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In copertina opera di

Aldo Braibanti 1973


Giallo di Cromo N° 1
Copyright Editrice 28
diretta da Ferruccio Massimi
e Franca Savarese
Via Fosdinovo, 28 - 000139 Roma
Aldo Braibanti

Impresa dei prolegomeni


aeratici

Editrice 28
In memoria del cane Slappa, che ha
traversato dolcemente la mia vita per
diciotto anni, morto oggi.
Roma 16-10-1988
i
H
PREMESSA
Impresa dei prolegomeni aeratici: anzitutto il perché di un titolo. Impre­
sa, cioè realizzazione promozionale, per natura incapace di istituzionaliz­
zarsi Prolegomeni, cioè fondamenti ipotetici per ricerche annunciate.
Aeratici, cioè tesi alla individuazione di posti sempre più estranei alleforme
storiche del potere.
Le note che compongono questo volume si sono andate accumulando
tra il 1975 e il 1978, fino a quando, in quell'anno, Paolo Morawsky, allora
mio collaboratore, mi ha proposto di ordinarle in un'intervista. E'nato così
un libro che, per molte ragioni contingenti, non ha trovato allora spazio
editoriale. Il libro ha dormito in un cassetto fino a quando, circa quattro
anni fa, nuove contingenze mi hanno di nuovo riproposto l'idea della
pubblicazione. Disgraziatamente in quell'occasione il libro è stato affidato
per lettura a persone lontane dal suo spirito informatore, ma non abbastan­
za lontane da poterlo leggere da un'altitudine serena. Tra l'altro, mi è parso
abbastanza miope il consiglio di defalcare dal libro le note biografiche. Io
non sono interessato a esercizi di bello stile. Sono altrettanto disinteressato
a oggettività discorsive a cui non credo in partenza, o a narcisismi letterari
esibizionisti e competitivi, che ho sempre rifiutato. La mia naturale irrita­
zione si è subito sposata con la mia inveterata resistenza alla pubblicazione,
e il libro è tornato nel cassetto.
La proposta di Ferruccio Massimi e Franca Savarese, piccoli ma corag­
giosi editori, di aprire i miei gelosi cassetti e tirar fuori poesie, drammi e
saggi, mi ha di colpo prepotentemente riproposto questo libro, informa di
generale introduzione a un lavoro culturale come il mio, che in pratica è
stato troppo sacrificato da rifiuti timidi e alteri, e, almeno'in parte, anche
dalla distratta disinformazione oggi tanto diffusa nel mondo culturale.
Piano piano l'esigenza di tirar fuori dal silenzio queste pagine mi è parsa
sempre più improrogabile, tanto che ho preso in mano i vecchi manoscritti
e ho cominciato a rileggerli con una sorta di naturale tremore. A distanza di
tanti anni, mi è subito sembrata superata e inattuale quella forma di
intervista che, ai suoi tempi, sarebbe stata altamente promozionale. Ma le
mie risposte e le mie note mi sono parse, invece, in gran parte ancora
cariche di attualità, anche se, ovviamente, molte affermazioni e proposte
hanno diluito, nel tempo, parte di quella forza dirompente che avevano
all'origine. Molti eventi in questi anni d'attesa hanno risposto alle mie
domande, molti altri le hanno attualizzate di fronte a quel confuso riflusso
culturale che oggi stiamo vivendo. Mi è parso comunque importante
pubblicare queste note come una sofferta testimonianza, tanto più che sono
orgogliosamente convinto che, in misura modesta, anche questa testimo-

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manza può contribuire a diradare un poco di nebbia.
Liberando le note dal loro scheletro d 'intervista, ho avuto subito paura di
potere, anche se inconsapevolmente, violentare le mie idee di quel tempo.
Questa paura è stata positiva, perché mi ha*guidato a difendere l'identità
originaria delle mie note.
L 'operazione non è stata facile,perché i miei vizi letterari sono intervenu­
ti a correggere certi arcaismi esteriori del discorso. Il compito mi è risultato
più facile quando ho utilizzato fedelmente il mio criterio automatico anche
nella revisione delle pagine, e in questo sono stato decisamente aiutato
dalla collaborazione che mi ha dato Delio Barth col suo computer.
Ne è risultato un prodotto aperto, senza inizio né fine, teso a privilegiare
la provocazione sollecitatrice sulla stesura ad alta definizione. Volevo
impedire che il libro tendesse a conformarsi in sistema, e la via del
frammento è stata per questo decisiva. Può darsi che queste pagine siano
stese in modo da non accontentare nessuno. Ma la mia intenzione non è
stata quella di disinfettare con preziosismi linguistici, che mi sono estranei,
un 'operazione che esige dal lettorepiù pazienza che curiosità, più autocriti­
ca, che ipocrita obiettività critica, più silenzio e raccoglimento che vocazio­
ni logorroiche.
In un certo senso, dunque, il libro va letto come un 'autointervista,
probabilmente non esente da contraddizioni, ma ben decisa a farle emerge­
re e scoppiare dal di dentro.
Comunque, dato il lungo tempo che mi divide dalla prima stesura, ho
ritenuto di far seguire ai dieci saggi, datati 1978, una conclusione provviso­
ria, datata 1988. Mi appello alla pazienza di cui parlavo per il lettore: chi
avesse la tenacia di arrivare fino alla fine del decimo saggio, non trascuri la
conclusione provvisoria che ségue, perché in essa sono contenuti sia un
aggiornamento sul mio lavoro, sia una sorta di autocritica, priva di pulsioni
masochistiche. Ho pensato che quella che ora è conclusione, forse avrebbe
potuto essere prefazione. Ma mi sono poi deciso per la presente soluzione,
perché la mia aspirazione è solo a un lettore capace di condividere con me
l'entusiasmo libertario che permea e unifica tutti i frammenti riportati.
Questo lettore troverà più promozionale la formula dell'aggiornamento
finale. Vorrei anche che si armasse della stessa modestia con la quale
congedo provvisoriamente queste pagine.
Nella revisione stilistica di questi saggi, mi sono imbattuto in molte
ripetizioni, che tuttavia non ho eliminato, sia per non stravolgere la loro
autenticità temporale, sia per conservare a ciascuno la sua relativa autono­
mia rispetto agli altri.
Una cosa comunque non va dimenticata: con queste pagine io non
cercavo tanto di fornire dimostrazioni quanto di riportare denunce biogra­

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fiche, vale a dire emblematici inviti a ulteriori ricerche su tutto quello che
veniva denunciato.
E ycomunque innegabile che la pubblicazione di questo libro è un atto di
giustizia che mi era dovuto, e che posso realizzare solo fuori dai grandi
binari editoriali.
La presente opera va considerata il primo volume degli scritti inediti
dopo il 1960.

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I

I
I
UNA FOLLA DI TENTAZIONI

I- Il mio primo incontro con Spinoza è avvenuto nell’adolescenza, quan­


do, cercando di sfuggire alle maglie di un ambiguo teismo, ho scoperto
come Spinoza, appunto, bagnava le idee chiare e distinte cartesiane nel
mercurio della Kabbalà. Egli chiudeva così ben presto, mi sono detto,
quell’epoca nuova di pensiero che forse Cartesio si era illuso di aprire.
Ma qualcosa di più mi sembrava che fosse avvenuto. Mi chiedevo, quasi
con tremore, se non fosse stata la stagione stessa della filosofia a venire
definitivamente chiusa.
Il secondo incontro è avvenuto quando mi è stato detto che l’ondata
prorompente del romanticismo riscopriva quell’uomo èbbro di Dio. Mi
è parso subito che qualcosa venisse taciuto o nascosto, ma tuttavia
qualche altra cosa prendeva le mani di un mio insospettato, nuovo
entusiasmo. Nonostante tutto, il pensiero occidentale dell’Ottocento
aveva messo in luce quell’aspetto dinamico, fino ad allora sfacciatamen­
te chiamato diabolico, che il tisico e ritroso fabbricatore di lenti aveva
chiuso nelle forme aride della sua scrittura. Ancora una volta Spinoza
mi indicava uno sblocco: al di là di un’apparente escalation della storia
della filosofia, per la quale avevo già suscitato in me ogni diffidenza, si
poteva aprire un nuovo spazio d’esplorazione. Era sufficiente che faces­
si coincidere l’ebbrezza con quel dio che la provocava e, in un modo o
nell’altro, mi sarei subito sentito fuori da una poco stimolante storia
delle parole d’uso filosofico. Dopo il tutto detto di Spinoza, mi sembra­
va molto più stimolante imboccare subito una strada diversa da quella
che aveva intrapreso il pensiero occidentale, quando cercava in tutti i
modi di ricondurre Spinoza, se proprio se ne doveva parlare, a una
impropria matrice di pensiero idealistico, e alla fine metafisico. Il
diavolo è potente, ma non invincibile, e anche per lui, alla fine, può
esistere salvezza. La favola sottintesa non mi sembrava neppure piace­
vole. Ancora una volta preferivo cercare il vero volto di Spinoza, o, se si
vuole, la sua vera grandezza, nel suo continuo, anche se spesso non
apparente, spezzare gli stretti confini del pensiero occidentale, e richia­
marsi a quanto in esso, e nelle sue origini cristiane e giudaiche, c’era di
un pensiero più esteso e meno esplorato. Spinoza non si è riferito
certamente alle filosofie del lontano oriente. Ma la sua nuovissima
critica alle radici della filosofia e della religione si affacciava agli stessi
orizzonti con altrettanta forza dirompente e spregiudicata, appena
velata dalla sua costituzionale cautela. Si trattava dunque di imparare a
leggere, vale a dire, di emendare l’intelletto.
Il mio terzo incontro con Spinoza è avvenuto negli anni più duri del

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Il

mio travaglio biografico, quando uomini come Darwin, Einstein, Freud


e Marx mi sono venuti incontro come pronubi e protettori in una mia
sempre più insistita sconsacrazione. A questo punto ho scoperto gioio­
samente che Spinoza mi risparmiava di appartenere a qualunque scuola
di pensiero e, ovviamente, mi metteva in guardia contro ogni caduta
ecclesiale. Non si trattava tanto, per me, di fare di Spinoza un vicino­
lontano antenato di questo o quel pensiero moderno, quanto di mante­
nere intatto il mio processo dissacratorio, secondo il quale, grazie
appunto sprattutto a Spinoza, io potevo, ad esempio, inebriarmi di
marxismo o, ai limiti, di buddhismo, senza definirmi mai marxista o, ai
limiti, buddhista. Questa libertà di movimento era dunque il frutto di
quella emendazione spinoziana che, senza paura di equivoci, potevo
appassionatamente chiamare liberazione. Le cosmogonie moderne,
l’attuale bisogno di un nuovo ordinamento delle scienze, la spregiudica­
ta rivisitazione di tutti i problemi accaparrati e finalizzati dalle metafisi­
che di ogni segno possibile, la relatività di tutte le verità del conoscere:
in un modo o nell’altro questo bagaglio mi arrivava come frutto del
seme spinoziano. Finalmente potevo relegare nel solaio delle cianfrusa­
glie la vecchia e petulante accusa di staticità, che colpiva il pensiero di
Spinoza nelle aule scolastiche di tutti i gradi.
Ho fatto prima quattro nomi, scelti tra quelli che più hanno influito
sulla mia evoluzione. Ma ci sono molti altri nomi, non segnati nell’archi­
vio della storia ufficiale, ai quali debbo spesso un insostenibile amore
per l’autocritica. L’esperienza biografica mi ha tenuto fuori dagli avven­
turismi di stampo idealistico grazie anche alla lezione del poveruomo
Spinoza, e di tanti altri poveri uomini semplici e spesso anonimi. Ho
incontrato il Buddha e l’ho ucciso. Tanto più facile diventava in seguito
ridurre gli idoli a ninnoli da salotto, o, se si vuole, a chiavi di lettura
antropologica.

II - Ogni momento della storia è un momento di crisi di sviluppo.


Quando perciò si parla di crisi della civiltà, come da gran tempo avviene
nella cultura occidentale, (anzi, in tempi più recenti, la denuncia di una
crisi ha assunto di nuovo linguaggi apocalittici e persino millenaristici,
più o meno giustificati dalle più allarmanti cadute ecologiche), mi viene
spontaneo bombardare spietatamente l’uso stesso della parola crisi. C’è
una chiarezza dell’idea di crisi che è oscurità, e c’è un’altra chiarezza che
là dentro possiamo cercare, quella appunto che, ai tempi loro, ha diviso
con un abisso Spinoza da Cartesio. Si è parlato spesso di sonno della
ragione e dei mostri che suscita, ma nella storia del pensiero umano c’è
anche il dormiveglia. Il sogno di Hegel, esitante tra l’incubo e il succubo,

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come un nonno che può avere nipoti di segno opposto, da Hitler a
Lenin, per intenderci, è già ai limiti del dormiveglia e, perché non dirlo,
della misura di un certo tipo di potere, alla cui origine solo in parte si
ritrova la riforma kantiana.
Si tratta dunque di definire le premesse e i limiti di quella che oggi
viene chiamata crisi, e che spesso si riduce all’illusione scaramantica di
chi non riesce ad accettare la mente, e i suoi prodotti, come posto
mobile del corpo. Molte operazioni macroscopiche deH’intelletto occu- /
pano ben piccola parte della nostra vita e della nostra giornata. Sartre'
l’aveva capito, ma non ne ha tratto tutte le conseguenze. E ’ facile
dimenticare l’enorme importanza di una sfiducia preventiva in ogni
cosmo che abbia una lunga durata.

Ili - Nell’attuale estensione planetaria della cultura, Oriente e Occiden­


te appartengono, di pari diritto, al nostro passato. Questo non significa
che l’Oriente non ci possa essere ancora foriero di molti inediti richiami.
Questo vale anche per altri rami della storia della civiltà, morti per
esaurimento, oppure distrutti dalla bieca violenza del mercato occiden­
tale. Non si può ormai più ignorare, quando si parla di storia della
cultura, che l’apparente accelerazione degli ultimi millenni è in realtà il
frutto di quelle centinaia di migliaia di anni nei quali si è caratterizzata la
specie umana. Questa ultima considerazione diviene alla fine decisiva,
se vogliamo mettere sotto il vetrino del microscopio il primato dell’uo­
mo, relativizzando la storia e negando ostinatamente ogni istanza supe­
rumana. Oggi è più facile saldare la culturazione umana alle sue origini
zoologiche, ed è anche più facile ipotizzare in extremis una storia
post-umana. Solo che si voglia modificare il punto d’osservazione,
apparirà molto più facile smascherare le magie bianche e nere nascoste
nell’evoluzione del linguaggio, e con esse denunciare i conseguenti
autoritarsmi punitivi, generati dall’impatto tra individuo e gruppo, tra
essere vivente e ambiente, impatto generato a sua volta dalle distorsioni
del bisogno difensivo di sopravvivenza, cariche di pietrificante coazione
a ripetere.

IV - Orgoglio è il nome della distorsione: orgoglio come effetto dei


limiti che la paura pone all’immaginazione, intesa come il tentativo di
una sempre più diretta comprensione del reale, cioè, in sostanza, vita
globalmente in azione. Sarebbe facile giuocare con una ennesima cop­
pia dialettica, e cercarne la sintesi in una sorta di identikit del pensiero.
Ogni metodo ha le sue valenze relative, ma è innegabile che la dialettica
è troppo spesso divenuta un golem incontrollabile, e che alla fine è

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scivolata di nuovo in pericolosi dualismi restauratori. Voglio dire che se
la dialettica viene rivisitata come il frutto di un certo uso dell’analogia,
intesa nella sua durata finita, allora diventa fantascienza, cioè delirante
invenzione del passato, continuare a contrapporre l’uomo perfetto, il
dio deH’immaginazione, la metafisica che torna dalla finestra, all’uomo
imperfetto, nero, entropico. Ma parole come vita, analogia e immagina­
zione, non vogliono essere, in queste pagine, comodi alibi discorsivi.
Sono convinto che la caratteristica fondamentale del linguaggio con­
siste nel fatto che il suo uso nella comunicazione produce comprensione
attraverso il confronto continuo delle molteplici differenze individuali.
Chiunque volesse comunicare se stesso e il suo pensiero, dovrebbe
pertanto far precedere ogni suo discorso da un vocabolario personaliz­
zato del significato delle parole che usa. Questo è forse un paradosso,
perché non fa che esprimere il senso stesso della comunicazione. Mi sia
quindi concesso di far coincidere il mio vocabolario personale coi tempi
e coi modi della mia scrittura.

V - Quando, come scriverò più avanti, la mia scrittura identifica immagi­


nazione ed erotismo, non fa che rifiutare l’identificazione di evoluzione
e progresso. Vale a dire che una denuncia critica che sfugga ai termini
dell’esplorazione sperimentale, può decadere nella fantasia onirica.
Nessuna paura: premesse certe condizioni, anche questo è un continen­
te da esplorare, o, meglio ancora, uno stimolo, sia pure infido, alla
rimessa in moto della ricerca. Mi piace aggiungere che se cerchiamo di
imbrigliare l’orgoglio di cui parlavamo prima, l’immaginazione umana
sembra proprio che finisca sempre in un territorio post-umano. Sarebbe
come dire che c’è un modo di sfuggire all’antropomorfismo, e questo
sarebbe già idealismo. Ma la fine dell’antropomorfismo e l’idea di
progresso, quando perdono ogni loro valore, acquistano la nuova valen­
za di una forza propulsiva di sopravvivenza. Come, appunto, ogni
utopia.

VI - A questo punto è giusto cercare di capire perché si contìnua oggi a


parlare di crisi nelle sue accezioni più negative. Due ordini di eventi
concorrono a determinare questa opinione. Il primo riguarda la fine
della leadership dell’uomo bianco come tale, e l’altro il rapido e pro­
rompente sviluppo della tecnologia, che modifica i rapporti spazio-tem­
porali degli abitanti del pianeta, e non può non travolgere lo Stato come
istituzione centrale della società umana, e quindi come sintesi esempla­
re della civiltà. L’uomo bianco, infatti, ha cominciato a rendersi conto di
quanto breve sia stato il suo dominio colonialista e, in sostanza razzista,

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se misurato con un metro più consono all’onestà dello storico. Era
inevitabile che l’irresistibile rivoluzione tecnologica, insieme causa ed
effetto di potere, cominciando a sfuggire di mano a tutti gli apprendisti
stregoni, si rivelasse sempre più come un frutto rischioso e ambivalente
dell’evoluzione della specie.
Si potrebbe a questo punto ipotizzare anche un’inevitabile dinosau-
rizzazione dell’uomo, e il suo arenarsi in un culo di sacco irreversibile,
proprio nel momento apparente dei suoi più grandi trionfi. Ma si può
facilmente ribattere che non ci si trova ancora del tutto immersi nei
miasmi di un Leviatano cadavere, e che l’apprendista stregone, non si è
ancora del tutto perso nella illusione di ideologie della ciclicità della
storia, e neppure è ancora tanto perseguitato dalla coazione a ripetere
da soccombere, per tortuosi complessi di colpa e d’inferiorità, di fronte
a una sempre più raggelante pressione entropica. Si tratta dunque di
ipotesi tentatrici? La forza di queste ipotesi consiste nella consapevolez­
za sempre più diffusa della inattualità del primato dell’uomo. Dico
consapevolezza e non coscienza, riservando a quest’ultima parola il
senso limitato di filtro adattativo per il sociale. Altra cosa è la consape­
volezza statistica, serena e spassionata, del ricercatore che voglia tra­
dursi in reporter della terra, scartando ogni idealismo di raccatto e
aprendosi senza paura alle voci della speranza.
La tentazione di fuga dell’uomo verso gli spazi extraterrestri e verso
le frontiere dell’intelligenza artificiale non è sintomo di una eccezionali­
tà dell’uomo nell’universo, ma, al contrario, può spingere almeno una
parte dell’umanità a promuovere uno stato d’allarme, e a cercare poli­
valenti soluzioni di sopravvivenza, soprattutto reintegrando la cultura
nella sua matrice biologica. E ’ tutt’altro che scontata l’identificazione di
evoluzione e progresso, con tutte le suicide conseguenze di violenza e di
sopraffazione. E neppure è scontata la continuità dello Stato, e del suo
pilastro fondamentale, cioè la forma attuale del nucleo familiare.
Vorrei fare un esempio ampiamente comprensivo. Certe ricerche che
ormai siamo abituati a chiamare sociobiologiche, meritano tutta la
nostra attenzione, quando ci riconducono ai fondamenti biologici del
sociale umano. Ma è ancora ampiamente presente nella sociobiologia
ufficiale una pericolosa insidia di riflusso idealistico, insidia che si rivela
nell’avvicinamento rozzo e improprio dei due termini, cioè sociologia e
biologia. Il primo di questi termini fatica a riconoscersi generato dal
secondo ed anzi, per ragioni spesso totalmente estranee alla ricerca, è
sempre minacciosamente pronto a divorare il secondo. La specializza­
zione tipica della cultura moderna evidentemente non ha potuto cancel­
lare il bisogno naturale di generalizzazione, ma questo processo avviene

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spesso in forme improprie o degenerative. Mi sono trovato molte volte
di fronte al fisico o al biologo che con mia grande gioia si esaltava degli
approdi della sua ricerca, ma che poi con mia grande costernazione
cominciava a filosofeggiare, in modo improprio e con ben poco rigore,
investendo a volte i frutti migliori della propria ricerca con una luce
falsante e strumentale.

VII - Diviene ormai importante mettere in primo piano il problema che


ancora presenta la più grande carica rivoluzionaria: l’educazione dei
fanciulli. I grandi mezzi di comunicazione di massa, che esasperano
sempre più il rapporto tra massa e individuo, e la capacità di ripresa
dell’economia capitalistica sono spesso i più evidenti ostacoli a quel
bisogno di aggiornamento che si rivela sempre più urgente per le
giovani generazioni. Su questo terreno si riscontrano le distorsioni più
insidiose. Voglio dire che il bisogno di aggiornamento è recepito perfet­
tamente dal potere economico, politico e religioso, che pertanto cerca
coi mezzi più subdoli di adattare le nuove frontiere della ricerca ai fini
della propria sopravvivenza. Gli esempi sono molteplici. C’è ancora
oggi chi assurdamente parla di civilizzazione delle ultime società tribali,
e per questo cerca disperatamente di rivitalizzare ancestrali teorie dei
valori, attribuendo, spesso disonestamente, a questi valori una valenza
morale. Costoro convivono con la più grande massa degli uomini che
non ha ancora acquisito un’immagine precisa della cosmogonia coper­
nicana: questo quando i terremoti della fisica subatomica e della teoria
della relatività già chiedono a gran voce una profonda modificazione di
tutto il costume umano.
Il nazismo è stato forse il più avanzato tentativo di tradurre nella
pratica una teoria elitaria dell’umanità, che risolvesse giuste esigenze
con soluzioni radicali entropiche, pregne di ideologismo. La fusione di
politica ed etica, e la loro riduzione a dogma religioso sono determinate
da pressioni economiche contingenti, e a loro volta sono foriere di
pratiche totalitarie, la cui caratteristica fondamentale è la disinforma­
zione. Questo processo si rivela al massimo nel nazismo. Esso è l’inevi­
tabile conseguenza di una concezione statica della democrazia, e la
criminale reazione a catena che si innesta sul territorio equivoco di tutte
le populistiche eguaglianze di sapore cristiano e umanistico. Il golem
dell’ideologia cerca di uscire dalla vecchia sinagoga e minaccia l’esterre­
fatto rabbino. Quello che ho detto del nazismo è ampiamente applicabi­
le anche allo stalinismo, una volta che si tengano in giusto conto le
differenze storiche di origine e di segno.

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V ili - Ho detto prima che niente è più rivoluzionario di una pedagogia
critica e indipendente. Ma non è facile a questo punto del discorso
introdurre parole dalle molte facce, come pedagogia e rivoluzione: con
queste parole faremo i conti più avanti. Qui mi sembra più importante
parlare della pedagogia come di una macchina inceppata, e di denuncia­
re le ragioni del suo blocco nella sua ancora totale dipendenza dallo
Stato. Ma anche la parola Stato ha bisogno di ulteriori visitazioni. Qui,
all’inizio, mi basta identificare lo Stato con “lo stato delle cose”.
Una considerazione mi sembra ora fondamentale. Se è vero che
molte parole hanno tanto allargato il loro cosmo interiore da rischiare di
non esprimere più nulla, è anche vero che il linguaggio e i suoi ritardi
sono un’ottima serie di istantanee dello stato delle cose, Naturalmente
nessuna istantanea è la clonazione del suo oggetto: in un certo senso è
sempre una sua particolare interpretazione. Anche il linguaggio è un
movimento continuo. Ma appunto l’esame critico e costante di questo
movimento, è uno strumento importante per decifrare il movimento
generale delle cose umane, e per interpretare un’illusione così resisten­
te come l’idea di un immutabile “stato delle cose”. Ritornerò più avanti
sulla idea dello Stato come istituzione, che alla resa dei conti può
tradursi globalmente in istituzione negata. Cercherò così di ragionare
sulle cause dei continui fallimenti di ogni istanza anarchica e liberataria,
cioè sulle molte battaglie perdute che non incidono sulle sorti finali
della guerra. Ma qui mi basta sottolineare che si può dire di tutto sullo
Stato, tranne una cosa, che veramente non gli appartiene e non gli è mai
appartenuta: cioè che lo Stato possa mai coincidere con l’emendamento
delPimmaginazione.
E così, se ridiamo alla parola rivoluzione il significato che conserva
nella fisica, e la priviamo di ogni pretesa di assurgere a giudizio etico,
diviene più facile continuare a utilizzare questa parola, in relazione alla
storia umana, nel senso di “utopia”, e di concepire l’utopia come
un’importante molla propulsiva di sopravvivenza. Se l’immaginazione
globale si mutila e si decurta in un semplice processo dell’intelletto,
allora il nome del suo sforzo è utopia. Ma se l’utopia si fa estrema rivolta
contro se stessa e le proprie impotenze, allora il suo nome è immagina­
zione globale. ì
Se è vero che lo Stato è il frutto dell’alienazione, e finisce con
l’esserne lo scudo e la corazza, quasi incarnasse il tentativo di golpe da •
lungo tempo progettato dall’organo cerebrale umano, è anche vero che
la totalità immaginativa resta l’unica molla iniziale che ci possa spingere
fuori da questa o quella alienazione, mettendo in atto l’unica possibile
emendazione dell’intelletto. Lo so: è troppo facile obiettare che, sia

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pure ben distinta dai processi intellettivi della fantasia, l’immaginazione
così intesa rischia di essere tutto, cioè niente. Tanto più se si vuole
restare fuori da ogni vitalismo e da ogni, sia pure involontaria, ricaduta
metafisica. Ci saranno molte occasioni di tornare su questo problema,
ma anche in questo caso è sufficiente, qui, non dare una teoria generale
deU’immaginazione, ma concepirla nel suo senso più riduttivo, come
ricerca continua di sopravvivenza della vita, nei suoi costanti rapporti
con la mobilità dell’ambiente.
Non credo comunque che sia pleonastico sottolineare la provvisorie­
tà di tutte le definizioni, e la loro validità come strumenti di lavoro,
soggetti a ogni verifica e a ogni ridimensionamento.

IX - Parlando prima di nazismo, si è intesa la democrazia come un


divenire che degenera bloccandosi. Tutte le istituzioni, fino a quella
suprema, hanno durate oltre le quali uccidono inevitabilmente il pro­
cesso democratico. Se si arroccano e sopravvivono, finiscono col ridurre
alla corda la stessa concezione di patto sociale. Dato che un’idea
assoluta di patto sociale non è che l’uso improprio e finalistico di
un’illusione, sembrerebbe che nella sclerotizzazione delle istituzioni si
potesse trovare un elemento positivo, se non altro come spinta crescen­
te verso la rivolta, vale a dire verso quei momenti di rottura che
diventano probabili quando la saturazione supera i livelli di guardia.
Ostacoli di varia origine si accumulano a danno del processo democrati­
co, profilando quelle restaurazioni autoritarie che prima cercano di
controllare, e poi di impedire, il progressivo decentramento del potere
politico. Se intendiamo per rivoluzione lo stesso processo democratico,
nella sua continua possibilità di riforma, ogni saturazione restauratrice
è a sua volta, a lungo andare, causa dell’agonia di questo o quello Stato.
Viene cioè rimessa crudamente in discussione la delega fatta a un ente
astratto, che per quanto composto da varie forme organizzative di
supporto, nella sua globalità aspira a essere “altro” dai suoi creatori e
dai suoi sostenitori. Quando appunto lo Stato diviene l’emblema dell’a­
lienazione, la rivolta è matura. L’immagine della rivolta come lo scatto
iniziale di un capovolgimento rivoluzionario, appartiene ai flashbacks
letterari, di cui infelicemente sono pieni i trattati di storia.

X - Sembra ormai evidente che lo Stato non emblematizza più il


rapporto tra individuo e società. A ben altre fondere possiamo oggi
tentare di condurre questo rapporto. La microbiologia degli acidi nu­
cleici ci abitua a cercare all’inizio del processo quello che siamo viziosa­
mente abituati a cercare alla fine. Possiamo tranquillamente lasciare

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alle imprecisioni di una certa macrobiologia le molte ipotesi sulla realtà,
sulla consistenza e sull’evoluzione della società umana. Ricercando le
origini e le ragioni dei macrocomportamenti nei microcomportamenti
delle formazioni biologiche iniziali, la nostra visione delle realtà sociali,
dai gradini più bassi fino alle strutture più complesse, insperatamente si
allarga, acquistando alla ricerca nuove valenze. Questo è il felice desti­
no che può aspettare chiunque, uscendo più o meno fortunosamente
dalle acque dorate ma mefitiche degli apodigmi idealistici, si ritrovi a far
coincidere dubbio e ricerca, come spesso è avvenuto agli inizi di molte
classiche scuole materialistiche. Dico agli inizi, perché l’entusiasmo di
chi spezza o perde le catene, non sempre è accompagnato da una
altrettanto forte capacità di emendare le conseguenze psichiche e
intellettuali del proprio servaggio e, come per insidiosa coazione a
ripetere, finisce per ricostruire per sé e per gli altri nuove catene, a volte
appena mimetizzate.

XI - L’istanza sociale è una delle più diffuse conseguenze evoluzionali di


quel mutuo appoggio che accompagna le prime forme di vita e che
potremmo chiamare l’altra faccia della lotta per la sopravvivenza. Non è
secondario, per me, l’uso di una definizione comportamentale propria
di Kropotkin, anche se è originale più per la formulazione unitaria, che
non per i tanti dati d’esperienza che hanno portato a essa. Del resto,
questo vale anche per altri concetti fondamentali come evoluzione e
imprinting. Voglio dire che anche la ricerca umana è un esempio di
quelle tendenze “gestaltiche” che sembrano caratterizzare la vita fin da
suoi primordi. Mi sono riferito con una certa improprietà al termine
“gestalt”, soprattutto per evidenziare in qualche modo lo sviluppo della
socialità nella scala evoluzionale fin dai suoi inizi, come simultaneo e in
apparenza contraddittorio sviluppo della complessità delle parti e della
semplicità dell’insieme. (Mi si conceda, per ora, questo capovolgimento
dell’accezione comune). Complessità e semplicità che nei loro rapporti
conflittuali generano apparenti perfezioni, cioè forze di conservazione
dello stato delle cose raggiunte.
Tornerò in seguito anche su questo Concetto di conservazione, quan­
do mi capiterà di caricarlo di pesanti colorazioni entropiche. Ma a
questo punto mi basta, o meglio, mi sembra giusto, mettere in guardia il '
lettore dall’uso spregiudicato, finalistico, o, se si vuole, improprio, che si
può fare di certe parole, (immaginazione, prima, e, qui, gestalt e
entropia), uso validificato dalla tentazione, ampiamente gratificante, di
estendere il territorio di certe accezioni, ripartendo da una rivisitazione

19
del loro nocciolo iniziale. Mio sforzo costante è quello di escludere un
tale uso improprio nella presente scrittura.

XII - Trovo ancora relativamente antropomorfica la moderna gradua­


zione dei tipi di socialità, (animali presociali, sociali, eusociali, etc.).
Mentre da una parte, per esempio, l’etologia di vari insetti, in apparenza
solitari, ci porta a scoprire molteplici legami interindividuali, dall’altra
parte le società animali in apparenza più complesse ci rinviano a una
problematica ancora più complessa, di fronte alla quale il fenomeno
sociale diventa un momento di passaggio, sia pure un lunghissimo
momento. Mi riferisco qui a tutte le più avanzate tematiche sul superor-
ganismo, secondo le quali la complessa liaison fra le cellule in un
organismo, viene ripetuta a livello diverso in nuovi tipi di legame tra gli
organismi individuali.
Queste osservazioni aprono porte impensate verso feconde conside­
razioni di diversa natura. Anzitutto ci sentiamo stimolati a studiare il
comportamento di una di queste società come il comportamento di un
unico ente con caratteristiche individuali di nuovo livello. Confrontare
un formicaio di Eciton con una pantera non è ormai più una tentazione
avventuristica. E una volta ammessa la provvisorietà di ogni soluzione
evoluzionale, anche di quelle in apparenza più stabili e più antiche,
viene spontaneo rivisitare il confronto fra le attuali società degli insetti e
la società degli umani, confronto che guadagna in ricchezza quanto più
ci si allontana da molti cedimenti antropomorfici. Chiederci se la società
umana potrebbe avviarsi verso soluzioni simili a quelle degli insetti
sociali, diviene legittimo di fronte ai fenomeni della cosiddetta psicolo­
gia della massa, o a soluzioni politiche di tipo collettivistico e di segno
opposto, come quelle fascistiche e quelle socialistiche. Ma c’è tutto un
altro filone di considerazioni che può oggi tentare un coraggioso esplo­
ratore. Come la cellula e la sua segnaletica nucleica, punto d’avvio di
tutto l’ampio mondo organico, ci appaiono speculari rispetto al rappor­
to esemplare tra l’atomo e la materia, così le costellazioni organiche,
apparentemente ordinate nelle loro nicchie ecologiche, ci richiamano
alle immagini del cielo profondo. Ma si può andare più in là. La cellula,
da cui parte il viaggio organico, è in realtà il punto d’arrivo di un
precedente viaggio estremamente complesso. Anche in questo processo
riconosciamo un’applicazione di quel processo da cui è scaturito, per
leggi ancora ignote, e che pigramente raccogliamo sotto il nome di
improbabilità, l’atomo dalle particelle subatomiche. Ma come qui il
discorso sulla genesi dell’atomo non esaurisce tutti gli aspetti della
struttura dell’universo, così la genesi della cellula non esaurisce quelle

20
caratteristiche che, pur estranee alla sua costruzione, tuttavia partecipa­
no sempre ampiamente a quel complesso fenomeno che siamo abituati
a chiamare vita.
Voglio dire che la parola vita, se intesa come accumulo e conservazio­
ne di energia, può assumere nel linguaggio un’estensione salutare,
preziosa anzitutto per ogni futura esobiologia.
Ho speranza che un lettore non prevenuto possa leggere serenamen­
te le righe precedenti senza armarsi degli impazienti occhiali di qualche
più o meno repressivo ordine archiviale. Lo spero anche perché, alla
resa dei conti, non mi dispiace definire la scienza come l’archivio degli
impulsi immaginativi, archivio nel quale la somma dei dati non deve più
giuocare in direzione di certezze assolute.

XIII - Lo stesso spirito problematico di ricerca (e non solo per analogie)


può essere applicato a una visione d’insieme della nascita e della
evoluzione della cibernetica, fino ai più lontani confini dell’mtelligenza
artificiale. E’ più facile e più gratificante pensare oggi alle tecnologie
avanzate come a un particolare tipo di evoluzione di una specie animale,
piuttosto che continuare grottescamente a considerarla espressione di
un nefasto primato dell’uomo. L’automa va oltre alla sua proposta di
prolungamento del corpo umano, per tendere, attraverso una progres­
siva saturazione, a un’autonomia e a una complessità di processi che
riproducano i processi vitali in modi meno deperibili, e di più rapida
applicazione sull’ambiente esterno e interno. Purché si accetti umil­
mente questa integrazione della tecnica umana nei processi biologici,
tante aberrazioni delle modalità di sopravvivenza della specie umana
potrebbero tradursi in misure d’emergenza, (così come la lotta per la
sopravvivenza può imporre in tempi brevi, ma guardando lontano),
oppure potrebbero cadere come rami secchi di una culturazione che
cerchi di superare se stessa. Mi piace fare un solo esempio tra tanti.
Molte delle spinte tecnologiche più avanzate sono state e sono il frutto
della guerra e dello spirito di aggressività, ma credo che oggi nessuno
può sostenere l’inevitabilità della guerra e delle sue catastrofiche ca­
tarsi.
Mi è capitato molto spesso di cercare nella fantascienza (anche nei
suoi aspetti deteriori e più ripetitivi) briciole di impulsi premonitori,
anche se si perdono troppo facilmente nelle tenebre della guerra etica,
del razzismo universale, della violenza consapevole e criminale, della
esasperazione dei conflitti tra gli individui e le specie. Ma da un certo
punto di vista, con un leggero spostamento di grado, si potrebbe
considerare fantascientifico ogni prodotto dell’arte e della letteratura.

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A tal punto che la parola stessa fantascienza, allargandosi eccessiva­
mente, perde ogni sua valenza. Torneremo su questo argomento.

XIV - Lo Stato, nella sua forma fondamentale «di alienazione, è forse


l’esempio più diretto del tentativo di somatizzare insieme lo sforzo di
una perfezione sempre più grande, e l’opposto sforzo, questa volta nella
rivolta, di sfuggire alla morsa, per correre incontro agli alieni che non
possono non esserci nei cieli. A quegli alieni che tanto spesso oggi
diventano nuova edizione di più o meno antiche mitologie, ma che
sempre vengono proiettati come metro di misura e di confronto morale,
come paradigma ideale, come nemico del bene o, al contrario, angelo di
salvezza. L’inizio del viaggio dell’uomo nel cielo profondo, anche se non
potesse andare oltre molte frontiere, è oggi l’effetto più grande dell’e­
voluzione culturale umana, effetto che non può non causare grandi
terremoti in tutte le attuali concezioni etiche. Per strade estremamente
tortuose e complesse, la cultura umana comincia a sensibilizzare l’unità,
e persino la grandezza, del proprio pianeta, e la sua collocazione
nell’universo. E’ vero, come ho detto molto prima, che molti complessi
motivi restringono a un’elite le ricerche più avanzate, creando una
sperequazione, a volte eccessiva, tra le élites e le masse. Ma questa è la
caratteristica costante dell’evoluzione biologica, nella quale le affioranti
peculiarità di modificazione (a volte all’inizio solo difetti utilizzabili), si
affermano come chances per le maggioranze del futuro, e non per
quelle del presente.
A questo punto diviene più facile e più vicina la scandalosa identifica­
zione di etica e di comportamento, come del resto è già contenuta
nell’accezione delle parole. La provvisorietà di ogni segmento del
movimento validifica il carattere strumentale delle varie etiche umane,
e nello stesso tempo ci spiega la capacità repressiva e omicida delle
etiche asservite alle istituzioni sclerotizzate.

XV - E’ molto stimolante stabilire un confronto tra le imprese umane e


la vita intesa come impresa. Quando leggo la descrizione delle imprese
economiche della società umana (nelle fasi propositive, informative,
decisionali e applicative), anche in questo processo rivedo una ripetizio­
ne fedele, a diverso livello, del conformarsi, consolidarsi, e realizzarsi
nell’ambiente, di una specie vegetale o animale. E come le modificazio­
ni ambientali (interne ed esterne) impongono a una specie di cercare la
sopravvivenza nella sua totale modificazione, che in pratica la porta a
essere una specie nuova, così un’impresa economica umana, quando
rischia di istituzionalizzarsi e di essere fagocitata dal mercato, si autoeli-

22
mina, generando nuove imprese. La parola mercato, se ridimensionata
al suo senso diretto, è appunto il posto dove la merce dell’impresa si
offre come sfruttamento, e insieme modificazione, dell’ambiente. Il
parallelo tra mercato e ambiente diviene così inevitabile. Voglio dire
che il mercato è una forma di organizzazione e strum entalizzazione
dell’ambiente umano, di cui segue le provocazioni e i cambiamenti. Ma
l’ambiente umano è parte di un ambiente estremamente più ampio, non
solo nei suoi aspetti esterni, ma anche in relazione a quello che chiamia­
mo l’ambiente interno. Qui, per l’appunto, andrà cercata l’epifania
dell’idea.
Più avanti si cercheranno i rapporti tra idea e immaginazione (tenen­
do sempre presenti gli avvertimenti già fatti sull’uso delle parole),
lasciando al cervello, nelle sue più ristrette operazioni intellettuali, l’uso
spesso miope e strumentale del concetto e delle sue applicazioni.
Ma, per concludere, provvisoriamente, su questi argomenti, ritengo
molto importante imparare a vedere nelle imprese umane un modo
specifico di accrescere e difendere la vita. E’ comunque insostenibile
vedere nella vita un’impresa dettata dai fini e dalle forme di un Grande
Programma, di una Provvidenza in qualche modo distinta dal farsi
dell’universo. L’immagine di un programma appartiene a ideologie del
passato. L’equivoco della proiezione nel futuro genera altri pericolosi
equivoci, come quelli contenuti nelle definizioni di caso e di necessità.

XVI - L’esploratore è tale se vuole e sa immergersi totalmente nel posto


che esplora, lasciando fuori dalla sua bisaccia ogni verità assoluta. Ma
non è sufficiente. Esploratore è anche colui che riesce a emergere dalla
sua ricerca per rifondare quelle generalizzazioni strumentali che gli
permetteranno le nuove immersioni. La certezza decisionale dell’im­
mersione diviene il dubbio fecondo ispirato dall’oggetto esplorato, e a
sua volta il dubbio dell’emersione diviene certezza di nuove immersioni.
Sono ben lontano dal riferirmi a qualunque concezione ciclica della
storia: mi limito ancora una volta a cercare di descrivere i processi
elementari della vita applicati alle caratteristiche della specie umana.
L’impulso di sopravvivenza, identificandosi così con la ricerca continua,
può finalmente per questa strada essere interpretato come la matrice di
quell’impulso particolare che chiamiamo volontà. La conoscenza del­
l’impulso iniziale, a cui in effetti si riduce la libertà, nel momento in cui
naturalmente si identifica con la necessità, strappa tutte queste parole
alle decrepite valenze etico-religiose, ma in sostanza rende anche pleo­
nastico il loro uso, se non in senso fantastico e letterario.
In sostanza sto parlando di storia, e della impossibilità di separare la

23
storia dell’uomo dalla storia dell’universo, e anche dell’impossibilità di
concepire la cultura come “altro” da quella natura dei cui processi è solo
un frammento.
Precorrendo quanto dirò in seguito, sto in definitiva denunciando la
cultura della guerra come una forma di inquinaménto entropico della
cultura in generale. Lo “happy day” degli storicismi idealistici e spiritua­
listici è il risultato della proiezione che l’uomo fa di se stesso in una idea
(di vario segno) della provvidenza che, in ultimà analisi si compiace di se
stessa, rivelandosi specchio fedele di un blocco del narcisismo umano.
La guerra come crociata, (anche qui di segni diversi), rientra perfetta­
mente nei piani di questa provvidenza, che in ultima analisi si identifica
con la stessa istituzione statale. Lo Stato, nel suo aspetto di scaramanzia
contro il cambiamento, (soprattutto contro il cambiamento estremo,
cioè la morte), è il perfetto incamatore di questo spirito della guerra,
perché, per sua stessa natura, non può che cercare di conservarsi e di
sopravvivere con ogni mezzo. Quando la riforma non è più sufficiente
per incanalare le forze eversive, ecco che appare l’ombra cupa del
golpe, e quando la rivolta respinge o schiaccia i fantasmi autoritari, lo
Stato rinascente fa ben presto coincidere rivoluzione e istituzione.
Sembra che alla base di ogni spirito di conservazione ci sia proprio
l’illusione che la vita ci imponga di salvare lo stato delle cose, che per
questo viene corazzato da robusti valori etici, trascurando, per ignoran­
za o disprezzo del processo storico, lo strettissimo rapporto tra conser­
vazione e caduta entropica. Sembra dunque che finora l’uomo sia
andato avanti in retromarcia, cioè avesse gli occhi sulla nuca e, andando
avanti, guardasse indietro. Sì, lo so, c’è chi ha detto che “il futuro è
presente gravido di passato”, c’è chi ci ha garantito che “i veri antichi
siamo noi”, ma in quelle frasi letterarie si dimenticava, o si ignorava,
l’attaccamento dell’uomo per il paradiso amniotico, e della specie per
l’emozione archetipa, presente e attiva in quella complessa scatola
d’acqua oceanica che è il vivente uscito dal mare.
Il difetto più vistoso, anche se non il più importante in assoluto, di
gran parte degli studi storici, è quello di pensare la storia come uno
sviluppo lineare, e in sostanza logico e conseguente, arrivando a scinde­
re cronaca e storia, e a derubricare a cronaca molti fatti storici che non
servono allo storico di parte. Sarebbe dunque meglio definire questo
storico come un interprete, che finalizza la storia all’ideologia o, quan­
tomeno, all’istituzione particolare. Se, come si dirà in seguito, la storia è
intesa come una gara di impulsi diversi per indirizzo e per meta, ci sarà
più facile abolire la distinzione tra cronaca e storia, e concepire quest’ul-
tima per quello che veramente è, cioè storia dell’universo, e del reinseri­

24
mento dell’uomo in esso, con il conseguente drastico ridimensionamen­
to dell’uomo stesso. Contro l’ideologia, ma anche contro una metodolo­
gia che tenda ad ideologizzarsi, si privilegia qui il “criterio” storico come
unico strumento che ci ricordi continuamente che la vita è vivere, amore
è amare, e viaggio è viaggiare.

XVII - Devo qui premettere qualche considerazione sul cervello. Penso


che siamo vicini a comprendere come il cervello, organo privilegiato e
gelosamente chiuso in uno scrigno d’osso, tragga dalle sue molteplici e
complesse funzioni organiche una certa continua tentazione di “golpe”.
E’ difficile, per me, vedere nel cervello il grande alleato della specie,
oppure l’interprete e la guida. Il cervello mi sembra che tenda a
spezzare la fraternità organica, creando una gerarchia funzionale, e ai
limiti cercando di sostituirsi all’organismo stesso. Se l’uomo cerca di
dominare l’ambiente, (perfino, orgogliosamente, quello extraterrestre)*
e di considerarsi sintesi suprema dell’evoluzione, modificando piano
piano l’ambiente, fino a farlo monotonomamente uguale a se stesso e ai
propri bisogni, questo lo si deve al tipo stesso di evoluzione organica
della specie umana, nella quale il cervello tende a modificare il restante
organismo fino al punto di poterne fare a meno, (per esempio nei più
razzistici esperimenti di cibernetica). Il processo è lo stesso: come il
cervello rischia di dimenticare di essere non un gruppo di cellule elitarie
e privilegiate, ma un organo con funzioni e compiti precisi, così la specie
umana in generale rischia di dimenticare, o si spaventa di scoprire, il
proprio posto nella natura e nell’universo, e di identificare se stessa col
dio dei suoi miti, che, se alPorigine era il sole che brucia la pupilla, alla
fine si riduce a quello che è, cioè l’immagine tremenda della morte. Ma
tutto questo processo non appare come un fungo improvviso. Le sue
origini e le sue premesse sono facilmente riconoscibili nella storia
dell’evoluzione biologica, soprattutto quando non si tenti più di fare
dell’evoluzione una specie di anticamera della storia dell’uomo. Il
sistema nervoso, nonostante le sue pretese, non è l’unico e il principale
sistema del corpo animale e umano. Non esistono conoscenze definitive
neppure in campo anatomico e fisiologico. Alcuni aspetti delle medici­
ne orientali, che spesso vengono abbassati in occidente a livello di mode
e di avances commerciali, ci rivelano conoscenze del corpo e della sua
estensione che sono state spesso dimenticate. Oppure sono rimaste
nelle immagini dei miti e delle favole, come Inanello di re Salomone” o
le varie teorie della metempsicosi.
Il attuale continuo parallelismo fra il microtransistor e il neurone
identifica e privilegia l’attuale operazione di potere della specie umana,

25
ma è ben lontana dall’esaurire altre alternative potenzialità della specie
umana. La sofisticata perfezione della cellula e del sistema nervoso, pari
alla sua estrema e deperibile fragilità, rischia di divenire una specializ­
zazione ipertrofica che scriva il futuro come un “dejà vu”, con le sue
vette d’altitudine e le sue inevitabili cadute finali. L’uomo come sintesi
dell’universo, “divino ex semine natus”, e il cervello come sintesi dell’e­
voluzione della specie, finiscono col rivelarsi immagini distorte e perico­
lose della nostra evoluzione. Vorrei precisare: non tutte le ipertrofie
sono inguaribili e, a certe condizioni, il cervello può non apparire più il
nostro tallone d’Achille o la nostra malattia. Ma questo discorso merita
di essere approfondito in altra sede.
La biomassa terrestre è un tutto indivisibile, di cui l’uomo è parte
integrante, ma di cui può anche essere proliferazione cancerosa. A sua
volta la biomassa terrestre fa parte di quell’organismo più'complesso,
ma sempre unitario, che è lo stesso pianeta. L’uomo che si staccasse dal
sistema terrestre e, più in là, anche dallo stesso sistema solare, lo
potrebbe fare solo a condizione di modificare le proprie caratteristiche
naturali fino ad adattarle ad altri sistemi planetari. A quel punto non si
potrebbe più parlare di uomo. Tra tutte le teorie antropologiche, la più
debole mi è sempre parsa quella che considera l’uomo parte integrante
di un “umanesimo ideale, per il quale i corpi e le specie possono
assumere caratteristiche molto diverse, (ominidi, polipi, insetti, e così
via), ma, quando assumono una capacità particolare e raggiungono una
specifica saturazione, fanno un salto di qualità ed entrano di diritto nella
famiglia “divina” dell’uomo. In queste teorie non è difficile rintracciare
l’origine dei razzismi più radicati, e riconoscere quel narcisismo genera­
lizzato che, come dicevamo prima, è frutto del particolare tipo di
evoluzione del sistema nervoso umano.

XVIII - Le considerazioni sulla dinosaurizzazione del cervello non


possono non instaurare molteplici nuove direzioni di ricerca. Anzitutto,
una relativa detronizzazione del cervello concentra la nostra attenzione
sulla singola cellula nervosa e sul prezzo che paga per conservare i suoi
privilegi. La cellula nervosa resta sempre eguale alle altre cellule del-
ì’organismo per il suo codice genetico e per le sue più o meno atrofizzate
potenzialità germinali. Il decentramento della ricerca e il suo sposta­
mento dalla macrobiologia alla microbiologia ci portano a comprendere
meglio la sostanziale unità di tutto il sistema biologico, ma anche a
cominciare a colmare l’apparente abisso che incongruamente sembra
dividere il sistema biologico dal sistema fisico generale. L’unità sostan­

26
ziale di cui parlavo è riconoscibile anche nel confronto tra il comporta­
mento delle cellule più elementari e quello dei più complessi organismi
viventi. Ma a sua volta è più facile colmare l’abisso di cui parlavo quando
riprendiamo quel parallelismo di cui ho già detto, tra mondo microbio-
logico e mondo microfisico.
Tutti i temi tradizionali della filosofia e della metafisica di colpo
possono perdere la loro funzione extrafilosofica, e riproporsi spregiudi­
catamente in sede chiaramente antimetafisica. Questa affermazione
potrebbe sembrare ovvia, se si dimenticasse o si negasse, da una parte il
massiccio rilancio degli spiritualismi più o meno creazionistici, e dall’al­
tra l’ancor più massiccia operazione di giustificazione idealistica delle
contraddizioni insite nella cultura moderna. L’ambiguità del trascen­
dentale kantiano è dura a morire quanto l’altra gratificazione dei so­
pravvissuti dualismi. Ne sia prova che non solo nei vari umanesimi
spiritualistici, ma anche in tutte le scuole neoidealistiche, persino quelle
che rinunciano allo happy day, è facile, scavando appena sotto la superfi­
cie, rimettere in luce l’idra dalle cento teste del primato dell’uomo.

XIX - Prima di concludere questo capitolo, voglio premettere qualche


considerazione sui meccanismi del comportamento umano. Come il
lettore avrà notato, parole come “mente” e “pensiero” sono state prati­
camente assenti nelle pagine precedenti, ma risulta evidente che, per lo
scrivente, mente e pensiero sono il “posto” del corpo, inteso ed esteso, se
per posto si intende un esserci non solo spaziotemporale, ma pluridi­
mensionale, nel movimento continuo dell’universo. E il pensiero uma­
no, nella sua sostanza, è la storia dei suoi successivi cosmi ideografici.
Dico ideografia come qualcosa di sostanzialmente diverso dall’ideolo­
gia, in quanto nella critica ideografica l’idea, come già si è detto e si dirà
ancora in seguito, si vanifica quando viene concettualizzata o, comun­
que,quando dimentica che può essere solo sperimentata. Mentre il
concetto è un’operazione strettamente intellettuale, (se per intelletto si
intende il comportamento del cervello), l’idea è il momento della nostra
integrazione pratica nella realtà, vale a dire lo sblocco dell’evoluzione
inceppata, sblocco che è frutto di una saturazione, e è soggetto all’inevi­
tabile deperimento. Per riferirmi alle pagine precedenti, si può dire che
l’idea è il meccanismo centrale dell’impresa, mentre il, concetto è il
mattone dell’istituzione, e ad essa sopravvive a rischio di un suo svisa­
mento.

XX - Un lettore che abbia avuto la pazienza di arrivare alla fine di


questo capitolo, potrebbe facilmente argomentare che in sostanza an­

27
che il mio resta sempre e solo un discorso sull’uomo. Non lo nego, se
questo discorso viene interpretato come messa in luce delP“attualità
dell’inattualità dell’attuale umano”. Se cioè si sanno denunciare i sinto­
mi di quello che viene chiamato il riflusso odierno. Ma se vogliamo
chiamare inverno questo riflusso, è perché presupponiamo, almeno
statisticamente, una primavera più o meno lontana. E la primavera è
anche età di virulenze e di temporali. Capovolgiamo dunque il riflusso
in un feedback promozionale. Se lo spazio dell’attuale inverno culturale
si è spesso ridotto a un nostalgico mercatino delle pulci, la retroazione di
cui parlo vuole riconquistare al mercato culturale quegli spazi che gli
sono propri, se vengono allargati fino a perdere le loro frontiere
frustranti e repressive, e a tradursi di nuovo nel respiro intero della
nostra immaginazione, che, nella sua integrità, si identifica col senti­
mento fondamentale.
Ascoltando pochi giorni fa un concerto di musica gregoriana, gli echi
di quelle note mi hanno inaspettatamente ricondotto aH’immagine della
nostra civiltà come di una civiltà necrofila e soggetta a una progressiva
perdita di calore. La paura della morte, pensavo, ci ha troppo a lungo
costretti a pensare più alla morte che alla vita, seguendo rigide norme
scaramantiche, e umiliando più del necessario la libidine immaginativa.
La monotonia, ricca fin che si vuole, del canto gregoriano, mi ha
richiamato spontaneamente l’immagine della società medievale e dei
suoi servaggi religiosi e sociali, anche se è giusto cercare in questi
servaggi i primi stimoli di cambiamento. Ma più indietro, ecco le ombre
nascoste dagli splendori della civiltà antica, nella quale le persone
schiave o prive di diritti erano più numerose delle persone più o meno
libere. E così, sull’onda delle note, sono tornato alla cultura contempo­
ranea, e per l’ennesima volta mi sono proposto di leggerla alla luce più
di quello che facciamo che di quello che confessiamo. Come è vero del
resto che molto spesso sappiamo quello che non siamo capaci di dire.

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FILTRI BIOGRAFICI

I - Il titolo generale di questi saggi preannuncia, o preconizza,


un’impresa culturale di cui vuole anticipare alcuni prolegomeni. Ma la
parola clou del titolo è acratico. Acrazia, e anticrazia come suo aspetto
operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche
parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessi­
tà di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni
strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno
spazio più comprensivo.
Di fronte all’anarchia storica, si possono fare molte considerazioni,
ma due mi sembrano le più importanti. Anzitutto la storia dei
movimenti anarchici, nelle varie epoche, è sempre stata più ricca di
promesse e di attese, che di vittorie e di conquiste. In secondo luogo, la
parola anarchia ha avuto e ha tutt’ora una sua lunga durata storica, in
quanto, in un certo senso, è la comoda ultima ratio di una diffusa
provocazione politica. Parlo ovviamente dell’anarchia come alibi di
varie ed equivoche avventure politiche di segni diversi, ma anche della
anarchia come riserva utopistica di fronte allo stop degli autoritarismi, o
alle cadute dirigistiche del socialismo. Non solo il più efferato dei
dittatori mantiene come alibi i suoi segreti sogni anarcoidi, ma anche il
più improvvisato militante politico non nasconde di sognare l’impossi­
bile, ahimè, paradiso anarchico. Perché non andare più in là? L’anar­
chia può essere il paradiso terrestre, o, semplicemente; il pressante
paradiso raggrumato nella memoria amniotica. Sembra così che il
prototipo dell’anarchico sia il feto nel ventre materno, ogni volta unico
rappresentante di tutta la specie, come in sostanza nella rigorosa
riduzione stirneriana. Il trauma della nascita è anche l’inizio sia del
viaggio anarchico che di quello autoritario, ma è nello stesso tempo
l’inizio della “facoltà di utopizzazione”. Tutto questo diviene più
evidente quando il bambino, a circa un anno d’età, abbandona il suo
linguaggio originario per cominciare a imparare il linguaggio sociale, e
perde alcune facoltà, come per esempio nuotare o rigenerare le ultime
falangi delle dita, per restringersi via via alle particolari specializzazioni
richieste dall’ambiente umano. E’ in questo primo impatto del bambi­
no, ormai umanizzato, col suo ambiente, che scattano le prime violente
repressioni, i primi improrogabili rigori del patto sociale e le prime
stimolazioni alla grande gara del protagonismo sociale. Scattano
insieme i primi prodromi dei complessi propri delle nevrosi individuali
e collettive. Questo periodo coincide anche con un più massiccio
intervento dell’ambiente, che già aveva agito con gli imprintings

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prenatali, oltre che per certe impronte depositate nel materiale
genetico.
Le difese abbastanza robuste del primo anno d’età si allentano di
fronte all’accresciuta aggressione, e la possente carica libidica del bam­
bino si misura direttamente con quegli imprintings che sono ben più
forti di quelli prenatali, e di quelli che, con ritmo minore, continueranno
tutta la vita, compreso il periodo senile. E ’ nella prima infanzia che si
preparano le scelte individuali dell’adulto, compresi gli indirizzi politici
generali, e si preannunciano i temperamenti futuri, dal protagonismo
allo spirito gregario, dalPautoritarismo al qualunquismo, dall’ideologia
alla predisposizione libertaria.

II - In questi scritti la parola anarchia è più strettamente legata alla


specifica lotta contro lo Stato e alla ricerca, più o meno traumatica, della
sua dissoluzione, mentre alla parola acrazia si riserva il ruolo più ampio
di lotta contro il potere. L’estensione di campo rischia di divenire una
generalizzazione, se in qualche modo non si definiscono i limiti della
parola “potere”. E ’ storicamente convalidato per essa il significato di
dominio di uno o più uomini su altri uomini, ma se anche in questo caso
facciamo saltare alcune barriere critiche, ci troviamo a fare sul potere lo
stesso ragionamento che abbiamo fatto sulla violenza. C’è una violenza
bene individuata dalla lotta per i diritti civili, economici e politici, ma c’è
anche una violenza che, in quanto insita in ogni movimento dell’indivi­
duo biologico, perde la sua valenza negativa. Al di là di ogni dualismo
etico, ci troviamo a decifrare i molteplici e intrecciati movimenti degli
individui e delle specie alla ricerca di una loro nicchia biologica, e le
aggressioni o gli adattamenti conseguenti a questi movimenti. Gli stessi
ragionamenti valgono per la parola “potere”. Ogni espressione di senti­
mento, ogni tentativo di persuasione più o meno occulta, sono un
esercizio di potere. Ai limiti, anche lo stesso linguaggio lo è, in quanto
mezzo di coinvolgimento o di adesione, e la stessa cosa si può dire di
ogni forma di comunicazione e di ogni forma di ricerca, da quelle legate
alle prassi quotidiane, alle più rarefatte ricerche scientifiche, che in
definitiva possiamo chiamare ricerche progressive di sopravvivenza. In
questo senso l’accezione della parola si allarga fino a scomparire. E
come nel primo caso abbiamo parlato di ricerca di una sempre minore
violenza, anche qui possiamo riferirci a una sempre maggiore perdita
delle valenze sopraffattone ed egocentristiche nell’esercizio del potere
vitale.
Senza chiudere le porte aperte al principio e alla fine di questa
indagine, ci si può quindi riferire all’acrazia come a un movimento di

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varia estensione, che comprenda quegli individui che più sono guidati
dai loro peculiari impulsi libertari e dai loro imprintigs diversificati nella
stessa direzione.
Per acrazia si intenderà dunque il modo più comprensivo possibile di
sentirsi anarchici e di camminare verso il decentramento, la desatura­
zione e la deconcentrazione.

