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Gian Luigi Beccaria

Il pozzo e l’ago
Intorno al mestiere di scrivere
Premessa

Ci sono ragioni imperiose che spingono a scrivere? Perché si scrive e per


chi? Sono le domande di sempre. Sartre le pose in un suo libro famoso 1, e
sono state di tanto in tanto riprese 2. Per chi si scrive… Non è detto che allo
scrittore interessi in prima istanza rivolgersi a qualcuno o farsi capire dai
piú. Anzi, qualche autore trova «inebriante» che la stragrande maggioranza
rimanga estranea ai testi che lui produce (e questo «conferisce una certa
libertà», confessava in una recente intervista Philip Roth 3. E in altra
occasione: «Quando lavoro non ho in mente un particolare gruppo di
persone con cui voglio comunicare» 4). La preoccupazione principale dello
scrittore resta piuttosto il come scrivere. Non basta avere un foglio bianco,
una biro, una tastiera, e cominciare. Il mestiere di scrivere è arduo, per di
piú faticoso. Dice Pamuk: «Il segreto dello scrittore non sta nell’ispirazione,
che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza.
“Scavare un pozzo con un ago”! è un bel modo di dire turco che descrive il
lavoro dello scrittore» 5. Può sembrare lieve soltanto per coloro che scrivono
con eccessiva disinvoltura, come se non avessero padri letterari. È vero che
oggi sono altre le fonti, enormemente espanse, non ristrette alle libresche.
Sia in prosa, sia in poesia, è caduta quell’idea durata secoli secondo la quale
sembrava che ci fossero piú cose dentro ai libri che fuori. Lo scrittore
presupponeva o istituiva su quei testi la “competenza” del proprio lettore,
costruiva il suo destinatario. Ciò è stato assolutamente vero e pacifico per
tanti secoli. E non lo dico con un senso della “perdita”, come se restassi
attaccato all’idea che il processo di formazione di un testo debba
obbligatoriamente prevedere l’assorbimento di temi e di modi del passato
da assimilare e poi trasformare. Tanti terremoti e tante variazioni e distacchi
dalla tradizione sono avvenuti, soprattutto nel secolo scorso. Comunque sia,
la condizione di “leggibilità” del testo letterario si è basata per secoli su
continuità e memoria 6: una memoria (dell’autore e del lettore) decisiva, che
ha governato l’interpretazione, e senza quell’alludere, quel riferimento
volontario dell’autore, la lettura di un testo restava incompleta, priva di
risonanza. Poi, nel secolo scorso con maggiore rilievo, è avvenuto un
cambiamento, e occorrerebbe spiegarlo a fondo, allargando l’indagine su
uno spazio globale, non soltanto eurocentrico… uno spazio oggi enorme.
Mi sono avviato perciò con titubanza a trattare del “mestiere di scrivere”,
costretto a parlare di pochi autori, soltanto di quelli che conosco. E mi sono
mosso in modo rapsodico piú che sistematico. Non ho difatti tentato di
sistemare “storicamente” alcunché, né scritto un ordinato “manuale” sulla
composizione letteraria. Ho ceduto invece, piú liberamente, al piacere del
riprendere riflessioni e memoria di mie personali letture. In fondo, di
manuali di scrittura ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili.
Le mie pagine sono inedite, salvo ciò che ho tratto dal cap. VI per gli Scritti per Guido Davico
Bonino. In occasione del suo ottantesimo compleanno, Voltapagina, Torino 2018. Mi è cara
l’occasione per ringraziare moltissimo Patrizia Truffa, Marinella Pregliasco e Vittorio Coletti che
hanno letto, prodighi di consigli, il mio scritto.
Il pozzo e l’ago
Capitolo primo
Perché scrivere?

Ho già detto altrove ciò che pensavo sull’“altrui mestiere”, a favore di


chi non resta per la vita autore di un solo genere, ma decide a un certo punto
di cimentarsi con qualche altra forma collaterale 1. A me piacerebbe, perché
no, potermi cimentare in un’opera di fantasia: romanzo, raccolta di versi.
Ma non ne sono mai stato capace, e so che me ne asterrò per l’avvenire. Mi
sono sempre mosso con maggiore agio tra le storie di parole, se dietro ad
esse si cela qualche vicenda storico-culturale. Ambito questo, però, dove
non c’è spazio per l’irruzione dell’immaginario e dell’invenzione.
Comunque, continuo a scrivere, anche se, come tanti, mi chiedo sempre di
piú il perché. Finisce col diventare una specie di vizio. Con lo scrivere
bisogna sempre prendere speciali precauzioni. È un male contagioso. Porsi
davanti a una pagina bianca e cominciare a riempirla «è una faccenda molto
strana», annotava Maria Corti nelle Pietre verbali. Ma «d’altronde ti pare
che il mondo esista se tu ne scrivi». E tu stesso esisti, se scrivi: è la
«consapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria
scrittura» 2. Citavo prima Maria Corti, alla quale, credo, doveva essere
venuto in mente Pessoa quando diceva che si scrive per simulare la verità
ed evitare cosí di essere nulla, opinione condivisa da tanti, da Pennac ad
esempio, quando in Come un romanzo annota: «L’uomo costruisce case
perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale». Credo che sia anche
questione di solitudine, come lo è del resto in certi casi la lettura. Ancora
Pennac osservava che l’uomo «vive in gruppo perché gregario, ma legge
perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto
di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire».
Scrivere pagine letterarie non è come comporre un manuale o altro
prodotto strumentale. Non equivale a comporre un compendio di verità e
d’istruzioni, un “utensile”. Si entra in un ambito espressivo che va trattato
con certi riguardi e distinguo, posto che la letteratura è diletto, confessione,
indagine che gareggia con la filosofia, la storia, le scienze («essendo un
romanziere, mi considero superiore al santo, allo scienziato, al filosofo e al
poeta – che sono tutti grandi esperti di parti diverse dell’uomo vivente, ma
che non colgono mai l’intero» diceva Lawrence) 3, forma di conoscenza che
apre nuove prospettive sul reale, finestra aperta sul mondo, ma anche
finzione che cattura la realtà attraverso una rappresentazione discorsiva, è
un io che racconta se stesso, narrazione di ricordi desideri e pensieri,
evocazione o sogno di ciò che si sarebbe voluto fare o dire, di incubi e
paure, turbamenti, fantasticazioni, un porre domande senza risposte. Spesso
si scrive per confessare le proprie crisi intime, per cercare di risolverle (si
pensi a Kafka). O ci si pone «al servizio della propria nevrosi, pronti ad
assecondarla e a celebrarla»; si trae da una debolezza il proprio sfarzo
stilistico, si trova nell’ossessione la fonte dell’ispirazione stessa: abbiamo a
che fare in questi casi con scrittori che quando scrivono «finiscono di
consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano», di qui
stravolgimenti, l’eccitazione verbale, gli avvitamenti retorici, le torsioni
espressive, l’ossessione che si fa forma. Lo annotava Michele Mari citando
Céline, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Melville, Landolfi e il
loro linguaggio “marcato” e in qualche caso inattuale (l’esatto rovescio di
uno Stevenson, poniamo, che «è la voce, è lo spirito di affabulazione fatto
persona e poi penna») 4; e citava naturalmente Gadda: «questo grande
introverso ci rapisce e ci spiazza in continuazione perché ogni sua parola è
il trionfo di un’istrionica estroversione» 5.
Tutto meno che diletto è la letteratura. I grandi narratori (tra i nostri,
penso a Manzoni o a Svevo) hanno posto in second’ordine la letteratura che
cerca un diletto della fantasia: a loro interessava la narrativa come inchiesta
conoscitiva o etica, basata sulla cognizione degli uomini e delle cose, lo
scrivere come impegno totale e come esperienza necessaria per
comprendere la vita, per «gettare luce sull’essere dell’uomo», per «fare del
romanzo la suprema sintesi intellettuale» 6.
Ma è lo scrivere per comprendere se stessi che resta negli autori di ogni
tempo l’impulso principe. Pensiamo alle pagine di Petrarca, un profondo e
protratto colloquio con la propria anima. Orhan Pamuk ha scritto che
«essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che
portiamo dentro di noi, ferite cosí segrete che noi stessi ne siamo a
malapena consapevoli»; ci tocca «esplorarle pazientemente, studiarle,
illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra
scrittura e della nostra identità» 7. Philip Roth afferma che la narrativa è una
«complessa, camuffata lettera a se stesso» 8. Può diventare un atto
liberatorio, come era stato per Primo Levi (esplicita confessione sua) lo
scrivere Se non ora quando?; e penso alla «gioia liberatrice del raccontare»
(altra confessione) offertagli dalla Tregua dopo il ritorno a casa.
Il pubblico in questi casi non è piú il referente primo. Ho appena citato
Svevo, scrittore che sembrava quasi metterlo da parte: per lui era l’autore
«il primo destinatario delle sue pagine» 9, voleva capirsi meglio, analizzare
e scoprire se stesso 10. L’esercizio dello scrivere come arte in sé gli
importava di meno. La sua prosa era completamente antiformalistica, priva
di virtuosismi, di ogni elemento decorativo. Gli interessava lo scrivere
come scavo negli angoli bui di sé e degli altri, le gelosie, gli affetti, le
debolezze dell’uomo cosiddetto “normale”. La sua scrittura non era attratta
dalla parola che trascina, dall’onda melodica di una prosa suadente, perché
in questi casi, a suo parere, la letteratura può ingannare («Ho avuto sempre
una certa antipatia per la parola dolce ch’è tanto facile da vergare e che non
dice niente») 11. La potenza espressiva di Svevo difatti non risiede nello
scrivere bene, nello stile. Il bello scrivere gli pareva inautentico. In una
pagina del Diario appuntava: «È un uomo che scrive troppo bene per essere
sincero» 12 (avrebbe forse sottoscritto la nota di Stendhal quando nel suo
Diario, 14 febbraio 1841, appuntava: «Sono i poveri d’idee che hanno
inventato lo stile»).

Il mestiere di scrivere si esercita dunque in infiniti modi e con infinite


aspirazioni. Si scrive perché si ha paura di essere dimenticati. Oppure, come
dicevo, scrivere è un qualcosa che ha a che fare con il senso della vita 13, col
sentirsi vivo, se è vero che si scrive innanzitutto per sé, per una propria,
intima urgenza. Lo scrittore non è spinto dal dovere di scrivere: «l’asocialità
o il necessario isolamento dello scrivere» 14 può avere il sopravvento su ogni
altro impulso. Nel corso dei tempi è restata comunque sempre salda
invariante il piacere, o emozione dello scrivere. «Non c’è cosa che pesi
meno della penna» annotava Petrarca, un anno prima della morte. Non gli
importava tanto «di che cosa e a chi»: «incoercibile voluttà – la carta, la
penna, l’inchiostro e le veglie notturne mi sono piú care del sonno e del
riposo» (Familiari XIII 7, 1). E a Boccaccio, che lo esortava al riposo: «non
c’è cosa piú lieta» dello scrivere, «gli altri piaceri sono fuggevoli e
dilettando fan male; la penna reca gioia quando la si prende in mano e
soddisfazione quando la si depone». Lo scrivere come piacere: ma insieme
fatica, sacrificio. A Boccaccio Petrarca lascerà per testamento la
considerevole somma di 50 fiorini d’oro per l’acquisto di un abito invernale
che gli permettesse di coprirsi cosí da poter dedicare allo scrivere e al
leggere anche le ore notturne 15.
In realtà Petrarca scriveva soprattutto per i posteri, assecondando quella
prospettiva di eternità che oggi non rientra piú nell’orizzonte di attesa dello
scrittore, anche se come sempre si continua a scrivere per conseguire una
fama e un interesse da parte dei lettori («Scrivo perché mi piace essere
letto»: Pamuk) 16. Però, in tempi moderni, lo scrivere è diventato sempre piú
un atto molto privato: «scrivo per debolezza» confessava Valéry. C’è anche
chi si schermisce, dice che scrive senza sapere il perché («Ho sempre scritto
senza sapere bene perché lo faccio, mosso un po’ dal caso, da una serie di
casualità: le idee mi arrivano come un uccello che entra dalla finestra»:
Cortázar) 17. Magari si scrive, rispondeva Calvino intervistato da Baranelli,
perché non si sa fare «niente di meglio» 18: ma Calvino sapeva bene che era
risposta di comodo, per togliersi il problema di torno. Non si devono mai
prendere alla lettera le confessioni degli scrittori. Non ce la raccontino.
Sullo sfondo della mente di chi scrive restano sempre i lettori. L’autore
spera che le sue pagine non abbiano a girare a vuoto, che i lettori vi mettano
un loro «pedale» di risonanza, vi aggiungano nuova musica.
Capitolo secondo
Leggere e scrivere

Mestiere complicato è lo scrivere. Non è un trascrivere. Sta sempre in


bilico tra realtà e finzione. La letteratura gode di un alto grado di libertà, è il
luogo dove il “falso” è da sempre diventato vero. Che cosa prova il
capolavoro di Cervantes? Don Chisciotte altro non fa che rendere vero il
falso, visibile l’invisibile. Con la sua straordinaria capacità d’invenzione
trasforma luoghi e persone che l’attorniano in un mondo illusorio e
spettacolare. Nelle opere artistiche l’artificio ha saputo creare bellezze
superiori a quelle naturali, farsi emulo della natura stessa. In età barocca
Lubrano vedeva nelle Frutte lavorate di cera un «orto mentito» piú ricco
del vero 1. Illusione e finzione, inganni creati dall’uomo gareggiavano e
superavano la natura, forzata e migliorata nelle prospettive artificiali dei
giardini o negli artifici scenografici delle fontane, nelle acque non piú
libere, ma piegate meravigliosamente dall’ardire dell’ingegno 2. Sin dall’età
manieristica era valso il fertile principio artistico che l’artefatto e
l’infingimento propongono realtà nuovissime. Il pennello del pittore sa
imitare «‘l vero col finto», e il vero rimane vinto dal falso (che nell’opera
pare «del ver piú ver») 3. Emmanuele Tesauro, nel Cannocchiale
aristotelico, mostrava che scrittura e pittura, toccate da profonda contiguità,
fanno credere che «il finto sia il vero». Siamo in pieno Barocco, quando
compito precipuo della letteratura era il fingere. L’inatteso, il meraviglioso,
annotavano i teorici del Seicento, va tratto da ciò che è falso. Ho insistito un
po’ sul Barocco perché non sto parlando di bizzarrie passeggere, ma di
riflessioni fondamentali e durature, attualissime, anticipatrici di quel
moderno che volle a un certo punto uscire da qualsiasi ipotesi di realismo e
di rispecchiamento. Non è un caso che barocco e avanguardie abbiano
avuto stretti punti di contatto 4. L’infingimento è il sale della letteratura, piú
vera del vero. Addirittura alle soglie di un’età razionale che esaltò la
chiarezza e l’immediatezza, è attestata la piú bella definizione del “finto”
letterario, ed è di mano del Metastasio 5:

Sogni e favole io fingo; e pure in carte


mentre favole e sogni orno e disegno,
in lor, folle ch’io son!, prendo tal parte,
che del mal ch’io inventai piango e mi sdegno.

Splendido elogio della finzione-realtà della parola e delle lettere.


Ma ancora oggi, proprio nel genere principale e piú diffuso (la narrativa),
resta a mio parere un segno distintivo del valore letterario di un testo il non
restare schiacciati dalla realtà, né riprodurla, rispecchiarla, trascriverla.
Celebre la riflessione di Nabokov:

La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di
Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando «Al lupo, al lupo»: è nata il
giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò «Al lupo, al lupo» senza avere nessun lupo
alle calcagna. È del tutto incidentale che il poverino, per aver mentito troppo spesso, alla
fine sia stato divorato da un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo
della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante:
quell’intermediario, quel prima, è l’arte letteraria 6.

Continuando dunque a discorrere intorno alla natura di un mestiere cosí


complicato com’è lo scrivere, faticoso e irresistibile insieme, dicevamo che
c’è chi lo descrive come una “debolezza”, o vizio di natura, sorta di
“dipendenza” (nel suo discorso per l’accettazione del Nobel Montale disse
che la poesia è «una produzione o una malattia assolutamente endemica e
incurabile»), necessaria come un farmaco («Perché io sia felice è necessario
che ogni giorno mi occupi un po’ di letteratura. Proprio come i malati che
ogni giorno devono prendere un cucchiaio di medicina») 7. In realtà io sono
propenso piuttosto a credere che sia la grande attrazione al fare ciò che lega
un autore al mestiere, pari al gusto con cui un artigiano trova la sua
realizzazione di homo faber applicandosi quotidianamente ad assemblare e
connettere con pazienza i pezzi dell’oggetto che sta costruendo, da tagliare,
intarsiare, levigare, incastrare, incollare. Come un liutaio che fabbrica
amorosamente un violino. Giovanni Giudici annotava che «la poesia non è
soltanto espressione di stati d’animo, ma costruzione di oggetti messi a
disposizione dei loro potenziali utenti» 8, è costruzione che assomiglia al
lavoro di «uno che in versi a un suo deschetto» si applichi a scrivere, seduto
al suo banco di artigiano, intento a fare e ritoccare materiali assemblati e
rifatti con le sue mani 9. E Calvino: «io resto uno scrittore di impianto
artigiano, mi piace fare delle costruzioni che chiudono bene» 10. Primo Levi
parlò piú volte di questa concezione del testo letterario come lavoro
artigianale, un qualcosa che si costruisce poco alla volta, con
esperimentazioni e approssimazioni successive. Lo scrivere insomma come
lavorazione piú che lavoro, un procedere da uomo-fabbro, se è vero che il
senso dell’uomo si realizza nelle cose che si fanno. È fatica cercata, ma
quasi sempre spiritualmente “retribuita”, restituita. Primo Levi ha scritto
che «l’amare il proprio lavoro […] costituisce la migliore approssimazione
concreta alla felicità sulla terra» 11. La scrittura, cosí come ogni lavoro, è un
misurarsi con la materia a disposizione, un mettersi alla prova, e dare un
senso al lavoro come sforzo e iniziativa dell’intelligenza, del sapersela
cavare: attività gratificante (ciò contrastava con l’idea di quella sinistra che
negli anni Sessanta-Settanta considerava il lavoro come attività alienante,
inglobata nel “sistema”), «saggezza basata sull’esperienza del fare» 12, che
rende un uomo una persona completa. Lavoro pratico e scrittura come
attività molto vicine; scrivere come lavoro “aggiuntivo”, un «modo di
cucire insieme parole e idee» come fa nel mestiere parallelo il chimico che
cuce insieme molecole 13. Proust, parlando del mestiere dello scrittore, della
sua lenta e minuziosa attività, usava per l’appunto una metafora del lavoro,
diceva che lo scrittore confeziona un’opera come una sarta cuce un vestito,
lavorando in modo incessante, meticoloso, costruttivo 14. E qui dovremmo
riandare alle osservazioni sulla scrittura nella Chiave a stella, Tiresia,
quando Levi raffronta i due modi del fare: il fare del tecnico Faussone
montatore di gru e tralicci, che ama il lavoro fatto a regola d’arte 15, e il fare
dell’autore-scrittore. Lo scrittore può anche «tenersi sull’impreciso e sul
vago», «dire e non dire», «inventare a man salva, fuori di ogni regola di
prudenza» 16, purché (concordano entrambi) tornisca l’oggetto senza aloni e
bavature di ambiguo. Il fondo fabbrile è comune ai due, all’operaio e allo
scrittore. Lo scrittore può anche tralignare, purché, al pari dell’operaio
valente e ingegnoso, pensi «con le mani e con tutto il corpo», impari a
montare la sua creatura «piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida,
necessaria, simmetrica e adatta allo scopo», impari a «conoscere la materia
ed a tenerle testa» 17. Levi e Faussone: entrambi vogliono il compiuto, il
fatto bene, in loro prevale il senso materiale e meno l’estetico delle cose.
Scrittore e uomo fabbro sono persone che quando creano vogliono mettere
insieme una simmetria, “mettere qualcosa al posto giusto”. Su questo punto
fondante è da rileggere la poesia di Levi L’opera 18: «Ora basta, il lavoro è
finito, | rifinito, sferico. | Se gli togliessi ancora una parola | sarebbe un buco
che trasuda siero. | Se una ne aggiungessi | sporgerebbe come una brutta
verruca. | Se una ne cambiassi stonerebbe | come un cane che latri in un
concerto».

La pratica della scrittura è mestiere lento, sorvegliatissimo, che non


segue, per dirla ancora con Primo Levi, «la linea della massima
pendenza» 19, lavoro di molto impegno, soprattutto per chi non ha il dono
della «scrittura di primo getto», oppure non la ama. «La fluidità può essere
un segno del fatto che non sta succedendo niente; può addirittura essere il
segnale che è meglio lasciar perdere, mentre quello che mi spinge ad andare
avanti è la sensazione di avanzare a tentoni da una frase all’altra» diceva di
sé Philip Roth 20. Conta certo il talento, ma piú ancora l’ostinazione e la
ricerca. Il talento, osserva Vargas Llosa, non nasce in modo «fulminante»
ma «attraverso un lungo processo, anni di disciplina e di perseveranza»;
prima si è degli «apprendisti scrittori», poi si progredisce «a forza di
costanza e di convinzione»: e fa il caso di Flaubert, e pensa alla
documentazione del suo fare riferita anche nelle lettere indirizzate a Louise
Colet tra il 1850 e il 1854, gli anni in cui scrive Madame Bovary, quando
«assunse quella vocazione come un crociato» e «con una convinzione
fanatica» riuscí «a vincere i propri limiti (ben visibili nei suoi primi scritti,
cosí retorici e cosí servili rispetto ai modelli romantici in voga)» 21.
Ancora Philip Roth accenna in un’intervista a quella che aveva chiamato
«la lotta con la scrittura»:

Tutti sono alle prese con compiti ardui. Tutti i mestieri sono ardui. Si dà il caso che il
mio fosse anche un compito impossibile, o almeno cosí lo percepivo io. Mattina dopo
mattina, per cinquant’anni, mi sono trovato davanti alla pagina successiva indifeso e
impreparato. Scrivere per me è stata una lotta per la sopravvivenza. A salvarmi la vita è
stata l’ostinazione, non il talento. Ho avuto la fortuna di non essere interessato alla
felicità e di non provare alcuna compassione per me stesso. Tuttavia, perché mi sia
dovuto imbarcare in una tale impresa non so proprio dirlo 22.

Scrivere non è dunque un lasciarsi andare, una felice deriva, ma fatica


controllata, energia che colma speranze dopo tentativi. È spesso (come Levi
dice capitare anche al mestiere del chimico) un arrabattarsi nel buio, sino a
che una sorta di “ordine” subentra all’occasionale, al casuale o caotico 23. Lo
scrittore è un paziente e insieme avveduto artigiano, dicevo, una sorta di
«operaio specializzato della lingua» (definizione di Sebastiano Vassalli), un
«meccanico» della letteratura (cosí considerava se stesso Giovanni Arpino,
il quale sembrava scorgere la poesia, gli Ossi di seppia montaliani 24,
nell’Oss ‘d seppia, l’utensile che veniva usato per levigare le superfici
verniciate). Alla maggior parte degli scrittori (artigiani dalle mani d’oro)
piace scegliere e mettere le parole al loro posto, fondere lo spessore
semantico di ogni termine con la sintassi e il ritmo della frase che vanno
costruendo. Dell’attenzione quasi maniacale per preparazione e
composizione delle proprie pagine, fanno fede le masse di “scartafacci”
accumulati negli anni. Vengono a mente fra i tanti i quaderni di Elsa
Morante, quelli per La storia, colmi all’inverosimile di citazioni e
riscritture, manoscritti riempiti sul recto e sul verso di prove e riprove, poi
cassate, o di lunghe liste di parole preparate come «serbatoio da cui
prelevare i termini nel corso della scrittura» 25. E si vedano la stratificazione
delle due fasi redazionali di Menzogna e sortilegio, e le redazioni molteplici
di Aracoeli. Paolo Monelli ha raccolto nel ’62 questa confessione della
Morante: «scrivo sempre a mano, e procedo molto lentamente, e solo
quando il periodo mi è venuto ben chiuso e calettato e le parole sono quello
che devono essere e non altre suggerite dalla fretta, solo allora passo ad
altro periodo. E lo stesso faccio con i capitoli» 26. Altri casi interessanti di
riscritture e incessanti variazioni sono attestati in Giorgio Bassani (ce li
ricorda Paola Italia: «ha sempre dichiarato – a fronte di una prosa nitida e
tersa […] – una grande difficoltà di fronte alla pagina bianca») 27.
Confessava: «Ho scritto “Il giardino” poco alla volta, con estrema difficoltà,
un po’ come si scrivono le poesie, riga dopo riga». E si pensi al “quaderno”
preparatorio di Umberto Eco per Il nome della rosa (lo ha studiato
recentemente Matteo Motolese), romanzo che sceglie sí uno “stile
semplice” ma entro un “intreccio” complicato e minuzioso come un insieme
di pezzi di orologeria, romanzo in cui il massimo di semplicità della
scrittura si accompagna al massimo della manifattura, prevista e studiata a
tavolino. Nelle opere d’arte, ciò che sembra un risultato finito (sia esso un
quadro, una composizione musicale, sia una pagina di prosa o una poesia)
in realtà viene sempre anticipato da procedimenti che precedono quel
risultato, preannunciato da «sudate carte». Capita ad ogni artista, anche al
pittore, allo scultore: muovono la storia dell’opera loro da prime idee,
schizzi e bozzetti anteriori alla scultura, al quadro finale (penso soltanto al
mirabile Taccuino italiano di Van Dyck), iniziano da studi minuziosi che
accompagnano lo sviluppo di un’idea, di un’opera che cresce man mano:
l’opera non è quell’oggetto immobile da contemplare ma si agita, procede,
cresce liquida e mossa, lungo tappe temporali, stasi apparenti, stazioni
provvisorie, che continuano nel loro farsi… Poi si arresta. Hemingway ha
dichiarato: «Di Addio alle armi ho riscritto la fine, intendo l’ultima pagina,
trentanove volte, prima di trovare la soluzione che mi soddisfacesse» 28. Si
pensi alle stesure preliminari della Recherche, alle innumerevoli versioni
delle poesie di Auden. Particolarmente chi scrive versi, lavora ancor piú di
cesello, perché si adopera, provando e riprovando, a “orchestrare”, a
costruire la “partitura”, a stringere materialmente alleanze delle parole con
le circostanti per armonizzare il mosaico. Il mestiere di scrivere non dà
frutti perché si ha abbondanza di sentimenti, dolori o felicità personali da
mettere in carta, o perché l’autore sa, semplicemente, raccontare storie del
mondo circostante. Né bastano i buoni sentimenti o l’ispirazione. Con
(l’inesistente) “ispirazione” e con i buoni sentimenti non si fa letteratura.
Né possiamo dire che la sofferenza sia la radice del processo creativo, né
che la malinconia, la tristezza, l’infelicità siano le fonti dell’impulso
creativo 29. Tantomeno che lo scrittore sia il disincantato artista che si
rifugia a contemplare il cielo o l’infinito seduto sulla sponda del mare o
davanti a un ermo colle, o al fresco sotto un albero lambito dallo zefiro
vivificante di primavera perché questo gli insuffli dolcezze di versi. Si è
impossessato di un mestiere maturandolo sulle prove di quanto altri già
hanno composto, sui capolavori già compiuti, fosse pur anche per
parodiarli. E legge, ha letto, per poi operare in proprio, ripetere e magari
emulare. Per il prosatore in particolare, al di là degli impulsi formali,
leggere molto significa far passare entro di sé il maggior numero possibile
di storie, e trarne spunti. Il narratore è aiutato enormemente a diversificare i
punti di vista, a non limitarsi a guardare le storie soltanto dal proprio angolo
di visuale. Leggere dà una mano non solo a moltiplicare le storie, ma
soprattutto ad assumere una maggiore flessibilità di fronte alla complessa
varietà del mondo 30.
Dicevo che uno scrittore, quando legge, pensa anche alla sequenza delle
pagine a venire che scriverà in proprio. Nelle età antiche questo riprendere e
riproporre, quasi entrando in gara con gli altri autori, ha guidato l’idea
stessa dello scrivere. Pensiamo al gioco di allusioni e riadattamenti omerici
da parte di Virgilio, anche negli intarsi minimi, nelle citazioni, nei richiami
evidenti tramite, spesso, una sola parola 31. Virgilio voleva con l’Eneide
rifare Omero, che era per lui il modello-esemplare, il modello-codice,
«l’istituto epico tout court» da riprodurre in singoli loci ma soprattutto da
assimilare nelle regole e nelle codificazioni 32. E cosí di secolo in secolo, di
classico in classico, di canone in canone. Petrarca suggeriva a chi scrive di
riproporre con proprie parole un concetto appartenuto ad altri, purché «non
sia di questo o di quello ma nostro soltanto» (Familiari I 8, 5). Suggeriva di
avvalersi del consiglio dato da Seneca (Epistole a Lucilio 84), di scrivere al
modo delle api quando fanno il miele, fondendo gli assaggi diversi dei vari
fiori in una sola nuova dolcezza, diversa e migliore. Un “attraversamento”
personale, non un semplice “ritorno” al passato.

Ma ben altri sono, ancora, i motivi per cui si scrive: uno importante
riguarda il desiderio di vivere una vita “allontanante”, di lasciarsi alle spalle
un mondo tetro, ed evadere in un mondo o piú vasto, piú vario e piú ricco o
piú intimo. L’“allontanamento” può salvare dal sentirsi schiacciati dal
presente e dalle incombenze uggiose del vivere. Lo scrittore è attratto dallo
“spazio” a disposizione, dalla pagina non solo perché può depositarvi i
castelli della propria fantasia e delle proprie invenzioni, ma soprattutto le
proprie inquietudini, deporvi confessioni che a voce non saprebbe
formulare compiutamente. Uno dei piú grandi nostri poeti del Novecento,
Vittorio Sereni, testimonia come lo scrivere non ebbe per lui altro
significato se non rispondere a un «bisogno vitale» (per «fare i conti in
questo modo con alcuni oggetti e figure in cui ci imbattiamo, in alcune
vicende che attraversiamo o che ci attraversano» 33. E ciò sin dagli anni
giovanili: «Non sentivamo su di noi nessuna cupola metafisica, nessun
cielo, nessun assoluto, non sentivamo la letteratura come un valore, in altri
termini; la sentivamo piuttosto come una energia o una tensione, in un
rapporto particolare con la nostra esistenza» 34. E in una lettera del ’61:
«Non ho una cosa da affermare in assoluto, una mia “verità” da trasmettere.
Ho dei conti da saldare con l’esperienza») 35; rispondere, dicevo, a un
bisogno psicologico («ci sono determinati fatti, magari non tanti, che non
danno quiete finché non trovano […] la loro sistemazione») 36.

La sfida per arrivare a esprimere (in parte) ciò che si vorrebbe dire, deve
come sempre fare i conti con la lingua. Il che per l’autentico scrittore in
definitiva risulta un esercizio di libertà dalle forme consunte. Egli ha a
disposizione le parole che sono state tanto adoperate. Ad esse deve
restituire la loro energia. Scritte e ripetute nel tempo, hanno «contratto tanti
matrimoni famosi» 37, perciò risulta difficile usarle senza che s’intrufoli
questo o quell’aggettivo, sostantivo, avverbio indesiderato. Le parole hanno
contratto talmente tante abitudini nelle bocche e nelle pagine degli uomini,
al punto che ci vuole un deciso coraggio, un ardire (come lo chiamava
Leopardi) che aiuti a scansare il prevedibile. Occorre ad ogni istante il
coraggio e la prontezza di raschiare la muffa di dosso alle parole per evitare
il grigiore, la sciatta routine, l’appiattimento, la banalità e la neutralità
espressiva. Le parole sono un mezzo completamente in mano allo scrittore:
parole vecchie da reinventare, parole nuove da forgiare, incastri e
congiunzioni di segmenti narrativi o ritmici, montaggi e sequenze inattese.
Sembrerebbe il miglior mestiere del mondo («lo scrittore sente
profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa
capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di
vivere») 38. Invece è conflitto, tormento, continua incertezza,
insoddisfazione. Allo scrittore suona spesso fastidioso e intollerabile lo stile
«approssimato, casuale, sbadato» di certi passaggi suoi: di qui un dedicare
penosamente ore e giornate a correggere ogni frase tante volte quanto è
necessario per arrivare a «eliminare le ragioni d’insoddisfazione» 39.

Aggiungo ancora un motivo, fra i tanti che attivano lo scrivere. Penso


all’importante schiera di scrittori per i quali quello che fanno sembra loro
che debba servire anche a qualcun altro: parlano degli altri parlando di sé.
Ne era convinto Umberto Saba (lo ha scritto Debenedetti) che intendeva nei
suoi versi adempiere a «il piú vero, fraterno, primitivo compito della poesia:
di recare agli uomini un diretto messaggio dell’umano» 40. Saba riusciva
difatti a dare vibrazione alla parola semplice, sentimentale, quasi banale,
alle «trite parole che non uno | osava»; a comunicare attraverso una voce
domestica, familiare, fraterna, che era insieme arte ma anche vita, cuore,
pianto (al modo spesso retoricamente pieno e diretto della realtà-finzione
della poesia dell’Ottocento), dilatando il suo verso a un interlocutore
globale, a tutto un pubblico sentito come fratello, sodale («La fede avere | di
tutti, dire | parole, fare | cose che poi ciascuno intende»: Cuor morituro, Il
borgo; e la chiusa del Canto dell’amore: «Se questa folla qui domenicale |
mi fosse estranea, mi fosse remota, | un cimbalo sarei che senza grazia |
risuona, un’eco vana che si perde»), assecondando per l’appunto il proprio
desiderio di essere inserito tra gli uomini come poeta che sia «uomo fra gli
umani» grazie al canto che corre «per l’ampia Terra», poeta che vuole
parlare per tutti, che capisce e insieme soffre per loro. In una disposizione
del genere si poneva anche Giorgio Caproni, parlando di sé e dei poeti che
cercando la loro verità hanno avuto la presunzione di dire insieme quella
degli altri 41. Scrivere cose che riguardino «in modo personale il lettore» 42.

Ma alla maggior parte degli scrittori credo importi soprattutto parlare per
sé. Ciò è stato avversato da chi pensava che l’arte doveva soltanto vivere
per e attraverso gli altri, essere un atto di comunicazione e non un esame di
coscienza, non una sorta di occupazione metafisica e ispirazione, come se
fosse una preghiera, un’invocazione soggettiva e solitaria… 43. Ci voleva un
“impegno” sul reale, si doveva agire su di esso. In verità una larga parte
degli scrittori ha ed ha avuto un atteggiamento opposto. Ha cercato
quell’allontanamento “salvifico”, cui prima accennavo, un riparo dalla vita,
una difesa, la creazione di una propria zona d’ombra (o di luce) personale.
Ci si “allontana” andando là dove altri non ci sono, in un territorio tutto
proprio, lungo una “via del rifugio”, che del resto vale anche per il lettore,
la cui esperienza egli sente limitata alla propria esistenza di uomo sulla terra
e quindi ama da essa evadere. Nella vita, notava Tabucchi, «si può avere un
grande amore, è già una fortuna, due grandi amori è un privilegio che tocca
a pochi, ma l’esperienza umana è estremamente limitata»; tramite la
letteratura invece, fonte di conoscenza, «tu entri, attraverso varie porte, in
questo sentimento complesso che non potresti mai esperire in forma diretta,
perché è chiaro che non possiamo essere simultaneamente, nella nostra
breve vita, Anna Karenina e, poniamo, Tristano e Isotta o Emma Bovary o
Giulietta e Romeo» 44. Proust diceva anche che «ogni lettore, quando legge,
è lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo
scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il
libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte
del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità» 45.
Allontanamento vs. impegno, come ho appena osservato: antico
dilemma. Ci sono scrittori in cui la spinta piú forte «è quella di esprimere
inattualità e lontananza» 46, per un senso di sfiducia, di inutilità
dell’impegno. Quando si prova disgusto, rabbia, impotenza di fronte a una
situazione, allora ci si perde d’animo e si finisce per dedicarsi alla
costruzione di mondi immaginari. Lo scrittore è spinto a scrivere dal
dissidio con la vita reale, con il mondo quale esso è 47. Al contrario, ci sono
scrittori o momenti della loro vita in cui prevale l’intenzione di agire sulla
realtà, in cui prevale la centralità del “collettivo” rispetto al “personale”.
Non sembra loro sufficiente scrivere soltanto per il piacere, il gusto, la
passione di esprimersi. Si scrive invece per cambiare il mondo 48. E
sull’immergersi nel corso della Storia, sulla funzione sociale dello scrittore
ecc., sono stati versati fiumi di inchiostro. La critica marxista teorizzò
largamente la necessità di tale impegno. Secondo questa prospettiva, in una
collettività che si criticava e giudicava incessantemente ma per trasformarsi
e progredire, la letteratura doveva diventare una condizione e un aspetto
decisivo per la riflessione e l’azione. «Lo scrittore “impegnato” sa che la
parola è azione: sa che svelare è cambiare»; pur preservando la sua libertà,
deve avere «una determinata funzione sociale»; «se mi si offre questo
mondo con le sue ingiustizie, non è perché io le contempli con freddezza,
ma perché le animi della mia indignazione» 49. Furono gli anni Cinquanta
del secolo scorso a segnare l’epoca dell’intenso dibattito sulla letteratura
intesa come azione politica per cambiare la società di un Occidente
dominato da un liberalismo che pareva «spontaneità informe, vitalità
amorale, egoismo casual, mero processo di bisogni che prescinde da ogni
criterio etico» 50, mentre a contare davvero dovevano essere i processi
generali del mondo e della società, non già il personale e soggettivo. Gli
stessi personaggi di un romanzo dovevano rappresentare un impegno
sociale, la loro azione suggerire un messaggio politico e sociologico.
Sennonché, pur tra molti conflitti, incertezze e crisi, lo scrittore autentico ne
sofferse. La sua libertà non poteva che giostrare fra la semplice
testimonianza o l’acuto distacco. Natalia Ginzburg, in una conversazione a
piú voci sul romanzo, finí col sostenere che il «disimpegno […] era
assolutamente necessario, indispensabile per un romanziere», perché egli
«non doveva porsi il dovere di cercare di portare dei miglioramenti alla
società, ma invece semplicemente scrivere meglio possibile i suoi romanzi
[…] Io penso che i romanzieri raccontano la società, la vita come è, e la
amano come è« 51. L’”impegno” a tutti i costi non è il compito precipuo, il
cammino obbligato dello scrittore, della scrittura e della letteratura. La
letteratura è qualcosa di diverso. Nulla osta che l’attività dello scrivere
conduca al distacco piú che alla cooperazione con il presente. La letteratura
difatti ha a piú riprese rappresentato un atto di ostilità nei confronti della
Storia: o meglio, un tentativo di evasione dalla condizione storica, quando
ha per esempio raffigurato un mondo utopico, alternativo, un mondo alla
rovescia, una liberazione dal malessere della società e della civiltà. Ha
finito spesso con lo sfociare nello scontro con i potenti e la società coeva.

Del resto, quando mai la vita dei pensatori e scrittori è stata priva di
pericoli? 52. Socrate dovette bere la cicuta, Protagora vide i suoi libri
bruciare ad Atene, Democrito, secondo la leggenda, si cavò gli occhi come
Edipo per poter pensare, Platone rischiò di essere assassinato, Aristotele si
rifugiò nella Calcide accusato di empietà, Pietro Abelardo patí la
castrazione per le sue lettere d’amore a Eloisa (ancora nel 1930 un tribunale
degli Stati Uniti vietò la circolazione di quelle lettere), Giordano Bruno fu
arso vivo per la libertà del suo pensiero filosofico-religioso, Galileo
processato e condannato dal Sant’Uffizio per le sue concezioni
astronomiche. Secoli prima la condanna aveva raggiunto Cecco d’Ascoli,
tutte le copie che si riuscirono a scovare dell’Acerba furono bruciate e
l’autore nel settembre del 1327 arso vivo a Firenze, tra Porta a Pinti e Porta
alla Croce. Pregiudizi e repressioni censorie hanno in Italia segnato l’età
controriformistica: addirittura alcune scuole di grammatica furono
considerate scuole di eresia, tant’è vero che i libri di Erasmo, l’autore degli
Adagia e dei Colloquia, sono bruciati a Milano insieme a quelli di Lutero,
nel gennaio 1543 53.
Lo scrivere, come anche il leggere, è stato insidia per i potenti, in quanto
affermazione di libertà di pensiero. I proprietari di schiavi temevano che i
neri scoprissero, nei libri, idee rivoluzionarie che avrebbero minacciato il
loro potere, i proprietari di piantagioni impiccavano gli schiavi colpevoli di
aver tentato di insegnare agli altri a leggere, i proprietari delle haciendas
messicane accoglievano i primi maestri a coltellate, rispedendoli nella
capitale dopo averli sfregiati in viso 54, nel 1981 in Cile venne proibito il
Don Chisciotte perché conteneva un’apologia della libertà individuale e un
attacco contro il potere costituito (nelle colonie d’America l’Inquisizione
spagnola ha sempre diffidato delle opere di finzione, proibendole per secoli
perché potevano tradursi in atteggiamenti di ribellione nei confronti delle
istituzioni e delle consuetudini) 55, in Afganistan il mullah Omar, capo
dell’Emirato afgano dal 1996 al 2001, ha ordinato il rogo per i
cinquantamila libri della biblioteca del centro culturale Hakim-Nasser-
Khosrow di Pol-i Khomri. Come una grande metafora del pericolo insito
nella letteratura, nel Libro nero di Orhan Pamuk si racconta di un principe
che, dopo aver trascorso anni e anni a leggere, viene a un certo punto colto
dal terrore di non essere piú padrone di se stesso («un sovrano, che
determina il corso di milioni di vite, ha il diritto di lasciar vagare nella
propria mente frasi altrui?»), e allora passa anni a bruciare tutti i libri che ha
amato e che lo hanno influenzato, quasi gli impedissero di essere se stesso.
Tutte le dittature – fascismo comunismo nazismo integralismi islamici,
dispotismi latinoamericani – hanno odiato la letteratura, e l’hanno
controllata perlomeno con la censura. Tornando a rovinosi accadimenti
recenti, ricordiamo il bombardamento (1993) dei serbi bosniaci della
biblioteca di Sarajevo. O il saccheggio del 13 aprile 2003 della biblioteca di
Bagdad, i roghi che distruggono i libri e l’Archivio nazionale dell’Iraq:
vanno perduti dieci milioni di documenti storici ottomani, gli interi archivi
reali. L’identità culturale dell’Iraq è cancellata. Ci ricorda Fernando Bàez
che non si aveva memoria di un simile saccheggio dai tempi dei mongoli,
da quando nel 1258 i cavalieri di un discendente di Gengis Khan erano
entrati a Bagdad e avevano gettato i libri nel Tigri, al punto che il fiume
diventò nero per l’inchiostro che si andava sciogliendo nell’acqua. Tragiche
erano state le perdite dei libri in conseguenza della caduta di Costantinopoli
del 1453 per mano dei turchi, innumerevoli manoscritti andarono distrutti.
Nel secolo successivo, nelle Americhe, il primo vescovo di Città del
Messico, Juan de Zumárraga, nominato dalla regina Isabella «protettore
degli indios», nel 1527 fa bruciare migliaia di manoscritti indigeni perché
contrari alla nuova fede 56. Cinque secoli dopo, la storia («magistra | di
niente») si ripete: in Iraq, a Mosul, quando nel giugno del 2015 l’Isis
conquista la città, migliaia di volumi di biblioteche pubbliche e private sono
bruciati perché «incitano all’infedeltà e invocano la disobbedienza a Dio»,
il proprietario della piú antica libreria della città è arrestato perché
«vendeva libri cristiani», gli jihadisti saccheggiano la biblioteca
universitaria e danno fuoco ai libri, nella piazza del campus, di fronte agli
studenti. E chi ha avuto la ventura di vedere prima della polverizzazione
d’ogni cosa quel che era la Siria, Aleppo, o Damasco («goccia di miele che
sembra scorrere nella vallata, capitale di uno splendore naturale
incomparabile, veramente regina di un mondo che poco ha perduto
dell’antica maestà del tempo dei grandi califfi») 57, è invaso da una rabbia
infinita per la brutalità insensata dell’uomo distruttore, è colto dalla
«tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute»,
come scrive Primo Levi in Lilít. Ma la storia è sempre cresciuta su
carneficine, morti, roghi e rovine. Nulla di nuovo sotto il sole: «Shih Huang
Ti, l’imperatore cinese incerto se distruggere o costruire, si divise
equamente fra le due contrastanti passioni edificando la grande muraglia e
bruciando tutti i libri» 58. Borges diceva che il vero mestiere dei monarchi è
stato costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. Per ordine del califfo
Omar gli arabi nel 642 distruggono col fuoco la grande biblioteca di
Alessandria, che si dice possedesse mezzo milione di rotoli (Manguel ci
ricorda il suo professore di latino che soleva dire: «Dobbiamo rallegrarci di
non sapere che cosa fossero i grandi libri che andarono distrutti ad
Alessandria, perché se lo sapessimo, non ci sarebbe consolazione
possibile») 59. Anche sulle nostre piazze sono avvenuti roghi di libri:
manoscritti del Decameron bruciati dai savonaroliani, l’Hermaphroditus del
Panormita nel 1431 bruciato a Bologna, Ferrara e Milano, e per conflitti tra
Siena e Firenze il Vocabolario cateriniano del Gigli mandato al rogo. Ma
bruciare libri è eterno veleno. In anni non lontani, durante il nazismo,
furono dati alle fiamme i libri ritenuti immorali o «non germanici»:
tragicamente celebri i Bücherverbrennungen del 1933. Nel 1914 i tedeschi
avevano già bruciato la biblioteca di Lovanio. «Chi uccide un uomo uccide
una creatura ragionevole, chi distrugge un buon libro uccide la ragione
stessa», annotava il narratore britannico James Hilton.
Sulla follia distruttiva però la volontà di preservare, di amare
strenuamente la parola, ha nel corso dei tempi sempre vinto. L’amore per i
testi piú venerati, per libri e manoscritti, ha costituito il fondamento della
grandezza della cultura dell’Occidente. Penso a Boccaccio che ricopia
almeno quattro volte la Vita nuova e tre volte il venerato testo della
Commedia. Penso alla grande amicizia tra Boccaccio e Petrarca,
testimoniata, anzi impressa nei manoscritti: ne è rimasta traccia visibile su
alcuni codici, compresa un’Odissea in greco con traduzione interlineare
latina, «in cui si trovano tracce di lettura sia dell’uno sia dell’altro», e penso
agli eleganti disegni di Boccaccio tracciati nei manoscritti appartenuti a
Petrarca ed eseguiti da Boccaccio nei periodi in cui era ospite dell’amico 60:
tracce perenni di amicizia, fede comune nelle lettere affidata a testi venerati.
Petrarca scriveva a Giovanni Anchiseo (Familiari III 18) della sua
insaziabile brama di libri:

Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri. Probabilmente ne


posseggo piú del necessario ma con i libri succede come con le altre cose: il riuscire ad
avere ciò che si cerca stimola ulteriormente il desiderio. Nei libri c’è anzi un fascino
particolare. L’oro, l’argento, le pietre preziose, le vesti di porpora, i palazzi di marmo, i
campi ben coltivati, i dipinti, i palafreni con splendidi finimenti e tutte le altre cose di
questo genere danno un piacere muto e superficiale, mentre i libri ci offrono un
godimento molto profondo: ci parlano, ci danno consigli e, vorrei dire, vivono insieme a
noi con una loro viva e penetrante familiarità. A chi legge non offrono soltanto se stessi
ma suggeriscono anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio.

Il mondo sarebbe certamente migliore se una parte non esigua


dell’umanità frequentasse di piú libri e biblioteche, le antiche e le moderne
(ne sono state costruite di splendide in questi ultimi decenni nel mondo).
Con infinita reverenza sfoglio ora le oltre cinquecento pagine del volume
fotografico Temples of Knowledge, dell’editore Taschen di Colonia,
dedicato alle piú belle biblioteche del mondo. E che cosa c’è di piú
confortante del pensare alla cosiddetta Riserva della Vaticana («non c’è
forse luogo al mondo che riunisca, in modo cosí concentrato, testimonianze
tanto preziose per la cultura scritta» 61, a cominciare dal celebre manoscritto
originale del Canzoniere di Petrarca). Le biblioteche piú illustri del mondo,
luoghi della memoria scritta, ci fanno anche pensare alla cura posta non
solo nei libri ma anche nei lettori che frequentavano le loro sale. Racconta
Giuseppe Antonio Sassi, “Prefetto” della biblioteca Ambrosiana di Milano
dal 1713 al 1751: «Tre uomini assistono continuamente a servire il pubblico
nel tempo che resta aperta la biblioteca, portando e riportando i libri a suo
luogo»; a chiunque viene per studiare, la biblioteca somministra gratis
«carta, piume, arena e inchiostro», e «perché non patiscano freddo in tempo
d’inverno i studenti con l’appoggiare i piedi sul nudo terreno» sono forniti
di bracieri di rame e soppedanei.

Biblioteche, luoghi del silenzio, dello studio, che conservano tutto quello
che l’uomo ha pensato ed elaborato nei secoli. Nelle biblioteche vagano le
ombre del passato, come quelle mirabilmente descritte da Maria Corti in
Ombre dal fondo, il Fondo Manoscritti di Pavia che nella descrizione di
Maria cessa di essere archivio, deposito di oggetti morti, ma è un vivo
universo in miniatura, il mondo delle varianti e del desiderio, uno «specchio
del mondo, dove quasi niente di quanto ha inizio giunge del tutto a
compimento», cimitero delle cose scartate, perdute, cancellate,
irrecuperabili, embrioni, possibilità, creature abortite, abbandonate ai
margini del niente, fluttuanti tra il possibile e l’improbabile, testi pervasi da
una sottesa, struggente malinconia per ciò che sarebbe potuto essere e non è
stato, vitalità dei desideri e dei pentimenti, grovigli dell’incompiuto.
Manoscritti di prove e di varianti che posano silenziosi accanto ai libri nella
loro versione definitiva.
La biblioteca come il luogo del silenzio. La parola di un manoscritto, di
un libro a stampa, è silenziosa. Ma rovescia le montagne con la sua potenza.
Il libro non fa spettacolo, non fa rumore, stabilisce un rapporto singolare
con il lettore, un tipo di colloquio sommesso che non ha analogie con
nessun altro. Una sorta di complicità. Con il libro il lettore ha un colloquio
riservato. Eppure i libri hanno prepotentemente rotto la crosta del rapporto
personale e si sono riversati sul mondo. Molti hanno rovesciato ogni punto
di vista precedente, cambiato il futuro: la Bibbia, il Corano, i Vangeli, il
Principe di Machiavelli, il Sidereus nuncius di Galileo, i Principia
mathematica di Newton, l’Origine della specie di Darwin, le pagine sulla
teoria della relatività di Einstein o sui buchi neri di Hawking. Saggi, prose o
poesie, hanno attraversato i tempi e ogni ostacolo. La letteratura piú
osteggiata, e tante pagine di filosofi e di scienziati, hanno finito col vincere,
sempre. Galileo e l’evidenza dell’esperimento hanno vinto. Campanella e la
forza dello scrivere pure: c’è un episodio della sua vita raccontato da
Francesco Giancotti, curatore delle poesie di Campanella 62, che mi ha
sempre colpito: l’odissea di un pacchetto di scritti che viaggiano nella notte
seguendo i contorni del torrione del Castellano, del Castel Nuovo di Napoli,
per raggiungere la mano che si protende fuori dall’apertura che dà aria a
una cella: contenevano soltanto parole, poesie di uno sfortunato prigioniero,
Campanella, che porgeva versi ai compagni «calandoli con uno filacciolo
dalla finestra del torrione». Erano soltanto parole composte «contro il
bestial sonno» dei tempi, scritte dal recluso durante i trent’anni di carcere
scontati fingendosi pazzo per sfuggire alla pena capitale. Succede che nel
1613 una scelta di quelle poesie è consegnata a un visitatore, il letterato
tedesco Tobia Adami. Grazie a quell’incontro una parte del canzoniere sarà
salvo, uscirà in Germania una Scelta d’alcune poesie filosofiche, 1622, sotto
il nome di Settimontano Squilla. Una copia non rilegata rientra poi nel
carcere da cui era fuggita. Campanella la piega in quattro per meglio
nasconderla e corregge di sua mano gli errori di stampa (quest’esemplare è
conservato nella biblioteca napoletana dei Padri Girolamini) 63.
Enorme è la forza dei libri. Soprattutto quando hanno rappresentato un
atto di ostilità nei confronti del potere, o della Storia, del mondo cosí
com’è. Anche i piú raffinati stilisti si sono profondamente impegnati, aperti
ai problemi della società. Penso a Gadda, che non è affatto l’edonista
compiaciuto e decorativo, ironico e risentito, ma colui che con Eros e
Priapo per esempio fa coincidere la scrittura caotica con l’esecrazione del
fascismo e della grottesca figura di Mussolini, scrittore che capta con la sua
prosa «la complessità sociologica del reale, dalla borghesia milanese
dell’Adalgisa al sottoproletariato romano del Pasticciaccio» 64,
assecondando l’«irosa indagine degli aspetti abnormi, assurdi, crudeli» 65
della società che lo circonda, l’orrore del mondo. Anche la poesia ha saputo
a tratti diventare comportamento, forma di resistenza, coscienza etica in un
determinato momento storico. Tra i poeti del Novecento, pensiamo
all’impegno e alla testimonianza di Pablo Neruda, o di Blas de Otero (una
delle voci rilevanti della poesia spagnola degli anni Cinquanta, esule a
Parigi durante il franchismo: si leggano almeno Pido la paz y la palabra,
1955, En castellano, 1959, Que trata de España, 1964), per i quali il testo
letterario diventa, in forma di canto, impegno morale, opposizione ai tiranni
e alla barbarie. Siamo in anni di speranze nel futuro, quando lo scrittore
componeva addolorato, indignato ma fiducioso, i propri versi con in mente i
presupposti culturali e morali per la costruzione di una nuova società. Tra
gli italiani, penso al desiderio (inappagato) di una dimensione etica della
propria poesia in Giovanni Giudici, al desiderio di raggiungere una «grazia
di sillabe» capace di comunicare a una collettività («Ma perché non una
grazia di sillabe | inseguire che voli sulle labbra di tutti | rida ai cuori col
canto li innamori») che è insieme un’aspirazione al “grande stile” e al
sublime («da sempre amato») che lo distanzi dalla sua «lingua triste» 66. Ma
penso in particolare a Franco Fortini e al suo furore etico-politico, a quel
suo voler lanciare ponti tra le forze sociali e le forze poetiche 67. Penso a
Elio Vittorini e alla sua militanza politica totalmente coinvolta
nell’elaborazione della propria scrittura letteraria. Anche Pavese (tra i meno
“impegnati”) in un noto articolo del 1945 apparso su «l’Unità» 68 sente a un
certo punto che il suo mestiere non può appartarsi ma deve assumersi una
responsabilità artistica e insieme politica:

Parlare. Le parole sono il nostro mestiere […] Le parole sono tenere cose, intrattabili
e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo
in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava
per servirsene. […] Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia senso
e speranza.

