuscito a far credere ad alcuni lettori che siano autobiografici 37.
Non si scrive quel che si sa già, che si è già vissuto. Meglio il romanzo
che insegna al suo autore ciò che egli non conosce, e che in corso d’opera lo
aiuta a capire piú a fondo ciò che accade nella realtà. Tabucchi e Pessoa
consigliavano «di non far entrare la nostra vita nella nostra scrittura o,
perlomeno, di metterla o immetterla in modo tale che essa non possa
immediatamente essere decifrata» 38. Difatti non si creda allo scrittore
(«ogni volta che un lettore vuole conoscere l’autore d’un libro che gli è
piaciuto», finisce col provare «sempre una delusione. Perché l’autore non
esiste: cioè esiste solo nelle sue opere») 39; «un libro è il prodotto di un io
diverso da quello che manifestiamo nella nostre abitudini, in società, nei
nostri vizi» scriveva Proust in Contro Sainte-Beuve che pensava che per
capire uno scrittore fosse necessario conoscere da un punto di vista esteriore
l’uomo, i particolari della sua vita. Non si creda dunque all’autore: «quando
parla di sé mente sempre» 40. I ricordi sono ogni volta per me (diceva ancora
Calvino) «un puro materiale da costruzione, che uso arbitrariamente,
deformandoli secondo le esigenze, e succede che di un personaggio utilizzi
solo qualche caratteristica, o che una persona che magari mi è simpatica la
faccia diventare antipatica perché in quel punto ho bisogno di un antipatico
ecc.» 41. Nessuno scrittore pensa che occorra convincere il lettore che i
personaggi di cui parla sono realmente esistiti. Un narratore prende una
persona che magari ha conosciuto, che ha avuto una esistenza reale, e la
trasforma in personaggio d’invenzione. La discussione sul vero e sul non
vero, ripete Calvino, è del tutto oziosa. In una lettera del ’62 ad Arpino 42, a
proposito di Una nuvola d’ira, quando si viene a parlare dei personaggi,
dice: «non è il caso di discutere se sono veri o non veri; le ragioni che avevi
di farli cosí sono vere […] ma vediamo se funzionano per fare un racconto
convincente». Ciò vale anche per un narratore come Primo Levi, il cui
intento principale è proprio il raccontare eventi accaduti. Che l’invenzione
letteraria abbia il sopravvento sull’autobiografia lo prova per esempio il
racconto Vanadio del Sistema periodico. Basti il confronto tra il carteggio
Levi e Ferdinand Meyer (che in Vanadio ha un nome d’invenzione, Lothar
Müller) 43. Anche per Levi, uno è il piano dell’esperienza, un altro quello
della trasfigurazione dell’esperienza in racconto. La ricostruzione della
storia di Sandro Delmastro (in Ferro, Sistema periodico), l’amico fraterno
alpinista e partigiano, aveva sollevato le proteste della famiglia perché la
rappresentazione non sembrava veritiera. Ciononostante Levi non cambiò
una parola del testo. A volte, scrive Levi, i personaggi si rivoltano contro
l’autore stesso, prendono la mano allo scrittore, rivendicano il diritto di
scegliere 44. Lo scrittore sembra godere di una libertà sconfinata, sceglie
l’argomento, ambienta la storia dove gli pare, eppure sui personaggi non ha
tutto il potere: nascono dal nulla, da un foglio bianco, eppure possono
ribellarsi, acquistare una loro autonomia 45. L’autore non può sempre
decidere prima di iniziare come sarà un suo personaggio. L’accaduto, la
memoria di esso, anche il ricordo di una persona appare alla distanza
sempre un qualcosa di “informe”, in attesa di ricomposizione. Pensando
ancora a Levi, vediamo che il processo di costruzione di senso muove in lui,
nella maggior parte dei casi, dal proprio vissuto 46, ma l’autore in qualche
modo lo vuole abbellire, arrotondare (nella Chiave a stella Levi parla della
«tentazione professionale dell’inventare, dell’abbellire e dell’arrotondare»;
e altrove confessa 47: «È possibile che la distanza nel tempo abbia
accentuato la tendenza ad arrotondare i fatti, a caricare i colori»).
Lo sappiamo da tempo: il criterio di veridicità in letteratura ha una
dimensione tutta sua. Il senso ultimo di un racconto «non è tanto la vita
raccontata quanto la parola che la racconta» 48.
Capitolo sesto
Sulle spalle degli antecessori
Piú che soppesare la presenza del vero e del non vero in ciò che un
autore racconta, è molto piú importante aprire gli scaffali della sua libreria e
ricostruire i libri del suo possesso mentale. Lettura e interpretazione di un
testo si dovrebbero sempre compiutamente compiere non solo sulla base
degli scatti immaginativi dell’autore, ma con quelli di altri, coevi o lontani,
le loro metafore, i luoghi attinti da altri libri. Sono questi filamenti
“intertestuali” che fanno risuonare piú a fondo, in una continuità
significativa, le pagine letterarie. E tale procedere sulle spalle di antecessori
è ciò che ha per secoli e secoli costituito in letteratura l’essenza della
capacità stessa di comunicare intensamente. Soprattutto la poesia italiana,
«si può dire che essa guarda sempre indietro – almeno fino a Pascoli» 1.
Ecco un rapido, ma significativo, esempio: in A Silvia 21-22, «ed a la man
veloce | che percorrea la faticosa tela», Leopardi vuole che si riconosca
Eneide VII 14, dove si parla dei luoghi in cui Circe continua a tessere la tela
sottile, «arguto tenuis percurrens pectine telas» (e in Georgiche I 294
«arguto coniunx percurrit pectine telas»), con sullo sfondo Iliade I 31.
Aveva scelto in un primo tempo (vedi l’autografo) percoteva, che è un
verbo tecnico della tessitura col significato di ‘ordire’ (già latino: lo usa per
esempio Giovenale quando descrive il lavoro di tessitura dei Galli). Poi
corregge in percorrea che, pur semanticamente lontano, conserva di
percoteva la vicinanza fonica, e insieme mantiene il ricordo dei versi
classici, Virgilio e Omero. Scelta tonale e prossimità con l’antico collimano.
L’intento dell’autore è piú compiutamente fissato.
Questa “empatia” con gli antichi o con meno lontani predecessori ha
costituito per intanto una costante del “classicismo” che ha permeato la
nostra poesia, e non solo la nostra. Al punto che anche un semplice iperbato
(cambiare di posto una parola nel verso per ragioni di eufonia o di rima, e di
ritmo: «Era del año la estación florida» invece dell’ordine regolare «Era la
estación florida del año»: Góngora; «O belle a gli occhi suoi tende latine!»:
Tasso) ha nell’intenzione dei poeti trasformato per secoli i versi impostati
alla latina in piú efficace e persuasivo messaggio: versi che si sono voluti
mettere, come diceva non so piú chi, “sotto un tetto” antico, sotto la
protezione di modulazioni consolidate, sentite ritmicamente e
sintatticamente come anticheggianti. Ancora molta poesia del Novecento ha
cercato di variare/intensificare il già detto, il già esperimentato:
un’operazione quasi trascrittiva di un tono che occhieggiava alla libertà
della sintassi latina (tale carattere “tendenzialmente aristocratico” è presente
in particolare nelle versioni di poeti come Sereni o Caproni che a fronte di
una sintassi lineare preferiscono l’antilinearità dell’iperbato) 2.
Si pensi anche ai lettori: ai lettori di livello piú alto, i lettori-interpreti,
alla critica verbale in particolare, e all’individuazione delle “fonti”, ricerca
questa che ha finito col costituire non piú una mera esibizione erudita ma il
cardine di piú profonde e motivate letture. L’inclinazione alla critica
filologica e verbale (peculiarità e vanto della ricerca nel nostro paese) ha
anche permesso di non disperdere la lettura in una pulviscolarità di
impressioni, ma di leggere i testi in modo piú approfondito: i richiami ad
altri testi, a volte palesi a volte piú nascosti, hanno aperto sempre nuovi
spiragli per l’interpretazione. Il fluido della cultura storica che traspare
«nella sua profondità di radicazioni filamentose» ha disteso una densa e
concreta rete «di richiami associati, di reminiscenze, imitazioni, allusioni»:
«reticoli del senso», che hanno mostrato una «cultura attuata», nei risultati
delle forme, nelle figure, nello stile 3. La forza comunicativa dello scrivere è
consistita per secoli nella volontà di consolidare, e insieme di cercare un
appoggio nella traduzione e riscrittura di formulazioni e di temi precedenti,
variati o accresciuti, o magari contestati. Del resto ogni cultura è costituita
da una serie di traduzioni e trasformazioni, di trasferimenti di temi e segni
linguistici. Non conosciamo civiltà che non siano cresciute sulle spalle delle
altre. E la lingua letteraria si è costituita come dialogo ininterrotto, come
contiguità tra moderno e antico, che in passato erano certamente piú
inestricabilmente congiunti. Faceva notare Guido Mazzoni che mentre oggi
vecchio e nuovo sono piú lontani, soltanto due secoli fa Goethe poteva
dedicarsi all’Ifigenia in Tauride dopo aver scritto il Werther, Manzoni
lavorare contemporaneamente all’Adelchi e al Fermo e Lucia, Leopardi
pensare (cosa che in questo caso rimase nei desideri soltanto) di comporre
«le vite de’ piú eccellenti capitani e cittadini italiani, a somiglianza di
Cornelio Nepote e Plutarco», una tragedia su Ifigenia e insieme un romanzo
(che poi non scrisse) su un eroe intellettuale del tempo, sul modello del
Werther: erano mondi storici del tutto conciliabili, secondo un «senso
dell’intero» e del contiguo tra antico e moderno attualmene non piú
concepibile 4. Eliot scriveva: «Tutta la letteratura d’Europa, dopo Omero,
[…] ha una sua simultanea esistenza e forma un ordine simultaneo», un
«nuovo insieme» 5. Occorre comunque precisare che neppure in tempi
moderni abbiamo dissolto definitivamente questo «insieme». Per limitarci
alla poesia, notiamo che la questione del comporre versi è ancora oggi
sempre la stessa: «suggerire riflessioni, filigrane nascoste, stereoscopie
storiche delle parole» 6. Un poeta moderno che, poniamo, parla d’amore,
non «parla in un deserto: è un poeta che dietro di sé ha una tradizione
d’amore che risale alle origini; e la sua poesia d’amore è anche un dialogo
con i morti oltre che un dialogo con la vita» 7. La magnifica Chanson
d’aube che apre la nuova raccolta poetica di Giorgio Luzzi (Da che mondo.