Ili - Quel particolare fenomeno politico che oramai siamo abituati a


chiamare stalinismo, è malauguratamente servito come cavallo di batta­
glia per le destre conservatrici o eversive, ma ha turbato, turba e turberà
ancor più, nel prossimo futuro, i sogni dei movimenti socialisti e comu­
nisti mondiali.
Una delle forme mediante le quali lo stalinismo ha cercato di raffor­
zare il proprio potere, cioè in sostanza il potere piccolo-borghese di
individui e di gruppi, è stata la lotta contro l’anarchia. Nel nome dello
Stato socialista si è troppo spesso gridato allo spauracchio anarchico,
troppo spesso presentato come l’anticamera del fascismo. Ma se è vero
che certe frange anarchiche hanno rifiutato anche la lotta antifascista, in
quanto parificavano nel capitalismo le parti contendenti, è anche vero
che mai il movimento autenticamente anarchico ha tradito la propria
irreversibile istanza antifascista e antiautoritaria. Comunque non voglio
fermarmi a queste considerazioni particolari: è più urgente scavare a
fondo le ragioni storiche che hanno diviso comuniSmo e anarchia. Prima
di farlo, mi si permetta un ulteriore precisazione. Quando si parla di
autorità, avviene quello che è avvenuto prima per parole come violenza,
potere, ecc. L’autorità, in sostanza, non è che il carisma che circonda il
potere e il suo esercizio. Senza questo carisma, ben difficilmente po­
trebbero ottenere udienza collettiva ideologie, teorie, e persino offerte
gratificanti di speranze estreme, o di estremi capovolgimenti dell’uto­
pia. Non è un caso che i più forti imprintings esercitati sul cucciolo
mirino da una parte a esaltare e rafforzare il principio d’autorità, e
dall’altra a circondare questo totem di tabù in apparenza invalicabili, a
meno di non cadere nella emarginazione o nella dannazione. E non è
neppure un caso che la forza di ogni ribelle consista nella sua capacità di
contrapporre autorità ad autorità, e nella carica emotiva e carismatica di
cui sa circondare la sua battaglia.

IV - La rivolta socialista è, inizialmente, una rivolta libertaria, in quanto


il proletariato ha cominciato a imparare a ribellarsi al potere economico
prima ancora di profilare le caratteristiche del proprio futuro potere. In
questo senso il socialismo è nato per essere il vero erede della lotta della

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borghesia contro il vecchio regime, estendendo i principi di libertà,
eguaglianza, fraternità, al di là di tutte le frontiere di classe sociale. Se
vogliamo stringere la nostra indagine alla storia sociale dell’Ottocento,
non ci sarà difficile accorgerci che perfino gli abissi che sembravano
dividere un uomo come Marx da un uomo come Bakunin, sono più
caratteriali e costituzionali che teorici e dottrinali. Ma sarebbe un errore
trascurare queste caratteristiche caratteriali individuali, proprio perché
sarebbe un errore trascurare l’importanza delle personalità nella storia.
La divisione tra comuniSmo e anarchia si è approfondita in modo
singolare. Mentre da una parte l’anarchico si rifugiava sempre più nella
forza dell’utopia e nella carica emotiva del principio della rivolta, il
comunista si chiudeva sempre di più nella propria cittadella assediata,
per difendere a ogni prezzo la preziose conquiste delle proprie lotte
rivoluzionarie. Dico a ogni prezzo, perché nella interminabile età del­
l’assedio si è finito col far confluire nell’ambiguo concetto di Stato
socialista una massa imponderabile di riaffioramenti autoritari e repres­
sivi. L’anarchico finiva così col divenire non più il compagno ingenuo e
naif, ma il più o meno consapevole alleato del nemico di classe. Ecco lo
stalinismo che, sfruttando certe confuse ambiguità sopravvissute nel
leninismo, si è mosso sempre più radicalmente sul terreno della repres­
sione antilibertaria, fino a mettersi fuori dal socialismo, nel momento
stesso in cui ha cominciato a divorare i suoi figli. Il riaffiorare poi del
nazionalismo nel movimento stalinista lo ha portato molto lontano da
quelle forme di lotta per la libertà delle nazioni, che nella sua origine è
tutt’altro che inconciliabile con la lotta per la giustizia sociale.

V - Quando Marx schernisce le cadute metafisiche degli anarchici, è ben


lontano dall’intaccare in modo chiaro il loro argomento principale, cioè
l’evitabilità dell’organizzazione autoritaria. D’altra parte, quando gli
anarchici utilizzano gli stessi strumenti marxiani per combattere le
cadute autoritarie del comuniSmo, si chiudono spesso in un giuoco
sterile di tautologie.
Serenamente seduto tra Mazzini e Bakunin, Marx ritiene alla fine di
non avere più bisogno di civettare da una parte coi grandi valori, e
dall’altra con le grandi utopie. In un certo senso si trattava già allora di
una “terza via”, la ricerca della cui definizione porterà agli inevitabili
ritorni dei patriottismi ideologici. Dico ideologici, perché non possiamo
più negare certi slittamenti ideologici delle scuole marxiste, che pure
partivano da premesse del tutto opposte. Per questa strada il leninismo,
più che inventare, darà un volto preciso ai metodi dell’autocensura,
cominciando pericolosamente a staccarsi dalla metodologia distruttrice

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di ideologie. A questo punto, dietro la pressione dell’assedio, Stalin, o
almeno qualcosa di simile, poteva sembrare inevitabile. Mentre il “tutto
detto” marxista conservava in Lenin ancora ricchi e molteplici afflati
d’apertura, si traduceva in Stalin in un “tutto detto” leninista, che era
sempre meno parente sia di Lenin che di Marx. Il materialismo storico,
e sopratutto il materialismo dialettico di Marx e di Engels, (con apporto
diverso, ma altrettanto efficace), si trasformano in Lenin in una forma
efficace di pratica conquista dello Stato. Ma gli anni della rivoluzione
non hanno permesso a Lenin, prima di morire, di guardare più lontano,
oltre il guado. Ecco' dunque che, ben al di là delle sue previsioni, lo
stalinismo riduce il materialismo marxista alle formule vuote di ibridi
rituali ecclesiali, dietro i quali si nasconde il volto torbido di una più o
meno dichiarata restaurazione. Nel primo paese socialista, solo i gulag
sono stati riservati a quegli anarchici che preoccupavano anche Lenin,
ma in misura meno rigida e meno dogmatica. Esemplare è lo stesso
ritorno di Kropotkin in Russia, accolto festosamente da Lenin, ma poi
totalmente isolato e neutralizzato. E gli anarchici verranno richiamati
dai campi di lavoro per il giorno del suo funerale. Ben altra cosa è stata
la repressione che Stalin ha esercitato a danno degli anarchici. Basti
come esempio la pesante memoria di certe pagine della guerra civile
spagnola.

VI - Forse l’importanza più grande di Marx è stata l’avere capito che


una rifondazione della politica presuppone una rifondazione di tutta la
scienza dell’uomo. Ma, nonostante lo spazio dato dai vari socialismi
all’edificazione dell’uomo nuovo, in realtà tutto si è ridotto quasi
sempre a imposizioni di ibride e contraddittorie catechesi. La cosa era
inevitabile quando allo Stato, che solo in apparenza non era più il
vecchio nemico, veniva completamente delegata ogni forma di pedago­
gia. L’attivismo, ai limiti stakanovista, di una pratica militante etica­
mente doverosa, non lasciava più alcuno spazio per l’approccio ai
grandi problemi della vita e dell’uomo. L’inevitabilità della vittoria del
socialismo, e dell’avvento del comuniSmo come nuovo paradiso terre­
stre, difficilmente poteva essere giustificata al di fuori dello spirito del
comuniSmo di guerra. Il gregario militante che forgiava il suo entusia­
smo nell’attesa messianica del grande avvento, finiva perciò con
l’essere facilmente sbaragliato, come il giovane Buddha, dal primo
effettivo incontro con le capacità di ripresa del nemico, e con
l’inevitabile incontro col problema della morte. Unica àncora di
salvezza restava spesso un fideismo cieco e dogmatico. Fideismo
basato fortunatamente su alcuni fondamentali aspetti positivi del

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socialismo, ma anche, e questa volta malauguratamente, sulla fede
assoluta nella loro interpretazione fornita dai capi di turno. Abbiamo
così assistito a un complesso intreccio di contraddizioni tra socialismo e
no, che hanno cominciato a rivelarsi chiaramente e a scoppiare dopo la
morte di Stalin. Nessun paese che oggi si dichiari socialista può ormai
ritenersi vicino all’ipotizzato regno della libertà. Anche le società del
cosiddetto socialismo reale cominciano oggi a rendersi conto che il
socialismo è solo una particolare concezione dei modi di produzione,
perciò, come tutte le grandi concezioni politiche, comprende in sé
intatte, anche se spesso sepolte, avances libertarie e minacciose cadute
reazionarie, istituzionalizzanti e persino bonapartiste, fino a insidiose
convergenze coi totalitarismi autoritari di tipo fascista.
La crisi degli attuali Stati socialisti di fronte alle istanze del mercato
mondiale apre una strada piena di insidie e di trabocchetti, alcuni dei
quali possono rischiare di vanificare tutto quello che è vivo nelle attuali
correnti comuniste.
Il canto della sirena della possente ripresa capitalistica, col suo
ambiguo refrain liberaldemocratico, è una tentazione a volte troppo
grande per regimi politici in crisi. L’individualismo che offra su un
piatto d’argento le precarie abbondanze della società dei consumi, non
può non essere oltremodo pericoloso per un collettivismo che non ha
saputo gestire se stesso e le proprie istituzioni. Quelle istituzioni che nel
presente appunto tentano di conservarsi cambiando semplicemente di
segno. Gli stessi ultimi squilli di tromba nazionalistici, che possono
essere positivi per la ricomposizione dell’unità del mondo islamico, si
rivelano spesso come il tallone d’Achille dei movimenti comunisti.
L’identificazione del partito con lo Stato denuncia più un effetto che
una causa dello stalinismo, che da una parte consiste nell’abbandono
del marxismo come metodologia, e nel tentativo di un suo rilancio come
ideologia, e dall’altra si identifica con l’opera personale di Stalin, che
accompagnava a una corposa ottusità culturale e morale innegabili
capacità di tattica e di strategia. Le prospettive non andavano oltre il
diluvio della sua morte.

VII - Una delle caratteristiche degli attuali Stati del socialismo reale è
una pressoché totale caduta dell’internazionalismo socialista. Una delle
accuse più cocenti nel periodo stalinista era quella di “cosmopolitismo”,
e qui, più che in residui razzistici, si trova la causa di un diffuso
antisemitismo sovietico.
La otturazione ebraica, a cui si devono tante personalità della storia

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e della cultura, da Spinoza, a Einstein e allo stesso Marx, possiede due
caratteristiche fondamentali. Da una parte, la necessità di conservare la
propria etnia culturale in tutte le fasi della diaspora, ha conservato e
congelato un’etica sociale rigida e spesso provincialmente chiusa. Ma
d’altra parte è proprio la fuga da queste strettoie che ha portato tante
personalità a respirare a pieni polmoni l’ossigeno che involontariamen­
te offriva la diaspora, come occasione per superare tutte le barriere
della provincia mentale e assumere una forma mentis cosmopolita.
Tutto questo avviene non senza remore e nostalgie, ma finisce sempre
col rivelarsi storicamente fecondo. La forza delle minoranze è sempre la
diaspora, che però è anche l’effetto della loro persecuzione e la causa di
nuove persecuzioni.
L’antisemitismo persistente nel mondo attuale trova la sua origine
nel bisogno delle società autoritarie di tenere alta la tensione con
l’invenzione di un nemico. Quale nemico più perfetto dell’ebreo, porta­
tore di inquietanti cosmopolitismi, dietro ai quali è facile accusarli di
nascondere tortuose macchinazioni di dominazione? Se non ci fosse,
l’ebreo bisognerebbe inventarlo, e se non lo si concepisse come il
nemico, non si potrebbe invidiarlo. E’ quindi naturale che le cadute
autoritarie dello stalinismo abbiano risvegliato uno stato d’allarme di
fronte alla “minaccia giudaica”.

V ili - Non riterrei completo questo mio viaggio attraverso le crisi del
socialismo, se non mi riferissi direttamente a una particolare evoluzione
biografica.
La mia età puberale è contenuta tutta negli anni del fascismo. Già
nell’ultima infanzia avevo cominciato a balbettare di poesia, cantando
con versi ingenui quella “natura” libera dal condizionamento umano,
con cui ero entrato in contatto seguendo mio padre, medico condotto a
Fiorenzuola d’Arda, nelle sue visite in campagne ancora poco contami­
nate. La mia crisi politica è partita di lì, quando, con pensieri ancora
freschi e ingenui, mi lasciavo pervadere da un gratificante sentimento
panteista, diretto erede di un diffuso animismo della prima infanzia. La
mia definitiva rottura puberale con la chiesa cattolica, liberandomi di
molti tabù, mi ha spinto rapidamente verso l’Umanesimo e il Rinasci­
mento, verso Giordano Bruno, Leonardo e alla fine, solo un poco più
tardi, verso Spinoza. Per lui il mio è stato un innamoramento a prima
vista, ma anche l’inizio di un lungo amore che non sarebbe mai termina­
to. Era naturale che il libero pensiero, la biografia riservata e gli atti di
coraggio pubblici del filosofo di Amsterdam, consolidassero in modo
decisivo il mio ancora confuso rifiuto del regime fascista. Ma nello
stesso periodo, la definitiva rottura col cristianesimo ha di conseguenza
risvegliato in me una sana e proficua curiosità culturale per le altre
religioni, soprattutto quelle di matrice orientale, e le correnti mistiche
mussulmane. I pochi e ridotti testi induisti che allora ho potuto conosce­
re, ma, in particolare, le forti avances del buddhismo e del taoismo, e
alcuni testi dei sufi, mi hanno aiutato non solo a smantellare gli ultimi
residui di ogni dogmatismo religioso, ma in un certo senso mi hanno
anche aiutato a comprendere meglio le origini, gli sviluppi e i caratteri
storici del cristianesimo. Di lì si è sviluppato un mio costante interesse
per il fenomeno religioso, in tutte le sue accezioni, comprese le grandi
correnti politiche moderne intese come religioni. Ma più tardi i momen­
ti religiosi che mi avevano affascinato li ritrovavo nelle correnti Zen del
buddhismo e nell’ambigua, ma sublime poesia filosofica della Bhahaga-
vad Gita.
A sedici anni è cominciata la mia lunga congiura antifascista, sui
banchi di scuola, prima che scoprissi di non essere il solo nemico del
regime, e prima che entrassi in contatto col pensiero marxista. L’illumi­
nismo e la rivoluzione francese prima, e il positivismo poi, mi hanno
arricchito senza chiedermi rinunzie o adesioni. Ma il solitario ebreo
olandese mi ha aiutato a non essere captato dal kantismo prima, e dallo
hegelismo più tardi. Il mio primo incontro con Marx, quindi, è stato
dentro agli ambiti ristretti della storia della filosofia. Rispetto alla quale,
per le stesse ragioni, ero sufficientemente vaccinato nei confronti di
uomini, pur ai miei occhi affascinanti, come Kierkegaard, Nietzsche e,
più tardi, Bergson. Questi nomi non indicano preferenze personali o
gerarchie di valori, ma solo tappe importanti della mia evoluzione
culturale. Mi sembra giusto aggiungere che la “poesia” di Nietzsche mi
ha impedito di provare il minimo di simpatia per le ambigue operazioni
italo-tedesche sul pensiero nietzchiano, trionfante allora nella cultura
giovanile. L’angoscia kierkegaardiana mi ha aiutato a fare più luce sulle
elucubrazioni circa il “grottesco”, che già allora cominciava a occupar­
mi, ma nello stesso tempo mi ha insospettito per quello che potevo
temere, che potesse cioè favorire un rilancio della metafisica. Il discorso
su Bergson è più complesso, poiché, per quanto mi fosse difficile
comp'rendere la sua tortuosa conversione al cristianesimo, e mi frenasse
una certa aurea di vitalismo diffusa nell’“Evoluzione creatrice”, tuttavia
la sua originale adesione alla teoria evoluzionale mi affascinava certa­
mente a un livello superiore dei miei amori poetici per Maeterlinck, e
dei miei più tardi interessi per Theilard de Chardin.
Per rendere più chiaro questo iter culturale, devo riferirmi ad altri tre
incontri che hanno segnato la mia storia, e cioè, in ordine temporale, ma

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comunque sempre nell’ambito dei sedici anni: Darwin, Freud e, nei suoi
aspetti più elementari e generalizzati, Einstein con la sua teoria della
relatività. Mi sembra onesto accennare che, sia pure nei limiti della mia
cultura scientifica, ho sempre visto fin dai primi tempi, in Einstein, non
solo il grande esploratore della macrofisica, ma anche uno dei fondatori
moderni della microfisica. Fedele ai caratteri del “dilettante” leonarde­
sco, (colui che si diletta), pur avendo scelto in quegli anni la poesia come
“mestiere di vivere”, ritenevo mio diritto-dovere fondamentale di uo­
mo, e di futuro scrittore, mettermi nelle condizioni di poter avere
un’opinione personale su tutti i grandi problemi dell’universo e della
vita. In questo ero favorito dalla guida genericamente razionalistica di
un mio vecchio nonno, non a caso di origine ebraica, ma soprattutto
dall’incontro precocissimo con il mondo delle formiche, reso possibile
dai continui contatti diretti con la natura extraurbana.
La storia dei miei studi mirmecologici è esemplare rispetto alla storia
generale della mia culturazione. Le formiche, stupefacenti, ma relativa­
mente antropomorfizzate, della primissima infanzia, diventano poi
un’alternativa alla civiltà umana, fino a rischiare di rivestire i panni
dell’alieno. Ma sempre nella prima adolescenza, partendo da un libro di
Maeterlinck che mi aveva regalato mia madre quando avevo otto anni e
scrivevo le prime poesie, ho cominciato a scoprire i grandi mirmecologi,
che hanno avuto su di me un’influenza che travalicava il campo stretta-
mente mirmecologico. Per citare alcuni nomi, oltre a Darwin, posso
ricordare Huber, Forel, Wassman e l’italiano Emery. Per ragioni e in
direzioni molto diverse, però la mirmecologia ha avuto per me una
funzione non dissimile da quella che aveva avuto Spinoza in campo
filosofico: vale a dire, lo sviluppo peculiare di una solida mentalità
antimetafisica, e di una ostinata facoltà critica.
Comunque, la poesia come aspirazione a un mestiere di vita, comin­
ciando a uscire dalle strettoie della metrica classica, già nella pubertà si
indirizzava verso la meraviglia che la natura esercitava su di me, il
desiderio di reinserire l’uomo nella natura e il bisogno di scoprirne una
valenza di militanza civile antifascista.
La filosofia assumeva così sempre più il ruolo di appello alla “sapien­
za”, se pure allora venata di profonde influenze platoniche, che tuttavia
avvertivo sepolta un poco ovunque intorno a me, dalla saggezza popola­
re ai grandi testi sacri. Filosofia come guida e come arma critica,
dunque, ma anche come miniera letteraria di tanti meravigliosi poemi o
romanzi, come allora consideravo i grandi sistemi filosofici. Filosofia
soprattutto come strumento per impedirmi le cadute metafisiche, ma
nello stesso tempo per tenere aperte le porte verso quei grandi problemi

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che la metafisica monopolizzava. Il mistero perdeva tutte le mostruosità
dell’inconoscibile, per assumere nella ricerca la funzione di stimolatore
verso il non conosciuto.

IX - La lotta antifascista, iniziata sui banchi del liceo di Parma, assume


una dimensione più precisa all’Università di Firenze con la mia adesio­
ne, nel 1939-40, al movimento “Giustizia e Libertà”, che sarebbe poi
divenuto il partito d’azione. Nei contatti diretti con l’elitario antifasci­
smo militante, ho cominciato a scoprire due nuove realtà: la classe
operaia e i movimenti marxisti. Di colpo l’orizzonte della lotta al regime
si allargava assumendo profonde valenze di classe, mentre Marx mi
veniva incontro non più come “piccolo filosofo” della sinistra hegeliana,
perfettamente etichettato negli idealismi crociano e gentiliano, ma
come il primo grande sistematore dei movimenti comunisti. Feuerbach
da una parte e, in modo diverso, Babeuf e Buonarroti dall’altra, mi
hanno aiutato in questa scoperta, proprio perché mi hanno fatto meglio
capire gli aspetti originali del marxismo rispetto a Hegel, ma soprattutto
mi hanno permesso di guardare con più entusiasmo all’uomo politico
Marx. Forse l’unica cosa che mi ha coinvolto nella critica crociana è
stata una cauta comprensione dei motivi che avrebbero potuto portare
al superamento o persino al rifiuto di Marx. Ma qui va detta-una cosa
fondamentale. Nel primo impatto ho conosciuto ben poco delle “crona­
che” dell’età di Marx, e questo mi ha facilitato a vedere in lui, all’inizio,
esclusivamente un combattente per la libertà. I risvolti autoritari di
parte del pensiero marxista, e delle scuole che ne sono derivate, sareb­
bero stati una scoperta posteriore, perché all’inizio mi era sufficiente
considerare ogni anticomunismo e antimarxismo come armi insidiose
del nemico di classe. Comunque, quello che più mi ha affascinato
all’inizio in Marx è stato il materialismo dialettico, perché in qualche
modo sentivo ridimensionata la pretenziosità della dialettica hegeliana,
e giustamente consideravo il materialismo storico come parte del mate­
rialismo dialettico. In un modo o nell’altro, sentivo che Marx doveva a
Spinoza più di quello che ha poi riconosciuto, e che l’emendazione
intellettuale spinoziana poteva ben considerarsi la premessa della peda­
gogia marxista. Un altro aspetto, questa volta strettamente caratteriale,
avvicinava per me, allora, Marx a Spinoza: entrambi esprimevano il
proprio pensiero garantendogli da una parte un rigore teorico di altissi­
mo livello, e dall’altra cercando continuamente di collegarlo alle parole
semplici e ai dati quotidiani dell’esperienza umana. Per entrambi rite­
nevo assurda l’accusa di ipocrisia, anche se ho riconosciuto più tardi che
la “cautela” spinoziana lo ha tutelato fino alla fine della sua breve vita,

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mentre le passioni della lotta politica, il carattere accentratore e autori­
tario, ma insieme qualche residuo complesso di inferiorità rispetto alla
cultura del suo tempo non hanno lasciato indenne la personalità di
Marx.

X - Nei primi anni universitari rafforzavo sempre più la mia militanza


antifascista attraverso le prime azioni di propaganda clandestina e le
interminabili discussioni coi miei compagni d’allora, fra cui voglio
soprattutto ricordare Sebastiano Timpanaro e Renzo Gherardini. Ma
nel marzo del 1943 vengo arrestato per la prima volta dalla polizia
fascista, in vista dell’ultimo processone che il regime preparava, ma non
avrebbe potuto portare a termine, per la caduta di Mussolini il 25 luglio.
Ramat, Fumo, Castelnuovo Tedesco, La Malfa, e tutti quelli coinvolti
nel processo, uscirono di prigione fra il 25 e il 27 luglio. Io fui tra quelli,
ma il governo Badoglio lasciò delittuosamente nelle carceri molti operai
comunisti, che poi furono rastrellati ed eliminati dal fascismo rinascen­
te. Questa dolorosa constatazione non fu l’ultima ad avvicinarmi in quel
periodo al partito comunista, al quale ho aderito definitivamente quan­
do sono stato di nuovo catturato, questa volta dalle SS italiane, dopo
l’armistizio dell’8 settembre. Ma prima dell’arresto avevo già partecipa­
to alla fondazione di quel movimento giovanile clandestino da cui
nascerà in seguito il Fronte della Gioventù. Non posso non ricordare la
persona che allora avevo più vicino, cioè Gianfranco Sarfatti, e con lui,
Sandro Susini, Zemiro Melas, Enzo Latini, Renato Foggi, Mauro Fan-
techi, Vittorio Stolfi e molti altri. Sarfatti e Melas non sono sopravvissuti
alla guerra.
Non era stata tanto la ingenerosa critica crociana all’uso parallelo e
improprio delle parole giustizia e libertà, (termini che si presuppongo­
no a vicenda), la causa della mia uscita dal partito d’azione, per il quale
ho sempre conservato un ricordo pieno di rispetto e di gratitudine, ma è
stato il bisogno di affiancarmi in modo diretto a chi portava sulle spalle il
più grande peso della lotta antifascista, cioè la classe operaia.
I giorni passati negli antri della “Villa Trieste” fascista, tra vergogno­
se torture, e le tremende pagine di crudeltà e di persecuzione vissute nei
mesi di prigione, (si vedano per esempio le condanne a morte dei
renitenti alla leva e le deportazioni degli ebrei), mi sono diventati più
lievi da sopportare quando sono riuscito a guardarmi intorno, e a
specchiarmi nella sofferenza degli altri. Uscito di prigione con un falso
ordine di scarcerazione, ho cominciato la preparazione dell’insurrezio­
ne fiorentina, a cui ho partecipato come commissario politico del
Fronte della Gioventù. Ho ritrovato così gli antichi compagni di lotta, a

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cui si erano aggiunti Mario Spinella, Raffaelino De Grada e Paolo
Galizia, caduto poi nel primo giorno dell’insurrezione.
Nelle giornate della lotta per la liberazione di Firenze, ho scoperto la
forza e il fascino del comuniSmo di guerra. Non avevo tempo, in quei
giorni, di comprendere le sfasature e i rischi contenuti nella concezione
di un partito come quello comunista di allora. La mia preparazione
culturale mi aveva già da molto tempo schierato con Trotzkij contro
Stalin, ma ora vedevo per la prima volta Stalin come un simbolo di
unificazione e di lotta. Credo che questa esperienza non sia affatto
singolare, ma comunque un sempre più diretto contatto con le pratiche
dello stalinismo mi ha ben presto fatto capire quanto i movimenti
comunisti si erano allontanati da quello spirito libertario che era stato la
bandiera della mia adolescenza fino alla lotta partigiana. Nonostante
questo, un profondo e benefico spirito di solidarietà mi ha legato
all’attività politica fino al 1947, quando il bisogno di tornare alle scelte
letterarie e artistiche, ma soprattutto l’incapacità di accettare la teoria e
la pratica del centralismo democratico, mi hanno spinto, a iniziare un
lungo periodo di recupero e di ripensamento, promuovendo, nel Tor­
rione Farnese di Castell’Arquato, uno studio di ceramica d’arte. I sei
anni del Torrione, e gli anni successivi fino a circa il 1960, mi sono stati
preziosi per l’inizio delle prime esperienze teatrali e, soprattutto cine­
matografiche, per l’incremento dello studio delle formiche, (di cui feci
persino una mostra pubblica), e soprattutto per la stesura definitiva dei
quattro volumi de “Il Circo”. Ma lo sviluppo degli avvenimenti politici
dopo la morte di Stalin, mi ha portato a rinverdire la speranza di un
recupero libertario del partito comunista, senza rendermi conto che
tutto l’insieme del partito non era in condizioni di compiere rapidi
movimenti. Nel 1956, indipendentemente dai fatti d’Ungheria, sono
così uscito dal partito, senza fanfare e senza esibizioni, continuando a
considerarmi qualcosa di mezzo tra un compagno di strada e un cane
sciolto, e respingendo ogni invito socialriformista. Fu quello il periodo
in cui più intensamente mi accinsi a ripensare il viaggio anarchico, e fu
anche il periodo in cui non riuscii a riconoscermi in nessun frammento o
residuo dell’anarchia storica. Le operazioni di “Virulentia” e “BaUm”,
che si svilupparono a Roma dal 1964 in poi, sia sul piano teatrale che
della ricerca cinematografica, rispecchiavano il travaglio della mia ricer­
ca, indipendentemente dalle tendenze e dalle aggregazioni sociali e
politiche proprie degli anni 68-78. Ma proprio in quegli anni l’assurdo
processo penale che mi piombò sulle spalle interruppe per lungo tempo
la mia attività artistica, tranne che per i frammenti poetici. In un
prossimo capitolo parlerò di questo doloroso episodio: qui mi basta

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ricordare che a esso e alla mia irriducibile protesta interiore si deve quel
profondo isolamento che avevo liberamente scelto e che, comunque, è
diventato alla fine un’arma a doppio taglio. Infatti, dal ’70 fino a circa il
’78, tolte le parentesi della rappresentazione de “L’altra ferita”, dei
laboratori teatrali di “Virulentia” e di “Anticrate”, delle conseguenti
sceneggiature cinematografiche, e di alcune mostre di collages e alcuni
frammenti poetici pubblicati su qualche periodico, ho vissuto in relativa
solitudine momenti di disperante ostinazione e scoppi esaltanti di
speranza. Testi teatrali come “L’impresa” e “La macchina del Bakunin”
sono sfociati naturalmente in un’operazione più complessa, che ho
voluto chiamare “Le ballate dell’Anticrate”. Nel 1978 ho potuto iniziare
una libera collaborazione con la Rai, che mi ha portato alla realizzazio­
ne di sceneggiati radiofonici, e ho rappresentato a Cagliari “Il Mercati­
no”. Ma ormai il tempo era maturo per trarre le conclusioni di un
travaglio di ripensamento. Sono nati, così, i dieci capitoli di questo libro.
Il suo titolo sintetizzava il suo programma. Anche da esso sarà facile
per il lettore capire l’importanza, non solo didascalica, delle note
biografiche di questo paragrafo.

XI - Il presente libro è nato soprattutto da un bisogno di privilegiare,


nelle mie formulazioni, la prospettiva al di sopra di ogni tattica e di ogni
strategia, e il criterio sopra ogni metodologia. Il decentramento, inteso
come processo continuo e irreversibile, era un’istanza da estendere a
tutti i rami della mia indagine. Decentramento quindi come criterio
interiore di verifica e di costruzione, ma anche come progressiva via
d’uscita da ogni recupero idealistico. Vale la pena che insista un mo­
mento su questo aspetto.
Ho sempre pensato che, se il ruolo deU’intellettuale è quello di essere
avanguardia dei movimenti culturali, allora è molto difficile definire
intellettuali la grande massa di coloro che nel periodo fascista e in
quello postfascista hanno svolto attività letterarie, artistiche e di pensie­
ro. A parte i numerosi casi di mosche cocchiere e quelli meno sintomati­
ci di chi si muoveva ai limiti della sottocultura, troppo spesso ho
individuato, e non solo nelPintellettuale medio, una funzione di fanali­
no di coda e, in sostanza, di cassa di risonanza del potere di turno.
L’intellettuale che trascorre dall’arte pura al più coinvolgente engage­
ment, oppure che si avvicina o si allontana dai movimenti comunisti
secondo il barometro di una loro forza e di una loro utilità, oppure
ancora che, per non fare un salto troppo alto a destra, vagheggia
onnicomprensivi recuperi socialdemocratici, oppure che sostituisce al
duce Stalin, e a Stalin i padrini di ambigue riscosse liberaldemocratiche,

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sicuramente questo intellettuale ha rivelato a volte astuzie ed elasticità
superiori a chi è rimasto impaniato nelle omertà gruppuscolari, o di chi
è scivolato imprudentemente nelle eversioni brigatistiche di segno
opposto, e per equivoco morale e per esasperata coerenza è caduto in
una politica del “tanto peggio”, cioè in una apparentemente inevitabile
alleanza con gli ambienti criminali, con le varie mafie, e persino con i
servizi segreti, e quelle frange eversive che si nascondono in seno alle
istituzioni stesse dello Stato.
Ma torniamo al presunto intellettuale di cui parlavamo prima. Nel
periodo di disfacimento del regime fascista, gli intellettuali che, come
topi di chiavica sentivano ravvicinarsi del diluvio e cercavano sblocchi a
sinistra, hanno cominciato ad amoreggiare con Marx e col marxismo,
cercando non tanto di comprenderne il senso rigoroso, quanto di
utilizzarli ai fini di una più o meno affrettata ricerca di nuove verginità.
Bisognava fare presto a essere pronti alle istanze del nuovo potere, ma
non per questo bisognava fare salti troppo sfacciati. Ecco dunque tutto
un laboratorio di operazioni di recupero del marxismo alle istanze
idealistiche o, più ambiguamente ancora, alle correnti esistenzialistiche
e fenomenologiche.
Tutto questo non mi appariva nuovo: ero abituato, per esempio, ai
più assurdi recuperi e ai più vistosi tradimenti del pensiero spinoziano.
D ’altra parte pensavo serenamente che operazioni intellettuali del
genere non sempre erano consapevoli, e non sempre erano in malafede.
I giri di valzer dei menestrelli di corte tuttavia portavano facilmente a
capovolgere i ruòli tra giudice e giudicato, tra repressore e liberatore,
tra conservatore e innovatore. Solo nella solitudine, pensavo in quegli
anni, potevo cercare di riconoscermi in quei pochi liberi battitori del
pensiero, in quei tormentati trovatori della cultura, che, per condizioni
oggettive o per libera scelta, non partecipavano alla preparazione del
nuovo festino dei chierici. Lo so: il pericolo era cadere nell’equivoco di
autoeleggersi preveggenti, censori e costruttori di un’etica nuova. Ma il
giuoco valeva la candela, se il prezzo era quello di far coincidere la
propria gelosa coerenza morale con la propria incondizionata adesione
alle frontiere più rarefatte e più avanzate della ricerca culturale.
L’unico metro di misura restava dunque la capacità di salvare nel
proprio intimo il piacere che viene dal libero esercizio dell’arte, della
critica e della ricerca, e la speranza di ritrovare così il vero engagement
dell’intellettuale, che è nella sua sostanza solo un impegno con la vita,
col suo rafforzamento e con la sua sopravvivenza. Al cinismo dell’intel­
lettuale dei piccoli e grandi palazzi, era entusiasmante cercare di rispon­
dere con operazioni spregiudicate e “prive di valore”, cioè irriducibili

42
alle leggi delle morali istituzionalizzatoli.
Rimpiango solo di non avere allora cercato con più pazienza spazi di
attività e tribune su misura, e di avere sempre risposto con troppi
frettolosi dinieghi agli allettamenti dei mass media, o agli attacchi
violenti di una certa cultura ufficiale, pronta a denigrare chi non si
adegua, o a soffocarlo nell’indifferenza e nel silenzio. Non mi accorgevo
insomma che il mio rifiuto al dialogo diretto non sempre otteneva lo
scopo voluto, salire cioè a un’altitudine diversa: all’assente è più facile
dare torto, almeno nei tempi brevi. Guardare lontano è una presbitia
positiva sè non si accompagna a una certa miopia per il presente. Non
esito a fare questa autocritica, anche se circostanziata a fenomeni
limitati, autocritica che pertanto si sposa felicemente all’orgoglio legitti­
mo per la coerenza morale che mi sono sempre riconosciuto.

43
l
INATTUALITÀ’ DELLA PSICHE

I - In queste pagine un discorso sulla violenza privilegia uno dei suoi


aspetti: la violenza della ragione. Va detto subito che difficilmente la
parola ragione trova cittadinanza in questi scritti, se non come definizio­
ne arbitraria del primato dell’uomo, condividendo un destino affine con
una sorella ancora più ambigua, cioè l’autocoscienza. Ma se la ragione
viene intesa nell’accezione d’uso comune, evidentemente il suo caratte­
re di illusione è tale per cui acquista un senso dire che ogni atto della
ragione è un atto di violenza. Per quanto riguarda l’autocoscienza, che si
basa a sua volta sull’accezione arbitrariamente estesa del concetto di
coscienza, inteso tout court non come un filtro di comportamento
sociale, ma come adesione inevitabile ai principi di una morale eterna,
la sua eliminazione non comporterebbe alcun danno reale. Lo studio
della vita e dell’universo ha tutto da guadagnare a espellere molte
parole di una terminologia ancora carica di macrospiritualismi e di
microidealismi o, comunque, più che a esibirsi nell’invenzione di nuove
parole, a sforzarsi di estendere oltre l’uomo giudizi e conclusioni spesso
solo a lui riservati. Aveva ragione il biologo che sosteneva che basta
concedere all’animale un po’ di raziocinio (raziocinio, cioè parola mo­
desta e limitata), per rendere chiari alcuni dati altrimenti inspiegabili.
Ma lo stesso ragionamento vale per molti altri aspetti e dati della
ricerca.
Spostare anche di un minimo grado il punto d’osservazione, spesso
modifica le conclusioni e le strade per raggiungerle, a tal punto da
modificare la stessa immagine dell’universo. “Riflessione”, “mente”,
“intelletto” sono altri punti deboli dello schieramento difensivo della
vecchia rocca nella quale da troppo tempo è chiuso il pensiero umano.
Per rigore consequenziale, mi limito ad attribuire, qui, alla parola
pensiero l’accezione di comportamento globale, senza per questo sen­
tirmi di appartenere a una scuola particolare. Ma la più ambigua, e forse
la più fragile, di queste parole è “psiche”, anche quando venisse malau­
guratamente caricata di antiche accezioni, come animo, anima, spirito,
soffio, ecc.

II - Ho detto prima che ogni atto della ragione è un atto di violenza:


infatti presuppone una scissione assurda e, appunto, violenta, tra l’uo­
mo e la sua mente. Se è vero che la mente è il “posto” del corpo, cioè
l’insieme del corpo stesso col luogo-tempo del suo movimento continuo,
(cioè in sostanza una concezione pluridimensionale del corpo), ogni
alienata illusione di un blocco di questo movimento non può non

45
generare mostri. Non è quindi il sonno della ragione che suscita mostri,
ma è la ragione stessa che, in certo qual modo, potrebbe essere definita
il sonno dell’uomo.
I sogni che popolano questo sonno, e che nella memoria diventano la
miniera inesauribile delle larve della fantasia, intesa come giuoco pura­
mente cerebrale, si offrono alPindagine del pensiero umano che, nel suo
momento unitario, non esitiamo a chiamare “immaginazione”. Scanda­
lo della ragione è dunque l’immaginazione che la precede, la sostiene e
le sopravvive. In questo senso, pensiero e immaginazione coincidono.
Solo lo sforzo globale e unitario dell’immaginazione, vale a dire della
comprensiva consapevolezza del corpo in movimento, riesce a non
confondersi coi piani onirici di cui si serve, o su cui sta indagando,
trabocca oltre l’archetipo, cioè l’imago collettiva, e tiene a freno e
cavalca i sintomi e le remore della nevrosi collettiva, (la cui forma più
completa è la religione collettiva), partendo dall’individuazione e dalla
rimessa in moto, al di là del suo congelamento in religione individuale,
della nevrosi individuale, volta per volta effetto e causa di quella collet­
tiva.
Come sempre in queste pagine, il primo uso di certe parole presuppo­
ne una precisazione. Se per nevrosi intendiamo semplicemente il blocco
del comportamento, blocco che può diventare una specie di “permafro­
st”, comunemente definito psicosi, ancora limitatamente reversibile
fino alla totale amenza o alla distruzione suicida, più facile invece è
accettare e utilizzare una normale accezione della parola consapevolez­
za. Altro discorso merita la parola “imago”. Se in queste pagine si tende
ad attribuire alPimmaginazione il senso di gesto totale del vivente nella
globalità dei suoi meccanismi organici, cerebrali, mnemonici e analogici
(intendendo qui per analogia la riflessione sui frutti dei confronti mne­
monici), l’imago di cui si parla assume la validità di uno strumento di
lavoro che sostituisce ampiamente l’eccessiva estensione del concetto,
ristretto qui a semplice strumento intellettuale. L’imago diviene quindi,
come si cercherà di dire più avanti, la forma sensibile del meccanismo
ideativo proprio dell’immaginazione. Si potrebbe quindi definirla l’a­
spetto comunicativo di quel momento del meccanismo immaginativo
che nel suo aspetto interiore possiamo chiamare idea. A patto che per
aspetto interiore non si intenda un luogo geografico, ma il processo
iniziale dell’immaginazione, che parte dalla sua facoltà speculare rispet­
to alla realtà esterna.

Ili - Ho usato prima la parola archetipo. Ritengo ancora valida la


definizione junghiana di archetipo come imago collettiva, premesse

46
ovviamente le precisazioni sul concetto di imago, ma a condizione che ci
sentiamo vaccinati contro ogni tentazione di concepire una geografia
della psiche: concezione ancora più ambigua che non quella di geografia
della mente. Voglio dire che l’archetipo si rivela nei processi comporta­
mentali solo in quanto l’imago collettiva marchia la nostra stessa realtà
corporale e i suoi bagagli genetici, e poi si accresce attraverso gli
imprintings del periodo fetale e dei primi anni di vita. E ’ facile rendersi
conto di questo, se mettiamo criticamente a nudo l’alienazione prodotta
dalla riflessione, quando è prigioniera della coscienza, cioè del momen­
to economicamente selettivo e limitante.
L’archetipo diviene così un riferimento per il terminal d’inizio del
comportamento: ma simile partenza non può che portare a terminals
finali di violenza, quando non si metta in atto un processo di supera­
mento dell’archetipo stesso.
Quando si parla di processo e di meccanismo, si parla dunque non
solo di movimento nello spazio e nel tempo, ma soprattutto di azione in
una realtà polidimensionale. Il processo psichico è parte integrante di
quello fisico. Il merito più grande della psicoanalisi, almeno nelle sue
fondamentali spinte d’inizio, e nell’apporto di fondazione delle primis­
sime opere di Freud, è consistito nella affermazione della fisicità della
psiche. Certamente la psicoanalisi si è troppo spesso allontanata da
questo suo promettente inizio, soprattutto quando ha cominciato a
pretendere di non essere più solo un metodo di diagnostica e di terapia,
ma una globale scienza dell’uomo. In numerosi casi, trascurando, o
persino negando, gli apporti della psicologia sperimentale e della neu­
robiologia. Quando per esempio Jung chiede l’aiuto di un certo pensie­
ro orientale, lo fa non tanto per ritornare alle origini della psicoanalisi e
del pensiero umano in generale, quanto per reintrodurre più o meno
apertamente nella psicoanalisi il virus infettivo della metafisica. Questo
non gli ha impedito di raggiungere mete importanti nella sua ricerca,
come per esempio nel caso dell’archetipo, mete che diventano impor­
tanti a condizione che si superi l’ambivalenza sempre insita nelle defini­
zioni junghiane. Anche la psicoanalisi dunque, prima ancora di trasfor­
marsi in un possente ed equivoco strumento al servizio del potere, (e
come tale positivo solo in certi casi peculiari), ha cominciato col sostitui­
re al tutto la parte, a tal punto che spesso ognuna delle sue singole
pagine è incapace di contenere tutta l’immagine del viaggio globale.
Se in certi casi può essere utile leggere un libro ad apertura di pagina,
la generalizzazione di questo metodo di lettura comporta spesso una
distorsione del libro stesso. Così è per il libro della vita, quando insistia­
mo a dividerlo in compartimenti stagni, e a non leggerlo nella sua

47
globalità. Il movimento esiste in quanto un oggetto si muove, cioè
mantiene integra la sua appartenenza alla realtà che lo circonda.
La scienza dell’uomo si fa quindi scienza del corpo, a patto che non si
equivochi sulle ampiezze, i limiti e le durate della parola corpo. Se la
psiche è dunque qui intesa come il movimento del corpo vivente, che si
rapporta alla realtà esterna e interna, la parola mente individua solo un
momento limitato di questo processo, ed è perciò indispensabile ridur­
ne massicciamente l’uso comune. Per quanto riguarda invece la parola
psiche, il discorso è diverso. La sua accezione si è comodamente allarga­
ta, tanto che sembra giusto cominciare a puntualizzare fino a che punto
le pareti della sua casa si sono sfasciate o sono sfumate in nebbia sottile.

IV - La psichiatria, per quanto conserva di autonomo rispetto alla


psicoanalisi da una parte e alla neurobiologia dall’altra, si riduce a un
mero esercizio del potere. Direi di più, ogni uomo di potere è uno
psichiatra, proprio perché ogni schematizzazione delle patologie della
psiche si regge su una concezione precostruita della psiche stessa, vale a
dire su un suo blocco. In questo senso ogni proiezione della psiche
diviene una malattia, a tutto danno di una ricerca serena e positiva sulle
turbe del comportamento. Il limite dell’antipsichiatria è proprio quello
di mettersi al terminal opposto, conservando però intatta un’artificiale e
precostruita unità del processo psichico, imbrigliando cioè, presto o
tardi, la crescita del decentramento. Ma la patologia del comportamen­
to individuale è solo un aspetto della patologia del comportamento
collettivo. Diciamolo in una forma che può sembrare paradossale: il
Leviatano partorisce solo dei pazzi. Mi sembra pleonastico sottolineare
che il concetto di pazzia, quando non è frutto di teorie etiche standardiz­
zate nel comportamento, si riferisce alla presenza di malattie organiche
e, in special modo del sistema nervoso, di fronte alle quali è giusto
espellere ogni pericoloso giudizio etico. L’abolizione dei manicomi, e il
reinserimento dei ricoverati nella società, sono fuori discussione, così
come la necessità di medicare le ferite inferte dal potere. Invece, non è
ovvio puntualizzare i sensi e le premesse del reinserimento. Farlo
significa tout court aprire senza esitazione il discorso non tanto e non
solo sullo Stato come estrema istituzione, ma anche su tutte le altre
“istituzioni negative” e, ancora più in là, sulla intera istanza sociale.
Tutto quello che riguarda la cosiddetta vita psichica è relativo. Relativo
all’evoluzione della specie, e relativo all’evoluzione delle forme dei
mezzi di comunicazione della specie stessa. Se paragoniamo la cosiddet­
ta psiche a un’impresa, come ogni impresa muore d’istituzione, oppure
vive della propria morte. Come ogni impresa, parte dalPinformazione,

48
cioè dall’acquisizione di conoscenza sotto la spinta erotica, promuove
un’inchiesta nel più grande mercato, e cammina sui binari della decisio-
nalità nel perseguire l’oggetto erotico. Oggetto che non può non venire
modificato nel processo conoscitivo in tutti i sensi possibili, compreso
quello frequente della alienazione dello scopo dell’impresa. Ma non si
può nascondere che qualunque descrizione di questo processo è un’ap­
prossimazione, e rischia di arenarsi nel mito, proprio perché si traduce,
per necessità, in linguaggio che, di per se stesso è mitogeno. Voglio dire
che lo strumento insostituibile della parola, con la sua carica nera, grigia
e bianca, deve essere visto come l’ambigua istantanea delle tappe
ambigue della nostra evoluzione biologica.
Un’àncora di salvezza ci viene offerta quando si sente la necessità, di
programmare una revisione totale deH’ordinamento delle scienze uma­
ne. Non nel senso di una apodittica unificazione, ma in quello della
identificazione del concetto di unificazione con quello di sintesi sempre
provvisoria dei dati della ricerca. Le avances reichiane, al di là delle
ipotesi orgoniche, hanno tuttavia avuto il merito di ricondurci a un
significato squisitamente fisico della vita. Ogni formula unificatrice è
uno strumento mobile e provvisorio di lavoro, anche e soprattutto nel
campo della fisica teorica, dal quale è facile evadere per finire nei
territori della filosofia, dove ogni ipotesi cosmogonica provvisoria ri­
schia di farsi definitiva. Analisi, sintesi e ipotesi naturalmente valgono
qui come strumenti di laboratorio, che non necessariamente si riducono
al metodo dialettico.

V - Non sono stati facili i rapporti fra marxismo e psicoanalisi, proprio


perché presupponevano uno sforzo di superamento dei reciproci apo-
digmi dogmatici. Si sospettava da entrambe le parti che questi rapporti
sarebbero inevitabilmente sfociati nella dinamica di un pensiero liberta­
rio. Mi spiego. L’applicazione delle scienze fisiche dell’universo alle
cosiddette scienze umanistiche, non potrebbe non portare profondi e
auspicabili travolgimenti. Il più profondo di essi sarebbe appunto quello
della messa in crisi di ogni concezione assoluta della realtà, di ogni
esibizione missionaria di verità definitive, vale a dire di quelle vie che
portano alla caduta di ogni impresa nella entropia dell’istituzione.
Ritengo comunque che, dato che chiese marxiste e psicoanalitiche
non hanno mai potuto realmente ignorarsi a vicenda, sia più facile e più
onesto, oggi, parlare della fondazione, sia pure provvisoria di una nuova
pedagogia, libera di fronte a ogni influenza e a ogni reazione, e collocata
al di là delle frontiere di tutte le chiese, cioè irreversibilmente antidog­
matica e promotrice di dubbio. Certezza e pedagogia si elidono a

49
•vicenda, quando almeno si parli di una pedagogia che non sia strumen­
talizzabile al potere politico, sociale e religioso, ma che, nel suo fonda­
mento, sia prima di tutto “autopedagogia”.

VI - La psicoanalisi ci ha abituati a viaggiare nel continente onirico,


anche se troppo spesso ha sbagliato in una eccessiva generalizzazione
dei simboli onirici, soprattutto quelli di persone ritenute turbate. Ma il
concetto di turbamento si può tanto allargare da identificarsi con quello
di psiche. Si tratta quindi non di costruire statistiche povere su casistiche
raccolte in luoghi e tempi dai costumi peculiari, ma al contrario di
lasciare continuamente aperta la raccolta statistica dei dati comporta­
mentali. In questo senso, al di fuori delle lesioni organiche terminali,
niente è irreversibile nel comportamento. La pazzia non è, ma diviene, è
cioè un concetto dinamico come quello di malattia, già ampiamente
relativizzato nelle antiche medicine orientali. Diviene così fragile la
distinzione fra devianza e perversione, e inattuale il problema della
devianza, se astratto da quello di crisi permanente della civiltà, ma, ai
limiti, cade anche la distinzione classica fra nevrosi e psicosi: la seconda
diviene un eccesso di accumulo quantitativo della prima.
Se continuiamo l’efficace confronto tra vita e impresa, possiamo
parlare di nevrosi, collettiva e individuale, come blocco del processo
imprenditoriale, che, se si aggrava fino alla paralisi, si identifica con
l’istituzione stessa. Per questo ho detto prima che il Leviatano crea solo
dei pazzi: l’istituzione è nevrosi eccessivamente congelata, tanto da
poter risolversi in necrosi.
Assume quindi importanza fondamentale mettere sotto la lente del
microscopio i meccanismi per i quali un’impresa comincia a non essere
più capace di porre in discussione se stessa. Alla fine scopriremo che il
problema è lo stesso della sopravvivenza delle strutture sociali, la prima
delle quali è lo Stato. Tutte le strade portano a Roma. Una Roma della
ricerca liberata e decondizionata, dove la sopravvivenza della vita non si
confonda più con teorie del “work in progress” o “world in progress”. O
se si vuole, del “happy day”.
Potremmo dire tutto questo in un altro modo. Ogni discussione sulla
libertà ci rende meno liberi. Ogni discussione sui fini della vita, indeboli­
sce la battaglia per la sopravvivenza. L’apparente ovvietà di queste
affermazioni non è banale. Se è vero che la soluzione di un problema è
l’analisi della sua formulazione, è anche vero che il concetto di libera
scelta contiene in se stesso la sua negazione. Per questo ho parlato
precedentemente di impulso erotico fondamentale, senza ricorrere a un

50
misteriosofico “élan vital”, o a una concezione messianica e carismatica
dell’intuizione.

VII - Noi dobbiamo essere grati alla psicoanalisi del fatto che, sia pure
contro le sue intenzioni, ha portato un colpo decisivo allo sfasciamento
del castello della psiche. E ’vero che, quando se ne accorge, tenta in ogni
modo di rafforzare l’edificio pericolante, ma non è facile fermare le
reazioni a catena. Freud è riuscito in gran parte a non essere un
conservatore, nonostante la sua estrazione sociale, ma nell’evoluzione
della sua ricerca si può riconoscere un senso di allarme per conseguenze
non sempre controllabili di questa ricerca. Non è un caso che in campo
psicoanalitico la restaurazione abbia portato e porti spesso effetti cata­
strofici. Si potrebbe dire che, come il marxismo nasce e muore con
Marx, che per primo “non era marxista”, così la psicoanalisi in un certo
senso nasce e muore con Freud. Questo non significa che si debba
buttare alle ortiche l’eredità di una storia pluridecennale, ma spesso
questa storia è collocabile al di fuori dei territori dei suoi iniziatori.
Non a caso si è parlato qui insieme di Marx e di Freud, perché tra
l’altro nessuno dei due ha avuto il tempo di tirare le conclusioni più
estreme delle proprie teorie. Il destino di chi mette in moto la ruota è
spesso quello di vederla ricadere nelle mani corruttrici e usurpatrici del
potere, sempre pronto ad ogni spregiudicata azione di recupero. Per
limitarci alla psicoanalisi, il più doveroso omaggio a Freud consiste per
me nel negare fino alle estreme conseguenze l’attualità della psiche.
Lo sfasciamento non presuppone in alcun modo una rifondazione.
Dopo aver gridato: “il re è morto”, non è automatico gridare: “viva il
re”.
Non mi sono mai commosso di fronte a certe retoriche “speculari”
neofreudiane. Ci può essere un’azione involontariamente reazionaria,
che tuttavia non può fermare la reazione a catena. E’ dunque inevitabile
coinvolgere in essa lo stesso linguaggio psicoanalitico, e tutto il linguag­
gio scientifico, e mettere salutarmente in crisi il nostro rapporto col
linguaggio in generale. A cominciare dal concetto di subconscio.
Lo sviluppo moderno dello studio del sistema nervoso e della sua
caratteristica di vero laboratorio chimico, l’ulteriore approfondimento
della teoria dell’evoluzione e dello stretto rapporto tra ontogenesi e
filogenesi, la microbiologia, con la sua esplorazione del nastro nucleico
e del materiale genetico e i loro collegamenti col mondo inorganico:
tutto questo non vanifica le prime conquiste della psicoanalisi, ma
certamente impone un loro diverso ordinamento.
Abbiamo precedentemente accettato con riserva la definizione jun-

51
f;

ghiana di archetipo come imago collettiva, possiamo ora cominciare a


sciogliere la riserva cercando l’origine dei fenomeni collettivi nella
storia preumana. E ancora: l’innegabile importanza dei complessi in­
fantili va ridimensionata a una maggiore conoscenza di quelle pressioni
archetipe che ci vengono rivelate non solo dalla paleoantropologia, ma
anche da un’informazione sempre più avanzata, e ancora incompleta,
del nostro stesso corpo fisico. Ma soprattutto oggi la psicologia non può
più ignorare la necessità di fondare una vera “micropsicologia”, basata
sulla complessa intersecazione del comportamento psichico delle singo­
le cellule su quelle dell’organismo generale. Questo non solo nelle
ricerche mediche, per esempio sul cancro, o nello studio dei rapporti tra
l’organismo e il mondo microbico e virale, ma anche per quanto riguar­
da una rivisitazione delle turbe psichiche. In primo luogo, lo stupefacen­
te viaggio dell’acido nucleico, (che in un certo senso è il vero terrestre),
fino alla formazione degli organismi più complessi, non può non
portarci a rivedere la stesura tradizionale della storia della vita. In
conclusione, il positivo decentramento proprio della ricerca più mo­
derna rende sempre più improbabile conservare intatta l’accezione
tradizionale di conscio, preconscio e subconscio, mettendo radicalmen­
te in crisi anche la tradizionale accezione occidentale dei concetti di Io
e di Es. Ancora una volta, antichissime avances del pensiero orientale,
e in minore misura anche greco, ci soccorrono positivamente come
stimolatori verso nuove frontiere.
Mi si permetta di fermarmi un momento su queste considerazioni.
Problemi come l’individuo e la sua unicità, o la libertà intesa come
meccanismo che supera la dicotomia classica fra predestinazione e
libero arbitrio, la volontà intesa come sanzione suprema della libera
scelta, tutti questi problemi, ripeto, vanno oggi rielaborati, favorendo
docilmente lo sconvolgimento portato dalle moderne avances delle
scienze fisiche e biologiche. Molte istanze della relatività e del
quantismo possono oggi riproporci senza più equivoci molti di quei
grandi temi di cui il potere metafisico e religioso si era impossessato
con una equivoca e funebre dittatura.

V ili - Intendere l’inconscio come un “altro luogo”, o come il


linguaggio dell’“altro”, è non spiegare nulla.
Il cosiddetto “super-io”, inteso come presenza dell’istanza sociale
nell’indjviduo, in realtà si rivela come pressione ben più vasta di un
“paleo-super-io”, secondo il quale il comportamento individuale si
misura con molto antiche istanze sociali, fino a un terminal molto più
antico dell’uomo stesso, nel quale l’essere vivente si ritrova di fronte al

52
non vivente. Ma lo sviluppo del sistema nervoso, e in particolare del
cervello, ancora una volta ci aiuta a non proiettare il problema del
super-io in un’ipotetica geografia della psiche, dove i continenti della
coscienza sarebbero avvolti dal torbito oceano del subconscio. L’“al-
tro”, proiettato dal super-io nel fondo del processo, supera i confini
stessi della vita per dialogare con ciò che appare non vita.
La vecchia dicotomia eros-thanatos, sconvolta da un terzo termine,
cioè il mondo inorganico, può essere riscritta come dicotomia eros-en­
tropia. La perdita di calore, in tutte le sue implicazioni, e la resistenza a
questa perdita, (coi successivi cosmi provvisori che si oppongono alla
minaccia del disordine), caratterizzano ampiamente il viaggio della vita
terrestre, dalle forme più semplici alle più complesse. E’ vero che tra le
originarie molecole autocatalitiche e la cellula ci può essere più
distanza evoluzionale che tra una cellula e un organismo complesso,
come è vero che, per esempio, gli insetti sociali sono molto distanti da
noi, ma quando cerchiamo le chiavi d’interpretazione del fenomeno
biologico, sono proprio queste chiavi che lo rendono unitario in tutti i
suoi gradi di sviluppo, accorciando enormemente le distanze tra loro.
A questo punto non è più difficile risolvere il subconscio nelle eredità
del materiale genetico, e negli imprintings o impressioni che, dal
periodo fetale in su, per tutta la vita, vengono progressivamente incisi
sul nastro nucleico. Certamente, così non si spiega tutto, perché
restano da scandagliare le interconnessioni del nastro con le altre
componenti cellulari, il meccanismo della fabbrica delle proteine, e,
più avanti, i rapporti degli organi coi tessuti connettivi, rapporti che,
comunque, riaprono vistosamente il problema dei legami col mondo
inorganico.

IX - Si può dire del subconscio in particolare, è della psiche in


generale, quello che si può dire per molte altre definizioni: sfasciando­
le o eliminandole, non si ha nulla da perdere, e qualcosa da guadagna­
re. Psiche può dunque restare come indicazione sintetica provvisoria
del comportamento dell’essere vivente, qualcosa cioè di ben lontano
dal soffio pneumatico, dall’anima eterna e dallo spirito divino, mentre
subconscio può essere utilizzato come la spinta iniziale del comporta­
mento, spinta determinata da pressioni o impulsi organici. L’analisi di
questi impulsi originari, condotta con un metodo di retroazione, può
dunque caratterizzare la psicologia sperimentale del prossimo futuro.
Vorrei fare un solo esempio. Se accettiamo le linee generali della
teoria dei tre cervelli, quello che ci interessa per la visitazione del
comportamento psichico è la sopravvivenza fisica di tutte le tappe di

53
sviluppo del sistema nervoso. Il paleocervello, quindi, vale per quanto
agisce nel presente comportamentale, secondo le sue antiche caratteri­
stiche costituzionali, e non per quelle non sempre divertenti fantasie
che accompagnano troppo spesso la ricerca scientifica. Mi si permetta
una breve digressione. Quando si parla di “materia pensante” si fa
un’operazione simile a quella di chi, per non rinunciare al concetto
classico di anima, prefereisce estenderlo, regalandolo graziosamente
agli animali, alle piante, ai cristalli, ai pianeti, ai soli, alle galassie. Se
non vogliamo conservare l’immagine del pensiero come di un ente a sé,
che in qualche modo precede l’origine stessa dei suoi produttori, ci è
facile relegare nel mondo delle favole l’idea di una materia pensante,
ammesso che non si rinunci a limitare il pensiero, dai suoi momenti più
elementari a quelli più complessi, alla rivelazione comportamentale
dell’essere vivente.
Non si tratta solo di questioni di parole, non si sta discutendo del
sesso degli angeli. Chi scrive è ben consapevole che, per sfasciare
alcune parole che si ritengono pericolosamente equivoche, si finisce
con l’utilizzare, e perciò conservare, altre parole potenzialmente
equivoche. E’ inutile, per esempio, dissolvere la parola “istinto” nei
riflessi incondizionati, oppure nelle varie forme di tassie (chemiotassie,
fototassie, ecc.) o in altro ancora, se poi non si è molto chiari e decisi
nella eliminazione dei fondali misteriosofici che incorniciavano la
vecchia accezione della parola istinto, soprattutto nella sua contrappo­
sizione dialettica all’intelligenza. Per evitare dunque di fare una
semplice e sterile operazione di sostituzione di parole, occorre rigoro­
samente ridurre la durata delle parole stesse, e intenderle esclusiva-
mente come strumenti di lavoro soggetti a sviluppo, modificazione e
decadenza.

X - Ho precedentemente utilizzato più volte la parola corpo, ma intesa


nella limitativa accezione di “corpo vivente”, sia nei suoi confini
sensibili, sia nella estensione della sua aura, sia nelle sue relazioni
continue con le modificazioni dell’ambiente esterno e interno, sia nei
suoi processi di eredità e di formazione. Ancora una volta, come è
consuetudine in questi scritti, la parola qui è usata non in direzione di
una sintesi restauratrice, ma piuttosto di un decentramento a più
dimensioni. Il corpo diviene così ipotesi attuale per efficacia e per
chiarezza, ma tuttavia sempre provvisoria.
La detronizzazione della gerarchia cerebrale è infatti sperimentabile
nelle tecniche di deconcentrazione e di meditazione, dove il blocco
unitario dell’io tende a dissolversi in un sistema complesso di relazioni.

