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PRIMA LEZIONE

Esame scritto, 3-4 domande aperte sui contenuti del corso o sui testi, dove bisogna analizzarli. Le dispense
sono nel materiale didattico. Le slide delle singole lezioni caricate a mano a mano.
Anche i non frequentanti possono svolgere gli esami, con testi in più.
Ricevimento 17.00-18.00.

LETTERATURA ITALIANA
Alle scaturigini della letteratura: il bisogno di dirsi.
Percorso per rispondere ad una domanda: perché si fa letteratura? Perché in tempi e contesti culturali diversi
si è sentita la necessità di mettere in forma scritta la propria vita? La letteratura annoverata tra le “arti inutili”
non pratiche, non riempie la pancia. Non c’è un’immediata ragione. Eppure è un fenomeno attestato. La
necessità che noi esseri umani sentiamo da sempre di spenderci le nostre energie. Come la letteratura
costituisce un alimento importante per “sfamare” i bisogni profondi dell’anima e come possa divenire
strumento utile da proporre ai bambini.
Tale domanda si può declinare in altro modo: “quale necessità c’è dietro alla letteratura?”. Praticarla è un
ovvio esercizio di abilitazione alla competenza della parola. Scrivendo e leggendo letteratura, a mano a mano,
acquisiamo una famigliarità con il linguaggio che ci porta a farne un uso più consapevole. Degustando le
parole se ne esce con una sensibilità linguistica accresciuta. È il primo ovvio beneficio questo. Ci arriva anche
Harari ↓

Yuval Noah Harari, Homo deus (2015)


Il mondo sta cambiando come mai prima d’ora, e siamo sommersi da impossibili quantità di dati, di idee, di promesse e
di minacce […]. In passato, la censura funzionava bloccando la circolazione delle informazioni. Nel ventunesimo secolo la
censura funzion sommergendo le persone di informazioni irrilevanti. Non sappiamo a cosa prestare attenzione. […] In
tempi antichi avere potere significa avere accesso ai dati. Oggi avere potere significa sapere che cosa ignorare.
→ Oggi l’informazione è debordante con la rete. Tutto questo ha portato i cittadini del mondo iperdigitalizzato
ad essere informato in modo più solido rispetto a prima? No. La sensazione che se ne ricava, da questa
ipersensibilizzazione, è infatti di disorientamento, in un certo modo è l’ignoranza. Sono fake o no? Una delle
competenze essenziali è, per Harari, discernere, difendersi cognitivamente e culturalmente da tutte queste
informazioni → sapere riconoscere gli usi legittimi e autentici e non ingannatori del linguaggio da quelli
manipolatori, in cattiva fede. Leggere ci dà la possibilità di affinarci in questa competenza, di fortificarci nella
consapevolezza degli usi manipolatori o quanto più possibile autentici del linguaggio. Quindi essere cittadini
più attrezzati, liberi, in un mondo in cui la liberà è la capacità di gestire la conoscenza più che la conoscenza
in sé.
Ma dietro l’esercizio della letteratura c’è altro? Altro oltre la necessità di soddisfare questa necessità di
affinamento delle proprie capacità linguistiche. Forse c’è un bisogno ancora più profondo di quello di
difendersi dalle manipolazioni.
La domanda non è oziosa né semplice.
La spiegazione di Harari cerca di rispondere in modo utilitaristico, razionale, ma basta? No.

Nel 2015 ci fu proprio un convegno dedicato a tale problematica. “PERCHÉ SCRIVERE? Motivazioni, scelte,
risultati” → si possono dare le più svariate risposte! I relatori hanno attraversato la questione nelle più
disparate prospettive. Alcune suggestioni verranno condivise, suggestioni di persone che hanno scommesso
tutta la loro vita sulla letteratura. Essa come il “per” della loro vita, non un più.

Domanda: “Perché scrivi?”


Risposte di diversi autori:
O. Pamuk, La valigia di mio padre (2006)
Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio che si scrivano libri come quelli che
scrivo io, e leggerli. Scrivo perché ce l’ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace molto stare seduto in una stanza a
scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso sopportare la realtà soltanto trasformandola. Scrivo perché amo l’odore della
carta, della penna, dell’inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell’arte del romanzo, più di quanto non creda
in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché
come un bambino credo nell’immortalità delle biblioteche e nella stabile posizione che i miei libri occupano sugli scaffali.
Scrivo perché la vita, il mondo, ogni cosa è incredibilmente bella e sorprendente. Scrivo perché è esaltante trasformare
in parole tutta questa bellezza e ricchezza della vita. Scrivo non per raccontare una storia, ma per costruirla. Scrivo per
sfuggire alla sensazione di essere diretto in un luogo che, come in un sogno, non posso raggiungere. Scrivo perché non
sono mai riuscito a essere felice. Scrivo per essere felice.
→ Non risponde, confessa di non sapere davvero il perché, ma di sapere di essere certo di non poterne fare
a meno. Ha a che fare con i fondamentali della nostra umanità. Necessario, senza sapere spiegare il perché,
è qualcosa di sacrale.

A.Camilleri
Scrivo perché è sempre meglio che scaricare casse al mercato centrale.
Scrivo perché non so fare altro.
Scrivo perché dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti.
Scrivo perché così mi ricordo di tutte le persone che ho amato.
Scrivo perché mi piace raccontarmi storie.
Scrivo perché mi piace raccontare storie.
Scrivo perché alla fine posso prendermi la mia birra.
Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto.
→ Di nuovo propensione degli scrittori, quando gli chiedono “Perché scrivi?” a fare la litania, scrivono, si
contraddicono. È la modalità della confessione, più del ragionamento. Scrivere è qualcosa di pre-razionale. È
una necessità che urge ma che sta prima del razionale.

K.Follett
Quando mi sveglio la mattina la prima cosa che penso è di scrivere la prossima scena del mio libro. È quello che mi diverte
di più. È fantastico dedicarsi a qualcosa che uno sa di fare bene. Mi diverto scrivendo, ma “divertirsi” è una parola che
non dà del tutto l’idea. L’atto di scrivere mi appassiona. Coinvolge tutto il mio intelletto, le mie emozioni e comprende
tutto quello che so del mondo e di come funziona l’essere umano. Tutto fa parte della sfida per accattivare i miei lettori.
Il mio lavoro mi assorbe totalmente.
→ Scrivere è totalizzante, non ha orari. È una dannazione che assorbe la totalità del proprio tempo. È
un’ossessione.

A.Brofferio, I miei tempi, Memorie (1857)


Scrivo perché, nello stesso modo che il baco da seta non può evitare il bozzolo in cui si seppellisce, e la farfalla dee per
suprema fatalità accostarsi al lume della candela a cui si abbrucia viva, io, povero operaio dell'intelligenza, non posso a
meno di consumarmi pensando e scrivendo.
→ Metafore, similitudini significative. L’atto di scrivere come condizione naturale dell’esistenza, come luogo
della propria trasformazione. La fatalità, letteratura come necessità di vita e di morte. Nascita e
consumazione. Di farfalla e fiamma che la consuma. Non può farne a meno, come prima! Scrivere non come
scelta razionale, di qualche utilità, ma come necessità: veleno e controveleno a quello stesso dolore.

A.Northomb
Mi chiedono perché ho scelto di scrivere. Io non l’ho scelto. È la stessa cosa che innamorarsi. Si sa che non è una buona
idea e uno non sa come ci è arrivato, ma quanto meno deve provarci. Gli si dedica tutta l’energia, tutti i pensieri, tutto il
tempo. Scrivere è un atto e, come l’amore, è qualcosa che si fa. Non se ne conoscono le istruzioni per l’uso così si inventa
perché necessariamente devi trovare un mezzo per farlo, un mezzo per riuscirci.
→ C’è un evidente comune denominatore a tutte queste confessioni sul perché del loro atto scrittorio. È
l’impellenza, il bisogno di farlo, perché non se ne può fare a meno. Non farlo lascerebbe sterili, vuoti, non vivi.
Letteratura come necessità di vivere.

La ragione della letteratura non è quindi di tipo utilitaristico, come il fatto di avere buone competenze
linguistiche per essere cittadini liberi (Harari). È a monte di qualunque razionalizzazione. È utile la letteratura
ma in senso non spicciolo.

Un poeta contemporaneo, Ungaretti, è tra coloro che più si sono spesi a cercare di raccontare tutto questo,
di condividere cosa lo spingesse a fare poesia, a scrivere. → firmato su YouTube: “Che cos’è la poesia?”. È
qualcosa che affatica, sposta le radici del proprio essere. Nel video diversi poeti balbettano, attorcigliandosi,
cercando di spiegare questo bisogno impellente che sentono. Di queste testimonianze colpisce più che il
contenuto il modo in cui lo dicono, come lo dicono questi superbi scrittori. È qualcosa di inspiegabile, che
sfugge al linguaggio.
Video di Aida Marini, “La poesia”→ Il punto su cui tornano tutti questi letterati è lo stesso: l’atto letterario
non è un esercizio riempitivo dell’ozio, di consumo del tempo, non è quel piacevole trascorrere il tempo sotto
l’ombrellone. È qualcosa che scuote perché costringe a fare i conti con qualcosa, che definiremo insieme (le
fondamenta dell’animo umano).
L’esperienza della letteratura è l’esperienza dell’essenziale. Con tutta la fatica e l’entusiasmo. Si usa la
metafora del travaglio e del parto: l’atto letterario come travaglio, esperienza in cui ci si trova e dalla quale
quasi si vorrebbe fuggire, per consegnare al mondo qualcosa di bello. Qualcosa la cui bellezza ripaga della
sofferenza (duplicità). Duplicità della fatica della letteratura che porta a fare i conti con qualcosa di sé e
l’aspetto liberatorio, catartico, gratitudine nel poter cullare qualcosa di nuovo.
Letteratura come esercizio di parole che smuovono, che vanno a fondo dei processi dell’animo umano. Di
quanto le parole hanno a che fare con le dimensioni profonde dell’animo umano lo avevano capito i sofisti →

Gorgia, Encomia di Elena (V-IV sec. A.C.)


Mi chiedono perché ho scelto di scrivere. Io non l’ho scelto. È la stessa cosa che innamorarsi. Si sa che non è una buona
idea e uno non sa come ci è arrivato, ma quanto meno deve provarci. Gli si dedica tutta l’energia, tutti i pensieri, tutto il
tempo. Scrivere è un atto e, come l’amore, è qualcosa che si fa. Non se ne conoscono le istruzioni per l’uso così si inventa
perché necessariamente devi trovare un mezzo per farlo, un mezzo per riuscirci.
→ Parole come strumento terribile per smuovere gli animi, per questo si devono usare con attenzione. È
esperienza universale come esse possano colpire, nel bene e nel male. Polo della tortura e polo del sollievo e
della gioia, inestricabilmente legati.

Domanda del docente: “tre ragioni per la letteratura” (qcode)


Risposte più condivise:
- Immaginare: creazione con la mente di una realtà che è trasfigurazione rispetto a quella che ci
circonda. È trasformazione. Pensiamo all’Infinito di Leopardi, costruita intorno a: “Io nel pensier
fingo”, vita immaginata, raccontata, dagli occhi di chi la sta vivendo.
- Emozione, espressione, sogno, tutti che hanno a che fare con l’emotività.
- L’idea di fuggire.
Ciascuno di noi ha una risposta a questa domanda.

Continuando il nostro ragionamento… Il bisogno così caldo di mettere in versi la propria esistenza sottolinea
che l’essere umano è la creatura che ha bisogno di comunicare, di raccontarsi, per realizzare appieno se stessi,
ed ha anche il piacere di sentire altri che si raccontano. È questo uno scambio biunivoco di narrazione che è
stato investigato nella letteratura sacra. Essa, per sua stessa natura, racconta dell’esistenza come una storia.
Nella narrazione biblica l’esistenza stessa è una storia, si genera dalla storia del Creatore. Tutto ciò che è nella
prospettiva ebraico-cristiana è parte di una storia che sente il bisogno di continuare a raccontarsi.

Parola: atto “Sacro”↓


dixitque Deus fiat lux et facta est lux (Genesis 1, 3) = Dio disse: “Sia la luce” e luce fu
→ Ciò esalta il bisogno dell’essere umano di comunicarsi. La parola è raggiungere qualcuno che l’ascolti.
Nella letteratura sacra ricorre molto questo tema, di raccontarsi.
Come nel versetto del Vangelo:
ex abundantia enim cordis os loquitur (Matthaeum 12, 34) = La bocca parla per la sovrabbondanza del cuore = la
bocca parla perché non ne può fare a meno, trabocca.
urget caritas de caritate loqui (Riccardo di San Vittore, De quattuor gradibus violentae caritatis, 1) = è l’amore a
spingere a parlare dell’amore. È un opuscolo mistico. Riccardo di San Vettore parla della violenza dell’amore,
dei quattro gradi della violenza dall’amore (divino). Egli vuole raccontare come l’esperienza dell’amore divino
si brutalmente travolgente. Si chiede all’inizio perché parli di ciò, si risponde dicendo che l’amore costringe a
parlare d’amore, chi vive un’esperienza tanto travolgente ne deve parlare a qualcuno.

Questi sono spunti di riflessione interessanti. Sentiamo il bisogno di fare parola della storia della nostra vita e
di comunicarla. Ogni creatura è una storia e il suo comunicare è essere: ci si sente realizzati solo quando ci si
racconta a qualcun altro e quando si viene riconosciuti da quel qualcun altro, attendendo da questi un
riconoscimento, rispecchiamento, rivelazione. Il sorriso della madre ci dice che esistiamo. Essere ascoltati =
essere definiti.

Iacopone da Todi, Laude (XII-XIV sec), XXXIX, 119-146


Or pensa que n’ài detto Nel suo laudar non iogni, c’amor non sia clamato.
de l’Amor benedetto; ’nanti l’ài blastimato’. Clama lengua e core:
onne lengua è ’n defetto, Non te ’n pòzzo obbedire Amore, Amore, Amore!
che de lui à parlato. c’Amor deia tacere; Chi tace el to dolzore
S’è lengua angeloro, l’Amor voglio bannire lo cor li sia crepato.
che sta en quel gran coro, E credo che crepasse
parlanno de tal sciòro, fin che mo ‹’n› m’esce el fiato. lo cor che te assaiasse;
parlara escialenguato. Non n’è condicïone s’Amore non clamasse,
Ergo, co’ non vergogni che vada per rasone, crepàrase affocato
nel tuo laudar lo ’mpogni? che passi la stasone

→ Iacopone da Todi è sanguigno, vivo, non è rasserenato. Il suo è il misticismo dell’impeto, dell’urlo. Era il suo
carattere. Fu sempre al centro delle dispute ideologiche dell’ordine francescano di cui faceva parte. Era anche
contro papa Bonifacio VIII, che Dante odiava, come molti letterati, motivo per cui lo mise persino nell’Inferno
prima della sua morte.
Anche Iacopone da Todi si pone la domanda: “Perché mi sto imbarcando in un’impresa sconsigliabile?”.
Anche Dante se lo chiede all’inizio della sua Commedia. I. da T. parla in Umbro→ Ogni lingua è nulla, fosse
anche quella degli angeli, parlando di qualcosa di sublime come l’Amore, sarebbe un insulso balbettio. Quindi
non ti vergogni di averla messa in parole l’Amore? Tutto quello che hai detto è una blasfemia. Se lo dice a se
stesso e si risponde che non può tacere l’Amore. Non è possibile che io non gridi l’Amare, qualcosa che
prorompe con violenza. Amore, Amore, Amore. Chi tace questa dolcezza che gli si crepi (una crepa, non nel
senso di crepare/morire) il cuore. Non si può tacere qualcosa di così grande. Lo urlo, lo danzo, ma devo dirlo.
Il tema è sempre il medesimo. Urgenza come necessità senza cui non si sarebbe.

Possibili liste che si vanno delineando (riflessioni), sul a cosa serve dirsi:
- Serve a DARE FORMA AL SÈ NELL’ALTRO: comunicarsi, informare di sé la mente altrui e modificare il
cuore dell’altro, generandosi anche in chi ascolta. Gli si dà parte di sé, contaminandone la storia con
la propria.
- Serve a DARE FORMA ALL’ALTRO IN SÈ: conformarsi in ragione dell’altri, spiegarsi nel suo linguaggio.
Raccontarsi non è solo imprimersi nell’altro per plasmarlo a propria immagine. Impone anche lo
sforzo di tradurre se stessi in parole, che devono essere anche le parole di chi ascolta. L’atto di
raccontarsi impone lo sforzo di oggettivarsi, se no si vanifica lo sforzo. Lasciarsi informare dall’altro,
tradursi in un linguaggio che non è solo proprio ma anche altrui. Sfogo poesia adolescenziale ≠ pagine
di letteratura, perché il significato della prima lo coglie e se ne emoziona solo chi le ha scritte, gli altri
no. Qui manca questo passaggio di traduzione. L’atto letterario è invece anche atto di conformazione
agli altri. Questo è lo speculare del processo precedente (dare forma al sé nell’altro).
- Serve a DARE FORMA ALL’ALTRO IN SÈ: riconoscersi dialettica tra l’Io e l’Altro. Dare forma a se stessi
in quanto immagine di qualcun altro. Soprattutto le suggestioni della letteratura sacra ne parlano: a
immagine e somiglianza del Creatore. Desacralizzando: l’identità umana si realizza nella dialettica, in
questo scambio biunivoco sopracitato. L’Io ha bisogno di raccontarsi a qualcun altro e di essere
raccontato da qualcun altro, solo così si genera qualcosa di nuovo, un’identità dialogica, relazionale.

Come l’atto letterario si inserisce in questo processo?

Ungaretti, Il porto Sepolto (versione 1916)


Commiato Il porto sepolto

Gentile Ettore Serra


Poesia è il mondo l’umanità Vi arriva il poeta
la propria vita e poi torna alla luce con i suoi canti
fioriti dalla parola e li disperde
la limpida meraviglia di questa poesia
di un delirante fermento mi resta
Quando trovo in questo mio silenzio quel nulla
una parola scavata è nella mia vita di inesauribile segreto
come un abisso

→ Ungaretti ragiona su questa dimensione. La letteratura che bene porta al mondo? Poesia è l’umanità,
quando fioriscono dalle parole, la meraviglia di un delirante fermento. Non è altra vita che si sostituisce alla
vita. È della vita la fioritura, la magia, il miracolo di quelle parole in cui si impigliano frammenti di vita. È una
meraviglia che quando prova, invenzione come ritrovamento. Parole come capaci di fotografare, cogliere la
vita, senza esserlo evidentemente. Pur con uno scarto che non si riuscirà a carpire mai. Le parole non saranno
mai la vita, la vita è prima delle parole. Per Ungaretti le parole sono la fioritura che rende visibile l’invisibile.

SECONDA LEZIONE
Perché la letteratura ha goduto di un interesse così profondo? Raccontare la propria vita non è un
passatempo, è un’esigenza profonda della nostra natura. Ciò ha a che fare con la natura dialogica della nostra
identità. Il discorso fatto ha a che fare con qualsiasi esperienza di dialogo e comunicazione che appartiene
all’essere umano. La letteratura ha una specificità, come indicava Ungaretti. Il discorso letterario si distingue
da altre forme di narrazione per le finalità specifiche che ha: raccontarsi col linguaggio letterario è ambire a
raccontarsi in parole “belle”. C’è una dimensione estetica da cui non può prescindere. L’obiettivo di altre forme
è l’esaustività, per esempio, ma non la bellezza. L’ambizione del discorso letterario non è solo quello di
raccontare l’esistenza ma soprattutto di metterne a nudo la bellezza. La bellezza qui non significa solo grazia,
ma si può cogliere in forme diversissime, incluse quelle della disgrazia e del dolore. La dignità multiforme
della vita umana è quella che la letteratura si incarica di mettere a nudo. Il letterato scava in cerca del
linguaggio che serve per raccontare l’essenza, il succo. È un lavoro lungo e laborioso. Non è un istinto
romantico, un lampo. È una fatica. Il poeta sbozza faticosamente, leviga gli spigoli delle parole per renderle
degne di ciò che sta raccontando. Come un falegname. Raccontare non solo ciò che “sta accadendo” ma come
“cosa significa per chi sta accadendo”. La letteratura è l’esperienza di un racconto che vuole essere bello. Dagli
albori il discorso letterario si è mosso nella direzione di ricerca di strutture formali che cogliessero emozioni
in grado di compiere la magia che è la comunicazione della bellezza.

P. Conettieri, La poesia dell’estasi (2010)


Da sempre e ovunque quello che viene definito (anche da un punto di vista neurologico) il “lato divino” della nostra mente
non disdegna di esprimersi in poesia: in alcuni casi di possessione spontanea le espressioni demoniache sono in versi e
così anche i Veda indiani, le Gatha della letteratura avestica, alcune profezie della Bibbia che riferiscono le parole di Dio,
gli oracoli greci in esametri; fra gli antichi popoli arabi il «poeta» ha ricevuto il sapere dagli spiriti e il suo modo di
esprimersi in versi è la prova dell’origine divina delle sue parole. L’associazione fra espressioni strutturate in modo ritmico
o ripetitivo e il sapere soprannaturale costituisce, insomma, più la norma che l’eccezione.
→ Egli sta ragionando sulla curiosa necessità che gli umani hanno sentito di esprimersi in strutture codificate,
per esempio attribuendo al proprio linguaggio una ritmicità, una musicalità. Tutti orpelli non necessari dal
punto di vista comunicativo. Il linguaggio non si può ridurre al contenuto informativo! Il come lo si dice è
importante! Gli orpelli sono modi in cui cavare la bellezza.

C.Ossola, A cosa serve la letteratura (1998), è un saggio pubblicato su Lettere italiane. Qui Ossola parte senza
dare per scontato che la letteratura serva a qualche cosa. Ovviamente essendo su una rivista letteraria e
scritto da un letterario ci sarà, ma parte dal punto zero. Cita Catullo (Liber, XCV,8) che parla in riferimento agli
Annales di Volusio (altro poeta romano):
et laxas scombris saepe dabunt tunicas = presto i tuoi annali saranno buoni soltanto per incartarci il pesce
Ossola gioca a provocare il lettore. Cita dopo un brano di Pinocchio (C. Collodi, Pinocchio, XXVI), quando i
personaggi del romanzo compiono un gesto che ricorda l’immagine di Catullo, ossia fanno uso dei libri
similmente a quello citato da Catullo. Sulla riva del mare Pinocchio ed altri monellacci…
Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai
proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i
Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici (...). Figuratevi i pesci! I pesci,
credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche
pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito facendo con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire:
«Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!»
→ Collodi qui autoironizza, dissacra il proprio mestiere chiedendosi la stessa cosa di Ossola: non è che alla
fine dei conti quello che facciamo è solo sporcare dei fogli di carta neanche buoni a dar da mangiare ai pesci?
Pinocchio è un testo che risponde agli abbecedari proponendo un racconto dell’infanzia diverso rispetto a
quello stereotipato dagli abbecedari. La letteratura è dunque solo un insulto agli alberi tagliati per far la carta?
La fruizione della letteratura un qualche effetto lo trova, lascia qualcosa all’animo di chi legge, che sia pure
un’irritazione, un generico turbamento, ma in qualche modo incide. Non lascia indifferenti. È un linguaggio
che smuove. Ossola cita Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Calvino dove questi dice che la letteratura
potrebbe essere un modo di rilassarsi a fine giornata, ma la scarta come ipotesi perché la lettura di un testo
gli suscita piuttosto turbamento!
Scagli il libro contro il pavimento, lo lanceresti fuori dalla finestra, anche fuori dalla finestra chiusa, attraverso le
lame delle persiane avvolgibili, che triturino i suoi incongrui quinterni, le frasi le parole i morfemi i fonemi zampillino
senza potersi più ricomporre in discorso; attraverso i vetri, se sono vetri infrangibili meglio ancora, scaraventare il
libro ridotto a fotoni, vibrazioni ondulatorie, spettri polarizzati; attraverso il muro, che il libro si sbricioli in molecole
e atomi passando tra atomo e atomo del cemento armato, scomponendosi in elettroni neutrini particelle elementari
sempre più minute; attraverso i fili del telefono, che si riduca in impulsi elettronici, in flusso d'informazione, squassato
da ridondanza a rumori, e si degradi in una vorticosa entropia. Vorresti gettarlo fuori della casa, fuori dell'isolato,
fuori del quartiere, fuori del comprensorio urbano, fuori dell'assetto territoriale, fuori dell'amministrazione regionale,
fuori della comunità nazionale, fuori del mercato comune, fuori della cultura occidentale, fuori della placca
continentale, dall'atmosfera, dalla biosfera, dalla stratosfera, dal campo gravitazionale, dal sistema solare, dalla
galassia, dal cumulo di galassie, riuscire a scagliarlo più in là del punto in cui le galassie sono arrivate nella loro
espansione, là dove lo spazio tempo non è ancora arrivato, dove lo accoglierebbe il non-essere, anzi il non essere
mai stato né prima né poi, a perdersi nella negatività piú assoluta garantita innegabile. Proprio come si merita, né
piú né meno.
→ Per Calvino la letteratura è qualcosa che in un modo o nell’altro non lascia come prima: annoiare, irritare,
ammaliare e così via, ma non lascia indifferenti. Qualcosa lo dice e smuove nelle profondità dell’essere.
Prosegue Ossola nel suo saggio ragionando sul fatto che la letteratura rende evidente il bisogno profondo che
abbiamo di dire e parlare, tanto che l’essere umano è stato definito homo narrativus, proprio per questa
inspiegabile esigenza di narrare le cose. Un bisogno antico, infantile. A tal proposito cita un’elegia: R.M.Rilke,
Elegia IX.
Siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra -
al più colonna, torre…ma per dire, comprendilo,
per dire così come persino le cose intimamente mai
credettero d’essere.
→ Rilke propone la stessa riflessione. L’uomo dicendo quasi crea, trasforma l’esistenza nella sua esistenza,
dandovi un significato. Parola creatrice, che se non fosse letto non esisterebbe. Forse la missione di “dire” è
la prima dell’uomo, colora l’esperienza di qualcosa di esaltante e la letteratura si offre a ciò.
Continua Ossola, in questo suo saggio, citando Rilke, An die Musik (1953):
Tu spazio del cuore
cresciuto oltre di noi. Tu a noi il più intimo
che, superandoci, di là da noi trabocca –
sacro addio:
poiché il nostro Intimo ci sta intorno come
la più frequentata lontananza, come altra
faccia dell’aria:
pura,
immensa,
non più abitabile.
→ Rilke sta lanciando una provocazione che gioca con le parole, ossia racconta l’intimità come il suo contrario.
L’intimo è interno, nascosto, un giardino chiuso che gelosamente si serba. Rilke rovescia la prospettiva
celebrando l’idea di un’intimità che sta intorno, fuori di sé. L’idea che l’essere umano è quella creatura
narrativa che si dice in qualcun altro perché è in qualcun altro che cerca se stesso. Necessita dell’altro per
definire la propria identità. Ha bisogno di altri occhi per vedere il profilo del proprio volto.
L’atto letterario è quell’atto che rende evidente un segreto importante della vita umana, ossia la sua necessità
di raccontarsi per essere e ne cava fuori la bellezza, parole degne.
Conclude Ossola citando Wislawa Szymborka (Il classico, 1973).
Qualche zolla di terra e la vita sarà dimenticata. Verrà tolto dalla finestra il vaso con l’aloe,
La musica si libererà dalle circostanze. il piatto con il moschicida e il vasetto di pomata,
(...) e apparirà – ma sì – la vista sul giardino,
Tutto ciò che non è quartetto il giardino che lì non c’era mai stato.
come quinto sarà scartato. E ora ascoltate, ascoltate, o mortali,
Tutto ciò che non è quintetto stupefatti tendere attenti l’orecchio,
come sesto sarà soffiato via. o assorti, o stupiti, o rapiti mortali,
Tutto ciò che non è un coro di quaranta angeli ascoltate – ascoltatori – mutati in udito.
tacerà come il guaito d’un cane e il singulto d’un
gendarme.
→ Poesia immaginifica, non immediata, ma che fa sintesi del percorso fatto. Qualche zolla di terra e la vita
sarà dimenticata, cosa resta di quell’esistenza? Forse la musica, la bellezza, il perché, che permane. La sinfonia
degli addii di Haydn → se chi ascolta chiude gli occhi non si rende conto del progressivo svuotamento del
suono. Ciò perché Haydn ha fatto in modo che la melodia prevalesse sull’orchestrato, il compositore ha fatto
in modo che il pattern melodico rimanesse inalterato. Uno alla volta i musicisti escono di scena. Resta solo il
violino infine, finché anche lui se ne va. Lui lo ha fatto per protesta, in realtà è divenuta metafora di come in
quel grande orchestrato che è l’esistenza ci sia una melodia più importante delle altre, che è quella che resta
in mente, tutto il resto dei suoni intorno non sono essenziali. Spegnendoli man mano ci si rende conto di
quale sia l’essenziale, il violino della propria esistenza. Szymborka dice questo. Alla fine resta solo la melodia
fondamentale, “tutto ciò che non è… cadrà”. Quando resterà solo il violino, l’essenziale, finalmente
ascolteremo ciò che conta “stupiti”, “mortali” e così via. Ciò che qualifica l’esistenza umana è la
comunicazione, tanto che l’essere umano stesso si muta in udito.
Ossola allora dice che forse il bene della letteratura è quello di rendere visibile il profondo desiderio di
comunicazione che è nell’animo umano. Non è un passatempo, non è un riempitivo dell’ozio. Ha a che fare
con i fondamentali della psiche umana in modi che tanti letterati nel tempo hanno cercato di scoprire. Tra di
essi Dante Alighieri.

DANTE ALIGHIERI
Con altri autori del XIV secolo ha consacrato il fiorentino a lingua di maggior prestigio. Contribuì a fare in
modo che quello che non era altro che un dialetto come tanti altri venne percepito come lingua prestigiosa,
migliore per fare letteratura. Dal punto strettamente linguistico non è vero. Lui come Petrarca e Boccaccio
contribuirono a ciò.
È il padre della nostra letteratura, anche se da decenni si sperimentava la letteratura. Non è un primato
cronologico, è ideale. È colui che è ritenuto il primo grande interprete della letteratura volgare, è colui dopo
il quale non si può più mettere in dubbio che la letteratura volgare sia degna di essere coltivata. La letteratura
in latino era quella considerata dalla maggior parte dei letterati come idonea. Dante è tra coloro che si
incaricano di tentare tale scommessa, di praticare una via considerata dai più sbagliata, poco feconda. È colui
che più di tutti in quel momento storico ne consacra la legittimità.

Preterizione, dal Vocabolario Treccani oline:


preterizióne s. f. [dal lat. tardo praeteritio -onis, der. di praeterire «preterire»]. – L’atto, il fatto di preterire, cioè di
omettere, tralasciare qualcosa. Il termine è usato soprattutto nelle due accezioni che seguono: 1. Figura retorica
consistente nell’affermare di voler passare sotto silenzio una cosa nel momento stesso in cui invece la si nomina, dandole
così maggiore rilievo: come, per es., nella canzone All’Italia del Petrarca, vv. 49 e segg.: «Cesare taccio, che per ogni
piaggia Fece l’erbe sanguigne Di lor vene ...»; e, nel linguaggio com., in frasi quali «non ti dico con quanto piacere sarei
venuto anch’io»; «per non parlare dei sacrifici che i tuoi genitori hanno fatto per te»; «non sto a raccontarti quello che
mi è capitato oggi», e simili.
→ Preterire, ossia omettere qualcosa. Affermare di non dire mentre lo si sta dicendo. È una figura retorica per
creare aspettativa. Dante, tra le tante cose che è, è un maestro della preterizione, il topos dell’ineffabile.
Dichiara inesprimibile qualcosa, che è preterizione. Seppur non lo dico, lo faccio intendere.

Dante e l’ineffabile
Tanto gentile e tanto onesta pare, in Vita nova, XXVI, 5-7:
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
→ Dà tanto dolcezza nel cuore che rinuncia a farlo. La può comprendere solo chi l’ha provata e se non l’avete
provata non potete capire. È preterizione: dice che non lo fa mentre lo fa.
In Vita nova, XLIIII, 1-2:
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire
più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto
posso, sì com'ella sae veracemente.
→ Ci comunica nuovamente di rinunciare al tentativo di raccontare quella Beatrice che si è trasformata in
un’anima del cielo. Ella infatti muore. Trasformazione dell’amore di Dante. Lui la vide la prima volta a nove
anni, divenne la sua musa, ispiratrice, il suo tormento che tornerà in tutte le sue opere. È colei che lo mette
sempre alla prova, nel compiere un cammino di progressiva maturazione. Lo sollecita a superarsi, perché si
confronta con la sua perfezione, vuole diventare migliore per colei che ammira. Alla fine della Vita nova, dopo
la morte di Beatrice, ne canta la mirabile visione. La Vita nova è tutta scritta retroattivamente, non mano a
mano. È una visione retrospettiva e trasfigurata della sua storia.
La Vita nova si conclude con la rinuncia a parlare ancora di Beatrice, non si sente degno di farlo. Tale tema
ritorna negli scritti di Dante. La poesia di Dante è spesso poesia di Beatrice, che ambisce all’obiettivo di
rendere giustizia della bellezza di Beatrice. Lui dichiara che è ineffabile ma continua a ricimentarsi in questa
sfida. Anche se è impossibile. Perché questa spinta? Perché è qualcosa di così bello che non si può esimersi
dal farlo. Paradiso dantesco, due passaggi:

Un episodio che rende evidente perché Dante si ostini è perché è Beatrice che lo esorta con la sua
straordinarietà. Dante lo dice in Vita nova, III, 1-3.
Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l'apparimento soprascritto di questa
gentilissima, ne l'ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo,
in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella
parte ov'io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe
molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.
L'ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima
volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da
le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d'una mia camera, e puosimi a pensare di questa cortesissima.
E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m'apparve una maravigliosa visione: che me parea
vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d'uno segnore di
pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole
dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus tuus”.
Al loro primo incontro i due avevano circa nove anni. Dante ne fu destabilizzato, si sente smuoversi qualcosa
di mai prima conosciuto. Dante dice che colse tutte le occasioni per contemplarla. Dante non ha mai sentito
la voce di Beatrice, perché sin a quel momento l’aveva vista e basta. Non sa se lei si sia mai accorta di lui. Lui
si chiede se lei sappia della sua esistenza. Finché quando hanno circa diciotto anni c’è questo episodio,
questo primo saluto.
Vita nova, XXVI, 5-7
Tanto gentile e tanto onesta pare da cielo in terra a miracol mostrare.
la donna mia, quand'ella altrui saluta, Mostrasi sì piacente a chi la mira
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta, che dà per li occhi una dolcezza al core,
e li occhi no l'ardiscon di guardare. che 'ntender no la può chi no la prova;
Ella si va, sentendosi laudare, e par che de la sua labbia si mova
benignamente e d'umiltà vestuta, un spirito soave pien d'amore,
e par che sia una cosa venuta che va dicendo a l'anima: Sospira.
È un episodio apparentemente semplice quello del primo saluto di Beatrice. Sono passati nove anni dal
primo incontro. Gli accade di incontrare la Gentilissima, di bianco vestita, tra due anziane. Beatrice è già
sposata! Forse aveva persino dei figli, in quanto moglie era sorvegliata. Non poteva andarsene da sola in
giro. Amiche e sorveglianti della moralità di Beatrice (società maschilista). Era bianca (pura). Si gira verso di
lui, lo guarda e lo saluta. Dante per la prima volta ne sente la voce!