Poesie 1976-2016) col tema del distacco, del congedo dall’oggetto
d’amore, coniuga inestricabilmente passato e presente: ricalca il genere
lirico medievale dell’Alba e insieme richiama il confronto col tempo della
propria vita «che ineludibilmente succede al non-tempo della notte che sta
per finire» 8. Le forme della lontananza sono fuse con l’atto presente dello
scrivere. Questo modo di porsi di fronte al passato, nonostante gli scossoni
e le rivoluzioni, tiene piú o meno saldamente, comunque in modo palese,
sino alla metà del secolo scorso, grosso modo. Si elaborava un passato
anche quando lo si rovesciava. Abbiamo avuto molti casi di poeti o
sperimentali o di “avanguardia” per i quali quel sottofondo di passato,
quella parola letteraria riscritta per secoli, quell’interiorizzazione di
meccanismi formali già esperiti, hanno funzionato ora da «difesa
iperletteraria» (pensiamo a Zanzotto) 9 ora come sfondo per meglio attuare,
far rilevare un “rovesciamento” (penso al Gruppo ’63). Ci sono state mille
vie per svolgere il passato, rimescolarlo, trasformarlo, svilupparlo,
ricomporlo, negarlo 10.
Comunque sia, la necessità della “prigione” non ha messo nei ceppi lo
scrittore, ma lo ha aiutato ogni volta a elaborare la propria “libertà”
espressiva. È appunto sullo sfondo dell’eloquenza dannunziana e
dell’antieloquenza crepuscolare che prende un suo peculiare significato la
novità del linguaggio del primo Montale. Il rifarsi sempre ai predecessori è
stato uno dei caratteri rilevanti della storia del linguaggio poetico, in specie
l’italiano. La patina petrarchesca della nostra lirica, dal Trecento a Saba e
anche oltre, ne è prova evidente. Dopo essere transitata nel petrarchismo
quattro-cinquecentesco (Sannazaro, Boiardo, Bembo, Della Casa) approda
alla nobile semplicità, alla grazia melodica, all’armonico stile elegante della
lirica settecentesca, che sin dai primi del XVIII secolo tornava a farci
respirare, pur tra il limitato repertorio, come un’aria di casa («insopprimibili
tratti di famiglia», diceva Meneghello nei Fiori italiani). Si andava cosí
accentuando la «forte socialità della poesia», attestatasi nel Settecento
lungo alcune stabili linee guida (Chiabrera-Metastasio) 11. La norma
dell’imitatio che aveva guidato per secoli la nostra tradizione letteraria non
svalutava affatto la ripresa di immagini analoghe. E una marea di stabili
formulazioni linguistiche e tematiche perdureranno per tutto l’Ottocento,
protendendosi ancora ben oltre, sino a Montale, il quale riverserà negli Ossi
(«Arremba su la strinata proda | le navi di cartone, e dormi, | fanciulletto
padrone», e ancora ivi nell’Epigramma per Sbarbaro, «estroso fanciullo,
piega versicolori | carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia | mobile
d’un rigagno») addirittura dei versi di Zanella (Astichello XVI): «lo scalzo
fanciulletto» che «abbandona | le sue flotte di carta alla corrente» 12.
La nostra storia poetica contiene una gran massa di inezie e futilità,
canzonieri interi composti da «sonettanti» di maniera 13, congerie di
«componimenti amorosi scritti, secoli dopo secoli, col gesso detritico del
canone»: eppure, nonostante tutto, testimoniano un’amorevole e amabile
«instaurazione di un qualche colloquio, una partecipazione, una continuità
attraverso tempi e paesi […] in un tutto nel quale ognuno dà qualcosa,
anche il meno dotato, in un tessuto che dunque è “civile”» 14. Con l’età
neoclassica, da Parini e Alfieri a Foscolo, il linguaggio poetico altro non ha
cercato che di rammemorare il linguaggio nobile dei predecessori e degli
antichi, facendo uso altissimo di quella feconda «libertà condizionata» che
restò attraverso i tempi socialmente fruibile 15. La letteratura si inscriveva (e
lo ha fatto per secoli) in un discorso di “riuso” degli strumenti che nel corso
dei tempi aveva adoperato «per il mantenimento cosciente della pienezza e
della continuità dell’ordine sociale e anche, in fondo, del carattere
necessariamente sociale dell’umanità in genere» 16.
Non sto elogiando passato e classicismi, con lo scopo di rimpiangerne o
riproporne i principî. Mi preme soltanto ribadire il fatto incontrovertibile
che nelle patrie lettere le novità di alto rilievo nel linguaggio poetico si sono
sino a un tempo non lontano affermate piuttosto dentro una continuità che
in una discontinuità. Testimone il sommo Leopardi, colui che ha sconvolto
e insieme incarnato mirabilmente il crescere sulla tradizione. Sappiamo tutti
quanto i Canti vadano letti con negli orecchi Petrarca del Canzoniere. La
«vecchiarella e lo zappatore del Sabato del villaggio scendono dritti dalla
vecchiarella e dall’avaro zappador(e) della canzone L del Petrarca» 17. La
dittologia «lieta e pensosa» di A Silvia 5 è «geniale ossimoro d’ispirazione
petrarchesca» (Contini) 18. E penso ai fittissimi elementi petrarcheschi in
Alla sua donna 19. Altri stilizzati archetipi petrarcheschi ritroviamo nel
Canto notturno: «il vecchierel canuto e bianco» viene da Petrarca, il sonetto
XVI 1; «e quando miro in cielo arder le stelle» della sestina XXII 11
produce «poi quando io veggio fiammeggiar le stelle», e quel «noverar le
stelle ad una ad una» viene da «Ad una ad una annoverar le stelle» della
canzone CXXVII 85 20. Si tratta di sintagmi “discorsivi”, tessere
“protocollari” piú che fonti, di legami piú linguistici che tematici, come
sottolinea Blasucci (siccome suole, or volge l’anno, né cangia stile, mi
giova la ricordanza ecc.), del tipo, ancora da Petrarca CLXVIII 14 «ben
temo il viver breve che m’avanza», CCLXVIII 32 «questo m’avanza di
cotanta spene», CCCLXV 12 «A quel poco di viver che m’avanza», che
passa a Leopardi «Ecco di tante | sperate palme e dilettosi errori, | il Tartaro
m’avanza» di L’ultimo canto di Saffo 68-70 e Alla sua donna, 2 a stanza
«nulla spene n’avanza», e a Le ricordanze 92 «Che di cotanta speme oggi
m’avanza» (questo intarsio petrarchesco diventerà formulaico, lo ritroviamo
per ogni dove: dall’Orfeo di Monteverdi ai Puritani di Bellini a La
Signorina Felicita di Gozzano). La lunga serie dei petrarchismi di
repertorio, filtrati attraverso una consolidata tradizione potrebbe continuare.
Interessano maggiormente i piú accusati richiami del tipo (Alla sua donna
14-15) «ignudo e solo | per novo calle a peregrina stanza | verrà lo spirto
mio» < «ché l’alma ignuda et sola | conven ch’arrive a quel dubbioso calle»
(Petrarca CXXVIII 101-2), marcature intenzionali rispetto alla citata
funzionalità discorsiva dei modi come (ancora in Alla sua donna 37) il
«giovanile error» < «in sul mio primo giovenile errore» (Petrarca I 3) o, nel
Passero solitario 18-19, quel «Sollazzo e riso, | della novella età dolce
famiglia», dove dolce famiglia è patente sintagma petrarchesco (sollazzo e
riso sono anche antica endiadi sicilianeggiante). In una conferenza
brasiliana su Petrarca giustamente Ungaretti osservava che l’involve di
Petrarca («E tutto quel ch’una ruina involve») passa al Leopardi della
Ginestra («Or tutto intorno | una ruina involve, | dove tu siedi, o fior
gentile»), dopo esser transitato per Foscolo («e involve | tutte cose l’oblio
nella sua notte») 21.