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Voglio fare un solo esempio. La teoria del transfert, inteso come
realizzazione dello sblocco deliavita inceppata, non è concepibile tanto
come un mero accidente nella storia del dialogo tra un soggetto attivo e
un soggetto passivo, quanto, in modo più estensivo, come la descrizione
stessa del viaggio dell’essere vivente alla ricerca del suo “posto” dinami­
co. Il transfert è in sostanza il meccanismo di riconoscimento delle
richieste insoddisfatte, sintomatizzate dalla nevrosi in simboli coatti.
Riconoscimento che non vanifica quindi la nevrosi, ma la soddisfa,
reintegrandoci in una nuova capacità promozionale, germogliata dalla
riunificazione del momento psichico. Ogni vero transfert è in realtà un
co-transfert, in quanto è una caduta dei ruoli e un coinvolgimento totale
dei protagonisti. In questo coinvolgimento, dunque, riconosciamo il
superamento delle barriere elevate da pressioni estranee abusivamente
introdotte nel processo psichico, e, in sostanza, riconosciamo una
impossibilità di porre terminals definitivi in alto e in basso, a destra e a
sinistra.

55

LA STORIA CAPOVOLTA

I - Una emendazione della storia deve tener conto delle sempre aggior­
nabili conoscenze dell’universo. La storia è, non può che essere, storia
del mondo, e quindi storia a più dimensioni. Non è più possibile parlare
di storia come di un processo lineare, cioè come di una somma di fatti
che procedono unilateralmente nella dimensione temporale. Le stesse
scienze naturali vanno più giustamente definite “storia naturale” o,
semplicemente, storia, non appena le si concepiscano non come una
somma di certezze assolute, ma come una informazione sui movimenti
della macrofisica, a sua volta interpretabili secondo i movimenti del
mondo microfisico. Una storia dell’universo, inteso non più come co­
smo immutabile ed eterno, comprende necessariamente la storia della
specie umana, e ci impone quindi di sradicare ogni antropocentrismo,
anche quando ci limitiamo allo studio della storia dell’uomo.
La rigorosa applicazione di questi principi, decentra anzitutto la
gerarchia dei valori storici, fino ad abolirli. Ma se anche ci limitiamo alla
storia della nostra specie, non possiamo più ricondurla alla storia del
cervello e, di conseguenza, dell’intelligenza umana, intesa per di più,
come prototipo di una ipotetica ragione universale. Ma neppure si può
più identificare la storia con un archivio della memoria, nel quale
cronache e giudizi si possano appellare a un’astratta e insostenibile
obiettività. Un archivio, individuale o collettivo, esiste in quanto è
indivisibile dai suoi archivisti, che a loro volta, anche nel semplice gesto
della archiviazione, interpretano e, in misura diversa modificano, gli
stessi dati archiviati.
Innegabilmente il materialismo storico ha fatto un grande passo
avanti, rispetto allo stesso Hegel, quando ha corretto e ridimensionato
l’idea di un fine ultimo della vita e della storia, ma in un certo senso
questo ridimensionamento è stato limitato dai principi generali del
materialismo dialettico, che finisce col trasformare uno dei metodi
d’indagine nell’unico metodo valido. Qui si vuole insistere nel contrap­
porre alla metodologia un criterio di conoscenza e di informazione, che
completi in tutte le sue conseguenze il capovolgimento del concetto di
storia. Non si tratta solo di una visione d’altitudine, che poi servirebbe
ben poco qualora si scendesse al particolare storico umano. Sradicare
dalla storia ogni infiltrazione idealistica, eliminare ogni idea di “provvi­
denza” e di “progresso” verso la luce, non è solo un’operazione da
tavolino, ma presuppone una critica serrata e vigilante di ogni più
piccola piega del discorso storico. La cosa non può essere spaventevole,
se appena si pensi quale meraviglioso campo d’esplorazione si apra allo

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storico che, superando lo schok del ricominciamento da capo, rinunci a
costringere il mondo nelle braghe strette di questo o quel cosmo asso­
luto.

II - Anche la storia dunque va intesa come un’impresa. L’informazione,


vista come complicità dell’osservatore con l’oggetto della sua osserva­
zione, si trasforma nel momento decisionale, frutto dell’indagine più
ampia possibile. L’operazione promozionale non si riduce dunque a un
giudizio precostituito, ma rende complici lo storico e l’oggetto della sua
indagine, nella quale economia, antropologia, sociologia e le stesse
scienze biologiche si ricompongono nella storia del mondo.
Il decentramento criteriologico dell’indagine storica, espelle così non
solo la barba bianca della provvidenza, ma anche la comoda ideologia
del libero arbitrio, in un’operazione che non può avvenire una volta per
sempre, ma deve tradursi in attenta pratica quotidiana. Lo storico cessa
di essere il privilegiato difensore dell’obiettività e il fedele interprete
della ragione, per farsi partigiano a tutti gli effetti della promozione
della vita. Si può pensare che questi discorsi pecchino di generalizzazio­
ne o, quantomeno, nascondano qualche inconsapevole insidia. In que­
sto modo, si può dire, la storia non nega se stessa e il proprio valore?
Appunto, negando se stessa, va oltre la teoria dei valori, identificandosi
anche coi dubbi, coi vuoti e con le polivalenze di giudizio che ne fanno il
reportage della vita: di essa riproduce i modulors mutevoli, così come la
storia dell’individuo riproduce quelli del suo corpo.
Il criterio dello storico è dunque statistico. Ma ci può essere anche
una metafisica del dato statistico, la cui eliminazione diviene il primo
compito del critico storico. Lo sperimentatore non può che agire sul
segmento, ma non deve ignorare il “posto”, la “durata” e la necessaria
reintegrazione del segmento stesso. E’ troppo facile e troppo usuale
dimenticare la “segmentità” del segmento. Lo storico, spinto all’unità di
giudizio quasi per un coatto “horror vacui”, se non tiene viva la più
stretta vigilanza, tradisce il criterio base del decentramento, e, invece
dell’unità auspicata, ottiene una semplice e grottesca caduta fuori dalla
storia. La storia, intesa come impresa, ha quindi le sue forche caudine
della caduta istituzionale, soprattutto quando si riduce in sostanza alle
cronache dell’istituzione statale.
La spinta verso l’unità in queste pagine è vista piuttosto come una
molla d’azione, un bisogno dell’operatore di sentirsi intero nel gesto, e
integrato con la sua operazione. Il “deus sive natura” spinoziano, ab­
bandonato nel linguaggio filosofico, ritorna qui prepotentemente come
pronuncia dell’inesauribile possibilità d’integrazione dell’uomo nell’u­

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niverso, fino non a identificarsi con esso, ma a sentirsi, all’opposto, suo
frammento dinamico.

Ili - E ’ giunto il momento di parlare del linguaggio storico, che, secondo


il vizio umano, pretende di erigersi a linguaggio universale. In realtà si
vuole parlare qui non di linguaggio, ma di linguaggi, e di questi come
prodotti delle istanze dialettali, e poi dei dialetti come saturazioni dei
più o meno marcati apporti individuali. Questo decentramento, che di
primo acchito potrebbe sembrare un’immersione, in realtà è l’inizio
dell’emersione nel territorio purificato dell’interpretazione storica det­
tata dalle necessità dell’interprete e del suo tempo. E’ ovvio che un
siffatto operatore non può non anteporre alla sua indagine un bagno
caustico del linguaggio d’uso, bagno che lo porterà non tanto a proporre
parole inedite, quanto a non accettare ciecamente l’accezione di nessu­
na parola. Anche qui, come tanto spesso prima, il lettore potrebbe
chiedere allo scrivente esempi, confronti e dimostrazioni più estese. Ma
io ritengo che anche qui, come in ogni frammento di questi scritti, vada
ricercata e messa a nudo un’unica passione costante di stimolo a prose­
guire nell’opera di disgelo di tutte le pietrificazioni della ricerca umana.
Tanto più quando si parla di storia: ogni frammento diviene terreno
sondabile di risposte e di confronti. Non è una facile scappatoia, se si
tiene conto del criterio d’esposizione scelto dallo scrivente, e del suo
sforzo di evitare una eccessiva tendenza alla sistematicità.

IV - Ideologia - metodo - criterio. Non si tratta di una escalation


“migliorista” e irreversibile, ma di fasi diverse della sopravvivenza,
relativamente alla ricerca umana. Privilegiare il criterio è dunque per­
correre la strada del decentramento fino alla invenzione delle segnaleti­
che individuali, e alla loro rimozione da tempi e luoghi di glaciazione.
Per segnaletica si intende un uso dinamico dei segni, intesi come timbri
provvisori dell’azione. Sono appunto questi segni dinamici che possono
fare dello storico un archivista in quanto ricercatore, e, come abbiamo
detto, un ricercatore in quanto imprenditore, cioè un protagonista. Il
suo campo d’azione è, dicevamo, un segmento del campo d’azione
dell’economista, del biologo, del fisico, segmento validificato solo nel
momento della reintegrazione. La specializzazione propria di ogni im­
presa è la caratteristica di ogni ricerca, ma solo a condizione che sia
sostenuta da una consapevolezza globale che tutto è “specializzazione”,
perché solo gli apporti del particolare rendono possibile una visione
d’insieme, nello stesso momento in cui rivelano i propri limiti e le
proprie inattualità. Altra cosa è la sempre più diffusa specializzazione

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delle discipline moderne che, a volte per carenza di capacità sintetiche,
a volte per mancanza di più ampie informazioni, a volte per deleterio
protagonismo, e a volte per asservimento al potere, finiscono spesso col
divenire incapaci del processo di reintegrazione. Tutto questo si può
dire anche per lo studioso di storia: al giornalismo storico si contrappo­
ne qui il “reportage”, inteso, più che come documentario, come dialoga-
zione pluridimensionale, promotrice della dinamica dei dati, e corre­
sponsabile del cambiamento. Ma anche questo profondo capovolgi­
mento non si ottiene che ponendo al centro dell’attenzione lo scottante
problema dell’educazione.
Le ristrette élites di frontiera possono potenziare la forza della loro
presa solo se allargano sempre più nella massa informe e conservatrice
il numero di coloro su cui già dalla prima infanzia si intervenga con una
nuova dinamica di imprintig. Spetta a loro fondare una pedagogia che
tenda a ridimensionare e a modificare l’uomo, e non solo il suo intellet­
to. Troppo spesso viene trascurata la formazione dei primi anni di vita, e
troppi nuclei familiari non hanno la preparazione o la volontà necessa­
rie. Anche i primi anni di scuola possono avere un’importanza fonda-
mentale in questa operazione di recupero, che, in gradi diversi, continua
però anche nelle età più avanzate. Occorre anzitutto creare sedi decen­
trate di formazione e di autoformazione dei primi nuclei di siffatti
educatori. Questo è possibile se si creano le condizioni economiche,
sociali e politiche che ne garantiscano l’entroterra. Il loro intervento
diretto, inizialmente, agirà su un numero ristretto di cuccioli umani. Ma
potrà allargarsi a macchia d’olio nella misura che gli “educati” si faran­
no a loro volta educatori. Una cosa è certa: questo processo non può e
non deve in alcun modo essere diretto dallo stato o, comunque, pilotato
dall’alto. Troppe volte si è lasciato che il potere si appropriasse degli
strumenti più avanzati dell’educazione, per poi servirsene non in fun­
zione del decentramento, ma con lo scopo del recupero all’autorità
conservatrice e all’etica di dominio. Si può ribattere che chi si autoeleg-
ge educatore compie già un’operazione dall’alto. E ’ vero. Ma altra cosa
è l’imposizione, più o meno elastica, dei vari decaloghi, e altra cosa è la
pedagogia maieutica, basata sul principio di una totale complicità.
Torneremo presto su questi argomenti.

V - Il discorso sulla storia, come ogni altro in queste pagine, è divenuto,


sempre più chiaramente, un “prolegomeno acratico”. Anche qui non si
tratta, in sostanza, di negare l’istanza sociale, ma di rivisitarla fino alle
radici.
Non sono d’accordo con l’ipotesi di una tensione della storia umana,

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dopo più o meno falliti tentativi, verso soluzioni veramente sociali, per
le quali si attribuisce fondamentale importanza al cervello. Non mi
stancherò mai di ripetere che la storia della vita non è identificabile
soltanto con la storia della cellula nervosa. Il nastro nucleico, che per
sua natura tende a una forma di sopravvivenza che lo metta al sicuro
dalle progressive negritudini, ma nello stesso tempo gli garantisca uscite
d’emergenza più concrete, è un ardito accorgimento dell’evoluzione,
nella quale però la parte tende insidiosamente a sostituirsi al tutto, e lo
strumento tende a sostituirsi alla mano che lo muove.
Il progressivo sforzo umano di organizzazione del mondo inorganico
trova per esempio una sua espressione nella moderna cibernetica, nella
quale sembra obbligata la via verso l’intelligenza artificiale, non tanto
come uno strumento più ricco e più sofisticato, quanto come un golem
concepito e creato dal cieco orgoglio di una specie trionfante: il golem
può sfuggire di mano al suo creatore, non solo come mezzo di program­
mazione di dittature intellettuali, ma alla fine persino come ricerca
astratta dell’“organismo indeperibile”.
Un tempo si diceva che “lo spirito non esiste, ma diviene, si crea”.
Una degenere concezione dell’intelligenza artificiale potrebbe conside­
rarsi un tentativo di reificazione di una delle più superbe tentazioni
sadomasochistiche dell’uomo. Si può dire anche della cibernetica quello
che si è detto di altre frontiere, per esempio l’uso dell’energia atomica:
come qui non si tratta di tornare alla candela, là non si tratta di rifiutare
la macchina come prolungamento del corpo, pluridimensionalmente
inteso. Ben venga il più avanzato automatismo, se incrementa la soprav­
vivenza umana, e spinge la sua evoluzione verso la sopravvivenza della
vita. Ben venga anche una saturazione dell’automatismo così avanzata
da dare l’illusione di nuove qualità, purché si riconosca l’illusione come
tale. Voglio dire che un’eventuale passaggio dell’automatismo al piano
di una autonomia autoriproducentesi, e capace persino di rinnovarsi, va
sempre inteso come un momento dell’evoluzione della biomassa terre­
stre. Non esistono strade obbligate verso un’assurda idea di progresso, e
il relativo rafforzamento di qualcosa può coincidere con il deperimento
o il soffocamento di qualcos’altro. Non bisogna essere, magari inconsa­
pevolmente, tentati di operare per la fine dell’uomo, ma ai limiti non
bisogna neppure aver paura di ipotizzare un “dopo l’uomo”, purché non
intervenga, nel nostro giudizio e nelle nostre azioni, la mano pesante
dell’ideologia morale. Non si parla qui di libero arbitrio. Riconoscere la .
molteplicità degli impulsi, e seguire l’impulso in cui più ci riconosciamo,
in primo luogo come singoli individui, (che in quanto tali sono indivisibi­
li dalla loro specie), significa, in sostanza, lasciarci guidare da quella

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costituzionale resistenza allo spegnimento del calore che è la caratteri­
stica essenziale della vita.
Come si vede, la tensione al sociale di cui parlano alcuni è solo uno di
questi impulsi, e non necessariamente il vincente, sia perché non esiste
una storia già scritta, e quindi non esiste nel destino dell’uomo un’inevi-
tabilità deU’“alveare” o, al contrario, dell’inizio dell’era dello spirito, sia
perché anche un’eventuale tensione verso soluzioni “veramente” sociali
non è necessario che sia promossa e sostenuta da una gerarchizzazione
cerebrale. Questo vale anche per il problema dell’intelligenza artificia­
le, per cui la cibernetica ha tutto da guadagnare a esplorare e riprodurre
anche modelli non umani, e ad abbattere sempre più il muro divisorio
tra mondo organico e mondo inorganico, tra vita e non vita, tra corpo e
mente, tra pensiero e materia, tra idea e realtà, tra teoria e pratica, tra
soggetto e oggetto, tra semplice e complesso.

VI - Non dobbiamo lasciarci prendere la mano da una certa comprensi­


bile nostalgia. Nostalgia per un vago salvagente cartesiano, e anche
nostalgia per le saggezze e le stranezze di quel “veglio della montagna”,
in cui ci siamo un po’ tutti specchiati nei banchi liceali. (Scendere sulla
barca sì, - si può lamentare una voce antica, - ma ci si conceda almeno di
piangere i nostri morti e di godere i nostri sogni). Questa voce sottile è in
ognuno di noi. Ma si spegne via via che cresce la nostra altitudine; cioè
l’estrema costante di un processo continuo di immersione e di emersio­
ne. Anche immersione ed emersione sono termini relativi al punto
d’osservazione e di azione: l’importante è che emersione e risveglio
coincidano senza sottintesi e senza astuzie della ragione.
Nella proiezione del tempo storico, le quantità di saturazione sono
così sfumate che spesso ci dimentichiamo della vista d’altitudine o,
peggio, ne facciamo un contrapposto dialettico, e inventiamo la qualità.
Noi siamo oggi in una terra di nessuno tra ieri e domani, ma è sempre
così. E’ però innegabile che il presente della cultura umana è oggi
immerso nelle nebbie di un lungo inverno che, per contrasto, rende più
evidenti e più ardite le tentazioni emergenti.
La primavera non è inevitabile, e non coincide necessariamente col
cielo sereno. Essa è il profilo della nostra speranza, o, meglio, non il
presagio, ma l’avvertimento. Nessuna paura pertanto a prolungare l’uso
pratico di un termine improprio come infinito, se ci serve a concludere
operazioni di alta matematica. Nessuna paura a cantare la gioia di una
scoperta col calore di una preghiera laica, se ci serve a placare l’angoscia
che accompagna il desiderio dell’esploratore. Ma non è la precostruzio­
ne della terra da esplorare che ce la fa conoscere, sostituendosi alla

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bussola ipotetica: è la libidica immaginazione di essa che ci spinge a
esplorarla. Usando in accezione negativa i consunti valori, qualcosa
succede sempre. L’importante è che succeda sempre qualcosa di pro­
mozionale rispetto alla vita, e non si finisca nelle paludi di un linguaggio
e di una ricerca equivoci per mancanza di chiarezza o per infiltrazione di
preconcetti.

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PAROLE PER PAROLE

I - Se si considera la poesia, e l’arte in genere, il precipitato individuale


del linguaggio, i precedenti riferimenti al linguaggio rendono attuale un
discorso sulla poesia.
Il bisogno di una comunicazione più rapida, più diretta e più essenzia­
le, è una continua reazione allo sforzo di adattamento dell’individuo
all’alienazione sociale. Non per nulla l’epifania della poesia è l’eroico
turbamento adolescenziale, quando, affacciato appena alla vasta com­
plessità dell’istituzione sociale, il giovane uomo, prima ancora di giudi­
care il sistema nel quale sta entrando, cerca in un modo o nell’altro di
rifiutarlo, se proprio non può soggiogarlo alla prorompente volontà di
potenza della sua età. Ma questa resistenza è a sua volta la continuazio­
ne del pregnante linguaggio infantile, che, da parte sua, realizza la
saldatura coi linguaggi preumani. Ci sono, negli animali e nelle piante,
modi diversi, per bisogno e per ambiente, di rendere sempre più concre­
ta la comunicazione: è questa concretezza che, immaginando la reifica­
zione, tiene attivi tutti gli impulsi vitali. Per ragioni contingenti, non
posso qui approfondire il tema dell’origine della poesia, ontofilogeneti-
camente reintegrabile nell’evoluzione peculiare della specie umana, ma
credo che ci siano in queste note accenni sufficienti per garantire
operazioni del genere.
Il disegno dell’ala di una farfalla, per quanto di durata diversa, non è
in sostanza dissimile dal mutevole canto di una megattera, oppure dalla
poesia epica o lirica propria delle culturazioni umane. La matrice è la
stessa, identico è il bisogno.
Ora possiamo più serenamente tornare a parlare della poesia del­
l’uomo.
Ontofilogeneticamente, il linguaggio dell’adolescente è poesia. In
seguito si sviluppa, e in certi casi si accelera paurosamente, il processo di
sclerotizzazione, che indebolisce e, a volte, spegne il linguaggio poetico.
In molti casi la produzione artistica finisce col non essere più l’eclatante,
lieta o disperata, espressione della volontà di potenza, ma comincia a
cercare di incarnare un potere augusto e carismatico, in relazione alle
istituzioni, iquando non si riduce a un problematico rifugio, più o meno
solenne, fuori dai grandi doveri e dalle grandi responsabilità.
Nei casi più vistosi, l’arte, come uso di predisposizioni e capacità
individuali per il conseguimento di un potere d’élite, diviene la più
efficace esaltazione del mai abbastanza deprecato mito dell’io, per il
quale si è persino inventata una parola di comodo, cioè “genio”. Ma, per
fortuna, quanto detto non esaurisce il discorso sull’arte. Ci sono degli

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uomini per i quali la poesia resta esclusivamente la forma più diretta,
più rapida e più comprensiva di comunicazione, attraverso la quale la
sua passione fondamentale non si contrappone al mondo, ma vive e
brucia nel nome della reintegrazione in esso. In questi casi anche la
poesia è un’impresa che supera se stessa, fino a denunciare l’estempora­
neità della dicotomia con la scienza, da una parte, e con la militanza
quotidiana dall’altra.
Una ricerca poetica che meriti questo nome, è simultanea a un’inda­
gine sull’origine del linguaggio e della comunicazione in genere, e
quindi si rivela sempre più come uno strumento di conoscenza, cioè
anche di modificazione di se stessa e dell’ambiente. L’arte pura o,
all’opposto, l’“art engagée” cedono il posto a un ricominciamento da
capo del linguaggio poetico, che, cercando la sua linfa vitale negli extra
poetici, ritorna a fare dell’arte un’esperienza “poieutica”, nel senso
originale della parola. Si riconosce così la funzione essenzialmente
rivoluzionaria dell’arte, ben al di là di ogni purezza estetica o di ogni
engagement politico. Come sempre in questi scritti, alla parola rivolu­
zione si attribuisce il significato di adesione critica costante alla storia,
intesa come evoluzione continua di una ricerca delle più valide forme di
rafforzamento della vita.

II - E’ inevitabile che nei punti più alti della tensione, linguaggio


poetico, linguaggio politico o militante, e linguaggio scientifico non
riescano più a distinguersi completamente tra loro, se non grazie ai
diversi campi d’azione. Nel caso del momento artistico, per esempio,
l’unica sua singolare funzione è la denuncia biografica di ogni pudore e
di ogni repressione, vale a dire il riscatto dai complessi di colpa e
d’inferiorità, che sblocca da una parte i rapporti sociali, e dall’altra la
ricerca scientifica.
la forme strettamente singolari, la mia biografia ha sempre cercato di
seguire questo corso. Già nel saggio “Graph” (“Le prigioni di stato”,
Feltrinelli 1968,) ho profilato l’“essai delié” come proposta aperta, e
continuamente riproponibile, di un certo modo di essere uomo di
cultura, senza “esperanti” artificiali e senza eccessi di presunzione
narcisistica. Ma qui mi sembra giusto esemplificare il discorso con un
breve intermezzo sul mio iter biografico.
In un’infanzia relativamente precoce, manipolavo e costruivo oggetti,
manipolavo e violentavo parole, m’innamoravo di sassi, di mappe geo­
grafiche, di balene e di formiche. Con l’orgoglio smisurato del fanciullo
che con un dito smuove le galassie, tentai ingenue ribellioni ai palazzi

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degli dei e agli istituti degli uomini. Fuori dalla chiesa cattolica e fuori
dal regime fascista, cominciai a dare un senso alla poesia come mestiere
di vivere, ma ben presto entrai in contrasto aperto con le pressioni del
mondo esterno. Non potevo più soltanto scrivere versi, comporre colla­
ges, inebriarmi dell’osservazione delle formiche: dovevo cominciare a
difendermi, e molto presto chiesi aiuto alla filosofia. L’incontro con
Spinoza, come già ho detto, avvenne fortunatamente nella prima adole­
scenza, e l’illusione di un “tutto detto” filosofico diede una spinta
positiva alla mia segreta produzione poetica e letteraria, affacciandola
per la prima volta ai prodromi del teatro e del cinema. Ma la violenta
pressione del regime totalitario prima, e della guerra poi, imponevano
ormai delle urgenze irrimandabili. L’impegno civile della Resistenza,
che occupò lunghi anni, travagliati ma fascinosi, mi staccò per sempre,
traumaticamente, dagli studi sistematici e dalla ricerca da tavolino, ma,
invece di spegnere il mio afflato poetico, gli aprì nuove, insperate
dimensioni. Devo dunque a quegli anni un massiccio indebolimento
delle mie capacità di specializzazione e di applicazione, ma a quegli anni
devo anche, e soprattutto, un mio gioioso identificarmi con l’immagine
del “dilettante” leonardesco.

Ili - Dopo la guerra mi persuasi sempre più che per me il teatro avrebbe
potuto sostituire le precedenti esperienze poetiche, ma esclusivamente
nella direzione di teatro e regia d’autore. Il progressivo allontanamento
sociale dalle istanze resistenziali mi ha spinto sempre più verso l’istanza
libertaria: inevitabilmente, anche la ricerca teatrale si indirizzava verso
un teatro gestuale e critico del linguaggio, privilegiando la presentazio­
ne diretta sulla rappresentazione metaforica. Questo percorso ha subito
la dura prova del malaugurato processo di plagio, di cui parlerò più
avanti. Finalmente, nel ’68, come ho detto prima, P“essai delié”, con
l’emblematico momento di “Ododrama”, chiudeva un ciclo della mia
biografia.
In questo ciclo, dall’epifania del ritmo poetico, col suo substrato
aritmomaniacale, passando attraverso il riconoscimento dell’iteratio
come riscatto dalla coazione a ripetere, approdando poi alla “terra
senza ritmo”, nella quale il “mana” poetico incarnava il rapporto tra
magia e nevròsi, mi sono progressivamente liberato da una molteplicità
di riti privati di tipo scaramantico e, ai limiti, maniacale, non per entrare
nell’ipotesi assurda di un regno della libertà, ma per tentare di promuo­
vere, anche nella ricerca poetica, un processo di liberazione continua.

IV - L’arte è dunque in sostanza il canto, insieme gioioso e sofferto, del

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mutante che scopre la propria mutazione. Parlo qui dell’uomo come di
un mutante, ma non mutante unico e definitivo. L’uomo come una
sintesi di molti processi evolutivi, ma non come la sintesi della vita.
L’arte umana è lo specchio di queste affermazioni, proprio nella sua
continua, e in apparenza contraddittoria, miscellanea di orgoglio, pre­
giudizio e paura, da una parte, e di costante riscatto dell’orgoglio, del
pregiudizio e della paura nel desiderio, nella speranza e nel coraggio.
Ogni uomo è artista quando è teso, quando cioè è protagonista, e,
emergendo da un’immersione informativa, agisce in prima persona. Ma
la tensione libidica di cui parlo è l’opposto della passione rinunciataria e
repressiva, che ricade nella violenza quando perde di vista le necessità
basilari della sopravvivenza, quando cioè l’ambiguità propria della vita
(per intenderci quella che affascina nel “Bhahagavad Gita”) decade nel
torbido equivoco delle finalità miopi ed egoistiche.
Riconoscendosi mutante, l’uomo lo annuncia cantando. Il suo canto,
anche se nel segreto del suo cuore, tende a espandersi nell’ambiente,
cercando di colmare l’iato tra se stesso e le altre vite, tra la vita e ciò che
vita non appare. Ben altra cosa è spesso il cosiddetto artista di questa
nostra morente civiltà: costui è una mosca cocchiera, mascherata da
avanguardia aristocratica per nascondere la propria natura di plebea
retroguardia, purtroppo ormai priva delle fascinazioni degli aedi di
corte, in un mondo in cui le corti non esistono più. Come e più che nel
passato, anche oggi la forza dell’esperienza artistica si può riconoscere,
non solo in chi fa della poesia il mestiere di vivere, ma anche in uomini
piccoli, ritrosi e mimetizzati, oppure nei precari residui delle società
tribali o delle tradizioni popolari. Anche in tutti questi casi l’uso per fini
sociali delle pressioni poieutiche individuali, non esaurisce le potenzia­
lità di queste pressioni, e la loro gratificante forza di rigenerazione.
II. discorso poetico è sempre un discorso sulla vita, anche quando la
scrittura è vistosamente lontana dall’“oratio soluta”, cioè tende alla
massima rarefazione delle parole. Ma nella pratica poetica, statistica-
mente appare più spesso la parola “morte”, che non la parola “vita”. Si
dice spesso che vita è tutto ciò che resiste e si contrappone alla morte.
Questa definizione manichea dimentica che vita e morte perdono il loro
senso quando vengono divise. (Scrivevo un tempo: “dove non c’è virtù
cade ogni vizio”). In questa direzione la poesia, fedele interprete delle
sorti umane, lo è anche quando ne rispecchia le più consolidate aliena­
zioni, col grande vantaggio che le è congeniale: contenere la denuncia
dentro la stessa pronuncia, generando così, più o meno consapevolmen­
te, un formidabile strumento di caccia all’alienazione. Se l’artista, rigo­
rosamente inteso, è l’uomo comunicante che evolve nella ricerca della

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comunicazione più efficace, il valore esemplare del suo gesto è lo sforzo
di racchiudere nel frammento il dramma estremo dell’entropia.
Il grido di Donne, “morte morirai”, in certo qual modo diviene
l’emblema del poetare, ma a patto che lo si spogli di ogni valenza
estranea alla poesia. L’apparente orgoglio del presunto figlio primoge­
nito di dio, in realtà nasconde dentro di sè l’angoscia come sofferenza
del finito di fronte all’idea dell’infinito, che è, in sostanza, il capovolgi­
mento del sublime. Questo intreccio di grida contraddittorie genera
quella complessa emozione di grottesco a cui può essere ricondotta ogni
tentazione di poesia. Il crollo del primato dell’uomo provoca anche il
crollo del primato della vita. La ribellione scaramantica alla paura della
fine, paura che è madre del mito, induce a contrapporle formule magi­
che che diano l’illusione di eternità nel tempo, e di estensione infinita
nello spazio. Come si vede, continuo ad allungare la collana delle
definizioni, che comunque tendono tutte allo stesso punto, cioè il
massimo di decentramento di ogni poetica, fino a un estremo riconosci­
mento di illegittimità per la poetica stessa.

V - L’uomo che rinuncia al proprio primato perde un cosmo consunto


per guadagnare un intero universo. E’vero che ci sono più miracoli nella
corolla di un fiore, che in tutte le teologie, e ci sono più colori in cielo che
in terra. Così l’artista che rinuncia alle parole della violenza e della
morte, vale a dire rifiuta il documentario fine a se stesso, perde un trono
di carta, ma conquista una insperata estensione del suo vocabolario
poetico, non appena rimetta in moto ogni accezione semantica e, rivisi­
tando tutte le parole e le loro connessioni, non si perda nello sforzo
sterile di inventare nuove parole e nuove poetiche, ma accetti gioiosa­
mente di diventare il reporter di nuove meravigliose praterie. Se un
lungo equivoco ci ha fatto credere che la bellezza sia il fine della poesia,
non per questo se ne nega la valenza: è sufficiente limitarne drastica­
mente la durata. Ma molte antiche definizioni logiche sottintendono e
spesso mimetizzano l’impulso emozionale che le ha generate. Possono
anche conservare un’intensa valenza poetica, che non va confusa simpli-
citer con la licenza poetica. Detto questo, sarebbe sbagliato trarne
illazioni diverse da quelle che sono proprie dell’illusione di una libertà
totalmente decondizionata, che è la forza della poesia.
Non è qui che si deve ritornare sul discorso della volontà. Ma è
necessario dire che se per volontà intendiamo l’adesione a quel senti­
mento fondamentale che è la globalità del processo immaginativo,
acquista significato ben più ampio l’identificazione spinoziana di intel­
letto e volontà. La poesia sfugge, senza negarli, ai ristretti confini

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dell’intelletto, inteso come uno strumento limitato e imperfetto della
specie: essa non può limitarsi ai giuochi della fantasia, anche i più arditi,
perché restano giuochi dell’intelletto. Se si presuppone un’accezione
più estesa del sentimento, e lo si intende come composizione di molte­
plici stati emozionali, si può identificare sentimento fondamentale e
immaginazione fondamentale, perché entrambi finiscono con l’essere
sinonimi della vita. Mi sembra giusto qui liberare il terreno da altri
equivoci.
Se alla parola intuizione è stato a volte offerto un primato dottrinario,
che ne ha fatto il demiurgo carismatico, in queste pagine mi è difficile
riferirmi all’intuizione se non come a un meccanismo di pensiero che
appartiene all’epifania del processo immaginativo. Lo so: si rischia già
ampiamente di fare dell’immaginazione un comodo Azazel, caricando­
lo di tutti i peccati, di tutte le repressioni, di tutte le vaghezze, di tutte le
mimetizzate insidie metafisiche. Il pericolo è reale, ma diviene molto
meno spaventevole quando il discorso non tradisca il principio pratico
fondamentale della provvisorietà e del limite di durata di ogni definizio­
ne e, dalla validità di ogni definizione come semplice strumento di
laboratorio. Che cosa possa succedere quando si rimuova lo strumento,
è lo straordinario orizzonte di ogni avventura del pensiero, quando non
voglia restare prigioniero delle analogie, o addirittura tradirsi nelle
tautologie.
A un osservatore superficiale può sembrare che il punto più alto della
poesia sia il silenzio, e che il silenzio sia un numero. L’estrema atomizza­
zione della morte, nel “Libro tibetano dei morti”, sembra condurci a un
sentimento minimo della vita, così come l’estremizzazione del linguag­
gio poetico sembra condurci alla matematica. Ma c’è una differenza
fondamentale. La matematica, pur nella sua formidabile strumentalità,
ci conduce per un vicolo cieco, quando comincia a considerarsi una
visione del mondo, riducendo questa visione a un processo illimitato di
semplificazione. Ma in questo processo alienante, semplificazione vale
falsificazione, come è vero che la perfezione del cerchio e le misura
oggettuali sono relative alle esigenze interpretative dell’osservatore, ma
restano figlie di una astratta oggettivazione, o, comunque, di ogni
distinzione fra soggetto e oggetto. Nel “Libro tibetano dei morti” il
processo solo in apparenza è eguale: in quel libro non ci troviamo tra le
mani un’astrazione, e come tale una falsificazione, ma al contrario un
irriducibile minimo vitale, al quale la speranza dell’uomo può attaccarsi
per continuare a vivere. Poco importa che questa speranza si aggrappi a
un discutibile sentimento religioso. Qui si vuole sottolineare che un
conto è lanciare se stessi e il proprio destino nel cielo dell’astrazione, e

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un conto è far scendere il cielo in terra, nello stesso momento in cui si
riscopre la terra come una nave che viaggia nei cieli. Tale è, in ultima
istanza, la scoperta della poesia. A questo punto poeta è anche lo
scienziato che viva l’emozione della sua scoperta nello stesso istante in
cui la compie. Poeta è ogni uomo quando, sfuggendo all’alienazione
quotidiana e alle strettoie della corazza sociale, lasci aperto il cuore alle
emozioni che gli traboccano fuori come sintomo della rinuncia a ogni
tutela.
Resta poi il particolare, specializzato campo della poesia letteraria.
Ma la dicotomia è solo apparente, perché i tempi e i costumi fanno
ampiamente giustizia di molto ciarpame.

VI - E’ giunto il momento di tornare alla note biografiche. La parola,


come ogni strumento per la comunicazione e la sopravvivenza, ha in sé
la forza sia di uccidere che di salvare la vita. Questa impressione di una
magia del linguaggio ha suscitato in me grande meraviglia all’inizio del
discorso poetico adolescenziale. In quell’età, tutta l’immagine della
natura era ancora impregnata di residui magici: mi era congeniale
concepire la poesia come un lungo inno alla natura. Tutti gli scritti
precedenti al periodo della guerra, tranne alcuni frammenti che poi ho
ricostruito, mi sono stati distrutti dalla polizia fascista. La guerra poi, e
l’impegno antifascista e resistenziale, hanno messo in primo piano
l’azione della lotta diretta: l’inno dell’adolescente è sopravvissuto solo
quando si è trasformato nei turbamenti di un pudibondo segreto. Dico
turbamenti, perché tutti quegli anni sono coincisi, da una parte con le
profonde evoluzioni politiche e filosofiche del mio pensiero e, dall’altra
con le traboccanti e malcontente pressioni esistenziali, da quelle sessua­
li a quelle più strettamente legate alla resistenza contro molte forme di
violenza sociale. Quando ho ritenuto compiuto il mio impegno di fun­
zionario politico, e sono tornato al mio impegno letterario nello studio
ceramistico del Torrione Farnese, ho iniziato il nuovo ciclo de “Il
Circo”, le cui opere principali sono contenute nei quattro volumi omo­
nimi usciti nel 1960. Il circo, che, col teatro dei burattini, rappresentava
una grossa fetta delle mie mitologie infantili, veniva così assunto a
simbolo della continuità della poesia, che a sua volta diventava l’emble­
ma della vita. L’apertura del cerchio nella spirale era la mitizzazione del
mio bisogno di fuga dalle strettoie del potere rinato dalle rovine belli­
che, ma anche dall’impasse dello stalinismo, che mi sembrava bloccasse
molte istanze libertarie del movimento comunista. Scoprivo così, pro­
gressivamente, la dimensione di una poesia non più sacrale, carismatica
e gerarchica, ma all’opposto, contraddittoria, critica, antirettorica, e

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negata a ogni happy day. Non è stato un processo rapido o immediato. Il
linguaggio poetico mi appariva sempre più povero e stanco, tanto che
sentivo sempre più impellente l’esigenza di surrogarlo e rinnovarlo con
l’apporto di tutti gli illimitati extra-poetici. La stessa cosa valeva sempre
più per tutto il linguaggio in generale, nel quale, sotto le macrocopertu­
re infragilite, scoprivo dei microprocessi che lo denunciavano come
frammento del più vasto processo biologico.
L’epifania poetica era in un certo senso paragonabile all’orgasmo
erotico. Dal punto più basso di quiete relativa, attraverso una scalata più
o meno ripida, si realizzava un plateau esplorativo, che per massima
saturazione scoppiava nel momento orgastico, ridiscendendo, poi, a una
nuova e provvisoria quiete relativa. Ma nelle pagine precedenti abbia­
mo visto che questo è, nelle sue linee generali, il processo stesso di quel
fenomeno che abbiamo voluto chiamare “impresa”, allargandone l’ac­
cezione fino a identificarlo col processo vitale. Nel mio iter biografico
ho voluto chiamare “Virulentia” il momento orgastico della promozio­
ne poetica, ispirandomi alla virulenza, o forza di risveglio, della cellula
incapsulata, quando esce da un letargo, che può essere lunghissimo,
sotto la pressione di condizioni ambientali esterne o interne.
Il mio approdo al teatro, e di conseguenza al cinema, mi ha portato a
descrivere il processo di cui sopra nell’idea di una lunghissima operazio­
ne teatrale a più tappe, (chiamate “bandi”), operazione che intitolavo
“Virulentia”. A sua volta, il tutto si sarebbe integrato in un’operazione
più vasta, che si sarebbe chiamata “Cartella Tofner”. Le veline multime­
diali di questa Cartella avrebbero profilato un mio portrait robot come
emblema di un modulor polidimensionale dell’uomo contemporaneo.
Nonostante numerosi frammenti, questa Cartella resta ancora dispera­
tamente aperta. Partendo da quell’aspetto del linguaggio che ne può
fare una forma più o meno evidente di persuasione occulta, “Virulen­
tia” intendeva il linguaggio come una fotografia del potere, suggerendo
già allora l’idea di reportage, opposta a quella di documentario. Ma la
critica del linguaggio, implicita in “Virulentia”, non poteva non tentare
la dissoluzione dell’analogia, privilegiando un processo di scrittura
automatica, (processo di saturazione), che, rifacendosi a uno spettacolo
gestuale, mirasse allo spettacolo totale, attraverso la pratica dei “per­
corsi liberi”, (come dicevo allora), cioè percorsi di incontro del regista
con l’operatore di scena, maieuticamente trattato.
Nasceva così, nel 1974, il nuovo ciclo de “Le ballate dell’Anticrate”,
che, ponendo al centro dell’indagine teatrale il rapporto tra teatro e
società e, quindi, l’emersione delle istanze libertarie, coinvolgeva nell’o­
perazione drammatica il pubblico stesso, negando, entro i limiti possibi­

72
li, l’iato tra operatore e spettatore. Ma l’“Anticrate” era anche la mia
protesta contro quel processo sanfedista e sopraffattorio di plagio che
aveva, con tragica violenza, interrotto i cicli dei bandi di “Virulentia”.
Stendendo in prigione i testi di “Graph” e “Ododrama”, gettavo le basi
di quello che sarebbe poi divenuto il ciclo dell’“Anticrate”. La sua
origine va cercata nel mio stupore di fronte a un’accusa che rivoltava
contro di me le armi del mio stesso lavoro. Avevo scoperto, insomma,
che non c’è niente di più efficace, per un accusatore, del trasformare un
libertario in un liberticida, utilizzando per l’accusa le sue stesse parole e
le sue stesse scelte. Dopo questa prova, un discorso sull’istanza liberta­
ria prendeva l’aspetto di “essai delié”, con tutte le conseguenze del caso
sulle tecniche teatrali, sulle sceneggiature cinematografiche e, prima di
tutto, sul linguaggio poetico. Se è vero che un uomo, in realtà, fa una
sola opera nella sua vita, l’“Anticrate” era dunque un mio nuovo identi­
kit, la cartina di tornasole di un mio difficile rapporto col sociale, la cassa
di risonanza della mia aspirazione al reportage totale.

VII - Un discorso a sé meriterebbe la mia concezione della regia. Non


ho mai sentito la regia come un mestiere di vivere, ma come uno
strumento in certo qual modo inevitabile della ricerca poetica, anzi,
l’unico strumento che sembrava potesse garantire a una ricerca come la
mia la possibilità di un rapporto più diretto col sociale, con risultati più
ampi della pratica letteraria. Le scelte eclettiche ed empiriche, spesso
richieste dal lavoro di regia, impongono un’attenzione costante alle
esigenze e alle modificazioni dell’ambiente sociale, anche quando lo
stimolo al lavoro non viene dall’ambizione o dal desiderio di successo.
Anzi, la regia, se intesa come strumento di ricerca poetica, può efficace­
mente vaccinare contro le istanze più negative della volontà di potenza.
Il regista diviene psicanalista nel dialogo, laboratorista nella critica del
linguaggio, militante nella messa in scena, ma soprattutto resta fonda­
mentalmente poeta. Non si fraintenda: il cosiddetto teatro poetico è
spesso una distorta interpretazione del lavoro di autore, regista di se
stesso, e può facilmente generare degli aborti. Comunque, in primo
luogo, il regista è un reporter.
Dato che repetita juvant, è bene sottolineare ancora una volta che
reporter è solo un microscopista che modifica gli oggetti del suo repor­
tage e ne è, insième, modificato. Ai limiti estremi, ogni uomo è poten­
zialmente un reporter, come è vero che ogni uomo, ogni essere vivente,
ogni oggetto della realtà sono non creatori, ma concreatori del mondo.
L’apertura totale di una parola è la sua morte: ben venga la morte di
una parola come “creazione”, oggi che tanti cosiddetti intellettuali, che

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in realtà sono fanalini di coda, cioè supporti del potere, si divertono a
rilanciare zoppicanti teorie creazioniste, e a estenderle dal campo biolo­
gico a tutti gli altri campi dello scibile umano. La cosa sarebbe trascura­
bile, se i mass-media non diffondessero tali sciocchezze nella cultura di
massa. Le grandi masse dell’attuale società umana, frutto di nefande
politiche demografiche, non hanno mai avuto, da parte dei vari poteri
politici, l’attenzione critica e l’assistenza pedagogica necessarie alla loro
elevazione: ad esse quindi sfuggono ancora i tremendi pericoli insiti in
uno sviluppo demografico indiscriminato. Un effetto di questa situazio­
ne è anche il progressivo impoverimento del vocabolario degli uomini-
massa, impoverimento al quale contribuiscono ampiamente i grandi
mezzi di comunicazione, e in primo luogo la televisione. Questi mezzi,
di per sé neutri, quando vengono utilizzati come instrumenta regni da
parte di gerarchie altrettanto impreparate quanto i loro sudditi, finisco­
no col saturarsi di tentazioni dietrologiche, che possono persino sfociare
nelle etiche terroristiche dei poteri occulti, o rilanciare nuove crociate
integraliste e biechi sanfedismi.
Non può che essere così in un mondo nel quale la residua mentalità
industriale, per cinica spregiudicatezza, con una mano sforna prodotti
di guerra, e con l’altra apre il mercato a equivoche proposte di pace e di
salvezza ecologica. E ’ innegabile che gran parte della cibernetica e dei
progetti spaziali sono frutti della ricerca bellica, a sua volta frutto di
molti residui razzismi, di rinascenti nazionalismi, e di feroci egoismi
connaturati all’incremento del neocapitalismo. La teoria dell’inevitabi-
lità della guerra è dura a morire. Assistiamo così alla vergognosa
rincorsa di certe élites intellettuali, ansiose di mettersi al servizio dei
gruppi economici dominanti. Il risultato è che si privilegiano interessi di
parte sulle ormai improrogabili esigenze economiche, sanitarie e peda­
gogiche delle grandi masse umane. Il risultato è scoraggiante: i ricchi
diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. Ovviamente,
il cieco egoismo di cui parlavo è la minaccia più grande al recupero
ecologico del nostro pianeta e della sua biomassa. Nonostante marginali
forme di pietismo, si continuano ad abbattere le foreste, a inquinare i
mari, a uccidere e torturare gli animali. Come la vecchia mentalità
industriale fatica a tradursi in nuove realtà imprenditoriali, così il
mostruoso inurbamento degli ultimi anni fatica a tradursi in una conce­
zione di nuove megalopoli, che siano l’opposto delle attuali concentra­
zioni metropolitane. Tutto questo non può non ripercuotersi anche sui
prodotti della cultura. Le più coraggiose élites che si propongono di
combattere ogni rigurgito di umanesimi degenerati in umanismi, trova­
no così sempre più difficile conquistare un proprio campo d’azione,

74
I

tanto che, in certi casi, possono finire col rinunciare alla lotta, o col
perdersi in passionali proteste eversive.
I trionfi delle tecnologie avanzate, anche se frutto dell’incremento
capitalistico e dello spirito bellico, sono comunque carichi di promesse
positive. Questo fatto non va dimenticato, soprattutto quando scopria­
mo le grandi insidie ad esse connaturate. Due mi sembrano le più
pericolose. Una è la progressiva educazione all’inutilità e all’incapacità
di pensare, quando si delegano sempre più alla macchina funzioni che
per definizione la negano. L’altra è una conseguenza della prima, cioè il
formarsi di una mentalità diffusa che, nell’esaltazione dell’effimero,
incrementa la dinosaurizzazione e la conseguente necrofilia, truci com­
pagni del world in progress.
II lettore vorrà perdonare questa lunga digressione, ma senza di essa
ritengo che sarebbe difficile comprendere le cause che hanno impoveri-
I to le generazioni tra le due guerre post-belliche, e i loro prodotti.
Probabilmente le generazioni più giovani, anche solo per naturale
\ reazione, potrebbero a fatica cominciare a riempire molti spazi vuoti,
senza bisogno di ricorrere a nefande riedizioni dei valori falliti. Mi
auguro che questo valga in primo luogo per il discorso poetico.

V ili - Non è intenzione di questi scritti progredire per citazioni di testi e


di autori, se non in casi molto circostanziati. Ritengo che sia dannoso
cercare artificialmente le fonti di un pensiero, e perdersi in affrettate
genealogie. Ogni individuo è frutto dell’evoluzione di tutto quello che
l’ha preceduto e, insieme, complice delle modificazioni dell’ambiente in
cui vive. Nel mio caso, per esempio, ho già ampiamente citato gli
incontri culturali della mia adolescenza, ma anche le influenze che
l’osservazione della natura e la particolare collocazione familiare hanno
esercitato su di me fin dalla prima infanzia. Per esempio, il fatto che
quando avevo otto anni mia madre mi regalò “La vita delle formiche” di
M. Maeterlinck, ha avuto per me un’importanza decisiva, come altre
letture precoci tipo le opere di D. Defoe e di H. Melville, e gli scritti di
Omero, Poliziano, Leonardo, Foscolo, Withman, Montale, Campana,
Rilke, Elliot, Lorca e Kafka. Ma sulla mia maturazione letteraria hanno
molto influito anche le opere artistiche di Van Gogh, Klee, Kandinski e
Picasso. Comunque, non è stata inferiore l’influenza che su di me hanno
esercitato l’ingenuo razionalismo ebraico di mio nonno materno, e
l’esempio di mio padre, che aveva concepito la medicina come una
missione totale, fino all’estremo sacrificio. Questo vale anche per mio
fratello, che ha continuato l’opera di mio padre, spingendola oltre,
verso le più avanzate frontiere della moderna medicina.

75
Questo iter complesso e poliedrico è naturalmente sfociato in un
continuo interesse per la biologia, la storia comparata e la storia natura­
le delle religioni. Nella storia della filosofia, in particolare, mi sono
precocemente abituato a leggere i grandi sistemi con lo stesso spirito col
quale si leggono i grandi poemi e i grandi romanzi. Una costante di tutto
questo percorso è la crescente nostalgia per l’habitat naturale conosciu­
to nella prima infanzia, accompagnata alla ribellione a sempre più
vistose cadute ecologiche. Ricordo che usavo dire, negli anni sessanta,
che se ai tempi di Lenin il socialismo era “soviet più elettricità”, nel
presente era piuttosto “soviet più riscatto ecologico”. Non mi è stato
certo difficile condividere, in seguito, parte dello spirito informativo
delle nuove associazioni ambientaliste ed ecologiche, e permeare di
questo spirito gran parte dei miei lavori di quegli anni. Già nel periodo
resistenziale, ritenevo infatti incompleta ogni concezione della rivolu­
zione politica, che non si basasse essenzialmente su una reintegrazione
dell’uomo nella natura.
Ma queste ultime note biografiche, per ora, si fermano qui. Quanto è
più legato agli eventi degli anni settanta sarà argomento di pagine
successive. Mi è parso, tuttavia, fondamentale evidenziare il carattere
stesso della mia scrittura poetica e teatrale, coi suoi peccati extrapoetici
e la sua incancellabile fedeltà al frammento.

IX - Il ’68 non mi ha trovato impreparato, e quindi non ha potuto


esercitare su di me particolari influenze. Innegabilmente ho sentito per
molte voci di quel periodo una varia misura di affinità elettive e di
entusiasmanti convergenze, ma sempre avvertite come se le vivessi da un
altro continente. Quando si scriveva sui muri “l’immaginazione al pote­
re”, sapevo che di fantasia si intendeva parlare, e non di immaginazione:
non potevo non misurare, anche dalle parole, varie distanze più promo­
zionali che generazionali. Ritenevo allora, senza sottovalure il ’68, che si
trattasse non dell’inizio, ma della fine di un’epoca: le regressioni di dopo,
e anche le appendici della violenza eversiva che ne sono derivate, me
l’hanno più o meno confermato. Forse un solo debito specifico debbo a
quegli anni: la curiosità che mi ha spinto a provarmi, sia pure per tempo
limitato, nelle esperienze psichedeliche. Mi è bastato conoscere come un
minimo spostamento di grado può distoreere, ma anche arricchire la
conoscenza del mondo. Ben presto ho scoperto che lo sblocco della libido
non si otteneva solo e necessariamente con mezzi chimici esterni. Avrei
imparato poco dopo che il nostro corpo è produttore di sostanze chimi­
che, non solo cerebrali, che agiscono sui meccanismi della libido, e
concorrono con tutti i sistemi organici a incrementare l’energia vitale.

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D ’altronde, proprio in quegli anni uscivo dalla mia terza prigionia, e il
conseguente bisogno di ricominciamento da capo mi sembrava irriduci­
le ai binari più ristretti di un momento di passaggio della storia contem­
poranea. Per questo ho sentito immediato e spontaneo il rifiuto per
tutte le eversioni politiche e per la loro tragica e patetica aspirazione a
un potere e a un’etica terroristici. Aspirazione che, inconsapevolmente
favoriva le astuzie e le manovre del potere ufficiale. La dolorosa espe­
rienza del processo di plagio mi ha però aiutato a guardare con grande
distacco queste manovre e queste astuzie. Il mio lavoro e, in particolare,
la mia poesia, dovevano così naturalmente precisarsi come un mestiere
di vivere irriducibilmente libertario.

X - Torniamo al problema del linguaggio. Si tratta anche qui di applica­


re il decentramento, fino all’atomo linguistico, e, oltre l’atomo, (che in
sé già racchiude il programma successivo), fino a un “quanto” prelingui­
stico, nel quale la più piccola particella di comunicazione riproponga
tutto il microcosmo della comunicazione. Quando in “Graph” parlavo
di “segno mobile”, mi riferivo ai rapporti senza soluzione di continuità
tra l’atomo linguistico individuale e quello sociale, in tutti i loro movi­
menti orizzontali e verticali. Ancora una volta, evidenziavo la relazione
critica tra l’immagine dell’organico e quella dell’inorganico.
L’indagine sviluppata in “Graph” mi ha portato, in “Virulentia” e
nell’“Anticrate”, alla concezione del “decollage ideogrammatico”, inte­
so come strumento per disinnescare l’analogia: il fine era quello di
conseguire i mezzi più efficaci per identificare la stretta connessione tra
linguaggio e potere. Si trattava di mettere a nudo i più equivoci mezzi
linguistici del potere, da quelli analogici a quelli più genericamente
logici. L’io monolitico retrocedeva a segmento, fino a divenire un punto,
e qui tradursi in una porta d’uscita. Qui, l’idea sopravviveva solo come
“imago”, non riducibile ad alcuna categoria: chiamavo “segno” la sua
rivelazione nell’esperienza individuale. Da questo punto iniziava la
grande caccia alle parole astratte, e alla loro equivoca dittatura: caccia
che offriva una garanzia contro le più facili alienazioni del linguaggio, e
della comunicazione in genere. Quando si dice che oggi si passa dalla
civiltà delle parole alla civiltà delle immagini, si cerca solo di attribuire ai
nuovi mezzi di comunicazione di massa il carisma che per lungo tempo è
stato limitato ai mezzi verbali e alla scrittura. Ma sotto un’affermazione
così equivoca si finisce col nascondere anche una serie di pericolose
analfabetizzazioni, che in qualche modo il regno della parola in certa
misura riusciva a evitare.
Dire che “in principio era il verbo” era caricare la parola di quella

77
sacralità apodittica indispensabile a intenderla come formidabile arma
di potere. Si pensi dunque al “verbo” tradotto in termini televisivi. La
sostanza del problema resta invariata anche quando cambiano o si
modificano gli strumenti di comunicazione, ma il pericolo si fa più
grande. La fretta di demitizzare la parola in vista di più comprensive
mitologie, può tradursi nel classico gesto di chi butta via il bambino con
l’acqua sporca. Questo vale per tutte quelle trasformazioni di costume
che non riconoscono più i condizionamenti storici che le hanno provo­
cate, ma, ricadendo nel giuoco dell’astrazione, separano assurdamente
il movimento dagli oggetti che si muovono. Mi si conceda un unico
esempio. Il computer ha positivamente permesso una maggiore com­
prensione, e quindi estensione, delle tecniche di comunicazione lingui­
stica, proprio perché le sue possibilità si estendono anche in territori
esterni al linguaggio. Questo dato, aggiunto al grande vantaggio della
rapidità delle operazioni computeristiche, non impedisce il profilarsi di
nuove insidie, non appena si veda nel computer il primo abbozzo di una
futura intelligenza artificiale autonoma. Ma tale è la forza dei nuovi
mezzi di elaborazione e di comunicazione, che finiscono, inevitabilmen­
te, con l’esercitare una sempre più evidente persuasione occulta. Si
tratta, in un certo senso, di un peccato di nascita, ma anche, in larga
misura, dell’uso che ne fa il potere, sia quello dell’istituzione sociale, sia
quello dell’istituto individuale.
La logica del potere è ampiamente surrogata dal potere della logica:
in queste strettoie è prigioniera l’evoluzione tecnologica. Non si sta qui
spezzando una lancia contro le tecnologie avanzate, ma solo mettendo
in guardia contro i tranelli insiti nella loro natura, che diventano tanto
più efficaci quanto più avanzata è la tecnologia. Una delle caratteristi­
che fondamentali del dominio della parola poggiava sulla tendenza a
usarla come “scrigno di verità”. Verità intesa ovviamente come apodig-
ma assoluto, e non come dimensione dinamica e relativa della nostra
conoscenza: verità dunque di durata eccessiva, superiore a quella delle
parole stesse, e apportatrice di blocchi e di condizionamenti, sempre
dannosi all’indagine sul reale. Ebbene, questa caratteristica rischia di
ingigantirsi nelle nuove tecnologie di comunicazione, e di proliferare in
minacciose metastasi.

XI - Si potrebbe essere tentati di pensare che il particolare tipo di


evoluzione umana è stato reso possibile dal grado di complessità rag­
giunto dalla comunicazione. Ma non appena consideriamo i modi co­
municativi umani come il frutto di una evoluzione del corpo, (la stazione
eretta, le mani, gli ambienti di sopravvivenza, il conseguente sviluppo

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cerebrale, ecc.), ci rendiamo conto che una teoria della comunicazione,
avulsa dai suoi fondamenti originari, rischia di diventare un’altra com­
ponente dell’ideologia del primato dell’uomo, comprese le sue articola­
zioni particolari, (primato della razza, primato della nazione, primato
della classe sociale, primato della forza fisica, primato dell’intelligenza,
primato dell’etica, primato della teologia, primato della verità, primato
dell’io, e così via).
Nella corruzione generalizzatrice, la comunicazione rischia di dimen­
ticare il suo ruolo, che il decentramento ci rivela anzitutto nell’individuo
e nei suoi dialetti: al decentramento liberatorio si contrappone così una
idealistica specializzazione del linguaggio. Se la parola è la traduzione
dell’impulso individuale in forma di simbolo collettivo, già in questo
passaggio si devono cautamente, ma rigorosamente, cercare i primi
processi di alienazione.
Il contatto col sociale, e con l’ambiente in generale, è frenato da più o
meno estesi complessi di colpa e d’inferiorità, da sindromi di paura del
principio d’autorità, e da più o meno abortite impennate della volontà di
potenza. Ma l’impulso al contatto è parte dell’impulso di rafforzamento
della vita. Si è già detto che per impulso o pulsione s’intende un
momento di saturazione, riconoscibile nel cambiamento. Il riconosci­
mento e la descrizione di questi momenti di saturazione, nel movimento
generale delle cose, ci rendono più decifrabile anche l’origine della
comunicazione e del linguaggio, e ci fanno passare indenni tra la Scilla
della idealizzazione entropizzante, e la Cariddi della negazione sistema­
tica, che, per eccesso d’uso, finisce a sua volta col ricadere nella idealiz­
zazione entropizzante che voleva evitare. (Si veda, per esempio il desti­
no di molti sistemi materialistici o positivistici che, non portando alle
estreme conseguenze i loro postulati di partenza, finiscono col tradursi
in vere chiese impregnate di misticismo intellettuale. Come è vero che
l’unico misticismo di cui posso parlare è quello dell’inebriamento eroti­
co, la riconoscenza verso l’oggetto cercato. Cioè la poesia).

XII - Ho chiamato “segno mobile” la particolarità del modo di comuni­


cazione individuale. Non possiamo più nasconderci che questo segno
mobile è, in sostanza, la irripetibile peculiarità del singolo programma
genetico, il quale, a sua voltà è variazione del codice genetico della
specie, e, risalendo all’origine, va considerato una tappa avanzata del
viaggio dell’acido nucleico terrestre. La molla di questo meccanismo si
può chiamare “simpatia”, la cui faccia negativa è appunto l’alienazione.
Nella culturazione umana, ma non solo in essa, la simpatia assume gli
aspetti della compassione, là dove le origini chimiche del processo si

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fanno più complesse, in tutto quel mondo comportamentale che siamo
abituati a chiamare mondo psichico. La genetica molecolare diviene
così, e non certo per capricci sistematici, la prima pagina della biologia:
è facile capire quanto pericolosa sia ogni manipolazione genetica detta­
ta dall’alienazione sociale, soprattutto in relazione a particolari conce­
zioni del mondo, a etiche squisitamente funzionali, e a esigenze egoisti­
camente miopi dei poteri economici e politici.
Siamo ai primi passi della lettura del codice genetico: non si dimenti­
chi in partenza l’azione modificatrice del “lettore”, e non si dimentichi,
soprattutto, che il seme di ogni “segno mobile” è rintracciabile, prima di
ogni funzionale manipolazione, proprio nell’originario materiale gene­
tico. Ogni segno mobile è sempre “hic et nunc”, ogni suo movimento lo
colloca nel suo “posto”. La valenza positiva e negativa di questo “posto”
rispetto alla sopravvivenza, viene individuata in quello sforzo vitale
plurivalente che un tempo ho chiamato “grottesco”, cercando di dare
contorni meno generalizzanti e più strumentali alla terminologia dell’a­
more. Conoscenza e amore qui, dunque, si identificano, perché sono un
unico processo di sfasciamento dell’io, e di invenzione di quella porta
d’uscita dalla quale ci tuffiamo nell’oceano delle relazioni. Il viaggio in
se stessi, ripeto, non è un viaggio geografico, in un inconscio concepito
come altro dalla singolarità genetica, ma è il superamento del concetto e
dei suoi ordinamenti categoriali, in vista di un uso funzionale delle
facoltà o incisioni mnemoniche, messe al servizio della realizzazione
libidica. Il risultato di ogni introspezione ci fa riconoscere e superare le
pressioni archetipe, provocando quel processo di emersione che, altri­
menti, può essere chiamato ideazione. Idea, dunque, come effetto
pratico del clou orgastico quando, partendo dalla concreta provocazio­
ne pittogrammatica, ci spingiamo oltre i limiti dell’ideogramma, oltre le
barriere analogiche e concettuali, verso una ricomposizione della paro­
la nel gesto totale. Contro ogni vizio ideologico, si prospetta, dunque,
una gratificante ideografia, che, ridimensionando il nostro posto nell’u­
niverso, ci possa rendere più pronti a un’eventuale incontro con realtà
biologiche diverse da quella terrestre.