Cappellano indica tre vie dell’innamoramento nel De amore (ove si indicano i canoni dell’amor cortese):
- attraverso gli occhi, percependo l’immagine.
- via per affabulazione, quando si è avvinti dalle parole di chi si sta ascoltando. Così si percepisce invece
la forma dell’anima, perché la parola sgorga dalla mente di chi parla. È una forma di contatto che va
maggiormente nel profondo.
- Terza, di cui il professore non parla.
Ascoltare la voce di Beatrice è la prova decisiva: raggiunto dall’intimità di Beatrice ascoltandone la voce.
Bellezza e grazia esteriore della donna corrispondono con quella esteriore? Ebbene sì.
Marco Santagata ha scritto di questo, di un episodio che sembra superfluo ma non lo è! Per il tempo era
importante. Era una donna sposata, forse con figli. Per le regole del tempo non poteva salutare chi passava,
compie un atto sconveniente. Saluta un ragazzo sconosciuto, che non appartiene al suo parentado, solo per
la sua ineffabile cortesia. Lei lo degna di salutarlo anche se non era un atto dovuto, anzi. Dante ne rimane
sconvolto. Fa quello che farebbe qualsiasi adolescente. Si chiude nella sua stanza e fantastica. È un gesto
intuibile. Anche i provenzali e siciliani avevano definito un iter dell’innamoramento: una prima fase
caratterizzata dalla visione e dall’affabulazione, innamoramento per fama: amare qualcuno senza averlo visto
ma di cui si è sentito parlare. Dopo arriva un secondo momento, quello dell’idealizzazione, si guarda a quella
persona con sguardo compromesso. Quando Dante dice che scappa da questo momento, va nella sua stanza.
Non è solo un gesto istintivo per leccarsi le ferite, è un modo per celebrare l’accaduto. Dopo sopraggiunge un
sonno, luogo intermedio e delle visioni, ove appare una visione → nella sua stanza c’è una nebbia ove si
distingue un uomo dall’aspetto pauroso che dice cose indistinte tra cui “io sono il tuo nuovo signore” (“ego
dominus tuus”, parte finale di Vita nova, III, 1-3, VEDI SOPRA), è l’innamoramento.

Perché allora Dante si ostina a raccontare Beatrice anche quando dice che è impossibile? Prima risposta: è lei
che lo costringe con la sua bellezza. La Commedia è costruita intorno al richiamo di Beatrice che attende
Dante, che lo attira a sé dopo anni di lontananza. Non è l’unica risposta questa. C’è una seconda risposta.
Mentre Dante si ostina a tentare di raccontare la donna, si pone una seconda domanda relativa a sé: sono io
degno di compiere tutto ciò? Di fare poesia di qualcuno di così straordinario? Cosa centro io con lei che è così
tanto migliore di me? Soprattutto dopo la morte di lei ciò si acutizza. Pian piano il discorso di Dante si sposta
da poesia su Beatrice a riflessione su se stesso. Poesia su Beatrice come modo di fare i conti su me stesso, se
io sia in grado di fare i conti con bellezza, con la divinità. Da discorso puramente estetico (parole belle per
parlare della Bellissima) a discorso etico: ne sono degno? Risponde inizialmente: NO. Nella Vita nova (1294-
1295) racconta con rammarico di essersi perduto dopo la morte di lei in amicizie malevole, di donne gentili in
cui si è consolato. Non si sente degno di cogliere questa sfida perché non si sente degno eticamente. Chi sono
io? Qualcuno che può ambire a raccontare la perfezione o sono una creatura fatalmente indegna di ciò? La
risposta seguente si costruirà nella Commedia (1303/1304, ci lavorerà fino alla morte).

TERZA LEZIONE

Dante: maestro della preterizione. Perché? Una risposta parziale è che la sfida dell’ineffabile è alla radice: si
sente costretto perché c’è una potente sollecitazione che viene dall’esterno, ossia Beatrice. C’è qualcosa più
grande di lui che lo costringe, ossia la grazia di Beatrice. Dante in questa sfida dell’ineffabile coglie altro: una
riflessione esistenziale, su stesso, sulla sua natura. Di fronte alla grazia di Beatrice si chiede se lui meriti di
poter essere poeta di qualcosa di così grande. La questione si sposta, da versante estetico (bellezza che
impone di fare lode di sé) a questione etica (merito di fare lode a qualcosa di tanto bello?). Il problema è
diverso: la poesia come riflessione sulla propria natura. Cosa centro io povero poetucolo, pieno di difetti,
presuntuoso, peccatore, incline alla vana gloria, con ciò che è bello e migliore di me? Non è il primo a
chiederselo nella cultura occidentale. Nella poesia provenzale (trobadorica) ripetutamente il poeta si trova a
porsi questa domanda: merito io di lodare la dama che è tanto migliore di me? Sono domande implicite nella
sfida della poesia dell’ineffabile. Dante si pone il problema della legittimità della propria opera.

La Vita nova è una lettura retrospettiva del romanzo d’amore di Dante e Beatrice, occasione di riflessione sulla
poesia. È un’opera di una certa maturità letteraria. In essa si racconta una storia di sfide, la prima è
guadagnarsi il saluto di Beatrice, che ottiene inaspettatamente. La seconda sfida sarà quella costituita dalla
perdita di questo saluto. Dante si mette nei guai da solo per far si che nessuno scoprisse il suo amore per
Beatrice, in ossequio al topos di nascondere l’amore, topos della poesia provenzale. Per Dante ciò significa
evitare lo scandalo della passione per una donna sposata. Dante si inventa lo stratagemma della “donna
schermo”. Quando per caso il suo sguardo rivolto a Beatrice incappa in un'altra donna posta nel mezzo si
genera l’equivoco che lui non stesse guardando affascinato Beatrice ma la donna frapposta tra loro. Dante
lascia credere ciò e alimenta l’equivoco e si avvale di questo strumento della donna schermo. Il risultato è
disastroso: quando questa donna va via da Firenze lui si deve procurare un altro schermo. Finisce che le dame
che accompagnano Beatrice di fronte alla leggerezza di questo giovane che continua a cambiare la
destinazione del proprio amore iniziano a parlarne in cattivi termini, come uno superficiale. Esse dicono che
Dante è un poco di buono e così Beatrice gli nega il saluto. Nuova sfida: si chiede se debba lasciare andare o
sublimare, disincarnarla? Sceglie quest’ultima e fa una riflessione: se la sua passione è autentica come è,
allora deve essere capace di ardere anche se Beatrice non lo ricompensa in nessun modo, neanche con un
saluto. Nella letteratura mistica del XII e XIII secolo troviamo ciò. Dante sublima quasi misticamente: non ci si
deve aspettar nulla se si ama veramente. Superata questa seconda sfida, se ne fa avanti un’altra: la morte di
Beatrice nel 1250. Si sente chiamato ad una terza sfida, ancora più difficile.
La prima forma d’amore che i critici letterali chiamavano “dell’amor cortese” nella Vita nova ambiva ad
appagarsi della forma del saluto. La seconda forma dell’amore è quella dell’amor gratuito, che non pretende
saluto ma si sfama della visione. In terza istanza, Beatrice è morta, non può più sfamarsi della sua visione, che
lo chiama ad un’ulteriore sublimazione, un amore rivolto all’anima di una donna che in corpo non c’è più, un
amore mistico.
Dante si sente capace/degno di questa terza sfida? NO. Cerca altre consolazioni, umanamente comprensibili.
Alla fine della Vita Nova dice che si stordisce per dimenticare. Dopodiché la sua sofferenza attira delle donne
e cerca di consolarsi così. Non si riconosce più degno di parla di Beatrice e lo comunica.
Dieci anni dopo la morte di Beatrice è ambientata la storia della Commedia. Ne parlerà in questa, nel II canto
dell’Inferno, dove Virgilio, per tranquillizzare un Dante spaventato, dice che lo hanno mandato tre donne:
Maria, Lucia e Beatrice. Dante ritiene di aver trovato la strada dopo averla lungamente smarrita. Tale
smarrimento di cui parla all’inizio della Commedia richiama, secondo alcuni, proprio questo aspetto→ di lui
che aveva smarrito la via, la consapevolezza di ciò che è giusto/ingiusto. La strada della Commedia costituisce
la storia della rinascita di Dante da questo smarrimento esistenziale così che possa tornare a sufficiente
dignità per parlare di Beatrice. Ella tornerà, comparirà in spirito nel XXX canto del Purgatoria, con lei
proseguirà fino alla Gloria di Dio. Tornerà su questa sfida mancata alla fine della Vita Nova per risolverla e
“puro e disposto a salire a le stelle”. Poesia dell’Ineffabile = poesia della Gloria di Dio.
Dante aveva in mente tutto questo quando compose l’ultimo capitoletto della Vita Nova? Probabilmente no.
Le due opere si richiamano nel canto XXX.
All’inizio della Commedia c’è il Prologo, il primo canto dell’Inferno. È un canto zero, per comodità l’Inferno ne
ha XXXIV ma a parte il Prologo sono 33 l’Inferno, 33 il Purgatorio e 33 il Paradiso. Dante vede la luce e vorrebbe
raggiungerla. Tutta la storia della Commedia è un salire. Ci sono degli impedimenti, le tre fiere: la lonza
(allegoria della lussuria, legata alla carnalità intrinseca dell’essere umano), il leone (allegoria della superbia,
dei borghesi) e la lupa (allegoria dell’avarizia, dei nobili). Questi sono in lui e nella società. Lui come prototipo
dei vizi del suo tempo e mondo, “Nostra” vita, non solo sua. Dante è smarrito e tace. Questo silenzio certifica
la sua indegnità: parlo se ne sono degno. La sua prima parola la pronuncia davanti all’apparizione di Virgilio.
Dante è al limite della morte spirituale: sta rotolando dal monte minacciato dalla Lupa ringhiante. A differenza
delle prime due che o stanno immobili (Lonza) o camminano lente (Leone), qui la fiera si slancia. La selva
oscura come luogo dove c’è silenzio perché luogo di indegni.

Questa è l’apparizione di Virgilio. Mentre rotola gli appare questa figura, Virgilio, un’anima dannata,
eternamente condannata all’esilio del Limbo. Figura resa fioca dal troppo silenzio. Per la prima volta Dante
pronuncia una parola: un grido, chiede aiuto, chiunque che tua sia, che tu sia un’ombra o altro. Virgilio fa
capire a Dante chi è utilizzando degli indizi. È rotto il silenzio, Dante ricomincia a parlare. In questo momento
la paura di Dante inizia lentamente a sciogliersi, inizia a trovare speranza. Virgilio è definito il “Bene” perché
gli permette nuovamente di parlare.

Inf. I, 55-69
E qual è quei che volontieri acquista, chi per lungo silenzio parea fioco.
e giugne ’l tempo che perder lo face, Quando vidi costui nel gran diserto,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; "Miserere di me", gridai a lui,
tal mi fece la bestia sanza pace, "qual che tu sii, od ombra od omo certo!".
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco Rispuosemi: "Non omo, omo già fui,
mi ripigneva là dove ’l sol tace. e li parenti miei furon lombardi,
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, mantoani per patrïa ambedui.
dinanzi a li occhi mi si fu offerto

Virgilio gli offre l’occasione di tornare degno di parlare, non solo, addirittura cantare l’ineffabile → gli rioffre
la sfida terza da cui era fuggito! Questa è l’unica via. La via per arrivare alla luce “convien” tendere ad altro
viaggio, attraverso il proprio Inferno e Purgatorio, è la via della redenzione. Dante si aggrappa a ciò, ma la
scelta di Dante non è ancora matura, è dettata dalla paura, non è ancora una conversione, una scelta del
bene. Dante è ancora a metà del quadro. In effetti dopo aver detto “sì” a Virgilio inizia a dubitare, anche di
Virgilio. Si chiede se Virgilio sia una buona guida o sia un pazzo, è legittimo fare poesia di qualcosa di così
grande?
Nel canto II Dante blocca il percorso e condivide con Virgilio, fortunatamente, questo suo dubbio, relativo alla
sensatezza di un percorso così folle, incredibile. Tale riflessione di Dante è su se stesso. Gli elenca due uomini
che prima di morire hanno visto l’altro mondo:
- Enea, che scende nell’Ade, qui cristianizzato, e nei campi elisi dove il padre di profetizza il futuro e gli
dà indicazioni per vincere e fondare Roma.
- San Paolo, in una lettera ai Corinzi, racconta del rapimento estatico in cui ha visitato il regno di Dio.
Dunque è degno?
Inf. II, 31-36
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono

Chi mi concede questo diritto? Non sono né Enea né San Paolo? In quel momento Dante non era neanche il
monumento che è oggi per noi Dante. Se vengo dietro di te, Virgilio, temo di essere folle. Dice a Virgilio che
lui e saggio e gli chiede di illuminarlo. Dante non si sente sicuro, non si sente così grande da andare nell’aldilà,
di scriverne. “Folle” = azioni che provocano Dio perché ne infrangono le leggi. Nel canto XXVI se ne parla↓
Inf. XXVI, 112-126
"O frati," dissi, "che per cento milia ma per seguir virtute e canoscenza".
perigli siete giunti a l’occidente, Li miei compagni fec’io sì aguti,
a questa tanto picciola vigilia con questa orazion picciola, al cammino,
d’i nostri sensi ch’è del rimanente che a pena poscia li avrei ritenuti;
non vogliate negar l’esperïenza, e volta nostra poppa nel mattino,
di retro al sol, del mondo sanza gente. de’ remi facemmo ali al folle volo,
Considerate la vostra semenza: sempre acquistando dal lato mancino.
fatti non foste a viver come bruti,

Tra i consiglieri fraudolenti c’è Ulisse, Virgilio lo persuade a raccontare la sua storia → da quanto sbarca a Itaca
alla sua morte. Ulisse divorato dal delirio di onniscenza è incapace di risiedere in qualsiasi luogo, vuole solo
viaggiare per conoscere, per dominare ogni aspetto della realtà (esperto di ogni cosa). Allora saluta Penelope
e si scaraventa nel mare, fugge con la propria ciurma e si rimette in viaggio per rincorrere il Sole verso
Occidente. Allo stretto di Gibilterra, dove c’erano le Colonne d’Ercole a monito di un confine non superabile
per mano divina. Al di là, verso Sud, dopo l’Equatore, nell’emisfero Meridionale, coperto dall’oceano, c’era il
monte Purgatorio. Dunque quello era il confine tra il mondo dei vivi e dei morti. Ulisse non accetta tale limite
e deve convincere i suoi compagni a continuare l’impresa. Lo fa e li condanna alla dannazione eterna. Dante
ha paura di questa follia. Ulisse promette ai compagni l’onniscienza e l’onnipotenza, che è solo del Padre.
Questi si convinsero tanto che a mala pena Ulisse li trattiene. “de’ remi facemmo ali al folle volo”: sfida
blasfema → pensa di meritare ciò che non merita.
Come alla fine della Vita Nova, Dante dubita di meritare un bene tanto grande. Per convincerlo che questo
viaggio non è pericoloso (entrare per non uscirne perché Dio arrabbiato che è entrato guidato dal folle
Virginio), Virgilio lo rassicura↓

Inf. II, 49-54


Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

→ Virginio per rassicurarlo gli dice che sono state tre anime del Paradiso a mandarlo, quindi Dio. Gli racconta
qui che gli comparve un’anima bella, appena la vide desiderò fare ciò che lei avrebbe chiesto. Amore cortese:
bellezza ispira desiderio di servizio. Poi narra come Beatrice si palesa, dice che lei è stata illuminata da Lucia,
a sua volta illuminata da Maria. Tutto in un istante, nel Paradiso non esiste il tempo. Allora Dante si convince
che questo viaggio è legittimo. Dante ha preteso che Virgilio gli giustificasse la legittimità dell’impresa a cui è
stato chiamato. È un’impresa mossa da Beatrice, dunque l’amore di Dio.

Inf. II, 67-72


Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
→ Sono le parole di Beatrice per Virgilio, per inviarlo in soccorso di Dante. Ci sono molti verbi di movimento!
Tutta una costruzione che comunica un’idea del movimento che è parafrasi dell’idea dell’amore platonico
(“l’amor che muove il Sole e l’altre stelle”, ultimo verso del Paradiso). Colorare il discorso per convincere, la
parola di Virginio è questo. Beatrice dice che deve farlo perché è un’impresa piena dell’amore di Dio.
A questo punto Dante riacquista coraggio, come quei fiorellini che si chiudono di notte e di giorno ritrovano
il coraggio di aprire i petali. Il dubbio non è del tutto sciolto, è il primo passo di un cammino molto lungo.
All’interno di questi tre canti c’è un altro percorso che ha a che fare con la prima categoria di peccatori che
incontriamo fuori dall’Inferno, gli Ignavi (“pusillanimi” per secoli). Sono nell’Antinferno, non è di minor orrore,
ma che per la sua collocazione fuori l’Inferno vuole sottolineare una ancora più grande infamia. Essi sono così
sgradevoli che neanche i diavoli si compiacerebbero di torturarli. Loro che non hanno mai scelto condannati
a correre nudi dietro ad una bandiera bianca tormentati da insetti che li macchiano di sangue, piangono con
sangue, per terra cade ciò dove ci sono i vermi. Corrono nudi senza insegne sulla bandiera, non hanno mai
aderito a nulla. I mosconi li inseguono così come in vita non furono mossi da nulla a scegliere. Virgilio gli dice
come comportarsi verso queste anime.

Inf. III, 49-51


Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa

Gli dice di ignorarli, di non far trasparire loro il minimo di attenzione, perché non la meritano. Non hanno mai
fatto nulla, la giustizia di Dio li disdegna. Misericordia (accoglie tutti quelli che si pentono) e giustizia
(distribuisce meriti) sono gli attributi tipici del mondo. Virgilio gli dice di passare oltre. Gli ignavi sono
pusillanimi, hanno ridotto la propria esistenza e sopravvivenza biologica, senza senso per la propria esistenza.
Non hanno considerato mai i parametri di bene e male. Nel Convivio di Dante riflette sulla pusillanimità ↓
Convivio I xi 18-20
sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno
che non è. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la
quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li
altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l'uomo misura se
medesimo, misura le sue cose, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono,
e l'altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai

Il pusillanime si ritiene sempre meno di ciò che è, si considera meno. Non è umile (l’umiltà è virtù), il
pusillanime usa come scusa la propria debolezza per non fare ciò che è giusto. Trova la scusa che gli altri sono
in grado di fare meglio di lui. Si rifugia dietro tale scusa per non doversi assumere la responsabilità di scelte
di giustizia e bene. In tal senso mente a se stesso, considerandosi meno di quello che è, disconosce l’immagine
divina che è in sé. Fiorenzo Forti, critico dantesco, commentando la pena degli ignavi, ha evocato la Visio Pauli
(= Apocalisse di Paolo), un testo letterario medioevale che a sua volta si ricollega all’Apocalisse, in particolare
al capitolo III di questa. Cita i versetti XV e XVI.
Apc 3, 15-18
scio opera tua quia neque frigidus es neque calidus utinam frigidus esses aut calidus / sed quia tepidus es
et nec frigidus nec calidus incipiam te evomere ex ore meo quia dicis quod dives sum et locupletatus et
nullius egeo et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et caecus et nudus / suadeo tibi emere a me
aurum ignitum probatum ut locuples fias et vestimentis albis induaris et non appareat confusio nuditatis
tuae et collyrio inungue oculos tuos ut videas
[Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido,
non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito;
non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio
di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la
vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista].

Qui concepisce la colpa degli ignavi come di chi non sceglie, non è né carne né pesce, né tiepido né caldo,
dunque merita di essere vomitato dalla bocca (dell’Inferno). Il 17 e 18 versetti suggeriscono che Dante avesse
in mente questo brano perché dante dice che: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma
non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro
purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e
collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” → Nella fantasia la pena degli ignavi richiama un po’ tutte
queste immagini. Un povero cieco e nudo, un infelice, proprio come immagina gli ignavi. L’oro purificato è
l’oro raffinato, ma come? Si raffinava nel crogiolo, che si scaldava divenendo incandescente e come l’oro ha
una temperatura di fusione più bassa degli altri metalli, si scioglieva e veniva giù. Tipicamente l’idea di crogiolo
assume nell’allegoria dei poeti la via di chi è giusto, la via per colui che si assume la responsabilità di fare
scelte difficili. Chi non passa nel crogiolo non è purificato. La via per guadagnarsi le vesti bianche è quella di
accettare gli oneri delle scelte difficili. Tu ti credi ricco ma sei povero.
Il contrappasso degli ignavi descritto da Dante↓
Inf. III, 34-36, 46-48, 61-69
Ed elli a me: "Questo misero modo che questa era la setta d’i cattivi,
tegnon l’anime triste di coloro a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
(...) erano ignudi e stimolati molto
Questi non hanno speranza di morte, da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
e la lor cieca vita è tanto bassa, Elle rigavan lor di sangue il volto,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte. che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
(...) da fastidiosi vermi era ricolto.
Incontanente intesi e certo fui

Parte della Genesi, capitolo XVII Abramo riceve nota da Dio della sua fecondità. Nonostante sia vecchio ci
crede, compie un atto di fede nella forza di colui che può agire. Riceve un premio nel capitolo XVIII: gli
appaiono tre persone→ L’imago Trinitatis↓
Gn 18, 1-5
apparuit autem ei Dominus in convalle Mambre sedenti in ostio tabernaculi sui in ipso fervore diei / cumque
elevasset oculos apparuerunt ei tres viri stantes propter eum quos cum vidisset cucurrit in occursum eorum
de ostio tabernaculi et adoravit in terra / et dixit Domine si inveni gratiam in oculis tuis ne transeas servum
tuum / sed adferam pauxillum aquae et lavate pedes vestros et requiescite sub arbore / ponam buccellam
panis et confortate cor vestrum postea transibitis idcirco enim declinastis ad servum vestrum qui dixerunt
fac ut locutus es
[Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più
calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse
loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia
ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' di acqua, lavatevi i
piedi e accomodatevi sotto l'albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il
cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli
dissero: «Fa' pure come hai detto»].

Tale brano è incardinato intorno a questa implorazione di Abramo. Tale immagine viene ripresa e rovesciata
nella Commedia. Virgilio gli dice di andare avanti, di fronte agli ignavi che non hanno creduto di poter fare il
bene. I pusillanimi non hanno creduto di fare cose grandi davanti all’immagine divina che è la stessa colpa di
Dante! Quella che stava sperimentando alla fine della Vita Nova e qui all’inizio della Commedia.
Teologicamente il Male = assenza di Bene ↓

Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, dist. 46, q. 1, art. 3.


malum non est pars universi, quia neque habet naturam substantiae neque accidentis, sed privationis tantum
[il male non è parte dell’universo, poiché non ha natura di sostanza né di accidente, ma soltanto di
privazione][i]

Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 71, n. 10.
Non enim esset malum sublato ordine boni, cuius privatio est malum
[il male infatti non ci sarebbe, se non esistesse l’ordine del bene, la cui privazione costituisce il male]

Dante è incappato in questo genere di peccato. Nel canto XXX del Purgatorio si palesa Beatrice, nel Paradiso
Terrestre (non Divino!), che gli compare in contemporanea alla scomparsa di Virgilio. C’è un momento di
sconvolgimento di Dante, non lo ha neanche salutato! Non c’è neanche un momento in cui le due guide si
incrociano: scomparso l’uno (la ragione) compare l’altra (la fede). Le due cose non possono incontrarsi. È
sconvolto come all’apparizione di Beatrice nella Vita Nova. Poi inizia a riconoscere l’antica fiamma, “Conosco
i segno dell’antica fiamma” (citazione di Virgilio nell’Eneide, è un modo gentile di omaggiare Virgilio, lo saluta
da poeta a poeta citandolo). Comprende che la donna è la sua nuova vita e pensa di essere accolto
festosamente. Invece no! Beatrice gli si pone con fermezza, Dante è costernato. Aveva cancellato i peccati,
ma c’è ancora, dietro a questi peccati emendati, la sorgente: la sua incapacità di sentirsi degno di amare
Beatrice oltre i confini della vita, ossia avere la fede di poter dire cose grandi (poesia dell’ineffabile, dell’amore
puro). Allora Beatrice lo respinge! Beatrice gli dice che solo le persone felici, ossia serene, possono stare lì.
Poi, sentendo il canto degli angeli, Dante si scioglie in lacrime. Beatrice sgrida gli angeli, ossia Dante stesso↓

questi fu tal ne la sua vita nova


virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Purg. XXX, 115-132
Dio ti ha creato in grado di compiere cose grandi, ma tanto più si corrompe il buon seme tanto più quanto era
buono in origine. Rilettura matura di Dante. Per un po’ Beatrice lo sostenne con gli occhi da giovane, in vita,
ma dopo lui la dimenticò e si concedette ad altre donne. Non sono le parole della gelosia, ma teologiche. La
colpa di Dante è non essersi creduto più degno. Beatrice dice che quando ella morì da lui non fu più gradita.
Non è solo una sfida di tipo estetico la sua, anche se essendo un poeta investe anche in ciò. C’è un sottointeso
etico, la poesia della bellezza è il luogo in cui interrogarsi su quanto questa bellezza sia già degna della sfida.

QUARTA LEZIONE
2 maggio → Carlo Ossola verrà a parlarci del valore, senso della letteratura e il suo valore formativo. Ci parla
di Pinocchio, testo noto e contestualmente misconosciuto. La gente lo fraintende, vedendovi una favoletta,
mentre è un testo complesso che attinge a diversi generi. La destinazione fu da subito per i piccoli però ci
sono vari generi (horror, gotico, grottesco). Il primo finale addirittura era con Pinocchio impiccato all’albero,
però suo figlio ci era rimasto male allora lo cambia. Questo romanzo attinge anche ai generi antichi, come la
metamorfosi di Apuleio. Due piani: la favoletta ed uno più problematico (il senso della letteratura del percorso
formativo di ogni essere umano). Ossola verrà a parlarci di questo.
8 maggio →Brovia → Insegna a Torino, leader di Petrarca, ci parlerà di come questi interpreti la letteratura
come medicina dell’anima.
9 maggio → Vivian Lamarque → voce poetica contemporanea.
17 maggio → Francesca Parmigiani ci parlerà di Alda Merini
22 maggio → Andrea Temporelli, raccolta L’amore e tutto il resto.
Tutto lungo il filo rosso di CHE SENSO HA L’ATTO LETTERARIO?
La parola poetica come luogo dove esercitare il coraggio: Dante → ho il coraggio di parlare della bellezza,
della purezza, del Bene = a chiedersi quanto sia possibile ad un essere umano l’impossibile. Dante predica la
risposta che l’atto di coraggio consiste in questo, nell’essere proprio per sublimarsi in ciò che è più grande. Lui
si sublima attraverso la parola etico-esistenziale.

GIOVANNI BOCCACCIO
Padre anche lui della nostra letteratura. Che riflessione fa circa il potere della parola? Molti se la sono posta
in quanto hanno scommesso la loro esistenza proprio sulla parola. Anche lui non si esime da questa
riflessione. Boccaccio si discosta nella risposta da Dante, pur provenendo da un ambiente simile. È un alfiere
della fiorentinità, come Dante fiorentino costretto ad andar fuori dalle mura; lo fa per seguire il padre a Napoli,
per gestire una filiale. Tornerà a Firenze a seguito di una congiura, poi andrà di nuovo via, ecc..
A lungo considerato l’anti-Dante, la sua letteratura è stata considerata rovesciando la letteratura dantesca.
Responsabile di ciò è il critico Francesco de Santis che nell’800 impose l’interpretazione del Decamerone
come anti-Commedia di Dante (“parodia della commedia”) → La Commedia di Dante proiettata verso la città
di Dio, il Decamerone verso la città degli uomini, utilizzando la metafora di Sant’Agostino. A distanza di 150
anni ancora vero ciò nonostante la critica abbia mitigato questa interpretazione. Laico-giudaico-naturalista
(B.) versus trascendenza (D.). Non è così però ci sono delle differenze.
Boccaccio era un devotissimo ammiratore di Dante Alighieri, forse a lui si deve l’aggettivo “divina” commedia.
Se Dante vede nella parola il luogo in cui si esprime la nostra relazione con l’assoluto, è una parola che si
carica di tradurre l’ineffabile. Per B la parola è un potentissimo strumento che ha come fine l’esprimere e
raccontare non l’assoluto, ma la relatività delle molteplici situazioni umane, con tutta la loro imperfezione e
limitatezza. Non disconosce il trascendente, ma dice che la parola può raccontare la città degli uomini, lontana
dall’assoluto. Ma non è amorale la letteratura di B!! È moralista nel Decamerone, censura tutti gli
atteggiamenti di crudeltà e violenza, mentre celebra invece gli atti della compassione, la più grande delle
virtù. È una moralità orizzontale e la parola esprime ciò.
Il D si ambienta tra il 1348 e il 1353, la cui cornice è la grande pestilenza. Il D arriva quando l’autore è maturo,
ha già fatto molti esperimenti letterari (periodo napoletano, fiorentino e così via). In questa opera B si diverte
a confezionare 101 novelle, in una cornice e supercornice intorno alla cornice appropriandosi di una struttura
narratologica già esistente (come le Mille e una notte), offrendoci una visione colorata del mondo.
Mischia storie di eroismo, nobiltà a storie più leggere. L’importante è il potere e la forza delle parole. Ogni
giornata è un tema. La sesta è proprio dedicata al potere straordinario delle parole, è quella dei motti di
spirito. Le 10 novelle raccontano storie in cui la situazione si ingarbuglia e dalla crisi si esce con l’ingegno della
parola, con una frase efficace che cava dagli impicci. Questa tradizione dei motti di spirito non è un’invenzione
di B, è della letteratura del XIV secolo, cortigiana, sulle facezie, battute e delle conversazioni brillanti. Nelle
corti i cortigiani trascorrevano la giornata a far nulla, dunque bisognava combattere la noia con la buona
conversazione con altri cortigiani sagaci, con bel repertorio di storia. Allora vi era l’arte del conversare
spiritoso. In questa tradizione si inserisce questa sesta giornata. Ma non solo, è qualcosa di più. B mette a
nudo la convinzione che le parole abbiano un potere straordinario e terribile. Le parole possono procurare
vita e morte, salvezza e dannazione. Sono pericolose, bisogna essere consapevoli della loro forza.

La DECIMA NOVELLA è quella di Frate Cipolla, è un millantatore di falsi miracoli, sfruttando la creduloneria
dei poveri si arricchisce a loro spese. Questo genere di imbroglioni dicono di avere reliquie miracolose che tali
ovviamente non sono. Tale Frate arriva nel paese pronto a spellare i poveri del luogo illustrando le reliquie
che ha, chiedendo in cambio fior di elemosine. Tra questi popolani c’è chi lo conosce e lo smaschera
organizzandogli una beffa. Cipolla anticipa che avrebbe mostrato a tutti una reliquia straordinaria, ossia le
penne dell’Arcangelo Gabriele. Mentre Cipolla è occupato questi due, raggirandone il servitore, gli
sottraggono le penne (in realtà di pappagallo) e le sostituiscono con carboni spenti. Chiudono il baule.
Volevano fargli fare brutta figura, non c’è un’intenzione morale, è ludica. Frate Cipolla è abilissimo artigiano
della parola quindi quando apre il baule e vede i carboni non si demoralizza. Si arrabbia dentro, vede gli occhi
delle due vecchie conoscenze tra la folla e quindi intuisce anche chi abbia voluto fargli questo scherzo. Ma a
quel punto improvvisa una nuova storia, che è questa qui sotto↓
Decameron, VI, 10 novella
Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle
parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i
privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto piú utili sono ad altrui che a noi; per la
qual cosa, messomi io in cammino, di Vinegia partendomi ed andandomene per lo Borgo de’ greci e di quindi per lo
reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in
Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il Braccio di san Giorgio, in
Truffia ed in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli, e di quindi pervenni in Terra di menzogna, dove molti de’
nostri frati e d’altre religioni trovai assai (...); e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in
zoccoli su pe’ monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime, e poco piú lá trovai gente che portano il pan
nelle mazze ed il vin nelle sacca, da’ quali alle montagne de’ baschi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiú.
Ed in brieve tanto andai addentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, lá dove io vi giuro per l’abito che io
porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti: ma di ciò non mi lasci mentire
Maso del Saggio, il quale gran mercatante io trovai lá, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio. (...). Il
venerabile padre messer Non-mi-blasmate-se-voi piace, degnissimo patriarca di Ierusalem, (...)
primieramente mi mostrò il dito dello Spirito santo cosí intero e saldo come fu mai, ed il ciuffetto del serafino che
apparve a san Francesco, ed una dell’unghie de’ gherubini, ed una delle coste del Verbum-carofátti-alle-finestre, e de’
vestimenti della santa fé catolica, ed alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, ed un’ampolla
del sudore di san Michele quando combattè col diavolo, e la mascella della morte di san Lazzero ed altre. E per ciò che
io liberamente gli feci copia delle piagge di Montemorello in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio li quali egli
lungamente era andato cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi un de’ denti della santa
croce ed in un’ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salamone e la penna dell’agnol Gabriello,
della quale giá detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna, il quale io, non ha molto, a Firenze donai
a Gherardo de’ Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione: e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire
san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, ed holle tutte. (...) Non reputo che
stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontá sia stata di Dio e che egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse
nelle mie mani, ricordandomi io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì: e per ciò, volendo Iddio che
io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete,
non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor di quel santissimo corpo mi fe’ pigliare. E per ciò,
figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate
che chiunque da questi carboni in segno di croce è tócco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerá che
non si senta.
→ La geografia che si sta definendo è insensata. La Sardegna, Venezia, una città della Grecia, tutto
sconclusionato. Sono nomi di vie della Firenze del tempo allineabili!!!! Così spiega dove nasce il Sole,
nell’oriente misterioso. Al di là dei toponimi che già si coglie siano strani, si prende gioco dell’evidente
inferiorità culturale di chi è dinanzi a lui. Tale figura retorica è il mendacium: menzogna che è un’affermazione
veritiera detta in modo e contesto tale da farsi equivocare. Dice che in Abruzzo le donne e gli uomini vanno
in montagna con gli zoccoli, che rivestono i salami con le loro budella (tutte cose normalissime), ma lo dice in
modo che sembrino straordinarie → autoinganno indotto. Il vino nelle sacche, le acque che scorrono verso il
basso→ stessa cosa! L’incontro straordinario dove mette mano a queste straordinarie reliquie, come il dito
dello spirito santo (ma non ha dito!!), il ciuffetto dell’angelo serafino che parla a San Francesco→ La Verna,
1224, Francesco riceve l’stigmate dopo l’apparizione di un serafino con sei ali. Ne resta accecato e si risveglia
con l’stigmate e frate Cipolla dice di avere un ciuffetto delle ali questo cherubino. Lui ne fa una canzonetta
giullaresca di questi oggetti sacri. Caro (Verbum caro factum est et habitav in nobis = il verbo si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi, da estratto liturgico, sacro) viene traslato (Verbum-carofátti-alle-finestre,
canzonetta giullaresca). È tutto un pasticcio, un ascoltatore appena accorto potrebbe scoprirlo ma prevale il
suo modo di usare la parola.
Cipolla riceve anche uno dei chiodi della santa croce, un’ampolletta con un rintocco delle campane del tempio
di Salomone, anche un po’ dei carboni spenti con i quali fu arrostito San Lorenzo, martinizzato ardendolo vivo
su carboni ardenti. Siamo arrivati al dunque, si è inventato una spiegazione! Sono carboni, ma quelli su cui
carbonizzato un Santo!! Non gli pare errore, è addirittura Dio che lo ha voluto, gli ha posto nelle mani la
cassetta con i carboni ardenti! Chi li tocca dice che può vivere sicuro che qualsiasi fuoco che non bruci non li
brucerà, ovviamente. Due giorni dopo (era l’8 agosto) era la festa di San Lorenzo, dice che era anche per
questo. I due si complimentano, dicendogli che è stato bravo, gli stringono la mano.
Il potere della parola: inventarsi delle verità che non sono tali e non lo sono mai state. Discorso portato dai
Sofisti, Gorgia parla del potere terrificante delle parole! Qui si parla proprio di ciò.