Quando vicende tragiche del presente incombono, il senso morale e


civile della letteratura prende a rivelarsi. Anche un poeta tra i piú restii
all’impegno, Montale, si aperse alla società piú che al personale negli scritti
apparsi intorno al ’25 su «Il Baretti», quando il fascismo si era appena
consolidato al potere e la fiducia nella letteratura poteva essere sentita come
necessità di tensione etica individuale, superamento di un trauma storico,
come «lavacro, dopo l’esplosione dell’irrazionale, del primitivo e
dell’odio» 69. Difatti i suoi versi s’imposero allora come un’ancora di
salvezza. Testimonia Calvino che ai tempi della sua gioventú le poesie degli
Ossi, cosí «chiuse, dure, difficili, senza alcun appiglio a una storia se non
individuale e interiore, erano il nostro punto di partenza: il suo universo
pietroso, secco, glaciale, negativo, senza illusioni, è stato per noi l’unica
terra solida in cui potevamo affondare le radici» 70.
Quanto all’oggi, basta che uno scrittore guardi ai suoi immediati
dintorni, apra lo sguardo al Mediterraneo e agli spazi che lo racchiudono,
sconvolti da guerre, sangue o annegati, da fanatismi e intolleranze non piú
tollerabili: vengono a mente, tra i tanti, Kamel Daoud in Algeria, Amos Oz
in Israele… Ho riletto il compianto Oz, narratore cosí partecipe e critico del
suo Stato, sempre schierato, nelle vicende del conflitto con palestinesi e
paesi vicini, fautore di fraterni incontri tra generazioni, tra popoli, tra
religioni; scrittore che interrogandosi sulla diversità, non l’ha mai
considerata come un fatto negativo né come un male. Ha in piú occasioni
mostrato che pensarla in modo differente è l’autentico sale di Israele, dove
per tradizione si è sempre per secoli e secoli discusso su tutto (il popolo
discuteva già con Mosè, e Mosè con Dio, Abramo ancora con Dio che a suo
parere non giudicava secondo giustizia, e il popolo litigava con i profeti, i
profeti col popolo, Giobbe protestava col cielo): si sono sempre accettate
altre fedi e altre opinioni, mentre ora un terrificante fanatismo religioso
inquina irrimediabilmente «lo stesso mare» (per dirla col titolo di uno dei
capolavori di Oz), il Mediterraneo, il mare sul quale, pur diversi, in tanti ci
affacciamo, un mare che non unisce piú ma divide.
Capitolo terzo
Il lavorio sul testo

Il mestiere di scrivere è un rapporto di tipo “conflittuale” con la propria


lingua. Dicevamo che l’autore quando scrive non si pone tanto il problema
della fortuna che avrà il suo testo. Piuttosto, è tormentato dalla percezione
che la pagina nel suo farsi è continuamente suscettibile di miglioramenti. Si
rende conto che alcune parti funzionano, altre no, che alcune sezioni o frasi
o versi sono da eliminare, altre da migliorare. Per impossessarsi del
“mestiere” ha dovuto faticare, ha scritto e riscritto, e imparato la rinunzia,
l’arte del levare. Ha provato sulla sua pelle che uno dei maggiori e piú
importanti strumenti dello scrittore è il cestino della carta straccia, come
osserva Richard Feynman in una delle sue memorabili battute.

La stesura di un testo segue naturalmente modalità diverse da scrittore a


scrittore. Tra i moderni, ci sono scrittori che compongono per accumulo,
aggiungendo man mano dettagli e particolari allo schema narrativo. Il
grande Carlo Emilio Gadda, come tutti i narratori, nella sua pagina cerca
«la linea retta che congiunge il punto A al punto B» ma poi «ci ficca in
mezzo tutto l’alfabeto, e non si sa mai dove vada a parare» 1. Lavora per
dilatazione, non per concentrazione. A Gadda la lingua della prosa corrente
pareva stenta, tetra, tutta uguale. Perciò costruisce testi distanti miglia dalla
medietà scolorita, ama il vivente «polipaio» comunicativo che contenga «il
troppo e il vano», ricchezza e varietà lessicale, convivenza di elementi
linguistici disparati, dal dialetto al colto enfatico e sublime, dal gergale e
tecnico al dotto e antico. Gadda si colloca nell’eletto polo degli
«intransitivi» 2, che comprende (con tutte le differenze del caso) quei
prosatori del Novecento che hanno cercato una compresenza di codici e
linguaggi diversi, di tessere verbali di varia origine e provenienza, montato
materiali eterogenei, esposto ibridazioni, neoconiazioni, intersezioni e
coesistenza di diversi repertori lessicali (Musil, Céline, Joyce ecc.; e anche
qualche scapigliato nostrano, come Faldella, che in A Vienna, gita con il
lapis, 1874, ci forniva la ricetta del suo stile: «Vocaboli del trecento, del
cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico
piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un
cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte,
la elettricità e il reobarbaro»). Ma di Gadda, dicevo: narrare non vuole dire
per lui usare in modo naturalistico il linguaggio. Attinge liberamente
all’arbitrario, aduna gli strati piú lontani dei registri, dal basso all’alto:

I doppioni li voglio tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio
anche i triploni, e i quadruploni […] Non esistono il troppo né il vano, per una lingua.
Può darsi che mania dell’ordine astringa taluni a potare la pianta di tutte le rame
capricciose della liberalità e del lusso. Dichiaro, per altro, di non appartenere ad alcuna
confraternita potativa. La mia penna è al servizio della mia anima, e non è fante o
domestica alla signora Cesira e al signor Zebedia, che vogliono suggerire dal loro
breviario «la lingua dell’uso», del loro uso di pittaunghie o di fabbricanti di bretelle. Le
genti le dimandano, con ogni ragione delle buone e intelligibili scritture: legittima cosa,
che il fratello attenda dal fratello una parola fraterna. Ma questa prepotenza del voler
canonizzare l’uso-Cesira scopre di troppo il desiderio, e quasi l’intento, della Cesira
medesima: il desiderio d’aver tutti inginocchiati al livello della sua zucca 3.

La prosa a festoni di Gadda si apre alle serie sinonimiche, alle


storpiature analogiche (una parola «in lingua nostra si può stirare, contrarre,
metastasare, secondo libidine, come la fusse una pasticca tra i denti»). Ama
il catalogo, l’enumerazione, conia voci nuove che evitino il trito e il triste
(«La falsità frusta e melensa d’alcuni ideogrammi irregolamentati mi
astringe a tentare d’inscriverne altri sulle pareti dello speco, piú adeguati a
conoscenza») 4.
Altra schiera di scrittori ha invece praticato l’«arte del levare» (come la
chiamò Contini a proposito delle correzioni ariostesche). La tormentosa arte
del levare la conoscono in primis i poeti, quelli che hanno mirato
all’«essenzialità» del dire. Viene a mente l’Alfieri delle Tragedie col suo
strenuo lavoro di variazione e di lima intorno alla «giacitura» delle parole
nel verso: la spezzatura dell’endecasillabo, la mutazione di pause e accenti,
le inversioni, le ricollocazioni delle parole in sequenze innaturali, alla
ricerca, sempre incontentabile, di una torsione che allontani dal «fiacco» e
dalla tiritera del cantabile tramite un continuo spostamento di tessere
verbali, e mutamento di costruzione. In un tempo povero, a detta
dell’Alfieri, di poesia tragica, occorrerà all’uopo crearsi un proprio,
originale verso tragico che non abbia i caratteri monotoni dei modelli
francesi col loro monotono alessandrino, ma raggiunga l’essenzialità di un
incedere epigrammatico, «maschio», lapidario: battute brevemente
concluse, endecasillabi seccamente spezzati, e l’infittirsi di esclamazioni
sceniche, molti incisi, continue trasposizioni. Incidere, scolpire, sono verbi
ricorrenti in Alfieri quando parla del tipo di verso tragico cui aspira. Basta
esaminare le varianti delle tragedie per vedere come lavorava, come
mutava, correggeva per raggiungere un ritmo «robusto», il piú possibile
lontano dal melodrammatico, dalla «lingua eunuca nel dialogo tragico»
(cosí scrive nella Vita). Ogni eccedenza patetica, ogni convenzionalità
elegiaca va bruciata, deve cadere il décor neoclassico e arcadico. Un
esempio solo dall’Antigone, seconda versificazione: «Creonte Scegliesti? |
Antigone Ho scelto. | Cr. Emon scegliesti? | A. Morte. | Cr. L’avrai: sol bada
allora che in alto penda | sul tuo capo la scure a non cangiarti, | che tardo, e
vano il pentimento allora | saria»; terza versificazione: «Cr. Scegliesti? | A.
Ho scelto. | Cr. Emon? | A. Morte. | Cr. L’avrai. – | Ma bada, allor che sul
tuo capo in alto | penda la scure, a non cangiarti: e tardo | fora il pentirti, e
vano», con la caratteristica disposizione chiastica dell’oggetto che Alfieri
pratica spesso per spezzare il flusso naturale della frase, come per esempio
in Virginia1, a. III, sc. 2, 19 sgg. «e libera fuor piangendo stassi. | Con la
squallida Madre; e il loro destino | e il tuo venir stanno aspettando
entrambe» > Virginia2, a. III, sc. 2, 24 sgg. «Ma in pianto stassi. | Con la
squallida Madre; il lor destino | stanno aspettando, e ’l venir tuo» (nella
versione definitiva tornerà a cambiare) 5. Se con un salto di secoli passo al
Novecento, tra i “riduttori” massimi si distingue l’Ungaretti del Porto
sepolto 6, le cui “riduzioni” sono agli atti: un’elaborazione che porta alla
concisione estrema. E si distingue per la progressiva ossificazione verbale e
anche grafica dei componimenti l’ultimo Caproni, il cui verso si staglia
arido e scalpellato, per via di rotture e pause che spengono l’esuberanza,
l’onda lunga della sintassi, il “tutto d’un fiato” d’un tempo. Caproni dopo il
Passaggio d’Enea aveva provato una «saturazione» per le «forme, troppo
ampie». Aveva sentito il «bisogno di tornare alla massima semplicità
possibile» 7. La «dilatazione o torsione della linea sintattica» sperimentata
dal “medio Caproni”, con le sue esposte figure di permutazione dell’ordine
verbale, le «figure di complicazione» dell’ordine delle parole (Viaggio di
Enea e Stanze della funicolare), quelle «figure di perturbazione» studiate
assai bene da Davide Colussi 8, l’accumulo di «tensione metrica» di cui
Caproni parla, prima si schiariscono nel Seme del piangere, infine si
frangono nello scarto ritmico che caratterizzerà le ultime raccolte, tramite la
“maniera” tecnica dell’inciampo, delle sospensioni, del vuoto, del silenzio.

La questione se sia meglio economia o abbondanza non è evidentemente


risolvibile, e ha poco senso porsela. Personalmente, sto dalla parte di
Camillo Sbarbaro, che nei Fuochi fatui 1940-49 diceva: «Piú facile scrivere
che cancellare; piú che in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in
ciò che riesce a tacere». Hanno ben conosciuto l’arte del ridurre e tenere a
bada la fluenza della vena i narratori migliori: hanno anche loro consumato
tempi lunghi ad asciugare, cassare il superfluo, potare le digressioni, ridurre
ogni “obesità”. Hanno affrontato percorsi di prove, pentimenti,
smagrimenti. Parlava per l’appunto di «smagrimento» Primo Levi:

Dopo la maturazione […] viene l’ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge
che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso: o almeno,
ripeto, cosí capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un
lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo
scritto è piú agile: si avvicina a quello che, piú o meno consapevolmente, è il mio
traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro 9.

Lo sbarazzarsi degli ingombri aiuta a raggiungere la leggerezza della


scrittura asciutta, che risiede nell’ebbrezza di «cercare e trovare, o creare, la
parola giusta, cioè commisurata, breve e forte», per descrivere le cose «col
massimo rigore e il minimo ingombro» 10. L’emozione dell’assetto
soddisfacente scaturisce dal piacere e dalla fatica dell’asciugare le prime
stesure per raggiungere il decisamente laconico. Pontiggia citava Addio alle
armi di Hemingway, l’episodio della morte dopo il parto della donna di cui
è innamorato il protagonista: «Entrai nella stanza e restai con Catherine
finché morí. Non riprese mai conoscenza e non impiegò molto tempo a
morire» 11. Murakami, nel recente Il mestiere dello scrittore, confessa di
aver tradotto il suo primo romanzo in inglese (lingua di cui possedeva una
riserva ridotta di vocaboli) per poi trasportarlo di nuovo in giapponese: una
via faticosa, scelta allo scopo di eliminare gli abbellimenti superflui o
troppo letterari, e lasciar cadere l’eccesso, ridurre le frasi all’osso 12. Anche
per Beppe Fenoglio stendere il primo Il partigiano Johnny in inglese prima
di volgerlo in italiano dipendeva dalla sfiducia o diffidenza («deep
distrust») per le ridondanze della propria lingua e la maggior fiducia riposta
in un inglese che gli pareva lingua piú assoluta rispetto a un piú fluente e
melodico italiano. Temeva derive e compromissioni con una tradizione
letteraria troppo fluida ed eloquente come la nostra. L’inglese gli sembrava
lingua piú sobria, essenziale, meno cantabile, piú scheggiata e percussiva 13.
Ma si tratti di smagrimenti oppure di rimpolpi, il pericolo maggiore per
uno scrittore è costituito sempre dalla banalità dello stereotipo, dal «vizio
conformistico» 14 e dalla prigione dentro una “maniera”: «cerco di rompere
le cadenze, gli echi in cui sento che le frasi che scrivo vanno a colare come
in stampi preesistenti» confessava Calvino 15; la soddisfazione maggiore sta,
– annotava la Morante, – nel «cercare quell’unica parola, e nessun’altra, che
rappresenta l’oggetto preciso della sua percezione, nella sua realtà. Appunto
quella parola è la verità, voluta dal romanziere» 16. In genere essa è quella
che sta fuori della consuetudine.

Parlavo dei rapporti di tipo conflittuale che uno scrittore ha con la


lingua. Si ha l’impressione che i secolari conflitti con la propria nel nostro
paese oggi si siano attenuati. Si sono allentati da quando l’italiano è
diventato “lingua di tutti”. Un traguardo importante (con tutte le oscillazioni
e le perdite) è stato infine raggiunto, e di conseguenza il rapporto del
narratore con la propria lingua è diventato nella maggioranza dei casi piú
sciolto e disinvolto: «è definitivamente finita la precedenza linguistica del
letterario nell’indicare le strade della norma alla collettività e la letteratura
stessa ha ampiamente rinunciato a una lingua sua propria ed esclusiva e si
arrangia come può con quella di tutti» 17. Il che, da un punto di vista
letterario, non possiamo definire un risultato di per sé vantaggioso o
svantaggioso. Sappiamo bene che non ha procurato svantaggio alcuno
(soltanto maggior fatica) il fatto che una “lingua di tutti” non fosse ancora a
disposizione di grandissimi prosatori non toscani come Manzoni o Verga. O
il fatto che Pavese o Fenoglio, insoddisfatti di un grigio standard, per
scrivere le loro pagine in prosa abbiano dovuto andare faticosamente in
cerca di una lingua, con strenua volontà di possesso.
Il caso piú illustre e clamoroso per l’ossessiva ricerca di una lingua per
la prosa narrativa che ancora mancava, è certamente quello di un Manzoni
che dedica quasi una vita a fare e rifare il proprio romanzo. Certo, grande
era ai suoi tempi la fatica di scrivere in un italiano medio accessibile ai piú.
Carlo Tenca riconoscerà (siamo nel 1851) che ai tempi suoi il letterato
italiano, quando scrive per il popolo, ha «l’aria di un damerino che indossi
un farsetto di fustagno e che lasci poi trasparire presso i polsi i manichini di
pizzo» 18. Manzoni voleva evitare quei pizzi, trovare un vestito piú
uniforme. Si era buttato a corpo morto su libri e dizionari per approfondire
la propria competenza, a suo dire lacunosa, della lingua toscana. Meglio
conosceva il milanese, o il francese, e non ne voleva essere dominato, come
confessa quando, riferendosi agli anni di ricerca linguistica tra il primo
abbozzo del romanzo e la sua revisione per la stampa della Ventisettana,
rievoca «i travagli» in cui s’era venuto a trovare

uno scrittore non toscano che, essendosi messo a comporre un lavoro mezzo storico e
mezzo fantastico, e col fermo proposito di comporlo, se gli riuscisse, in una lingua viva
e vera, gli s’affacciavano alla mente, senza cercarle, espressioni proprie, calzanti, fatte
apposta per i suoi concetti, ma erano del suo vernacolo, o d’una lingua straniera 19.

Inizia dunque il lungo viaggio verso un ignoto, postilla e sconcia per


studio un suo esemplare del Vocabolario della Crusca 20 al punto (diceva
proprio cosí l’ottantaquattrenne scrittore) «da non lasciarlo vedere» 21,
tant’era crivellato di note, aggiunte, sottolineature e appunti presi per
impossessarsi dei vocaboli e delle locuzioni a lui ignote. Accintosi a
scrivere un romanzo, si rende conto di avere tra le mani una lingua troppo
letteraria per comunicare a una nazione intera: dice di avere a disposizione
una «lingua morta» 22. Per superare la fase di quel primo prodotto
«composito» ed «europeizzante» 23 ch’era stato il Fermo e Lucia (si veda
l’importante testimonianza nella seconda Introduzione appunto al Fermo e
Lucia), Manzoni inizia il suo lungo cammino in cerca di quella lingua «viva
e vera» ma a lui pressoché ignota, adatta a scrivere finalmente il primo
romanzo nazionale in una lingua che in qualche modo appartenesse anche a
una società di parlanti. Comincia quel suo incontentabile fare e rifare, gli
spogli di vocabolari (la Crusca, il Cherubini) e di testi letterari del passato.
Una lunga vicenda che non si riduce certo a mera filologia ma ogni sua
tappa è storia maturata in un tessuto civile, perché muove sostanzialmente
verso il colloquio con una società, verso direi quasi il riconoscimento
fraterno che attendeva da parte dei piú. Ciò bene mostra il Manzoni
postillatore del Vocabolario della Crusca ogni volta che in lui trapela il
piacere «nel rinvenire che la forma familiare del proprio dialetto non è
isolata» ma trova riscontro nel fiorentino o eventualmente nel «fondo
comune» degli altri dialetti 24:

tra le locuzioni che mi venivano suggerite, mi toccavano il core […] quelle che si
trovavano conformi alle milanesi, credute generalmente e anche da me, per poca
cognizione dell’Uso fiorentino, pretti nostri idiotismi. Già nella prima composizione
avevo messe a profitto tutte quelle che conoscevo e che mi venivano in taglio; e, mentre
alle vernacole, o credute tali anche da me, dicevo: addietro; a quell’altre avevo fatta una
lietissima accoglienza, e servendomi d’una di esse, cioè, e milanese e fiorentina e,
credo, napoletana, e forse d’altri idiomi d’Italia, avevo detto: Viva la vostra faccia! E
ciò, non solo per un mio piccolo e privato motivo, che era quello di rendere un po’ piú
simile al vero il linguaggio de’ personaggi della cantafavola, ma anche, e molto piú,
perché tali maniere di dire erano manifestazioni di quella, tanto poco osservata, e tanto
preziosa parte d’unità di linguaggio, che già possediamo 25.

Soprattutto nel progetto “milanese-toscano” del romanzo, si era mostrato


felice di riconoscere quel fondo comune 26 (è quel sogno del resto che
percorre l’intera nostra storia della lingua, dal De vulgari dantesco agli
Appunti di lingua di Pavese). Mirava a cogliere la «sovrapponibilità
lessicale e semantica di vocaboli, costrutti, locuzioni del dialetto milanese
al toscano» 27 («quella mia idea di uniformità del nostro dialetto colla lingua
di qui», in una lettera da Firenze) 28. Era mutata in lui (insieme alle
discussioni maturate tra «Il Caffè» e «Il Conciliatore») la concezione dei
rapporti tra scrittore e società: la «questione della lingua» non si risolveva
piú in un problema teorico, ma nella rinnovata concezione della funzione
della letteratura e della lingua nella società: un problema retorico era
diventato un problema sociale e civile, che doveva trovare riscontro
nell’uso vero e vivo di un luogo vivo e vero. A tal fine si macerava e
lavorava strenuamente per tracciare la strada, quanto alla lingua, che dalla
gabbia dorata dei registri alti della nostra tradizione prosastica conducesse
alla vitalità e alla vivacità di un registro medio, inseguito come un desiderio
mai appagato (Manzoni non ha mai conosciuto pienamente la felicità per
l’opera conclusa). Scrive e corregge, torna indietro, ripropone, bombarda
l’amico Tommaso Grossi di richieste, chiede se la loro esclamazione
lombarda bonna anmò – l’è anmò fortuna, trovi riscontro nel toscano pur
beato (vedi la minuta della Ventisettana), se meglio sia manco male (accolto
nell’edizione a stampa della stessa), e che su questo gli faccia sapere la
soluzione «da qualche toscano di carne e d’ossa: i miei (lasso) son tutti di
carta e d’inchiostro» (opterà infine nel ’40 per meno male!) Nel giugno del
’25, nella fase di revisione del Fermo e Lucia, scriveva con affanno
all’«arcicarissimo» Luigi Rossari perché corra in tipografia e «in uno dei
fogli già corretti, e ricorretti» faccia un’ulteriore correzione: «a un luogo
dove dice: bianco come un panno curato, vorrei a questa ultima parola
sostituire lavato» (espressione che trovò posto per la verità soltanto nel
’40): «va, corri, vola da Ferrario, vedi se il foglio è ancora correggibile» (un
vero «tormento» per l’editore, scriveva Tommaseo, quel «dover disfare e
rifare le bozze per le correzioni sempre nuove, e tenere sospeso un foglio
per mesi finch’egli non lo riduca a suo modo». Manzoni, continua
Tommaseo, era ossessionato da un «pensiero unico, che a taluni che non lo
intendono par quasi una fissazione») 29. In effetti pochi scrittori hanno
limato e rilimato i propri testi come Manzoni, che anche sullo stampato e in
tipografia apportava cambiamenti dell’ultimo momento (cosí pure
Leopardi: nelle Operette «sono quasi trecento le varianti inserite dopo che
era iniziata la tiratura») 30.
Un’ossessione dunque per la lingua. In vista dell’edizione definitiva
Manzoni ricorre direttamente a fiorentini (in particolare al Cioni e al
Niccolini) per sapere se si dica rimestare, rimenare la polenta o invece
dimenare (da «vi tramestava […] una picciola polenta grigia» del ’27 passa
a «dimenava una piccola polenta bigia» nel ’40; e vedi poi le lettere a
Marianna Trivulzio Rinuccini, e le tante a Emilia Luti, che gli suggerisce,
per esempio, il passaggio da «in abito positivo e modesto» della
Ventisettana a «in abito semplice e dimesso» della Quarantana, oppure da
«scompartivano vestimenti» della Ventisettana a «distribuivano vesti» della
Quarantana, da «cadutole per cosí dire in grembo» della Ventisettana a
«piovutole, come si dice, dal cielo» della Quarantana, da «in abito di
corruccio» della Ventisettana ad «abbrunati», e da «fece una lunga
enumerazione di persone» della Ventisettana a «nominò una filastrocca di
persone» della Quarantana ecc. ecc. E sarebbero pagine e pagine, se si
dovesse «raccontar la storia per filo e per segno» 31. Ma il lavorio delle
varianti manzoniane è già stato largamente studiato, com’è noto, da critici e
filologi di primo piano, e continua tutt’ora: vedi il lavoro di Barbara Colli e
Giulia Raboni che, per cura della «Casa del Manzoni» di Milano, hanno da
ultimo pubblicato l’edizione critica della «Seconda minuta (1823-1827)»
degli Sposi promessi (le stesse studiose avevano già pubblicato nel 2006,
insieme con Paola Italia, la Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia).
Questa Seconda minuta costituisce la tappa di un percorso elaborativo
molto complicato che attraverso i testimoni (la Copia per la Censura, le
correzioni del Manzoni su questa copia, gli interventi sulle bozze) conduce
alla stampa (che ha inizio nel luglio del ’24) degli Sposi promessi (la
stampa Ferrario). Per la revisione delle bozze Manzoni aveva chiamato in
aiuto i piú stretti collaboratori di quegli anni: Tommaso Grossi (che viveva
addirittura nella casa di Manzoni, in via Morone, dove passa mesi di
faticosi lavori in corso, poiché egli allora stava anche attendendo ai
Lombardi alla prima crociata), il Torti, il Rossari, il Cattaneo. Tale
revisione Manzoni l’alterna alla prosecuzione della stesura del manoscritto,
per cui assistiamo a un complicato lavoro parallelo tra bozze e riscrittura
del romanzo, con continue aggiunte, rinunzie, rinumerazione dei fogli. Si
coglie, insieme al persistere delle oscillazioni, tutto il faticoso, ossessivo
lavorio di Manzoni che s’impegna per mesi al rifacimento del II tomo:
soltanto nel maggio del ’25 riesce a consegnarne copia al censore, a metà
dello stesso mese comincia la stampa di questa parte, ma intanto i tempi del
lavoro cambiano, per il tomo I era stata molto stretta l’intersezione tra
riscrittura, revisione della copia Censura e stampa, poi Manzoni per la
preparazione del II tomo non ce la fa piú a consegnare i fogli all’amanuense
via via che vengono riscritti, tant’è che nel momento in cui è arrivato alla
fine della stesura ha ancora in mano l’intero faldone della Seconda minuta,
e procede su questa alla rielaborazione con alla mano sempre i testi toscani
registrati sul Vocabolario della Crusca da lui spogliati puntigliosamente per
proseguire nella correzione delle pagine a cui lavora. Una fatica immane.
Ancor piú faticosa sarà la riscrittura del III tomo: Manzoni ora è molto
stanco, quando comincia a sottoporre la Prima minuta a una revisione, non
aveva in mente un lavorio cosí complicato, pensava di consegnare in tempi
brevi alla tipografia di Vincenzo Ferrario la sua revisione, viceversa
comincia a operare una sostanziale riscrittura, si serve di fogli nuovi,
rinuncia a introdurre modifiche sui fogli della Prima minuta, su quei fogli
lascia bianca la colonna di sinistra, riscrive ex novo dei capitoli, introduce
(e in tempi diversi) un mare di ritocchi, sposta gruppi di fogli; quando ha
riempito una facciata, e non c’è piú spazio, incolla sopra carte con i brani
riscritti, incolla cartigli di varia misura, riempiti talvolta sul recto e sul
verso. Insomma, una elaborazione creativa e linguistica infinita,
incontentabile, che lascia cogliere le due ottiche che guidano i movimenti e
il farsi del romanzo: l’ottica sincronica, che ci fa cogliere il sistema di
relazioni da cui ogni stadio del testo è organizzato, e l’ottica diacronica, dal
Fermo e Lucia alla Quarantana, che mostra chiaramente come lo scopo
fosse quello di raggiungere un’unità idiomatica piú che una sempre
maggiore “perfezione” stilistica, assecondando un movimento generale che
tende a raggiungere non una lingua bella e autorizzata dalle lettere ma una
lingua sostanzialmente unitaria, piú popolare, piú accettabile da una
comunità nazionale 32. Il sogno di Manzoni fu sempre quello di arrivare, da
una lingua inesistente specchio della mancanza di una società colta
nazionale, a una lingua esistente, di realizzare, attraverso Firenze «ciò che
foneticamente e morfologicamente, – come diceva Contini, – si possa
qualificare l’italiano generale» 33. L’idea centrale era proprio questa; un
pensiero che lo aveva sempre assillato, soprattutto se volgeva lo sguardo
alla Francia, cui sin da giovane guardava «con un piacere misto d’invidia»,
pensando al «popolo di Parigi» che «intende ed applaude alle commedie di
Molière» (lettera al Fauriel del 9 febbraio 1806) mentre noi non abbiamo
neanche un esempio di teatro scritto in lingua moderna e comune. Da noi
sono ancora troppo incombenti e immediati, dotati di forza spontanea anche
per uno scrittore, i dialetti. Ha provato sulla sua pelle (scrive nell’Appendice
al Fermo e Lucia) che

Quando l’uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il
dialetto di cui egli s’è servito nelle occasioni piú attive della vita, per l’espressione piú
immediata e spontanea dei suoi sentimenti, gli si affaccia da tutte le parti,
s’impadronisce delle sue idee, gli cola dalla penna e se egli non ha fatto uno studio
particolare della lingua, farà il fondo del suo scritto.
Difatti, lavorando sugli Sposi promessi, aveva cominciato a eliminare dal
testo i residui lombardismi privi di certificazione toscana, e li mantiene
quando ne conosce l’equivalente toscano.
E qui le ragioni linguistiche e le ragioni prettamente letterarie, stilistiche
si fondono. Non valgono da sole le ragioni stilistiche. Già diceva Contini
che non possiamo sostenere che il Fermo e Lucia sia un semplice cartone
del testo finale, che sul piano del valore e della resa espressiva, sia inferiore
ai Promessi sposi. Si tratta, soltanto, di due opere diverse. Manzoni insegue
nelle correzioni non “il meglio” del suo stile, ma una soluzione linguistica
“soddisfacente”, nel senso che gli pare rispondente a un nuovo punto di
vista. Lascia un “suo” stile per raggiungerne un altro. Ora gli interessa
l’italiano generale. I passaggi, le varianti del testo, non perseguono un
“valore” superiore al primo. Fermo e Lucia ha una sua specificità e una sua
ragion d’essere, non è un «precedente imperfetto» dei Promessi sposi 34. Se
Manzoni nel corso dell’elaborazione abbassa il tono e lo generalizza, lo fa
perché sta passando da sistema a sistema, non da uno peggiore a un altro
migliore. Abbiamo a fronte due strutture stilistiche diverse, dove assistiamo
a un passaggio da una forma piú letteraria, piú solenne, o piú espressiva a
una piú neutra, media. È l’opzione che permette a Manzoni di andare verso
un’«umiliazione» (l’espressione è ancora di Contini), verso una inedita
popolarità. Celebre il caso di lui soggetto nei Promessi sposi che corregge
un precedente egli; pensiamo alla ricerca dell’anacoluto, del tipo «Non
sapete che i soldati è il loro mestiere…» cap. XXIX , «un religioso che, senza
farvi torto, val piú un pelo della sua barba che tutta la vostra» cap. XVII ;
oppure ai pleonasmi messi in bocca a personaggi del popolo, o a Renzo, o a
don Abbondio, «è a me che mi fanno trottare» cap. XXIII , «volete rovinarvi
voi e rovinarmi me» cap. XXXIII . Opta per il colloquiale, per il registro
medio. Corregge un alza uno strido della Ventisettana con caccia un urlo
della Quarantana 35, allogarsi [nel suo angolo] > rimettersi [nel suo
cantuccio], lucignolo > stoppino, entrambe > tutte e due, d’ambo le parti >
di tutte e due le parti ecc. Lascia cadere gli elementi piú astratti, quelli che
indicano piuttosto una «pura nozione» (Contini) che un atto: tacere > star
zitto, ridersi > impiparsi; opta per ciò che ha un di piú di colore: con un
accento di rancore compresso > con una voce suo malgrado stizzosa.
Correggerà còltrice (che era del suo lessico poetico: «Sulla deserta còltrice |
accanto a lui posò») in materassa (ma in poesia quell’Iddio che atterra e
suscita, non poteva «posarsi su una materassa!», commentava Contini).
Eliminerà parallelamente il colorito regionale, i lombardismi: da baciocco o
martorello passa a sempliciotto, da brache a calzoni, da brancare ad
acchiappare, da capponaia a stia, da inzigare ad aizzare, da ferraio a
fabbro. Quando Renzo si precipita da don Abbondio dapprima lo fa «con la
lieta pressa di un uomo di vent’anni che debbe…»: poi l’autore corregge in
«con una lieta furia». Non si tratta insomma di un acquisto di toscanismo.
A Manzoni interessa di meno investire «toscanamente» il suo discorso; lo
investe piuttosto con «uno spostamento di tono» 36, per arrivare a un
linguaggio meno colorito, piú neutro, probabile. Si passa da un sistema ad
un altro sistema. La scoperta del fiorentinismo non è, in fondo, la mera
ricerca di una lingua “viva”. A Manzoni interessa indicare soluzioni piú
generali, «fuori dello stile individuale».
Non è sufficiente, né corretto dunque esaminare le sue varianti solo in
vista di una valore stilistico. Vanno collocate nella prospettiva di una storia
linguistica, nella prospettiva cioè di un’istituzione/soluzione
sociolinguistica. Difatti, della correzione dei Promessi sposi ad alcuni
studiosi è interessato di piú ciò che l’autore ha operato nell’uso e per l’uso
linguistico dei contemporanei e dei posteri. Penso ai lavori di Sabatini o di
Serianni, alle loro osservazioni sulle scelte del Manzoni non come
ornamento ma come strumento. Le novità manzoniane sono state messe in
rilievo dai due studiosi soprattutto se accettate dalla lingua media. È
importante difatti che Manzoni già avesse mutato la -a dell’imperfetto delle
prime edizioni dei Promessi sposi (1825, 1827) in -o (1840) 37, contribuendo
grandemente alla diffusione dell’imperfetto in -o. Sono tipi di ricerche
queste che hanno considerato le varianti come tensione tra individuale e
collettivo, e pronunciato di conseguenza giudizi non critici o di valore ma di
socialità. Sabatini, dicevo, e Serianni, hanno di Manzoni prosatore toccato
questioni di lingua piú che di stile. Hanno cioè visto le scelte manzoniane
come centro propulsore della dinamica linguistica, nel senso di un
precorrimento della norma, secondo una impostazione storico-linguistica
che privilegia la continuità e le istituzioni della lingua 38. In questa
prospettiva si collocano le scelte linguistiche nella rielaborazione delle
Osservazioni sulla morale cattolica, 1819. Manzoni inizia la revisione nel
‘50 e dopo lunghe interruzioni la conduce a termine nel ’55. Muta grafia,
punteggiatura, fonetica, morfosintassi e lessico: introduce in modo
massiccio l’elisione (una idea > un’idea ecc.), elimina la d eufonica di ad,
ed, elimina la i protestica, corregge, salvo qualche recupero, forme letterarie
o arcaiche (quistione > questione, nimico > nemico, arme > armi, plauso >
applauso, adunque > dunque, servigio > servizio, cangiare > cambiare,
sieno > siano, veggia > veda, non v’è > non c’è, vi ha > c’è). Si comporta
come s’era comportato correggendo i Promessi sposi: vedi come nella
Quarantana pigliare sia mantenuto una ventina di volte, ma sostituito in piú
di sessanta casi con prendere. Preferenze di questo tipo sono accentuate
nelle correzioni della Morale, dove a giungere si preferisce arrivare, dove
udire compare una sola volta, e domina sempre sentire. Insomma, si
scelgono le voci piú comuni a scapito delle forme piú culte (novella >
notizia, brama > desiderio, reggimento > governo, vestigi > tracce,
estimare > misurare, fallaci > false, entrambi > tutti e due, tosto > subito).
Da un «È indispensabile che i ministri siano provveduti di sussistenze» si
passa a «È necessario che i ministri abbiano di che vivere». L’intento è
quello di introdurre forme piú colloquiali (spazio > posto, sussistono > ci
possono essere, percosso > battuto, converta > cambi, termini > finisca,
lagnarsi > lamentarsi; e egli > lui, ella > essa, essi > loro ecc.) 39.
Un lascito linguistico imponente, quello di Manzoni sull’italiano a
venire. Un’impronta, su cui bisognerebbe ancora lavorare, che va oltre la
lingua, se ci si ferma sul lascito di immagini. A me viene in mente, tra gli
echi manzoniani evidenti, un attacco della Luna e i falò di Pavese come «La
collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un
pendío cosí insensibile che…» (cap. I della Luna che rimanda al I dei
Promessi sposi), ma anche quella correzione di Pavese nel manoscritto
«Sull’uscio era comparsa una donna…» (cap. V , c. 8) che corregge «era
comparsa una vecchia», perché qui incombe la figura della Cecilia
manzoniana con la bimba morta in braccio, quando compare sull’uscio.

Ho citato un poco piú per esteso il caso di un prosatore grandissimo. Ma,


a proposito dei piú fitti mutamenti e lavorio su un testo, occorrerebbe
guardare agli scrittori di teatro, che variano in continuazione e quasi mai ci
permettono di risalire a copioni teatrali originari e di seguire i percorsi
successivi di varianti, soppressioni, aggiunte, specie quando si tratta di
autori fecondissimi come un Goldoni, poniamo (difatti la filologia
goldoniana, come la filologia di tanti autori teatrali, deve rassegnarsi al non
poter offrire testi definitivi). Il teatro «autorizza la rimanipolazione
indefinita del testo» 40. Cosí capita nei testi popolari, canti, fiabe. Il
problema riguarda qualsiasi composizione affidata a una comunicazione
orale, ma è di particolare rilievo nell’esecuzione scenica, che viene ogni
volta (ogni sera) ripetuta, e muta di occasione in occasione nella forma e
spesso nella sostanza. Pensiamo al teatro di Eduardo De Filippo, e
prendiamo soltanto il caso delle varianti di Natale in casa Cupiello, che
«nell’arco di alcuni anni si trasforma da farsa in atto unico a dramma in tre
atti», con una rielaborazione del testo che occupa moltissimo tempo 41. Per
un testo teatrale la mutevolezza nell’esecuzione di ogni evento spettacolare
rinnovato di volta in volta rende sempre difficoltosa, quando non
impossibile, la realizzazione di un’edizione critica 42. Un testo teatrale è per
sua natura «instabile» 43. Ho in mente le cinque versioni del primo dramma,
Baal, di Bertolt Brecht, attestate in due dattiloscritti; o le cinque edizioni a
stampa differenti l’una dall’altra, e le dieci versioni della Horst-Wessel-
Legende. È difficile raccapezzarsi nella stratificazione dei testi,
complicatissima la loro datazione. Brecht «quando decideva di mandare un
testo in tipografia, nessuno poteva dire se quella fosse la versione
definitiva», interveniva di continuo, ritoccava anche durante l’allestimento,
«ritoccava ancora parole e frasi, eliminava scene, ne inseriva di nuove, ne
alterava l’ordine, ripudiava un finale vecchio e ne scriveva uno nuovo,
dimenticando tranquillamente che Suhrkamp aveva appena mandato in
tipografia una versione “definitiva” che spesso era già superata quando
vedeva la luce». L’Opera da tre soldi fu un’opera, come Brecht scrive nelle
note al testo, «esclusivamente consegnata al teatro» e l’edizione a stampa
altro non fu che la copia per il suggeritore. Ai filologi ha lasciato un lavoro
imponente per l’edizione critica («un primo progetto metteva già in conto
piú di cento volumi») 44.
Capitolo quarto
Autonomie del significante

Rispetto alla prosa, è stata la poesia ad attrarre su di sé le piú specifiche


attenzioni da parte dell’autore intorno alle sequenze ritmico-sintattiche, al
colore delle interconnessioni, al cuore timbrico e intonativo del verso.
Queste tensioni formali, a partire almeno dagli anni Settanta del secolo
scorso, si sono poi attenuate. Non in tutti, si sa. Un eminente poeta come
Bandini ha continuato a scrivere ricercando, fuori dal coro, il “legato”
dell’armonizzazione («L’Oriolus oriolus nei pressi della RotONDA | si
aggira perché di fichi trova grANDE abbONdANZA. | CANTA ma non si
vede dove mai si nascONDA, | in che guardINGA OMbra abbia preso
stANZA»: Quattordici poesie, Goethe e il rigogolo). Voglio dire che il
conflitto fra attualità e “costrizione”, «abbandono» (come indicava
Mengaldo accennando proprio a Bandini) e «controllo intellettuale»
(metrica, orchestrazione), il lanciarsi insomma e il trattenersi, hanno
continuato sino a ieri a muoversi inestricabilmente congiunti 1. Nelle
tendenze maggioritarie contemporanee ho l’impressione invece che il poeta,
pur lasciandosi come sempre trasportare dall’arcate del suo melodico
strumento, ne voglia attenuare le evidenze, quelle che erano state per secoli
assai esposte. Nei miei lavori di un tempo mi ero soffermato a lungo su
questo punto. Mi ero soffermato a lungo su Pascoli, quello che ricerca le
armonizzanti affinità uditive delle «note tenute». Non riprendo il tema delle
varianti, alludo comunque a quel Pascoli che (per fare soltanto un
semplicissimo esempio) passa nell’elaborazione dell’Ultimo sogno da «un
fruscío | mite, continuo come di cipressi» a «un fruscío | sottile, assiduo,
quasi di cipressi», incrementando la sibilante insieme con la già espressa
acuta “i” dominante, «UdIvasI un fruscÍo | sottIle, assIduo, quasI dI
cIpressI». La proposta della variante è sottoposta alla guida del significante.
Alla pervasività del suono è affidato (in questa nota poesia pervasa da
immagini oniriche, da angosciosi incubi) l’effetto persuasivo del nuovo
acquisto: persuasivo non perché trasmette nozioni e idee diverse nella
sostanza del contenuto, ma perché provoca con incrementi degli insistiti
accordi del significante piú intime commozioni e suggestioni: non certo per
richiamare il reale, ma per reinventare un mondo di parole messo in moto
da ritmi e suoni orchestratori di una sottile partitura di voci come atto
primario o vettore principale della persuasione poetica. Nel pieno
Novecento questa predominanza dell’orchestrare divenne una “media” di
tendenza (vedi per esempio in Quasimodo, in Acque e terre, Vento a
Tíndari, la “i” che si espande dal primo verso Tindari, mite ti so… ai
successivi), ma largamente novecentesca: stridere l’aride ariste; l’amaro
aroma del mare; stasera scirocco risale | arido la costa; Nell’alto arido
eremo salmastri | venti a ridarmi dolore di luce, e via seguitando, e non solo
della koiné ermetica. Diffuse le attentissime disseminazioni del suono nel
Sereni di Frontiere (3 dicembre: «ALL’uLTiMo TuMulTo dei binAri | hAi
LA TuA pAce, dove LA ciTTÀ | in un voLo di ponTi e di viALi si geTTA
ALLA cAmpAgnA»). Cito ancora il non “ermetico” Bandini, Quattordici
poesie, Omaggio a Rimbaud (Le bateau ivre): «dove […] i RossoRi | amaRi
dell’amoRe feRmentano, deliRi | e Ritmi lenti sotto il Rutilio del gioRno».
Anche Caproni, sensibilissimo alle trame foniche, batteva i versi come
moneta da conio («LA sTRAdA come speRA a un’aPERtuRA |
imPROvvisA nell’AGRO! un coROllARIO | d’Armoniosi bicicli
sull’eRbuRA | suBURbAnA dipARte – Al solitARIO | petto Rimuove
l’AnsAnte FREscuRA | …»: Sonetti dell’anniversario XV; «passava col suo
FRAgile FRAgoRe | vuoTo di veTRI un TRAm: eRa la PRIma | coRsa
dell’alba»: Su cartolina, 4), versi dall’inconfondibile suono «petroso»,
«secco» e «aguzzo». Andrea Zanzotto aveva imboccato su quelle basi vie
vertiginose. Versi come «E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
| assideramento, attraverso sidera e coelos | assideramenti assimilazioni»
(La Beltà, La perfezione delle neve) costruiscono «una catena addizionale»
di significanti che generano altri significanti. In un «contesto astrale e
astrattivo» dedicato qui alla metafora della neve persuasivamente «evocata
nella sua perfezione vitrea», Zanzotto non intende approdare «a nessun
significato definitivo» 2, ma «una parola si specchia in un’altra fonicamente
simile a sé; la somiglianza fonica attira la somiglianza semantica e nasce
una interferenza di senso, un qualche senso nuovo», «ci troviamo di fronte a
una sintassi e a una metrica che si costruiscono per spinte successive» 3.
Non si tratta di mero virtuosismo fine a se stesso. Zanzotto sente che la
poesia si trasmette per «impulsi sotterranei» affidati al suono e al ritmo.
Certo, c’è grande “mestiere” e acutissima sensibilità in questi richiami
reciproci e incastri, che assecondano una capacità singolare di legare fonie
significanti, quella che possiedono soltanto i sommi artigiani della parola. E
la possiedono anche i meno “orfici”. Scelgo Giorgio Orelli, poeta sempre
concreto e limpido, intellegibile, che ama con la sua secca scrittura
l’esattezza nomenclatoria, la comunicazione netta. Lavora i propri testi nei
minimi accordi, e con tanta concretezza di nominazioni (vedi le botaniche,
le ornitologiche ecc.). Ma tanta concretezza è sempre ritessuta da sottili e
fitti accordi del significante. La materia sonora diventa in Orelli un punto
rilevante della ricerca poetica. Un dettaglio: ogni lettore suo avrà notato che
appena sbucano nei suoi versi dei “mirtilli”, dalle “i” puntute come spilli,
ecco che questi elementi tramano immediatamente gli immediati contorni,
si diffondono nel tessuto circostante dei versi:

QuestI sveltI mIrtIllI che tI mando


lI ho coltI In una pIoggia tutta trafItta dI sole,
lI ho vIstI a un tratto mIschIarsI a una grandIne
da rIdere
(a ParIgI
I negrI sI toglievano daI rIccI
I chIcchI scIvolatI dalle tende
del Marché).
So che staI con mIlle spIllI
[…]
(Per la madre di mia moglie)

[…]
fra gIneprI e mIrtIllI all’ombra
d’alberI carI e ghIandaIe, astorI e compagnI
InquIetIssimI. […]
(A Giovanna (che aspetta). Di nuovo sulle capre).

I poeti amano la propria poesia cosí come gli scultori amano la materia,
il marmo, le proprietà fisiche della pietra e la sua grana; cosí come i pittori
sono affascinati dal colore, dall’aspetto cromatico delle tempere. Anche il
poeta considera le parole come cose. Non c’è dubbio alcuno che le
preferenze di chi legge poesia vanno ai versi che ci comunicano immagini e
concetti potenti; o comunque ci interessano di uno scrittore i nuovi modi di
interpretare il mondo, le nuove prospettive, ma da secoli siamo ad un tempo
irretiti dai modi con cui una cosa viene detta. Amiamo non solo quello che
la poesia dice, ma come riesce a dirlo, quel modo con cui il poeta sceglie e
dispone le parole secondo un ritmo e le distribuisce secondo degli accenti,
le risillaba e dunque le reinventa, presentandocele irriconoscibili: anche le
piú semplici, come se fossero nuove. Ciò ha quasi sempre costituito, da
Petrarca in poi (per restare nell’ambito delle patrie lettere), l’incanto della
forma poetica. L’apice l’aveva raggiunto il sommo dei lirici, Leopardi, coi
suoi versi leggeri come soffi sonori («ViENE il vENTo rEcANDo il suON
dEll’OrA…»), le sue vocali “tenute” («ViEnE il vEntO rEcAndO il suOn
dEll’OrA | dAllA tOrrE dEl bOrgO»), con le magie ritmico-timbriche del
suo dolce legato di liquide e vocali protratte in larga modulazione
(«mirANDO il ciELO, ed AscOLTANDO il CANTO | dELLA RANA
RimotA ALLA CAMpAgnA») 4, con un alternato “rapporto” tra vocali
chiare e oscure, distribuite in figure molto controllate (la «costruzione
chiastica» ad esempio: «rArA trAlUce la nottUrnA lAmpA») 5. Contini
osservava come nell’Infinito leopardiano «il trionfo di à campeggia» 6, e
Orelli citava l’«ingorgo di /o/» 7 ai vv. 8-9 «E come il venTO | ODO
sTOrmir», distribuito tra quell’urto di t-d-t, e anche ai vv. 10-11 «a questa
VOce | VO cOmparandO: e mi sOVVien l’eternO». Ancora Orelli rievoca
l’esecuzione a Bellinzona dell’Infinito da parte di Ungaretti e l’applicazione
vocale con la quale il poeta pronunciava spazi, silenzi, silenzio 8. Ungaretti:
altro potente convocatore nel verso della matericità dei suoni (cito
rapidamente, per l’incidenza della sibilante /s/, trascinata su un fondo tenuto
di /a/, i vv. 5-10 di Pellegrinaggio, in Allegria: «ho StrASCicAto | lA miA
cArcASSA | uSAtA dAl fAngo | come unA SuolA | o come un Seme | di
SpinAlbA»). Sul suo testo si può esemplificare largamente, secondo due
direzioni, compresenti: la sensibilità materica, ponderale del suono e
insieme la palese ripresa del filo nobile della classicità e della sua
continuità. Penso ai ritornanti bilanciamenti del tipo dOve nOn muOve
fOglia piÚ la lUce, raggiunti dopo prove e prove (vedi le attente
bipartizioni, le O da un lato e le U dall’altro, cosí come in d’ItAcA vArco le
fUggenti mUra la distribuzione di A opposta ad U). Un «bilanciamento fra
gli estremi» che è di tradizione, da Petrarca a Leopardi («QuAntA piAgA
m’apristi in mEzzO al pEttO») 9.
Ma non si finirebbe di esemplificare e di distinguere. Torniamo a
L’infinito. Si veda come sull’onda del vento il sibilo di s invada l’intera
testura, dove spiccano le parole fornite di s iniziale: sempre, siepe, sedendo,
spazi, sovrumani | silenzi, si spaura, stormir, silenzio, sovvien, stagioni,
suon s’annega. Leopardi è immerso nel pieno della tradizione poetica
italiana, cui Petrarca aveva insegnato a costruire selve di versi intorno a
ritornanti «cespi fonosemantici» (Orelli). Ancora Orelli citava come
esempio la prima ottava del Furioso, tramata su arme, amori, Mori, mare,
morte, romano (e vedi XVII 58 mar, orma, torma, amor, morte) 10. Ariosto
era immerso in questi flussi di tradizione-modello, attentissimo alla
liquidità della testura (tralascio le numerosissime esemplificazioni). Ha
lavorato molto a rivedere in questo senso il suo poema, per piú di quattro
anni continuando a limarlo anche nelle fonie.

Se dall’orizzontalità del significante passiamo alla verticalità di uno


degli elementi fonicamente piú rilevanti del verso, la rima, vediamo bene
quanto in poesia essa sia sempre venuta, nel corso dei secoli, a inserirsi
come uno dei costituenti principali dell’accentramento fonico complessivo.
Nel Novecento è stata perlopiú abbandonata, anche se la perdita del suo
valore strutturante ha comportato la ricerca di «regolarità e ricorrenze» in
funzione «ora sostitutiva ora compensativa»: rime imperfette, assonanze, e,
come tecnicismo di compenso, la rima al mezzo e interna che trasferiscono
«piú sottilmente in posizione riparata gli echi di suono» 11. Ma la rima non
possiamo darla come scomparsa. Vedo che Enrico Testa, nella sua ultima
raccolta (Cairn, 2018), ama inserirla quasi sempre al fondo, come a
congedo, rievocazione, omaggio. È una presenza rara, non cercata, perché
c’è sempre il timore da parte degli autori contemporanei che venga fuori
enfatica. Si prova un po’ di vergogna a utilizzarla, «se ne percepisce il
limite, il rischio che si imponga troppo sonoramente» 12. In alcuni poeti, c’è
ma non si sente (penso a Gianni D’Elia). Comunque sia, per secoli ha
costituito uno dei principali punti di convergenza del fonico, del ritmico e
del semantico. Alta la sua incidenza sull’invenzione del significato. Non
tanto ha decorato ma soprattutto preso per mano e guidato il susseguirsi
dell’enunciato. Suo compito è stato quello di avvicinare sul piano del
significato ciò che si assomiglia sul piano del significante. Già aveva
genialmente ribadito il concetto l’osservazione di Leopardi sulla rima che
suggerisce il pensiero (consapevolezza che si tramutò poi in concezione
critica e si sviluppò in clima postsimbolista: vedi Alain dei Propos, e Valéry
dell’Au sujet d’Adonis, in Variété). Celebre il passo dello Zibaldone (13
ottobre 1821):

Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata,
possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo
della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima.

E prima ancora Algarotti: «Un verso si fa per il senso […] e un altro in


grazia della rima» 13.