Questi rapidissimi richiami potrebbero continuare. Ma non farei che
ripetere cose risapute. A me preme soltanto ribadire che, nella maggior
parte dei casi, “fonti” per la verità non sono, bensí echi assimilati e
trasformati, quasi inconsapevoli, che fanno parte di un «patrimonio
genetico»: lo hanno mostrato i decisivi contributi di Blasucci e Carrai 22. E
non si finirebbe di citare altre serie di allusioni, quelle che non rimangono
nello stato frammentario di semplici “fonti”, di casuali imprestiti, ma
colgono il modello generativo dei testi poetici leopardiani, testi che
notoriamente hanno seguito una personalissima regola di composizione
poetica, che discende da una visione precisa del linguaggio poetico, un
linguaggio che, per dotarsi di forza e semplicità, di nobiltà e leggerezza di
stile, conteneva sapori di passato, di antico. Sul piano sintattico e prosodico,
dell’inarrivabile impasto leopardiano di moderno e di antico ci ha fornito
magnifica esemplificazione Leonardo Bellomo, che si è fermato di recente
sulla perturbazione dell’ordo verborum in Leopardi poeta. Si tratta di un
procedimento che si accentua nel Settecento e nel primo Ottocento (Parini,
Alfieri, Monti, Foscolo) col crescere del distacco fra lingua della prosa e
lingua della poesia: la consecuzione lineare e diretta viene “perturbata”
frequentemente da anastrofe e iperbato, che sono costrutti marcati o inversi
che vagheggiano accostamenti alle lingue antiche, lingue che Leopardi
riteneva per l’appunto piú libere e piú “ardite” delle moderne e quindi
degne di imitazione 23. Le diverse tipologie di iperbato soprattutto enjambé,
impreziosite talvolta dalla concomitanza di un’inversione, non solo
conservano quel sapore aulico e latineggiante che era già caratteristico di
Parini o Foscolo, ma in Leopardi acquistano un’inflessione personale:
Leopardi riesce a combinare la curvatura melodica dell’enjambement con
un enunciato che reitera dislocazioni di pause al centro del verso,
determinando cosí «un continuo rilancio del discorso»; la linea intonativa
del verso acquista un movimento nuovo, la «profusione di procedimenti
inarcanti» crea un flusso discorsivo travolgente che rende meno percepibili
le rime, depotenzia le pause di fine verso, ma intanto questa linea che si
protende oltre la “pausa irrazionale” di fine verso è scossa internamente da
una linea discorsiva insieme avvolgente (enjambement) ma sempre rotta al
centro del verso da pause e riprese, che mentre sottraggono peso alla
scansione metrica aggiungono al verso scorrevolezza discorsiva, impulso
dinamico leggero e assolutamente “moderno” 24. Molti passi dello Zibaldone
si fermano sulla necessità di questa convenienza tra spontaneità e culto, sul
convergere di attuale e di antico («in guisa che paia del tutto spontanea, una
lingua conforme alla natura e a’ bisogni de’ moderni tempi e delle moderne
cognizioni, la qual sembri e sia onninamente una coll’antica»: Zibaldone
3329). Leopardi è il lirico piú grande che con materiali antichi abbia saputo
formare con naturalezza messaggi di contenuto nuovo e diverso: un
moderno che scrive all’antica 25, un antico che scrive moderno. È sua
convinzione ritornante (sin dai tempi della scoperta giovanile di Frontone e
dell’idea dell’arcaismo come novità) che si debbano ricercare patine
arcaicizzanti, quelle che fanno sí che le parole italiane antiche, uscite
dall’uso, colpiscano per la loro apparente singolarità («Sopra tutto dee
guardarsi l’oratore dal coniare una nuova parola, come moneta falsa, e dee
fare in modo, che una stessa voce sia nota per la sua antichità, e piaccia per
certa novità») 26. Giovanni Nencioni ci ha ricordato l’uso di costrutti latini, e
di vocaboli come incombe ‘sovrasta’ (Ad Angelo Mai 4), o sollazzo [al
nostro male] (Sopra il monumento di Dante 184) col significato etimologico
di ‘consolazione’ (lat. solatium): al poeta – scriveva Leopardi nelle
Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824 – si deve
«concedere quella novità che nasce dal restituire alle voci la significazione
primitiva e propria loro». Questo fecondo e apparente paradosso gli farà
sviluppare l’importante concetto di «pellegrino», vale a dire ciò che dà alla
locuzione «quel non so che di temperamento inusitato, e diviso
dall’ordinario costume, da cui deriva l’eleganza» (Zibaldone 1336).
Leopardi assume tutta la tradizione, antica e moderna, quella italiana
insieme con la greca e la latina (innanzitutto Virgilio). La moderna, non
tanto la assimila e recupera per intero (Petrarca, Dante, Marino, Bartoli,
Cesarotti, Monti, Parini, anche Manzoni) ma, dice bene Mengaldo, la
«abita» 27. Tutto il passato in lui rivive, perdura, i classici greci e latini sono
come dei suoi contemporanei, imponente è la loro presenza. Del desiderio
di questa presenza ricordo i momenti in cui nella Sera del dí di festa i
fuochi di Troia e le luci di Recanati ch’egli contempla dal balcone del
paterno ostello diventano la stessa cosa 28 e la luna domestica viene a
coincidere con quella di Virgilio o di Omero: in «Dolce e chiara è la
notte…» Leopardi convoca versi dell’Iliade VIII 555-59, quando i troiani
montano la guardia notturna a Ilio («Come quando in cielo le stelle intorno
alla luna | lucente si mostrano nitide se l’aria è senza vento… ecc.»), e in
«già tace ogni sentiero, e pei balconi | rara traluce la notturna lampa» ripete
con voce nuova Eneide IX 383: «rara per occultos lucebat semita calles» 29.
Le Georgiche (III 66-69: «Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi |
prima fugit; subeunt morbi tristique senectus | et labor, et durae rapit
inclementia mortis») sono rinnovate nella Saffo leopardiana: «Ogni piú
lieto | giorno di nostra età primo s’invola. | Sottentra il morbo, e la
vecchiezza, e l’ombra | della gelida morte» (Ultimo canto di Saffo 65-68). E
ibid., 26-27 «e le pupille invano | supplichevoli intendo», si ricalca intanto
Eneide II 405 «Ad caelum tendens ardentia lumina frustra». E L’infinito:
nasce «rotondo» come un ciottolo levigato, e consistente, «lavorato da
secoli di retorica profonda» (commento di Giorgio Orelli) 30.
Questa presenza dell’antico trovava, come già ricordavo, la sua piú alta
esemplificazione lirica in Leopardi, poeta che non si legge compiutamente
senza i sottostanti echi greco-latini. Tra i tanti, colpisce un richiamo
suggestivo all’antico illustrato di recente da Gilberto Lonardi.
Commentando l’Infinito, egli riconosce come punto d’origine collocabile
nell’epos arcaico-greco alcuni lineamenti «iconici» e «sentimentali», a
cominciare da quello star sedendo di un io che contempla, ricordo di Iliade
I 348-51, dove il giovane guerriero Achille siede solitario sulla riva e
sedendo guarda il mare sconfinato: un modello epico che fonda una figura-
icona originaria, una postura che si ripeterà nel tempo, in diverse
modulazioni, da Hölderlin ad Alfieri, a Foscolo, al Werther goethiano,
ripresentandosi nella narrazione occidentale quando ripeterà, in età
romantica, la situazione di «un giovane che si apparta, siede, e guarda,
assetato dell’immenso, verso un infinito» incommensurabile 8.
Dalle iconografie fondamentali e piú generali ai piú piccoli prelievi:
anche in questa prospettiva minima l’Iliade costituisce un tessuto del tutto
familiare. Da esso Leopardi preleva tessere con «una discreta, naturale, per
niente esibita familiarità» 9 (vedi ancora quanto Lonardi ha cavato dalla
lettura della Quiete dopo la tempesta 10 o del Passero solitario) 11. L’ideale
di Leopardi era di «poetare all’antica parendo antichi», confondersi «con
naturalezza con gli antichi» 12. Ricercava sin dalle prove giovanili la
«maestosa semplicità» 13 dei classici. L’originalità non poteva nascere se
non attraverso la “ruminazione” della lezione inesauribile e impareggiabile
degli antichi («Leggiamo e consideriamo e ruminiamo lungamente e
maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini e degli Italiani») 14.
Poetare all’antica è idea stabile sino a fine Ottocento e primi del
Novecento, fino a Carducci, e a Pascoli. Penso ai Poemi conviviali. In
Odissea IX 5-11 Ulisse prima di raccontare ai Feaci le sue peregrinazioni,
confessa che la cosa piú bella tra gli uomini è sentire il canto di un aedo
insieme ai convitati:
La nostra letteratura ci mostra che per secoli gli scrittori hanno descritto
e raccontato ogni volta le cose in modo originale, ma al cospetto di quanto
hanno fatto altri prima di loro. Basta un sostantivo, un solo aggettivo, e
subito risuonano armoniche rammemorazioni. Lo ha or non è molto
mostrato un piccolo libro di Luciano Canfora dedicato a rilevare le vicende
dell’aggettivo grifagno, dall’evidente ma anche complessa intertestualità 15.
Canfora parte da Dante, Inferno IV, là dove Cesare è posto tra «li spiriti
magni» del Limbo. Compare «armato con li occhi grifagni». Non è casuale
l’aggettivo (Dante lo userà ancora una volta in Malebolge, Inferno XXII
139-40, quando nella zuffa dei diavoli uno «fu bene sparvier grifagno | ad
artigliar ben lui» e riprenderà l’aggettivo da Malebolge di Inferno XXI 56
D’Annunzio in Elettra, Orvieto 3, 33 «e l’Alighier grifagno che con ira | in
foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti | i peccatori abbrucia attuffa
asserra»). Il grifagno del canto IV non è invenzione totalmente dantesca.
L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45
di uno dei testi piú diffusi nel Medioevo occidentale, il De Vita Caesaris di
Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: nigris vegetisque oculis. Dante
col suo aggettivo grifagno vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e
neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina
insomma: occhi fieri, lampeggianti, di animale sempre pronto a ghermire.
Ma la storia che Canfora intesse non finisce lí. Nel cap. VII dei Promessi
sposi compare un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo Tonio
e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio
clandestino) appoggiato al vano della porta, un bravo che, scrive Manzoni,
fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni»
(l’aggettivo, che non compariva in Fermo e Lucia, compare nella
Ventisettana e nella definitiva). Nello stesso capitolo affiorano tra l’altro
anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di
Bruto, quando egli parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere
un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno
orribile, di incubo. Quel passo di Shakespeare è addirittura ripreso nel
pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio
a sorpresa in casa di don Abbondio. Ci sono vistosi movimenti da testo a
testo: Svetonio-Dante-Shakespeare-Manzoni. Anche il Cinque maggio entra
in gioco, dove Manzoni incrocia Napoleone con Cesare e il Giustiniano di
Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo | che nol seguiteria lingua né
penna», e Manzoni a sua volta scriverà (di Napoleone): «di quel securo il
fulmine tenea dietro al baleno». Giustiniano parlava delle fulminanti
campagne di guerra di Cesare, e quelle immagini dantesche preparano la via
a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima
carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi | dal Manzanarre
al Reno… ecc.», e poi: «scoppiò da Scilla al Tanai | dall’uno all’altro mar».