Decameron VI, novella 9


Dovete adunque sapere che ne’ tempi passati furono nella nostra cittá assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi
niuna ve n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate; tra le
quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano
lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, ed oggi
l’uno, doman l’altro, e cosí per ordine, tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata, ed in quella spesse
volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, ed ancora de’ cittadini: e similmente si vestivano
insieme almeno una volta l’anno, ed insieme i dí piú notabili cavalcavano per la cittá, e talora armeggiavano, e
massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella cittá. Tra le
quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto ed i compagni s’erano molto ingegnati
di tirare Guido di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza cagione, per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’
miglior loici che avesse il mondo, ed ottimo filosofo naturale, delle quali cose poco la brigata curava, si fu egli
leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto, ed ogni cosa che far volle ed a gentile uom pertenente seppe meglio
che altro uom fare: e con questo era ricchissimo, ed a chiedere a lingua, sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che
il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse
per ciò che Guido alcuna volta, speculando, molto astratto dagli uomini divenia: e per ciò che egli alquanto tenea
dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar
si potesse che Iddio non fosse. Ora, avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene
per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino; essendo arche grandi di
marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del
porfido che vi sono, e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era; messer Betto con sua brigata a caval
venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido lá tra quelle sepolture, dissero: — Andiamo a dargli
briga. — E spronati i cavalli, a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se n’avvedesse, sopra,
e cominciarongli a dire: — Guido, tu rifiuti d’esser di nostra brigata: ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non
sia, che avrai fatto? — A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: — Signori, voi mi potete dire a
casa vostra ciò che vi piace. — E posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sí come colui che
leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò. Costoro rimaser tutti
guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva
a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a fare piú che tutti gli altri cittadini, né Guido
meno che alcun di loro. Alli quali messer Betto rivolto, disse: — Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso: egli
ci ha onestamente ed in poche parole detta la maggior villania del mondo, per ciò che, se voi riguarderete bene, queste
arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che son nostra casa,
a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non letterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati,
peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra. — Allora ciascuno intese quello che Guido
aveva voluto dire, e vergognossi, né mai piú gli diedero briga: e tennero per innanzi messer Betto sottile ed intendente
cavaliere.
Novella appartenente alla stessa giornata di quella di fra Cipolla. Guido Cavalcanti, personaggio noto e amico
di Dante Alighieri, anche suo maestro. Aveva fama di essere un filosofo ombroso, incline alla solitudine,
saturnino, amante della solitudine pensierosa. In tale novella appare proprio come defilato. Mentre nella città
imperversa una compagnia di coetanei che sono di altra inclinazione, amano ridere. Lo incrociano e ridono di
lui, un poveretto che non sa ridere. Finché non decidono di provocarlo. Prendono di mira Cavalcanti e lo
punzecchiano. Una delle leggende era che lui fosse un filoso incline alla miscredenza e che volesse speculare
intorno alla non esistenza di Dio. Questi ragazzi gli dicono: “piuttosto vieni con noi a divertiti!”. Lui risponde
loro che loro, lì dove sono, sono a casa loro e che quindi possono dire ciò che vogliono, mentre lui lì è solo
ospite. Si girano è vedono il cimitero e capiscano: essendo che si rifiutano di pensare allora sono già morti,
questo è ciò che Cavalcanti voleva insinuare. Uno di loro allora comprende e spiega agli altri: “gli smemorati
siamo noi, ci ha detto una villania. Noi e altri, uomini non letterati, siamo per loro (i letterati) peggio che
morti”. Non siamo più in contesto ludico e spiritoso! → il D non solo come raccolta di storielle.
Guido ha vinto la gara dialettica ed ha avuto anche l’effetto di neutralizzare questa provocazione, aggressione,
senza alzare un dito, solo con il suono delle sue parole.

Giorgio Squarotti, critico letterario. Faremo riferimento ad alcuni suoi saggi in cui egli analizza alcune novelle
del D. Tra queste l’ultima dell’ultima giornata, la NOVELLA DI GRISELDA.
→ B conclude eroicamente l’intera raccolta, testimonianza che il tono dell’opera non è solo ludica. Ha a che
fare con storia di Gualtieri, marchese di Saluzzo. Indotto dai compagni di corte a convolare a nozze, per
procreare a nuova stirpe. Lui posticipava questo momento ma lo sollecitano così tanto che alla fine decide di
accontentarli ma con la condizione che solo lui avrebbe potuto scegliere chi sposare, senza che nessuno
potesse dir nulla. Lui allora sceglie provocatoriamente l’ultima delle spose ritenuta conveniente per loro:
Griselda, figlia di contadini. Bella ma povera, insomma l’ultima che a corte volevano. Lo fa per ripicca. La va a
prelevare, aveva preso accordi col padre. Griselda non ne viene neanche informata. Il marchese le ordina di
spogliarsi e rivestirsi di nobili vesti per convolare a nozze. Nonostante le premesse, a corte le cose vanno
molto bene! Griselda si dimostra di grazia intellettuale, si comporta in modo impeccabile. Tutti prendono a
volerle bene, Gualtieri si compiace di ciò. Arriva anche una figlia, ma proprio in occasione della festa per la
nascitura, Gualtieri pensa che forse valeva la pena mettere alla prova Griselda per vedere se fosse davvero
così docile, gentile e così via. Vuole essere sicuro che ella meriti di essere al suo fianco. Fornisce una prova di
folle crudeltà: le mente dicendole che tutti sono disgustati da lei perché la considerano incapace in tutto.
Griselda pazientemente accetta tutte le critiche, non reagisce, progredisce per la sua strada. Gualtieri allora
fa ancora di più: le dice che manda la figlia a morte perché non vuole figli da lei (invece la manda a Bologna
da sua sorella). Ancora Griselda non reagisce. Gualtieri insiste, nato il figlio maschio le dice che manderà a
morte pure lui (manda anche lui a Bologna, quindi la madre sa che questi figli sono morti). Griselda non dice
nulla. Dopo 13 anni ancora però non è convinto: le dice che ha avuto la licenza del papa di sciogliere il
matrimonio per sposarsi con una nobile. La getta nuda per strada e Griselda torna dal padre. Lei ancora non
reagisce! Poi chiama la figlia fingendo che fosse la sua nuova moglie e invita Griselda al matrimonio, poi
inferisce ancora dicendole che deve inneggiarne la bellezza della sua nuova sposa. Griselda lo fa, fa anche
questo, allora l’uomo si convince che ha superato la prova definitivamente. Allora, solo allora, dice a Griselda
la verità e rimasero sposati per sempre. Sono elementi sovrannaturali, inverosimili. Griselda ha la pazienza di
Giobbe.
Giorgio Squarotti individua i modelli di Griselda:
ELEMENTI FIABESCHI: ELEMENTI AGIOGRAFICI:

*l’eroe/eroina *la chiamata incomprensibile (il santo non sceglie di


esserlo, spesso tenta di fuggire addirittura, il santo
*la magica investitura rituale
non vuole essere santo, anche Francesco D’Assisi
*le duplicazioni le triplicazioni non voleva essere chiamato “Santo”)
*le prove, l’allontanamento e il ripudio dell’eroe *il denudamento e la nuova vestizione (santo passa
*il travestimento dell’eroe attraverso il deserto/la nudità e si veste di vesti
nuove)
*il falso eroe e il suo smascheramento
*l’obbedienza fino al sacrificio dei figli (modello di
*la resurrezione Abramo, che deve sacrificare Isacco; Abramo si
*l’agnizione e la festa finale considerava sterile invece gli nasce Isacco e Dio gli
chiede di sacrificarlo)
*l’assolutezza dell’umile dedizione

È una novella dai toni forti, radicali, sovraumani, ma interamente giocata sulla parola. Tutto ciò che avviene è
attraverso degli atti di parola. È con le parole che Gualtieri crea le menzogne in cui crede di vivere Griselda ed
è con le parole che ella lo smonta. Fa crollare il castello delle parole menzognere di Gualtieri. È una novella
che celebra la potenza assoluta della parola.
Così come la novella settima.

SETTIMA NOVELLA
Alatiel è figlia del sultano di Babilonia. Principessa, bella, destinata in sposa al re del Marocco (Garbo). Deve
compiere un viaggio in nave, ma c’è un naufragio. Sopravvive ma viene rapita. Passerà di mano in mano a 9
uomini, visitando diverse località. Si trova nella condizione di essere oggettificata. Diviene amante di questi
uomini di cui non parla la lingua, non può comunicare con loro se non con gesti ed eros. È in una condizione
di minorità e trova l’uscita di trovare nell’esperienza di questo eros imposto l’innocenza di chi non ha colpa.
Dunque in tale consapevolezza della propria innocenza trova la forza di resistere. Il fatto che non possa parlare
è di notevole gravità, non può sublimare secondo l’ideologia cortese in qualcosa di sublime l’eros. Fortuna
vuole che ad un certo punto incappa in un servo del padre. Questo servo la riporta dal padre. Questi vuole
sapere cosa sia successo, vuole sapere se può essere data in sposa (verginità). Alatiel racconta cosa le è
accaduto in questo discorso.
L’orazione di di Alatiel (Dec, II,7)
Padre mio, forse il ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave, sdruscita, percosse
a certe piagge lá in Ponente, vicine d’un luogo chiamato Aguamorta, una notte, e che degli uomini che sopra la nostra
nave erano, si fosse, io nol so né seppi giá mai: di tanto mi ricorda che, venuto il giorno ed io quasi di morte a vita
risurgendo, essendo giá la straccata nave da’ paesani veduta, ed essi a rubar quella di tutta la contrada corsi, io con
due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, ed incontanente da’ giovani prese, chi qua con una e chi lá con
un’altra cominciarono a fuggire. Che di loro si fosse, io nol seppi mai: ma avendo me contrastante due giovani presa
e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre forte, avvenne che, passando costoro che mi tiravano una strada per
entrare in un grandissimo bosco, quattro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo, li quali come quegli che
mi tiravano videro, cosí lasciatami, prestamente presero a fuggire. Li quattro uomini, li quali nel sembiante assai
autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io era e molto mi domandarono, ed io dissi molto, ma né da loro fui
intesa né io loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra un de’ lor cavalli, mi menarono ad un monistero di
donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che che essi dicessero, io fui da tutte benignissimamente ricevuta ed
onorata sempre, e con gran divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci-in-Valcava, a cui le femine di quel
paese voglion molto bene. Ma poi che per alquanto tempo con loro dimorata fui, e giá alquanta avendo della loro
lingua apparata, domandandomi esse chi io fossi e donde, ed io conoscendo lá dove io era e temendo, se il vero dicessi,
non fossi da lor cacciata sí come nemica della lor legge, risposi che io era figliuola d’un gran gentile uomo di Cipri, il
quale mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e rotti. Ed assai volte in assai cose, per tema
di peggio, servai i lor costumi; e domandata dalla maggiore di quelle donne, la quale esse appelian «badessa», se in
Cipri tornare me ne volessi, risposi che niuna cosa tanto disiderava: ma essa, tenera del mio onore, mai ad alcuna
persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di
Francia con le loro donne, de’ quali alcun parente v’era della badessa, e sentendo essa che in Ierusalem andavano a
visitare il sepolcro dove colui cui tengon per Iddio fu sepellito poi che da’ giudei fu ucciso, a loro mi raccomandò, e
pregògli che in Cipri a mio padre mi dovessero presentare. Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente
mi ricevessero insieme con le lor donne, lunga istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo piú
giorni pervenimmo a Baffa: e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendomi né sappiendo che dovermi dire
a’ gentili uomini che a mio padre mi volean presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna,
m’apparecchiò Iddio, al quale forse di me incresceva, sopra il lito Antigono in quella ora che noi a Baffa smontavamo;
il quale io prestamente chiamai, ed in nostra lingua, per non essere da’ gentili uomini né dalle donne intesa, gli dissi
che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente m’intese, e fattami la festa grande, quegli gentili uomini e quelle
donne secondo la sua povera possibilitá onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello onore mi ricevette e qui
a voi m’ha rimandata che mai per me raccontare non si potrebbe.

→ Ella dice la verità, parla della propria innocenza. Se avesse raccontato il vero sarebbe stata infangata,
misconosciuta, ritenuta indegna, ma questa non è la verità. Ella è pura e innocente come il giorno in cui è
partita. Anche se queste sono parole inventate sono la verità e convincono. Viene inviata al re del Marocco e
la loro vita è di felicità. Alatiel ha taciuto sino a quel momento, quando riprende la parola riprende la sua
dignità e usa le parole per dire la verità e dichiarare al mondo la sua innocenza.
Altro esempio in cui si canta la forza delle parole, la loro capacità di fare tutto e il contrario. Come in Frate
Cipolla. Di smontare persino l’aggressività (Cavalcanti), di smontare la persecuzione (Griselda) e di dire la
verità come Alatiel.
In tante novelle ritorna questo motivo, la forza delle parole. Non parole capaci dell’assoluto, ma quel faticoso
esercizio della vita degli uomini, parole legate alla relatività dei casi umani. Tale riflessione sul potere delle
parole di regolare vita caotica dell’essere umano emerge anche nel finale del Decameron di Boccaccio. Esso
è costruita con struttura a scatole cinesi: supercornice (proemio e conclusione), una cornice (storia che
incapsula le 101 novelle) e le 101 novelle divise in 10 giornate, separate l’uno all’altra da epilogo e conclusione
che appartengono alla cornice. Con infrazioni. Boccaccio infatti, all’inizio della quarta giornata, si difende e
racconta la NOVELLA DELLE PAPERE (con cui si arriva a 101) in cui spiega l’ineluttabilità del tema dell’amore.
Lo fa perché viene accusato di parlare dell’amore, tema superficiale, di parlarne troppo. In questa novella il
padre fa vivere il figlio in un bosco per farlo crescere senza donne. Questo figlio però vede un gruppo di uomini
e donne. Il padre gli dice che sono papere le donne, allora il figlio gli chiede se può portarne a casa una. Il
padre allora capisce che è inutile e gli fa vivere la sua vita.
Questa struttura porta un ultimo tassello sul potere della parola. Viene dalla peste del 1348, che fu
un’Apocalisse, una devastazione che ammazza 1/3 della popolazione europea. Molti la interpretarono come
una condanna degli atti umani. Fu un evento di disgregazione sociale → non se ne sapeva la forma di contagio,
la cura ecc.. Si disgregano le organizzazioni sociali in tale contesto. Quindi sembra la fine di tutto, della società
degli uomini. Persino tra genitori e figli ci si guarda con terrore, si lasciano morire i cari. È una situazione di
apocalisse, devastazione, disgregazione dell’umanità. 10 giovani decidono di fuggire (7 uomini e 3 donne). Se
ne vanno fuori Firenze per proteggersi dal morbo e per ricostruire il mondo che è andato perduto, per
restituire umanità, per ricostruire il tessuto umano. Come? Attraverso la parola. Nominano una re/regina del
giorno che decideva un tema a cui si sarebbero ispirate le storie di ognuno. Tale ricreare la città degli uomini
per rimediare ai danni della morte attraverso la parola. Come Sherazade che per fuggire alla morte inizia a
narrare le Mille e una notte. È l’idea della parola come antidoto alla morte, c’era già.
Decameron = dieci giorni.
Evoca l’Hexaemeron, da Basilio ad Ambrogio VI, IX, 10, 75
Ma ormai è tempo di porre fine al nostro discorso, perché è finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo
con la formazione di quel capolavoro ch'è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il
culmine e la suprema bellezza d'ogni essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, poiché il
Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella sua mente e nel suo
pensiero; infatti, aveva creato l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie
celesti. In queste sue doti, riposa Iddio che ha detto: O su chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie
parole
→ Commento esegetico sulla Genesi, libro della creazione, ove ripercorre i giorni della creazione e si sofferma
sul fatto che la creazione avviene attraverso un atto di parole di Dio, “Luce fu” attraverso la parola stessa. I
dieci giovani si fanno il loro Decameron ricreando con le parole ciò che è andato distrutto per mano della
peste. Le parole possono ricreare la molteplicità dei casi umani dove c’è bellezza e bruttezza.
B è un celebratore della parola che non ambisce all’assoluto, ma a dare immagine alla relatività dei casi umani.

QUINTA LEZIONE
Carlo Ossola, PINOCCHIO: NON SOLO UN BURATTINO
Docente a Ginevra, Padova, Torino, Parigi, ha diretto diversi studi, direttore di riviste. Si occupa di Dante
Alighieri, di letteratura rinascimentale, barocca, letteratura Novecento, fino Italo Calvino.
Ragioni che spingono alla creazione letteraria, a cosa serve la letteratura.

La pluralità: ogni cosa che si presenta alla nostra attenzione ha diversi livelli di lettura, è sempre così. Se non
ci appare ciò qualcosa ci sta sfuggendo.
Possibili candidati a questa lezione: Manzoni, elemento identitario della cultura italiana, ricorre il 150esimo
anniversario. Italo Calvino, di cui è il centenario.

Giuseppe Prezzorini, Storia tascabile della letteratura italiana. Scrive in termini critici rispetto a De Santis.
Quest’ultimo ha scritto Storia della letteratura italiana. Prezzorini qui dice che se ci accontentiamo della
prospettiva di De Santis ci perdiamo qualcosa.
Ci sono due libri che sembrano riassumere lo spirito del popolo italiano: Pinocchio e Bertoldo (Giulio Cesare
Croce, fine 500). ← Bisogna coltivare l’individualità dei bimbi ma anche qualcosa che sia comune.
In Bertoldo, questi si inventa una ragione per non morire: un albero più piccolo della sua statura ove essere
impiccato. Come Sherazad che inventando storie non viene uccisa.
Anche Pinocchio è stato fatto per un’Italia appena riunita e come controcanto a Cuore. Il bambino birichino
che non ha voglia di studiare (orecchie di asino) vs storia di una classe dove il birichino viene punito ed
espulso. È una classe di buoni sentimenti.
Pinocchio fu scritto per pagare un debito di gioco, come Dostoevskij. Senza questi debiti di gioco non avremmo
molte opere d’arte. Bertoldo è pessimista, raffinato. Tutti e due scritti bene, così dice Prezzorini. Questa
letteratura per l’infanzia non è un elemento marginale che non si deve abbandonare quando si parla di cose
più serie. Questi libri, oltre che capolavori, sono fondativi, sono testi fondativi di una civiltà. Lo stesso Collodi
ha scritto un libro adottato, il Giannettino, manuale di geografia storica, giravano cartine con Borboni, le due
Sicilie, non aggiornate.
Altro libro, I racconti delle fate di Perrot, tradotto da Carlo Collodi. Biblioteca Adelphi. Percorso simile a quello
di Italo Calvino. Come Italo Calvino, si era reso conto che lasciava in tradizione qualcosa che si sarebbe
trasmesso non solo tra i letterati, la fiaba. Le favole sono un patrimonio che si sviluppa subito nell’Italia unita.
Es. Canti piemontesi racconti da Costantino Nigra. È un patrimonio che identifica una nazione. Quando Collodi
traduce Perrot sa che introduce in Italia questo patrimonio, comune a tutti, democratico.

Calvino comincia dopo la II Guerra Mondiale con l’elogio del Neorealismo, che doveva essere il miglior
interprete della Resistenza. Ma in una lettera a Maria Forti (nell’85 muore) le dice di non pubblicare il suo
romanzo perché non è quello che porta l’identità dell’Italia. In tale coscienza critica fa che ritornare alle fiabe.
Sia raccogliendo le fiabe italiane, che pubblica, sia divenendo egli stesso scrittore di una serie di fiabe costruite
eticamente (Cavaliere dimezzato, Il Barone Rampante, il Cavaliere Inesistente, Marcovaldo). Così facendo
poteva ricostruire il patrimonio di un’identità.
Calvino si arrabbiava per avere più chiarezza, ma tale chiarezza non si ha aggiungendo parole, si ha togliendo
l’inessenziale.
Non basta più un’identità nazionale. In certi quartieri molti bambini sono figli di persone non nate in Italia,
portatori di altre civiltà. Allora Calvino si dedica a proporre dei racconti che faranno parte delle Cosmicomiche,
le Città invisibili, le Meditazioni, fruibili a tutti.
Calvino è stato letto in superficie, in realtà aveva una coscienza etica profonda. La giornata di uno scrutatore
→ tutti i voti andavano a un solo partito, inizialmente era nel Partito socialista poi si toglie con invasione
sovietica in Ungheria. Si rende conto che le ideologie che promettono il Sol dell’avvenire, la felicità futura,
non sono in grado di farlo.
Pinocchio è costruito come un racconto di iniziazione. È un burattino birichino, mastro Ciliegia vende a
Geppetto questo pezzo di legno parlante. Gli compra il vestitino, Pinocchio vende l’abbecedario. Si brucia i
piedi sulla brace, scappa via, viene ingannato dal Gatto e dalla Volpe, ha tutte una serie di avventure, come
l’Asino d’oro di Apuleio. Sulla spiaggia battaglia con altri monelli. Poi divorato da un pescecane e nel ventre
trova Geppetto, che disperava di poterlo trovare. Qui, come Jona nel ventre della balena comincia il suo
percorso di saggezza. Si carica Geppetto e lo porta a riva. Da qui inizia la trasformazione da burattino a giovane
cittadino.

Tale fiaba che fiaba non è (Apuleio, Bibbia). Due protagonisti:


- Il burattino. Paul Hazare ha scritto La crisi della coscienza europea e si è occupato di Pinocchio perché
queste favole fanno parte della coscienza europea. Esse sono un patrimonio comune. Ha scritto I libri,
i bambini e gli uomini.
Noi abbiamo gli strumenti per preparare a qualcosa che verrà, ma non solo, anche al fine.
- Geppetto, diminutivo di Giuseppe. La responsabilità, la capacità di rispondere alle esigenze dell’altro.
Per l’Italia colui che ha rovesciato la prospettiva è stato De André, Per la buona novella, Il ricordo di
Giuseppe (sequenza). Qui De André scrive questa apologia di questa premura. Canzone di Leonard
Cohen, McCabe e Ms Miller opening scene. “ricordati che quando sono arrivato ho detto che sono
uno straniero” + “io conosco quel genere di uomo del quale è difficile tenere la mano, di colui che
non vuole accedere al cielo se non per arrendersi”→ no superomismo, ma bisogno di superare il
proprio limite. Cohen da famiglia ebraica, continuamente cercato una fede.
Il significato di Pinocchio è il significato di Geppetto: ricerca dello spazio grazie alle fiabe, ove tutti ci si sente
cittadini dello stesso mito, parola pronunciata in comune. Le nostre città diventino circoli ove ritrovare una
parola comune. Insegneremo a bambini i cui padri e madri si sentono come Cohen, stranieri.

Osservazioni…
Educare: porta fuori dal bambino ciò che ha.
Istruzione: porta dentro ciò che serve.
Ci vogliono entrambi. Bisogna educare e istruire a stare nella società. La scuola è un luogo autonomo,
altamente degno del passato e dell’avvenire. Compito della scuola non è inseguire l’attualità, ma di conservare
il passato e prefigurare l’avvenire. L’attualità è così veloce che si brucia da sola, per questo ci sono molti
telegiornali. Noi come cultori di ciò che è duraturo, solido. Se inseguiamo la contemporaneità essa vi
consumerà. La battaglia per l’inattualità è la nostra ricchezza.

SESTA LEZIONE

Vivan Lamarque ha pubblicato L’AMORE DA VECCHIA.


Andrea Temporelli, L’AMORE E TUTTO IL RESTO.

GASPARA STAMPA, la cagione sublime: il petrarchismo rinnovellato


Disconosciuta personalità della letteratura Cinquecentesca. Solo Vittoria Colonna era conosciuta, ma ce ne
erano molte di voci femminili! Ora se ne stanno recuperando, la storia della letteratura femminile è ancora in
corso di scrittura. Fino alla modernità sembrano non esistere voci femminili, invece ce ne sono state (già nella
letteratura medioevale)! Dal Cinquecento anche poetesse in ambito profano, come queste petrarchiste. Sono
donne che scrivono per donne, generando un processo editoriale nuovo. Gaspara Stampa è una di queste e
forse tra le più originali del petrarchismo. Esso è quel fenomeno per cui il modello di Petrarca domina per
mezzo millennio (dal XIV al XVIII, in parte XIX secolo), tutti quelli che fanno poesia lirica si ispirano a lui. Alcuni
adeguandovisi pienamente (i petrarchisti) altri un poco discostandosi (non rientrano nell’etichetta ma ci si
ispirano). Come tutti i fenomeni paga il dazio di alcuni sui limiti. Nel Quattrocento, per esempio, la poesia
ispirata a P non esprime le sue massime potenzialità. Alcuni critici, riferendosi a questo periodo, hanno
definito il petrarchismo come “meccanico” (scelgono un aspetto del repertorio letterario di Petrarca
perpetuandolo all’infinito). Il petrarchismo conosce al suo interno momenti di eccellenza e stanchezza. Con
la Stampa siamo nel Cinquecento. Il petrarchismo del primo Cinquecento è movimentato da una grande
novità rappresentata da PIETRO BEMBO. Egli è abbastanza negletto per l’importanza che rivestì nella
letteratura italiana. Egli consacrò il fiorentino aureo (fiorentino Trecentesco) a lingua letteraria per eccellenza.
Egli, inoltre, ripensò a un nuovo modo emulare Petrarca per vivacizzarne l’approccio. Così possiamo parla di
Petrarchismo bembesco (o “ortodosso”) → un approccio differente a P permette di ripescare quella
freschezza → Suggerisce che la buona imitazione di P non può limitarsi ad assumerne un tema e
perpetuandolo. L’imitazione deve andare in profondità: bisogna diventare un nuovo P, ossia calarsi nella sua
pelle, storia, vivendo le stesse emozioni, struggimenti, desideri che visse lui originariamente, tale da divenirne
la reincarnazione. Ciò perché esso è il solo modo per dare valore all’imitazione. La conseguenza non è
un’imitazione ancora più fedele, ma è la possibilità di sviluppare quella libertà propria di P, di scrivere
liberamente anche di temi che P non aveva trattato, ma è proprio l’essere libero il punto. Il petrarchismo
Cinquecentesco dunque diverso da quello Quattrocentesco: si anima, si rinfresca. Tali donne rientrano in ciò,
reinterpretano P, al femminile → narrando sperienza amorosa con prospettiva differente da P.
Gaspara Stampa rientra tra le voci più originali. Ella spicca per la sua forza, sono poesie accalorate, coraggiose,
al di là dell’aggraziata poesia P. Rimase negletta per diverse ragioni:
- Ragione sociale, non era altolocata. Figlia di orafo, famiglia decaduta.
- Per via delle dicerie circa il suo nome che la vogliono cortigiana, una donna di salotto a cui si
accompagnavano nei cenacoli gli aristocratici. Una donna di incerta amoralità. Tale etichetta le
rimase. Solo negli ultimi cinquant’anni cambiano le cose perché non importa cosa fece nella sua vita,
importa ciò che scrive e come lo scrive.
Padovana (1523-25 nasce), da orafo e donna di modesta estrazione. Sappiamo che è padovana da alcuni suoi
sonetti. Presto la famiglia va a Venezia perché a 7 anni muore il padre e la madre con i tre figli si trasferisce
qui. Riceve in questa città un’educazione colta (lettere, musica, latino, forse greco). Cresce con una cultura
umanistica, ampia e ricca. La Venezia della prima metà del Cinquecento in cui cresce è caratterizzata da diversi
elementi: cosmopolita, commerciale, in relazione con Firenze, Tiziano, Tintoretto, si riunivano accademie,
Carnevale, 175 00 abitanti (oggi 60 000). Già giovanissima si esibisce come musica con la sorella perché a casa
Stampa si costituisce un cenacolo dove gli intellettuali sono allettati dalle loro prestazioni musicali. Divenuta
donna, ha una relazione da cui ne derivano due figli (lo sappiamo solo dal testamento!). I biografi dicono
invece molto dell’uomo conosciuto nel salotto di Domenico Venier, il conte Collaltino di Collalto, signore della
Marca Trevigiana, uomo politico di modesta levatura intellettuale, uomo d’armi. Con questi ha una relazione
intensa che dura tre anni, oggetto principale del suo Canzoniere. In alcuni momenti ella si trasferirà nella sua
residenza, ove lui si dimostrerà un amante superficiale, infatti spesso dopo averla chiamata la abbandona per
le sue imprese militari → tema della frustrazione, “amante dimenticato”, attesa dell’amato → tema
petrarchesco! Lui parla di Laura, il dio dell’Amore lo tortura. Lo svolge non in modo accademico, freddo, ella
lo vive con calore. Poi finisce questa relazione. Negli ultimi due anni della sua vita intreccia una relazione con
Bartolomeo Zenna quale amante (se ne accenna nel Canzoniere)→ sintonia di interessi anche culturali con
questi. La vita di Gaspara la vedrà al centro di frequentazioni intellettuali con cui si scambiano i versi, fino alla
morte (1554, è ancora giovane!). È stato ipotizzato che abbia frequentato l’Accademia veneta dei Dubbiosi
con uno pseudonimo (Anassila, da Anaxum, fiume che scorre nelle terre di Collaltino di Collalto, omaggio
all’amato).
Fece molto discutere. Dopo la morte stigmatizzata dall’etichetta di cortigiana.
Saggio Maria Chiara Tarsi (in dispense non frequentanti) → approfondisce questo aspetto.

La sua poesia si distingue per la sua immediatezza, in un contesto fortemente intellettualizzato, come quello
del petrarchismo Cinquecentesco dove spesso si gioca per allusioni, sottointesi, si scherma a colpi di fioretto.
Lei prende di petto gli argomenti che pone, il che la rende più immediata ai lettori moderni. Nel Canzoniere
dice che si incarica di un compito impossibile: rendere giustizia alla personalità straordinaria del suo amato,
ossia di Collaltino di Collalto. Tale sfida è impossibile, ma lei la affronta: sfida poetica, come caso dantesco.
Ella si onora di impegnarsi in questo. Gaspara ha il compiacimento di essersi imbarcata in questa impresa. Ciò
la distingue da P e petrarchisti, che invece sempre si scusano della pochezza delle loro parole. Gaspara esplode
nella soddisfazione di dire cose grandi, si compiace e rimane anche in attesa della gloria → chi osa un’impresa
tanto grande avrà gloria.

Rime, XIII
Chi darà penne d’aquila o colomba
al mio stil basso, sí ch’ei prenda il volo
da l’Indo al Mauro e d’uno in altro polo,
ove arrivar non può saetta o fromba?
e, quasi chiara e risonante tromba,
la bellezza, il valor, al mondo solo,
di quel bel viso, ch’io sospiro e còlo,
descriva sí, che l’opra non soccomba?
Ma, poi che ciò m’è tolto, ed io poggiare
per me stessa non posso ove conviene,
sí che l’opra e lo stil vadan di pare,
l’udranno sol queste felici arene,
questo d’Aciria beato e chiaro mare,
porto de’ miei diletti e di mie pene.

Chi mi potrà donare le penne d’aquila e di colomba (citazioni bibliche) …


Lettura impegnativa, oraziana (opera più importante di tante cose, la poesia invece non si consuma). Dal
momento che sembra impossibile, non posso che contare su me stessa, mi cimenterò comunque.
Ella vuole dire che ciò che sta per fare è impossibile, se arrivasse qualcosa di sovrannaturale e intervenisse
allora potrei riuscire, ma nessuna musa è qui con me. Ma lo farò comunque anche se ad udire le mie parole
non saranno altro che queste lande desolate.

Rime, VIII
Se, cosí come sono abietta e vile
donna, posso portar si alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
S’Amor con novo, insolito focile,
ov’io non potea gir, m’alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far la pena e la penna in me simile?
E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
Come ciò sia non posso dir espresso;
io provo ben che per mia gran ventura
mi sento il cor di novo stile impresso.
Qui ella aggiunge la sfida al pregiudizio che vorrebbe le donne intellettualmente inferiori rispetto agli uomini.
Se così come si dice non sono altro che un’abietta donna, ma posso sopportare questo fuoco, perché non
devo avere almeno un poco quel del talento, un po’ di penna e un po’ di stile? Perché non posso raccontare
ciò che sto dicendo, se lo posso dire posso scriverlo. Pensiero non comune in seconda metà del Cinquecento,
nella prima c’era spazio per questo. Rendere la penna e la pena la stessa cosa: penna che racconta la pena, la
faticosa esperienza dell’amore. Se la forza della natura della donna non lo permetterebbe, che lo faccia un
miracolo. Prova qualcosa di nuovo che le si imprime. Non vorrei ma devo scrivere e se non lo ritenete
legittimo, lo devo comunque fare.
Sonetti proemiali (a inizio raccolta, presentano, danno il tono)
RVF ( = rerum velgarium fragmenta = vero titolo canzoniere di Petrarca), qui il proemio. Non è il primo che P
pensò. Ci sono diverse relazioni del Canzoniere, in cui l’ordine delle poesie cambia. Il primo proemio era
dedicato all’amore di Apollo per Dafne → mentre tornava tronfio dall’impresa del Pitone, lo aveva colpito con
grandi frecce, incontra Cupido con le sue piccole frecce. Apollo se ne fa beffe. Allora Cupido lo colpisce e
Apollo vede Dafne e se ne innamora, mentre Dafne la colpisce con la freccia dalla punta di piombo e lei odia
Apollo. Dafne chiede al padre di trasformarla in alloro così da non farsi più amare, ma Apollo la ama
ugualmente. Sceglie questo perché P vuole che la sua sia una poesia capace di grazia, per questo parte dal
mito di Apollo, dio della Poesia, proprio per cingersi anche lui con la corona di alloro. Alla fine lo sostituisce
con questo sonetto, perché cambia la sua idea di Canzoniere. P si convince che la poesia, per essere grande,
non deve avere l’unico fine di essere perfetta. Deve essere una forma di bellezza capace di raccontare la verità
(elemento etico), una verità difficile, complessa, contraddittoria, che è quella del cuore umano, dove ci sono
purezza e attrazione per impurità, sacro e profano mischiati → tema del Canzoniere. Allora cambia il sonetto
premiale.
RVF I
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

→ L’amore per Laura come lo viveva da immaturo, come una passione carnale senza profondità, quando era
diverso da come è in quel momento. Qui resta in sospeso la frase: “Spero che del mio stile incerto in cui
piango, tra coloro che sanno cosa sia amore, possono provare pietà e perdono per me”. Allitterazione con
balbettio “m” tipica di chi si vergogna. È meditativo, contrito.