80
CAVITÀ EXTRA-TEATRALE

I - Non posso parlare di teatro se non partendo, ancora una volta da note
biografiche. Certi avvenimenti del periodo infantile incidono profonda­
mente sul destino di un uomo. A sei anni ebbi in dono un grande teatro
dei burattini, nel quale entravo fisicamente, recidando con le mie
marionette drammi solipsistici senza fine. Tra Fortunello, Mio-Mao,
Arlecchino, Aladino e gli altri miei burattini, proiettavo me stesso nelle
vesti di un “veglio della montagna”, cioè di una sorta di nudo eremita,
chiuso in un deserto di memorie: la voce dei suoi monologhi era quella
di un vate o di un profeta. Ancora non so di dove mi venisse quest’imma­
gine: so solo di dove, più tardi, mi è venuto il suo nome. Arlecchino, con
Aladino suo compagno di viaggio, partiva spesso, nelle mie favole, alla
ricerca del vecchio misterioso: forse rivivevo così le ingenue commedie
per burattini dei fratelli Preti, nelle quali spesso Sandrone e Fagiolino
accompagnavano Ercole alPinferno. Gli eroi omerici erano un’altra
costante delle mie favole e, in una gustosa miscellanea temporale, tra
essi appariva spesso un fantomatico Mago Merlino.
La lunga operazione teatrale de “Il Circo”, scritta al Torrione Farne­
se, pesca ampiamente tra questi ricordi infantili. Ma, con una sorta di
entusiastico animismo, trasformavo allora tutto in burattini: pezzi di
carbone, tappi di bottiglia, pupazzi di legno e di metallo, disegni e
immagini astratte. E soprattutto formiche, elefanti, balene, esseri fanta­
stici in movimento tra città e isole, di cui disegnavo mappe a non finire.
Era naturale che il mio più grande piacere fosse quello di ridare vita ai
giocattoli rotti, agli strumenti inutilizzabili o al legno delle piante uccise.
Qui si riconosce l’origine di tutta la mia attività ceramistica, collagistica
e pittorica, e della sua costante tematica dell’“objet trouvé”. Ma anche i
diaspri fossili, che trovavo non lontano da dove ero nato, finivano col
diventare oggetti animati. Questa è la lontana origine del mio costante
interesse per i cristalli e le pietre, nel quale però si infiltrava anche una
sorta di “amuletologia” scaramantica. La mia infanzia era il tempo in cui
i campi di granturco maturo erano grandi foreste, le pozze d’acqua
erano un intero cosmo di vita, e le spire dei torrenti disegnavano isole
per il piccolo Robinson. •
Il teatro dei burattini mi offriva poi una cosa molto importante, cioè
una sede dove potevo, senza pudore, declamare i miei primi tentativi
poetici. E le rudimentali tragedie, che allora scrivevo e che, almeno
esteriormente, echeggiavano le modeste rappresentazioni di opere liri­
che che vedevo nel teatro del mio paese. Ma, sulla fine dell’infanzia,
persi mio padre, morto di infezione nell’esercizio della sua professione

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di medico condotto. Terminava così l’età felice, nella quale io e mio
fratello ci scambiavano i ruoli di pubblico e di attore, e tutto il mondo
sembrava in qualche modo dipendente dal mio particolare nucleo fami­
liare. (Qui, forse, si può rintracciare l’origine di una certa nevrotica
aritmomania per il numero quattro). Devo a mia madre e soprattutto a
mio nonno materno i vantaggi di una particolare educazione antiautori­
taria e antirepressiva. Ma nonostante queste presenze, partì da allora un
mio lungo viaggio nella solitudine: il suo inizio coincideva coi primi
turbamenti puberali. L’adolescenza, come già ho detto, mi ha portato
allo scontro diretto col cattolicesimo e col fascismo, ma, soprattutto, ha
cominciato a tradurre questo scontro in un modo particolare di concepi­
re la poesia come mestiere di vivere.
Le prime tentazioni teatrali si occultavano così di fronte a istanze più
decisamente liriche, e sempre meno epiche e favolistiche. La tentazione
lirica ignorava ancora ogni engagement extrapoetico, proprio perché i
miei rapporti sociali si riducevano a quelli scolastici. Ma la ragione più
profonda di questo nascente lirismo forse va cercata in un’esuberante
natura erotica, che tentava di riconoscersi più a fondo, dopo le compli­
cate precocità sessuali dell’infanzia.
Il bisogno di confrontare la mia poesia con l’impegno civile si sviluppò
di pari passo col mio progressivo ingresso nei movimenti resistenziali
antifascisti. Via via le esigenze della lotta, rese urgenti dalla guerra,
passarono in primo piano, relegando la poesia scritta a una specie di
pudico segreto. Ho già detto altrove che nelle vicissitudini del mio
secondo arresto ho perduto tutti gli scritti dell’infanzia e dell’adolescen­
za: alcuni recuperi di memorie si possono ritrovare nei quattro volumi
de “Il Circo”.

II - Il teatro mi si ripropose massicciamente dopo la guerra. Quando si


esaurì il mio pur fecondo periodo di attività politica nelle file del
ricostituito partito comunista, riemerse un bisogno irrimandabile di
tornare alla mia attività letteraria. Nacque così, dal 1947 al 1953, lo
studio ceramistico del Torrione Farnese, dove per qualche anno tentai
felicemente di realizzare tutte le aspirazioni che riaffioravano in me
dopo l’apocalisse della seconda guerra mondiale. Potevo così, per la
prima volta, circondarmi di animali, di pietre e di fossili, produrre
oggetti di terra o di legno, e soprattutto collages, stendere finalmente
tanti progetti lettarari, costruire e curare i primi formicai artificiali, e
convivere in equilibrio precario con molti animali.
In questo ritrovato “paradiso terrestre” non potevo non ritornare al
teatro, tanto più che gli eventi della Resistenza e i fertili incontri del

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periodo di attività politica mi avevano caricato di un bagaglio bisognoso
di decifrazione, per fare la quale sembrava inevitabile la chiave dram­
matica. Al Torrione Farnese, poi, U mio diagolo quotidiano con la
pittura di Renzo Bussotti, (e più tardi le incisioni di Fiorenzo Giorgi e i
lavori da vera bottega d’arte realizzati da molti giovani allievi) con le
avances “humiane” di Roberto Salvadori e, soprattutto, con la musica di
Sylvano Bussotti, rese più facile il mio primo tentativo di passare dal
teatro pensato e scritto al teatro rappresentato. Ma per arrivarci la
strada sarebbe stata ancora molto lunga, perché a complicare, cioè ad
arricchire, la situazione, mi proponevo già urgentemente l’esperienza
cinematografica come uno degli sfoci naturali di quella teatrale. Quegli
anni sono sufficientemente esemplificati nei volumi de “Il Circo”, che
comprende anche poesie, saggi, drammi e sceneggiature cinematografi­
che del periodo successivo al Torrione, fino al 1960.
Il titolo generale di quei volumi si riferisce a un lungo lavoro teatrale
intitolato, appunto, “Il Circo”. Nonostante alcune ingenuità, mi avvici­
no sempre con commozione a quell’opera perché, oltre al primo effetti­
vo dialogo vivente con l’attività musicale di Sylvano Bussotti, ritrovo in
esso la prima origine di quella concezione del teatro totale che avrei poi
sviluppato negli anni successivi.

Ili - Non posso non ricordare anche un altro aspetto di quegli anni del
Torrione Farnese. La nascita di un centro polivalente d’arte, promossa
da ex partigiani in un piccolo paese della fonda provincia emiliana, non
poteva non suscitare il sospetto del mondo ufficiale, e quantomeno la
diffidenza degli altri, in un periodo di riscatto della piccola borghesia
cattolica, caratterizzato dal predominio democristiano e dalla pesante
tutela di Pio XII. Un centro d’arte polivalente, estraneo alla fiera di un
certo clericume intellettuale di nuovo in corsa, ma in pratica, anche se
non per idee, estraneo alla militanza quotidiana dei grandi partiti di
massa, tale centro era di difficile comprensione per la base dei partiti
popolari, tesa a una conquista sociale, che allora poteva sembrare
vicina. Ma fu quello il tempo in cui più pesò sul partito comunista uno
stalinismo strisciante, ibrida e per fortuna approssimativa adesione
della media burocrazia funzionaristica di sinistra agli stakanovismi, e
soprattutto agli zdanovismi di rito. In quella situazione diventava di
difficile comprensione persino la nostra stessa scelta di ritorno al lavoro
artistico personale, e si metteva più o meno apertamente all’indice il
carattere stesso dei nostri prodotti, estranei al realismo socialista. Ho
voluto ricordare queste cose, perché proprio in quegli anni cresceva in
me il rifiuto per il centralismo democratico, non per uno spostamento a

83
destra, ma, al contrario, per il bisogno sempre più grande di tornare alle
origini, e di espellere ogni infiltrazione autoritaria dal marxismo. Que­
sto processo mi porterà, nel 1956, a uscire dal partito comunista, dopo
alcuni abortiti tentativi di protesta in sede congressuale. Ma la mia,
ripeto, era un’uscita a sinistra e non a destra: mi sentii subito lontano da
quegli intellettuali “socialisti” che utilizzavano la protesta per i fatti
d’Ungheria come mezzo per spingere il carro popolare verso recuperi
socialdemocratici di dubbio segno. Restavo così da allora un cane
sciolto, ma anche un compagno di strada dei comunisti e di tutti i
movimenti disposti a battersi per una democrazia integrale. Comunque,
il Torrione Farnese sembrava proprio fatto per non contentare nessu­
no. L’utopia promozionale che lo sorreggeva, infatti, non ha potuto
garantirgli una lunga durata.

IV - Nel ciclo de “Il Circo”, ovviamente, il vero protagonista ero io,


anche se il “veglio della montagna” ora si chiamava Arlecchino. Ma­
schera delle maschere, (come è vero che persona vuol dire maschera),
Arlecchino diventava cantore, attore, registra, pubblico di se stesso.
Questo Arlecchino-Narciso si specchiava in Aladino, il suo naturale
erede, che a sua volta si specchiava in Pierrot, simbolizzando così la
continuità del discorso poetico. Il cerchio si dissolveva nella spirale: il
circo si traduceva in una poliedrica proposta di teatro aperto a tutte le
istanze, dal dramma di strada e dal teatro gestuale alle prime esperienze
cinematografiche. Di quegli anni è appunto la realizzazione di “Pochi
stracci di sole”, ultimo episodio di un film a episodi mai terminato, che
era intitolato “Quattro giorni prima dell’alba”. La regia mi si proponeva
allora come un modo efficace di teatro totale, ecletticamente ed empiri­
camente aperto a ogni esperimento, ma anche totalmente immerso
nella realtà sociale. Sono di allora le mie prime avances verso il “palco
mobile”, verso il superamento della cavità teatrale, verso un cauto
ritorno della poesia nel teatro, se tentato con modalità diverse dal teatro
letterario e di maniera. La ricerca di un gesto drammatico totale mi
portava, oltre le performances e gli happenings, a contrapporre alla
rappresentazione la “presentazione” diretta. Nasceva nelle mie inten­
zioni, un nuovo lungo laboratorio teatrale, che, grazie all’isolamento in
cui mi trovavo, faticava già sul nascere a trovare uno sbocco in prodotti
finiti.
Conobbi molto più tardi, cioè dopo il ’65, il teatro di Artaud, di
Grotowsky e del Living Theatre, ma ormai le scelte erano fatte e, più
che di una scoperta, per me si trattava di una relativa conferma e di un
fruttuoso scambio di esperienze.

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In quel periodo persisteva ancora in me l’influenza della Commedia
dell’Arte, come una sorta di apollineo e dionisiaco letti in chiave folk.
Mi ha sempre affascinato la scrittura a canovaccio, come proposta
scenica a più soluzioni, e come forma di indagine del rapporto tra
l’opera e la sua “creation”. Indagine critica che trascendeva rapidamen­
te i limiti del campo teatrale, per coinvolgere tutti gli aspetti dell’arte, e
tendere a trasformarsi, alla fine, in un modo di vivere.

V - Cercavo già allora le porte d’uscita dal teatro, anche se restavo


ancora totalmente immerso nella fascinazione teatrale. Vale la pena
aprire qui una prentesi sul discorso cinematografico, che, come ho detto
prima, mi appariva allora un’estensione di quello teatrale, positivamen­
te soccorso da nuovi e originali extra-teatrali. Cercavo, insomma, più le
affinità che le differenze tra cinema e teatro, tanto più che la mia prima
preoccupazione era quella di uscire dalla cavità teatrale, non solo nel
senso di nuove scelte per i luoghi del rito, ma anche in direzione dell’uso
di nuove tecniche. Ogni pièce teatrale era da me pensata anche nella
dimensione musicale, (lontana da ogni idea di commento musicale e di
librettismo), e anche nella dimensione cinematografica. Questa è la
chiave della mia collaborazione con le opere musicali prima di Sylvano
Bussotti e poi di Vittorio Gelmetti, ma è anche la chiave di lettura di
tutte le mie sceneggiature cinematografiche. Naturalmente il mio modo
di lavorare mi ha creato subito enormi difficoltà in sede di produzione.
Di fronte a queste difficoltà, mi sono abituato a privilegiare il laborato­
rio sull’operazione compiuta, con quell’eccesso di rigore che spesso si è
ripercosso su di me come un boomerang.

VI - Dopo “Il Circo”, guardavo al testo come alla variazione su tema di


un pretesto sostanzialmente costante. Ma via via si profilava l’amplia­
mento del testo in quel “contesto” dialogico che caratterizzerà i “per­
corsi liberi” di “Virulentia”. Il contesto non era tanto la risposta dell’at­
tore, quanto la trascrizione del dialogo tra registra e attore, conseguente
alla battuta d’avvio proposta dal regista come autore. L’attore doveva
dunque essere strumentalizzato dalla regia in modo così totale da
riconquistare, per saturazione, una sua rinnovata libertà d’azione, che a
quel punto sarebbe stata semplicemente il momento di convergenza con
le proposte della regia. L’attore diveniva così sempre più un operatore:
questo non contraddiceva il teatro d’autore, proprio perché ogni esten­
sione della ricerca operativa trovava le sue ragioni e le sue direzioni
nella provocazione dialogica del testo. Non si trattava di saccheggiare,
tradire e negare il testo, ma di intenderlo come opera aperta in tutte le

85
direzioni. Il dialogo regista-attore, (anche nel caso del regista attore di
se stesso), si trasformava in un conflitto da ricomporsi progressivamente
nel punto d’incontro della presentazione del tema. Da una certa ottica il
regista diveniva l’unico reale attore del suo teatro, ma in un’ottica più
allargata l’operazione teatrale diveniva un coro di cui corifeo era la
regia. E’ ovvio che mi riferisco sempre alla regia d’autore, che, a rigor di
termini, non può essere mai collettiva.
La sperimentazione del laboratorio diveniva così il posto del teatro: le
singole operazioni erano la reminescenza di quel “posto mobile” nel
quale il frammento diviene poesia, la cronaca si fa storia, e l’astratto
cede al concreto. L’operazione teatrale, come ogni altra operazione
artistica, rifiutava ogni engagement politico o ideologico, proprio per­
ché l’impegno va cercato nella globalità della personalità artistica,

VII - L’approdo a “Virulentia”, negli anni ’60, non è stato indolore.


Sembrava allora che ogni istanza libertaria fosse un flashbak inutilizza­
bile, oppure, por sopravvivere, dovesse scivolare verso future eversioni,
e, di conseguenza, verso prospettive e metodi autoritari, non dissimili da
quelli combattuti. Era facile per me respingere tantazioni eversive, ma
più difficile mi risultava vivere una impietosa e continua crisi d’identità.
Nel periodo intermedio tra “Il Circo” e “Virulentia”, dopo una
costante collaborazione con Sylvano Bussotti e un breve incontro con
Carmelo Bene, cominciai a sentire improrogabile il bisogno di una regia
totale, comunque non divisibile con altri collaboratori. Era quello il
tempo in cui sognavo teatri galleggianti, palchi sospesi a mongolfiere,
sale con le pareti mobili, villaggi interamente coinvolti nell’azione
drammatica, sedi extrateatrali di spettacolo, e, soprattutto, teatro di
strada. Tutta questa effervescenza si raccoglieva in quella operazione
che chiamavo “Cartella Tofner”, di cui “Virulentia” diventava una
velina, la cartella poi si sarebbe allargata in un’operazione ancora più
vasta, per spazi e durata, cioè “BaUm”. Se “Virulentia” non è mai
terminata, neppure nella stesura cinematografica, “BaUm” è rimasto
sempre una promessa a lunga scadenza.
L’idea di “Virulentia” è del 1946, ma i primi “Bandi” si sono celebrati
nel ’65 a Roma, dove mi ero già spostato dal 1962. Il tema più generale
di “Virulentia” era la lotta radicale e non violenta contro ogni violenza,
soprattutto contro la sua forma più insidiosa, cioè la persuasione occul­
ta. Chiamavo “Bandi” una serie di spettacoli autonomi e monografici,
che preannunciavano lo spettacolo finale, in cui il tema si sarebbe
espresso totalmente, integrando gli stessi Bandi, che in sostanza erano
appunto variazioni su tema. Il decimo Bando avrebbe avuto una stesura

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teatrale e una stesura cinematografica, l’una relativamente speculare
all’altra. Purtroppo, un assurdo periodo di carcerazione interruppe nel
1967 il mio lavoro e, quando nel 1970 lo ripresi, ormai l’operazione si era
caricata di troppe valenze per poter arrivare serenamente in porto.
Comunque ho continuato, allora e anche dopo con l’“Anticrate”, quel
tipo particolare di laboratorio che chiamavo teatro di posa. Si trattava di
un complesso giuoco di specchi tra cinema e teatro, mirante a far
emergere il tema della “virulenza”, intesa come un risveglio energetico
dopo una lunga incistazione, risveglio in se stesso neutro (come il
cavallo di centro del mito platonico dei tre cavalli), ma nel dramma
utilizzabile come arma contro la violenza. Tuttavia, nonostante promes­
se a non finire, nessuno mi ha aiutato finanziariamente e produttiva­
mente a concludere “Virulentia”, sia sul set teatrale che cinematogra­
fico.

V ili - “Bando”, alla lettera, voleva significare annuncio, grido del


banditore, canto dell’araldo: come scriveva un giornale in quegli anni,
tutta la città ne diventava un palco naturale. Il primo Bando descriveva
la nascita dei nomi delle cose, e si svolgeva simultaneamente in quattro
diversi luoghi extrateatrali. Il secondo Bando era centrato sulla paura, e
si teneva in nel grande studio di pittura di Giancarlo Nanni, allora mio
aiuto. Il terzo partiva dall’“orgone” di Reich, e si rappresentava in un
circolo proletario, dove tenevo anche una mostra di collages insieme a
Gianpaolo Berto. Il Bando sfociava in un dibattito come in un naturale
complemento. Il quarto Bando avvenne sulla spiaggia di Ostia, il quinto
nella piazza di Ostia Antica, e il sesto e settimo nel Teatro del Leopardo,
utilizzato in tutti i suoi ambienti. Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo
Bando avevano un tema in comune, cioè il giuoco, il giuoco “diletto,” in
tutte le sue variazioni, compresa la sua risoluzione nel “delitto” sociale.
L’ottavo Bando centrava il problema dei cerimoniali, partendo dal
rito del tè giapponese. Ma questo Bando, e il nono sulla persuasione
occulta, non arrivarono alla presentazione pubblica, perché nel 1967 fui
arrestato. Nei due anni di prigione mi abituai a considerare nono Bando
la mia stessa situazione coatta, e di qui nacquero, su fogli volanti,
“Graph”, “Ododrama” e “Theatri Epistola”, raccolti nel volume edito
da Feltrinelli. Il decimo Bando avrebbe dovuto essere la rappresenta­
zione finale, ma dopo le difficoltà produttive, il laboratorio di “Virulen­
tia” si risolse naturalmente, nel 1973, in quello dell’“Anticrate”.
Gli attori dei Bandi non erano professionisti, ma venivano scelti da
me in base a provini centrati sulle possibilità dialogiche. Anche il
pubblico veniva scelto, e a numero chiuso: il primo Bando era per soli

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giornalisti, il secondo per pittori, il terzo per operai, il quarto per
bambini, il quinto, il sesto e il settimo per musicisti. L’attore agiva in
mezzo al pubblico, ma non era prevista alcuna provocazione. Il coinvol­
gimento, semmai, avveniva in forma di sollecitazione e di richiamo
mnemonico.
Io agivo personalmente tra gli attori, cercando di interpretare il ruolo
di corifeo, sia attraverso un partner, sia in un dialogo diretto con gli altri
operatori.

IX - Nell’operazione di “Virulentia”, lo spettacolo aveva inizio dal


primo giorno di laboratorio, nel quale regista e operatori erano pubbli­
co a se stessi. Ogni prova era uno spettacolo intero, e via via gli invitati
alle prove componevano l’immagine di un pubblico. Le singole prove si
integravano tra loro, come singole cellule di un organismo, nello spetta­
colo finale, che era insieme il prodotto della saturazione e una sua
variazione. Effettivamente non c’era limite a questa progressiva satura­
zione: si dava il nome di spettacolo alla prova che la regia riteneva più
matura e più integrata. La saturazione avveniva anche nella progressiva
occupazione di tutti gli spazi dentro e fuori il palcoscenico: l’attore si
abituava progressivamente all’idea di uno spazio totale, che abbattesse
le pareti chiuse, e di un corpo proiettato in uno spazio senza gravità,
come un astronauta che in ogni luogo del cielo fosse sempre al centro
dell’universo. Questa centralità doveva essere acquisita non come reifi­
cazione del primato umano, ma al contrario come drastico ridimensio­
namento dell’uomo, del suo corpo e della sua cultura.
Ogni attore veniva posto fin dall’inizio nella critica e provocatoria
situazione di uno strip-tease culturale, che, eliminando via via i vari
gradi di esibizione, lo lasciava alla fine nudo nella sua più grande
povertà di gesto e di linguàggio. Si trattava di una regressione infantile
non finalizzata ad alcuna terapia: l’operatore si metteva nelle condizioni
migliori per spogliarsi dei comandi sociali. Lo psicodramma era dunque
solo un aspetto, del tutto strumentale, della interpretazione.
Gli esercizi si dividevano in tre fasi. La prima era il “decollage
analinguistico”, la seconda l’“improwisazione automatica”, e la terza la
“dialogazione contestuale”. In queste pagine non posso che accennare
brevemente alle caratteristiche delle tre fasi. Nella prima il testo veniva
diviso in tante “microscene”, alcune delle quali riducibili a una sola
battuta. Ogni microscena, intesa come un microcosmo che conteneva in
sé tutto lo spettacolo, veniva destrutturata, fino a ridursi a una pura
proposta gestuale di tipo automatico. La dissoluzione di tutti gli eie-
menti “connettivi” della battuta lasciava indenni solo i nomi e i verbi,
cioè gli oggetti e i loro movimenti. Gli operatori scavavano in sé le
accezioni più personalizzate di questi nomi e di questi verbi, trasfor­
mandole, come dicevo, in movimenti automatici, cioè non casuali, ma
dettati dalla saturazione, secondo il criterio dell’unica improvvisazione
possibile. In un giuoco alterno, le parole divenivano gesti, e i gesti
venivano automaticamente tradotti in nuove parole, fino a che l’attore si
trovava in mano una battuta che, se il processo era stato rigoroso, si
rivelava alla fine come una variazione del testo, cioè una sua conferma.
La seconda fase cercava nel materiale contestuale così accumulato le
costanti individuali, attraverso le quali l’operatore riconosceva le pro­
prie peculiarità caratteriali, da utilizzare per interpretare in modo
singolare il carattere del personaggio, al di là di ogni tentazione tipologi­
ca. La terza fase era il ritorno al testo, finalmente posseduto, e il suo
arricchimento con l’integrazione delle parti più vitali del materiale
contestuale. L’attore compiva così un vero viaggio, simile al “trip”
psichedelico solo nel rifiuto di una concentrazione intellettuale, e nella
ricerca della meditazione attraverso un processo di radicale “deconcen­
trazione”. '

X - Scopersi più tardi che, nonostante le innegabili affinità, mi divideva


da Grotowsky il suo aristocratico concetto di “santificazione”, non del
tutto privo di residui misticheggianti, e propenso alla torre d’avorio di
un’élite che tuttavia non rifiutava il “mecenatismo” del potere. Dal
Living Theatre, invece, mi distingueva il taglio religioso e messianico
che esso dava al messaggio libertario. Grotowsky poi attribuiva alla
parola uno spazio a mio parere ancora troppo ampio, e lo stesso Living
credeva ancora a qualche sopravvissuta forma di rappresentazione,
dato che l’urgenza del messaggio che si proponeva non lo faceva sempre
attento alla indivisibilità tra forma e contenuto, e alla necessità di
identificare messaggio extrapoetico e linguaggio poetico.
Restava per me fondamentale il principio che ogni prova era un
cosmo intero, che in qualche modo riproduceva lo stesso processo
biologico. In ogni intervento, come nell’integrazione dei vari interventi
tra loro, l’operatore seguiva lo schema funzionale orgastico, secondo le
fasi di “rarefazione - condensazione - palteau - saturazione - scatto”.
Questa tecnica non presupponeva una concezione ciclica del lavoro. Se
non c’è scatto che non instauri una nuova rarefazione, non c’è rarefazio­
ne che sia identica a un’altra. Il meccanismo utilizzato si caricava così
dei colori della premonizione, cioè di quella ipotizzazione del prossimo
futuro che nasce dal pensiero saturo di passato. (In un dibattito sono

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stato confrontato ai topi di chiavica che avvertono l’arrivo dell’acqua).
Ma, fuori dalla ricerca teatrale, tutto questo per me non era una novità:
nel senso suddetto, la poesia è sempre un presagio.

XI - Per quanto avesse fini diversi, lo psicodramma teatrale non poteva


non sfiorare continuamente i campi diagnostico e terapeutico. Ma di
fronte all’emergere di istanze del genere, compito della regia era quello
di individuare due sbocchi diversi. Un eventuale bisogno diagnostico e
terapeutico doveva chiaramente essere dichiarato estraneo alla conti­
nuazione dell’operazione teatrale, perché rientrava nei bisogni e nelle
scelte della privacy individuale. Tuttavia erano abbastanza rari i casi in
cui le esigenze della terapia psicoanalitica prevalevano su quelli artistici.
I frutti dello psicodramma teatrale venivano invece utilizzati per il
conseguimento di una catarsi individuale, precedente a quella collettiva
del gruppo operativo, e a quella dello spettatore. E’ ovvio che l’accezio­
ne stessa della catarsi aveva caratteri peculiari. Non si trattava tanto di
un’idea morale, cioè conseguire il bene con una shoccante rappresenta­
zione del male. La catastrofe, qui, si identificava con lo scatto di satura­
zione, e si riferiva non tanto ai fenomeni della coscienza sociale, quanto
all’esigenza fondamentale di integrare l’individuo nella sua globalità,
poi l’individuo nel suo gruppo sociale e, ancora, l’individuo e la specie
nel loro naturale alveo biologico. Il lavoro di regia presupponeva così un
osservatorio d’altitudine, che non staccasse gerarchicamente il regista
dall’operatore, ma gli permettesse di svolgere la sua fondamentale
azione maieutica.
Ora mi sembra che dovrebbe essere più chiaro il concetto di “uscita
dal teatro”: si trattava di uno scavo archeologico, alla ricerca di quei
legami che univano il teatro all’arte in genere, e il linguaggio artistico
alle altre forme di comunicazione, e la comunicazione alle altre forme di
conoscenza. Questa integrazione ci allontanava solo provvisoriamente
dal teatro, ma alla fine ce lo restituiva non più come termine ideale, ma
come strumento provvisorio e deperibile. Per quanto riguarda l’even­
tuale ricatto della coazione a ripetere nell’iteratio poetica, e, ancora, per
le tematiche dei complessi psichici e del loro legame con gli archetipi,
una cronaca biografica già ci sposterebbe al posteriore ciclo de “Le
ballate dell’Anticrate”: ad esso sono arrivato in un momento in cui
l ’eccessivo privilegio del gesto sulla parola mi aveva creato non pochi
blocchi e difficoltà. Comunque, prima dell’“Anticrate”, molto del mio
impegno per “Virulentia” andava in direzione della sua edizione cine­
matografica, che, come ho detto, non è mai stata portata a termine. Il
breve lavoro di Alberto Grifi sui Bandi, intitolato “Transfert per came­

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ra”, non può essere considerato, se non per alcuni aspetti documentari­
stici, parte di questo processo.
XII - Prima dell’inizio del laboratorio dell’“Anticrate”, c’è stata una mia
esperienza singolare di teatro rappresentato: si tratta di un lavoro
ispirato al “Filottete” di Sofocle, col titolo “L’altra ferita”: l’avevo
scritto in prigione, su sollecitazione di Franco Enriquez. Quell’episodio
è stato un bagno gioioso in tutte le strutture classiche del teatro, e in un
certo senso, una vacanza nella mia ricerca. L’operazione registica, di
rigorosissimo impegno, da parte di Enriquez si è però inevitabilmente
scontrata con linguaggio e intenti troppo diversi dai suoi: ne è risultato
un lavoro tecnicamente ineccepibile, ma relativamente freddo, come un
perfetto disegno geometrico, anche se il prodotto registico finale rag­
giungeva un innegabile fascino magico. Mi piace comunque ricordare
quel periodo e quella collaborazione come un momento felice, durante
il quale ho potuto tuffarmi nei fascinosi parametri del “teatro di teatro”,
senza conflitti formali e senza inutili contraddizioni. Non a caso, il
Filottete del mio testo si chiamava Saul Tofner, antico nome del mio
identikit: nell’uomo emarginato dalla peste e dalla ragione di stato,
specchiavo, con me, tutti quegli emarginati, in gran parte di origine
proletaria, che avevo conosciuto nei due anni di prigione. “L’altra
ferita” mi ha permesso una collaborazione straordinaria con la musica
elettronica di Grossi: questa collaborazione è stata la fortunata occasio­
ne che mi ha aiutato a riprendere, senza più indugi, il mio laboratorio.
L’innegabile compromesso de “L’altra ferita” ha avuto più tardi un altro
effetto positivo, perché mi ha aiutato, nel 1977, a ricollegarmi ad alcuni
motivi del teatro di parola, nell’esperienza sarda de “Il mercatino”.

XIII - Nel periodo di “Virulentia” chiamavo “percorso libero” la parte


del lavoro dell’attore che più era legata al decondizionamento della
battuta, affidato a un meccanismo automatico che poteva arrivare ad
assumere i caratteri di una vera trance. Questo aspetto fu il punto di
partenza anche del nuovo ciclo. Il mio Filottete - Saul Tofner si era
ridotto all’immagine di un “ometto senza qualità”, vittima inconsapevo­
le della violenza, e anarchico “per forza”. La favola di questo personag­
gio, che ho chiamato Anticrate, è quindi l’emblema della ripresa deH’in-
dagine libertaria. Nel 1949 mi ero laureato in filosofia con una tesi sul
“grottesco”, riportata ne “Il Circo” e ne “Le prigioni di Stato”. A
distanza di tempo, l’ometto Anticrate poteva essere considerato una
personificazione grottesta: la sua fatica di vivere e di amare, fatica,
appunto, grottesca, si poteva risolvere nel fallimento angoscioso, o nella
gioia dell’amore spiegato. Il laboratorio dell’“Anticrate” durerà dal ’73

91
al ’75, ma avrà un’appendice nella stesura di una trasmissione radiofoni­
ca, intitolata “Le ballate dell’Anticrate”, che spero di realizzare in un
prossimo futuro.
Nasceva così un nuovo laboratorio: il suo attore doveva essere indivi­
duato per affinità elettiva, e soprattutto doveva rivelare una decisa
sensibilità libertaria. Su questo piano c’era una relativa novità: l’“Anti-
crate” metteva in crisi la stessa istanza comunitaria, in quanto considera­
va il momento libertario come il costante inizio di ogni processo di
liberazione continua: risaliva cioè alla solitudine del punto di partenza.
Il personaggio Anticrate era un mio nuovo identikit, ma era anche
l’occasione che poteva fare di ogni operatore un Anticrate. Il laboratorio
partiva in pratica dalla contrapposizione tra concentrazione intellettua­
le e deconcentrazione immaginativa. Solo la deconcentrazione avrebbe
potuto configurare un “gesto intero”, che potesse coinvolgere il corpo e
il suo “posto”. Era l’estremo sforzo di passare dal metodo al criterio,
portando alle estreme conseguenze le tecniche già instaurate in “Viru-
lentia”.

XIV - Anche nel caso dell’“Anticrate”, l’operazione si estese oltre i limiti


del teatro. Era quello il periodo in cui progettai, ahimè inutilmente, “La
pulce”, come giornale di cronaca totale, e diedi il mio contributo ai testi
psicodrammatici delF“Imprinting”. Ma in quei giorni la lettura de “La
scuola del profitto” di Oppenheimer mi stimolò a stendere per iscritto
un’opera teatrale intitolata “L’impresa”. Si tratta di un testo molto
complesso, ma, nonostante le apparenze, irrealizzabile coi canoni classi­
ci. L’unico modo di mettere in scena un lavoro del genere sarebbe
multimediale, e dovrebbe mirare a far emergere quel meccanismo della
nascita, trionfo e morte dell’impresa, di cui il testo scritto è solo un
esempio. I rapporti tra il concetto più ristretto di impresa e quello di vita
si evidenziano, in questo lavoro, in stretta connessione con quella ricerca
delle istanze libertarie che, parallelamente, si svolgeva nel laboratorio
dell’“Anticrate”. Comunque, la stesura de “L’impresa” mi ha portato in
quei giorni a concepire altri lavori, sia pure frammentari, i più importanti
dei quali sono: “La macchina del Bakunin” e “La pulce di Hoffman”. Nel
primo di essi il tema della militanza politica, e nel secondo le istanze
della favola, miravano in egual misura a illustrare, con modalità anche
per me inedite, le tecniche dell’“essai deliée” esposte in “Graph”.
Questi lavori, a partire da “L’impresa”, rientrano così in una lunga
schiera di opere in stallo di attesa, il cui capofila era il lontano “Circo”.
Tengo a precisare che non è indispensabile, per i fini che si proponeva­
no, una loro stesura definitiva, o una lora mise en scène. Importante,

92
invece, resta il loro carattere di tappe di sviluppo di una scrittura poetica.
La stessa cosa si può dire di molti treatements cinematografici di allora,
compreso quello dell’"Anticrate”. Dopo quattro anni di promesse sfac­
ciate e imprudenti, anche in questo caso nessuno mi ha aiutato a
realizzare il film.

XV - Il laboratorio dell’“Anticrate” deve essere considerato una natura­


le evoluzione di quello di “Virulentia”. Tutte le tecniche di quest’ultima
si affinano e si radicalizzano, ma un certo riapparire di alcuni ristretti
parametri più squisitamente teatrali è ormai reso possibile da una loro
più rigida strumentalizzazione. L’uso stesso della parola trova un equili­
brio maggiore rispetto al gesto. Pur restando invariate le critiche delle
precedenti indagini, e tutte le loro conseguenze, si guarda più serena­
mente, e con un eclettismo più empirico, a tutti i parametri teatrali
vecchi e nuovi.
Non si era compiuta allora nessuna opera di disinfezione. Nessuna
palude era stata criminosamente prosciugata. Nessun virus era stato
indiscriminatamente assassinato. Non si trattava di cedere a qualche
riflusso rinunciatario: iniziava un confronto più approfondito e più
aspro, ma non per questo povero di gratificanti promesse. Per esempio,
le tecniche della deconcentrazione, del percorso libero e della ricerca
delle costanti, erano certamente più puntualizzate, ma nello stesso
tempo utilizzavano un meccanismo più elastico e più adatto alla mia
nuova situazione culturale. Questo non significa che il laboratorio
dell’“Anticrate” avrebbe potuto sfociare più facilmente in opere com­
piute. Esula dai fini di questo scritto analizzare più da vicino gli ostacoli
apparentemente insuperabili che hanno frenato, fino a bloccarlo, il
ritorno ai luoghi teatrali.
La nuova strada intrapresa mi ha portato nel 1977 a concepire “Il
mercatino”, operazione teatrale di respiro relativamente diverso. L’o­
pera, che riciclava alcune mie vecchie pièces, verrà preparata in un
barcone sul Tevere e vedrà ben quattro repliche in uno spazio di
Cagliari. (Vorrei ricordare una mia naturale idiosincrasia per ogni
forma di replica, soprattutto per le ripetizioni uguali a se stesse). Sicura­
mente “Il mercatino”, pur coi suoi innegabili meriti e coi suoi pregi di
originalità, ha peccato anche di qualche vistosa contraddizione. Anzi- ,
tutto il cast era composto di due gruppi che non potevano amalgamarsi
tra loro: da una parte gli operatori più vicini al mio laboratorio, e
dall’altra un gruppo di attori provenienti da esperienze più tradizionali.
Entro certi limiti, la cosa ha potuto anche essere stimolante, ma non
pochi sono stati gli equivoci e i compromessi, che alla fine mi hanno

93
portato a interrompere le repliche. In secondo luogo tutte le tecniche
proprie del mio lavoro hanno subito una relativa pausa, nonostante il
teatro di parola riapparisse drasticamente ridimensionato.
Nel 1978, poco prima del completamento di questo scritto, ho comin­
ciato la stesura e la regia di particolari trasmissioni radiofoniche. La
prima è stata “Lo scandalo deH’immaginazione”, che si riferiva soprat­
tutto, in forma di articolato reportage, al capovolgimento della cronaca
tradizionale.

XVI - Il discorso sul teatro resta aperto. Molti progetti si affollano sotto
la mia penna nel momento in cui mi appresto a congedare questo
scritto. Sento ancora impellente il bisogno di verificare e di approfondi­
re le tecniche inaugurate fin dalle lontane proposte de “Il Circo”. Sento
soprattutto il bisogno di completare in qualche modo molte ricerche
rimaste incompiute, ma non posso tacere una persistente resistenza a
concludere le operazioni di laboratorio, tanto più oggi che un’innegabi­
le riflusso culturale può essere foriero di facili equivoci.
La domanda centrale è sempre quanta attuale validità resti non solo
allo strumento teatrale, ma al linguaggio artistico in genere. La massic­
cia e spesso grossolana invasione televisiva comincia già a manipolare in
modo pericoloso la sensibilità e la disponibilità delle masse. Sembra
che, per i più, diventi difficile e noioso pensare, oggi ancora più di ieri.
Naturalmente, la mia ricerca può continuare là dove riesca a individua­
re élites disponibili alla dura umiltà del laboratorio, al gratificante
recupero della memoria e alla spregiudicatezza culturale. Oggi un’even­
tuale ripresa del teatro presuppone una sorta di rivoluzione copernica­
na, che rimetta l’uomo al suo giusto posto nell’universo, e ponga al
centro della sua attenzione la lotta contro il degrado ecologico.
Ritengo fondamentale, oggi più che mai, concepire ogni operazione
artistica, prima ancora che un rafforzamento della vita, un contributo
importante allo sforzo più grande di sopravvivenza.

94
LE ANIMULE DEL GOLEM

I - Più volte in questi scritti mi sono riferito a un processo penale di


plagio, (articolo 603 del codice Rocco), subito da me alla fine degli anni
’60. Mi sembra giusto che ora apra una parentesi su questo episodio.
Il reato di plagio è una trista eredità della legislazione fascista, la cui
utilizzazione da parte delle accuse private ha rivelato la minacciosa
presenza di un sottosuolo italiano torbido e revanscista. Mi riferisco alle
accuse private, perché l’accusa pubblica semmai ha peccato di legalitari-
smo, accettando di utilizzare un articolo del codice che proprio in questi
giorni è stato denunciato alla Corte Costituzionale. Su questo legalitari-
smo il discorso sarebbe lungo, perché coinvolge tutti quei giudici che
hanno applicato alla lettera il Codice corrente, restando, a volte anche a
malincuore, entro i limiti dell’istituzione, persino nei casi in cui l’istitu­
zione assumeva aspetti pesantemente repressivi, come nel regime fasci­
sta o, addirittura, eversivi e antipatriottici, come sotto la Repubblica di
Salò. Il giudizio su una situazione del genere si complica se teniamo
conto dei caratteri del processo italiano, ben lontano dal garantire
legalmente i diritti dell’imputato, come nei processi di tipo anglosassone.
Questo giudizio si può allargare a tutti quei casi di coscienza nei quali,
dovendo scegliere tra le leggi sociali e morali correnti e la necessità di
rivoltarsi a esse nel nome di una sofferta scelta morale, si esita e si piega la
testa pur di non rischiare la propria carriera, e a volte la propria vita, e pur
di non essere giudicati banditi o delinquenti da un’opinione pubblica
spaventata, o semplicemente conformista o, peggio ancora, servile. Nel
momento della decisione, tutti i ribelli al sopruso e all’ingiustizia si
trovano soli a decidere o, comunque, senza il conforto di facili consensi. I
consensi verranno più tardi, quando, come nel caso della guerra partigia-
na o di qualunque guerra di liberazione, come di ogni radicale evoluzione
della società democratica, tutti i giuochi saranno già fatti, e già si apriran­
no le porte ai nuovi gregari, ai nuovi conformisti legalitari, ai nuovi servi
di palazzo, che poi, molto spesso, sono i vecchi servi mimetizzati.
Si potrebbe però obiettare che il caso del processo di plagio non rientra
in questa casistica, perché l’articolo del Codice a cui si riferisce vuole
essere una sintesi, peraltro inutile, di molti reati già contemplati dal
Codice, e soprattutto vorrebbe essere una barriera morale contro la
sopraffazione e la prevaricazione. Ma questi giudizi cadono se esaminia­
mo la formulazione e i commenti ufficiali dell’articolo 603. Di questo
parleranno le pagine seguenti.

II - Sia nel corso del processo e della prigionia, che durante il periodo

95
successivo, avevo deciso di non riconoscere alla società il diritto di
utilizzare il plagio contro di me, e avevo scélto un atteggiamento di
resistenza passiva, convinto com’ero che solo la modificazione del
Codice avrebbe potuto bloccare i cavilli legalitari e le contorte passioni
extraprocessuali. Per questo, tranne che in casi particolari, ho scelto di
tacere durante e dopo il processo, aspettando i tempi di un più sereno
giudizio d’altitudine. Tengo a rivendicare le mie scelte di allora, perché
le ho pagate di persona, subendo, come era inevitabile, non solo le
volgari accuse della parte avversa, ma anche le distorsioni perbeniste
della parte alleata, che sono sempre state più attente a una battaglia di
principio che non a una demolizione, a parer mio necessaria, delle varie
e grottesche accuse particolari e specifiche, spesso false, e comunque
sempre frutto di una distorsione. Non è stato facile ricostruire la propria
vita e il proprio lavoro travolti dai mefitici miasmi della calunnia, come
d’altra parte non è stato facile neppure rifiutare decisamente alcuni
vantaggi che mi sarebbero potuti derivare da una popolarità non richie­
sta e non desiderata. Ma sono stato aiutato dall’esperienza che avevo
acquistato nella Resistenza e negli anni successivi. Anche allora credo di
essere stato uno dei pochi che non hanno mai sfruttato né sul piano
economico né sul piano politico la loro lunga battaglia. Mi sorreggeva
sempre il conforto dell’etica spinoziana: “beatitudo non est virtutis
premium sed ipsamet virtus”. Ammonimento, questo, lontano dai ma­
nicheismi e dai moralismi di maniera: la virtù di cui parla Spinoza non è
un privilegio o la sanzione di una superiorità, ma è piuttosto l’estensione
del problema etico alle stesse caratteristiche della vita e dell’universo,
fino a una loro identificazione. D’altra parte, nessuno può accusarmi di
aver fatto di questa posizione morale un comodo alibi. Non confrontavo
la lotta partigiana con le cronache processuali, ma di una cosa sono
sempre stato sicuro: pur tenendo conto delle diverse condizioni storiche
e ambientali, la battaglia era sempre fondamentalmente la stessa. Ne è
prova l’accanimento dell’accusa privata, e, soprattutto, la sua colloca­
zione politica e sociale. Ne è anche prova l’eco profonda che ha avuto il
processo in campo nazionale e internazionale, dividendo letteralmente
l’opinione pubblica in due tronconi, dei quali quello ostile, dopo un’im­
pennata iniziale, ha avuto un calo progressivo, mentre quello favorevo­
le, dopo il confuso spavento e la sorpresa dell’inizio, ha avuto una
crescita sempre più decisa.
C’è un’altra ragione dell’eco suscitata da questo processo, che è stato
l’unico processo di plagio veramente celebrato: la materia messa in
discussione dall’utilizzazione dell’articolo 603, era tale da toccare la
coscienza morale e civile di tutti i cittadini. Si trattava di discutere delle

96
libertà individuali di fronte alla società e allo Stato, dei limiti dello Stato
di fronte alla privacy individuale, e dei limiti delle libertà e dei diritti
individuali di fronte alla libertà e ai diritti degli altri. Chi non era
interessato a queste problematiche, soprattutto quando imputato di un
reato di “liberticidio” era un noto combattente per la libertà? C’era
tanto per menare grande scandalo, da parte dei sanfedismi oscurantisti,
che vedevano nell’imputato l’utile idiota giunto al momento giusto per
servirsene allo scopo di cominciare a mangiare i margini della rinascen­
te democrazia italiana, che un arcaico anticomunismo vedeva condizio­
nata al diktat moscovita. Nel calderone dell’accusa poteva comodamen­
te entrare tutto: il mio passato partigiano, i miei atteggiamenti libertari,
il mio ateismo ereditato dalle perfidie del reprobo Spinoza, il mio libero
modo di concepire i rapporti sessuali, il mio isolamento, anche da parte
di quelle sinistre che diffidavano di un simile personaggio. Si è celebrato
così un vero processo alle streghe, nel quale tutto era utile per la
paziente tessitura dell’accusa, persino i miei studi di mirmecologia, o
molti miei scritti, o testimonianze sul mio carattere scontroso e “accen-
tratore”. In quella sede si sono violati tutti i diritti di un imputato: non
solo, come troppo spesso succede in Italia, l’imputato era già colpevole,
ma su di lui si è instaurato un terrorizzante processo alle idee, e spesso
non si è esitato a violare con pesanti pressioni la sua privacy e i diritti
stessi dei testimoni. Inoltre, attraverso di me si è cercato di colpire
l’attività medica e scientifica di mio fratello, in quel periodo occupato
nella creazione di un centro termale. Ma si colpiva, parallelamente,
anche l’ambiente di “Quaderni piacentini”, di cui ero un redattore e,
attraverso di esso, la presenza di molti intellettuali più o meno anomali.
Non è un caso che il processo si sia costruito in stretto contatto tra oscuri
ambienti piacentini e un ambiente dispersivo e dalle molte facce, come
quello giudiziario romano di allora. Non si dimentichi che sono rimasto
assurdamente per ben quattro anni sotto istruttoria sommaria, promos­
sa dal pubblico ministero, che ha avuto il tempo di costruire alchemica-
mente un mastodontico edificio d’accusa. A un certo momento sono
stato arrestato, in attesa di processo, senza avere un interrogatorio da
parte di un giudice istruttore. La condanna, a quelle condizioni, era già
ampiamente scontata, nonostante gli sforzi di un valido collegio di
difesa, preso in contropiede da un’accusa decisamente singolare, e
timoroso di muoversi nel territorio minato della mescolanza di apodig-
mi legali con dogmi morali equivocamente manipolati. Si ricordi che,
proprio quando si celebrava a Roma il mio processo, un’altra accusa di
plagio veniva considerata insostenibile da un giudice milanese illumina­
to e antifascista come D ’Espinosa, che per primo aveva richiamato

97
l’attenzione sulle anomalie dell’articolo 603 del Codice Penale.
C’è tutta un’altra serie di spiegazioni di quel processo. Si era ormai
alle soglie del ’68, e diveniva sempre più diffusa un’inquietitudine
sociale, premuta tra tentazioni eversive e golpistiche di destra e le
nascenti irrequietezze delle gioventù studentesche e operaie, sia in
Italia che all’estero e, in chiavi diverse, sia all’ovest che all’est. Bisogna­
va in qualche modo frenare diffusi disordini libertarieggianti e, soprat­
tutto ostacolare quello che poi sarebbe avvenuto, grazie anche alle
iniziative radicali, cioè la liberalizzazione dei rapporti civili, ormai avvia­
ti verso il divorzio, l’aborto e la revisione dei Codici penale e civile.
L’accusa di plagio poteva essere uno strumento di riserva per fare
barriera contro le ondate rinnovatrici. L’accusa è arrivata persino ad
appellarsi a certi aspetti repressivi delle legislazioni dell’est, dove mani­
comio e lavaggio del cervello dolorosamente erano molto diffusi.
Il mondo comunista, da parte sua, viveva momenti di profondo
travaglio, uscendo faticosamente dalle corazze staliniste di stampo so­
vietico e di più addomesticato stampo italiano. Il moralismo proprio di
questi stalinismi e una ristretta concezione di partito non potevano che
suscitare diffidenza verso un uomo che non aveva più tessere e che, per
costumi privati, per espressioni artistiche e per ragioni di isolamento,
appariva in contrasto non solo con la morale borghese ufficiale, ma
anche con la morale di partito. Infatti, l’accusa processuale è partita di
sorpresa, e ha cominciato a essere visitata con occhio critico solo in un
secondo tempo, quando un manipolo di giornalisti e di politici coraggio­
si ha cominciato a intaccare il blocco monolitico processuale. Il partito
comunista si è mosso tardi e con lentezza: la sua prima netta presa di
posizione ufficiale a mio favore è apparsa quando già tutti i giuochi
erano fatti. Dal primo processo a quello di appello, si è avuto così un
rapido recupero delle correnti difensive, tanto che il giudizio d’appello
si è trovato a dover cercare un compromesso che convalidasse, almeno
in parte, la condanna, ma che insieme mi rimettesse in libertà. Da
oscuro, vizioso e diabolico ragno cacciatore di anime, passavo così a
essere una specie di Stranamore un poco pazzo, ma non degno di quella
mastodontica crociata che era stata prima scagliata contro di me. Ovvia­
mente allora la Cassazione non poteva che confermare una condanna,
sia pur diminuita, senza eliminare ma solo ridimensionando la perdita
dei diritti civili. C’è da chiedersi perché non c’è stato allora un fermo
ricorso della difesa alla Corte Costituzionale. Io non ho risposte, ma
solo ipotesi: penso cioè che allora si ritenesse, impropriamente, imma­
turo un tale ricorso.
La battaglia di uomini come Cartoni, Pannella, Grieco, Spartaco

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Vanoni, Pecorini e molti altri, di cui lungo sarebbe l’elenco, (compreso
il partito radicale in blocco), e l’opera coraggiosa di avvocati come
Sotgiu e Reina, non sono bastati a smuovere macigni così grandi. Hanno
servito però a incrinare il blocco omogeneo, aprendo la strada a quello
che mi sembra oggi l’inizio di una revisione radicale dell’articolo 603 del
Codice Penale.

Ili - Si tratta ora di vedere da vicino in che cosa consisteva l’accusa di


plagio. Secondo il Codice Rocco, plagiatore era colui che non utilizzava
alcun mezzo chimico e meccanico e alcuna coercizione fisica, o alcuna
fragilità psichica dell’oggetto passivo, per soggiogarlo totalmente ai suoi
voleri. L’unica arma restava dunque la suggestione, portata alle sue
estreme conseguenze. La persuasione occulta presupponeva un’abilità
eccezionale nel persuasore, e una possibilità di adesione entusiastica da
parte della vittima. Come si vede, si trattava di materia esplosiva, poiché
non ci sono limiti alla suggestione, e ogni sua interpretazione dipende
dall’ottica dalla quale viene giudicata. L’ottica accusatoria trasformava
la suggestione in una sorta di magia perversa, capace di utilizzare
l’ateismo, l’anarchia, il sesso e le molteplici fascinazioni culturali per
realizzare una soggezione che divenisse completa senza ricorrere a
nessun altra coercizione, se non quella psicologica. La crociata mobilita­
va, così, maggioranze silenziose e perbenismi benpensanti, terrorizzati
all’idea di una messa in crisi dei valori fondamentali su cui ritenevano si
basasse il consorzio civile. Ovviamente, nell’accusa assumeva grande
valore, come hanno riconosciuto Musatti, Eco e Moravia, la “magia”
contenuta nelle parole: la parola “amore”, per esempio può essere
positivamente carismatica e negativamente corruttrice. Si può dire di
più: un presunto plagiatore che avesse accompagnato la sua “vittima” in
seno alla Chiesa, avrebbe compiuto un’azione positiva di redenzione
morale.
Plagio era dunque l’opera di suggestione totale tesa a realizzare
progetti malvagi. Era quindi indispensabile surrogare tale accusa con
una molteplice serie di fatti circostanziati, di cronache particolari e di
testimonianze di parte che rivelassero il fine delittuoso, ma il vero
crimine restava l’“eresia radicale”. E ’ veramente enorme la massa delle
distorsioni di parole e di fatti, oltre a quelli completamente inventati.
Ritengo sempre, anche solo nel nome della dignità dell’imputato, che
sia stata una lacuna della difesa avere trascurato queste invenzioni e
queste distorsioni. Ritengo anche che sia stato troppo timido il loro
attacco a quei sanfedisti convertiti di strapazzo, .che accettavano il
giuoco processuale come un valido strumento per la “riconquista di

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Gerusalemme”. Naturalmente sono consapevole che il mio atteggia­
mento volutamente passivo disorientava l’attacco della difesa: in pratica
i miei avvocati avevano a che fare con un uomo che negava alle sedi
penali il diritto di discutere un’accusa di plagio. Dev’essere stato diffici­
le per loro profilare l’immagine di un personaggio anomalo rispetto ai
perbenismi ufficiali, ma, nello stesso tempo, rigido nella sua peculiare
coerenza morale. Confesso che mi sono sentito sempre estraneo al
processo: ma proprio per questo ho sofferto di più in questo caso che al
tempo delle torture e degli arresti fascisti. La mia sofferenza era causata
dal dolore e dai danni subiti dai miei amici, e soprattutto dalla mia
famiglia che, con altissimo senso di dignità, non aveva esitato a scendere
compatta in mia difesa. Ma era causata anche da quanto vedevo intorno
a me nelle carceri. Il mio processo si ridimensionava molto di fronte alla
media dei processi penali, dove spesso l’imputato è il personaggio meno
importante. Ricordo con commozione anche le migliaia di lettere che
ho ricevuto in prigione dalle persone più disparate: mi parlavano dei
loro problemi personali, come se il mio processo fosse divenuto una
cassa di risonanza di molte repressioni e di molte angosce.
C’era per me un’altra ragione di sofferenza: gli intellettuali che erano
scesi in mia difesa credevano di combattere una battaglia civile, anche se
gran parte di loro non ha ritenuto importante interessarsi del mio lavoro
e della mia presenza civile. Questo vizio di impostazione poteva in certi
casi essere dettato da protagonismi che cercavano facili esibizioni,
oppure poteva trovare la sua ragione nel vedere giustamente il processo
come una provocazione ben superiore al mio caso particolare, e che
quindi imponeva una difesa a oltranza dei diritti di ognuno. Ma il più
delle volte questa distorsione è dipesa da fretta e da superficialità.
Questo atteggiamento è durato anche dopo il processo: ufficialmente, e
non solo nei grandi mezzi di comunicazione di massa, messi da parte
tutti gli aspetti della mia attività culturale, io restavo solo ed esclusiva-
mente l’uomo del “plagio”. E ’ nella mia reazione a questo fenomeno di
banalità una parte delle spiegazioni del mio isolamento e del mio rifiuto
di gran parte dei canali culturali istituzionali.

IV - Ho tenuto per ultimo l’aspetto psichiatrico del processo, perché ne


è l’anima più nera. L’accusa di plagio non è nata alFimprowiso. Inizial­
mente si è trattato della contorta protesta di una famiglia cattolica, che
voleva riconquistare alla fede e all’alveo familiare un suo membro,
ribelle a una pesante concezione autoritaria della famiglia, e soprattutto
sospettato di scivolare verso i più neri disordini sinistrorsi. Quando poi

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questa persona, già difesa e aiutata da tanti amici, si è trovato a essere
sola con me in una città sconosciuta come Roma, la battaglia di recupe­
ro ha avuto uno sblocco: finalmente si poteva reificare in un unico uomo
il diabolico nemico. Tutti i precedenti interventi di una pedagogia e di
una psichiatria addomesticate ora potevano essere messi da parte, di
fronte all’occasione di una crociata “universale”. Non si è esitato neppu­
re a rapire con la violenza Giovanni Sanfratello, realizzando una serie di
reati come violazione di domicilio, violenze fisiche, ecc., reati mai
perseguiti legalmente. Si è arrivati a ricoverare con l’inganno in manico­
mio G., e a ricorrere ai più pesanti mezzi di coercizione psichiatrica,
dagli elettroshocks ai prodotti chimici. Non sono però riusciti a trasfor­
mare G. in un’accusatore: è noto che il secondo accusatore era stato
scovato e preparato all’accusa con una operazione di molto dubbia
legalità. Comunque risalgono ad allora le più vistose menzogne: io per
esempio non ho mai insegnato nelle scuole e non ho avuto allievi.
Inoltre, le persone coinvolte nel processo erano tutte ampiamente
maggiorenni.
All’inizio si è parlato solo di violenza e repressione psicologiche su
una persona fondamentalmente schizofrenica. Poi, quando si è capito
che, secondo i loro parametri, schizofrenia e plagio non erano concilia­
bili, si è mirato piuttosto a ingigantire oltre misura la personalità mefi­
stofelica dell’imputato. Nei primi tempi si è anche ricorso alla chiave
omosessuale come spiegazione delle finalità perverse di un sopraffatto-
re, ma quest’ultimo particolare dell’accusa ha via via perso sempre più
la sua centralità. Centrale restava essenzialmente l’impossibilità etica e
sociale di un rapporto d’amore che non rispondesse ai canoni ufficiali.
Rapporto riconosciuto e difeso nella sua integrità e dignità sia da me
che da G.. Per quanto riguarda invece altre persone, si è trattato di
episodi di portata molto minore, quando non si è arrivati alla vera
mistificazione. Ma l’accusa ha interpretato una mia peculiare rigidità
morale nella concezione dei rapporti, per distorcerla in una forma di
immoralità. Solo un bravo figlio della chiesa e dello Stato (chiesa e Stato
a loro volta intesi nella loro forma più reazionaria), ha il diritto di
definirsi morale.
Non voglio essere frainteso. Non ho mai sostenuto che il mio compor­
tamento e i miei rapporti fossero perfetti e privi di lacune. Ritengo che
ogni rapporto abbia le sue contraddizioni, i suoi errori, le sue dispera­
zioni, le sue esaltazioni e le sue speranze, i suoi conflitti, le sue dialetti­
che interne, il suo inizio e la sua fine. Ma tutto questo non appartiene al
campo della legge penale, se non nel caso in cui vengano violati la
privacy individuale e i diritti civili. Affermo con decisione che questo

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non è mai stato il mio caso e che, se mai, io e Giovanni abbiamo subito
tutte le violazioni e tutte le sopraffazioni. D ’altronde è comprensibile
come il fine primario dell’accusa fosse proprio quello di considerare un
rapporto come il frutto mostruoso di una singola mente diabolica.
Questo è stato il compito fondamentale dei cosiddetti periti di parte, tra
i quali si annoverava un personaggio equivoco come Aldo Semerari.
Non è secondario il fatto che molti degli accusatori diretti e indiretti del
mio processo, sono gli stessi che hanno agito in precedenti azioni penali
abortite, e che ora per esempio agiscono nel tentativo di edificazione di
un processo di plagio contro il sacerdote Emilio Grasso. Ho assistito
così alle più sportive e spregiudicate manipolazioni dei mezzi psichiatri­
ci. Ateismo e anarchia sono già una distorsione psichica. Poi l’omoses­
sualità è una perversione criminale. (Ancora oggi nell’opinione pubbli­
ca anche un solo gesto omosessuale può marchiare un uomo per tutta la
vita!) Poi la schizofrenia è la chiave di tutte le porte. Poi non si parla più
di schizofrenia, ma solo di follia psicotica di un persuasore occulto. Poi
si abbandona anche questo piano per scendere su quello più manovrabi­
le della perversione morale. Mi stupivo allora non tanto delle capacità
trasformiste di tanti cosiddetti periti, quanto del pericoloso potere del
giudice, che veniva penalmente riconosciuto “perito dei periti”.