Echi di echi: stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale
vorticosa. Catene di riprese e di rimandi. Manzoni mette a confronto due
grandi, Cesare-Napoleone. Nel citato cap. VII dei Promessi sposi
capovolgerà la prospettiva storica. Nel romanzo ora egli pensa che la storia
non è fatta dai grandi, tant’è che il Cesare dantesco dagli occhi «grifagni»
in controcanto è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera
«stoccata anticesariana», annota Canfora. A un bandito di strada saranno
attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: un gioco dissacrante,
come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a
notarlo) quando paragona don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il
voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva
descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae…
Ciò non toglie che anche la modernità abbia saputo cogliere il respiro
dell’universale, e lo ha fatto esaltando il minimo, volgendosi al rigagnolo
familiare che scorre dietro casa per considerarlo fondamentale e non meno
grande del grande fiume che corre grandiosamente al mare, come ci ha
mostrato Magris nel suo Danubio, un romanzo-saggio dedicato alla vita che
rende manifesto che la pienezza del vivere non la si ritrova tanto nel
maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle piccole cose, nei gesti e nel
dettaglio apparentemente insignificante. Il «groviglio del mondo» lo si
coglie meglio «registrando la concretezza degli infiniti gesti quotidiani» 41.
Giorgio Bárberi Squarotti ha ripetuto nelle sue poesie ultime 42 quanto si
possa meglio amare ciò che non imprime tracce, non lascia segno («Tutta la
luce candida del mondo | è nell’orma dell’onda che si muore | con un lento
lamento, qui arrivata | da chi sa quale vento. | È quanto basta a chi si avvia
verso | la tenebra che è appena un po’ piú in là»), come l’onda del mare, il
cui moto svela messaggi incomprensibili ma è anche capace di salvare e
rendere significativa la densità delle cose fuggevoli («l’onda minima | che
fugge e avanza e nessun segno lascia»), al pari della nuvola rapida che
scorre, o della ragazza veloce nella corsa lungo la spiaggia, al pari del
«vento che neppure si vede e tocca, | quello che in fretta giunge e in fretta
va, | come la vita», e al pari di tutte le tenerezze della vita che contiene quel
che passa ma anche quel che conta, e lo racchiude nell’attimo, magari tra le
luci di un’alba inquieta, di cui resta soltanto il ricordo di un «passero, che
desta | la prima luce, e non vuol dire altro | che è giorno». La malinconia o
la letizia piú intensa possono sprigionarsi meglio da ridotti spazi
addomesticati, e tra le mura di un piccolo borgo. Lo hanno ampiamente
mostrato i romanzi otto-novecenteschi che hanno espresso il luogo proprio,
«la riconoscibilità storico-geografica dei luoghi narrativi», hanno
localizzato gli eventi, valorizzato il particolare ma promuovendo ad un
tempo valori sociali e spirituali universali, acronici 43. In Italia l’ha
ampiamente mostrato la poesia in dialetto del secondo Novecento.
Potremmo qui addurre infinità di esempi. «As pol di tot cm’al mé dialet | i
so sigulament | da car di bo chi turna a ca sotsira», ‘si può dire tutto col mio
dialetto | i suoi cigolamenti | da carro dei buoi quando tornano a casa
sottosera’, scriveva Zavattini in versi di Stricarm in d’ na parola
(‘Stringermi in una parola’). Nella poesia in dialetto fiorita specialmente in
Italia nei decenni di fine Novecento l’intimo e il domestico, i suoi colori e i
suoi oggetti, hanno potuto diventare radici profonde che sono riuscite
ugualmente ad allargare la scrittura all’universale, spesso per creare
un’epica del quotidiano, o spazi “rasserenanti”, generare un sorta di
“sospensione” pacificante. Prerogativa del resto di tante nostre pagine in
lingua. Si legga dal cap. VII dei Promessi sposi:
C’era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un villaggio, sulla sera, e che,
dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal
campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi piú grandini, ai
quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le
zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedavan luccicare qua e là i fuochi accesi per
le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità
della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e piú delle parole, si sentivano i tocchi
misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
“il sole al tramonto, immergendosi nelle onde del mare che s’andava oscurando,
inondava d’oro purpureo, ecc., ecc.”, “le rondini, volando a pelo d’acqua, garrivano
allegramente” […] Nelle descrizioni della natura bisogna attaccarsi ai piccoli particolari
e raggrupparli in modo che il lettore, chiudendo gli occhi, veda il quadro davanti a sé.
Darai ad esempio l’impressione d’una notte di luna se scriverai che sull’argine del
mulino un coccio di bottiglia scintillava come una vivida stella 16.
rinchiuderlo in una casa di pietra, o su un’isola deserta con litri d’inchiostro e risme
di carta – lontano dalle questioni, etiche e pedagogiche, che distoglievano la sua
attenzione dall’osservare come i capelli scuri di Anna s’arricciavano sul suo collo
bianco 20.
dire stile è dire cadenza, ritmo, ritorno ossessivo del gesto e della voce, della propria
posizione entro la realtà. La bellezza del nuoto, come di tutte le attività vive, è la
monotona ricorrenza di una posizione […] La monotonia è un pegno di sincerità.
Ciascuno ha il suo gorgo, e basta che vi palpiti dentro l’estrema tensione di cui la sua
coscienza è capace: raccontare vorrà dire lottare per tutta la vita contro la resistenza di
quel mistero 23.
L’idea che ha Pavese del cogliere il concreto della vita, non sta nel
riprodurla nelle sue sfaccettature, ma nel fissarla in recise e laconiche
forme. Anche del moto – scriveva – non s’ha da cogliere lo svolgimento,
ma occorre portare il movimento all’immobilità (appuntava nel Diario, 24
marzo ’42, un pensiero di Alain sull’oggetto della scultura che non avrebbe
lo scopo di dare al marmo l’apparenza del movimento umano, ma «de
ramener au contraire la forme humaine à l’immobilitè du marbre»). Una via
allontanante, una tensione verso la solidità dell’astrazione. E la strada sarà
proseguita da Calvino: «ogni scrittore se vuol vedere un significato nella
realtà deve in qualche modo allontanarla, schematizzarla, allegorizzarla» 24.
In una lettera a Palazzeschi Calvino scriveva per l’appunto: «quello che
m’incanta nelle Sue novelle è il disegno geometrico che si nasconde sotto i
casi umani. Leggendola, scopro che il mio ideale stilistico è proprio
questo» 25.
Ho già detto sin dalla Premessa che non ho mai avuto l’intenzione di
comporre una sorta di “manuale” sullo scrivere. Preparare un manuale sulla
fenomenologia della scrittura letteraria è impresa temeraria, se non
impossibile: finisce con lo scontrarsi con quell’idea priva di senso, il voler
definire la letteratura. Sarebbe come voler spiegare che cos’è e come si
compone musica. Oppure in che consiste l’arte pittorica, cosa che non si
può fare, perché le strade che quest’arte ha nei tempi imboccato sono
talmente diverse che gli intenti diventano inconfrontabili. L’arte pittorica,
appunto: ci sono momenti in cui prevale l’aderenza al reale, ma poi arrivano
i moderni, che cominciano a mettere in rilievo spazi metafisici e astratti,
reticoli geometrici, paesaggi della mente. A volte si ha l’impressione che
addirittura si sia cercata l’impronta visiva di un momento zero, quello della
creazione, quando le cose non fatte, non finite, sono ancora in fieri, sono
potenzialità, vuoto del bianco, nero indistinto, fondo di un nulla da cui
cominciano a erompere colori, baluginio di una “ragione”: penso a Rothko,
al fondo cupo prevalente, bituminoso, che lascia trasparire l’informe, o a
Paul Klee, alle sue tinte cupe prevalenti, il viola, i lillà, che fanno scaturire
da un caos primigenio squilli di rossi infuocati, speranze di gialli, bianchi
cretosi, quasi che la luce e le forme sbocciassero da un non essere. La
pittura ha immesso ora il caos nell’ordine, ora l’ordine nel caos, aggiunto
barlumi di ordine al disordine, certezze nelle incertezze. Non è dunque
possibile racchiudere l’arte pittorica in una stringente definizione. Cosí
come non è possibile definire i caratteri della musica, talmente mutevoli nel
tempo che sembrano talvolta privi di senso i raffronti tra partiture distanti
secoli l’una dall’altra. Melodia e canto da segnali di un’emozione sono nel
Novecento trapassati nella negazione della loro suggestione emotiva (quella
che Schönberg evitava «fino all’ascetismo, fino al martirio», scriveva di lui
Ravel) 1. L’arte pittorica, o la musica, come tutte le arti, sono permeate da
un eterno irrisolvibile dilemma di fondo: il potenziale di senso sta
nell’emozione o nella costruzione? Quanto alla letteratura, alla narrativa in
particolare, in che rapporto sta l’invenzione, la combinazione – si diceva –
con l’aderenza alla realtà?
discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva piú patria;
Cassola è toscano di Volterra, il suo mondo è quello degli artigiani e della piccola
borghesia provinciale: un mondo semplice, di semplici sentimenti, di semplici frasi della
conversazione di tutti i giorni registrate con scrupolosa fedeltà. Il segreto di Cassola sta
in questo tono grigio, in questo suo parlare a bassa voce, in questa sua rigorosa cronaca
di giornate qualsiasi 20.