Rime, I, Gaspara, stessa funzione, sonetto proemiale del suo Canzoniere


Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,
ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sí sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
— Felicissima lei, da che sostenne
per sí chiara cagion danno si chiaro!
Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sí nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?
→ voi che ascoltate queste rime meste, (cambio tono) le più grandi che nessuno abbia più provato (nessuno
soffre come lei) → passa da costrizione a qualcosa di diverso. Ella modifica il verso di P. Spera di trovare
perdono, ma anche gloria, riconoscimento, perché constateranno che tale cagione è sublime perché è
straordinario il suo amato. Spera che qualcuna delle sue lettrici si trovi a dire: “Beata lei!”, fomenta l’invidia,
dal momento che è costretta a sopportare questa pena ma per una ragione così sublime. Arriva all’aspettativa
dell’invidia (si scosta da P). Spregiudicata. Su tale tono sono le sue poesie. È un tono di un’irruenza originale.

Per esempio quando coglie la sfida dell’ineffabile, ma umano, non divino qui→ Rime, XXVI
Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangerò, arderò, canterò sempre
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre
a l’ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
la bellezza, il valor e ’l senno a canto,
che ’n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel volto, petto e cor del lume santo;
che, quando viene, e quando parte il sole,
la notte e ’l giorno ognor, la state e ’l verno,
tenebre e luce darmi e tórmi suole,
tanto con l’occhio fuor, con l’occhio interno,
agli atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.
→ I primi due versi giocano con i tempi verbali, a sancire un’esperienza straordinaria che non viene rinnegata
(a differenza di P). Agli occhi di Gaspara è una meraviglia incomprensibile. Pesca dal repertorio dell’elogio
amoroso, ma con una forza che fa comprendere che non è solo un esercizio di stile, è autentica.

Gaspara che soffre abbandono, che soffre l’indifferenza per il quale si strugge ma chi non dimostra pari
coinvolgimento, di grande grazia ma che non si dona. Oggetto di tale sonetto → Rime, IV
Quando fu prima il mio signor concetto,
tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle
gli dièr le grazie, e queste doti e quelle,
perch’ei fosse tra noi solo perfetto.
Saturno diègli altezza d’intelletto;
Giove il cercar le cose degne e belle;
Marte appo lui fece ogn’altr’uomo imbelle;
Febo gli empi di stile e senno il petto;
Vener gli dié bellezza e leggiadria;
eloquenzia Mercurio; ma la luna
lo fe’ gelato più ch’io non vorria.
Di queste tante e rare grazie ognuna
m’infiammò de la chiara fiamma mia,
e per agghiacciar lui restò quell’una.
→ Quando il mio amato fu concepito, tutti i pianeti concorsero a dargli doti a renderlo il più perfetto tra noi
(Saturno gli diede intelletto, “saturnini” chi vaga pensando, Giove gli diede desiderio di imprese grandi, Marte
l’impeto e così via), anche la Luna diede del suo, ossia la sua freddezza. Ella agghiacciata da quest’ultima virtù,
che lo ha reso algido, irraggiungibile. La donna si sente spiazzata da questa distanza. Soffre.

Sonetto Rime, XLVII → tema dell’abbandono, dell’attesa


Io son da l’aspettar omai sí stanca,
sí vinta dal dolor e dal disio,
per la sí poca fede e molto oblio
di chi del suo tornar, lassa, mi manca,
che lei, che ’l mondo impalidisce e ’mbianca
con la sua falce e dà l’ultimo fio,
chiamo talor per refrigerio mio,
sí ’l dolor nel mio petto si rinfranca.
Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
schernendo i miei pensier fallaci e folli,
come sta sordo anch’egli al suo tornare.
Cosí col pianto, ond’ho gli occhi miei molli,
fo pietose quest’onde e questo mare;
ed ei si vive lieto ne’ suoi colli.
→ È stanca di aspettare, travolta dal desiderio inappagato di colui che la lascia priva del suo ritorno, per questo
spesso ha chiamato la morte a lei (come P!). La chiama per liberarsi dal dolore che le brucia in petto, ma la
morte non va, le dice che deve rimanere lì e soffrire. Da una parte la Morte schernisce le sue sofferenze, e
dall’altra, parallelamente, il suo amore rimane dimentico delle sue sofferenze e la lascia lì, come la Morte.

Rime, XLIV
Se tu vedessi, o madre degli Amori,
e teco insieme il tuo figlio diletto,
l’accese e vive fiamme del mio petto,
a quali altre fûr mai pari o maggiori;
se tu vedessi i pelaghi d’umori,
che, dapoi che ’l mio cor ti fu soggetto,
mercé del vago e grazioso aspetto,
per questi occhi dolenti verso fuori;
so ch’avresti pietà del mio gran pianto
e de la fiamma mia spietata e ria,
che per sfogar talor descrivo e canto.
Ma voi ferite, e poi fuggite via
piú che folgor veloci, ed io fra tanto
resto col pianto e con la fiamma mia.
In una condizione di sofferenza, ove nessuno dimostra comprensione per il suo dolore, c’è solo uno
strumento: lo stilo, la penna → poesia come strumento di liberazione. Idea terapeutico dell’atto poetico. Parla
a Venere.
→Se tu Venere e tuo figlio Cupido vedeste la mia fiamma in petto, rispetto alle altre (nessuno soffre come
lei), l’oceano di lacrime… Avresti pietà di me. Fiamma per cui descrive e canta → idea terapeutica per la
scrittura. Tuttavia voi, Venere e Cupido, non siete così, non piangete con gli umani, colpite e fuggite
infischiandovene delle conseguenze delle vostre ferite. Gioca con l’ideologia pagana ove gli dei sono crudeli.
E io me ne resto qui con il mio pianto → atto di accusa: colpisce senza lasciare altro.

Rima LXXIV
La gran sete amorosa che m’afflige,
la memoria del ben onde son priva,
che mi sta dentro al cor tenace e viva,
sí che null’altra piú forte s’affige,
sovra ogni forza mia move et addige
la vena mia per sé muta e restiva,
e fa che ’n queste carte adombri e scriva
quanto aspramente Amor m’arde e trafige.
Chi fa qual noi parlar la muta pica?
chi ’l nero corvo e gli altri muti uccelli?
La brama sol di quel che li nutrica.
Però s’avien ch’io scriva e ch’io favelli,
narrando l’amorosa mia fatica,
non sono io no, son gli occhi vaghi e belli.
→ stesso tema. Idea dell’inevitabilità dell’atto creativo come maledizione (sporca di sangue della sofferenza)
e benedizione (purifica). Ella non sfiorerebbe nulla per vergogna, ma per sete amorosa osa. Ciò che fa parlare
la muta pica? Mito delle piche: piche che sfidano muse in perizia canora, trasformate in gazze che perpetuano
così la loro colpa. Cosa costringe a cantare le piche? La brama senza la quale morrebbero. Lei non vuole
cantare ciò, sono gli occhi dell’amato che la costringono.

Rime XXVIII
Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti,
per mia rara ventura al mondo, i’ vegno,
lo stil, la lingua, l’ardire e l’ingegno,
i pensieri, i concetti e i sentimenti
o restan tutti oppressi o tutti spenti,
e quasi muta e stupida divegno;
o sia la riverenza, in che li tegno,
o sia che sono in quel bel lume intenti.
Basta ch’io non so mai formar parola,
sí quel fatale e mio divino aspetto
la forza insieme e l’anima m’invola.
O mirabil d’Amore e raro effetto,
ch’una sol cosa, una bellezza sola
mi dia la vita, e tolga l’intelletto!
→ topos dell’ammutolimento. Anche i poeti cortesi ne parlano, anche P e Gaspara, ma lei lo reinterpreta.
C’è P che si chiede se ciò che prova per Laura sia un bene o un male e cerca di razionale ciò che sta accadendo
così contraddicendosi perché lo fa sentire bene e male. Lei qui riprendere in una maniera impetuosa.

Link → sono temi ancora attuali.

Gli esempi sono molti.

SETTIMA LEZIONE

VIVIAN LAMARQUE ha pubblicato L’AMORE DA VECCHIA, MADRE D’INVERNO (madre in


ospedale)
Nata a Pesaro. Traduttrice di autore come Wilde e Baudelaire. È un’autrice prolifica: fiabe, poetessa. Ha
collaborato con il Corriere della Sera per esempio.

Filastrocche per bimbi come Rodari e la poesia sono importanti. Filastrocche scelte dai bambini stessi. Poesie
scritte da loro.

Le sue poesie sono elementari.

La poesia ha molte letture, una a prima vista e altre, nostre.

OTTAVA LEZIONE
Romana Brovia è docente e ci parla di Petrarca.

FRANCESCO PETRARCA
Cosa lo rende una figura straordinaria? Petrarca ha influenzato tutta la cultura occidentale del XVIII secolo e
anche dopo. Nasce ad Arezzo nel 1304 da una famiglia guelfa bianca in esilio da Firenze. Forse ha incontrato
Dante, non ne abbiamo le prove. Muore vicino a Padova, ad Arquata nel 1374.
Vive in un periodo storico difficile, il Medioevo. È un periodo di crisi, con eventi cruciali (guerra dei 100 anni,
il papato si sposta in Francia ad Avignone, guerra tra i comuni italiani che si fanno la guerra tra loro, le signorie,
soprattutto i Visconti milanesi in competizione con Firenze, la guerra tra Genova e Venezia nel Mediterraneo
e nel Mar Nero ne sono alcuni esempi). Vive in un periodo difficile. Si traferisce ad Avignone con il padre.
Petrarca è un uomo politico quindi entra in contatto con tutte queste vicende ed è a stretto contatto con i
grandi dell’epoca che lo richiamano a sé. È una presenza forte e incombente. Chi lo incontra ne parla,
conoscerlo è un vanto. I documenti del tempo parlano di lui.
Scrive 21 opere diverse, di cui due solamente in volgare (Canzoniere e Trionfi), mentre la stragrande
maggioranza della sua produzione è in latino. Fu una celebrità. Aveva accesso a tutti i canali di comunicazione,
scrisse più di 650 epistole, tracopiandole in bella copia con l’intento di pubblicarle, tramandarle, rivolte a
diversi destinatari. Fa in modo che tutti questi ci arrivino, ragiona per la posterità. Poi ci sono le lettere private
che non ha pubblicato. Conserviamo anche le risposte perché visto che era famoso le conservavano i
destinatori. Nel tempo P ha avuto un’influenza più profonda rispetto ad altri autori, tra cui Dante (vive più a
lungo, scrive di più, fa una vita più fortunata).
La letteratura come medicamento è un elemento cardine della sua riflessione e di tutte le sue opere. Eredita
questa immagine, metafore da una tradizione autorevolissima, sia laica che religiosa, classica e poi
medioevale. Lui, rispetto a questa tradizione di cui è consapevole, prende una posizione distinta; si discosta
intenzionalmente, soprattutto dai suoi predecessori italiani, siciliani e stilnovisti (Dante in particolare). P vive
molto male il suo rapporto con Dante che è il suo punto di riferimento costante, non poteva essere altrimenti,
ma lo vive con fatica. Non lo nomina mai, solo una volta, è un fantasma grosso.

Petrarca declina il tema in due prospettive, spie ideologiche (non solo estetica): da una parte intende il tema
pensando alla letteratura come auto-medicamento e come strumento di cura di se, dall’altro una letteratura
come atto terapeutico rivolto agli altri.

LETTERATURA COME CURA DI SE’ → La lettura dei testi letterari scritti da altri autori è utile, a volte necessaria,
per il mantenimento o ristabilimento della propria salute. Essa cura le malattie morali, dell’anima, ma anche
fisiche. La lettura è quindi intesa come medicina. P non usa il termine greco pharmakon ma il latino
medicamentum o remedium.
E’ facile constatare che questi autori che fa bene leggere sono sempre, o quasi, solo i classici latini, non i greci
(anche per questo non usa l’espressione pharmakon). Petrarca non sa il greco, legge e conosce ciò che circola
nei tempi suoi, che non è moltissimo, dei testi greci tradotti in latino. Conosce poco anche gli autori greci (li
conosce indirettamente dalle traduzioni) e ha un’idea abbastanza negativa della cultura greca: definisce i greci
come dei “barbari”, ha un’idea abbastanza limitativa di questa cultura che sostanzialmente non conosce.
A lui interessano i classici latini. Tra questi autori latini soprattutto legge e considera particolarmente utili i
moralisti (Cicerone e Seneca in particolare), poi gli storici (Livio e Svetonio) e i poeti epici e civili (Virgilio,
Lucano, Orazio e Ovidio della Metamorfosi). In questa lista di autori non ci sono i poeti elegiaci, come Catullo.
Li conosce ma non li usa in questa interpretazione della letteratura. Le sole eccezioni a questa regola sono
Lattanzio e Agostino (autori del tardo-antico, III-IV sec. d.C.), che avevano il merito di saper scrivere come
Cicerone, in termini di stile. Importante per Petrarca era che forma e contenuto fossero l’uno all’altezza
dell’altro, tanto è vero che in una lettera al fratello sente il bisogno di difendere la Bibbia, la cui forma non è
all’altezza. Quindi non tutta la letteratura cura e non tutti gli autori curano. In questa prima categoria di “cura”
dobbiamo aggiungere i casi ove a curare è la produzione di opere letterarie, la scrittura dei testi. A curare è
l’atto di scrivere. Petrarca definisce questa pratica in diverse occasioni, in particolare nei proemi, i testi teorici
all’inizio delle opere.
Il proemio del De Otio Religioso, trattato in forma di un commento a un salmo. In origine era una lunga lettera
proemiale dedicata ai monaci certosini di un’Abbazia provenzale nella quale il fratello aveva preso i voti e che
P aveva frequentato quando andava a trovare il parente. Particolarmente importante è il proemio del
Secretum. Esso è un dialogo intimo tra Sant’Agostino e Se stesso alla presenza della Verità in cui confessa i
propri peccati e compie una sorta di esercizio spirituale, una sorta di risposta alla Commedia. Nel proemio di
questo dialogo in cui P mette in scena una cornice narrativa, troviamo una definizione della scrittura come
pratica. Egli mette in relazione la pratica della scrittura come cura con il tema della memoria. Egli racconta di
trascrive a caldo le impressioni derivate da un’esperienza per non dimenticarle così che egli possa così
ripensare a quell’esperienza ed elaborarla ogni volta che vorrà o ne avrà bisogno. Siccome tra le esperienze
che vale la pena ricorda ci sono anche le letture, P trascrive anche gli insegnamenti significativi tratti da queste
letture sotto la forma di appunti, citazioni, di glosse che lui trascrive perché possano essere richiamate alla
memoria tramite processi di reminiscenza. Si trattava di tecniche note al tempo per richiamare informazioni,
per servirsene all’occorrenza.
La scrittura letteraria diventa proprio un esercizio di auto-coscienza, una “confessione”, quando l’autore mette
per iscritto la storia della propria anima, i propri peccati (“errores”), le proprie paure, le proprie speranze
(“fantasmi” della coscienza) e le sue “fluttuazioni” (contraddizioni) per comprenderle meglio e superarli.
Verbalizzando questi aspetti della propria vita interiore è possibile viverli meglio.
P è un uomo profondamente religioso, cristiano. Ha in mente una serie di percorsi ed ha un linguaggio che è
quello degli autori del suo tempo. Ci sono casi in cui la scrittura corrisponde ad una vera e propria pratica
previdenziale: non è solo un atto di comunicazione, di rielaborazione spirituale ma diventa qualcosa di buono,
un motivo per meritarsi la grazia di Dio.
Questo accade per esempio nei Sani penitenziari. Esse sono delle preghiere, fatte sul modello biblico, sono
un’invocazione a Dio, che Petrarca definì più volte l’unico e proprio medico dell’anima; qui P invoca Dio perché
venga a salvarlo. Non c’è una vera e propria metrica, ma sono divisi in versetti con una loro ritmica.
Psalmi penitentiale, VI
1. Mi circondarono i miei nemici, incalzandomi con le lance.
2. Rimasi paralizzato, infelice, e mi prese un tremito violento. L’orrore della morte mi sovrastò.
(…)
6. Cadendo compresi quanto debolmente ero stato in piedi. Mentre crollavo i predoni mi assalirono;
7. mi spogliarono di molte ricchezze, raccolte da lontano. Mi sfigurarono in putredine di sangue;
8. con ferite gravissime mi finirono, esanime e nudo mi abbandonarono nel deserto;
9. mi trafissero il capo e il petto, ma più crudelmente infuriarono nel mio cuore.
10. Lì la ferita marcì per la putredine, lì temo per la mia vita, lì, Signore, applica presto le tue mani.
(…)
14. Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen».
Altre volte la lettura corrisponde ad un processo di automedicazione. Riconoscendo la causa della propria
sofferenza il soggetto fa un passo avanti verso la guarigione. Questo tema è esplicito nel Proemio del Secretum
quando la Verità appare a Francesco quando era assorto in una della sue meditazioni. La Verità chiede a
Sant’Agostino di aiutare Francesco che è gravemente malato e non lo sa ( P dice che sta benissimo ), per il
fatto di non sapere di essere malato P rischia la perdizione eterna. Verità vuole che Petrarca riconosca il suo
vero stato di sofferenza, indagarne le cause e avviarsi in un processo di guarigione.
Secretum. Proemio, pp. 97-98.
(…) Rivolta intatti a lui e interrompendone la profondissima meditazione, disse (qui è Verità che parla!): –
O Agostino, tu che tra mille e mille mi sei caro! Sai che costui ti è devoto, né ignori di quale pericolosa e
lunga malattia sia preda: malattia tanto più prossima ad essere mortale quanto più il malato è lontano
dalla comprensione del suo male. Occorre dunque provvedere alla vita di questo moribondo, e una tale
opera di pietà nessuno tra gli uomini potrebbe prestarla meglio di te. Costui, infatti, ti è sempre stato
devotissimo, e ogni dottrina ha la proprietà di trasfondersi molto più facilmente nell’animo degli studenti,
quando essi amino il loro maestro. E anche tu, a meno che la presente beatitudine non ti abbia fatto
dimenticare le tue miserie, hai sofferto molte pene simili a quelle di quest’uomo, finché sei stato chiuso nel
carcere del corpo. Stando così le cose, da ottimo medico qual sei di passioni (Agostino è medico di passioni!)
che hai tu stesso provato, anche se non c’è niente di meglio di una meditazione silenziosa, ti prego tuttavia
di rompere questo tuo silenzio con la tua sacra voce, che io amo tra tutte in modo così speciale, per tentare,
se puoi, di alleviare con qualche rimedio un così grave stato di prostrazione. (fin qui ha parlato Verità, ora
risponde Agostino) – Al che egli: – Sei tu la mia guida, la mia consigliera, la mia padrona, la mia maestra
(echeggia Virgilio che risponde a Beatrice): perché dunque vuoi che sia io a parlare, quando tu stessa sei
presente? – E lei: – Sia una voce umana a colpire l’orecchio di un mortale: la riceverà con migliore
disposizione d’animo. Ma resterò qui, in modo che tutto quello che sentirà da te possa considerarlo come
se l’avessi detto io. – Mi costringe ad obbedire – rispose – sia la carità verso colui che langue sia l’autorità
che me lo comanda – e, intanto, guardandomi con affetto e riscaldandomi con un abbraccio paterno, mi
accompagnava verso una zona più appartata, con la Verità che ci precedeva di poco. Qui ci sedemmo tutti
e tre, e allora finalmente, lontani da ogni altro testimone, mentre ella giudicava in silenzio ogni singolo
punto, nacque tra noi una lunga conversazione che, trascinata dall’argomento, si protrasse per tre giorni.

→ Nella rivelazione profetica non ci occupiamo. P non è un uomo toccato dalla grazia, non può quindi ricevere
una rivelazione. Però, attraverso le parole di un altro essere umano, della mediazione di un uomo autorevole,
dell’autores che si fa mediatore di verità, può progredire. Agostino è medico delle passioni che egli stesso ha
provato. Agostino è il mediatore autorevole di verità. Tra loro avviene una lunga conversazione, ben diverso
da un discorso fatto tra insegnante e discepolo: tutti gli interlocutori sono sullo stesso piano (come hanno
fatto gli autori di stampo antico classico come Socrate, Platone, Cicerone, Agostino, diverso dalla cultura
accademica/scolastica di Dante). Il modello di P è diverso da quello di Dante.
La scrittura autobiografica è uno dei cardini dell’idea originaria di psicoanalisi (diario, trascrizione dei sogni)
come rielaborazione delle esperienze, la presa di coscienza delle loro conseguenze emotive e verbalizzazione
di queste conseguenze. La letteratura ha un risvolto più pratico della filosofia.
Noi siamo arrivati a pensare al concetto di pharmaco come ad una sostanza più o meno sintetica da ingerire
o iniettore nel nostro corpo in una maniera essenzialmente passiva. Ai tempi di P i medicamenti che potevano
essere somministrati così ai malati erano pochi e pericolosi. I manuali di cure contenevano pratiche che oggi
definiremo olistiche, molto più integrali (corpo + psiche) che richiedevano una partecipazione attiva del
paziente (diete, ginnastica, bagni, esposizione al sole e all’aria, alternanza sonno-veglia, pratiche erotiche).
Questo tipo di cura comprendeva anche il contemplare i corpi malati, pratica dei monaci ma anche per il mal
d’amore per esempio.
P dice che l’amore per l’Angelo, per Laura, lo ha reso migliore, ma se Laura fosse stata brutta non se ne sarebbe
innamorato quindi non conta la qualità dell’anima. Nel Secretum, una delle cose che Sant’Agostino
raccomanda a Petrarca è di immaginarsi il corpo di Laura sfatto dalle malattie e dai molti parti. Questo
dovrebbe curarlo dal mal d’amore. In realtà no, perché nei Trionfi, in particolare nel Trionfo della Morte, riesce
a dire che Laura e leggiadra e bella parlando proprio delle parti del suo corpo mentre muore. È il primo autore
della nostra tradizione letteraria che inscena l’atto della morte della propria amata (era tabù).
Idea della cura, del medicamento sempre in bilico tra la componente fisica e fisiologica, con quella morale e
spirituale → fortissima psicologizzazione della patologia e il suo trattamento in chiave argomentativa, con gli
strumenti il discorso. P è cosciente del paradosso di curare attraverso le parole effetti sensibili, ritorna su
questo tema spesso con atteggiamento ambiguo tra rifiuto e rassegnazione. Vediamo cosa dice nel seguente
testo, Epistola Senile a Guglielmo da Ravenna, suo amico, con cui si lamenta dell’inutile chiacchierare dei
medici.
Sen. III 8, 5-13 (a Guglielmo da Ravenna, 1363-65)
Mi dilungherei di più su questo (dice P a G) – è infatti ampia e gradevole materia –, se non temessi col
discorrere di incitarti allo studio dell’eloquenza, dal quale invece, per cominciare a parlarti fin d’ora come
amico, ti vorrei quanto mai dissuadere. Lascia pure dire ai medici: si sbaglia di gran lunga chi va sognando
che al malato giovi l’eloquenza di chi lo cura; al malato tranne la cura o il sollievo della malattia tutto è
pesante e molesto. (la voce dell’autore è un’altra cosa) Parlo per esperienza (non sto filosofeggiando, non
parlo in teoria” è il significato di ciò che dice P). Ricordo che un tempo a Milano, tormentato da una dura e
grave malattia (P aveva la malaria, curato dai Visconti che avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui), ero visitato
due volte al giorno da tutti i medici che erano i più quotati in quel luogo; così voleva chi lì comandava ed
erano tutti spinti da un ordine impartito dall’alto, anche se alcuni lo erano anche dall’affetto per me. Fra gli
altri ve n’erano due differenti fra loro non tanto per la loro arte quanto per i costumi. L’uno, infatti, si
accostava in silenzio alla sponda del mio lettuccio e dopo avermi sentito il polso trattava di quello che 2
faceva al caso con gli amici di casa fuori stanza; poi tornando da me mi esortava a stare di buon animo e
se ne andava. Questo io lo guardavo come un padre e come mio salvatore. L’altro, quando si era seduto
accanto a me, quasi avesse messo radici, mi frastornava con parole la testa stancandomi. Intento quanto
poteva, anzi molto più di quanto poteva, all’eloquenza, intesseva strani e inestricabili racconti, tanto che
spesso, in aggiunta ai mali reali, mi toccava fingerne di nuovi perché se ne andasse. Questo, che pure era
mio amico quando stavo bene, da malato lo odiavo e gli avrei proibiti di venire se non avessi temuto di
danneggiare la sua fama; mi piaceva infatti la sua onestà, mi affliggeva il suo parlare.

P ha un sacco di amici medici. Questo tema lo ritroviamo in un dialogo del De remediis. E’ un dialogo fittizio
tra figure e personificazione. C’è Ragione che risponde ad una passione dell’anima. Nel primo libro è Speranza,
nel secondo è Dolore o Paura. In questo dialogo (II 113, La debolezza e le sofferenze del corpo) la
personificazione del Dolore (“D”) che è fisicamente tormentata dalle malattie continua opporre la concretezza
della propria sofferenza, il dolore fisico, alla personificazione della Ragione che filosofeggia inutilmente.

De rem. II 113, 1-2


D. Mi sento debole in tutto il corpo.
R. L’importante è che non lo sia la sua ospite, l’anima: qualunque cosa accada alla sua dimoruccia (il corpo), essa se
ne va salva.

D. Tutto il mio corpo mi duole: non ne posso più.


R. Gli Stoici ritengono che il solo bene che abbia l’uomo sia la virtù e, per quanto altri pensino diversamente, credo che
il giudizio degli Stoici sia il più vero e il più virile. Se è così, consegue che ciò che a questo bene si oppone, ossia il vizio,
è male; donde pure deriva che il male fisico, per quanto penosissimo, non è un male!

D. Ahimé infelice! Mi tormento nei miei dolori e tu mi fai una lezione di filosofia?
R. Sei davvero infelice, se non altro per questo: che chiami lezioni di filosofia le regole della vita.

D. Ciò che dici suona bene nelle scuole, risalta sulle pagine dei libri, ma non giova affatto a lenire i dolori e i tormenti
degli ammalati. Sono cose più facili a dirsi e a scriversi che non a dare un reale sollievo.
R. Al contrario: giovano molto al dolore, alla malattia e anche alla morte, ma non per tutti, perché non tutti sono disposti
ad accoglierle. E naturalmente non possono confortare chi in esse non crede (…) (Ragione circoscrive il tipo di malati su
cui ha effetto, infatti la cura funzione solo se ci credi → visione fideista, funziona solo se ci credi e se non ci credi e non
funziona è colpa tua)

D. Bello a dirsi ma tutt’altro che facile a farsi.


R. Non è l’impossibilità in sé; è la miseria spirituale che ha indotto gli uomini, oggi come ieri, a disertare tutti la virtù,
tant’è che col respingere come impossibile ogni buon comportamento, la virtù si è estinta. Le difficoltà in parola sono
sì vere, a sono quelle che fanno appunto risplendere la virtù.

D. Siamo uomini e non dei, e corpiciattoli destinati a morire non possono sopportare la violenza del dolore. R. Non
nego che i nostri corpi siano deboli, ma non sino al punto da mancare di forze onde poter sopportare ogni sorta di
avversità, sempre che, naturalmente, anche l’anima non sia stata colpita da tale debolezza. Perché è proprio tale
debolezza spirituale che vi fa emettere gemiti indegni d’un uomo e quelle grida femminee che tanto vi avviliscono.
Perché mai – rispondimi – dovrebbe essere oggi impossibile all’uomo ciò che l’uomo stesso, in passato (e tu lo sai bene)
ha potuto e saputo fare?

D. Dio mio! Eccomi ancora una volta richiamato agli esempi del passato! E tu pretendi che in mezzo ai dolori che sto
soffrendo, che mi rendono quasi smemorato di me stesso, io mi ricordi di quel che accadde agli antichi?
R. Ma ricordarsi di come uomini illustri ebbero a coraggiosamente sopportare delle prove simili alle tue non è un
prezioso conforto per chi si trova in qualsiasi difficile situazione?

Per P da una parte c’è la sua parte filosofica, il super-io, che interviene mentalmente a compensare la
sofferenza dell’esperienza.

LETTERATURA COME ATTO TERAPEUTICO RIVOLTO AD ALTRI → P non ha mai voluto prendersi la responsabilità
di curare altri, non ha voluto essere pastore di anime. Prese gli ordini minori, era chierico ma non ha
continuato la carriera ecclesiastica. Anche quando gli vennero affidate delle parrocchie affidò ad altri quella
parte del suo mestiere che lo avrebbe portato a contatto diretto con i fedeli. Allo stesso modo rifiutò anche
incarichi di insegnamento, anche dopo la Laurea poetica che prevedeva la lettura di testi agli allievi. Boccaccio
(che aveva grande ammirazione per Petrarca, che cercò di convincerlo ad avvicinarsi alla lettura di Dante) nel
1350 lo incontrò e gli offrì la cattedra all’Università di Firenze, appena fondata. Il gesto di offrirgli la cattedra
rappresenta un riconoscimento straordinario del suo ruolo di intellettuale europeo e anche come una sorta
di risarcimento per l’esilio patito e la conseguente confisca dei beni. Il comune di Firenze, a seguito
dell’insistenza di Boccaccio, accetta di restituire i beni a P se questi accetterà la cattedra ma anche in quel
caso egli rifiuta, creando un incidente diplomatico con Firenze, che si rimangia l’offerta. Non aveva l’indole
del maestro nonostante la sua importanza. Ironicamente quest’uomo venne poi rappresentato per secoli
come un glossatore davanti a un pulpito, con un libro e il dito alzato, con la divisa del docente universitario
che lui non è mai stato ne avrebbe voluto esserlo. È stato poi di fatto uno dei più grandi formatori della cultura
umanistica occidentale perché i suoi scritti sono stati considerati per secoli una componente essenziale. Lo si
leggeva ovunque, in tutta Europa.
Per qualcuno ha valuto essere maestro, qualcuno di particolarmente importante. Stiamo parlando del Duca
di Parma, a cui P dedicò un’opera (tra 1340 e 1366). Dice nella dedica di volergli rendere questo servizio (il
Duca voleva offrirgli molte cose), di volergli offrire un piccolo cofanetto (tipo quelli fatti di materiale prezioso
dentro cui si conservano le ostie, che sono medicamento dell’anima, o le pastiglie, che sono medicamento
del corpo →stessa funzione) con all’interno quegli insegnamenti utili che lo aiutassero a ricordarsi sempre
della propria condizione di uomo in balia della sfortuna e che gli offrissero esempi di comportamento in tutte
le situazioni in cui sarebbe potuto incorrere e curassero le “affezioni” dell’anima (gli affetti, le passioni) in cui
fosse incorso attraverso medicamenti efficaci e sicuri (non intrugli strani e chiacchere vane).

De rem. I, Prefazione
1. Quando penso alle vicende e alle sorti degli uomini, e alle impreviste e repentine mutazioni degli eventi, non trovo
quasi niente di più fragile e inquieto della vita dei mortali. E così mi accorgo che la natura ha provveduto con uno
strano tipo di rimedio a tutti quanti gli animali, e cioè con una specie di ignoranza di sé; e mi accorgo che solo per noi
uomini la memoria, l’intelletto, la previdenza (la capacità di figurarsi il futuro, ossia di sperare), divine ed eccellenti
doti del nostro animo, si risolvono in pericolo e travaglio (in sofferenza, malattia e affezione). Soggetti infatti sempre
ad affanni superflui, e non solo inutili, ma anche dannosi e pestiferi, noi ci tormentiamo per il presente, ci angosciano
per il passato e per il futuro, al punto che sembra che non abbiamo altra paura che di divenire un giorno o l’altro un
po’ infelici. Giacché con grande impegno ci procuriamo le cause della nostra infelicità e gli alimenti del nostro dolore
con le quali abbiamo reso la nostra vita – che se fosse condotta secondo ragione sarebbe felicissima e piacevolissima
– un affare miserabile e triste, il cui inizio è dominato dalla cecità e dall’oblio, il proseguimento dalla fatica, la fine dal
dolore, e tutto intero il suo corso è dominato dall’errore (gli umani si mettono nella condizione di patire che non è degli
altri animali). Che le cose stiano così, lo capirà chiunque ripassi con senso critico il corso della sua vita.
2. Quale giorno abbiamo trascorso in quiete, in tranquillità, che non sia stato pieno di affanni e di ansie? Quale alba
abbiamo visto così sicura e così lieta, senza che prima del tramonto si insinuasse in noi la preoccupazione e la tristezza?
Di questo male, sebbene in gran parte l’occasione sia nelle cose stesse, tuttavia, siamo noi stessi i maggiori
responsabili, anzi, per parlare con franchezza, ogni colpa è in noi, se non ci inganna l’amor proprio.
(qui a parlare è P, non è la personificazione di Ragione con cui a volte egli è d’accordo e altre no).
3. Per tacere delle altre cose, dalle quali siamo vessati da ogni parte, che guerra e quanto è eterna quella che
combattiamo contro la fortuna! Su di essa solo la virtù ci poteva rendere vincitori, ma noi da questa ci siamo
volontariamente e scientemente allontanati. Perciò, da soli, debilitati e disarmati, combattiamo contro un nemico
implacabile una guerra impari; la fortuna prima ci solleva come una piuma, poi ci sbatte a terra e intorno a noi fa il
girotondo, e ci schermisce. Sarebbe più sopportabile la sconfitta; ma ora siamo anche messi a ludibrio. Che cos’altro è
causa di ciò se non la nostra leggerezza e la nostra mollezza morale? Le siamo apparsi degni di essere gettati di qua e
di là tanto facilmente come nel gioco della palla: noi animali di vita brevissima, di infinito travaglio, per i quali
nell’incertezza del luogo dove attraccare, cioè del partito da prendere, è saggezza intanto rimanere sospesi e, oltre al
presente che ci affligge e al passato che ci addolora, tenere sempre davanti agli occhi ciò che ci spaventa; cosa che
accade solo all’uomo e a nessun altro degli animali, ai quali dà sicurezza soddisfacente l’essere sfuggiti ai pericoli del
presente. Noi uomini, invece, per via dell’ingegno e dell’acume della ragione, dobbiamo, per così dire, lottare contro
un Cerbero a tre teste, così che sarebbe quasi meglio non avere avuto in dono la ragione, visto che rivolgiamo contro
noi stessi le armi eteree che dobbiamo all’eccellenza della nostra natura.
4. È difficile contrastare questo male radicato in noi ormai da antica consuetudine (Gli uomini si abituano, ripetono gli
stessi errori senza pensarci) ; tuttavia, dobbiamo sforzarci contro questa pessima abitudine; oltre allo sforzo del nostro
animo, per cui nulla è arduo e inespugnabile, ci sono di molto aiuto i colloqui frequenti con i saggi, sebbene questo
tipo di confronto sia ormai raro, e ancor più ci è d’aiuto la continua e attenta lettura e le opere degli scrittori famosi
(ecco qui l’utilità della letteratura in senso terapeutico); purché non manchi il consenso dell’animo ai loro salutari
ammonimenti. Questo consenso dell’animo io non temerei di affermare che sia sulla terra l’unica fonte viva della
saggezza (e della salute in quanto la felicità dell’essere umano abbiamo detto dipendere da questo atteggiamento).
Per questo motivo, se sappiamo che talvolta è stato tributato onore persino a scrittorucoli, o per puro affetto o perché
era sembrato che essi avessero aperto la via a quelli seguenti, quanta riconoscenza, ti chiedo, dobbiamo nutrire per
gli scrittori famosi e stimati, i quali, morti e sepolti molti secoli fa, per il loro ingegno divino e per le loro sacrosantissime
raccomandazioni, con noi vivono, abitano, parlano? E tra i perpetui flutti dell’animo, come altrettante stelle splendenti
e fisse nel firmamento della verità, come soavi e prosperi venti, come naviganti solleciti ed esperti, ci mostrano il porto
della quiete, vi indirizzano le vele della nostra pigra volontà, e vi dirigono il timone del nostro animo fluttuante, finché
non stabilizzi e governi i pensieri turbati da tanti eventi.
5. Questa è infatti la vera filosofia; non quella che si leva in alto con le ali fallaci e con boriosa iattanza di sterili
disputazioni fra giri a vuoto nell’aria, ma quella che attraverso una scorciatoia conduce con passi sicuri e moderati alla
salute interiore (salute come benessere, salute come salvezza dell’anima). Esortarti a questo studio è un atto forse
amichevole, ma certamente non necessario. La natura ti ha creato avido di leggere vari libri e conoscere più cose; la
fortuna, la quale, come dice il proverbio, detiene il potere su gran parte delle vicende umane, ti ha fatto sballottare in
un burrascoso e profondo mare di affari e di affanni; del resto né ti ha portato via l’ozio letterario e il desiderio di
conoscere, né di volere diventare ogni giorno più colto, più dotto di fatti memorabili, dilettandoti sempre dell’amicizia
e della conversazione con i letterati, rubando, per quanto ti è possibile anche ai giorni in cui sei occupatissimo ritagli
di ozio: in ciò io stesso ti sono da testimone che tu spesso al posto dei libri ti servivi di quella memoria, per la quale dai
dei punti a tutti.