V - E’ ancora tutta da esplorare la psicologia di un accusatore di plagio,


nella quale tendo a riconoscere una particolare tipologia umana. Siffat­
ta tipologia non è peculiare solo alle destre ufficiali, politiche, sociali e
religiose, ma si rintraccia facilmente anche in molte personalità della
sinistra ufficiale, e persino dell’eversione. Non è un caso che l’uso della
parola plagio, perdendo quasi completamente la sua accezione di furto
letterario, sia diventata così ampiamente di uso comune. Quanto volte,
per esempio, ho sentito dire: “I veri plagiatori in realtà sono gli accusa­
tori!”. Questa comoda diffusione della parola, comunque sempre de­
precabile, rivela senza scampo che l’accusa penale di plagio toccava il
punto dolente di molti problemi irrisolti nei rapporti individuali, sociali,
culturali, religiosi e politici. Plagiatore è dunque l’amante, plagiatore è il
prete, plagiatore è l’uomo politico, plagiatore è il maestro, plagiatore è il
nemico di classe.
Come si vede, la parola sembra resistere a tutte le ottiche più diverse,
perché, in sostanza, è diventata sinonimo di un giudizio morale, teso a
individuare la forma più alta di male nella suggestione perfida e sotter­
ranea. Mi sembra inutile che io denunci la terribile insidia che si
nasconde in questa identificazione, e che offre al potere e al suo
avversario armi cruente quanto sleali e corruttrici. Non si tratta dunque

102
di denunciare un innocuo uso di parole, ma di riconoscere nelle parole
uno strumento ambiguo di uso polivalente e di grande potenzialità.
Come ho già detto nelle pagine precedenti, la modificazione del lin­
guaggio è l’effetto e non la causa di un cambiamento, è il sintomo e non
la ragione. Però ho anche detto, e qui lo ripeto, che gli effetti generano
spesso nuove cause, se inavvertitamente vengono lasciati agire anche
dopo la loro denuncia.
Ho premesso che l’accusatore di plagio rivela di appartenere a una
particolare tipologia umana. In pratica, non può utilizzare questa accusa
se non chi ha una particolare visione dell’individuo, della società, dello
Stato, dell’uomo, della vita e del mondo. Ancora una volta si evidenzia
qui il carattere sclerotizzante di ogni istituzione, il suo essere sempre, in
sostanza, un’istituzione negata. Se poi l’istituzione debba essere cieca­
mente distrutta oppure, con ferma gradualità, superata, limitando anzi­
tutto la sua durata e la sua funzionalità, questa indagine travalica i limiti
degli scritti presenti. Ogni accusatore di plagio, comunque, proietta
nell’accusa le sue repressioni e le sue frustrazioni, così come ogni
moralista proietta nei suoi dogmi la sua sete insoddisfatta di piacere.
Non sembri un paradosso affermare che ogni accusatore di plagio sogna
nel suo intimo di essere un plagiatore. Schiere di siffatti personaggi si
ritrovano nelle destre politiche e religiose, ma altrettanto numerosi
sono nelle file delle generazioni staliniste e delle involuzioni burocrati­
che. Si potrebbe anche andare più in là, e riconoscere questa tipologia in
ogni strenuo difensore del primato dell’uomo. Ogni tentativo di adatta­
re l’idea del plagio a una concezione dinamica del pensiero è destinato a
fallire. Ogni tentativo di salvare il concetto di plagio al di fuori di una
concezione spiritualistica o idealistica non può essere coerentemente
sostenuto fino in fondo. Infine, il tentativo di fare del plagio una
categoria a sé presuppone anche una visione autoritaria dei rapporti
sociali, che li basi su una precisa ideologia manichea del bene e del male,
che è in sostanza la “teoria dei valori”. Il plagio non è un’utopia, perché
non ha in sé alcuna forza propulsiva. Se mai l’uso di questa parola rivela
il tentativo di reprimere la natura stessa dell’amore, inteso come libera
espansione della libido individuale. In ultima istanza questi signori
pensano che spetti allo Stato la regolamentazione, la limitazione, la
distorsione o perfino l’annullamento della potenzialità erotica. Nel
concetto di amore non possono rientrare la sopraffazione e il sopruso,
perché nei loro risultati finali sono nemici dello stesso egoismo indivi­
duale: se l’amore è la più alta istanza d’egoismo, proprio per questo
esige la massima liberazione e la massima espansione dell’oggetto
amato. Resta così l’accusa di plagio come ultima ratio di un uomo invaso

103
dal panico della morte, che cerchi quindi scaramanticamente di elevare
una barriera contro il disfacimento delle sicurezze istituzionali, contro
ogni caos rigeneratore, contro l’insidia archetipa della bestia e dell’ura­
gano. Non è da escludere in partenza che l’uso dell’accusa di plagio
possa conoscere in futuro nuovi trionfi. Non è da escludere che il futuro
ci riservi nuovi fascismi, nuovi impulsi collettivi di autodistruzione,
nuove necrofile corse verso le disfatte ecologiche, verso l’annebbiamen­
to della memoria, verso le apocalissi della guerra. Ma ho cercato di
riconoscere come compito dell’uomo “acratico” lo sforzo costante di
decifrazione e di rafforzamento di quegli impulsi di sopravvivenza e di
incremento della vita che potrebbero ancora essere vincenti.

VI - Per concludere su questo argomento, ritengo che un Codice Penale


ridimensionato e corretto possa e debba contenere in sé tutti gli stru­
menti per difendere l’individuo dalla sopraffazione dello Stato e degli
altri individui, senza per questo violare la privacy individuale o imporre
una particolare visione del mondo. Se è vero che un giudice è sempre
giudice di parte, la cosa perde il suo significato quando si fa coincidere la
parte con la più vasta e la più comprensiva convivenza, al di là e contro
ogni autoritarismo, ogni paternalismo e ogni equivoca tolleranza. Un’e­
voluzione positiva della democrazia porta con sé un progressivo supera­
mento dello stesso giudizio penale: tutte le istituzioni, dallo Stato alla
famiglia, quando spalancano porte e finestre a un decentramento rivita­
lizzante, non si negano più nel processo sclerotico della conservazione,
ma si superano nel più ampio respiro delle aspirazioni libertarie. Que­
sto è un progressivo processo rivoluzionatore, che solo in casi molto
circostanziati presuppone lo scoppio della rivolta, come effetto di una
eccessiva saturazione. Resta dunque in queste pagine l’uso dell’accusa
di plagio come il simbolo più evidente dei sintomi di disfacimento
dell’attuale civiltà dell’uomo.

104
VIE DI LIBIDINE

I - Nelle pagine precedenti è capitata l’occasione di ricordare l’alta


potenzialità della pedagogia e i suoi profondi legami con la genetica.
Del resto, come la pedagogia può essere strumento di conservazione o
di trasformazione, nello stesso modo la genetica può uscire dagli studi e
dai laboratori e divenire arma di potere. Di fronte alle prospettive di
manipolazione genetica, ci possono essere posizioni molto diverse. Si
può essere, per principio, contrari a ogni intervento sul gene, ma la
maggior parte degli operatori, quando non si oppone alle manipolazio­
ni, le accetta solo in funzione della difesa e della conservazione di
determinati dati culturali e, riduttivamente, sociali e politici. In questo
senso si può arrivare a ipotizzare l’eliminazione genetica di ogni devia­
zione dalla norma ufficiale, (cioè una ipotetica normalità basata su
apodittiche ideologie), senza parlare delle più gravi cadute reazionarie,
tipo le sperimentazioni fasciste e naziste, o, comunque, quelle ispirate ai
miti della razza, della bellezza fisica e del primato dell’uomo. Un’altra
posizione, ipotizzando l’utopia come molla propulsiva della ricerca, non
rifiuta in partenza interventi sul gene, lasciando aperte le porte all’inda­
gine su territori sconosciuti. Come si vede, di fronte ai problemi della
genetica è di importanza decisiva l’orientamento culturale del ricercato­
re. Evidentemente, chi pensa al primato dell’uomo basato sul primato
del sistema nervoso o del cervello, è naturalmente portato a incremen­
tare comunque questo primato, mirando, in prospettiva, a tradurlo in un
“fine” indiscutibile dell’evoluzione umana. Si pensi all’equivoca conce­
zione del “genio”, nel nome della quale c’è chi è tentato di “costruire” in
provetta personalità peculiari, riverniciando le più o meno vecchie
concezioni del superuomo. Si scivola così di nuovo negli spiritualismi
religiosi, oppure nei compromessi idealistici, e quindi inevitabilmente,
negli arcaici precipitati necrofili. Sotto questo travaglio si possono
riconoscere sopravvissute istanze di classe sociale, spesso appena ma­
scherate da generalizzate esigenze di mercato, come appare evidente
nella televisione e in tutti i mezzi di comunicazione di massa, o nell’uso
funzionale delle tecnologie avanzate, dall’ologramma al laser, ecc.
Le ricerche di genetica, quando vengono guidate da fini religiosi o
politici, possono trasformarsi in armi più micidiali dello stesso uso
abnorme dell’energia atomica. Come in ogni altra ricerca umana, anche
nell’ambito della genetica sono purtroppo sempre prevalenti quegli
intellettuali che, malati in origine di qualunquismo, accettano ogni
indiscriminato mecenatismo, quando non gettano la maschera e si
mettono direttamente al servizio dei più miopi interessi neocapitalistici.

105
Questo avviene, disgraziatamente anche nelle scuole superiori o nelle
accademie nazionali e internazionali, dove sotto alla vistosa vernice dei
grandi recuperi umanistici spesso si nascondono le più inveterate ideo­
logie della guerra. Non voglio negare la presenza, purtroppo elitaria, di
coraggiosi e spregiudicati ricercatori, che non sottopongono la loro
ricerca al vaglio dei valori, ma proprio per questo si muovono in direzio­
ne opposta all’adesione servile o al qualunquismo disimpegnato o,
ancora, alle equivoche ideologie di progresso. Questi ricercatori sono
naturalmente schierati contro la violenza, perché si misurano continua-
mente con la gamma polivalente degli impulsi promozionali e, grazie
alle caratteristiche peculiari del loro stesso lavoro, si lasciano “sceglie­
re” da conoscenze del reale sempre provvisorie, ma sempre più appro­
fondite. Per essi, per esempio, nessun frutto della ricerca genetica va in
partenza rifiutato, ma in nessun caso va messo al servizio della prevari­
cazione dello Stato sulfindividuo, dell’individuo sugli altri individui,
dell’uomo sugli animali, sulle piante e sulla restante natura. I loro
laboratori di genetica non sono una fucina di mostri o di dei, non sono il
luogo della pietà o della spietatezza, ma al contrario vengono intesi
come posti di simpatia e di compassione universale. Ad essi spetta
anzitutto un drastico ridimensionamento del problema demografico,
una fuga radicale dalla “gabbia dei topi”, una rinuncia a ogni suicida
tentazione di costruire un mondo fatto a immagine e somiglianza del­
l’uomo. Il problema dell’aborto, le ricerche sui “clonidi”, la pre-scelta
dei sessi o delle caratteristiche personali, e tanti altri problemi di
frontiera non possono essere lasciati in mani impreparate e avventuri­
stiche. Per questo è tanto più essenziale la rivoluzione dei criteri peda­
gogici, rivoluzione che parta dal basso e plasmi via via i caratteri stessi
della ricerca genetica. Ancora una volta, dunque, si parla di una élite
che non sceglie se stessa, ma, come dicevo prima, viene in qualche modo
“scelta” dalle improrogabili esigenze della sopravvivenza.

II - E’ dunque carico di importanti e contraddittorie conseguenze il


riconoscimento delle radici di ogni pedagogia nella genetica evoluzioni­
stica. Importanti conseguenze, perché per questa strada si può arrivare
a concepire le più efferate dittature di un individuo sugli altri individui,
e dello Stato sulle popolazioni, oppure, al contrario, si può riconoscere
nella radice genetica della pedagogia uno strumento formidabile di
emendamento dell’intelletto. I moderni studi sull’imprintings ci hanno
già ampiamente dimostrato la malleabilità del materiale genetico origi­
nario, tanto più quando, come io penso, si estenda con gradazioni
diverse l’imprinting sia al periodo prenatale, sia a tutte le età della vita.

106
E ’ evidente che l’ambiente sociale, specie nel suo fondamento familiare,
agisce pesantemente, e spesso in modo cieco, alienato e irreversibile,
sulla formazione di questi imprinting, negando in sostanza l’origine
biologica di ogni pedagogia. A questo punto mi sembra ormai inutile
insistere sulla denuncia di quegli equivoci pseudodarwinismi sociali
reazionari, sotto i quali covano in realtà anacronistiche ideologie “crea-
zioniste”.
Si prenda per esempio il tema della sessualità. Anche qui ogni model­
lo definitivo è destinato a generare violenza e ingiustizia. La falsante
semplificazione che riduce la sessualità alla lotta per la riproduzione,
urta contro la più elementare osservazione della natura umana e non
umana, dove esistono impulsi pluralisti, molteplici varietà, e tendenze a
variazioni continue nel processo evolutivo. Il piacere che si realizza
nella sessualità non è un trucco della natura per la procreazione. Si
potrebbe al contrario dire che è la spinta alla procreazione che utilizza,
senza esaurirlo, il bisogno vitale del piacere. Persino gli studi di Freud
sulla sessualità infantile possono, in una degenerata proliferazione dei
gabinetti psicoanalitici, essere utilizzati in direzione diametralmente
opposta. Ancora troppo raramente si tiene conto delle caratteristiche
peculiari, e non ancora del tutto umane, del primo anno di vita del
fanciullo. Come gli si impone anzitempo nel linguaggio una ristretta
gamma di espressioni emozionali, così si assale il bambino con degli
schematismi sessuologici che spesso sono l’origine delle nevrosi. La
difesa del gruppo familiare e del gruppo sociale, così importante in altre
epoche o nelle piccole comunità, diviene più facilmente arma di repres­
sione, quando le nuove tecnologie e i moderni mezzi di comunicazione
rendono fragili, o addirittura abbattono, tutte le frontiere, e fanno più
piccolo il nostro pianeta. Comunque, già nel passato, per esempio nel
Tibet o in certe zone africane, si praticava il parto non violento, (ripreso
da qualche anno in Occidente da Leboyer e da Lorenzo Braibanti),
proprio perché si era capito quanto fossero incidenti sull’individuo il
trauma della nascita e l’assenza della figura paterna. Fortunatamente, le
più recenti ricerche scoprono nel passato, o in civiltà alternative, isole di
limitazione del potere familiare e del suo incremento nel potere statale.

Ili - Ma è il sentimento d’amore quello su cui più si è esercitata la


manipolazione culturale. L’amore lirico del poeta, l’amore mistico del
religioso, l’amore idealizzante del patriota e del militante politico sono
forme di sublimazione del sentimento fondamentale, quando per subli­
mazione s’intenda non un’estensione illimitata di questo sentimento,
ma una sua edulcorata limitazione, una sua rieducazione finalistica e, in

107
sostanza, il piccolo premio concesso a chi in realtà viene represso e
frustrato. L’amore, per essere tale, non conosce rinunzie né compro­
messi, e tanto meno i facili compromessi che nascono da forme mimetiz­
zate di sopraffazione e di violenza. Ma così dicendo non si rischia di
idealizzare l’amore, e quindi di aprire le finestre alla strega cacciata
dalla porta? Certamente è così, se si intende l’amore come qualcos’altro
dall’amore per se stessi, e il dono supremo d’amore come il riconosci­
mento che l’oggetto desiderato è indispensabile alla propria realizzazio­
ne: l’oggetto desiderato, ripeto, e quindi autentico in tutte le sue mani­
festazioni e in tutte le sue potenzialità, compresa, soprattutto la sua
capacità di libera espansione. E’ scritto nell’“Imitazione di Cristo”:
“Amore mio, fa che io ami te per la vita e la vita per te”. Se vogliamo
evitare ogni equivoco, possiamo ascoltare questo grido antico in un’ac­
cezione spregiudicatamente immanentistica. Del resto il senso di ogni
vero misticismo non è tanto la sua fuga dal mondo, quanto una totale
immersione in esso, al di là delle limitazioni inibitrici di ogni logica
formale. Ateismo e misticismo non sono necessariamente contrapposti,
ma al contrario possono annullare se stessi e ogni istanza mitologica
nella forza promozionale della meraviglia.
Amore, dunque, è divenuto, come tante altre, una parola slabbrata e
troppo comprensiva, ma dato che si riferisce al sentimento più global­
mente impegnativo, conserva ancora fascino e applicabilità, a patto che
venga riscattata da ogni teoria dei valori, o, all’opposto, da ogni ridutti-
vistica concezione della sessualità. Nell’amore non possono non essere
presenti tutti quei desideri, quegli impulsi, quelle spinte libidiche, a
partire da quelle sessuali, che si oppongono alla negazione della vita e
all’avvento degli impulsi tanatofili. Il poeta può ancora cantare l’amore:
anzi, cantarlo come affermazione dell’egoismo che supera se stesso, e
gli apre le porte a nuovi oceani immaginativi. Il sentimento d’amore è
speculare al sentimento di colui che si affaccia al cielo profondo e vi
scopre più colori che in tutto il suo spazio terrestre.

IV - La pedagogia riconosce dunque l’uomo come una macchina biologi­


ca. In questa definizione non è depauperata la biologia (e il suo aspetto
genetico), ma è invece arricchita l’accezione della parola macchina. Non
è un caso che la cibernetica, perseguendo la realizzazione di una intelli­
genza artificiale, concepisca per l’automa un terminal di autosufficienza
e di capacità autoriproduttiva e automodificatrice. La macchina umana
non è tale se non dispiegando tutte le sue potenzialità. Ma non è tale
neppure se si perde a cercare o inventare la “diversità” dell’uomo, e la
sua peculiarità unica e singolare, “divino ex semine nata”.

108
L’orgoglio parossistico è un sentimento entropico quando almeno si
intenda per sentimento la facoltà di avvertire e seguire gli impulsi
primari, e per impulsi si intenda a sua volta l’insopprimibile pressione
| che nasce dalla saturazione. L’orgoglio inteso come forza entropica è la
risposta più immediata e più automatica alla paura: paura nevrotica
. dell’altro e di se stessi, paura dell’ambiente, panico delle coazioni a
* ripetere e, in ultima istanza, paura della morte. Ma anche in questo
orgoglio si può vedere un’evoluzione individuale. Il bambino si sente il
centro del mondo e si attribuisce un potere magico. Ma, via via che
r cresce e si immerge nel mondo umano, questa sua iniziale vitalità viene
progressivamente minacciata dall’alienazione sociale e dalla sclerosi
individuale, tanto da cercare nella volontà di potenza, e nell’orgoglio
che ne consegue, una scaramanzia gratificante e compensativa.
Ovviamente sto parlando di qualcosa di opposto alla piena consape­
volezza di sé e delle proprie capacità, cioè di quel tipo di sentimento
promozionale che è la spinta decisiva per ogni esplorazione e per ogni
sperimentazione. Sentimento che si ricongiunge nel poeta alla meravi­
glia iniziale da cui parte ogni processo immaginativo. In questo incontro
la superbia non cede il passo a una frustrante umiltà, ma a una consape­
volezza dei limiti provvisori di se stessi, degli altri e dell’ambiente in
generale.

V - Da quanto ho detto sinora, appare evidente che le esperienze


politiche hanno sempre inciso profondamente sull’istanza pedagogica.
Il potere ha sempre più accentrato nelle sue mani gli istituti scolastici e i
mezzi d’educazione: questo è avvenuto sia per i poteri religiosi con le
loro verità dogmatiche, sia per le istituzioni statali con le loro necessità
di difesa e di conservazione. In questo senso il pensiero religioso e
quello laico si sono ben poco distinti nel corso della storia, proprio
perché troppo poco hanno risposto all’istanza fondamentale della peda­
gogia, che è quella del decentramento.
In queste pagine si cercano i contorni di una pedagogia libertaria che
sia inconciliabile con ogni dogmatismo e ogni preconcetto. Una pedago­
gia libertaria apre e non chiude: una volta superati i confini ideologici,
non può eleggere nuove metodologie a sistema. Un criterio della peda­
gogia della liberazione è per sua natura empirico ed eclettico, e parte col
fermo intento di considerare provvisoria la durata di ogni metodo
pedagogico. Se nel pensiero moderno, fino all’Illuminismo e a Rous­
seau, si è in qualche modo cercato di superare il principio di autorità, in
concomitanza col superamento delle società schiavistiche e feudali, il
trionfo successivo delle filosofie idealistiche e neospiritualistiche ha

109
confuso di nuovo le carte in un vero processo di restaurazione intellet­
tuale. La borghesia capitalistica moderna ha ben compreso l’importan­
za della pedagogia, ma via via che nelle classi borghesi e piccolo-borghe­
si si realizzava un accentramento economico, sociale e politico, fino alle
punte estreme dei moderni colonialismi, imperialismi e regimi autorita­
ri, la pedagogia è divenuta sempre più un instrumentum regni. Nella
stessa distorsione sono caduti i movimenti socialisti, soprattutto quan­
do, staccandosi dal loro filone libertario, si sono avventurati nel territo­
rio contraddittorio della rivalutazione dello Stato. Si è arrivati così agli
estremi per cui, ad esempio, lo stesso Stalin, il quale affermava che
l’uomo è il capitale più prezioso, instaurava poi una educazione steril­
mente ideologica, e una censura condotta fino ai limiti del lavaggio del
cervello. Si può obiettare che Stalin va considerato una degenerazione
del socialismo, ma questo è vero solo in parte, perché in realtà lo
stalinismo è la degenerazione di alcuni aspetti autoritari e accentratori,
che in forma meno distorta, si ritrovano in nuce nello stesso leninismo e
nel pensiero marxiano. Dovrei qui riferirmi più ampiamente alle divi­
sioni storiche tra comunisti e anarchici, e soprattutto a quel processo
mentale che ha portato tanti generosi comunisti a identificare le libertà
borghesi e i diritti civili con le forme stesse di una democrazia borghese,
e per questo non socialista. L’anarchico che vedeva nello Stato la
reificazione stessa del potere borghese, in questo si differenziava dal
comunista, perché non riteneva riformabile l’istituzione statale, e non
accettava processi graduali di estinzione dello Stato. Ma la nascita di
Stati socialisti, subito chiusi nella loro cittadella assediata, non poteva
non finire col considerare l’anarchico prima un compagno deviato, poi
un inconsapevole nemico, poi un pericoloso disgregatore, e alla fine
persino un alleato del nemico di classe. A questo giuoco pericoloso si
prestavano spesso gli anarchici stessi, che identificavano superficial­
mente socialismo e borghesia e che, evitando sia pur provvisorie strate­
gie, finivano a volte col vivere in una prospettiva scaricata della forza
propulsiva dell’utopia. La cittadella assediata degli Stati “socialisti” si è
trovata così per troppo tempo a ritenersi in dovere di respingere non
solo i principi liberali della democrazia, ma anche le istanze libertarie
delle classi proletarie e sottoproletarie. Il risultato è stato da una parte
la nascita di una mostruosa classe burocratica, e dall’altra il progressivo
riaffioramento di quei principi e quei metodi borghesi che si volevano
respingere. I movimenti socialisti e comunisti, non avendo chiarito i loro
rapporti col potere, hanno finito col divenire prigionieri di se stessi, in
uno sforzo spesso eroico, ma altrettanto spesso infecondo, di realizzare
come un paradiso oggettivo quel regno della libertà che Marx aveva

110
riportato sulla terra, ma non aveva spogliato totalmente dei suoi residui
hegeliani. Ritengo che oggi l’irrequietezza dei paesi dell’Est e della
Cina, come il disagio dei socialismi e dei comuniSmi occidentali, siano il
sintomo di una vicina saturazione, oltre la quale o il socialismo ritroverà
le sue matrici libertarie, oppure sarà destinato a essere sopraffatto dal
rifiorente attacco neocapitalistico. Non credo che le tentazioni del
riformismo borghese, verso il quale d’altronde è giusta un’attenzione
più obiettiva, possano però indicare una via di sblocco. La crisi generale
di cui oggi soffre la sinistra mondiale va molto più in là, perché si
incontra con quelle urgenti istanze ecologiche e di sopravvivenza della
vita che, proprio per la loro urgenza, acquistano una profonda carica
rivoluzionaria.
Il socialismo, oggi, per non stare fermo o non ricadere indietro, deve
avere il coraggio di superare, senza negarle, tutte le lotte di liberazione
nazionali, e di tornare aH’internazionalismo planetario. Ma questo si
ottiene instaurando un processo di sempre più radicale decentramento,
progettando cioè secondo la forza minima eppure possente del criterio
iniziale. Il criterio non è un progetto, e non è riconducibile a un
programma: è sempre la più vasta informazione sulle ipotesi possibili,
informazione che, producendo la forza decisionale, finisce con l’avere la
capacità di promuovere sempre nuovi progetti. Si tratta dunque di
superare il primato della politica, ricollocando sotto il riflettore critico
tutte le istituzioni storiche, e la forza frenante della loro carica eversiva.

VI - Questi scritti mirano a profilare prolegomeni aeratici. In essi la


coerenza del decentramento porta a concepire ogni individuo come uno
“Stato”, e quindi a dissolvere lo Stato nello “stato delle cose”. Ma
l’informazione sullo stato delle cose ci illumina sulle staticità istituzio­
nali, e ci ricongiunge inevitabilmente alla rimessa in moto delle cose
ferme. La vecchia distinzione tra abolizione e dissoluzione dello Stato
può essere oggi superata proprio dal meccanismo del decentramento,
meccanismo che esige un processo lungo, carico di impulsi generosi e di
accese speranze, ma privo di certezze precostruite. L’acrazia di cui qui si
parla non è domani, ma oggi, o meglio, è più oggi di ieri, e domani può
essere più di oggi. In questo senso il soviet come strumento politico può
ritrovare una sua primavera solo se viene inteso come “comitato di
salute pubblica”, che parta dal basso, abbia una forma polidimensionale
e una durata breve nel tempo. Questo soviet ridimensionato non può
certo sostituirsi di colpo alle istituzioni ufficiali. Deve prima di tutto
essere rifondato nella forma mentis dei cittadini, e diventare un vero
nuovo costume politico: solo così potrà sostituirsi progressivamente alle

111
piccole e grandi istituzioni logorate e, invece di mirare a un governo
mondiale, potrà concepire una società planetaria. Naturalmente questo
processo può avvenire a due sole condizioni. Anzitutto si devono più o
meno rapidamente modificare le condizioni economiche, la gestione
dei mezzi di produzione e i rapporti sociali. Inoltre si deve partire da
una vera rifondazione del processo pedagogico, inteso nel suo più
profondo significato maieutico. Gli stessi partiti politici potranno avere
ancora una funzione, solo se cesseranno di cercare di conquistare e
monopolizzare il potere, e. diventeranno veri centri di informazione e di
promozione autoeducativa, senza scalfire l’autonomia e l’unità promo­
zionale dei “soviets” di base, e lasciandoli estranei ad ogni ipoteca di
lottizzazione. Come si vede, si torna qui all’idea già illustrata di impresa
biologica.
E ’ dunque un’impresa la necessaria rifondazione della sinistra politi­
ca. Per chiarezza, ritengo che sia prematuro superare la distinzione tra
destra e sinistra, ma ritengo che le attuali concezioni di una sinistra
politica abbiano ormai subito un ampio logoramento. Anzitutto, cento
anni di critica marxista e di movimenti libertari hanno insegnato molte
cose alle destre politiche, che cercano di prepararsi alla conservazione
del potere promuovendo una terza fase del capitalismo, di cui la caratte­
ristica oggi più prevedibile è la concezione delle multinazionali, e il loro
espandersi oltre ogni arcaico nazionalismo. E’ il concetto stesso di
mercato che si modifica gradualmente in senso planetario, accentrando
nelle mani del potere politico i grandi centri finanziari, gli strumenti di
guerra, le tecnologie avanzate e i grandi mezzi di comunicazione di
massa. Il potere politico oggi cerca un’unità extranazionale, gratificato
da una decadenza degli internazionalismi socialisti. L’informazione
sullo sviluppo del mercato è invece oltremodo carente nelle sinistre
politiche che, frustrate dal lungo inverno, sembra si vogliano rassegnare
a riformare le istituzioni dal di dentro, ma senza superarle. Mi sembra
sia giunto il momento di capire che non esistono terze strade se non
entro i limiti della strategia. La ricerca di terze vie come prospettiva non
può che portare a socialdemocrazie di stampo arcaico o, peggio ancora,
al diffondersi delle metastasi di un disperato tumore terroristico. Ogni
reazione ha il terrorismo che si merita, perché è essa stessa terrorismo.
Ma i prolegomeni aeratici non possono prescindere da una considera­
zione fondamentale. Non ci può essere vero rinnovamento libertario se
non nel rifiuto più radicale dell’uso di ogni violenza. Di questa conside­
razione abbiamo già parlato nelle pagine precedenti.

VII - Fedele ai presupposti fin qui tracciati, dovrei ora mettere in luce

112
quanto siano importanti per il rinnovamento della politica una critica
radicale e un rinnovamento del suo linguaggio. Ancora una volta non si
tratta di inventare parole nuove, ma piuttosto di esautorare quelle
vecchie, lasciando che eventuali nuove parole siano spontaneamente
dettate da esigenze reali. A questo proposito ho già avvertito che,
proponendo le terminologie dell’acrazia, indicavo più dei no che dei sì:
no agli autoritarismi borghesi o socialisti, no ai compromessi, no a tutti
gli stakanovismi, no all’anarchia storica, che nei suoi presupposti miglio­
ri può al massimo svolgere il ruolo di precursore e di antenato.
Il campo dei sì è invece molto più limitato: sì a tutte quelle proposte e
a tutte quelle indagini che partano da presupposti autenticamente
libertari, sì al rifiuto di ogni violenza e di ogni avventurismo, sì al
privilegio della prospettiva sulle strategie e sulle tattiche, sì al supera­
mento della idea stessa di istituzione, sì all’uso criteriale, e quindi di
durata limitata, di ogni metodo di ricerca, di lavoro e di lotta che si
ponga chiaramente fuori dal campo delle ideologie. Per acrazia si
intende in ultima istanza non un movimento politico, e tantomeno
l’annuncio di un partito: mi sembrano inconcepibili sia un manifesto
acratico, sia le più disparate opere di fondazione. Nelle sue linee
essenziali, si può definire acratico tutto quello che mira a ricondurre la
lotta contro il potere politico al quadro più vasto della lotta contro
l’alienazione dell’uomo dalla natura, contro il degrado ecologico e le
'minacce alla biomassa terrestre, contro le deleterie ideologie di ogni
primato, contro il congelamento istituzionale di ogni impresa, contro
gli “umanesimi” e gli “umanismi” vari, contro la pietrificazione delle
originarie idee libertarie e socialiste, contro, infine, l’uso e l’abuso di
tutte quelle parole che indicano i vari nomi di tutti questi rifiuti.
Come si vede, l’emendazione del linguaggio politico, che potrebbe
sembrare di un’importanza secondaria, diviene fondamentale quando si
tenga conto dei residui magici e carismatici contenuti nelle parole e nel
loro uso. Troppo spesso crociate di segno diverso vengono promosse
sulla base di messaggi, che si ritengono inclusi in accezioni concettuali, o
persino verbalmente emozionali, di cui non si è controllata o non si è
voluta controllare la credibilità o l’attualità. Ne siano una prova molti
temi dell’anticomunismo antico e moderno o, al contrario, certi sche­
matismi dogmatici di sinistra, dai quali può facilmante derivare una fuga
eversiva. Vorrei soffermarmi un momento su quest’ultimo aspetto.
Quello che mi divide irrimediabilmente dalle eversioni politiche è una
serie di considerazioni che ritengo necessario elencare. Anzitutto le
eversioni nere sono la tenebrosa longa manus di tutti i poteri occulti,
anche nel caso di “buona fede” degli eversori. Per quanto riguarda

113
invece le eversioni “rosse”, ritengo assurdo, o quantomeno ingenuo, che
individui o gruppi politici si definiscano vendicatori di classe, senza
peraltro avere alcun concreto rapporto con le classi che intendono
rappresentare. Non si tratta più di avanguardie, ma di gruppi d’opinione
che si autoeleggono punitori di un presunto tradimento comunista, per
mettersi alla testa di uno sconvolgimento dello Stato. Ma se mai si
potesse individuare un piano comune di queste eversioni, si dovrebbe
rigorosamente riconoscerlo nell’idea di un nuovo Stato repressore e
violento, che alla luce del “tanto peggio, tanto meglio”, si propone di
incarnare la giustizia suprema. La cui realizzazione dovrebbe essere
l’unica garanzia di un ritorno alla libertà. Non è vero che il fine giustifica
i mezzi, ma fosse anche vero, il fine che si intrawede è il ritorno al più
efferato autoritarismo di stampo borghese. Non è un caso che molti di
questi eversori derivino da frange cattoliche e, in parte, da margini di
estremismi comunisti male interpretati. Verrebbe facile definire questo
estremismo una malattia infantile, se le contingenze non avessero avvi­
cinato queste frange alla malavita organizzata e ai vari poteri mafiosi.
Quel concetto di democrazia che, nonostante tutto, era entrato in una
crisi salutare negli anni intorno al ’68, viene così respinto nella sua
accezione di governo di popolo continuamente aggiornabile, ed elevato
impropriamente a una forma di progressivo avvicinamento a un nuovo
paradiso in terra. Se mai qualche impulso di partenza di queste frange
rivendicava, almeno in parte, la bandiera libertaria, questi impulsi ben
presto si sono persi per strada, nel nome dello spirito di una guerra che
non era mai stata dichiarata. Siamo dunque lontani dall’acrazia liberta­
ria ipotizzata in queste pagine, il cui primo principio è la denuncia di
ogni violenza.
Non bisogna trascurare il fatto che siffatte eversioni sono troppo
comode agli angoli oscuri del palazzo, cioè a quei poteri occulti che sono
pronti a fabbricare un nemico utile alle loro crociate, così come sono
pronti alle più ciniche violenze contro un movimento democratico che
non ponga limiti alla propria evoluzione.

V ili - Una delle parole magiche è “classe”. E ’ impossibile oggi concepi­


re le classi come venivano intese prima e durante le due guerre mondia­
li. Il proletariato tradizionale non esiste più, e la borghesia stessa si è
scissa, da una parte, nella crescente marea piccolo-borghese e, dall’altra
nelle potenti élites manageriali (élites relativamente aperte), totalmen­
te impegnate in un progressivo accumulo della ricchezza. Queste élites
diventano il fine ideale delle masse piccolo-borghesi, che sentono sem­
pre meno gratificante il loro progressivo tradursi in classe burocratica.

114
La piccola borghesia, sostanzialmente demotivata e incapace di riempi­
re il vuoto lasciato dai vecchi valori, si lascia cullare dalle onde caramel­
lose della società dei consumi, incantata dalle canore sirene dei mezzi di
comunicazione di massa. Il più alto livello di vita e le crisi del socialismo
hanno trasformato gran parte del vecchio proletariato in neofiti della
piccola borghesia. Si aggiunga a ciò, da una parte la crisi della classe
operaia nel suo drammatico incontro con le moderne automazioni, e
dall’altra l’assorbimento dei margini sottoproletari, (derivati da tutte le
antiche classi), da parte dei manovratori di palazzo o dei signori della
guerra. Ma un altro dato non va trascurato: la classe contadina, quanto e
forse più di quella operaia, ha perso i suoi connotati originari, soprattut­
to grazie all’inurbamento, alle crisi ecologiche e alle tecniche moderne
di agricoltura. Oggi è dunque impossibile conservare la vecchia accezio­
ne di classe, e anche quella di partito come rappresentante di classe, non
esclusa la concezione tradizionale dei partiti di massa.
Se comunque volessimo forzare le parole, un libertario dovrebbe oggi
parlare di due sole classi, entrambe di dimensioni internazionali: da una
parte la massa piccolo-borghese, con le sue avanguardie manageriali e
con i suoi robusti e vitali conformismi, e dall’altra una classe nuda, fatta
di minoranze di vario colore e di varie caste sociali, lontana erede del
proletariato “straccione”, tanto frantumata da non riuscire a raccoglier­
si sotto bandiere comuni, ma abbastanza forte da inquietare con la sua
sola presenza i grandi centri economici e politici. Questa classe nuda si
estende in tutti i paesi del primo e del secondo mondo, ma si riconosce
compagna di lotta di quelle altre “classi nude” che sono emerse nel
terzo, quarto o quinto mondo, dopo la caduta dei colonialismi e la
realizzazione, spesso affrettata e imperfetta, dei piani nazionalistici
locali. Se si vuole portare alle estreme conseguenze questo discorso, la
prima classe può essere chiamata quella dei ricchi o degli aspiranti alla
ricchezza, e la seconda quella dei poveri che non aspirano alla ricchezza,
ma a una radicale trasformazione dei mezzi di produzione e di consumo.
Mentre la prima classe (mi si perdoni ancora l’uso di questa parola),
promuove un sempre più alto trionfo dell’uomo, delle sue tecniche e
soprattutto delle sue doti razzisticamente intellettuali, la seconda “clas­
se” ha bisogno di ritrovare un reinserimento e un equilibrio nella natura
di cui fa parte, riscoprendo in essa molteplici spinte evoluzionali, e
nell’evoluzione biologica vari impulsi di sopravvivenza, evidenti non '
solo nella lotta tra le specie e gli individui, ma anche nel mutuo ap­
poggio.
Ogni excursus teorico nel futuro, che non sia quello statistico, comun­
que di portata limitata, sarebbe velleitario e avventuristico o, peggio

115
I
1

ancora, ricadrebbe nelle tentazioni ideologiche. Il fine della vita è


vivere, e sopravvivere ai pericoli. Il fine dell’evoluzione è l’evoluzione
stessa, che usa l’informazione come veicolo di movimento. Ipotizzare
un superamento dei due strati umani di cui parlavamo, (tra l’altro non
nettamente divisi tra loro), in un mondo di più elevata civiltà, appartie­
ne all’informazione sui molteplici impulsi, e al conseguente schiera­
mento di campo. Entro limiti non ristretti, tutto è ipotizzabile nel futuro,
cadute reazionarie o, all’opposto, isole di felice convivenza.
Pensare, ad esempio, che il cervello possa essere un pericoloso paras­
sita, o che l’automa possa essere il padrone di domani, è cosa ben
diversa dal rifiutare tutte le potenzialità del sistema nervoso, e del suo
viaggio speculare nella cibernetica. Pensare che siano facili nuove guer­
re regionali e mondiali, è ben diverso dall’ipotizzare una “feconda”
inevitabilità della guerra. Pensare che il rinato neocapitalismo possa
conoscere ancora vittorie e trionfi è ben diverso dall’accettare supina­
mente una loro ineluttabilità, come, al contrario, credere fideisticamen­
te in una certa eliminabilità dello stesso capitalismo.

IX - La profonda revisione del linguaggio politico è una delle istanze


fondamentali per le componenti libertarie della società. Se è vero che il
linguaggio è la fotografia del suo fruitore e, in senso lato, la fotografia
del potere, ne consegue anche qui l’importanza di tutte le istanze
pedagogiche, soprattutto di quelle rivolte alla prima età. Una pedagogia
libertaria anzitutto non può disinfettare e rendere asettica la naturale
ambiguità della vita e del suo linguaggio. Non si speculi furbescamente
sull’opera di corruzione che una simile pedagogia potrebbe esercitare
sugli esseri più inermi. Non è una novità dire che il più grande scandalo
è l’amore, se si intenda per esso un coinvolgimento totale: tanto più nel
caso in cui l’“altro” è la vita stessa. Dove non c’è virtù cade ogni vizio, e
viceversa. Ma per non essere frainteso, dirò che l’unica virtù, quella che
non viene da nessun decalogo, è il rispetto e il rafforzamento di ogni
essere vivente e delle sue potenzialità, nel totale rispetto degli altri
esseri viventi. L’unico vizio è la ripetizione suicida e omicida, vale a dire
tutto ciò che indebolisce o distrugge la vita. Per queste ragioni non
accetto l’eutanasia. Non esistono eutanasie “passive” o “attive”. L’ucci­
sione o l’autouccisione pietose sono sempre, più o meno consapevol­
mente, forme di pietà pelose, volte più a risparmiare disagi e sofferenze
agli altri, che non al sofferente. Altra cosa è la lotta contro il dolore, che
oggi è enormemente facilitata dalle conoscenze della medicina moder­
na. “Fin che c’è fiato c’è speranza”: queste parole ripeteva sempre mio
padre a me bambino, riassumendo così tutto il suo modo di concepire

116
l’attività medica come una missione laica. Si può obiettare che ci sono
malati terminali o candidati suicidi che hanno perso ogni speranza di
sopravvivenza o di rapporti decenti con gli altri. Questa obiezione non
vale per i pazienti, ma per la società che li ospita, ancora impreparata ad
assisterli, come del resto è impreparata a risolvere ì problemi sempre
più urgenti delle persone anziane. Non ci si deve nascondere che
l’eutanasia si applica largamente sugli animali, ma clandestinamente
anche su numerosi esseri umani, molto più di quanto non sappia l’opi­
nione pubblica. Nel caso degli uomini, spesso si stende un velo ipocrita,
ma nel caso degli animali l’eutanasia è fatta su misura per la morale
elastica piccolo-borghese, che d’altronde tollera e spesso promuove le
vivisezioni nei laboratori.
Qui dovremo parlare delle stragi di animali per ragioni alimentari, e
dei troppo velleitari esperimenti farmacologici sugli animali. Possono
sembrare utopistici un totale vegetarianesimo e la scomparsa di macelli,
della caccia, della pesca, e poi delle prigioni e dei manicomi. Ma in
queste pagine abbiamo sempre parlato dell’utopia come di una molla
propulsiva. Se poi guardiamo più da vicino questi problemi, ci rendiamo
conto che, per risolvere molti di essi, basterebbe che l’uomo stornasse
dalle spese per la guerra e per consumi superflui, quella massa enorme
di risorse finanziarie che potrebbero essere indirizzate alla ricerca di
quelle proteine necessarie all’essere vivente e di quei mezzi cibernetici e
biotecnologici di sperimentazione e di controllo che potrebbero evitare
vivisezioni e “sacrifici” farmacologici. Non ci può essere prospettiva
libertaria che non si proponga di fare l’uomo più degno dell’incontro
con altre forme di vita nel cielo. Non mi stancherò mai di ripetere che al
concetto liso di pietà è giunto il tempo di contrapporre quello di
compassione, cioè di compartecipazione totale ai movimenti della natu­
ra di cui siamo parte, e al concetto di tolleranza quello di convivenza, su
cui fondare tutta la nostra civiltà.
Nel fondo dell’istanza libertaria non c’è l’annullamento totale: P a n i­
co” stimeriano va inteso come il terminal di un decentramento, oltre il
quale la vita può ritrovarsi compatta a combattere lo spegnimento del
calore. Qualcosa di simile avviene nel pensiero buddhista, quando invita
all’annullamento dell’io. Dopo questo annullamento non c’è il vuoto, o,
come in casi di certe cadute nella teologia, un riscoperto paradiso, non
c’è l’inconoscibile, ma solo lo sconosciuto.

X - Ho parlato prima di élites libertarie. Coerentemente a queste


pagine, i suoi componenti verranno considerati gli unici veri intellettua­
li. Nel nome di questa coerenza non possiamo più considerare intellet-

117
tuali, se non in senso negativo, i cinici manovratori delle parole, oppure
gli interpreti degli oracoli delle varie “fatime”. O il banchiere e l’indu­
striale che compiono giuochi di prestigio nel libero mercato. O l’uomo
politico che manovra fortunosamente tra gli uragani istituzionali. O il
funzionario di partito, esitante tra l’idea di un moderno sacerdozio e la
romantica difesa del gruppo. O lo scienziato della piccola e grande
ricerca che, un minuto dopo aver giurato sulla sua obiettività, finisce,
più o meno consapevolmente, con l’asservirsi alle improrogabili esigen­
ze della verità di turno. O l’artista “dotato”, che, in cambio di una
gratificazione per il proprio narcisismo e il riconoscimento ufficiale
della propria “genialità”, sforna poesia “eterna” e al di sopra delle parti,
ma dopo un istante, più o meno consapevolmente, si vende al primo
offerente, magari nel nome di una sofferta crisi di coscienza. O il
filosofo della restaurazione, che nella tasca destra porta la bomba
inesplosa della critica, e nella sinistra nasconde con terrore la miccia
disinnescata. Ma se tutti questi personaggi non sono riconoscibili come
intellettuali in senso libertario, chi allora può essere rigorosamente
definito intellettuale di fatto, e non solo in potenza com’è ogni uomo?
Credo si possa dire così: l’intellettuale è l’uomo che ha scandagliato a
tal punto il proprio intelletto da riconoscerne i limiti, e da impegnarsi a
superarli con una continua e impietosa emendazione critica. L’intellet­
tuale è colui che vede nell’intelletto solo una facoltà del proprio essere
globale, oppure ne modifica l’accezione estendendola fino a quella
spinoziana: in questo senso sono intellettuali solo il poeta, lo scienziato,
il militante politico, l’artigiano o l’uomo semplice, che sappiano ine­
briarsi totalmente dell’amore intellettuale.
Così inteso, l’intellettuale è sempre un dilettante, perché fa coincide­
re la propria ricerca non coi suoi preconcetti, ma col suo piacere più
intero. L’intellettuale è sempre un libertino, perché fa coincidere piace­
re e libertà, e intende la libertà come conoscenza, informazione e
promozione alla vita.
Contro tutte le mosche cocchiere e l’esibizionismo sfacciato dei fana­
lini di coda, l’intellettuale delle avanguardie libertarie ha il coraggio di
dire quello che tutti sanno ma hanno dimenticato, oppure sono coatti a
tacere. La sapienza perduta dei presocratici e di Platone va intesa qui
come recupero della memoria: memoria dell’individuo e della specie,
memoria comunque conservata nel nostro materiale genetico.
Alla specializzazione e alla pratica dei ruoli, l’acratico sostituisce
quella operazione criteriale che immerge di nuovo la parte indagata nel
tutto dell’indagine. Mummifichiamo pure in un ipotizzato museo del­
l’uomo l’eroe degli ideali, il pastore della pietà, il poeta dell’eterna

118
bellezza, lo scienziato della verità definitiva, l’uomo senza dubbi, il
ministro del sapiente risparmio, il filosofo dell’umana ragione, il mae­
stro della morale universale, il padre della fedele tribù, la madre degli
stalloni imbecilli. Sulla porta di questo cimitero degli elefanti scrivere­
mo: storia della nascita tribolata, del trionfo crudele e della morte
sperata di ogni astrazione. A parte il suo uso limitato e peculiare,
l’astrazione può dunque finire? Non mi interessa il mestiere dell’indovi­
no. Penso invece che bisogna agire come se l’astrazione fosse finita.
“Plier la machine”, rimettere in moto la macchina.

XI - La funzione primaria di un intellettuale libertario dovrebbe dunque


essere la massima coincidenza dell’apprendere e dell’insegnare, cioè il
superamento di ogni comunicazione autoritaria nel processo autoinfor­
mativo, che dalla natura si estende all’uomo, e, infine, all’individuo a cui
si vuole trasmettere l’informazione. Maestro è solo colui che prima di
tutto sa essere discepolo del suo discepolo. Discepolo è solo colui che
non accetta un ruolo gerarchico nello scambio, ma lo considera per
quello che è, cioè uno scambio di natura diversa. L’atto pedagogico,
quindi, fa parte di quello scambio in natura, che è la forma originaria di
cui il mercato monetario è la sua espressione più alienata. Il fondamen­
to maieutico dell’insegnamento non è, in sostanza, che la ricerca di un
punto di consonanza con l’allievo, come avviene in un diapason, punto
di consonanza che presuppone il risveglio di “ricettività” da parte
dell’allievo. Come si vede, al di fuori di ogni banalità, si può definire
l’atto pedagogico come un atto d’amore. E, viceversa, l’atto d’amore è
sempre uno scambio d’informazioni. Anche qui non è necessario distur­
bare geografie della psiche: diventa distorcente, e quindi deviante, la
concezione di una qualche forma psichica che in qualche modo si
distingua da quella fisica, se non nel linguaggio poetico o nell’atto di
fede religioso. Lo spirito esiste solo come momento di presènza, “hic et
nunc”, dei due termini di un dialogo. Tutti i cosiddetti fenomeni para­
normali, nei rari casi in cui si può escludere la frode, si riferiscono alla
memoria della ipostatizzazione del contatto dialogico e del processo
alienante della sua idealizzazione, oppure a fenomeni fisici ancora
sconosciuti o mal conosciuti. Questo non significa che tante realtà
fisiche, ancora a noi ignote, non agiscano nell’ambiente della nostra
vita. Si pensi per esempio alla materia oscura, alla esistenza della
antimateria e alla pluralità delle dimensioni dell’universo. La sopravvi­
venza di una parte di noi dopo la morte riguarda esclusivamente la fede
religiosa. Ma per questa strada, quante parole diventano equivoche e
abbisognano di una rivisitazione impietosa! Quante esperienze si allar-

119
gano e si arricchiscono quando si decida di non sostituire il mito alla
realtà. Il mito è uno strumento mnemonico che si avvale delle doti
“cromatiche” della memoria stessa per facilitare l’esplorazione del
reale. Ma l’uso del mito oltre le sue funzioni finisce inevitabilmente col
sostituire nell’alienazione questi colori speculari a quelli del mondo
esterno, con tutte le ovvie conseguenze del caso.
Il pensiero orientale ci ha abituati, per esempio, a tutta una “scienza”
delle sostanze sottili, ma se non distorciamo alla maniera occidentale
quel pensiero, ci rendiamo conto che le “sostanze sottili” fanno parte
del cosmo in cui appaiono e a questo cosmo ritornano, in una grandiosa
visione dei cicli cosmogonici. Lo spirito che “intus alit”, alla fine dei
conti, non è tanto un ente a sé, quanto un modo umano di affermare
l’unità della vita, e la sua ricollocazione nel mondo. Confondere l’uni­
verso con i cosmi partoriti dalla mente umana, è un vizio facile dell’occi­
dente, ma non di tutto il pensiero orientale, anzi solo dei suoi margini
religiosi popolari. Per amore di giustizia, se di modulor basico della
cultura occidentale si vuole parlare, si finisce però col riconoscere che è
per nulla indistinguibile da un modulor basico della cultura orientale, e
che entrambi peccano ormai di staticità, tanto da sollecitare la formula­
zione di nuovi modulors planetari, più fedeli all’evoluzione continua
della ricerca, e quindi di durata minore.
Questo non significa riaprire le porte ad angosce esistenziali, solo in
apparenza conseguenti al processo di reintegrazione della cultura nella
natura, e dell’uomo nel suo alveo biologico. Solo una informazione
statica e carente genera angoscia, inutilmente soffocata nel sofisma, o
ubriacata dalle mitologie religiose. In effetti quell’angoscia non è altro
che la prima fase del travaglio che porta alla gioia, cioè di quel sentimen­
to totale che ci afferra di fronte alla meraviglia suscitata dalla conoscen­
za. L’angoscia diviene gioia di fronte al sublime, che altro non è se non la
purezza della meraviglia conoscitiva nella verginità della sua epifania.
Questa meraviglia è, in fondo, l’origine del processo immaginativo,
mediante il quale la parte è ricondotta al tutto, inteso come idea
originaria di cui ogni altra idea è segmento informativo. Le tre idee
kantiane, (dio, l’anima e il mondo), perdono così il loro carattere di
semplificazione matematica, non appena si consideri l’idea non una
realtà oggettiva, (trascendente o trascendentale che dir si voglia), ma
semplicemente lo strumento dell’immaginazione globale dell’indivi­
duo. Il concetto svolge una funzione simile, ma in un campo molto più
ristretto, nello spazio e nel tempo, perché è lo strumento secondo il
quale si muove una parte del processo globale, cioè l’intelletto. L’uomo
usa l’idea, e il suo cervello usa il concetto. Il concetto di sublime, ad

120
esempio, è, nella sua formulazione, la riduttiva descrizione del senti­
mento del sublime, cioè di quel sentimento che, quando permea di sé
l’uomo teso, lo trasforma in fabbricatore di idee. Ogni confusione
dunque tra bello e sublime trasforma l’estetica da teoria della sensazio­
ne a ideologia, e la carica inevitabilmente di pesanti fardelli metafisici,
non escluso il riaffioramento di mefitiche ideologie razzistiche.

XII - Torniamo ora al processo educativo. Mi sembra sempre più


evidente la necessità di concepire la storia umana come storia dei
costumi, cioè come un ramo dell’etologia generale, e questa, come una
faccia dell’ecologia. A questi piani va ricondotto anche il problema del
rapporto tra opinione pubblica e personalità dominanti. Se è vero che lo
sforzo delle masse è sempre teso alla sopravvivenza e al miglioramento
delle condizioni di vita, è altrettanto vero che alcune singole personalità
o alcuni strati sociali, possono mistificare i loro fini egoistici mimetiz­
zandoli in forma di alte finalità sociali. Questa mistificazione arriva a
inquinare le basi stesse del processo pedagogico. Facciamo l’esempio
più vistoso. Dato che l’ecologia, negli ultimi anni, ha assunto colori
apocalittici, nessuna parte sociale è ormai tanto cieca e miope da negare
l’esigenza di piani ecologici d’emergenza. Ma il problema dei mistifica­
tori è quello di conservare, sotto apparenze ridimensionate e corrette, la
sostanza dei loro piani, praticamente eversivi. Eversivi cioè rispetto alla
genuinità dei temi della sopravvivenza. Ci sono dei principi generali di
recupero ambientale e di amore per il mondo animale e vegetale, che
possono senza troppo sconquasso entrare nelle scuole e persino nell’i­
stituto familiare. Nascono così nuove mode, pilotate dai soliti astuti
manipolatori della società dei consumi. L’importante è riaprire le porte
a ibridi pseudo-liberismi politici e sociali, che non mirino tanto al
superamento dei blocchi e dei rigidismi di un certo collettivismo, e
soprattutto al superamento dello stato assistenzialista, quanto a realiz­
zare il passaggio dalla società industriale a quella computeristica, col
massimo di profitto. Si raggiungono così due obiettivi. Anzitutto si
spegne la cooperazione sociale, nel nome di una competizione aperta
verso il potere e la ricchezza, e poi, se e quando è possibile, secondo la
vecchia filosofia del “panem et circenses”, si utilizza lo sviluppo tecnolo­
gico come oppio moderno, insieme a quel sovrappiù di prodotti e di
pubblicità che possono ubriacare con le forme più sottili di persuasione
occulta. E ’ naturale che questi mistificatori si approprino di un interna­
zionalismo superstatale, non perché ritengano superata l’idea di istitu­
zione, ma in quanto considerano ormai troppo ristrette le istituzioni
classiche, compreso lo Stato, e sono alla ricerca di nuove istituzioni, più

121
ampie, e, in sostanza più repressive.
I vari movimenti ecologici e ambientalistici, che diventeranno nel
prossimo futuro sempre più numerosi, si troveranno così a dover navi­
gare tra la Scilla di un movimentismo, incapace di agire con la necessaria
efficacia, e la Cariddi del ritorno alle formule politiche e partitiche a cui
inizialmente volevano ribellarsi. Il limite di queste associazioni è molto
spesso la loro incapacità di agire su tutti i piani, e di concepire l’ecologia
non tanto come una nuova scienza, quanto come una nuova sensibilità
che sappia saturare di sé tutte le scienze dell’uomo. Naturalmente, i
mistificatori di cui parlavamo portano il loro grande contributo alla
degenerazione dei movimenti ecologici, trasformando principi di etica
ecologica in mode e costumi effimeri.
Facciamo alcuni esempi. La politica delle riserve e dei parchi naturali,
fiore all’occhiello di tanti uomini del palazzo, urta continuamente con­
tro l’incapacità o il rifiuto colpevole di risolvere il tragico problema
demografico dell’uomo. Gli ambienti di quasi tutti gli animali e le piante
stanno rapidamente scomparendo sotto la pressione delle culture inten­
sive e della selvaggia urbanizzazione. Si tratta oggi, di instaurare un
patto completamente nuovo tra l’uomo e gli altri esseri viventi, patto
che miri a creare un ambiente di convivenza planetaria, che tenga conto
dei bisogni di tutte le forne di vita, e della fondamentale unità della
biomassa terrestre. Ce ne danno un esempio spontaneo i molti animali
che ormai cercano rifugio negli spazi urbani, invitandoci a una convi­
venza per troppo tempo negata dalla cultura biblica. Ci offrono un altro
esempio le élites più avanzate delle residue civiltà tribali che, vittime
delle crociate missionarie, ma anche delle varie teorie sul buon selvag­
gio, ci ripropongono alcuni temi alternativi delle loro antiche culture,
come contributo al rinnovamento della civiltà.
Va detta una cosa. Ogni drammatizzazione eccessiva dell’attuale
quadro ecologico finisce con l’ottenere l’effetto opposto a quello della
difesa della vita, ma è altrettanto pericoloso non suonare un allarme
equilibrato e consapevole di fronte ai pericoli di una totale umanizza­
zione del pianeta, che può portare persino alla fine dell’uomo. Oggi
anche individui isolati o gruppi clandestini possono minacciare la vita
nella stessa misura delle organizzazioni politiche storiche. E ’ evidente
che coloro che vogliono risollevare la bandiera libertaria, devono co­
minciare a propugnare un grande armistizio, nel quale tutte le forze
entropiche della società restino sospese: armistizio, quindi, non come
conquista del potere, ma piuttosto come una sorta di costituente plane­
taria. Non si possono lasciare nella mani dei mistificatori, e dei loro
servi, giocattoli pericolosi come l’energia atomica, le tecnologie avanza­

122
te, le manipolazioni genetiche, giocattoli che le istituzioni storielle
dimostrano sempre più di non saper utilizzare. Si tratta di emendare e
modificare la stessa forma mentis dell’uomo, vale a dire di attribuire al
processo pedagogico la sua yera potenzialità rivoluzionaria. In questo
processo l’emendatore deve anzitutto emendare se stesso.
Ho parlato prima di armistizio: la cosa può apparire completamente
utopistica. Ma se repetita juvant, l’utopia può essere una potente molla
propulsiva. Bisogna agire “come se” l’armistizio planetario fosse possi­
bile e, certamente, si cominceranno a fare dei passi decisivi, non tanto
verso assurde età dell’oro, quanto nel nome di un graduale superamen­
to di ogni ideologia millenaristica, e di una progressiva fondazione della
convivenza, da tradurre in pratica quotidiana. I laboratori, la stampa e i
mezzi di comunicazione di massa, le scuole, gli enti locali e le associazio­
ni democratiche di base possono fare molto più delle grandi istituzioni.
Qualcosa forse si comincia timidamente a fare, ma si tratta di estendere
questa operazione fino a conglobare in essa tutta la nostra cultura.

XIII - Uno dei problemi ecologici più urgenti è quello dell’età avanzata,
cioè il terminal opposto a quello per cui abbiamo già invocato la
rivoluzione pedagogica. La crudeltà con cui spesso la società tratta i suoi
anziani è pari, e in un certo senso conseguente, all’avidità per i prodotti
della società dei consumi. Il vecchio “ingombrante” è una figura già nota
alle più antiche civiltà, ma diviene una vera tragedia quando le moderne
scienze mediche prolungano notevolmente la durata media della vita.
Oltre al problema della vecchiaia intesa come malattia, si profila dunque
la senilità come un vero mostro sociale. Come spesso il bambino, il
malato e il diverso vengono assurdamente colpevolizzati delle proprie
condizioni, così il vecchio viene molto presto condannato all’ergastolo di
un limbo senza luce, dove l’unica attesa è quella della morte. La maggior
parte delle istituzioni locali e centrali è impreparata ad affrontare questi
problemi e quindi, troppo spesso, si crea un’atmosfera di occulta eutana­
sia. Gli attuali ordinamenti sociali isolano dalla vita attiva persone
ancora piene di risorse e di possibilità, le reprimono nei loro desideri, e
le privano progressivamente dei loro spazi vitali, spingendole verso
coatte e artificiali impotenze, e verso malinconie suicide. La persona
anziana, che per ragioni metaboliche ha un ritmo di vita più rapido, è
condannata a un’angoscia profonda, che la costringe spesso a rifugiarsi
nella regressione infantile, o persino a cedere a ritmi di vita che favori­
scono i processi aterosclerotici.
E’ ora di cancellare l’immagine del vecchio decaduto ed emarginato, e
anche quella eccezionale del vecchio saggio e idolizzato. Ma, a parte le

123
più urgenti e le più necessarie riforme sociali, anche il problema degli
anziani si risolve nella sua globalità, al di fuori di ogni pietismo e di ogni
ipocrisia: reintegrandolo cioè nel problema generale della trasformazio­
ne libertaria di tutta la società.

