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Albert Camus: "Si serve l’uomo nella sua

totalità o non lo si serve per nulla. E se l’uomo


ha bisogno di pane e di giustizia – e si deve fare
quanto occorre per soddisfare questo bisogno –
ha anche bisogno della bellezza pura, che è il
pane del suo cuore. Il resto non è serio". Un
articolo di Zygmunt Bauman
Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /12 /2009 - 16:05 pm | Segnala questo articolo:




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Riprendiamo da Avvenire del 27/12/2009 una riflessione del sociologo della «modernità liquida»,
Zygmunt Bauman, sul lascito del grande scrittore francese, morto prematuramente a 47 anni in un
incidente d’auto il 4 gennaio 1960. L’articolo recava come titolo originario “Camus, la «rivolta»
50 anni dopo”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Di
Zygmunt Bauman, vedi anche, su questo stesso sito l’intervista dal titolo Zygmunt Bauman: la
società liquida e la Deus caritas est di Benedetto XVI. "L'amore non è liquido".

Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2009)

Mezzo secolo è trascorso senza Albert Camus, senza i suoi giudizi pungenti, provocatori e
stimolanti, che ci pungolano e ci pungono sul vivo. In tutto questo tempo il corpus di libri, articoli e
tesi dedicati all’autore di L’Etranger, La Peste, La Chute e Le Premier Homme non ha smesso di
lievitare. Questia, la «biblioteca on line di libri e periodici» più consultata dai docenti universitari, il
1° ottobre 2009 elencava 3171 titoli, tra cui 2528 libri dedicati al suo pensiero e al posto che occupa
nella storia delle idee; Google Books, sito web ancora più popolare, ne contava 9953. La maggior
parte degli autori finisce per porsi la stessa domanda: quale sarebbe stata la posizione di Camus
di fronte al mondo – il nostro – che si è instaurato dopo la sua morte prematura? Quali
sarebbero stati i suoi giudizi, i consigli, le intimazioni che non ha avuto il tempo di offrirci e che ci
mancano così ferocemente?

Una sola domanda, tante risposte: tante risposte diverse… Non c’è da meravigliarsi. Camus diceva:
«Tutta l’arte di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere». Perché? Perché le sue
rivelazioni, o l’assenza di rivelazioni, suggeriscono spiegazioni, ma «che non vengono rivelate
chiaramente» e che, per essere chiarite, richiedono che la storia sia riletta «da una nuova
angolazione».
In altre parole, l’arte di Kafka consiste nell’evitare la tentazione di voler inglobare
l’ininglobabile e chiudere questioni destinate a restare per sempre aperte, intriganti e
lancinanti: e dunque nel non cessare mai di interrogare e provocare il lettore, continuando a ispirare
e incoraggiare gli sforzi di ri-pensare. Grazie a questa peculiarità le intuizioni di Kafka sono
immortali, e le controversie e i dibattiti che continuano a generare sono la migliore approssimazione
possibile alla «pietra filosofale» che sognavano gli alchimisti, dalla quale si può perennemente
estrarre l’«elisir di vita». Nel suo ritratto di Kafka, Camus ha schizzato il modello di ogni pensiero
immortale: il marchio di tutti i grandi pensatori, lui compreso…

Naturalmente non ho finito (e neanche seriamente tentato) di studiare le migliaia di reinterpretazioni


suscitate finora dall’eredità di Camus. Non sono perciò competente per valutare, e neanche per
sintetizzare, lo stato del dibattito, tanto meno per predirne l’evoluzione. Nelle riflessioni che
seguono dovrò limitarmi al mio Camus, alla mia lettura personale e alla sua voce come la riascolto
dopo oltre cinquant’anni, filtrata questa volta attraverso il tumulto della modernità liquida, quel
gran bazar che ci fa da mondo: l’autore, innanzitutto, di Le mythe de Sisyphe e L’Homme révolté,
due libri che come pochi altri letti nella mia giovinezza mi hanno aiutato a riconciliarmi con le
stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo, e che continuiamo a modellare giorno dopo giorno,
consapevoli o meno, attraverso la nostra stessa maniera di abitarlo. Non sarei sorpreso che altri
ferventi lettori di Camus, alla ricerca del suo messaggio alla posterità, giudicassero la mia lettura
diversa dalle loro, strana o addirittura perversa: nell’inseguire indefessamente la verità della
condizione umana, Camus era consapevole che l’oggetto della sua esplorazione restava aperto a
una moltitudine di spiegazioni e giudizi, e resisteva strenuamente a ogni conclusione prematura (del
resto, quando ci si dedichi al mistero insondabile della natura umana e delle sue possibilità,
qualunque conclusione non potrebbe che essere prematura!), così come alla tentazione di espungere
dalla sua visione della tragedia umana, in nome della logica e della chiarezza del discorso,
l’ambiguità e l’ambivalenza che ne sono attributi irriducibili, se non addirittura quelli che la
definiscono. Non si dimentichi che Camus definiva l’intellettuale come «uno la cui mente
osserva se stessa»...