Poi fa anche un elenco di autori con cui ci si deve confrontare a proposito di scelta. Questi rimedi o
medicamenti sono fatti di esempi. L’exemplum vuole dare un modello di comportamento, di storie e uomini
del passato con comportamenti esemplari e parole memorabili di filosofi, storici, poeti. La sentenza, che è
una frase breve e lapidaria, ha questa funzione ed è efficace proprio grazie a queste caratteristiche (deve
essere una pillola efficace, devono sostituire il discorso e fungere da richiamo della memoria). Queste
sentenze rappresentano in modo veritiero i vari aspetti dell’esistenza.
L’opera letteraria, sia quella degli antichi (da cui P estrae le sue pillole) e sia quella da lui composta in quanto
rielaborazione e assimilazione dei primi (lui si nutre delle letture dei classici e ne produce un bolo, un oggetto
finito esito di questa assimilazione) diventano strumento di salvezza per chi la leggerà, quindi tecnicamente
medicamento.
A P abbiamo detto che non piacevano i medici del suo tempo, li considerava dei ciarlatani. In una lettera in
cui scrive a Clemente VI, il papa, gli dice di liberarsi del suo medico perché è un truffatore. Aveva un’idea
pessima di questa categoria, anche se molti amici suoi erano medici. I pazienti a cui rivolgere questa terapia
sono: il primo destinatario dell’opera, che è un principe e che per questo ha molte responsabilità, si espone
ai guai, alla guerra, alle aggressioni, ai rapimenti, poi a tutti gli altri lettori che avrebbero letto l’opera dopo di
lui, dunque alla posterità che lui sperava avrebbe letto le sue opere. P non era umile.

Ricapitolando, P è erede di un topos dalle radici profondissime, classiche, medievali. Guarda caso quando
parla della funzione curativa della letteratura usa il termine “rimedio” che deriva dall’Ovidio (amoroso),
Remedia Amoris, una delle opere più diffuse e la declina secondo una semantica e delle metafore mediche
che trae soprattutto dalle opere di Agostino e più in generale dalla letteratura del XII secolo, soprattutto
monastica. Salta completamente il XIII secolo, per lui il 1200 è come fumo negli occhi. Questo era intriso della
cultura scolastica, accademica che proprio non riusciva a capire e che trova sbagliata. Predilezione verso
Agostino, anche per questo nelle opere di P il tema della malattia e della cura è collegato al tema della
memoria e degli affetti, delle passioni, in particolare della loro intensità, moderato o eccessiva, soprattutto
dell’ordine e disordine di essi (in Agostino la gerarchia delle passioni è cruciale). Agostino rimprovera P di
amare, idolatrare più Laura di Dio (inversione della gerarchia degli affetti, P ha amato più la creatura del
creatore). Agostino dice: “Sarà vero che Laura è la massima manifestazione della bellezza di Dio per te, ma
non puoi idolatrarla più di Dio”. L’ordine degli affetti risponde al criterio di razionalità. Qualsiasi forma di
amore (per una persona, per degli oggetti, compresi i libri) se eccessiva, fa sì che la persona non sia più in
equilibrio con la propria natura, attribuisce alle diverse esperienze il giusto valore ed è felice. Quando questo
affetto ne inficia altri, altera la gerarchia creando disordine, ecco che si crea disequilibrio e addirittura il suo
corpo si corrompe e insorge la malattia. C’è un ordine delle virtù. Questa idea dell’ordine delle virtù è anche
classica, fuori dall’applicazione cristiana c’è infatti quella civile. Sant’Agostino sapeva che l’equilibrio perfetto
e la felicità non sono veramente alla portata di tutti gli esseri umani; solo pochi, rarissimi, possono ottenere
questo stato, i santi (predestinazione dell’anima, sono toccati dalla grazia di Dio) possono. Ciò in quanto
l’umanità ha avuto lo sgradevole incidente di incontrare il peccato originale all’inizio il che ha causato un
allontanamento sostanziale, ontologico, della sua natura da quella di Dio. Questo allontanamento che si può
rappresentare come il “colare via dell’acqua da un recipiente rotto” (immagine agostiniana) comincia alla
nascita e continua nel tempo se non si pone rimedio. Mettere questa toppa fa male, i sapienti percepiscono
il decadimento delle cose (quella che Agostino chiama “inconsistenza dell’essere”). Tutta questa tematica
comparirà frequentemente nelle opere di P (corpo che da creatura celeste diventa nulla, fuga del tempo,
instabilità della mente). Agostino resta il suo punto di riferimento in tutto il suo impianto ideologico. Di fronte
a questa inconsistenza connaturata dell’anima, i rimedi della letteratura sono i soli a cui l’uomo può
efficacemente ricorrere. Letteratura e scrittura che richiedono e producono raccoglimento, la concentrazione,
il ricordo del sapere hanno il potere di riparare quel “recipiente rotto”, hanno la forza e la capacità di arginare
la continua dispersione di se. Ed è questo che Agostino raccomanda a P alla fine del Secretum. Egli si
raccomanda di consistere, di cessare il suo perpetuo girovagare, di non disperdersi nell’amore. Francesco
glielo promette ma poi rimanda questo impegno a quando avrà finito le sue opere maggiori (cosa che non
avverrà mai).

Secr. III, p. 283.


F. Sarò presente a me stesso quanto più potrò, e raccoglierò gli sparsi frammenti della mia anima e dimorerò in me
con attenzione. Ma ora, mentre parliamo, mi aspettano molte e importanti faccende, benché mortali. (…)
A. Ma vada pur così, visto che non può essere altrimenti. Supplico Iddio che ti segua nel tuo viaggio e che permetta
che i tuoi passi, anche se errati, ti portino al sicuro.

Qui sta il carattere di P e tutto il dramma della vita umana e della depressione come patologia, quella che ai
tempi di P era chiamata “accidia” (uno dei sette peccati capitali). P ha capito, ha ricevuto la prescrizione
medica, ma a deciso di non cambiare, rimanda il momento della guarigione. Qui sta il programma poetico di
P, quello di raccogliere di unire le sue opere di centinaia di pagine autobiografiche in una storia dell’anima
utile per chi la leggerà.

Anche la lirica volgare ha una sua funzione curativa sebbene ad un grado minore, anche perché rivolta ad un
pubblico diverso. Anche questa ha una funzione curativa rivolta al mal d’amore come P dice nella canzone 23
del Canzoniere ove racconta della propria felicità d’amore.
Rvf 23, 1-20
Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et anchor quasi in herba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com’io vissi in libertade,
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe.
Poi seguirò sí come a lui ne ’ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m’avenne,
di ch’io son facto a molta gente exempio:
benché ’l mio duro scempio
sia scripto altrove, sí che mille penne
ne son già stanche, et quasi in ogni valle
rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri,
ch’aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m’aita
come suol fare, iscúsilla i martiri,
et un penser che solo angoscia dàlle,
tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face oblïar me stesso a forza:
ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza.

Questo tema (cura del mal d’amore attraverso la poesia) è trattato ancor meglio nel De remediis I 69 (De gratis
amoribus), ove si svolge un dialogo tra Gioia e Ragione sul mal d’amore.
Questi autori conoscevano i trattati medici del tempo, ne usavano la terminologia nelle loro opere (scuola
salernitana), ne avevano fatto materiale di poesia. Molte canzoni usano il lessico medico (sospiri, anima che
si divide dal corpo). Alle nostre orecchie sembrano metafore letterarie ma si rifanno alla fisiologia. I medici
parlavano di umori caldi e freddi che si muovevano nel corpo. P le usa anche lui

Rvf 17
Piovonmi amare lagrime dal viso
con un vento angoscioso di sospiri,
quando in voi adiven che gli occhi giri
per cui sola dal mondo i’ son diviso.

Vero è che ’l dolce mansueto riso


pur acqueta gli ardenti miei desiri,
et mi sottragge al foco de’ martiri,
mentr’io son a mirarvi intento et fiso.

Ma gli spiriti miei s’aghiaccian poi


ch’i’ veggio al departir gli atti soavi
torcer da me le mie fatali stelle.

Largata alfin co l’amorose chiavi


l’anima esce del cor per seguir voi;
et con molto pensiero indi si svelle.

Tuttavia P si discosta un po’. Infatti rinuncia a tutto questo ragionamento di carattere fisiologico che nel
Duecento era molto presente. P evoca in una maniera più “rarefatta” questi significati, attenua questa
struttura fortemente medico-scientifica della poesia e lo fa in polemica con questa letteratura duecentesca,
di carattere scientifico-scolastico, che prevedeva una distinzione di saperi nettissima tra repertori di testi
raccolti da qualcuno che fa delle scelte o commenti ai testi. P si oppone a questa impostazione degli studi
troppo specializzata e troppo tecnica, troppo rivolta alla scientifizzazione del sapere. Propone un modello
integrale di formazione dell’uomo (Umanesimo).
P rifiuta la cultura dominante, supera la tradizione scolastica predominante. Il suo modello vincerà, nel
Trecento useranno il suo modello, superando questa tradizione scolastica scientifica enciclopedica.

NONA LEZIONE

ALESSANDRO MANZONI: tragedia ed eroismo della parola nell’opera suoi


Manzoni e Dante, da loro non si può prescindere nella nostra formazione. Dante consacra una delle tante
lingue che si parlavano in Italia, da allora inizia la carriera del fiorentino per divenire la nostra lingua. Anche
M ha un ruolo in questa storia, non nel consacrare il fiorentino che è già consacrato. Lui, tra l’altro, è lombardo.
Il fiorentino che si consacra a lingua letteraria di eccellenza tende col tempo a cristallizzarsi. Bembo fa
prevalere l’ipotesi del fiorentino aureo, quello del Trecento. Esso, in quanto lingua viva, che si evolve, secoli
dopo non è più un fiorentino trecentesco, è una lingua invecchiata. M ha il problema di avere tra le mani una
lingua non più percepibile come natura viva, una lingua non buona per essere candidata a lingua della nazione
italiana che molti aspiravano si realizzasse. Il fiorentino del Trecento non può essere un candidato, bisogna
svecchiarlo. Molti letterati del tempo fecero resistenza. Essi ritenevano che non fosse compito stabilire quale
lingua avrebbero parlato gli italiani, per esempio. Secondo altri il modello trecentesco del fiorentino, invece,
era il modello da seguire. M è quello che più si incarica di questa missione. Lui affida la gloria letteraria ai
Promessi Sposi, ci lavora per venti anni. Per trenta e più anni non scrive più nulla. Affida la realizzazione della
sua vita letteraria a questa opera e azzarda una scelta linguistica di rottura: usa il fiorentino Ottocentesco! È
un impeto rischioso. Nessuno faceva letteratura con questa lingua, era considerata una lingua bassa. Avrà un
enorme successo, così anche chi verrà dopo userà una lingua moderna.
M è un autore riconosciuto ma gravato da pregiudizi, come il fatto che fosse conservatore, a cui si
contrappone un Leopardi progressista. Invece è proprio il contrario! La poesia di Leopardi guarda a Petrarca,
al modello della poesia greco-latina sintatticamente, è un conservatore radicale!!!! M è uomo del
Risorgimento, militante, politicamente impegnato, del liberalismo dell’Ottocento, aspira all’unità d’Italia. È tra
gli intellettuali che ci credono alle promesse del Risorgimento, non combatte ma ci crede. Nell’Adelchi, M
letterato militante politicamente → in questo coro che parla di Longobardi e Franchi conduce una polemica
politica contro italiani del suo tempo che pensano che a fare l’Italia venga uno straniero, come Napoleone. A
fare l’Italia devono essere gli italiani. Leopardi politicamente, dei moti risorgimentali, pensa siano sciocchezze,
giochi destinati a finire in nulla, li deride addirittura. Rappresenta la presa in giro tra patrioti italiani ed
austriaci. Quindi chi è il vero conservatore? Leopardi! Questa è una prospettiva errata che si sta correggendo.
M è un autore irrisolto. È romantico, che significa propria irrisolutezza, la sensazione di non essere mai finito,
di raggiungere qualcosa che sfugge.
M ha a che fare col tema: “Che potere/significato attribuiscono alla parola letteraria i letterati?”. Manzoni è
tra i letterati del suo secolo che più ci si è arrovellato. Lui è problematicissimo, non si accontenta mai. Es.
Promessi Sposi, è un romanzo storico. Non lo ha inventato lui, lo ha inventato Walter Scott con Ivanhoe
(tensioni tra normanni e mondo sassone). Il romanzo storico innesca una vicenda di fantasia su uno sfondo
storico. M scrive il suo capolavoro ma non si racconta della definizione di Walter Scott, che è troppo semplice.
M vuole andare più a fondo, fiumi di inchiostro per risolvere ciò. Richi, benefici, saggi e lettere.
Si chiede a cosa serva la letteratura, fa bene o male? M avverte, si sente investito di una missione enorme:
raccontare onestamente la verità dell’essere umano. Il letterato non ha il compito di divertire, di svagare la
mente, ha un compito di tipo etico: contribuire con le sue parole a gettare luce nell’ombra della psiche e
dell’animo umano, di dipanare il “guazzabuglio del cuore umano”, ossia le contraddizioni che si animo nel
cuore umano.
Il tema della VERITÁ è un fil rouge di tutta la vita M. Sin dai primi anni → poesia giovanile di M, in occasione
della morte di Carlo Imbonati, compagno a cui si era legata la madre. Ella si era separata dal Conte Manzoni,
padre di Alessandro M. Donna di mondo si trasferisce a Parigi intreccia una relazione con Carlo Imbonati,
illuminista. M viene allontanato dai genitori per studiare, lui sviluppa un risentimento, odio/amore per la
madre da cui si sente allontanato, la odia ma la vede anche come una dea. Quando ha l’età per emanciparsi
va a Parigi e incontra anche Carlo Imbonati. Gli fa una buona impressione, è un intellettuale che apprezza. M
fu un giovano intellettuale illuminista e agnostico. Il filo rosso è quindi proprio il fatto di mettersi al servizio
della verità, costi quel che costi.
In morte di Carlo Imbonati (1805), vv 207-2015
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer Āli occhi: conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti ÿar mai servo:
Non ÿar treĀua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: nè proÿerir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
→ Forma faticosa, giovanile. È una tirata etica. “Vero”, unica parola con maiuscola nel testo. “Non tradir”.
Missione: trovare le parole per dire la verità in un mondo in cui spesso si mente.
Per questo avviene la conversione:
Illuminismo → romanticismo
Agnosticismo → fede
La sua conversione è lenta, una lunga meditazione sofferta. Non c’è un episodio specifico. Essa avviene a
seguito di una riflessione: dire la verità. Egli viene dalla cultura illuminista, a cui apparteneva anche sua madre,
che egli ha mitizzato. Piano piano M si convince che questa prospettiva sulle cose è una prospettiva
riduzionistica, che non riesce a rendersi conto della vastità dell’animo umano, che tende a ridurlo, a
scotomizzarne alcune parti. Lui inizia ad avere questa percezione: la percezione illuminista è scotomizzante,
usa solo la logica-deduttiva ma è una forzatura che mente, non rende ragione dell’essere umano. Ciò che non
è intelligenza logica-deduttiva non esiste seconda il filosofo illuminista. M non può mentire, nascondere la
verità, allora si scrolla la prospettiva illuminista che sente come riduzionista. Si sta formando una nuova
prospettiva: il Romanticismo, da cui è affascinato. Esso aspira all’infinito: nulla di meno dell’infinito può
soddisfare l’animo umano, costante trascendimento, ricerca, di qualcosa che è sempre altrove.
Nella fede M trova la narrazione di questa tensione. La sua fede sarà sempre agonistica, non consolatoria,
trionfalistica. Non è una fede che tutto spiega usando la fede provvidenziale. Quella di M è una fede
combattiva, che non vuole nascondere ad esempio le contraddizioni, i problemi, tra cui il problema del Male.
Nei Promessi Sposi c’è la religione, ma non è consolatoria! Non c’è un happy end. Alla fine si gira la pagina ma
non è un finale propriamente felice, continua la loro vita nelle difficoltà. È un’opera problematica dall’inizio
alla fine. È una fede coraggiosa quella qui raccontata, è il romanzo dell’oppressione, dell’ingiustizia. Don
Rodrigo è un bullo, però li opprime, non è il vero cattivo. Lo zio di Don Rodrigo è un cattivo. L’Innominato
preso dai romanzi gotici del tempo. C’è la volontà di calcare la mano. C’è il male della peste, la sofferenza
degli innocenti. Esempio, è la morte di Cecilia, posta sul carro. La fede dei Promessi Sposi apre gli occhi, porta
a fare i conti per trovare risposte difficili. La fede rende i problemi occasioni per diventare persone migliori.
M prende di petto il tema della verità, la letteratura è il racconto che dice la verità. La letteratura deve
scuotere, non deve divertire. M comincia a produrre una letteratura nuova.
Gli Inni Sacri sono un abbozzo di ciclo di poesia liturgica che non si realizza mai del tutto. Da 12 ne fa 5. Si
incarica di dire la verità, mette gli uomini davanti alle questioni grandi (es. morte). Tra i suoi pregi: la scelta
linguistica→ adotta una lingua il più possibile comprensibile a tutti. Questa fu una scelta non scontata,
controcorrente, rischiosa.
La poesia era poesia per pochi, i grandi letterati della nostra letteratura non pensano di rivolgersi al popolo,
quindi scelsero una lingua nobile, elitaria (Torquato Tasso, Leopardi…). M non vuole percorrere questa storia,
da romantico e cristiano, vuole che la verità arrivi al popolo.
È il primo, modello ex novo, sperimenta in questi Inni Sacri: temi complessi ma linguaggio aperto,
raggiungibile. È un esperimento semi-riuscito. Qui non ha ancora trovato la sua misura, però sta
sperimentando.
La verità, se è verità, riguarda il povero come il ricco. Se è verità lo è per tutti e quindi deve essere raccontata
a tutti.
Ad un certo punto M, che sta cercando il suo genere letterario, scrive due tragedie: Il conte di Carmagnola e
l’Adelchi. Nel comporle infrange tutte le regole. A inizio ‘800 la maggioranza dei tragediografi si rifaceva ad
Aristotele: per scrivere una buona tragedia bisogna rispettare tre unità (aristoteliche): spazio, tempo e azione
(stesso luogo, tempo, azione scenica). M fa tutto il contrario! Spazio e tempo non li segue: Il Conte di
Carmagnola non si svolge in un solo tempo e in un solo spazio. M non può attenersi alle tre unità aristoteliche,
il prezzo è troppo alto: non dire la verità. Lo riempiono di critiche, addirittura dicono che egli ha di infranto le
regole della bellezza → Monsieur Chouvet lettera (1823).
Il sistema storico, pur prestandosi in modo mirabile alla rappresentazione graduale degli avvenimenti e
delle passioni che possono portare al delitto, offre anche i mezzi di eliminare, in tutti i soggetti in cui è
rappresentato il delitto, questa lunga e disgustante premeditazione. Non so se il sistema delle due unità
offra in proposito le stesse possibilità, e se non ponga invece il poeta nell’alternativa o di lasciar che la
premeditazione del delitto sia immaginata, o di introdurre il delitto stesso in modo inverosimile e forzato.
(...) Spiegare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che hanno fatto, in questo
consiste la poesia drammatica; inventare i fatti per adattare ad essi dei sentimenti è, da Mademoiselle
Scudéry ai giorni nostri, il grande difetto dei romanzi. Non voglio per questo asserire che i componimenti
che appartengono al genere romanzesco siano sostanzialmente falsi. Certo ci sono dei romanzi che
meritano di essere considerati modelli di verità poetica; e sono quelli i cui autori, dopo aver preso atto, in
modo preciso e sicuro, dei caratteri e dei costumi, azioni e situazioni conformi a quelle che si verificano
nella vita reale: dico solo che, come ogni genere letterario ha il suo scoglio particolare, così lo scoglio del
genere romanzesco è rappresentato dal falso. Il pensiero degli uomini si manifesta con maggiore o minore
chiarezza attraverso le loro azioni e i loro discorsi; ma anche quando si parte da questa larga e solida base
raramente si giunge alla verità nella rappresentazione dei sentimenti umani, A fianco di un’idea chiara,
semplice e vera se ne presentano cento che sono oscure, forzate o false; ed è la difficoltà di separare la
prima dalle seconde che rende così esiguo il numero dei buoni poeti. Tuttavia anche i più mediocri si
trovano spesso sulla via della verità; qualche indizio più o meno vago di essa, lo hanno sempre. Ma è
difficile seguire questi indizi: che cosa accadrà poi se li si trascura e li si disprezza? È questo l’errore che
commettono, inventando i fatti, la maggior parte dei romanzieri. Ne è derivato quel che doveva derivarne,
e cioè che la verità è sfuggita loro più spesso che a quelli che si sono tenuti più vicini alla realtà; ne è
derivato che essi si sono preoccupati poco della verosimiglianza, sia nelle vicende che hanno immaginate
sia nei caratteri dai quali hanno fatto scaturire queste vicende; e che a forza di inventare storie, situazioni
nuove, pericoli inaspettati, contrasti eccezionali di passioni e di interessi, hanno finito col creare una natura
umana che non somiglia in niente a quella che avevano sotto gli occhi, o, per meglio dire, a quella che non
hanno saputa vedere. Di conseguenza l’epiteto di romanzesco è stato designato ad indicare generalmente,
per quel che riguarda i sentimenti e i costumi, quel tipo particolare di falsità, quel tono artificioso, quei
tratti convenzionali che contraddistinguono i personaggi dei romanzi.
→M dice che se avesse rispettato le tre unità avrebbe detto una bugia, ha dovuto scegliere tra vero e bello e
lui ha scelto il vero. Saba si riferirà a M. M si smarca subito dalle poetiche neoclassiche del tuo tempo, che si
rifacevano ad Aristotele e altri classici autori. M aggiunge altro: limitarsi a dire la verità non è abbastanza per
essere un letterato. Limitarsi a dire la verità è l’incarico dello storico, dice cosa è accaduto, il vero storico. Il
letterato ha il diritto e dovere di aggiungere al vero storico, che non deve contraddire, qualche elemento di
finzione purché sia verosimile, ossia che non entri in contraddizione con la realtà storica. Ad esempio, Renzo
e Lucia non sono esistiti, ma la loro storia è verosimile. Non basta, perché il letterato deve aggiungere ciò?
- Per rendere la storia più interessante. Nei Promessi Sposi lui si premura di fare tutta una descrizione
storica, che si salta a scuola perché sono noiosa.
- Tale invenzione verosimile ha una ancora più importante funzione: trasformare il vero storico in vero
poeta. Limitarsi a dire tutto ciò che hanno fatto e detto le persone non è tutta la verità, lo storico non
dice tutta la verità. Lo storico non dice perché tutto questo è successo! Non dice nulla sulle ragioni
intime, non cerca nel guazzabuglio umano le ragioni che hanno spinto gli uomini ad agire in un modo
piuttosto che in un altro. Il letterato deve permettere al lettore di fare questo passo in più: entrare
nel cuore dei protagonisti. Il letterato ha il diritto e l’onere di cimentarsi in questa impresa, che lo
storico non ha.
La storia di Renzo e Lucia quindi non è un semplice racconto di cronaca, è una storia con cui si entra nei panni
dei personaggi e ci si interroga sul perché del male, della cattiveria, dov’è la luce in tutto questo. In tal senso
l’invenzione serve, ha una ragione di natura filosofica, aiuta a ragionare. La letteratura deve interrogarsi su
questi perché difficili.
Saggio consigliato dal professore: La missione che la parola deve adempiere: RITA ZAMA, pensare con le
parole, Saggio su Alessandro Manzoni poeta e filosofo, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2013, pp.
252.
M entra in conflitto con Jean-Baptiste Say, il quale aveva fatto una riflessione di tipo relativistico: le parole
celano, sono relative, confondono perché hanno significato diverso in base a chi le ascolta. Con M polemizza
contro questa concezione della parola. Per M è il contrario, per lui le parole possono guidare gli uomini dentro
la verità, sono uno stimolo.
Nel Dialogo dell’invenzione, M dice che le parole sono l’occasione per dilatare la nostra coscienza, per porci
le domande che altrimenti non ci porremmo, c’è una complessità. Tale riflessione la farà Ungaretti. In tale
opera dice che “inventare” è “provare” (dal latino): l’inventore vede ciò che già c’era e che altri non avevano
visto. Si cerca di mettere in parole, attraverso questi tentativi ci si trova.
Nella poesia degli Inni Sacri e nelle Tragedie sperimenta, alla fine approderà al Romanzo Storico. Tre sono le
versioni dei Promessi Sposi. Il primo è in lingua arcaica (’21-’23, Fermo e Lucia), lui non è soddisfatto. Lo
riscrive (’27, Sposi Promessi), somiglia di più a quello che conosciamo. Ci rimette mano, nel ’40-’42 arriva la
definitiva, esce a fascicoli. Con questa scommessa vince. Con i PS porta a maturazione questa riflessione sulla
parola. Scegliendo il fiorentino vivo e vero dice che la lingua è al servizio di tutti, è essoterica = aperta,
universale, cattolico nel senso etimologico (aperto a tutti) NO esoterica = chiusa.
Esempio di episodi in seguito↓

¤ Del romanzo storico (scritto nel 1830, pubblicato nel 1850) → la verità apre il pensiero, non lo nasconde.
Ed è quando, portato dalla concitazione dell’animo, o dall’intenta contemplazione delle cose, all’orlo, dirò così, d’un
concetto, per arrivare il quale il linguaggio comune non gli somministra una formola, ne trova una con cui afferrarlo,
e renderlo presente, in una forma propria e distinta, alla sua mente (ché agli altri può aver pensato prima, e pensarci
dopo, ma non ci pensa, certo, in quel momento). E questo non lo fa, o la fa ben di rado, e ancor più di rado felicemente,
con l’inventar vocaboli novi, come fanno, e devono fare, i trovatori di verità scientifiche; ma con accozzi inusitati di
vocaboli usitati, appunto perché il proprio dell’arte sua è, non tanto d’insegnar cose nove, quanto di rivelare aspetti
novi di cose note; e il mezzo più naturale a ciò è di mettere in relazioni nove i vocaboli significanti cose note. Queste
formole non passano, se non per qualche rara opportunità, nel linguaggio comune, perché, come s’è detto dianzi, il
linguaggio comune non ha per lo più bisogno d’esprimere tali concetti; e la virtù propria della parola poetica è
d’offrire intuiti al pensiero, piuttosto che istrumenti al discorso. Ma quando sono, come devono essere, concetti veri
insieme e pellegrini, riescono doppiamente gradevoli. E, non lascerò d’aggiungere, estendono effettivamente la
cognizione; per quanto ci siano di quelli che credono filosofia il riguardare come oggetto esclusivo della cognizione,
alcune categorie di veri,

¤ I promessi sposi, il latinorum di don Abbondio


"Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa," disse Renzo, cominciando ad alterarsi, "poiché me ne ha già
rotta bastantemente la testa, questi Giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto
ciò che s’aveva a fare?" "Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il
mio dovere, per non far penare la Gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra
l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero Giovane; e i superiori... basta, non si può dir
tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.” “Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che
s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.” “Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?” “Che vuol
ch’io sappia d’impedimenti?” “Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen,
honestas, Si sis affinis,...” cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. “Si piglia gioco di me?”
interruppe il giovine. “Che vuol ch'io faccia del suo latinorum? “Dunque, se non sapete le cose, abbiate
pazienza, e rimettetevi a chi le sa.”
→Oggi frastornati da cosa sia la verità per le opinioni contrastanti urlate, fanno fumo invece di diradare la
nebbia. Allo stesso modo ne parla M con Don Abbondio che usa la sua erudizione per confondere. Don
Abbondio ha paura di tutti, che gli facciano male. Ha paura di Don Rodrigo, ma anche di Renzo. Deve allora
trovare il modo di convincere Renzo ad accettare la dilazione del matrimonio. Come lo inganna? Ricorre ad
un uso sleale della lingua, il latinorum di Don Abbondio. → Spesso nei PS chi ha istruzione invece di farne
giovamento al popolo, ne fa strumento di oppressione. Accade anche con Azzecca-garbugli. La minaccia di
Don Rodrigo alla fine viene a galla. Renzo si rende conto che il punto debole è Perpetua, nella casa di Don
Abbondio. Ella è l’incarnazione del pettegolezzo, dice a Renzo tutto. Allora Renzo torna da Don Abbondio e,
accarezzando il coltello, lo convince a dire la verità. La situazione si ingarbuglia, perché Renzo va da Lucia, lei
gli confessa che da tempo Rodrigo le dà fastidio. Tutta la storia nasce dalla scommessa tra questo e suo cugino,
“Io posso fare quello che voglio con Lucia”, “Scommettiamo?”. Anche Azzecca-garbugli, avvocato, fa un uso
improprio della lingua, parlando con Renzo → usa la legge non per garantire la giustizia, ma l’ingiustizia.

¤ Altro esempio è quello di Antonio Ferrer e il suo doppio codice

→ Renzo e Lucia rischiano grosso quando Don Rodrigo manda i Bravi, ma Lucia non era in casa, era con Renzo
per farsi sposare a tradimento da Don Abbondio. Padre Cristoforo li manda via dal paese per metterli al sicuro,
Renzo a Milano in un convento francescano, mentre Lucia a Monza. Don Rodrigo si riferisce allo zio per cercare
aiuto. Renzo però invece di andare dritto alla meta, si trova in mezzo ai disordini per il pane, si fa scambiare
per un capo della rivolta, si fa condannare e poi sfugge e si rifugia nel bergamasco. Il vicegovernatore di Milano
è Antonio Ferrer, il governatore deve condurre una guerra. Ferrer deve sedare gli animi invece, interviene
usando ambiguamente le parole. Egli è un demagogo: dice al popolo ciò che questi vuole sentirsi dire anche
se questo è il male del popolo stesso. Il popolo vuole il pane a prezzi stracciati, ma ciò significa che tutto il
pane che c’è finirà e ci sarà la carestia. Ferrer, essendo spagnolo, usa due registri: spagnolo e milanese. Dice
cose che si contraddicono a vicenda nei due registri. Lo fa perché è comodo.

Episodio di Don Ferrante, alienato, pontifica citando Aristotele. Quando scoppia la pestilenza, dice che non si
trasmette, ma per l’influenza degli altri, “come ha scritto Aristotele”. Muore di peste perché non si protegge.
Anche qui la parola non dice la verità.

Altri esempi di parole che denudano la verità ↓

La notte della conversione dell’Innominato → sin ora tutto male: Renzo è lontano e condannato a morte. Lucia
nelle mani dell’Innominato che la vuole dare a Don Rodrigo. D’ora in poi, con questo evento, le cose andranno
meglio. In questa notte in cui l’Innominato fa i conti della verità, si vede per il mostro che è diventato, arriva
quasi al suicidio. Deve decidere se disperarsi o darsi fede, la possibilità di rinascere. Alla fine sceglie di darsi
una possibilità. In tale notte la riflessione sulle parole genera la conversione.
Lucia quando è trascinata davanti all’Innominato lo supplica. Egli non è contento perché non voleva aiutare
Don Rodrigo ma non poteva dire di no. È ancora più infastidito, è alle soglie di un ripensamento. Lucia dice
una frase: “Dio perdona tante cose per un gesto di pietà/compassione”. Lui la scaccia, perché quella è una
supplica. È la goccia che provvidenzialmente fa traboccare il vaso, per costringerlo a scegliere al bivio. Quanto
travaglio in tutto questo…

Episodio della conversione di Ludovico, futuro Padre Cristofolo.

Notte in cui Don Rodrigo si scopre appestato e nel sogno febbricitante che fa sogna un uomo che alzando un
dito pronuncia parole di cui non comprende le parole. Rimanda a capitoli prima, dove Don Cristoforo lo aveva
incitato a lasciare stare i due giovani. Inizialmente glielo dice con calma, poi alza il dito e gli dice che anche
per lui arriverà quel giorno, arriva.