Dopo la fortuna degli “sciolti”, la rima, con Saba, e con gli “ermetici”, o
con Caproni, dopo che i “crepuscolari” ne avevano gravato l’abbondanza di
messaggi metaletterari, è riportata alla sua funzione originaria di
«chiarificazione» e «sostegno», grazie anche al suo recupero come
elemento di tradizione e di consuetudine 14. Caproni vedeva la rima come
elemento “portante”. «Con la critica, – me lo scriveva ribadendo un suo
principio ritornante in una lettera da Roma del 22 luglio 1985, – davvero
non posso dire d’essere stato molto fortunato». Le monografie a lui
dedicate, – egli lamentava, – erano «quasi tutte battenti i soliti consunti
tasti: “la canzonetta” (nessuno però ha pensato ai poeti delle origini, piú che
al Cavalcanti del Seme del piangere); la “musicalità” (assimilandomi in
questo a Saba), e non la “musica” (le mie rime portanti, sull’esempio
dantesco: vita (via) smarrita; selva (paura) dura oscura; nessuno si è
accorto, mentre tutti si son precipitati a sottolineare le “rime facili”
(cuore:amore) relative soltanto al Seme, da me considerato un intermezzo».
Anche nel Seme del piangere non ha mai delegato alla rima una funzione
esornativa, «per carezzare l’orecchio, ma una funzione portante», come in
architettura 15 «quella delle colonne che reggono l’arco». In molte occasioni
la rima lo aiutava a reinventare il significato, e a spiazzarlo, a far
«consonare e dissonare insieme due idee poetiche» 16. La potenza della rima
è del resto sempre stata evidenziata dai poeti grandi. In Montale, e già in
Rebora (per via dantesca), diventa un mezzo «per incontri imprevisti»,
s’inscrive nell’insieme di un linguaggio «dissonante, “petroso”, dal forte
impegno argomentativo» 17. In altri altrettanto grandi poeti la rima già era
diventata strumento di omogeneizzazione e di accordi del messaggio fonico
e semantico. Le lasse per esempio del Canto notturno di Leopardi
procedono univoche perché legate alla rima finale, che accomuna lo
svolgimento del tema del componimento: mortale-immortale-natale-frale-
male. Idem l’orientamento su vocale “cupa” in un capolavoro di Pascoli,
L’assiuolo.
La funzione della rima è variabilissima. Consuona o distacca, appiana o
evidenzia. Nel Dante della Commedia la rima si stagliava nella sua
individualità di rima difficile e inattesa. Al contrario di Petrarca. Nella
Commedia si assiste a una concentrazione semantica e alla “sorpresa” delle
parole rimate che esorbita dal codice comunicativo piú vulgato nella lirica
del Due e Trecento 18. Sono frequenti parole in rima di tipo basso e triviale,
o all’opposto parole dotte, latinismi. Petrarca invece, perseguendo una
sistematica attenuazione del rilievo della parola in rima rispetto alle altre,
escludeva dalla rima termini linguisticamente caratterizzati o
sentimentalmente intensi 19. L’evidenza della rima era tra l’altro
neutralizzata, sminuita regolarmente dall’assonanza che trama all’interno
l’endecasillabo 20. Il suono della rima è preparato, atteso, fagocitato dalla
materia fonica che la precede. Salvo qualche caso d’eccezione 21, non ci
sono in Petrarca parole-rima rare, inconsuete. Pochi anche gli esempi di
rima equivoca. Di solito Petrarca ama la rima che non richiami troppo su di
sé l’attenzione, che crei dunque squilibrio, contravvenendo al criterio
dell’aequitas. Non usa rime «aspre» (secondo definizione dantesca), cosí
come ha mostrato un «costante rifiuto di forme troppo tipicamente
connotate» 22; non c’è nessuna rima in cui il gruppo -zz- sia preceduto da
vocale diversa da e (in Dante invece ecco Pazzi:cagnazzi:guazzi,
Pazzo:guazzo, Cagnazzo:Draghignazzo:pazzo, sprazzo:spazzo:sollazzo,
guizzo:drizzo:adizzo, stizzo:guizzo:vizzo, strozza:pozza:ingozza,
strozza:mozza:sozza, mozze:sozze:bozze, sozzi:cozzi:mozzi,
mozzo:cozzo:gozzo, Tagliacozzo:mozzo:sozzo, cozzo:sozzo:mozzo,
aguzza:appuzza, aguzzo:Galluzzo:puzzo, rime tutte dell’Inferno, salvo tre
del Purgatorio e due del Paradiso). In Petrarca la parola in rima non ha
peso maggiore di altre, appunto per l’equilibrio della sua poesia e la
limitatezza del suo lessico. Le parole inusitate (neologismi, latinismi), di
marcatura semantica particolare, non sono esposte nella sede ritmica
privilegiata della rima. Risulta dal codice degli abbozzi l’eliminazione in
rima di parole sentite come troppo realistiche. Il levigato caratteristico
nasce anche dalle vocali «tenute» sia nel corso orizzontale del verso, sia
verticalmente nel senso della rima, con attenzione anche alle consonanti 23.
Notevole elemento di riduzione fonica è la monoassonanza in cesura che fa
quasi da controrima, da controcanto interno (come in VII 1-3 «La gola e ‘l
sOmnO # et l’otïose piume | ànno del mOndO # ogni vertú sbandita, | ond’è
dal cOrsO # suo quasi smarrita»). Gli esempi sono innumerevoli, e del resto
noti.

Come scriveva Montale 24 «la poesia differisce dalla prosa perché essa
non rimanda ad altro che a sé medesima: non può essere spiegata che nel
proprio ambito». Rimanda alla sua “finzione”: un aspetto (che poi la
modernità ha esaltato) è costituito appunto dal suo statuto vocale e
musicale. Uno degli alleati principali della poesia è sempre stata la voce,
col suo colore e il suo peso, la sua concretezza, secondo il principio di
corporeità e di sensorialità che invero ha percorso tutte le arti. In tempi
moderni, specie lungo i percorsi della “poesia pura”, da Mallarmé a Valery,
il colore e il ritmo dell’esecuzione hanno rappresentato la parte piú
insondabile dello scrittore, la cadenza ha assunto su di sé «una magica
virtú», «un potere di seduzione», «una facoltà d’ipnosi», «un fluido»
operante anche al di fuori del senso che le parole possiedono 25.
Ciò varrebbe in fondo per ogni idioma parlato nella sua naturalezza,
quando le corde vocali si distendono in una catena intonata: per esempio il
“salmodiare” arabo (quella «costanza monotona» in cui s’insedia «il valore
d’Essenza», quel «vociare piano che torna, e torna a tornare», annotava
Ungaretti) 26, il recitare che attrae anche quando non si capiscono le parole.
La voce è, piú del corpo, «voler dire e volontà di esistere», scriveva Paul
Zumthor nel suo gran libro La presenza della voce. «Ma se tu prendi la mia
voce, – disse la piccola sirena, – che cosa mi rimane?» appuntava Andersen
nel racconto La sirenetta. La voce è l’«anima», aveva già scritto secoli
prima Aristotele nel De anima (II 8), là dove dice che la voce in senso
proprio (phoné), distinta dal piú generico suono, «è l’urto dell’aria inspirata
contro la cosiddetta trachea-arteria, prodotta dall’anima che vivifica queste
parti del corpo». La poesia non ha fatto che selezionare, esaltare e
concentrare la naturalità del parlato intonato. La voce ritmata nel verso è un
tentativo di trasformare il linguaggio naturale in una nuova entità, che tende
a ciò che non si può definire, che non si può conoscere pienamente, cioè
alla musica, all’indeterminatezza e insieme corposità dei suoi contenuti. Ma
nello stesso tempo la poesia condivide le parole con quelle che ciascuno di
noi già usa o comunque appartengono al suo linguaggio naturale, perché
sono per molta parte le parole della vita di ogni giorno (anche se non è «il
linguaggio che impieghiamo per compilare la lista per la lavanderia o per
parlare con qualcuno in metropolitana»). A differenza della musica, o della
pittura, lo scrittore non usa uno strumento separato dalla vita. Le parole non
sono un mezzo artificiale come la pasta colorata del pittore o le note
musicali. Lo scrittore usa le parole della sua lingua madre, impiega un
mezzo che quotidianamente pratica, la lingua. La letteratura «impiega
un’unità linguistica di scambio che ha in comune con la lingua quotidiana»:

Il materiale sonoro della sinfonia di Beethoven non si trova altrove, ma si può


reperire il materiale di una poesia di Keats ascoltando la gente parlare, piú o meno. Si
potrebbe affermare, come ha dichiarato recentemente il critico letterario Richard Poirier,
che la letteratura è piú democratica nel senso che chiunque può fruirne. Sono le parole
in cui viviamo che vengono, per cosí dire, sottoposte a un impiego straordinario 27.

Pessoa scriveva della musica: «è astratta, è un uccello | di suono che


volteggia nell’aria | e canta all’anima senza freno | perché è il canto che fa
cantare». È la piú astratta delle arti perché la piú priva di contenuti. È arte di
combinare nel tempo e nello spazio serie di suoni, e la dolce armonia risulta
dalla relazione, come già Dante diceva nel Convivio. È come la geometria,
la matematica, l’astronomia, con di piú qualcosa di insondabile. È la piú
inesplicabile delle arti, diceva Leopardi, perché le altre arti imitano ed
esprimono la natura, la musica invece non imita e non esprime che se
stessa, e da se stessa e non dalla natura trae i sentimenti che ispira. Cosí
l’uditore che la sente: trae da se stesso i sentimenti che crede che sia
quell’arte ad averglieli ispirati. Non sono le iridescenze provocate dalla luce
su superfici d’acque ad aver suggerito le note dei Reflets dans l’eau di
Debussy (nella prima serie delle Images), né il suono delle campane
lontane, oltre il fogliame della foresta, ad aver suggerito le Cloches à
travers les feuilles, nella seconda serie (tant’è vero che potremmo
etichettare indifferentemente il secondo pezzo citato col titolo del primo e
viceversa), ma Debussy ha tratto autonomamente dal suo mondo sonoro
quell’ipotesi di indicazione naturalistica. Paul Valéry racconta che
Mallarmé «usciva dai concerti pieno di sublime gelosia», certamente
invidiando alla musica l’indeterminatezza dei contenuti colmi di possibilità
infinite. Ma della musica molto rimane in poesia: il liberarsi in ritmo, in
colori di sillabe e vocali, l’esaltazione di pulsazioni vitali. Siamo convinti
che «il movimento ritmico è anteriore al verso» 28: «dalle revisioni che i
poeti fanno delle loro opere possiamo vedere come il ritmo sia di solito
anteriore, come ispirazione e importanza, alla scelta delle parole che lo
riempiono» 29. Da queste zone insondabili del ritmo muove la composizione
poetica, che sa ritrovare l’inaccessibile e l’accessibile, l’incantesimo e
l’incandescenza della musica. Fa emergere in superficie la “figura” ritmica,
l’«orchestrazione» di suoni. Li espose a fior di lingua l’esondante
D’Annunzio. Egli valica il limite: rompe la misura. Si pensi agli esempi
sontuosi, al disancorarsi da schemi mentali di tipo narrativo (che
presuppongono un prima e un dopo), per prediligere invece l’accumulo
simultaneo e analogico, «la lentezza sintattica della similitudine» 30
funzionale alla melodia distesa, con i contenuti che sono come inghiottiti
dalla voce, spariscono nel suono, dissolti nell’onda ritmica che li evoca:

Di cose fugaci e segrete


sei fatta, di silenzii
e di murmuri, lieve
come i frutti piumosi
della viorna, come
le lane del cardo argentino,
o Felicità del cor prode
(Laus Vitae, Della terra e degli eroi 7876 sgg.)

tendenza che in Alcyone si dilata nello sfolgorio di un’onda larga,


digressiva, straripante, evidente quando, seguendo la tecnica dell’accumulo,
D’Annunzio principia con la sfilza dei come, e infila comparazioni una
dietro l’altra con inesausta inventiva, e insieme segue la tendenza
irrefrenabile al catalogo: quattordici similitudini di seguito, nella ballata
grande Il Fanciullo II, una per verso (vv. 86-99), e altre quattordici in Le
stirpi canore 7 sgg.:

Le mie parole
sono profonde
come le radici
terrene,
altre serene
come i firmamenti,
fervide come le vene
degli adolescenti,
ispide come i dumi,
confuse come i fumi
confusi,
nette come i cristalli
del monte,
tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come le narici
dei cavalli
a galoppo,
labili come i profumi
diffusi,
vergini come i calici
appena schiusi,
notturne come le rugiade
dei cieli,
funebri come gli asfodeli
dell’Ade,
pieghevoli come i salci
dello stagno,
tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno
[…],
o in Novilunio 100 sgg.:

Novilunio di settembre,
dolce come il viso
della creatura
terrestre che ha nome
Ermione, tiepido come
le sue chiome,
umido come il sorriso
della sua bocca
umida ancòra
della prima uva matura,
breve come la sua cintura
nel cielo verde
come la sua veste! 31.

La circolarità effusa pervade i testi. Caratteristica che Campana


accentuò, quando nei Canti orfici esalta i ritorni parallelistici, le iterazioni
allitterate, procedimento che già D’Annunzio aveva applicato nel suo
aspetto musicale (Lungo l’Affrico: «O nere e bianche rondini, tra notte | e
alba, tra vespro e notte, o bianche e nere | ospiti lungo l’Affrico notturno!»)
Campana raggiunge per questi tramiti musicali non solo una rinnovata
assolutezza delle forme, ma soprattutto, proprio per l’ossessiva ripetizione
del ritmo, insinua significati inafferrabili, misteriosi, che, osservava
Contini, «portano cullando sotto il piano razionale» 32, come nel Canto della
tenebra: «Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, | sorgenti, sorgenti che
sanno | sorgenti che sanno che spiriti stanno | che spiriti stanno a
ascoltare… | Ascolta:… ecc.», dove «solo un terzo delle parole totali è
escluso da congiunzioni ripetitive e/o rimiche, che invece riannodano tutte
le altre» 33. In Campana la figura della ripetizione si fa angoscioso delirio
(«e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è | nel cuore della
sera c’è, | sempre una piaga rossa languente»: L’invetriata), diventa
reinvenzione di un linguaggio straniante, come in Genova, dove l’immagine
è annullata in un vorticare di parole ridotte a pura musica, ossessione,
allucinazione: «Come nell’ali rosse dei fanali | bianca e rossa nell’ombra
del fanale | che bianca e lieve e tremula sale». Il linguaggio si è chiuso su di
sé: il “filo del discorso” si è volutamente perduto.

La testura musicale e la conseguente esecuzione sontuosa e declamata


che D’Annunzio esponeva, cominciarono a infastidire. I poeti del primo
Novecento per contrasto preferirono comporre cantilene piú felpate e
silenziose. Misero la sordina, per fare poco rumore. Si diffonde il
controcanto “crepuscolare”. Ancora nel secondo Novecento molti poeti
cercarono il sottovoce. Penso alla poesia di Giovanni Giudici, amante dei
«mezzi toni» (Sanguineti), o del tono ironico-distaccato, anche nei confronti
di un’istituzione come la rima, alla quale non dava peso di rilievo semantico
(«Nelle poesie mi attirava la rima, credo soprattutto perché sembrava quasi
dispensare dal comprendere il concetto. Purché tornasse la rima andava
tutto bene. E in fondo, benché stravagante, non era un approccio
sbagliato») 34. Giudici non si allontanava dalla forma istituzionale, ma
modificava il proprio atteggiamento nei riguardi della metrica, attribuendole
«un ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir
menzognero, ossia ironico», come se fosse un «logoro supporto» 35. Si veda
il suo «falso» endecasillabo cosí spesso ipermetro 36, o l’«isostrofismo per
l’occhio» 37. E si vedano anche i momenti di programmato travestimento
che lo aiuta ad aggirare l’altrettanto esibito “candore”, e ad indossare
«quegli esibiti e illusori panni di scena» 38 di Salutz. Con altrettanto tono di
ironico falsetto costruiva le sue ampie protratte e dispersive figure
sintattiche, i suoi monologhi e dialoghi a piú voci, come una sorta di
recitazione, finzione, teatro, “messa in scena” di forme del parlato («sotto
l’ingannevole specie di un “dir quotidiano”») 39, in un “travestimento” in cui
il poeta si affida a voci diverse dalla sua, a un interlocutore immaginario, o
virtuale: ciò gli serve non per incidere e diversificare, bensí per annegare il
ritmo in una sorta di litania sommessa, di ductus metrico che si fa finto
parlato («Poi tutti a bocca aperta che uno come lui | con una come me che
nemmeno col pensiero avrei osato | … ecc.»: La Bovary c’est moi, I, in
Autobiologia, 1969), o senza distacchi avvicina parlato e scritto, quotidiano
e culto, e questa «lettura aulica del colloquiale» 40 ben risaltava quando
Giudici stesso, ricordo, leggeva sommessamente, mitemente, come per
scusarsi, i suoi versi, soprattutto quelli in cui predominava «la tendenza alla
dispersione, allo sviluppo centrifugo del discorso» implicante «il tono
cantilenante di riprese e ripetizioni, quasi a mimare la tiritera della vita» 41.
Mitemente leggeva i propri versi anche quel grande poeta in dialetto che è
stato Raffaello Baldini, versi che nell’esecuzione dell’autore non cercavano
in realtà il suono felpato, anzi simulavano le asprezze del parlato; il
monologo drammatico del recitante rilevava la grana e il ritmo di una
oralità tutta pause, esitazioni, incertezze, riprese, sospensioni, incisi,
monosillabi, frammentazioni che comunicano il senso di una “situazione”
reale e surreale ad un tempo. Poeti dunque che in vario modo appaiono
come “incisori sonori”, che scrivono ripetendosi a voce le lettere e financo i
segni di punteggiatura. Penso all’uso delle parentesi in Giorgio Caproni, che
non sono soltanto «glossa al pensiero» 42, «commenti figurativi» 43, aggiunte
che riconnotano una parola, una situazione, e non soltanto forme della
negazione o della smentita, riformulazione e «replicazione pura» per
ribadire un concetto appena pronunciato 44, ma compaiono come note vocali
“a parte”, note ribattute (quelle microparentesi espresse da un «forse»,
«alfine», «dicono», «Ma dicono | (dicono)»), «brevi pause» in sottotono in
cui è concesso «di dare ascolto alle “voci”», a quel se stesso che «sta
preparandosi per entrare in scena» (cosí precisava Caproni nella Nota al
Congedo): sembrano appunto un “a parte” di un testo recitato, figure
grafiche «di uno sdoppiamento» 45, «reiterazione di una parte accessoria del
discorso» 46: in definitiva, intarsi di un parlato artefatto, musicato,
ritmizzato, teatralizzato, eseguito su un registro piú basso, sottovoce,
«variazione melodica» 47 (ciò vale anche per le geminationes: «Un giorno,
un giorno», «E non cada, non cada» ecc.). Vogliono appunto indicare «una
modulazione diversa del tono d’esecuzione» 48 («… perché il mio amore (il
mio amore) | l’ho conosciuto tardi»: Il passaggio di Enea, Su cartolina 4).
Caproni si rivela un inimitabile creatore di spazi polifonici, di voci e di toni
diversi 49.

Ma di questa “autonomia” sonora anche la prosa fruisce. Anche la prosa


nasce “ascoltata”, può nascere come “eseguita” 50. Ecco la “progressione”
intonativa in D’Arzo:

Passò un minuto. E poi un altro. E la luna pareva guardare anche lei. Nel silenzio si
sentiva il rumore dell’acqua e una foglia morta cadere qua e là, e tutti quegli infiniti
rumori e che nessuno sa mai cosa siano e che sembrano venir su a poco a poco dal cuore
stesso della notte e dei monti 51.

e la “regressiva”

In quel momento di là sulla strada si sentí un rumore di campanacci di bronzo e un


fruscio come d’erba medica e d’acqua che prendeva tutta quanta la via, e un’infinità di
peste leggere, e belati 52.

Paolo Briganti ha bene messo in rilievo la “numerosità” del fraseggiare


di Silvio D’Arzo, la misura di decasillabi perfetti (già precocemente notata
da Bonfiglioli) sottesi alla sua meravigliosa prosa 53. Aldo Camerino e
Mario Socrate avevano fatto notare a Calvino la presenza nelle sue pagine
di endecasillabi 54. Si potrebbe allargare l’analisi a molti altri prosatori.
Suggerirei Meneghello (ma ora non ne ho le prove), maestro nel
comprimere testi in cadenze allitterate e scabre, veloci ed esatte
nell’“esecuzione” 55. Oppure Parise, anche quando la sua sintassi prende un
andamento “lungo”, un respiro filato, quasi senza punteggiatura. Arnaldo
Soldani attirava l’attenzione su un passo di Sillabari,

Una sera d’inverno del 1937 in una città italiana fredda e poco illuminata con molti
portici e chiese sbarrate un uomo alto con un cappotto lungo e un cappello peloso dalle
ali larghe che davano un che di sghimbescio alla sua ombra salí le scale di una casa
umida, si avvicinò al buio a una porta e suonò un campanello dal trillo incerto,

che in realtà segue una scansione di prosa liberamente versificata:

Una sera d’inverno del 1937


in una città italiana fredda e poco illuminata
con molti portici e chiese sbarrate
un uomo alto con un cappotto lungo
e un cappello peloso dalle ali larghe
che davano un che di sghimbescio alla sua ombra
salí le scale di una casa umida,
si avvicinò al buio a una porta
e suonò un campanello dal trillo incerto.
O si vedano gli andamenti secchi e incisi della prosa di Primo Levi: ecco
un incipit, che si è portati inesorabilmente a leggere come se fosse fatto
tendenzialmente di versi

Al mattino qui le cose vanno cosí:


quando suona la sveglia
(ma è ancora notte fonda)
ci si infila prima di tutto le scarpe,
se no qualcuno te le ruba,
ed è una tragedia senza nome;
poi, in mezzo alla polvere ed alla calca,
si cerca di rifare il letto
secondo le prescrizioni.
(Il nostro sigillo, in Lilít).

Michele Mari citava Bufalino e la sua sintassi complessa, dal ritmo


accuratissimo (che arieggia il musicale Cinquecento di Castiglione, Bembo,
Guicciardini, ma anche Daniello Bartoli, e il Leopardi delle Operette), una
prosa «tanto piú sontuosa come prosa quanto piú si infittisce di versi
nascosti, con una particolare propensione per il novenario» 56.
Non c’è alcun dubbio: ogni tipo di prosa se bene elaborata cela
un’esecuzione, sia la piú scabra sia la piú diffusa, sia la piú ritenuta sia la
piú espansa («Una frase in prosa veramente bella dovrebbe essere come un
bel verso in poesia: immutabile, altrettanto ritmica e vibrante»: Flaubert) 57.
L’orecchio conta moltissimo anche in prosa, nella sistemazione della parola
giusta, della punteggiatura ecc. Opportunamente Vargas Llosa nelle Lettere
a un aspirante romanziere ci ricorda Flaubert che

sottoponeva tutte le sue frasi alla prova della «gueulade» (lo schiamazzo o vocío). Se
ne andava a leggere ad alta voce quello che aveva scritto, in un viale alberato di tigli che
esiste ancora vicino alla sua casa di Croisset: la allée des gueulades. Lí leggeva a
perdifiato quel che aveva scritto e l’orecchio gli diceva se aveva colto nel segno o se
doveva continuare a cercare vocaboli e frasi fino a raggiungere la perfezione artistica 58.

Una perfezione anche nelle minuzie ritmico-sintattiche, come quella


della congiunzione e dopo un punto e virgola, che di solito apriva una
progressione melodica:

Poi ricomparve il sole, le galline cantarono, i passeri sbatterono le ali nei cespugli
infradiciati; e rivoli d’acqua piovana scorrevano sulla sabbia trascinando i petali rosa
di un’acacia 59.

Un po’ come succedeva in Pavese con la virgola, con la congiunzione e


che seguiva, per disegnare (in clausola “aperta”) profili, lontananze, lo
spazio di colline che si aprono all’orizzonte, lo scorrere, il continuare (La
luna e i falò: «Dov’eravamo, | dietro la vigna, | c’era ancora dell’erba, | la
conca fresca della capra, | e la collina continuava sul nostro capo»).
Potrei dunque dire che è lo slancio, l’impulso, l’energia, e non
l’argomentare dell’intelletto che programma, a presiedere in parte alla
creatività letteraria.
Capitolo quinto
Si sa sempre ciò che la mano scrive?

La poesia del Novecento si è per molta parte concentrata


sull’”autonomia” del testo, sul “senso” della struttura compositiva. Ciò è
valso anche per le altre attività artistiche. So che l’avvicinamento ad altre
arti conduce sempre su un terreno scivoloso, ma mi viene comunque da
pensare all’arte pittorica moderna, specie quando ha spinto questo principio
dell’“autoriferimento” alle conseguenze estreme. Un quadro non figurativo
rimanda a se stesso, non trova né cerca fuori di sé le proprie spiegazioni.
L’arte astratta si è concentrata sull’autonomia formale dell’opera, ha
considerato indifferente il soggetto dell’opera stessa. Si sono non a caso
moltiplicati i quadri che portano la dicitura «Senza titolo» (frequente anche
nella poesia del Novecento) 1. Piú che dell’oggetto rappresentato, ci si è
posto il problema della natura degli elementi portatori di una funzione
semantica nelle figure spaziali. Nell’arte moderna ha contato di piú la
ragione interna della disposizione, degli accostamenti. Cézanne,
anticipatore del futuro, diceva di voler fare come Baudelaire e Zola, i quali
«con un semplice accostamento di parole profumano misteriosamente tutto
un verso e tutta una frase» 2. La mimesi del reale soccombe al cospetto di
ciò che l’artista prova di fronte alla realtà, a ciò che di essa percepisce.
Cézanne sente che non c’è un nudo oggetto naturale davanti a lui, da
rappresentare come realtà («La natura, – diceva, – è il mio pensiero quando
provo la sensazione d’un colore, è la percezione che debbo rendere con un
tono pittorico») 3. Conta la proiezione soggettiva e non la rappresentazione
naturalistica. È il senso della “composizione” che balza in primo piano.
All’interno di essa si lavora per integrazioni e opposizioni calate dentro un
insieme formalmente omogeneo. Penso soltanto a come la pittura astratta
abbia portato le composizioni verso il livello della musica 4, a un
accostamento di forme e colori analogo all’accostamento di accordi e note.
È interessante in proposito riandare ai rapporti consonanti tra Kandinskij e
Schönberg. In un trattato che non condusse a termine Schönberg scriveva, a
proposito di “logica” o “leggi” dei nessi musicali: «Sappiamo che nel
“motivo” deve essere presente una certa instabilità, la quale sarà causa del
movimento successivo. Questa instabilità è causata dalla combinazione di
elementi in parte diseguali» 5. A rigore, nella sua impostazione generale, si
tratta tutto sommato di una caratteristica strutturale della musica sia antica
sia moderna, se è vero che

la musica non riguarda le asserzioni o l’essere, ma il divenire. Quello che importa


veramente non è il significato di una frase, bensí come ci si arriva, come la si lascia e
come si compie la transizione alla frase successiva 6.

Occorrerebbe evidentemente fare in proposito fondamentali distinzioni


tra la musica tonale e atonale: nella prima la “dominante” è la casa dove
ritorni, il fare ritorno al punto di partenza dopo essere penetrati in territori
sconosciuti (ed essersi magari perduti); l’atonalismo invece è una sorta «di
spaesamento, di esilio permanente, perché non si può pensare di tornare
indietro» 7. Comunque, sia la musica tonale sia l’atonale valorizzano
combinazioni e rapporti piú che elementi informativi. Stessa peculiarità,
dicevo, ha l’arte figurativa moderna. Quella medievale, rinascimentale,
barocca, e poi sette-ottocentesca, aveva valorizzato gli elementi informativi.
L’astratta invece ha deciso di scegliere o semplicemente di “disporre” in
uno spazio i colori: che di per sé non significano nulla, ma che nella
composizione prendono una “significazione” attraverso la selezione e la
combinazione. L’astrattismo non ha usato un repertorio di segni riconosciuti
come tali, e non ne ha stabilito uno specifico. I colori non sono assimilabili
ai “segni” linguistici, avvertiva Benveniste 8. Cesare Segre aggiungeva che
«l’accentuazione delle tinte violacee in una pittura può contribuire a creare
una tonalità luttuosa, ma può anche realizzare un gioco cromatico privo di
significati verbalizzabili o comunque estranei al “racconto”» 9.
Siamo consapevoli che seguitare per la strada del parallelismo tra le arti
ci porta su un terreno di analogie talora generiche. Diversa è la forma e la
sostanza tra un’arte e l’altra. Segno linguistico e segno pittorico hanno
funzioni differenti. Anche se ai colori si è potuto per convenzione conferire
un valore di segni (per esempio, bianco = purezza e fedeltà, rosso = amore,
passione), un pittore quando dipinge vuole creare una cosa; e se mette
insieme del rosso, del giallo e del verde, non v’è alcuna ragione perché il
loro impasto possegga un significato definibile, cioè rimandi esplicitamente
a un altro oggetto. Quando abbiamo invece a che fare con le parole,
mettiamo in gioco elementi che hanno già di per sé un significato. I colori
no, non esprimono angoscia, collera, gioia, come fanno le parole 10.
Ciononostante, certi accostamenti tra pittura e poesia moderna sono
diventati assai stretti. Almeno: lo furono nei primi decenni del Novecento.
La pittura non volle piú né narrare né rappresentare. Anche molta parte
della poesia cominciò a nascere non da una volontà di riferire, di
raccontare, ma da una spinta “immotivata”, da una cadenza, su cui poi
costruire. Faccio un solo esempio, che traggo da Il Dolore, Il tempo è muto,
di Ungaretti, v. 1. Il poeta comincia a farsi risuonare un primo verso
irrelato, marcato da suoni dominanti, come cadenza di musica,
un’immagine-motivo: «Il tempo è MUTO fra canneTi imMOTI…» Poi,
quel primo verso-autonomo, preludio irradiante, detta il “tono” di quel che
verrà in seguito: dopo «Il Tempo è muTo fra canneTi immoTi…» ecco
«lungi D’approDi errava una canoa… | STremaTo, inerTe il remaTore… I
cieli | già DecaDuTi a baraTri di fumi… || ProTeso invano all’orlo Dei
ricorDi, | caDere forse fu mercé… ||», con coerenti assonanze (o quasi) di
piane (tEmpO mUtO cannEtI immOtI lUngI apprOdI errAvA canOA
stremAtO inErtE rematOrE decadUtI fUmI protEsO invAnO OrlO ricOrdI
cadErE fOrsE), assillabazioni (MUto imMOti streMAto reMAtore, TEmpo
muTO canneTI immoTI stremaTO inerTE remaTOre decaduTI proTEso), e
nuclei ribattuti (muto immoti stremato rematore). Abbiamo una poesia che
nasce da un primo verso, dono, chissà, degli dèi: il resto seguirà, per
associazioni di concordanza e discordanza («le premier vers en général est
donné par les dieux, tandis que tout le reste vient d’une élaboration
progressive»: Valéry) 11. Le parole si attirano e si respingono: è come se si
impadronissero del poeta. «Continuo a rimuginare un verso nella testa. In
genere è un verso: quello iniziale o di chiusura, che fa svolgere il tema»
confessava Giorgio Caproni in un’intervista di Nico Orengo 12 (e usa la
parola tema, mutuato certamente dal lessico musicale, come fa
opportunamente notare Zucco) 13. Il volume di Milo De Angelis che
raccoglie ora tutte le sue poesie si chiude con «Non scrivi ciò che sai, ma
cominci a saperlo scrivendo…» 14. È una sensazione condivisa tra i poeti.
Giovanni Giudici parlava di «un ritmo, una rima che mi cresce dentro», del
«muto suono | fermo nel puro movimento» che precede le immagini e le
parole che verranno: «Mio male sacro – mio | ritmo che mi precedi» 15. E,
«sto disegnando | mentre racconto ciò | che raccontando si profila» scrive
Vittorio Magrelli 16. Non tutto è riducibile all’intenzionalità preventiva
dell’artifex. In poesia la corporeità e la fisicità (la Dama non cercata di
Giudici) «consente il farsi del poema», e la poesia diventa «una cosa,
percepibile attraverso l’intelletto ma anche e forse soprattutto attraverso i
sensi» 17, il poeta quasi un tramite della parola.

Qualcosa di simile può capitare nella narrativa. Anche in un romanzo,


una volta scelto l’argomento, si parte da uno spunto, da un incipit
generatore: un tema, una situazione iniziale. L’autore non sa ancora bene
che cosa dirà dopo. Le parole del racconto è come se scivolassero lungo la
pagina, per innesti graduali. Secondo Celati, era questa la caratteristica
rilevante dell’amato Delfini, del suo dipingere moderno (dove la pennellata
«non serve a coprire spazi di una rappresentazione prestabilita»), del suo
scrivere «piano, senza progetti» 18. La maggior parte dei narratori non segue
una mappa, ma procede con una bussola. L’autore comincia a scrivere, dà
vita a un testo che alla fine «ne sa piú di lui», nel senso che diventa anche
per l’autore stesso, di capitolo in capitolo, una sorpresa, una fonte di
rivelazioni nuove, di cose inattese, che all’inizio non si potevano neppure
prevedere. Specie quando un romanzo non segue (come del resto è meglio
che non faccia) la rigida cronologia degli eventi, ma (come dice Philip Roth
riferendosi a certi suoi modi di scrivere) si affida a blocchi piú liberi, a
quelli che ha chiamato «“blocchi di coscienza”, agglomerati di materiale di
svariate forme e dimensioni impilati uno sull’altro e tenuti insieme da
associazioni mentali invece che dalla cronologia» 19.
Ogni romanzo è in qualche modo «indipendente e sovrano» rispetto al
vissuto. Contano di piú «i meccanismi interni» del narrare. Capita di rado
che un narratore conosca già da principio tutta la storia che si accinge a
raccontare. «Uno scrittore non fa mai dei piani esatti, diciamo cosí, perché
sarebbe stolto», diceva Conrad; la storia che si sta raccontando «ha una vita
autonoma, va per conto suo», lo scrittore la può controllare, ma «ha una sua
natura, un suo carattere. A un certo punto fa quel che le pare» 20. Ci sono, è
vero, eccezioni, scrittori che progettano la loro narrazione nei minimi
dettagli, preparano liste di personaggi, luoghi dell’ambientazione dei propri
testi (penso alle indicazioni progettuali nei manoscritti di Elsa Morante; e
ho già accennato a Umberto Eco che costruisce prima minutamente la trama
del Nome della rosa in un quaderno dal titolo «Intreccio e fabula»,
costruisce spezzoni del libro che poi salda insieme). Ma in genere l’autore
non sa tutto fin dall’inizio. Nel procedere scopre sempre qualcosa di nuovo.
Racconta man mano la storia a se stesso, non la conosce ancora da cima a
fondo, non si limita al lavoro meccanico di trascrivere, per esempio, un
ricordo, ma gli importa dare una forma, uno stile e un ritmo a quel ricordo e
inserirlo in ciò che sta nel già scritto sino a quel punto. Hemingway
confessava che alcune volte la storia «si sviluppa via via che ci lavoro e
all’inizio non ho la minima idea di quel che verrà fuori; andando avanti
cambia tutto»; «Il progetto di Per chi suona la campana l’ho sviluppato
giorno per giorno. Sapevo come cominciare, ma il resto l’ho inventato
scrivendo» 21. Un narratore fa «un percorso di cui conosce il punto di
partenza ma non il punto di arrivo», la conoscenza delle cose la scopre man
mano: accade «sulla pagina», si realizza durante il percorso 22. Il percorso
gli addita cose nuove, non previste. L’autore viene talvolta a sapere ciò che
ancora non sapeva: succede che quanto all’inizio di un romanzo non aveva
significato finisca poi per averlo, lo si dota di senso, perché nel frattempo
l’autore si è come “costretto” a tramutare in necessario ciò che nel principio
del romanzo era casuale e perfino superfluo, in modo tale che a posteriori
nulla appare piú né casuale né superfluo. È vero che un racconto è libero,
può prendere una direzione o un’altra. Ma, data una partenza, le
connessioni con le sequenze successive non hanno libertà infinite, sono
bensí soggette a una serie di restrizioni combinatorie. Il racconto è libero
all’inizio, ma il seguito è soggetto a delle determinazioni-restrizioni 23. Il
progressivo generarsi di una struttura narrativa, annotava Maria Corti, fa sí
che le scelte di uno scrittore abbiano nel procedere del lavoro meno
possibilità dal momento che l’opera impone man mano delle regole di
coerenza, la “grammatica” di una sua logica interna 24 (e ci ha anche
ricordato la lettera che Wagner aveva mandato a Liszt il 20 novembre 1851
in cui dice che durante la composizione del Ring der Nibelungen l’opera
comincia a dettargli la sua volontà e a guidarlo verso cammini imprevisti) 25.
Ogni narratore nel corso della composizione di un romanzo costringe se
stesso a dotare di senso ciò che al principio non ne aveva, ciò che
inizialmente assomigliava a una mera casualità. Una storia magari vera, o
che aveva sentito raccontare, è soltanto a partire dal momento in cui quella
vicenda si rivela degna di essere raccontata che lo scrittore la racconta, e
allora di colpo essa assume l’aspetto della finzione. Una finzione necessaria
però, perché può aggiungere quello che di irrisolto nella storia “vera” non
c’era. Il grande narratore spagnolo, Javier Marías, nella Lectio magistralis
che tenne a Torino (23 ottobre 2015) in occasione del conferimento del
premio Bottari-Lattes, disse cose “magistrali” per l’appunto su quel
territorio sfumato, ancora sconosciuto, e incerto dapprima, in cui un
narratore si inoltra mentre scrive il proprio romanzo, quando fissa man
mano, con maggior nitidezza che nella vita, tutto ciò che egli decide debba
appartenere alla realtà che narra. L’importante è sapere che scrivere non è
ricordare, ma inventare, immaginare, ripetere una storia
nell’immaginazione: come se la testa (lo diceva Wittgenstein) non sapesse
nulla di ciò che la sua mano scrive. Il narratore non deve essere uno che
ricorda e poi trascrive (questo il limite oggi di tanti romanzi-saga
familiare) 26. Allo scrittore non tocca trascrivere tutte le cose accadute, ma
sceglierle, metterle in un ordine nuovo, assoggettandosi docile piuttosto alle
parole e ai ritmi narrativi ritenuti adatti all’insieme dell’opera 27.
Perennemente valido il precetto di Eliot 28, secondo il quale l’originalità
dello scrittore consiste nel fermarsi piú sulla combinazione che sulla
trascrizione (scrivere «è soprattutto un modo originale di radunare i piú
disparati e inverosimili materiali per trarne un nuovo insieme»). Quel che
conta di piú per un autore è comporre il romanzo, non averlo vissuto.
Scrivere non è “trascrivere” cose di sé, cose che all’autore sono accadute o
che gli sono state raccontate. I libri partono da un’esperienza personale, ma
non sono la storia di una vita. Dichiara lo scrittore israeliano Appelfeld che
le cose che uno ha vissuto sono già successe, e la loro “memoria” nel
processo creativo è un elemento di secondaria importanza, dal momento che
creare significa ordinare, scegliere, trovare un ritmo adatto al complesso
dell’opera, anche quando i materiali derivano da un’esperienza concreta, da
una propria vita vissuta. Alla fine quello che nasce non è una testimonianza
ma una creatura indipendente 29. E Philip Roth in un’intervista: «Chiunque
cerchi di rintracciare il pensiero dello scrittore nelle parole e nei pensieri dei
suoi personaggi sta cercando nel posto sbagliato» 30; e aveva notato che se
in un suo romanzo i lettori «non vedono altro che la mia biografia, ciò
significa che sono sordi alla finzione – alla personificazione, al
ventriloquio, all’ironia, sordi alle migliaia di osservazioni che costituiscono
un libro, sordi a tutti gli espedienti di cui si servono i romanzieri per creare
l’illusione di una realtà piú reale della nostra stessa vita». Il modo piú
facile, ma sbagliato, di leggere un libro è leggerlo come confessione:
diventa «come leggere il giornale della sera. Se mi infastidisco, è perché
non è il giornale della sera. Shaw scrisse a Henry James: “La gente non ci
chiede opere d’arte, la gente ci chiede aiuto”. E vuole anche una conferma
delle proprie convinzioni, incluse le proprie convinzioni su di te» 31. Molta
narrativa in cui il pregiudizio mnemonico prevale sull’idea della finzione, e
sul principio compositivo non porta a risultati di particolare rilievo
artistico 32. Un romanzo non consiste nel venire informati su come s’è svolta
una storia. Non basta scrivere per bene una cosa realmente accaduta per fare
un buon racconto. Tutto sommato, un fatto realmente accaduto dovrebbe
essere raccontato come se non fosse mai avvenuto. Glielo rinarra
l’immaginazione. Anche nella narrativa piú storicamente documentata
(possiamo pensare al Napoleone di Ernesto Ferrero o al Mussolini di
Antonio Scurati) resta ferma la distinzione tra storiografia, che «scrive la
storia della società, non quella dell’uomo» 33 e romanzo, che «indaga la
dimensione storica dell’esistenza umana» senz’essere «illustrazione di una
situazione storica […] storiografia romanzata» 34. L’immaginazione ha una
sua parte predominante. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole: del tutto
immaginata è la reale Beatrice di Dante, idem la Laura di Petrarca o Emma
Bovary di Flaubert. È indifferente che una Beatrice e una Laura storiche
siano realmente esistite.
La letteratura è anche questo: un patto di finzione col lettore, creazione
di una realtà fittizia. Lo scrittore può sostituire illusoriamente il mondo
concreto della propria vita vissuta col mondo effimero della finzione 35.
Certe finzioni si cristallizzano in modello: è un patto col lettore per esempio
e non una realtà il motivo del manoscritto ritrovato, dal Don Chisciotte ai
Promessi Sposi a Il nome della rosa (nel già citato “quaderno” preparatorio,
sotto il titolo Introduzione, sta scritto per l’appunto: «Ovviamente, un
manoscritto»).
La letteratura è cosa stupefacente: tutto può appartenere ad essa, il vero
come l’immaginario, i fatti come le fantasie, il verificabile come
l’inverificabile, il noto e l’ignoto, ciò che è accaduto e ciò che non è mai
avvenuto, ciò che può essere confermato da testimoni e ciò che non lo può
essere. Importante è far sí che lo scrivere non diventi un semplice “calco”
del vissuto. Neppure del piú intimo e soggettivo. Diceva Primo Levi che si
può anche scrivere per «liberarsi da un’angoscia»: meglio è però «filtrare»
la propria angoscia, «non scagliarla cosí com’è, ruvida e greggia, sulla
faccia di chi legge» 36.

Dunque, conta la “logica” del racconto, non se quel che si racconta è


vero o falso, o privo di omissioni. La strada dell’autobiografismo conduce
inesorabilmente a un atteggiamento diaristico. Philip Roth in un’intervista
rispondeva:

Quanto alla mia autobiografia, non puoi neanche immaginare quanto sarebbe noiosa.
La mia autobiografia consisterebbe quasi esclusivamente di capitoli in cui me ne sto
seduto da solo in una stanza a guardare la macchina per scrivere. La mia vita è cosí
priva di eventi che, in confronto, L’innominabile di Beckett sembrerebbe Dickens.
Il che non significa che non abbia attinto alle mie esperienze per nutrire la mia
immaginazione. Questo però non per rivelare me stesso, esibire me stesso o anche solo
esprimere me stesso, ma per inventare me stesso. I miei diversi me stesso. I miei mondi.
Applicare a libri come i miei l’etichetta di “autobiografici” o “confessionali” significa
non solo negare la loro natura congetturale ma anche, se cosí posso dire, sminuire la
perizia con cui sono riuscito a far credere ad alcuni lettori che siano autobiografici 37.

Non si scrive quel che si sa già, che si è già vissuto. Meglio il romanzo
che insegna al suo autore ciò che egli non conosce, e che in corso d’opera lo
aiuta a capire piú a fondo ciò che accade nella realtà. Tabucchi e Pessoa
consigliavano «di non far entrare la nostra vita nella nostra scrittura o,
perlomeno, di metterla o immetterla in modo tale che essa non possa
immediatamente essere decifrata» 38. Difatti non si creda allo scrittore
(«ogni volta che un lettore vuole conoscere l’autore d’un libro che gli è
piaciuto», finisce col provare «sempre una delusione. Perché l’autore non
esiste: cioè esiste solo nelle sue opere») 39; «un libro è il prodotto di un io
diverso da quello che manifestiamo nella nostre abitudini, in società, nei
nostri vizi» scriveva Proust in Contro Sainte-Beuve che pensava che per
capire uno scrittore fosse necessario conoscere da un punto di vista esteriore
l’uomo, i particolari della sua vita. Non si creda dunque all’autore: «quando
parla di sé mente sempre» 40. I ricordi sono ogni volta per me (diceva ancora
Calvino) «un puro materiale da costruzione, che uso arbitrariamente,
deformandoli secondo le esigenze, e succede che di un personaggio utilizzi
solo qualche caratteristica, o che una persona che magari mi è simpatica la
faccia diventare antipatica perché in quel punto ho bisogno di un antipatico
ecc.» 41. Nessuno scrittore pensa che occorra convincere il lettore che i
personaggi di cui parla sono realmente esistiti. Un narratore prende una
persona che magari ha conosciuto, che ha avuto una esistenza reale, e la
trasforma in personaggio d’invenzione. La discussione sul vero e sul non
vero, ripete Calvino, è del tutto oziosa. In una lettera del ’62 ad Arpino 42, a
proposito di Una nuvola d’ira, quando si viene a parlare dei personaggi,
dice: «non è il caso di discutere se sono veri o non veri; le ragioni che avevi
di farli cosí sono vere […] ma vediamo se funzionano per fare un racconto
convincente». Ciò vale anche per un narratore come Primo Levi, il cui
intento principale è proprio il raccontare eventi accaduti. Che l’invenzione
letteraria abbia il sopravvento sull’autobiografia lo prova per esempio il
racconto Vanadio del Sistema periodico. Basti il confronto tra il carteggio
Levi e Ferdinand Meyer (che in Vanadio ha un nome d’invenzione, Lothar
Müller) 43. Anche per Levi, uno è il piano dell’esperienza, un altro quello
della trasfigurazione dell’esperienza in racconto. La ricostruzione della
storia di Sandro Delmastro (in Ferro, Sistema periodico), l’amico fraterno
alpinista e partigiano, aveva sollevato le proteste della famiglia perché la
rappresentazione non sembrava veritiera. Ciononostante Levi non cambiò
una parola del testo. A volte, scrive Levi, i personaggi si rivoltano contro
l’autore stesso, prendono la mano allo scrittore, rivendicano il diritto di
scegliere 44. Lo scrittore sembra godere di una libertà sconfinata, sceglie
l’argomento, ambienta la storia dove gli pare, eppure sui personaggi non ha
tutto il potere: nascono dal nulla, da un foglio bianco, eppure possono
ribellarsi, acquistare una loro autonomia 45. L’autore non può sempre
decidere prima di iniziare come sarà un suo personaggio. L’accaduto, la
memoria di esso, anche il ricordo di una persona appare alla distanza
sempre un qualcosa di “informe”, in attesa di ricomposizione. Pensando
ancora a Levi, vediamo che il processo di costruzione di senso muove in lui,
nella maggior parte dei casi, dal proprio vissuto 46, ma l’autore in qualche
modo lo vuole abbellire, arrotondare (nella Chiave a stella Levi parla della
«tentazione professionale dell’inventare, dell’abbellire e dell’arrotondare»;
e altrove confessa 47: «È possibile che la distanza nel tempo abbia
accentuato la tendenza ad arrotondare i fatti, a caricare i colori»).
Lo sappiamo da tempo: il criterio di veridicità in letteratura ha una
dimensione tutta sua. Il senso ultimo di un racconto «non è tanto la vita
raccontata quanto la parola che la racconta» 48.
Capitolo sesto
Sulle spalle degli antecessori

