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RICCARDO BERTONCELLI, Topi caldi, Milano, Giunti, 2016, pp.

271, euro 16,00

Il precedente immediato di questo libro non è così immediato (e resta, va detto subito,
insuperato): sto parlando di quel Paesaggi immaginari (Milano, Giunti, 1998; cfr.
“L'indice”, settembre 1998 – controllate la data, la recensione è mia-) che quasi
vent'anni fa riaffermava l'autorevolezza di Riccardo Bertoncelli nel panorama della
critica rock; un panorama, ricordiamolo, che nel nostro paese sarebbe perfino difficile
immaginare, senza lo stesso Bertoncelli. Basta pensare alle mille riviste specialistiche
che ha fondato o a cui ha collaborato, da “Gong” a “Musica80” a “Rockerilla”, da
ultimo a “Blow Up”; oppure, alle sue collaborazioni per la stampa non di settore,
come “Linus” o “Cuore”, dove, tra una vignetta di Altan e una storiella di Bobo
Bertoncelli sobillava e inveiva, stroncava David Bowie e perorava cause perdenti o
disegnava mappe per tesori nascosti. Nè vanno dimenticati i tanti libri da lui scritti o
curati: da Pop Story (Arcana, 1973) al Bian Eno (Arcana 1982) la cui introduzione
rimane la più bella pagina italiana su Eno.
Di Paesaggi immaginari questo libro conserva l'impianto: si tratta di una selezione di
scritti “occasionali”, per lo più recensioni già apparse su qualche rivista, che
vengono, com'è abitudine di Bertoncelli, rimontati e talvolta riscritti, e cuciti insieme
seguendo fili tematici. Topi caldi si apre, sin dal titolo e dalla copertina, nel segno di
Frank Zappa, che da sempre è per Bertoncelli un nume tutelare e una guida spirituale;
del Vate di Cucamonga vengono qui ripercorse le ultime tappe, a partire grosso modo
dal 1988, fino alla morte e a qualche scellerato episodio di vita postuma, come la
sarcastica invettiva sul malgoverno dell'eredità zappiana perpetrato dalla vedova
(Aridatece Yoko!, sbotta Bertoncelli, a dire che la vedova Lennon, per decenni
incolpata praticamente di tutto, era una specie di Madre Teresa in confronto ad
Abigail Zappa); ma ci sono anche altri grandi protagonisti di quella generazione e di
quelle successive. Belle ad esempio le pagine dedicate a Bob Dylan (prima del
Nobel, ovviamente), che avvicinano il Cantautore-Che-Non-C'è attraverso la lettura
dei suoi libri e dei libri su di lui. Questo della carta stampata e della critica musicale è
certo uno dei fili più tenaci che attraversano Topi caldi e insieme la vita di
Bertoncelli: l'entusiasmo per la musica è, fin da subito, inscindibile dalla passione e
dalla voglia di comunicare quell'entusiasmo, e tra le pagine più gustose del libro ci
sono i ricordi, che continuamente riaffiorano, delle sue avventure di critico, quando la
critica rock era una faccenda quasi cospiratoria e anziché i blog c'erano i ciclostili.
Sullo stesso filo stanno le pagine dedicate ad un illustre e più sfortunato collega
americano, quel Lester Bangs di cui Bertoncelli è bravo nel sottolineare le irripetibili
qualità, ma è anche equilibrato nel riconoscere il contesto di appartenenza, che bene
ne spiega le idiosincrasie, gli abbagli, le intemperanze. Più della metà dei musicisti di
cui si parla in questo libro certo non hanno bisogno di presentazioni e costituiscono
passaggi pressoché obbligati per uno scrittore della generazione di Bertoncelli (“Sono
nato lo stesso giorno in cui nacque il Rock and Roll, non so se mi spiego” è il
folgorante incipit del libro, e non è una millanteria: 21 marzo 1952). Oltre ai citati,
non mancano Janis Joplin e Syd Barrett, Lou Reed e Patti Smith, Tom Waits e Ry
Cooder; né mancano affondi nelle generazioni ancora precedenti, come l'intenso
medaglione biografico su Hank Williams; ma le pagine più interessanti sono quelle
nelle quali Bertoncelli recupera nomi meno noti o più sfortunati: qui ne troviamo una
bella schiera, rubricata sotto il titolo, mutuato da Leonard Cohen, di “Bei perdenti”.
Forse il segreto segreto di questo e degli altri libri di Bertoncelli, è un segreto di
natura squisitamente letteraria, come dev'essere per un critico che tra le principali
influenze cita Tommaso Landolfi. Il più efficace collaudo di Topi Caldi non è quello
di correre al proprio impianto stereo per riascoltare, per l'ennesima volta, il Banana
Album dei Velvet Underground e verificare se davvero in Heroin ritroviamo i “fili
scoperti e il cuore piagato, la voce smorfiata e il deliium tremens di viola e chitarre”
che ci sente Bertoncelli. No, il miglior modo è piuttosto quello di leggere le pagine
dedicate alle musiche che non conosciamo, e, lasciandoci guidare dalla scrittura,
immaginarci che razza di musica potremo mai sentire, ad esempio, in Folk Blues and
Beyond di Davy Graham, un disco del 1964 che a detta di Bertoncelli “faceva il
periplo delle culture e dei generi, da Mingus a Dylan, da Broadway a Tangeri
passando per i porti dell'Inghilterra marinara e il Delta del Mississippi”. In tempi di
Youtube e Spotify può sembrare un esercizio autolesionista, ma non c'è miglior modo
per apprezzare un libro come questo: leggerlo con l'immaginazione sbrigliata e,
insieme, con le orecchie attente.

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