Ma un altro giorno l’uomo (che era diventato vecchio) si svegliò, come sempre e
come tutti i vecchi molto presto, e aprí la finestra: c’era un grande prato di erba appena
falciata nell’ombra, con dei covoni, in fondo al prato un bosco quasi nero con dentro un
fagiano, sopra il bosco un cielo limpido e ventoso di settembre, con aria di mare. In
mezzo al cielo viola una stella, che scintillava in modo arabo.
riesce a trasmettere una sensazione di bellezza artistica assai piú di molti scrittori
convinti di sapere che cosa sia una prosa ricca e bella. E ci riesce illuminando tutte le
sue parole con la stessa luce fioca e colorandole tutte esattamente dello stesso grigio, un
colore intermedio tra quello di un vecchio steccato e quello di una nuvola bassa. La
molteplicità dei suoi toni, il guizzare del suo incantevole umorismo, la profonda
asciuttezza artistica della caratterizzazione, la vivezza dei particolari e il dissolversi
della vita umana – tutti elementi tipicamente cechoviani – sono accentuati dall’essere
soffusi e circondati da una nebbiolina verbale leggermente iridescente 44,
senza riboboli e spogliato di ogni facile automatismo, per la sua prosa non d’arte ma
terrestre e affabulante, per la sua lingua aguzza e stralunata, lieve e corposa, intinta di
rustico colore locale eppure non solo «svernacolata» (come diceva lui) ma anche intinta
delle risonanze che evocano il patrimonio di un’antica civiltà.
in una vasta metafora, dando l’idea del passaggio dalla distesa illusione
dell’estate alla malinconia dell’autunno senza minute descrizioni di
particolari. Perché la poesia sa andare “oltre” gli oggetti concreti, trasforma
le cose di cui parla. Non è descrizione che corrisponde alla realtà, ma
creazione di un senso piú ampio e profondo. Uno scrittore sa far “parlare”
un paesaggio perché lo inventa, ne compone il significato. Si prenda quel
passo mirabile dei Promessi sposi (cap. XXXV ) quando Renzo entra tra gli
appestati in cerca di Lucia, e nebbia, nuvole, oscurità non stanno sullo
sfondo come un telone di scena, ma partecipano totalmente agli orrori del
lazzaretto, e quello diventa un paesaggio di emozioni, idee, un paesaggio
morale:
Con Leopardi termina il mio viaggio intorno allo scrivere. Una delle piú
commoventi testimonianze nella nostra letteratura di «sudate carte» resta
forse il manoscritto delle Operette morali 24, quelle pagine preparate (come
sembra) per la tipografia, con i margini riempiti di varianti, di soluzioni
parallele, «tracce dell’immenso laboratorio linguistico da cui nasce la sua
scrittura» 25. Nel Dialogo della Terra e della Luna «le varianti accumulate in
fondo occupano due pagine» 26. Matteo Motolese 27 cita la Storia del genere
umano, per il lavoro compiuto tra grappoli di sinonimi depositati sui
margini, alla ricerca di una soluzione migliore, e cita quel passo che fissa a
testo un aggettivo accompagnato da un fitto numero di variazioni: si parla
dei sogni, cui tocca ingannare sotto piú forme il pensiero degli uomini, in
modo che quei sogni figurino «quella pienezza di non intellegibile felicità»,
e Leopardi allora annota le alternative che potrebbe usare: «inestimabile,
ineff. indicib. inesprimib. inesplicab. incognita, non intesa, conosciuta,
conceputa».
Indice dei nomi
Abelardo, Pietro.
Adami, Tobia.
Adonis, pseud. di Alī Ahmad Sa’īd Isbir.
Adorno, Theodor.
Afribo, Andrea.
Agosti, Stefano.
Alain, Émile-Auguste Chartier, detto.
Alamanni, Luigi.
Alfieri, Vittorio.
Algarotti, Francesco.
Alighieri, Dante.
Anchiseo, Giovanni.
Andersen, Hans Christian.
Anedda, Antonella.
Antonelli, Giuseppe.
Appelfeld, Aharon.
Arbasino, Alberto.
Arieti, Cesare.
Ariosto, Ludovico.
Aristotele.
Arpino, Giovanni.
Auden, Wystan Hugh.
Auerbach, Erich.
Avilova, Lidija.
Cadioli, Alberto.
Čajkovskij, Pëtr Il′ič.
Calcagno, Giorgio.
Calcaterra, Carlo.
Calvino, Italo.
Camarotto, Valerio.
Camerino, Aldo.
Camilleri, Andrea.
Campana, Dino.
Campanella, Tommaso.
Campo, Cristina.
Canetti, Elias.
Canfora, Luciano.
Capuana, Luigi.
Caproni, Giorgio.
Cardarelli, Vincenzo.
Carducci, Giosue.
Carrai, Stefano.
Cases, Cesare.
Cassola, Carlo.
Castiglione, Baldassarre.
Castiglione, Marina.
Catilina, Lucio Sergio.
Cattaneo, Carlo.
Catullo, Gaio Valerio.
Cavaglion, Alberto.
Cavalcanti, Guido.
Cecchi, Emilio.
Cecco d’Ascoli.
Čechov, Anton Pavlovič.
Celan, Paul.
Celati, Gianni.
Céline, Louis-Ferdinand.
Cellini, Benvenuto.
Cervantes Saavedra, Miguel de.
Cesare, Gaio Giulio.
Cesarotti, Melchiorre.
Ceserani, Remo.
Cézanne, Paul.
Cherici, Luca.
Cherubini, Francesco.
Chiabrera, Gabriello.
Chiari, Alberto.
Cioni, Gaetano.
Cocteau, Jean.
Colet, Louise.
Coletti, Vittorio.
Colli, Barbara.
Colombo, Cristoforo.
Colussi, Davide.
Comanini, Gregorio.
Conrad, Joseph.
Consolo, Vincenzo.
Conte, Gian Biagio.
Contini, Gianfranco.
Corazzini, Sergio.
Cornelio Nepote.
Cortázar, Julio.
Corti, Maria.
Crivelli, Tatiana.
Cucchi, Maurizio.
Cucchiarelli, Andrea.
Culicchia, Giuseppe.
Curtius, Ernst Robert.
Eco, Umberto.
Einstein, Albert.
Eliot, Thomas Stearns.
Ennio.
Erasmo da Rotterdam.
Erba, Luciano.
Faldella, Giovanni.
Fauriel, Claude.
Fava, Elisabetta.
Fea, Elisabetta.
Felici, Lucio.
Fenoglio, Beppe.
Ferrante, Elena.
Ferrario, Vincenzo.
Ferrero, Ernesto.
Ferretti, Gian Carlo.
Feynman, Richard P.
Fink, Guido.
Fiori, Umberto.
Flaubert, Gustave.
Forti, Fiorenzo.
Fortini, Franco.
Foscolo, Ugo.
Frasca, Gabriele.
Frassineti, Augusto.
Freud, Sigmund.
Frontone, Marco Cornelio.
Frye, Northrop.
Fuentes, Carlos.
Haskil, Clara.
Hawking, Stephen.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich.
Hemingway, Ernest.
Hilton, James.
Hoffman, Amadeus.
Hölderlin, Friedrich.
Hugo, Victor.
Insana, Jolanda.
Ioli, Giovanna.
Isabella I di Castiglia, regina di Castiglia e León.
Isella, Dante.
Italia, Paola.
Jahier, Piero.
James, Henry.
Joyce, James.
Kafka, Franz.
Kandinskij, Vasilij Vasil’evič.
Kant, Immanuel.
Keats, John.
Klee, Paul.
Knauer, Georg Nicolaus.
Kokoschka, Oskar.
Kundera, Milan.
Landolfi, Tommaso.
Lanner, Joseph.
Lausberg, Heinrich.
Lavagetto, Mario.
Lavezzi, Gianfranca.
Lawrence, David Herbert.
Leopardi, Giacomo e.
Lepschy, Giulio.
Lessing, Gotthold Ephraim.
Levi, Primo.
Lévi-Strauss, Claude.
Liszt, Franz.
Locke, Arthur.
Lolli, Gabriele.
Lonardi, Gilberto.
Longo, Andrej.
Longoni, Anna.
Lorenzini, Niva.
Lo Vecchio Musti, Manlio.
Lubrano, Giacomo.
Lucini, Gian Piero.
Lunetta, Mario.
Lutero, Martin.
Luti, Emilia.
Luzi, Mario.
Luzzi, Giorgio.
Machiavelli, Niccolò.
Maestro, Wanda.
Maeterlinck, Maurice.
Magrelli, Vittorio.
Magris, Claudio.
Mallarmé, Stéphane.
Manfredini, Manuela.
Manganelli, Giorgio.
Manguel, Alberto.
Mann, Thomas.
Manzoni, Alessandro.
Marchi, Marco.
Mari, Michele.
Mariani, Gaetano.
Marías, Javier.
Marinetti, Filippo Tommaso.
Marino, Giovan Battista.
Mascheroni, Lorenzo.
Masoero, Mariarosa.
Matt, Luigi.
Mazzacurati, Giancarlo.
Mazzoni, Guido.
Melville, Herman.
Mencacci, Osvaldo Alvaro.
Meneghello, Luigi.
Mengaldo, Pier Vincenzon.
Mengoni, Martina.
Metastasio, Pietro.
Meyer, Ferdinand.
Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto.
Monelli, Paolo.
Montale, Eugenio.
Montefoschi, Paola.
Monteverdi, Claudio.
Monti, Augusto.
Morante, Elsa.
Moravia, Alberto.
Moretti, Franco.
Mosco.
Motolese, Matteo e.
Murakami, Haruki.
Musil, Robert.
Mussolini, Benito.
Pagliarani, Elio.
Palazzeschi, Aldo.
Pampaloni, Geno.
Pamuk, Orhan.
Panormita, Antonio Beccadelli, detto.
Papini, Giovanni.
Pariani, Laura.
Parini, Giuseppe.
Parise, Goffredo.
Parussa, Sergio.
Pascoli, Giovanni.
Pasolini, Pier Paolo.
Patota, Giuseppe.
Pavese, Cesare.
Pennac, Daniel.
Pergolesi, Giovanni Battista Draghi, detto.
Pessoa, Fernando.
Petrarca, Francesco.
Petrocchi, Policarpo.
Pierantozzi, Alcide.
Pirandello, Luigi.
Platone.
Plimpton, George.
Plinio, Gaio Secondo, detto il Vecchio.
Plutarco.
Poe, Edgar Allan.
Poirier, Richard.
Poli, Gabriella.
Polo, Marco.
Pontiggia, Giuseppe.
Porta, Antonio.
Pratolini, Vasco.
Pregliasco, Marinella.
Prokofiev, Sergej Sergeevič.
Protagora.
Proust, Marcel.
Pulci, Luigi.
Pullini, Giorgio.