Piú che soppesare la presenza del vero e del non vero in ciò che un
autore racconta, è molto piú importante aprire gli scaffali della sua libreria e
ricostruire i libri del suo possesso mentale. Lettura e interpretazione di un
testo si dovrebbero sempre compiutamente compiere non solo sulla base
degli scatti immaginativi dell’autore, ma con quelli di altri, coevi o lontani,
le loro metafore, i luoghi attinti da altri libri. Sono questi filamenti
“intertestuali” che fanno risuonare piú a fondo, in una continuità
significativa, le pagine letterarie. E tale procedere sulle spalle di antecessori
è ciò che ha per secoli e secoli costituito in letteratura l’essenza della
capacità stessa di comunicare intensamente. Soprattutto la poesia italiana,
«si può dire che essa guarda sempre indietro – almeno fino a Pascoli» 1.
Ecco un rapido, ma significativo, esempio: in A Silvia 21-22, «ed a la man
veloce | che percorrea la faticosa tela», Leopardi vuole che si riconosca
Eneide VII 14, dove si parla dei luoghi in cui Circe continua a tessere la tela
sottile, «arguto tenuis percurrens pectine telas» (e in Georgiche I 294
«arguto coniunx percurrit pectine telas»), con sullo sfondo Iliade I 31.
Aveva scelto in un primo tempo (vedi l’autografo) percoteva, che è un
verbo tecnico della tessitura col significato di ‘ordire’ (già latino: lo usa per
esempio Giovenale quando descrive il lavoro di tessitura dei Galli). Poi
corregge in percorrea che, pur semanticamente lontano, conserva di
percoteva la vicinanza fonica, e insieme mantiene il ricordo dei versi
classici, Virgilio e Omero. Scelta tonale e prossimità con l’antico collimano.
L’intento dell’autore è piú compiutamente fissato.
Questa “empatia” con gli antichi o con meno lontani predecessori ha
costituito per intanto una costante del “classicismo” che ha permeato la
nostra poesia, e non solo la nostra. Al punto che anche un semplice iperbato
(cambiare di posto una parola nel verso per ragioni di eufonia o di rima, e di
ritmo: «Era del año la estación florida» invece dell’ordine regolare «Era la
estación florida del año»: Góngora; «O belle a gli occhi suoi tende latine!»:
Tasso) ha nell’intenzione dei poeti trasformato per secoli i versi impostati
alla latina in piú efficace e persuasivo messaggio: versi che si sono voluti
mettere, come diceva non so piú chi, “sotto un tetto” antico, sotto la
protezione di modulazioni consolidate, sentite ritmicamente e
sintatticamente come anticheggianti. Ancora molta poesia del Novecento ha
cercato di variare/intensificare il già detto, il già esperimentato:
un’operazione quasi trascrittiva di un tono che occhieggiava alla libertà
della sintassi latina (tale carattere “tendenzialmente aristocratico” è presente
in particolare nelle versioni di poeti come Sereni o Caproni che a fronte di
una sintassi lineare preferiscono l’antilinearità dell’iperbato) 2.
Si pensi anche ai lettori: ai lettori di livello piú alto, i lettori-interpreti,
alla critica verbale in particolare, e all’individuazione delle “fonti”, ricerca
questa che ha finito col costituire non piú una mera esibizione erudita ma il
cardine di piú profonde e motivate letture. L’inclinazione alla critica
filologica e verbale (peculiarità e vanto della ricerca nel nostro paese) ha
anche permesso di non disperdere la lettura in una pulviscolarità di
impressioni, ma di leggere i testi in modo piú approfondito: i richiami ad
altri testi, a volte palesi a volte piú nascosti, hanno aperto sempre nuovi
spiragli per l’interpretazione. Il fluido della cultura storica che traspare
«nella sua profondità di radicazioni filamentose» ha disteso una densa e
concreta rete «di richiami associati, di reminiscenze, imitazioni, allusioni»:
«reticoli del senso», che hanno mostrato una «cultura attuata», nei risultati
delle forme, nelle figure, nello stile 3. La forza comunicativa dello scrivere è
consistita per secoli nella volontà di consolidare, e insieme di cercare un
appoggio nella traduzione e riscrittura di formulazioni e di temi precedenti,
variati o accresciuti, o magari contestati. Del resto ogni cultura è costituita
da una serie di traduzioni e trasformazioni, di trasferimenti di temi e segni
linguistici. Non conosciamo civiltà che non siano cresciute sulle spalle delle
altre. E la lingua letteraria si è costituita come dialogo ininterrotto, come
contiguità tra moderno e antico, che in passato erano certamente piú
inestricabilmente congiunti. Faceva notare Guido Mazzoni che mentre oggi
vecchio e nuovo sono piú lontani, soltanto due secoli fa Goethe poteva
dedicarsi all’Ifigenia in Tauride dopo aver scritto il Werther, Manzoni
lavorare contemporaneamente all’Adelchi e al Fermo e Lucia, Leopardi
pensare (cosa che in questo caso rimase nei desideri soltanto) di comporre
«le vite de’ piú eccellenti capitani e cittadini italiani, a somiglianza di
Cornelio Nepote e Plutarco», una tragedia su Ifigenia e insieme un romanzo
(che poi non scrisse) su un eroe intellettuale del tempo, sul modello del
Werther: erano mondi storici del tutto conciliabili, secondo un «senso
dell’intero» e del contiguo tra antico e moderno attualmene non piú
concepibile 4. Eliot scriveva: «Tutta la letteratura d’Europa, dopo Omero,
[…] ha una sua simultanea esistenza e forma un ordine simultaneo», un
«nuovo insieme» 5. Occorre comunque precisare che neppure in tempi
moderni abbiamo dissolto definitivamente questo «insieme». Per limitarci
alla poesia, notiamo che la questione del comporre versi è ancora oggi
sempre la stessa: «suggerire riflessioni, filigrane nascoste, stereoscopie
storiche delle parole» 6. Un poeta moderno che, poniamo, parla d’amore,
non «parla in un deserto: è un poeta che dietro di sé ha una tradizione
d’amore che risale alle origini; e la sua poesia d’amore è anche un dialogo
con i morti oltre che un dialogo con la vita» 7. La magnifica Chanson
d’aube che apre la nuova raccolta poetica di Giorgio Luzzi (Da che mondo.
Poesie 1976-2016) col tema del distacco, del congedo dall’oggetto
d’amore, coniuga inestricabilmente passato e presente: ricalca il genere
lirico medievale dell’Alba e insieme richiama il confronto col tempo della
propria vita «che ineludibilmente succede al non-tempo della notte che sta
per finire» 8. Le forme della lontananza sono fuse con l’atto presente dello
scrivere. Questo modo di porsi di fronte al passato, nonostante gli scossoni
e le rivoluzioni, tiene piú o meno saldamente, comunque in modo palese,
sino alla metà del secolo scorso, grosso modo. Si elaborava un passato
anche quando lo si rovesciava. Abbiamo avuto molti casi di poeti o
sperimentali o di “avanguardia” per i quali quel sottofondo di passato,
quella parola letteraria riscritta per secoli, quell’interiorizzazione di
meccanismi formali già esperiti, hanno funzionato ora da «difesa
iperletteraria» (pensiamo a Zanzotto) 9 ora come sfondo per meglio attuare,
far rilevare un “rovesciamento” (penso al Gruppo ’63). Ci sono state mille
vie per svolgere il passato, rimescolarlo, trasformarlo, svilupparlo,
ricomporlo, negarlo 10.
Comunque sia, la necessità della “prigione” non ha messo nei ceppi lo
scrittore, ma lo ha aiutato ogni volta a elaborare la propria “libertà”
espressiva. È appunto sullo sfondo dell’eloquenza dannunziana e
dell’antieloquenza crepuscolare che prende un suo peculiare significato la
novità del linguaggio del primo Montale. Il rifarsi sempre ai predecessori è
stato uno dei caratteri rilevanti della storia del linguaggio poetico, in specie
l’italiano. La patina petrarchesca della nostra lirica, dal Trecento a Saba e
anche oltre, ne è prova evidente. Dopo essere transitata nel petrarchismo
quattro-cinquecentesco (Sannazaro, Boiardo, Bembo, Della Casa) approda
alla nobile semplicità, alla grazia melodica, all’armonico stile elegante della
lirica settecentesca, che sin dai primi del XVIII secolo tornava a farci
respirare, pur tra il limitato repertorio, come un’aria di casa («insopprimibili
tratti di famiglia», diceva Meneghello nei Fiori italiani). Si andava cosí
accentuando la «forte socialità della poesia», attestatasi nel Settecento
lungo alcune stabili linee guida (Chiabrera-Metastasio) 11. La norma
dell’imitatio che aveva guidato per secoli la nostra tradizione letteraria non
svalutava affatto la ripresa di immagini analoghe. E una marea di stabili
formulazioni linguistiche e tematiche perdureranno per tutto l’Ottocento,
protendendosi ancora ben oltre, sino a Montale, il quale riverserà negli Ossi
(«Arremba su la strinata proda | le navi di cartone, e dormi, | fanciulletto
padrone», e ancora ivi nell’Epigramma per Sbarbaro, «estroso fanciullo,
piega versicolori | carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia | mobile
d’un rigagno») addirittura dei versi di Zanella (Astichello XVI): «lo scalzo
fanciulletto» che «abbandona | le sue flotte di carta alla corrente» 12.
La nostra storia poetica contiene una gran massa di inezie e futilità,
canzonieri interi composti da «sonettanti» di maniera 13, congerie di
«componimenti amorosi scritti, secoli dopo secoli, col gesso detritico del
canone»: eppure, nonostante tutto, testimoniano un’amorevole e amabile
«instaurazione di un qualche colloquio, una partecipazione, una continuità
attraverso tempi e paesi […] in un tutto nel quale ognuno dà qualcosa,
anche il meno dotato, in un tessuto che dunque è “civile”» 14. Con l’età
neoclassica, da Parini e Alfieri a Foscolo, il linguaggio poetico altro non ha
cercato che di rammemorare il linguaggio nobile dei predecessori e degli
antichi, facendo uso altissimo di quella feconda «libertà condizionata» che
restò attraverso i tempi socialmente fruibile 15. La letteratura si inscriveva (e
lo ha fatto per secoli) in un discorso di “riuso” degli strumenti che nel corso
dei tempi aveva adoperato «per il mantenimento cosciente della pienezza e
della continuità dell’ordine sociale e anche, in fondo, del carattere
necessariamente sociale dell’umanità in genere» 16.
Non sto elogiando passato e classicismi, con lo scopo di rimpiangerne o
riproporne i principî. Mi preme soltanto ribadire il fatto incontrovertibile
che nelle patrie lettere le novità di alto rilievo nel linguaggio poetico si sono
sino a un tempo non lontano affermate piuttosto dentro una continuità che
in una discontinuità. Testimone il sommo Leopardi, colui che ha sconvolto
e insieme incarnato mirabilmente il crescere sulla tradizione. Sappiamo tutti
quanto i Canti vadano letti con negli orecchi Petrarca del Canzoniere. La
«vecchiarella e lo zappatore del Sabato del villaggio scendono dritti dalla
vecchiarella e dall’avaro zappador(e) della canzone L del Petrarca» 17. La
dittologia «lieta e pensosa» di A Silvia 5 è «geniale ossimoro d’ispirazione
petrarchesca» (Contini) 18. E penso ai fittissimi elementi petrarcheschi in
Alla sua donna 19. Altri stilizzati archetipi petrarcheschi ritroviamo nel
Canto notturno: «il vecchierel canuto e bianco» viene da Petrarca, il sonetto
XVI 1; «e quando miro in cielo arder le stelle» della sestina XXII 11
produce «poi quando io veggio fiammeggiar le stelle», e quel «noverar le
stelle ad una ad una» viene da «Ad una ad una annoverar le stelle» della
canzone CXXVII 85 20. Si tratta di sintagmi “discorsivi”, tessere
“protocollari” piú che fonti, di legami piú linguistici che tematici, come
sottolinea Blasucci (siccome suole, or volge l’anno, né cangia stile, mi
giova la ricordanza ecc.), del tipo, ancora da Petrarca CLXVIII 14 «ben
temo il viver breve che m’avanza», CCLXVIII 32 «questo m’avanza di
cotanta spene», CCCLXV 12 «A quel poco di viver che m’avanza», che
passa a Leopardi «Ecco di tante | sperate palme e dilettosi errori, | il Tartaro
m’avanza» di L’ultimo canto di Saffo 68-70 e Alla sua donna, 2 a stanza
«nulla spene n’avanza», e a Le ricordanze 92 «Che di cotanta speme oggi
m’avanza» (questo intarsio petrarchesco diventerà formulaico, lo ritroviamo
per ogni dove: dall’Orfeo di Monteverdi ai Puritani di Bellini a La
Signorina Felicita di Gozzano). La lunga serie dei petrarchismi di
repertorio, filtrati attraverso una consolidata tradizione potrebbe continuare.
Interessano maggiormente i piú accusati richiami del tipo (Alla sua donna
14-15) «ignudo e solo | per novo calle a peregrina stanza | verrà lo spirto
mio» < «ché l’alma ignuda et sola | conven ch’arrive a quel dubbioso calle»
(Petrarca CXXVIII 101-2), marcature intenzionali rispetto alla citata
funzionalità discorsiva dei modi come (ancora in Alla sua donna 37) il
«giovanile error» < «in sul mio primo giovenile errore» (Petrarca I 3) o, nel
Passero solitario 18-19, quel «Sollazzo e riso, | della novella età dolce
famiglia», dove dolce famiglia è patente sintagma petrarchesco (sollazzo e
riso sono anche antica endiadi sicilianeggiante). In una conferenza
brasiliana su Petrarca giustamente Ungaretti osservava che l’involve di
Petrarca («E tutto quel ch’una ruina involve») passa al Leopardi della
Ginestra («Or tutto intorno | una ruina involve, | dove tu siedi, o fior
gentile»), dopo esser transitato per Foscolo («e involve | tutte cose l’oblio
nella sua notte») 21.
Questi rapidissimi richiami potrebbero continuare. Ma non farei che
ripetere cose risapute. A me preme soltanto ribadire che, nella maggior
parte dei casi, “fonti” per la verità non sono, bensí echi assimilati e
trasformati, quasi inconsapevoli, che fanno parte di un «patrimonio
genetico»: lo hanno mostrato i decisivi contributi di Blasucci e Carrai 22. E
non si finirebbe di citare altre serie di allusioni, quelle che non rimangono
nello stato frammentario di semplici “fonti”, di casuali imprestiti, ma
colgono il modello generativo dei testi poetici leopardiani, testi che
notoriamente hanno seguito una personalissima regola di composizione
poetica, che discende da una visione precisa del linguaggio poetico, un
linguaggio che, per dotarsi di forza e semplicità, di nobiltà e leggerezza di
stile, conteneva sapori di passato, di antico. Sul piano sintattico e prosodico,
dell’inarrivabile impasto leopardiano di moderno e di antico ci ha fornito
magnifica esemplificazione Leonardo Bellomo, che si è fermato di recente
sulla perturbazione dell’ordo verborum in Leopardi poeta. Si tratta di un
procedimento che si accentua nel Settecento e nel primo Ottocento (Parini,
Alfieri, Monti, Foscolo) col crescere del distacco fra lingua della prosa e
lingua della poesia: la consecuzione lineare e diretta viene “perturbata”
frequentemente da anastrofe e iperbato, che sono costrutti marcati o inversi
che vagheggiano accostamenti alle lingue antiche, lingue che Leopardi
riteneva per l’appunto piú libere e piú “ardite” delle moderne e quindi
degne di imitazione 23. Le diverse tipologie di iperbato soprattutto enjambé,
impreziosite talvolta dalla concomitanza di un’inversione, non solo
conservano quel sapore aulico e latineggiante che era già caratteristico di
Parini o Foscolo, ma in Leopardi acquistano un’inflessione personale:
Leopardi riesce a combinare la curvatura melodica dell’enjambement con
un enunciato che reitera dislocazioni di pause al centro del verso,
determinando cosí «un continuo rilancio del discorso»; la linea intonativa
del verso acquista un movimento nuovo, la «profusione di procedimenti
inarcanti» crea un flusso discorsivo travolgente che rende meno percepibili
le rime, depotenzia le pause di fine verso, ma intanto questa linea che si
protende oltre la “pausa irrazionale” di fine verso è scossa internamente da
una linea discorsiva insieme avvolgente (enjambement) ma sempre rotta al
centro del verso da pause e riprese, che mentre sottraggono peso alla
scansione metrica aggiungono al verso scorrevolezza discorsiva, impulso
dinamico leggero e assolutamente “moderno” 24. Molti passi dello Zibaldone
si fermano sulla necessità di questa convenienza tra spontaneità e culto, sul
convergere di attuale e di antico («in guisa che paia del tutto spontanea, una
lingua conforme alla natura e a’ bisogni de’ moderni tempi e delle moderne
cognizioni, la qual sembri e sia onninamente una coll’antica»: Zibaldone
3329). Leopardi è il lirico piú grande che con materiali antichi abbia saputo
formare con naturalezza messaggi di contenuto nuovo e diverso: un
moderno che scrive all’antica 25, un antico che scrive moderno. È sua
convinzione ritornante (sin dai tempi della scoperta giovanile di Frontone e
dell’idea dell’arcaismo come novità) che si debbano ricercare patine
arcaicizzanti, quelle che fanno sí che le parole italiane antiche, uscite
dall’uso, colpiscano per la loro apparente singolarità («Sopra tutto dee
guardarsi l’oratore dal coniare una nuova parola, come moneta falsa, e dee
fare in modo, che una stessa voce sia nota per la sua antichità, e piaccia per
certa novità») 26. Giovanni Nencioni ci ha ricordato l’uso di costrutti latini, e
di vocaboli come incombe ‘sovrasta’ (Ad Angelo Mai 4), o sollazzo [al
nostro male] (Sopra il monumento di Dante 184) col significato etimologico
di ‘consolazione’ (lat. solatium): al poeta – scriveva Leopardi nelle
Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824 – si deve
«concedere quella novità che nasce dal restituire alle voci la significazione
primitiva e propria loro». Questo fecondo e apparente paradosso gli farà
sviluppare l’importante concetto di «pellegrino», vale a dire ciò che dà alla
locuzione «quel non so che di temperamento inusitato, e diviso
dall’ordinario costume, da cui deriva l’eleganza» (Zibaldone 1336).
Leopardi assume tutta la tradizione, antica e moderna, quella italiana
insieme con la greca e la latina (innanzitutto Virgilio). La moderna, non
tanto la assimila e recupera per intero (Petrarca, Dante, Marino, Bartoli,
Cesarotti, Monti, Parini, anche Manzoni) ma, dice bene Mengaldo, la
«abita» 27. Tutto il passato in lui rivive, perdura, i classici greci e latini sono
come dei suoi contemporanei, imponente è la loro presenza. Del desiderio
di questa presenza ricordo i momenti in cui nella Sera del dí di festa i
fuochi di Troia e le luci di Recanati ch’egli contempla dal balcone del
paterno ostello diventano la stessa cosa 28 e la luna domestica viene a
coincidere con quella di Virgilio o di Omero: in «Dolce e chiara è la
notte…» Leopardi convoca versi dell’Iliade VIII 555-59, quando i troiani
montano la guardia notturna a Ilio («Come quando in cielo le stelle intorno
alla luna | lucente si mostrano nitide se l’aria è senza vento… ecc.»), e in
«già tace ogni sentiero, e pei balconi | rara traluce la notturna lampa» ripete
con voce nuova Eneide IX 383: «rara per occultos lucebat semita calles» 29.
Le Georgiche (III 66-69: «Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi |
prima fugit; subeunt morbi tristique senectus | et labor, et durae rapit
inclementia mortis») sono rinnovate nella Saffo leopardiana: «Ogni piú
lieto | giorno di nostra età primo s’invola. | Sottentra il morbo, e la
vecchiezza, e l’ombra | della gelida morte» (Ultimo canto di Saffo 65-68). E
ibid., 26-27 «e le pupille invano | supplichevoli intendo», si ricalca intanto
Eneide II 405 «Ad caelum tendens ardentia lumina frustra». E L’infinito:
nasce «rotondo» come un ciottolo levigato, e consistente, «lavorato da
secoli di retorica profonda» (commento di Giorgio Orelli) 30.

La necessità di volgere il capo ai predecessori, la necessità di una


paternità, alta sul presente, ha contrassegnato quel senso di continuità delle
lettere che è assolutamente di matrice classica, ed è restato caratteristica
saliente della civiltà letteraria occidentale: questo carattere, dico, di
permanenza-memorabilità che deve assicurare (in particolar modo alla
poesia) la sopravvivenza, la durata che si oppone al transitorio. Si è sempre
cercato dei “padri”. Basti pensare alla memoria di Dante, ipotesto
ineludibile ancora nel Novecento, anche nelle rime, nelle inarcature (viene
per esempio da Dante quel ripetuto quando sospeso in punta di verso), nelle
strutture metriche (avrà fortuna la terzina, dai Poemetti pascoliani
all’Alcyone e alla Merope di D’Annunzio, alle Ceneri di Gramsci di
Pasolini) 31. Dante, dopo aver già proteso la sua ininterrotta presenza nei
secoli passati (anche soltanto con coppie o terne di rime: ricordo Orlando
furioso IX 7 novembre:membre:insembre come Inferno XXIX 49-51
settembre:insembre:membre, Orlando furioso XXXII 13
piume:costume:lume come Purgatorio VI 146-150 ecc. ; e tante 32

espressioni dantesche palesemente familiari all’autore, parole di forte


concentrazione semantica, latinismi, segmenti metrico-sintattici, matrici
ritmiche e narrative) 33, approda potentemente tra i moderni: affiorano
spesso dantismi nell’espressionismo vociano (Jahier, Boine, Rebora
soprattutto) 34. E penso a Dante in Montale. Negli Ossi di seppia,
Meriggiare, l’intreccio “aspro e chioccio” dei vocaboli e delle rime rimanda
a Inferno XIII, alla selva dei suicidi; la petrosità, l’aridità, l’arsura, la
sterposità del lessico degli Ossi bene evidenziano il Montale «discepolo del
Dante petroso» 35. Isella faceva notare che anche minimi dettagli lessicali
(per esempio errore/tempie di «l’errore che recinge | le tempie» del sonetto
Nel sonno) potevano essere immessi nel moderno per autorizzazione di un
luogo dantesco: «Ed io ch’avea d’error la testa cinta» e «Onde le fiere
tempie erano avvinte» 36. Montale (lo ha distesamente mostrato Mengaldo)
scrive naturalmente con in mente non solo Dante. Nel suo canone poetico
(come del resto in tutto il primo Novecento) ritroviamo Pascoli e
D’Annunzio (negli Ossi, al di là del lessico, Montale riprende di
D’Annunzio anche la sillabazione aspra: cioè il tipo «su la solitaria aspra di
rusco, | di ginepri arsi»: Maia, Laus vitae). Ma con Dante ritroviamo temi,
motivi e sintagmi di sette secoli prima. Senza Dante non possiamo leggere
Mario Luzi, del quale Maria Antonietta Grignani cita (da Primizie del
deserto, Invocazione) il tema dello smarrimento, che viene dall’incipit
dell’Inferno: e la presenza della Cantica prosegue ulteriormente in un
contesto di radici, rami, foresta inestricabile, pruni, rovi, secchi sterpi che ci
riportano a Inferno XIII soprattutto. Grignani ricorda ancora i tipi allocutivi
(Onore al vero, Incontro): «E tu chi sei, | una persona vera o uno spirito |
che torna in sogno a questa volta? | […] e l’ora dice che si deve | riprendere
ciascuno il suo cammino | in questa tratta d’anime e di spoglie». E poi,
convoca citazioni piú dirette: «Perché non parlare un po’ tra noi | mi dice
uno forato nella gola | premendosi una garza sull’incavo» (Nel magma, Nel
caffè). Nel Luzi ultimo infine sono evidenti gli influssi del Paradiso: nei
fulgori, nelle incandescenze della luce, addirittura nelle citazioni di hapax
danteschi. Accanto a Luzi, compare un altro grande, Giorgio Caproni, con
gli omaggi danteschi espliciti a rime famose (terra:guerra, sorte:morte in
Res amissa, Fatalità della rima), e con i titoli stessi delle sue raccolte, Il
seme del piangere, Il muro della terra, che come titolo primitivo era già
dantescamente Orgoglio e dismisura, da Inferno XVI 66-75 37. Dante
ancora, in forma manieristica, compare in Zanzotto anche nelle rime,
serpi:sterpi:scerpi, iterate nell’Ipersonetto VIII. E in Giovanni Giudici sono
stati segnalati vari richiami 38. Fortuna novecentesca hanno anche avuto
riprese di base onomatopeica: penso a cricchiare, cricchiante, da Inferno
XXXII 30 («non avria pur da l’orlo fatto cricchi»), sia in poesia (Pascoli,
Gozzano) sia in prosa (Gadda 39, Fenoglio). Nella poesia di Primo Levi
Dante compare con rilievo significativo in Ad ora incerta: vedi soltanto
quel sostantivo parlante come schiera («la lunga schiera nei grigi mattini»
in Buna), o le formiche che si ammusano, in Schiera bruna, e quell’altro
verso, dantescamente autorizzato, di 25 febbraio 1944 («oltre che morte ti
ha disfatta») 40, poesia dedicata a Wanda Maestro, un’amica morta ad
Auschwitz. Dante in prosa è riconvocato da Elsa Morante nel Pier della
Vigna di Menzogna e sortilegio. Cavaglion e Valabrega 41 indicano un altro
mascheratissimo dantismo di Carbonio (Sistema periodico), là dove Levi
parla delle tante storie di atomi che potrebbero raccontare la “natura” dei
loro “trapassi”, proprio come accade in Paradiso XIV 110-14 nel
movimento di anime che sotto forma di luci si incontrano e si oltrepassano
(Dante li paragona alle particelle del pulviscolo atmosferico che si
muovono in un raggio di luce). E Levi aveva già rimandato a Dante nel
grande episodio sul canto di Ulisse del cap. II di Se questo è un uomo.
Dante ha continuato a protendere la sua presenza potente, ma non a
scapito dell’invenzione, principio fondamentale ancora nel Novecento, se lo
intendiamo nel senso bachiano del termine come «riscoperta e ritorno», «un
modo creativo di rivivere», «forma di ripetizione» 42 (come nella retorica
antica e medievale del resto, dove l’inventio è la scoperta di idee già
esistenti). Ciò è avvenuto anche nelle altre arti. Un musicista rivoluzionario
come Schönberg, seguendo la tecnica della variazione (l’uso delle famose
inversioni e inversioni retrograde), rinnoverà quel principio che appartiene
già all’invenzione di Bach («il “conseguente” consiste nella ripetizione
retrograda dell’“antecedente”») 43. Ma non mi inoltro in territori non miei, e
mi affretto a tornare alla letteratura, dove, anche nei momenti eversivi, le
novità possono spiccare e maturare soltanto al cospetto degli antecedenti:
ogni atto artistico che ha rovesciato o parodiato il passato, si è proposto di
richiamare, di “citare”, sia che negasse sia che facesse il verso.
Citare e fare il verso: ci sono stati vari modi e gradi di tale
“rovesciamento”. All’inizio del secolo scorso, maestro di citazione e
controcanto ironico era stato Gozzano 44: amava il rigido impianto metrico,
il recupero preciso delle sue forme tradizionali, amava esibire la mappa dei
suoi riferimenti, delle sue fonti palesi, procedendo onusto di reminiscenze
intenzionali (anche ritmico-sintattiche, come il Dante di «per la tua fame
senza fine cupa», «Giú per lo mondo senza fine amaro», che risuonava in
«Donna, mistero senza fine bello») 45. Esse portavano in superficie il dolce
peso del passato, come di fatalità consapevole, con gesto insieme stanco e
compiaciuto. Gozzano si compiaceva per “controcanto” di usare una lingua
letteratissima. Inaugurava il Novecento senza aver bisogno di inventare un
nuovo linguaggio. Svuotava l’esperienza del passato e nello stesso tempo si
inseriva in una linea di continuità. Sfaldava la “cittadella aristocratica della
poesia” 46 ma ne serbava i mattoni per ricomporla con distaccata, sorridente
ironia (nelle rime ad esempio, quando la bella favola di ascendenza
dannunziana era accostata a le gioie della tavola, la favola divina a un getto
di morfina, o il canto piú divino a un ottimo intestino) 47. Continuava a usare
un linguaggio di fitta saturazione e vecchiaia, ma con distacco e tratto
leggero. Intendeva ancora fare i conti con un costume stilistico, e insieme
distaccarsene. In qualche modo quel passato era lí sempre presente, docile
per essere rammemorato, magari rovesciato in una contraffazione che però
lo presupponeva. Il verseggiare non poteva che venire da qualcuno che
avesse lavorato prima. La “finzione” letteraria di Gozzano doveva affondare
le radici in ciò che era già avvenuto. Alcuni colleghi poeti in quegli anni, in
modo euforico e festoso, appiccavano incendi di libri per non esserne
soffocati, pensavano che si dovesse tornare da capo a compitare l’abbiccí
della poesia, Gozzano componeva invece versi costruiti su segmenti
istituzionali, su un codice secolare, secondo un galateo poetico depositato
nella memoria collettiva che gli permetteva di conciliare “alta” letteratura e
recitativo piú “basso”, declamazione e colloquio. I suoi versi piacquero (e
piacciono ancora) ai letteratissimi, piacquero nei salotti, piacevano a un
pubblico medio e ai raffinati, anche per quella propensione a essere
ricordati, recitati (mandiamo a memoria i versi suoi piú di altri, per la
vocazione prosodica spiccata alla cadenza altamente memorizzabile,
metricamente allacciata, e perfetta). Sono versi che ai suoi tempi hanno
avuto una posizione (per l’ultima volta) di privilegio: «entravano, – scrive
Giorgio Caproni, – in quasi tutte le case “bene” al pari dell’acqua potabile,
o del gas, o dell’energia elettrica». Gozzano è l’ultimo esempio della
“fortuna” del linguaggio poetico tradizionale. In Gozzano le istituzioni
poetiche non venivano inquinate, anzi, erano evidenziate nella loro inerzia.
Il verso nasceva marcato, preciso («smagliante; “smaltato” direi» lo
definisce Umberto Fiori) 48, e insieme teatrale, dialogico, colmo di rotture 49.
Le movenze parlate cadevano non in ritmi slabbrati ma entro strutture
metriche sostenute. A ogni abbassamento prosastico corrispondevano
innalzamenti, controspinte auliche. Grazie all’appoggio di un’«aria di
famiglia» i versi suoi intrisi di passato non risultavano mai versi stracciati e
rattoppati, come già era successo nel primo Novecento (si pensi a Govoni).
Del formulario consueto Gozzano assaporava il disfacimento, ma nello
stesso tempo ne chiudeva il ciclo, riusando con amore il “repertorio” della
tradizione, l’aria sontuosa e familiare di una nobiltà sull’orlo dello sfacelo.
Ma in qualche modo ne teneva su la compagine eletta. Il diffuso della lingua
del quotidiano conviveva con il compatto dell’orchestrazione. Il poeta
faceva lievitare il quotidiano delle situazioni e del linguaggio senza inserirsi
nel coevo modo “crepuscolare” di stendere un colore monocromo, en
grisaille 50, sul mondo circostante, su paesaggi e persone. Anche la
riproposta di un genere e di una lingua «antica» (come succede nel poema
su Le farfalle) avviene con rinnovata eleganza. Rinnova un genere antico,
una poesia didascalica che richiama la tradizione settecentesca
(Mascheroni) e cinquecentesca (Alamanni), scritta secondo un «bello stile
[…] altosonante», che offre «essenza nuova», «per gioco», in un «cristallo
arcaico». La grande abilità manieristica messa in mostra nel descrivere
quell’«animato fiore senza stelo» che sono le farfalle, fa rinnovare a
Gozzano una galanteria, un «rituale arcadico», una partecipazione agli
artifici di una tradizione consunta e insieme amata, ne espone la persistenza
nel momento in cui ne segna la dissoluzione (una soluzione originalissima
all’eterno dilemma degli scrittori tra conflitto e integrazione). La sua
sapienza descrittiva tocca a tratti le vette degli scrittori scientifici barocchi,
osservatori e descrittori di “meraviglie”. Ma nello stesso tempo quei versi
sulle crisalidi e sulle farfalle non sono soggetti all’amplificazione
secentesca, che era stata propria di D’Annunzio (pensiamo alle descrizioni
tramite accumulo di similitudini che crescono a cascata), ma tendono alla
piú tersa esattezza scientifica: «il mistero conturbante della metamorfosi» 51,
il vivere il morire e il rinascere non diffonde sulla scrittura impronte vaghe,
simboli da decifrare, ma incide le figurazioni con precisione elegante e
rigorosa.
Del Gozzano che liquida e rimpiange, cancella ed evoca 52, e intorno al
quale si discusse perciò se avesse aperto il Novecento o invece chiuso una
tradizione, raccoglie qualche significativa eredità Montale. E la raccoglie
Sanguineti, poiché uno degli espedienti della rottura è la conservazione ad
effetto iperletterario, la citazione per parodia. L’avanguardia di Sanguineti
non ha chiuso una tradizione; raccoglie invece significative eredità, proprio
nel momento in cui le rovescia e le esaspera (si pensi all’uso disarticolato
della sintassi, la punteggiatura esorbitante, che introduce scarto e caos
nell’ordine discorsivo… esagerazione di tralicci consolidati per rendere
ipertrofica la conservazione). Era d’obbligo dunque, anche per le
avanguardie, appoggiarsi sul passato, perché di regola, anche quando si fa il
verso, occorre usare i materiali che si vorrebbero negare (Luciano Berio
sosteneva giustamente che le “dissonanze” si percepiscono soltanto sulla
base delle “consonanze” di tradizione). Ogni innovazione, pure la piú
rivoluzionaria, deve necessariamente iscriversi nel quadro culturale
preesistente che si continua o a cui ci si oppone. Le risorse tecniche piú
sofisticate della «musicalità dissonante» di «un maestro riconosciuto di
sapienza retorica» come Sanguineti 53 non potevano che crescere entro un
coro di segni di “appartenenza” alla “maestà” di una tradizione
monumentale, da dissacrare ma alla cui esperienza si restava
inestricabilmente connessi, stilisticamente, formalmente radicati. Si veda tra
i tanti soltanto il caso del famoso dipinto (1952) della testa raffaellesca in
cui Dalí lascia intravvedere il cranio “esploso” della Madonna in figura
però di allusione al prototipo dei modelli architettonici, duraturo nei secoli,
fondatore di una tradizione maestosa, il Pantheon.
Ma torniamo alle lettere, ancora con un esempio sulle novità metriche
proposte a fine Ottocento: hanno dovuto liberarsi dai vincoli adottando uno
schema tradizionale, per declassarlo rispetto alla sua funzione e significato
tradizionalmente condiviso. Certi camuffamenti della metrica non poterono
che riprodurre ciò che negavano (è il caso di sonetti di Capuana nei
Semiritmi o di Lucini nelle Armonie sinfoniche) 54. Come bene avevano già
indicato i formalisti russi (in particolare Tynjanov), uno degli espedienti
della parodia consiste appunto nel conservare un traliccio metrico-sintattico
canonico contaminandolo con un lessico appartenente a un’altra serie. Tale
procedimento è ancora largamente applicato con senso polemico dai poeti
contemporanei (Paolo Giovannetti ricorda quartine di Alessandro Broggi) 55
quando “citano” ritmi (ma per contestarli, raggiungere effetti stranianti) e
strutture metriche tradizionali, che funzionano da mero supporto, da
cornice, semplice recipiente, contenitore decaduto, per renderlo visibile ma
non per prenderlo sul serio: resta un semplice ordito da buttare, e non piú
elemento nobilitante, è forma metrica esterna che va soltanto vista piú che
udita. Comunque sia, l’“antiletteratura” ha agito sempre e soltanto in
controcanto a una “letteratura”. Lo «sfolgorante linguaggio poetico» di
Sanguineti (definizione di Antonio Porta) si resse appunto sulla tecnica
della citazione, assecondando un’ironia iperletteraria (di tradizione già
crepuscolare). Ma non distruggeva affatto la letteratura, anzi le rendeva
omaggio, nel fondo la rinforzava.
Quanto sto dicendo vale per ogni espressione artistica. Irresistibile è il
richiamo alla musica, e mi viene subito a mente Stravinskij, di cui mi piace
citare un esempio minimo, quel delizioso valzer dei «pezzi facili» per
pianoforte a quattro mani. Che cosa c’è di piú popolare e tradizionale di un
valzer! Lo sfaldamento del passato diventa tanto piú rilevante quanto piú
evidente e canonico è il modello che si intende frantumare (e dissolvere con
un moto anche di malinconia, quella che nasce dal ricordo struggente
dell’amato oggetto andato in pezzi, come fa ancora con un valzer Prokofiev
nel secondo tempo della sonata n. 8, op. 84 per pianoforte). Di Stravinskij
voglio anche ricordare Pulcinella per gli omaggi a musiche all’epoca
(1920) attribuite a Pergolesi, o Le baiser de la fée, altro balletto (1928),
tutto basato su piccoli brani pianistici di Čajkovskij che Stravinskij
strumenta a modo suo rendendoli quasi irriconoscibili, o in Petruška ancora
un valzer, il valzer di Lanner, quando il moro fa danzare la ballerina con
disperazione del povero Petruška, e dove la citazione è volutamente
storpiata e imbruttita, parodia e caricatura 56, o comunque «qualità del
suono» che non ricerca piú un amalgama bensí uno «squilibrio fra gli
strumenti» capace di introdurre il principio di una dissociazione che faccia
da controcanto alla fusione, all’«equilibrio» che era proprio della cosiddetta
“musica da camera” 57. Debussy infine: nell’ultimo quadro del Children
corner (Golliwogg’s cake-walk), alla appena accennata citazione (ma
ripetuta per ben quattro volte e in tempo allentato) delle prime note del
Tristano e Isotta di Wagner, da eseguire «avec grand émotion» (cosí scrive
nella partitura), Debussy fa seguire immediatamente un ricciolo arguto di
commento affettuoso (in tempo vivace e con l’uso delle acciaccature),
sberleffo e ironica risata. Ma basterebbe aprire il capitolo della pittura dei
primi decenni del Novecento: e qui non si finirebbe piú di addurre esempi
probanti. Mi limito tra i tanti a isolarne due, L’Elba a Dresda, 1921 circa
(Detroit Institute of Arts) di Oskar Kokoschka, alle cui spalle ci sono le
vedute di Bellotto, quelle che stanno per l’appunto allo Staatliche
Kunstsammlungen di Dresda; o l’Autoritratto di Otto Dix, ancora al Detroit
Institute of Arts, alle cui spalle c’è Dürer rivisitato in chiave moderna.
Lasciando le arti, e rientrando nel campo piú familiare dei testi letterari,
torno a ribadire che ogni intenzione di rinnovamento anche eversivo-
caricaturale ha poggiato sino a ieri sulle basi del già detto. Il movimento
futurista dovette la sua esistenza al tentativo di liberarsi clamorosamente
dalle remore classicistiche. Marinetti diceva che bisognava fare
«coraggiosamente il brutto in letteratura», uccidere «la solennità», ma senza
di quella la sua gesticolazione non avrebbe avuto evidentemente alcun
rilievo.
Poi, le cose sono cambiate. Sin dal secondo Novecento la frattura nella
storia delle forme non è piú avvenuta come in passato, definendo il
linguaggio in un rapporto serio o parodico, positivo o negativo rispetto a un
modello. I modelli sono proliferati, alla geografia eurocentrica sono
subentrati panorami globali, piú ampi e piú labili, colmi di nuove
possibilità. Permane comunque in letteratura il piacere o il dolore del
riconoscimento, i libri continuano a svelare altri libri o a cercare di
nasconderli («Esistono libri che servono | a svelare altri libri, | ma scrivere
in genere è nascondere, | sottrarre alla realtà qualcosa | di cui sentirà la
mancanza. | Questa maieutica del segno | indicando le cose con il loro
dolore | insegna a riconoscerle») 58.
Capitolo settimo
La continuità e la durata

Nella tradizione poetica italiana è prevalsa nei secoli passati e piú


stabilmente di altre la linea umanistica, una concezione “classica” della
letteratura come continuità. Nel secolo scorso è diventata «anacronistica»
l’idea che si possano ancora produrre opere capaci di resistere al tempo:
«l’opera, – annotava Montale, – deve bruciarsi nel momento in cui è
richiesta e goduta dal cosiddetto suo utente» 1. In passato però, soprattutto
nei registri “alti” della poesia, si pretendeva durata e memoria. Cesare Segre
parlava in proposito di una legge della «vischiosità» 2 particolarmente
accentuata nella nostra tradizione. Essa ha reso stabile addirittura una
“memoria ritmica”, quella che ha tenuto insieme la compagine di testi
lontani nel tempo: Petrarca CCCXVIII 1 «Al cader d’una pianta che si
svelse» nasceva come ricordo ritmico-timbrico (lo notava Contini) di
Inferno VI 1 «Al tornar della mente, che si chiuse», e come eco giungeva
per via libresca, attraverso i tempi, sino a Ungaretti, «Da quando ti mirai e
m’hai guardata» (La terra promessa, Cori descrittivi di stati d’animo di
Didone III 7), un’eco ritmico-sintattica già riecheggiata da D’Annunzio,
Alcyone, Stabat nuda æstas 17 «Tra i leandri la vidi che si volse». In poesia
l’efficacia mnemonica posseduta da una “figura” ritmico-sintattica
percorreva come astrazione fonico-grammaticale secoli interi, il significante
perdurava nel suo valore autonomo. Da Alfieri a Foscolo a Leopardi sino
ancora a Pavese la letteratura, nonostante le sue rivoluzioni, sembrava
dunque essere retta dal mito della sua eternità. La prospettiva di
permanenza si appoggiava sulle spalle degli antecessori, dei classici
tutelari; ed era anche coltivata dai lettori stessi, provvisti sostanzialmente di
una cultura umanistica, sostenuta durevolmente tra l’altro, nel secolo
scorso, da una scuola d’élite come il Liceo classico: la cultura classica era
restata l’asse portante della cultura generale. Poi è venuto meno il mandato
sociale che gli studi umanistici detenevano nel campo della cultura generale
e nel campo degli studi universitari. Un tempo quegli studi erano ritenuti
necessari alle classi sociali superiori (e non solo in Italia) 3. Da noi quel
Liceo aveva educato generazioni di intellettuali a disporsi nell’ottica della
trasmissione del sapere del mondo classico e del gusto del passato,
fondando anche una disposizione generale a comportarsi preferibilmente da
“lettori-filologi”, creando a livelli di élite quella cultura dell’attenzione al
dettaglio, spia dell’insieme, che acuiva disposizioni positive anche in campi
non umanistici. Quella prospettiva culturale era soprattutto sorretta sia a
livello accademico sia nei suoi aspetti divulgativi, da una critica di base
storico-filologica, la cui pratica principale consisteva in sostanza nel
ritrovare la continuità: si lavorava intorno all’utilità interpretativa di
riconoscere i filamenti del duraturo, del rammemorabile, e della distanza
storica. La critica amava indagare tra le tastiere della “memoria”, cogliere
gli echi di echi: indugiava sulla continuità dei richiami. Anche nella pratica
didattica si attingeva, quando era concesso dal livello culturale del docente
e degli alunni, a quel mare di formulazioni che giace sotto le parole della
letteratura. A un buon docente non sembrava pedanteria mostrare ai suoi
scolari come gli scrittori avessero fuso coi propri i materiali altrui,
alludendo o citando o facendo il verso a ciò che avevano assimilato. Come
se ogni età avesse man mano contribuito alla creazione «di un unico Grande
Poema» (come diceva Shelley), compenetrandosi in un insieme strettamente
apparentato. Da un fluire sotterraneo di voci discendeva la coscienza della
letteratura come “totalità” (che è, come dicevo, l’aspetto piú evidente della
concezione “classica” della letteratura stessa) 4. L’idea era ancora
profondamente radicata in Pascoli che nella prolusione pisana del 1903
dedicata ad alcuni scrittori antichi, greci o romani, diceva che in essi è
contenuto «ciò che si può chiamare l’eterno» 5. Era la sensazione che
Carducci avvertiva chiudendo Nella piazza di San Petronio (1877) con quel
nostalgico rimpianto dell’antico: «Tale la musa ride fuggente al verso in cui
trema | un desiderio vano de la bellezza antica». Pareva necessario ai poeti
segnare sequenze ritmiche, sintagmi o nuclei di vocaboli, marcarli di una
tradizione rivissuta alla distanza.
Rispetto all’oggi, i filamenti di una permanenza-memorabilità di testi si
muovevano di piú all’interno di un canone (“ristretto”, se pensiamo a quello
attuale, immensamente espanso). La letteratura, dopo essersi nutrita
preferibilmente di una letteratura europea, e nazionale, ha sempre piú
dilatato al mondo intero i suoi orizzonti. Il sistema culturale nel mondo ora
non è piú eurocentrico, mentre sino a non tanto tempo fa gli scrittori
incorporavano piuttosto ciò che aveva espresso la tradizione occidentale di
base greco-latina. I grandi romanisti come Auerbach, Curtius, Spitzer
avevano distesamente mostrato nei loro libri celeberrimi la centralità della
cultura occidentale. E la generazione successiva, nella pratica critica e
interpretativa, ha continuato a illustrare le istituzioni letterarie, la loro
funzione normativa, generi, poetiche, considerando la letteratura come
spazio dotato di proprie leggi entro una geografia soprattutto eurocentrica.
E non hanno certamente visto male quei nostri eminenti filologi romanzi.
La letteratura occidentale era realmente immessa nelle acque di una stessa
corrente sotterranea affiorante con un respiro familiare e antico. E quel
senso di familiarità duratura, sopravvissuto fino al Novecento, il lettore
colto lo percepiva nelle intenzioni citatorie esplicitamente volute
dall’autore, nelle allusioni coglieva qualcosa del fiume della continuità
verbale e tematica sottostante. Gli studi classici, piú diffusi di quanto ora lo
siano, rendevano, e in casi non rari, il già ricordato “lettore-filologo” piú
immediatamente consapevole che Virgilio aveva intinto la penna negli
inchiostri di Omero 6 e Dante a sua volta in Virgilio, e da Petrarca in poi,
sino alle soglie del Novecento, gli echi avevano risuonato. La cultura
classica fermentava piú largamente tra gli “utenti” di testi letterari. Era
maggiore la capacità del suo riconoscimento. Nel canto III della
Gerusalemme liberata Erminia indica dall’alto delle mura di Gerusalemme
ad Aladino, il re pagano, i piú forti guerrieri cristiani, e in modo piú
immediato di quanto oggi succeda veniva a mente la “fonte”, il III
dell’Iliade, quando Elena indica i guerrieri greci a Priamo 7. A scuola, i
migliori insegnanti amavano, se possibile, far scovare ai discenti l’omericità
virgiliana, anche in dettagli minimi, o in quegli episodi riconducibili al
modello generale costituito da Omero (i celebri versi di Virgilio su Didone,
poniamo). Sembrava quasi “naturale” far notare immediatamente che
Virgilio aveva preso spunto, a distanza di piú di un millennio, da Odissea
XI 206-8 (quando Ulisse incontra la madre: «E mi slanciai tre volte, il cuore
mi obbligava a abbracciarla; | tre volte dalle mie mani, all’ombra simile o al
sogno, | volò via») nello scrivere i versi su Enea che incontra Anchise nei
campi elisi («Ter conatus ibi collo dare brachia circum, | ter frustra
comprensa manus effugit imago | par levibus ventis volucrique simillima
somno»: Eneide VI 700-703); magari quello stesso insegnante trovava
opportunità sopraffina ricordare ai suoi ragazzi che Virgilio aveva già usato
gli stessi versi quando tra le rovine di Troia in fiamme era apparsa a Enea la
figura spettrale della sposa Creusa, e là aveva scritto appunto che tre volte
tenta di cingerle il collo con le braccia, e altrettante volte, afferrata invano,
l’immagine gli sfugge dalle mani come un vento leggero, simile a un sogno
fugace (Eneide II 792-94). Anche Dante lo si leggeva piú largamente a
scuola; di solito, un bel po’ di Canti, per cui non poteva non capitare di
ritrovare quell’appena citato motivo omerico-virgiliano nell’incontro
famoso di Dante con Casella (Purgatorio II 79-81: «Ohi ombre vane, fuor
che ne l’aspetto! | tre volte dietro a lei le mani avvinsi, | e tante mi tornai
con esse al petto»). Omero-Virgilio-Dante, una trafila citatoria che
permeava testi lontanissimi. Dante scriveva i versi della selva dei suicidi
(Inferno XIII) avendo sullo sfondo Eneide III 24 sgg., i versi di Virgilio su
Polidoro inchiodato al suolo da un nugolo di dardi diventati arbusto che,
appena Enea lo svelle, stilla gocce di sangue nero e gemiti di pianto. Stesso
discorso per la figura del Caronte di Eneide VI 298 sgg. che si ritrovava in
Inferno III («un vecchio, bianco per antico pelo»/«Charon, cui plurima
mento | canities inculta iacet», quel Caronte dalle «lanose gote» appunto, il
nocchiero «che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote», dagli «occhi di
bragia» < «stant lumina flamma» di Virgilio).

Questa presenza dell’antico trovava, come già ricordavo, la sua piú alta
esemplificazione lirica in Leopardi, poeta che non si legge compiutamente
senza i sottostanti echi greco-latini. Tra i tanti, colpisce un richiamo
suggestivo all’antico illustrato di recente da Gilberto Lonardi.
Commentando l’Infinito, egli riconosce come punto d’origine collocabile
nell’epos arcaico-greco alcuni lineamenti «iconici» e «sentimentali», a
cominciare da quello star sedendo di un io che contempla, ricordo di Iliade
I 348-51, dove il giovane guerriero Achille siede solitario sulla riva e
sedendo guarda il mare sconfinato: un modello epico che fonda una figura-
icona originaria, una postura che si ripeterà nel tempo, in diverse
modulazioni, da Hölderlin ad Alfieri, a Foscolo, al Werther goethiano,
ripresentandosi nella narrazione occidentale quando ripeterà, in età
romantica, la situazione di «un giovane che si apparta, siede, e guarda,
assetato dell’immenso, verso un infinito» incommensurabile 8.
Dalle iconografie fondamentali e piú generali ai piú piccoli prelievi:
anche in questa prospettiva minima l’Iliade costituisce un tessuto del tutto
familiare. Da esso Leopardi preleva tessere con «una discreta, naturale, per
niente esibita familiarità» 9 (vedi ancora quanto Lonardi ha cavato dalla
lettura della Quiete dopo la tempesta 10 o del Passero solitario) 11. L’ideale
di Leopardi era di «poetare all’antica parendo antichi», confondersi «con
naturalezza con gli antichi» 12. Ricercava sin dalle prove giovanili la
«maestosa semplicità» 13 dei classici. L’originalità non poteva nascere se
non attraverso la “ruminazione” della lezione inesauribile e impareggiabile
degli antichi («Leggiamo e consideriamo e ruminiamo lungamente e
maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini e degli Italiani») 14.
Poetare all’antica è idea stabile sino a fine Ottocento e primi del
Novecento, fino a Carducci, e a Pascoli. Penso ai Poemi conviviali. In
Odissea IX 5-11 Ulisse prima di raccontare ai Feaci le sue peregrinazioni,
confessa che la cosa piú bella tra gli uomini è sentire il canto di un aedo
insieme ai convitati:

E io dico che non esiste momento piú amabile


di quando la gioia regna fra il popolo tutto,
e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore,
seduti in fila; vicino son tavole piene
di pane e di carni, e vino al cratere attingendo,
il coppiere lo porta e lo versa nei calici:
questa in cuore mi sembra la cosa piú bella.

Pascoli rivive quell’antica bellezza del convito in Solon:

Triste il convito senza canto, come


tempio senza votivo oro di doni;
[…]
Oh! Nulla, io dico, è bello piú, che udire
un buon cantore, placidi, seduti
l’un presso l’altro, avanti mense piene
di pani biondi e di fumanti carni,
mentre il fanciullo dal cratere attinge
vino, e lo porta e versa nelle coppe.

La classicità risale a fior di lingua nell’andamento metrico-sintattico e


nella ripresa di precisi sintagmi. I versi 41-52 di Solon («Splende al
plenilunïo l’orto; il melo | trema appena d’un tremolio d’argento… | Nei
lontani monti color di cielo | sibila il vento. || Mugghia il vento, strepita tra
le forre, | su le querce gettasi… Il mio non sembra | che un tremore, ma è
l’amore, e corre, | spossa le membra!») nascono come echi di Saffo. I
classici greci, Omero innanzi a tutti, continuavano a proiettare nei secoli,
sulla poesia occidentale, la loro presenza potente.

La nostra letteratura ci mostra che per secoli gli scrittori hanno descritto
e raccontato ogni volta le cose in modo originale, ma al cospetto di quanto
hanno fatto altri prima di loro. Basta un sostantivo, un solo aggettivo, e
subito risuonano armoniche rammemorazioni. Lo ha or non è molto
mostrato un piccolo libro di Luciano Canfora dedicato a rilevare le vicende
dell’aggettivo grifagno, dall’evidente ma anche complessa intertestualità 15.
Canfora parte da Dante, Inferno IV, là dove Cesare è posto tra «li spiriti
magni» del Limbo. Compare «armato con li occhi grifagni». Non è casuale
l’aggettivo (Dante lo userà ancora una volta in Malebolge, Inferno XXII
139-40, quando nella zuffa dei diavoli uno «fu bene sparvier grifagno | ad
artigliar ben lui» e riprenderà l’aggettivo da Malebolge di Inferno XXI 56
D’Annunzio in Elettra, Orvieto 3, 33 «e l’Alighier grifagno che con ira | in
foco in sangue in fanghe in ghiacce inerti | i peccatori abbrucia attuffa
asserra»). Il grifagno del canto IV non è invenzione totalmente dantesca.
L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45
di uno dei testi piú diffusi nel Medioevo occidentale, il De Vita Caesaris di
Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: nigris vegetisque oculis. Dante
col suo aggettivo grifagno vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e
neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina
insomma: occhi fieri, lampeggianti, di animale sempre pronto a ghermire.
Ma la storia che Canfora intesse non finisce lí. Nel cap. VII dei Promessi
sposi compare un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo Tonio
e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio
clandestino) appoggiato al vano della porta, un bravo che, scrive Manzoni,
fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni»
(l’aggettivo, che non compariva in Fermo e Lucia, compare nella
Ventisettana e nella definitiva). Nello stesso capitolo affiorano tra l’altro
anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di
Bruto, quando egli parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere
un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno
orribile, di incubo. Quel passo di Shakespeare è addirittura ripreso nel
pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio
a sorpresa in casa di don Abbondio. Ci sono vistosi movimenti da testo a
testo: Svetonio-Dante-Shakespeare-Manzoni. Anche il Cinque maggio entra
in gioco, dove Manzoni incrocia Napoleone con Cesare e il Giustiniano di
Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo | che nol seguiteria lingua né
penna», e Manzoni a sua volta scriverà (di Napoleone): «di quel securo il
fulmine tenea dietro al baleno». Giustiniano parlava delle fulminanti
campagne di guerra di Cesare, e quelle immagini dantesche preparano la via
a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima
carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi | dal Manzanarre
al Reno… ecc.», e poi: «scoppiò da Scilla al Tanai | dall’uno all’altro mar».
Echi di echi: stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale
vorticosa. Catene di riprese e di rimandi. Manzoni mette a confronto due
grandi, Cesare-Napoleone. Nel citato cap. VII dei Promessi sposi
capovolgerà la prospettiva storica. Nel romanzo ora egli pensa che la storia
non è fatta dai grandi, tant’è che il Cesare dantesco dagli occhi «grifagni»
in controcanto è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera
«stoccata anticesariana», annota Canfora. A un bandito di strada saranno
attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: un gioco dissacrante,
come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a
notarlo) quando paragona don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il
voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva
descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae…

Si usa la propria tradizione letteraria come voce da far rivivere, secondo


l’idea che una pagina letteraria è scrittura inscritta in un flusso ininterrotto,
scrittura intatta che per parlare nel presente e del presente si inserisce in una
continuità, contiene quantità di passato, di esso si intride con rimandi sottili.
Già a partire dai trovatori, dai siciliani, e da Petrarca, potenti unificatori
delle formule e degli schemi, la lirica si inseriva regolarmente dentro
categorie già possedute. La tradizione ha determinato a lungo una certa
quota di omogeneizzazione, addomesticato quello che si scriveva dentro
categorie familiari. Per secoli ogni opera, o canzoniere o prosa, ha avuto
uno sguardo retrogrado. I libri si collocavano nella scia di altri testi,
appartenenti allo stesso «genere», testi da cui attingere modalità formali; e
anche temi, tipi e motivi erano preselezionati. Senza la Camilla dell’Eneide
non ci sarebbe stata la Marfisa di Ariosto e la Clorinda del Tasso. Senza
l’incipit dell’Orlando furioso «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, | le
cortesie, l’audaci imprese io canto» Tasso non avrebbe iniziato con
quell’altrettanto celebre «Canto l’armi pietose e ‘l capitano…»,
riecheggiamenti entrambi di Virgilio che aveva iniziato l’Eneide con
quell’«Arma virumque cano», formulazione impostasi a partire
dall’Odissea. Gli incipit sono sempre stati «luoghi privilegiati di
trasmissione e di sedimentazione mnemonica» 16. Gli esordi hanno sempre
avuto un alto grado di memorabilità: questo attacco omerico, ripreso oltre
che da Virgilio anche da Catullo, era difatti diventato un docile segno di
riconoscimento, un condizionamento della tradizione come «aiuto al
dire» 17.

La memoria come un aiuto del dire: da Omero in poi ogni testo è


cresciuto su altri testi, i propri e quelli degli altri: a) I propri: la Vita nuova
di Dante ad esempio va letta come una storia e una ricollocazione della
propria poesia (un libro «della memoria» in questo senso inteso), una storia
non come autobiografia, successione di eventi, ma una particolare storia che
trascrive ciò che il poeta ha già scritto (poesie giovanili); b) I testi degli
altri: è soprattutto da questa rete che lo scrittore si è sempre lasciato
catturare e in quella ha trovato la forza per essere compreso e diffuso (per
restare alla Vita nuova, essa è opera di poesia + commento, e questa scelta
strutturale va calata dentro il rapporto con un pubblico educato alla lirica
cortese e del dolce stile, un pubblico che immediatamente coglieva
l’aggancio con le Vidas dei trovatori e le razos, le “ragioni”, esposizioni
tematiche di poesie).
Ogni comprensione e diffusione si riconosceva dunque, e si rafforzava,
nel già detto. La tradizione preesistente al testo ne determinava il
funzionamento. La voce nuova rinnovava il tràdito, faceva vedere come
attraverso quella prigione catturasse nuovi splendori, faceva sí che il
repertorio si esprimesse originalmente, mostrava come il formulaico poteva
essere pronunciato e promosso con accenti personali: i libri che si fanno coi
libri, la letteratura che nasce dalla letteratura, lo scrittore che è (anche) un
selezionatore di frammenti altrui da sottoporre ai reattivi della propria
invenzione, della sua sensibilità tecnica, elementi altrui rovesciati in
operazione ricostruttiva, in relazioni, opposizioni o congruenze che mutano
le trame intertestuali in nuove tensioni rivelatrici: lo scrittore insomma
come colui che cerca sempre di tessere una rete che leghi l’esperienza
concreta che ha compiuto nella vita, le cose che gli sono accadute, le cose
viste o sentite raccontare con l’esperienza secolare custodita nei libri… I
libri producono i libri, i libri e le letture fanno degli scrittori quello che essi
sono.
La storia della nostra lingua soprattutto poetica è per l’appunto un
susseguirsi e intrecciarsi di fondazioni e rifondazioni di formule. Spesso
una copia di copie. Come se ogni innovazione dovesse restare muta senza
rifondarsi su forme della lontananza. La tradizione conferiva ai testi la
necessità e la sicurezza del senso. I grandi scrittori tendevano a far vibrare il
lontano nelle corde del presente. Ogni musica nuova sembrava che meglio
si potesse assaporare cogliendone i “retrogusti”. Ancora nel Novecento
Ungaretti di Sentimento del tempo riconquistava con modernità di
pronuncia tutto il passato, riproponeva il linguaggio della tradizione senza
esporne residui, ne restituiva l’ordine, lo splendore, secondo un calcolo
sintattico e musicale che suonava moderno e antico insieme 18:

Quiete, quando risorse in una trama


il corpo acerbo verso cui m’avvio.
La mano le luceva che mi porse,
che di quanto m’avanzo s’allontana.
Eccomi perso in queste vane corse.
Quando ondeggiò mattina ella si stese
e rise, e mi volò dagli occhi.
(Sentimento del Tempo, Alla noia)
E si legga l’incipit della Canzone (La Terra Promessa) «Nude, le braccia
di segreti sazie, | a nuoto hanno del Lete svolto il fondo», per la
collocazione non lineare delle parole riassestate secondo classica
dislocazione dell’ordine normale e dunque cadenza all’antica. Carlo Ossola,
che ha seguito l’itinerario di un Ungaretti che continuamente corregge e
muta con irriducibile «limío» 19 passando da una edizione all’altra (1922,
1930, 1933-36, 1941-42, 1949-50), vede quel percorso come ossessiva
ricerca di un «riassestamento» dei propri versi in cadenze che cercano di
approssimarsi verso la «stasi delle forme ideali» 20.