Parecchi anni fa in un’intervista mi fu chiesto di «riassumere il mio pensiero in un paragrafo». Non


saprei trovare descrizione migliore degli sforzi del sociologo per indagare e registrare i sentieri
tortuosi dell’esperienza umana che questa citazione di Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli
umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né
agli altri». Molti autori di ricette per la felicità degli uomini, più radicali e più arroganti,
denuncerebbero questa professione di fede come un’incitazione scandalosa a giocare su due tavoli.
Ma Camus ha mostrato, per me senza ombra di dubbio, che «fare una scelta di campo» sacrificando
uno di quei due compiti per (apparentemente) svolgere meglio l’altro finirebbe inevitabilmente per
metterli fuori portata entrambi. Lui stesso si diceva «posto a metà strada tra la miseria e il sole».
«La miseria – spiegava – mi ha salvato dal credere che tutto vada bene sotto il sole e il sole mi
ha insegnato che la storia non è tutto». Camus si confessò «pessimista sulla storia umana,
ottimista sull’uomo», nel quale vedeva «l’unica creatura che rifiuta d’essere ciò che è». La libertà
umana, sottolineava, «non è altro che una chance di essere migliori» e «il solo modo di affrontare
un mondo senza libertà è diventare così assolutamente liberi da fare della propria esistenza un atto
di ribellione».

Il quadro che dipinge del destino e delle prospettive dell’uomo s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo
e quella di Prometeo, lottando – invano, ma con ostinazione indefessa – per riunirli e fonderli.
Prometeo, l’eroe di L’Homme révolté, sceglie una vita per gli altri, una vita di ribellione contro la
loro infelicità, scorgendovi la soluzione a quella «assurdità della condizione umana» che trascinava
Sisifo, sopraffatto e ossessionato dalla propria infelicità, verso il suicidio come unica risposta e via
d’uscita alla sua umana (troppo umana) maledizione (fedele all’antica massima enunciata da Plinio
il Vecchio, e rivolta senz’altro a tutti gli adepti dell’amore di sé associato all’amor proprio: «Nella
miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior regalo di Dio all’uomo»). Nella
giustapposizione, operata da Camus, di Sisifo e Prometeo il rifiuto diventa un atto di
affermazione: «Io mi ribello – avrebbe concluso Camus – dunque noi esistiamo». È come se gli
uomini si fossero inventati gli ideali della logica, dell’armonia, dell’ordine e dell’Eindeutigkeit solo
per essere spinti dalla loro condizione e dalle loro scelte a sfidarli uno a uno nella pratica… Il «noi»
non potrebbe essere mobilitato da Sisifo il solitario, che ha per tutta compagnia un masso, un pendio
e un compito di autosconfitta.

Ma anche nella maledizione di Sisifo, apparentemente senza speranza e senza prospettiva,


confrontato com’è con l’assurdità assoluta della propria esistenza, c’è uno spazio, atrocemente
minuscolo, è vero, ma ampio a sufficienza per accogliere Prometeo. La sorte di Sisifo è tragica
solo perché egli è cosciente, consapevole dell’insensatezza ultima delle sue fatiche. Ma come
spiega Camus: «La chiaroveggenza che doveva essere il suo tormento determina al tempo stesso la
sua vittoria. Non c’è destino che non si superi con il disprezzo». Scacciando la coscienza morbosa
di sé per aprirsi alla visita di Prometeo, Sisifo riesce a trasformarsi da figura tragica di schiavo delle
cose in loro artefice gioioso. «La felicità e l’assurdo – osserva Camus – sono due figli della stessa
terra. Sono inseparabili». E aggiunge: a Sisifo questo universo «senza padrone» non sembra «né
sterile né futile. Ogni atomo di quella roccia, ogni falda minerale di quella montagna piena di notte,
da solo forma un mondo. La lotta verso le vette basta a riempire un cuore d’uomo. Bisogna
immaginare Sisifo felice». Sisifo è riconciliato con il mondo com’è, e quest’accettazione spiana la
strada alla ribellione.

Zygmunt Bauman, da «Le Nouvel Observateur» (traduzione di Anna Maria Brogi)

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