Pusterla, Fabio.
Quaranta, Bruno.
Quasimodo, Salvatore.
Quintiliano, Marco Fabio.
Raboni, Giovanni.
Raboni, Giulia.
Ravel, Maurice.
Rebora, Clemente.
Regge, Tullio.
Restagno, Enzo.
Rico, Francisco.
Rigoni Stern, Mario.
Rilke, Rainer Maria.
Rimbaud, Arthur.
Risi, Nelo.
Rossari, Luigi.
Rossi, Tiziano.
Roth, Joseph.
Roth, Philip.
Rothko, Mark.
Rousset, Jean.
Roversi, Roberto.
Ruffino, Giovanni.
Russo, Lucio.
Saba, Umberto.
Sabatini, Francesco.
Saffo.
Said, Edward W.
Sallustio, Gaio Crispo.
Sanguineti, Edoardo.
Sannazaro, Jacopo.
Santacroce, Antonella.
Santagata, Marco.
Santoro, Luigi A.
Saramago, José.
Sargenti, Aurelio.
Sartre, Jean-Paul.
Sassi, Giuseppe Antonio.
Sbarbaro, Camillo.
Scabia, Giuliano.
Scaffai, Niccolò.
Scarpa, Raffaella.
Scarpa, Tiziano.
Sceab, Moammed.
Schönberg, Arnold.
Sciascia, Leonardo.
Scurati, Antonio.
Segovia, Andrés.
Segre, Cesare.
Seneca, Lucio Anneo.
Sensi, Claudio.
Sereni, Vittorio.
Serianni, Luca.
Serra, Renato.
Shakespeare, William.
Shaw, George Bernard.
Shelley, Percy Bysshe.
Shih Huang Ti, imperatore cinese.
Simonelli Picchio, Maria.
Singer, Israel J.
Siti, Walter.
Socrate.
Socrate, Mario.
Soldani, Arnaldo.
Soldati, Mario.
Spinazzola, Vittorio.
Spitzer, Leo.
Squilla, Settimontano, vedi Campanella, Tommaso.
Stefanelli, Stefania.
Stella, Angelo.
Stendhal, Marie-Henri Beyle, detto.
Stevenson, Robert Louis.
Stravinskij, Igor’ Fëdorovič.
Surdich, Luigi.
Svetonio, Gaio Tranquillo.
Svevo, Italo.
Tabucchi, Antonio.
Tasso, Torquato.
Tellini, Gino.
Tenca, Carlo.
Tesauro, Emmanuele.
Testa, Enrico.
Testori, Giovanni.
Timpanaro, Sebastiano.
Tolstoj, Lev Nikolàevič.
Tomasi, Franco.
Tommaseo, Niccolò.
Tonani, Elisa.
Tondelli, Pier Vittorio.
Torti, Giovanni.
Tozzi, Federigo.
Trevi, Emanuele.
Trivulzio Rinuccini, Marianna.
Turchetta, Nadia.
Turgenev, Ivan Sergeevič.
Tynjanov, Jurij Nikolaevič.
Ungaretti, Giuseppe.
Unseld, Siegfried.
Valabrega, Paola.
Valéry, Paul.
Valesio, Paolo.
Van Dyck, Antoon.
Vargas Llosa, Mario.
Vassalli, Sebastiano.
Verdino, Stefano.
Verga, Giovanni.
Vinay, Gianfranco.
Virgilio, Publio Marone.
Vitale, Maurizio.
Vittorini, Elio.
Viviani, Cesare.
Volponi, Paolo.
Voltaire, François-Marie Arouet, detto.
Wagner, Richard.
Wittgenstein, Ludwig.
Woolf, Virginia.
Zanardo, Monia.
Zanella, Giacomo.
Zanzotto, Andrea.
Zavattini, Cesare.
Zinato, Emanuele.
Zola, Émile.
Zublena, Paolo.
Zucco, Rodolfo.
Zumárraga, Juan de.
Zumthor, Paul.
Note
Premessa
Perché scrivere
1. Rimando a G. L. Beccaria, L’italiano che resta, Einaudi, Torino 2016, pp. 25 sgg.
2. Cito dalle pagine dedicate a Calvino da C. Garboli, La stanza separata, Scheiwiller, Milano 2008,
p. 269.
3. D. H. Lawrence, Why the Novel Matters [1925], in Phoenix. The Posthumous Papers, The Viking
Press, New York 1936 (cit. in G. Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, p. 13).
4. Rimando a M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, il Saggiatore, Milano 2017, pp. 21-23.
5. Ibid., p. 282.
6. Ho usato le parole di M. Kundera, L’arte del romanzo [1986], Adelphi, Milano 1988, p. 33.
7. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 19.
8. Roth, Perché scrivere? cit., p. 33.
9. G. Tellini, Le muse inquiete dei moderni. Pascoli, Svevo, Palazzeschi e altri, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2005, p. 93; e vedi anche pp. 77-78.
10. E lo faceva azzerando gli artifici della letteratura: «ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e
dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso queste pagine capirmi meglio
[…] Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo
complesso del mio essere» (I. Svevo, Pagine di diario e sparse, in Opera omnia, Dall’Oglio,
Milano 1969, III, p. 818).
11. Lettera del 20 settembre 1910 (Epistolario, in Opera omnia cit., II, p. 558).
12. I. Svevo, Pagine di diario e sparse cit., p. 820.
13. Come disse C. Lévi-Strauss, Lezione di scrittura, in Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 2007.
14. Prendo a prestito una nota di Gianni Celati per Antonio Delfini (G. Celati, Studi d’affezione per
amici e altri, Quodlibet, Macerata 2016, p. 211).
15. F. Rico, I venerdí del Petrarca, Adelphi, Milano 2016, p. 171.
16. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 26.
17. J. Cortázar, Lezioni di letteratura. Berkeley, 1980, Einaudi, Torino 2014, p. 6.
18. I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, Mondadori, Milano 2012, p. 366.
Leggere e scrivere
1. C. Sensi, L’«Arcimondo» della parola. Saggi su Giacomo Lubrano, Liviana, Padova 1983, p. 116.
2. Vedi G. L. Beccaria, L’italiano in 100 parole, Rizzoli, Milano 2015, pp. 133-34.
3. G. Comanini, cit. in C. Ossola, Autunno del Rinascimento. «Idea del Tempio» dell’arte nell’ultimo
Cinquecento, 2ª ed. ampliata, Olschki, Firenze 2014, p. 149.
4. Penso soltanto a Manganelli, rimandando a ciò che scriveva sulla “menzogna” della letteratura, la
letteratura come assenza di senso, inutilità, dissimulazione (G. Manganelli, La letteratura come
menzogna, Adelphi, Milano 1967. E vedi anche la Premessa di A. Longoni a Giorgio Manganelli
o l’inutile necessità della letteratura, Carocci, Roma 2016).
5. Cit. in C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta, Mondadori, Milano 1940, p. 234.
6. V. Nabokov, Lezioni di letteratura [1980], Adelphi, Milano 2018, p. 42.
7. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 32.
8. Agenda 1994, inedita, cit. in L. Neri, I silenziosi circuiti del ricordo. Etica, estetica e ideologia
nella poesia di Giovanni Giudici, Carocci, Roma 2018, p. 188.
9. L’immagine era già stata usata da Giudici in Design in versi, in Per forza e per amore, Garzanti,
Milano 1996, p. 19; ma vedi Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 205.
10. Lettera a Guido Fink (1968), in Saggi 1945-1985, Mondadori, Milano 1995, II, p. 1788.
11. P. Levi, La chiave a stella, in Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016, I, p.
1097.
12. Come scriveva Calvino di Levi, in «la Repubblica», 11 giugno 1981.
13. P. Levi, Acciughe, I, in La chiave a stella, in Opere complete cit., I, p. 1149.
14. Ma vedi R. Barthes, La grana della voce. Interviste 1962-1980, Einaudi, Torino 1986, p. 335.
15. Sulla fattività e il lavoro dell’uomo al centro della visione etica di Primo Levi, sul lavoro e il fare
come forma di libertà e integrità dell’individuo, vedi anche le pagine di S. Parussa, Scrittura come
libertà, scrittura come testimonianza. Quattro scrittori italiani e l’ebraismo, Giorgio Pozzi,
Ravenna 2011, pp. 169 sgg.
16. Levi, La chiave a stella, in Opere complete cit., I, p. 1074.
17. Ibid., p. 1075.
18. P. Levi, Ad ora incerta, in Opere complete cit., II, p. 729.
19. Id., A un giovane lettore, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 988.
20. Roth, Perché scrivere? cit., p. 155. Il suo «avanzare a tentoni» non dà comunque un risultato di
esitazione e fatica, sfocia in uno stile tutto sommato “semplice”, anche se potremmo pur dire che è
il rovescio dello stile di uno Stevenson dell’Isola del tesoro, autore di una prosa felice in cui ogni
periodo sembra prevedere e attendere «e quindi dare il benvenuto alle frasi successive» – cosí
scrive Stevenson in un saggio del 1884 –, dove non c’è mai sensazione di stallo o fatica, o
esitazione, ma in ogni frase «transito e slancio alla seguente» (queste osservazioni sono di E.
Testa, Stile, discorso, intreccio, in aa.vv., Il romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino 2002,
II, p. 283).
21. M. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere [1997], Einaudi, Torino 2008, p. 12.
22. Roth, Perché scrivere? cit., pp. 412-13.
23. Cfr. P. Levi, Argento, in Il sistema periodico, in Opere complete cit., I, p. 1010.
24. L’osservazione è di B. Quaranta, in «La Stampa», 10 dicembre 2017, p. 27.
25. M. Zanardo, La scrittura “modulare” di Elsa Morante, in «Autografo» (numero monografico dal
titolo Sistemi in movimento), XXV (2017), n. 57, p. 118.
26. Ibid., pp. 114-15.
27. P. Italia, Carte geo-grafiche. Prosatori al lavoro, in «Autografo», XXV (2017), n. 57, p. 32.
28. E. Hemingway, Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte dello scrivere e narrare, a cura di G.
Plimpton, il melangolo, Genova 1996, p. 28.