Oggi le cose sono mutate. L’immensa foresta di classici, prossimi e


lontani, e dei testi fondanti produceva in passato un mormorio di
intertestualità. Ora invece la poesia ingloba di meno tessere o cadenze o
temi troppo riconoscibili, troppo segnati di “memoria”. La letteratura non
può piú presupporre un pubblico come quello di cent’anni fa. Il linguaggio
poetico di base ha adottato un registro piú “semplice” (almeno in
superficie). Le tendenze odierne prediligono la vicinanza al linguaggio
comune, il «non marcato», spesso il tono «grigio», talvolta «quasi
pauperistico» della testura 21. Già con Satura di Montale, ma anche con Nel
magma di Luzi, la poesia si era appropriata dei linguaggi della
contemporaneità: modismi, forestierismi diffusi, registri prosastici (pur
entro un congegno formale raffinato). Si era compromessa di piú col
linguaggio del quotidiano. Lo si avvertiva in Sereni, Bertolucci, Caproni,
Raboni, Risi, Erba, Orelli 22. Giudici si rivelava maestro nel comporre testi
che non dessero nell’occhio («Mai dar nell’occhio – mai | bardarsi da
poeta») 23, testi che evitassero di inoltrarsi in territori troppo “poetici” 24
(«Quattro Novembre, angolo Sebastopoli: | non lo sai, ma abitavo lí»:
Inverno a Torino). La scelta già era evidente nel Montale ultimo, che amava
i componimenti poco lirici, «paginette di diario, cronache minime di un io
privato», «satire di costume», il «minimalismo diaristico» 25. Ci si era
avviati nei territori del «dopo la lirica». E oggi molta poesia contemporanea
va decisamente verso la prosa, opta per una forma non versificata,
dall’andatura colloquiale, in cui «i versi stanno al limite della loro
scomparsa» 26. Nei versi prende spazio l’italiano standard, o anche il parlato
informale e trascurato: un «italiano senza qualità» scrive Enrico Testa 27. La
tendenza alla «cancellazione dello stile come forma di individualità» 28 si
accompagna all’abbassamento dei picchi metaforici, analogici, si evitano le
parole ricercate, si colmano i versi di vocaboli di alta frequenza. Tale
“abbassamento” programmatico include naturalmente prove molto notevoli.
Si può ricordare la poesia in prosa e la prosa in poesia di Tiziano Rossi, le
proposte della poesia in prosa di Giampiero Neri 29. Stessa tendenza allo
sliricamento ritroviamo in Maurizio Cucchi, in Fabio Pusterla, in Umberto
Fiori, in Stefano Dal Bianco, in Antonella Anedda (pur oscillante tra
momenti di semplicità disadorna e momenti di raffinatezze culte, dizioni
tese, oracolari) 30, e nell’ultimo Viviani (che nella Forma della vita, 2005,
sceglie, come annota nel volume, una lingua colloquiale, «le parole
correnti, le frasi semplici, quelle piú presenti nei dialoghi quotidiani»). Ma
non è ora mia intenzione identificare tendenze, tracciare mappe, del resto
non piú possibili, perché le vie si sovrappongono e confondono, si dilatano
e contraddicono, le voci sono molteplici, pluripropositive. Unica cosa certa:
sono in netta minoranza i poeti orientati verso il tono sostenuto, che guardi
ancora a recuperi di tessere culte o a fonie molto “accordate”. Minoritarie
pure le tendenze espressionistiche e violentemente neologistiche: isolato,
poniamo, il caso di Jolanda Insana, la quale, a fronte di una lingua italiana
«sfascio di lingua sfessata» 31, vede il «lavoro linguistico del poeta in
termini assolutamente fisici», al punto da mettere coraggiosamente in atto
un’acre lingua impura, sguaiata, scatenata («la infibuli e occhieggi | la
corteggi e riecheggi e la schiaffeggi | spremi spolpi e te la fai – la
lingua») 32. Ma si tratta di eccezione. Il pendolo linguistico volge ora
preferibilmente alla messa in scena, dicevo, delle formule di una elaborata
oralità. È piú forte l’attrazione del polo antilirico e antisimbolista. Anche se
poi la direzione non va mai in senso unico, ci sono andate e ritorni, un va e
vieni: penso per esempio a Viviani che, dopo un inizio piú “selvaggio”, ci fa
assistere a una ricomposizione dei contrasti, a partire almeno dalla sua terza
raccolta, L’amore delle parti, 1981; e c’è il caso di un Cucchi che nella sua
seconda raccolta, Le meraviglie dell’acqua, 1980, evidenzia una personale
restaurazione letteraria, ricomponendo, come dice egli stesso, i «moduli
convenzionali della “specificità” poetica del linguaggio». Si è da piú parti
notato che tanti libri di poesia degli anni Ottanta sono diventati piú
“poetici” rispetto ai precedenti. Anche Sanguineti conobbe negli anni
Ottanta la sua stagione neometrica, sia pure praticandola con intenti
stranianti e parodici, in Stracciafoglio, 1980, in Novissimum Testamentum,
1986, poemetto in ottave. O vedi alcune raccolte di Gabriele Frasca,
ipertecnico, quasi manieristico nel recupero delle forme chiuse 33. Dopo gli
sperimentalismi, si ritorna all’“ordine”. Ma la calibratura tra “partiture”
sostenute, “dimesso sublime” e linguaggio quotidiano aveva conosciuto già
negli immediati precedenti prove magistrali. Per esempio in uno dei
massimi poeti del Novecento, Vittorio Sereni (non era il solo: anche
Bertolucci si era distinto col suo «aspetto conversativo e moderatamente
sostenuto del lessico») 34. Sereni aveva voluto disporsi lungo un
personalissimo, mirabile discrimine, scendendo verso il parlato ma senza
mostrare sintomi di «depressione stilistica». Modulava versi narrativi che
assecondavano sí una cadenza “vocale” e dialogante, immettendo però
correttivi alla simulazione del parlato con torsioni di sequenze (iperbati,
posizione dell’aggettivo) che innalzavano il tenore della sintassi 35. Idem
Raboni, o Giudici, che pur nella scelta di un tono mediamente “basso”,
riprendevano a intermittenze figure “nobilitanti” che con intensità variabile
segnavano straniamenti dal parlato (Bandini, commentando Giudici, citava
inversioni e anastrofi del tipo «l’altro pensando lavoro che farò», «per
ritrovare | suicida l’unica forse figlia», «vestiti alla marinara | di blu
camminavamo» ecc.) 36 o allontanamento da situazioni mediocri tramite
elevatezza ironica di citazioni e costruzioni colte (la moglie rigoverna la
cucina, ed «Io ad altro || lavoro attendo, al mio ufficio, sperando | di fornir
l’opra e non me, anzi che giunga sera, | per godermi la luce residua e, di me
| stesso padrone, qualche ora d’avanzo»: Le ore migliori II 12-16, in La vita
in versi).
Quanto all’«orchestrazione» marcata, l’intenzione dei poeti
contemporanei non sta piú nel voler comporre, intessere forme “chiuse”, nel
senso di arricchire la tessitura fonica dei versi, di applicare con evidenza la
forza di attrazione che una parola esercita sul complesso che l’attornia, un
isolare e un connettere con le altre il suono delle parole, alla ricerca di un
senso al quale si tenta un avvicinamento anche per approssimazioni formali
molto rilevate. Questa ricerca di un senso del significante che preme, in
cerca di un ritmo e di una fonia che ricostruiscano rispondenze, ha com’è
noto attraversato i secoli, da Petrarca in poi. Ora invece, ai poeti
contemporanei sembrerebbe di strafare nel riprenderne l’evidenza.
L’autonomia del significante è un vettore formale dissoltosi per eccesso di
saturazione. La risoluzione fonicamente “accordata” dei versi, che ha agito
a lungo, agisce molto meno (a intermittenza, e in forma aforistica). Viene a
cadere la soluzione “eufonica”, la scelta di un materiale verbale sempre
fortemente orientato dal significante, la tensione verso un’armonia interna,
quella che si incontra anche nei dettagli minimi, dalla polimorfia verbale
alle allitterazioni alle assonanze e consonanze, suggerite dalla forza della
lingua immessa in una struttura il piú possibile “legata” 37.

Un segno di mutazione dei tempi lo si coglie bene nell’apprezzamento


minore che si fa dei valori estetico-strutturali dei testi narrativi. Di un’opera
narrativa il “lettore medio” (mi si passi la definizione approssimata) oggi
ama di piú l’intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze
dello stile. Io continuo a pensare, come affermava Alexandre Dumas padre,
che la trama di un romanzo dovrebbe essere soltanto il chiodo su cui
l’artista appende i propri quadri. Ma la realtà mi mostra che l’intreccio in
gran parte dei romanzi odierni, sull’esempio delle fiction televisive, delle
telenovelas, è diventato la cosa principale, mentre per i grandi narratori è
quasi sempre stato un qualcosa di secondario, e il culmine dell’efficacia
narrativa si è giustamente individuato nei momenti in cui il romanzo piú
che correre, staziona. Ma ora il mercato mi sembra richieda sempre piú libri
di intreccio, in cui abbia il primo posto la storia, non lo stile.
Altro aspetto della narrativa: la caduta della scrittura solenne, dal tono
epico. Si sente come “eccesso” ogni respiro stilisticamente troppo “alto”.
Ciò non succede sempre. Penso tra le narrazioni recenti allo splendido
romanzo dell’algerino Kamel Daoud 38. Come l’autore potrebbe scrivere
«La notte ha fatto voltare la testa del cielo verso l’infinito. Quando non c’è
piú il sole ad accecarti, quella che guardi è la schiena di Dio» senza avere
nelle orecchie cadenze “alte”, che gli vengono da testi religiosi fondanti?
Bastano queste improvvise impennate descrittive per provocare subito
quella sensazione traumatica di essere in presenza di un caso specifico di
qualità. Registri alti, fuori corso: il nostro prevalente “minimalismo”
stilistico non sa né vuole piú rintracciarli, non intende riproporli. Non
sarebbe difatti oggi piú proponibile il respiro epico di un romanzo come Il
partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, con Omero e Virgilio alle spalle, ora
ripresi in “citazioni” minime ora collocati sullo sfondo come pietra di
paragone per l’impianto stilistico generale. Dall’epos antico Fenoglio non
attingeva soltanto il ritmo inesorabile di scontri, imboscate e di fughe
anelanti, ma il respiro epico investiva anche le stesse aperture
paesaggistiche. Da quel modello antico attingeva la forza epica ora nei piú
semplici epiteti (le «nere nubi», la «livida luce», l’«alto mattino», «una
vasta cena», il «vasto, violaceo prato», «la ventosa tenebra» ecc.), ora nella
descrizione di albe, tramonti, e della notte, quando la luce si ritira dal
mondo e il sole naufraga (Il partigiano Johnny, cap. XVI «Masse compatte
di nere nubi serravano al centro del cielo, dove una pozza di livida luce
segnava il punto del naufragio del sole»), la notte è «voragine» (cap.
XXXVII ), la notte «precipita» dal cielo: sono appunto ricordi di Eneide VI
539 «Nox ruit, Aenea; nos flendo ducimus oras», VIII 369 «nox ruit et
fuscis tellurem amplectitur alis» ‘precipita la notte e avvolge la terra con le
sue ali fosche’. E anche Omero è presente nelle immersioni del sole e il
sopraggiungere precipitoso delle ombre (Odissea III 329 «e il sole
s’immerse e scese la tenebra», III 497 «E il sole andò sotto, tutte le vie si
oscuravano», V 225 «e il sole s’immerse e venne giú l’ombra» ecc.) 39.
Torna l’antica natura animata, quale nel Novecento abbiamo potuto
incontrare nello spazio magico del Grande Sertão di Guimarães Rosa, nel
suo “grande stile”: «Quando l’alba batté le ali», «Quel chiaro di luna che
gonfia la notte», «si vide il sole scivolare da una parte, e la notte alzarsi
dall’altra. […] La notte traboccò, una notte senza soglia», «Quando il molto
vento aprí il cielo» ecc. Torna la fisicità del moto e del tatto: «lo svolazzare
stracciato dei pipistrelli» 40, «l’incorparsi della notte» ecc. L’epicità di
Fenoglio: non ha senso che torni, il mondo storico di Fenoglio è ora molto
lontano dal nostro. Eravamo nel dopoguerra, venivamo da esperienze
esaltanti. A Fenoglio, di quelle vicende non interessava costruire gli
intrecci, né raccontare le proprie impressioni, parlare soltanto di ciò che
aveva “visto”, di ciò che era accaduto. Del resto, se si fosse limitato
semplicemente a raccontare fatti della Resistenza partigiana non avrebbe
composto quei suoi capolavori. Nelle sue pagine, tramite le sue scelte
stilistiche, Fenoglio riusciva a cogliere la storia non di una singola guerra
ma di tutte le guerre. Quel che distingueva la sua opera d’arte dalla
produzione cronachistica del dopoguerra era l’atemporale, ciò che è votato
a una durata oltre il presente. Se Fenoglio non avesse raccontato la
Resistenza a quel modo, l’autentico di quella guerra sarebbe scomparso con
i sopravvissuti. E invece resiste, perdura nelle parole del romanzo.
«Monumenti, baionette, volti eroici, | donne in lutto son diventati patetici»,
scrive il poeta olandese Cees Nooteboom, in versi rivolti (anzi, dedicati) ai
Fiumi di Ungaretti: ma, «solo tu sei rimasto… ecc.».

È fin troppo chiaro che le mie annotazioni non nascono dalla


“malinconia” di chi guarda indietro per intonare la solita geremiade sulla
grande letteratura dei classici che è tramontata, che in Italia non ci sono piú
i Gadda i Volponi e i Calvino, i Fenoglio, o che la letteratura antica,
classica, è cibo di pochi. Non è nelle mie intenzioni imboccare la strada
insensata dei lamenti. L’antico del resto è sempre là, a disposizione, ad
attendere che lo si legga, tremila anni dopo. A distanza di millenni
continuiamo a sentire uno speciale richiamo per quella riposata grandezza
antica che ha innervato la tradizione europea. È un incontro-riconoscimento
che trasferisce alla sensibilità di molti lettori emozioni ancora fresche e
forti, nel momento in cui si rileggono i passi su Ulisse che scende nell’Ade
(Odissea XI) e là scorge «il gigantesco Orione. Raccoglieva insieme le
belve per il prato di asfodeli»; o ritrova (Odissea V 50 sgg.) Ermes che vola
sul mare «Sulla Pieria balzato, piombò dal cielo sul mare; | e si slanciò
sull’onde, come il gabbiano, che negli abissi paurosi del mare instancabile, |
i pesci cacciano, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; | simile a questo, sui
flutti infiniti Ermete correva». Torniamo sempre con emozione ai momenti
epici di Virgilio, quando (Eneide V 816 sgg.) coglie il placarsi del mare
sotto le ruote del carro di Nettuno; oppure la descrizione dell’alba e dei
cavalli del sole (Eneide XII 113).

Ciò non toglie che anche la modernità abbia saputo cogliere il respiro
dell’universale, e lo ha fatto esaltando il minimo, volgendosi al rigagnolo
familiare che scorre dietro casa per considerarlo fondamentale e non meno
grande del grande fiume che corre grandiosamente al mare, come ci ha
mostrato Magris nel suo Danubio, un romanzo-saggio dedicato alla vita che
rende manifesto che la pienezza del vivere non la si ritrova tanto nel
maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle piccole cose, nei gesti e nel
dettaglio apparentemente insignificante. Il «groviglio del mondo» lo si
coglie meglio «registrando la concretezza degli infiniti gesti quotidiani» 41.
Giorgio Bárberi Squarotti ha ripetuto nelle sue poesie ultime 42 quanto si
possa meglio amare ciò che non imprime tracce, non lascia segno («Tutta la
luce candida del mondo | è nell’orma dell’onda che si muore | con un lento
lamento, qui arrivata | da chi sa quale vento. | È quanto basta a chi si avvia
verso | la tenebra che è appena un po’ piú in là»), come l’onda del mare, il
cui moto svela messaggi incomprensibili ma è anche capace di salvare e
rendere significativa la densità delle cose fuggevoli («l’onda minima | che
fugge e avanza e nessun segno lascia»), al pari della nuvola rapida che
scorre, o della ragazza veloce nella corsa lungo la spiaggia, al pari del
«vento che neppure si vede e tocca, | quello che in fretta giunge e in fretta
va, | come la vita», e al pari di tutte le tenerezze della vita che contiene quel
che passa ma anche quel che conta, e lo racchiude nell’attimo, magari tra le
luci di un’alba inquieta, di cui resta soltanto il ricordo di un «passero, che
desta | la prima luce, e non vuol dire altro | che è giorno». La malinconia o
la letizia piú intensa possono sprigionarsi meglio da ridotti spazi
addomesticati, e tra le mura di un piccolo borgo. Lo hanno ampiamente
mostrato i romanzi otto-novecenteschi che hanno espresso il luogo proprio,
«la riconoscibilità storico-geografica dei luoghi narrativi», hanno
localizzato gli eventi, valorizzato il particolare ma promuovendo ad un
tempo valori sociali e spirituali universali, acronici 43. In Italia l’ha
ampiamente mostrato la poesia in dialetto del secondo Novecento.
Potremmo qui addurre infinità di esempi. «As pol di tot cm’al mé dialet | i
so sigulament | da car di bo chi turna a ca sotsira», ‘si può dire tutto col mio
dialetto | i suoi cigolamenti | da carro dei buoi quando tornano a casa
sottosera’, scriveva Zavattini in versi di Stricarm in d’ na parola
(‘Stringermi in una parola’). Nella poesia in dialetto fiorita specialmente in
Italia nei decenni di fine Novecento l’intimo e il domestico, i suoi colori e i
suoi oggetti, hanno potuto diventare radici profonde che sono riuscite
ugualmente ad allargare la scrittura all’universale, spesso per creare
un’epica del quotidiano, o spazi “rasserenanti”, generare un sorta di
“sospensione” pacificante. Prerogativa del resto di tante nostre pagine in
lingua. Si legga dal cap. VII dei Promessi sposi:

C’era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un villaggio, sulla sera, e che,
dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal
campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi piú grandini, ai
quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le
zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedavan luccicare qua e là i fuochi accesi per
le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità
della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e piú delle parole, si sentivano i tocchi
misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.

Il miracolo della descrizione manzoniana non sta nei dettagli descrittivi,


nella minuziosa fedeltà ai discorsi, ai suoni e ai rumori, nel flusso di parole
suggerite realisticamente dall’ambiente, ma in una sorta di sospensione, di
“allontanamento”, come uno spazio artisticamente significativo ritagliato
entro il turbinio, che gira all’intorno, di una storia generale, che nel
romanzo tutto trascina, inesorabile, e spazza.
Capitolo ottavo
Respiro del vero, o allontanamento?

Nelle opere letterarie ogni descrizione è sempre fondata sulla realtà,


avviluppata alla realtà, ma lo scrittore la “trasforma”, spesso con affondi di
dettagli inattesi che circoscrivono le figurazioni, le situazioni ecc. o le
allargano in modi imprevedibili. Si è per esempio piú volte notato come una
delle prose italiane piú nitide, sobrie e concrete come quella di Primo Levi
si conceda efficacemente a continue coppie o terne aggettivali sorprendenti
(«pazienza pitocca», «ambiguo e mercuriale», durezza della pietra
«siderale, nemica, estranea», esemplari umani «scaleni, difettivi, abnormi»
ecc.) 1, a inediti ossimori, anomalie frammezzo all’ordinato 2. Le prose dei
grandi scrittori pullulano di audacie, di mirabili guizzi descrittivi, istantanee
che con la loro corporalità e oggettività raffigurano la cosa e riescono a
farcela quasi vedere, palpare. Nella Recherche la mano del duca di
Guermantes sporge ciondoloni sul petto «come una pinna di pescecane»; le
mani di Andrée si stendono davanti ad Albertine «come nobili levrieri, con
indolenze, lunghe fantasticherie, bruschi stiramenti di una falange», quasi
opera di metamorfosi (mani→levrieri), come metafora «processo di
identificazione tra due termini-oggetto» 3. Bastano geniali flash, inaspettati
particolari descrittivi per accendere la pagina: come gli «occhi di fosforo o
di pece liquida» dei soldati americani in Guerre politiche di Goffredo
Parise, o una coppia di aggettivi («il corpo, che appariva sfatto sotto la
vestaglia, come le guance, la pelle, le mani e tutta lei, era carico di
sensualità polverosa e nostalgica»: Parise, Il padrone), fotogrammi
improvvisi di movimenti, come quando Arbasino 4 coglie sul palco
l’istantanea del grande «Andrés Segovia assorto e remoto, come tutto solo
in una radura o in un tinello», o della pianista Clara Haskil «col nasetto a
punta sui tasti, come una gallina faraona che becca i chicchi». Bastano
rapidi effetti metaforici e sinestetici capaci di cogliere le cose nella loro
corporalità, come nelle Trentadue variazioni, «Il lieve mormorio del
collarino…» di Montale, che piazza due aggettivi di rara efficacia (cariato,
acido) per descrivere la «tastiera cariata di un vecchio pianoforte che dava
un suono acido di spinetta». Una corporalità colta spesso nei gesti, anche
quelli minimi, e gli scrittori massimi non se li lasciano sfuggire. Nel cap.
XVII dei Promessi sposi il cugino Bortolo chiede a Renzo come stia a
danari, e «Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrere
sopra un piccol soffio». E Fenoglio, nei Racconti, Il paese. I, coglie il
Dottore nell’istantanea di un gesto, mentre fuma una sigaretta: «L’accese
accuratamente e prese a tirarne boccate brevi e puntuali, mai ripetendole fin
quando non s’era del tutto dissolto nell’aria il fumo della precedente». Non
gli è sfuggita la fisicità del dettaglio, visivo qui, sonoro nel cap. I del
Partigiano Johnny, quando ascolta da radio Londra l’inflessione siculo-
inglese di un italiano che «parlava con accidentata violenza, scortecciando
le parole, pareva che le schegge di quello scortecciamento rimbalzassero
secche, ferenti, contro la griglia dell’apparecchio». Esempi significativi in
Tozzi: «con la sua voce crepitante come fatta d’aghi», «La sua voce
sembrava un legno grosso che si stronca» ecc. 5.
Gli scrittori sono per l’appunto dotati di un singolare talento nel
rappresentare gesti, profili (indimenticabile nei Promessi sposi l’oste della
«Luna piena», con la sua «faccia pienotta e lucente, con una barbetta, folta,
rossiccia, e due occhietti chiari e fissi»). L’uso pittorico e teatrale della
vista, traspare ancora in Manzoni nel celebre ritratto della monaca di
Monza, costruito in modo tale che l’interno dell’animo si rifletta
nell’esterno, che «la storia morale del personaggio trapeli nell’espressione
degli occhi o nelle pieghe della fronte»: lo scrittore, attentissimo
osservatore esterno, decifra l’identità del personaggio che compare come su
una scena. Lucia la vede dietro la grossa grata di ferro del convento, bella,
ma «d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta», un ritratto
enigmatico e insieme netto, in cui campeggiano il bianco e il nero, ritratto
che trascorre dall’acconciatura al corrugamento della fronte contratta
dolorosamente, e il movimento dei sopraccigli, gli occhi scuri e superbi, che
sembrano chiedere affetto ma dardeggiano minacciosi e feroci, e le gote
pallide, i moti delle labbra, la ciocchettina di capelli che fuoriesce dalla
benda, il portamento tra abbandono e risolutezza, una svogliatezza
orgogliosa dice Manzoni, un portamento tra studiato e negletto… E penso al
primo capitolo dei Promessi sposi, quando Manzoni descrive il carattere di
don Abbondio attraverso i segni e i gesti che compie 6. Quella
corrispondenza tra esterno e interiorità prende pure ilare corpo nel
“realismo” ironico-comico di un Manzoni descrittore di situazioni
specifiche, caratterizzate, il Manzoni per esempio descrittore di banchetti e
bevute: ecco la mensa a casa di don Rodrigo in presenza di fra Cristoforo,
un fra Cristoforo che è forzato ad accettare il calice di vino, mentre il
convito prosegue col brindisi di don Rodrigo per il Conte duca, segue
l’elogio dei convitati al vino del padrone, momento «che offre il destro a
Manzoni per perfezionare il ritratto fisico e morale di Azzeccagarbugli» 7, il
quale tira fuori dal bicchiere il suo naso vermiglio e lucente per profferire e
sentenziare che il vino che sta bevendo «è l’Olivares de’ vini»; intanto
l’ubriacatura avanza tra il vociare dei commensali, mentre le lodi del vino
«venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza
economica; sicché le parole che s’udivan piú sonore e piú frequenti, erano:
ambrosia, e impiccarli» (impiccare i fornai, si capisce).
I grandi scrittori hanno un talento plastico, prensile, nel descrivere
uomini e cose. Concreto e spirituale si fondono e reciprocamente
s’illuminano. Prendi due schegge di Giorgio Caproni quando trasferisce dal
fisico all’interiorità i profili indimenticabili di amici poeti, ora di Betocchi
(«col suo tagliuzzato sorriso – d’etrusca terracotta, ma temperato da un
ghibellino e comunale soffio di cattolicesimo in progresso») 8, ora di Gatto
(con la sua poesia «azzurra e profonda come i suoi occhi, e spesso buia e
sottile e inquieta come i suoi capelli ancora cosí neri e ventilati») 9. Traspare
con rilievo quest’arte in Primo Levi quando incide schizzi di esseri umani:
«quasi sempre si tratta di descrizioni di comportamenti estroversi e
palpabili, piuttosto che di coperte psicologie» annotava Mengaldo 10. Levi
aveva confessato in dialogo con Regge: «quando devo descrivere una
moneta da due lire, mi riesce bene. Se devo descrivere qualcosa di
indefinito, ad esempio un carattere umano, allora ci riesco meno bene» 11. Il
che non è vero, perché Levi è maestro nell’«arrivare, attraverso il corpo, a
una scoperta riguardante l’anima» 12, nel cogliere gli indizi di un carattere
riverberati totalmente sull’esterno, sul palpabile, il fisico, il concreto. Ecco
il greco della Tregua: «Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi
ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all’intera sua persona un
aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla
luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento» 13. O si adocchi
questo ritratto di Joseph Roth, nel racconto Il cartello: «La testa era piccola
e ovale, il viso sgualcito come un groviglio di carta; il naso era incastrato
tra due rigonfie pieghe del viso, come sprofondato in un cuscino». Lo
scrittore di vaglia ha la capacità di trasmettere nella trasfigurazione il
concreto, la verità di vive sensazioni. In una lettera (Jalta, 15 febbraio 1900)
a Gorkij di cui ha appena letto un buon racconto, Čechov annota: «Nel
racconto si sente fortemente l’ambiente, odora di ciambelle» 14. E in un’altra
a Dmitrij Grigorovič da Mosca (12 gennaio 1888) parla di sé e dice di aver
scelto la steppa come soggetto, pianura, pastori ecc., e che in ogni capitolo
cerca «di far sí che abbiano un aroma e un tono comune […] Sento che ho
superato molte difficoltà, che in certi passi c’è odore di fieno» 15. Non si
tratta di “realismo” figurativo. La capacità del mestiere, suggeriva Čechov,
starebbe nel saper sfuggire l’eccesso, nel saper cogliere di sghembo il reale:
scriveva ancora al fratello maggiore (Mosca, 10 maggio 1886) sulle
descrizioni della natura, che hanno da essere brevi, e soprattutto prive di
luoghi comuni del tipo

“il sole al tramonto, immergendosi nelle onde del mare che s’andava oscurando,
inondava d’oro purpureo, ecc., ecc.”, “le rondini, volando a pelo d’acqua, garrivano
allegramente” […] Nelle descrizioni della natura bisogna attaccarsi ai piccoli particolari
e raggrupparli in modo che il lettore, chiudendo gli occhi, veda il quadro davanti a sé.
Darai ad esempio l’impressione d’una notte di luna se scriverai che sull’argine del
mulino un coccio di bottiglia scintillava come una vivida stella 16.

La particolarizzazione, anziché allontanare, potenzia il reale 17. Il che


non significa il cumulo puntiglioso ed esteso dei particolari descritti. Gianni
Celati faceva il caso di Tozzi, maestro in Con gli occhi chiusi nel
soffermarsi «a guardare fatti del tutto casuali e cose inappariscenti», nel
portare in Il podere e in Tre croci in primo piano dettagli isolati, con quella
sua tecnica peculiare di indugio «su tutto ciò che è infimo, insignificante,
brulicante»: una foglia secca, un ramo caduto, le formiche, la mosca, il filo
d’erba che si piega quand’è percorso da un insetto 18.
Sul piano infine degli argomenti, la potenza narrativa della
particolarizzazione non risiede nella spiegazione ampia e completa delle
ragioni e dei contenuti del mondo. E neppure nelle spiegazioni, nelle
opinioni fornite dal narratore su quello che narra, commenti, giudizi,
manifestazioni insomma della “presenza” dell’autore. Si vedano le lettere di
Flaubert nei passi in cui sviluppa la sua teoria sul genere romanzo e parla
del narratore che deve farsi “invisibile”, perché il romanzo è opera di
finzione e il lettore deve avere l’impressione che quanto legge non gli viene
raccontato da qualcuno, testimone-relatore di fatti “realmente” accaduti.
Vargas Llosa nelle Lettere a un aspirante romanziere citava come narratori
eccessivamente “visibili” Dickens, Hugo, Voltaire, Defoe, che a dir suo
inzeppano con le loro continue intrusioni il flusso narrativo: la presenza
dell’autore si fa «a volte tanto travolgente che, mentre racconta la storia,
sembra raccontare se stesso e a volte usare perfino ciò che si racconta come
un pretesto per il suo esibizionismo smisurato», come succede a suo avviso
ad esempio nei Miserabili di Hugo, dove «il narratore è piú presente nel
racconto degli stessi personaggi in quanto, dotato di una personalità
smisurata e superba, di una irresistibile megalomania, non può smettere di
mostrarsi continuamente, nello stesso tempo in cui ci espone la storia» 19, e
viene a ogni istante a parlarci in prima persona, di filosofia, storia, morale,
religione, o a giudicare i suoi personaggi, condannandoli o innalzandoli per
i loro pregi civili e spirituali. Si prenda un altro grande, Tolstoj: ci si è
chiesti se è piú grande come artista che come predicatore. I due momenti, è
vero, non sono separabili, ma a volte viene voglia, dice splendidamente
Nabokov, di

rinchiuderlo in una casa di pietra, o su un’isola deserta con litri d’inchiostro e risme
di carta – lontano dalle questioni, etiche e pedagogiche, che distoglievano la sua
attenzione dall’osservare come i capelli scuri di Anna s’arricciavano sul suo collo
bianco 20.

Mi ero proposto di non fornire precetti. Mi accorgo ora di trasgredire,


vista la mia dichiarazione sulla forza di una pagina narrativa che ho detto
non dovrebbe risiedere né nell’accumulo dei particolari, delle sfaccettature
con cui si narra una storia, né nella molteplicità dei giudizi e delle
interpretazioni d’autore, né nelle trame o nella novità dei fatti e delle storie
raccontate. Continuo a pensare che debba risiedere, direi semplicemente,
nel montaggio e nello stile. E lo “stile” può svelarsi in modi infiniti.
Anzitutto svela la sua energia nella sintassi come molteplicità di “punti di
vista”, nel ritmo narrativo quando lo scrivere non segue piú una
consequenzialità naturale, ma impone al racconto un ritmo altro rispetto
alla sequenza “normale”. Ciò dimostrano gli scrittori di grande talento.
Voglio accennare rapidamente a un solo esempio probante, alla prosa di
José Saramago, per quella sua forma narrativa che ha “torto il collo” al
discorso tradizionale creando una sintassi “orale” come mistura di discorso
diretto e indiretto in modo che la prospettiva del narratore si fonda
continuamente con quella dei personaggi. Tempo storico e tempo
dell’invenzione si intersecano. Per Saramago nulla è oggettivamente
ripetibile, descrivibile: la visione unica, limitativa, gli è poco congeniale.
Preferisce scovare pluralità di immagini di uno stesso fatto, o persona, o
cosa. Mette in risalto i pensieri dei protagonisti. E sembra inventare di
continuo, grazie al fatto che non esiste per lui una storia a senso unico, ma
esistono tante storie possibili a seconda dei punti di vista di chi le compie,
di chi le ricorda, di chi le descrive a posteriori. Il lettore è «continuamente
richiamato a prestare attenzione a come i protagonisti sono costruiti
dall’autore». Saramago interviene a volte anticipando quello che ritiene di
anticipare «in base alla onniscienza dichiarata del creatore, altre volte
commenta i fatti come uno spettatore esterno che non diversamente dal
lettore sa solo quello che è stato raccontato fino a quel punto» 21. Anche il
ritmo altro cui accennavo è finzione/abilità dello scrittore di conferire a
prosodia e sintassi della frase un’avvolgente carica melodica, dalla
particolare cantilenante musicalità, sorretta da un ritmo lungo. Siamo
lontanissimi dalla prosa lirica (quella nostra, di discendenza dannunziana,
che battezzammo «prosa d’arte»): sono il senso del ritmo, della
respirazione, della pausa, i punti “forti” e “deboli” del fraseggiare, a reggere
la frase di Saramago, frase che piú che dalla letteratura scaturisce
dall’oralità sottesa: la sua scrittura è conversevole, simulazione di parlato,
di un parlato cangiante, giocato da un autore che si dirige al lettore con
personaggi che dialogano tra loro. Questo artificio stilistico Saramago lo
mette in opera non fine a se stesso, come gioco formale, ma gli serve per
filtrare gli eventi, i fatti della Storia, attraverso la coscienza di chi la
percepisce, i vari personaggi che la rinarrano, cosí che la Storia affiora
come riflesso o bagliore tra le pieghe di tante storie particolari. La Storia
viene squadernata davanti a una molteplicità di sguardi e di voci. Le
tematiche storiche che Saramago ha affrontato, tra le piú vulgate nella
cultura iberica (per esempio il problema della identità iberica, o il tema
della riforma agraria, temi attualissimi decenni fa o soggetti storici di largo
dominio), sono riproposte in modo totalmente inedito. L’identità iberica è
raccontata come favola poetica nella Jangada de Pedra (1986, trad. it.
1988), la ‘zattera di pietra’, dove l’iberica penisola si stacca dal continente e
comincia a vagare per l’Oceano. Quanto al tema del latifondo in Levantado
do Chão, l’arcaico e il moderno, il punto di vista della campagna e il punto
di vista della città, non sono opposti banalmente come opposizione di
modernità/tradizione, ma il tutto viene composto in un intreccio di voci
rurali e di voci di città. Gli opposti modelli di civiltà (conservatore e arcaico
vs. moderno e “progressivo”) vengono abilmente trasfusi in sintassi e in
intonazione che tramano molteplicità di voci e di prospettive.
Saramago è dunque, quanto all’efficacia degli esiti, uno dei tanti esempi
del “preponderare”, nella prosa narrativa, della sintassi sul lessico.
Preponderare che ha e ha avuto una varia, e totalmente diversa tipologia.
Possiamo fare il caso di Cesare Pavese, che catturava pure lui il lettore
soprattutto per l’andamento della frase. Pavese ha sempre mirato a uno stile
essenziale, “monotono” e ritmizzato 22:

dire stile è dire cadenza, ritmo, ritorno ossessivo del gesto e della voce, della propria
posizione entro la realtà. La bellezza del nuoto, come di tutte le attività vive, è la
monotona ricorrenza di una posizione […] La monotonia è un pegno di sincerità.
Ciascuno ha il suo gorgo, e basta che vi palpiti dentro l’estrema tensione di cui la sua
coscienza è capace: raccontare vorrà dire lottare per tutta la vita contro la resistenza di
quel mistero 23.

L’idea che ha Pavese del cogliere il concreto della vita, non sta nel
riprodurla nelle sue sfaccettature, ma nel fissarla in recise e laconiche
forme. Anche del moto – scriveva – non s’ha da cogliere lo svolgimento,
ma occorre portare il movimento all’immobilità (appuntava nel Diario, 24
marzo ’42, un pensiero di Alain sull’oggetto della scultura che non avrebbe
lo scopo di dare al marmo l’apparenza del movimento umano, ma «de
ramener au contraire la forme humaine à l’immobilitè du marbre»). Una via
allontanante, una tensione verso la solidità dell’astrazione. E la strada sarà
proseguita da Calvino: «ogni scrittore se vuol vedere un significato nella
realtà deve in qualche modo allontanarla, schematizzarla, allegorizzarla» 24.
In una lettera a Palazzeschi Calvino scriveva per l’appunto: «quello che
m’incanta nelle Sue novelle è il disegno geometrico che si nasconde sotto i
casi umani. Leggendola, scopro che il mio ideale stilistico è proprio
questo» 25.

Diverse strade dunque, variate, opposte. Saramago non ha rapporto


alcuno con Pavese e Calvino, ma ognuno sta lí comunque a dimostrare che
un romanzo non è strumento per raccontare soltanto delle storie. La trama
di una narrazione di per sé dovrebbe essere l’ultima cosa cui un narratore ha
da pensare. Un raffinato narratore come Tozzi faceva a suo tempo già
notare, nel famoso saggio Come leggo (1919), che per lui la trama contava
poco o nulla («Io dichiaro d’ignorare le “trame” di qualsiasi romanzo;
perché, a conoscerle, avrei perso tempo e basta. La mia soddisfazione è di
poter trovare qualche “pezzo” dove sul serio lo scrittore sia riuscito a
indicarmi una qualunque parvenza della nostra fuggitiva realtà») 26. La
qualità di una narrazione non è contraddistinta dal tema del racconto e dagli
intrecci. Ci sono romanzi bellissimi in cui non accade quasi nulla (capita
naturalmente in poesia soprattutto; Paolo Giovannetti fa il caso
dell’inconsistenza narrativa dei testi pur ermeticamente potenti per la loro
tensione analogica di Milo De Angelis) 27. Gianni Celati cita Casa d’altri
(1948-50) di D’Arzo, romanzo senza movimento, di vicende senza azioni,
ma di pure constatazioni, romanzo non scritto per il lettore che vuole sapere
come va a finire la storia, ma canovaccio come serie di momenti, visioni,
sequenze, ritmi di «sospensioni e riprese» 28. E Celati ricordava i racconti di
Delfini, che «narrano sempre qualcosa che resta sospeso nell’evocazione di
ciò che qualcuno avrebbe potuto fare o dire o sognare, a partire da una certa
attesa d’emozione». Non si parla mai di fatti ma di cose sognate o
desiderate 29. La capacità narrativa dei grandi prosatori non sta
nell’abbandonarsi semplicemente alla forma elementare di un racconto che
raccoglie fatti e il loro avvicendarsi. Il romanzo non è, come annotava la
Woolf, «un parassita che succhia energie alla vita e che deve per gratitudine
o somigliare alla vita o perire» 30. La tensione principale del raccontare
dovrebbe concentrarsi sul modo e sullo stile del narrare, non sul contenuto
narrato. Il narratore autentico è consapevole «che tutto il suo lavoro è
esclusivamente un’operazione sul linguaggio», cioè i «modi di dire una
determinata cosa» 31. Si tratta infatti del fine ossessivamente perseguito dal
«primo dei non-figurativi del romanzo moderno» 32, Gustave Flaubert, «il
primo scrittore ad aver spostato l’interesse dalla trama allo stile o ai
momenti introspettivi del personaggio», scrittore capace di allineare pagine
e pagine, una di seguito all’altra, «prive di movimento, azione e dramma» 33.
L’interesse fondamentale si era trasferito «dalla vicenda in sé alla maniera
di raccontarla» 34. Interessava di meno collocare l’uomo includendolo nella
realtà concreta contemporanea, politico-economica e sociale. Con Flaubert
ci si allontanava dal realismo moderno che si sentiva come “obbligato” a
inserire persone e avvenimenti nel filo della storia coeva, nello sfondo
storico su cui si reggevano le vicende narrate. I romanzi dell’Ottocento
avevano sostanzialmente impostato la descrizione su valori di “verità”.
Imponevano una descrizione puntuale e diffusa, il mondo era diventato quel
fatto oggettivo che sta davanti agli occhi 35. Gli autori naturalisti e veristi
scrivevano romanzi che dovevano essere la rappresentazione di “una fetta
di vita” (tranche de vie), da descrivere oggettivamente e impersonalmente.
Il Novecento metterà in crisi questa pretesa di mostrare le cose nella loro
nuda evidenza. Annotava Kundera: «Uno storico racconta avvenimenti
realmente accaduti», un romanzo invece può raccontare un delitto mai
realmente accaduto, perché il romanzo

non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto,


l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire,
di tutto quello di cui è capace […] la fedeltà alla realtà storica è cosa secondaria nella
valutazione del romanzo 36.

E penso ai personaggi, e a quanto osservava ancora Kundera: «Il


personaggio non è una simulazione di un essere vivente. È un essere
immaginario. Un io sperimentale», come lo è stato del resto nelle sue
origini («Don Chisciotte è quasi impensabile come essere vivente. Eppure,
quale personaggio è piú vivo di lui nella nostra memoria?») 37. Un narratore
può aver veduto e vissuto o sentito raccontare ogni cosa, ma la sua pagina
non tratta di fatti o di persone che ha veduto o vissuto o sentito ma di come
ha veduto vissuto ecc. Il testo trasforma il “vero”: può del “vero” riprodurre
il caos, l’armonia e la bellezza, o l’irrealtà, il grottesco e il difforme…;
conta il punto di vista, contano per assurdo i modi con cui si “allontana”
dalla realtà. I narratori eminenti si sono distinti non per la capacità di
rispecchiare totalmente un’oggettività “reale” (che poi nella sostanza è cosí
difficile da definire), o per cercare di dare del reale un quadro freddamente
imparziale ed esaustivo. Magari si sono distinti nel riuscire a dire, fulminei,
piú cose contemporaneamente con poche parole, o addirittura con una
parola sola (Pontiggia citava quel «rispose» di Gertrude) 38. Oppure, al
contrario, per le loro parole sfuggenti, reticenti, non dette. La grandezza di
un narratore la ritrovi quando lascia spazi alle supposizioni: per esempio,
quando non chiude il narrato, ma include sospensioni, tralascia le parti
finali (lo fanno James, o Conrad), «sfruttando una sorta d’effetto-eco che
risuona […] nel silenzio successivo alla lettura», appuntando segni di
assenza che sono in realtà «istruzioni e inviti a un ascolto» di una vita che si
sa che sta ancora andando avanti 39. Si lascia spazio all’incerto, al
“perplesso”, come se le parole fossero soltanto degli involucri di una
comunicazione non espressa totalmente (Joseph Roth nel racconto Barbara
parlando di due innamorati che ancora non s’erano dichiarati scrive: «tutte
le parole erano ancora soltanto involucri, e quando questi cadevano, c’era
un nudo silenzio tra i due, e nel silenzio la primavera vibrava»).
Quel che veramente si dice, lo si dice obliquamente: soprattutto in
poesia. Penso a Pavese quando nel Paradiso sui tetti (Lavorare stanca)
riesce a darci l’immagine della morte, della «sparizione del mondo in un
cielo visto dalla finestra d’una soffitta» 40:

Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.


Basterà la finestra a vestire ogni cosa
d’un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra tranquilla sul volto supino.

Alla poesia piú che alla prosa tocca maggiormente l’elusivo e la


concentrazione. Il dire di piú con la minore espansione possibile. I poeti
non sono spinti allo scrivere dal desiderio di raccontare, di “riferire”, quanto
invece dal battito della lingua che si allontana dal livello della consuetudine
media diffusamente comunicativa e si affida a figure del ritmo, a figure
retoriche, quelle che quando comunemente parliamo o scriviamo
accuratamente si evitano; e non tanto riferiscono, richiamano, “raccontano”,
“trasmettono”, ma caricano le parole di un potere decisamente “generativo”,
suscitante. Il linguaggio poetico sveglia le cose tramite gli strumenti che la
lingua comunemente gli offre, ne smuove l’inerzia. Tutto il grande
Novecento artistico è stato tentato dal potere della poesia come fuga dal
reale («Les mots […] ont été inventés par les usages ordinaires de la vie, et
ils sont malheureux, inquiets et étonnés comme des vagabonds autour d’un
trône, losque, de temps en temps, quelque âme royale [anima sovrana] les
mènes ailleurs») 41, dal potere della poesia come “allontanamento”, come
spinta verso un’”altra” realtà. L’allontanamento si avvale di un’«anima
sovrana» anche fisica, voce animata, ritmata; e si avvale dell’infittirsi di
alcune figure, che hanno la funzione di spostare «una designazione dall’uso
e dal senso propri verso un uso e un senso impropri, nuovi» 42. Già a
Quintiliano non sfuggiva che la denominazione in retorica di “figura”
deriva dagli atteggiamenti del corpo che, per esempio nella danza, hanno
mosse che sono uno scarto evidente rispetto alla posizione consueta,
«anartistica», del camminare o dello stare, oppure nella scultura quando le
statue dispongono le membra in posizioni non naturali 43. Pensiamo
all’innaturale infittirsi nell’«orchestrazione» della partitura poetica di
allitterazioni, assonanze, rime, onomatopee ecc. e di tutte le figure
dell’espressione come elementi di distacco dall’uso corrente della lingua,
che danno come effetto quel singolare processo di “straniamento”, tò
xenikón, di cui parlava Aristotele. Pensiamo alla rilevanza dell’ossimoro,
che coniuga gli opposti, mette a contrasto le parole per sottolineare
l’incompatibilità delle cose, o al contrario per far sentire accordi piú segreti.
Il poeta accosta, paragonandoli, due oggetti di carattere lontano l’uno
dall’altro, imprevisti, e li mette insieme in modo sorprendente (tacito
tumulto, muti canti, disperate speranze ecc.). Piú due cose sono lontane è
piú la tensione creata dal poeta è maggiore. O pensiamo alle sinestesie: «il
giallo squillante di un ranuncolo»; in Pascoli «soffi di lampi», l’«ansar di
lampo», il «grave alito azzurro» della terra che rotola nello spazio. E Dino
Campana: «Come una melodia blu | su la riva dei colli ancora | tremava una
viola». L’accostamento suoni/colori è diventato frequente in poesia (anche
in prosa: cito soltanto quel passo, un vero vertice descrittivo, di Proust nella
parte della Recherche intitolata «Un amore di Swann», quando Swann sente
suonare un brano per violino e pianoforte: «sotto la linea della parte del
violino, delicata, resistente, solida e conduttrice, aveva improvvisamente
sentito salire in superficie, in un liquido sciabordio, la massa sonora della
parte del pianoforte, multiforme, compatta, fluida, e ribollente come il
movimento color malva dei flutti, che il chiarore lunare rende incantevole e
bemollizza») almeno da Baudelaire in poi (Baudelaire ricordava il passo di
Hoffmann sull’analogia tra colori, musica, suoni, odori: «l’odore delle
calendule brune e rosse soprattutto produce un effetto magico su di me. Mi
fa cadere in una profonda fantasticheria, e sento allora come in lontananza i
suoni gravi e profondi dell’oboe») 44: «immobilités bleues», «noir parfums»
in Rimbaud, «solitude bleu», «blanche agonie», «temps fauve» in
Mallarmé 45. Il distacco dall’uso corrente della lingua, l’ambiguità,
l’“intransitività” sono diventati lo stigma di sezioni importanti della poesia
moderna. In Italia, tra i contemporanei, possiamo citare come esempio Milo
De Angelis e il suo completo distacco dalla normale comunicazione: la
sintassi è regolare, la sua ossatura avvertibile, perentori i toni, il vocabolario
non “marcato”, ma pur non distanziandosi troppo dal linguaggio comune,
quotidiano, il risultato è sempre inafferrabile, un’incognita 46. Saltano le
regole della coesione e della coerenza testuale. I nessi indeboliti offuscano
ogni lettura “interpretativa”. Gli stessi deittici destituiti di referenza
spiazzano, producono uno spaesamento fortissimo 47. Il poeta si rifugia in
un’«alterità estranea», assoluta 48. Come succede nella selva degli accesi
ermetismi di Celan, comunicatore di autentico sentimento ed emozione ma
con una lirica che «si sporge sul ciglio del silenzio», «parola strappata al
tacere, e fiorita dal tacere, dal rifiuto e dall’impossibilità della
comunicazione falsa e alienata; i suoi ardui versi sono intessuti, nelle piú
ardite formulazioni lessicali e sintattiche, di queste negazioni, di questi
dinieghi in cui esprime l’unica possibilità autentica del sentimento» 49.
Respiro del “vero”, o “trasfigurazione”/”allontanamento”? La poesia
(soprattutto la moderna) si è assunta spesso il compito di trasfigurare la
realtà in irrealtà, una sensazione concreta o un oggetto in sogno o in incubo.
Penso a Pascoli quando (Ultimo sogno, che chiude le Myricae) fa di un
oggetto che pare concretissimo (un treno in corsa?) immediatamente un
qualcosa d’altro, non facilmente percepibile: Pascoli fa dell’immagine di un
treno in corsa (corsa “immota” però), fa di un «immoto fragor di carrïaggi |
ferrei» un correre senza sbocchi (lo rileva l’ossimoro) «verso l’infinito»,
un’immagine onirica, un angoscioso incubo, un vero e proprio
appressamento alla morte: un frastuono, una percezione acustica, violenta,
svanisce in un sogno-incubo, in un qualcosa di «sempre piú lontano».
Qualcosa di concretamente misurabile come un frastuono prodotto da un
treno (o carri in corsa) finisce, nell’ultimo verso, «a suggellare il distacco
del soggetto dai propri stessi sensi e sentimenti» 50: forse la morte, che in
Limpido rivo 51 è definita come «un fremito, un brusío, un murmure
incessante, un rombo canoro e profondo, uno stormire uguale di foresta
mossa da un’aura senza mutamento, un cadere assiduo d’acqua perenne, un
lontano strepito di mare ondeggiante ed eterno». La poesia, tra le tante
peculiarità sue, possiede in particolare la possibilità di creare un’intima
connessione dell’inconscio al corpo, al corporeo, alla materia (lo mostrò
Freud). Qui Pascoli collega quell’inconscio a un suono. La poesia, nelle
mani di un grande poeta (e Pascoli è uno di questi), evoca sensazioni non
facilmente esprimibili, scava il mistero, si appressa all’invisibile, sa passare
dalle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili.
Capitolo nono
Che viaggio già promesso ora ci aspetta?

Ho già detto sin dalla Premessa che non ho mai avuto l’intenzione di
comporre una sorta di “manuale” sullo scrivere. Preparare un manuale sulla
fenomenologia della scrittura letteraria è impresa temeraria, se non
impossibile: finisce con lo scontrarsi con quell’idea priva di senso, il voler
definire la letteratura. Sarebbe come voler spiegare che cos’è e come si
compone musica. Oppure in che consiste l’arte pittorica, cosa che non si
può fare, perché le strade che quest’arte ha nei tempi imboccato sono
talmente diverse che gli intenti diventano inconfrontabili. L’arte pittorica,
appunto: ci sono momenti in cui prevale l’aderenza al reale, ma poi arrivano
i moderni, che cominciano a mettere in rilievo spazi metafisici e astratti,
reticoli geometrici, paesaggi della mente. A volte si ha l’impressione che
addirittura si sia cercata l’impronta visiva di un momento zero, quello della
creazione, quando le cose non fatte, non finite, sono ancora in fieri, sono
potenzialità, vuoto del bianco, nero indistinto, fondo di un nulla da cui
cominciano a erompere colori, baluginio di una “ragione”: penso a Rothko,
al fondo cupo prevalente, bituminoso, che lascia trasparire l’informe, o a
Paul Klee, alle sue tinte cupe prevalenti, il viola, i lillà, che fanno scaturire
da un caos primigenio squilli di rossi infuocati, speranze di gialli, bianchi
cretosi, quasi che la luce e le forme sbocciassero da un non essere. La
pittura ha immesso ora il caos nell’ordine, ora l’ordine nel caos, aggiunto
barlumi di ordine al disordine, certezze nelle incertezze. Non è dunque
possibile racchiudere l’arte pittorica in una stringente definizione. Cosí
come non è possibile definire i caratteri della musica, talmente mutevoli nel
tempo che sembrano talvolta privi di senso i raffronti tra partiture distanti
secoli l’una dall’altra. Melodia e canto da segnali di un’emozione sono nel
Novecento trapassati nella negazione della loro suggestione emotiva (quella
che Schönberg evitava «fino all’ascetismo, fino al martirio», scriveva di lui
Ravel) 1. L’arte pittorica, o la musica, come tutte le arti, sono permeate da
un eterno irrisolvibile dilemma di fondo: il potenziale di senso sta
nell’emozione o nella costruzione? Quanto alla letteratura, alla narrativa in
particolare, in che rapporto sta l’invenzione, la combinazione – si diceva –
con l’aderenza alla realtà?