XIV - Altra complessa problematica ecologica è quella della dicotomia


sessuale. E ’ innegabile che la riduzione del rapporto sessuale alla ripro­
duzione ha generato e genera deleteri schematismi ideologici, che, tra
l’altro, negano, sottovalutano o violentano le molte gradualità di passag­
gio tra i due sessi. Ma questo problema diviene minore di fronte a quelle
diversità sessuali che non sono riducibili a questa gradualità.
Si interpretano così le differenze come deviazioni da una norma più
che naturale “divina”, secondo la quale chi è diverso è un criminale o un
malato. Si dimentica, o non si conosce, o si nasconde volutamente, la
molteplice varietà delle espressioni libidiche, e quindi la molteplice
varietà delle loro manifestazioni nella sessualità. La dicotomia sessuale
non è stata l’unica soluzione dell’evoluzione, e non si può in alcun modo
considerarla quella definitiva. Se poi si ricorre alla psichiatria per
interpretare le diversità, o si utilizza la conoscenza dei complessi infanti­
li per trasformare la psicoanalisi in una pedagogia del potere, si finisce
col cadere in una concezione idealistica della morale, e col considerarla
funzione statale. Nascono così mostruose diagnostiche e terapie, emar­
ginazioni violente e ghetti vergognosi. La società in questo modo fabbri­
ca i suoi criminali, i suoi appestati, i suoi reprobi.
Si sono consolidate assurde ideologie della maschilità e della femmi­
nilità, promotrici dell’immagine dell’“uomo intero” e della “donna
intera”, maschi e femmine sì, ma insieme superiori alla maschilità e alla
femminilità. Ne è nato il culto alienato dell’eroe e del semidio, e si è
sviluppata nei tempi un vero culto parallelo per la donna madre, vergine
e puttana, ma sempre espressione speculare della specie nel tentativo di
sintesi di una distorta distinzione tra soggetto e oggetto: in questo caso
soggetto ideale e oggetto di desiderio. Affermo senza esitazione che
non è vero che la donna in generale è stata penalizzata nella storia: a
essere penalizzate sono state le donne povere e deboli, nello stesso
modo degli uomini poveri e deboli. Nella plurimillenaria storia della
specie umana, sono esistite società matriarcali e società patriarcali, e
anche nella storia degli ultimi otto millenni si hanno periodi di equili­
brio tra i due sessi, o di relativa prevalenza dell’uno sull’altro, o di
emersione di personaggi femminili, persino negli inviolabili palazzi del
potere. Il culto riservato alla donna nelle religioni, (dalla madre medi-
terranea alla divinizzata vergine cristiana), il potere dei sacerdozi fem­

124
minili e la presenza massiccia delle donne nei mondi della magia e delle
cosiddette scienze occulte, il dominio quasi incontrastato della donna
nell’etica amorosa e, soprattutto, nella conduzione del focolare dome­
stico, sono tutti dati innegabili e di facile controllo. Si potrà dire che
molti di questi dati sono il sintomo di una specie di compensazione che
la parte maschile concedeva a quella femminile: per non perderne i
favori doveva usare il pugno di ferro e la carezza d’oro. Questo può
essere vero solo in certi casi. La schiavitù domestica, per esempio, non è
mai esistita davvero nelle classi agiate, e nelle classi meno agiate corri­
spondeva per l’uomo alla schiavitù del lavoro. Per quanto riguarda la
presenza delle donne negli ambienti del “paranormale”, dalle sacerdo­
tesse e dalle streghe, fino alle medium moderne, quasi sempre si tratta
di una particolare “sensitività”. E’ noto che l’isteria è frutto dell’influen­
za che gli organi peculiari della riproduzione esercitano sul sistema
nervoso femminile, e in generale sul comportamento delle donne.
Anche nel mondo greco classico e nel mondo orientale antico e
moderno, la presenza della donna è, se non monipolizzatrice, almeno
notevolmente ponderosa sia sul piano sessuale, sia sul piano della
partecipazione alla ricchezza e al potere familiare e sociale, sia sui piani
estetici e di idealizzazione. Si dice molto spesso che nelle società anti­
che, o in quello cosiddette primitive, e anche nelle società medievali, la
donna era in una condizione simile alla schiavitù. Ma si dimentica che
quelli erano i tempi in cui il numero complessivo degli schiavi di ambo i
sessi era superiore a quello degli uomini liberi. D ’altronde le società
tribali hanno spesso scelto soluzioni matriarcali, e inoltre, nei vari
medioevi, alla condizione delle donne sottomesse corrispondeva la
terribile condizione dei servi della gleba, mentre a molte donne povere
restava almeno la gratificazione o la speranza di una “carriera” estetica,
erotica, e persino, in certi casi, di accesso alle classi chiuse. Dal Rinasci­
mento, attraverso rilluminismo e la Rivoluzione francese, si sono svi­
luppati molti movimenti di liberazione dalla classe, dal censo, dal potere
religioso e da quello politico. Era giusto e inevitabile che anche le donne
prendessero consapevolezza di questi movimenti e ne facessero parte.
Nelle età moderne, poi, un’eguaglianza, che era già di fatto almeno
nelle classi più alte, è divenuta sempre più un’eguaglianza di diritto:
purtroppo, in tempi più recenti, questa eguaglianza ha finito, a volte, col
negare l’innegabile differenza tra l’uomo e la donna.
Questo breve excursus storico non è certo una novità, né è dettato da
spirito settario. Troppo spesso, invece, ho visto polemicamente distorti i
fatti storici da parte di certi movimenti femministi, soprattutto quando,
in casi particolari, si è privilegiata la conquista femminile del potere

125
economico, sociale e politico sulla battaglia per una parità dei diritti
civili che fosse rispettosa delle reciproche differenze. E’ innegabile che
esiste nella parte maschile dell’umanità una tipologia che è ben lontana
dal rappresentare tutti gli uomini. Questa tipologia concepisce la donna
come oggetto sessuale, con una nevrotica altalena fra svalutazione e
idolatria, ricorrendo persino a forme di razzismo, inconsapevolmente
difensivo, contro le varie diversità. Questi sono proprio gli uomini che
hanno finito col subire le parti più negative dei movimenti femministi,
fino a diventarne una specie di “braccio armato”: sono gli stessi uomini
che paventano l’accusa di maschilismo come la peggiore delle offese. E ’
innegabile che un concetto di maschilismo contiene in sé violenza
acritica, ma è altrettanto innegabile che la stessa violenza acritica è
contenuta nel concetto di femminismo. Si tratta quindi di due parole
strumentali e di portata limitata, che in sostanza portano più confusione
che chiarezza. Si parla oggi, del resto, di post-femminismo. Sembra che
una parte delle donne, dopo avere positivamente rivendicato molti
diritti civili, ma anche dopo avere conquistato molti posti di privilegio
economico-finanziario, familiare, sociale, politico e persino religioso,
siano preoccupate di tendere troppo la corda, e cerchino di consolidare
le posizioni già raggiunte. Ma anche questo non nasconde la persisten­
za, in molte donne, di quella rivalità tra i sessi, che proprio molte
femministe rimproveravano agli uomini? Si fanno strada per esempio
persino tentativi di rivisitare le parole d’uso comune: dio (maschio o
femmina?), umanità, parola maschilista (come se per estensione non si
dovesse più dire tigre o leone), e altre facezie del genere, che preferisco
risparmiare al lettore. Ma allo stesso ordine appartengono sintomi più
pesanti, come ad esempio iLfatto che molte donne non cercano di darsi
un profilo originale, fisico e comportamentale, e di costruirsi una pro­
pria cultura, ma parlano di identità dei sessi solo per imitare l’uomo nei
vestiti, nel comportamento, nel linguaggio e, purtroppo persino in certi
aspetti di violenza e di prevaricazione. Questo non può non portare
conseguenze pericolose nel rapporto coi bambini, nell’andamento fami­
liare e, soprattutto, nella conduzione delle scuole. Anche ammesso che
sia tra gli uomini, che tra le donne, esistano non piccoli margini di
maturazioni sessuali sbagliate, e che, di conseguenza, in entrambi i
campi si estenda il desiderio e la pratica del cambiamento di sesso,
questo però non riguarda la donna media: sono tanto più da respingere
quei casi in cui essa aggiunge ai suoi difetti quelli dell’uomo, accentuan­
do in più il margine di una sua particolare violenza. Ne sia prova il fatto
che fino a oggi la presenza della donna nella politica non ha particolar­
mente favorito o promosso opere di giustizia e di pace in modo più

126
marcato di quello degli uomini. Per evitare false interpretazioni, ritengo
utile precisare che qui non si propugna la divisione dei sessi, e neppure
un iato tra la cultura maschile e quella femminile. Si intende invece
affermare che entrambe le componenti sessuali possono portare un loro
contributo, diverso, originale e non competitivo, al costume e alla
cultura. Tutto questo può essere facilitato, quando si smetta di concepi­
re in modo schematico, e quindi innaturale, la dicotomia sessuale.

XV - L’uomo libertario deve sapere reintegrare nel problema generale


anche quello particolare della dicotomia sessuale, superando moral­
mente tutti quei moralismi di cui sono intrise le ideologie fornite dai
piccoli e dai grandi palazzi. Ci sono alcuni innegabili punti di partenza.
Anzitutto, come ho già detto, la dicotomia sessuale non è né l’unica
né la definitiva soluzione evoluzionale. Se, per esempio si consideri la
cibernetica come una tappa dell’evoluzione biologica, sembrerebbe
stupido trasmettere ai nostri automi l’eredità delle dicotomie sessuali. Il
fine di conseguire per l’automa totalità di sensazioni, di emozioni e di
forze intellettuali, non può non proporsi in forme completamente nuo­
ve, anche per quanto riguarda la libido.
In secondo luogo, si deve partire dalle diversità fisiologiche, e quindi
comportamentali, tra i due sessi, diversità sulle quali soltanto si può
basare non una guerra assurda, ma una vera ed effettiva parità di diritti
civili. Questo vale anzitutto per il nucleo familiare, dove non solo il
ruolo della moglie e della madre è stato svisato, distorto e spesso
esageratamente incrementato in direzioni opposte, ma dove anche il
presunto ruolo del padre e marito-padrone spesso non corrispondeva
alla realtà, e dove, comunque, la presenza del padre, dalla nascita ai
primissimi anni del bambino, è stata troppo massicciamente negata.
Non si tratta di conservare antichi ruoli o di costruirne di nuovi, ma
semplicemente di mettere in crisi il concetto stesso di ruolo.
In terzo luogo non va dimenticato che il comportamento a lungo
andare incide anche sul materiale genetico e che, pertanto, quelle
donne che in un modo o nell’altro negano le proprie caratteristiche
femminili, rischiano di danneggiare i propri equilibri ormonali e il
proprio corredo genico.
In quarto luogo, non si tratta di continuare nell’assurda discussione
circa la superiorità dell’uomo sulla donna o viceversa. La risposta è
semplice: nessun uomo può superare una donna nella sua femminilità, e
nessuna donna può superare un uomo nella sua maschilità. Nel nome di
una diversità non competitiva, è ora di respingere ogni vergognosa
invidia tra i sessi. La diversità fisiologica e comportamentale può essere

127
negata solo a patto che si trovino soluzioni diverse per la sessualità e la
riproduzione, oppure che si accetti il sorgere di numerosi individui di
tipo particolare, che non possono non ricordarci i neutri degli insetti
sociali. Un superamento della dicotomia sessuale, comunque, è una
delle tante ipotesi evoluzionali, che non riguardano una precostruzione
acritica del futuro. Se è vero che i movimenti socialisti e anarchici si sono
battuti nel loro nascere in modo decisivo per l’eguaglianza civile tra i
due sessi, è anche vero che questa battaglia ha subito la sorte di molte
altre battaglie, sorte di deviazione e di compromesso. In sostanza, la
battaglia libertaria auspica la nascita sia dell’uomo acratico, che della
donna acratica, propugnatori entrambi di una parità nella diversità.
In quinto luogo, un’emendazione del linguaggio sessuale non può
essere affidata a ibride e impreparate mentalità partigiane, perchè
finirebbe col diventare la fotografia di queste mentalità, cioè di un
nuovo potere.
Il più delicato punto della lotta libertaria su questi problemi è ancora
una volta quello pedagogico. Non posso non ricordare quanto le condi­
zioni familiari e scolastiche attuali siano carenti di genitori e di inse­
gnanti adatti all’educazione dei fanciulli, soprattutto nei primissimi anni
di vita, e quanta violenza si eserciti sui bambini, in forma miope e a volte
persino ricattatoria.
Ci si deve, infine, abituare a non dare spazio a teorie pseudoscientifi­
che comode per gli scoops giornalistici, tipo la priorità genetica del sesso
femminile su quello maschile, priorità che nasce da una distorta inter­
pretazione del periodo di formazione dei sessi. Si tratta, in questo caso,
di riconoscere all’origine di ogni essere vivente il meccanismo ontofilo-
genetico di cui è frutto, conoscenza che sicuramente gioverebbe a
smitizzare atteggiamenti pseudoscientifici, tanto diffusi nella cosiddetta
sociologia moderna. Da vecchio mirmecologo, non posso anche non
ricordare quanta distorsione ci sia spesso nella visitazione del problema
sessuale degli animali, e in particolare degli insetti sociali. Si è per
esempio sempre riconosciuta troppo poco l’importanza dello sviluppo
dei corpi peduncolati nei neutri, sviluppo che più di ogni altro ne fa una
realtà nuova nell’albero evoluzionale.

XVI - Non posso passare ad altro problema se non ho prima speso


qualche altra parola su quello dell’omosessualità. Credo che un transes­
suale non possa rigorosamente essere definito omosessuale, in quanto
omosessualità è, per definizione, ricerca dell’identico, ricerca irriducibi­
le a vizio, a malattia, a crimine. Ma in realtà, nonostante la convinzione
comune, una volta defalcati tutti i numerosi casi di transessualismo,

128
l’omosessualità si riduce a una minoranza, che, a certe condizioni può
avere l’importanza positiva di un’élite promozionale. E’ comprensibile
come nel passato si parlasse di omosessualità come malattia dei filosofi.
Infatti, il vero omosessuale è l’uomo che, avendo superato le esigenze
comuni delle pratiche sessuali, non vuole tuttavia rinunciare al vecchio
detto latino: “Homo sum et nihil humani a me alienum puto”. Nel
rapporto tra maestro e allievo, nel rapporto psicoanalitico, nel rappor­
to d’amore in una équipe duale paritetica, la negazione o la sublimazio­
ne degli aspetti libidici e sessuali non possono che rendere imperfetto o
persino inefficace lo stesso rapporto. Non vorrei essere frainteso:
prendere atto della realtà non significa riconoscere scelte obbligate o
soluzioni unilaterali. Dalla necessità di una totale complicità tra
maestro e allievo, tra psicanalista e paziente, o tra due amici, deriva
l’ulteriore necessità di una complicità libera e totale anche nelle scelte
di comportamento, nelle quali va tenuto conto sia dei pericoli presen­
tati dall’autorità e dal carisma del maestro, dello psicanalista o
dell’amico, sia dei complessi di colpa e d’inferiorità che la nostra
società così pazientemente instilla nei suoi giovani. Ma questi problemi
non riguardano l’età anagrafica. Un uomo che scelga di condividere
con un altro uomo la propria esperienza di vita, entra in quella sfera
dell’amore che è per sua natura generatrice di bellezza, cioè di quel
sentimento relativo e funzionale che è alla base dell’attrazione e del
desiderio. A questo punto poco importa che questa attrazione totale
abbia origine da questo o da quel complesso infantile, o che si misurino
con una bilancia di precisione le quantità reciproche di maschilità o
meno. Vero omosessuale è solo chi rifiuta ogni ruolo nella coppia e
nella società, e vive la propria condizione come una forma di
elevazione individuale e sociale, e non come una condanna, o peggio
una malattia da curare. Ovviamente il rapporto omosessuale in questo
modo non è più un marchio assoluto, ma supera se stesso nella
progressiva liberazione comportamentale. In tale senso possiamo
rigorosamente sostenere che non esistono né l’eterosessualità né
l’omosessualità, perché ogni uomo è disponibile a ogni esperienza, e
ogni esperienza è frutto di quel difficile periodo di formazione che
potremmo definire il periodo dei complessi. Applicando un criterio di
decentramento, si può dire che ogni essere umano è un problema
sessuale a sé, e che ancora una volta gli schematismi di origine
extrascientifica non possono che recare danno e sciagura.
Circa poi una certa tendenza a considerare l’omosessualità una diga
contro gli eccessi demografici, mi sembra che siano ben diverse le
modalità utili a combattere questi eccessi: una libertà sessuale viene

129
danneggiata tanto dalla repressione quanto da un artificiale incre­
mento.
L’uomo libertario deve quindi promuovere una lotta contro i
fanatismi e le intolleranze, ma anche contro i paternalismi e le
tolleranze legate ai capricci dei vari poteri. Solo il concetto di
convivenza, come già ho detto, può riconoscere i diritti di ognuno, in
quanto ogni individuo ha anche una sua particolare sessualità, nel
nome della quale un concetto di norma diviene delittuoso. Per quanto
riguarda, in particolare, il problema dell’autentica omosessualità,
maschile o femminile, non si tratta né di ghettizzarla o perseguitarla,
né di manipolarla con insidiosa violenza nei gabinetti psicoanalitici,
dove il problema centrale dovrebbe essere quello della violenza
esercitata dall’ambiente familiare e sociale, e non quello dell’integrità
morale della razza o della specie. Naturalmente, una concezione
libertaria dell’eros e della sessualità si deve basare sull’abolizione di
ogni atteggiamento missionario di maggioranza o di minoranza e,
soprattutto, sul rifiuto di quella criminalità che può essere il frutto
della repressione e dell’emarginazione, rifiuto che presuppone una
radicale trasformazione delle basi sociali della nostra civiltà e della
nostra cultura. Diviene sempre più urgente un’operazione di espulsio­
ne di quei panici archetipi ereditati da centinaia di migliaia di anni di
preistoria, nei quali la specie umana ha dovuto difendersi dalle insidie
e dall’aggressività della restante natura.
Un’ultima considerazione. Un rapporto omosessuale, inteso nelle
sue forme di più alta espressione morale, può essere la soluzione felice
per una solitudine che non vuole annientare se stessa. L’uomo solo che
intende conservare intatte solitudine e integrità naturale, può trovare
nel rapporto omosessuale, a certe condizióni, una forma di potenzia­
mento speculare della propria identità, e di superamento sia degli
aspetti negativi del suo volontario isolamento, che delle forme più
deleterie di molti rapporti sociali di altro tipo.

XVII - Tra i residui arcaici vanno senz’altro relegati la caccia e la


pesca, oltre a molti aspetti delle competizioni sportive. E’ difficile
sostenere che la caccia contribuisca all’alimentazione, oggi che troppo
specie animali sono in pericolo o addirittura in via di estinzione. La
pesca ha aspetti più complessi, che però diventano altrettanto tragici
quando si pensi al massiccio inquinamento delle acque terrestri. Ma
anche nelFindiscriminato abbattimento delle foreste si riconosce qual­
cosa di arcaico, almeno in parte, cioè la paura della grande foresta.
Altrettanto arcaica è rimasta la concezione di proprietà privata e

130
collettiva, sorretta dall’ideologia del primato dell’uomo, che si conside­
ra padrone assoluto della Terra, tanto più che questo primato
ideologico si trasforma in pratica nel primato del più forte, del più
ricco e del più dotato. L’istanza originaria socialista, secondo la quale
ogni uomo ha diritto alla proprietà degli strumenti di lavoro e a
condizioni di vita sempre più decenti, oggi diviene un’istanza non solo
politica, ma fondamentalmente ecologica. Lo Stato, anche nelle sue
forme più moderne, non è più adatto a risolvere questo problema.
Quando si dice che occorre più socialità e meno Stato, si afferma una
giusta esigenza, ma solo a una condizione: che a una concezione
ideologica dello Stato, non si contrapponga una concezione altrettanto
ideologica della società, nella quale finirebbero in questo modo col
riaffiorare tutte le violenze e tutte le distorsioni del passato. II.
superamento dello Stato può essere benissimo propugnato dagli
integralismi più battaglieri, che, cercando forme più moderne di potere
politico, si schierano decisamente sulla frontiera opposta a quella
libertaria. Tutte le formule sono sempre ambivalenti. Non c’è integrali­
smo, non c’è sanfedismo o fascismo, che non dichiarino totale adesione
alla religione della libertà, ma per essi la libertà è nel migliore dei casi
l’ancella dell’autorità, non un movimento di liberazione progressiva.
Non può esserci libertà quando il costume umano è asservito all’idea
preconcetta. E’ già grave che questo equivoco caratterizzi i poteri
ufficiali e i loro servi delle destre eversive. Ma in un certo senso diventa
ancora più grave quando su questi problemi manca chiarezza nella
schiera delle sinistre sociali, e delle loro degenerazioni eversive.
La pressione del dramma ecologico impone dunque di rivedere non
solo il concetto di proprietà, (nel quale non rientrano in alcun modo
piante e animali), ma anche le teorie economiche e finanziarie, e le
varie concezioni del mercato, non escluso lo strumento monetario.
Parlo di un mercato fondato non sul profitto individuale, ma sullo
scambio paritetico, nel dialogo di un rinnovato patto sociale. Da
qualunque parte politica venga, l’uomo libertario può oggi tranquilla­
mente fare proprie queste battaglie senza più l’antica paura di cadere
in ideologie e in correnti di parte. Deve anzitutto estendere al massimo
il campo dell’informazione. Già Socrate diceva che non segue il male
chi lo conosce. Questo è tanto più valido se, al di fuori di ogni decalogo
moralista, si concepisca il male come tutto ciò che può danneggiare la
vita nella sua resistenza all’entropia.
Non credo che un mondo di cemento e di plastica potrebbe restare
l’aspirazione degli uomini, se avessero un’informazione più esatta dei
danni provocati dagli egoismi consumistici e industriali. Da qualunque

131
parte oggi la si guardi, la parola rivoluzione può essere conservata solo
se viene strappata alle ideologie e alle metodologie politiche, per
divenire la prospettiva di quell’unica politica generale che è appunto
l’ecologia. Al posto di interessate e finalistiche visioni catastrofiche
dell’avvenire, può così cominciare a formarsi una nuova visione del
mondo, che si basi sulla promozione più avanzata dell’informazione, e
che si batta per gli impulsi vitali con una decisa e rigorosa capacità di
speranza. Il rispetto della vita, comunque, ha un’accezione molto vasta,
perché si fonda anzitutto sulla conoscenza e sul rispetto degli equilibri
biologici, e respinge ogni tendenza necrofila al ghetto, allo zoo, al
museo, all’antropologia e all’archeologia asservite alle ideologie del
benessere e della ricchezza. O, peggio ancora, ai presupposti religiosi.
L’unico archivio che può essere propugnato dall’uomo libertario è una
retroazione, vale a dire un archivio vivente. L’unico documentario che
abbia una capacità propulsiva è il reportage del coinvolgimento totale.
L’unico modo positivo di concepire la vita è, infine, quello di non
frapporre una soluzione di continuità tra essa e tutto quello che non si
considera vivente. Le rigorose accettazioni delle teorie relativistiche e
quantistiche non solo devono portare alla fondazione di nuove cosmo­
gonie, ma possono agire, in una vera rivoluzione post-copernicana,
sullo stesso costume e sulla stessa civiltà dell’uomo.
Perfino il corpo dell’uomo in un certo senso è ancora un grande
sconosciuto. Per non parlare del suo movimento nell’ambiente e del
suo evolversi nel sociale. Il grande libro della natura è stato letto solo
in piccola parte. Non è più tempo, oggi, dei menestrelli di corte, o dei
fabbricatori di bombe. Oggi preme un canto forte, oggi c’è spazio per
nuovi e imprevedibili entusiasmi, oggi Narciso può trasformare il suo
flashback in un unico e più potente feedback. Non sto parlando di
“happy days” come “after day”, o di nuovi paradisi. Il nostro destino
oggi è più che mai in mano anche alla nostra lotta.
Alla civiltà del concetto, alla cultura dell’io esclusivo non deve
succedere l’età dell’irrazionale, ma una dimensione post-concettuale e
post-razionale, nella quale concetto e ragione tornino ad essere stru­
menti utili, ma parziali e imperfetti dell’immaginazione totale. Anche
questi strumenti, quando non sono più sopraffattori e apodittici, aiuta­
no a rinnovare e a percorrere con passo più lieto le vie della libidine.
Libidine, vale a dire quella forza di autoconservazione della vita che
gode di se stessa solo se aderisce interamente alle molteplici forme del
movimento.

132
ENTR’ACTE

I - Ogni libro, come ogni prodotto della cultura umana, è in sostanza


un’autobiografia, cioè un dramma. Come ogni dramma, può avere un
momento di pausa e di respiro prima dello scatto finale. Chiamo dun­
que “entr’acte” un florilegio di puntualizzazioni asistematiche o, se si
vuole, un piccolo carnet da saccheggiare per un ulteriore incremento
dei prolegomeni.
Il principio d’autorità: proviamo a metterlo a fuoco direttamente.
Ogni “ipse dixit” è riducibile a puntello del primato della specie, e del
conseguente primato dell’individuo. Il principio d’autorità si riferisce
alla difesa a oltranza delle corazze caratteriali, ripiegate nelle loro
coazioni a ripetere, e congelate nei loro apodigmi. Ogni sforzo di far
coincidere il principio d’autorità col movimento stesso del pensiero, mi
sembra destinato a cadere in un mero e gretto giuoco di parole. Non
possiamo non ricondurre autorità a causalità, e cominciare a smontare
la causalità mediante un decentramento che annulli per sempre la
caccia alla causa prima. Il morbo logico, cioè l’uso esclusivo di una logica
finale e non strumentale, di cui ogni altra espressione diventi ancella, è
malattia cronica della nostra civiltà. Le teorie fondate esclusivamente
sulla logica non sono più memorie riflessive dell’esperienza pratica, ma
diventano degli apriori capaci di bloccare la ricerca. Riflessione è un
processo mnemonico, ed è appunto in questo processo che si può
riconoscere l’inattualità di ogni teorizzazione assoluta della catena logi­
ca. Da questa catena nasce l’illusione del “caso”, cioè di quel falso
problema che noi freudianamente potremmo chiamare il “lapsus della
storia”. Falso problema sono dunque la contrapposizione tra caso e
causalità, e la distinzione tra causa ed effetto in una accezione diversa da
quella decentrata della “causa sui”. Falso problema è il fine, quando
venga posto al di fuori e al di sopra della vita che vive e del mondo che si
muove. Falso problema è ridurre tutto a una sintesi di tesi e antitesi. Un
criterio libertario riduce l’ipotesi a sintomo dell’impulso, cioè a un’ope­
razione opposta a quella ideologica, perché mira a sbloccare le nevrosi
sintomatizzate dall’ideologia, e riduce il mito a semplice strumento di
lavoro. L’ipotesi diviene prospettiva quando, superando le strategie
particolari e i limiti corposi della tattica, assorbe tutte le spinte promo­
zionali dell’essere pensante. E ’ nella prospettiva che immersione ed
emersione si identificano in quel movimento che, senza equivoci, pos­
siamo chiamare atto di volontà. Il mito strumentale e provvisorio sog­
gioga e utilizza gli accumuli rituali, rituffandoci nel caos rigeneratore
sotto la forma di un nuovo impulso all’azione. Questo è il momento che

133
possiamo chiamare “segno”, cioè la genuina peculiarità del processo
fisico-chimico individuale: il mio, il tuo, il suo segno, cioè i segmenti
polidimensionali, sono il mezzo di emersione. Si può dire che si rischia
così di fondare qualcosa di più di uno strumento di laboratorio, ma è un
rischio che vale la pena correre, a patto che consideriamo questo
processo di immersione-emersione come la semplice descrizione dello
stesso processo informativo, nel quale emersione e immersione, a diver­
sa altitudine, sono indistinguibili tra loro.

II - Se poi ci riferiamo al processo biologico originario, vediamo che il


continuo sviluppo dal più semplice al più complesso è solo apparente. In
realtà si tratta di una continua difesa del calore nella lotta contro la
dispersione, difesa che ci appare meno indecifrabile se reintegriamo il
calore nell’alveo dell’energia universale, vale a dire non una distinzione
tra motore e oggetto in movimento, ma l’idea di un universo totalmente
dinamico.
In questo “entr’acte” viene spontaneo mettere sotto il riflettore
critico molte parole di uso comune. Sprattutto tre: universo, vita e
immaginazione. A costo di ripetermi, ho sempre inteso per universo
semplicemente ciò che assomma tutte le conosciute e non conosciute
forme del reale. Forme potenzialmente tutte traducibili in dati d’espe­
rienza, anche se molte di esse potrebbero restare quantitativamente
escluse dai limiti del nostro pensiero. Confesso che mi sfugge irrimedia­
bilmente la logica della distinzione tra ente e esistente, e che, comun­
que, mi sembra ormai inutile l’uso della parola sostanza.
Per immaginazione ho sempre inteso una parola limite, di uso stru­
mentale. Le operazioni logiche dell’intelletto, le vie più rapide dell’in­
tuizione e le varie riflessioni mnemoniche sono state in questi scritti
considerate un cristallo poliedrico, le cui molte facce sono le progressive
variazioni degli esseri viventi: abbiamo chiamato immaginazione là
manifestazione di queste variazioni, di questi molteplici attributi.
Ma anche la parola vita è uno strumento limite, più a uso di negazione
che di affermazione. Negazione delle certezze e dei preconcetti, nega­
zione degli apodigmi nemici del dubbio. Non ci sono altre definizioni
della vita se non quelle provvisorie che via via ci fornisce la ricerca
biologica. Una dinamica libertaria non esita a inoltrarsi in tutto quello
che c’è ancora da scoprire e da esplorare. Più di ogni cosa mi pungola
quello che non ho ancora detto, e che, per il tempo che mi resta, mi
accingo a cercare.

Ili - In questo “entr’acte”, chi scrive non può non gratificarsi di un

134
ulteriore riferimento al mondo delle formiche. La gratificazione gli
viene dalla considerazione che le mirmecologia, fin dalla più tenera età,
lo ha sempre tenuto a stretto contatto con la natura non umana, e ha
quindi sempre giuocato un ruolo di irriducibile alternativa alle ideologie
umanistiche. Certamente avrebbe potuto essere un altro argomento a
svolgere questo ruolo, ma innegabilmente il mondo delle formiche ha
potuto facilmente saziare non solo varie esigenze culturali, ma anche e
semplicemente la fantasia.
Quando ero bambino le formiche erano solo dei minuscoli uomini,
visitati da un Gulliver immaginario o, meglio ancora dei “Venerdì”
provvidenziali nell’isola robinsoniana dei miei solitari entusiasmi. Poi
ho cominciato a vedere in esse una sorta di marziani, una alternativa di
civiltà e di cultura a quelle umane. Ma piano piano l’informazione
ricevuta dai classici della mirmecologia, e soprattutto l’osservazione
diretta e i formicai artificiali, mi hanno fatto conoscere una realtà
biologica superiore a ogni fantasia: realtà biologica molto lontana da
quella umana, ma, da un’ottica diversa, anche estremamente vicina, e
non solo per le comuni caratteristiche biologiche. Ho cominciato così a
scoprire che più liberavo la mia osservazione da ogni antropomorfismo,
più mi appariva chiaro e attraente il mondo delle formiche e, attraverso
di esso, tutto il libro della natura. Non mi ha mai tentato un confronto
tra il mondo degli insetti sociali e quello umano, date le differenze di
sviluppo, i tempi diversi dell’evoluzione e, soprattutto, l’uso improprio
della parola società per i due mondi. Se mai, un punto d’incontro lo
potevo trovare quando riportavo entrambi i mondi alla loro origine
evoluzionale, dove diventavano chiare anche alcune convergenze di
sviluppo, e poi, più in là, quando risalivo al mondo unicellulare e alla
struttura stessa della cellula, nella quale è decifrabile un’epifania delle
istanze sociali, già quando il nastro nucleico si avvia per la lunga e
complessa strada delle specializzazioni individuali.
Il mio interesse mirmecologico è stato soprattutto di carattere etolo­
gico, in quanto mi sono interessato, più di ogni altra cosa, della comuni­
cazione e dell’orientamento, soprattutto di alcune specie della famiglia
mirmecologica, le “Messor” e le “Raptiformica sanguinea”. Purtroppo
gli eventi della vita e le ristrettezze economiche mi hanno impedito di
incontrare nel loro ambiente le grandi specie tropicali, e il mondo
parallelo delle termiti. Per quanto riguarda le api, il mio interesse si è
limitato alle convergenze con le società delle formiche. Lo studio di Von
Frish sul linguaggio delle api, mi è servito a riconoscere e comprendere
di più certi rituali individuali e collettivi presenti, se pur in forma
diversa, anche nel formicaio.

135
Naturalmente lo studio della comunicazione e dell’orientamento, che
tuttavia ho sempre condotto con mezzi molto limitati, mi è sempre parso
indivisibile dal problema centrale del formicaio, che è quello della
massima duttilità del mondo degli imenotteri, ma più di tutti delle
formiche: cioè la capacità di utilizzare il proprio corpo e le debolezze e
imperfezioni del suo sviluppo, in relazione alle difficoltà ambientali, per
modellare il corpo stesso e il suo mondo sessuale, fino a costruire quegli
strumenti organici utili alla straordinaria promozione che le formiche
hanno dimostrato di possedere.
Per qualche tempo ho considerato il formicaio una specie di “gestalt”,
cioè un’équipe specializzata in funzioni diverse, la cui somma dava un
unico risultato armonico. Poi si è fatto strada in me un concetto nuovo,
quello di una tappa evoluzionale successiva all’orgariismo, che faceva
dei singoli organismi la parte specializzata di un tutto, proprio come gli
organi di un organismo. Negli ultimi tempi questo complesso è stato
chiamato superorganismo, e si è cominciato a capire che il suo meccani­
smo unitario rende in qualche modo il formicaio simile a un unico
essere vivente, come un pioppo o come un giaguaro. Infatti, il ritmo
annuale di un formicaio può somigliare a quello delle piante, per il suo
legame col luogo del nido (le formiche migratrici rappresentano l’ecce­
zione), per la funzione delle parti (maschi e femmine come semi,
sciamatura come dispersione dei semi delle piante, neutri come rami e
foglie). E’ altrettanto suggestivo il confronto tra le spedizioni delle
“Eciton” e delle “Anonima” e l’azione predatrice di una tigre o di un
giaguaro. Ma, ripeto, a parte le molte convergenze dell’evoluzione, si
tratta soprattutto di suggestioni. Non si è tenuto, per esempio, sufficien­
te conto della generale composizione del nido, che dovrebbe essere
considerato una specie di struttura ossea esterna deU’individuo-formi-
caio: non è un caso che i nidi, còme le ossa animali, siano in gran parte di
origine minerale e, come le ossa, rinnovino continuamente il materiale
costitutivo, fino a rigenerarsi del tutto, nella continuità della forma e
della composizione chimica.
D’altronde nella funzione delle cosiddette regine non si può ricono­
scere alcun carisma di tipo antropomorfico: nelle femmine fecondate,
con la conservazione dello sperma maschile, si realizza una sorta di
ermafroditismo, imperfetto e provvisorio, come del resto è provvisoria
ogni soluzione evoluzionale. La durata di queste provvisorietà , molto
vasta nel caso delle formiche, dipende dalla diversità delle situazioni
ambientali, così come da esse dipende la più o meno netta distinzione
tra femmine e neutri. L’utilizzazione delle femmine imperfette, di
sviluppo ridotto, per l’allevamento della prole e la difesa del nido, ha

136
finito col produrre una novità biologica che, sia per il maggiore sviluppo
del sistema nervoso e dei corpi peduncolati, sia per la maggiore duttilità.
comportamentale, sono a volte irriconoscibili rispetto all’essere imper­
fetto da cui derivano. Persino le esigenze libidiche di questi esseri,
negati alla sessualità, vanno ricercate altrove, forse nella pratica della
trofallassi.
È nella fondazione del nido che, ontofilogeneticamente si può rileg­
gere tutta la storia della società delle formiche. Non rientra negli intenti
di queste pagine una esosizione sistematica di mirmecologia. Ma parla­
re in queste pagine delle formiche, vale per me come un discorso
emblematico, estensibile anche ai temi di tutti i saggi che compongono
questo libro.

IV - La complessa realtà delle comunicazioni interindividuali tra le


formiche, oltre a rivelarmi l’altissimo grado di varietà delle soluzioni
biologiche, mi è servita anche a conoscere e valorizzare i linguaggi
alternativi umani, da quelli vocali e gestuali, fino alle mimiche facciali e
alla loro importanza nelle varie età, soprattutto nei cerimoniali infantili
umani e animali, volti a disarmare l’aggressività. Ma i linguaggi emozio­
nali delle formiche, gran parte dei quali sono di natura chimica, oltre
che tattile e sonora, sono più simili alle comunicazioni che intervengono
tra le cellule di un organismo. Tuttavia un essere come il formicaio,
composto di tante entità distinte nello spazio e nel tempo, ci aiuta anche
a comprendere la comunicazione come qualcosa che può superare i
limiti stessi della specie, e allacciarsi a simboli comunicativi interspecifi­
ci. Lo stesso discorso vale per gli altri aspetti della vita del formicaio, che
è in una relazione priva di margini netti con l’ambiente circostante. La
simbiosi e il parassitismo, così diffusi tra le formiche, sono un altro
esempio per convalidare l’immagine di un essere unitario ma aperto
che, attraverso la trofallassi, realizza uno scambio alimentare e ormona­
le non dissimile da un sistema linfatico e sanguigno. Circa poi la possibi­
lità di astrazioni strumentali nei vari mezzi di comunicazione delle
formiche, ritengo sia utile un’ulteriore indagine, dopo i più recenti
esperimenti su altri animali, come i primati e i cetacei. Mi ha sempre
profondamente sconvolto l’immagine di una formica che, trasportando,
un peso, lo deposita un momento per salire su un sasso e, con le
antenne, più che con gli occhi, individua la via da seguire. L’episodio
rivela qualcosa di molto più complesso di un semplice meccanismo
mnemonico. Se poi si debba ridurre a tropismo, o a riflesso, o a istinto, la
duttilità comportamentale delle formiche o degli animali in genere, la
cosa mi sembra una semplice discussione di nomi, anzi, di nomi equivo-

137
ci, e di uso ormai improbabile come per la parola istinto.
Comunque, l’apprendimento è decisivo sia per la formica come sin­
golo individuo che per la memoria collettiva del formicaio. Conosco, nei
miei nidi artificiali, un certo grado di comunicazione tra il nido e
l’osservatore, comunicazione quasi impossibile coi singoli individui.
Non che la singola formica sia priva di una sua “personalità”, ma questa
è ampiamente condizionata dalla breve durata della vita individuale. Si
tratta di sperimentare quanto sia sostenibile la teoria che afferma la
possibilità dei cervelli individuali di fondersi, nella pratica comunicati­
va, in una sorta di supercervello potenziato. Comunque credo che
sarebbe utile alla moderna cibernetica anche lo studio del cervello delle
formiche. Altro punto degno di approfondimento è lo studio di quei
rituali singoli e collettivi che ho prima chiamato la “danza delle formi­
che”, proprio perché, come la trofallassi, mette in moto una vasta
gamma di iniziative individuali, che si affiancano alle comunicazioni
realizzate con l’esempio stimolatore, e a tutti gli altri linguaggi alterna­
tivi.
L’orientamento nel mondo delle formiche mi è servito per scoprire
un mondo di sensazioni in parte diverso da quello umano. Si pensi ad
esempio all’antenna come a una fusione del tatto e dell’odorato, che in
sostanza genera un senso nuovo. Ma si pensi anche alla capacità di
captare la luce polarizzata, e al rapporto delle formiche col sole e col
cielo stellato. Si pensi, ancora, alla guida nell’orientamento, rappresen­
tata dalle emissioni di feromoni, e a un rapporto con gli odori molto più
complesso che, ad esempio, quello dei cani. Del resto sono ancora
molto da esplorare altri sensi come quello termico, quello idroscopico,
quello della previsione del tempo, e altre facoltà come la conoscenza, la
produzione e l’uso di antibiotici. Da tutto questo,come dallo studio
delle varie tappe della sua evoluzione, che, a differenza di quella
umana, per fortuna sono ancora in gran parte presenti sulla terra, risulta
evidente l’inutilità di aggiungere qualcosa di fantastico a una realtà già
di per sé così ricca e complessa.

V - Devo poi accennare al rapporto tra l’uomo e la formica. Anzitutto


va ricordato che la formica è molto più antica dell’uomo, e che l’appa­
rente staticità del suo mondo deriva dal fatto che le felici soluzioni
trovate nell’evoluzione non hanno incontrato sinora eccessivi ostacoli
ambientali. Ma come per ogni essere vivente, anche per le formiche
l’evoluzione continua. Oggi, poi, diventa sempre più inevitabile e dram­
matico quello scontro con l’uomo che gli spazi diversi di sviluppo

138
avevano finora in gran parte evitato. L’uso rischioso, e spesso impro­
prio, della chimica nell’agricoltura, la distruzione di molti ambienti
naturali e la progressiva mostruosa urbanizzazione, non possono non
finire con l’incidere gravemente sul mondo delle formiche. Conosciamo
abbastanza la loro capacità di adattamento e di apprendimento, come
per esempio nella lunga guerra contro le termiti, molto più antiche di
loro. Sappiamo di formiche diurne e giganti ai tropici, e nane e sotterra­
nee nelle zone temperate. E’ noto l’uso di strumenti in certe specie
(come la “Oecophilla”), o l’allevamento di insetti o di funghi, la raccolta
del miele, la fecondazione del sottobosco, la simbiosi con le piante, il
cosiddetto schiavismo di certe specie. Sappiamo anche come alcune di
esse (per esempio, “Iridomirmex humilis”) abbiano, negli ultimi decen­
ni, realizzato una vera conquista del pianeta, rinunciando, per questo,
anche ai legami dell’odorato e alla divisione di casta e di nido. Sappiamo
che altre formiche agricole, come le “Messor”, si sono da tempo adatta­
te alla vita urbana, precedendo molti animali che oggi cercano nelle città
cibo e rifugio. Sappiamo inoltre come l’uomo abbia strappato alle
formiche alcuni antibiotici, o ne abbia tradizionalmente usati alcuni per
la difesa delle viti. Oggi poi è in atto una grande azione di protezione e
rilancio delle formiche “Rufus” per la lotta biologica contro la proces-
sionaria del pino. Ma di contro sappiamo anche come l’uomo scalpiti
impaziente per l’invasione, certamente non molto dannosa, delle sue
case da parte di piccole formiche industriose e prive di pericoli d’infe­
zione, data l’igiene rigorosa che a loro impongono i pori di respirazione
dell’esoscheletro chitinoso. Sappiamo che, come i delfini a volte restano
uccisi nelle grandi reti da pesca, così molte formiche soccombono.
indirettamente per la caccia indiscriminata agli insetti. E ’ molto difficile
far comprendere alle masse umane che l’inutilità delle formiche è solo
apparente. E ’ appena agli inizi lo studio di possibili alleanze, e l’appro­
fondimento di quegli aspetti della mirmecologia che possono giovare
alla nostra specie. Ma in primo luogo, un’eventuale scomparsa delle
formiche priverebbe l’uomo e la terra di uno dei più grandi esperimenti
del nostro pianeta, e la perdita sarebbe incolmabile. Per fortuna, eccet­
tuati i poli, le formiche hanno saputo occupare tutte le nicchie sotterra­
nee e di superficie della terra, tanto che una loro radicale distruzione
finirebbe col tradursi in un rischio mortale anche per l’uomo. Per le
formiche vale dunque quello che abbiamo detto per l’informazione in
generale. Una loro conoscenza sempre maggiore non può non arricchi­
re la nostra cultura, e facilitare il nuovo patto che l’uomo deve stringere
con le altre forme viventi.
C’è un ultimo aspetto che mi piace ricordare. Si afferma sempre che

139
la disciplina storica sia una peculiarità umana. Questo è vero limitata-
mente agli strumenti strettamente peculiari di questa cultura. Ma nelle
formiche, come in ogni essere vivente, la memoria genetica si esplica in
eredità di comportamenti, e persino in una trasmissione di tradizioni. Si
pensi ad esempio alla trasmissione dei canti stagionali dei cetacei e alla
formazione in molti animali di veri dialetti comunicativi. Sicuramente
una ricerca del genere può riservare nuove sorprese anche nel mondo
delle formiche. .
Chiudo così le brevi note sulle formiche e lo stesso “entr’acte”.
Avviandomi verso la conclusione di queste pagine, credo di avere il
dovere e la gratificazione di controllare ed esaltare l’unità tematica di
tutto il libro, unità espressa con l’accorgimento del frammento. Nel caso
ad esempio delle formiche, l’appello ad un approfondimento informati­
vo su di loro vuole allontanare ogni confronto superficiale e ogni
precostruzione fantasiosa del nostro destino, ma si presenta come un
ulteriore incremento all’opera generale di epifania dell’uomo liber­
tario.
VI - Ho appena parlato di chiudere, e già mi si affollano alla penna
note a non finire. La tentazione è grande, ma per necessità contingenti
mi limiterò a un solo argomento: la fantascienza.
L’ufologia moderna è in parte il frutto delle nuove esplorazioni del
cielo profondo, ma soprattutto è l’edizione rivisitata di antiche mitolo­
gie. Il “diavolo rotondo” di cui parlava Jung, non spiega tutti i fenomeni
ufologici, ma è pur sempre un inizio d’interpretazione. Non è un caso
che l’ufologia abbia invaso i gabinetti spiritici e le sette religiose, e che le
stesse chiese ufficiali prendano posizione di fronte alla probabile molte­
plicità di mondi abitati. La chiesa cattolica, per esempio, ha già prepara­
to un decalogo di comportamento “missionario”, da utilizzare di fronte
a eventuali alieni: gli abitanti del cielo possono essere inferiori a noi,
oppure superiori, ma privi di rivelazione e quindi diabolici, oppure
semplicemente pecorelle da conquistare al gregge, magari più con la
spada che col libro, o persino nuova mano d’opera a basso costo.
L’assurdità di queste posizioni rivela ancora una volta come l’uomo sia
pronto a trasportare i suoi vizi e le sue infezioni in terre non sue. Ma
rivela anche quanto pericolosa sia la persistenza del morbo idealistico in
quella tappa dell’evoluzione nella quale una forma di vita, uscita dal
mare o seminata dal cielo nel mare, inizia un nuovo balzo nel cielo
profondo. Probabilmente questo balzo è già scritto nella stazione eretta
dell’uomo. Infatti, la letteratura fantascientifica è antica quanto la
nostra stessa cultura. In un senso lato, arte e fantascienza si identificano,
ma anche le filosofie e le cosmogonie approdano spesso sul territorio

140
dell’anticipazione, dalla quale non è mai indenne neppure il più mode­
sto laboratorio scientifico.
La fantascienza, intesa in senso più riduttivo, è divenuta un genere
letterario autonomo negli ultimi due secoli, in conseguenza del grande
sviluppo scientifico e tecnologico. Già all’inizio, la letteratura d’antici­
pazione ha riempito nicchie lasciate vuote dalla favolistica e dalla
letteratura criminologica. Era ovvio che assumesse presto i caratteri di
sottoprodotto culturale, nel quale stimolanti intuizioni scientifiche si
mescolano continuamente a più o meno scadenti rimasticamenti meta­
fisici: si è cominciato così a parlare di “science fiction”, definizione
grottesca e persino tautologica.
Quanto ho detto rivela una attenta curiosità per il fenomeno fanta­
scientifico: non sono rari quegli scienziati d’alto livello che hanno
trovato proprio nella fantascienza quell’approccio al mondo dell’arte,
che non riuscivano a trovare in altro modo.
L’esperienza politica è ricca di avances fantascientifiche. A parte
tutta la letteratura utopistica, non si può non considerare fantascientifi­
co il concetto stesso di progresso che ha spesso viziato tante correnti
politiche e sociali. Persino il fascismo può essere considerato una sorta
di perversa fantascienza, che, sostituendo il mito alla realtà, cerca
inutilmente di costruire un sistema ideologico utile a giustificare e
garantire il potere economico di classe. Il fascismo è figlio di quell’ango­
scia esistenziale che riesce a superare se stessa solo nella magia scara­
mantica. Tale angoscia si rivela in quel panico cieco che partorisce
violenza e razzismo quando vuole garantirsi la formula perfetta di
sopravvivenza della cellula individuale nell’organismo statale. Lo Stato
diviene così il leviatano divoratore e necrofilo. Vale a dire l’opposto del
processo di integrazione dell’uomo nel mondo. L’alienazione fascista è
quindi un particolare prodotto storico della borghesia, cioè una forma
altamente pietrificata dell’alienazione sociale. Il sintomo più diretto di
questa alienazione è l’organizzazione repressiva, che in sostanza è
repressione di tutte le forme della libidine. L’uomo del fascismo è un
esempio di grottesco fantascientifico, proprio perché vive nelle sue
continue contorsioni l’aurora dell’ideale, cioè chiude porte e finestre e
si incista nel nocciolo ingrato della verità assoluta.

141
w

I
I *
NUOVA IMPRESA DEI PROLEGOMENI ACRATICI

Ho detto che un libro è sempre un frammento biografico, in forma


più o meno dichiarata. Ogni biografia è una confessione, e come tale
può avere funzioni diverse. Può masochisticamente tendere a un’iper­
critica autofrustrazione, o al contrario, con varia dose di ipocrisia,
mirare all’esibizione della propria volontà di potenza, in vista di allet­
tanti gratificazioni esterne. Non ne vanno indenni troppi prodotti cultu­
rali, e neppure molti testi di filosofia.
Ma, più autenticamente, un libro può essere semplicemente il repor­
tage di un viaggio. O, meglio, di un frammento di quel viaggio che è il
tempo della nostra vita. Non mi nascondo che questa è la mia ambizio­
ne: il reportage diviene battuta di un dialogo che, in qualche modo,
intende promuovere una cultura di vita. E ’ quindi naturale che, verso la
fine del viaggio, prorompa nelle pagine una malinconia insieme dolce e
aspra: scritta l’ultima parola dell’ultimo foglio, mentre trascorre nella
memoria il film del viaggio intrapreso, si guarda con un misto di ango­
scia e di gioia al nuovo foglio bianco che ci attende quando gli eventi ci
fanno voltare pagina. Se l’impresa che promuovevo in questo reportage
era la promozione di un’indagine libertaria, auspicata attraverso un
collage di prolegomeni, l’impresa che termina non può che morire
generando una nuova impresa. Non posso e non voglio presagirla, ma
posso solo ipotizzare che vorrà essere una serie di viaggi nella prospetti­
va, sull’onda dei suggerimenti che vengono da questi prolegomeni.
Il presente reportage ha spesso dovuto vincere la grossa tentazione di
farsi enciclopedia, o, peggio ancora, via verso un sistema. Fedele alla
mia concezione di un collage che in effetti sia “decollage”, cioè che tolga
e sfrondi, più che aggiungere e costruire, ma che proprio così riveli una
potenziale molteplicità grafica, confermo la mia fiducia in un criterio
poieutico strettamente partigiano.
L’ultimo capitolo del libro esige quella essenziale brevità che mi piace
confrontare al “silenzio tonante” dello Zen. Chi mi ha seguito finora
può sapere che il mio sforzo parte dall’incontro continuamente ripropo­
sto con l’archetipo, inteso come un feedback. Ecco il nome ambiguo ma
pregnante dell’unico colpo d’occhio che è possibile gettare dentro il
nostro prossimo futuro.
Questa mattina, camminando per strada, mi sono sforzato di guarda­
re i miei simili come macchine, macchine relativamente complesse e
organizzate in tempi di varia durata, ma pur sempre macchine. Macchi­
ne con una gamma di variazioni molto vasta, ma pur sempre limitata.
Pur nella povertà del vocabolario d’uso, sentivo però espandersi queste

143
V
immagini con un sentimento gratificante di novità. Il trip rigoroso finiva
tutto addosso a me. Io sono una macchina complessa, più di quanto
abbia ipotizzato la mia riflessione. La moderna cibernetica ci ha abituati
all’ipotesi dell’automa non programmato. La programmazione del na­
stro nucleico e degli altri componenti simbiotici, subcellulari e connetti­
vi, mi è parsa stamane, camminando per strada, come un tipo di auto­
programmazione, che si rivela appunto alla fine come non programma­
zione. Se tutto è programmato, niente è programmato. E siamo di
nuovo in alto mare. In realtà si trattava di un falso problema, perché
chiamare programma l’azione del nastro nucleico è antropomorfizzare
la nostra informazione, alienandola dal suo legame di continuità con la
realtà microfisica che la condiziona.
Queste macchine, mi dicevo stamane camminando, si fermeranno,
presto o tardi moriranno. Non mi sono impedito così di emendare la
paura col coraggio, e di inoltrarmi nello spazio d’ombra della vanifica­
zione di tutti gli impulsi e di tutti gli entusiasmi. La mia “maledetta”
viziosità intellettuale mi ha subito costretto a confrontare fede e spe­
ranza.
Fede, sostanza di cose sperate? Ma quando la fede del sentirsi vivi
diviene veramente scandalo del quotidiano?'Quando la fede primige­
nia, affacciandosi sulla porta di casa, sfugge, o si illude di sfuggire, al
meccanismo dell’alienazione storica e, senza astrarsi dalla storia stessa,
conserva la capacità di morire nel farsi speranza? Poi, ancora una volta
poi, viene la morte. Perché dico questo? Tutto il presente reportage
vuole essere una sfida, un ardimentoso impulso ad agire. Agire nella
direzione del morire della fede nella speranza, del morire della speran­
za nell’utopia del gesto totale, del sentire questa utopia come un orga­
smo estremo, dopo il quale si comincia a godere la discesa verso la
-rarefazione, e ad aprirsi alla carica successiva, verso il nuovo plateau.
Voglio provare a essere esasperatamente sincero. Ogni impulso rivo­
luzionario che non faccia i conti con la corposa apparenza della vanifica­
zione conseguente alla morte, è destinato a fallire. Sono consapevole
che, almeno in parte, le mie parole sono condizionate anche dalla mia
età anagrafica, e che non posso ignorare di essere oggi non molto
lontano dalla mia morte. Ma sono anche convinto che la consapevolezza
della morte avrebbe aspetti meno drammatici, meno tragici e meno
grotteschi, se già nell’infanzia la morte non ci apparisse sotto la veste di
quei flash che avevano traumatizzato Gautama. L’incontro, se non
ridimensionato alla spregiudicatezza del quotidiano, ci trova imprepa­
rati a microanalizzare la morte fino alla dissoluzione dei ghiacci pietrifi­
cati che imprigionano le parole.

144
Devo dire che in un certo senso io sono stato privilegiato dall’essere
figlio di un medico, e che fin da piccolo ero abituato a vedere più che la
Morte (con l’emme maiuscola), le molte piccole morti (con l’emme
minuscola): la morte cardiaca, la morte respiratoria, la morte cerebrale,
la morte clinica. E, ancora, l’amenza, l’abbrutimento chimico, e la
caduta totale delle speranze nella malinconia. Mi parlavano, già nella
prima infanzia, delle “resurrezioni” in camera di rianimazione e del
giuramento ippocratico pronunciato dal medico, di salvare e prolungare
la vita. Le scaramantiche proiezioni di una vita dopo la morte, fin da
allora, mi hanno interessato esclusivamente come nozione antropolo­
gica.
Il piccolo privilegio della mia origine infantile non mi ha certo mira­
colosamente guarito da quella paura archetipa della morte, che spesso
diviene contemplazione della morte. La fascinazione degli occhi del
serpente. Conosco anche la gratificazione che viene da questa contem­
plazione, e che può illudere di rendere accettabile, nel giuoco sadoma-
sochistico, l’esaltazione dell’agonia. Ma ho superato la prova e, conti­
nuo a superarla, spegnendo il panico nell’immersione dentro le molte­
plici informazioni della vita, riemergendo poi naturalmente in un conti­
nuo ricominciamento da capo.
Questa è l’unica eredità che vorrei lasciare. Preparandomi a conti­
nuare il viaggio, non voglio più nel mio bagaglio nessuna giustificazione
pietosa. Ogni paradiso è la nostalgia ontofilogenetica del caos amnio­
tico. ’
Si è cercata fin qui una speranza che spogliasse la memoria di ogni
incantamento suicida. Se questo non continuasse a fare la futura ricer­
ca, ogni slancio in avanti verrebbe inevitabilmente castrato da forbici
odiose, cedendo senza lotta all’astuta miopia di quel potere che agisce
nella cronaca, là dove, tra il quotidiano e lo storico sembra illusoriamen-
te profilarsi una terra di nessuno.
Ma interrompere il reportage su tanto crudo richiamo, mi sembra
quasi un gesto inutilmente crudele. Credo invece che solo un vizio
mentale può continuamente obbligarci a confrontare morte e speranza.
La continuità deliavita, solo in parte si riconosce nel figlio, nel discepo­
lo, nella più lunga durata dei grandi oggetti della natura. Tutto questo
non basta per spegnere la disperazione, il silenzio e la solitudine del
momento della morte. Ma come potrei affidarmi con fiducia a me stesso
o a un compagno di lotta se, ipotizzando quel momento, ci lasciassimo
prendere dal panico cieco, oppure cedessimo per fragilità a un sogno
tempestivo quanto aberrante?
La fiducia in te, nell’altro, mi viene dalla fiducia in me stesso, quando

145
riconosco l’impulso che mi coinvolge, e in questa riconoscenza riacqui:
sto rapidamente i colori più caldi della speranza.
Toma così legittimo, anche nella stagione più avanzata, il verde
slancio dell’indagine libertaria, intesa come disponibilità totale a quella
voce che non chiama fuori di noi o dentro di noi, ma che siamo noi stessi,
quando, nell’affidamento concreto alle potenzialità del nostro corpo, ci
sforziamo di ricongiungerci con un gesto totale a quell’universo reale
dal quale ci ha allontanati l’amaro frutto evoluzionale dell’alienazione.
Si ha il diritto di denunciare la strega metafisica quando anche questa
disponibilità diviene istituzione. Non si ha più il diritto di rifiutare la
speranza, quando l’adesione diviene operazione quotidiana, forma
mentale e costume, lungo la strada di quel decentramento continuo e
progressivo che questo reportage ha continuamente auspicato.
Non sto scrivendo la cavatina finale necessaria a non so quale logica
dei libri. Sono pronto a gettare questo libro e tutte le sue incompletezze,
imperfezioni e inadeguatezze, nel centro del fuoco, per alimentare,
incrementare e ricominciare a ogni passo l’operazione acratica.

★ ★ ★

146
DIECI ANNI DOPO

I - Dieci anni dopo, sono naturalmente diventato lettore critico di me


stesso. Ma una certa gratificazione mi è venuta da un esame impietoso
che si risolveva sostanzialmente in una critica di segno positivo. La
continua e intima interconnessione tra biografia e ideografia mi è
sembrata un’importante chiave di lettura, tanto che, nello stendere
queste conclusioni provvisorie, sento il bisogno di aggiornare i presenti
saggi riferendomi ad alcuni eventi dei dieci anni che mi dividono da essi,
anni nei quali, per dirla gramscianamente, sono rimasto pessimista
neH’intelligenza e ottimista nella volontà. (Naturalmente intelligenza e
volontà secondo la mia peculiare accezione.)