29. A. Manguel, Vivere con i libri. Un’elegia e dieci digressioni, Einaudi, Torino 2018, p. 30.
30. Ha sviluppato questo pensiero Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore, Einaudi, Torino
2017, pp. 66, 128.
31. Tra la estesissima letteratura critica in argomento, mi piace ricordare il recente saggio di A.
Cucchiarelli, Traduzioni di Virgilio traduttore, in «Autografo», XXVI (2018), n. 60, p. 107 (pp.
95-122). Sui luoghi omerici di Virgilio resta fondamentale ancora il lavoro di G. N. Knauer, Die
Aeneis und Homer. Studien zur poetischen Tecknik Vergils mit Listen der Homerizitate in der
Aeneis, Vandenhoeck-Ruprecht, Göttingen 1964.
32. G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario [1974], nuova ed., Sellerio, Palermo 2012, p.
183.
33. Cit. da M. A. Grignani, Una mappa cangiante. Studi su lingua e stile di autori italiani
contemporanei, Pacini, Pisa 2017, p. 37.
34. aa.vv., Il movimento milanese di «Corrente di Vita Giovanile», e l’ermetismo, in «L’approdo
letterario», 1968, n. 14, p. 87 (va notato che anche dal punto di vista terminologico «energia»,
«tensione», «esistenza» sono parole proprie della filosofia fenomenologica, ereditata dal giovane
Sereni dal suo maestro Antonio Banfi – rimando a D. Colussi, Lingua e stile del Sereni critico, in
Id., Stili della critica novecentesca. Spitzer, Migliorini, Praz, Debenedetti, Sereni, Carocci, Roma
2017, pp. 126-29).
35. Cit. da E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, p. 4.
36. Vedi l’Intervista (24 aprile 1971) a V. Sereni, Poesie, ed. critica a cura di D. Isella, Mondadori,
Milano 1995, p. 793.
37. V. Woolf, Come si legge un libro?, La Tartaruga, Milano 1966, p. 56.
38. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 4.
39. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi 1945-1985 cit., I, p. 678.
40. Mi si permetta di rimandare a un mio antico saggio La confidenziale aura sublime: Umberto
Saba [1984], in Le forme della lontananza, Garzanti, Milano 1989, pp. 35-67.
41. Rimando a Beccaria, L’italiano che resta cit., p. 37.
42. G. Pontiggia, Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, Belleville, Milano 2016, p. 85.
43. Vedi Sartre, Che cos’è la letteratura? cit., pp. 138, 187.
44. A. Tabucchi, Dietro l’arazzo. Conversazioni sulla scrittura, Giulio Perrone, Roma 2013, p. 16.
45. M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1993, p. 268.
46. Lettera a F. Fortini del 3 giugno 1977, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli,
Mondadori, Milano 2000, p. 1335.
47. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 18.
48. Vedi Garboli, Impegno e disimpegno, in La stanza separata cit., p. 206.
49. Sartre, Che cos’è la letteratura? cit., pp. 127, 150, 158.
50. Rimando a C. Magris, Danubio, nuova ed., Garzanti, Milano 2015, p. 291.
51. N. Ginzburg, È difficile parlare di sé. Conversazione a piú voci condotta da Marino Sinibaldi, a
cura di C. Garboli e L. Ginzburg, Einaudi, Torino 1999, pp. 191-92.
52. Rimando a F. Bàez, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla
storia in Iraq, Viella, Roma 2007, p. 119.
53. Rimando a G. Gianotti, Vita europea delle lingue morte. Per una storia della grammatica,
Prolusione a. a. 2018-2019 dell’Accademia delle Scienze di Torino (in stampa).
54. Lo leggo in C. Fuentes, Un temps nouveau pour le Mexique, Gallimard, Paris 1998, p. 105.
55. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 9.
56. Manguel, Vivere con i libri cit., p. 94.
57. E. Montale, Sulla strada di Damasco, In Id., Fuori di casa, Ricciardi, Milano-Napoli 1969, p. 82.
58. Magris, Danubio cit., p. 445.
59. Manguel, Vivere con i libri cit., p. 49.
60. Cfr. M. Motolese, Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco, Garzanti,
Milano 2017, pp. 26-27, 32.
61. Ibid., p. 54.
62. T. Campanella, Le poesie, a cura di F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998.
63. Vedi le pagine introduttive di F. Giancotti a T. Campanella, Le poesie cit.
64. Grignani, Una mappa cangiante cit., p. 197.
65. G. Bárberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, Milano 1967, 2ª ed., p.
208.
66. Ma rimando a Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 196.
67. In I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977: ponti che a Calvino parevano «fragili come
ragnatele» (vedi in Lettere 1940-1985 cit., p. 1345, la lettera del 27 settembre 1977 a F. Fortini)
68. Con il titolo Ritorno all’uomo, poi in Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, pp. 198-99.
69. G. Pampaloni, Il critico giornaliero. Scritti militanti di letteratura 1948-1993, Bollati
Boringhieri, Torino 2001, p. 255.
70. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in Una pietra sopra, in Saggi 1945-1985 cit., I,
p. 64.
1. Rimando a Mengaldo, Com’è la poesia cit., pp. 13, 128. Mengaldo opportunamente cita, in
conclusione di Com’è la poesia, quella fulminea sentenza di Kant: «la poesia è l’arte di dare ad un
libero gioco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto».
2. Rimando a N. Lorenzini, Il presente della poesia, il Mulino, Bologna 1991, p. 114.
3. W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi, Torino 1975, pp. 65-68.
4. Rimando a G. Lonardi, L’Achille dei «Canti». Leopardi, «L’infinito», il poema del ritorno a casa,
Le Lettere, Firenze 2018, p. 153.
5. Vedi M. Santagata, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, il Mulino,
Bologna 1994, p. 148.
6. G. Contini, Memoria di Angelo Monteverdi, in Altri esercizî, Einaudi, Torino 1972, p. 385.
7. G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, in aa.vv., Feconde venner le carte. Studi in onore
di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1997, II, p. 481.
8. Ibid., p. 485.
9. Santagata, Quella celeste naturalezza cit., p. 148.
10. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi cit., p. 483.
11. P. V. Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, in aa.vv., Forme e vicende. Per Giovanni
Pozzi, Antenore, Padova 1988, pp. 580-81 sgg.
12. P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci, Roma
2017, p. 35.
13. La citazione di Algarotti viene dal Saggio sopra la rima, in Opere scelte, Società Tipografica de’
Classici Italiani, Milano 1823, I, p. 385. Ma qui Algarotti non intendeva certo scriverne l’elogio,
ma evidenziarne la tirannia. Siamo in un’età in cui la rima, induttrice di vocaboli vuoti, aveva piú
d’un nemico. Ancora Algarotti parlava nello stesso Saggio (ibid., p. 382) della rima come «la piú
dura catena con cui legare si potessero i poeti»; occorre bandirla, poiché «colpa la rima uno dice
non quello che vuole, ma quello che può».
14. Mi rifaccio a quanto acutamente ha scritto V. Coletti, Per uno studio della rima nella poesia
italiana del Novecento, in «Metrica», IV (1986), p. 215.
15. Continuo la citazione dalla lettera; ma identiche cose scriveva già in una lettera a Giuseppe De
Robertis del 1959: Giorgio Caproni Giuseppe De Robertis. Lettere 1952-1963, Bulzoni, Roma
2012, p. 79.
16. L’osservazione è di Giorgio Caproni stesso, riferita ad Alfonso Gatto (vedi Osteria flegrea, in G.
Caproni, Prose critiche, a cura di R. Scarpa, Aragno, Torino 2012, p. 1621).
17. Coletti, Per uno studio della rima cit., p. 217.
18. Rimando a G. L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante,
Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1975 [rist. Torino, 1989], pp. 33 sgg.
19. Già le rime del primo sonetto del Canzoniere appartengono tutte a un lessico «nobilmente
generico» (ma vedi E. Bigi, La rima del Petrarca, in «Studi petrarcheschi», VII, 1961, p. 136).
20. Mi riferisco ai tipi «che quanto piace al mOndO è breve sOgnO» (si noti anche il perfetto ritmo
trocaico), «piAgA per allentAr d’Arco non sAnA», «sappia ‘l mOndo che dOlcE è la mia mOrtE»
ecc.
21. Rimando a Bigi, La rima del Petrarca cit., p. 138.
22. M. Vitale, Studi di storia della lingua italiana, LED, Milano 1992, p. 42.
23. Come nel celebre sonetto Solo e pensoso…, XXXV, dove occorrerà notare per campi:stampi,
lenti:intenti, scampi:avampi, genti:spenti «l’omofonia delle parole in rima delle quartine, tutte
contenenti nasale + occlusiva (con proiezione nelle terzine, tempre:sempre)» (P. V. Mengaldo,
Prima lezione di stilistica, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 11). Ci sono casi in cui le rime ribattono le
consonanti nelle due quartine: vedi per esempio in XLVI bianCHI seCCHI steCCHI fianCHI ||
manCHI ‘nveCCHI speCCHI stanCHI.
24. E. Montale, Nel nostro tempo, Rizzoli, Milano 1972, p. 8.
25. J. Cocteau, La difficoltà di essere [1983], Feltrinelli, Milano 2005, p. 19.
26. Cit. da Ossola, Ungaretti, poeta cit., p. 25.
27. D. Barenboim e E. W. Said, Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la società,
il Saggiatore, Milano 2014, p. 110.
28. O. M. Brik, cit. da Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 15.
29. Frye, Anatomia della critica, cit. ibid., p. 41.
30. Per usare l’espressione di F. Bandini, in aa.vv., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea,
Liviana, Padova 1966, p. 7, quando valuta la soppressione del come per aumentare la tensione
linguistica nell’espressionismo vociano, in particolare in Rebora.