Provo ad aggirare la domanda con un’altra domanda. Chiedendomi


semplicemente che significa “aderire alla realtà”. Significa documentarla?
Ma documentare, come bene si vede se mettiamo da parte la letteratura e
veniamo alle vicende di ogni giorno, lascia evanescenze di tracce. Siamo
totalmente immersi, come mai era accaduto prima, in un mare di racconti e
riprese “in tempo reale”. Eppure, quotidiani e tv che parlano dell’esodo
doloroso dall’Africa e dalla Siria, dei bombardamenti su Aleppo e su
Mosul, di guerre e massacri, ci forniscono ogni giorno valanghe di
descrizioni e immagini, ma cadono su di noi già anestetizzati. Su di esse, a
forza di rivederle, si finisce col sorvolare con meno partecipe attenzione,
oserei dire senza la dovuta sofferenza. Quelle documentazioni visive non
possiedono la forza di un romanzo che ne sta parlando, o un domani ne
parlerà. E l’inferno dei profughi che sono stati bloccati in Grecia dal filo
spinato o infossati in nascondigli della Turchia e sempre sul punto di sparire
nelle acque del Mediterraneo? Soltanto quando questo Inferno trova una
narrazione, soltanto allora conquista un di piú di realtà e di forza (hanno
cominciato per esempio a fornircela, piú di ogni cronaca o ripresa diretta, il
romanzo di Hakan Günday, Ancóra, Marcos y Marcos, Milano 2016, o
anche i recenti racconti dedicati dal vietnamita Viet Thanh Nguyen, I
rifugiati, Neri Pozza, Vicenza 2018, al dramma dei profughi,
all’impossibilità dell’oblio del proprio mondo perduto e alla ricerca di una
faticosa nuova identità). Il realismo della cronaca svanisce troppo
rapidamente. La letteratura ha maggiore durata. Ricordo la ripresa in diretta
di morti tra gli ulivi di Puglia per un terrificante scontro ferroviario
avvenuto tra Andria e Corato o quella strage di turisti che passeggiavano a
Nizza in riva al mare falciati da un camionista dell’Isis (per citare soltanto
due episodi terrificanti che hanno occupato le pagine di giornali e tv nel
2016, e che poi si sono ripetuti orrendamente con analoga modalità negli
anni successivi): dopo poco quelle immagini sono scivolate via nella
dimenticanza, come ne scivolano via ogni giorno, una dopo l’altra. Ogni
flash ingoia rapidamente il successivo. Temo che ciò accada anche
all’orrore, a fine luglio 2018, del fuoco che ha divorato la Grecia o ai tanti
disastri che giorno dopo giorno si susseguono. Ci abbiamo fatto il callo.
Dimentichiamo in fretta. Soltanto una narrazione compatta di un libro
consegna gli accadimenti con piú intensità alla memoria… (ferma restando
ovviamente la differenza rilevante tra il libro, letto da pochi, e lentamente, e
le immagini e i giornali, letti e visti in fretta ma da molti). Kundera,
riandando all’invasione della Cecoslovacchia ad opera dell’esercito russo
nell’agosto del 1968 ricorda che “la primavera di Praga” non ebbe
purtroppo un romanzo. A lui non mancava la conoscenza degli avvenimenti
storici, ma qualche testimonianza che andasse “all’anima” della situazione
storica, che cogliesse il contenuto umano di quel momento. Poiché sapeva
che la letteratura non accerta i fatti, ma racconta come gli uomini li hanno
vissuti; forse soltanto un romanzo – diceva Kundera – avrebbe potuto fargli
capire in che modo i cechi di allora avevano vissuto la loro decisione di
insorgere. Ma un simile romanzo non fu scritto, e a quell’assenza non c’era
piú rimedio.
Kundera avrà forse anche pensato ad Adorno, quando osservava che le
forme dell’arte registrano la storia degli uomini con piú “esattezza” dei
documenti. Ma io direi semplicemente “con piú forza”: penso al Porto
sepolto di Ungaretti, pubblicato in piena guerra a Udine nel 1916. Ha
compiuto cent’anni (poco piú), ma nonostante la distanza, dobbiamo
ammettere che non c’è cronaca che abbia la potenza e ancora oggi l’impatto
pari a quello che ha la poesia d’apertura, dedicata alla memoria di
Moammed Sceab,

discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva piú patria;

aveva amato la Francia, mutato il nome in Marcel,

ma non era francese


e non sapeva piú
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano.

La forza di quei versi resta grandissima, piú di tante cronache, o


ricostruzioni storiche.
Un testo letterario contiene un potenziale di senso superiore al semplice
testo comunicativo. Un testo comunicativo si esaurisce rapidamente, e dopo
aver comunicato, si svuota, e muore. Una composizione poetica, un
romanzo, un racconto, sono prodotti piú complessi. Sono costituiti di parole
fatte per durare di piú e catturare di piú l’attenzione.
Ciò avviene perché, per dirla con la leggerezza di Vladimir Nabokov, «la
letteratura, la vera letteratura, non deve essere tracannata come una pozione
che può far bene al cuore o al cervello […] Bisogna prenderla e farla a
pezzetti, smontarla, spiaccicarla – e allora il suo amabile profumo si farà
sentire nel cavo del palmo e la sgranocchierete e ve la farete passare sulla
lingua con godimento» 2. Per questo io mi ritrovo sempre a riamare, in
questi tempi veloci, gli scrittori cui preme la lenta finitura, l’”incisione”
della parola sulla pagina, la protratta attenzione alla “forma” del proprio
“prodotto” 3: gli scrittori che richiedono particolare attenzione e non vanno
consumati in fretta, quelli sui quali ci si deve tornare su, e che dopo averli
letti piace rileggerli… Al buon lettore non si addice la fretta. Tantomeno
allo scrittore. Perciò finisco sempre con l’ammettere che gli scrittori che
amo sono in genere quelli che hanno provato e riprovato, o lasciato
decantare a poco a poco la pagina. Altri tempi, lo so, il contesto sociologico
e socioculturale è cambiato. Non possiamo continuare ad adorare
consuetudini morte, i tempi lenti e pazienti da dedicare alla preparazione
dei testi. È trascorso ben piú di un secolo da quando Čechov scriveva al
fratello maggiore (4 gennaio 1886): «vigila e suda, riscrivi anche cinque
volte il medesimo racconto, accorcialo, ecc.»; o a Lidija Avilova (5 febbraio
1895): «Scrivete un romanzo. Scrivetelo per un anno intero, poi
abbreviatelo per mezz’anno, e poi pubblicate. Voi limate poco, mentre una
scrittrice non deve scrivere, ma ricamare sulla carta; che il lavoro sia
minuzioso, laborioso»; o a una scrittrice (28 febbraio 1895), alla quale
consigliava di «chiudere il racconto in un baule e tenercelo tutto un anno, e
poi rileggere» 4. È «il riposo nel cassetto», di cui parlava Primo Levi 5.
Stiamo parlando di atteggiamenti invariabili dell’artista, che il tempo e la
storia non mutano. Perché mai la letteratura non deve restare mestiere,
esercizio paziente e perplesso di fronte al possibile? Di parole e di sintassi
si tratta, strumenti delicati e complessi, che contengono nel loro seno varie
e non sempre conciliabili possibilità. Si pensi agli eterni problemi, e alle
perplessità intorno al come scrivere, endemiche nella nostra storia
linguistica. In Italia le dispute sul come scrivere sono andate avanti per
secoli, e dureranno. Da noi si è discusso a non finire sul se era bene imitare
il presente, la parlata viva, o invece la lingua dei libri. Come unica strada
praticabile, nel pieno del Rinascimento (e anche dopo) si pensò che per
scrivere bene occorreva imitare gli scrittori di secoli precedenti, quelli piú
antichi, quelli dei secoli “aurei”… una disputa infinita. Tasso (nelle
Controversie sulla «Gerusalemme») invocava a giudici «della bellezza delle
parole» non i possessori di una lingua viva (i fiorentini), ma «quelli che han
letto e riletto, approvato e riprovato, lodato e rilodato i migliori scrittori».
Manzoni preferiva invece che ci si attenesse all’uso vivente. Emblematiche
di una congenita biforcazione le due piú celebri revisioni linguistiche della
nostra storia, L’Orlando furioso e I promessi sposi, opere che
esperimentano nel corso della riscrittura le due direzioni opposte: Manzoni
va «nella direzione di sottrarre letteratura alla sua scrittura in favore di una
simulazione del parlato», muove verso il vivo e il vero, Ariosto si allontana
dalla propria parlata per sintonizzare la lingua del poema con la tradizione
letteraria piú alta e meno mobile 6. Dilemmi del genere sono tornati a
ripetersi in tempi a noi piú vicini. La nostra narrativa, dal secondo
Ottocento a oggi, ha continuato a interrogarsi se doveva avvicinarsi o
allontanarsi dalla lingua unificata e troppo uniformemente piallata. Ancora
a fine Ottocento, ai nostri scrittori meridionali la soluzione toscano-centrica
manzoniana costituiva un rinnovato ostacolo. Federico De Roberto e Luigi
Capuana sottoporranno difatti i loro testi (I Viceré e Il marchese di
Roccaverdina) a un lungo lavorio di riscrittura. In una lettera del 1895 di De
Roberto leggo: «I miei primi libri, sí, sono scritti in una lingua ostrogota:
ma dai Viceré in giú mi sono corretto»; e in una lettera del 1884 di
Capuana: «Figuratevi che disperazione con questo terribile strumento della
nostra lingua che per noi siciliani è quasi come una lingua morta, come già
per gran parte degli italiani». Pensiamo poi a Verga che cerca di “parlare
scrivendo”, e all’ardire linguistico dei Malavoglia. E sul versante
contrapposto Pirandello prosatore, a completo suo agio nell’attualità, nella
“medietà” del linguaggio borghese. Era l’elemento parlato e quotidiano a
strutturare le sue scelte lessicali e sintattiche. L’italiano della narrativa
tradizionale gli sembrava troppo scritto e poco parlato, amplificato in
troppo lussuose figure, e allora gli pare che alla prosa (penso alle Novelle
per un anno) occorra un italiano piú livellato e unitario, che eviti il libresco,
l’evocazione letteraria, gli ondeggiamenti tra alto e basso della forma. Con
un tasso letterario della scrittura diminuito, meno paludato, Pirandello opta
per una lingua narrativa “normalizzata”, senza forti tensioni e scarti. Privo
di soprassalti espressionistici/espressivistici, persegue un tipo di italiano
“medio”, percepito come comunitario e nazionale, quello che già si andava
formando. Si tiene perciò alla larga da ogni compiacimento vocabolaristico,
da tentazioni calligrafiche, lascia gli «abiti di festa» 7, né aderisce
all’ibridazione tra lingua e dialetti regionali tipica di alcuni, Verga tra gli
esempi piú eccelsi. La narrativa tradizionale gli forniva modelli di scrittura
bloccata, non viva e sciolta, troppo separata dall’oralità. Meglio la
messinscena di un narrato attento alla «colloquialità». Pirandello ne fissa
«linguisticamente gesti, mimica, interiezioni» 8, il recitativo, il monologo
tenuto come ad alta voce, il fraseggio teatrale. Anche in Il fu Mattia Pascal
lascerà libere le tracce vocali del narrante, rinforzandone la presenza:
emergono nella pagina onomatopee, esclamazioni, interiezioni, iterazioni
enfatiche o idiomatiche, indici gestuali, visualizzanti, che trasformano il
tessuto dello scritto in irruzioni di oralità e di voce 9.
Alternanti dunque i problemi e le perplessità sul come scrivere. La
complicata «questione della lingua» ritorna decenni dopo. Penso al
dopoguerra, a come Pier Paolo Pasolini visse il prospettarsi di un passaggio
da una lingua popolare e plurilinguistica al grado zero di una lingua piú
uniforme, un Pasolini che già era stato combattuto tra l’esigenza di essere
“nella storia” secondo l’insegnamento gramsciano e di andare contro la
storia con una lingua inattuale, il dialetto e i gerghi, quelli che poi alla fine
decide di abbandonare perché non piú proponibili. Pasolini aveva
cominciato col produrre poesia dialettale (le poesie friulane), in seguito
optato nei romanzi per la gergalità delle borgate romane, ma già nel ‘64, in
un famoso scritto (Nuove questioni linguistiche), gli tocca riconoscere che il
linguaggio espressionistico dei suoi romanzi romani è ormai entrato in crisi
per la forza livellatrice del neoitaliano egemone; la lingua della nuova
borghesia neocapitalistica, l’italiano tecnologico sta unificando l’italiano,
agendo violentemente nei confronti sia dell’espressività dei dialetti, sia
dell’italiano colto. Pasolini soffre questo processo di livellamento, lo vive
come fastidiosa patina di grigio. Anche la lingua della narrativa, con la
morte del mondo di borgata, con la fine della «grandiosa metropoli plebea»
(Lettere luterane, 1975), avrebbe secondo lui perduto intensità, vigore,
capacità di invenzione. La perdita dell’inventiva gergale, e l’assimilazione
dell’italiano medio, avrebbe tolto alla prosa forza non solo espressionista
ma concretamente espressiva. E in effetti, se si tiene conto del linguaggio
dominante nella nostra narrativa oggi, si constata l’attenuazione (o direi
meglio la quasi scomparsa) di quella nostra endemica contraddizione fra
lingua (letteraria) e realtà (parlata, usuale), e si dovrebbe non dare torto alle
previsioni pasoliniane, nate dalla sofferenza per la “mutazione” in atto negli
anni Cinquanta del secolo scorso: Pasolini era scrittore testimone doloroso
del cambiamento del paese da culla di antica civiltà in rapidissima e quasi
nevrotica modernizzazione, con tutti i suoi sviluppi anche “distruttivi”,
avvertibili in quel passaggio da un’Italia popolare e insieme aristocratica a
un’Italia linguisticamente mediana-mediocre. Comunque si vedano le cose,
dopo gli anni Sessanta (ma queste storicizzazioni sono sempre relative)
nella maggioranza dei prosatori la lingua letteraria comincia a essere
praticata sempre piú nei suoi rapporti con l’italiano comunemente parlato.
La letteratura converge verso un linguaggio sostanzialmente unitario
rispondente al movimento sociolinguistico in atto, inalveato in una scelta di
lingua piú omogenea, senza forti scarti. Lo provano i movimenti correttori
di prosatori degli anni Sessanta: è stato notato che Pratolini nello Scialo
(1962) è ancora vernacolare, e poi nella Costanza della ragione (1964) dà
prova di una uniformità italiana piú evidente. E cosí tanti altri: Sciascia è
ancora gergale e sicilianeggiante negli Zii di Sicilia (1958), piú neutro nel
Giorno della civetta (1961). Col passare degli anni la tendenza verso una
lingua piú omogenea diventa dominante, generalmente accettata dai
narratori. Ciò non vale per tutti, posto lo statuto di “libertà” di cui gode
perennemente la lingua letteraria. Stanno diventando piuttosto rari, è vero,
gli autori che adottano un italiano di energico risalto espressivo, inventivo,
neologistico. Sono già una rarità assoluta gli scrittori come Bufalino ad
esempio, che piacque cosí tanto per la sua prosa letteraria, marcatamente
libresca, che si muoveva «con familiarità lungo l’intero asse diacronico
della nostra lingua, restituendo a vita una folla di parole e di modi
sintattici», e dove la voce obsoleta non veniva usata per esibizione ma per
ritrovare in quel peregrino «una pregnanza speciale, una sfumatura
semantica che è un lusso potersi permettere, un’aura che spesso è piú
significativa del mero referente». Qui sta anche la grande bellezza delle
pagine di Gadda, o di Manganelli, ricche di parole intinte di civiltà letteraria
e adattissime per il falsetto, la parodia, le sfumature e le ricchezze di registri
e di melodia 10; e delle pagine di Landolfi, la sua prosa dalla patina antica,
gli arcaismi, le sue voci inattuali, obsolete 11. Ricchezze oggi meno
praticabili, esperienze piú rare, isolate. Del tutto isolata per esempio
l’esperimentazione trasgressiva (che a me invece piace) di una «stralingua»
parlata-recitata come quella di Giuliano Scabia, che per reazione all’italiano
decolorato e omologato ha «sognato, domato, intorcolato, suonato l’italiano
e i sostrati locali […] per congiungere sublime e comico, cólto e corporale,
allontanando lo spettro dello stereotipo e della passività», seguendo il
«filone ruzantino, dei macaronici folenghiani», scovando etimi dimenticati,
relazioni tra folte raggere di parole 12.
Sono casi minoritari rispetto all’orientamento maggioritario, che ha
scelto invece il tono “medio”. Che certo non data da oggi. È difficile
storicizzare, difficile dire quando è cominciata la scelta di una scrittura poco
marcata. Una larga e illustre area della narrativa italiana adotta sin dal
primo Novecento un linguaggio povero e disadorno. Vittorio Coletti ha
indicato il 1929 come discrimine, l’anno degli Indifferenti di Moravia,
autore che mette in mostra la piú «totale indifferenza» per la lingua. In
Moravia il problema linguistico è (come diceva Cesare Segre) «poco
sofferto». Anche là dove si muoveva tra la parlata dialettale romana
(Racconti romani, La ciociara) Moravia non metteva in rilievo alcuna
«tensione dialettale», ma gli interessava piuttosto prestare, con «fredda
fedeltà», una voce pigra, grigia, sbiadita e incolore ai suoi personaggi
«pigri» essi stessi e «abulici» 13 (vedi la banalità intenzionale nei dialoghi
dei protagonisti). Ad ogni modo, sin da Pirandello, come già notavo, si era
cominciato a tendere alla unificazione della lingua della narrativa con la
lingua comunemente parlata. Stilizzeranno in seguito un’oralità del tutto
uniforme e scarna e limpida Bilenchi, Cassola, Bassani (la sua lingua «non
finge di non essere scritta e non teme di sembrare parlata») 14, Soldati,
Ginzburg, optando per una lingua lontana da squisitezze, preziosismi,
espressionismi, coloriture di gergo e dialetti e ogni varietà del repertorio. La
lingua di una Ginzburg era talmente omogenea e uniforme che a Calvino
sembrava, paradossalmente, strumento che volesse “sotterrare” i pensieri 15.
Montale recensore scriveva che «il linguaggio di Lessico famigliare sta
addirittura al di sotto del livello medio del nostro standard di
conversazione». In realtà la prosa “semplice” della Ginzburg cercava il
nitido, l’affabile, la «tranquillità stilistica» 16 che faceva finta di non avere
sapori, pur avendone moltissimi nella sua asciuttezza. Confessava che per
lei scrivere era stato «come parlare» 17. Siamo negli anni Cinquanta-
Sessanta, in cui molta parte dei nostri narratori cercano di legare il loro stile
narrativo piú strettamente al parlato. I moduli della scrittura colta erano
dissimulati o rimossi: strutture sintattiche elementari, lessico usuale e
quotidiano, simulazione del parlato evidenziata nelle frasi segmentate,
dislocazioni, deittici enfatici ecc. 18. Calvino, a proposito della Ragazza di
Bube di Cassola (romanzo steso tra il 1958 e il 1959), faceva osservare che
l’autore non intende neppure riflettere sui comportamenti, «mette in bocca
ai suoi personaggi frasi del parlare comune, pensieri convenzionali, idee
ricevute» 19. Scrive:

Cassola è toscano di Volterra, il suo mondo è quello degli artigiani e della piccola
borghesia provinciale: un mondo semplice, di semplici sentimenti, di semplici frasi della
conversazione di tutti i giorni registrate con scrupolosa fedeltà. Il segreto di Cassola sta
in questo tono grigio, in questo suo parlare a bassa voce, in questa sua rigorosa cronaca
di giornate qualsiasi 20.

Sta nella «povertà» della sua sintassi, nel raccogliere i pensieri e le


conversazioni che «non vanno al di là della registrazione dell’ovvio», nel
«vietarsi anche il piú piccolo arbitrio fantastico», anche nell’ordine del
racconto, che deve semplicemente «allineare, limitarsi a dare spazio a
oggetti che formino una serie spontanea di addendi, lasciare che una
composizione cresca e si sviluppi unicamente da se stessa» 21.

Cassola, Pratolini, Sciascia tendono ad azzerare, a volere meno


“letteratura” alle spalle. Ci si privava di “energia” linguistica di matrice
letteraria per il timore di strafare e allontanarsi da una “medietà” ritenuta
per un verso piú comunicativa, per altro verso stilisticamente piú limpida.
Tale era quel «bell’italiano medio» 22 (dalla «limpidezza immobile e fluida»,
uno stile dalla «fermezza tersa»: Raboni) 23 scelto da Massimo Bontempelli.
Calvino riscontrava pari disinvoltura in Soldati: «per me è sempre stato il
prototipo dello scrittore che non ha problemi di lingua e scrive in italiano
come i francesi scrivono francese e certi inglesi in inglese» 24. Stesso
atteggiamento stilistico in Rigoni Stern, che per raccontare cronache di
un’esperienza personale di guerra, o storie di vita ordinaria, non ha bisogno
di una lingua vistosa e troppo colorata, ma di un fondo orale, di uno stile
colloquiale, di grande trasparenza comunicativa 25.
La narrativa italiana comunque continua a sviluppare ogni tipo
discorsivo. Il registro “medio” non è attualmente approdo comune a tutti.
Alcuni narratori continuano a esibire un vivace italiano gergale-giovanile o
dialettale, ridanno fiato all’espressionismo di base regionale, che può
diventare talvolta di maniera, se guardo a prose contemporanee intrise di
non sempre necessari eccessi dialettali (in scrittori siciliani per esempio, ai
quali ha fatto scuola il modello Camilleri). Tra le prove piú significative
penso a Laura Pariani, quando rinverdisce un italiano dalle molte lingue,
facendo tornare a galla i dialetti con una evidenza che pareva sepolta; senza
rifarsi ai suoi romanzi piú noti, basti pensare al suo efficace ardire
neologistico nel recente Di ferro e d’acciaio (2018). E ho anche in mente un
tentativo assai riuscito di un decennio fa, Dieci di Andrej Longo (2007):
dieci racconti che disegnano la mappa del dolore, della tragedia, della
corruzione, della violenza a Napoli, città che dolorosamente all’autore
appare la “monnezza” del mondo, e dove Longo intesse narrazioni che
parlano di fatti atroci, e lo fa con grande leggerezza linguistica: non con il
solito italiano punteggiato di fitte macchie dialettali ma con la naturalezza
di un italo-napoletano non espressionistico, senza violente impuntature,
fluido e calmo: il male e le crudeltà piú intollerabili raccontati con poche e
lievi pennellate. L’esperimento stilistico è assai pregevole. Diventava, quel
dialetto, anche raffinata lingua del ricordo e del sogno in Lu campu di
girasoli (2011).
La narrativa italiana fa dunque convivere lo standardizzato e uniforme
con prove di piú ardite tensioni neologistiche, le forme di oralità piú
scontata con esiti invece culti e raffinati (spicca la narrativa di Michele
Mari). Il romanzo continua a essere un genere «in cui si può raccontare
qualsiasi storia in qualsiasi modo», ha una molteplicità illimitata di
possibilità narrative, può «disporre liberamente di ogni contenuto e di ogni
stile» 26. Per fortuna, la realtà sociolinguistica e la letteratura non hanno mai
seguito obbligatoriamente binari paralleli.

Difficile, tra la quantità di romanzi che si stampano, orientarsi e indicare


quelli di particolare rilievo. Occorre districarsi tra una selva di prodotti
spesso scadenti, nei quali prevale lo stile di non avere stile, pagine tirate via
alla svelta, che mimano l’oralità del come viene viene.
Neanche il critico di mestiere si raccapezza. Ma non è d’obbligo del
resto raggiungere unanimità di giudizi. I modi per accostarsi ai testi, e
quindi giudicare, sono molto differenti. C’è chi preferisce fermarsi di piú
sui tratti stilistici e intrinseci, chi sull’ideologia, chi sul tasso di “attualità”,
di “rispecchiamento” del presente. C’è chi è attratto dal testo piú che dal
contesto, chi si muove intorno al testo (lettura sociologica, antropologica),
chi dietro al testo (lettura psicanalitica). Diceva Cesare Segre 27 che ciascun
critico è come una macchina fotografica che ha un «filtro» a colori: chi ne
ha uno chi un altro, i filtri fotografici esaltano particolari dell’oggetto
fotografato e ne attenuano altri. È bene che i filtri non siano sempre gli
stessi, cosí chi giudica, chi legge, coglie ora una novità ora un’altra tra
quelle che il libro gli offre. Fra tutte, non c’è lettura che possieda caratteri di
“verità” e compiutezza maggiori rispetto alle altre. Non voglio dire, e non
lo credo, che tutti i modi di lettura vadano mischiati in una melassa
indifferenziata, e che tutti sono buoni. Credo però che sia bene non avere un
solo grimaldello, un solo modo di valutare un testo, un tipo di lettura che
rientri in una casistica pronta a tutte le situazioni. Anche se i grandi critici
del secolo scorso (da Auerbach a Spitzer, da Debenedetti a Contini, da
Getto a Segre ecc.) sono stati per la mia generazione irresistibili bussole di
orientamento nelle mappe dei mari letterari, le loro letture non possedevano
il carattere di indicazioni definitive o perentorie. Ogni critico vedeva una
cosa e non un’altra, enfatizzava certi aspetti e taceva di altri. Hanno
insegnato un mestiere a tanti, ma non perché fornissero criteri generali di
lettura, passe-partout pronti all’uso. Criteri per definire buona o cattiva
un’interpretazione critica non ce ne hanno per fortuna trasmessi. «Non
seguitemi!» era il motto di Spitzer. Chi per esempio si occupa di lingua, di
stile, di retorica, di critica verbale e simili, è portato, non c’è dubbio, a
enfatizzare certi aspetti formali e a lasciarne cadere degli altri. Occorre
avere la consapevolezza che ciascuno a seconda dei suoi interessi anche
professionali separa o enfatizza una parte di quel tutto indivisibile che è un
testo narrativo (che è tecnica, struttura, discorso, stile, argomentazione,
ideologia, punto di vista ecc.). Seziona un corpo vivo (per cui, ironizzava
Vargas Llosa, «il risultato è, sempre anche nei casi migliori, una forma di
omicidio») 28. Non ci sono criteri di lettura migliori, che si lascino
organizzare in una casistica pronta a tutte le situazioni. È bene tenersi alla
larga da teorie sul metodo di lettura che abbiano validità generale. Le scelte
dunque del critico restano molto personali. Per cui anche le prove migliori
gli possono sfuggire. È piú facile orientarsi quando si guarda al passato,
anche non lontano. Anche se poi, se si guarda al caleidoscopio, alla
meraviglia di forme che il romanzo nel Novecento italiano ha messo in
carta, non rende giustizia il troppo rigido etichettare, il segnare percorsi
distintivi, come si fa nei manuali. Mentre in poesia è possibile assistere a
instaurazioni di koinai riconoscibili, la prosa è a fatica incasellabile in
movimenti precisi o piú rilevanti di altri. Unico spazio distinto forse, nel
primo Novecento, occupò quel filone di prosa che si era sviluppata ai limiti
della lirica, che aveva avuto una spinta poderosa dal frammentismo lirico
del Notturno dannunziano, una prosa che tendeva alla poesia, nel senso di
una scrittura in cui l’elemento sovrano era quello musicale, allusivo (la
prosa d’arte di un Cardarelli, di un Cecchi, di uno Sbarbaro, di grande
castità formale). Ma in contemporanea a queste prove si sviluppava il già
citato nuovo realismo di Moravia; e subito dopo altri scrittori raffinati si
muovevano in direzione opposta, tra il simbolo, il fantastico e il fiabesco-
surreale (Buzzati, Landolfi); e si facevano strada gli inattesi capolavori
espressionistici di Gadda, e la sperimentazione avrebbe prodotto tra non
molto le pagine di alta sapienza anche linguistica di Manganelli, o di
Consolo. Intanto in Horcynus orca di D’Arrigo dialettismi e neoformazioni
componevano un discorso solenne, arcaicizzante, epicizzante. Si
accentuavano negli anni Sessanta-Settanta le ardite ricerche anche
linguistiche di Arbasino, di Testori. Acquistava uno spazio significativo il
romanzo industriale di Volponi, di Ottieri. L’agguerrita avanguardia
(Gruppo ’63) discuteva intanto intorno alla disintegrazione narrativa. Larga
fortuna conosceva il romanzo tra cronaca e politica (Sciascia). Dopo che
negli anni Settanta l’avanguardia aveva proposto sperimentalismi,
metaromanzi, si assisteva alla ripresa della trama (era assente ad esempio in
Fratelli d’Italia, 1963, di Arbasino), tornava il romanzo-romanzo, tornava
l’intreccio (la cui costruzione era vista dal Gruppo ’63 come un elemento
negativo). Il linguaggio narrativo riprendeva il colloquio col lettore nel
romanzo storico di Eco, o di Vassalli. Proposte e opzioni diverse e varietà di
temi e di stili si diramavano in complessi e differenti filamenti. Forse
soltanto il “neorealismo” era riuscito a districarsi da quell’intrico cercando
di essere promosso a corrente riconoscibile. Ma a posteriori anche questa
consolidata etichetta appare oggi impropria, per l’impossibilità di tracciarne
caratteri e confini netti. Solitamente si riconosce l’avvio del movimento in
Conversazione in Sicilia di Vittorini e in Paesi tuoi di Pavese (le «porte
d’ingresso del movimento» dice Mengaldo, che recentemente ha rimesso a
fuoco questo tema) 29, ma entrambi gli autori a ben vedere risultano per
nulla realistici, bensí potentemente “lirici”, attratti da simbolo e mito, con
protagonisti che sono tipi esemplari, maschere che recitano, non persone
vive e vere. In Uomini e no Vittorini mostra di essere «piuttosto per natura
un lirico che un vero narratore» 30. Come bene precisa Mengaldo, la corrente
neorealista, pur avendo in comune realtà cittadine, regionali, urbane o
contadine, comprende scrittori che ora si muovono sotto gli influssi della
letteratura americana, ora della letteratura inglese (elisabettiana e
cromwelliana in Fenoglio), producendo effetti diversissimi: il modello
americano spinge a uno sguardo ravvicinato alla realtà presente, il modello
inglese a un allontanamento verso l’epico 31. “Neorealismo” diventa
etichetta troppo vaga se vogliamo classificare in quella zona certo carattere
memoriale e intimistico del primo Pratolini, o un Cassola che serba tracce
(è ancora Mengaldo ad annotarlo) del frammentismo della prosa d’arte.
L’unico elemento che unisce Cassola, Bilenchi, e i grandi degli anni
Cinquanta–Sessanta, da Pavese al primo Calvino a Pratolini a Pasolini di
Una vita violenta, resta soltanto l’avere cercato di avvicinarsi a un’Italia
“vivente e parlante”, ma con varia soluzione e diversa intensità.

Ancora piú arduo isolare caratteri distintivi della narrativa odierna,


indicare percorsi entro il sovraffollamento di tanta merce prodotta con
facilità e rapidità incalzante. È il mercato a richiedere sempre piú romanzi:
ci si concentra sui best seller, si punta al marketing televisivo e alle grandi
catene, interessa la narrativa di consumo e meno la narrativa di qualità. La
letteratura di scarsa validità è pubblicizzata da mass media che guardano
alla vendibilità del libro. Si dà sempre meno ascolto a ragioni letterarie, di
piú al mercato, e anche a livello del linguaggio si gioca al ribasso.
L’effettivo assestamento generale della narrativa su livelli medio-mediocri
può infastidire, per la minore attenzione che il narratore presta allo stile,
alla struttura e alla composizione del testo. Chi scrive in modo
approssimato e trascurato confessa, prima di tutto, di non attribuire un gran
valore a ciò che fa. E quando un libro è scritto troppo male, ci si dovrebbe
annoiare a morte. Ma ora ci governa la svolta epocale degli anni Settanta-
Ottanta, il radicarsi dell’industria globale della comunicazione, la nascita
della concentrazione della produzione libraria nelle mani di pochi editori e
il sorgere di una strategia editoriale di breve periodo volta alla vendita
immediata di tanti (troppi) romanzi tirati via, fortunati ma privi di qualità 32.
Un pubblico non piú attratto dal valore intrinseco di un testo è guidato a
«consumare in modo indifferenziato i prodotti piú disparati» 33. La catena di
distribuzione, l’ingranaggio produttivo e pubblicitario costruisce la fortuna
di un libro, un «sistema di manutenzione» 34 è tenuto su da recensioni,
passaggi in tv, premi ecc. Diventare popolare significa occupare un posto
preparato dagli organizzatori. Urgono le scadenze, la fretta morde il
calcagno di autori che se non ce la fanno a rifinire, ci pensa l’editore ad
aggiustare rapidamente il testo, prepararlo per i gusti del mercato. Come un
vino da rendere piú abboccato.

Anche per il critico, dicevo, è difficile scegliere gli “irrinunciabili”, tra la


produzione che avanza, in mezzo al profluvio di prodotti buoni mischiati
all’insignificanza. Capita che frammezzo alle tonnellate di carta stampata i
migliori romanzi spesso se ne restino imboscati; la critica dei critici non
contribuisce piú a dissotterrarli, a mediare autorevolmente fra il testo e i
lettori (la palla è passata ai giornalisti). Penso ad alcuni tra gli ottimi libri di
narrativa che si stampano nel mondo, e che si bruciano subito, scompaiono
nell’indifferenza nel giro di poco. Gli oggetti letterari (anche se le librerie
ne sono, come non mai, stracolme) non sono piú prodotti per “restare”, ma
per essere “consumati”. Produciamo il deperibile, ciò che si consuma. È la
legge del mercato, che vuole che di romanzi se ne stampino tanti. E allora
troppi si improvvisano romanzieri. Annota Murakami: «per diventare
pianista o ballerina è necessario esercitarsi severamente fin dalla tenera età.
Anche un pittore deve acquisire alcune conoscenze e alcune tecniche
specialistiche di base. Deve comprare un certo numero di utensili. A un
alpinista occorrono un coraggio e una forza fisica fuori dal comune»; per il
romanzo tutto invece sembra piú semplice: «basta procurarsi una biro e un
quaderno» e buttar giú delle storie, «senza bisogno di un allenamento
professionale» 35. Troppi, dicevo, scrivono romanzi, e la narrativa prospera
guidata da uno statuto sostanzialmente mercantile. L’importante è che di
romanzi si parli, soprattutto quando è stagione di premi. Strega, Campiello
ecc. propongono i libri scelti dalle giurie, ma non è detto che quelle
propongano i migliori. Capita che tanti ottimi rimangano fuori, anche
quando meriterebbero maggiore attenzione. Celati ha fatto il caso di alcuni
romanzi ingiustamente dimenticati come il «capolavoro satirico» di
Augusto Frassineti, Misteri dei ministeri, 1959, rifatto nel 1973 («una fine
del mondo cosí, per effetto burocratico e verbodelirante, nessuno l’ha mai
scritta»), di libri mandati al confino come Silenzio in Emilia (1997) di
Daniele Benati, perché parlano di morti, e solo di morti, temi tabú oggi,
idem Le contemplanze (1997) di Daniele Gorret 36. Imprevedibile è la
diffusione di un romanzo. Alcuni raggiungono, sulla scia dei premi e anche
per meriti intrinseci, un enorme successo. Penso a Paolo Giordano. Non
saprei dire se La solitudine dei numeri primi sia stato il libro piú bello del
2008. Certamente il piú fortunato tra quelli usciti dalla fucina torinese. Ma
intanto un altro di notevole spessore era rimasto nell’ombra (alludo al
romanzo di Alessandro De Roma, che con La fine dei giorni ci proponeva
in una Torino fra de Chirico e Ballard una narrazione apocalittica intorno
alla fine del mondo). Un altro giovane scrittore, Alcide Pierantozzi, che da
Rizzoli aveva pubblicato nello stesso anno L’uomo e il suo amore, non
aveva avuto il successo che meritava, anche se il suo romanzo era molto
pensato, un romanzo “filosofico” che si svolgeva tra Italia e Albania
affrontando gli interrogativi sull’amore attraverso figure di donne che
lasciavano il segno: ma Pierantozzi non lasciava segni. Ci si può chiedere
allora perché Giordano sí e Pierantozzi no. Alcuni malignamente
sottolineavano che alla fortuna avessero contribuito lo splendido titolo e la
splendida copertina che Mondadori aveva fornito a Giordano. Certo,
l’enorme successo era inaspettato dall’autore stesso, come talvolta
confessava riandando al momento in cui aveva spedito senza grandi
speranze il dattiloscritto all’editore. Al successo aveva contribuito il tema
attualissimo della solitudine. Il libro è per l’appunto un incontro di due
persone sole, Mattia e Alice, che si conoscono al liceo, nasce un amore fatto
di silenzi, un amore malato, un incontro tra un’anoressica e un autistico
intelligente; finisce che si lasciano, lui parte per un paese straniero per
esigenze di carriera, ma poi, appena tornato, i due infelici si sposano, anche
se l’amore ormai si è spento, e sempre piú grande è la solitudine che li
circonda. Come le coppie dei numeri primi che sono certo vicini, ma ci sta
sempre un numero pari che impedisce loro di toccarsi veramente, i due
vivono accanto ma soli e perduti, orgogliosamente diversi, i loro destini li
avvicinano, ma nessun vincolo piú li lega. Un intreccio dunque lineare (cosí
come lineare la storia di un amore estivo raccontato nell’ultimo romanzo di
Giordano, Divorare il cielo, 2018), che va incontro al lettore con una
scrittura piana, volutamente senza impuntature: una lingua né alta né
espressionistica, e neppure semplice simulazione di parlato. Prevale il
registro espressivo “medio”: capace, però, di cogliere efficacemente
spietatezze e tenerezze.

Una regola e un rischio: la scrittura “neutra” corre inevitabilmente su un


discrimine, sempre con il pericolo di scivolare nello stereotipo. A meno di
non essere un Döblin, che in incessante rapporto con la lingua parlata
insegnò poco meno di un secolo fa, in Berlin Alexanderplatz (1929), a usare
gli strumenti autentici di documentazione reale inserendoli
puntigliosamente nel testo senza che essi impedissero lo svolgimento epico
del racconto 37. A meno di non essere un Umberto Eco che ha saputo
mettere a frutto la mescolanza di “stile semplice” e di cultura (la sua grande
erudizione filosofica). Non ho mai pensato che lo stile semplice sia di per sé
di segno negativo. Tutt’altro. Come bene ha mostrato Enrico Testa, non è
semplice fictio dell’oralità, caratterizzazione sociologica, ambientale, ma
mezzo anche per esprimere una complessità culturale. Lo stile semplice è
spesso adattissimo per contenuti complicati (o addirittura surreali) 38.
Comunque, è funzionale alla ricerca di limpidezza e traducibilità del
messaggio 39. Ciò vale anche per la poesia. Pensiamo a un poeta come
Mario Benedetti, nei termini in cui ce ne ha parlato Afribo 40, un caso in cui
lingua povera e intensità si fondono: le sue parole sono tutte comuni e
concrete, gli aggettivi semplicissimi, i verbi scelti tra quelli ad alta
frequenza, la sintassi povera di nessi, eppure questa stilistica della
semplicità raggiunge le altezze di una lirica profonda. Quanto alla prosa,
pensiamo a uno scrittore come Parise, estraneo a ogni espressionismo,
dialettismo, preziosismo, alle splendide pagine “minimali” di Sillabari
(1972), al suo linguaggio apparentemente neutro e antilirico, purissimo,
frugale e ascetico, talvolta essenziale come una fiaba (vedi gli incipit dei
racconti di Sillabari: «Un giorno … ecc.»): Arnaldo Soldani, in una
conferenza torinese del marzo 2018 attirava in proposito l’attenzione su
questo passo dei Sillabari, significativo, come tanti di Parise, per nettezza
di esecuzione:

Ma un altro giorno l’uomo (che era diventato vecchio) si svegliò, come sempre e
come tutti i vecchi molto presto, e aprí la finestra: c’era un grande prato di erba appena
falciata nell’ombra, con dei covoni, in fondo al prato un bosco quasi nero con dentro un
fagiano, sopra il bosco un cielo limpido e ventoso di settembre, con aria di mare. In
mezzo al cielo viola una stella, che scintillava in modo arabo.

Vedi infatti le essenziali formulazioni fiabesche del tipo grande prato,


cielo viola, la geografia astratta, poco determinata, che però non si distanzia
dalla realtà fattuale, vedi il secco filo dinamico della narrazione e la secca
simmetrizzata disposizione degli oggetti (in fondo al prato, con dentro un
fagiano, sopra il bosco, in mezzo al cielo).
Gli intenti di ascesi e privazione fanno grande lo scrittore che allontana
da sé «ogni ipotesi di commento o di esitazione descrittiva». Lo annota
Enrico Testa citando il passo in cui Brontë in Cime tempestose descrive la
morte della signorina Earnshaw: «fu presa da un accesso di tosse, e
nemmeno tanto forte; egli la prese tra le braccia e la sollevò; ella gli mise
ambo le mani attorno al collo, trascolorò, e restò esanime» 41. Con un
linguaggio trattenuto, laconico, lineare, netto, essenziale Brontë elimina
ogni impaccio autoriflessivo, e la trasparenza della scrittura si esaurisce in
ciò che l’autore scrive, raccontando senza commento critico ciò che accade.
Si usa un lessico di base, non raro e prezioso, si prediligono periodi
unifrasali, cadono nessi congiuntivi e troppo ingombranti travature
sintattiche, entra nel silenzio la voce autoriale. Ne deriva grande nitidezza
della rappresentazione. In proposito Nabokov opponeva Tolstoj, scrittore
mai essenziale, lapidario, ma che
segue i contorni del pensiero, dell’emozione o dell’oggetto fin quando non è
perfettamente soddisfatto della sua ri-creazione, della sua resa. Ciò comporta quelle che
potremmo definire ripetizioni creative, una serie compatta di affermazioni ripetitive, che
si susseguono immediatamente l’una all’altra, ognuna piú espressiva e piú vicina agli
intenti dello scrittore. Il quale procede a tentoni, apre il pacchetto verbale per cercarne
l’intimo significato, sbuccia la mela della frase, cerca di dirla in un modo, poi in un
modo migliore, annaspa, s’impantana, gioca, “tolstoja” con le parole 42,

a Čechov e al suo vocabolario povero, adatto a comporre brani che non


sembrano elaborati (non usa parole portate «su un vassoio d’argento»), che
non è un inventore verbale come Gogol’: quest’ultimo quanto allo stile non
«va ai ricevimenti vestito con l’abito di tutti i giorni», mentre Čechov si
rivela grande scrittore «senza essere eccezionalmente brillante nella tecnica
verbale o eccezionalmente preoccupato di come scorre una frase», cosí
diverso da Turgenev che quando «si mette a descrivere un paesaggio, vi
accorgete subito che si preoccupa della piega dei pantaloni della sua frase;
accavalla le gambe senza perder d’occhio il colore dei propri calzini» 43;
Čechov non bada a questo, è «estraneo all’inventiva verbale», eppure, pur
accontentandosi di parole quotidiane, usuali

riesce a trasmettere una sensazione di bellezza artistica assai piú di molti scrittori
convinti di sapere che cosa sia una prosa ricca e bella. E ci riesce illuminando tutte le
sue parole con la stessa luce fioca e colorandole tutte esattamente dello stesso grigio, un
colore intermedio tra quello di un vecchio steccato e quello di una nuvola bassa. La
molteplicità dei suoi toni, il guizzare del suo incantevole umorismo, la profonda
asciuttezza artistica della caratterizzazione, la vivezza dei particolari e il dissolversi
della vita umana – tutti elementi tipicamente cechoviani – sono accentuati dall’essere
soffusi e circondati da una nebbiolina verbale leggermente iridescente 44,

con dei bagliori che in forma indiretta suggeriscono «un’atmosfera con i


piú concisi particolari della natura», la sensazione poniamo d’una sera
d’estate scrivendo semplicemente (nel racconto La signora del cagnolino,
1899): «l’acqua era di un violetto tenero e caldo, e la luna vi tracciava una
striscia dorata» 45, senza descrizioni prolungate, ripetizioni, accentuazioni,
ritorni: «In certe descrizioni si punta su un unico particolare per illuminare
tutta una scena» 46.
Vengono a mente in proposito le laconiche chiuse, dal registro triste,
ancora nei citati racconti del Parise di Sillabari: «Si videro per quattro anni
durante i quali sembrò loro di rimanere giovani e felici, poi, un bel giorno,
lei non venne piú ed egli non riuscí a sapere piú nulla di lei.»; «La finestra
era spalancata e l’uomo guardò per molto tempo la luna: era luglio, poi
venne agosto, e cosí passò l’estate.»; «Passarono gli anni, il giovane uomo e
la ragazza di nome Maria scomparvero l’uno dall’altra, insieme al tempo.»

La “semplicità” è sapienza, la tensione al lineare, allo schiarimento


espressivo, la leggerezza, non sono pura vena facile, affabilità naturale,
bensí «sempre effetto dell’arte» diceva Leopardi («Chi scrive senz’arte, non
è semplice»: Zibaldone 4326). Una leggerezza nata spesso da studio e
prove. Anche chi ha voluto rilasciare di sé l’immagine di uno scrittore tutto
istinto e poco studio, si è scoperto che nella realtà poi di sorgivo ha ben
poco, è tutto un lavorare metodico, un limare e rifare. Gino Tellini ha fatto
il caso esemplare di Palazzeschi narratore, che posa da illetterato che non sa
neppure – diceva – dove le biblioteche stiano di casa, che vuol dare di sé
l’idea del «professionista dell’incultura». Ma il suo fare cela un tormentato
lavorio 47. La sua pagina non viene fuori di getto, come voleva farci credere
(«viene un momento che io devo scrivere e devo alzarmi anche alle tre di
notte proprio come per i bisogni fisici, mangiare e dormire, e non sono un
letterato») 48. Non era improvvisazione e virtú spontanea, ma un lungo
«rimenío», avrebbe detto lui, di rifacimenti, modifiche, limature.
Palazzeschi è uno che «occulta la fatica dell’elaborazione manoscritta», che
«tende a passare sotto silenzio le multiple riscritture delle stampe», che
nasconde la cura e la fatica del cesello, per lasciare al lettore «l’illusorio
incanto di un’opera spontanea» 49. Lo testimonia chi ha visto i manoscritti
autografi del Doge, delle Sorelle Materassi, del Palio dei buffi, di Cuor
mio: «confermano la prassi di un tirocinio ossessivamente puntiglioso,
ostinato, perseverante» 50, comportano anche cinque, o sei redazioni
autografe, stesure che «danno la misura di un passo cauto e guardingo che
tende a centellinare la singola frase, la singola parola» 51, la misura di un
lavoro metodico percepibile attraverso l’elaborazione, dopo prime stesure
tumultuose e terremotate, selva di cassature (bene lo attesta Tellini),
spostamenti, varianti, inserzioni interlineari, con nei margini e nel verso
fogli e fogli, un tumulto, sino a quando non si giunge a una stesura piú
assestata, finalmente placata. Tellini getta pure uno sguardo sulla biblioteca
di Palazzeschi, ben munita di vocabolari, dal Tommaseo-Bellini al
Dizionario dei sinonimi di Tommaseo, al Nòvo dizionario del Petrocchi, che
servivano anch’essi per la ricerca di un toscano

senza riboboli e spogliato di ogni facile automatismo, per la sua prosa non d’arte ma
terrestre e affabulante, per la sua lingua aguzza e stralunata, lieve e corposa, intinta di
rustico colore locale eppure non solo «svernacolata» (come diceva lui) ma anche intinta
delle risonanze che evocano il patrimonio di un’antica civiltà.

La sua prosa «cosí affabilmente parlata, esce da una miriade di


rifacimenti» 52.

C’è dunque una radicale differenza tra la leggerezza come risultato di


una tensione e la affrettata “leggerezza” dello scrittore troppo disinvolto,
che non cerca la scrittura lavorata, personale. Hanno molta fortuna ora i
narratori dallo stile anonimo, neutro, che asseconda un processo di
semplificazione e riduzione amplificatosi in un’unificazione planetaria: una
sorta di stile mediatico, che nasce intorno agli stessi luoghi comuni, a una
stessa visione della vita 53. I prosatori finiscono con l’assomigliarsi troppo.
Ciò è dovuto forse al prevalere della narrativa tradotta: è una benedizione
l’avere a disposizione tante traduzioni, ma le traduzioni riducono le
differenze stilistiche, normalizzano, optano per l’identico, non per il
diverso, allontanano dal radicamento e dall’appartenenza, assecondano il
livellamento generale 54: «la lingua di traduzione è una lingua per
sottrazione: cancella tratti di quella di partenza e di quella d’arrivo, assai
piú di quanto non ne assommi. Il risultato è un’omogeneità linguistica che
situa sullo stesso piano opere e autori di paesi ed età diverse» 55. Si
promuove il registro medio, «una lingua a bassa caratterizzazione» 56.
Non è la prima volta naturalmente che si ha la percezione che una
uniformità stilistica si stenda sulle patrie lettere. Agli inizi del Novecento
Renato Serra lamentava: «Oggi tutti scrivono, in modi diversi, pressa poco
la stessa lingua». Per Serra il livellamento era un indizio negativo, perché
«romanzi e novelle oramai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una
felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano. Un tipo solo in tre o
quattro confezioni». Ma ci si muoveva in una piú ristretta prospettiva
nazionale allora, erano altri tempi, gli anni della «Voce» e della «Ronda»,
anni in cui una nuova prosa non di narrazione ma “poetica”, era imperante,
presentava tratti ben riconoscibili. Quel tipo di prosa raffinata trionfò per un
po’. Poi fece il suo tempo, ora la sentiamo tanto lontana. Sa di artefatto. Il
gusto letterario è enormemente cambiato da allora. Nulla è piú lontano dal
gusto odierno della «tendenza onnivora e acronica» 57 modello D’Annunzio,
sapientissima nell’assorbire ogni preziosità e rarità, ogni forma del lessico
della tradizione letteraria. Oggi la maggior parte della narrativa si
assoggetta a un processo di riduzione stilistica che va meglio incontro ai
gusti di un pubblico che ama una lingua meno marcata dal punto di vista
della scrittura. Piace, piú della ricerca stilistica, la “storia” narrata, per
quanto intricata essa sia (penso a Elena Ferrante). Il pubblico ama le
complicazioni degli intrecci e la moltitudine cangiante dei personaggi. Ama
gli intrichi e il loro spettacolo. Di conseguenza la lingua di alcuni scrittori,
per adeguarsi a uno spazio di lettori piú vasto, evita ciò che è
linguisticamente ardito e arduo, la “memoria” interna, l’allusivo, il
culturalmente complesso.
Ripeto: non si può generalizzare. Tra i narratori italiani ce ne sono alcuni
di alta intensità. Ciascuno di noi può stilarne il proprio personale elenco. E
non è il caso di intonare la solita geremiade sui mala tempora. È soltanto
capitato che le fonti dei libri non sono piú i libri: altre “memorie” si sono
fatte avanti. Il colloquio si è allargato, sparpagliandosi enormemente,
spostandosi in piú luoghi e settori: lo spettacolo, il cinema, la tv, i serial, le
canzoni, i fumetti, la pubblicità, i piú correnti “tormentoni” magari, il
parlato banale, comune, il dialogo quotidiano, le parole che si trovano per
strada, un articolo di giornale, la rete, i social network, i gerghi settoriali,
giovanili, l’inglese, i termini scientifici, informatici, le parlate
simildialettali… la casualità della vita che ci pulsa intorno, che fermenta
attorno alle giornate di tutti. I piú dotati hanno fatto della babele un uso
ideologicamente provocatorio: penso alla neoavanguardia o a successivi
sperimentatori (Nanni Balestrini compose provocatoriamente pagine di
spezzoni di brani giornalistici, Elio Pagliarani di frantumi di linguaggi
settoriali eterogenei e di parlato; Aldo Nove ha fatto parlare in suoi
personaggi con un degradato linguaggio massmediatico, televisivo-
pubblicitario; Culicchia ha messo in scena i «linguaggi di maggiore
moda» 58, gergo giovanile, aziendalese, italiano anglicizzato, pubblicitario,
televisivo) 59.
Dall’allargamento delle “fonti” non nasce automaticamente
“trasandatezza”. Penso a Tondelli, quando comincia a scrivere (Altri
libertini, 1981) con assoluta indifferenza alla ricerca formale: ampio flusso
di frasi senza punteggiatura, nessun ricorso al repertorio letterario, usualità
della lingua per parlare delle piccole cose d’ogni giorno, di avvenimenti
quotidiani, della vita lieve dei giovani “alternativi” 60. Penso a chi dal
profilo basso e di stampo orale ha tratto materia di umori e invenzioni:
Stefano Benni o Tiziano Scarpa hanno avvolto l’oralità di un umorismo
sfrenato, di una parodia efficace ora del chiacchiericcio televisivo ora del
gergo giovanile, ma senza rinunciare all’invenzione linguistica, alla piú
vasta gamma delle neoconiazioni piú vivaci. Diventa di larga applicazione
un fraseggiare ricco di forti indici gestuali, di “vivacità” attinta dal parlato.
Il linguaggio narrativo si è fatto molto “ascoltato” prima che “scritto”, e con
soluzioni diverse, ora ristretto ora arricchito. La sintassi ha potuto ridursi
tanto a un basso elementare, quanto intricarsi in vivacità parlata, evitando di
precipitare verso un minimalismo stucchevole 61. È risultata comunque
vincente la semplificazione della sintassi. Si evita il periodo lungo, la
sintassi avvolgente, le frasi sono piú brevi, si introducono lunghe pause,
frequenti a capo. Si amano le sequenze paratattiche, le aggiunzioni lineari,
la frequenza dei punti fermi, le frasi scandite, a blocchi brevi, costruiti per
mera successione con periodi monofrasali. Penso, fra i tanti esempi che si
possono citare, alla prosa di De Carlo, alla sua sintassi «elementare, asciutta
fino alla scarnificazione» 62. La dimensione orale resta alla base del
comporre anche quando la frase prende movenze colte (vedi Cristina
Campo). Paolo Nori dice di scrivere «come si parla»: di qui punteggiatura
in funzione ritmico-prosodica, e tutti i piú consueti fenomeni della sintassi
del parlato (tema sospeso, che polivalente, ci pleonastico, ridondanza
pronominale, concordanze a senso, foderature, topicalizzazioni di ogni
tipo) 63. Ma la realizzazione efficace del registro piú “parlato” che “scritto” è
arte difficile. Hanno dato le prove piú notevoli nel saper recuperare
movenze del parlato Tabucchi e Del Giudice. O Gianni Celati, quando
intrideva con grande inventiva la sua pagina di originalissima, dissacrante
oralità onomatopeica. È davvero un’arte non facile la reinvenzione
dell’oralità, il ricalco del parlato ma con “sprezzatura”, con un’aria
negligente, il riprendere le possibilità del parlato senza calcarlo come dal
vero, come se si avesse in tasca un registratore. La simulazione del parlato è
pratica molto ardua. Nel restituire l’emozione dell’oralità allo scritto, uno
dei maestri è stato Céline, capace di ricostruire la catena fonica dell’oralità
non come «trascrizione al magnetofono di un qualsiasi cicaleccio»: i suoi
personaggi non parlano nei libri come parlerebbero nella realtà, ma il
parlato diventa reinvenzione ritmica, discorso scritto che finge i modi del
discorso normale 64. Il parlato-scritto non va riprodotto cosí com’è ma
anch’esso inventato, manipolato. La sua teatralizzazione scritta, se non è
“ricostruita”, letterariamente vale poco. Lo scrittore non dovrebbe mai
riprodurre semplicemente quello che sente.
Capitolo decimo
Ancora sull’ “ardir” e l’energia, del mestiere di scrivere

«Cosa fai? – Niente, do colore al tempo», mi raccontava Raffaello


Baldini di un poeta che alludeva alle giornate che passavano e al modo di
assecondarle seguendo il filo del proprio fantasticare in versi. Ma la poesia
non è questo almanaccare a vuoto, «semplice stucco per riempire le crepe
del tempo» (Adonis), e neppure le basta il “narrare”, come fa la prosa. La
poesia rispetto alla prosa carica le sue parole di un senso piú vasto e
insieme piú concentrato. Sbarbaro poteva creare il senso di una stagione,
l’autunno, senza descriverlo:

Autunno, primavera della terra:


serba l’albero il fuoco dei passati
soli,
come l’anima il caldo dei ricordi.
Autunno, tarda nostra primavera:
tempo che sull’amara
bocca dell’uomo
spunta il fiore tremante del sorriso.
(Rimanenze, Scapitozzano gelsi…)

Rilke trasformava ciò che narrava

Come una casa, la tua, era l’estate


e dentro, lo sai, c’era ogni cosa –
Adesso devi uscire nel tuo cuore
e camminare come in una piana.
La grande solitudine comincia,
sordi si fanno giorni
e dai tuoi sensi il vento stacca
come marcio fogliame il mondo.
(Il libro d’ore)

in una vasta metafora, dando l’idea del passaggio dalla distesa illusione
dell’estate alla malinconia dell’autunno senza minute descrizioni di
particolari. Perché la poesia sa andare “oltre” gli oggetti concreti, trasforma
le cose di cui parla. Non è descrizione che corrisponde alla realtà, ma
creazione di un senso piú ampio e profondo. Uno scrittore sa far “parlare”
un paesaggio perché lo inventa, ne compone il significato. Si prenda quel
passo mirabile dei Promessi sposi (cap. XXXV ) quando Renzo entra tra gli
appestati in cerca di Lucia, e nebbia, nuvole, oscurità non stanno sullo
sfondo come un telone di scena, ma partecipano totalmente agli orrori del
lazzaretto, e quello diventa un paesaggio di emozioni, idee, un paesaggio
morale:

La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi


sempre piú, davano l’idea di un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel
cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la spera del sole, pallida, che
spargeva intorno a sé un barlume fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante.
Ogni tanto, tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un
borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; né, tendendo l’orecchio, avreste
saputo distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr lontano di
carri, che si fermassero improvvisamente.