II - Alla fine degli anni settanta ho realizzato due nuove trasmissioni


radiofoniche (21 puntate di testo e regia)', intitolate “Le ballate dell’An­
nerate” e “Le stanze di Azoth”.” La precedente trasmissione (“Lo
scandalo dell’immaginazione”, collaboratore Paolo Morawsky) applica­
va la critica acratica alla comunicazione di massa. Evidentemente,
allora, non potevo prevedere lo sviluppo involutivo che avrebbe caratte­
rizzato sempre più i mezzi di informazione, spesso incapaci di validifica-
re la libertà di stampa, sempre più avviati verso una omologazione
dell’informazione, tesi scandalosamente alla caccia di equivoci scoops,
succubi in larga misura di un’opinione pubblica manovrata dalle mani­
polazioni di palazzo. Il capovolgimento dei linguaggi d’informazione,
che auspicavo in quella trasmissione, sembra oggi allontanarsi fino a
diventare utopistico. Questo per me vale come un termometro del
degrado in atto. La corsa al successo e alla ricchezza non si è fermata ai
mezzi d’informazione, ma ha ampiamente corrotto anche gli ambienti
letterari e scientifici, creando schiere numerose di pentiti e di convertiti.
Ovviamente l’aspetto più grave di questo fenomeno riguarda le divulga­
zioni scientifiche, nelle quali troppo spesso si rimasticano, come origi­
nali, dati già acquisiti dalla ricerca, nel nome di uno sfacciato protagoni­
smo. Ma ancora più grave è la manipolazione utilizzata dalle varie
divulgazioni, per cui si arriva a indicare come progresso scientifico una
serie di flashbacks ideologici che, più o meno larvatamente, mimetizza­
no un nuovo asservimento di alcuni uomini di scienza ai signori della
guerra e ai saccheggiatori del pianeta. Basti come esempio la fanfara
ecologica ufficiale, che, nelle sue forme istituzionali, mira non tanto a
promuovere nuova ecologia, quanto a frenare una naturale ribellione al
servaggio e al saccheggio. Persino alcune università si sono distinte in
questa eroica operazione, sia incoraggiando raccomandazioni e carrie­

147
rismi, sia accettando di condurre occulte ricerche al servizio del potere
politico, mascherandole con false esibizioni di obiettività. Possiamo
tranquillamente parlare di restaurazione, ma, siccome niente si ripete in
modo identico, la restaurazione degli anni ottanta è più riconoscibile
nell’aurea generale della cultura, che non in determinate sacche dietro-
logiche e revansciste. Il disimpegno neoqualunquistico che ha infettato
larghe fette delle giovani genarzioni e il ritorno, formalistico e privo di
convinzione, a vecchi valori religiosi e sociali, sono sintomi evidenti di
un riflusso in atto. Di questo soprattutto parleranno le conclusioni
provvisorie, dopo gli aggiornamenti biografici.
La trasmissione intitolata “Le ballate dell’Anticrate” (musiche di
Vittorio Gelmetti, collaboratore Paride Braibanti) è stata la naturale
conseguenza dei prolegomeni esposti in questo volume. L’Anticrate,
protagonista della favola ispiratrice delle dodici Ballate, nasce come la
reificazione dell’archetipo, e si individua sempre più come l’anarchico
per forza, costretto da una sua innata predisposizione a combattere per
il rafforzamento di tutti gli impulsi liberatori.
“Le stanze di Azoth” (musiche di Sylvano Bussotti, collaboratore
Delio Barth) hanno assunto il carattere di sceneggiato drammatico. La
dedica d’inizio si riferiva a tre persone per me importanti, morte proprio
in quel periodo: mia madre, Giorgio Colli e Franco Basaglia. Sviluppan­
do la cronaca dello psicodramma di un gruppo di degenti psichiatrici,
che si rifiutano di lasciare l’ospedale senza avere prima solide garanzie
di aiuto sociale, ho imbastito una specie di romanzo giallo, alla ricerca di
un autore di un piano segreto, teso a fare di ogni psicolabile del gruppo
una sorta di reicarnazione dei filosofi presocratici: si apriva così la caccia
a una sapienza perduta, più vicina al buon senso e al coraggio civile che
non a improbabili nostalgie culturali. Ancora una volta miravo a con­
trapporre alla mistificazione logica e causidica la protesta contradditto­
ria, ma generosamente passionale, e sprattutto incondizionatamente
demistificatoria. Per questo privilegiavo il linguaggio poetico come via
più pratica e più diretta. Durante la trasmissione ho potuto finalmente
dare notizia dell’abolizione del reato di plagio, decisa dalla Corte Costi­
tuzionale. Ma di questo parleremo più avanti.
Subito dopo questa trasmissione, ho steso il testo di una nuova
trasmissione, intitolata “La capsula del tempo”.” Ma ormai si erano
troppo logorati i miei rapporti con la RAI di allora che, nonostante
l’aiuto di alcuni coraggiosi funzionari, mi sembrava non potesse più
garantirmi la libertà necessaria. “La capsula del tempo” è così rimasta
nel cassetto. In questo lavoro, sempre con la formula dello sceneggiato,
raccontavo gli sforzi di un uomo di buona volontà, una specie di nuovo

148
Anticrate, che in vista del lancio di una capsula del tempo per le future
generazioni, finisce col riconoscere come unico oggetto da chiudere
nella capsula sé stesso e il proprio corpo, come emblemi della propria
specie, della biomassa terrestre e di tutto il pianeta. In questa sua scelta
non volevo indicare un ulteriore atto di superbia o di conferma del
primato dell’uomo, ma piuttosto il gesto disperato di chi si sente impo­
tente di fronte a forze sopraffattrici, e non rinuncia tuttavia a portare la
sua tragica testimonianza.
Chiuso il periodo di collaborazione con la RAI, mi sono trovato in
situazioni economiche sempre più precarie, fino a dover sopravvivere
quasi esclusivamente con una pensione sociale.

Ili - Nel 1986 ho tenuto a Roma, nella galleria “Il ferro di cavallo”, una
mostra di collages, che continuava il discorso sull’“objet trouvée”, già
ampiamente illustrato nella mia mostra di Firenze del 1977, presso la
galleria “La Bezuga”. Non parlerei di questa mostra se il tema dell’“ob-
jet trouvée” non fosse in sostanza una mia coerente protesta contro la
società dei consumi. Come ho sempre fatto in mostre del genere, ho
cercato di condurre un discorso parallelo tra linguaggio plastico-figura­
tivo e linguaggio poetico.
C’è, poi, la mirmecologia. Tengo sempre alcuni nidi artificiali funzio­
nanti, ma la mancanza di mezzi economici, la difficoltà di viaggiare e le
condizioni di vita in una grande città mi hanno reso ancora più difficile
l’osservazione diretta. Ne parlerò più avanti, ma qui mi piace sottolinea­
re la difficoltà d’azione e la ristrettezza degli spazi di manovra che
spettano ai battitori liberi, e comunque a tutti quei ricercatori non
integrati nelle istituzioni e non stimolati da smanie esibizionistiche. Il
loro piccolo vantaggio è la possibilità di un incondizionato uso del
linguaggio più spregiudicato, ma il loro grande rischio è la possibilità di
non potersi rapidamente aggiornare sulla ricerca e sul suo linguaggio, a
meno che non si accettino tutti gli sforzi e tutti i sacrifici necessari per
stare al passo con quella massa di informazioni che sono così facilmente
a disposizione di chi non sempre ne è degno.

IV - In questi dieci anni il discorso teatrale e quello cinematografico si


sono caricati per me di nuove difficoltà. Vediamo anzitutto il discorso
cinematografico. Dal lontano 1947 a oggi ho scritto molte sceneggiatu­
re, “I rospi”, “Quattro giorni prima dell’alba”, “Virulentia”, “L’Anticra­
te”, “Il pianeta di fronte”, “Colloqui col dio del riso” e ho collaborato ad
altre, tra cui “La Cospiration”, “Lettere da Milano” e “Tempi morti”
con Ronald Shamman, e “Blu cobalto” e “La spiaggia nera” con Gian-

149
frane» Fiore Donati. “Blu cobalto” è stato presentato a Venezia nel
1986 e “La spiaggia nera” è in lavorazione. Circa queste sceneggiature,
devo fare una considerazione generale. Si tratta sempre della proposta
di films d’autore, e di operazioni da condurre in sedi alternative, o con
l’aiuto di produzioni illuminate. Purtroppo, già queste condizioni ren­
dono estremamente difficile la realizzazione di un film. Per non parlare
delle sceneggiature più vecchie, mi sono trovato a incontrare grandi
consensi, ma nessun aiuto pratico per “Virulentia”, per “L’Anticrate” e
per le due ultime sceneggiature. Dopo la realizzazione di “Pochi stracci
di sole” del 1956 a passo 35, e dopo alcuni brevi filmati e provini a passo
ridotto, ho potuto in pratica, grazie a un aiuto disinteressato, realizzare
solo nel 1987 una videocassetta intitolata “L’orizzonte degli eventi”.”
Oggi sto ancora battendomi per realizzare “Colloqui col dio del riso”.”
Questa sceneggiatura, come “Il pianeta di fronte”, descrive i difficili
travagli dell’età puberale, soprattutto in relazione alle incomprensioni e
alle violenze dell’ambiente sociale: in entrambi i testi diviene perciò
prevalente il tema delle abissali carenze e dei ritardi pedagogici della
nostra società.

V - Più complesso è il discorso sul teatro. Dopo l’esperienza cagliaritana


del “Mercatino” e l’estinzione del mio laboratorio, avevo deciso di
interrompere di nuovo per un lungo periodo l’attività teatrale. Ma nel
1985 la presenza stimolante di Alessandro Cassin, (figlio di quell’Euge­
nio che con la editrice Schwarz mi aveva aiutato nella diffusione de “Il
Circo”), mi ha convinto a riprendere il discorso. In realtà c’erano già
state da parte mia proposte di programmi culturali multimediali, a
Firenze, Paestum e Palermo, che si ispiravano sostanzialmente al lin­
guaggio teatrale, se pur inteso in un’accezione molto ampia. Questi
progetti non sono stati realizzati, anche perché è mancato sempre
l’appoggio decisivo delle istituzioni ufficiali.
Nel 1986, dunque, ho rappresentato a Segni, senza repliche, un nuovo
lavoro, nato dalla vecchia idea de “Lo spazio di Sara”, e che, in omaggio
a un mio precedente saggio, ho intitolato “Theatri Epistola”. (“Lo
spazio di Sara”, come “L’Otello”, il “Titanic” e vari testi di canzoni,
appartengono a un periodo di elaborazione di testi che può essere
considerato transitorio e frammentario).
“Theatri Epistola” è l’estremo tentativo di sposare poesia, musica e
pittura. (Pittura di Gianpaolo Berto e Enos Williams, direzione da parte
di Vittorio Gelmetti della musica autogestita, operatori di scena, in
ordine alfabetico, Argento, Xavier Barreiro, Alessandro Cassin, Massi­
mo Napoli e Luisa Sanfilippo). L’azione drammatica si realizzava attra­

150
verso una serie di tableaux gestuali e verbali, collegati tra loro sia da un
mio intervento diretto (comunque sostanzialmente diverso da quello di
Kantor), sia dall’azione pittorica continua di Enos. Tutta l’operazione
mirava a porsi oltre la frattura tra teatro gestuale e teatro di parola, in
una fase più avanzata rispetto ai precedenti laboratori. Restavano
ancora fondamentali la destrutturazione analinguistica del testo, la sua
ricomposizione nella saturazione della presentazione scenica, la pre­
senza contemporanea di molti palcoscenici mobili, l’uso totale dello
spazio scenico e la proposta di molte forme di autogestione da parte
degli operatori di scena, dalle luci ai rituali, alle vocalizzazioni, alle
deconcentrazioni propedeutiche. Ma questa volta cercavo di dare corpo
a un teatro più rigorosamente povero, basato solo sul corpo e suoi suoi
complessi legami con l’ambiente interno ed esterno.
Il tema di “Theatri Epistola” si riferiva alla storia di Abramo e di Sara,
con richiami sia alla Bibbia che al Corano, ma esclusivamente come
metafora della difficoltà di movimento del linguaggio poetico e teatrale
nella età della cultura di massa. Nessun richiamo religioso dunque, ma
solo un nuovo appello agli aspetti più drammatici e più conflittuali di
una ecologia globalmente intesa. Dopo la presentazione di “Theatri
Epistola”, mi sono trovato quasi naturalmente a interrompere di nuovo
l’attività teatrale. Le difficoltà a cui accennavo sopra, si erano ormai
moltiplicate, e diventava impellente in me il bisogno di un totale ripen­
samento del teatro. Tuttavia, negli ultimissimi tempi ho progettato due
nuovi lavori: cioè “La fontana degli dei” e “Il sonno del Bradipo”. Il
primo si ispira a un’idea di sceneggiatura della storia naturale delle
religioni, che mi aveva interessato già negli anni lontani del Torrione
Farnese: per essa avevo persino progettato un viaggio in India, che poi
non ho potuto realizzare, sia per mancanza di mezzi, sia a causa del
malaugurato processo di “plagio”. “Il sonno del Bradipo” è un testo
vocale-gestuale per un mimo e due attori, che vuole denunciare gli
equivoci delle improvvisazioni teoriche in campo biologico. Il mimo che
impersona il Bradipo tiene sempre chiaramente distinto il suo perso­
naggio dall’interpretazione che ne dà, evitando così, ogni caduta antro­
pomorfica.

VI - Mi sembra necessario spendere due parole sull’evoluzione che è


avvenuta in me in questi dieci anni rispetto al lavoro teatrale. Ho
assistito via via al progressivo esaurirsi delle avanguardie teatrali degli
anni ’60, e alla progressiva restaurazione di un teatro più o meno
tradizionale. C’è stata, poi, una proliferazione, forse eccessiva, di giova­
ni compagnie pateticamente tese alla ricerca di un teatro perduto, ma in

151
generale il loro sforzo si è indirizzato a una riscoperta del teatro di
parola, senza la preparazione necessaria a evitarne gli equivoci e i
compromessi. Il problema che mi aveva travagliato negli anni settanta e
ottanta è così riemerso in forma abbastanza confusa, come se la gestua­
lità e la dizione avessero perduto per sempre una possibilità di reinte­
grazione.
Tipico è anche il discorso che si può fare sul pubblico teatrale di oggi.
La televisione non ha annientato il cinema e il teatro, ma li ha trasfor­
mati in luoghi d’evasione, o in operazioni per iniziati. Il diffuso nuovo
qualunquismo culturale ha generato un pubblico distratto e insieme
esigente: distratto rispetto all’operazione artistica, ed esigente di una
omologazione dei films e dei lavori teatrali al conformismo ufficiale.
Oggi è certamente più difficile per un regista costruirsi un suo pubblico
particolare, ma tuttavia questa resta l’unica strada possibile.
La nuova pesante riedizione di una nefasta divisione tra forma e
contenuto ha portato al ritorno di vuoti estetismi e alla presentazione
acritica di tematiche dietrologiche. Molto spesso questi risultati sono
l’effetto di una cattiva informazione culturale, ma sempre sono la
conseguenza di una vertiginosa massificazione della cultura. Voglio fare
un esempio per tutti. Le urgenze ecologiche attuali restano ancora fuori
dai grandi filoni artistici, ma, quando vengono messe al centro dell’at­
tenzione, restano denunzie primitive e impregnate di ambigui senti­
mentalismi: raramente riescono a raggiungere il linguaggio poetico,
fuori dall’equivoco delle arti pure o delle arti engagées.
Mi viene spontaneo confrontare quanto dico con le cose scritte nei
saggi di questo volume. L’arte tesa all’emendazione acratica non può
non continuare la sua guerra contro le estetiche e le poetiche costruite
su misura per il primato dell’uomo, non può non denunciare sia i
razzismi estetici che i fideisti apodigmi delle ideologie di progresso. Ma
tutto questo può avvenire solo riscoprendo la forza utopica dell’arte: il
linguaggio artistico è tale solo se sa utilizzare il mito poetico non come
una trappola o un golem, ma come uno strumento di lotta contro tutto
quello per cui il linguaggio artistico stesso esiste, che è, in sostanza, l’uso
provvisorio del mito per una costante demistificazione.
Ovviamente anche il teatro può ricominciare a svolgere questo ruolo
se riesce a tornare ai suoi fondamenti iniziali. Se è vero che bisogna dare
a ognuno quello che cerca, resti pure il teatro conservatore, consacrato-
re e perbenista. Il problema non è quello di ostacolarlo: si tratta invece
di modificare pedagogicamente le basi culturali e i gusti personali,
elevando l’altitudine del giuoco nella ricerca del piacere. Ma tutto
questo si raggiunge solo con un mezzo: l’intensità e l’efficacia della

152
pronuncia poetica. Non voglio dire che deve rinascere un ambiguo
teatro “poetico”: al contrario è una emendazione del linguaggio poetico
che può salvare il teatro.
Ci sono molte tecniche del corpo e molte ricerche d’avanguardia
conquistate nell’ultimo trentennio che non vanno messe da parte: ma
bisogna imparare a utilizzarle in modo nuovo, e a estendere il campo
d’azione, proprio ora che troppi “maestri” del recente passato si sono
perduti nell’autocelebrazione o in un arido e infecondo misticismo. La
morte del teatro, quando non è una provocazione di dubbio segno,
finisce col rivelarsi frutto di un esaurimento e di una sterilità. Il destino
del teatro è quello di tutta l’arte in genere: possono cadere e svuotarsi
molte modalità espressive, possono emergere nuove impensabili tecno­
logie utili alla comunicazione, ma è assurdo parlare oggi dell’estinzione
di quel bisogno di informazione il più rapido e il più incisivo possibile,
che è ancora l’attualità dell’arte. (
Naturalmente non mi riferisco al teatro, all’arte e alla cultura qualun-
quiste, così lautamente sovvenzionate e sorrette dalle istituzioni ufficia­
li. Parlo esclusivamente di un teatro che deve trovare il coraggio di
ricominciare da capo come teatro d’élite. Il problema di oggi non è più
quello di superare o meno la cavità teatrale, o di condurre rituali per un
commando di iniziati: un’élite non è un posto di fuga cenobitico, e
neppure il corpo speciale di un esercito di conquista. Un’élite è invece la
negazione di ogni massificazione, e il punto di diffusione di una cultura
di recupero della dimensione naturale e non alienata dell’uomo. Oggi
più che mai tutti i mezzi, dai più tradizionali ai più avanzati, sono utili al
teatro in modo ecletticamente empirico: utili non tanto per conseguire
un fine, quanto per identificare mezzo e fine nella operazione continua
di emendazione dell’intelletto.

VII - Se vuole ritrovarsi, il teatro deve ricominciare da capo, verificando


criticamente le sue basi d’origine.
A) Anzitutto deve riscoprire il suo bisogno iniziale, che è la comuni­
cazione dell’essere vivente con l’ambiente, che si può emblemizzare per
l’uomo nel dialogo con un proprio simile. Vale a dire che la prima mossa
di una nuova epifania teatrale è riconcepire il dramma come la battuta
provocatrice di un dialogo. All’inizio il teatro è danza, cioè comunione
di riti individuali in vista di un dialogo drammatico con l’ambiente
esterno. Il regista in questa fase è simile alla megattera che intona il
nuovo canto: è cioè in sostanza un corifeo. Solo in un secondo tempo il
coro si amalgama in un’unità di molteplici, pur restando protagonista.
Quando poi il teatro esce da un sincretismo d’origine e assume un ruolo

153
più direttamente laico e civile, regista e attore assumono una funzione
sempre più distinta. Per molto tempo il regista incarnerà l’esigenza di
una unità propositiva, mentre l’attore diventerà sempre più la maschera
di una rappresentazione. A questo punto il blocco iniziale avrà già
generato diversi linguaggi teatrali, che però possono essere ricondotti a
due grandi filoni. Da una parte l’interprete del personaggio, cioè il
mestierante, che può arrivare a livelli molto alti, e il regista come
delegato pubblico a guidare la rappresentazione rituale. Dall’altra parte
esiste solo il teatro d’autore, nel quale gli attori diventano i primi
partners della battuta testuale, e preparano col regista una presentazio­
ne di molte variazioni su tema per un pubblico inteso come partner
sempre più esteso.
B) In secondo luogo il teatro d’autore (l’unico che qui viene preso in
considerazione), deve riscoprire l’importanza di tutti i linguaggi alter­
nativi, mediante i quali può realizzare quella emendazione del linguag­
gio verbale che è indispensabile all’attuale crisi del teatro. I linguaggi
del corpo, unica vera base del dramma, sono così molteplici e spesso
così nascosti che una loro riemersione presuppone necessariamente un
laboratorio, o meglio ancora una palestra multimediale.
C) Questa operazione linguistica si realizza proponendo dei miti
metaforici che abbiano breve durata, e svolgano dichiaratamente il
semplice ruolo di strumenti di lavoro.
D) La presentazione del dramma annienta ogni velleità di rappresen­
tazione, (e quindi di ripetizione senza poesia), solo quando il rito
teatrale è inteso, come dicevo nei saggi, come uno strip-tease dell’ope­
ratore, che offre se stesso nella sua nudità per coinvolgere gli altri nel
proprio sforzo di dissolvere la corazza caratteriale. La catarsi diviene
non l’esibizione di una catastrofe, ma un’operazione continua, priva di
ogni valenza moralistica. La corazza caratteriale non si dissolve una
volta per sempre, ma si ricostituisce in un blocco non appena l’azione
drammatica perde la sua dinamicità.
E) Il processo catartico connaturato al dramma è dunque un giuoco.
Giuoco inteso come liberazione continua dagli imperativi e dai com­
plessi. Giuoco come propedeutica all’azione. Giuoco come assalto al
dominio razzistico della logica individuale e al primato della specie. Mi
sembra chiaro che qui non si fa alcun riferimento a soluzioni irrazionali
o arazionali, ma semplicemente si nega ogni semantica della ragione.
F) L’annoso e critico rapporto tra gesto e parola, come del resto
quello tra testo e contesto o, ai limiti tra forma e contenuto, si dissolve
quando si concepisce la parola come gesto, e si chiama gesto o gni
movimento del corpo teso alla comunicazione.

154
G) Il gesto teatrale può essere chiamato gesto intero quando emble-
mizza la tensione totale dell’operatore, che in sostanza è una tensione al
rafforzamento della vita. Ma oggi a questa tensione spetta un nome più
appropriato, cioè sopravvivenza. Per questo il gesto teatrale non può
non tendere a una sempre più avanzata abolizione della violenza, cioè
ad una “aihihmsà” attiva, di cui si può parlare solo se ne abbiamo fatto
una scelta di vita e un costume quotidiano. Non di “ahimsà” deve
parlare il teatro, ma in tutte le sue manifestazioni deve divenire
“ahimsà”.
I punti appena esposti non esauriscono certo l’opera di rifondazione,
ma sono sicuramente un efficace punto di partenza. Oggi il teatro deve
tornare a essere integralmente una espressione libidica, e per questo
non può che riscoprire la propria dimensione ludica. Riscoprire cioè, al
di fuori di tutti i velleitarismi e le approssimazioni gratuite, un profondo
rapporto di identificazione tra necessità, giuoco e libertà.

V ili - Ho parlato finora di un teatro che presuppone la presenza fisica


dell’attore. Ma oggi più che mai questa è una concezione, restrittiva, in
quanto si riferisce solo a un particolare tipo di spettacolo. Ma un
autore-regista oggi (e non solo oggi) ha a sua disposizione possibilità di
interventi su oggetti, su spazi e su tempi, che non presuppongono
necessariamente corpi umani in azione. Mi riferisco ovviamente ai
teatri per marionette e burattini, ai teatri delle ombre, agli spettacoli di
sole luci, alle scenografie mobili, all’azione diretta sull’ambiente, a
teatri di soli animali. Ad esempio, non si tratta di sfruttare antropomor­
ficamente, o con finalità ambigue, altri esseri viventi. Troppi animali
vengono stupidamente e inutilmente sacrificati sulle scene teatrali e sui
sets cinematografici. Si tratta invece di presentare squarci drammàtici
della schiavitù animale, non ricostruiti artificialmente, ma colti diretta-
mente dalla realtà che ci circonda.
Se vogliamo poi allargare il discorso, è lo stesso concetto di spettacolo
teatrale che può estendere la sua valenza fino a comprendere situazioni
che in apparenza sembrano lontane dall’idea di spettacolo. Non c’è
attività umana che non porti in sé una carica drammatica, non c’è
osservazione dell’ambiente che non sia proponibile all’attenzione di
uno spettatore. Io non credo che per fare dell’arte occorra una sia pur
labile traccia della presenza umana, se non nella formulazione comuni­
cativa del propositore che mira al dialogo. Voglio togliere di mezzo un
grande equivoco. C’è un modo di tradurre tutto in spettacolo che, in
realtà, è la morte del teatro e dell’arte. L’odierno riflusso restauratore
concepisce tutto, e in primo luogo la politica, in termini di effimero

155
spettacolare. Oggi assistiamo alla umiliante sarabanda degli artisti,
degli scienziati, e perfino dei managers aziendali, che danno spettacolo
di sé come nuovi e più grigi giullari del nefasto primato della politica.
Ma è spesso l’uomo politico, con la sua arroganza petulante e logorroi­
ca, che si è intensamente colorato di qualunquismo, fino a dimenticare
la sua funzione di servizio sociale, e a eleggersi “perito dei periti”. Per
questa strada si affossa l’idea democratica, e si tenta di passare progres­
sivamente a una pratica plebiscitaria, che scivola facilmente nelle trap­
pole autoritarie. Complici i grandi mezzi di comunicazione di massa, e
in primo luogo i rotocalchi e la televisione, si ricomincia a far leva sulle
passioni più facili della gente comune, allettandola con tutti i prodotti
della tecnologia e del consumismo, e indicando loro come obiettivi
primari l’intelligenza alla misura dei quiz, il protagonismo esibizionista
e il conseguente arricchimento. (Parola d’ordine: arricchitevi!).
Altra cosa è l’estensione dell’arte drammatica al di là delle cavità
teatrali, delle piazze delegate, degli oratori e delle sedi politiche. Altra
cosa è cioè concepire il teatro, e quindi l’arte in genere, come uno
strumento formidabile di emendazione dell’intelletto, e di elevazione
del bisogno ludico. Ancora una volta le mie note tornano all’esigenza
irrinunciabile di una rivoluzione pedagogica. Maestro è colui che si
identifica col suo discepolo nell’atto di imparare, così come artista è
colui che sa risvegliare e portare ad altitudini sempre più promozionali
il bisogno libidico che esiste in ogni uomo, e che non può convivere con
alcuna repressione. Se qualche profeta di sventura parla della morte del
teatro, non sarò certo io a piangere sulla fine di questo o di quel tipo di
spettacolo, come non verserò una lagrima ai funerali di tante poetiche.
Purché si ritorni all’unità immaginativa del corpo e del suo ambiente, si
possono aprire, anche se in forme oggi impensate, nuovi e stimolanti
spazi di linguaggio poetico.

IX - Agli inizi del 1981 la Corte Costituzionale italiana ha abolito il reato


di plagio. E’ finalmente in atto una espulsione dai codici penali e civili di
tutti i pesanti residui del Codice fascista Rocco, e di molti altri ritardi
legislativi. La stesura di un nuovo codice penale dovrebbe ormai portare
l’Italia pressapoco a livello dei codici anglosassoni, almeno nella loro
assunzione di un processo accusatorio e non più inquisitorio. Purtroppo
i nuovi codici arrivano con grande ritardo, e temo che la loro stesura ne
porti qualche segno pesante.
Tuttavia l’abolizione dell’articolo 603 (reato di plagio) è un avveni­
mento che supera di gran lunga, per importanza, un semplice atto
legislativo. Si è finalmente capito che i reati di stregoneria, come quelli

156
di opinione, erano mine vaganti nella società italiana. Ma questo ricono­
scimento è solo un inizio, che verrebbe rapidamente vanificato se non
fosse seguito da una profonda revisione del costume civile. E ’ inutile
che ripeta qui quanto ho detto nei saggi sul problema del reato di plagio.
Pur essendone stato l’unica vittima, e pur essendo stati cancellati tutti gli
effetti penali, io non ho ricevuto dalla abolizione del reato alcun vantag­
gio pratico, e neppure alcun concreto riconoscimento delle gravi ingiu­
stizie legali consumate a mio danno in quel periodo.
A parte questa considerazione, resto sempre dell’opinione che ogni
ampliamento e rafforzamento dei diritti civili e delle libertà individuali
non possono essere solo effetto di concessioni dall’alto o di dichiarazio­
ni di palazzo. La storia recente ci ha insegnato che ci può essere sempre,
nell’ombra, qualcuno pronto a considerare patti e costituzioni solo dei
pezzi di carta. Ogni vero diritto civile deve fondarsi su una profonda e
radicale trasformazione economica della società. Ma a sua volta questa
trasformazionè economica non può che essere il frutto di una profonda
e radicale emendazione del comportamento umano, quella appunto che
nei saggi abbiamo chiamato rivoluzione pedagogica.
Circa poi il plagio in particolare, ritengo che il gesto della Corte
Costituzionale abbia senso solo se si comincia a sradicare il concetto
stesso di plagio nel costume, e in prima istanza nel linguaggio. Ogni
codice degno di questo nome ha gli strumenti per combattere le sopraf­
fazioni individuali e sociali, senza ricorrere a sintesi equivoche. Una
concezione laica della giustizia penale e civile non può ispirarsi ad
alcuna ideologia, ma deve essere concepita come un processo progressi­
vo di abolizione di ogni contenuto repressivo e punitivo nel patto
sociale. Il reato di plagio, per esempio, era molto comodo per società
autoritarie, di segno diverso, o per democrazie bloccate o non realizza­
te, dove il problema delle minoranze e delle emarginazioni veniva
affrontato con finalità di dubbio segno.
Prima di chiudere definitivamente questo paragrafo, non posso non
ricordare che anche la storia del plagio ha avuto i suoi convertiti e i suoi
pentiti. So di intellettuali che, presi dalla frenesia di esibire le proprie
firme sotto i vari appelli, si erano affrettati a segnare il proprio nome, e
poi si sono trovati a non riconoscersi più completamente in quel gesto.
Non ricorderei questi squallidi episodi, se non li ritenessi sintomo
ulteriore di un degrado generale, presente in forma mimetica anche in
persone insospettabili. Certamente una storia così complessa non pote­
va non generare situazioni contraddittorie. C’è stato, per esempio, un
editore che ha pubblicato la sentenza di primo grado senza accompa­
gnarla con testi alternativi o con commenti chiarificatori. Questa e

157
molte altre contraddizioni indicano ancora una volta quanto sia fonda-
mentale una esatta e onesta informazione per ogni convivenza civile.
Ancora due notazioni. Come sempre succede nelle cronache massifi­
cate, le calunnie e le accuse ufficiali si trasformano facilmente in “tat-
tuaggi” difficili da cancellare. Oggi, per esempio, si continuano a ripete­
re, su quel malaugurato processo, menzogne e distorsioni che spesso
vanno imputate alla pigrizia e alla disinformazione degli operatori
d’immagine. La cosa non mi ferisce tanto personalmente, quanto mi
rende preoccupato per centinaia di situazioni affini, se pure in campi
diversi, che vedo moltiplicarsi nel sociale. Come è vero che il costume di
massa spesso si riduce semplicemente a malcostume.
Un ultimo richiamo. Durante il processo, rappresentanti anche uffi­
ciali dell’accusa, si affrettavano a dichiararsi difensori dei diritti di
quelle minoranze che poi, subito dopo, si affrettavano a giudicare
innaturali, perverse e criminali. Nessuno ha protestato allora contro
queste funzionali contraddizioni, che qui non ricorderei, se anche in
questo caso non vedessi moltiplicarsi situazioni affini nell’attuale evolu­
zione sociale. Allarghiamo il discorso: ci sono tanti modi di fare il
processo alle idee, da quelli grossolani che ho subito in quegli anni, a
quelli più subdoli e più raffinati che corrompono oggi alcuni aspetti del
vivere civile. Ogni tolleranza presuppone la minacciosa presenza del­
l’intolleranza e del fanatismo. Ma la convivenza è una forma mentis
difficile da comprendere e difficile da vivere.

X - Come ho promesso nell’introduzione, è giunto per me ora il momen­


to di rileggere criticamente i punti essenziali dei saggi di dieci anni fa,
qui pubblicati. Vediamo brevemente quali sono questi punti. Anzitutto,
una messa in crisi di ogni concezione del primato dell’uomo. In secondo
luogo, un fermo richiamo a tutte quelle istanze libertarie che si oppon­
gono alle “magnifiche sorti e progressive”. In terzo luogo la necessità di
emendare l’intelletto umano, fino a un capovolgimento del concetto
stesso di pedagogia. In quarto luogo, l’esigenza di ricondurre la storia
alla sua vera funzione di reportage continuo e aperto. In quinto luogo, lo
sfasciamento di tutti i residui metafisici nella concezione della vita
psichica, e la conseguente reintegrazione della cultura nella natura, e
dell’uomo nel suo alveo biologico. In sesto luogo, la lotta spietata contro
ogni primato della politica, e contro ogni sopravvivenza di una arcaia
concezione dello Stato. In settimo luogo, una decisa riconquista di tutti
quei temi che la cultura metafisica, spiritualistica e idealistica, ha apo­
ditticamente strappato alla libera inchiesta e alla ricerca incondizionata.
In ottavo luogo, un discorso chiaro e spregiudicato sui disastri ecologici

158
e sulla conseguente necessità di colorare di ecologia ogni aspetto della
cultura umana, senza tentazioni apocalittiche e millenaristiche, ma con
la ferma volontà di suonare gli allarmi giusti al momento giusto. In nono
luogo, un rifiuto di ogni asettica disinfezione della naturale ambiguità
della vita, rifiuto che ancora tarda a entrare negli istituti e nei laboratori
di ricerca. In decimo luogo, un rilancio del linguaggio poetico al di là di
ogni ideologia estetica, dopo ogni fascinazione tecnologica, e in direzio­
ne di un sempre più incisivo rilancio della meraviglia come madre della
ricerca.
Molte delle cose che ho scritto nei saggi sono state confermate dai
fatti, e alcune di esse sono perfino entrate nel costume. Purtroppo, il
loro ingresso è costato spesso il prezzo di profonde distorsioni e di
manipolazioni finalistiche. Non mi ha mai spaventato la prosopopea del
dietrologo, che con grottesca arguzia accusa gli altri di dietrologia.
Molto più della malafede, mi spaventano la disinformazione e il potere
affidato alle mani degli imbecilli.

XI - Dieci anni fa vedevo nella ideologia del primato dell’uomo nella


natura, l’effetto di un particolare tipo di evoluzione della specie, effetto
che si trasformava in sopraffazione e violenza. Il mio giudizio attuale
non è diverso, anche se sono portato ad accenturare maggiormente la
responsabilità del bagaglio religioso ebraico e cristiano, in particolare
cattolico. Nonostante le apparenti aperture ecologiche delle varie chie­
se, la supremazia dell’uomo nell’universo è ancora elemento dogmatico
costitutivo di una concezione cristiana della vita, almeno nelle forme in
cui il cristianesimo si è sviluppato in occidente, assorbendo molteplici
concezioni sociali e politiche precedenti. Ma anche nella strutturazione
delle leggi civili, e nel loro sviluppo relativamente laico, resta la pesante
eredità della concezione di un possesso assoluto della terra e della sua
vita da parte dell’uomo, possesso delegato da una provvidenza superio­
re a un essere vivente fatto a sua immagine e somiglianza. La mia
estraneità al cristianesimo mi impedisce di entrare nel merito della
questione religiosa, ma ciò nonostante non posso non guardare con
estrema simpatia quei teologi e quei movimenti di base che cercano di
riscattare il cristianesimo da questo suo peccato d’origine. Anche se in
misura diversa, lo stesso discorso vale per le altre due religioni cosiddet­
te monoteistiche. Il mondo mussulmano, in particolare, percorso oggi
da nuovi fremiti di risveglio, ha esso pure, nel suo seno, teologie e
movimenti di minoranze tese a una nuova concezione della convivenza.
Ma difficilmente queste tre religioni potranno perdere la loro pretesa di

159
guide infallibili delPagire umano, a meno che non riescano a rinunciare
ad ogni velleità di organizzazione etica della società, e non si traducano
in confessioni individuali di fede. Naturalmente qui c’è una contraddi­
zione di fondo difficile da risolvere, contraddizione che è propria di
tutte le religioni storiche che, senza eccezioni, sono oggi in una profon­
da crisi di identità. Sarebbe un errore non estendere questo giudizio
anche alle religioni “atee” come il buddhismo, alle religioni sincretiche
come l’induismo, o alle religioni “politiche”, come le varie ideologie
dello Stato. Sembra infatti che il rapporto tra individuo e società sia
destinato sinora a risolversi a danno del primo, in quanto è condizionato
dall’ossequio all’autorità e alla forza come chiavi del patto sociale e
garanzia di sopravvivenza di qualche diritto civile. Dato che questo è il
problema centrale di tutta la storia politica dell’uomo, è chiaro che oggi
nessuna religione e nessuna ideologia possono continuare a imporre
soluzioni definitive e verità assolute se non con la violenza, la persuasio­
ne occulta e la sopraffazione.
Disgraziatamente, nel periodo attuale il vuoto lasciato dalla caduta
degli dei, e la fretta insita nella società dei consumi, spingono una buona
parte delle giovani generazioni a rilanciare molti di questi arcaici valori
sociali e religiosi, ma senza una convinzione profonda e un ripensamen­
to efficace. Vorrei fare tra tutti l’esempio della famiglia, che, trasforma­
ta spesso in un supporto degli istituti statale e religioso, ha finito col
subire i loro logoramenti e le loro degenerazioni. Ma la famiglia perde il
suo ruolo promozionale nel momento in cui anch’essa si istituzionalizza,
e anzi diviene la sede primaria di quei principi d’autorità su cui si
vorrebbe continuare a fondare lo Stato. Assistiamo così a molte difese
d’ufficio e adesioni solo formali a tante etiche vuote, dietro le quali si
cerca di salvare tutto un mondo ideologico e, anzitutto, il suo supporto
economico e finanziario. Non è un caso che le più smaccate forme di
intolleranza si ritrovino oggi in parte delle giovani generazioni, in
conseguenza del loro disincanto di fronte al guscio di vuoti e fragili
formalismi, che spingono inconsapevolmente a un recupero di nuove
autorità e di nuove facili certezze. Il mio pessimismo verso una certa
parte delle giovani generazioni è però largamente corretto dalla presen­
za in occidente, ma anche nel terzo e quarto mondo, di generosi
movimenti giovanili non violenti, e di coraggiose personalità in forma­
zione, che sono spontaneamente portati a opporsi a ogni mistificazione,
e a difendere le più avanzate conquiste sul piano dei diritti civili, della
giustizia sociale e delle battaglie ecologiche. Saranno queste giovani
forze che dovranno continuare l’opera di smantellamento dell’assurdo
primato umano nella natura, della concezione di divinità fatte su misura

160
dell’uomo, e delle varie ideologie di dominio, di verità assoluta e di
proprietà del pianeta.

XII - Anche per quanto riguarda l’aspetto più squisitamente politico,


non ritengo di dover correggere il tiro dei saggi di dieci anni fa. Se mai,
la situazione generale è abbastanza peggiorata, perchè si nota, dietro
alle apparenti evoluzioni positive dei diritti civili, un minaccioso ritorno
di istanze autoritarie. Anzitutto la democrazia uscita dall’ultima guerra
mondiale in due forme contrapposte, l’est e l’ovest, tende sempre più a
trasformarsi da parlamentare in plebiscitaria, appellandosi a demagogi­
ci populismi che, nonostante le tremende prove negative delle dittature
di vario segno, cercano ancora di fare leva su strati sociali impreparati, e
già troppo manipolati dai mezzi di comunicazione di massa. Ne conse­
gue l’equivoco ritorno di una sopravvalutazione della personalità nella
politica, ma, più ancora, la supremazia di uomini politici spesso moral­
mente e culturalmente immaturi, che assurdamente pretendono di
essere, come ho già scritto, “periti dei periti”.
Non è un sintomo secondario di quanto ho detto il tentativo di
rivisitare, e perfino di mettere da parte, come superati e inattuali, i
principi fondamentali dell’antifascismo militante. Vorrei ricordare
quanto ho scritto nei saggi sul tema della storia. Mi basta qui ripetere
che se è vero che ogni giudizio storico è partigiano, è anche vero che uno
storico libertario cerca nella critica storica tutte quelle correnti che
mirano a descrivere gli avvenimenti umani in chiave planetaria, e a
interpretarli secondo la loro maggiore o minore valenza rispetto al
rafforzamento della vita. Non si può quindi accettare alcun cedimento
critico di fronte a quelle ideologie e a quelle concezioni generali che
portano all’accumulo della ricchezza, al cinico mercato delle armi e alla
riaffermazione, sia pure mimetizzata, dell’inevitabilità della guerra.
Non si può essere teneri di fronte ad alcun nazionalismo primatista, sia
esso regionale o di scala continentale. La stessa idea di un governo
mondiale sarebbe ripetitiva e perniciosa se non fosse accompagnata da
uno scardinamento di ogni nazionalismo e di ogni razzismo. I principi
informatori dell’antifascismo devono sopravvivere alla sua datazione
storica: si ritrovano oggi nei “nuovi partigiani del pianeta”.
La democrazia ha bisogno di radicali verifiche, perché non può più
basarsi su una concezione superata dei partiti, o su una immagine
confusa del consenso popolare. Non si dice qui che la funzione dei
partiti è finita: la loro sopravvivenza dipende però dalla loro capacità di
trasformarsi in centri d’opinione, volti a creare movimenti di massa
provvisori, quando lo richieda l’esigenza di lottare contro rinascenti

161
TT

istanze totalitarie. Per limitarmi alla situazione italiana, ritengo che di


fronte a fenomeni ben individuati come il potere democristiano e la
degenerazione del partito socialista, spetti al partito comunista un
compito nuovo, nel quale tuttavia, con un po’ di buona volontà, dovreb­
be riconoscere il vero volto della propria originaria diversità. Non si
tratta per questo partito di perdersi, come primo della classe, in sterili
accademie socialdemocratiche, o di inventare terze vie artificiali, e
quindi inattuali. “Più società e meno Stato”, oppure l’identificazione di
comuiiismo e democrazia, o, ancora, la formula di “riformismo forte”
sono affermazioni importanti, ma diventano frasi vuote, se non si riem­
piono di nuovi contenuti e di nuovi entusiami. Nei saggi di questo
volume ho parlato dell’ambiguità d’origine dei movimenti comunisti,
dilaniati dalla contraddizione tra un’istanza libertaria e un’istanza auto­
ritaria. Questo è il punto centrale. Si mettano da parte discussioni su
nomi e formule, e si ritorni alla matrice libertaria del movimento
comunista, espellendo senza esitazioni le matrici autoritarie. Si rinnovi
lo spirito internazionale del movimento comunista, oggi che le tentazio­
ni eversive, gettando la maschera, hanno perso ogni fascinazione, e i
movimenti libertari, di vecchio segno anarchico o di nuovo segno radica­
le, non hanno la necessaria forza di aggregazione. L’esperimento di
Gorbaciov ha senz’altro una grande importanza come espulsore delle
mostruose distorsioni staliniste, che avevano ricostituito un repressivo e
cruento stato borghese, e non si erano fermate neppure di fronte alle
falsificazioni della storia, della geografia e della scienza. Ma l’attuale
rinnovamento sovietico è destinato a sua volta a fallire se non si traduce
in un movimento dal basso, in quanto anche il capo carismatico più
illuminato verrebbe inevitabilmente ripreso, anche contro la sua volon­
tà, dalla logica perversa del potere, se non riconoscesse nella riscoperta
del soviet come decentramento, la base di una reale ed effettiva identifi­
cazione di socialismo e democrazia. Il partito comunista Italiano po­
trebbe fare molto in questo senso, ma fatica ancora a liberarsi di molte
elefantiasi burocratiche e delle sue vecchie paure di ogni istanza liber­
taria. .
Il fenomeno cosiddetto neoliberistico dell’America reaganiana non
può continuare a incantare a lungo le masse popolari e le schiere
burocratiche. Oggi non è più tempo di sintesi inattuali tra liberalesimo e
socialismo. Le rivoluzioni francese, americana e sovietica non sono
conquiste ideologiche, o proprietà dei partiti. Fratellanza è qualcosa
che riguarda tutti gli uomini, ma anche tutti gli esseri viventi. Eguaglian­
za è la bandiera di chi combatte contro la miseria delle masse del terzo e
del quarto mondo, ma anche di buona fetta dell’occidente. Eguaglianza

162
di ognuno nei diritti civili e nelle basi economiche di partenza. Libertà
infine è un processo che deve svilupparsi senza interruzione, proprio
grazie a una fratellanza planetaria e a una eguaglianza di segno opposto
a ogni egualitarismo funzionale. Ai tre principi fondamentali, libertà,
fraternità ed eguaglianza, l’uomo libertario e acratico, deve aggiunger­
ne almeno altri due, cioè la convivenza e la compassione, opposte ad
ogni pietismo e a ogni ipocrita moralismo: convivenza e compassione
che possono nascere e svilupparsi solo da quella profonda rivoluzione
pedagogica di cui parlavo nei saggi, è che qui voglio felicemente confer­
mare.

XIII - Nei paragrafi precedenti mi sono riferito al partito comunista


come a un possibile centro di un profondo rinnovamento della politica,
anzi qualcosa di più, il posto del riscatto libertario e la forza promozio­
nale di un polo laico che unisca comunisti, anarchici, radicali e ambien­
talisti. Devo ora esprimere anche i miei dubbi, che a volte fanno a pugni
con le mie speranze. Anzitutto, un partito che volesse davvero essere
insieme di radice popolare e di capacità innovatrice dovrebbe mettersi
in grado di superare se stesso e la concezione tradizionale dei partiti e
dei movimenti politici, senza false remore e senza inutili nostalgie. Tra
la Scilla del qualunquismo antipartitico e la Cariddi dello strapotere
classista dei partiti (intendo qui le classi nella loro profonda trasforma­
zione che ne fa qualcosa di diverso dalle classi storiche), esiste una via
stretta di autotrasformazione degli organismi politici, e in primo luogo
dei partiti, in imprese spregiudicatamente modellabili sui caratteri stes­
si dell’impresa biologica. Imprese, quindi, che intendono la loro istitu­
zionalizzazione come negazione della possibilità di una loro sopravvi­
venza. Imprese che intendono superare continuamente se stesse, allac­
ciandosi ai temi fondamentali delle crisi evolutive della vita terrestre.
Siffatte imprese devono uscire dai palazzi, come le agorà greche erano
uscite dai castelli del re divino. Ma devono anzitutto muoversi secondo
il criterio fondamentale del decentramento, inteso come un processo
continuo. Il decentramento non esclude collegamenti e coordinamenti
provvisori, ma esclude decisamente le ideologie e i loro manovratori.
Non si tratta oggi di ripetere “meno Stato e più sociale”, quando poi si
aggiunge a questa una formula più specifica: “meno Stato e più merca­
to”. Se si facesse coincidere il posto del sociale col mercato, si dovrebbe­
ro anzitutto rivedere dalle fondamenta i concetti stessi di sociale e di
mercato. Questo significherebbe mettere in crisi una serie di colonne
portanti della civiltà attuale: dalle sovrastrutture economiche al sistema
monetario, dal concetto di proprietà al concetto di primato dell’intelli­

I 163
genza sull’immaginazione, dalla personalità intesa come sopraffazione
alla personalità intesa come riconoscimento gratificante nella gerar­
chia, dalla urbanizzazione metropolitana all’ibrido insorgere di una
confusa immagine di megalopoli, dalla esplorazione dei cieli come
conseguenza secondaria dell’industria bellica, a un’idea tutta coloniali­
stica della conquista degli spazi extraterrestri, dalla ipertrofia delirante
delle tecnologie avanzate al loro uso suicida perpretato dalla società dei
consumi.*
Un movimento politico che volesse davvero ritornare ai fondamenti
libertari e uscire dalla spirale “governo-opposizione”; non può non
partire da tre essenziali campi di lavoro, strettamente collegati tra loro:
la tutela dell’ambiente, la lotta coraggiosa, al di fuori di ogni falso
moralismo, contro l’indiscriminata crescita demografica, e la volontà di
porre in primo piano la crisi dello Stato come istituzione superata e
sempre più pericolosa.
Oggi che, piccolo passo dopo piccolo passo, i cittadini tornano a
essere sudditi, quasi chiedessero per i propri bisogni nuove tutele di
sette o di chiese, di ideologie o di palazzi ad alta garanzia, niente si potrà
fare di veramente incidente nel processo storico se non si porrà al centro
della ricerca umana un nuovo modo di dissoluzione dello Stato. Non si
tratta di tornare alle vecchie polemiche dell’Ottocento e del Novecento,
e neppure si tratta di negare la validità della cooperazione, del coordi­
namento e dell’organizzazione, purché si fissi una loro sicura scadenza,
e si riconosca la loro funzione nella ricerca di nuove forme di convivenza
civile.
Oggi si torna a parlare troppo di Cristo, come di un vaso vuotò che si
può riempire di tutto quello che si vuole. Oggi la fine delle macroespres­
sioni religiose e la diffusa tentazione ecumenica delle varie religioni
sono volte più a difendere il regno minacciato del primato religioso che
non a promuovere un superamento della religione degli dei e del culto
dell’uomo nel nome di una integrazione, priva di violenza e di arrogan­
za, dell’uomo nell’universo.
Si potrebbe ribattere che quanto dico, come del resto tutto quanto è
scritto in questo volume, non è né nuovo né originale. Ogni età di crisi, si
può dire, si è sempre appellata alla forza propulsiva dell’utopia, salvo
poi, in un secondo tempo, ridimensionare i vari terminals ipotetici di
paradisi e di età dell’oro, e ricondurli alla dura contraddittorietà delle
realtà contingenti. Queste eventuali obiezioni non intaccano la carica
dinamica degli appelli miei, e non solo miei. Nessuno ipotizza assurde
conquiste di un regno della libertà, nessuno qui parla di un inevitabile
passaggio dall’ombra alla luce. Qui si sono messi a confronto impulsi

164
opposti e contraddittori, e si è insistito sull’invito a battersi per quelli
che rafforzano la vita. La concezione freudiana di due pulsioni fonda-
mentali, la conservazione e la sessualità, mi sembra schematica e ridutti­
va, proprio perché riassumiamo nella parola impulso una grande molte­
plicità di pressioni e di urgenze provocate dall’impatto tra l’individuo e
l’ambiente. Inoltre, la sessualità collabora alla conservazione non solo
in vista della riproduzione della specie, ma anche e in primo luogo come
espressione della libido: e questo Freud lo sapeva molto bene.
Non è compito di queste pagine profilare un trattato politico, Se mai il
loro scopo è quello di schernire i neoscopritori di Machiavelli, e le loro
deliranti affermazioni che oggi il “principe” è il popolo. Ma non voglio
impedirmi di gridare a piena voce, e senza presunzione, che oggi più che
mai il mondo umano è ancora diviso in ricchi e poveri. Riterrei positiva
la stesura di queste note se riuscissi a richiamare i partiti popolari, e in
primo luogo quello comunista, alla loro funzione originaria, nata nell’a­
gorà e intenzionata ad abbattere il palazzo.

XIV - Che cosa è successo in questi dieci anni? Certamente molti


disastri di origine umana sono entrati in una consapevolezza diffusa. Si
sono moltiplicate le associazioni ambientaliste ed ecologiche, si è messa
qualche maschera decente all’esercito dei cacciatori, si è imparato a fare
il tifo per un gattino rifugiato su un albero o per una balena imprigionata
dai ghiacci. Si è chiusa qualche fabbrica pericolosa, si è posta qualche
limitazione all’uso dell’energia atomica, si è cercato un nuovo equilibrio
degli armamenti, pur considerando ancora il disarmo totale come uto­
pia, e continuando a produrre mostruosità come la bomba N, ancora più
indecente della bomba atomica. Si è persino elargita qualche magnani­
ma concessione sui diritti civili, sempre con la clausola sottintesa di una
loro eventuale sospensione, e si sono denunciate alcune nefandezze dei
servizi segreti, dei corpi separati e dei commandos mercenari, eliminan­
do qualche macrodistorsione in vista della conservazione delle distor­
sioni più costituzionali.
E ancora. Si sono mandate casse di biscotti e di caramelle agli
affamati del terzo mondo, e molti industriali e signori della guerra si
sono messi all’occhiello il fiore di qualche iniziativa umanitaria. Natu­
ralmente, una cultura della pubblicità corrompe sempre più una emen­
dazione della cultura. E va detto con chiarezza che nonostante l’indu­
stria moderna abbia cambiato volto e l’industriale tradizionale stia
scomparendo, tuttavia il fine primario dei manovratori imprenditoriali
resta sempre quello dell’accumulo e dell’accentramento del capitale, in
tutte le sue manifestazioni.

165

f
Già le istanze ecologiche risvegliano la bramosia dei manovratori del
capitale e dei loro neofiti, e l’industrializzazione di prodotti cosiddetti
naturali è pari, per mistificazione e manipolazione, alla chiusura di
qualche zoo, o alla creazione di parchi naturali, dove in realtà l’uomo
può tenere sotto controllo le altre forme di vita. (Basta dunque con
l’ipocrisia di chi, con qualche diktat moralistico, sancisce che gli animali
vanno rimessi nel loro ambiente, quando l’uomo sta distruggendo ogni
loro ambiente). La salvezza delle specie in via d’estinzione sembra
riguardare più un falso pietismo che una concezione unitaria della
salvezza del pianeta. Ma non finisce qui l’elenco delle sconfitte. Già oggi
orrendi demagoghi indottrinano masse impreparate per il ripristino
della pena di morte, e molti “scienziati d’alta qualificazione” sorridono
ancora altezzosamente di fronte a chi protesta contro la vivisezione e gli
esperimenti farmaceutici sugli animali. Oggi chiese ed etiche ufficiali
urlano contro le manipolazioni genetiche; ma non sanno o non vogliono
mettere a fuoco le insidie nascoste in questi interventi, e inoltre tollera­
no, o addirittura approvano le più assurde vessazioni sugli animali e
sulle piante. (E’ ovvio che qui si intende dire che non è resperimento
genetico in se stesso ad essere pericoloso, ma l’uso che ne possono fare
le ideologie e le etiche ufficiali).
Continuiamo. Oggi si è concesso molto all’intelligenza animale, ma
resta ben salda la differenza di qualità tra animale e uomo, con tutte le
nefaste conseguenze che ne derivano. Credo che sia ora di smetterla di
contrapporre l’uomo all’animale: l’animale non esiste, esistono i singoli
animali e le singole specie, compresa la nostra, legate tra loro da
continue e complesse connessioni d’origine e di sviluppo.
Oggi l’alto e persistente apprezzamento di quel fantasma ideologico
che è la ragione non ha diminuito, ma rafforzato la lotta sociale per la
ricchezza e il potere. Il povero e il malato tornano a essere sostanzial­
mente dei colpevoli. Il modello dell’uomo medio resta ancora il santo, o
l’eroe, purché non si esageri troppo. Il fallimento di molte sperimenta­
zioni sociali ha rilanciato un individualismo sfrenato, perfettamente
indottrinato dalla stampa e dalla televisione, e purtroppo spesso provo­
cato dalle incertezze e dalle esitazioni delle sinistre in crisi. L’uomo
medio si abitua sempre più a pensare il meno possibile, e a vivere alla
giornata nella ricerca esasperata di piaceri fragili ed effimeri, dietro ai
quali spesso riappare la maschera della malinconia e della solitudine.
Anche le cosiddette rivoluzioni sessuali sono in gran parte naufragate
in armistizi posticci. Parte delle giovani generazioni ha perduto molto
della sua carica erotica, e preferisce sostituire il mito e l’immagine
fittizia alla realtà. L’immissione delle masse femminili nei luoghi politi­

166
ci, sociali e religiosi, purtroppo non ha coinciso con l’avvento di una
parità di diritti nella diversità dei bisogni. Le minoranze di ogni genere
vengono ancora emarginate e represse, solo con un poco più di ipocri­
sia. Il razzismo oggi diffuso non è tanto e solo quello arcaico della
differenze di etnie, ma è soprattutto un razzismo di censo e di classe.'E
cresciuto oggi anche un razzismo al femminile, di marchio femminista o
post-femminista che sia, razzismo alimentato con distorte operazioni
pseudoscientifiche da maschi complessati e opportunisti, che, ad esem­
pio, sentenziano di Ève nere uniche genitrici dell’uomo, di Ève che
inventano il fuoco, la parola, la civiltà greca, e così via blaterando.
Le scuole di ogni ordine sono ben lontane dall’instaurare un nuovo
approccio pedagogico per le giovani generazioni. I nuovi integralismi
religiosi trovano facile terreno di coltura proprio in quei mezzi di
comunicazione di massa che d’altronde sembrano diretti a uno scopo
solo, in apparenza opposto, cioè il consumismo.
E intanto i mari e i fiumi muoiono, le foreste scompaiono e sulla
nostra testa il cielo si riempie di relitti. Intanto la mefitica proliferazione
delle automobili e dei computers arreca colpi mortali agli ultimi bisogni
di avventura dei giovani. Troppi scienziati portano avanti le ricerche
tecnologiche senza chiedersi, nel migliore dei casi, a che cosa possano
servire, e da chi possano essere utilizzate.
Potrei continuare in questo triste elenco, ma credo che quello che ho
detto sia sufficiente a dimostrare una cosa: l’ecologia non può essere la
nuova scienza di qualche presuntuoso barone e dei suoi chierici ansiosi,
ma va intesa ormai come il substrato fondamentale di ogni scibile e di
ogni ricerca. Se è vero che le apocalissi millenaristiche servono solo al
potere a ai suoi persuasori occulti, è anche vero che oggi è necessario
alzare al massimo un grido d’allarme che parta dalla denuncia della
vuota arroganza petulante e logorroica dei manovratori politici e ideo­
logici, e miri a toccare la sensibilità profonda degli uomini semplici, che
sono poi ancora e sempre le prime vittime del grande imbroglio sociale.
Quando il mercato delle idee fa perno sull’esaltazione del protagoni­
smo e della competitività, che sono il vero oppio dei popoli, quando la
grave minaccia dell’AIDS diviene occasione per il rilancio oscurantista
di nuove repressioni sociali (fino ai subdoli tentativi di regolazione
statale della privacy individuale e persino della vita sessuale); quando il
costume sportivo diviene un’industria di altissima incidenza, tanto da
poterci meravigliare di chi si meraviglia delle stragi negli stadi, quando i
mezzi di comunicazione di massa, con scelte informative di dubbio
segno, riempiono le loro cronache nere di descrizioni compiaciute di
violenze e di stupri, quando la cancrena delle droghe pesanti risulta

167
buona occasione per scoops giornalistici, ma soprattutto motivazione
per nuove forme di repressione delle giovani generazioni, non possiamo
poi scandalizzarci al pensiero che chi conosce il peggio non è disposto a
far nulla di decisivo per evitarlo, o, anzi, indichi, come panacea di
prospettiva, nuove forme di autoritarismo e di etica statale. Sappiamo
tutti che parlare di aggressività è spesso risvegliarla: il problema non è
limitare la libertà d’espressione, e neppure negare gli impulsi aggressivi
presenti in ogni essere vivente, quanto contrapporre a impulso impulso,
in una gara pratica che escluda ogni protagonismo competitivo. Chi non
conosce il “rictus” degli assassini che uccidono ridendo uomini e anima­
li? Chi non è oggi preoccupato per l’effetto serra che sembra minacciare
la vita del pianeta? Eppure queste preoccupazioni, questi allarmismi e
queste denunzie vengono accettati quando hanno un generico sapore
umanitario e pietistico, ma solo eccezionalmente diventano il centro
propulsivo di un modo nuovo di pensare e di fare politica. La suggestio­
ne resta così un’arma a doppio taglio; si continuano a romanzare
linciaggi e suicidi, si sfruttano massicciamente miseria e ignoranza, e
soprattutto quel complesso del lemming che porta masse guidate da un
destino precostituito a correre a occhi spalancati verso l’oceano delle
verità assolute, e in esso naufragare senza neppure la gratificante
giustificazione di qualche menzogna teoretica.
Proviamo a mettere gli occhiali di Mastro Pulce, e guardiamoci
intorno. Perché le automobili corrono, perché gli uomini corrono,
perché questa fretta per andare verso non si sa dove? Un tempo si
sarebbe detto che si tratta di una distorsione della scala dei valori, ma
oggi sono proprio questi valori che non reggono più di fronte a una
fretta cieca, ma possente come un impulso primario. Qualunque valore
nuovo o rinnovato non potrebbe rimuovere l’ansia, soprattutto quando
supera quel livello di guardia prima del quale potrebbe anche avere
qualche valenza positiva. In forma sempre più massiccia e sempre meno
controllabile, l’uomo ha incontrato la morte, ma sempre meno gli serve
la fuga nelle isole ingannevoli della fede nel trascendente. Dicevo alla
conclusione dei saggi che l’unica possibile pace interiore si può trovare
nella dissoluzione del concetto di morte in quello di frammento del
processo vitale. La morte quindi può cessare di essere un evento per
divenire un processo, solo a condizione di reintegrarsi nel processo più
comprensivo dell’unità fondamentale della vita: non tanto nel nome di
qualche evaso “horror vacui”, o di una inutile teorizzazione della “re­
ductio ad unum”, quanto in vista di una sempre più approfondita
conoscenza dei sistemi viventi, e del loro legame con quei sistemi che
siamo abituati a considerare non viventi.

168
Ogni lettore può giudicare da solo quanto lontana sia oggi l’azione
politica da questo processo di reitegrazione, e quanto sia deleteria'la sua
beffarda ironia di fronte a ogni tentativo di staccarla da quelle pratiche
effimere e contingenti che ne fanno in sostanza un mezzo di identifica­
zione debordine col disordine, e di soggettività intangibile con oggetti­
vità priva di senso.