31. Il che, in termini ben piú contenuti, farà scuola: il “come” nel dopo-D’Annunzio si comincerà ad
amare sospeso in punta di verso, una sorta di sospensione ritmica della comparazione (Gozzano,
Invernale, 34-35 «e bella ardita palpitante come | la procellaria che raccoglie il volo»; e Corazzini,
L’ultimo sogno, 27-29 «e l’anima è triste come | li occhi | di un agnello…» ecc.), un modo per
preparare l’attesa del nuovo, la possibilità dell’accostamento che verrà.
32. G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, Firenze 1968, p. 713.
33. Coletti, Per uno studio della rima cit., p. 216.
34. In aa.vv., L’oro e l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, Atti del
convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 10-12 maggio 2001, a cura di G. Ioli,
interlinea, Novara 2003, p. 105.
35. G. Giudici, La gestione ironica [1964], poi in La letteratura verso Hiroscima, Editori Riuniti,
Roma 1976, pp. 213-14.
36. Vedi P. Giovannetti, «… con dispersione minima»: perché Giudici non è un poeta “neometrico”,
in aa.vv., Metti in versi la vita. La figura e l’opera di Giovani Giudici, a cura di A. Cadioli,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014, p. 24.
37. Ibid., p. 28; isostrofismo che però Giudici giustificava diversamente, non come falso ossequio
(vedi l’intervista di Alberto Bertoni, in A. Bertoni, Una distratta venerazione. La poesia metrica
di Giudici, Book, Bologna 2001, p. 155: «Quanto all’ordinamento isostrofico penso che spesso
nasca al mio sentire tante mie poesie alla stregua di oggetti materiali: palpabili, visualizzabili,
misurabili»).
38. G. Giudici, Bricoler, Bricolage, in Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Ledizioni,
Milano 2017, p. 28.
39. Caproni, Lettera a Giudici (7 aprile 1977), cit. in Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 100.
40. L’espressione è di Raboni, in un intervento in «Paragone» dell’agosto 1972.
41. Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 60.
42. R. Scarpa, Intorno al silenzio. Note sulla pausa metrica, in aa.vv., Per Giorgio Caproni, a cura di
G. Devoto e S. Verdino, San Marco dei Giustiniani, Genova 1997, p. 156.
43. P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in L’opera in versi, Mondadori, Milano 1998,
p. XXI .
44. Id., «L’uscita mattutina» di Caproni, in La tradizione del Novecento, Quarta serie, Bollati
Boringhieri, Torino 2000, p. 203.
45. M. Scaffai, Una costante di Caproni: l’«uso (in un certo modo) della parentesi», in D. Colussi e
P. Zublena (a cura di), Giorgio Caproni, Lingua, stile, figure, Quodlibet, Macerata 2014, p. 120.
46. Ibid., p. 122.
47. Mengaldo, «L’uscita mattutina» di Caproni cit., p. 203.
48. Cosí annotava E. Tonani, Grafemi, in aa.vv., Giorgio Caproni. Parole chiave per un poeta, in
«Nuova Corrente», LVIII (2012), n. 147, p. 64.
49. Rimando anche a G. L. Beccaria, Giorgio Caproni, «incisore sonoro», in aa.vv., La scatola a
sorpresa. Studi e poesie per Maria Antonietta Grignani, Cesati, Firenze 2016, pp. 357-64.
50. Ne ho già parlato altrove, nella Prefazione a C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2000, pp.
V-XXXIII .
51. Questo tipo ritmico definii «progressivo» nel mio antico Ritmo e melodia nella prosa italiana.
Studi sulla prosa d’arte, Olschki, Firenze 1964. Il passo di S. D’Arzo è tratto da Casa d’altri, a
cura di P. Briganti e A. Briganti, Diabasis, Reggio Emilia 2002, p. 60.
52. Ibid., p. 51.
53. Cfr. ibid., pp. 174-76.
54. Vedi Calvino, Lettere 1940-1985 cit., pp. 420, 565 nota.
55. Velocità ed esattezza sono i due aspetti fondamentali del periodare di Meneghello, come ha
indicato G. Lepschy in aa.vv., Su/Per Meneghello, a cura di G. Lepschy, edizioni di Comunità,
Milano 1983.
56. Mari, I demoni e la pasta sfoglia cit., p. 696.
57. Da una lettera del luglio 1852, cit. da Nabokov, Lezioni di letteratura cit., pp. 215-16.
58. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., pp. 34-35.
59. Vedi gli «Appunti» di Nabokov, Lezioni di letteratura cit., pp. 253-54.
La continuità e la durata
«dietro le alte mura le rauche trombe fasciste squillarono al parossismo dell’intolleranza». Piú
plateale ricordo virgiliano Il partigiano Johnny, cap. XXVI «Ma la gioia si voltò in dolore, ciò che
era apparso salvezza causò mortale rovina». Su Omero → Fenoglio del Partigiano Johnny
(«L’occhio paziente brillò sotto le grevi, nere ciglia imperlate di neve, e la callida bocca si aprí a
parlare: …» ecc.), rimando a Beccaria, La guerra e gli asfodeli cit.
40. Anche in Montale, nella Farfalla di Dinard, ho incontrato un volo «cencioso» di pipistrelli.
41. Cosí annota F. Gatta, La saggificazione della scrittura narrativa. Lingua e stili di un nuovo
genere letterario, in «Lingua e stile», 2016, n. 2, p. 258, a proposito della narrativa di Tiziano
Scarpa.
42. Sono tutte ora raccolte nei due volumi dell’opera omnia Dialogo infinito, a cura di V. Boggione,
Genesi, Torino 2017.
43. Al tema ha dedicato un acuto e articolato saggio V. Coletti, Romanzo mondo. La letteratura nel
villaggio globale, il Mulino, Bologna 2011 (le citazioni a pp. 33-34, 100).
1. Riprendo qui le pagine della Premessa a G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella
letteratura occidentale, interlinea, Novara 2000, pp. IX-XI .
2. Vedi Beccaria, La guerra e gli asfodeli cit., pp. 68 sgg. della ristampa.
3. G. Pontiggia, L’isola volante, in Opere, Mondadori, Milano 2004, p. 1318.
4. Ma rimando a Baudelaire, Salon del 1846 cit., p. 109.
5. Cfr. P. V. Mengaldo, Noterelle guinizzelliane, in Dalle origini all’Ottocento cit., pp. 55 sgg.
6. Cfr. C. Ossola, Nel vivaio delle comete. Figure di un’Europa a venire, Marsilio, Venezia 2018, p.
39.
7. M. Pregliasco, In forma di fuga. Modi e mondi dell’antico nel moderno, Edizioni dell’Orso,
Alessandria 2003, p. 72.
8. Mengaldo, Aspetti tipologici cit., p. 72.
9. Esempi in Pregliasco, In forma di fuga cit., p. 81.
10. Cfr. ibid., pp. 79, 80.
11. Vedi L. Blasucci, L’autocommento alle «Canzoni»: dalle note autografe alle «Annotazioni», in I
tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino 1996, p. 49.
12. Ho usato le parole di Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 48.
13. Per La sera del dí di festa, vedi il commento in Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica
leopardiana cit., p. 26.
14. P. V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze, il Mulino, Bologna 2010, p. 112.
15. Cito da M. Lavagetto, Per conoscere Saba, Mondadori, Milano 1981, p. 25.
16. Vedi Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 12.
17. Vedi Celati, Studi d’affezione cit., p. 253.
18. Lettera del 20 marzo 1820, in Lettere, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 2006, p. 249.
19. Lo faceva notare Garboli, La stanza separata cit., p. 357.
20. Vedi Mengaldo, Sonavan le quiete stanze cit., p. 112.
21. Ma rimando a Bozzola, L’autunno della tradizione cit., pp. 18-19.
22. Ibid., p. 140.
23. Cfr. Mengaldo, Com’è la poesia cit., pp. 40-41.
24. Come mostrò assai bene nel concreto dell’edizione e illustrò O. Besomi nell’Introduzione a G.
Leopardi, Operette morali, ed. critica a cura di O. Besomi, Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori, Milano 1975.
25. Motolese, Scritti a mano cit., p. 14.
26. Ibid., p. 179.
27. Ibid., p. 173.
Il libro
P ERCHÉ SI SCRIVE? QUALE IMPEGNO, O FATICA, O DESIDERIO STA ALLE SPALLE DELLO
scrivere? L’irrompere dell’immaginario, e dell’invenzione, il confessare,
raccontare o scoprire se stessi, riaprire segrete ferite, esplorarle, scavare nel
pozzo degli angoli bui di sé e degli altri, evocare e rappresentare ricordi, sogni, porre
domande con o senza risposte, assecondare la propria nevrosi per trarne ora uno
sfarzo stilistico, ora equilibri e bellezze formali. Si scrive infine per indagare intorno
a una verità, aprire una finestra sul mondo, catturarlo attraverso una rappresentazione
discorsiva, quando lo scrivere diventa necessità, impegno per comprendere la vita,
gettare luce sull’essere dell’uomo e su ciò che dentro e intorno a lui sta accadendo o
è accaduto.
Si scrive insomma in infiniti modi e con infinite aspirazioni. Ma si scrive anche
perché si ha paura di essere dimenticati. Scrivere è un qualcosa che ha a che fare con
il senso della vita. Consapevole di tutti questi aspetti, Gian Luigi Beccaria, studioso
dello stile, si sofferma soprattutto sullo scrivere come lavorazione, e procede
scavando tra esecuzioni e varianti di poeti e prosatori, da Dante e Pascoli a Sereni e
Zanzotto, da Čechov e Proust a Roth e Murakami.
L’autore
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Copertina
Frontespizio
Premessa
Il pozzo e l’ago
I. Perché scrivere
II. Leggere e scrivere
III. Il lavorio sul testo
IV. Autonomie del signficante
V. Si sa sempre ciò che la mano scrive?
VI. Sulle spalle degli antecessori
VII. La continuità e la durata
VIII. Respiro del vero, o allontanamento?
IX. Che viaggio già promesso ora ci aspetta?
X. Ancora sull’ “ardir” e l’energia, del mestiere di scrivere
Indice dei nomi
Il libro
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