Un paesaggio descritto da un grande narratore può anche diventare per


noi un “luogo mentale”. Penso a un paesaggio a me familiare, le Langhe e
le sue colline: non posso sottrarmi da come me l’hanno fatte vedere gli
scrittori. Pavese – lo scrivevo anni fa nella presentazione del libro di
Giorgio Bertone 1 – le ha classicizzate e mitizzate, inondate di lune, falò
ancestrali, e di antichi classici (gli alberi che lí stanno – dice – sono quelli
di Virgilio, vengono “da lontano”); Fenoglio le ha epicizzate, trasfigurate in
un paesaggio primigenio, colline solidificatesi d’incanto come dai tempi
della creazione, apocalitticamente ondose, luogo di notti profonde, di
nebbie, acque, fango e diluvi, a tratti l’Eden, a tratti gl’Inferi 2. Dopo aver
letto Pavese e Fenoglio quei paesaggi non sono soltanto quelli che
realmente sono, ma noi li vediamo in gran parte con i loro occhi: cosí come
succede quando, partendo da certi quadri (Provenza, Toscana, terre del
Nord ritratti nelle tele di impressionisti o di macchiaioli o di fiamminghi),
constatiamo immediatamente che quelle tele che hanno catturato i nostri
occhi ci fanno ri-vedere spazi anche familiari in nuova prospettiva, sotto
nuova luce, con nuovi colori, con nuova partecipazione sentimentale. Il
paesaggio narrato non è una semplice fotografia dell’occhio, tant’è che
quando lo rivediamo, noi lo vediamo già dato da una memoria culturale.
Del resto capita quando pensiamo/vediamo una città: Buenos Aires la
rileggiamo con gli occhi mentali di Borges, Dublino con Joyce, Praga con
Kafka, Lisbona con Pessoa e Tabucchi, Genova con Sbarbaro o Caproni.
Una volta fissato memorabilmente da uno scrittore, tracciato dal calore
psichico della scrittura che lo ha riprodotto, quel paesaggio rimane il
“vero”, il reale, l’autentico. Transitando tra Italia e Francia nelle terre di
Biamonti forse che non vediamo quel paesaggio di monte e di mare con i
colori vitrei, purissimi, che lo scrittore gli ha dato? Lo cogliamo nei trionfi
di luce sull’ombra, la luce che balza dappertutto, l’azzurro che assedia ogni
angolo dimenticato di ombra. Ci appare paesaggio animato: il sereno che
dilaga, e altri due elementi mobili, il vento e il mare, con accanto
l’immobilità della pietra. Biamonti ha steso un particolare colore sul suo
paesaggio, ha disposto spesso i colori in progressione, dal giallo al rosso al
quarzo. Gli piaceva coglierlo nel momento in cui la luce sta per trionfare sul
buio, quando arriva il giorno: «il giallo delle calendule fu il primo a
comparire, poi il rosso di una rosa nel buio e il quarzo di un pezzo di terra
che smerigliava le zappe. Poi la luce balzò dappertutto, l’azzurro assediava
persino le fessure dei ceppi, nell’ombra dimenticata» (Le parole della
notte). Contrasti di luce e ombra, che a Biamonti servono per far muovere le
cose: «La notte aveva movimenti sul sentiero marino. Il sereno dilagava. Il
cielo a Nord aveva altissimi crepacci». Il lettore sente il paesaggio farsi
dinamico, nei suoi contrasti animati («Di tutta quella sera era rimasta un po’
di luce […], un barlume che serpeggiava. Il cielo non era fermo»). Sono le
terre ad aver condizionato Biamonti o non piuttosto Biamonti a reiventarle
per noi? E potremmo continuare per questa strada: rivedere la Toscana con
gli occhi di scrittori toscani, la Sicilia con gli occhi di Vincenzo Consolo,
una Sicilia scavata con una luce assoluta, acuminata e forte come la sua
lingua… Il paesaggio non vive per sé. Non vive che dentro l’uomo e dentro
l’interpretazione dell’artista. Uno scrittore, un pittore, quando dipinge un
paesaggio (cosí come un personaggio), lo crea da sé, lo ritrova in se stesso.
Anche un paesaggio urbano: Sbarbaro fa della città il luogo della sua
negazione, della sua desolazione, della sua propria “aridità” interiore. Ogni
poeta presta ai luoghi il proprio sentimento: un temporale estivo è
alternanza di dolore trascorso e di serenità presente:

Passò strosciando e sibilando il nero


nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene di bosso.
(Myricae, Dopo l’acquazzone)

Un chiaro improvviso di luna può animarsi in un testo di prosa di


sospensioni liriche, essere reinventato con un’immagine concretissima:

Nella campagna, di fianco all’argine, ripresero i suoni consueti: sussurri, fruscii


d’alberi, inquietudini d’uccelli, i tonfi monotoni delle rane. Il vento non aveva ancora
cacciato del tutto le nubi. Ve n’era una quasi bianca sul terrapieno della ferrovia.
Improvvisamente si sciolse e allora apparve la luna, come un’ostia, incastrata in uno
squarcio di azzurro (A. Giacomini, Manovre, 1968).

Certo, il discorso andrebbe meglio e ampiamente articolato, innanzitutto


storicizzato; nel Medioevo il paesaggio non esisteva ancora nella sua
autonomia: non stava dietro all’azione, a colorare e situare gli uomini che
agiscono sulla scena, non esisteva nella sua percezione estetica moderna
(quel moderno che trovava però le sue prime avvisaglie in Petrarca). Si
arriverà per gradi alla scoperta otto-novecentesca del paesaggio naturale,
non piú usato come un telone di fondo staccato dall’azione e dagli uomini,
ma sfondo che sta dietro a colorare e situare gli uomini che agiscono sulla
scena. Attraverso il paesaggio molti scrittori sono riusciti a darci definizioni
del personaggio, dell’azione, della situazione. Nei testi antichi il paesaggio
si accampava piuttosto come funzione del narrare, non come segno o parte
dell’essenza, della definizione del personaggio. Atena di Odissea I (che
«legò ai piedi i sandali, i bellissimi sandali d’oro degli immortali che al
soffio del vento la portavano sul mare e sulla terra infinita») è puro
emblema del divino. La natura in età moderna è diventata invece
approfondimento psicologico, luogo di metafore e paragoni in cui
un’esperienza individuale riflette se stessa e si frantuma. La natura
partecipa al pathos degli eventi, li commenta, ponendosi come oggetto di
meditazione, di contemplazione individuale.
Dicevamo che il paesaggio è realtà “inventata” dal descrittore. Il
paesaggio che Colombo vedrà nel suo approdo non era quello reale, bensí
«el Paraíso terrenal», il paradiso terrestre, il luogo che la cultura medievale
aveva costruito: non poteva essere che quello. Marco Polo «non viene
creduto quando racconta i pozzi di petrolio e le miniere di antracite, ma si
redime citando le mirabilia immaginarie che gli ascoltatori già
conoscevano» 3. Sono i libri della cultura piú diffusa a creare il paesaggio
(nel caso di Colombo, la Bibbia da un lato e Plinio dall’altra). L’immagine
culturale precede il paesaggio. Oppure esso diventa di pura fantasia,
espressione dell’immaginativa, magari pura geometria di linee,
«architettonica della natura» 4, invenzione di linee astratte e fondamentali
(penso all’ultimo Calvino e alle sue mirabili Città invisibili).

Questa digressione “paesaggistica” ribadisce quanto abbiamo


ripetutamente sottolineato: che la letteratura non rispecchia ma ricrea la
realtà, la anima, le infonde inediti fiati. E questo è principio rimasto valido
sempre, per l’antico e per il moderno. Anche se poi i modi della
“ricreazione” sono variati enormemente a seconda del momento storico e
conseguente prospettiva culturale. Notevole è la differenza tra “creare” nel
Medioevo, creare nell’età romantica, o creare nel Novecento. Nei
provenzali, nella scuola siciliana, sino all’età di Dante, comporre
un’orditura di versi consisteva nel costruirla con “mattoni a vista”, cioè con
materiali notori (al pubblico ristretto degli «intendenti»). Il pubblico era
assai ristretto, il tasso di allusività aveva una gran forza di riconoscimento
da parte dei lettori. Nella lirica ogni poeta ripeteva, con variazioni, uno
stretto rituale di temi e di formulazioni linguistiche. Il problema stava nel
vedere come attraverso la “prigione” del repertorio egli sapesse esprimersi
originalmente: esprimersi con immagini eventualmente allegoriche, ma non
“simboliche”, come la poesia moderna ci ha abituato, da quando ha
cominciato a irrazionalizzare l’enunciato, a liberare l’immaginazione,
costruendo testi cui non tocca inserirsi in una “coralità”, viaggiare dentro il
paese del “riconoscimento”. Un riconoscimento che diventava ben piú largo
se il riferimento andava alle scritture sacre. Il celebre incipit di Cavalcanti
«Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira» doveva essere dal lettore coevo
immediatamente percepito come ripresa di Isaia 63, 1 «Qui est iste qui
venit?», o di Cantico dei cantici 6, 9 «Quae est ista quae progreditur?», 8, 5
«Quae est ista quae ascendit?» Anche chi leggeva Guinizelli ritrovava come
tratti familiari i tanti rimandi alla Bibbia, specie al Cantico dei cantici 5;
idem chi leggeva Petrarca, sonetto LXXXI poniamo, la terzina finale «Qual
grazia, qual amore, o qual destino | mi darà penne in guisa di colomba, |
ch’i’ mi riposi, e levimi di terra», sentendo risuonare, quasi alla lettera, il
Salmo 54 «Quis dabit mihi pennas sicut columbae, et volabo et
requiescam?» 6.
In tempi moderni comincerà a contare di piú la distinzione
dell’individualità di chi scrive. Decadrà la solidarietà collettiva che
ascoltava o leggeva un testo per partecipare a un modo d’intendere e di
rappresentare coralmente l’esperienza, e si comincia invece a dare maggior
valore alla soggettività, si tende a infrangere il linguaggio comunitario o
tradizionale. La parola può essere “violata” nel suo significato consueto e
piú soggettivamente motivata. Il testo deve generare sorpresa. Cade il
principio dell’imitazione. Prende rilievo il non convenzionale. Uno scrittore
tanto piú vale quanto piú è originale. Nel medioevo il linguaggio poetico
era commemorativo, comunicava rammemorando. Dal XIX secolo in poi
potremmo dire che la poesia comincia a fare maggior “violenza” alla realtà.
Ma anche nella narrativa l’imprevisto, l’ardire, la novità dell’immagine,
pur giostrando piú della poesia entro la “realtà”, allargano l’ambito
significativo del fisico. Pilucco qua e là pochi esempi. Joseph Roth, nel
racconto Barbara, scrive: «Da un angolo della stanza entrò strisciando il
crepuscolo, tessendo su tutti gli oggetti i suoi veli, uno sull’altro»; ancora
Roth, nel racconto Questa mattina è arrivata una lettera e altri racconti
inediti: «Il vento si alzava in punta di piedi e iniziava il suo notturno
peregrinare; contemporaneamente si illuminavano un paio di luci gialle
nelle capanne lontane, come se fosse stato il vento stesso ad accenderle»; e
Israel J. Singer nel racconto Perle: «Una stretta macchia di quel sole […]
giace sul pavimento, vicino a Spilrein, come un pigro gatto disteso». Le
metafore, le novità delle similitudini, irrompono nelle descrizioni. Se ne
potrebbe stendere il catalogo. Ma l’inatteso e l’ardimento non svaporano
nell’indistinto, ma sono cerchiati dalla fisicità del mondo. Cosí succede
nella similitudine: «Ma la sua vita [di Emma Bovary] era fredda come una
soffitta con l’abbaino esposto a settentrione, e la noia, ragno silenzioso,
filava tetramente la tela in tutti gli angoli del cuore»; oppure «fui introdotto
in una stanzetta fredda come un’ostrica» (Melville, Moby Dyck I, III). E
succede nella metafora, che permane nei casi migliori «rigorosamente
fattiva» 7, corposa, non diminuisce affatto, anzi incrementa il “realismo”
della descrizione. In questo senso restano esemplari le metafore e
similitudini che incontriamo in Fenoglio, Una questione privata: la luce del
giorno «cresceva a fiotti grigi», il paese muto «formicolava di silenzio», «i
vapori del mattino si alzavano come se si togliesse loro un vestito da sotto
in su», «con un fendente di luce lunare attraverso il viso», «pioveva rado e
pesante, con gocce piatte come monete», «la luna, smozzicata e trasparente
come una caramella lungamente succhiata», «rise cordialmente, e in un
baleno la risata fu mulinata dal vento lontana, come fosse una piuma».
Fenoglio sbozza come uno scultore figure (prive di pathos, mai
melodrammatiche) e paesaggi (mai decorativi, estetizzanti). Mengaldo dice
che Fenoglio sembra cogliere la realtà «a colpi di artiglio» 8; sbalza
immagini tattili 9, in modo da esaltare un concreto che risplende subito di
astratto, con l’eleganza e la «solenne purezza» di una scrittura che trattiene
in sé una sua «spinta assolutizzante» 10.

E intendo chiudere sul tema (difficilmente sondabile) del come la


letteratura abbia saputo allargare l’ambito significativo del fisico,
esemplificando con una delle prove eminenti, con Leopardi. Nel Sabato del
villaggio quando scrive «torna azzurro il sereno», sereno è concretissimo,
qualificazione meteorologica, assenza di aria umida, χϵρόϛ, secco, cielo
terso, senza nuvole, ma è parola che, pur usata con estrema esattezza, non è
semplicemente sinonimo di cielo, ma di un qualcosa che pervade lo spazio
circostante (come quando scrive «odi per lo sereno un suon di squilla»:
Passero solitario 29), un elemento che riempie il vuoto, concretamente
‘l’aria’, ma un’aria che si carica di suoni e di risonanze: una esattezza
colmata di risonanze interiori. Si veda qualcuna delle sue (sempre
fittissime) correzioni in corso d’opera. Nell’Infinito per esempio celeste
confine > ultimo orizzonte, meno fisico e geografico, piú evocativo. Ma
anche nell’evocazione nuova, inattesa, la parola non perde la sua radice e
natura prima, quella dell’esattezza. Vedi anche come Leopardi distingua tra
mirare, piú mentale, e vedere, piú fisico-corporale, e prosaico: mirare non è
dell’occhio, come il vedere, ma dell’anima; in mirare risuona la meraviglia
(lat. mirāri; ed è per di piú verbo della tradizione lirica, Cavalcanti, Dante).
Ma in tutti questi innalzamenti e approfondimenti non va perduta la
concretezza. «Vaghe stelle dell’Orsa…» non dipende solo dal significato di
vago nella nostra tradizione poetica di ‘bello, gentile’ ma dal significato
fisico di vago come ‘rotante, vagante’: ambiguità e indeterminatezza
muovono da un significato concreto. Cito ancora una variante: in Inno ai
Patriarchi 106

Tal fra le vaste californiane selve


nasce beata prole, a cui non sugge
pallida cura il petto, a cui le membra
fera tabe non doma; […]

incontriamo l’aggettivo pallida riferito a cura (‘affanni che rendono


pallido il viso’): dopo sedici proposte che avevano visto alternarsi torbida
rabida squallida livida ruvida ferrea scarna barbara rigida putida fetida
fervida macera gelida spietata torba… 11, alla fine prevale su tutte la scelta
di un aggettivo preciso, visivo, piú chiaro nel contesto, e intanto permette a
Leopardi di introdurre un “ardire” (cioè un di piú di poetico) generato dalla
sinestesia con «cura». È proprio quell’alone di indeterminatezza che emana
dall’esattezza a rendere pregnante come in nessun altro lirico la parola di
Leopardi. Le stesse precisazioni deittiche (nell’Infinito «questa siepe» ecc.)
fungono da apertura all’indefinito, all’immaginario. Il raggiungimento della
comunicazione avviene attraverso una dimensione che è sí relativa alla
precisione delle parti grammaticali (giú, da, verso ecc.) ma subito disillusa
dalla vaghezza semantica delle parole, per cui ogni indicazione spaziale è
immediatamente vanificata. In Leopardi la parola raggiunge una sua
pienezza lirica, una sua forza evocativa (il vago e l’indeterminato) passando
attraverso la chiarezza del concreto e viceversa. La trasparenza del suo
verso si vela di vago, «cosí come un vetro diventa visibile quando si
appanna» 12, ma l’indeterminatezza non si offusca grazie al peso del
concreto. L’indeterminato è per esempio raggiunto a volte non annullando
ma soltanto “allontanando” il concreto, la fonte sonora o visiva. Il
procedimento gli è ben chiaro. In Zibaldone 1928, per l’«idea vaga ed
indefinita che desta», cita il canto «udito da lungi, o che paia lontano senza
esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando», il canto «udito in modo
che non si veda il luogo da cui parte», come i «canti o suoni per la strada,
massime di notte». E parla della luce che diventa poeticamente efficace se
penetra «in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si
distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi
socchiusi». Si rammenti La sera del dí di festa (e anche Zibaldone 50
«Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente il giorno di qualche festa il
canto de’ villani passeggeri»), il canto «che s’udia per li sentieri |
lontanando morire a poco a poco»; e l’incertezza della luce nel Sogno, «Era
il mattino, e tra le chiuse imposte…»: il vago di un dato fisico (luce o
suono) che arriva o da lontano o da una fonte non vista 13. Ma ogni alone di
indeterminatezza non è mai disgiunto dalla materia del reale. Un reale
spesso domestico, quotidiano. Mengaldo ha bene notato in Leopardi
l’incontro tra il linguaggio quotidiano e il nobile, ma senza creare
«affettazione». Il domestico serba la sua «trafiggente creaturalità» 14.
Leopardi mette accanto a parole quotidiane parole arcaiche, costruisce un
insieme di «termini familiari letterari» come li definiva Saba parlando del
Sabato del villaggio, in cui la poesia impasta, senza opposizioni e stridere
di strati, «il familiare quotidiano (d’uso comune) e il familiare-letterario» 15.
Senso del lontano e del perenne trasmesso dalla letteratura e naturalezza del
presente in Leopardi (cosí come poi in Saba) convivono e si confondono 16.
Nella lirica, cosí come nella prosa delle Operette, quella di Leopardi diventa
lingua «che può fare di tutto» in questa parificazione di quotidiano-umile e
di momenti di solennità, di profonda vertigine 17. Latinismi, aulicismi,
letterarietà e lessico della realtà quotidiana convivono. Cosí scriveva
all’amico Giordani: «Tante cose restano da creare in Italia», una lingua e
uno stile «ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a
intendere e dilettevole cosí al volgo come ai letterati» 18. Antico e moderno
possono stabilire un inedito, naturale “equilibrio”, anche con un lessico che
alterni verone a balcone, accosti gli augelli alla gallina («Odo augelli far
festa e la gallina…») 19. Frammezzo a un lessico nobile sbucano
garzoncello, zappatore, o l’artigiano che si fa «in su l’uscio», e rana,
belare, bottega, legnaiuol, erbaiuol, la vecchierella, la capra, il coniglio, la
gallinella, o la lepre, e stride la sega del falegname. La venustà di antico si
conglomera col quotidiano del borgo, tra le vie dove risuonano lieti
romori 20. Il verso (richiama i versi degli augelletti di Petrarca?) della
gallina o la piova sono entrambe scelte alte, poetiche, e insieme voci di uso
anche regionale e popolare 21. Umile e aulico si accompagnano. I versi piú
apparentemente tersi e semplici come «Dolce chiara è la notte e senza
vento» hanno alle spalle secoli di letteratura, in questo caso Ariosto delle
Rime e Omero della già citata descrizione di Ilio notturna nell’VIII
dell’Iliade, come opportunamente annotava Gavazzeni commentatore dei
Canti. Anche la serie aggettivale è nei versi leopardiani ridotta, «si restringe
cosí spesso, con bellissima semplicità, agli epiteti piú familiari e affettivi,
ma insieme polisemici o ricchi di sfumature e connotazioni: “caro”,
“dolce”, “beato”, “vago”, “celeste”, “arcano”, “soave” ecc.» 22. E di questa
ricercata alternanza di alto e di semplice/quotidiano rendono testimonianza
le varianti (Mengaldo ci ricorda le correzioni di lezioni piú letterarie con
altre piú “familiari”: turba > schiera, ergano > alzino, fere > feroci, trepide
> inquiete, luci > giorni, finge > forma, pervicace > irrequieto, atre >
indomita, carco > pien, soma > fascio, procella > tempesta, aure > aria,
piagge > rive ecc.) 23.
In questa ricerca di sospensione tra vago e percepibile, semplice/naturale
e letterario, Leopardi spendeva i giorni faticosi che l’itinerario dei
manoscritti rispecchiano: un perenne lavorio di correzioni, in margine,
nell’interlinea, una continua ripresa del materiale genetico, varianti
alternative recuperate all’altezza delle stampe…

Con Leopardi termina il mio viaggio intorno allo scrivere. Una delle piú
commoventi testimonianze nella nostra letteratura di «sudate carte» resta
forse il manoscritto delle Operette morali 24, quelle pagine preparate (come
sembra) per la tipografia, con i margini riempiti di varianti, di soluzioni
parallele, «tracce dell’immenso laboratorio linguistico da cui nasce la sua
scrittura» 25. Nel Dialogo della Terra e della Luna «le varianti accumulate in
fondo occupano due pagine» 26. Matteo Motolese 27 cita la Storia del genere
umano, per il lavoro compiuto tra grappoli di sinonimi depositati sui
margini, alla ricerca di una soluzione migliore, e cita quel passo che fissa a
testo un aggettivo accompagnato da un fitto numero di variazioni: si parla
dei sogni, cui tocca ingannare sotto piú forme il pensiero degli uomini, in
modo che quei sogni figurino «quella pienezza di non intellegibile felicità»,
e Leopardi allora annota le alternative che potrebbe usare: «inestimabile,
ineff. indicib. inesprimib. inesplicab. incognita, non intesa, conosciuta,
conceputa».
Indice dei nomi

Abelardo, Pietro.
Adami, Tobia.
Adonis, pseud. di Alī Ahmad Sa’īd Isbir.
Adorno, Theodor.
Afribo, Andrea.
Agosti, Stefano.
Alain, Émile-Auguste Chartier, detto.
Alamanni, Luigi.
Alfieri, Vittorio.
Algarotti, Francesco.
Alighieri, Dante.
Anchiseo, Giovanni.
Andersen, Hans Christian.
Anedda, Antonella.
Antonelli, Giuseppe.
Appelfeld, Aharon.
Arbasino, Alberto.
Arieti, Cesare.
Ariosto, Ludovico.
Aristotele.
Arpino, Giovanni.
Auden, Wystan Hugh.
Auerbach, Erich.
Avilova, Lidija.

Bach, Johann Sebastian.


Bàez, Fernando.
Baldini, Raffaello.
Balestrini, Nanni.
Ballard, James Graham.
Bandini, Fernando.
Banfi, Antonio.
Baranelli, Luca.
Barenghi, Mario.
Barthes, Roland.
Bassani, Giorgio.
Bárberi Squarotti, Giorgio.
Barbieri, Renzo.
Barenboim, Daniel.
Bartoli, Daniello.
Baudelaire, Charles.
Beccaria, Gian Luigin.
Beckett, Samuel.
Beethoven, Ludwig van.
Bellini, Vincenzo.
Bellomo, Leonardo.
Bellotto, Bernardo.
Bellow, Saul.
Belpoliti, Marco.
Bembo, Pietro.
Benati, Daniele.
Benedetti, Mario.
Benni, Stefano.
Benveniste, Émile.
Benvenuti, Giuliana.
Berio, Luciano.
Berni, Francesco.
Bertolucci, Attilio.
Bertone, Giorgio.
Bertoni, Alberto.
Besomi, Ottavio.
Betocchi, Carlo.
Biamonti, Francesco.
Bigi, Emilio.
Bilenchi, Romano.
Blasucci, Luigi.
Boccaccio, Giovanni.
Boggione, Valter.
Boiardo, Matteo Maria.
Boine, Giovanni.
Bonfiglioli, Pietro.
Bonghi, Ruggero.
Bontempelli, Massimo.
Borges, Jorge Luis.
Borri, Giuseppe.
Botta, Carlo.
Bozzola, Sergio.
Brecht, Bertolt.
Brevini, Franco.
Briganti, Alessandra.
Briganti, Paolo.
Brik, Osip Maksimovič.
Broggi, Alessandro.
Brontë, Emily Jane.
Brunello, Piero.
Bruni, Francesco.
Bruno, Giordano.
Bucchi, Gabriele.
Bufalino, Gesualdo.
Buzzati, Dino.

Cadioli, Alberto.
Čajkovskij, Pëtr Il′ič.
Calcagno, Giorgio.
Calcaterra, Carlo.
Calvino, Italo.
Camarotto, Valerio.
Camerino, Aldo.
Camilleri, Andrea.
Campana, Dino.
Campanella, Tommaso.
Campo, Cristina.
Canetti, Elias.
Canfora, Luciano.
Capuana, Luigi.
Caproni, Giorgio.
Cardarelli, Vincenzo.
Carducci, Giosue.
Carrai, Stefano.
Cases, Cesare.
Cassola, Carlo.
Castiglione, Baldassarre.
Castiglione, Marina.
Catilina, Lucio Sergio.
Cattaneo, Carlo.
Catullo, Gaio Valerio.
Cavaglion, Alberto.
Cavalcanti, Guido.
Cecchi, Emilio.
Cecco d’Ascoli.
Čechov, Anton Pavlovič.
Celan, Paul.
Celati, Gianni.
Céline, Louis-Ferdinand.
Cellini, Benvenuto.
Cervantes Saavedra, Miguel de.
Cesare, Gaio Giulio.
Cesarotti, Melchiorre.
Ceserani, Remo.
Cézanne, Paul.
Cherici, Luca.
Cherubini, Francesco.
Chiabrera, Gabriello.
Chiari, Alberto.
Cioni, Gaetano.
Cocteau, Jean.
Colet, Louise.
Coletti, Vittorio.
Colli, Barbara.
Colombo, Cristoforo.
Colussi, Davide.
Comanini, Gregorio.
Conrad, Joseph.
Consolo, Vincenzo.
Conte, Gian Biagio.
Contini, Gianfranco.
Corazzini, Sergio.
Cornelio Nepote.
Cortázar, Julio.
Corti, Maria.
Crivelli, Tatiana.
Cucchi, Maurizio.
Cucchiarelli, Andrea.
Culicchia, Giuseppe.
Curtius, Ernst Robert.

Dal Bianco, Stefano.


Dalí, Salvador.
Damiani, Rolando.
D’Annunzio, Gabriele.
Daoud, Kamel.
D’Arrigo, Stefano.
Darwin, Charles.
D’Arzo, Silvio.
De Angelis, Milo.
Debenedetti, Giacomo.
De Blasi, Nicola.
Debussy, Claude.
De Carlo, Andrea.
De Chirico, Giorgio.
De Filippo, Eduardo.
Defoe, Daniel.
Dei, Adele.
Delfini, Antonio.
Del Giudice, Daniele.
D’Elia, Gianni.
Della Casa, Giovanni.
Della Valle, Valeria.
Della Valle di Casanova, Alfonso.
Della Vigna, Pier.
Delmastro, Sandro.
De Marchi, Emilio.
Democrito.
De Robertis, Giuseppe.
De Roberto, Federico.
De Roma, Alessandro.
Devoto, Giorgio.
Di Alesio, Carlo.
Dickens, Charles.
D’Intino, Franco.
Dix, Otto.
Döblin, Alfred.
Dondero, Marco.
Doran, Michaeln.
Dumas, Alexandre.
Dürer, Albrecht.

Eco, Umberto.
Einstein, Albert.
Eliot, Thomas Stearns.
Ennio.
Erasmo da Rotterdam.
Erba, Luciano.

Faldella, Giovanni.
Fauriel, Claude.
Fava, Elisabetta.
Fea, Elisabetta.
Felici, Lucio.
Fenoglio, Beppe.
Ferrante, Elena.
Ferrario, Vincenzo.
Ferrero, Ernesto.
Ferretti, Gian Carlo.
Feynman, Richard P.
Fink, Guido.
Fiori, Umberto.
Flaubert, Gustave.
Forti, Fiorenzo.
Fortini, Franco.
Foscolo, Ugo.
Frasca, Gabriele.
Frassineti, Augusto.
Freud, Sigmund.
Frontone, Marco Cornelio.
Frye, Northrop.
Fuentes, Carlos.

Gadda, Carlo Emilio.


Galileo, Galilei.
Garboli, Cesare.
Gatta, Francesca.
Gatto, Alfonso.
Gavazzeni, Franco.
Genette, Gérard.
Gengis Khan.
Getto, Giovanni.
Ghisalberti, Fausto.
Giacomini, Amedeo.
Giancotti, Francesco.
Gianotti, Gian Franco.
Giaveri, Maria Teresa.
Gibellini, Pietro.
Gigli, Gerolamo.
Ginzburg, Lisa.
Ginzburg, Natalia.
Giordani, Pietro.
Giordano, Paolo.
Giovannetti, Paolo.
Giovenale, Decimo Giunio.
Giudici, Giovanni.
Giustiniano, Flavio Pietro Sabbazio, imperatore bizantino.
Goethe, Johann Wolfgang von.
Gogol’, Nikolaj Vasil’evič.
Goldoni, Carlo.
Góngora, Luis de.
Gorkij, Maksim.
Gorret, Daniele.
Govoni, Corrado.
Gozzano, Guido.
Grésillon, Almuht.
Grignani, Maria Antonietta.
Grigorovič, Dmitrij Vasil’evič.
Grossi, Tommaso.
Guicciardini, Francesco.
Guimarães Rosa, João.
Guinizelli, Guido.
Günday, Hakan.

Haskil, Clara.
Hawking, Stephen.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich.
Hemingway, Ernest.
Hilton, James.
Hoffman, Amadeus.
Hölderlin, Friedrich.
Hugo, Victor.
Insana, Jolanda.
Ioli, Giovanna.
Isabella I di Castiglia, regina di Castiglia e León.
Isella, Dante.
Italia, Paola.

Jahier, Piero.
James, Henry.
Joyce, James.

Kafka, Franz.
Kandinskij, Vasilij Vasil’evič.
Kant, Immanuel.
Keats, John.
Klee, Paul.
Knauer, Georg Nicolaus.
Kokoschka, Oskar.
Kundera, Milan.

Landolfi, Tommaso.
Lanner, Joseph.
Lausberg, Heinrich.
Lavagetto, Mario.
Lavezzi, Gianfranca.
Lawrence, David Herbert.
Leopardi, Giacomo e.
Lepschy, Giulio.
Lessing, Gotthold Ephraim.
Levi, Primo.
Lévi-Strauss, Claude.
Liszt, Franz.
Locke, Arthur.
Lolli, Gabriele.
Lonardi, Gilberto.
Longo, Andrej.
Longoni, Anna.
Lorenzini, Niva.
Lo Vecchio Musti, Manlio.
Lubrano, Giacomo.
Lucini, Gian Piero.
Lunetta, Mario.
Lutero, Martin.
Luti, Emilia.
Luzi, Mario.
Luzzi, Giorgio.

Machiavelli, Niccolò.
Maestro, Wanda.
Maeterlinck, Maurice.
Magrelli, Vittorio.
Magris, Claudio.
Mallarmé, Stéphane.
Manfredini, Manuela.
Manganelli, Giorgio.
Manguel, Alberto.
Mann, Thomas.
Manzoni, Alessandro.
Marchi, Marco.
Mari, Michele.
Mariani, Gaetano.
Marías, Javier.
Marinetti, Filippo Tommaso.
Marino, Giovan Battista.
Mascheroni, Lorenzo.
Masoero, Mariarosa.
Matt, Luigi.
Mazzacurati, Giancarlo.
Mazzoni, Guido.
Melville, Herman.
Mencacci, Osvaldo Alvaro.
Meneghello, Luigi.
Mengaldo, Pier Vincenzon.
Mengoni, Martina.
Metastasio, Pietro.
Meyer, Ferdinand.
Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto.
Monelli, Paolo.
Montale, Eugenio.
Montefoschi, Paola.
Monteverdi, Claudio.
Monti, Augusto.
Morante, Elsa.
Moravia, Alberto.
Moretti, Franco.
Mosco.
Motolese, Matteo e.
Murakami, Haruki.
Musil, Robert.
Mussolini, Benito.

Nabokov, Vladimir Vladimirovič.


Napoleone I Bonaparte, imperatore dei Francesi.
Nascimbeni, Giulio.
Nencioni, Giovanni.
Neri, Giampiero.
Neri, Laura.
Neruda, Pablo.
Newton, Isaac.
Nguyen, Thanh.
Niccolini, Giovan Battista.
Nigro, Salvatore Silvano.
Nooteboom, Cees.
Nori, Paolo.
Nove, Aldo.

Omar, Mohammed, mullah.


Omar ibn al-Khaṭṭāb, califfo islamico.
Omero.
Orelli, Giorgio.
Orengo, Nico.
Ossola, Carlo.
Otero, Blas de.
Ottieri, Ottiero.
Oz, Amos.

Pagliarani, Elio.
Palazzeschi, Aldo.
Pampaloni, Geno.
Pamuk, Orhan.
Panormita, Antonio Beccadelli, detto.
Papini, Giovanni.
Pariani, Laura.
Parini, Giuseppe.
Parise, Goffredo.
Parussa, Sergio.
Pascoli, Giovanni.
Pasolini, Pier Paolo.
Patota, Giuseppe.
Pavese, Cesare.
Pennac, Daniel.
Pergolesi, Giovanni Battista Draghi, detto.
Pessoa, Fernando.
Petrarca, Francesco.
Petrocchi, Policarpo.
Pierantozzi, Alcide.
Pirandello, Luigi.
Platone.
Plimpton, George.
Plinio, Gaio Secondo, detto il Vecchio.
Plutarco.
Poe, Edgar Allan.
Poirier, Richard.
Poli, Gabriella.
Polo, Marco.
Pontiggia, Giuseppe.
Porta, Antonio.
Pratolini, Vasco.
Pregliasco, Marinella.
Prokofiev, Sergej Sergeevič.
Protagora.
Proust, Marcel.
Pulci, Luigi.
Pullini, Giorgio.
Pusterla, Fabio.

Quaranta, Bruno.
Quasimodo, Salvatore.
Quintiliano, Marco Fabio.

Raboni, Giovanni.
Raboni, Giulia.
Ravel, Maurice.
Rebora, Clemente.
Regge, Tullio.
Restagno, Enzo.
Rico, Francisco.
Rigoni Stern, Mario.
Rilke, Rainer Maria.
Rimbaud, Arthur.
Risi, Nelo.
Rossari, Luigi.
Rossi, Tiziano.
Roth, Joseph.
Roth, Philip.
Rothko, Mark.
Rousset, Jean.
Roversi, Roberto.
Ruffino, Giovanni.
Russo, Lucio.

Saba, Umberto.
Sabatini, Francesco.
Saffo.
Said, Edward W.
Sallustio, Gaio Crispo.
Sanguineti, Edoardo.
Sannazaro, Jacopo.
Santacroce, Antonella.
Santagata, Marco.
Santoro, Luigi A.
Saramago, José.
Sargenti, Aurelio.
Sartre, Jean-Paul.
Sassi, Giuseppe Antonio.
Sbarbaro, Camillo.
Scabia, Giuliano.
Scaffai, Niccolò.
Scarpa, Raffaella.
Scarpa, Tiziano.
Sceab, Moammed.
Schönberg, Arnold.
Sciascia, Leonardo.
Scurati, Antonio.
Segovia, Andrés.
Segre, Cesare.
Seneca, Lucio Anneo.
Sensi, Claudio.
Sereni, Vittorio.
Serianni, Luca.
Serra, Renato.
Shakespeare, William.
Shaw, George Bernard.
Shelley, Percy Bysshe.
Shih Huang Ti, imperatore cinese.
Simonelli Picchio, Maria.
Singer, Israel J.
Siti, Walter.
Socrate.
Socrate, Mario.
Soldani, Arnaldo.
Soldati, Mario.
Spinazzola, Vittorio.
Spitzer, Leo.
Squilla, Settimontano, vedi Campanella, Tommaso.
Stefanelli, Stefania.
Stella, Angelo.
Stendhal, Marie-Henri Beyle, detto.
Stevenson, Robert Louis.
Stravinskij, Igor’ Fëdorovič.
Surdich, Luigi.
Svetonio, Gaio Tranquillo.
Svevo, Italo.

Tabucchi, Antonio.
Tasso, Torquato.
Tellini, Gino.
Tenca, Carlo.
Tesauro, Emmanuele.
Testa, Enrico.
Testori, Giovanni.
Timpanaro, Sebastiano.
Tolstoj, Lev Nikolàevič.
Tomasi, Franco.
Tommaseo, Niccolò.
Tonani, Elisa.
Tondelli, Pier Vittorio.
Torti, Giovanni.
Tozzi, Federigo.
Trevi, Emanuele.
Trivulzio Rinuccini, Marianna.
Turchetta, Nadia.
Turgenev, Ivan Sergeevič.
Tynjanov, Jurij Nikolaevič.

Ungaretti, Giuseppe.
Unseld, Siegfried.

Valabrega, Paola.
Valéry, Paul.
Valesio, Paolo.
Van Dyck, Antoon.
Vargas Llosa, Mario.
Vassalli, Sebastiano.
Verdino, Stefano.
Verga, Giovanni.
Vinay, Gianfranco.
Virgilio, Publio Marone.
Vitale, Maurizio.
Vittorini, Elio.
Viviani, Cesare.
Volponi, Paolo.
Voltaire, François-Marie Arouet, detto.

Wagner, Richard.
Wittgenstein, Ludwig.
Woolf, Virginia.

Zanardo, Monia.
Zanella, Giacomo.
Zanzotto, Andrea.
Zavattini, Cesare.
Zinato, Emanuele.
Zola, Émile.
Zublena, Paolo.
Zucco, Rodolfo.
Zumárraga, Juan de.
Zumthor, Paul.
Note

Premessa

1. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura? [1947], il Saggiatore, Milano 1960.


2. Da vari scrittori, per esempio a seguito del questionario di Gian Carlo Ferretti uscito nel num. 39
della rivista «Rinascita» («Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia?»), cui
risposero tra gli altri (1967-68) Giudici, Lunetta, Volponi, Roversi, Valesio, Sciascia, Pagliarani,
Sanguineti, Calvino.
3. Ph. Roth, Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013, Einaudi, Torino 2018, p.
414.
4. Ibid., p. 72.
5. O. Pamuk, La valigia di mio padre, Einaudi, Torino 2007, pp. 7-8.
6. C. Ossola, Europa ritrovata. Geografia e miti del vecchio continente, Vita e Pensiero, Milano
2017, p. 115 e passim.

Perché scrivere

1. Rimando a G. L. Beccaria, L’italiano che resta, Einaudi, Torino 2016, pp. 25 sgg.
2. Cito dalle pagine dedicate a Calvino da C. Garboli, La stanza separata, Scheiwiller, Milano 2008,
p. 269.
3. D. H. Lawrence, Why the Novel Matters [1925], in Phoenix. The Posthumous Papers, The Viking
Press, New York 1936 (cit. in G. Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011, p. 13).
4. Rimando a M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, il Saggiatore, Milano 2017, pp. 21-23.
5. Ibid., p. 282.
6. Ho usato le parole di M. Kundera, L’arte del romanzo [1986], Adelphi, Milano 1988, p. 33.
7. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 19.
8. Roth, Perché scrivere? cit., p. 33.
9. G. Tellini, Le muse inquiete dei moderni. Pascoli, Svevo, Palazzeschi e altri, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2005, p. 93; e vedi anche pp. 77-78.
10. E lo faceva azzerando gli artifici della letteratura: «ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e
dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso queste pagine capirmi meglio
[…] Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo
complesso del mio essere» (I. Svevo, Pagine di diario e sparse, in Opera omnia, Dall’Oglio,
Milano 1969, III, p. 818).
11. Lettera del 20 settembre 1910 (Epistolario, in Opera omnia cit., II, p. 558).
12. I. Svevo, Pagine di diario e sparse cit., p. 820.
13. Come disse C. Lévi-Strauss, Lezione di scrittura, in Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 2007.
14. Prendo a prestito una nota di Gianni Celati per Antonio Delfini (G. Celati, Studi d’affezione per
amici e altri, Quodlibet, Macerata 2016, p. 211).
15. F. Rico, I venerdí del Petrarca, Adelphi, Milano 2016, p. 171.
16. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 26.
17. J. Cortázar, Lezioni di letteratura. Berkeley, 1980, Einaudi, Torino 2014, p. 6.
18. I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, Mondadori, Milano 2012, p. 366.

Leggere e scrivere

1. C. Sensi, L’«Arcimondo» della parola. Saggi su Giacomo Lubrano, Liviana, Padova 1983, p. 116.
2. Vedi G. L. Beccaria, L’italiano in 100 parole, Rizzoli, Milano 2015, pp. 133-34.
3. G. Comanini, cit. in C. Ossola, Autunno del Rinascimento. «Idea del Tempio» dell’arte nell’ultimo
Cinquecento, 2ª ed. ampliata, Olschki, Firenze 2014, p. 149.
4. Penso soltanto a Manganelli, rimandando a ciò che scriveva sulla “menzogna” della letteratura, la
letteratura come assenza di senso, inutilità, dissimulazione (G. Manganelli, La letteratura come
menzogna, Adelphi, Milano 1967. E vedi anche la Premessa di A. Longoni a Giorgio Manganelli
o l’inutile necessità della letteratura, Carocci, Roma 2016).
5. Cit. in C. Calcaterra, Il Parnaso in rivolta, Mondadori, Milano 1940, p. 234.
6. V. Nabokov, Lezioni di letteratura [1980], Adelphi, Milano 2018, p. 42.
7. Pamuk, La valigia di mio padre cit., p. 32.
8. Agenda 1994, inedita, cit. in L. Neri, I silenziosi circuiti del ricordo. Etica, estetica e ideologia
nella poesia di Giovanni Giudici, Carocci, Roma 2018, p. 188.
9. L’immagine era già stata usata da Giudici in Design in versi, in Per forza e per amore, Garzanti,
Milano 1996, p. 19; ma vedi Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 205.
10. Lettera a Guido Fink (1968), in Saggi 1945-1985, Mondadori, Milano 1995, II, p. 1788.
11. P. Levi, La chiave a stella, in Opere complete, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 2016, I, p.
1097.
12. Come scriveva Calvino di Levi, in «la Repubblica», 11 giugno 1981.
13. P. Levi, Acciughe, I, in La chiave a stella, in Opere complete cit., I, p. 1149.
14. Ma vedi R. Barthes, La grana della voce. Interviste 1962-1980, Einaudi, Torino 1986, p. 335.
15. Sulla fattività e il lavoro dell’uomo al centro della visione etica di Primo Levi, sul lavoro e il fare
come forma di libertà e integrità dell’individuo, vedi anche le pagine di S. Parussa, Scrittura come
libertà, scrittura come testimonianza. Quattro scrittori italiani e l’ebraismo, Giorgio Pozzi,
Ravenna 2011, pp. 169 sgg.
16. Levi, La chiave a stella, in Opere complete cit., I, p. 1074.
17. Ibid., p. 1075.
18. P. Levi, Ad ora incerta, in Opere complete cit., II, p. 729.
19. Id., A un giovane lettore, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 988.
20. Roth, Perché scrivere? cit., p. 155. Il suo «avanzare a tentoni» non dà comunque un risultato di
esitazione e fatica, sfocia in uno stile tutto sommato “semplice”, anche se potremmo pur dire che è
il rovescio dello stile di uno Stevenson dell’Isola del tesoro, autore di una prosa felice in cui ogni
periodo sembra prevedere e attendere «e quindi dare il benvenuto alle frasi successive» – cosí
scrive Stevenson in un saggio del 1884 –, dove non c’è mai sensazione di stallo o fatica, o
esitazione, ma in ogni frase «transito e slancio alla seguente» (queste osservazioni sono di E.
Testa, Stile, discorso, intreccio, in aa.vv., Il romanzo, a cura di F. Moretti, Einaudi, Torino 2002,
II, p. 283).
21. M. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere [1997], Einaudi, Torino 2008, p. 12.
22. Roth, Perché scrivere? cit., pp. 412-13.
23. Cfr. P. Levi, Argento, in Il sistema periodico, in Opere complete cit., I, p. 1010.
24. L’osservazione è di B. Quaranta, in «La Stampa», 10 dicembre 2017, p. 27.
25. M. Zanardo, La scrittura “modulare” di Elsa Morante, in «Autografo» (numero monografico dal
titolo Sistemi in movimento), XXV (2017), n. 57, p. 118.
26. Ibid., pp. 114-15.
27. P. Italia, Carte geo-grafiche. Prosatori al lavoro, in «Autografo», XXV (2017), n. 57, p. 32.
28. E. Hemingway, Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte dello scrivere e narrare, a cura di G.
Plimpton, il melangolo, Genova 1996, p. 28.
29. A. Manguel, Vivere con i libri. Un’elegia e dieci digressioni, Einaudi, Torino 2018, p. 30.
30. Ha sviluppato questo pensiero Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore, Einaudi, Torino
2017, pp. 66, 128.
31. Tra la estesissima letteratura critica in argomento, mi piace ricordare il recente saggio di A.
Cucchiarelli, Traduzioni di Virgilio traduttore, in «Autografo», XXVI (2018), n. 60, p. 107 (pp.
95-122). Sui luoghi omerici di Virgilio resta fondamentale ancora il lavoro di G. N. Knauer, Die
Aeneis und Homer. Studien zur poetischen Tecknik Vergils mit Listen der Homerizitate in der
Aeneis, Vandenhoeck-Ruprecht, Göttingen 1964.
32. G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario [1974], nuova ed., Sellerio, Palermo 2012, p.
183.
33. Cit. da M. A. Grignani, Una mappa cangiante. Studi su lingua e stile di autori italiani
contemporanei, Pacini, Pisa 2017, p. 37.
34. aa.vv., Il movimento milanese di «Corrente di Vita Giovanile», e l’ermetismo, in «L’approdo
letterario», 1968, n. 14, p. 87 (va notato che anche dal punto di vista terminologico «energia»,
«tensione», «esistenza» sono parole proprie della filosofia fenomenologica, ereditata dal giovane
Sereni dal suo maestro Antonio Banfi – rimando a D. Colussi, Lingua e stile del Sereni critico, in
Id., Stili della critica novecentesca. Spitzer, Migliorini, Praz, Debenedetti, Sereni, Carocci, Roma
2017, pp. 126-29).
35. Cit. da E. Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, p. 4.
36. Vedi l’Intervista (24 aprile 1971) a V. Sereni, Poesie, ed. critica a cura di D. Isella, Mondadori,
Milano 1995, p. 793.
37. V. Woolf, Come si legge un libro?, La Tartaruga, Milano 1966, p. 56.
38. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 4.
39. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi 1945-1985 cit., I, p. 678.
40. Mi si permetta di rimandare a un mio antico saggio La confidenziale aura sublime: Umberto
Saba [1984], in Le forme della lontananza, Garzanti, Milano 1989, pp. 35-67.
41. Rimando a Beccaria, L’italiano che resta cit., p. 37.
42. G. Pontiggia, Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, Belleville, Milano 2016, p. 85.
43. Vedi Sartre, Che cos’è la letteratura? cit., pp. 138, 187.
44. A. Tabucchi, Dietro l’arazzo. Conversazioni sulla scrittura, Giulio Perrone, Roma 2013, p. 16.
45. M. Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano 1993, p. 268.
46. Lettera a F. Fortini del 3 giugno 1977, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli,
Mondadori, Milano 2000, p. 1335.
47. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 18.
48. Vedi Garboli, Impegno e disimpegno, in La stanza separata cit., p. 206.
49. Sartre, Che cos’è la letteratura? cit., pp. 127, 150, 158.
50. Rimando a C. Magris, Danubio, nuova ed., Garzanti, Milano 2015, p. 291.
51. N. Ginzburg, È difficile parlare di sé. Conversazione a piú voci condotta da Marino Sinibaldi, a
cura di C. Garboli e L. Ginzburg, Einaudi, Torino 1999, pp. 191-92.
52. Rimando a F. Bàez, Storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla
storia in Iraq, Viella, Roma 2007, p. 119.
53. Rimando a G. Gianotti, Vita europea delle lingue morte. Per una storia della grammatica,
Prolusione a. a. 2018-2019 dell’Accademia delle Scienze di Torino (in stampa).
54. Lo leggo in C. Fuentes, Un temps nouveau pour le Mexique, Gallimard, Paris 1998, p. 105.
55. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 9.
56. Manguel, Vivere con i libri cit., p. 94.
57. E. Montale, Sulla strada di Damasco, In Id., Fuori di casa, Ricciardi, Milano-Napoli 1969, p. 82.
58. Magris, Danubio cit., p. 445.
59. Manguel, Vivere con i libri cit., p. 49.
60. Cfr. M. Motolese, Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco, Garzanti,
Milano 2017, pp. 26-27, 32.
61. Ibid., p. 54.
62. T. Campanella, Le poesie, a cura di F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998.
63. Vedi le pagine introduttive di F. Giancotti a T. Campanella, Le poesie cit.
64. Grignani, Una mappa cangiante cit., p. 197.
65. G. Bárberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, Milano 1967, 2ª ed., p.
208.
66. Ma rimando a Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 196.
67. In I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977: ponti che a Calvino parevano «fragili come
ragnatele» (vedi in Lettere 1940-1985 cit., p. 1345, la lettera del 27 settembre 1977 a F. Fortini)
68. Con il titolo Ritorno all’uomo, poi in Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, pp. 198-99.
69. G. Pampaloni, Il critico giornaliero. Scritti militanti di letteratura 1948-1993, Bollati
Boringhieri, Torino 2001, p. 255.
70. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in Una pietra sopra, in Saggi 1945-1985 cit., I,
p. 64.