Addio monti, …
Episodio di Cecilia

DECIMA LEZIONE

UMBERTO SABA
Umberto Saba ci porta nella contemporaneità ovvero nella poesia del ‘900. Saba è un
autore fortunato nella programmazione scolastica anche se ci è entrato per una ragione
non del tutto corretta ovvero la semplicità delle sue poesie, la apparente semplicità non
significa banalità di contenuto anzi, nasconde una certacomplessità. Accanto a Ungaretti e
Montale è considerato capostipite di una linea poetica importante del ‘900 che arriva fino
ad oggi. La linea anti novecentista di cui Saba sarebbe il maggior ispiratore è quella linea di
poesia che si rifà alla radice della cultura romantica, tanto viva in Italia (Scapigliati, Manzoni
→ uno dei modelli di Saba), linea poetica del realismo molto settentrionale, lombarda, che
arriva poi al futurismo, a Saba e prosegue nel corso del ‘900.

VITA
Saba (nome vero: Umberto Poli) nasce a Triste nel 1883, in una città che in quel momento è
politicamente fuori dal regno di Italia, è il porto dell’Impero
Austro-Ungarico, è una città di confine, multiculturale, Saba sceglierà poi la lingua e la
cultura italiana con la fatica di dover scrivere in un modo non proprio, fatica di non poter
frequentare i centri culturali, lui vive all’estrema periferia, dovrà poi fisicamente mettersi
in viaggio. Ad arricchirlo ulteriormente c’è la sua radice ebraica da parte di madre. Da
piccolissimo fu vittima di un trauma: l’abbandono da parte del padre biologico prima
ancora che lui nasca. La madre porterà poi il rancore sul figlio non accettandolo e
lasciandolo alle cure della balia slovena che lo crescerà amorevolmente diventando la sua
figura di riferimento. Il trauma non fu l’abbandono in sè ma arrivò successivamente
quando la madre biologica lo portò via dalla balia continuando comunque e trattarlo con
atteggiamento freddo e distante (il nome d’arte è forse preso dal cognome della balia,
Peppa Sabaz).
Gli anni d'infanzia furono difficili, nel Canzoniere lui li ricorda come anni di sterminate
letture dei grandi classici della letteratura italiana, lui si innamorerà di tutti quei grandi
poeti, anni di sofferenza ‘simulata’ per far credere alla madre di avere un animo docile e
tranquillo.
Nel 1905 va a Firenze, nel 1907 entra nel servizio militare, esperienza positiva per luiin quanto
sperimenta una fratellanza che fa bene al suo spirito, torna nel 1909 a Trieste e sposa
quella che poi sarà la donna della sua vita, avranno una figlia nel 1910. Nel 1911 pubblica il suo
primo libro di poesie, a sue spese, che verrà accolto da un grande silenzio (verosimilmente a
Italo Svevo che prima del successo attraverso molti fallimenti). Saba trova allora
un’occupazione, apre una libreria antiquaria. Nel 1921 viene pubblicata la prima versione
della sua opera più importante, il Canzoniere, con il marchio editoriale della sua libreria,
si autopubblica. La sua vita non è segnata da imprese eroiche ma da vita affaticata dal
dramma di chi porta con sé le proprie fatiche esistenziali. Nel 1929 intraprende un percorso
di psicanalismo da un allievo di Freud (altra analogia con Svevo: la coscienza di Zeno, che
ha come tema la psicanalisi), ha una stima filosofica e grande fiducia di tipo medico nei
confronti di questa pratica.
Nel 1938 è costretto a scappare dall’Italia e fugge a Parigi costretto dalle leggi razziali, in
quanto di origine ebree. Nel 1945 finisce la versione finale del Canzoniere per Einaudi, la casa
editrice più all'avanguardia in Italia. Gli anni successivi sono segnati dal riconoscimento
delle sue opere e dalla gloria letteraria ma anche dal male di vivere (credo di aver capito
che avesse una malattia). In questi anni si cimenta in un romanzo e compone un abbozzo
che non porterà maia compimento, ‘Ernesto’.

SAGGIO “Cosa resta da fare ai poeti”


Scrive un saggio nel 1911 sotto forma di articolo che propone a una rivista ma vienerifiutato
e verrà poi alla luce soltanto nel 1959, postumo. E’ un saggio di fondamentale importanza
per capire la sua poetica, si intitola ‘cosa resta da fare ai poeti’. Saggio diviso in 4 parti in
cui dichiara qual è il suo modello di riferimento,ovvero Manzoni, contrastando il poeta
che tra i contemporanei era considerato ilpiù grande cioè D’Annunzio, lui lo vede come
un antimodello, qualcuno da rifiutare per potersi distinguere. Il Saba precedente a
questo saggio fu anche lui d’annunziano in realtà, arrivò poi al rifiuto consapevole. Manzoni,
scrive Saba, non scrive come D’Annunzio ma dice la verità e le sue parole dureranno nel
tempo. Ai poeti resta da fare la poesia onesta, poesia che si incarica di dire la verità anche
quando è difficile, sgradevole. Affida questa missione di rinnovare la poesia alle nuove
generazioni e critica le vecchie generazioni di poeti. Ci fa capire quale compito affida alle
sue parole, anche nel Canzoniere lui insiste sull’esigenza di questa trasparenza, onestà,
chiarezza. Le parole si rendono quasi invisibili lasciando passare la verità al quale sono al
servizio (ecco a cosa serve la poesia, si dice coraggiosamente ciò che non si vorrebbe dire).

Lavagetto - “La gallina di Saba”


M. Lavagetto, critico letterario, insiste molto su questo punto in un saggio su Saba “La
gallina di Saba” in cui si sofferma sulla poesia psicanalitica, mettendo in relazione la
poesia del poeta con Benedetto Croce, in un punto i loro pensieri si accostano: L’idea di
uno stile che si realizza pienamente quando raggiunge una trasparenza assoluta, quando
non è più percepibile e si annulla o sprofonda all’interno della parola, affiora
continuamente nell’opera di Saba: ed è un’idea di origine romantica che risuona
nell’Estetica di Croce (nella riaffermata identità diintuizione ed espressione, ecc.). Saba,
seppur refrattario per motivi personali (e non solo quelli) ad accettare il sistema crociano
ed i suoi canoni, ne promuove, in alcuni casi, la memoria. (preso dalla slide) → anche lui si è
posto la domanda a cosaserve la poesia e si è dato questa risposta.
La verità di cui Saba vuole parlare va cercata dentro all’uomo, giace al fondo, nelle profondità
della mente ed è spesso contraddittoria. Saba vuole produrre una poesia autentica in cui
palpitano le passioni autentiche di uomini autentici.
Sembra quasi provare un senso di invidia verso la semplicità delle creature oneste, come
vorrebbe essere lui e come le sue parole dovrebbero essere; invidia le creature
trasparenti, non avvelenate di cultura.

Il Borgo
In questa poesia questa sorta di invidia emerge con grande forza, rievoca unepisodio del
suo passato.

Emerge il desiderio di essere qualcosa di migliore di sé, dove migliore sta per piùsemplice,
semplicità complicatissima da raggiungere perché significa una lotta feroce contro se
stessi.

G. Gozzano - “La signorina Felicita”


Questo testo (il borgo) ci evoca un passaggio di Guido gozzano, il maestro del
crepuscolarismo del 1911 → “La signorina Felicita” ovvero la felicità, in cui lui racconta un
episodio in cui, giocando, finge di innamorarsi di una ragazza ma lei si innamora
onestamente, semplicemente e istintivamente va dove la porta il cuore, lui non può
cedere a questa tentazione. Gozzano desidera la stessa cosa di Saba: non essere se stesso.
C’è un sincero dolore di essere così complicati e avvelenati di cultura
Sincera sofferenza a stare nella propria pelle, mentre ci dice che vorrebbe essere ciò che
non è ci dice anche che è impossibile essere ciò che non è. Borgo natio è un’espressione
leopardiana, è come se ci stesse dicendo vorrei, ma non possoproprio.

Squadra paesana
Questo desiderio di Saba di appartenere alla comunità dei semplici (ritiene che posseggono
quella verità a cui lui aspira) emerge in “Squadra paesana” che appartiene a un piccolo
ciclo di poesie. Siamo in Trieste, va a una partita dellatriestina non tanto per tifo ma per
vivere un'esperienza di entusiasmo collettivo,per sentirsi parte del gruppo, quello che più
emerge è come Saba si senta finalmente parte di qualcosa e ambivalentemente non si
senta parte di quella cosa.

Ossimoro diversamente-ugualmente, ecco l’ambivalenza. Brama un’ autenticità che sente


di dover raccontare ma che continua a sfuggirgli.

Città vecchia
Un altro testo esemplare è sicuramente città vecchia, testo del 1911 che nasce da un
momento difficile della sua vita, nasce da un tradimento della moglie e ovviamente lui
soffre questa condizione di ennesimo tradimento, di rifiuto. Città vecchia racconta una
delle tante passeggiate che lui faceva per distrarsi dalla sofferenza, passeggiava senza
meta (lo troviamo anche in tanti altri letterati es.Verga in una novella). Passeggia e sceglie
una via che lo porta ad attraversare la parte vecchia di Trieste, il porto, sono zone
malfamate che lui sceglie intenzionalmente di attraversare. E’ strutturata in tre parti,
descrizione oggettiva, descrizione soggettiva in cui il paesaggio si trasforma e una
riflessione di natura esistenziale psicologica che entra nella mente di chi sta osservando la
scena.
Saba sceglie di immergersi in ciò che è impuro nella convinzione che lì stia la purezza,
perchè la purezza è l’autenticità, questi personaggi che lui evoca nella parte centrale non
sono santi e non sono angeli, sono gli sbandati che popolano questa parte della città
(marinaio, vecchio, femmina, …), la vita è vista come esperienza dolorosa ma anche pura e
innocente.
La storia di ciascuno è sacra, ciò che va detto è ciò che l’uomo è, dissacrarla significa
disconoscerla.

Amai
Poesia tardiva, composta da uomo maturo, inizia a ragionare sulle proprie scelte esu come
ha investito la propria esistenza, testimonia quella naturale riflessione che ciascun essere
umano fa su se stesso. Cosa confessa Saba in questa brevissima poesia? Confessa quali
sono gli amori ai quali ha consacrato tutta la sua esistenza.
E’ il manifesto della poetica sabiana,
‘amore’ isolato nel terzo verso per
rendere ancora meglio la centralità di
questo concetto. Insomma è una vita
consacrata all’amore: amore verso le più
semplici delle cose, talmente semplici
che gli uomini disprezzano, perché
considerano ovvie e scontate, non
comprendendo che è proprio lì che
stanno le cose preziose.
Nonostante la semplicità della rima fiore-
amore (che potrebbe essere fattaanche da
un bambino), proprio per
questo è la più difficile perché nasconde una profondità importante che rischianella sua
semplicità di essere nascosta, sottovalutata.
Anche Ungaretti partirà dalla constatazione che le parole che tutti i giorni pronunciamo
sono abusate, private del loro reale significato. Saba si cimenta in un esercizio poetico
analogo, quello di restituire alla semplicità la sua vita. La verità sta dentro all'essere umano
(sogni, paure, desideri, pulsioni), è la verità che giace al fondo, come un sogno che giace
dimenticato, che però pur facendo paura al cuore, è amico, quindi non è una brutta
verità. Ma c’è un prezzo da pagare per tornare all’amicizia con la verità: oltre agli aspetti
positivi della propria persona, si deve avere il coraggio di guardarsi allo specchio e di vedere
anche quelle parti di sé che spaventano, ma che hanno il medesimo diritto di cittadinanza
dentro di sé.

Colloquio
Saba scrive diverse poesie che hanno come soggetto creature semplici come glianimali, in
questo caso un cane, poesia poco conosciuta. Le creature semplici come gli animali non
mentono a se stesse e agli altri, pensano e comunicano senza filtri, torna il tema dell’invidia
della semplicità.

La capra
Altra poesia riguardante gli animali, capra che nasce da un'occasione semplice ebanale,
il poeta passeggiando vede una capra legata a un palo che bela, all’iniziosi prende gioco di
lei ma ben presto si rispecchia nella comune appartenenza al dolore, esperienza di tutte
le creature, in questo senso sorelle.
L’aggettivo semita richiama alle sue radici, come
a dire che hanno il volto simile, moltoumano. Si
potrebbe fare un paragone con “Il Canto
Notturno” di Leopardi, notando soprattutto le
differenze di atteggiamento di Saba. Il pastore
notturno del canto del guardiano prima invidia
la sua greggia perché la considera
sufficientemente ignorante da non provare il
dolore che prova lui, poi solidarizza con essa
immaginando che tutto sommato il nascere in
una uguale sciagura accomuna tutte le creature.
In Saba non c’è questo atteggiamento così
filosofico
che specula sulla differenza di ragione tra uomo e natura, qui c’è uno slancio lirico più
immediato alla fraternità, di tipo emotivo: siccome tu soffri sei mio fratello, nella
sofferenza ci riconosciamo figli della medesima esperienza.
A mia moglie
Questa poesia racchiude il tema dello spasimo alla verità, delle parole trasparenti, dell’invidia
verso chi è considerato più vicino alla semplicità, come animali, bambini e le donne,
considerate come creature più istintive, meno razionali. La scrisse d’impeto mentre la moglie
era andata a fare la spesa, al ritorno le consegnò il foglietto credendo di farle un bel regalo
ma lei si arrabbiò perchè sisentì paragonata a tutta una serie di animali comuni, senza capire
che questo erail più grande omaggio che potesse farle in quanto la paragonò alle creature più
semplici, più pure, e più vicine a Dio. E’ un omaggio biblico, ovviamente però èprovocatorio senza
volerlo essere, tipico della poesia sabiana.
L’addio
Una poesia non particolarmente nota, che celebra la
vita per la sua fragilità, per la sua meravigliosa
imperfezione. Parla di un addio,della fine di un amore.
Non è una delle più liriche di Saba, ma
rappresentativa di questa scelta assolutamente
controcorrente rispetto all’era dannunziana dei
grandi slanci(?), celebra invece gli slanci interrotti, i brevi amori che, nonostante brevi,
possono essere amori veri.
Appunti
La poesia sabiana è una poesia psicanalitica, nel senso
che va a gettare uno sguardo nelle contraddizioni
dell’anima, nei sotterranei della mente. Lavora spesso
freudianamente per associazioni, generando
all’interno del Canzoniere una rete intratestuale di
richiami, essenziale dal punto di vista esegetico, che
non si capiscono fino a quando non se ne rendono altre
che spiegano qual è il ricordo che ha agito dietro alla
poesia precedente e che quindi ne permette di
illuminareil senso.
Questa poesia ha un passaggio che potrebbe nonessere
comprensibile: perché il piccolo Berto ha
questo impeto d’odio uno sconosciuto che ha l'unica colpa di regolarsi l’orologio al polso?
Non lo capiamo se non leggiamo un altro testo “Un grido”, questa poesia fa riferimento a
un suo ricordo d’infanzia e scopriamo che la sua balia, Peppa Sabaz, era sposata con un
uomo, un uomo buono, che usava regolare l’orologio. Il piccolo Berto innamorato di Peppa
lo odiava in quanto occupava in posto che avrebbe voluto occupare lui ma allo stesso
tempo lo invidiava. Episodio che permette di comprendere il perché di quest’odio
irrazionale.
Questo è uno dei tanti esempi di come all’interno del Canzoniere si generi una rete
intratestuale.

In conclusione Saba ha sperimentato e proposto a tutti i suoi lettori un esercizio della


poesia impegnativa, un esercizio della poesia del coraggio, uno dei tanti modi in cui la
letteratura può essere intesa.
UNDICESIMA LEZIONE

ALDA MERINI

CORPO AMORE POESIA

lezione di Francesca Parmeggiani

Alda Merini è nata a Milano nel 1931 ed è morta nel 2009. E’ stato personaggio pubblico, soprattutto
dagli anni 90.
I temi ricorrenti della sua poesia sono: il corpo, l’amore e la poesia stessa. Non sono temi separati anzi
vanno sempre intesi in relazione tra loro, in forte dialogo, tensione e polarizzazione.

I testi di riferimento (trattati a lezione) sono tratti da:


- “Delirio Amoroso”, una raccolta pubblicata nel 1989;
- “Vuoto d’amore” del 1992. Alcune delle poesie sono state composte da Alda Merini negli anni
Settanta, quindi già nel periodo del suo internamento in un ospedale psichiatrico a causa della sua
malattia; vi sono anche raccolte poesie successive, soprattutto degli anni 80
- “Magnificat. Un incontro con Maria” del 2002, in questa raccolta vi sono dei testi in cui Alda Merini
si confronta in maniera molto più diretta con i vangeli, la spiritualità (presenza in realtà forte già dagli
inizi).

La parte finale della lezione sarà su “L’oltre vita” di Alda Merini, sulla presenza di Anna Merini oggi, ma
anche a com’è stata omaggiata precedentemente alla sua scomparsa negli anni ‘90 e 2000: Riguarda il
come vive nell’immaginario di oggi, un immaginario che non è solo critico, e riguarda la presenza e il
valore dei suoi versi e della sua produzione letteraria.

PRIMO TESTO

“Alda Merini”

Amai teneramente dei dolcissimi amanti senza


che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti
diedero al mio modo di vivere un nome e fui
soltanto una isterica.

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “La gazza ladra. Venti ritratti”
(1985)]

Breve raccolta nel 1985 che è stata inclusa in vuoto d’amore. Rappresenta come descrive Alda Merini
se stessa.
La prima parola è amai, il tema dell’amore che apre e chiude i primi versi “amai.. amanti” è
fondamentale. E’ interessante l'uso del passato remoto, è come se la poetessa guardasse se stessa,
si allontanasse da sé stessa, per vedere e parlare di sè. L’amore espresso è unamore che non richiede
un desiderio dell'altro, è movimento verso l'altro. E’ un amore che può avvenire anche senza farlo
sapere, senza che l'oggetto di amore sia consapevole, non presume la reciprocità ma è un sentimento
assoluto che definisce il soggetto amante espresso dall’io amai (Alda Merini).
Nel terzo verso “E su...tele di ragno” c’è un preciso riferimento ad Aracne, riferimento a tutta una
mitologia femminile. Quindi non è solo la costruzione del tema d'amore ma dell'identità femminile.
“fui preda.. materia” in qualche modo Alda Merini che ama è anche vittima di questo amore, è molto
interessante l’uso di materia perchè riporta immediatamente a un’idea di corporeità (corpo è il
secondo grande tema ricorrente). La presenza del corpo, della materia è fondamentale, un corpo a
corpo con la vita, con l’esperienza, ma non è semplicemente un’astrazione.
“in me... ipocrita” è una rappresentazione complessa, parla di anima che è da intendersi sia in senso
laico che religioso, l’anima è della meretrice, della santa, della sanguinaria e dell’ipocrita.
Questa poesia esprime uno sguardo complesso, un'identità complessa; non è un'identità caratterizzata
solo dal positivo, lei stessa che si vede in modo critico, sia positivo che negativo.
Negli ultimi due versi ‘‘molti diedero… fui soltanto un’isterica’’ vediamo che da un io, molto forte, si
passa a come la poetessa è stata vista dagli altri e la condanna degli altri verso di lei. ‘isterica’ è legato
alle grandi tematiche sull’identità femminile, sull’isteria femminile, viene usato questo termine come
condanna alla passione che non è vista come qualcosa di positivo, di creativo, ma come una malattia
e una rinuncia al razionalismo, razionalismo chenon viene riconosciuto ad Alda Merini. C’è anche un
riferimento alla sua esperienza della malattia mentale.

TESTO 2

Spazio spazio io voglio, tanto spazioper


dolcissima muovermi ferita; voglio
spazio per cantare crescere errare e
saltare il fosso
della divina sapienza.
Spazio datemi spazio
ch’io lanci un urlo inumano,
quell’urlo di silenzio negli anniche
ho toccato con mano.

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “Il volume del canto”]

Poesia tratta dalla stessa raccolta ma dal volume ‘il volume del canto'. Il volume non è solo inteso come
libro ma anche come massa critica, spazio; il canto è la poesia. E’ una poesiasenza titolo. Si nota subito
la musicalità, Alda Merini ha scritto endecasillabi, settenari, ha esordito in questo senso con una poesia
quasi canonica per poi andare verso versi sciolti, liberi, ma è stata sempre costante la musicalità, quasi
cantabilità. Una poesia con cadenze, ritmi, qui resi attraverso l’iperbato (dolcissima muovermi ferita),
anfore di spazio, l’asindeto (cantare, crescere, errare), un ritmo che viene costruito, senza l’uso della
preposizione ‘e’ se non alla fine. C'è una forte sperimentazione che non rinuncia mai all’idea di ritmo
in Alda Merini.
Nella poesia vi è l’affermazione del sé poetico come di un desiderio di spazio, di crescita, poetico, per
cantare, cambiare, vivere, errare (sia nel senso di fare sbagli che di vagabondare).
‘saltare fosso di divina sapienza’ esprime un tema molto importante, c’è sempre l’idea di essere figlia,
creata/creatura di e allo stesso tempo creatrice, generata da sé stessa; il rapporto con la divinità non
è un semplice rapporto di abbandono ma anche quasi di sfida. ‘‘..urlo di silenzio’’ è quasi un’
espressione ossimorica, ma qui il riferimento è a quel silenzio imposto dalla malattia, esperienza del
manicomio, dell’istituzionalizzazione e desiderio e volontà di liberazione.
Utilizziamo ora il testo “Delirio amoroso” per analizzare la sua vita.
“Delirio amoroso” è un libro denso, diviso in tre parti, è in prosa ma lirica, c'è un racconto ma in alcuni
momenti sembra scardinare i nessi logico causali.

I. Milano: poesia, matrimonio e famiglia, internamento


Alda Merini nasce a milano da una famiglia ambivalente, entra presto a far parte di un circolo
letterario (il circolo letterario in via del Torchio) dove ha la possibilità di incontrare diversi Ietterati e
letterate attivi. Sono gli anni del dopoguerra, lei aveva 15-16 anni quindi haavuto vocazione poetica
precoce, ha mostrato presto una grande sensibilità e creatività.

TERZO TESTO

“In via del Torchio io ho vissuto la mia prima società poetica. Per società intendo
dire che sul divano sedevo gomito a gomito coi grandi della poesia, con la classe del
rinnovamento letterario. Io ero troppo piccola per capire cosa facessero quei grandi uomini.
[...] Eravamo tutti trafficanti di merce spirituale. [...] Ripensando ai trascorsi in via del Torchio,
dico che sì, quelli furono tempi sereni, ma non del tutto in quanto
io non ero alla ricerca della poesia, bensì della verità. Culturalmente appagata, scrissi

“La Presenza di Orfeo” [Alda Merini, Delirio amoroso, Genova, Il melangolo, 1989, pp. 14-15]

La sua prima raccolta poetica, uscita nel 1953, viene recensita dai letterati di via del torchio come Pier
Paolo Pasolini, Giorgio Manganelli, con cui avrà anche una relazione sentimentale, e in particolare
Maria Corti che fu quasi una mentore, aiuterà la Merini a pubblicare i suoi testi e ne curerà le edizioni.
Fu un luogo di espressione poetica e conoscenza, anche del mondo poetico italiano. Dopo questa
iniziale esperienza farà anche scelte di vita particolari, alla ricerca della verità, più che alla ricerca della
poesia era alla ricerca della verità, della propria identità di donna che cresce.
A questo momento di grande creatività corrisponde anche un momento diverso, il matrimonio. Si
sposa e ha una famiglia ma non sarà a detta della critica un matrimonio facile, in parte per le
differenze anche culturali col marito, in parte perché la gestione della vita familiare per lei (che è una
giovane donna con ambizioni, volontà di desiderio poetico e una vocazione poetica fortissima)
risulterà estremamente complessa da conciliare..
Alda Merini aveva manifestato fin da giovane forme di instabilità mentale. Questa malattia, questa
condizione problematica sarà detta essere delle forme di psicosi o schizofrenia e si scatenerà negli
anni ‘50 e soprattutto negli anni ‘60, per ciò verrà internata in un manicomio fuori Milano. Comincerà
quello che è stato detto dai critici e da lei stessa ‘due decenni di silenzio’, saranno dieci anni passati
dentro e fuori dal manicomio (questa è la parola che leiutilizza), dall'istituto, istituzionalizzazione. a
Questi seguiranno dieci anni dove scriverà senza pubblicare; saranno anni di attività creativa dove la
scrittura rappresenterà la possibilità di espressione, avrà un valore terapeutico, come catarsi e
cura.Tornerà a pubblicare negli anni ‘80, nel 1984 in particolare vi sarà la pubblicazione di ‘La Terra
santa’che viene considerata probabilmente la sua raccolta poetica più importante.
“Io sono stata tradita: non so da chi. Un giorno calò una nube grigia sulla mia esistenza. Una
nube senza colore. [...] Fui sotterrata in psichiatria. Per via dell’onore, per via del potere. Il
«diario» fu il mio passaporto per una follia densa di amore e di povertà. [...] Se mi si tradisce,
mi nascondo nel groviglio delle parole e le parole sono delle siepi verdi e alte dove si
acquattano gli onesti cerbiatti” [ivi, pp. 25-26]

Descrive nel testo l’esperienza manicomiale che diventa un'esperienza centrale e costante in tutta la
sua produzione poetica e narrativa.
Il primo paragrafo è molto denso, ‘fui sotterrata in psichiatria” manicomio e psichiatria sono termini
problematici nella sua poesia, hanno una funzione molto diversa rispetto all'idea di follia che
rappresenta anche una sublimazione delle esperienze della malattia mentale. Il termine psichiatria
esprime invece l'aspetto più aggressivo, più violento dell'esperienza manicomiale, della malattia
mentale.
Un riferimento importante è al diario, un’altra verità, è il racconto non più in versi ma in prosa
nell'istituzione. Il diario, che i medici le consigliarono di scrivere, tratta la scrittura come opportunità,
momento terapeutico di sfogo ma anche di superamento (verrà poi pubblicato nel 1986 dopo essere
stato rivisto rispetto alle prime pagine di sfogo o cronaca di una quotidianità complessa e dolorosa).
Per lei il diario è un passaporto per una follia (non più psichiatria) densa di amore e di povertà. L’idea
di amore che entra è interessante perchè è stata un’esperienza di violenza, dolore, ma anche di
amore, di riscoperta della vita e attaccamento alla vita stessa.
E’ densa di povertà perché c’è una riduzione a zero di umanità, sono esseri umani spogliati di qualsiasi
dignità e strumento per vivere, completamente alla mercé di altri.
Le ultime due righe riportano alla poesia: ‘‘se mi si tradisce mi nascondo nelle parole… cerbiatto’’, la
poesia ha la funzione di difendere (non è solo terapeutica quindi);
‘‘parole come siepi verdi…’’ è un’immagine aggraziata e riporta la poesia come difesa di sé.

Taranto: secondo matrimonio, scrittura, nuovo internamento

Il secondo momento in cui possiamo dividere la sua vita la vede fuori dal manicomio.
Ha 4 figlie che saranno affidate ai servizi sociali dopo il suo internamento e la morte del marito, lei
quando uscirà avrà una relazione epistolare con il poeta Michele Pierri, un nuovo amore che la porterà
a trasferirsi negli anni ‘80 a Taranto. Avrà un secondo matrimonio che coinciderà con un’intensissima
attività di scrittura, momenti di serenità e attività poetica. Poi però lui si ammalerà e questo unito
all’incertezza riguardo la sua vita lì senza di lui la porterà a un nuovo internamento, a Taranto.
Torna l'idea del diario, la riflessione sull’esperienza manicomiale rimane una costante.

“Il «Diario» era stata una battaglia contro i soprusi della psichiatria milanese, contro gli abusi
che si facevano dei diritti dei malati. Il delirio è il concetto di libertà dell’uomo portato alla
sua massima esasperazione”
[Alda Merini, Delirio amoroso, Genova, Il melangolo, 1989, p. 48]

Bisogna tener conto che in quegli anni qualcosa successe in Italia. L’esperienza manicomiale non fu
solo la sua esperienza esistenziale, che la toccò direttamente, ma nonostante l’oscurità provata
diventa anche una riflessione a livello sociale e culturale. Nel 1968 con la legge 180, la legge Basaglia,
vengono chiusi i manicomi. Si sarebbe poi dovuto costruire un tessuto di servizi e centri per aiutare
la reintegrazione e sistemi di supporto peril malato mentale. Quindi in un certo senso quando Alda
Merini scrive il diario, denunciando i soprusi e gli abusi subiti dobbiamo tenere presente che è
subentrato qualcosa di nuovo, l’esperienza dell’italia di quegli anni.
‘il delirio è …esasperazione’ delirio è un movimento di libertà, è passione esasperata, è la libertà
dell'uomo portata alla sua massima esasperazione ma non come qualcosa di irriflesso. Alda Merini
è stata definita come un’isterica, una donna passionale in balia delle sue passioni, ma il delirio non
va inteso come incontrollato, è momento di creatività, libertà, è elemento con cui la poetessa legge
il mondo, comunica col mondo, parla di sé, condivide se stessa con gli altri. Ha quindi un processo di
controllo, non è abbandono irrazionale.

“Il malato di mente patisce persecuzioni innominabili, non si sa bene perché. Ha un po’ il
ruolo del santo nella società attuale, nel senso che si presume che egli, rarefatto dalla propria
follia, non soffra come tutti gli altri. Sapessero invece gli esterni che cosa succede nella
povera mente del malato, quali malefizi ed imbrogli opera a suo carico la malattia mentale!
Del tutto ignari della malattia in questione, la
gente giudica di primaria importanza andare a far spese, curare la casa e fottere” [ivi, p. 49]

Sottolinea nuovamente la presenza della malattia mentale. Critica la società che si disinteressa, che
non è sensibile, aperta a capire la sofferenza e in cosa consiste l’alterità, la diversità del malato di
mente. Malato che subisce persecuzioni innominabili ma ha anche unpo' il ruolo del santo. Vi è un
riferimento alla tradizione religiosa che presenta la follia come legata alla manifestazione del sacro.
Molto importante è l’idea della diversità, al fatto che la società non fa attenzione e non riconosce
questa alterità come espressione di un dolore, di una sofferenza di vivere. Il tema è poi ripreso nei
versi ‘’... non soffra come tutti gli altri’’, nonè considerato che provi sentimenti, dolore.
Gli anni a Taranto sono quindi un periodo di costante riflessione, produce tanto ma allo stesso tempo
l'esperienza manicomiale si ripresenta e quindi rimane una componente della sua esperienza e
scrittura.

II. Milano: difficoltà, scrittura, riconoscimenti e successo

Il terzo momento della sua vita è segnato dal rientro a Milano, sono anni difficili dopo la morte del
marito. Continua il suo processo di scrittura e man mano arrivano riconoscimenti critici e personali,
diventa una presenza nei mass media, ha successo anche internazionale.Le testimonianze sono da
'Delirio amoroso’ che esce nel 1989 in un periodo inizialmente di sofferenza ma che inaugura anche
un periodo di riconoscimenti. Questi saranno soprattutto negli anni ‘90 dove riceverà diversi premi,
ad esempio il premio montale, riceverà anche una candidatura al nobel per la letteratura. Dopo un
iniziale momento di situazioni economiche difficili nel 1995 riceve il sussidio, dopo le prime difficoltà
c'è produttività e stabilità finanziaria.

“Vivere a Milano è sommamente difficile. [...] Milano è fredda e abusiva, anche se la città è
un vero impero. Io sono nata qui, ma a Milano ho patito la miseria, l’alienazione,
l’emarginazione”
[Alda Merini, Delirio amoroso, Genova, Il melangolo, 1989, p. 60]

E’ una Merini molto razionale, che osserva la città dove ha condotto quasi tutta la sua vita, citta che
ha amato ma dove ha sperimentato difficoltà e solitudine

“Mi credono ignorante. Hanno asserito che ero una emerita cretina fatalmente soccorsa da
una voce biblica. Io so di essere una donna colta, pur essendo autodidatta. Non ho mai potuto
sopportare la presenza di insegnanti al mio fianco: la maestra per me assumeva
specificamente il ruolo-simbolo della donna madre e io non volevo esistere come prodotto
di questo concepimento. Ho sempre cercato in me l’identità di una creatura praticamente
non nata sul piano etico e generativo di creazione della carne. Sono approdata quindi alla
generazione del mito illudendomi (e qui sta forse la mia follia) di essere figlia di Dio” [ivi, p.
98]

Follia non è pazzia né malattia, va intesa come sublimazione. Questa follia è il delirio, la creatività nata
dalla passione. Questo passaggio dà spunti per capire la Merini degli anni ‘90 e 2000: ha grande
consapevolezza di sé, c’è critica di chi la critica, sa di essere una donna colta ma autodidatta, c’è una
forte affermazione di sé come soggetto femminile e soggetto che agisce, soggetto agente; non si
presenta come vittima anche se lo è stata, riconosce in sé questa forza, questa possibilità, capacità,
dovere, passione di agire e di essere.
‘‘la maestra.. concepimento’’ non vuole essere semplicemente creata da ma vuole affermare se stessa
come creatrice di.
‘‘ho sempre cercato… di Dio’’ su questa affermazione si stabilisce il rapporto ambivalente con la
divinità, da un lato creatura di Dio dall’altro l’essere creatura e creatrice di se stessa; c’è uno sguardo
eroico che emerge, non semplicemente di passività e abbandono.
“Lo sguardo del poeta”

Se qualcuno cercasse di capire il tuo sguardoPoeta


difenditi con ferocia
il tuo sguardo son cento sguardi che ahimé ti hanno guardato
tremando
[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; poesia posta all’inizio della raccolta]

poesia brevissima, molto interessante perché Alda Merini parla del sé poetico, di quello che fa il poeta,
di se stessa in fondo. Parla del rapporto con gli altri e di come questo rapporto sia anche di riflessione,
di come il poeta che guarda gli altri guardando gli altri vede se stesso osservato dagli altri; c’è questo
gioco di specchi, di sguardi. Se la poesia è un modo per esprimere qui diventa anche una difesa nei
confronti degli altri e di se stessi. Questa poesia ci aiuta a capire chi sia Alda Merini e cosa abbia scritto.

Scandalosa merini

Alda Merini era un personaggio presente nei talk show, nei media, in modo noto. Una delle cose che
fecero più scandalo furono le fotografie del suo corpo nudo. Con occhio del poi furono foto
estremamente coraggiose, non tanto per la nudità, per il semplice scandalo nella società
conservatrice italiana degli anni ‘90-200, ma perché esposizione di un corpo anziano, una dimensione
su cui riflettere. Non è solo scandalo della nudità ma è il coraggio di un corpo anziano che comunque
ama, desidera, può e deve essere ancora desiderato.
Oltre a questa foto dello scandalo ci sono dei ritratti in cui la Merini è riscritta, riletta non solo come
possibilità di attualizzare lei, la sua scrittura, la sua personalità, ma anche per mostrarne la sua vitalità.