XV - Nel saggio “Inattualità della psiche”, parlavo dell’assurdità della


concezione di una geografia della psiche. Quello che scrivevo è valido
fintanto che si intenda la vita psichica come un aspetto di quella fisica. Il
concetto mente avulsa dai processi chimico-fisici del sistema nervoso e
della loro interazione con gli altri sistemi del corpo diviene ormai arma
di equivoco e di confusione. Anche qui so di non dire niente di nuovo:
persino nel linguaggio volgare hanno lo stesso senso espressioni come
“che cosa ti passa nella mente?” e “che cosa ti passa nel cervello?”.
Ma questo è solo un esempio. Lo scopo di questi scritti è quello di
promuovere una generale integrazione culturale, tenendo ferme come
bussole d’orientamento certe idee-guida, che proprio in questa funzio­
ne rivelano, o almeno mi sembra rivelino, la natura stessa dell’idea così
come cerco di enunciarla in queste pagine. Il diritto alla ricerca è di ogni
uomo, anche di coloro che per motivi contingenti ne sono stati tenuti
lontani, a volte anche solo a causa del terrorismo esercitato da una
cultura nozionistica. Non credo che sia ormai possibile continuare a
porre un iato tra il processo conoscitivo e informativo umano e quello
delle altre forme di vita, tenendo ben ferme differenze evoluzionali, che
comunque non hanno valenze gerarchiche o meccanismi riducibili a
concetti di qualità.
A una “geografia della psiche” si deve sostituire una geografia relati­
va alle parziali localizzazioni nel sistema nervoso delle varie funzioni
comportamentali. Penso, per esempio, ai diversi ruoli svolti nell’inizio,
nello sviluppo e nella fine della vita, dalla corteccia e dal tronco cerebra­
le, e, prima ancora, dal sistema neurovegetativo. Ma ritengo che sareb­
be un altro gravissimo errore non sottolineare continuamente gli stretti
legami d’interdipendenza che corrono tra il sistema nervoso, quello
endocrino e tutti gli altri sistemi del corpo, non ultimo quello immunita­
rio. E sarebbe errore altrettanto grave considerare chiuso il capitolo
della conoscenza del nostro corpo, della sua estensione, delle sue
relazioni e dei suoi legami organici. Ho premesso queste osservazioni
perché credo che la base di ogni futura psicologia debba essere la
neurobiologia, ma solo come parte di un insieme, che in realtà è un
unico sistema di conoscenze. L’unità sistemica si ritrova completa nel

169
passaggio dalla biologia alla microbiologia, oltre le frontiere cellulari,
fino ai limiti dei rapporti tra materia vivente e non vivente, e di quelli dei
processi chimici coi più generali e più estesi processi fisici, di cui sono
parte. Il passaggio alla microbiologia ci rimanda infine fine alla struttura
stessa dell’universo, come se il processo biologico ne fosse una fase
ulteriore e, in un certo senso, anche speculare.
Tutto questo non può non portare un terremoto nel campo della
psicologia. Anche qui, alle ibride tematiche di una macropsicologia è
ora di contrapporre le problematiche e allettanti esplorazioni della
realtà microcomportamentale, là dove i concetti di semplice e comples­
so perdono la loro valenza, e sono inapplicabili ibridi sposalizi tra
matematica ed estetica, (tipo il passaggio dei frattali da brillanti stru­
menti di lavoro a sospette chiavi di lettura del mondo). Non si deve
confondere un punto d’osservazione della ricerca con un invito a una
visione sistematica della realtà costruita su quest’unico punto d’osserva­
zione. Questo è il peccato più facile e più ambizioso in cui può incorrere
ogni ricercatore. Ho già detto nei saggi che anche la psicoanalisi,
nonostante il suo grande contributo alla conoscenza dell’uomo, ha
praticamente esaurito la sua funzione quando ha cercato di trasformarsi
in una visione del mondo, o peggio ancora, quando ha cominciato a
ipotizzare metapsicologie varie. Se prescindiamo da questo “peccato”,
diviene attuale la disgregazione di molti concetti tradizionali della
psicologia come l’Io, l’Es, la coscienza, la soglia e il subconscio, l’intui­
zione e la memoria, la necessità e il libero arbitrio, la volontà di dio o la
volontà della natura. A questi vari concetti succede rimmagine di un
complesso meccanismo unitario, quel meccanismo appunto che la psi­
coanalisi, diagnostica e terapeutica, e la psichiatria tradizionale non
possono esplorare, perché sono compito della neurobiologia e del suo
stretto collegamento con tutti i sistemi organici. (Non ho paura ad
effermare che i primi larvati accenni di queste critiche si possono
trovare in nuce e ante-litteram anche nel pensiero spinoziano).
Naturalmente non vanno trascurate le critiche di coloro che si scaglia­
no ancora ansiosamente contro quelli che chiamano gli eccessi di biolo-
gismo nella interpretazione della vita psichica e della cultura in genera­
le, ma vanno depurate da residue polemiche anti-illuministiche e anti­
positivistiche, che oggi sono irrimediabilmente datate. Ancora una volta
si tratta più di negare che di affermare: negare tutto quello che non
risponde all’economia di una ricerca sbloccata e decondizionata, e
affermare tutto quello che in qualche modo ci porti insieme alla certez­
za dei dati e alla provvisorietà di questa certezza.
Voglio dire che il passaggio dalla scienza del subconscio alla neurobio­

170
logia non ha nessun significato se non facciamo che spostare i nostri
bagagli dalla vecchia alla nuova casa. La prima operazione è dunque
l’eliminazione di una enorme zavorra accumulata nei secoli. La specia­
lizzazione eccessiva di molti ricercatori li trova spesso impreparati al
momento della sintesi integrativa: quando si cimentano su questo terre­
no, rischiano di far tornare dalla finestra quello che hanno cacciato dalla
porta.

XVI - Continuare a concepire una mente distinta dal sistema cerebrale


non è un’operazione innocua. Ma questo è solo uno fra i tanti residui
ideologici da cancellare dal nostro repertorio culturale. Voglio fare un
altro esempio vistoso. Si parla oggi della fondazione di una “bioetica”:
capisco la necessità di inserire i frutti della ricerca nelle concezioni del
rapporto sociale, ma non è difficile accorgersi di quanti equivoci e di
quante minacce siano contenuti in definizioni funzionali come quella di
bioetica, soprattutto quando si pone il problema degli orizzonti e dei
limiti di un laboratorio scientifico, e si cerca di dirigerne il funzionamen­
to con moduli di comportamento estranei alla ricerca. Sono profonda­
mente convinto che l’unica etica libertaria sia l’identificazione dell’etica
con la ricerca, e che quindi diventi tautologico avvicinare, come raffor­
zativo reciproco, due termini che, in sostanza, vogliono significare la
stessa cosa. Il mio sospetto nasce dunque quando mi chiedo il perché di
un’attualità della cosiddetta bioetica, tanto più che questa attualità è
espressa dalla cultura ufficiale e dominante, e non da minoranze timide
e preoccupate.
In generale, è sempre un pericoloso campo minato il tentativo di
introdurre principi informativi etici nella ricerca scientifica. Qui si vuole
mettere in luce l’esigenza opposta: è l’etica che deve abbandonare ogni
modalità dogmatica, e configurarsi progressivamente sulle analisi del
corpo e della realtà chimico-fisica in cui si realizza, a partire dalla
chimica dei composti del carbonio. Non si tratta di un’operazione
riduttivistica, perché i processi naturali sono sempre estremamente più
ricchi e complessi delle loro traduzioni concettuali, e quindi anche più
carichi di promesse.
Non appena ci guardiamo intorno, non facciamo fatica a scoprire
pericolose ambiguità in molti campi delle varie scienze applicate: si
pensi per esempio alle interminabili discussioni sull’accanimento tera­
peutico, e al funzionamento di istituti come il TSO (Trattamento sanita­
rio obbligatorio). In sostanza sono le cosiddette scienze sociologiche a
essere le più disseminate di trappole e di trabocchetti, proprio perché
sono ancora le più inquinate da residui di cultura umanistica. Credo sia

171
necessario colpire alla base certi presupposti sociologici, e non solo
sociologici. Il più corposo è forse il dogma del libero arbitrio: si tratta
deH’illusione di una concezione gerarchica del sistema nervoso e della
massa cerebrale, quando vengono concepiti avulsi dall’indivisibile unità
dell’essere organico. Ne deriva un precario e deleterio senso di onnipo­
tenza, generatore di cosmi dogmatici che sonò destinati a uccidere
l’immagine del caos, nello stesso modo di come, ad esempio, l’urbaniz­
zazione moderna uccide la palude.
Può sembrare paradossale, ma per me i concetti di libero arbitrio e di
imperativo categorico sono strettamente connessi tra loro, quasi fossero
apporti di antichi messaggi subliminali, e a loro volta apportatori di
inevitabili fanatismi.
Credo comunque che se consideriamo la coscienza nel suo aspetto di
filtro dei rapporti sociali e ambientali, un’operazione di ramazzatura di
troppi residui atti di fede, di troppe mimetizzate paure ancestrali e di
troppe operazioni di alta scaramanzia diventi ormai uno dei primi e più
urgenti casi di coscienza.

XVII - Nei saggi di questo volume, negando l’attualità del concetto di


mente e di una sua geografia, mi sono spesso riferito alla gerarchizzazio-
ne insita in una concezione del primato del cervello, gerarchizzazione
che potrebbe rischiare di farne una malattia, una forma di parassitismo
e una superfetazione suicida. Tutto quello che posso aggiungere su
questo argomento, in apparenza può sembrare di segno opposto. Riten­
go che l’avanzata corticalizzazione del sistema nervoso umano sià un
fenomeno degno della nostra ammirazione e della nostra attenzione. E’
innegabile che la prevalenza nella corteccia cerebrale delle aree di
associazione sulle aree di proiezione, indica decisamente uno specifico
tipo di evoluzione. La conoscenza stessa del talamo, a cui arrivano le
sensazioni che poi vengono smistate parte ai vari “bernoccoli”, parte
alla massa centrale del cervello, indica una fondamentale unità del
processo cerebrale, unità in larga misura tesa, come dicevo prima, a
privilegiare le aree di silenzio sulle aree proiettive. Ma tutto questo
processo ci porta anche a scoprire che la corteccia cerebrale attualmen­
te non controlla ancora tutte le manifestazioni nervose. Da varie centi­
naia di migliaia di anni sembra che non abbia più continuato a sviluppar­
si quel cervello umano che aveva impiegato milioni di anni per raggiun­
gere lo stadio attuale. Si può pensare sia che questo processo sia finito,
sia che possa continuare verso nuove frontiere. Ma l’attuale impossibili­
tà da parte della corteccia di un controllo totale riporta in primo piano
l’esigenza di una sempre maggiore conoscenza delle altre parti del

172
sistema nervoso, da quelle più arcaiche alla massa centrale, di funzione
in gran parte ancora non definita. E ’ inevitabile che a questo punto lo
stupore ceda il passo alla curiosità, e l’attenzione del ricercatore si sposti
su uno studio sempre più specializzato della cellula nervosa e della sua
funzione di laboratorio chimico, vale a dire di fabbrica del processo
conoscitivo, inteso come un linguaggio mobile di relazione con l’am­
biente interno ed esterno.
Ritengo che una maggiore conoscenza della cellula nervosa vada
intesa come una maggiore conoscenza della cellula in generale. Non si
dimentichi che, nella scala evoluzionale, ci sono animali privi di sistema
nervoso, dotati perciò di altri sistemi di coordinamento e di informazio­
ne. E’ proprio lo studio delle forme più evolute di cervello che ci può
riportare all’inizio di tutto il processo biologico, quando non solo nervo
e muscolo non avevano ancora abbassato la saracinesca di una loro
specializzazione, ma la cellula stessa muoveva i primi passi dopo una
lunghissima e complessa operazione sintetica, che ne faceva un ricco
universo organico (si pensi per esempio ai mitocondri e ai corpuscoli
citoplasmatici).
Oggi poi la virologia assume una funzione primaria. Qui non ha
importanza discutere se il virus è una tappa precedente alla cellula, o
invece è una forma di parassitismo degenerato. Quello che mi sembra di
grande importanza è la sua fase di cristallizzazione. E’ questa fase che
non colma, ma comincia a colmare la divisione improbabile tra organico
e inorganico. Il metabolismo proprio degli esseri viventi, secondo il
quale atomi e molecole cambiano continuamente, trova un suo corri­
spondente, o forse antenato, nella crescita ininterrotta dei cristalli: c’è
chi cerca nell’argilla l’origine del codice genetico.
L’organizzazione cellulare, secondo una certa ottica, ci può apparire
come una forma speculare di applicazione della struttura atomica della
materia, anzi, del superamento della frontiera atomica nel campo della
cosiddetta improbabilità corpuscolare.
Non voglio spingere oltre queste esplorazioni ipotetiche: mi basta
sottolineare che questo lungo viaggio mi è stato provocato proprio da un
incontro sempre più ravvicinato col cervello umano. Nei saggi dunque
non ho mai inteso sottovalutare la funzione biologica del nostro cervel­
lo, ma solo indicare le insidie insite in qualunque forma di avanzata
evoluzione biologica. Vorrei portare un esempio che era assente nei
saggi. Innegabilmente il cervello anticipa esperienze possibili, e per
questo abbiamo spesso l’impressione che la persona anziana non faccia
a tempo a trasformare tutta la sua conoscenza in informazione e lin­
guaggio. Questa sperequazione fra diversi livelli del processo genera­

173
zionale comporta innegabili rischi di fuga dalla ricerca, e di rifugio nelle
illusioni metafisiche.
Forse va cercata qui una delle origini di quel dualismo che continua-
mente ci tenta come un’idra dalle cento teste: se non si può eliminare,
dicono alcuni, facciamo un patto con lui. Tale ragionamento mi sembra
deviante e rinunciatario.Un’altra origine, più specifica, forse è nel
rapporto tra acidi nucleici e proteine. L’acido nucleico garantisce la
continuità della forma e della sua evoluzione nel complesso metaboli­
smo proteico, determina cioè le funzioni dell’organismo senza in appa­
renza fame parte. Ma future indagini su questo meccanismo dovrebbe­
ro rimandarci a una sua sostanziale unità, da cercare non più nel mondo
organico, ma nei processi chimico-fisici generali della natura.
Là dove si pensa che l’evoluzione abbia un progetto, è facile identifi­
care questo progetto con il programma nucleico, e di lì sfociare inevita­
bilmente nel primato dell’uomo. Ora la questione non può più essere
impostata in questi termini. Ora possiamo parlare non più di progetto,
ma di adattamento: il programma nucleico diviene così una forma
complessa e sinteticamente incisiva di questo adattamento. Ma anche il
rapporto tra organismo e ambiente può essere finalmente collocato al di
là delle vecchie polemiche. L’ambiente interno è la continuazione di
quello esterno, e l’ambiente diviene finalmente il modo stesso di defini­
re la globale complessità del processo chimico-fisico naturale.

XVIII - L’enorme varietà di manifestazioni degli atomi, quando si


uniscono a formare le molecole, enorme varietà realizzata dalle parti-
celle elettronucleari, mi è parsa la prima e più diretta responsabile di
una concezione estranea alla ricerca, come quella del libero arbitrio, di
cui voglio tornare a parlare. L’illusione di un libero arbitrio, illusione
simile a chi può pensare che siano infinite le combinazioni dei suoni di
un violino, in realtà mi è sempre parsa un ostacolo a concepire la libertà
della ricerca non come un valore, ma come un processo, che nei suoi
terminals d’entrata e di uscita non ammette iati con processi più com­
prensivi. Alla grande varietà delle combinazioni si deve aggiungere,
come collaborante all’illusione, anche la mole veramente gigantesca
della memoria umana, che a sua volta può dare un’impressione di
onnipotenza.
Ma anche la complementarità delle molecole che sembrano scegliersi
nell’ordine del nastro nucleico può generare altre illusioni, proprio in
base a questa apparenza di scelta dalla quale possono derivare nuove
tentazioni metafisiche. Gli “errori” della trascrizione e della trasmissio­
ne del codice nucleico sottoposto ad usura, sono la chiave di spiegazione

174
del proceso evolutivo per adattamento e selezione, ma solo a condizione
che la parola errore non venga interpretata e usata alla lettera. Il fatto
che la sintesi proteica non avvenga nel nucleo, ma nei ribosomi, ci
ricollega poi a una storia deH’origine cellulare non ancora compieta-
mente scritta. Questa storia non può che rafforzare l’ipotesi che capaci­
tà di decisione e di scelta siano nomi imperfetti che diamo a meccanismi
genetici: la determinazione genetica, infatti, non può essere incompati­
bile con un’idea della libertà, intesa come stimolo promotore di ricerca,
e non come un regno da strappare alle tenebre. Tutte le cellule sono
potenzialmente mutagene, e qui va cercata la spiegazione della presen­
za di cellule mature o meno, e di quei mutismi di parti del codice, che
generano situazioni impropriamente chiamate errori. Si pensi per
esempio alle cellule cancerose, in cui la mutazione avviene senza tra­
smissione, determinando un quadro che è molto simile a quello dell’in-
vecchiamento, dove il sistema immunitario a volte non riconosce più
l’organismo di cui fa parte. Si pensi ancora agli inibitori e ai mediatori
microgenetici, e in generale al rapporto continuo tra produzione e uso
di tutti i neurotrasmettitori: il quadro che ci appare non è certo simile a
quel meccanismo cieco di cui spesso ingiustamente venivano accusati i
deterministi, ma nello stesso modo non ha nulla a che fare con visioni
neovitalistiche o, peggio, metafisiche dell’essere vivente e della natura.
Ho voluto insistere su questi aspetti perché il concetto stesso di gene
non va per ora ancora molto al di là di quello di un frammento cromoso­
mico. Può essere allettante e stimolante l’idea di un “gene” protagonista
della storia della vita terrestre, che crea e utilizza gli organismi come
macchine contenitrici, e che porta, nella sua evoluzione, a un punto di
rottura dopo il quale i cosiddetti “memi” culturali umani possono
sostituirlo nel processo evolutivo. Anche questi “memi” culturali, infat­
ti, parassiterebbero per propagarsi, e starebbero al cervello umano
come i geni al brodo primordiale. Ripeto che l’idea di “memi” sostituto-
ri di “geni” replicatoli può valere non tanto come ipotesi, ma come
stimolo a ipotizzare, un poco come è successo, anche se in modo diverso,
con l’orgone reichiano. Infatti, all’idea di “meme” non corrisponde
alcuna quantità percettiva, e, inoltre, non è un dogma considerare lo
stesso gene come l’unico replicatore. Che poi questo ipotetico meme sia
più rapido del gene, e quindi più assicurato nel futuro, e che perciò
l’uomo sia l’unico essere che può ribellarsi all’egoismo genetico, mi
sembra che sia l’inizio di possibili inquinamenti extrascientifici.

XIX - Qualcosa del genere sta avvenendo, o può avvenire, nel campo
della cibernetica. Anche qui ci sono ricercatori illuminati che, non

175
sempre giustamente, diffidano eccessivamente del fisicalismo di certi
studiosi della mente. Quando si fa una scala di gradini che vanno
dalPautomazione, attraverso la bionica, fino alla cibernetica della men­
te, intesa soprattutto come “attenzione”, e si distinguono, sia pure
provvisoriamente, fisico, psichico e logico, si rischia di trasformare la
cibernetica in una visione generale del mondo: abbiamo già visto che
questa tendenza è stata micidiale per altre discipline, come per esempio
la psicoanalisi. Tutto questo non sarebbe per me così pericoloso, se si
limitasse a ipotesi promozionali. Purtroppo queste ipotesi, non appena
sono surrogate da qualche prova imperfetta, finiscono col divenire
certezze, e influenzano in modo decisivo, per esempio nel caso della
cibernetica, lo sviluppo e l’applicazione della sua tecnologia. Un conto è
ipotizzare la ricerca dell’intelligenza artificiale come un modo inedito
dell’evoluzione umana, un conto è cercare di guidare questa evoluzione
alla luce di finalità preconcette e, comunque, non indenni da corposi
residui di quel primato dell’uomo contro il quale abbiamo già ampia­
mente scritto. Voglio dire che non è la stessa cosa ridimensionare
questo primato per salvarlo, o, al contrario, concepire l’evoluzione
umana come parte integrante di una realtà alla quale non si deve
neppure dialetticamente contrapporla.
Al concetto di attenzione si affianca, poi, quello di simulazione, intesa
soprattutto come tentativo di riproduzione dei processi biologici. Co­
struire qualcosa che agisca “come se”, è senz’altro un indirizzo ricco di
promesse, ma anche qui temo di dover sospettare un’insidia, cioè l’iato
continuamente riemergente tra soggetto e oggetto della ricerca. Non
voglio insistere ulteriormante su questioni già ampiamente affrontate
nei saggi, ma la metodologia del “come se”, d’altronde estensibile a
molti piani comportamentali, io la condivido ampiamente solo se viene
ricondotta a un’aurea generale che dovrebbe permeare tutte le fasi
ipotetiche della ricerca: questa metodologia in sostanza può essere
considerata il punto di identificazione tra ricerca ed etica, e quindi va
giudicata a posteriori, cioè dopo che si è riusciti a “plier la machine”.
Altro punto perlomeno delicato della moderna cibernetica è per me il
suo rapporto costante con la matematica in generale, e con la logica in
particolare. Per quanto riguarda la logica, credo che a questo punto sia
facile desumere gli assunti sostenuti in questi scritti, soprattutto in
relazione alle premesse e ai limiti della stessa operazione logica. Questo
vale anche per la matematica e per i suoi aspetti di semplificazione
riduttivistica, che rischiano di tradursi in operazioni di falsificazione,
avulsa però dal suo ruolo di strumento funzionale all’ipotesi. In quanto
dico, non c’è il minimo invito a trascurare l’altissima capacità strumen­

176
tale della matematica in relazione alla organizzazione del cervello
umano, ma se mai il bisogno di sottolineare ancora una volta quanto sia
pericolosa la metamorfosi di uno strumento in qualcosa di assoluto e di
superstrumentale. Che la cibernetica possa arrivare a sviluppi impor­
tanti utilizzando la logica e la matematica, non significa, per me, che
questi risultati la possano rilanciare su un territorio idealistico. Pena di
questo rilancio sarebbe, ancora una volta, il ritorno massiccio del prima­
to dell’intelligenza, e quindi dell’uomo, sulla natura.
Molte altre cose vorrei dire sulla cibernetica, ma mi è sufficiente per ora
aggiungere una notazione di costume. La nuova piaga, sempre più
insidiosa, dei cosiddetti pirati del computer, riporta in primo piano i
pericoli insiti nella tentazione di un troppo esteso affidamento dell’uo­
mo ai suoi strumenti di alta tecnologia. Il computer può concludere
ricerche, elaborare proposte e perfino dipingere quadri o scrivere poe­
sie. Può, in sostanza, aprire le porte alla cosiddetta intelligenza artificia­
le. Ma a parer mio ci sono due sole ipotesi per la sua evoluzione. La
prima è quella della costruzione di strumenti sempre più sofisticati e
sempre più efficienti, e l’altra è l’apporto umano alla nascita di nuove
forme evoluzionali di vita, anche diverse da quella basata sul carbonio.
Ovviamente in questa seconda ipotesi ritornano minacciosi, ma non
paralizzanti, gli antichi fantasmi del golem e dell’apprendista stregone.
Che il futuro automa sia di metallo o di carne, o misto, non incide
sull’eventuale sviluppo di queste due ipotesi, proprio perché il principio
da verificare e da emendare, e su cui vigilare continuamente, è il
principio stesso di automazione.
D ’altra parte, non sono poche le incontrollabilità reali o apparenti
della civiltà attuale. Sono proprio queste incontrollabilità a rendere
affascinante, ma critico, anche ogni discorso sulla cibernetica.
Per concludere su questo argomento, mi viene spontaneo ripetere
che ogni supremazia dell’uomo sulla terra è storica e contingente, ma
non può essere considerata in alcun modo teorizzabile, etica e assoluta.

XX - Sono perfettamente d’accordo che le parole e le definizioni non


devono essere usate come un “deus ex machina”. Dirò di più: sono
convinto, nonostante la mia vigilianza; di poter cadere io stesso in
questo facile errore.
Voglio ribadire le mie osservazioni su alcune parole. Partiamo anzi­
tutto dall’“idea”. Nei saggi ho cercato di definirla come la sintesi imma­
ginativa di analisi concettuali. Cioè come il momento di integrazione di
un frammento della memoria con un quantum dinamico determinato da
una pressione extraorganica. Ma questa sintesi viene prima di ogni

177
“perché” e di ogni significato, proprio in quanto scatta al momento del
blocco logico, e comincia a morire già all’inizio della sua traduzione
concettuale. Per dirla in un altro modo, il concetto e i suoi ordinamenti
categoriali sono strumenti mentali di portata estremamente più limitata
dell’idea intesa come momento della rimessa in moto del processo
immaginativo globale. Ho descritto questo meccanismo in termini ine­
vitabilmente antropomorfici, ma sono convinto che possiamo trovare
tracce corpose, anche nella realtà preumana, di questo come di tutti gli
altri meccanismi mentali. So di commettere almeno in parte quel facile
peccato di cui parlavo prima, ma concepire ogni definizione come un
assurdo stop alla ricerca è una lampada che vorrei continuasse a illumi­
narmi.
Proviamo ad andare avanti. Ho parlato, nei saggi, di “riflessione”
come di un meccanismo di consultazione dell’archivio genetico, di
“memoria”, come di un’incisione plastica, e di “attenzione” come del
momento di un allarme di richiamo. Certamente queste precisazioni
provvisorie non sono riportate nei saggi con le parole qui usate, ma
penso che una lettura attenta, cioè allarmata, non può che confermare
questa mia continua e ansiosa esigenza di vigilanza.
Restano due parole su cui vorrei un momento fermarmi: “coscienza”
e “autocoscienza”. Non riesco ad attribuire loro alcun significato (ogni
significato è sempre relativo a), se non detronizzandole dal loro vecchio
dominio. Se intendiamo la mente non come una parola strumentale che
cerchi di indicare l’unità progressiva dei processi comportamentali,
evidentemente è giusto parlare di coscienza come di un filtro sociale.
Ma se intendiamo il rapporto sociale come soltanto la parte iniziale del
complesso rapporto di relazione dell’organismo con l’ambiente, la paro­
la coscienza si può allargare a filtro di queste relazioni. In particolare
possiamo, volendo ma non necessariamente, continuare a utilizzare in
questo senso la parola coscienza, e riservare all’autocoscienza il signifi­
cato relativo di progressiva presa di consapevolezza del mondo interiore
dell’organismo. Anche in questi due casi è assurdo considerare questo
meccanismo una prerogativa esclusivamente umana, se non per certi
dati quantitativi.
Le ulteriori precisazioni di questo paragrafo nascono dalla mia co­
stante preoccupazione che il medico non sappia curare se stesso, e che
la forma mentis dogmatica sia un abito difficile da gettare alle ortiche.
Sono certo che tutte le problematiche che hanno riempito la mia vita
appartengano alla potenzialità di ogni essere umano, ma troppo spesso
non alla sua esperienza. Nel mio caso ritengo che la partenza infantile
dallo stupore per la natura, mi abbia portato, in primo luogo, a un bagno

178
inevitabile nelle scienze umanistiche, proprio perché trovano in esse
vocabolari ampiamente appetibili per la mia ricerca poetica. Ma una
volta uscito da questo bagno, nel momento in cui allargavo l’accezione
di ricerca alla rivalutazione del mio stupore infantile per la natura e i
suoi processi, mi sono accorto che non potrei tornare indietro, e conti­
nuare a usare i vocabolari che ho lasciato alle spalle. Cercherò, prima di
concludere queste note, di riferirmi a una mia sofferta emendazione
delPintelletto come a un processo in atto, di cui posso, per ora, abbozza­
re solo alcune descrizioni.

XXI - Prima di licenziare questi fogli devo riportare alcune nuove


notazioni su una tematica che mi è sempre stata molto a cuore: la
mirmecologia.
Il problema degli insetti sociali ha assunto negli ultimi tempi un’im­
portanza crescente anche al di fuori del ristretto campo entomologico,
proprio perché la loro etologia comporta da una parte stretti legami con
le pressioni ecologiche e, dall’altra, rivela campi di ricerca che forse
contengono chiavi di risposta per molti problemi di biologia e di micro-
biologia. Do per scontato tutto quanto ho scritto su questo argomento
nei saggi, e mi limito qui ad alcune considerazioni di ordine biologico.
Una conoscenza avanzata dei processi chimici, elettrici (e fisici in
generale) deliavita, ci rivela sempre più la società degli insetti come una
forma particolare di evoluzione che ha una datazione molto antica,
un’attualità molto intensa e una prospettiva che sarebbe improprio
definire bloccata. Sembra che il formicaio, ad esempio, ripeta su scala
originale la genesi dell’organismo. Anzi, possiamo andare più in là, se
consideriamo la cellula stessa un universo biologico. Il parallelismo a cui
accenno può essere condotto su molti piani, e io mi limiterò ad accenna­
re ad alcuni di essi, proprio perché un loro approfondimento esula dai
caratteri di questo libro.
Anzitutto l’ipotesi di centri d’eccitazione tra gli individui di un nido,
probabilmente ha bisogno di ulteriori precisazioni, che riguardano la
possibilità di una stretta interconnessione tra i vari sistemi biologici
degli individui e in primo luogo il sistema ormonale e quello nervoso. Si
è parlato spesso di un confronto tra i guerrieri di un nido e i corpuscoli
sanguigni. Il formicaio, nel suo complesso, ha dunque qualcosa di simile
ai sistemi organici, non escluso il sistema immunitario. Infatti i difensori
di un nido possono paragonarsi anche agli anticorpi come espressione
della capacità di riconoscimento dei corpi estranei, ed eventualmente
ostili. Ma le cellule designate al sistema immunitario, comprese quellè
non produttrici di anticorpi e le cosiddette cellule killer, agiscono

179
staccate e in apparenza autonome, ma innegabilmente dirette dal siste­
ma nervoso. Qui l’analogia si fa evidente, e ci permette di cominciare a
capire quali sono le estensioni e i limiti del comportamento della
formica come individuo. Ma i parallelismi di cui parlo possono essere
tanti che diviene d’obbligo la massima cautela.
Per esempio, fino a che punto l’apparizione dei neutri si può far
risalire all’originale scrittura genetica? I neutri delle formiche sembra­
no agire in direzione di una ostilità per i maschi, opponendosi in un
certo senso alla funzione stessa delle cosiddette regine. Questo sembra
avvenire anche nelle termiti, dove originariamente i neutri sono maschi
e femmine mancati. Fino a che punto la funzione del neutro è quella di
difendere e conservare la propria novità organica, e persino nervosa,
mettendo in qualche modo in crisi per la prima volta la rigidità della
dicotomia sessuale?
C’è inoltre chi ha confrontato il formicaio con un’azienda umana. I n
realtà, un nido ricorda una cellula col suo nucleo e i suoi corpuscoli
citoplasmatici. U n’impresa sopravvive solo superando se stessa. E allo­
ra? Le simbiosi e i parassitismi di cui è ricco il mondo entomologico,
oltre a indicarci un mondo in continua evoluzione, mi sembra che ci
pongano su un territorio estraneo alla contrapposizione tra altruismo
ed egoismo. Voglio dire che sarebbe più adeguato parlare di simpatia
diffusa negli individui organici, simpatia intesa anzitutto come fenome­
no chimico-fisico, soggetto perciò a deviazione, mutismi, istituzionaliz­
zazione di “errori”. Se è vero che ogni cultura, umana e no, è una
trasmissione genetica, il collante culturale della simpatia non è più-un
comodo “deus ex machina” quando ci addentriamo nel mondo com­
plesso delle attrazioni e delle repulsioni che regolano i processi inorga­
nici prima di quelli organici. Il formicaio può dunque essere considerato
un’impresa, ma le sue cadute istituzionali e i suoi superamenti in nuove
imprese, possono essere giudicati solo in termini di tempo evoluzionale,
tenendo anche conto di varie e grandi differenze di durata di questo
tempo.
D ’altra parte anche lo studio del formicaio ci aiuta oggi ad approfon­
dire le interrelazioni tra l’uomo e l’ambiente attuale. Non è soltando con
gli animali e le piante che l’uomo ha bisogno di scrivere un patto di
convivenza completamente nuovo. Sono i virus quelle realtà biologiche
che più di ogni altra ci spingono oggi a riscrivere questo nuovo docu­
mento di convivenza, anzitutto perché non possiamo più negare la
comune origine biologica. Il dramma storico delle grandi pestilenze
diviene oggi ancora più drammatico di fronte per esempio ai virus
dell’AIDS. Se si smettesse di parlare di questi problemi in termini

180
moralistici, ci si accorgerebbe che una interpretazione squisitamente
biologica del nostro rapporto col mondo virale, non diminuirebbe ma
incrementerebbe gli orizzonti della nostra ricerca, così come lo studio
mirmecologico ha tutto da guadagnare a perdere residui di grossolano
antropomorfismo e a muoversi sul piano della fondamentale unità della
vita terrestre, con tutte le sue correlazioni, i suoi parallelsmi e le sue
convergenze. Un nuovo patto tra l’uomo e la formica si impone oggi, ma
ovviamente presuppone patti più urgenti, tipo quello che ho portato ad
esempio parlando di convivenza coi virus.
Nel campo specifico della mirmecologia, poi, dato l’interesse per
l’argomento limitato a pochi, molte cose restano ancora da scoprire.
Voglio fare alcuni esempi. Non è ancora completamente chiara la
funzione del dolore nell’organismo vivente, ma ancora non sappiamo
con sicurezza se esiste il dolore nel mondo degli insetti. Nei cosiddetti
animali superiori, il dolore cessa nel talamo, cioè nel centro di smista­
mento ricetrasmittente degli impulsi nervosi. Naturalmente il problema
si complica di fronte a un cervello come quello della formica individua­
le, nel quale sembra che le funzioni “superiori” risiedano nei corpi
peduncolati. L’accezione comune di dolore deve pure avere una corri­
spondenza, almeno in due direzioni: quella dell’allarme individuale, e
quella delPallarme collettivo dipendente dalla capacità, in gran parte da
verificare, di interazione e di relativa fusione dei singoli cervelli in una
capacità di percezione, di informazione e di trasmissione del nido
globale. Si può dunque ipotizzare qualcosa di simile al dolore (e a tutto
il resto), oltre che per l’individuo, anche per il superorganismo, inteso
come una nuova unità.
Ma anche il sonno è un territorio inesplorato: le formiche dormono
per periodi molto brevi del giorno e della notte, a volte anche lontano
dal nido. La brevità del sonno non esclude a priori qualcosa di simile a
un momento di sonno paradossale, e alle conseguenti esperienze oniri­
che. Anche qui l’esplorazione dovrebbe estendersi dall’individuo al
gruppo, a tutto vantaggio di una maggiore conoscenza del sonno e della
sua funzione, che credo proprio irriducibili a una programmazione
genetica degli istinti, come dicono alcuni. Osservando quei sussulti
individuali del corpo di una singola formica nel suo contatto con un altro
individuo, sussulti da confrontare con la danza delle api, ho notato che
avvengono anche in momenti svincolati dalla ricerca del cibo, e persino
in alcuni casi in cui l’individuo formica è solo e sembra dormire.
Altro problema che mi sembra meriti maggiore attenzione è quello
della funzione dell’occhio, organo del quale del resto ormai esistono
ampie descrizioni. Ma la presenza di un organo più evoluto come l’anten­

181

I

na, e di sensi specializzati, peculiari solo agli insetti e alle formiche, non
esclude che gli occhi composti e gli ocelli abbiano funzioni di interazione
con gli altri sensi molto meno secondarie di quello che ora si pensi. E’per
esempio un fatto che mentre l’individuo formica, anche quando è ben
fornita di occhi, usa la vista in funzione secondaria, sia per la visione che
per Porientamento, il formicaio nel suo insieme in certe specie può
arrivare alla diminuzione, o addirittura alla scomparsa, forse non defini­
tiva, dell’organo visivo, soprattutto nei neutri delle specie a caste alta­
mente specializzate. La vita sotterranea non può essere Punica spiega­
zione, che forse va cercata di più in una dose di plasticità organica propria
degli imenotteri, soprattutto sociali. Se è vero, come diceva Goethe, che
l’occhio è la copia del sole, è anche vero che tutte le manifestazioni della
vita in un certo senso sono copie del sole, e che tra la sensazione visiva e
tutte le altre sensazioni non esistono iati divisori. Si pensi appunto
all’odorato dei cani, e alla fotosensibilità diffusa di altri animali.
Esistono poi dei problemi di altissima attualità, come ad esempio
quello della realizzazione di un ordine collettivo nell’apparente disordi­
ne individuale. Nella mirmecologia classica si ipotizzava la presenza di
gruppi dirigenti di operaie, da non confondere con quei centri di
eccitazione che nel caso hanno una funzione essenzialmente comunica­
tiva. Anche qui mi sembra legittimo cercare la spiegazione a monte, per
esempio nel meccanismo del cervello, dove il sistema reticolare attivan­
te non comanda o gerarchizza, ma ha la funzione di centro di smista­
mento, e di conseguente organizzazione.
Tutto il territorio degli ormoni come regolatori di caste, e in genérale
dell’universo chimico delle formiche, è un’altra strada che può portare
lontano. Ma qui mi fermo, perché le molte cose che ancora si potrebbe­
ro dire esulano dalla funzione di questo libro, tranne forse un’ultima
considerazione.
Si parla oggi di una programmazione genetica della morte. I singoli
neutri di un formicaio vivono da pochi mesi a pochi anni, a differenza
delle imago femminili, che in realtà, dopo la fecondazione sarebbe
meglio definire individui ermafroditi. Sicuramente questo fenomeno ha
un legame con qualche elemento inibitorio sociale, perché per esempio
io sono riuscito a tenere in vita singoli neutri per più di tre anni. Il nido,
inteso come superorganismo, ha una vita molto più lunga, che a volte si
avvicina a quella dei grandi mammiferi, e che non sempre dipende in
modo assoluto dalla vita delle fattrici. Credo che nessuno dovrebbe
sorridere se si cerca di comprendere il meccanismo tanatologico gene­
rale esplorando più a fondo anche quello specifico degli insetti e delle
formiche.

182
Comunque sia, penso che oggi non si possa con qualche serietà
continuare a parlare di quella vera distorsione mentale che un tempo si
chiamava “il bene della specie”. Ora sappiamo che in tutti gli esseri
viventi esiste qualcosa di simile alla finzione, alla menzogna e al gioco, in
relazione diretta e indiretta con l’apprendimento e con la sopravvivenza
individuale. Se intendiamo la pulsione come interazione fra stimoli e
fattori organici, prima di preoccuparci delle conseguenze di certe corre­
zioni interpretative, dobbiamo apprezzare il guadagno che si acquisisce
con ricerche totalmente spregiudicate. Il primo guadagno, e forse il più
importante, è quello della continua conferma dell’unità sostanziale
della vita terrestre.

XXII - 1 saggi qui riportati insistono sul continuo rinvio della cultura alla
biologia, e della biologia al mondo fisico. Oggi proliferano nuove co­
smogonie, solo alcune delle quali influenzano questo rinvio e ne sono
influenzate. L’unità sostanziale della vita ci rimanda per parallelismo
all’unità sostanziale dell’universo e alla ricerca della formula unificatri­
ce. Credo che oggi Einstein e il quantismo restino basi fondamentali
della ricerca, come nell’evoluzione Darwin e Mendel: ogni polemica su
queste basi è ormai inevitabilmente datata. Ma qualunque siano le
nostre ipotesi sull’origine della vita da una parte, e dell’universo dall’al­
tra, è innegabile che diviene sempre più difficile sostenere epifanie
metafisiche o persino religiose. E ’ altrettanto innegabile che l’attuale
conoscenza della struttura dell’universo in continua evoluzione non può
non influenzare radicalmente tutte le scienze dell’uomo, comprese
quelle più rigorosamente umanistiche. Si pensi per esempio alla attuale
distinzione, per me fondamentale, fra vuoto e nulla. Il vuoto inteso
come l’ambiente dove non esiste materia è l’ipotesi che più soccorre una
emendazione cosmogenetica, e di conseguenza può diventare un’arma
efficace contro le scorie idealistiche.
Timpanaro ha parlato della fenomenologia come di un “idealismo
astuto”. Io estenderei questo giudizio a ogni tentativo di definizione e di
sistemazione definitiva dei dati della ricerca, nella quale diviene sempre
più difficile parlare di un “logos” aristotelico (nei processi vitali), e di
una “causa prima” (nel mondo fisico). Ma una mia particolare forma­
zione mi ha sempre tenuto lontano da ogni tentazione di trascendenta­
le, come da un tentativo disperato di salvare qualcosa dalla minaccia di
un oscuro disordine. E’ dunque ovvio che questa mia lontananza si sia
estesa anche a tutti i tentativi fenomenologici: il “dasein” heideggeriano
ha sempre suscitato in me un’irritazione non difficile da decifrare.

183
Molte istanze fenomenologiche del pensiero moderno sono per me
effetto di cause a esso estranee, cause che pesano ancora deleteriamen­
te sulla forma mentis di molti pensatori.

XXIII - Sono personalmente convinto che non può esistere una scienza
filosofica autonoma dalle scienze naturali, o, peggio, una filosofia della
scienza. Questo vale per tutti gli aspetti della filosofia, non esclusa
l’estetica. Questo vale, in particolare, anche per le concezioni sull’arte.
Il dolore, la gioia, l’angoscia, il grottesco, l’amore, fanno parte del
nostro quotidiano, e quindi emergono continuamente nella comunica­
zione poetica individuale. Ma non si può continuare a confondere la
poesia con la licenza poetiche, e a utilizzarla come veicolo di salvataggio
per i rifiuti e gli scarichi della nostra cultura. Questo non significa che il
linguaggio poetico, nella sua grande funzione di comunicazione sinteti­
ca, debba reprimere la forza emotiva che lo realizza, o debbe in qualche
modo essere condizionato da qualche ideologia poetica, o da qualche
imperativo categorico. Il concetto di dovere è sicuramente un concetto
astuto, che tra l’altro permette alla pseudopoesia di mettersi al di sopra
del dovere dei più, nel nome di un più alto e privilegiato dovere di
libertà dello spirito (libertà anche dal lavoro coatto). La commozione
emotiva che sorregge il linguaggio poetico non è che la manifestazione
dei sentimenti intesi come espressione del legame sociale, e del legame
dell’individuo e del gruppo con le altre forme di vita, e in generale con
tutte le manifestazioni dell’universo.
L’individuo organico è proprio questo produttore di “imago”, di cui la
pronuncia poetica è un precipitato promozionale. L’imago prodotta
non è che la fase epifanica dell’idea, di cui la poesia è il grido emoziona­
le. Vorrei paragonare il linguaggio poetico a un “orizzonte degli eventi”,
così come è inteso nella moderna astrofisica: se nel momento poieutico
io posso confrontarmi a un “buco nero”, in cui tutto viene rimesso in
discussione, c’è però nella mia azione poieutica un limite oltre il quale
essa diviene inefficace. Si potrebbe in sostanza concepire questo limite
come una sintesi comunicativa non raggiunta, o per ebbrezza individua­
listica o per inattualità ambientale. Questa è forse l’unica vera originali­
tà della poesia, cioè essere un modo linguistico di quelle variazioni
evoluzionali che in biologia vengono impropriamente chiamate errori.
La poesia, dunque, è potenzialmente di tutti gli essere umani, e il
mestiere di poeta sopravvive solo ed esclusivamente come tentazione
profetica. E’ inutile aggiungere che ogni profezia è solo e sempre
un’ipotesi statistica, va cioè intesa solo come il momento di riposo e di
ricarica della ricerca. Oggi le distanze tra il fisico, il biologo e il poeta si

184
raccorciano sempre più, e sopravvivono solo per i diversi luoghi e tempi
d’azione. Ma il posto è uno solo.
Comunque, quando il poeta si chiede: “chi sono io ?”, non fa che
riconoscersi portavoce della domanda fondamentale di ognuno di noi. Il
suo linguaggio avrà forza di rappresentanza tanto più grande quanto più
ricche saranno le sue doti emozionali e le sue capacità di sintesi.

XXIV - A questo punto mi rendo conto che le note aggiunte ai saggi


rischiano di travolgere la loro funzione di aggiornamento, o di tradursi
addirittura nell’abbozzo di un nuovo libro. Devo perciò fermarmi, pur
lasciando aperto il lungo frammento.
L’unica vera conclusione provvisoria sarebbe quella di profilare le
prospettive future di quella ideografia biografica a cui in sostanza si
riducono i saggi. Ma non è un compito facile, perché subito si affollano
alla mente troppi argomenti privi di ordine gerarchico, che rendono
quasi impossibile una scelta preferenziale. Non mi resta che decentrare
il frammento nei frammenti, e procedere brevemente con l’auspicio di
nuovi dizionari filosofici, o meglio ancora di nuovi dizionari delle idee
correnti.
Già l’idea di un libro mi pare oggi vicina a un livello critico. Nuovi
mezzi di informazione si affacciano con i loro facili allettamenti. (Ma
tutti sappiamo che strictu sensu non esiste la musica elettronica). D’al­
tra parte, la suggestione del libro presenta ancora ampi margini di
fascinazione. La crisi del libro consiste anche nella sua inflazione,
inevitabile in una culturazione di massa, inflazione corrispondente e
parallela ad affrettate e immature immersioni nel campo delle tecnolo­
gie avanzate. Oggi il mercato del libro è appunto inflazionato, in un
contesto in cui pertanto è approssimativo anche l’interesse per i nuovi
mezzi d’informazione. Oggi c’è il libro facile, come c’è il grilletto facile:
un imbecille può fare una strage, o una donnetta può lanciare una
bomba atomica, e minacciare l’intero pianeta, e una persona imprepa­
rata può scrivere un libro coniugando rimasticati dati nozionistici con
sfacciati efficientismi di moda.

XXV - A scanso di equivoci, qui vengono scartate tutte quelle motiva­


zioni che in un modo o nell’altro mirino a censurare o reprimere la
libera circolazione delle idee. Il problema è un altro: quello di elevare,
con travolgimento pedagogico, il livello culturale della popolazione.
Solo così si potrà avere una garanzia per la soluzione positiva dei più
grandi drammi ecologici attuali, primo fra tutti quello demografico.
Quando rappresentanti ufficiali della religione e della politica, mentre

185
con una mano fingono di promuovere iniziative ecologiche, con l’altra
garantiscono che la terra può ospitare tranquillamente, a certe condi­
zioni, per alcuni dieci miliardi di uomini, per altri addirittura quaranta
miliardi, e, come sempre in questi casi, ci sono pseudo-scienziati pronti
a giustificare queste dichiarazioni, (quello stesso tipo di personaggi che
è stato capace di dimostrare “scientificamente” leggi razziali, ideologie
di guerra, sperequazioni sociali, miracoli e taumaturgie, e non so quali
altre degradanti prospettive), dobbiamo seriamente chiederci come
un’umanità in pericolo possa ancora tollerare etiche manipolate, dele­
ghe coatte a istituzioni violente e accentratrici, e soprattutto, atteggia­
menti fanatici, integralistici, o comunque di sostanziale ispirazione
totalitaria.
La morale non è che una forma della conoscenza, e non c’è peggiore
morale di quella che nasce dalla tirannia magica e terroristica dell’opi­
nione pubblica, che poi è l’opinione della cosiddetta “gente perbene”,
della gente “normale”. Credo che non si studi mai abbastanza, per
esempio, l’importanza delle mimiche corporee, e soprattutto facciali,
nella formazione delle coscienze sociali, e nella sopravvivenza eccessiva
dei complessi di colpa e di inferiorità. Si pensi al rictus idiota dell’uomo
che ride uccidendo animali, piante o altri uomini. Si pensi ancora alla
persuasione occulta esercitata dalle espressioni di consenso e di rimpro­
vero dei parenti e dei pedagoghi sui fanciulli, e si vedrà che non stiamo
parlando di un problema secondario: ancora una volta una maggiore
conoscenza può generare una nuova moralità. Se è vero che lo straniero
in una terra di cretini è l’unico vero cretino, non ci resta che cercare di
eliminare, per superamento e apertura, ogni terra di cretini.
La necessità più urgente è dunque quella di svellere ogni “cretino”
razzismo della specie. L’arrogante presunzione del primato dell’uomo è
la vera origine di ogni altro razzismo specifico, perché è frutto di
un’arcaica e inattuale concezione dell’io individuale.
Un continuo approfondimento della conoscenza dell’individuo orga­
nico, nella sua singolarità come nelle sue ripetitività, è dunque la
condizione che ci può permettere di disinnescare varie minacce del
nostro tempo. Un esempio possono essere le droghe: quest’altra piaga
sociale rivela solo specifiche carenze organiche, per superare le quali la
formula più controproducente è proprio quella dei metodi repressivi. Il
corpo degli esseri viventi, dalle piante all’uomo, produce sostanze di cui
le droghe sono un surrogato, che rivela però bisogni organici insoddi­
sfatti, e, in generale, una repressione della libido.
Ma questo discorso sulle droghe può essere esteso a tutti gli aspetti
della legge statale nella sua funzione repressiva. Il “cattivo” è sempre

186
prigioniero di qualcosa: l’errore più grande è aggiungere prigione a
prigione. Certamente non si possono abolire i tribunali con una bac­
chetta magica. (Mi ripeteva un vecchio ergastolano, citando qualcosa,
che “il ladro è il chiaro di luna del borghese”). Nei saggi si è cercato di
parlare ampiamente di un processo progressivo, che abbia alla sua base
una emendazione dell’intelletto. Non mi riferisco qui solo alla relatività
dei concetti di bene e di male, ma prima di tutto agli inquinamenti
moralistici della ricerca. Nessuno può escludere che nel futuro ci siano
nuovi processi come quelli a Galileo, nuove autocritiche e “confessio­
ni”, nuove drammatiche riabilitazioni dopo quattro secoli, come per
Galileo, o dopo mezzo secolo, come per Trotzkj. Tutto questo nefasto
meccanismo sopravviverà fino a quando le discipline umane saranno
ordinate gerarchicamente, come una piramide, al vertice della quale
siede la religione, o una sua delega all’istituto statale. Credo di avere
sufficientemente parlato nei saggi della crisi di senescenza dello Stato
come istituzione, e della necessità di superarlo non con decisioni di
vertice o con equivoche battaglie ideologiche, ma con la sua progressiva
trasformazione da istituzione a impresa, in modo che la conoscenza
dello stato delle cose possa generare nuove istituzioni provvisorie,
pronte a cedere il passo a nuove promozioni imprenditoriali.
E ’ ovvio che la morale di Stato, così come oggi e in prospettiva viene
configurata, non ha più la capacità di affrontare quei problemi fonda-
mentali che non conoscono frontiera, proprio perché la soluzione radi­
cale di questi problemi finirebbe con l’entrare in contrasto profondo
con la stessa ragion d’essere dello Stato.
Nessuna istituzione attuale può strappare all’utopia problemi come
quello del reddito in eccesso o dell’organizzazione del tempo libero. E
ancora: come è possibile, sulla base di piccoli o grandi pregiudizi affron­
tare di petto il dramma demografico, l’effetto serra, il nuovo patto con
tutti gli esseri viventi, l’uso positivo delle tecnologie avanzate, l’abolizio­
ne delle sempre più gravi sperequazioni economiche tra i cittadini,
l’annullamento di quell’opera di diseducazione che oggi è esercitata dai
grandi mezzi di comunicazione, la drammaticità dell’evoluzione dei
centri urbani, lo spaventoso problema dei rifiuti, l’inquinamento delle
acque, della terra e dell’aria, la distruzione delle foreste, il grottesco
persistere di concezioni archetipe della proprietà, la nascita continua
nelle istituzioni statali di forme di antistato e di organizzazioni mafiose,
l’uso costante delle armi chimiche, il potere psicologico del sistema
monetario e quella vera forma di attentato all’evoluzione della nostra
cultura che è la concezione stessa di “società dei consumi”? E non voglio
dimenticare la buona salute degli eserciti, delle polizie militarizzate e

187
delle scuole militari, il tutto sotto la voce giustificatrice delle esigenze di
difesa. C’è poi l’atroce dramma dei macelli: non si è neppure cominciato
a cercare seriamente strade alternative, “proteine artificiali, ecc.”, e a
devolvere le enormi spese militari e voluttuarie a favore della soluzione
delle tragedie della fame, della povertà e delle malattie, e nel nome di
ricerche di laboratorio prioritarie anche per una nutrizione che escluda
sempre più ogni biocidio.

XXVI - E’ stato detto che i giudizi a priori sono in realtà i nostri


antenati. Effettivamente la conoscenza del sistema nervoso, e in gene­
rale di tutto il complesso organico, presentandoci la funzionalità attuale
di certi organi arcaici sopravvissuti, ci può indicare una via da seguire:
voglio dire che non si tratta di negare o abolire il passato, ma di
conoscere sempre più, e quindi di utilizzare in modo sempre più positi­
vo, il meccanismo della memoria, e di riconoscere che l’assuefazione
non esercita sempre un ruolo promozionale.
E’ vero che ogni informazione dissipa parte del suo messaggio, ma è
anche vero che non ci sono limiti alla quantità dell’informazione. Non
credo necessario concepire “neghentropie” varie. Basterebbe spesso
ricordare che ogni significato non è che la decifrazione delle cose, e ha
pertanto sempre una valenza relativa e provvisoria. Se non vogliamo
perderci in una astratta discussione sul caso, ci dovrebbe bastare riusci­
re a considerare ciò che ci sembra un caso come un’allettante visione
della molteplicità delle cose e, come tale, un incremento decisivo della
ricerca, al di là di ogni pestilenziale segno di onnipotenza e di ogni
concezione di una oggettività statica e di una verità assoluta.Non c’è
limite alla produzione di modelli e al progressivo riconoscimento della
loro decadenza.
Non c’è limite alla costante messa in crisi della magia delle parole: da
una certa ottica non è un paradosso pensare che ogni parola può essere
usata una volta sola. La ricerca ci rivela solo i particolari: il generale non
esiste se non come ipotesi di lavoro, ma questa ipotesi diviene pericolo­
sa in mano a tutti quei professionismi superspecializzati che sostengono
il mercato sociale, e che finiscono con l’uccidere ogni afflato dilettanti­
stico di partenza. Altra cosa è la specializzazione che si realizzi in un
continuo passaggio dall’estensione di campo all’inevitabile richiamo
all’unità della ricerca. Ho detto più volte che questa unità non è che
l’immagine speculare dell’unità di tutte le forme di vita in un’unica
biocenosi terrestre, e di tutte le conoscenze del mondo in una loro
reintegrazione cosmogonica.
Se ricordiamo quanto ho scritto sull’immaginazione, ci è più facile

188
concludere che la conoscenza scientifica è l’immaginario, e l’immagina­
rio è quello che siamo abituati a chiamare amore. Ma non c’è amore se
non gli si garantisce uno spazio di sopravvivenza, vorrei dire un’arena di
danza. L’idea di probabilità, contrapposta a quella di certezza, non ci fa
scivolare nel sogno-incubo dello spirito, ma ci alimenta il sentimento
fondamentale della speranza. Non è vero che la demitizzazione massic­
cia insita nelle scienze moderne può demotivare la nostra azione mora­
le. L’inconoscibile resta una favola malvagia di fronte alla mirabile e
maestosa prateria delle cose non consciute.

XXVII - Siamo dunque arrivati al congedo, sia pure provvisorio. Si


affollano sulla punta della mia penna migliaia di immagini: il leopardo
non più torturato a morte per salvaguardare la pelliccia; l’aggressività
bloccata da un gesto codificato; l’uomo che si sforza di non farsi influen­
zare troppo dal fatto che i suoi occhi guardano avanti e non vedono le
sue spalle; le tribù sopravvissute che, per scaramentizzare la tragedia
della guerra, hanno inventato la guerra come giuoco; il piacere sessuale
non più asservito alla riproduzione, che ne diviene una conseguenza
importante ma non assoluta; il cielo aperto non a eventuali nuovi
conquistadores, avidi, stupidi e feroci come quelli spagnoli, ma solo agli
uomini assetati di conoscenza. E ancora, uno stop allo sfruttamento
artificiale della “magia” delle parole. A questo punto mi si permetta
qualche piccola digressione: all’elenco incompleto aggiungerei, la
scomparsa di quei giornali che ad esempio, in una pagina esaltano i
grattacieli, e nella pagina successiva, con gli stessi argomenti, ne dimo­
strano sofisticamente la necessità; e, perché no, anche la fine delle
causidiche presunzioni intellettualistiche di chi segna con la matita blu
un’espressione ormai acquisita come “vicino “a“ Roma”.E’ un piccolo
particolare, che tuttavia rivela l’ottusità di chi agisce nel nome delle
regole statiche, mortali per ogni evoluzione linguistica, e per i suoi
“errori”, salutari al suo sviluppo. E dove mettiamo la mania per le
parole artificiali, spesso figlie di mode effimere e presuntuose, se non di
un’ignoranza “ad alto livello”, che somiglia straordinariamente al “lati­
norum” dei vecchi farmacisti e dei vecchi preti di campagna? Perché
non aggiungere a questo elenco anche nove decimi dei discorsi dei
critici d’arte? Concepire una critica d’arte è per me un assurdo, dietro a
cui è facile scoprire mimetizzate sponsorizzazioni di mercato, o falli­
menti, repressioni, rinuncie e impotenze varie, surrogate da velleitarie
volontà di potenza, o ancora, sostanziale incapacità di approccio alla
storia dell’arte.

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XXVIII - Non c’è limite alla stupidità. Ma nessuno può mettere un
limite anche alla nostra protesta.
Eccoci qui, dunque, a chiederci, ancora e sempre, che cosa fare, ma,
con la stessa intensità, vogliosi anche di fare.
Nei saggi ho parlato della necessità di un grande armistizio in forma
di costituente planetaria. Un’idea del genere non potrebbe ipotecare e
prescrivere il futuro, ma potrebbe dare all’uomo quella sospensione
necessaria nella quale per qualche momento tornerebbe a godere di un
respiro intero. Non mi sembra importante teorizzare oggi una terza o
quarta estinzione massiccia della vita, di cui l’uomo sarebbe l’inconscio
esecutore. Smettiamola anche di illuderci, all’opposto, che alla fine il
meglio prevalga sempre. Non è mio compito discutere del no popperia­
no alla scienza induttiva, o riferirmi a certe tendenze di psicologia
cognitiva: mi basta il richiamo alla molteplicità degli impulsi, così come
appare da questi saggi, e l’invito a battersi per quelli più promozionali
alla sopravvivenza vitale, naturalmente nella direzione del particolare
significato che nei saggi si è dato al concetto di scelta.
Io sono essenzialmente un uomo che tenta la poesia. Se oggi la sento
carica di tutte le pressioni di cui ho parlato, chiedo a un eventuale
lettore di considerare il sovrappeso di questa tentazione non come
l’arroganza di un uomo presuntuoso che vuol dire la sua su tutte le cose,
anche su quelle che non conosce, ma come la genuina modestia di chi ha
sentito suonare un allarme, e cerca di trametterlo intorno a sé. Que­
st’uomo, ovviamente, lo può fare solo col linguaggio del suo lavoro.
Continuerò pertanto a scrivere di bradipi che sognano le grandi
spirali del cielo, a giocare passionalmente con le figure dell’“I King”, a
incuriosirmi dilettantisticamente di ogni nuova indagine sui prioni, a
lasciare aperte le porte e le finestre alla traduzione poetica di tutti quei
problemi che appartengono a ogni uomo, e che la metafisica ci ha per
troppo tempo negato. Come per alcuni frammenti di Leonardo, vorrei
leggere secondo una trascrizione che ci richiami l’eco di ritmi molto
lontani, e per questo così vicini alla nostra sensibilità attuale, l’ultimo
periodo che chiude provvisoriamente questo volume:
è necessario?
è possibile?
che cosa aspettiamo?

190
1

INDICE

Premessa ....................................... p. 7
Una folla di tentazioni . . ...................................... p. 11
Filtri biografici................ p. 29
Inattualità delle psiche......................... p. 45
La storia cap ovo lta................... p. 57
Parole per parole ...................................................... p. 65
Cavità extra -te a tra le ........... .. ...................... .. . . p. 81
Le animule del golem ............................... p. 95
Vie di lib id in e ..................................................... . p. 105
E n tr'a c te ........... p. 133
Nuova impresa d.ei prolegomeni aeratici . . . . . p. 143
Dieci anni d o p o ...................... ......................... .. . p. 147
VOLUMI PUBBLICATI
Collana Battellino Rosso
INVERNO di Ferruccio Massimi
poesia 1 987
SHIT STORY di Massimo Greci
romanzo 1 988
I MERCANTI DEL TEMPIO di Massimo Greci
racconti 1988

Collana Blu Indiano


LA SCOMMESSA CON L'ARTE di Gaetano M. Bonifati
arte contemporanea 1988
IL SANGUE DELLA TUA FERITA di Gaetano M. Bonifati
e Giulio Salierno
analisi sociologica - arte contemporanea 1988
PABLO E RAFAEL di Cesare Giardini Coccoz
arte contemporanea 1988 .

Collana Giallo di Cromo n. 1


IMPRESA DEI PROLEGOMENI ACRATICI
di Aldo Braibanti - saggi 1989

Finito di stampare per conto


della Editrice 28 nel mese
di marzo 1 989 dalla
O' PRINT
Via Montegrappa, 26
00043 Ciampino
T
P ro p o sta di un nuovo approccio alle tem atiche libertarie, elabo­
rate attraverso un equilibrio tra istanze biografiche e istanze ide­
ografiche, óltre ogni ideologia. L ’eredità della resistenza, le espe­
rienze filosofica, artistica e politica poste di fronte ai problem i
della sopravvivenza individuale e della specie. ” ... l’ecologia -
dice l’au tore - non può essere la nuova scienza' di qualche p re­
suntuoso barone e dei suoi chierici ansiosi, m a va intesa orm ai
com e il substrato fondam entale di ogni scibile e di ogni ricerca.”

* **

A ldo B raibanti, n ato a F iorenzuola d ’A rd a nel 1922, lau reato in


filosofia. Partigiano nella resistenza fiorentina. D a sem pre studio­
so di m irm ecologia, e au to re di ceram iche e collages di cui ha
ten u to varie m ostre a Firenze e a R om a, dove ab ita. H a scritto
diverse sceneggiature cinem atografiche, e ideati e diretto varie
trasm issioni radiofoniche. Pubblica nel 1960 i q u a ttro volum i de
” 11 circo” , (poesie, pièces e saggi, Ed. A tta), e, nel 1969, ” Le
prigioni di S ta to ” Ed. Feltrinelli. C ostante è stata la sua attività
di au to re e regista teatrale, ( ” B andi” di ” V iru len tia” , la b o ra ­
torio dell’ ” A nticrate” , " L ’altra ferita” , ” 11 m ercatino” , ’T h e tri
epistola” ).

ISBN 88-85133-01-0

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