Il lavorio sul testo

1. Celati, Studi d’affezione cit., p. 243.


2. Rimando all’opposizione fra transitivi e intransitivi di cui parla G. Mazzacurati, Pirandello nel
romanzo europeo, il Mulino, Bologna 1995.
3. C. E. Gadda, I viaggi, la morte, Garzanti, Milano 1958, pp. 95, 99.
4. Ibid., p. 18.
5. Rimando a G. L. Beccaria, I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, in aa.vv.,
Metamorfosi del tragico, in «Sigma», n. s., IX (1976), n. 1^^2, pp. 107^^51.
6. Di «essenzialità» e «precisione nelle parole e nel ritmo» parlava in una lettera del febbraio 1919 a
Papini (cit. da C. Ossola, Ungaretti, poeta, Marsilio, Venezia 2016, p. 27), «in questi tempi di oh!
E di ah!», «in questi tempi degli aggettivi».
7. Cosí scriverà nel 1983 (cito da A. Dei, Giorgio Caproni, Mursia, Milano 1992, pp. 118-19).
8. Studiate a fondo da D. Colussi, Complessità sintattica del medio Caproni, in aa.vv., a cura di D.
Colussi e P. Zublena, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 99-122.
9. Levi, A un giovane lettore, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 987.
10. Scrive Levi nel Sistema periodico, in Opere complete cit., I, p. 973.
11. Pontiggia, Dentro la sera cit., p. 267.
12. Murakami, Il mestiere di scrittore cit., pp. 28 sgg.
13. Rimando al mio La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Serra e
Riva, Milano 1984 (rist. Aragno, 2013).
14. E. Morante, Sul romanzo, in Id., Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano
1987, p. 55.
15. In una lettera a Elsa Morante del 2 marzo 1950, in Lettere 1940-1985 cit., p. 272.
16. E. Morante, Nove domande sul romanzo, in «Nuovi argomenti», 1959, n. 38-39, p. 26.
17. V. Coletti, Linguistica e critica letteraria, in «La Rassegna della letteratura italiana», CXX
(2016), serie IX, n. 1-2, p. 73.
18. Cit. da F. Brevini, La letteratura degli italiani, Feltrinelli, Milano 2010, p. 86.
19. A. Manzoni, Appendice alla Relazione intorno all’unità della lingua italiana e ai mezzi di
diffonderla, in Tutte le opere, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, vol. V, t. II, Mondadori, Milano
1990, pp. 759-60.
20. Rimando ad A. Manzoni, Postille al Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di
D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli 1964.
21. Manzoni, Appendice alla Relazione cit., p. 760.
22. Vedi la lettera a Claude Fauriel del 9 febbraio 1806, in A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C.
Arieti, Adelphi, Milano 1986, I, p. 19: «lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e
l’ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa
può dirsi quasi lingua morta».
23. F. Forti, L’«eterno lavoro» e la conversione linguistica di A. Manzoni, in «Giornale storico della
letteratura italiana», CXXI (1954), pp. 352-85.
24. M. Corti, Uno scrittore in cerca della lingua, in Metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano 1969, p.
157.
25. Lettera ad Alfonso Della Valle di Casanova, Milano, 30 marzo 1871, in Manzoni, Tutte le lettere
cit., III, pp. 190-91.
26. Cfr. Corti, Uno scrittore in cerca della lingua cit., p. 157. Questa ricerca di concordanze tra
dialettale e toscano è una costante di molti scrittori del secondo Ottocento e del Novecento ancora
(vedi il caso di Cesare Pavese). Il De Marchi, in una lettera del 14 settembre 1895 (cit. in G.
Mariani, Ottocento romantico e verista, Giannini, Napoli 1972, p. 647): «nelle mie novelle non
c’è parola che non sia registrata nei vocabolari della lingua dell’uso. Certo tra due parole
preferisco sempre quella che sia comune alle due provincie [lombarda e toscana] ed evito sempre
quella che risenta un po’ troppo del vezzo toscano: ma da buon professore di lettere procuro di
evitare l’idiotismo fin dove una necessità d’arte non mi trascina per i capelli. E anche in questo
caso mi attengo spesso al dialetto e alla parola corsiva».
27. A. Stella, In margine al secondo tomo degli «scritti linguistici», in aa.vv., Manzoni. «L’eterno
lavoro», Atti del Congresso Internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e
negli studi del Manzoni [1985], Centro nazionale studi manzoniani, Milano 1987, pp. 61-62.
28. Lettera da Firenze a Tommaso Grossi del 17 ottobre 1827 (T. Grossi, Carteggio 1816-1853, a
cura di A. Sargenti, Centro nazionale studi manzoniani, Milano 2005, I, p. 368; e vedi la lettera a
Tommaso Grossi da Firenze, 17 settembre 1827 su me ne impipo, uno dei tanti «modi lombardo-
toscani, che vo raccogliendo, e di cui v’ho a empiere o a romper gli orecchi»).
29. R. Bonghi, G. Borri e N. Tommaseo, Colloqui col Manzoni, a cura di A. Briganti, Editori Riuniti,
Roma 1985 (cit. in S. S. Nigro, La funesta docilità, Sellerio, Palermo 2018, p. 14).
30. Motolese, Scritti a mano cit., p. 129.
31. Manzoni, Appendice alla Relazione cit., p. 760.
32. Tra la gran messe di riferimenti bibliografici al riguardo, vedi almeno G. Nencioni, Conversioni
dei «Promessi Sposi», in «La Rassegna della letteratura italiana», LX (1956), p. 57; e anche Id.,
La lingua di Manzoni, in Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 1993.
33. Vedi G. Contini, I «Promessi sposi» nelle loro correzioni, in Postremi esercizî ed elzeviri,
Einaudi, Torino 1998, p. 121 (pp. 113-39).
34. Vedi P. V. Mengaldo, Com’è la poesia, Carocci, Roma 2018, p. 42.
35. Questa e seguenti varianti sono scelte tra quante segnala Contini, Postremi esercizî cit., pp. 122-
23.
36. Ibid., p. 123.
37. Per derivazione da laudabam, nel fiorentino antico e nei nostri autori del Trecento, in Dante,
Petrarca, Boccaccio, era d’uso “io lodava”. Poi nel ‘400, forse per influenza del toscano lucchese e
senese entra negli scritti piú popolari, Pulci, Berni, Cellini, la desinenza in -o, analogica a quella
del presente. Alla desinenza in -a restano fedeli i non toscani che seguivano i trecentisti e non
sentivano, come i fiorentini del ‘500, l’influenza del parlato della loro città. Sino a D’Annunzio è
conservata la -a.
38. Cfr. F. Sabatini, Questioni di lingua e non di stile. Considerazioni a distanza sulla morfosintassi
nei «Promessi Sposi», in aa.vv., Manzoni. «L’eterno lavoro» cit., pp. 157-76; L. Serianni, Le
varianti fonomorfologiche dei Promessi Sposi 1840 nel quadro dell’italiano ottocentesco [1986],
in Saggi di storia linguistica italiana, Morano, Napoli 1989, pp. 141-214.
39. Un utile spoglio al riguardo in O. Alvaro Mencacci, Le correzioni alle «Osservazioni sulla
morale cattolica», Università Italiana per Stranieri, Perugia 1989.
40. G. Nencioni, Parlato-parlato, in Id., Di scritto e di parlato, Zanichelli, Bologna 1983, p. 177.
41. Rimando a N. De Blasi, Eduardo, Salerno, Roma 2016, pp. 75, 79.
42. N. De Blasi, Teatro e realtà linguistica: italiano e dialetto nei testi degli autori napoletani, in S.
Stefanelli (a cura di), La lingua italiana e il teatro delle diversità, Atti del convegno di Firenze,
Accademia della Crusca, 15-16 marzo 2011, Accademia della Crusca, Firenze 2012, p. 25 (pp. 17-
41).
43. Vedi L. A. Santoro, Amleto e Don Chisciotte. Il teatro o il testo instabile, La Casa Usher, Firenze
1992.
44. Ma vedi S. Unseld, L’autore e il suo editore. Le vicende editoriali di Hesse, Brecht, Rilke e
Walser [1978], Adelphi, Milano 1988, pp. 81, 102-5.

Autonomie del signficante

1. Rimando a Mengaldo, Com’è la poesia cit., pp. 13, 128. Mengaldo opportunamente cita, in
conclusione di Com’è la poesia, quella fulminea sentenza di Kant: «la poesia è l’arte di dare ad un
libero gioco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto».
2. Rimando a N. Lorenzini, Il presente della poesia, il Mulino, Bologna 1991, p. 114.
3. W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi, Torino 1975, pp. 65-68.
4. Rimando a G. Lonardi, L’Achille dei «Canti». Leopardi, «L’infinito», il poema del ritorno a casa,
Le Lettere, Firenze 2018, p. 153.
5. Vedi M. Santagata, Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, il Mulino,
Bologna 1994, p. 148.
6. G. Contini, Memoria di Angelo Monteverdi, in Altri esercizî, Einaudi, Torino 1972, p. 385.
7. G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, in aa.vv., Feconde venner le carte. Studi in onore
di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1997, II, p. 481.
8. Ibid., p. 485.
9. Santagata, Quella celeste naturalezza cit., p. 148.
10. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi cit., p. 483.
11. P. V. Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, in aa.vv., Forme e vicende. Per Giovanni
Pozzi, Antenore, Padova 1988, pp. 580-81 sgg.
12. P. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura, Carocci, Roma
2017, p. 35.
13. La citazione di Algarotti viene dal Saggio sopra la rima, in Opere scelte, Società Tipografica de’
Classici Italiani, Milano 1823, I, p. 385. Ma qui Algarotti non intendeva certo scriverne l’elogio,
ma evidenziarne la tirannia. Siamo in un’età in cui la rima, induttrice di vocaboli vuoti, aveva piú
d’un nemico. Ancora Algarotti parlava nello stesso Saggio (ibid., p. 382) della rima come «la piú
dura catena con cui legare si potessero i poeti»; occorre bandirla, poiché «colpa la rima uno dice
non quello che vuole, ma quello che può».
14. Mi rifaccio a quanto acutamente ha scritto V. Coletti, Per uno studio della rima nella poesia
italiana del Novecento, in «Metrica», IV (1986), p. 215.
15. Continuo la citazione dalla lettera; ma identiche cose scriveva già in una lettera a Giuseppe De
Robertis del 1959: Giorgio Caproni Giuseppe De Robertis. Lettere 1952-1963, Bulzoni, Roma
2012, p. 79.
16. L’osservazione è di Giorgio Caproni stesso, riferita ad Alfonso Gatto (vedi Osteria flegrea, in G.
Caproni, Prose critiche, a cura di R. Scarpa, Aragno, Torino 2012, p. 1621).
17. Coletti, Per uno studio della rima cit., p. 217.
18. Rimando a G. L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante,
Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1975 [rist. Torino, 1989], pp. 33 sgg.
19. Già le rime del primo sonetto del Canzoniere appartengono tutte a un lessico «nobilmente
generico» (ma vedi E. Bigi, La rima del Petrarca, in «Studi petrarcheschi», VII, 1961, p. 136).
20. Mi riferisco ai tipi «che quanto piace al mOndO è breve sOgnO» (si noti anche il perfetto ritmo
trocaico), «piAgA per allentAr d’Arco non sAnA», «sappia ‘l mOndo che dOlcE è la mia mOrtE»
ecc.
21. Rimando a Bigi, La rima del Petrarca cit., p. 138.
22. M. Vitale, Studi di storia della lingua italiana, LED, Milano 1992, p. 42.
23. Come nel celebre sonetto Solo e pensoso…, XXXV, dove occorrerà notare per campi:stampi,
lenti:intenti, scampi:avampi, genti:spenti «l’omofonia delle parole in rima delle quartine, tutte
contenenti nasale + occlusiva (con proiezione nelle terzine, tempre:sempre)» (P. V. Mengaldo,
Prima lezione di stilistica, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 11). Ci sono casi in cui le rime ribattono le
consonanti nelle due quartine: vedi per esempio in XLVI bianCHI seCCHI steCCHI fianCHI ||
manCHI ‘nveCCHI speCCHI stanCHI.
24. E. Montale, Nel nostro tempo, Rizzoli, Milano 1972, p. 8.
25. J. Cocteau, La difficoltà di essere [1983], Feltrinelli, Milano 2005, p. 19.
26. Cit. da Ossola, Ungaretti, poeta cit., p. 25.
27. D. Barenboim e E. W. Said, Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la società,
il Saggiatore, Milano 2014, p. 110.
28. O. M. Brik, cit. da Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 15.
29. Frye, Anatomia della critica, cit. ibid., p. 41.
30. Per usare l’espressione di F. Bandini, in aa.vv., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea,
Liviana, Padova 1966, p. 7, quando valuta la soppressione del come per aumentare la tensione
linguistica nell’espressionismo vociano, in particolare in Rebora.
31. Il che, in termini ben piú contenuti, farà scuola: il “come” nel dopo-D’Annunzio si comincerà ad
amare sospeso in punta di verso, una sorta di sospensione ritmica della comparazione (Gozzano,
Invernale, 34-35 «e bella ardita palpitante come | la procellaria che raccoglie il volo»; e Corazzini,
L’ultimo sogno, 27-29 «e l’anima è triste come | li occhi | di un agnello…» ecc.), un modo per
preparare l’attesa del nuovo, la possibilità dell’accostamento che verrà.
32. G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Sansoni, Firenze 1968, p. 713.
33. Coletti, Per uno studio della rima cit., p. 216.
34. In aa.vv., L’oro e l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, Atti del
convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 10-12 maggio 2001, a cura di G. Ioli,
interlinea, Novara 2003, p. 105.
35. G. Giudici, La gestione ironica [1964], poi in La letteratura verso Hiroscima, Editori Riuniti,
Roma 1976, pp. 213-14.
36. Vedi P. Giovannetti, «… con dispersione minima»: perché Giudici non è un poeta “neometrico”,
in aa.vv., Metti in versi la vita. La figura e l’opera di Giovani Giudici, a cura di A. Cadioli,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014, p. 24.
37. Ibid., p. 28; isostrofismo che però Giudici giustificava diversamente, non come falso ossequio
(vedi l’intervista di Alberto Bertoni, in A. Bertoni, Una distratta venerazione. La poesia metrica
di Giudici, Book, Bologna 2001, p. 155: «Quanto all’ordinamento isostrofico penso che spesso
nasca al mio sentire tante mie poesie alla stregua di oggetti materiali: palpabili, visualizzabili,
misurabili»).
38. G. Giudici, Bricoler, Bricolage, in Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Ledizioni,
Milano 2017, p. 28.
39. Caproni, Lettera a Giudici (7 aprile 1977), cit. in Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 100.
40. L’espressione è di Raboni, in un intervento in «Paragone» dell’agosto 1972.
41. Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 60.
42. R. Scarpa, Intorno al silenzio. Note sulla pausa metrica, in aa.vv., Per Giorgio Caproni, a cura di
G. Devoto e S. Verdino, San Marco dei Giustiniani, Genova 1997, p. 156.
43. P. V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in L’opera in versi, Mondadori, Milano 1998,
p. XXI .
44. Id., «L’uscita mattutina» di Caproni, in La tradizione del Novecento, Quarta serie, Bollati
Boringhieri, Torino 2000, p. 203.
45. M. Scaffai, Una costante di Caproni: l’«uso (in un certo modo) della parentesi», in D. Colussi e
P. Zublena (a cura di), Giorgio Caproni, Lingua, stile, figure, Quodlibet, Macerata 2014, p. 120.
46. Ibid., p. 122.
47. Mengaldo, «L’uscita mattutina» di Caproni cit., p. 203.
48. Cosí annotava E. Tonani, Grafemi, in aa.vv., Giorgio Caproni. Parole chiave per un poeta, in
«Nuova Corrente», LVIII (2012), n. 147, p. 64.
49. Rimando anche a G. L. Beccaria, Giorgio Caproni, «incisore sonoro», in aa.vv., La scatola a
sorpresa. Studi e poesie per Maria Antonietta Grignani, Cesati, Firenze 2016, pp. 357-64.
50. Ne ho già parlato altrove, nella Prefazione a C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2000, pp.
V-XXXIII .

51. Questo tipo ritmico definii «progressivo» nel mio antico Ritmo e melodia nella prosa italiana.
Studi sulla prosa d’arte, Olschki, Firenze 1964. Il passo di S. D’Arzo è tratto da Casa d’altri, a
cura di P. Briganti e A. Briganti, Diabasis, Reggio Emilia 2002, p. 60.
52. Ibid., p. 51.
53. Cfr. ibid., pp. 174-76.
54. Vedi Calvino, Lettere 1940-1985 cit., pp. 420, 565 nota.
55. Velocità ed esattezza sono i due aspetti fondamentali del periodare di Meneghello, come ha
indicato G. Lepschy in aa.vv., Su/Per Meneghello, a cura di G. Lepschy, edizioni di Comunità,
Milano 1983.
56. Mari, I demoni e la pasta sfoglia cit., p. 696.
57. Da una lettera del luglio 1852, cit. da Nabokov, Lezioni di letteratura cit., pp. 215-16.
58. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., pp. 34-35.
59. Vedi gli «Appunti» di Nabokov, Lezioni di letteratura cit., pp. 253-54.

Si sa sempre ciò che la mano scrive?

1. Vedi Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 36.


2. Cito da M. Doran, Cézanne. Documenti e interpretazioni [1978], Donzelli, Roma 1995, p. 119.
3. Rimando a Celati, Studi d’affezione cit., p. 164.
4. Rimando a C. Segre, La pelle di san Bartolomeo. Discorso e tempo dell’arte, Einaudi, Torino
2003, p. 13.
5. Cit. in E. Restagno, Schönberg e Stravinsky, il Saggiatore, Milano 2014, p. 269.
6. Barenboim e Said, Paralleli e paradossi cit., p. 35.
7. Le finissime osservazioni sono di Barenboim e Said, ibid., pp. 55-56.
8. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 1985, II, pp. 74-75.
9. Vedi Segre, La pelle di san Bartolomeo cit., p. 81, e il rimando (ibid., p. 82) a Lessing e alle sue
osservazioni sulla pittura che si esplica nella spazialità, la letteratura invece nel tempo. Segre
(ibid., p. 86) fa però notare che in cicli di affreschi che affiancano momenti diversi e successivi di
un’azione, c’è anche la temporalità. Una temporalità spesso «a corto raggio» in una tela singola.
10. Rimando a Sartre, Che cos’è la letteratura? cit., p. 119.
11. Cit. da V. Sereni, in aa.vv., Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole, Pratiche, Parma 1981, p. 36.
12. In «Tuttolibri», X (16 giugno 1984), n. 411, p. 29.
13. R. Zucco, Composizione, in Giorgio Caproni. Parole chiave per un poeta, a cura di L. Surdich e
S. Verdino, in «Nuova corrente», LIX (2012), n. 149, p. 10.
14. M. De Angelis, Tutte le poesie (1969-2015), Mondadori, Milano 2017.
15. Le citazioni da Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., pp. 116-17; vedi anche p. 121 («un ritmo
che nasce ancor prima delle immagini, prima dei versi, che è quindi la genesi di un’occasione»).
16. V. Magrelli, Ora serrata retinae [1980], in Le cavie. Poesie 1980-2018, Einaudi, Torino 2018, p.
43.
17. Neri, I silenziosi circuiti del ricordo cit., p. 199.
18. Celati, Studi d’affezione cit., p. 204.
19. Roth, Perché scrivere? cit., p. 70.
20. Tabucchi, Dietro l’arazzo cit., p. 29.
21. Hemingway, Il principio dell’iceberg cit., pp. 54-55.
22. Rimando a Pontiggia, Dentro la sera cit., pp. 25-26, 28.
23. Cfr. G. Genette, Figure II. La parola letteraria [1969], Einaudi, Torino 1972, là dove parla
dell’«arbitrarietà del racconto», pp. 63 sgg.
24. M. Corti, Lieaux mentaux et parcours de l’invention, in aa.vv., I sentieri della creazione. Tracce
traiettorie modelli, a cura di M. T. Giaveri e A. Grésillon, Diabasis, Reggio Emilia 1994, p. 32.
25. Vedi anche Th. Mann, Nobiltà dello spirito [1965], Mondadori, Milano 1966, p. 517; M. Corti,
Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 1976, p. 122. Edgar A. Poe ha chiarito
il previsto e l’imprevisto nell’invenzione artistica nel celebre saggio The Philosophy of
Composition («Graham’s Magazine», XXVIII, aprile 1846: vedi Opere scelte, Mondadori, Milano
1971, pp. 1309-22).
26. Pontiggia, Dentro la sera cit., pp. 32, 35.
27. Rimando al cap. IV , Memoria e invenzione di G. Lolli, Ambiguità. Un viaggio fra letteratura e
matematica, il Mulino, Bologna 2017, pp. 41 sgg.
28. Ricordato opportunamente da G. Lonardi, Il poeta e l’agone. Un esempio di partita doppia
montaliana, Essedue, Verona 1989, p. 14.
29. Rimando a Roth, Perché scrivere? cit., p. 221.
30. Ibid., p. 419.
31. Ibid., p. 146.
32. Pontiggia, Dentro la sera cit., p. 32.
33. Kundera, L’arte del romanzo cit., p. 61.
34. Ibid., p. 59.
35. Vedi ancora Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 7.
36. Levi, Perché si scrive?, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 827.
37. Roth, Perché scrivere? cit., p. 136.
38. Cito le osservazioni di Luca Cherici in Tabucchi, Dietro l’arazzo cit., p. 8.
39. I. Calvino, Lettera ad A. Santacroce (22 aprile 1964), in Lettere 1940-1985 cit., p. 805.
40. Lettera a E. Fea (8 febbraio 1965), ibid., p. 851.
41. Lettera a R. Barbieri (19 ottobre 1954), ibid., p. 419.
42. Lettera a G. Arpino, ibid., p. 703.
43. Rimando al cap. VI del libro di M. Mengoni, Primo Levi e i tedeschi, Einaudi, Torino 2017.
44. Lo faceva notava in un’intervista dell’82 (Conversazioni e interviste, in Opere complete cit., III,
p. 251). Sui personaggi creati dal narratore, e sulla libertà apparente che ha l’autore, vedi P. Levi,
Scrivere un romanzo, in L’altrui mestiere (Opere complete cit., II, p. 926: «Veramente i personaggi
di un libro sono creature strane. Non hanno pelle né sangue né carne, hanno meno realtà di un
dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di parole, ghirigori neri sul foglio di carta
bianca, eppure puoi intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, odiarli, amarli,
innamorartene. Ognuno di loro è depositario di certi elementari diritti, e sa farli valere. La tua
libertà di autore è solo apparente»; e vedi anche, in G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce
perduta. Incontri, interviste e conversazioni con primo Levi, La Stampa, Torino 2013, p. 270,
quanto Levi dichiara a G. Nascimbeni dopo la vittoria al Campiello con Se non ora quando?,
romanzo nel quale i personaggi gli avrebbero «preso la mano», si sarebbero rivoltati contro,
rivendicando il diritto di scegliere).
45. Cfr. Levi, Scrivere un romanzo, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, pp. 926-27.
46. Rimando a M. Barenghi, Perché crediamo a Primo Levi?, Einaudi, Torino 2013.
47. P. Levi, Prefazione a Moments of Reprieve, in Opere complete cit., II, p. 1655.
48. Tabucchi, Dietro l’arazzo cit. p. 11.
Sulle spalle degli antecessori

1. Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 11.


2. Esempi ibid., pp. 88-89.
3. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 52.
4. Vedi G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005, pp. 9-11.
5. Cit. da Lonardi, Il poeta e l’agone cit., pp. 11-12, 14.
6. Ho usato le parole di Testa in «Autografo 59», XXVI (2018), p. 196.
7. Pontiggia, Dentro la sera cit., p. 72.
8. R. Zucco, Un libro e uno stile, Postfazione a G. Luzzi, Da che mondo, sedizioni, Mergozzo 2017,
p. 189.
9. Difesa «da parte di un soggetto che ha perduto il senso della realtà e dunque aspira a un sistema
piú confortante» precisava S. Dal Bianco, Introduzione ad A. Zanzotto, Tutte le poesie,
Mondadori, Milano 2011, p. XVIII , quando fa il caso di Elegia e altri versi, 1954.
10. Riprendo un tema già anticipato nel mio L’italiano che resta cit., pp. 8-14.
11. Cfr. P. V. Mengaldo, Gli incanti della vita. Studi su poeti italiani del Settecento, Esedra, Padova
2003, p. 10.
12. Felice riscontro di Lonardi, Il poeta e l’agone cit., p. 36.
13. Sul nostro paese che ha per ogni contrada stuoli di «sonettanti», Pietro Giordani scrive una
bellissima pagina a condanna di quella letteratura oziosa (e vedi il commento di S. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano. Testo critico con aggiunta di saggi e
annotazioni autografe, Le Lettere, Firenze 2011, pp. 41 e 42).
14. A. Zanzotto, Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Mondadori, Milano 1991, p. 262.
15. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 117.
16. H. Lausberg, Rhetorik und Dichtung [1967], cit. da Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario
cit., p. 40.
17. F. Bruni, L’italiano letterario nella storia, il Mulino, Bologna 2007, p. 107.
18. G. Contini, Letteratura italiana del Risorgimento, Sansoni, Firenze 1995, I, p. 320; ma vedi le
finissime osservazioni di L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi
leopardiani, Marsilio, Venezia 2003, p. 146, sulla correzione di pudica in pensosa.
19. Cfr. L. Blasucci, Petrarchismo e platonismo nella canzone «Alla sua donna», in I tempi dei
«Canti». Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino 1996, pp. 74-75.
20. Rimando a Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante cit., p. 162.
21. Ce lo ricorda Ossola, Ungaretti, poeta cit., p. 102; l’osservazione di Ungaretti si legge ora in
Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Mondadori, Milano 2000, p. 754.
22. Mi riferisco a L. Blasucci, Ancora su Leopardi e Petrarca [2006], ora in La svolta dell’idillio. E
altre pagine leopardiane, il Mulino, Bologna 2017, pp. 55-81; e a S. Carrai, Leopardi e il modello
petrarchesco nei «Canti» dell’ultimo periodo recanatese, in aa.vv., Dall’Ateneo alla città. Lezioni
su Giacomo Leopardi, a cura di M. Dondero, Farenheit 451, Roma 2000.
23. Vedi L. Bellomo, Procedimenti inarcanti nei «Canti» di Leopardi, in «Studi di filologia italiana»,
LXXIV (2016), pp. 143-211, in particolare pp. 174 sgg.
24. Cfr. ibid., pp. 203, 206-7.
25. Per usare le parole che G. Leopardi, Zibaldone, 19 marzo 1822 applica a Carlo Botta.
26. Vedi la traduzione di M. Cornelii Frontonis opera tradita ecc., Regiis Typis, Milano 1815, cit. in
V. Camarotto, Leopardi traduttore. La prosa (1816-1817), Quodlibet, Macerata 2016, p. 53.
27. P. V. Mengaldo, Leopardi, il classico, in Dalle origini all’Ottocento. Filologia, storia della
lingua, stilistica, «Quaderni di stilistica e metrica italiana», 6, Edizioni del Galluzzo, Firenze
2016, p. 211.
28. Basti il ben noto rimando agli appunti memorialistici Vita abbozzata di Silvio Sarno, in G.
Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Salerno, Roma 1995, p. 74.
29. Rimando a G. Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Olschki, Firenze 1969, p.
25.
30. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi cit., p. 476.
31. Rimando a Mengaldo, Dalle origini all’Ottocento cit., pp. 64, 66, 117.
32. Larga esemplificazione e minutissimo commento in C. Ossola, Dantismi metrici del «Furioso»,
in aa.vv., Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, Feltrinelli, Milano 1976. Delle intere serie
rimiche di Ariosto attinte dalla Commedia parlava già C. Segre, Un repertorio linguistico e
stilistico dell’Ariosto: la «Commedia», in Esperienze ariostesche, Nistri-Lischi, Pisa 1966, pp. 51-
83.
33. Sintetici richiami in G. Patota, La grande bellezza dell’italiano. Il Rinascimento, Laterza, Roma-
Bari 2019, pp. 129-30, con opportuno rimando a Blasucci, La «Commedia» come fonte linguistica
e stilistica del «Furioso» [1968], ora in L. Blasucci, Studi su Dante e Ariosto, Ricciardi, Milano-
Napoli 1969, pp. 121-62 e P. V. Mengaldo, Canto I, in G. Bucchi e F. Tomasi (a cura di), Lettura
dell’«Orlando furioso», I, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2015, pp. 125-43.
34. Rimando a A. Afribo e A. Soldani, La poesia moderna. Dal secondo Ottocento a oggi, il Mulino,
Bologna 2012, p. 77.
35. L. Blasucci, Gli oggetti di Montale, il Mulino, Bologna 2002, pp. 73-74.
36. Su Dante e Montale rimando anche a G. Ioli, «Un suono d’agri lazzi»: ambiguità in un
frammento di «Mediterraneo», in «Sigma», n. s., XIII (1980), n. 1, pp. 51-60; Id., Montale e
Dante, in Eugenio Montale. Le laurier e il girasole, Champion-Slatkine, Paris-Genève 1987, pp.
79-80; Dante e Montale, in Letture classensi, vol. XIV, Longo, Ravenna 1985, pp. 99-120.
37. Per altri luoghi danteschi, vedi A. Dei, Caproni e Dante, in «Paragone Letteratura», LXIII
(2012), n. 99-101, pp. 162-72.
38. Rimando a C. Di Alesio, Sul Dante di Giudici, in aa.vv., Metti in versi la vita cit., pp. 33-52.
39. Cfr. P. Italia, Glossario di Carlo Emilio Gadda “milanese”, Edizioni dell’Orso, Alessandria
1998, p. 78.
40. Rimando a Grignani, Una mappa cangiante cit., pp. 102-3, 113-17, 125.
41. A. Cavaglion e P. Valabrega, «Fioca e un po’ profana». La voce del sacro in Primo Levi, Einaudi,
Torino 2018, pp. 85-87.
42. Come nella musica polifonica bachiana, la capacità dello scrittore di mostrare il proprio talento
quando riesce a cavare da un richiamo verbale, da un tema «tutte le possibili permutazioni e
combinazioni implicite» (E. W. Said, Sullo stile tardo [2006], il Saggiatore, Milano 2009, p. 124).
43. Principio strutturale della musica dodecafonica, in My Evolution, 1949 (cit. in Restagno,
Schönberg e Stravinsky cit., p. 169).
44. Rimando a G. L. Beccaria, Canto e controcanto: Guido Gozzano, in Le forme della lontananza,
Garzanti, Milano 1989, pp. 227-32.
45. Tra i contributi recenti sull’argomento delle citazioni gozzaniane, vedi ora V. Boggione, Gozzano
e la citazione: il caso Leopardi, in aa.vv., «L’immagine di me voglio che sia». Guido Gozzano
cento anni dopo, a cura di M. Masoero, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2018, pp. 77-111.
46. Come la chiama E. Testa, Varietà dell’italiano nella poesia novecentesca, in aa.vv., «Lingua della
lingua». La lingua variabile nei testi letterari, artistici e funzionali contemporanei. Analisi,
interpretazione, traduzione, a cura di G. Ruffino e M. Castiglione, Atti del XIII Congresso SILFI -
Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Palermo, 22-24 settembre 2014), Cesati,
Firenze 2016, p. 49.
47. Cito da G. Lavezzi, Giochi di sillaba e di rima, in aa.vv., «L’immagine di me voglio che sia» cit.,
p. 119.
48. Rimando alla «Tavola rotonda» del convegno torinese dedicato a Gozzano, novembre 2016,
aa.vv., «L’immagine di me voglio che sia» cit., p. 283.
49. Sulla sintassi dell’oralità nei versi di Gozzano, vedi ora M. Manfredini, ibid., pp. 144 sgg.
50. Vedi Lonardi, ibid., p. XIII .
51. P. Levi, Le farfalle, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 905.
52. Vedi Boggione, Gozzano e la citazione cit., p. 109.
53. Vedi V. Spinazzola, «Bisbidis», il mormorio dell’esistenza, in «Autografo», VI (1989), n. 17, p.
14.
54. Ne parla S. Bozzola, L’autunno della tradizione. La forma poetica dell’Ottocento, Cesati, Firenze
2016, pp. 48 sgg.
55. Rimando a Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila cit., pp. 43-44, 57.
56. Devo alcuni di questi suggerimenti a Elisabetta Fava (vedi anche G. Vinay, Stravinsky
neoclassico, il Mulino, Bologna 1987) che in un suo ricco lavoro (Parodia-riuso e parodia-riso:
tre casi esemplari di contraffazione nel teatro musicale, in «Between», VI (2016), n. 12, pp. 1-23)
cita anche l’altro caso interessante di Stravinskij di The Rake’s Progress (1951) dove il grottesco
personaggio di Baba la Turca, una «primadonna in negativo», si produce in una sorta di parodia
del belcanto.
57. Vedi l’importante articolo pubblicato sulla rivista «Comoedia» alla vigilia della rappresentazione
di Pulcinella (cit. in Restagno, Schönberg e Stravinsky cit., p. 143 e il commento di Restagno a p.
144).
58. V. Magrelli, Ora serrata retinae [1980], in Le cavie cit., p. 68.

La continuità e la durata

1. E. Montale, Nel nostro tempo, Rizzoli, Milano 1972, p. 39.


2. Rimando a Segre, Esperienze ariostesche cit., pp. 57, 65-66.
3. Vedi L. Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Mondadori, Milano
2018, p. 107.
4. Ibid., p. 79.
5. G. Pascoli, La mia scuola di grammatica, in Prose, 4ª ed., Mondadori, Milano 1971, p. 253.
6. Ma sull’omericità virgiliana vedi i puntualissimi riscontri che si leggono nell’Introduzione di G. B.
Conte a Virgilio, Eneide, Marsilio, Venezia 1998 (oltre a Memoria di poeti cit.).
7. Rimando a Mengaldo, Com’è la poesia cit., pp. 100-1.
8. Rimando a Lonardi, L’Achille dei «Canti» cit., p. 49.
9. G. Lonardi, L’oro di Omero. L’«Iliade», Saffo: antichissimi di Leopardi, Marsilio, Venezia 2005,
p. 134.
10. Vedi in Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana cit., il capitolo Per un restauro
“classico” della «Quiete dopo la tempesta».
11. Lonardi, L’oro di Omero cit., p. 25.
12. Vedi ibid., p. 116 per gli esempi che Lonardi offre di variazione leopardiana su quei materiali
antichissimi, quando il poeta varia microsegmenti dell’Iiade ricorrendo spesso alla versione
Monti.
13. Come annota V. Camarotto per L’Inno a Nettuno, che, a dire di Leopardi stesso, punta all’effetto
di una «maestosa semplicità» di stampo omerico; anche nel Discorso sopra Mosco per la prima
volta è formulata l’esigenza di una piena aderenza alla «grazia» e alla «semplicità»; la versione di
Omero e di Mosco gli sarebbe servita, dice, a fornirgli un esempio della «celeste naturalezza»
degli antichi (rimando a Camarotto, Leopardi traduttore cit., pp. 28, 33).
14. G. Leopardi, Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca italiana, 18 luglio 1816, in Tutte le
poesie e tutte le prose, a cura di L. Felici e E. Trevi, Newton & Compton, Roma 2007, pp. 944 e
943.
15. L. Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Salerno, Roma 2016.
16. Ossola, Dantismi metrici del «Furioso» cit., p. 65.
17. Cosí sottilmente postillava G. B. Conte a proposito di Catullo quando riprende Omero non già per
emularlo e instaurare un confronto competitivo come accadrà in Virgilio, ma «quel che vuole è
che affiori nel proprio verso, in trasparenza, la mitica memoria del viaggio di Ulisse» (Conte,
Memoria dei poeti e sistema letterario cit., pp. 30 sgg.). E rimando ancora alle osservazioni di
Conte (ibid., pp. 80 sgg.) sulla posizione di preminenza nella composizione occupata sempre
dall’incipit, in quanto dotato non solo di un alto grado di memorabilità che «lo rende
particolarmente citabile», ma la «memoria incipitaria» (il riferimento di Conte va in particolare a
Virgilio che nel primo verso del suo poema rimanda all’incipit dell’Odissea, il lat. virum si salda
al precedente gr. andra, e l’arma virumque salda due componenti tematiche, rinvia
«rispettivamente alle due dimensioni, l’iliadica e l’odissiaca, unificate nel poema di Enea»,
unendovi anche un incipit di Ennio, XVI libro degli Annales) lega immediatamente la
composizione a un preciso «genere», ne determina il registro, diventa un segnale distintivo della
codificazione retorica dell’opera intera.
18. Rimando al commento di G. Bárberi Squarotti, Alcune premesse per una descrizione del
linguaggio di Ungaretti, in «Letteratura», 1958, n. 35-36, poi in Astrazione e realtà, Rusconi e
Paolazzi, Milano 1960.
19. Ossola, Ungaretti, poeta cit., p. 59.
20. Ossola (ibid., p. 60) applica qui a Ungaretti parole di Valéry.
21. Testa, Varietà dell’italiano nella poesia novecentesca cit., p. 60.
22. A. Afribo, in A. Afribo e E. Zinato (a cura di), Modernità italiana. Cultura, lingua e letteratura
dagli anni settanta a oggi, Carocci, Roma 2011, pp. 183-84.
23. G. Giudici, Guardando fotografie di Paul C., in I versi della vita, a cura di R. Zucco, Mondadori,
Milano 2000, p. 1159.
24. Cfr. F. Bandini, Introduzione a G. Giudici, Poesie scelte (1957-1974), Mondadori, Milano 1975,
p. 14.
25. Ibid., p. 187.
26. Ho usato le parole di Fortini, scritte a proposito di La vita in versi (1965) di Giudici in Una nota
su Giudici, in «Il Contemporaneo», luglio 1965, poi in Giudici, Poesie 1953-1990, Garzanti,
Milano 1991, I, p. 459.
27. Testa, Varietà dell’italiano cit., p. 50.
28. Come scrive P. Zublena, cit. in Afribo e Soldani, La poesia moderna cit., p. 164.
29. Rimando a Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila cit., pp. 88-89.
30. Cfr. Testa, Dopo la lirica cit., pp. 402-3.
31. Mi riferisco alla raccolta Lessicorío ovvero Lessicòrio, in Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti,
Milano 2007.
32. Ma rimando a Grignani, Una mappa cangiante cit., p. 82.
33. Cfr. Testa, Dopo la lirica cit., p. 391.
34. Ibid., p. 64.
35. Cfr. Grignani, Una mappa cangiante cit., pp. 28, 32, 38.
36. Bandini, Introduzione cit., p. 13.
37. Per riandarne all’”origine”, rimando alle esemplificazioni di M. Simonelli Picchio, Figure
foniche dal Petrarca ai petrarchisti, Licosa, Firenze 1978.
38. K. Daoud, Il caso Meursault, Bompiani, Milano 2015, p. 41.
39. In Questione privata, cap. III «Scuriva precipitosamente…», Il partigiano Johnny, cap. IV , la sera
che “precipita”, le colline che “naufragano”, ibid., cap. I , e cap. XX «La notte precipitava» ecc. Ma
per Fenoglio bisognerebbe allargare ancora la ricerca ad altri richiami a Virgilio: per esempio, da
Eneide IX 503 («At tuba terribilem sonitum procul aere canoro | increpuit» ‘ma lontano con
frastuono di bronzo una tromba lanciò il suo tremendo suono’), Il partigiano Johnny, cap. XX

«dietro le alte mura le rauche trombe fasciste squillarono al parossismo dell’intolleranza». Piú
plateale ricordo virgiliano Il partigiano Johnny, cap. XXVI «Ma la gioia si voltò in dolore, ciò che
era apparso salvezza causò mortale rovina». Su Omero → Fenoglio del Partigiano Johnny
(«L’occhio paziente brillò sotto le grevi, nere ciglia imperlate di neve, e la callida bocca si aprí a
parlare: …» ecc.), rimando a Beccaria, La guerra e gli asfodeli cit.
40. Anche in Montale, nella Farfalla di Dinard, ho incontrato un volo «cencioso» di pipistrelli.
41. Cosí annota F. Gatta, La saggificazione della scrittura narrativa. Lingua e stili di un nuovo
genere letterario, in «Lingua e stile», 2016, n. 2, p. 258, a proposito della narrativa di Tiziano
Scarpa.
42. Sono tutte ora raccolte nei due volumi dell’opera omnia Dialogo infinito, a cura di V. Boggione,
Genesi, Torino 2017.
43. Al tema ha dedicato un acuto e articolato saggio V. Coletti, Romanzo mondo. La letteratura nel
villaggio globale, il Mulino, Bologna 2011 (le citazioni a pp. 33-34, 100).

Respiro del vero, o allontanamento?


1. Ma rimando soprattutto a P. V. Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi, in Primo Levi: un’antologia
della critica, a cura di E. Ferrero, Einaudi, Torino 1997, pp. 180-83 (= Id., Per Primo Levi,
Einaudi, Torino 2019, pp. 37 sgg.); illustra questa modalità, quasi ossessiva, e «addirittura
pervasiva nel Sistema periodico», P. Zublena, L’inquietante simmetria della lingua, Edizioni
dell’Orso, Alessandria 2002, pp. 83-84.
2. Rimando a Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi cit., pp. 233-38 (= Id., Per Primo Levi cit., pp. 84
sgg.).
3. S. Agosti, Grammatica della poesia. Cinque studi, Guida, Genova 2007, p. 14.
4. A. Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, Milano 2014, p. 68.
5. Cit. in L. Matt, La narrativa del Novecento, il Mulino, Bologna 2011, p. 90.
6. Rimando a Mazzoni, Teoria del romanzo cit., p. 257.
7. P. Gibellini, Il calamaio di Dioniso. Il vino nella letteratura italiana moderna, Garzanti, Milano
2001, p. 72.
8. Caproni, Prose critiche cit., p. 687.
9. Ibid., p. 1621.
10. Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi cit., p. 226 (= Id., Per Primo Levi cit., p. 30).
11. P. Levi e T. Regge, Dialogo, in Opere complete cit., III, p. 510.
12. Come riescono a fare gli scrittori piú grandi. Roth, Perché scrivere? cit., p. 38 cita in proposito
una significativa descrizione di Saul Bellow.
13. P. Levi, La tregua, in Opere complete cit., I, p. 328.
14. A. Čechov, Né per fama, né per denaro. Consigli di scrittura e di vita, a cura di P. Brunello, Beat,
Roma 2015, p. 47.
15. Ibid., pp. 47-48.
16. Ibid., p. 48.
17. La particolarizzazione, abbinata alla concentrazione (ce lo rammenta Mengaldo, Com’è la poesia
cit., p. 43), è secondo l’Hegel dell’Estetica il carattere essenziale della buona lirica.
18. Vedi Celati, Studi d’affezione cit., pp. 165, 167.
19. Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 45.
20. V. Nabokov, Lezioni di letteratura russa, Garzanti, Milano 1987, p. 172.
21. Le citazioni provengono da Lolli, Ambiguità cit., p. 63.
22. Rimando alla mia Introduzione a Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2000.
23. C. Pavese, Raccontare è monotono, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino
1962, p. 338.
24. Lettera a C. Cases (20 dicembre 1958), in Lettere 1940-1985 cit., pp. 574-75.
25. Lettera del 7 settembre 1966, ibid., p. 931.
26. F. Tozzi, Come leggo, in Opere. Prose, novelle, saggi, a cura di M. Marchi, Mondadori, Milano
1987, p. 1325.
27. Giovannetti, La poesia italiana degli anni Duemila cit., p. 29.
28. Rimando a P. Briganti e A. Briganti, curatori di S. D’Arzo, Casa d’altri cit., p. 5. E vedi Celati,
Studi d’affezione cit., pp. 190, 191-94, 198.
29. Cfr. ibid., pp. 233-35.
30. Vedi V. Woolf, in un intervento sull’arte della narrativa comparso sul «New York Herald
Tribune», 1927 (cito da Come si legge un libro? cit., p. 45).
31. Cfr. P. V. Tondelli, L’abbandono, Bompiani, Milano 2016, pp. 60-61.
32. Lo scrive in un noto saggio J. Rousset (cit. da Mazzoni, Teoria del romanzo cit., p. 261).
33. Ibid., riprendendo ancora Rousset.
34. Mazzoni, Teoria del romanzo cit., p. 316.
35. Vedi Celati, Studi d’affezione cit., pp. 27-28.
36. Kundera, L’arte del romanzo cit., pp. 68, 70.
37. Ibid., p. 56.
38. Pontiggia, Dentro la sera cit., p. 194.
39. Rimando a Testa, Stile, discorso, intreccio cit., pp. 296, 298.
40. Calvino, in C. Pavese, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962, p. 250.
41. M. Maeterlinck, Ruysbroeck l’admirable, in «Revue générale», ottobre 1889, poi in Trésor des
humbles, Labor, Bruxelles 1896.
42. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 170.
43. Quintiliano, Institutio oratoria II 13, 8 sgg., cui rimanda opportunamente il libro di Conte,
Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 49 nota.
44. C. Baudelaire, Salon del 1846, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, p. 63.
45. Cfr. Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 52.
46. Come osservano Afribo e Soldani, La poesia moderna cit., p. 245.
47. Cfr. Afribo, in Afribo e Zinato, Modernità italiana cit., pp. 215, 258.
48. Ibid., p. 194.
49. Magris, Danubio cit., p. 378.
50. P. V. Mengaldo, Antologia pascoliana, Carocci, Roma 2014, p. 83.
51. Straordinariamente “parlante” la citazione indicata da Mengaldo, ibid., p. 84.

Che viaggio già promesso ora ci aspetta?


1. In un’intervista apparsa nella «Revue musicale», 12 marzo 1931: ma Schönberg, in una lettera del
25 maggio 1938 al musicologo americano Arthur Locke a proposito del Quarto Quartetto,
difendeva le sue pagine come «opere dell’immaginazione musicale e non, come molti
suppongono, delle costruzioni matematiche».
2. Nabokov, Lezioni di letteratura russa cit., p. 134.
3. G. L. Beccaria, Elogio della lentezza, Aragno, Marene 2002.
4. Čechov, Né per fama, né per denaro cit., pp. 34, 37, 38.
5. Levi, A un giovane lettore, in L’altrui mestiere, in Opere complete cit., II, p. 987.
6. Vedi Motolese, Scritti a mano cit., pp. 122-23.
7. L. Pirandello, Come si parla in Italia? [1895], in Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo
Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960, p. 891.
8. Contini, Letteratura dell’Italia unita cit., p. 609.
9. Ma rimando a E. Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997, pp. 167-83, e
in particolare a M. A. Grignani, Le parole di traverso: lingua e stile nel «Fu Mattia Pascal», in
aa.vv., Lo strappo nel cielo di carta. Introduzione alla lettura del «Fu Mattia Pascal», La Nuova
Italia Scientifica, Firenze 1988, oltre ai già classici saggi pirandelliani di Giovanni Nencioni.
10. Le citazioni provengono dalle del tutto condivisibili pagine di Mari, I demoni e la pasta sfoglia
cit., pp. 694-95.
11. Cfr. ibid., p. 205.
12. Cito da Grignani, Una mappa cangiante cit., pp. 78-79, 181.
13. Vedi I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi [1959], in Una pietra sopra cit., p. 72.
14. V. Coletti, Storia dell’italiano letterario, Einaudi, Torino 1993, p. 359.
15. Calvino, in Saggi 1945-1985 cit., I, p. 1087.
16. Nigro, La funesta docilità cit., p. 141.
17. Cito da una nota del ‘64, in N. Ginzburg, Opere, raccolte e ordinate dall’Autore, Mondadori,
Milano 1986, I, p. 1133, a proposito di Lessico famigliare: «Scriverlo era per me del tutto come
parlare».
18. Rimando a Testa, Lo stile semplice cit., pp. 295-98.
19. I. Calvino, La ragazza di Bube di Carlo Cassola [1960], in Saggi 1945-1985 cit., I, p. 1029.
20. Id., Tre correnti del romanzo italiano d’oggi [1959], ibid., p. 68.
21. Garboli, La stanza separata cit., pp. 303-4, 306.
22. Rimando a V. Coletti, I molti italiani (e dialetti) del romanzo, in aa.vv., La lingua variabile nei
testi letterari cit., pp. 18-19.
23. Cit. da Grignani, Una mappa cangiante cit., p. 205.
24. Lettera a P. P. Pasolini, 18 febbraio 1957, in Calvino, Lettere 1940-1985 cit., p. 482.
25. Vi contribuirono anche robuste piallature di revisioni editoriali, come risulta da uno studio di N.
Turchetta, «Il sergente della neve»: genesi testuale di un’opera prima, in «AnticoModerno», IV
(1999), pp. 319-48 e da M. A. Grignani, Scrittori del secondo novecento: tra laboratorio e
contesto editoriale (in corso di stampa).
26. Mazzoni, Teoria del romanzo cit., pp. 29 e 30.
27. C. Segre, I segni e la critica, Einaudi, Torino 1969, p. 17.
28. L’osservazione è di Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., p. 112.
29. Mengaldo, Aspetti tipologici cit., p. 71.
30. M. Corti, Prefazione a E. Vittorini, Opere narrative, a cura di M. Corti, Mondadori, Milano 1974,
p. XXIX .
31. Cosí ha bene puntualizzato Mengaldo, Aspetti tipologici cit., pp. 71-72.
32. Rimando al noto libro di G. C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003,
Einaudi, Torino 2004.
33. Ibid., p. 28.
34. Magris, Danubio cit., p. 157.
35. Murakami, Il mestiere di scrittore cit., p. 6.
36. Rimando a Celati, Studi d’affezione cit., pp. 262, 270.
37. Rimando a Testa, Stile, discorso, intreccio cit., p. 288.
38. Rimando a Vargas Llosa, Lettere a un aspirante romanziere cit., pp. 84-85.
39. Vedi Testa, Lo stile semplice cit., pp. 275-76.
40. In Afribo e Zinato, Modernità italiana cit., p. 258.
41. Testa, Stile, discorso, intreccio cit., p. 282.
42. Nabokov, Lezioni di letteratura russa cit., p. 273.
43. Ibid., p. 288.
44. Ibid., p. 289.
45. Ibid., p. 294.
46. Ibid., p. 299. Rimando alla nostra p. 108.
47. Tellini, L’officina di Palazzeschi, in Le muse inquiete cit., pp. 137 sgg.
48. Da un’intervista di G. Pullini, cit. da Tellini, Le muse inquiete cit., p. 138.
49. Ibid., pp. 154, 157.
50. Ibid., p. 149.
51. Ibid., p. 150.
52. Ibid., p. 151.
53. Cfr. Kundera, L’arte del romanzo cit., p. 35.
54. Rimando a G. Benvenuti e R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012,
p. 157.
55. Coletti, Romanzo mondo cit., p. 49.
56. Ibid.
57. Bozzola, L’autunno della tradizione cit., p. 93.
58. L. Matt, in Afribo e Zinato, Modernità italiana cit., p. 141.
59. Ibid., pp. 138-40.
60. Cfr. Tondelli, L’abbandono cit., p. 15.
61. Vedi G. Antonelli, Lingua ipermedia. La parola di scrittore oggi in Italia, Manni, San Cesario di
Lecce 2006.
62. Id., La scrittura concreta di Andrea De Carlo, in V. Della Valle (a cura di), Parola di scrittore. La
lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, minimum fax, Roma 1997, p. 195.
63. Rimando a L. Matt, in Afribo e Zinato, Modernità italiana cit., pp. 126-29.
64. Vedi Tondelli, L’abbandono cit., p. 8.

Ancora sull’ “ardir” e l’energia, del mestiere di scrivere

1. Riprendo qui le pagine della Premessa a G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella
letteratura occidentale, interlinea, Novara 2000, pp. IX-XI .
2. Vedi Beccaria, La guerra e gli asfodeli cit., pp. 68 sgg. della ristampa.
3. G. Pontiggia, L’isola volante, in Opere, Mondadori, Milano 2004, p. 1318.
4. Ma rimando a Baudelaire, Salon del 1846 cit., p. 109.
5. Cfr. P. V. Mengaldo, Noterelle guinizzelliane, in Dalle origini all’Ottocento cit., pp. 55 sgg.
6. Cfr. C. Ossola, Nel vivaio delle comete. Figure di un’Europa a venire, Marsilio, Venezia 2018, p.
39.
7. M. Pregliasco, In forma di fuga. Modi e mondi dell’antico nel moderno, Edizioni dell’Orso,
Alessandria 2003, p. 72.
8. Mengaldo, Aspetti tipologici cit., p. 72.
9. Esempi in Pregliasco, In forma di fuga cit., p. 81.
10. Cfr. ibid., pp. 79, 80.
11. Vedi L. Blasucci, L’autocommento alle «Canzoni»: dalle note autografe alle «Annotazioni», in I
tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino 1996, p. 49.
12. Ho usato le parole di Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario cit., p. 48.
13. Per La sera del dí di festa, vedi il commento in Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica
leopardiana cit., p. 26.
14. P. V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze, il Mulino, Bologna 2010, p. 112.
15. Cito da M. Lavagetto, Per conoscere Saba, Mondadori, Milano 1981, p. 25.
16. Vedi Mengaldo, Com’è la poesia cit., p. 12.
17. Vedi Celati, Studi d’affezione cit., p. 253.
18. Lettera del 20 marzo 1820, in Lettere, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 2006, p. 249.
19. Lo faceva notare Garboli, La stanza separata cit., p. 357.
20. Vedi Mengaldo, Sonavan le quiete stanze cit., p. 112.
21. Ma rimando a Bozzola, L’autunno della tradizione cit., pp. 18-19.
22. Ibid., p. 140.
23. Cfr. Mengaldo, Com’è la poesia cit., pp. 40-41.
24. Come mostrò assai bene nel concreto dell’edizione e illustrò O. Besomi nell’Introduzione a G.
Leopardi, Operette morali, ed. critica a cura di O. Besomi, Fondazione Arnoldo e Alberto
Mondadori, Milano 1975.
25. Motolese, Scritti a mano cit., p. 14.
26. Ibid., p. 179.
27. Ibid., p. 173.
Il libro

P ERCHÉ SI SCRIVE? QUALE IMPEGNO, O FATICA, O DESIDERIO STA ALLE SPALLE DELLO
scrivere? L’irrompere dell’immaginario, e dell’invenzione, il confessare,
raccontare o scoprire se stessi, riaprire segrete ferite, esplorarle, scavare nel
pozzo degli angoli bui di sé e degli altri, evocare e rappresentare ricordi, sogni, porre
domande con o senza risposte, assecondare la propria nevrosi per trarne ora uno
sfarzo stilistico, ora equilibri e bellezze formali. Si scrive infine per indagare intorno
a una verità, aprire una finestra sul mondo, catturarlo attraverso una rappresentazione
discorsiva, quando lo scrivere diventa necessità, impegno per comprendere la vita,
gettare luce sull’essere dell’uomo e su ciò che dentro e intorno a lui sta accadendo o
è accaduto.
Si scrive insomma in infiniti modi e con infinite aspirazioni. Ma si scrive anche
perché si ha paura di essere dimenticati. Scrivere è un qualcosa che ha a che fare con
il senso della vita. Consapevole di tutti questi aspetti, Gian Luigi Beccaria, studioso
dello stile, si sofferma soprattutto sullo scrivere come lavorazione, e procede
scavando tra esecuzioni e varianti di poeti e prosatori, da Dante e Pascoli a Sereni e
Zanzotto, da Čechov e Proust a Roth e Murakami.
L’autore

GIAN LUIGI BECCARIA , linguista e critico letterario, ha pubblicato per Einaudi


L’autonomia del significante (1975), I nomi del mondo (1995), Tra le pieghe delle
parole (2007), Il mare in un imbuto (2010), Mia lingua italiana (2011), Alti su di me
(2013), L’italiano che resta (2016) e curato il Dizionario di linguistica e di filologia,
metrica, retorica (1994, 1996 e 2004).
Dello stesso autore

I nomi del mondo


Tra le pieghe delle parole
Il mare in un imbuto
Mia lingua italiana
Alti su di me
L’italiano che resta
© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: illustrazione di Beppe Giacobbe.
Progetto grafico di Fabrizio Farina.

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www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858432846


Indice

Copertina
Frontespizio
Premessa
Il pozzo e l’ago
I. Perché scrivere
II. Leggere e scrivere
III. Il lavorio sul testo
IV. Autonomie del signficante
V. Si sa sempre ciò che la mano scrive?
VI. Sulle spalle degli antecessori
VII. La continuità e la durata
VIII. Respiro del vero, o allontanamento?
IX. Che viaggio già promesso ora ci aspetta?
X. Ancora sull’ “ardir” e l’energia, del mestiere di scrivere
Indice dei nomi
Il libro
L’autore
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