Le tematiche di CORPO, AMORE, POESIA, sono termini sia negativi che positivi, sono
costantemente presenti, sempre in dialogo, si intrecciano tra loro e sono sempre termini
complessi, a volte presentati in forma ossimorica.
Tema del corpo

“Mia madre guardandomi diceva:


– Hai dei fianchi ben piantati. Sarai una buona terra.
Una buona terra, già. Una buona terra da fecondare. Ma avevo anche
uno spirito e forse di questo mia madre non si accorse. Io ero delicata,
schiva e quel mio corpo prosperoso mi dava fastidio. Mi appartavo
chiedendomi se la mia poesia fosse uguale al mio corpo e il mio corpo
uguale alla mia poesia. Volevo essere diafana, dolce e stinta. Forse la
trappola cominciò lì”

[Alda Merini, Delirio Amoroso, Genova, Il melangolo, 1989, p. 12]


Questa poesia riguarda il corpo ed è tratta dal ‘Delirio Amoroso’.
Qui Alda Merini sta parlando di se stessa giovane, dello stereotipo femminile della donnacome
generatrice. E’ l’immagine descritta dalla madre che guarda il suo corpo però non è quella a cui la
giovane Merini aspira, vuole essere altro oltre il corpo, vuole essere anchespirito.
Elemento significativo è questo corpo ingombrante, prosperoso, che le dava fastidio quando era
giovane. In questa citazione vi è lo scontro con il corpo che attira l’attenzione, è desiderato, uno
scontro tra corpo e spirito, il voler essere considerata anche per il suo cervello e non solo per il suo
corpo. Vi è l’idea di un corpo presente, corpo che se da giovane era ingombrante e dal quale lei
cercava quasi di proteggersi alla fine diventerà un tratto di cui lei è orgogliosa. E’ importante l’idea di
una presenza ingombrante, reale, materiale e di come cambi questa percezione nella sua carriera.

Tema poesia

“Il volume del canto”

Il volume del canto mi innamora:


come vorrei io invadere la terra
con i miei carmi e che tremasse tutta
sotto la poesia della canzone.
Io semino parole, sono accorta
seminatrice delle magre zolle
e pur qualcuno si alza ad ascoltarmi,uno
che il canto l’ha nel cuore chiusoe che per
tratti a me svolge la spola della sua
gaudente fantasia.

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “Il volume del canto”]

E’ un componimento molto famoso, è il componimento eponimo della sezione Il volume del canto.
Nel testo sono da notare le parole: spazio, materialità, il volume, massa, canto, poesia, amore che
esprimono concetti importanti e portano in superficie delle tematiche; sono termini sempre tra loro
intrecciati.
“il volume del canto mi innamora’’ ossia la densità, la materialità del canto mi rende innamorata.
Esprime cosa vuol dire l’essere innamorato con un’immagine ‘‘invadere la terra con i miei carmi’’,
immagine anche di grande provocazione sensuale e sessuale.
‘‘come vorrei invadere… della canzone’’ questo è il valore della poesia, è amore, amore che semina,
rende fertile e quindi apre e predispone all’ascolto, apre la possibilità di condivisione da parte di chi
ha il canto chiuso nel cuore, non riesce ad esprimere questa gioia e amore che ha in sé.
‘‘e per tratti… fantasia’’ è la tensione di chi non ha questa vocazione, non ha questa possibilità di
espressione ma guarda e si rivolge alla poetessa per trovare questa espressione, per condividere.
"Gaudente fantasia’ è espressione interessante, gaudente riporta a una dimensione materiale, il
godere e il gioire attraverso la fantasia.

“I miei poveri versi”

I miei poveri versi


non sono belle, millantate parole,non
sono afrodisiaci folli
da ammannire ai potenti
e a chi voglia blandire la sua sete.
I miei poveri versi sono
brandelli di carne nera
disfatta chiusa,
e saltano agli occhi impetuosi; sono
orgogliosa della mia bellezza; quando
l’anima è satura dentro
di amarezza e dolore diventa
incredibilmente bellae potente
soprattutto.
Di questa potenza io sono orgogliosama
non d’altre disfatte;
perciò tu che mi leggi fermo a
un tavolino di caffè,
tu che passi le giornate sui libri a
cincischiare la noia
e ti senti maestro di critica,tendi il
tuo arco
al cuore di una donna perduta. Lí
mi raggiungerai in pieno.

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “Il volume del canto”]

Vi è quest’idea del cuore, dell’anima satura dentro di amarezza e dolore diventa incredibilmente bella
e potente soprattutto. quindi poveri versi ma sono versi che cadono dal cuore della poetessa e della
sua anima e quindi della sua amarezza, del dolore ma sono versi che danno un potere, sono voce,
espressione ed hanno un potere. Quindi anche se sono ‘poveri versi’ nel senso che possono essere
versi non sofisticati, sono versi che parlano della sofferenza, di ‘brandelli di carne nera disfatta chiusa’
questi versi emergono prepotenti; sono versi che parlano di amarezza dolore ma sono versi che danno
potere, cheportano in superficie il cuore, l’emozione.

Quindi nel corso delle varie opere abbiamo visto la poesia come sfogo, come espressione del poeta,
un modo che il poeta ha di comunicare con gli altri. Qui vediamo la poesia come salvezza
“O mia poesia, salvami”

O mia poesia, salvami,


per venire a te
scampo alle invitte braccia del demonio:
nel sogno bugiardo
agguanta la mia gonna la sua fiammae io
vorrei morire
per i mille patimenti che m’infligge.
Nulla vale la durata di una vitama
se mi alzo e divoro
con un urlo il mio tempo di respiro,
lo faccio solo pensando alla tua sorte,mia
dolce chiara bella creatura,
mia vita e morte,
mia trionfale e aperta poesia che
mi scagli al profondo
perché ti dia le risonanze nuove.E se
torno dal chiuso dell’inferno tomo
perché tu sei la primavera:
perché dunque rifiuti me germoglio,
casto germoglio della vita tua?

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “Il volume del canto”]

Questo è un dialogo con la poesia, non qualcosa di inconsueto o nuovo nella tradizione letteraria
italiana ma che qui ha delle valenze molto precise. Poesia come salvezza, richiesta di salvezza, ricerca
di salvezza. Una ‘dolce chiara bella creatura, al tempo stesso vita e morte’ quindi non è qualcosa di
facile, di risolto; è qualcosa di bello che esprime la vita ma parla anche della morte.
Interessanti i versi 14-15 ‘’mia trionfale… profondo’’ in cui la poesia è anche momento per
l’autoriflessione e per la Merini questa riflessione vuol dire rientrare, re-immergersi nell’esperienza
manicomiale, nel momento in cui la ragione sembrava tacere, quando altri le hanno imposto di far
tacere la ragione e anche i suoi sentimenti. Però oltre al momento di rientro in un’esperienza così
dolorosa c’è anche il momento del riuscire (uscire da) attraverso la poesia.
‘e se torno.. primavera’’ quindi la poesia prima in un certo senso obbliga la poetessa a chiudersi
dentro se stessa, a rientrare in quest’esperienza così dolorosa, ma allo stesso tempo è il mezzo e il
richiamo ad uscire. Assistiamo quindi alla violenza della poesia perché se da un lato porta al recupero
di un dolore e a rientrare, chiudersi nuovamente in un inferno, nell’inferno di un’esperienza, allo
stesso tempo è anche ciò che dà speranza.
E’ anche un punto interrogativo: "perché dunque.. tua?’’, non sono mai dati per scontati la ricerca e il
risultato della salvezza. Questa è l’ambivalenza della poesia per alda merini
O poesia, non venirmi addosso, sei
come una montagna pesante, mi
schiacci come un moscerino; poesia,
non schiacciarmi, l’insetto è alacre e
insonne, scalpita dentro la rete,
poesia, ho tanta paura,
non saltarmi addosso, ti prego.

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “Vuoto d’amore. Poesie per
Charles” (1982)]

Tratta da ‘Vuoto d’amore’, qui il tema dominante è la paura. Prima la poesia aveva il significato di
difesa mentre qui è come un macigno, come un destino al quale la Merini cerca di sottrarsi. E’ un
destino di cui la poetessa ha paura, vi è un desiderio al quale cerca di allontanarsi, fuggire. La poesia
qui è qualcosa che può portare dolore, fatica.
L’idea di paura in questa poesia è fondamentale, desiderio e paura sono concetti complessi e
ambivalenti nelle sue poesie.

“Io ho paura. Ma che cosa è la paura? È l’amore, è la poesia e tutto ciò che elimina ed assorbe. La paura
è tutto ciò che mi tiene prodigiosamente astratta alla vita. Quando dico
«quello mi fa paura», intendo dire che mi coarta di passione, e perché uso questo termine non lo so.
È un modo come un altro per scambiare i sensi tra poesia e paura”
[Alda Merini, Delirio amoroso, Genova, Il melangolo, 1989 p. 88]

Stessa tematica centrale, la paura, tratta anche in questi versi dal ‘Delirio amoroso’. Cos’è lapaura?
‘‘E’ l’amore, è la poesia, è tutto ciò che elimina e assorbe. La paura è tutto ciò che mi tiene
prodigiosamente astratta alla vita’’. Vediamo questa materia, non solo di amore, in cui la poetessa
rimane chiusa come in una ragnatela, tesse delle reti in cui resta, come Aracne, intrappolata
prigioniera della sua stessa materia. Qui vediamo quell’espressione: paura. Ma paura è amore, è
desiderio, è poesia. La poesia che obbliga alla passione, che la esalta, che è qualcosa di voluto, cercato
e desiderato ma è anche qualcosa che porta dolore, dal quale la poetessa si schernisce.

“Ma sapete cosa è la follia? per me è stato un grande, inconfessabile languore amoroso. Un languore
talmente doloroso e spastico da somigliare alle doglie doloranti del parto. La follia catatonica,
stuporosa, ambientale, criminale, assetata di sangue, adora stranamente il mito di Clitemnestra. Ci
fu un tempo che al Golgota salì un braccio del mio martirio. Penso che Gesù mi fosse inferiore per
grandezza e tolleranza. [...] La fatica fisica del manicomio, si è poi trasformata in quella che doveva
essere una grande perfezione amorosa, capace di contattare le creature cosmiche. Nacque lì dentro
la mia consapevolezza di una condizione miserabile e religiosa che affannava il concetto di Dio” [Ivi,
pp. 95-96 e 97]

E’ una citazione molto complessa, in cui si stabilisce nuovamente questo rapporto tra follia come
esperienza fisica, materiale, ma anche di sublimazione. E’ definita anche come
‘grande, inconfessabile languore amoroso’ quindi desiderio ed esperienza fisica d’amore. Parla di un
dolore fisico, del parto, ritorna quindi la tematica del corpo. Parla di una follia ‘catatonica, stuporosa…
assetata di sangue… mito di Clitemnestra’ quindi vi è l’idea violenza, di morte, della possibilità della
morte ma anche di un’uccisione. Rimanda al mito sia di Clitemnestra sia di Golgota per poi arrivare a
parlare della morte di Gesù, della crocifissione, e usa un’espressione quasi blasfema ‘mi fosse inferiore
per grandezza e tolleranza’ ma bisogna tenere a mente quello che avevamo visto all’inizio, ‘essere
creata ma non creatura’. Torna l’idea della fatica fisica del corpo, del manicomio, che diventa grande
perfezionamento d’amore, un’esperienza che si sublima e che la pone in contatto con realtàaltre
(creature cosmiche). Quest’esperienza la porta a riflettere, a ristabilire un contatto con la religiosità
e soprattutto con il concetto di Dio.

LA TERRA SANTA

Il manicomio è una grande cassa di risonanza e il


delirio diventa eco l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi le tavole di una legge agli
uomini sconosciuta

[Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991; dalla sezione “La Terra Santa”]

Nella Terra Santa vediamo l’uso di un immaginario biblico. Il manicomio è quindi visto comeil monte
Sinai dove Mosè ricevette tavole le tavole della legge, è quindi una realtà/un mondo altro. In questa
realtà Alda Merini trova il proprio modo di vivere, trova forza poetica del superamento di quella
violenza.

Le più belle poesie


si scrivono sopra le pietre coi
ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.Le più
belle poesie si scrivono davanti a un
altare vuoto, accerchiati da agenti
della divina follia.
Cosi, pazzo criminale qual sei tu
detti versi all'umanità,
i versi della riscossa e le
bibliche profezie e sei
fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa dove
germinano i pomi d'oro e
l'albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu si, maledici
ora per ora il tuo canto perché
sei sceso nel limbo,dove aspiri
l'assenzio
di una sopravvivenza negata.

In ‘le più belle poesie si scrivono sopra le pietre’ c’è l’idea del manicomio come terra promessa. E’
difficile pensarla come una situazione reale soprattutto perché la Merini fu sottoposta a elettroshock
e terapie con psicofarmaci quindi fu un’esperienza brutale. Molto interessante questa associazione
tra scrivere poesia e come questa poesia nasca dal dolore di quest’esperienza. ‘‘le più belle… davanti
ad altare vuoto’’ mostra come l’esperienza manicomiale sia un’esperienza del vuoto di Dio, che non
è presente però viene desiderato, diventa anche quell’elemento al quale la poetessa e il malato in
generale continua a pensare, a rivolgersi per dare senso all'esperienza stessa.

Laggiù dove morivano i dannati


nell’inferno decadente e folle nel
manicomio infinito
dove le membra intorpidite si
avvoltolavano nei lini come in
un sudario semita
laggiù dove le ombre del trapasso ti
lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuolae le
fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani, e
odoravi di feci
laggiù, nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso.
Lo facevi con la mente affocatacon le
mani molli di sudore
col pene alzato nell’aria come
una sconcezza per Dio.
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutiteda
sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide ideedella
tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,delle
briciole bionde e odorose che
scendevano a devastare sciami di
rondini improvvise.
Testo sull’esperienza manicomiale, molto forte.
‘‘laggiù nel manicomio facile era traslare’’ traslare dà l’idea di uno spostamento, nel momento della
maggiore oppressione/ violenza c’è anche lo scatto verso il ‘toccare il paradiso’. Vi è un superamento
del momento di sofferenza.
Questa immagine è collegata con la conclusione: ‘‘laggiù tu vedevi iddio, non so’’ ècondizione in cui
Dio è assente ma anche immaginato, visto.
‘‘il tuo corpo andava in briciole… sciami di rondini improvvise’’ è immagine materiale, sensuale,
sessuale, un seme che non fiorisce ma che devasta, idea di un movimento di elevazione, nella condanna
del corpo o nel desiderio che a questa elevazione spirituale corrisponda anche superamento fisico. Non
bisogna dimenticare che il manicomio è una prigione da cui è difficile uscire.

‘La terra santa’ è il componimento che dà il titolo alla raccolta, basato tutto sull’uso di un linguaggio
biblico per parlare della condizione di morte e di violenza del manicomio. Ma allostesso tempo c'è
sempre questa tensione al superamento del dolore, vi è una condanna ma anche un tentativo ad
andare oltre.

Corpo, ludibrio grigio

Corpo, ludibrio grigio


con le tue scarlatte voglie,
fino a quando mi imprigionerai? anima
circonflessa,
circonfusa e incapace,
anima circoncisa,
che fai distesa nel corpo?

Questa poesia mette in evidenza la presenza ingombrante e problematica del corpo e gli interrogativi
sull’anima. Vi è tensione tra anima e corpo, un corpo ingombrante che nel manicomio imprigiona
l’anima che vorrebbe liberarsi ma è un’anima circoncisa, segnata.
MAGNIFICAT. UN INCONTRO CON MARIA

E’ l'ultima produzione di Alda merini, importante per l'affermazione del soggetto femminile.Maria non
è solo come descritta nella tradizione, colei che ha accolto il destino di madre di Gesù. Nella costruzione
della Merini non è solo la storia di un’accettazione ma anche l’affermazione di un’identità femminile
forte, di un soggetto forte, non solo passivo.
Alda Merini nel Magnificat riprende non solo una certa iconografia tradizionale di Maria ma in
particolare anche il vangelo di Luca.

Su questo libro tu sei sorto, / angelo dell’Annunciazione. / Io mai avrei pensato / che queste pagine /
diventassero ali. / Le ali degli angeli sono calde, / il loro pensiero sta dentro la notte,
/ ma tu mi parli / su uno spazio che io non conosco. / Io adoro le stelle e la notte, / ma tu sei il canto
del mio mattino. / Non capisco / e te lo vorrei chiedere / se tu sei sorto da me / o se io sono sorta da
te, / e non sapevo che la carne / potesse sparire / per dar luogo a un pensiero creatore.

Troviamo questo brano ad apertura del Magnificat. Nuovamente c’è questa idea di autocreazione,
corpo definito come carne ma anche poesia ed espressione poetica ecreatività.

«Io non fui originata / ma balzai prepotente / dalle trame del buio / per allacciarmi ad ogni confusione.»
[Alda Merini, Magnificat. Un incontro con Maria, Milano, Frassinelli, 2002, pp. 3-4, 7]

E’ dal punto di vista di Maria. Maria appare come creatura divina ma anche creatrice di se stessa.
‘‘balzai.. ogni confusione’’ indica in cosa consiste anche il pensiero creatore

Le mie ginocchia / avide di molto cammino / sono state generate / dalla tua grazia. / Ho dovuto
riposare / ai piedi della montagna / senza mai sormontarla / ma Ti ringrazio / per avermi destinata a
servire. / Non ad essere / una regina potente / ma un’umile serva. / Tu mi hai concesso / la
contemplazione. / Ho contemplato la Tua Sapienza, / ho contemplato la Tua Creazione. / Ho visto da
vicino / come Tu mi hai creata / e come Tu mi hai benedetta. / Ho saputo tutto di Te, / come ogni
donna terrena / sa tutto dell’uomo che ama. / Ella lo conosce dalla sua infanzia, / lo brama nei suoi
destini, / lo imprigiona nei suoi deliri. / Così èla donna che ama. / Ma Tu, / che non avevi principio, /
mi hai sprofondata / nella carne angelica / dove non si nasce / e non si muore / se non con la sua
resurrezione / e il suo grido. / Io, Maria, / sono il tuo grido, o Signore. / Col tuo grido mariano / Tu hai
sconvolto le genti, / con i veli della mia castità / hai messo pudore / dove c’era vizio e odio.

[Alda Merini, Magnificat. Un incontro con Maria, Milano, Frassinelli, 2002, pp. 99-101]

Il punto di vista è sempre quello di Maria ed è un racconto in prima persona. Il genere adottato in
questo testo è ibrido, alcuni versi sono in prosa altri no. Nel testo è quasi come se Maria riconoscesse
l’essere in realtà stata creata e scelta da Dio. Rispetto all’inizio dellibro dove l’io di Maria è molto
forte e dove non si vuole riconoscere come ‘creata da’ ma
‘creatrice di’, qui sembra aver accettato di essere creata: ‘‘tu mi hai creata e mi hai benedetta’’. Ma allo
stesso tempo c’è un’affermazione forte dell’identità: ‘‘ho saputo tutto di te come ogni donna terrena sa
tutto dell’uomo che ama’’, quindi è l’amore in un certo senso che dà autorità alla donna.
‘‘io maria sono il tuo grido’’ sono la tua voce, sono la tua parola, ‘‘col tuo grido mariano tu hai sconvolto le
genti, con i veli della mia castità hai messo pudore dove c’era vizio e odio’’ Maria diventa strumento di Dio
ma anche la sua voce, diventa qualcosa di più, qualcosa di indispensabile alla divinità. Tutto ciò in funzione
e grazie all'amore, al fatto che la donna, Maria, conosce l’uomo, la divinità che ama.
Dopo un iniziale rovesciamento rispetto all’inizio c'è nuovamente una forte affermazione di sé.

L’ “OLTRE VITA” DI ALDA MERINI

Sono immagini, film, murales, documentari basati sul suo immaginario. Alda Merini è diventata col tempo
una sorta di idolo, icona pop.
Antonietta De Lillo ha fatto due film ispirati a lei: “La pazza della porta accanto” (2013), un’intervista su A.
Merini e “Ogni sedia ha il suo rumore” (1995), un film che si basa su uno spettacolo teatrale, un monologo
di Licia Maglietta dal titolo “Delirio amoroso”.
Nel 2009 è stato fatto su di lei un documentario di Cosimo Damiano Damato “Alda Merini - Una donna sul
palcoscenico”.
Molto recentemente, a maggio del 2023, è stato realizzato uno spettacolo teatrale: “Alda. Parole al vento”,
al Piccolo Teatro di Milano.
Gli spettacoli che si basano su riletture, riscritture o perfomance della poesia e narrazione di Alda Merini
sono moltissime e frequentissime, Alda Merini ha una grandissima presenza nell’immaginario e
nell’esperienza culturale italiana contemporanea.

Selezione completa di documentari e spettacoli:


• Cosimo Damiano Damato (regía di), Alda Merini - Una donna sul palcoscenico (2009)
• Antonietta De Lillo (regía di), Ogni sedia ha il suo rumore (1995)
• Antonietta De Lillo (regía di), La pazza della porta accanto (2013)
• Silvio Soldini (regía di), Delirio amoroso (2005)
• Dio arriverà all’alba - omaggio a Alda Merini, scritto e diretto da Antonio Nobili (2017)
• Alda. Parole al vento, Piccolo Teatro di Milano (maggio 2023)

DODICESIMA LEZIONE
ANDREA TEMPORELLI: L’AMORE E TUTTO IL RESTO
La letteratura, la poesia non è immediata.
Poesie↓
Le Lagune: errore creativo. L’errore è bello, è umano. È un’opportunità, va trovato e coccolato. Esso è come
una porta, bisogna vederla e trovare le chiavi per aprirla.
È una composizione, non sono messe a caso le parole. Sono una struttura.
C’è anche un bisticcio, “lagune”, “lacune”.
Ogni strofa ha una matrice.
Verifica di storia
Ci sono domande intorno a un contesto tipicamente di verifica di storia, che è anche qualcosa di profondo.
Le parole da sole non esistono, esistono nella frase, la frase nel testo e il testo nel contesto.
Ai poeti di oggi manca una tragedia da raccontare. C’è benessere economico-sociale ma povertà esistenziale.
“Senza dramma”, è un saggio. “Ossezia”, è un momento tragico.
Mostrare le proprie debolezze, il proprio lato umano.
Ballata del mese di maggio
Si parte da un aspetto ludico, giocare con le parole.
La poesia va somministrata pensando all’età di chi legge.
Si sta parlando dei bombardamenti del 1999.
La poesia compie una magia sul linguaggio: dice più cose contemporaneamente. La prosa generale no.
Grammatica contrastiva
Scoprire indizi per cercare di capire.
Dissertazione breve sulla gioventù
Compito

“Così la poesia non è mai quel che dice, ma dice quel che è”
“Questo è il momento di questo momento”
La poesia inizia mentre legge, ti rimane addosso, in quel sentire, sta accadendo. Ciò che è detto è già morto.
La poesia è viva, se riesce ad accadere.

COSA FARE CON LORO:


Giochino parole nascoste
Scrivere in metrica
Giochi parole, allitterazione per esempio.
Strutture
Sillabe
Metrica
Errori (Gianni Rodari, il libro degli errori, sono fonti di conoscenza)

Butta giù veleno, scrive versi che non voleva.


Rovesciare gli stereotipi: la neve come morte, la primavera è crudele. La poesia rifiuta il “poeticupe”, è
pericolosa. La vera poesia ti fa fare un viaggio lungo e segreto.
Quando piace a tutti, il dissenso è utilissimo. La letteratura è un terreno tra noi in cui incontrarci.

TREDICESIMA LEZIONE

PIRANDELLO: “La vita non si può vivere, se non scrivendola”


Lo abbiamo scelto perché come i precedenti autori rende esplicita la sua riflessione sull’uso delle parole, sulle
ragioni che lo hanno scritto a dedicare la propria vita a questa arte. Come nella citazione: “La vita o la si vive
o la si esprime. E io non sono mai riuscito a viverla se non scrivendola”.
Breve biografia di P di Maria Collura link in il link.
Definito uno scrittore insolito, difficile da inquadrare, Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867, ad Agrigento
in Sicilia. Discese da una famiglia benestante (proprietaria di una miniera di zolfo) e trascorse la sua infanzia
a Porto Empedocle e a Villaseta; qui abitarono una casina del Caos e Pirandello amava definirsi “figlio del
Caos e non allegoricamente”.
Vissuto nel periodo a cavallo tra l’800 e il 900, fra il Naturalismo e l’inizio del Decadentismo, non frequentò
la scuola ma aveva un precettore che gli impartì la prima istruzione. Poi, nel 1882, la famiglia si trasferì a
Palermo e lì Luigi terminò i suoi studi regolari di liceo classico. Nel 1887 si trasferì a Roma dove continuò i
suoi studi alla Facoltà di Lettere. A causa di un dissenso con un professore, dovette abbandonare l’Ateneo
Romano e terminare i suoi studi all’Università di Bonn, dove, il 21 marzo 1891 si laureò in Filologia Romanza
con una tesi su: Suoni e sviluppi della parlata di Girgenti (ora Agrigento). Dopo aver finito gli studi, ritornò a
Roma, li si stabilì definitivamente dopo il matrimonio con Maria Antonietta Portulana, da cui ebbe due figli e
una figlia. Gli anni successivi significarono l’inizio della sua attività letteraria.
Nel 1903, però, l’allagamento della miniera del padre causò una grande crisi finanziaria familiare. Questo
cambiò la vita personale di Pirandello che, non solo fu costretto a lavorare per sopravvivere, ma si ritrovò a
dover lottare con la malattia mentale di sua moglie, che scoppiò interamente dopo il fallimento.
Il periodo della Prima Guerra Mondiale fu un periodo infelice e drammatico per l’autore: il figlio maggiore
Stefano partì verso il grande conflitto e lo stato di salute della moglie peggiorò, a tal punto che dal 1919 lei
dovette essere ricoverata in casa di cura.
Nel 1924 Pirandello entrò nel partito fascista; tuttavia la sua relazione con il regime non fu mai soggetto a
Mussolini, che nel 1929 gli attribuì la nomina nell’Accademia d’Italia; questo contribuì non solo ad essere
riconosciuto come il più grande drammaturgo del mondo, ma anche ad aver ricevuto, nel 1934, il premio
Nobel per la letteratura.
Pirandello morì il 10 dicembre 1936, dopo essersi ammalato di polmonite, durante le riprese di un nuovo
adattamento cinematografico de “Il fu Mattia Pascal”. Secondo la sua ultima volontà fu cremato e le sue
ceneri furono sparse vicino alla “Villa del Caos” ad Agrigento, dove Pirandello nacque.
Pirandello fu uno degli scrittori più prolifici, scrisse non solamente i romanzi, ma anche numerose opere di
teatro e persino all’inizio della sua formazione pubblicò qualche raccolta poetica. La sua opera letteraria non
è divisa in vari periodi creativi, ma lui scrive contemporaneamente verso, novelle, romanzi, saggi critici e
teatro. Dobbiamo menzionare che Pirandello volle portare, nella letteratura, nuove forme e strutture, non
solamente per quel che riguarda il teatro, ma anche nel campo della narrativa. Pirandello cominciò a
pubblicare come autore di versi: già durante gli studi a Palermo pubblicò, nel 1889, la sua prima raccolta
poetica, intitolata “Mal giocondo”. A Roma Pirandello conobbe Luigi Capuana e, incoraggiato da lui, cominciò
a scrivere la prosa. Per quel che riguardano i romanzi, Pirandello voleva, nella sua opera, allontanarsi da quelli
tradizionali e prende presto coscienza del fatto che il romanzo tradizionale, specificamente quello naturalista,
ha esaurito definitivamente la sua funzione.
Nel 1901 pubblicò il suo primo romanzo col titolo “L’esclusa”, la storia di una donna accusata ingiustamente
di adulterio. Questo romanzo, pubblicato dapprima a puntate, poi in volume, segna il passaggio dal modello
narrativo verista allo stile “umoristico”, cioè a una mescolanza di tragico e comico, caratteristica della
produzione pirandelliana.
L’anno dopo, Pirandello, oltre ad un secondo romanzo e due raccolte di novelle, scrive “Il fu Mattia Pascal”;
venduto prima di essere composto, questo romanzo significa l’inizio della sua fase umoristica; viene
pubblicato a puntate sulla “Nuova Antologia”, poi in volume tradotto subito in varie lingue. “Il fu Mattia
Pascal” apportò, a Pirandello, il successo, anche grazie al fatto che fu riconosciuto il primo romanzo italiano
che si era distaccato dall’ideologia dell’Ottocento ed aveva avvertito la necessità di una nuova forma del
romanzo. A questo seguirono altri romanzi, tra i quali: “I vecchi e i giovani” (1913). Nello stesso tempo,
cominciò a collaborare al “Corriere della sera”, in cui apparivano le sue novelle.
Tuttavia, la passione di Pirandello fu il teatro. Lui ci portò dentro gli elementi del futurismo, del grottesco e
del surrealismo.
Dopo aver ottenuto un buon successo con le commedie: “Pensaci, Giacomino!” e “Liolà” (entrambe
del 1916), continua l’escalation drammaturgica, “mettendo in scena”: “Così è (se vi pare)”, “Il berretto a
sonagli” e “Il piacere dell’onestà”.
Il 1921 è l’anno della messa in scena di “Sei personaggi in cerca d’autore”, il cosiddetto “teatro nel teatro”,
l’opera complessa e profondamente innovativa che non coglie l’immediato consenso del pubblico romano,
grande successo di lì a Milano. A confermare la fama di Pirandello seguì il successo dell’opera teatrale
“Enrico IV”, che consacrò definitivamente la fama internazionale delle sue opere teatrali, che vengono
interpretate anche nei palchi di Broadway ed i suoi romanzi cominciarono a diventare film.
Nel 1925 Pirandello, sotto la spinta del figlio maggiore Stefano e ad altri giovani scrittori, fondò il “Teatro
d’arte”, con Marta Alba e Ruggero Ruggeri come attori, la compagnia teatrale cominciò a viaggiare. Nel 1926
uscì il suo ultimo romanzo “Uno, nessuno e centomila”, nel 1929 la casa editrice Mondadori pubblicò le
raccolte “Maschere nude” e “Novelle per un anno”. Nel 1930 fu rappresentata l’opera “Come tu mi vuoi” e,
nello stesso anno, fu messa in scena “Questa sera si recita a soggetto”. Nel 1936 Pirandello assistette al nuovo
adattamento cinematografico de “Il fu Mattia Pascal”, durante il quale si ammalò di polmonite e poi morì,
lasciando incompiuta un’opera teatrale “I giganti della montagna”, che da Pirandello è chiamata “Il mito
dell’arte”.
Le opere di Pirandello non possono essere inserite in nessun movimento letterario a lui contemporaneo, le
sue idee politiche vengono influenzate da Bergson e dal suo saggio sul riso in cui, il filosofo sostiene che
l’ironia è un distacco rispetto alla realtà che si affronta.
In tutti i testi umoristici di Pirandello, il tragico e il comico vengono mescolati. Nello scrittore siciliano si assiste
al superamento del Verismo, secondo il quale la realtà è oggettiva ed autonoma; per Pirandello, invece, la
realtà è vita, flusso continuo e tutto ciò che si stacca da questo flusso comincia a morire; la realtà ha una
molteplicità di aspetti e non può essere conosciuta razionalmente, anche l’identità personale dell’uomo è
molteplice e da qui nasce il concetto della maschera: sotto la maschera non c’è nessuno, o meglio, c’è un
fluire incoerente di stati in continua trasformazione.
Questa mancanza di unicità determina l’annullamento della persona, che diventa, parafrasando un titolo di
un suo romanzo: “uno” perché pretendiamo di avere una forma, “nessuno” perché non abbiamo una
personalità definitiva e “centomila” perché, a seconda di chi ci guarda, abbiamo un aspetto diverso.
Ciascuna di queste forme è una costruzione fittizia, una “maschera” che l’uomo s’impone e che gli impone la
vita sociale, l’unica via di salvezza da questa situazione è la fuga nell’immaginazione e nell’irrazionale, oppure
nella follia. Il rifiuto della vita sociale da luogo, nell’opera pirandelliana, ad un nuovo personaggio che “ha
capito il giuoco” e che perciò si isola, escludendosi dai pre-meccanismi sociali e osserva, con atteggiamenti
umoristici, gli uomini imprigionati dalla trappola della realtà.
Il teatro pirandelliano è decisamente rivoluzionario, sia per le tecniche narrative che per i contenuti.
Pirandello smaschera la finzione teatrale, affermando che il teatro è una finzione al quadrato, perché simula
la vita, la quale è già, di per se, una finzione, una rappresentazione.

Tale presentazione ci inizia all’argomento. Mette in evidenza una delle sue più importanti caratteristiche: la
CONTRADDIZIONE. La sua vita è infatti essa stessa nel segno della contraddizione: successo internazionale
(tra i pochi in quell’epoca) tanto che si conia in inglese il termine “pirandellism”, premio Nobel grazie al
successo dei suoi drammi, ma anche uomo di grandi insuccessi, fatiche e difficoltà. A partire dalle vicissitudini
famigliari, “figlio del Caos” giocando col nome del luogo ove nasce. Figlio di una famiglia benestante ma che
conosce il dissesto economico. Spesso in conflitto con le autorità: col padre che lo educa rigidamente, con i
docenti che incontra (tanto che va a Bonn per continuare gli studi), la moglie soffre di nevrosi ecc.. Conosce
le dinamiche famigliari dal punto di vista più faticoso, lo mette nelle novelle: famiglia come limitazione
dell’individuo. È un uomo che vive tante culture: culture dell’800 (naturalismo francese, verismo italiano
come Capuana), entra in contatto con avanguardie storiche (Futurismo, Espressionismo), conosce il teatro del
grottesco e assurdo, conosce il Surrealismo. È un uomo pienamente dei suoi tempi, al contempo è scheggia
impazzita. È controcorrente rispetto a tutti questi movimenti. È un autore che vive quelle contraddizioni che
sono il tema centrale delle sue opere. La contraddizione inguaribile che è l’esistenza di ogni essere umano è
il suo tema centrale. Essa non è da stigmatizzare, ma di cui si deve sorridere in senso compassionevole. Non
corrode, accetta e santifica queste contraddizioni ridicole dell’essere umano.

L’UMORISMO (saggio del 1908)


Si tempi P era già noto ma gli serve stabilità economico. Deve scrivere il saggio per un concorso per una
cattedra. Tale opera mette in chiaro i fondamenti filosofici della visione di P. Essi non sono nuovi, egli non è
un filosofo innovatore. La sua capacità sta nel trasformare queste convinzioni filosofiche in letteratura
straordinaria.
Nell’aforisma “Panta rei” (“non ci si bagna due volte nello stesso fiume”) Eraclito vuole indicare che ogni cosa
è in continuo mutamento. Eraclito è uno dei riferimenti filosofici di P in questo saggio, con Henry Bergson.
Tra le tante cose che scrive quest’ultimo, un saggio di un anno prima (1907) in cui parla dello Slancio Vitale,
che è la formula con cui definisce cosa sia la vita. Per Bergson la vita è uno slancio, un flusso di energia. Tutto
ciò che è statico non è vita, è vitale ciò che ha vita perché si muove, perché traduce la sua energia in slancio.
In questo saggio P concorda sul fatto che nella vita umana tutto sia continua trasformazione e che in ogni
istante ci sia qualcosa di diverso rispetto a ciò che si era prima. P è molto netto in questa sua convinzione. La
vita è flusso e ogni volta che si tenta di bloccarlo è come se si tentasse di uccidere la vita. Si tenta di congelarlo
in qualcosa di immobile, le “forme”, che hanno confini. Le forme possono esprimersi in molti modi, una è
l’identità. Tutto ciò è inganno, ogni individuo è in perenne trasformazione come tutte le cose della vita. Arriva
prima o poi il giorno che crolla l’illusione, ci si rende conto di non essere ciò che si pensava di essere. È il
momento di crisi e smarrimento che lui stesso racconta.

L’umorismo (1908): l’ininformabile vita


La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di
noi, perchè noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire
il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le
forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui
vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma
dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini,
oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti
tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre
sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti,
nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge
tutto. Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in
questa o in quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma,
la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.
→ Queste sono le premesse filosofiche del suo ragionamento che si tradurranno nella sua letteratura. Una
delle raccolta di P si intitola Fuori di chiave, titolo emblematico in questa prospettiva. Musicalmente parlando
una nota fuori chiave è una nota che stona, che non è coerente al sistema melodico a cui appartiene, che
disturba, è cacofonica. Lo sguardo del letterato è quello pronto a cogliere i segni e gli indizi delle stonature
che sono nella vita di ciascuno di noi perché sono indizi rivelatori che quella presunta armonia non è che
illusione per P perché nasconde una realtà diversa, quella del caos (lui “figlio del caos”) = continua
trasformazione in altro, incoerentemente, senza nessuna legge. Allora il letterato racconta queste distonie,
stonature, con sguardo umoristico.

Sempre nell’Umorismo

→ La letteratura umoristica coglie le dissonanze ma non per deriderle (questo lo fa la letteratura comica). C’è
questa signora che si tira tutta per ingannare, il risultato è il riso che è anche un poco derisione
(contradditorio), la prima reazione è provarne derisione. Se ci si ferma qui non si arriva all’umorismo. Deve
subentrare la riflessione, qui P si discosta da Benedetto Croce che invece sosteneva che la grande letteratura
non chiama in causa il ragionamento. P invece dice che è necessario il ragionamento, esso permette di fare
un passo in più davanti alla signora anziana che si concia. Bisogna comprendere che probabilmente dietro
questo tentativo di apparire più giovane c’è il dolore e la paura di perdere l’amore di un uomo più giovane.
Lei ha paura di essere troppo vecchia. Di fronte a tale pensiero non ci può essere un divertimento
canzonatorio, c’è il sentimento del contrario che è la compassione, la comprensione, l’affratellamento → la
signora diviene immagine di se stessi, ognuno sa di avere le medesime paure, di avere fatto esperienza delle
stesse paure. La contraddizione rimane, ma la si accetta.
La letteratura un è il racconto delle grottesche e ridicole contraddizioni con compassione. Raccontandolo non
come giudizio, ma come accompagnamento.
L’umorismo racconta uno sbigottimento di scoprire che tutto ciò che si crede facilmente spiegabile è
complesso in realtà.

Altro esempio di tutto ciò ne è il naso che pende a destra, la crisi di Vitangelo in Uno, nessuno e centomila
ove questi si chiede: “allora io chi sono? Chi mi sento, o come mia moglie mi vede? E gli altri come mi
vedono?”. Allora sono Centomila e se sono Centomila allora non sono nessuno, questa è la risposta. Allora fa
gesti liberatori, pazzia, ossia la dichiarazione di non essere ciò che tutti credevano che fosse.

L’umorismo (1908); lo sbigottimento d’essere sempre altro


Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? - ci domandiamo talvolta allo specchio, - con questa faccia, con questo
corpo? (...) Esteticamente e psicologicamente, l’umorismo può considerarsi come un fenomeno di sdoppiamento nell’atto
della concezione: erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.
→ Si ride delle tragiche circostanze per perdonarle compassionevolmente. I racconti di P spiazzano: ciò che
sembrava non è. Mettono in guardia dal giudizio veloce. Nel mondo della velocità e del giudizio rapido, un
invito alla prudenza. È oggi questo un tema attuale.

Cosa succede ai suoi personaggi quando si rendono conto di non essere ciò che pensavano? Fanno gesti di
pazzia o si danno alla fuga ↓

Il Fu mattia Pascal (1904)


È andato a Montecarlo, ha vinto. Mentre torna legge sul giornale l’equivoco dell’identificazione di un cadavere
con la sua persona. Allora coglie al balzo la situazione. Cambia identità. Esce in una forma ma per entrare in
un’altra! Indossa la maschera di Adriano Meis e va a Roma, finchè si rende conto che gli è impossibile vivere
così, tenta di rientrare nella sua vecchia maschera. Non può funzionare perché lui non si può dimenticare che
ciò che indossa è una maschera (“denudamento della maschera”). Mattia si rende conto di recitare un
personaggio che non è la persona che è, la sua vita non è la maschera che indossa. P gioca col teatro, il teatro
che denuda se stesso, sfonda la quarta parete. Come? Facendo cadere il sipario, facendo interagire gli attori
col pubblico. Plauto lo aveva fatto, ma per ridere! Pirandello invece lo fa per ragioni filosofiche: se la vita è
una rappresentazione teatrale, quindi ognuno ha una maschera indosso, allora è già teatro. Il “fu Mattia
Pascal” si rende conto che non può ritornare indietro, sa di indossare una maschera ormai. Entra nella
precedente forma ma non ci crede più, “ironica distanza”.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, aiutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto,
come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io
gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare. — Intanto, questo, — egli mi dice: — che fuori
della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile
vivere. Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato nè nella legge, nè nelle mie particolarità. Mia moglie
è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto
che s’uccise alla Stia, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
colpito da avversi fati
MATTIA PASCAL
bibliotecario
cuor generoso anima aperta
qui volontario
riposa

la pietà dei concittadini
questa lapide pose
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi
segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e — considerando la mia condizione — mi domanda:
— Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: — Eh, caro
mio... Io sono il fu Mattia Pascal.
→ L’ultima è una non risposta : “Eh, car mio …. Io sono il fu Mattia Pascal”.
Soluzioni al dramma:
- Vivere la propria vita con autoironia non pensando di essere chissà chi.
- Come suggerito in Uno, nessuno e Centomila, ove il personaggio tenta di vivere senza calarsi in
nessuna forma, lasciar fluire la vita liberamente senza tentare di costringerlo in un’etichetta,
personaggio, effondendosi in tutto ciò che la vita lo porta a essere.

Uno, nessuno e centomila (1925)


L'ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all'alba, perché ora voglio serbare lo
spirito cosí, fresco d'alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte, prima
che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d'acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che
fanno parere piú larga e chiara nella grana d'ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili
d'erba, teneri d'acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell'asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora
guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani
cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite.
E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno.
E l'aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com'è, che s'avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere
piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo.
Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città
è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non
piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo
azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa
alla morte, a pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho piú questo
bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa
fuori.
→ È il secondo esito: tentativo di vivere fuori, proiettati nell’altro in cui ogni istante si diventa. L’io sempre più
sostituito dal Tu, Altro, Egli. L’Io si dilegua nella proiezione altro, altro, altro … . È l’idea del flusso, della
continua trasformazione, ripensamento di sé. Non è l’esito più comune, il più comune è infatti il primo:
rientrare in ciò che si crede essere la normalità con la consapevolezza che non è autentica. La critica delle
convinzioni sociali delle culture del primo Novecento: Marx, surrealismo, psicoanalitica. Lui le conosce, ne è
rimasto toccato, ma non è figlio di nessuna di queste.
Nelle Novelle ritroviamo questo schema. Esse sono raccolte in Novelle per un anno. Ne prevedeva 385, ma
sono comunque più di 200, a testimonianza della sua prolificità. Egli aveva fame di scrittura.
Nella seguente opera ( Ciaula scopre la luna, 1912) troviamo questo discorso in narrazione. Qui Ciaula viene
usato come bestia da soma nelle miniere siciliane del tempo, per questo accostata a Rosso Malpelo di Verga
che ha come protagonista Caruso, ragazzo messo in miniera e sfruttato. Tuttavia questi non sono uguali. Ciaula
non è un ragazzo anagraficamente, ma mentalmente sì, ha una sorta di ritardo. Tutti se ne sono approfittati e
hanno iniziato a trattarlo bestialmente e chi bestialmente viene trattato, bestia diventa. Ciaula ha il terrore
della notte, del buio. Tanto che va a dormire e si sveglia quando c’è il sole, ciò è legato ad un incidente in
miniera in cui è stato coinvolto. In tale circostanza è rimasto intrappolato ed è riuscito a fuggire in una notte
di luna nera, da allora associa l’oscurità della notte al terrore della morte. Cerca di non incontrare più il buio
finché vi viene costretto: il padrone della miniera ha bisogno che si continui a lavorare la notte, così costringe
i due più deboli, di cui uno è il povero Ciaula, a farlo. Lui lo fa, è nelle viscere della terra ed è terrorizzato. Si
trova faccia a faccia col buio della notte ma lui non lo sa che la fuori c’è la Luna, non l’ha mai vista.
→ È una scena densa. Ciaula è quasi un ominide che scopre la Luna, allarga le mani nere davanti alla divinità
bianchissima che gli ha spalancato la speranza. Pensava fosse solo una notte scura. Anche se sembrerebbe il
meno poetico delle creature, egli piange. C’è qualcosa di Leopardiano. Non ha più paura della notte. Tale
novella sta sempre parlando di ciò che è stato detto sin ora. Ciaula è ognuno di noi, impaurito da ciò che è
ignoto, terrorizzato al punto tale da praticare la lanterninosofia, ovvero usare quelle piccole convinzioni
personali che reggono luce su quel piccolo spazio per rincuorarsi, ma il mondo è oltre la luce, in cui inoltrarsi.
Ciaula scopre con stupore che ad attenderlo fuori non c’era un buio che lo avrebbe inghiottito.

Il treno ha fischiato (1914)


Il protagonista è un impiegato. P inizia da metà eventi trascorsi, per poi fare flashback. Belluca compie un
gesto che ha contraddetto ciò che è stato questi sin a quel momento della sua vita (follia). Belluca è un mite
represso impiegato che viveva una vita impossibile, soffocato dai doveri, in una condizione famigliare difficile.
Finché un giorno, all’ennesima bastonata del capoufficio, si ribella: gli inveisce contro, i colleghi stupefatti lo
devono portare di forza all’ospizio dei matti. Lo portano tra coloro che hanno perso la ragione. Solo il
Narratore, un vicino di casa di Belluca, capisce. I colleghi di Belluca ridono, si fermano alla comicità. Il vicino
di casa non ride, fa il passaggio dalla comicità all’umorismo, dice che ciò che è accaduto a Belluca è naturale,
si è risvegliato, che la vita era qualcosa di più grande di ciò che si era ridotto a vivere. Il vicino va a trovare
Belluca. Questi dice che una sera è rimasto sveglio di più e ha sentito il lontano fischio del treno che si
allontanava (banale, come naso storto, con valanga dopo). Si è ricordato che la vita era più grande della piccola
vita in cui si era costretto a vivere.
→ Belluca si è accorto che la vita che viveva non era tutta la vita, essa per P è trascendente, in senso
orizzontale. È un continuo trascendimento in altro.
Come Mattia, Belluca rientrerà nella sua vecchia maschera. Si scuserà e riotterrà il suo vecchio lavoro, ma con
la permissione di fare una capatina, di fare un viaggio ogni tanto: chiede la libertà di essere qualcosa di più,
una libertà mentale. È la stessa soluzione di Mattia.

Uno dei luoghi ove la letteratura pirandielliana emerge tutto questo discorso è all’interno delle novelle nella
rappresentazione dei volti. Lui descrive minuziosamente i volti dei personaggi, ha quasi un’ossessione. Perché
nel volto di questi si riflette tutta questa storia che stiamo raccontando. Il volto è il luogo ove le contraddizioni
emergono con più potenza e prepotenza. Il volto è al contempo il luogo del controllo superegoico e del
rispetto delle convinzioni sociali. Il controllo corporeo è tanto più ferreo dall’alto verso il basso. Guardare il
piede per vedere chi mente! Il volto è anche il luogo del tic, dell’emersione della pulsione, è dove irrompe il
particolare stonato, rivelatorio (sopracciglio che si inarca, indizi che c’è qualcosa sotto). Per questo descrive
bene i volti, Frabetti, un critico, in L’uomo senza maschera (1922) lo definisce un «Grande visionario
dell’anamorfosi, straordinario pittore della “sconciatura” e della disarmonia». “Sconciatura” nel senso di
rappresentare prospettive inconsuete.

Pena di vivere così (1920), novella in cui un personaggio dice:


- La vita! Così, ecco, come lui l’ha scritta in faccia, con una violenza che comincia a rilassarsi sguaiatamente. Che brutto
segno, quel labbro inferiore che gli pende bestialmente e quelle borse nere intorno agli occhi torbidi e addogliati.
Il volto alla fine tradisce, proprio dove si è profuso il massimo sforzo di controllo, perché il flusso della vita
travolge.

La messa di quest’anno (1905),

P confessa che è sempre stato affasciato dai volti, c’è una fascinazione barocca dietro questa stravaganza ma
anche una ragione ideologica. L’esperienza del brutto, disarmonico, contraddizione è un’esperienza
terapeutica, contradditoria, che libera dal peggiore dei veleni, ossia che tutto sia spiegabile logicamente. Che
l’uomo sia spiegabile in ragione di armoniose ideologie. L’esperienza del disarmonico affascina. Sorriso
compassionevole.

QUATTORDICESIMA LEZIONE

PRIMO LEVI

Autore che non proviene dal mondo della letteratura, ma la sceglie come necessità (di testimoniare, liberarsi
dicendo).
Nasce nel 1919 in una famiglia di origini ebraiche e il padre era un ingegnere, spesso in viaggio e nonostante
non fosse molto presente lasciò un’impronta molto importante nella personalità del figlio. Egli scelse infatti
di intraprendere un percorso di studi tecnico-scientifico, radice della sua cultura che non verrà meno
nemmeno nella sua scrittura. Scrittura contemporaneamente umanistica e scientifica, passione cultura
umanistica e precisione di quella scientifica (es il sistema periodico, la chiave a stella).
Contestualmente al percorso scientifico, vive un urgente bisogno di scrivere. Scrive perchè non potrebbe fare
a meno di farlo. Desiderio di racconto lucido, pulito, oggettivo, dettagliato del mondo. Descrizione netta e
obiettiva del mondo circostante tipica del mondo scientifico.
Chiave di svolta della vita di Primo Levi è rappresentata dalla sua cattura nel 1943, decise di allearsi con la
Resistenza Partigiana, opponendosi al regime della repubblica di Salò. In questa veste di partigiano viene
catturato e recluso prima in un campo di concentramento italiano, poi in un campo di sterminio oltre le alpi,
dove resta fino alla Liberazione.
Da questa esperienza drammatica nascerà il suo romanzo “Se questo è un uomo”, inizialmente non
considerato importante. Poco a poco venne notato, l’editore einaudi lo notò e di lì divenne famoso.
Tornato dal campo non farà lo scrittore di professione, ma ritorna a fare il chimico, un tecnico di scienza
appassionato alla letteratura e continuerà a scrivere.
La sua vita nel secondo dopoguerra porta con sé l'ombra della tragedia vissuta. Muore nel 1987
probabilmente in un atto di suicidio.
Lascia una vasta produzione letteraria.

1984, saggio intitolato l’altrui mestiere in cui gioca ad elencare i motivi che spingono a fare letteratura e
scrivere.
1. Per impulso o bisogno: scrivo ma non so perché, l’unica cosa che so è che sento questo impulso
irrefrenabile.
2. Per divertimento proprio o altrui
3. Per insegnare, trasmettere del sapere agli altri
4. Per migliorare il mondo, convinto che le sue parole lasceranno un’impronta
5. Per rendere pubbliche le proprie idee, ritiene di aver intravisto qualcosa di così importante che la sua
coscienza gli impone di non tenerla per sè
6. Per liberarsi dall’angoscia, scrittura terapeutica, quasi esercizio psicoanalitico, dire perchè dicendo ci
si libera e si fa ordine (es autobiografia spirituale, per raccontarsi ci si impone di capirsi)
7. Per ottenere fama
8. Per ottenere ricchezza
9. Per abitudine, perché lo si è sempre fatto.
Sicuramente si riconosce un po’ in tutte queste ragioni, ma soprattutto per 1-4-6.
Lato emotivo: scrive per bisogno emotivo, per saziare una fame di tipo affettivo, fame di riconoscimento da
parte dell’altro, visibilità, essere nella mente di chi legge
Lato razionale: insegnare, testimoniare.

Parole che cadono esattamente sul versante dell’urgenza affettiva:

Nella prefazione di se questo è un uomo (1947) aveva già accennato alla dicotomia delle ragioni affettive-
razionali della scrittura:
Ha delle ragioni che non sono strettamente razionali. Bisogno di liberazione forte quanto bisogni primari di
mangiare, dormire e soddisfare funzioni fisiologiche. Sente in sè qualcosa di troppo grande per tacerlo.

In questo altro saggio evoca la dimensione psicoanalitica, riconduce all’esperienza della deportazione,
esperienza tra la morte e la vita. Si sofferma sul senso di colpa dei superstiti (irrazionale), che si sentono
immeritevoli della loro fortuna.
Atto della scrittura come atto necessario all’interno di queste dinamiche. Scrittura come confessione. Urgenza
di dire qualcosa di troppo importante per poterlo tacere ma non basta, se si esaurisce in questo non è buona
scrittura ma solo uno sfogo irruento. La scrittura deve fare lo sforzo di tradurre questa onda in qualcosa di
lucido e comprensibile altrimenti fallisce perchè non riesce a comunicare. Ciò che sgorga in modo irruento
sul foglio spesso è significativo solo per chi scrive, perchè non sono per tutti, perciò non basta la passione ma
ci vuole anche la ragione, un filtro. Entra in gioco la forma letteraria, tentativo di rendere onore a cio che si
sta scrivendo in modo che venga capito anche da chi legge. Possibile solo se questa è una forma lucida e
trasparente. Sforzo di tradurre in oggettività la soggettività.

Se questo è un uomo ha un linguaggio estremamente pacato rispetto alle cose orribili che racconta, come
disumanizzazione e sadismo. Pochissime volte il linguaggio si incrina, è un tono trattenuto, frutto di un grande
sforzo. Lui è vittima ma fa lo sforzo quasi di estraniarsi dal proprio pdve raccontare da un punto di vista
oggettivo per raggiungere l’obiettivo di rendere onore a quella verità e far si che sia creduta e non sia
considerata eccesso e melodramma. Lucido resoconto di ciò che è accaduto
Bisogna dare forma a ciò che è informe. Chi sta scrivendo cerca di portare fuori di sé ciò che ha dentro e ciò
che si ha dentro è sempre informe. Flusso caotico e informe dei pensieri e delle emozioni: se non gli si dà
forma si fallisce l’obiettivo comunicativo.
Spesso c’è insoddisfazione verso ciò che si ha scritto, perciò si scrive più e più volte: parto letterario. Parto
non istintivo, ma travaglio e fatica. Giocare con le parole come il chimico gioca con gli elementi, sapendo che
possono essere fattori di meraviglia ma anche di distruzione, che se non maneggiati in modo corretto possono
portare a reazioni violentissime talvolta mortali.
Potenza delle parole = strumenti di straordinaria forza. Possono ferire e uccidere se imprudentemente fatte
reagire l’una con l’altra, oppure guarire e salvare una vita se usate in modo sapiente e con accortezza. Sono
come elementi chimici.

La chimica delle parole: La chiave a stella (1978)


Del resto, non è detto che l’aver trascorso più di trent’anni nel mestiere di cucire insieme lunghe molecole
presumibilmente utili al prossimo, e nel mestiere parallelo di convincere il prossimo che le mie molecole gli
erano effettivamente utili, non insegni nulla sul modo di cucire insieme parole e idee, o sulle proprietà generali
e speciali dei tuoi colleghi uomini.

Levi usa una metafora letteraria per spiegare la chimica che a sua volta diventa metafora scientifica per
spiegare la letteratura, la chimica come l’arte del cucito (= metafora letteraria). Quindi il chimico cuce insieme
lunghe molecole sperando che ciò che sta tessendo sia utile all’umanità, ma il letterato fa la stessa, cioè cuce
insieme quelle lunghe molecole che sono le parole, sperando che queste portino vita e non morte, perché
l’umanità passa dalle parole.

Se questo è un uomo 🡪tentativo scientifico e disumano di disumanizzare i deportati nei campi di


concentramento, passa anzitutto dalla privazione della parola, l’atto più umano che esiste, dal non poter
comunicare, parlare, raccontare e dare un senso 🡪 scopo delle parole , ma loro, i deportati, erano considerati
solo “pezzi”, senza senso, quindi privati di parole. Tutto passa dalle parole, che sono il luogo dove si gioca il
destino della nostra umanità.

Le conversazioni con Ferdinando Camon (1982-1986)


Levi: Io ho avuto l'impressione che l'atto di scrivere equivalesse per me allo stendermi sul divano di Freud.
Sentivo un bisogno così prepotente di raccontare, che raccontavo a voce. (...) Mentre scrivevo Se questo è un
uomo io non ero convinto che sarebbe stato pubblicato. Volevo farne quattro o cinque copie e darle alla mia
fidanzata e ai miei amici. Il mio scrivere era dunque un modo di raccontare a loro. L'intenzione di «lasciare
una testimonianza» è venuta dopo, il bisogno primario era quello di scrivere a scopo di liberazione.
Camon. Scrivere a scopo terapeutico, dunque.
Levi: Terapeutico , sì .
Camon: E ha funzionato, in questo senso?
Levi: Sì: lo scrivere mi ha sollevato.
Camon. La metafora del lettino, che lei ha usato poco fa, era già indicativa di questo uso della scrittura come
terapia, come l'atto di depositare fuori di sé delle cose che, se restano dentro, la disturbano.

Intervista famosa con Camon, giornalista del corriere della sera: Levi ritorna sull’idea che la letteratura sia
entrambi gli esercizi, quindi l’arte difficile di dare forma all’informe, di dare lucida evidenza alle verità,
splendide o terribili che sono nell’uomo e nel contempo anche una necessità di guarire, richiudere le proprie
ferite.
Levi si muove tra i due poli, quello a affettivo e quello razionale. La paura che chi era rimasto a casa e non
aveva vissuto il terrore e il dolore dei deportati, potesse non credere, che potesse negare…porta all’urgenza
di scrivere, perché lasciar passare il tempo potrebbe raffreddare l’emozione delle cose( AFFETTIVO); rendere
onore, dare forma ( RAZIONALE) e poi torna al lato affettivo
l bisogno di dire: dalla voce alla scrittura
«L'intervista è per Primo Levi l'arte di prolungare il racconto, per aggiungere qualcosa di ulteriore, qualcosa
che ha salvato dall'oblio», Marco Belpoliti, pref. Conversazioni e interviste (1963-1987), ed. 1997 «Levi è uno
scrittore contemporaneamente molto orale e tutto "scritto"», Pier Vincenzo Mengaldo sul «Corriere della
sera» (1997) «Io sono un uomo a cui molte cose vengono raccontate», P. Levi, Il sistema periodico (1975)

Tema della scrittura come parola che non deve essere considerata più artificiosa di quella orale, perché sono
la stessa cosa, cioè il precipitato ultimo di una tensione, passione, che passa dall’oralità per prendere forma
nella scrittura.

prem. Se questo è un uomo


Voi che vivete sicuri /Nelle vostre tiepide case,/ Voi che trovate tornando a sera /Il cibo caldo e visi amici:/
Considerate se questo è un uomo /Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/Che
muore per un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ Senza capelli e senza nome/ Senza più forza
di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d'inverno. /Meditate che questo è stato: /Vi
comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi;
/Ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa, /La malattia vi impedisca,/ I vostri nati torcano il viso da voi.

Tutti questi aspetti sono sintetizzati nella poesia che fa da premessa a Se questo è un uomo, spiega le ragioni
che l’hanno convinto a scriverlo. Poesia in stile biblico, stile delle maledizioni profetiche, adotta un certo
registro stilistico. Le maledizioni profetiche sono pagine particolarmente aspre della bibbia, in cui i profeti
percuotono il popolo con le parole. Vediamo una sorta di maledizione profetica verso chi dimentica le parole,
quindi la storia e il senso di quello che è accaduto, dimentica il bene, il male, l’umanità. Il primo atto di
disumanizzazione è proprio la perdita delle parole.

Se questo è un uomo, cap. XI ... Il canto di Ulisse.


Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più
un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. ... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia.
Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia.
Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è
attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi
mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua
che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando... Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante
e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua,
e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella
memoria «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «...
la piéta Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto?
... Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in Grado di spiegare a Pikolo,
di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è
scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha
viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e
non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraÿtwerk (11), dove lavora
il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa
un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto Giù di morale, non parla mai di mangiare.
«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella compagnia Picciola, dalla qual non fui
diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle
colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un
verso, ma vale la pena di fermarcisi: ... Acciò che l’uom più oltre non si metta. «Si metta»: dovevo venire in
Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non
sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho
bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Come
se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho
dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta
facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e
frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi
in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti... ... e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti».

Possiamo dire che è un memoriale che racconta la presa di coscienza di come funzioni un campo di
concentramento e di sterminio come quello di Aushwitz, un mondo dove l’obbiettivo non è tenere in prigionia
qualcuno, ma cancellarlo fisicamente (morte), ma prima psicologicamente (morte dell’animo e poi del
corpo)🡪quinta essenza del totalitarismo, che ritroviamo anche in Orwell, che è controllare le menti, dopo aver
portato ad amare il “grande fratello” e quindi aver ucciso la mente, posso uccidere il corpo.
Levi comprende questa logica durante la sua permanenza nel campo.
In questo estratto L. racconta di un trasferimento nel campo che lui vive con un compagno che lo sceglie per
svolgere la mansi0ne di trasportare un pentolone, mansione a cui tutti ambivano proprio per poter
allontanarsi al campo anche se per poco. Questo rappresenta un sollievo, una tregua al campo e L è molto
grato al suo compagno per questa opportunità, perché rappresenta un’occasione di recupero , restituzione
della parola, infatti lungo il tragitto i due cominciano a parlare di letteratura, che in quel contesto era inutile.
Nello specifico parlano di Ulisse e Jean chiede a Primo di raccontargli qcosa di Dante e della sua commedia.
Primo parla, usa la parola come arte per dare un senso e lì si rende conto di essere stato privato del diritto di
essere un uomo, del diritto di usare la parola e quindi la letteratura. L: sceglie un canto dell’inferno perché
l’inferno dantesco è simile a quello in cui loro si trovano a vivere e che bisogna chiamare così, perché se non
lo si riconosce come tale se ne è doppiamente vittime. Chiamarlo col suo nome (inferno), è il primo passo
verso la liberazione. Primo sospetta che Jean in realtà conoscesse bene l’argomento ma volesse fare un gesto
di generosità al compagno.

In questo frammento L sceglie il canto 26° in cui la nave di Ulisse aveva appena sfidato le colonne di Ercole ,
compiendo il folle volo che l’ha condotto fino all’avvistamento del monte dl purgatorio. La nave viene colpita
da un folle vento che la fa ruotare tre volte su se stessa, finché il mare sopra di lei si chiude. Su questa
immagine si chiude anche il capitolo perché J e P presto affondano al di sotto del mare della prigionia. Di
straordinario in questo capitolo c’è il fatto che i due compagni si trovino a perdere tempo, parlano, si
emozionano parlando di qcosa apparentemente inessenziale, ovvero rendere l’esatta forza espressiva di
termini danteschi, L si appassiona nel aver colto il significato di parole francesi come “misi me nel mare”, che
non è mi misi in mare, perché misi me è come dire mi sono preso, buttato in mare, perché ho così voglia di
riprendere il viaggio che mi sono preso di peso e mi sono scagliato in mare. Quindi torna l’uomo che ha
bisogno di bellezza, letteratura e si rende conto che essere costretti a parlare solo e soltanto di come
sopravvivere un altro giorno è disumanizzare, privarli della parte più preziosa, che appare la meno essenziale
ma che è invece la più essenziale per essere uomini, ad esempio per lui appassionarsi alle parole della
commedia di Dante.

Se questo è un uomo, cap. II


Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente dalle docce,
cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti,
ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non
so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere
e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano,
dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci. Quando
abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non
c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e
sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la
nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con
intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare:
condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe,
anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno il
nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa
ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed
è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole
nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una
vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del
nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire
i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre. Si immagini ora un
uomo a cui, insieme con le persone amate, vengono tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine,
letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità
e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso [...]. Si comprenderà
allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa intendiamo
esprimere con questa frase: Giacere sul fondo

Nel secondo capitolo Levi affronta di nuovo il tentativo di disumanizzazione, dell’oppressione che si traduce
nella soppressione della parola. I carcerati vengono ridotti al silenzio: scena in cui vengono portati alle docce
poco dopo il loro arrivo, spogliati, privati dei loro oggetti che venivano accantonati per essere ripuliti di quanto
ci fosse di prezioso. Venivano quindi spinti nella docce dicendo loro che dovevano essere puliti, disinfettati,
per poter accedere al campo, ma il sospetto di stare andando incontro all’altro è terribile perché è inespresso,
il fatto che è nella mente di tutti, ma nessuno osa pronunciarlo. Dalle docce esce l’acqua, quindi vengono
risparmiati.
Sul fondo non si è quando si viene sterminati ma quando si è privati della propria umanità e poi sterminati
fisicamente.

Recensione a Il chimico di Fabrizio de Santis (1961)


Ci sarebbe piaciuto leggere (ma solo un chimico avrebbe potuto scriverne) delle esperienze fondamentali del
ricercatore, il successo e l’insuccesso; dello stato d’animo esaltante, ilare, del chimico che segue una pista;
della sua lotta quotidiana contro la materia inanimata, che egli percepisce come malvagia, chiusa, nemica,
fino a che non abbia la ventura di trovare lo spiraglio in cui far leva, ed allora al buio segue la luce, al caos
l’ordine.

Questa recensione conserva una chiave di lettura corretta dell’opera di Levi ovvero la lotta incessante del
chimico letterato per trovare uno spiraglio per essere capiti, compresi. Il terrore di non essere compresi, che
le parole non bastino, quindi fare lo sforzo di lavorare di chimica con le parole anche al prezzo di trattenere le
proprie passioni o il proprio pianto in scene drammatiche, pur di essere capiti, purché le proprie parole
restino lucide e risuonino di senso alle orecchie di chi le ascolta

Mengoni, Elementi inattesi. Come nacque Il sistema periodico (2019)


Argon, il primo racconto, è una storia aneddotica sugli antenati ebreo-piemontesi di Levi; l’argon è un gas
nobile, inerte, che non reagisce con nessun altro, quasi introvabile in natura. Subito dopo c’è Idrogeno, che è
viceversa un gas spiccatamente infiammabile (è il gas di cui si compongono le stelle), tanto infiammabile
quanto il giovane Primo Levi lo fu verso i Grandi misteri della materia. Si trova al polo opposto della tavola
periodica rispetto all’argon. Carbonio, che è la storia di un atomo, chiude la raccolta. Il carbonio è l’elemento
meno specifico, l’elemento della vita, quello organico per eccellenza; è l’universale, incarnato e disincarnato
insieme, massimamente piccolo e potenziale; rappresenta l’esatto opposto del motto del Giovane Levi in
Idrogeno, ovvero «avremmo stretto Proteo alla gola». Il carbonio, e il testo di Carbonio, sono il trionfo di
Proteo. In un certo senso, il gas inerte iniziale illumina per contrasto gli altri racconti: l’inerzia si trova subito
indicata come il primo polo di un ossimoro tematico in cui, all’altro capo, sta l’estrema reattività del carbonio
pronto a incatenarsi senza e con altri elementi: la dinamicità, l’essenza proteiforme umana. Carbonio e Argon
sono i due testi il cui progetto è in assoluto più antico. E Il sistema periodico si muove tra questi due elementi
che funzionano da poli metaforici. Idrogeno è come il catalizzatore della reazione tra i due opposti. Carbonio,
che tra gli elementi funge da polo dinamico della reazione, è anche una dichiarazione di poetica. È in questo
racconto – attraverso questo racconto – che si rivela, apparendo nella sua potenza, il nesso tra chimica e
scrittura, e tra scrittura e vita. Nel raccontare la storia di un atomo di carbonio, Levi sta aprendo le porte del
suo laboratorio narrativo e linguistico. Le sue giustapposizioni aulico-tecniche diventano il cuore stesso
dell’incedere espositivo. Raccontare la vicenda di un atomo di carbonio non è molto diverso dal raccontare la
vicenda di un personaggio, o meglio: ne è il paradigma, la riduzione ai minimi termini; con il vantaggio che
non esiste un linguaggio narrativo da utilizzare per la chimica, e quindi occorre inventarlo, procedendo per
ibridazioni, combinazioni, imprestiti, invenzioni. La modalità è quella dell’esperimento: è necessario procurarsi
circostanze ambientali perfette affinché riesca. Era capitato altrettanto per il Lager: non c’era ancora un
linguaggio, una voce, una posizione per raccontare quella realtà, dunque andava trovata. La motivazione era
ben altra, ma occorrevano in egual misura controllo rigoroso e azione sperimentale

La letteratura di L si muove nel difficile tentativo di dare una lucida chiarezza a qualcosa di indicibile. La
letteratura è vista come sperimento chimico, tentativo di esplorare mondi nuovi, non sono state ancora
inventate le parole per raccontare certe cose, allora bisogna inventarle, bisogna sperimentare e verificare se
funzionano o meno . Tutto questo è pericoloso, esaltante e meraviglioso nel contempo perché costringe ad
affacciarsi sull’ignoto muovendosi tra gli estremi ( gli elementi chimici ) Idrogeno= suscettibilità,
infiammabilità VS Argon=elemento che non reagisce a niente, quasi introvabile. Nel mazzo c’è il carbonio=
complesso, alla base della vita ( silicio =componente base di ciò che è inerte) sfida: raccontare l’imprevedibilità
del carbonio e quindi dell’uomo che è capace di compiere orrori indicibili come compiere sadismo sui propri
simili, ma anche di atti eroici, generosi straordinari. Dentro allo stesso mistero convivono i due elementi
opposti Argon e Idrogeno🡪sfida: avventurarsi in questo mistero per trovare le parole giuste.

🡪Levi ci riporta al punto di partenza del percorso perché la parola nella letteratura dimostra qcosa di sé, cioè
non è strumento pratico per spiegare le nostre faccende ma un luogo misterioso in cui si manifesta la
tensione, la contraddizione, aspirazione, bellezza, paura e desiderio che sono propri dell’essere umano. La
letteratura è stata l’occasione di ricordarsi di tessere storie che aspirano ad avere un senso che si può trovare
soltanto raccontandosi a qualcuno. Le storie che raccontiamo parlano di noi, di come siamo.

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